LO SCUDO DELLA FEDE (214)

LO SCUDO DELLA FEDE (214)

MEDITAZIONI AI POPOLI (II)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE II.

Il tempo della vita non è che un’ora da prepararci all’eternità

Il tempo!… Signori, che cosa è mai il tempo? Il tempo non è che una successione di movimenti; e come i movimenti vanno a finire nella quiete, così il tempo della nostra vita va a terminare nell’immobile eternità. Tutto che ci vediamo intorno, non ci presenta che movimenti che passano, cui la scienza con umiltà ancora discreta chiama fenomeni, apparizioni di un istante. Le stagioni, che si succedono con rapida vece, i fiori che brillano alla mattina e sono appassiti e morti la sera, il dì che muore, le generazioni agitate come onde, che corrono a morir sulla spiaggia, i regni, che passano via rumoreggiando, i fratelli che di mezzo a noi scompaiono alla quieta, tutto ci avvisa che, coi momenti che e’ incalzano incessanti in questa trepida vita, noi trascorriamo veloci a gettarci indistintamente nell’abisso dell’eternità, in una brev’ora. Dio misericordioso a segnare i minuti di questa ora del viver nostro ci mise un orologio nel petto, il cuore che batte qui dentro. Fratelli, mettiamoci la mano sul petto: sentite come senza posa qui batte? Rapidi, rapidi si succedono i palpiti: contateli in fretta: i palpiti sono tanti passi, che ci precipitano nella terribile eternità, in cui ci troviamo nella morte. Ora, in questa instabile fugacità, che noi chiamiamo la vita, non sta tutto il nostro interesse nel dimandare a noi medesimi: come ci prepariamo alla morte? — Alla morte ?!… Ma avete mai pensato profondamente che cosa sia la morte?… La morte, o Signori, è l’istante tremendo, in cui ci troveremo o beati, o disperati per sempre, ciascuno nell’eternità, che ci abbiam preparato. Oh Dio !… oh Dio! Lasciamo le baie, lasciamo gli scherzi di questo mondo, che dura un’ora, e prepariamoci all’eternità. Abbiamo già meditato come una sola cosa importi poi finalmente, cioè mettere |l’anima nostra in salvo per sempre. Ora meditiamo che, qui essendo noi in viaggio pel paradiso, il tempo della vita ci è dato per arrivarvi; sicché il tempo della vita non è che un’ora da prepararci all’eternità e che tradiremmo noi stessi abusando del tempo per andarci a perdere eternamente …….. Ma ahi che intanto in questo momento stesso noi corriamo velocemente a salvarci o a perderci alla morte! Io correndo via con voi vi abbraccio in fuga affannata, e vi grido col cuore in fremito sul vostro cuore: su, su fratelli, che nessuno di noi si vada a perdere. Eh che mi parrebbe di perder una porzione del mio cuore! – O buon Salvatore Gesù, il quale vi date caro compagno del nostro peregrinaggio nel Sacramento qui in questo mondo nel tempo, per condurci nell’eternità del paradiso, tirateci sul vostro Cuore, e mettete sul mio labbro di terra accenti pieni di eternità, per disingannarci del tempo. E voi, o Madre Santissima, che ci volete portar salvi in cielo, teneteci tra le vostre braccia a meditare il nulla del mondo; sopra di cui corriamo via in questo lampo del tempo e fateci vedere innanzi il tradimento orribile, che ci facciamo col perdere le ore che ci sono date per assicurarci la beatitudine eterna. Poiché la vita è un viaggio, e il tempo della vita non è che un’ora per arrivare alla eternità in paradiso. – Senza la luce della fede quali orride tenebre circonderebbero la nostra esistenza! L’uomo sì troverebbe qui, e senza sapere donde viene, scorrerebbe via sopra la terra, e sparirebbe per sempre, gettandosi in un abisso che tutt’ingoia, la morte. Come un augellino, che in negra notte gelata scosso all’improvviso, vola dentro una sala brillante di luce in tepore di primavera, l’attraversa, rivola fuori nel tenebrore… ed ahi! il gufo l’artiglia; mette uno strido e muore straziato: così noi, gettati dal negro nulla nel mondo, attraverseremmo con rapido volo il piacevole soggiorno della vita per gettarci atterriti in gola alla morte… Ma, viva Dio! La Religione ci accoglie bambini in grembo, ci fa conoscere come siamo creati da Dio, e come il nostro destino è pel paradiso ad essere sempre con Dio beati: ché qui siamo in viaggio per la patria nel regno del Padre nostro che è nei cieli. Ella ci ripete continuo alla mente ed al cuore: al paradiso, al paradiso!… Ci tira innanzi per mano, perché dobbiamo affrettarci, e non perdere quest’ora della vita, per poter giungere a salvamento: poiché il tempo della vita non è che un’ora da prepararci all’eternità. Siamo dunque in cammino qui: Gesù Cristo, che ci vuol salvare, ci avvisa di tenerci appresso a Lui, affinché non cadiamo nell’abisso delle tenebre, che fiancheggiano la nostra via. S. Paolo poi ci grida di correre, a fine di poter arrivare alla meta in buon tempo. Festinantes… sic currite, ut comprehendatis. Intendetelo bene, dice s. Gregorio Nazianzeno, la vita umana è un cammino dall’ingresso nel mondo fino al termine, che è la tomba. La gioventù è un momento di effervescenza, la bellezza un lampo dal color dell’iride, la vecchiaia un tristo tramonto, gli onori una nebbia, la rinomanza nostra una traccia segnata sull’acqua, gli affari un ingombro tra via, la patria qui un paese straniero che attraversiamo. Noi dormiamo, e la nostra vita voga, come nave sull’onda del tempo. Tutto ci sfugge d’intorno. Gettiamo uno sguardo sull’erba, sopra il ruscello; ma li abbiamo già oltrepassati. Se cogli un fiore, ti appassisce fra le dita; se stacchi un frutto si corrompe in mano; le creature che abbracciamo, ci straziano il cuore pel distaccarsi dal nostro amplesso. Tutte le cose non sono che un po’ di vapore, che va in dileguo in passando. Entrate per fermarvi nelle case, che dite vostre: ieri erano d’altri, e dimani saran d’altri ancora. Uscite fuori: alla porta vi trovate scavata la tomba, e la tomba è la porta dell’eternità. Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus. No no, non ci fermiamoqui: siamo in viaggio, bisogna affrettarci, per arrivare a buon termine in paradiso. Ma, oh Dio! allafine della nostra corsa si trova pure spalancato l’inferno. -Ora ditemi: a quale dei due termini voi indirizzateil cammino vostro? fermate il pensiero un istante.Se un uomo avesse la casa sua sulla vetta di unmonte, e cominciasse alla mattina a voltarle le spalle,e tutto il dì camminando scendesse per rapido pendioverso del precipizio, egli finirebbe certo col precipitarvidentro. E se voi camminate sempre più sviatidal sentiero che vi conduce al cielo, e vi slanciateverso all’inferno, pretenderete di trovarvi in paradiso,senza aver fatto un passo verso di esso? Eppurenoi persino sull’orlo della perdizione facciam posata, scherziamo tranquilli nel mondo, quasi qui fossela nostra dimora per sempre, mentre il mondo scorreanch’esso all’eternità. Il mondo è come una diquelle isolette natanti, che sul maggior fiume d’Americasi van formando aderenti alla riva, e nonsono che terriccio scosceso, un po’ di fogliuzze e di spume coperte di erbette, quasi prato, che galleggiasopra quelle acque. Gli animali minuti, agnelli e lepri, e fino le volpi astute si gettano sopra il praticello fluttuante, come fosse sodo terreno.Quando ad un’onda di piena si stacca l’isola dalla sponda,e sui larghi gorghi voga giù verso del mare. Glianimaletti veggono le rive fuggire d’intorno, e inquel variare di vedute protendono il collo ad aspettaresempre rive novelle: corvettano vivaci, e dormontranquilli. Quando l’onda del fiume rompe contro l’ondata del mare, e tuona frangendosi nel furentemaroso. A quel fragore spaventati gli animali alzanla testa: ah! il suolo manca sotto dei piedi; mettonouno strido, e sono ingoiati dal mare! Così noisu questa instabile terra strascinati giù dal torrentedel tempo nell’abisso dell’eternità, folleggiamospensierati, raccogliamo un po’ di polvere che noichiamiamo ricchezze, che da una soffiata di ventosono dissipate: facciamo di edificare qui la nostra fortuna, qui stabilirci in bella posizione sicura in mezzo alla società, ed assicurarci nel mondo uno stato per sempre. -Ma quale inganno è mai questo sempre! Prima di fissare qui la nostra dimora era da provare, se fosse sodo il terreno. Anche il navigante, per fermarsi solo un poco nel mare sopra viaggio, innanzi di gettar l’àncora, scandaglia ed assaggia il fondo delle acque per assicurarsi se l’Ancora arraffi, e tenga fermo. Noi no: sopra questa mobile arena, sopra questa labile terra, in questi giorni, che volano veloci, fin quando già sul pendio. precipita la nostra età, noi vogliamo fermarci qui ostinati: e godiamo che passi rapido il tempo, quasi si facesse per noi guadagno nel perdere miseramente la vita. Per ingannarci più scioccamente noi guardiamo innanzi con impazienza, aspettando sempre cose novelle. È primavera: tutto ci ride d’intorno; ma noi siamo già nell’estate: e raccogliamo i frutti e le biade. Ecco già ci sorprende la fredda stagione: siamo nell’inverno a godere la ricolta; ma noi sospiriamo l’anno novello; e così sperando sempre un avvenire migliore, affrettiamo il tempo senza misura, e corriamo alla morte. Intanto, quando appunto dormiamo assopiti nei godimenti per poco, oh ci desta uno scroscio!… È il tempo che piomba a seppellirci nell’eternità; e noi, mettendo un gemito nell’agonia, siamo sepolti nel tremendo sempre! Dunque non ci fermiamo qui; siamo in viaggio verso alla patria eterna, il paradiso. E qui pensiamo che la vita non è che un’ora di tempo, per poter giungere al paradiso. Affrettiamoci, affrettiamoci: festinemus, a prepararci un po’ di ben di Dio e dell’anima per la casa dell’eternità, in cui ci troveremo giunti a momenti; affinché non ci sorprenda la notte sopra viaggio alla sprovveduta, vogliamo dire, che non c’incolga la morte, senza essere preparati all’eternità. Per vostro grande avviso ascoltate. Un povero uomo un di, lasciato andare fuor di carcere, si slaneia con ardore sopra via, per ritornare alla sua casa; ma ai primi passi si vede in mezzo a lieti prati. Era l’ora quando gli augelletti salutano col canto il dì che nasce con quel bel sole d’oriente: e parevano i fiori gli sorridessero in volto; e sopra essi le farfalle vedevansi agitanti le ali dorate, che parevano augelletti di paradiso; ond’egli giù di via, per andare a sollazzo. Intanto è già alto il di; ed in quello splendore di giornata vede le piante, che gli stendono i rami carichi di porporine frutta, e gli fanno gola: ed egli via pei campi a raccoglierne tutto affannato. Ma il sole già poggia in alto a meriggio, e vibra alla terra i raggi cocenti che abbrucian la vita al viandante. — A quest’ora mettermi in viaggio? (par che si dica, e con gran senno! il buon uomo) è un solleone che cuoce! — Trova più comodo sedersi a meriggiare sott’un albero; e là si consola la vita delle frutte raccolte. Ma il sole aspetta nessuno, e già verge a ponente; e il buon uomo ancor un poco temporeggia ..; e con una rosta in mano da sé caccia via gl’insetti. Il sole intanto cala dietro dei monti, sì stendono lunghe le ombre, si fa oscura la valle, e sopraggiunge la sera. Il buon uomo sorpreso a quell’ora fa di raccogliere in fretta le robe e s’avvia: ma cade giù fitta la notte, e in negra selva egli va barcollando a tentone… Ahi gl’irrompono i ladri alla vita, lo colpiscono nel petto, muore di mala morte miseramente fuori di casa! Ci fa spavento la sua disgrazia?… Signori, deh che non siamo poi noi di quello più disgraziati! Anche a noi nel mattino della gioventù tutto ride d’intorno. In un avvenire fantastico noi ci vediamo prolungarsi il sentiero della vita come tutto infiorato di rose: ci danzano dinanzi creature belle di un po di polvere di vago colore; e tanti di noi giù di via, e vanno lontano a folleggiare con esse. Ma la gioventù è in dileguo, e passa via la vita. Viene tosto l’età virile. Noi ci formiamo la famiglia: allora, crescendo i bisogni, ci assediano molti e svariati interessi, ci allettano sempre maggiori guadagni: e noi, affannarci, macerarci per far conquisti di terra. Ma passa via la vita! Se giunge qualcheduno ad afferrare qualche posto, se mise insieme qualche ricchezza, egli si siede tranquillo, e vi dico io, che sa godere lautamente. Circondarsi di amici, ogni dì un convito, le occupazioni ordinarie i giuochi, il far nulla in buon tempone; poi del resto mai non negarsi una soddisfazione, e farsi lecito tutto che piace. Ma anche in mezzo ai piaceri passa via la vita!… Ben voi vi accorgete a vostro dispetto che appariscono bianchi i capelli fin sotto dei fiori che si fingono freschi, e si fa rugoso il volto sotto una gioventù posticcia. Anche l’uom d’importanza, non ostante la sua alterezza, piega il dorso verso alla terra, la vecchiaia lo spinge al sepolcro. Ma passa via la vita! anzi no: al par di un sogno è già tutta passata via! E noi qui poi quanto cammino abbiamo fatto verso il cielo? tristi a noi! forse non un sol passo… Seppure… Ma oh! rinunziamo dunque al paradiso? Mai no: vi vogliamo tutti giungere, ma alla lontana, mentre ci è appresso la morte. E non vi avvedete che noi le corriamo incontro più veloci, dice Giobbe, d’ogni corriere, che ha l’ora fissata? In questo istante stesso in cui vi parlo, dico con s. Girolamo, io fuggo via da voi, e voi fuggite con me! e noi ci guardiamo solo passando, ripete s. Agostino. Ma deh fermiamoci un momento almeno a guardare l’ora!… No, no, che non possiamo fermarci: vediamo però anche correndo, che l’ora sì fa tarda, che già cala il giorno del vivere nostro, che siamo presto al tramonto, che tutto si ecclissa, tutto sparisce. Ohimé! già ci travolge il tenebroso della tremenda notte…. L’eternità ci si spalanca dinanzi. Poveri noi che sentiamo già l’afa di quell’abisso, già ci vacilla il capo, si oscurano gli occhi… ancora un passo, e veniamo travolti nel vortice interminabile dei secoli eterni, in cui noi restiamo beati o infelici per sempre: e ci siamo a momenti! … Noi intanto sull’orlo dell’eternità stiamo tranquilli e fermi, come se dovessimo restare sempre in vita. Di qui vediamo: a destra e da sinistra caderci morti sui piedi a mille a mille i nostri fratelli: li osserviamo senza paura, sappiamo farne il calcolo: ad ogni battuta di polso muore uno… centododici mila in ciascun giorno..; quarantun milione ogni anno ci cadono morti tutti d’intorno! (È un fatto constatato dalle statistiche, che sopra 1000 persone ne muoiono ogni anno 30 in media, Ora la popolazione attuale del pianeta secondo i più accurati geografi è di 1370 milioni. Dunque nel mondo intiero muoiono in media 41 milioni e 100 mila persone all’anno; quindi 112602 al giorno, 4685 all’ora; e 4 ogni 3 secondi. – Il medesimo risultamento si ottiene partendo dal principio generalmente ammesso, che la vita media dell’uomo è di anni 33; onde può dirsi che l’intiera popolazione del pianeta in questo periodo si rinnova. È poi da pensare su questo che Gesù Salvatore morì appunto compiuto il trentesimoterzo anno di sua vita umana. Oh!….) – Eppure tra questo fitto tempestare di colpi, in mezzo ai gemiti, tra tanto orrore di morte, in mezzo ai cadaveri dei nostri cari, se tarda un istante ancora il colpo di morte per noi, facciamo come il soldato che nell’ebbrezza del combattimento si vede cadere ai fianchi i compagni. Spensierato si getta sul morto vicino, con cui divise ieri i piaceri, e lo fruga per pigliargli d’addosso quel po’ di danaro; e quando alza la faccia con un sogghigno che dice: questo è mio da godere; una palla lo colpisce nel petto, e lo fredda cadavere sul cadavere che ha spogliato. Non altrimenti noi, mentre siamo tutti nei nostri interessi, quando cadono morti i nostri congiunti, senza orrore dell’altrui disgrazia e della nostra, che ci coglierà a momenti, ci gettiamo a fare lo spoglio dell’eredità, pensando. che ce la godremo per sempre…. Ahi ci colpisce la morte …! Guardiamo là: pare che il conoscente testé sepolto lasci fuori dal sepolcro una mano per dirci con un terribile cenno: qui appresso a me è già scavata la tua tomba, e la tomba ci getta nell’eternità forse dannati per sempre!… Dio della misericordia! dateci un po’ di tempo ancora per salvarci! E noi, fratelli, portiamo sempre fitto nel cuore il più utile di tutti gli avvisi che Gesù ci diede di sua bocca: Quid prodest homini si universum mundum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? che giova mai alla fine dei conti perdere il tempo nel guadagnare anche tutto il mondo, se poi andiamo dannati alla morte? Mentreché il tempo non è che un’ora da prepararci alla eternità! Ma il mondo, in cetere, sinfonie, giuochi, dice il Profeta Isaia, e in feste ognor più clamorose e con tanto frastuono, che non lascia sentire le urla degli sciagurati che vanno perduti. Così noi siamo traditi siccome dai loro Druidi quei poveri Galli. Udite. I Druidi in un certo sacrifizio ad un loro iddio d’inferno formavano una grande gabbia di ferro alla foggia di un idolo di enorme grandezza. Vi mettevano in fondo legna da ardere, cui ricoprivano di piote erbose; e queste smaltavano di fiori come un bel praticello. I genitori vi portavano da tutte parti i bambinelli nudi, incoronata la testina di rose e viole. Era una festa universale intorno a quei bimbi, che dalla gabbia battevano a gioia le loro manine. Ma, venuta l’ora del sacrifizio, si accende il fuoco di sotto, e quei tenerelli si gettano tutti in giuoco a soffermar colle mani il fumigio saliente, e disputarsi le fiammelle che spuntano qui, là sotto dei piedi. Ahi sbuffa l’incendio , e i fanciulli fuggire arrampicandosi su per la gabbia, buttarsi fuori con le braccia e le faccioline rosse infuocate. Li perseguita la fiamma alle vite: e i poverini abbrancarsi alle spranghe roventi che cuociono loro le mani. Ricadendo, le fiamme li investono come serpenti infuocati. Colle vampe a’ capelli e’ cercano scamparsi montando gli uni sugli altri: si sprofondano nell’incendio, e sotto le negre ruote di fumo, tra lo stridore dei tormenti e il bollire delle carni e il crepitar dei carboni, restano tutti dal fuoco divorati. Ma e i genitori, crudeli! Perché non si slanciano nel fuoco a salvarli! I miseri genitori, erano traditi. Quando cominciava ad accendersi il fuoco, i sacerdoti gridavano: voltate le spalle, guardate al dio che viene, date fiato alle trombe, fate rombare i timpani, battete i tamburri. Così nell’infernale frastuono non era più dato loro di sentire le urla dei poveri bimbi orribilmente abbruciati. — Signori! quelli erano i sacerdoti dell’ingannatore demonio, noi siamo i Sacerdoti del Dio della verità; e se nel frastuono del mondo voi andate colle perdute genti all’inferno, noi ci getteremo innanzi tra voi e quel fuoco che minaccia di divorarvi, e grideremo forte: guardate innanzi quanti vanno perduti! ahi che il fuoco già ci avvampa sotto dei piedi! …. Salviamoci! abbiamo ancor tempo; e perdere questo po’ di tempo è un tradire orribilmente noi stessi. — Dopo un breve respiro. Se dunque il tempo della vita non è che un’ora per salvare l’anima nostra, mette orrore il pensare come siamo sciaguratamente ingegnosi a consumare male il tempo per tradire noi stessi e mandarci in perdizione. Chi si guarda dattorno, tutto lo avvisa che il tempo fugge con una rapidità che fa spavento. Se ci raccogliamo dentro di noi, la nostra coscienza malcontenta di noi, paurosa dell’avvenire, in cui vede fosco, ci dice con sospiro: e dove andremo a finire? — Ma noi tosto, per soffocare la voce all’importuna, diciamo a noi stessi che abbiam troppi interessi, che non abbiamo tempo a pensarvi: pigliamo una proroga, ci riserbiamo di salvare l’anima nostra ad un tempo indeterminato, cui forse non avremo più mai; e mentre tutto il tempo alla fine dei conti ci è dato da Dio per metterla in salvo, noi le neghiamo un minuzzolo d’ora per provvedere a questo sommo bisogno. Ingiustizia crudele! Per gli amici, quante ore tutti i giorni consacriamo alle convenienze immaginarie ne. consacriamo immancabilmente tant’altre: avremo fino delle ore per le persone, che non ci garbano punto, ma che tolleriamo, perché hanno il merito di farci perdere il tempo. Si può dire che l’ordinaria occupazione degli uomini è una deplorabile premura di disfarsi del tempo; e la maggiore dolcezza, che gustiamo nei frivoli divertimenti, come nelle serie occupazioni, è questa, di accorciare la lunghezza dei nostri giorni. Ed invero, come mai si ha coraggio da durarla tutti i dì inchiodati in quei giuochi, in quel travaglio di mente, per fare vincite da nulla? Eh, si dice, per ingannare il tempo, per non dire: per perdere il tempo e tradirci!… Perché quella vita da schiavo in quel negozio, quando si è provveduto d’ogni ben di Dio? Ma è una occupazione necessaria per passare, per non dire, per perdere il tempo. Anzi saranno pericolose quelle occasioni, n’andrà dell’onore in frequentar quella casa; ma bisogna andarvi. E perché? Perché là si passa, per non dire, si perde orribilmente il tempo per tradirci. Si sente adunque insopportabile il peso del tempo; e si fa come il pazzo furioso, che sente il peso dell’oro, e lo getta via per correre all’impazzata a rompicollo. Per poi gettarlo più pazzamente, non vogliamo neppure fermarci a guardare indietro quanto ne abbiamo già perduto. Mio Dio! risoluti di perderlo alla cieca, facciamo come lo scapato fanciullo, che licenziatosi a divertirsi sopra un navicello, senza rematore che lo guidi, si abbandona alla corrente della torbida fiumana, e vedendo sempre più veloci fuggir via le rive, urta in un sasso, e viene sbattuto contro un altro: in quello spavento sì abbranca alle sponde della barca, e fissando gli occhi sul fondo della nave, che pare fermo sotto dei piedi, calma la sua paura, e va a sprofondarsi colla nave nel mare. Così noi, per non vedere con terrore come precipitiamo nell’abisso della morte, con le mani, colla mente, col cuore negli affari del mondo, abbassiamo gli occhi alla terra …. quasi fosse ferma sotto dei piedi, e voghiamo veloci con essa a perderci nell’eternità. Ora dite voi, se non è questa l’occupazione pessima degli uomini, gettare via sugli occhi stessi di Dio questo gran dono della sua bontà, tempo, senza dare a Lui neppure un istante! Alla mattina ci svegliamo conservati tra le braccia della provvidenza di Dio. Essa ci offre ancora un nuovo giorno di vita, ché speriamo non moriremo quest’oggi. Un giorno di vita, che gran dono della sua misericordia! un giorno da redimere il tempo perduto! da prepararci al giudizio di Dio! da guadagnarci il Paradiso! Noi nella bell’aurora di esso gettiamoci davanti alla Maestà divina ad offrirle la nostra povera servitù. « Eh via! Abbiamo altro che fare! Gl’intralasciati lavori, le persone che ci attendono, forse una passione a cui facciamo calcolo di soddisfare, si meritano tutti i nostri pensieri. » Sentite la campana? È  la Madre Chiesa che ci chiama intorno a Gesù, che col Cuore aperto nella Messa va a trattare col Padre, e vuol mettervi in salvo gl’interessi dell’anime vostre. Suoni, suoni pure per scongiurarvi di correre al convito in seno al Padre di tutti i beni; eh via! Se non avremo altri affari, almeno le ricche persone dovranno spendere due ore all’importante toeletta ad inorpellare d’ingannatrice bellezza un cadavere che si consuma: e Gesù si accontenti di aver all’altare neppur più i fanciulli, ma pochi sciancati, rifiuti del mondo. –  Dio con pazienza infinita, perché è pazienza di Dio, ci corre appresso negli aggiramenti della vita, e noi non mai un minuto gli rivolgiamo una parola di cuore. Ci piglia dinanzi, perché non mandiamo a male tutto il tempo indegnamente, ci mette in serbo un giorno alla settimana, la festa. Egli ci salva questo giorno di festa dall’ingorda avarizia. e dal progresso crudele, che non staccherebbe mai dal giogo questi liberi fatti schiavi. Dio fa come una tenera madre, che piglia sulla mensa la porzione del cibo prezioso per sé: eh! non per sé, ma per darlo al bisogno ai suoi figliuoli. Egli si riserba per noi la festa, affinché in riposo in seno a Gesù respiriamo il profumo di una vita migliore. E noi non abbiam tempo da ciò. Neppur questo poco giorno di festa per Dio è per l’anima nostra!? Anche per questo dì son fissati affari da trattare: è giorno di libertà da licenziarci a baldorie. Grande Iddio! noi ardiamo di sdegno nel vedere col più indegno insulto farsi del giorno santo del Signore il giorno delle crapule più sguaiate: gli ubbriachi in gongolo sulle piazze, più liberi gli amoreggiamenti, sulle vie fin le figliuole senza pudore! E nell’istante santissimo in cui Gesù spande dal Sacramento le sue benedizioni, i peccatori nelle tane dei vizi a provocare le sue vendette!… Così del giorno del Signore si fa il giorno delle più sacrileghe ribalderie. Dopo una vita negata a Dio, rubata all’anima, finalmente il Signore getta a terra il peccatore con un colpo di malattia mortale, e gli dà tempo d’implorare la sua misericordia almeno per forza. Voi ve l’aspettate?… Oh ma no, ch’egli è uom d’affari, e non gli preme tanto di non andare dannato nell’eternità, quanto di maneggiare le cose del mondo nel tempo, se lo potesse, fin dopo la morte…. Quello che più importa è il testamento…. e tutto dispone in ordine pel mondo…. Lascia alla consorte il pegno d’amore, lascia agli amici il legato per la sua memoria, lascia ai figliuoli la bella casa edificata, e il patrimonio per cui consumò proprio tutto il tempo della vita… lascia… lascia tutto agli altri… Ma e per se stesso? non ebbe tempo da pensare; gli restano le mani vuote per l’eternità!.. Egli ormai si avvicina all’agonia: e Dio ne’ suoi aneliti gli fa battere ancora per alcuni dì un cuor che si va spegnendo! Almeno ora si corra per un Sacerdote, che venga a tentare di salvarlo con l’ultimo miracolo della misericordia di Dio, come Gesù salvò il buon ladro già nell’istante in cui moriva!… Ma aspettate, non è ancora tempo!… Ma se ha già lo sguardo annebbiato!… ha il tremor della morte…. i tratti di cadavere in volto… già colle mani convulse intorno intorno cerca aggrapparsi… a che mai? al mondo, da cui viene sbalzato: eppure ancora sulla sponda della bara nega all’anima propria, nega a Dio fin l’ultimo istante del tempo… Ei muore!… Presto, presto un Sacerdote a confessarlo! Ma egli non intende, gemisce, più che non parli, in quel momento. Momento terribile, indefinibile, che è il termine del tempo, il principio dell’eternità, in cui dalle smanie dell’agonia nel tempo…. mette un urlo: d’onde quell’urlo?… Ahi dall’eternità dell’inferno. Sentite, sentite dall’eternità quell’urlo: Oh si daretur hora!… Oh che mi si dia adesso un’ora!»… Sciagurato, ti sei tradito!… L’eternità non ha più ore: era tutto il tempo della vita un’ora a prepararti all’eternità! Questo pensiero, o miei fratelli, dovrebbe bastare a farvi pensare di salvarvi. – Udite un fatto che si raccontò in un giornale di Parigi. Un giovane più spensierato che cattivo, in una brigata di buon temponi innanzi ad un caffè sulla piazza, mentre si vedeva il buon popolo compunto affollarsi in chiesa per confessarsi in una missione, mise pegno cogli amici di gozzoviglie, che egli s’andrebbe a confessare, se gli pagassero un pranzo: e fra le matte risate va alla chiesa. Si presenta ad un buon Sacerdote, che, sì, l’accoglie con tal gentile carità da intenerirlo alle lagrime. In questa commozione il povero giovane gli dimanda perdono della sacrilega audacia; e fa d’andarsene!… Ma il buon Confessore a lui coll’accento di un padre innamorato « Voi però, mio giovane, vi accorgete che vi voglio bene! » Il giovane « Ah sì, padre, e troppo più di quello che non mi merito io! lasciatemi andare!…. » Allora l’uom di Dio « Ebbene amor per amore; e prima di lasciarvi partire dalle mie braccia, dal vostro buon cuore vi domando una carità: deh! che non me la neghiate! » « Ah, buon padre, tutto che mi fate grazia di domandarmi, ve lo prometto sul mio onore! » – « Giacché mel promettete di così buon volere, fate questa carità a me ed all’anima vostra, ché ne abbiamo tanto bisogno! Per un mese tutte le notti nel riporvi a riposo guardate l’ora sull’orologio, e dite: « Batte l’orologio come i battiti del mio cuore: e il tempo della vita va! » Spento il lume, dite « così si muore!… » Nel coprirvi col lenzuolo colla man sul cuore, dite « e dopo la morte vi è Paradiso o inferno, che duran sempre: lo dice Gesù, e Gesù lo sa più di tutti gli increduli del mondo!…» Or bene tra per l’amor del buon padre, tra per l’onor della parola data, come per la grazia di Dio, il giovane nel coricarsi guarda l’orologio colla man sul cuore, e dice: « Come l’orologio battono presto i palpiti: e il tempo della vita va!… » Spento il lume dice « così si muore!… » Si copre col lenzuolo, e dice « e dopo la morte vi è Paradiso o inferno che duran sempre… lo dice Gesù, e Gesù lo sa più che non tutti gl’increduli del mondo! » Lo replica solo tre sere, e corre alla mattina appiè del Confessore, e gli dice « questa volta vengo a confessarmi davvero! » ….. Buon per lui! Poco dopo era già morto: e si sarà salvato, perché pensò che dopo morte vi è Paradiso od inferno, che duran sempre. – Signori, io vi confesso, che non mi son curato gran fatto di esaminare colla severità della critica (come uso sempre), se veramente è questo fatto così avvenuto. Sapete il perché? Perché lascio a voi di provare ben ch’egli è vero col fatto vostro, per quanto vi è cara l’anima. Ditelo tutte le sere colla man sul cuore « Più presto che questi palpiti la vita va. Così si muore, e dopo la morte vi è Paradiso o inferno, che duran sempre, lo dice Gesù, e Gesù lo sa più, che non tutti gl’increduli e buffoni del mondo. » Fatelo, e proverete il fatto col convertirvi certamente

FESTA DELLA TRASFIGURAZIONE DI N. S. G. C.: 6 AGOSTO 2022

6 AGOSTOTRASFIGURAZIONE DI NOSTRO SIGNORE

« O Dio, che nella gloriosa Trasfigurazione del tuo Unigenito confermasti con la testimonianza dei patriarchi i misteri della fede, e con la voce uscita dalla nube luminosa proclamasti mirabilmente la perfetta adozione dei figli, concedici, nella tua bontà, di divenire coeredi della gloria e partecipi della medesima » (Colletta del giorno).

Nobile formula, che riassume la preghiera della Chiesa e ci presenta il suo pensiero in questa festa di testimonianza e di speranza.

Senso del mistero.

Ma è bene osservare subito che la memoria della gloriosa Trasfigurazione è già stata fatta due volte nel Calendario liturgico: la seconda Domenica di Quaresima e il Sabato precedente. Che cosa significa ciò, se non che la solennità odierna ha come oggetto, più che il fatto storico già noto, il mistero permanente che vi si ricollega, e più che il favore personale che onorò Simon Pietro e i figli di Zebedeo, il compimento dell’augusto messaggio di cui essi furono allora incaricati per la Chiesa? Non parlate ad alcuno di questa visione, fino a quando il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti (Mt. XVII, 9). La Chiesa, nata dal costato squarciato dell’Uomo-Dio sulla croce, non doveva incontrarsi con Lui faccia a faccia quaggiù; e quando, risuscitato dai morti, avrebbe sigillato la sua alleanza con lei nello Spirito Santo, solo della fede doveva alimentarsi il suo amore. Ma, per la testimonianza che supplisce la visione, nulla doveva mancare alle sue legittime aspirazioni di conoscere.

La scena evangelica.

A motivo di ciò, appunto per lei, in un giorno della sua vita mortale, ponendo tregua alla comune legge di sofferenza e di oscurità che si era imposta per salvare il mondo, Egli lasciò risplendere la gloria che colmava la sua anima beata. Il Re dei Giudei e dei Gentili (Inno dei Vespri) si rivelava sul monte dove il suo pacifico splendore ecclissava per sempre i bagliori del Sinai; il Testamento dell’eterna alleanza si manifestava, non più con la promulgazione d’una legge di servitù incisa sulla pietra, ma con la manifestazione del Legislatore stesso, che veniva sotto le sembianze dello Sposo a regnare con la grazia e lo splendore sui cuori (Sal. XLIV, 5). La profezia e la legge, che prepararono le sue vie nei secoli dell’attesa, Elia e Mosè, partiti da punti diversi, si incontravano accanto a Lui come fedeli corrieri al punto di arrivo; facendo omaggio della loro missione al comune Signore, scomparivano dinanzi a Lui alla voce del Padre che diceva: Questi è il mio Figlio diletto! Tre testimoni, autorizzati più di tutti gli altri, assistevano a quella scena solenne: il discepolo della fede, quello dell’amore, e l’altro figlio di Zebedeo che doveva per primo sigillare con il sangue la fede e l’amore apostolico. Conforme all’ordine dato e alla convenienza, essi custodirono gelosamente il segreto, fino al giorno in cui colei che ne era interessata potesse per prima riceverne comunicazione dalle loro bocche predestinate.

Data della festa.

Fu proprio quel giorno eternamente prezioso per la Chiesa? Parecchi lo affermano. Certo, era giusto che il suo ricordo fosse celebrato di preferenza nel mese dell’eterna Sapienza: Splendore della luce increata, specchio immacolato dell’infinita bontà (Verso alleluiatico; cfr. Sap. VII, 26). – Oggi, i sette mesi trascorsi dall’Epifania manifestano pienamente il mistero il cui primo annuncio illuminò di così dolci raggi il Ciclo ai suoi inizi; per la virtù del settenario qui nuovamente rivelata, gli inizi della beata speranza (S. Leone: Il Discorso sull’Epifania) sono cresciuti al pari dell’Uomo-Dio e della Chiesa; e quest’ultima, stabilita nella pace del pieno sviluppo che l’offre allo Sposo (Cant. VIII, 10), chiama tutti i suoi figli a crescere come lei mediante la contemplazione del Figlio di Dio fino alla misura dell’età perfetta di Cristo (Ef. IV, 13). Comprendiamo dunque perché vengano riprese in questo giorno, nella sacra Liturgia, formule e cantici della gloriosa Teofania. Sorgi, o Gerusalemme; sii illuminata; poiché è venuta la tua luce, e la gloria del Signore s’è levata su di te (I Responsorio di Mattutino; cfr. Is. LX, 1). Sul monte, infatti, insieme con il Signore viene glorificata la sua Sposa, che risplende anch’essa della luce di Dio (Capitolo di nona; cfr. Apoc. XXI, 11).

Le vesti di Gesù.

Mentre infatti « il suo volto risplendeva come il sole – dice di Gesù il Vangelo – le sue vesti divennero bianche come la neve » (Mt. XVII, 2). Ora quelle vesti, d’un tale splendore di neve – osserva san Marco – che nessun tintore potrebbe farne di così bianche sulla terra (Mc. IX, 2), che altro sono se non i giusti, inseparabili dall’Uomo-Dio e suo regale ornamento, se non la tunica inconsutile, che è la Chiesa, e che Maria continua a tessere al suo Figliuolo con la più pura lana e con il più prezioso lino? Sicché, per quanto il Signore, attraversato il torrente della sofferenza, sia personalmente già entrato nella sua gloria, il mistero della Trasfigurazione non sarà completo se non allorché l’ultimo degli eletti, passato anch’egli attraverso la laboriosa preparazione della prova e gustata la morte, avrà raggiunto il Capo nella sua resurrezione. O volto del Salvatore, estasi dei cieli, allora risplenderanno in te tutta la gloria, tutta la bellezza e tutto l’amore. Manifestando Dio nella diretta rassomiglianza del suo Figliuolo per natura, tu estenderai le compiacenze del Padre al riflesso del suo Verbo che costituisce i figli di adozione, e che vagheggia nello Spirito Santo fino alle estremità del manto che riempie il tempio (Is. VI, 1).

Il mistero dell’adozione divina.

Secondo la dottrina di san Tommaso, infatti (III, q. 45, art. 4), l’adozione dei figli di Dio, che consiste in una conformità di immagine con il Figlio di Dio per natura (Rom. VIII, 29-30), si opera in duplice modo: innanzitutto per la grazia di questa vita, ed è la conformità imperfetta; quindi per la gloria della patria, ed è la conformità perfetta, secondo le parole di san Giovanni: « Ora noi siamo figli di Dio; ma non si è manifestato ancora quel che saremo. Sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo quale egli è » (I Gv. III, 2). Le parole eterne: Tu sei il mio Figliuolo, oggi io ti ho generato (Sal. II, 7) hanno due echi nel tempo, nel Giordano e sul Tabor; e Dio, che non si ripete mai (Giobbe XXXIII, 14) non ha in ciò fatto eccezione alla regola di dire una sola volta quello che dice. Poiché, per quanto i termini usati nelle due circostanze siano identici, non tendono però allo stesso fine – dice sempre san Tommaso – ma a mostrare quel modo diverso in cui l’uomo partecipa alla rassomiglianza con la filiazione eterna. Nel battesimo del Signore, in cui fu dichiarato il mistero della prima rigenerazione, come nella sua Trasfigurazione che ci manifesta la seconda, apparve tutta la Trinità: il Padre nella voce intesa, il Figlio nella sua umanità, lo Spirito Santo prima sotto forma di colomba e quindi nella nube risplendente; poiché se, nel Battesimo, egli conferisce l’innocenza indicata dalla semplicità della colomba, nella resurrezione concederà agli eletti lo splendore della gloria e il ristoro di ogni male, che sono significati dalla nube luminosa (III, qu. 45, ad 1 et 2).

Insegnamento dei padri.

« Saliamo il monte – esclama sant’Ambrogio; – supplichiamo il Verbo di Dio di mostrarsi a noi nel suo splendore e nella sua magnificenza; che fortifichi se stesso e progredisca felicemente, e regni nelle anime nostre (Sal. XLIV). Alla tua stregua infatti, o mistero profondo, il Verbo diminuisce o cresce in te. Se tu non raggiungi quella vetta più elevata dell’umano pensiero, non ti appare la Sapienza; il Verbo si mostra a te come in un corpo senza splendore e senza gloria » (Comm. su san Luca, 1. VII, 12). Se la vocazione che si rivela per te in questo giorno è così santa e sublime (VII Responsorio di Mattutino; cfr. Tim. 1, 9-10), « adora la chiamata di Dio – riprende a sua volta Andrea da Creta (Discorso sulla Trasfigurazione): – non ignorare te stesso, non disdegnare un dono così sublime, non ti mostrare indegno della grazia, non essere tanto pusillanime nella tua vita da perdere questo celeste tesoro. Lascia la terra alla terra, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti (Mt. VIII, 22); disprezzando tutto ciò che passa, tutto ciò che muore con il secolo e con la carne, segui fino al cielo senza mai separartene Cristo che per te compie il suo cammino in questo mondo. Aiutati con il timore e con il desiderio, per sfuggire alla caduta e conservare l’amore. Donati interamente; sii docile al Verbo nello Spirito Santo, per raggiungere quel fine beato e puro che è la tua deificazione, con il gaudio di indescrivibili beni. Con lo zelo delle virtù, con la contemplazione della verità, con la sapienza, arriva alla Sapienza principio di tutto e in cui sussistono tutte le cose» (Col. 1, 16-17).

Storia della festa.

Gli Orientali celebrano questa festa da lunghi secoli. La vediamo fin dagli inizi del secolo iv in Armenia, sotto il nome di « splendore della rosa », rosæ coruscatio, sostituire una festa floreale in onore di Diana, e figura tra le cinque feste principali della Chiesa armena. I Greci la celebrano nella settima Domenica dopo Pentecoste, benché il loro Martirologio ne faccia menzione il 6 di agosto. In Occidente, viene celebrata soprattutto dal 1457, data in cui il Papa Callisto III promulgò un nuovo Ufficio e la rese obbligatoria in ringraziamento della vittoria riportata l’anno precedente dai Cristiani sui Turchi, sotto le mura di Belgrado. Ma questa festa era già celebrata in parecchie chiese particolari. Pietro il Venerabile, abate di Cluny, ne aveva prescritto la celebrazione in tutte le chiese del suo Ordine quando Cluny ebbe preso possesso, nel secolo XII, del monte Thabor.

La benedizione delle uve.

Vige l’usanza, presso i Greci come presso i Latini, di benedire in questo giorno le uve nuove. Questa benedizione si compie durante il santo Sacrificio della Messa, al termine del « Nobis quoque peccatoribus ». I Liturgisti, insieme con Sicardo di Cremona, ci hanno spiegato la ragione di tale benedizione in un simile giorno: « Siccome la Trasfigurazione si riferisce allo stato che dev’essere quello dei fedeli dopo la resurrezione, si consacra il sangue del Signore con vino nuovo, se è possibile averne, onde significare quanto è detto nel Vangelo: Non berrò più di questo frutto della vite, fino a quando non ne beva del nuovo insieme con voi nel regno del Padre mio » (Mt. XXVI, 29). – Terminiamo con la recita dell’Inno di Prudenzio, che la Chiesa canta nei Vespri ed al Mattutino di questo giorno:

INNO

O tu che cerchi Cristo, leva gli occhi in alto; ivi scorgerai il segno della sua eterna gloria. La luce che risplende manifesta Colui che non conosce termine, il Dio sublime, immenso, senza limiti, la cui durata precede quella del cielo e del caos. Egli è il Re delle genti, il Re del popolo giudaico, e fu promesso al patriarca Abramo e alla sua stirpe per tutti i secoli. I Profeti sono i suoi testimoni, e sotto la loro garanzia, testimone egli stesso, il Padre ci ordina di ascoltarlo e di credere in lui. Gesù, sia gloria a te che ti riveli agli umili, a te insieme con il Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.

 (Dom P. Guèranger: L’Anno Liturgico, vol. II, Ed. Paoline, Alba Cuneo, 1957)

LA GRAZIA E LA GLORIA (6)

LA GRAZIA E LA GLORIA (6)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO V

Come i figli dell’adozione siano ad immagine di Dio.

I. – Un figlio è ad immagine di suo padre … una verità così certa che entra nell’idea stessa di generazione. Chiamati dalla grazia alla filiazione divina, dobbiamo dunque portare in noi l’immagine del nostro Padre celeste. Non mi stupisco dunque quando, leggendo le nostre Sacre Scritture ed i loro più autorevoli interpreti, i Padri, trovo che lo scopo dell’Incarnazione fu quello di rendere l’uomo a somiglianza di Dio; per meglio dire, di restaurare in lui quell’immagine divina che era stata così disgraziatamente distrutta dalla degradazione originale della razza umana (Petav. de lncarn: l; l. 7. n. 7). Infatti questa è, in sostanza, la stessa dottrina che ci è stata proposta quando abbiamo parlato di filiazione adottiva, rigenerazione, nuova creazione, deificazione, ecc. Se le formule che lo esprimono sono molteplici e variate come all’infinito, è perché i doni di Dio sono di tale prezzo, la sua munificenza così alta al di sopra dei nostri diritti e delle nostre concezioni, che tutte le forme del linguaggio umano non sono sufficienti a darcene le idee che corrispondono alla loro sublimità. – Ho notato, tuttavia, che c’è una ragione molto speciale per ricordarci questo lato particolare della nostra elevazione soprannaturale e per farne l’oggetto delle nostre meditazioni. Se ci dicessero semplicemente con l’Apostolo: « Rivestitevi di Gesù Cristo » (Rom. XII, 14; Gal. III, 27), e prendete le sue sembianze, capirei subito che sono invitato a perfezionare in me la figliolanza che ho ricevuto; poiché Gesù Cristo è il Figlio, ed Egli è in virtù della sua eterna processione l’immagine del Padre e l’eterno splendore della sua gloria (Ebr: 1, 3; Sap. VII, 26). Ma lo Spirito Santo non si fermò lì. Leggo nelle Scritture: « Rinnovatevi nello spirito della vostra anima e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è stato creato secondo Dio nella giustizia e nella santità della verità » (Efes. 1V, 23, 24; Col. II, 15). E ancora: « Spogliatevi dell’uomo vecchio e delle sue opere e rivestitevi dell’uomo nuovo.» E ancora: « Toglietevi di dosso l’uomo vecchio con le sue opere e rivestitevi dell’uomo nuovo, che mediante la conoscenza della verità si rinnova a immagine di colui che lo ha creato » (Col. III, 9-10). Non si tratta solo di imprimere questa immagine divina su di noi per la prima volta: perché non si tratterebbe di togliere e rinnovare, ma di innovare, né di rinnovamento, bensì di novità. Questa immagine che si sta restaurando, che si sta ristabilendo, l’abbiamo avuta qualche giorno prima che fosse deplorevolmente danneggiata. S. Agostino ha detto da qualche parte una parola molto degna di nota: « L’uomo, dopo aver perso con il peccato il sigillo dell’immagine divina, era solo un uomo » (« Ipse homo, Signaculo imaginis propter peccatum amisso, remansit tantum homo ». – S. Augustus, lib. 83, 67, n. 4). Sentite; l’uomo uscito dalle mani creatrici, portava nella sua anima l’immagine di Dio. Essendo diventato ribelle, è spogliato di questa somiglianza divina in se stesso e per la sua posterità. Era un figlio di Dio, un dio lui stesso prima? Ora non sarà più che un uomo, perché ha perso l’immagine di Dio. – Questa è l’immagine che Cristo è venuto a riparare. Questa è l’immagine di cui ci mostra il modello perfetto in se stesso, l’immagine che ci viene restituita dal Battesimo. Ed è per questo che recuperarla è rinnovarsi, spogliarsi dell’uomo vecchio, l’uomo in cui l’immagine di Dio è cancellata, per rivestirsi del nuovo., creato secondo Dio nella giustizia e santità. (Efesini IV: 23-24). – Ma questo solleva un’obiezione molto seria. Come S. Agostino poteva dire, e come possiamo ripetere dopo di lui, che la prevaricazione del padre della nostra razza ci abbia fatto perdere l’immagine di Dio, e che quindi abbiamo bisogno sia dell’Incarnazione del Figlio unico che del Battesimo per poterla ristabilire nelle nostre anime. L’uomo non porterebbe nella sua stessa natura le sembianze divine, o questa natura sarebbe stata mutilata dalla caduta originale? Nessuno dei due. Dio non voglia che si conceda agli eretici questa corruzione primitiva della nostra natura. Senza dubbio essa ha subito gravi pregiudizi: non si vede più in essa l’ordine, la bellezza, l’ammirevole rettitudine che l’occhio deliziato degli Angeli contemplò quando Dio la formò nel suo amore e nella sua potenza. Ma, considerate in se stesse, le forze naturali non sono state diminuite. Ciò che rende la nostra natura primitiva debole dopo tanto vigore, ignorante dopo tanta luce, squilibrata nelle sue facoltà dopo un’armonia così perfetta, non è la perdita delle sue perfezioni innate: essa le mantiene intatte, come rimane se stessa nella sua integrità. A cosa attribuiremo dunque questa decadenza? Alla meritata privazione dei privilegi della giustizia originaria, dalla quale la nostra natura ha ricevuto un grado di perfezione che non era e non poteva scaturire dai suoi principi costitutivi. («Ipsa déstitutio justitiæ originalis vuilneratio naturæ dicitur. » S. Thom. l. 2, q. 85, a 3). Da qui, la necessità per ogni uomo, per ogni figlio di Adamo di essere ad immagine di Dio. Perché è così? Perché questa immagine poggia sulla natura intelligente e libera come su una base necessaria ma pienamente sufficiente (« Imago proprie dicitur quod procedit ad similitudinem alterius »: S, Thom. 1 p. q. 35, to. 1, ad 1.).

2. – Studiamo il carattere dell’immagine, per meglio concepire come abbiamo potuto perderla, senza cessare di portarla in noi; come, pur conservandola nelle profondità della nostra natura ragionevole, dobbiamo recuperarla per essere figli adottivi di Dio. La nozione di immagine contiene due idee: in primo luogo, un’idea di origine, e in secondo luogo, un’idea di somiglianza con l’oggetto da rappresentare, cioè con l’esemplare. Ho detto: un’idea di origine. Se un pittore fa un quadro, e tra i personaggi riprodotti dall’immaginazione sulla tela, ne trova uno che ricordi la fisionomia di una tale e tal’altra persona sconosciuta all’artista, non c’è né esemplare né immagine: perché questa persona non ha contribuito in alcun modo all’opera in cui si riconoscono i suoi tratti (S. August. L. 83. Quæst, q. 74.5). Ho detto anche: un’idea di somiglianza, anche se una qualsiasi somiglianza non sia sufficiente a costituire un’immagine propriamente detta. Un fiore non sarà mai l’immagine dell’arbusto su cui è sbocciato: perché tra l’arbusto e il suo fiore la somiglianza è solo generica. Quindi cosa serve perché si abbia una vera immagine? La somiglianza nelle proprietà specifiche o, almeno, in un accidente caratteristico della specie, la figura, per esempio. Così un re può contemplare la sua immagine sia in suo figlio che sulle monete del suo impero: in suo figlio, perché gli ha comunicato la sua natura di uomo; sulle monete, perché sono coniate a sua effigie. Ne consegue che quanto più la somiglianza riproduce la natura e le perfezioni del modello, tanto più realizzerà la vera nozione dell’immagine. Ed è per questo che il Verbo eterno è l’immagine assolutamente perfetta del Padre, come ne è il Figlio perfetto (Col. I, 15; Eb. I, 3). In verità, Dio, l’Essere in essenza, l’abisso infinito di ogni perfezione, non può essere contenuto né in un genere né in una specie, tanto Egli è separato dalla supremazia del suo essere da tutto ciò che non è Lui. Non è meno certo che, secondo il nostro modo di concepire, ciò che è caratteristico di Lui, come in noi, non sia né di essere né di vivere, ma di pensare. Dunque, ed è a questo che volevamo arrivare, la creatura intelligente e ragionevole, per questo stesso fatto che è capace di conoscere e di volere, è ad immagine di Dio: copia molto imperfetta, senza dubbio, infinitamente inferiore all’immagine invisibile che sgorga eternamente dal seno del Padre; ma tuttavia è una copia che conserva l’immagine, che rimane intatta finché la natura ragionevole non viene distrutta (S. Thom. 1 p, q. 93, a, 1; II D. 16, q, 1, a,1). Quanto alle altre creature, la loro somiglianza con Dio non è tanto quella dell’immagine, quanto quella delle vestigia. L’impronta lasciata da un animale sul fango che ha calpestato con il suo piede, è una vestigia che ce lo fa conoscere, come un effetto che rivela la sua causa. Così Dio si manifesta attraverso la creazione materiale; ed è per questo che solo l’uomo e l’Angelo hanno il privilegio di essere per loro natura immagini di Dio. (Il Dottore Angelico propone una difficoltà su questo argomento, la cui soluzione completerà le spiegazioni che abbiamo appena sentito. È tratto da un passo di Boezio (De Consol., L. III), in cui si dice «che Dio, portando il mondo nella sua mente, lo rende conforme a questa immagine »; dal che, sembra, dobbiamo concludere che tutto il mondo, e non solo la creatura ragionante, è a immagine di Dio. – Ecco la bella distinzione data da San Tommaso per risolvere l’obiezione: « Un’opera può assomigliare all’artista che l’ha fatta in due modi diversi. – Gli assomiglia in ciò che ha della sua natura; così come il figlio assomiglia a suo padre. – Gli assomiglia per quello che ha della sua intelligenza; così l’opera d’arte assomiglia all’idea con cui l’artista l’ha concepita. Ora, la creatura procede in questa doppia maniera a somiglianza di Dio. Procede dalla prima: perché gli esseri sono dall’Essere e i viventi dalla Vita per essenza. Essa procede dalla seconda: perché tutto ciò che Dio fa è formato da Lui sulle idee eterne. Siccome, dunque, ogni creatura di Dio, si accorda perfettamente con ciò che è stato concepito nella sua intelligenza, poiché essa è precisamente come ha disposto che fosse, non c’è alcuno, da questo punto di vista, che non sia ad immagine dell’idea divina. Ma dall’altro punto di vista, cioè per quanto riguarda la somiglianza con ciò che il Creatore ha nella sua natura, solo la creatura intelligente raggiunge il grado supremo di imitazione, ed è per questo che essa sola è chiamata anche immagine di Dio. – S. Thom. II, D.16, q. a 2;1 p. q. 93 a. 2, ad 2; 3 p., q. 4, a. 1 ad 2). – Come interpretare allora il passaggio di Sant’Agostino che abbiamo citato poco fa; come spiegare anche che il Verbo si è fatto carne per restaurare in noi l’immagine divina, e che è opera dello Spirito Santo ristabilirci in questa gloria? Ecco il principio: sopra l’immagine che viene dalla natura, ce n’è un’altra, migliore e più perfetta, che viene dalla grazia. Non è quella, ma l’ultima, quella che dobbiamo riparare nelle anime. Il mio Creatore me le ha date originariamente entrambe: l’immagine naturale e l’immagine soprannaturale, essendo la prima il necessario fondamento della seconda, e la seconda il glorioso coronamento della prima (S, Tomm. II, D. 29, q. 1, a, 1, ad 5; col. De Potent. q. 3 a. 16, ad 5 e 12). È un punto della nostra fede cattolica che il padre del genere umano ricevette da Dio la santità come un possesso familiare che doveva trasmettere ai suoi discendenti, nello stesso momento in cui comunicava loro la sua natura umana: in modo che essi fossero, in virtù della loro origine, figli dell’uomo e allo stesso tempo figli di Dio per adozione. Il peccato ha rovesciato questo ordine primordiale e ci ha tolto l’immagine della grazia privandoci della giustizia originale. Ed ecco ciò che S. Agostino intendeva dire. Non più di ogni altro Padre, Egli ha mai pensato che l’uomo, rimanendo uomo, potesse cessare di essere un’immagine di Dio; poiché Egli fa di questa somiglianza naturale la condizione necessaria della nostra elevazione per grazia e gloria. Perciò, per evitare che questo testo, separato dagli altri, fosse male interpretato, si preoccupò di spiegarlo lui stesso nelle sue Ritrattrazioni (l. 1, c. 26). – I Padri e i teologi difficilmente parlano dell’immagine di Dio nell’uomo, senza riferirsi al racconto della creazione dell’uomo ispirato dallo Spirito Santo nella Genesi. Lo mediteremo con loro: « E Dio disse: ‘Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e sulle bestie e su tutta la terra e su ogni essere strisciante che si muove sulla sua superficie. E Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò » (Gen, I, 26-27). « E il Signore Dio formò l’uomo dall’argilla della terra, e gli soffiò in faccia l’alito della vita, ed egli fu vivo ed animato. » Questa è la storia nella sua maestosa semplicità. – Vediamo innanzitutto come l’uomo porti l’immagine divina, a differenza di tutte le altre parti della creazione, poiché di lui solo è scritto: « Ha fatto l’uomo a sua immagine ». È per questo che solo lui è modellato dalla mano divina con tutta la cura e il disegno che un’opera così perfetta richiede; solo lui è ritenuto degno di essere vivificato dal soffio del Creatore. « Facciamo l’uomo a nostra immagine… E lo modellò… e soffiò ». – Che questa immagine sia basata sulla natura umana stessa è impossibile dubitarne, se esaminiamo il testo. Infatti, se l’uomo ha il dominio sugli animali della creazione, se è nel mondo terreno come un re nel suo dominio, il suo titolo è l’immagine di Dio che porta in sé. « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza e lasciamolo governare… ». Ora, questo principato, da dove viene se non dalla natura che lo rende intelligente e libero? Quindi è la stessa cosa essere ragionevole ed essere ad immagine di Dio. Una conferma manifesta di questa verità ci viene offerta nel capitolo IX della Genesi (IX, 6), dove Dio proibisce di spargere il sangue dell’uomo, « perché l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio ». Infatti, se l’omicidio è uno dei più grandi crimini, è perché l’uomo, a differenza degli esseri senza ragione, non è una cosa, destinata per sua natura all’utilità di un essere superiore: nella sua qualità di essere intelligente e libero, egli esige per sé stesso, come fine e non come puro mezzo (S. Th. 2, 2. Q. 64s. 1 ss.). È per questo che lui solo in questo universo è il re di tutto ciò che lo circonda, l’immagine nobile e vivente del Re del Cielo.

3. Detto questo, mi chiedo se nel testo della Genesi troveremo un’ulteriore affermazione di una somiglianza più alta e più perfetta, stabilita dalla grazia tra i figli adottivi e Dio loro Padre. Sì, i santi Dottori rispondono concordemente. Si, lo so che i commenti che hanno dato su questo testo sono abbastanza divergenti. Forse questa diversità, più apparente che reale, deriva dal fatto che le parole scelte da Dio « a nostra immagine e somiglianza » contengono una tale abbondanza di idee per essi, che sono stati dati loro diversi significati, che non sono opposti ma complementari. In ogni caso, basta scorrere le interpretazioni che i Padri ci hanno lasciato di queste parole divine, o le frequenti allusioni che le riguardano, per convincersi che il significato non ha né tutta la sua profondità né tutta la sua ampiezza, se ci atteniamo all’immagine naturale, prerogativa di ogni sostanza umana. Questo è ciò che molti hanno pensato di vedere nell’uso delle due parole « a nostra immagine, a nostra somiglianza ». A nostra immagine, per esprimere la rappresentazione basata sulla natura; a nostra somiglianza, per significare la rappresentazione superiore basata sulla grazia; a nostra immagine e somiglianza, perché Dio ha fatto dell’uomo un mirabile composto di natura e di grazia, un uomo e un dio deificato. – È vero che queste due parole, immagine e somiglianza, accoppiate in questo luogo della Genesi, non appaiono mai più che separate in tutti i passi, dove la Scrittura ricorda questa dignità primitiva della nostra natura, e il testo della Genesi dove Dio l’ha registrata. A volte è l’uno, a volte è l’altro che ricorre in allusioni (lmmagine, imago, εἰκῶν [=eikon], Gen. V, 7: IX, 6; Eccli. XVII, 1. Similitudo, somiglianza, ὀμοἰωσις [=omoiosis], Gen. V, 1; Jac III, 9), con una sola eccezione, dove si dice di Dio, « che Egli creò l’uomo senza fine e lo fece ad immagine della sua e somiglianza di Lui » (Sap. II, 23). Ma anche se le due espressioni « di immagine e di somiglianza », a causa della mescolanza che se ne fa nei nostri Libri santi, non fossero sufficienti a dimostrare da sole la doppia immagine impressa nell’uomo nei primi giorni della sua esistenza, l’autorità dei Padri non ci permette di trascurare nel testo sacro la somiglianza basata sulla grazia, accanto, o meglio, sopra l’immagine basata sulla natura. Si può chiamare a testimoniare S. Ireneo, S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Giovanni Damasceno, S. Agostino. S. Bernardo (Da questi ed altri testi simili Bellarmino concluse contro i luterani del suo tempo che l’immagine differisce dalla somiglianza, l’una appartenendo alla natura e l’altra alla grazia; e che, di conseguenza, Adamo perse non l’immagine ma la somiglianza di Dio. – Bellarm, De Gratia primi hominis, c. 2). – Se c’è chi prende le due parole come più o meno sinonimi e le usa in modo indifferente l’una per l’altra, se non menzionano anche che una sola immagine, o una sola somiglianza, non giudichiamo che siano in antagonismo con ciò di cui abbiamo appena parlato: perché l’immagine che hanno in vista è, è vero, l’immagine naturale, ma ravvivata, ma completata, mai deificata da una somiglianza più espressiva; un’immagine infine, di cui la natura è la base, e la grazia il glorioso coronamento. Considerando l’immagine in questo modo, nulla ci impedisce di dire che essa fu parzialmente distrutta dalla caduta originale, poiché si perse ciò che la rendeva più eccellente e più simile all’archetipo divino, e che Cristo venne a riparare ed a restaurare al suo primo splendore (si potrebbe chiedere se è in senso letterale o solo in senso spirituale e mistico che la Genesi esprima la somiglianza della grazia alla natura. Alla fine, la risposta ha poca importanza, poiché in entrambi i sensi si afferma la stessa verità. Ciò che favorisce il significato letterale è che Dio abbia dovuto esprimere, sembra, l’immagine come aveva eternamente deciso di inciderla nell’uomo il primo giorno della sua esistenza. Se poi, come sappiamo indipendentemente da questo testo, ha creato l’uomo perfetto secondo natura e grazia, perché non dovremmo considerare come letterale l’interpretazione che vede nelle parole “immagine e somiglianza” come l’immagine completa di Dio nell’uomo, con il suo abbozzo nella natura e la sua suprema perfezione nella soprannatura? Siamo, mi sembra, tanto più autorizzati a farlo, poiché il Nuovo Testamento presenta il nostro rinnovamento spirituale in Cristo come la restaurazione dell’opera compiuta da Dio nella creazione dell’uomo. Cfr. Efes. IV, 23, 24; Col. III, 10). – Diversi Padri, e tra i più gravi, spiegando le operazioni di Dio sul primo uomo, portano nuova forza alle considerazioni precedenti. Testimone S. Cirillo di Alessandria, la cui bella dottrina è la seguente. « In principio – scrive Mosè, sotto l’ispirazione dello Spirito divino – Dio, l’onnipotente Creatore del mondo, plasmò l’uomo e soffiò nel suo volto il soffio di vita. Ora cos’è questo soffio di vita se non lo Spirito di Cristo che ha detto: Io sono la vita e la risurrezione? Dopo che lo Spirito Santo si fu ritirato dall’umanità decaduta, questo Spirito che solo poteva formarci e conservarci nell’immagine del carattere divino, il Salvatore ce lo ha dato di nuovo per restituirci alla nostra dignità originale e trasfigurarci a sua immagine e somiglianza. Ed è per questo che il Beato Paolo disse ai discepoli: « Figlioli miei, che io rigenero finché Cristo sia formato in voi ». (S. Cirillo Alex, L. V in Giov. VII, Pat. Gr. T. 73, p. 756). E ancora: « Il divino Paolo, volendo esporci la causa generale e il solo vero motivo dell’incarnazione del Figlio unigenito, ha detto: è piaciuto a Dio Padre ristabilire tutto in Cristo (Ef. I, 10). Restaurare è riportare al suo stato originale ciò che ha subito una degradazione… Ma per comprendere questa restaurazione in Cristo e attraverso Cristo, è necessario ricordare quale fosse il nostro antico stato. Questo essere vivente e ragionante, l’uomo, è stato creato fin dall’inizio ad immagine del suo Creatore… E affinché questa creatura tratta dal nulla non ricadesse in quello stesso nulla, Dio, che la voleva immortale, l’ha resa parte della sua natura. Egli soffiò nel suo volto il soffio di vita, cioè lo Spirito del suo Figlio, che è col Padre la vita stessa e conserva l’essere di tutte le cose » (S. Cirillo Al., L. IX, In Joan, XIX, Pat. Gr. T. 74, p. 275, ss). Il santo Dottore, dopo aver dimostrato che non si può senza empietà confondere questo Soffio divino con l’anima umana, continua il suo commento al testo della Genesi: « Che cosa vuole dunque insegnarci la Scrittura?  Che il Creatore, prima di completare il composto di anima e di  corpo che è l’uomo, ha impresso in lui, come sigillo della propria natura, lo Spirito Santo, per trasformarlo nell’immagine della bellezza archetipica, la Fonte di ogni bellezza; e dargli, per l’intima presenza dello stesso Spirito, il potere di praticare le virtù più sublimi… Ma quando l’uomo, con un abuso della sua libertà… fu miseramente decaduto… Dio ha deciso di innalzare la natura umana e di riportarla al suo primo stato per mezzo di Cristo, suo Figlio; e ciò che ha deciso, l’ha realizzato » (Id. Ibidem). – Questa stessa dottrina è mirabilmente riassunta da San Cirillo in un altro luogo del suo commento. « Il nostro ritorno a Dio – dice – il Salvatore Gesù ce lo ha procurato con la partecipazione del suo Spirito divino e la santificazione. Perché è lo Spirito che ci unisce a Dio; riceverlo è diventare partecipi della sua natura divina; e noi lo riceviamo attraverso il Figlio, e nel Figlio riceviamo il Padre… Il Figlio ha offerto se stesso per l’espiazione dei nostri crimini: si è offerto, dico, a suo Padre come un’ostia profumata, affinché l’ostacolo che separava la nostra natura da Dio, cioè il peccato, fosse rimosso, e una volta rimosso, nulla ci potesse impedire di essere vicini a Dio, e di partecipare alla sua natura partecipando allo Spirito Santo, che, riparando in noi la giustizia e la santità, ripara allo stesso tempo l’immagine primitiva » (S. Cyr. Al. L. XII in Joan. XVII, P. Gr., t. 74, p. 553). (Soffermiamoci su questo testo: perché sarebbe troppo lungo raccontare le magnifiche pagine in cui i Padri hanno esposto queste gloriose verità per la nostra Famiglia umana. – I teologi, nei loro studi sull’uomo considerato come immagine di Dio, si chiedono se la somiglianza si riferisca non solo a Dio considerato nell’unità della sua natura, ma anche alla Trinità delle Persone. Il testo della Genesi sembra imporre una risposta affermativa. « Facciamo l’uomo a nostra immagine »: è la Trinità che parla, Padre, Figlio e Spirito Santo. È quindi anche l’immagine della Trinità che deve essere naturalmente intesa come il termine dell’operazione divina. Il Suffragio di dottori come Sant’Agostino, Sant’Ilario e altri, rende questa interpretazione molto probabile. E infatti, se confrontiamo l’anima umana con il grande mistero della nostra fede, non avremo difficoltà a riconoscere che, anche ora, essa porta in sé non solo un vestigio ma una copia della Trinità. Ciò che costituisce le Persone divine e dà a ciascuna il proprio carattere è l’ordine e il modo delle processioni interne. Dio che conosce se stesso e da questa conoscenza produce il suo Verbo; il Verbo, fine della conoscenza e principio, con il Padre, di un Amore che procede da entrambi: questo è ciò che costituisce la Trinità. Ora questo si riflette in noi, specialmente quando la nostra anima è trasfigurata dalla grazia. Perché noi abbiamo la conoscenza di Dio, e conoscendolo, produciamo in noi stessi il Verbo che lo rappresenta; e da noi e dal nostro verbo interiore procede l’amore della bellezza divina. È un’immagine imperfetta sotto molti aspetti, ma che tuttavia rivela qualcosa del grande mistero. Quanto alle altre creature, esse sono solo vestigia della Trinità, perché, se si trova un non so che, che possa ricordarci la Trinità già conosciuta, non vedo in loro né il principio del verbo, né il verbo, né l’amore (S. Thon. 1 p,. 4.93, at. 5-8: cot: q. 45, at. 7).

4. -Ancora due o tre osservazioni prima di chiudere questo capitolo. Osserviamo innanzitutto che le parole immagine, similitudine, somiglianza possono essere intese in due modi: « Immagine, similitudine o somiglianza di Dio si dicono sia dell’anima che della grazia, ma in modo diverso. L’anima trasformata dalla grazia è immagine, come ciò che imita Dio; la grazia è immagine come quella per cui l’anima assomiglia a Dio. Così una statua è l’immagine dell’eroe o del santo che rappresenta, ma diversamente dalla figura esterna che la rende immagine e statua » (S. Thom. II, D19, a 2, ad 5). S. Bonaventura ha fatto la stessa osservazione: « Altra è la somiglianza dell’uomo con Dio, altra quella della grazia. L’anima assomiglia a Dio in quanto riceve in sé la somiglianza divina, e la grazia in quanto riceve il dono che rende l’anima simile a Dio » (S. Bonav., II, D26, a. 1, q. 3, ad 2). Diciamo: l’uomo è l’immagine di Dio; l’uomo è ad immagine di Dio: due espressioni che, pur avendo lo stesso significato, si distinguono tuttavia per una sfumatura che renderebbe la seconda preferibile alla prima: perché ci riferirebbe al Figlio di Dio, l’immagine per eccellenza, e significherebbe con la sua forma quanto questa immagine increata dell’Unico prevalga sull’immagine impressa nei figli d’adozione. – Un’altra osservazione. La creatura ragionevole assomiglia a Dio; ma Dio non assomiglia alla creatura. Perché ciò che fa la somiglianza è in Dio come nello stato di fonte, e nella creatura come nello stato di flusso. Per questo diciamo del ritratto che è simile al modello, e non del modello che assomiglia al suo ritratto. Molto meno è lecito dire di Dio che sia assimilato alla creatura. Perché l’assimilazione fa nascere nella mente una qualche idea di movimento verso la somiglianza; e di conseguenza è appropriata esclusivamente a colui che riceve da un altro la forma o la perfezione con cui diventa simile a lui. Ora, non è Dio, ma la creatura che riceve ciò per cui diventa immagine di Dio (S. Thom., c. Gent., L. I, c. 29). – L’ultima osservazione si riferisce a quel punto controverso che anticamente divideva la Scuola, riguardo al momento in cui il nostro primo padre ha ricevuto la somiglianza della grazia e la giustizia originale. Delle due opinioni, quella che sosteneva, con San Tommaso, che questa giustizia e somiglianza gli furono date con la natura stessa, cioè nel primo istante della sua creazione, è arrivata a prevalere nella teologia cattolica. E questa è la giustizia: perché, senza parlare di altre prove a suo favore, ha per sé sia il testo della Genesi che i commenti scritti su di esso dagli antichi Dottori. Nessuno ignora che Sant’Agostino lo affermi o lo supponga in tutte le sue opere; e questa è la ragione per cui poteva dire in tutta verità che la grazia fosse naturale per il primo uomo, e che lo sarebbe stata per i suoi discendenti, se avesse conservato la Giustizia originale, come spiegheremo nell’ultimo libro di quest’opera (L. XI, c. 1). E ora, per tornare al punto di partenza, vediamo come e perché lo Spirito Santo ci inviti a rinnovare l’immagine divina in noi; a spogliarci dell’uomo vecchio per rivestire l’uomo nuovo; a restaurare questa immagine degli archetipi sovrani sul modello ed in virtù dell’immagine perfetta, Gesù Cristo Nostro Signore; come e perché sia la stessa cosa essere figlio di Dio e portare in sé le sembianze della grazia. – Ma non dimentichiamo che, fino al giorno in cui questa somiglianza riceverà il suo complemento immobile e finale nella gloria, può essere degradata dal nemico della natura umana. Impotente contro il Dio che lo ha colpito con i suoi fulmini, la sua suprema ambizione è quella di farlo a pezzi nelle sue immagini viventi e di ucciderlo, per così dire, nei figli del suo amore. È là che vanno tutti gli sforzi e la rabbia di satana. Fuggiamo dunque dai suoi approcci e dalle sue opere. Né dobbiamo dimenticare inoltre la grave esortazione di Papa Leone Magno: « Miei cari figli – ci dice – se sapremo considerare fedelmente e saggiamente il mistero della nostra origine, vedremo che l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio perché imitasse il suo Autore. Sì, la dignità naturale della nostra razza è che la forma della bontà divina risplende in noi come in uno specchio luminoso » (S. Leo M. serm.12, al 11; de jejun. 10 mens. 1. C. 1). Immagini di Dio per il nostro essere di natura e di grazia, siamo immagini di Dio per le nostre opere. Facciamo quello che Lui fa; amiamo quello che Lui ama; la Sua volontà sia in ogni cosa la regola della nostra, affinché gli uomini, quando ci vedono nella nostra vita, riconoscano e benedicano l’Archetipo divino sul quale, diventando figli, siamo stati formati.

LA GRAZIA E LA GLORIA (7)

IL SACRO CUORE DI GESÙ (57)

IL SACRO CUORE (57)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ- [Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SESTO

MARGHERITA MARIA E I SUOI PRIMI COLLABORATORI.

Abbiamo visto, nella prima parte della presente opera, la divozione al sacro Cuore costituirsi nelle rivelazioni di Gesù a Margherita Maria e aprirsi dinnanzi ad essa grandiose prospettive di avvenire. Ci rimane da collocare questa divozione nello sviluppo storico; dire dell’attività apostolica della santa e dei suoi primi collaboratori, studiare il fiorire della divozione ch’ella aveva ricevuta dal cielo.

I. – STATO DELLA DIVOZIONE VERSO IL 1674

Margherita Maria non ha dovuto inventare la divozione al sacro Cuore; essa esisteva già. Prima di rivelarsi a lei, Gesù aveva scoperto il suo Cuore ad alcune anime privilegiate ed aveva mostrato loro le sue ricchezze. La pietà cristiana, meditando su la misteriosa piaga del costato, vi aveva visto il Cuore ferito, vi aveva visto il rifugio che esso offriva all’anima colpevole o tormentata e i tesori che racchiudeva; aveva visto la ferita d’amore nella piaga materiale; aveva visto infine il cuore divino amantissimo e amabilissimo, simbolo espressivo d’amore, immagine viva di tutte le virtù e della vita di Cristo. L’oggetto del culto era già dato. Il culto stesso esisteva con la maggior parte delle pratiche. Dopo i mistici erano venuti gli asceti, che ne avevano, se non organizzata la divozione, almeno indicati i diversi elementi che dovevano formarne la base, segnalato diversi esercizî che le convenivano. Apostoli ardenti, come il Lallemant e il P. Huby, l’avevano predicata e propagata, l’uno con la sua azione intima e profonda su alcune anime elette, l’altro nei suoi ritiri e nelle sue missioni, con la sua direzione e i suoi scritti. G. Eudes infine aveva presentato il sacro Cuore alla folla; prima attraverso e nel cuor di Maria, poi in una festa speciale del Cuore adorabile, in maniera che qui, come negli altri casi, si andava naturalmente da Maria a Gesù. – Il culto dunque esisteva, ben chiaramente per alcune anime privilegiate che ne vivevano; ma un po’ confusamente come veniva presentato al popolo nei libri e nella predicazione di S. G. Eudes e dei suoi discepoli; mescolato anche, ad elementi caduchi, che non potevano entrare nella corrente generale, della pietà cristiana; era, forse più preciso e più immediatamente pratico nel P. Huby, ma senza un aspetto dottrinale abbastanza largo, solido ed esposto in un manuale di questa divozione. Anche il movimento era relativamente poco esteso e profondo. Completamente dipendente dalle persone che l’avevano determinato, probabilmente non avrebbe continuato a diffondersi nella Chiesa, dopo la scomparsa di quelli che ne erano stati i promotori (Vedremo presto un esempio in prova di ciò: le Benedettine di Lione si ricordano vagamente che, in altri tempi, l’uffizio del sacro Cuore era stato concesso al loro Ordine. Probabilmente si tratta dell’Ufficio di S. G. Eudes. Anche le pratiche raccomandate dal P. Huby non risulta che abbiano continuato a vivere e propagarsi). Allora Gesù è intervenuto per animarlo, orientarlo, costituirlo in divozione vitale, larga, ed insieme precisa; precisa nel suo oggetto, nel suo fine, nel suo spirito, in alcune delle sue pratiche destinate a dare il tono: larga nelle sue manifestazioni e nella scelta dei suoi mezzi; tutto ciò con una fusione mirabile d’ideale e di ambizioni più elevate, di esercizi più semplici e di attrattive più vive per le diverse anime. Nello stesso tempo il soffio dello Spirito Santo e l’azione discreta di Gesù preparavano lo sbocciare del culto. I precursori si erano moltiplicati. Al momento stesso in cui Gesù sta per rivelarsi a Paray vivevano ancora molte anime a cui Egli si comunicava confidenzialmente; un po’ come un poeta legge prima a pochi amici l’opera che sta per dare al pubblico. Anche gli autori ne parlavano. Talvolta non sappiamo se si deve vedere, qua e là, un’aurora o uno splendore discreto del sole già alto: una influenza di S. G. Eudes o un’eco di Paray. Abbiamo già parlato del P. Huby, morto a Vannes nel 1693, apostolo infaticabile del sacro Cuore; ma senza poter dire con precisione se lo si deve far dipendere da S. G. Eudes, né se ebbe conoscenza delle, rivelazioni di Paray. Constatiamo soltanto che, da ogni parte, la divozione sembra fiorire spontaneamente nelle anime,. In Germania il P. Filippo Jeningen (1642-1704), l’apostolo della Svevia, riceveva favori insigni dal sacro Cuore e se ne faceva non solo il discepolo devoto, ma l’apostolo ardente. Seppe egli qualcosa di Paray o del movimento suscitato, in Normandia da S. G. Eudes, e in Bretagna dal P. Huby? Non si potrebbe dirlo. Siamo meglio informati sul santo arcidiacono d’Évreux, M. Boudon (1624-1702). Discepolo del P. Eudes, come lui arriva per mezzo del cuor di Maria al cuor di Gesù. Di lui abbiamo una consacrazione ai due santi Cuori che è bella e pia (Eccone la parte che riguarda direttamente il sacro Cuore: « O Gesù mio, è nel vostro Cuore, abisso d’amore, che io abbandono il mio essere e tutto ciò che io sono, che consumo ed anniento il mio misero cuore e tutti i suoi movimenti. No, io protesto in presenza di tutte le belle intelligenze del Paradiso, di tutti i santi dell’Empireo, e specialmente del mio Angelo custode, di S. Giuseppe e di S. Giovanni Evangelista, mio amico fedele, che io non voglio far più nulla per mio proprio movimento; che preferirei morire piuttosto che pensare un sol momento ad altri interessi che quelli del vostro Cuore glorioso, che voglio essere puramente il suo strumento, lasciandomi condurre a tutto ciò che Egli vorrà, non prendendo parte che ai suoi affari. Sì, o Cuore più che amabile, Cuor prezioso, Cuore inestimabile, quando dovessi esser privato del cielo e della tetra, io lo voglio, se deve andarne un solo atomo della vostra gloria. Voi sarete, per sempre, il mio caro tutto. Che io muoia, che viva, mi succeda ciò che può, non importa; io non penso, non voglio, non amo che Voi. Non chiedo niente, non voglio niente; tutto ciò che Voi volete è ciò che io desidero. Non voglio pensare che col Vostro pensiero, stimare che ciò che Voi stimate, vivere solo della Vostra vita. Mi unisco a tutti i Vostri disegni che la SS. Vergine, S. Giuseppe, gli angioli e i santi siano onorati; per questa unione io sono loro schiavo. O amore, o amore puro, o amore divino, annientatemi interamente nelle Vostre pure fiamme »). È datata dal giorno dell’Immacolata Concezione del 1651. Ma egli ebbe anche conoscenza delle rivelazioni di Paray e divenne l’ardente apostolo della nuova divozione. Ciò che egli ne dice è del più vivo interesse; è uno dei casi nei quali si vede chiaramente in contatto la divozione di S. G. Eudes e quella di santa Margherita Maria. È curioso che non colleghi l’una all’altra lui stesso; si direbbe che ha dimenticato Giovanni Battista passando a Gesù (Di fatto egli non dimentica la divozione eudista. Ma non vi sono, per lui, due divozioni al sacro Cuore. A proposito di una grazia fatta a Suor Maria Angelica della Provvidenza, di cui egli scrive la vita, parla del divin Cuore « fornace immensa di puro amore e abisso di carità infinite, sorgente di tutte le benedizioni ». Egli continua: « Noi dobbiamo lasciarci unire a questo Cuore divino… entrando nelle sue sante disposizioni… In questo Cuore divino si trovano tutte le virtù che sono necessarie e tutte le benedizioni del cielo e della terra. Tutti i Cristiani dovrebbero aver per Lui una divozione perfetta, applicandosi ad onorarlo, benedirlo, ringraziarlo, amarlo e glorificarlo in tutte le maniere possibili ». Parla della divozione quale l’ha ricevuta dal Padre Eudes, o quale l’ha trovata nel P. Croiset? Non saprei dirlo. Ma se queste righe sono anteriori a ciò ch’egli ha potuto sapere di Paray, non è di molto; poiché l’eroina è morta nel 1685. In altra parte si tratta della festa eudista. Vi è detto che « si celebra la festa, molto solennemente il 20 ottobre, nella chiesa del seminario d’Évreux ». Cosa concludere? Almeno questo: nell’anima di Boudon la divozione di Patay si è fusa con quella del P. Eudes come una sola, stessa cosa, E non è forse, perché egli non le distingue, ch’egli non pensa a collegarle?). Ecco ciò che scrive al suo amico fedele, Bosguerard: « Da pochi anni il nostro buon Salvatore ha fatto conoscere ad una religiosa della Visitazione della piccola città di Paray in Borgogna, che voleva stabilire in questo tempo la divozione del suo sacro Cuore e che, a questo scopo, si servirebbe dei Padri Gesuiti, che di fatto l’han già stabilita, non solo in Europa, ma nelle Indie e nel Canadà. Essi hanno scritto intorno a questa divozione un libro eccellente, pubblicato a Lione, dal quale sono stato commosso; e a Rouen è stato fatto un riassunto di questo libro che si vende da Hérault, al Palais (Il libro del P. Croiset era stato pubblicato senza il nome di autore. Il sunto di Rouen, opera, si dice, di una Visitandina, è del 1694, ciò che può aiutare a datare la lettera; l’Indulgenza è quella che Innocenzo XII accordò nel 1693, col breve del 19 maggio.). Io ho conosciuto per mezzo della mia stessa esperienza ciò che vi è notato: che nostro Signore farà grandi grazie a coloro che avranno divozione al suo sacro Cuore. Dobbiamo fare del nostro meglio, per cooperare allo stabilimento di questa divozione. Il Papa ha accordato l’indulgenza plenaria a tutte le case della Visitazione che ne celebreranno la festa e il nostro buon Salvatore ha rivelato a Santa Gertrude che riservava questa divozione per gli ultimi tempi ». – Egli mantenne la parola. Lo potremmo vedere anche solo dall’intestazione delle sue lettere. Fino da allora, egli scriveva: « Dio solo! Dio solo in tre persone, e sempre Dio solo nell’unione del nostro buon Salvatore Gesù Cristo. il Salvatore di tutti gli uomini ». Nei suoi ultimi anni scrive: « Dio solo… nella santa unione del sacro Cuore del nostro buon Salvatore, ecc. ecc. ». Ne parla spesso, ad ogni proposito. Vuol ringraziare? Lo fa per mezzo del sacro Cuore: « Prego con grande umiltà questo Cuore divino, infinitamente amante ed infinitamente amabile, che troviate in Lui le riconoscenze che io devo alla vostra gentile carità ». Vuol predicare la pace? Egli esorta a cercarla nel sacro Cuore: « L’anima che riposa unicamente in questo Cuore divino possiede una pace che oltrepassa ogni sentimento e che tutti gli uomini e i demonî insieme non potrebbero turbare. Così dimorare nel Cuor di Gesù, senza uscirne né per alcuna creatura, né per se stessi, vuol dire essere sempre contenti; fuori di questo Cuore amabile si è sempre inquieti ». In una parola, nella divozione al sacro Cuore egli ha trovato la base stessa del Cristianesimo: « Sì, mia cara sorella, scrive ad una religiosa della Visitazione, noi dobbiamo dimorare in questo divin Cuore, ma dimorare per sempre…, vivendo solo della sua vita, agendo solo per i suoi movimenti divini, soffrendo nell’unione delle sue sofferenze, ed in tal maniera che deve essere il Cuore del nostro cuore, l’anima della nostra anima e la vita della nostra vita… Per questo unitevi a lui in tutte le vostre azioni e sofferenze e in tutti i vostri stati, senza nessuna riserva; ma, unendovi nella sua santa unione, voi agirete; sempre per movimento della sua divina grazia, sempre soprannaturalmente, mai umanamente e per natura. Che l’amore del Cuore infinitamente amabile di Gesù domini senza riserva sopra tutti i movimenti dei cuori nostri. Che lo Spirito Santo, che l’ha animato, animi tutti i nostri; che Egli sia il principio di tutte le nostre azioni e la sola gloria d’Iddio solo ne sia la fine ». – Infine egli scrive nell’ultimo lavoro da lui pubblicato: « Proviamo una santa compiacenza, una gioia divina che la SS. Trinità trovi nel cuore di Gesù un amore infinito… Ma che faremo noi per amare questo Cuore infinitamente amante? Rimontiamo fino alla creazione del mondo, andando di secolo in secolo, vediamo tutti gli amori dei patriarchi, dei profeti, degli Apostoli, dei martiri, dei confessori, delle vergini e di tutte le creature mortali. Risaliamo nei cieli, vediamo tutti gli amori degli spiriti celesti e della loro grande Regina; uniamoci a tutti questi amori, a tutti gli amori che si sono avuti e che si avranno per questo divin Cuore; offriamogli tutti questi amori, ma di più l’amore infinito del Padre Eterno. Formiamo l’intenzione che tante volte noi respireremo, altrettanto noi continueremo questa unione per amare, con tutti gli amori, il Cuore infinitamente amabile dell’adorabile Gesù ». – Allora si rivolge direttamente al sacro Cuore: « O Cuore abisso d’amore, o mio Salvatore, vi chiediamo, per l’amore che vi ha fatto morir per noi, che noi moriamo per la dolce violenza del vostro puro amore. O morire o amare ed amare per non Cessar mai di amare ». Che l’autore, in tutto questo, sia sotto l’influenza del movimento partito da Paray, ce lo dice lui stesso, rinviandoci al libro, « dotto, ma pieno di unzione » del P. Croiset. Del resto fa un’allusione evidente a Margherita Maria quando scrive: « Il nostro buon Salvatore ha fatto conoscere a santa Gertrude e ad altre anime sante, che farà grandi grazie a quelli che avranno una divozione speciale al suo divin Cuore ». – Precorse santa Margherita Maria e fu tutta dedicata al sacro Cuore anche Suor Giovanna Benigna Gojoz (1615-1692), della Visitazione di Torino, di cui abbiamo già parlato; sembra che ella abbia predetto alla sua gloriosa sorella le cose meravigliose che Dio doveva compiere per Mezzo suo. E, prima di morire, seppe anche che la sua predizione si era compiuta. Mentre nostro Signore preparava così le vie a santa Margherita Maria, Egli stesso preparava la santa nel segreto, la preveniva fin dalla più tenera infanzia, la circondava con il suo amore, attento ai primi battiti del suo cuore perché fossero tutti per lui solo. Il 20 giugno 1671 ella entrava alla Visitazione di Paray, e Gesù cominciò tosto a rivelarle i segreti del suo cuore.  Margherita Maria ebbe conoscenza del sacro Cuore, avanti le rivelazioni di Paray? Fu sotto l’influenza di alcuni di quelli che ora vengon chiamati i suoi precursori? Conobbe le rivelazioni fatte a S. Gertrude, lesse alcune delle pagine nelle quali si parlava del sacro Cuore? Niente lo indica, ma niente ci indica il contrario. Avanti di entrare in convento ella doveva aver inteso parlare del Cuore ammirabile di Maria che il P. Eudes aveva ottenuto di far onorare nella diocesi di Autun, fin dal 1648. « Un giorno, nella festa del Cuore della SS. Vergine », lo nota essa stessa, ella vide il suo cuore, piccolo, piccolo, « e quasi impercettibile » fra i cuori di Gesù e Maria, e, mentre udiva queste parole: Così il mio puro amore unisce questi tre cuori per sempre, « i tre cuori non ne formarono che uno solo ». Potrebbe darsi che vi fosse qui un’influenza delle idee del P. Eudes. È la sola traccia che possiamo ritrovarne. – Nelle pratiche di divozione verso il sacro Cuore scritte di sua mano, ve ne sono alcune prese in libri di divozione che essa leggeva in convento, del P. Saint-Jure, del Padre Nouet, del P. Guilloré. Ma questo è posteriore alle rivelazioni. Ha potuto leggere e sentir leggere, fin dalla sua entrata in convento, i passi di san Francesco di Sales sul sacro Cuore, ma niente ci dice che ne sia stata colpita. Verso la fine della sua vita ella seppe delle visioni e delle rivelazioni della Madre Anna Margherita Clement e ne parla in una lettera al P. Croiset. Ma ne parla come in una scoperta da lei fatta allora, senza dubbio, leggendo e sentendo leggere la vita della venerabile Madre, che era stata pubblicata nel 1686. In breve, senza poter affermare nulla come certo, abbiamo motivo per credere che la santa non doveva ad influenze esterne la sua divozione al sacro Cuore di Gesù. Pare ch’ella non vi pensasse avanti la sua entrata in religione, l’apprese da nostro Signore.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (10)

 M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (10)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(IV)

10) Molteplici sono gli effetti di questa divina presenza nell’anima. Ogni Cristiano battezzato può fruire come vuole delle Persone divine; e a tutto l’universo, ad alta voce, bisognerebbe proclamare che questa intimità dell’anima battezzata col Padre, col Figlio e con lo Spirito è l’essenza stessa della nostra vita spirituale. « Il giorno in cui lo compresi — diceva suor Elisabetta — tutto in me s’illuminò » (Lettera alla signora De S… – 1902.). Il primo effetto di questa presenza della Trinità nell’anima, mediante la grazia, consiste nel renderla capace di gioire di Dio; la sua beatitudine ha inizio sulla terra, poiché, eccetto la visione, già possiede in speranza e mediante l’amore Colui che ne è l’oggetto. E l’Amore infinito tutta l’avvolge e vuole fin d’ora associarla alla propria beatitudine. L’anima esperimenta, così, la Trinità vivente in lei, quella Trinità di cui godrà la visione nel cielo (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903). – « Quando quest’anima ha compreso la sua ricchezza, allora tutte le gioie naturali o soprannaturali che possono venirle dalle creature o anche da Dio, non fanno che invitarla a rientrare in sé, per godere del Bene sostanziale che possiede, e che è Dio stesso; acquista così — dice san Giovanni della Croce — una certa somiglianza con l’Essere divino » (Ultimo ritiro – 11° giorno). Voler enumerare tutti gli effetti della presenza di Dio nell’anima sarebbe come accingersi ad enumerare, fin nei minimi particolari, tutti i benefici suoi, nell’ordine naturale e soprannaturale. – Suor Elisabetta aveva preso l’abitudine di tuffarsi senza posa « nell’intimo suo », dove la fede le rivelava la presenza reale e sostanziale, quantunque invisibile, di Colui che è la sorgente stessa della grazia. « Egli abita in noi per salvarci, per purificarci, per trasformarci in Sé» (Lettera a G. de G… – Febbraio 1905). Al suo Dio presente e vivente in lei, due cose soprattutto chiede: di amarlo fino all’oblìo totale di se stessa, e di essere trasformata in Lui. « Che il regno dell’Amore si stabilisca in pieno nel vostro regno interiore e la forza di questo amore vi porti fino all’oblìo totale di voi stessa… Beata l’anima che è giunta a questo assoluto distacco! » (Lettera alla signora A… – 1906.). « Sì, io credo che il segreto della pace e della gioia consista nel dimenticarsi, nel disoccuparsi di sé. Ma questo non vuol dire non sentire più le proprie miserie fisiche e morali; che anzi, gli stessi santi sono passati attraverso questi stati crocifiggenti; essi però sapevano non fermarvisi, ma, ad ogni istante, si risollevavano dalle loro miserie. E, quando se ne sentivano sopraffatti, non se ne meravigliavano, ben sapendo di « quale argilla siamo formati » (Salmo CII-4.), come canta il Salmista; come lui però soggiungevano: « Con l’aiuto del Signore, sarò senza macchia e mi guarderò dalla mia iniquità» (Salmo XVII-24). « Poiché mi permettete di parlarvi come ad una sorella cara, vi dico che il Signore mi sembra chiedervi un abbandono e una fiducia illimitata in quest’ora dolorosa in cui sentite l’angoscia di vuoti tremendi. Pensate che, intanto, Egli scava nell’anima vostra delle capacità più grandi per riceverlo, capacità in certo modo infinite, come Lui stesso; quindi cercate di mantenervi lieta, almeno con la volontà, sotto la mano che vi crocifigge. Anzi, dirò di più: considerate ogni sofferenza, ogni prova, « come una prova d’amore » che vi manda il buon Dio, direttamente, per unirvi a Sé. Dimenticarvi per ciò che riguarda la vostra salute, non vuol dire rifiutare di curarvi; al contrario, questo è per voi un dovere, ed è la migliore penitenza; ma fatelo con grande abbandono, riconoscente sempre al Signore, qualunque cosa avvenga. E quando il peso del corpo si fa sentire e abbatte lo spirito, non vi scoraggiate, ma andate con fede e amore da Colui che ha detto: « Venite a me, ed io vi solleverò » (San Matteo, XI-28.). – Riguardo all’anima, poi non lasciatevi mai sconfortare dall’esperienza delle nostre miserie, ricordando ciò che dice il grande san Paolo: «Dove ha abbondato il peccato, sovrabbonda la grazia » (Romani V, 20). Io sento che l’anima, quanto più è debole, anzi colpevole, tanto più ha ragione di sperare; e questo atto col quale dimentica se stessa e si getta nelle braccia di Dio, dà a Lui tanta gloria e tanta gioia, più di tutti i ripiegamenti dell’anima sopra di sé e tutti gli esami di coscienza i quali non raggiungono altro scopo che di farla vivere con le proprie infermità; mentre possiede lì, nel centro del suo essere, un Salvatore che la purifica ad ogni istante. Ricordate la bella pagina del Vangelo, in cui Gesù dice al Padre « che ha ricevuto da Lui ogni potere sopra ogni carne, perché a tutti comunichi la vita eterna? » (San Giovanni, XVII-2). Ecco che cosa Egli vuol fare in voi: vuole aiutarvi ad uscire continuamente da voi stessi, vuole che abbandoniate ogni preoccupazione, per ritirarvi in quella solitudine che Egli si è scelta nel vostro cuore; intima, cara solitudine, dove è sempre presente anche quando voi non Lo sentite, dove sempre vi attende e vuole stabilire con voi quell’« admirabile commercium » (Antifona dei Primi Vespri della Circoncisione) che noi cantiamo nella nostra bella liturgia, ineffabile intimità di Sposo a sposa. Le vostre infermità, le vostre colpe, tutto ciò che vi turba, Egli vuole portarvelo via, vuole guarirlo con questo contatto continuo, poiché « è venuto non per giudicare, ma per salvare » (San Giovanni, XII-47). Niente deve impedirvi di andare a Lui; non badate se siete nel fervore o nello scoraggiamento, perché è una triste legge dell’esilio quella di passare così da uno stato all’altro. Ma Lui, oh Lui non cambia mai, e nella sua bontà, è chino sempre su di voi per sollevarvi in alto e stabilirvi in Sé. E se, malgrado tutto, vi sentite oppressa dalla tristezza, desolata e sola, unite la vostra agonia a quella di Gesù nel giardino degli Ulivi, unite la vostra preghiera alla Sua preghiera: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice!…» (San Matteo, XXVI-39.). Vi sembra forse troppo difficile dimenticarvi così? Oh, non vi spaventate! se sapeste come è semplice, invece! Vi confiderò il mio segreto: pensate a questo Dio che abita in voi e di cui voi siete tempio (I Corinti, III-16.). È san Paolo che ce lo dice, e possiamo esserne certi. Allora, a poco a poco, l’anima si abitua a vivere nell’ineffabile Sua compagnia, comprende che porta in sé quasi un piccolo cielo in cui il Dio d’Amore ha stabilito la sua dimora, sente di respirare in un’atmosfera quasi divina, anzi non è più sulla terra che col corpo, ma l’anima abita al di là delle nubi e dei veli in Colui che è l’Immutabile. Non dite che tutto ciò non è per voi, perché siete troppo miserabile; questa, se mai, è una ragione di più per andare a Lui che vi salva; poiché non certo considerando la nostra miseria, ne saremo purificati, ma guardando Colui che è la stessa purezza e santità. San Paolo dice che « Dio ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio Suo » (Romani, VIII-29). Nelle ore più dolorose, pensate che l’Artista divino, per rendere più bella l’opera sua, usa il cesello; e rimanete in pace, sotto il lavoro della Sua mano sapiente. Il grande Apostolo di cui vi parlo, dopo essere stato rapito al terzo cielo, sentiva ancora la propria infermità, e se ne lamentava col suo Signore; ma Questi gli rispose: « Ti basti la mia grazia, perché la virtù si perfeziona tra le infermità » (II Corinti, XII-9.) È consolante per noi, non è vero?… Coraggio, dunque, signora e sorella mia carissima; vi affido, in modo tutto speciale, ad una piccola carmelitana morta a ventiquattro anni in odore di santità; si chiamava Teresa di Gesù Bambino, ed ha promesso, prima di morire, che il suo paradiso l’avrebbe trascorso facendo del bene sulla terra; ed ora la sua grazia è di dilatare le anime, di slanciarle sulle onde dell’amore, della confidenza, dell’abbandono; perché ci ha detto che ha trovato la felicità quando ha cominciato a dimenticare se stessa. Vogliamo invocarla insieme ogni giorno, perché vi ottenga questa scienza dell’oblio di sé, che forma i santi e che dona all’anima tanta pace e tanta gioia? » (Lettera alla signora A… ). In questa lettera, suor Elisabetta ci svela e ci dona il suo segreto più intimo. Per molti anni, l’ultimo ostacolo alla pienezza della santità in lei, fu proprio questa mancanza dell’oblìo totale di sé; e lungamente, nella sua preghiera, si tenne supplichevole dinanzi alla Trinità Santa: « Aiutami a dimenticarmi interamente… ». Venne esaudita, alfine: e, libera ormai, si abbandonò con tutte le sue potenze, al solo esercizio dell’amore. Fu, come abbiamo detto, il segno del trionfo dell’amore e del fiorire pieno della sua vita spirituale: grazia suprema di una spiritualità essenzialmente contemplativa, che attira le anime nel raccoglimento interiore, ma per farle uscire dal proprio io e tenerle occupate soltanto a dar gloria al Signore. L’effetto correlativo di questo dimenticare se stessi è la consumazione nell’unione trasformante, quell’unione in cui, soprattutto al termine della sua vita, suor Elisabetta si fissa con tanto amore. A mano a mano che Dio va compiendo in lei la sua opera di distruzione, si sente come quest’unione trasformante diviene sempre più il suo pensiero familiare, il termine sospirato a cui anela la piccola santa malata, per realizzare la sua brama di « divenire conforme al Crocifisso » e il suo « sogno di gloria ». Ella glorificherà Dio nella misura in cui sarà trasformata in Lui. È lo scopo a cui tende, sempre con lo stesso metodo: tenersi alla divina presenza, lasciarsi purificare e salvare dal contatto continuo con Dio: « Egli è tanto contento di perdonarci, di risollevarci, poi di trasportarci in Sé, nella sua purezza, col suo contatto continuo, coi suoi tocchi divini. Egli ci vuole tanto pure! Sarà Lui stesso la nostra purezza: ma noi dobbiamo lasciarci trasformare, fino alla piena somiglianza con Lui» (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903.). « Egli ha sete di associarci a tutto il Suo Essere, di trasformarci in Lui ».(Alla medesima – 14 settembre 1903). – Mentre componeva l’ultimo ritiro di « Laudem Gloriæ » suor Elisabetta si tuffava e rituffava con delizia nei passi sublimi del « Cantico » e della « Viva fiamma » in cui san Giovanni della Croce descrive quella trasformazione dell’anima nella Trinità che è il culmine della sua teologia mistica; ma, non paga di inebriarsene, si applicava con fedeltà instancabile ad ottenere da Dio questa grazia suprema, « Deus noster ignis consumens » (Ebrei, XII-29.). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, un fuoco di amore, cioè, che distrugge e trasforma in sé tutto ciò che tocca. Per le anime che, nel loro intimo, sono tutte abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui ci parla san Paolo diviene così semplice, così soave! Esse pensano molto meno all’opera di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nella fornace d’amore che arde in esse, e che non è se non lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il Suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, vengono da Lui trasportate nella « tenebra sacra », al di sopra delle cose e dei gusti sensibili, e quindi trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo l’espressione di san Giovanni, « in società » con le Tre Persone adorabili; la loro vita è in comune: questa è la vita contemplativa » (« Il paradiso sulla terra, 6° orazione »), « Il grande mezzo per giungere a questa perfezione che il divino Maestro domanda da noi, è ancora e sempre la presenza di Dio, secondo il comando di Dio stesso ad Abramo: « Cammina alla mia presenza e sii perfetto » (Genesi, XVII.1). Senza mai deviare da questa via magnifica della presenza di Dio, anima procede « sola col Solo », sostenuta dalla forza della Sua destra, protetta all’ombra delle Sue ali senza temere le insidie della notte, né la freccia lanciata in pieno giorno, né il male che si insinua nelle tenebre, né gli assalti del dèmone meridiano » (Ultimo ritiro IV). È l’ora dell’unione trasformante; l’anima non aspira più che alla visione beatifica. – « Come il cervo assetato anela le sorgenti dell’acqua viva, così l’anima mia sospira a Te, mio Dio! L’anima mia ha sete del Dio vivo. Quando andrò, e comparirò dinanzi al suo Volto? ». E tuttavia, « come il passero che ha trovato un rifugio, come la tortorella che ha trovato un nido per deporvi i suoi piccoli », così l’anima, giunta a queste cime, ha trovato il suo rifugio, la sua beatitudine, in attesa di passare nella santa Gerusalemme, la « Beata pacis visio »; ha trovato il suo cielo anticipato ove iniziala sua vita di eternità » (Ultimo ritiro XVI). Sa di essere inabitata dalla Trinità Santa, e questo basta alla sua felicità. « Ecco il mistero che canta oggi la mia lira. Come a Zaccheo, il Maestro ha detto a me: «Affrettati a discendere, perché voglio alloggiare in casa tua » (San Luca, XIX-5.). Discendere!… Ma dove?… Nelle profondità della mia anima, dopo essermi separata, alienata da me stessa, dopo essermi spogliata di me stessa; in una parola: senza di me. « Bisogna che io alloggi in casa tua ». È il Maestro che mi esprime questo desiderio, il mio Maestro che vuole abitare in me col Padre e col suo Spirito di amore perché, come si esprime il Discepolo prediletto, io abbia « società » con Essi. «Voi più non siete ospiti o stranieri, ma siete già della casa di Dio » (Efesini, II-19.), dice san Paolo. Ed ecco come io intendo questo « essere della casa di Dio »: vivere in seno alla tranquilla Trinità, nel mio abisso interiore, nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento di cui parla san Giovanni della Croce. – Davide cantava: « Vien meno l’anima mia, entrando negli atrî del Signore » (Salmo LXXXIII2.). Mi sembra che questa debba essere l’attitudine di ogni anima che si ritira nei suoi atri interiori per contemplarvi il suo Dio, per prendervi strettissimo contatto con Lui. Essa vien meno, in una estasi divina, trovandosi dinanzi a questo Amore onnipossente, a questa Maestà infinita che abita in lei. Non è la vita che l’abbandona, ma è lei stessa che, disprezzando questa vita naturale, se ne ritrae, perché sente che non è degna del suo essere così grande, e vuol farla morire, per immergersi nel suo Dio. Come è bella questa creatura così libera, spoglia di sé! È ormai in grado di « disporre ascensioni nel suo cuore, per salire, dalla valle delle lagrime (cioè da tutto quello che è meno di Dio), al luogo che è la sua mèta» (Ibidem, 6), quel luogo spazioso cantato dal Salmista, che è — mi sembra — l’insondabile Trinità: Immensus Pater — Immensus Filius — Immensus Spiritus Sanctus (Simbolo di sant’Atanasio, 9.). Sale, si innalza al di sopra dei sensi, della natura; supera se stessa, supera ogni gioia come ogni dolore, sorpassa tutte le cose, per non riposarsi più fino a che sia penetrata nell’intimo di Colui che ama, e che le darà Egli stesso il riposo dell’immenso abisso. E tutto questo, senza che sia uscita dalla santa fortezza. Il Maestro le ha detto: « Affrettati a discendere ». E ancora senza uscirne, vivrà, a somiglianza della Trinità immutabile, in un eterno presente, adorando Iddio per Se stesso e divenendo, mediante uno sguardo sempre più semplice, più unitivo, « lo splendore della Sua gloria » o, in altre parole, « l’incessante lode di gloria » delle Sue adorabili perfezioni » (Ultimo ritiro XVI).

11). È proprio per farci giungere a questo abisso di gloria, nota san Giovanni della Croce, che Dio ci ha creati a Sua immagine e somiglianza… « Anime create per queste meraviglie e chiamate a vederle realizzate in voi, che cosa fate? « In quali miserevoli nulla perdete il vostro tempo. « Le ambizioni vostre non sono che bassezze; i vostri cosiddetti beni non sono che miserie. Come potete non comprendere che, inseguendo le grandezze della gloria terrena, restate sepolte nella indigenza e nell’ignominia? « Mentre questi tesori incalcolabili vi sono riserbati, voi li ignorate, né altro sapete fare che rendervene indegne » (Cantico spirituale – Strofa XXXIX.). Mossa da un medesimo sentimento di tristezza divina, suor Elisabetta della Trinità, la sera del 2 agosto 1906 — quinto anniversario della sua entrata al Carmelo — ripensando a tutte le grazie attinte da questa ininterrotta presenza di Dio e sprecate da tante anime che, invece, avrebbero potuto viverne come lei, aveva esclamato: « Oh, io vorrei poter dire a tutte le anime quale sorgente di forza, di pace e di gioia troverebbero, se acconsentissero a vivere in questa intimità. Ma non sanno attendere; se Dio non si dona ad esse in maniera sensibile, trascurano la Sua santa presenza; e quando Egli giunge ricco di tutti i suoi doni, non trova nessuno: l’anima è assente, dissipata fra le cose esteriori. Non sanno abitare nelle profondità di se stesse » (Lettera alla mamma – 3 agosto 1906).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (11)

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO IV

I figli adottivi di Dio sono dei essi stessi per grazia e partecipazione.

1. È vero, dunque, che chiunque abbia conservato la grazia del suo Battesimo, o che la recuperi dopo averla persa, possa vantarsi di essere veramente un figlio adottivo di Dio, nato da Dio per una generazione spirituale, e trasfigurato nel suo essere ad immagine del Figlio unigenito, di cui è fatto coerede. Ma un figlio adottivo ha il diritto di portare il nome del padre che lo adotta. Dio, che è diventato nostro Padre, ci ha dato pure il suo Nome? Chi oserebbe dire o pensare questo? Non è forse il crimine e l’assurdità del politeismo l’aver comunicato alle creature un nome che è incomunicabile? – Eppure, se do ascolto alla voce dello Spirito Santo lo sento dire ai giusti: « Io, io l’ho detto: voi siete dei e figli dell’Altissimo » (Sal. LXXXI, 6). E nostro Signore, lungi dal contraddire queste parole del salmo, le conferma « Nonne scriptum est in lege vestra, Quia, ego dixi:  Dii estis?» (Joan: X, 34-35). Si dirà che queste parole non debbano essere prese alla lettera, che debbano essere spiegate, e che anniano un significato molto diverso da quello che si affaccia alla nostra mente quando le leggiamo nei Salmi e nel Vangelo. No, non è così. Io porto come garanzia la testimonianza autorizzata dei Santi Dottori e Padri. S. Agostino, nel suo commento al Salmo XLIX, arrivando a queste parole: “il Dio degli dei ha parlato“, le confronta con quelle del Salmo LXXXI, che abbiamo citato prima. (È evidente – dice – che egli chiama gli uomini dèi; ma dèi deificati dalla sua grazia, e non dèi prodotti dalla sua sostanza. Chi si giustifica da sé e non per mezzo di un altro, è giusto; e chi è deificato da se stesso e non da un altro è Dio. Ed è lo stesso che giustifica e deifica, perché giustificare è rendere figli di Dio. Per questo stesso fatto che siamo stati costituiti figli di Dio, siamo stati fatti dèi: dèi, dico, adottati per grazia e non generati per natura » (S. August. in psalm. XLIX). Lo stesso pensiero si trova in un’opera spesso attribuita a Sant’Anselmo, anche se fu scritta da uno dei suoi discepoli: « Dio ci rende dei, poiché Egli stesso ha detto: voi siete dei e siete tutti figli dell’Altissimo, così che Egli è il Dio divinizzante e voi siete dei divinizzati » (Eadmer, L. De similitudinibus, c. 66; Opp.). Torniamo a Sant’Agostino per citare una pagina curiosa che ci rivela sia il suo genio originale che la bonomia arguta e piccante che usava con il suo pubblico di artigiani e pescatori. Il Santo, parlando contro la menzogna, mette insieme due testi della Scrittura, apparentemente opposti tra loro. Il primo è di San Paolo: « Perciò, mettendo da parte ogni falsità, ognuno dica la verità in ogni cosa » (Efes. IV, 25). Ecco il secondo: « Ogni uomo è un bugiardo » (Sal. CXI, 11.). – « Cos’è questo che dice; dunque Dio attraverso il suo Apostolo ci comanda l’impossibile? Oso dirvelo; e non prendetelo come un insulto, poiché lo dico a me stesso: Dio ci comanda di non essere più uomini… Dico di più alla vostra carità; l’Apostolo fa un crimine per gli uomini l’essere uomini. Noi, quando siamo arrabbiati con qualcuno, diciamo: Oh, il bruto (pecus)! Allora Paolo, alzando la frusta del Maestro contro di loro, li rimprovera di essere ancora uomini. Cosa voleva che fossero, quelli che accusa di commettere un crimine con l’essere uomini? Ascoltate: “Poiché c’è gelosia e divisione tra voi, non siete voi carnali e non camminate secondo l’uomo? Perché quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non siete forse uomini? (1 Cor. I, 3-4) » Vedete, li sta rimproverando, dicendo: “Non siete uomini?” Ma, di nuovo, cosa voleva che fossero? Il salmo dice: L’ho detto: voi siete dei e figli dell’Altissimo (Sal. LXXXI, 6-7). Queste sono le parole stesse di Dio. A questa dignità ci invita…  « Se volete essere e rimanere uomini, sarete bugiardi. » Quindi non c’è più bisogno di scusarsi e dire: devo mentire, perché sono un uomo. Ti dico con fiducia: non essere uomo e non mentire più! Cosa? Qualcuno dirà: non devo essere un uomo? No, non dovete!  – Perché questo è ciò che Colui che si è fatto uomo per voi vi invita a fare e ciò che vi ha destinato a fare. Quindi non siate più alterati. Non vi viene detto di cessare di essere un uomo e diventare un bruto, ma di essere uno di quelli a cui Dio ha dato il potere di essere figli di Dio. Dio vuole farti diventare Dio, non per natura come il suo Unico, ma per grazia e per adozione. Proprio come questo Unico si è abbassato per condiscendenza alla nostra mortalità, così vuole farci salire fino alla partecipazione della sua immortalità. Ringraziatelo, dunque, e ricevete con gratitudine l’incomparabile beneficio che un giorno dovrà essere coronato dalla beatitudine eterna. Cessa di essere figlio di Adamo; rivestiti di Cristo, e non sarai più uomo; e cessando di essere uomo, non sarai più bugiardo » (S. Agost. Serm. 166). Altrove scrive in modo più conciso, ma con la stessa forza: « Dio si è fatto uomo, perché l’uomo fosse fatto Dio. Factus est Deus homo, ut homo fieret deus » (Serm. 128, n. 29 in Append. Opp. S. Agost). A questa grande voce del nostro dottore fanno eco tutti i Padri dell’Occidente fino a San Bernardo; e a Tommaso basta raccogliere il loro pensiero comune per scrivere: « Non è stato per se stesso che il Figlio di Dio si è fatto uomo ed è stato circonciso nella carne; il suo scopo era di renderci dei per grazia e di meritare per noi la circoncisione spirituale » (S. Thom-3 p; q, 3. 97, a, 3 ad 2). E ancora: « L’unigenito Figlio di Dio, misericordiosamente geloso di renderci partecipi della sua divinità, prese la nostra natura, così che Dio fatto uomo, fece l’uomo come dei, ut homines deos faceret factus homo » (S. Thom. Offic. SS. Sacram., lect. 4).

2. – Abbiamo sentito l’Occidente proclamare per bocca dei suoi Dottori questo incredibile diritto dei figli adottivi a prendere il nome del Padre, cioè di Dio. Ci hanno anche detto che il grande mistero dell’Incarnazione è stato elaborato nella pienezza dei tempi per ottenerci questa mirabile grazia, e che si riassume in queste poche parole: Dio si è fatto uomo e l’uomo è diventato Dio. – Per sapere quanto questa convinzione sia sempre stata universale nella Chiesa, dobbiamo ascoltare a nostra volta i Padri e i santi d’Oriente. Anche loro vedono nella nostra deificazione la meta prossima della venuta del Verbo incarnato. Questo è ciò che ci insegna San Massimo. Egli ci insegna: « Questa natura, privata delle luci che aveva ricevuto alla sua prima origine, il Verbo di Dio fatto uomo l’ha nuovamente riempita di conoscenza. Egli ha fatto ancor di più: l’ha deificato, indubbiamente non in virtù di un cambiamento di natura, ma per una qualità soprannaturale, e l’impronta del carattere del suo Spirito… Perché se si è fatto uomo, è stato per renderci dei per grazia » (S. Maxim. Conf. Capp. quinquies centenor. Cent. 2, n. 26. P. G. t. 90, p. 1229; col. cent. 1, n. 63; ibid. p. 1204). – Per San Giovanni Damasceno la deificazione dell’uomo era lo scopo che Dio aveva in mente nel crearlo.  « Il fine per cui Dio ci abbia creati, questo fine che corona il mistero della nostra elevazione, è che Egli ha voluto deificarci assimilandoci a sé: deificarci, dico, per la partecipazione della luce divina, e non per una qualche trasmutazione della nostra natura in quella di Dio » (S. J. Damasceno. De fide O. L. II, c. 12 P. G. T. 94, p. 924. Col. Maxim. Capp. Quinquies contenor. N. 41, P. G. t. 90, p. 1193). Notiamo quest’ultimo correttivo, già impiegato da San Massimo: esso è motivato in entrambi dall’eresia di Eutyche dove si delirava in Gesù Cristo la fusione più o meno completa della natura divina e della natura umana. – Gli stessi Padri non potevano contenere gli scoppi della loro gratitudine al pensiero di un tale ineffabile beneficio. « L’uomo – esclama Gregorio di Nissa – l’uomo che per sua natura è cenere, paglia e vanità, Dio, il Padrone di tutte le cose, lo ha elevato dal rango di creatura alla condizione di figlio. Quali ringraziamenti possono eguagliare tale munificenza? Come supera immensamente la sua natura nel diventare Dio da uomo che era! Infatti, diventando figlio di Dio, è grande della grandezza di suo Padre, erede di tutti i beni paterni » (S. Greg. Nyss. de Boatilud, Orat. 7, P. Gr., t. 44, p. 12801). Le grandi eresie del IV secolo in Oriente non hanno contraddetto questa dottrina comune. Il loro crimine non era tanto quello di sminuire l’uomo innalzato dalla grazia, quanto quello di portare quasi al suo livello il Figlio Unigenito o lo Spirito che procede eternamente dal Padre e dal Figlio. Anche i nostri Dottori, forti di questo assenso universale, si poggiarono sulla deificazione dell’uomo rinnovata nel Figlio e dallo Spirito Santo, come un principio indiscutibile, per dimostrare la divinità dell’uno e dell’altro contro coloro che vi si opponevano. – Diamone alcuni esempi, cominciando da San Cirillo di Alessandria. « La creatura – egli scriveva – è uno schiavo e Dio il padrone sovrano. Ma attraverso l’unione che contrae con il suo Signore, questa creatura è liberata dalla sua propria condizione per elevarsi al di sopra di se stessa… Se dunque, essendo schiavi per natura, siamo per grazia figli di Dio e dei, il Verbo di Dio, per mezzo del quale diventiamo dei e figli di Dio, deve essere in tutta verità il Figlio di Dio secondo natura. Infatti, se Egli fosse stato solo un figlio secondo la grazia come noi, non avrebbe potuto comunicarci una grazia simile, perché è impossibile che una creatura dia ad altri ciò che non ha da sé ma da Dio » (S. Cyrill. Alex. in Joan. Stesso ragionamento per stabilire la divinità dello Spirito Santo, Id. Quadrante. VII di Trinit. P. Gr., vol. 75, p. 1089). – È con un argomento simile che San Basilio dimostra che lo Spirito Santo non è solo una sorta di demiurgo, strumento e ministro di Dio per la santificazione delle anime, ma che è della stessa natura del Padre e del Figlio. Prendendo di mira il suo avversario, egli esclama: « Tu sostieni – egli dice – che lo Spirito sia estraneo per natura al Figlio e al Padre. Ma guardate come fa diventare figli di Dio coloro che santifica. Cosa! è per mezzo dello Spirito che si diventa figli di Dio, e lo Spirito sarebbe estraneo al Figlio? È dallo Spirito che sei un dio, e lo Spirito non avrebbe la divinità in sé? » (S. Basilio, adv. Eunom. L. v. Pat. Gr., tt. 29, p. 732). – Sant’Atanasio aveva già colpito gli stessi avversari con lo stesso argomento. « La partecipazione dello Spirito Santo è in noi una partecipazione della natura divina. Sarebbe dunque uno stolto chi dicesse che è di natura creata. Se è sceso sugli uomini, è stato per deificarli. Ora, se Egli deifica, la sua natura è ovviamente la natura stessa di Dio » (S. Athan. ep. ad Serapion. 1, n. 24. Pat. Gr., t. 26, p. 585). – Infine, Gregorio di Nazianzo riassume questa prova in poche parole: « O Trinità – afferma – parlerò audacemente; che mi sia perdonata la mia temerarietà, perché la salvezza dell’anima è in pericolo. Anch’io sono l’immagine di Dio, tutto investito di una gloria superiore, anche se striscio per terra. Non posso credere che la salvezza mi venga portata da uno a me simile. Se lo Spirito Santo non è Dio, che prima si faccia Dio, e poi venga a deificare me, suo pari » (Gregor. Naz. Or. 34, n. 12. P. G., t. 36, p. 252). Che cosa è dunque, o meglio, che cosa dovrebbe essere la creazione per questo teologo per eccellenza: « Dio unito agli dei e familiarmente conosciuto dagli dei » (Greg. Naz. Oppure. 38, n, 7. Pat. Gr. 36, p. 317. Lo stesso Santo, dopo aver descritto la nostra miseria nativa, ricorda con entusiasmo i nostri destini gloriosi in Gesù Cristo: « O Dio, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi? Ma qual è il nuovo mistero che si sta operando in me? Sono piccolo e sono grande; umile e sublime; mortale e immortale; della terra e del cielo. Devo essere sepolto con Cristo e risorgere con Lui, io sono coerede di Cristo, figlio di Dio, dio stesso. Orat.7 in Cæsar. fratrem. n. 23).

3. – « Dio sa che nel giorno in cui mangerete di questo frutto sarete come dei » (Gen. III, 5), aveva detto il tentatore alla madre della razza umana, per risvegliare in ella un orgoglio colpevole; e questa menzogna impudente portò la prima coppia alla rivolta e attraverso di essa ad ogni tipo di disgrazia. Il paganesimo, con la sua mania di divinizzare la natura e gli uomini, la falsa speculazione filosofica con i suoi sogni di panteismo, tutta questa lunga notte nella storia dell’umanità, tutto questo, dico, trova la sua spiegazione in questa parola del tentatore e in questa caduta delle sue vittime. Ovunque vedo l’uomo smarrirsi nella ricerca della divinità; ovunque anche la sua vana e criminale ricerca, lungi dall’elevarlo al di sopra di se stesso, lo prostra ai piedi del suo implacabile nemico. – Questo è ciò che voleva l’angelo ribelle, e ciò che, nella solitudine del deserto, cercò di ottenere dal Salvatore stesso. E Dio ha potuto scagliare contro i figli quella derisione con cui accusò il loro padre: « Vedi Adamo, che è diventato come uno di noi » (Gen. III, 22). Ma ora, per un mirabile consiglio della sua provvidenza, Dio ha deciso, secondo la dottrina dei Padri, di usare per salvare l’uomo quella stessa cosa che lo aveva perduto. È Lui che ora ci propone di essere come dei; Lui la cui promessa è infallibile, e il cui potere è efficace nel fare ciò che promette. Diventate miei figli – ci dice – vivete come miei figli e partecipando alla mia divinità, sarete degli dei; non più oggetti della mia derisione, ma delle eterne mie compiacenze. – Spiegheremo in seguito quale sia la partecipazione della natura divina che, depositata nelle profondità della nostra sostanza, dovrebbe procurarci questo altissimo onore. Nel frattempo, addentriamoci ancora di più nell’alto destino fatto per noi, alla scuola dell’Aeropagita, San Dionigi. Questo grande uomo ci insegna che « il voto dell’indivisibile Trinità, questa fonte di vita, questa sostanza di ogni bontà, è la salvezza di ogni creatura intelligente, sia essa uomo o Angelo. Ora, la salvezza si trova solo nella deificazione del salvato, cioè nell’assimilazione e nell’unione a Dio. » (Dionigi. Areop. de Hier. eccl. c. 1, n. 3. Non devo discutere qui la più che dubbia autenticità delle opere pubblicate sotto questo nome. Mi basta sapere che sono state ammirate dai più grandi geni, come Alberto Magno, San Tommaso d’Aquino e molti altri.). – Egli aggiunge inoltre che, « se il primo movimento che Dio ci imprime verso le cose celesti è il suo amore, questo stesso amore avanza nell’esecuzione dei comandamenti divini, nella misura in cui suppone in noi l’ineffabile produzione di un essere divino, cioè una generazione divina. Pertanto, non bisogna che l’esistenza debba precedere l’operazione, poiché ciò che non è e non ha né movimento né realtà, così come ciò che ha l’essere non è attivo e passivo solo in proporzione al suo stato e alla sua natura? (Ibid., c. 2, parte 1). Così tutto si tiene insieme, filiazione, rigenerazione mediante il Battesimo, partecipazione alla natura divina, stato divino, deificazione dell’essere e delle operazioni; e produrre in noi queste meraviglie della grazia è allo stesso tempo il desiderio più ardente della Santa Trinità, e il fine di tutta la gerarchia sulla terra e in cielo.

LA GRAZIA E LA GLORIA (6)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (9)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (9)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(III)

6) L’esercizio della carità è ancora più necessario di quello della fede. Queste due grandi virtù teologali sono le due ali che ci elevano fino a Dio: credere non basta, bisogna amare… soprattutto’ amare!… Suor Elisabetta della Trinità, come tutti i santi, ha sottolineato fortemente questo primato dell’amore, su cui lo stesso divino Maestro insisteva tanto, facendo risalire la legge, i Profeti e tutti i comandamenti di Dio, a questo primo precetto: «Israele, ascolta… tu amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze» (S. Marco, XII, 29-30 – Deuteronomio, VI-4).Ci troviamo, qui, al punto culminante della dottrina cristiana; è bene fermarci un istante. Niente ci commuove tanto come il constatare con quale fedeltà gli Apostoli, i Padri della Chiesa, i Dottori tutti hanno insistito, senza stancarsi mai, su questo precetto del Signore, il precetto che la Chiesa tramanda a tutti i secoli, senza ripetersi mai. San Giovanni, posando sul petto del Maestro, ne aveva compreso la divina profondità; e quivi si riassumeva, per lui, tutto l’insegnamento di Gesù. Divenuto un vegliardo venerando, il precetto dell’amore era sempre sulle sue labbra, e ai circostanti che, talvolta, se ne stupivano, egli dette una risposta degna del discepolo prediletto: « È il comandamento del Signore; e questo solo basta » (San Gerol.: Galati. Libro III, cap. VI, P. L. XXVI-433). San Paolo insegnava la stessa dottrina quando scriveva: « Camminate nell’amore » (Ephes. V,, 2). «La carità è la pienezza della legge» (Romani, XIII-10.). È noto il celebre motto di sant’Agostino: « Ama et fac quod vis. Ama, e poi fa’ ciò che vuoi »; e dopo di lui, san Bernardo, nel suo trattato: « De diligendo Deo » ripeteva che « la misura di amare Dio è di amarlo senza misura ». San Domenico, patriarca di una grande famiglia intellettuale, confessava: « Ho studiato nel libro della carità più che in ogni altro libro: l’amore insegna tutto » (Vitæ fratrum, lib. II, cap 5). E san Tommaso, brevemente: « L’amore è la vita dell’anima » (San Tommaso II-II, q. 23, a. 2 ad 2.). C’è bisogno di altre citazioni? Tutto il linguaggio dei santi non è che una parafrasi del comandamento dell’amore. Santa Teresa affermava che, per le anime giunte alla vetta della perfezione, «l’unico ufficio è quello di amare » (« Castello interiore», VI e VII dimora. E san Giovanni della Croce: «Cantico », strofa XXVIII.). San Giovanni della Croce, il dottore dell’Amore più ancora che delle « Notti oscure », scriveva: « Al tramonto della vita, saremo giudicati sull’amore » (Silverio: Obras t. 3 p. 238). E dopo venti secoli, facendo eco alla grande parola del suo » Maestro: « Diliges (Matth. XXII, 37), vivi di amore », santa Teresa di Gesù Bambino ha lasciato al mondo moderno il suo bel cantico: « Vivere d’amore ». Equivale a dire che esso è la quintessenza del Cristianesimo; e san Francesco di Sales, nella prefazione al « Trattato dell’amore di Dio », suo capolavoro, dichiara: « Nella santa Chiesa, tutto è dell’amore, nell’amore, per l’amore e dall’amore ». La ragione è semplice: la carità ci stabilisce nello stato di amicizia con Dio. Tutte le ricchezze della Trinità divengono nostre per mezzo della grazia, e noi entriamo veramente in « società » col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo; ci è dato, così, il potere di « gioire » (San Tommaso I, q. 43, art. 3, ad 1) delle Persone divine. Questo commercio fra Dio e l’anima si svolge secondo le leggi più pure dell’amicizia: Dio si dona e ci comunica la sua propria beatitudine; l’uomo, in ricambio, ama Dio come un Amico, infinitamente più di se stesso, e pone la sua suprema felicità in quella del suo Dio. – Suor Elisabetta aveva fatto «sua» la dottrina del Maestro; e ritornava di preferenza alla frase di san Giovanni: « Noi siamo di quelli che hanno creduto all’amore ». Si può anzi affermare, senza timore di esagerazione, che essa aveva posto tutta la sua vita spirituale sotto la luce dell’« eccessivo amore » di cui parla san Paolo. « Sento tanto peso di amore sull’anima mia! È come un oceano nel quale mi inabisso, mi perdo; è la mia visione della terra, in attesa del «faccia a faccia» nella luce. Egli è in me; io sono in Lui; non ho che amarlo, lasciarmi amare; e questo sempre, in tutto e nonostante tutto: svegliarmi nell’amore, muovermi nell’amore, addormentarmi nell’amore, l’anima nell’anima sua, il mio cuore nel suo cuore, affinché il suo contatto mi purifichi, mi liberi dalla mia miseria… (Lettera al Canonico A… – Agosto 1903). « Notte e giorno, nel cielo dell’anima sua, ella vuol cantare l’amore del suo Dio » (Lettera al Canonico A… – Giugno 1906.). « Non ho più che un desiderio: amarlo, amarlo senza interruzione, zelare l’onore suo come una vera sposa, formare le sue delizie, renderlo contento, dandogli una dimora e un rifugio nell’anima mia, dove voglio fargli dimenticare, a, forza d’amore, tutte le abominazioni dei cattivi » (Lettera alla signora A… – 15 febbraio 1903). « Egli mi ha amato, si è dato per me» (Galati II, 20.). Questo, dunque, è il culmine dell’amore: donarsi, passare interamente in Colui che si ama; l’amore fa uscire di sé l’amante per trasportarlo, in un’estasi ineffabile, nel seno dell’amato. Oh, non è immensamente bello questo pensiero? Sia esso come un motto luminoso per le anime nostre; che esse si lascino in balìa dello Spirito d’amore e alla luce della fede, intonino già coi beati l’inno d’amore che eternamente si canta dinanzi al trono dell’Agnello. Sì, cominciamo il nostro cielo nell’amore. Quest’amore è Lui; ce lo dice san Giovanni: « Deus charitas est ». Rimaniamo nel Suo amore e che il Suo amore sia in noi » (Lettera alla signora A… – 15 febbraio 1904.). – Come Teresa di Gesù Bambino e forse sotto l’influenza ricevuta dalla lettura della « Storia di un’anima », anche ella ha trovato la sua vocazione nell’amore: «…Voglio essere santa, santa per farlo contento; chiedigli che io non viva più che di amore; è la mia vocazione » (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903.). « Credo sia proprio l’amore che non ci consente di rimanere a lungo quaggiù; e, del resto, san Giovanni della Croce lo dice chiaramente; ha un capitolo meraviglioso in cui descrive la morte delle anime vittime di amore, gli ultimi assalti che esso vibra loro, poi le onde fluenti dell’anima che va a perdersi nell’oceano del divino amore: onde che sembrano già dei mari, tanto sono immense. San Paolo dice che « il nostro Dio è un fuoco consumante » (Ebrei, XII-29). Se noi ci teniamo sempre unite a Lui con uno sguardo di fede semplice e piena d’amore se, come il nostro adorato Maestro, possiamo dire alla sera di ogni giornata: « Poiché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (San Giovanni, VIII-29). Egli veramente ci consumerà, e noi andremo a perderci in quella immensa « fornace ardente » d’amore ove potremo bruciare a nostro agio per tutta quanta l’eternità » (97(A C. B. – 1906). – Nel momento in cui tutto muore in lei, si manifesta più fulgido che mai questo primato dell’amore. Riceve il sacerdote che le reca l’Estrema Unzione, esclamando: « 0 Amore!… Amore!… Amore!… ». Prima di volarsene al suo Dio, scrive ad una amica: « L’ora si avvicina, in cui sto per passare da questo mondo al Padre; e, prima di partire, voglio mandarvi una parola del cuore, un testamento dell’anima mia. Il cuore del divino Maestro non fu mai così traboccante d’amore come nell’ora suprema in cui stava per lasciare i suoi; e qualche cosa di analogo mi pare avvenga nella sua piccola sposa in questa sera della sua vita; sento quasi un fiume di tenerezza salire dal mio cuore per effondersi nel vostro cuore… Alla luce dell’eternità, l’anima vede le cose dal vero punto di vista; vede come tutto ciò che non è stato fatto per Dio e con Dio è nulla. Ponete su tutto, vi prego, il sigillo dell’amore: questo solo rimane » (Lettera alla signora De B… – 1906.). E lo stesso consiglio rivolge alle sue consorelle che, riunite attorno a lei morente, recitano le preghiere degli agonizzanti: « Al tramonto della vita, tutto passa; l’amore solo resta. Bisogna fare tutto per amore ». Per suor Elisabetta della Trinità, dunque, tutta la dottrina pratica dell’inabitazione divina si riassume in un continuo scambio di amore: « C’è un Essere che si chiama l’Amore e che vuole farci vivere in società con Lui » (Lettera alla mamma – 20 ottobre 1906.).

7) L’esercizio della presenza di Dio non è riserbato alle sole anime contemplative; la grazia del Battesimo mette la Trinità santa in ciascuna delle nostre anime. « Questa « parte migliore » che sembra essere un privilegio mio nella mia diletta solitudine del Carmelo, è offerta da Dio a ciascuna anima battezzata » (Lettera alla signora De S… – 25 luglio 1902.). Basta aderire a Lui con la fede, la carità, la pratica delle virtù cristiane. Alcuni credono che, per vivere alla presenza di Dio, si debbano tenere gli occhi chiusi e prendere un fare compassato. Niente di più ridicolo. Se è vero che la vita spirituale e, per conseguenza «il regno di Dio che è tutto interiore, non consiste nel cibo e nella bevanda » (Romani, XIV-17), come ci fa notare l’Apostolo san Paolo, tuttavia Egli stesso ci avverte che anche in questo noi possiamo lodare magnificamente il Signore. San Giovanni Bosco faceva le capriole insieme ai suoi ragazzi, e suor Elisabetta della Trinità sapeva, nelle ore di ricreazione, assumere con grazia atteggiamenti vari e scherzosi; eppure, né l’uno né l’altra perdevano, per questo, la presenza di Dio. L’essenziale sta nell’intenzione che bisogna custodire rivolta sempre a Lui, quanto più attualmente è possibile. E proprio qui incomincia la differenza fra i santi e noi. I santi, in tutte le loro azioni, cercano la gloria di Dio « sia che mangino, sia che bevano » (I Corinti, X-31), mentre molte anime cristiane non sanno più trovare Dio neppure nell’orazione, perché complicano tutto, e si immaginano che la vita spirituale sia qualche cosa di inaccessibile, riservata a un piccolissimo numero di anime previlegiate, dette « anime mistiche ». La vera mistica è quella del santo Battesimo, con lo sguardo alla Trinità e col sigillo del Crocifisso, cioè nella via ordinaria della croce quotidiana. Suor Elisabetta sapeva insistere su questo punto con le anime che le erano spiritualmente unite, ma che il Signore tratteneva nel mondo: «Voi vorreste essere tutta sua, quantunque nel mondo; la cosa è semplicissima: Egli è sempre con voi; siate voi pure sempre con Lui. In tutte le vostre azioni, in tutte le vostre pene, quando il corpo è affranto, rimanete sotto la luce del Suo sguardo, Scorgetelo vivente nell’anima vostra » (Lettera alla signora A… – 29 settembre 1902). Nulla può impedirci di aderire a Lui con l’amore, né le gioie né le tristezze della terra, né la salute né la malattia, né le lusinghe o la malizia degli uomini…, nulla; e «nemmeno i nostri peccati » (Ultimo ritiro – 7° giorno), aggiunge suor Elisabetta della Trinità, facendo eco all’espressione ardita di sant’Agostino, nel suo commento all’epistola di san Paolo ai Romani: « Tutto concorre al bene di coloro che vogliono amare Dio »; sì, tutto, « etiam peccata », anche il peccato; perché il perdono che lo assolve glorifica la divina misericordia, e perché la coscienza della propria debolezza che essa dà all’anima, la pone e la mantiene nell’umiltà. Suor Elisabetta non complica le cose. Per vivere di questo grande mistero dell’inabitazione divina essa non dà che un consiglio pratico: « Fare atti di raccoglimento alla Sua presenza ». « Mammina mia, approfitta della tua solitudine per raccoglierti col buon Dio. Mentre il tuo corpo riposa, pensa che è Lui il riposo dell’anima tua; e, come il bimbo è felice tra le braccia della mamma, così tu trova il tuo sollievo nelle braccia di quel Dio che da ogni parte ti avvolge. Noi non possiamo uscire da Lui, ma ahimè, quante volte dimentichiamo la sua santa presenza e lo lasciamo solo, per occuparci di ciò che non è Lui! Ed è invece così semplice questa intimità con Dio; non stanca, anzi riposa, come soave è il riposo del bimbo sotto lo sguardo della mamma. Offrigli tutte le tue pene; e sarà, questa, una maniera tanto bella di unirti a Lui, e una preghiera a Lui tanto cara » (Alla mamma – 30 luglio 1906). « Sai? c’è un’espressione, in san Paolo, che è come il riassunto della mia vita e che potrebbe applicarsi a ciascuno dei miei istanti: « Propter nimiam charitatem » (Efesini, II-4). Sì; tutti questi torrenti di grazia hanno un solo perché: « Perché Egli mi ha troppo amata ». « Oh, mamma, amiamolo, viviamo con Lui come con l’Essere amato da cui non è possibile separarsi! Mi dirai, nevvero?, se fai dei progressi nella via del raccoglimento alla presenza di Dio; perché tu sai ch’io sono la « mammina » dell’anima tua, quindi piena di sollecitudine per essa. Ricorda le parole del Vangelo: « Il regno di Dio è in voi » (San Luca, XVII, 21), ed entra in questo piccolo regno per adorarvi il Sovrano che vi risiede come nella propria reggia » (Lettera alla mamma – Giugno 1906). Per segnare questi atti di raccoglimento, suor Elisabetta le aveva preparato un coroncino e, in una lettera, si informava se la mamma era fedele nell’usarlo: « Dimmi se i piccoli grani degli atti di presenza di Dio scorrono fedelmente ».

8) Due lettere sono particolarmente rivelatrici dei metodi che usava lei stessa e della sua psicologia dinanzi a questo mistero dell’inabitazione divina che fu il tutto della sua vita. La prima è indirizzata ad una giovane amica, natura straordinariamente ricca, ma indole ancora capricciosa ed irrequieta che faceva soffrire chi le viveva accanto. Con tenerezza tutta materna, suor Elisabetta interviene: « Sì, Prego per te e ti porto nell’anima mia, vicina vicina al buon Dio, in questo piccolo santuario così intimo in cui Lo trovo ad ogni ora del giorno e della notte; vedi: io non sono mai sola; il mio Cristo è sempre qui che prega in me, ed io prego con Lui. Mi fai pena, mia piccola cara, perché sento che sei infelice; e lo sei per colpa tua, credimi. Mettiti calma: io non ti credo affatto « nevrastenica », ma snervata e sovreccitata; e quando sei così, fai soffrire anche gli altri. Oh, se potessi insegnarti il segreto della felicità come il Signore l’ha insegnato a me! Tu dici che io non ho né preoccupazioni, né dolori; ed è vero, che sono proprio felice; ma se tu sapessi come si può essere altrettanto felici, anche quando si è contrariati! Bisogna guardare sempre a Dio. Da principio costa molto sforzo, quando si sente ribollire tutto, di dentro; ma poi piano piano, a forza di pazienza e con l’aiuto della grazia, vi si giunge. Provati a edificare, come ho fatto io, una celletta nell’anima tua; e, pensando che lì c’è Dio, éntravi di tanto in tanto; quando ti senti nervosa, triste, rifugiati subito là e confida tutto a Gesù. Se tu lo conoscessi un poco, la preghiera non ti annoierebbe più; essa è un riposo, un sollievo, è un andare con tutta semplicità da Colui che amiamo, è uno starsene vicino a Lui come un bimbo nelle braccia della mamma, e lasciare effondere il proprio cuore. Ricordi?… Ti piaceva tanto sederti vicina a me e confidarmi il tuo cuore. Così devi fare con Lui; se tu sapessi come Egli ti comprende! Oh, se tu lo sapessi, non soffriresti più. Questo, vedi, è il segreto della vita Carmelitana, che è una incessante comunione con Dio. Se Egli non riempisse le nostre celle e i nostri chiostri, come tutto sarebbe vuoto! Ma noi Lo vediamo in ogni cosa, perché Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un paradiso anticipato » ((7°) Lettera a F. de S… – 1904). – La seconda lettera è indirizzata alla mamma. Suor Elisabetta non soleva precipitare gli avvenimenti, né forzare le persone; ma sapeva attendere, pur senza negligenza l’ora di Dio. Ci volle il dolore prodotto dalla crisi che aveva fatto temere di perderla, per consentirle di entrare profondamente nell’anima della mamma sua e prenderne possesso. In una conversazione che credevano l’ultima, il cuore della mamma e quello della figlia, a lungo si erano incontrati e compresi fino a quel grado di intimità in cui coloro che si amano sentono che tutto sta per finire. Suor Elisabetta ne approfittò per iniziare la mamma sua che amava tanto al segreto della sua vita interiore; e fu per le loro anime il punto « di partenza di una forma di amicizia nuova, tutta divina, sotto lo sguardo di Dio. Il giorno dopo questo colloquio, le scrisse una lettera che si può considerare un vero, piccolo catechismo della presenza di Dio: « Se alcuno mi ama, custodirà la mia parola, e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora » (San Giovanni, XIV-23). « Mammina mia tanto cara, oggi comincio la mia lettera con una dichiarazione. Sai! ti amavo già tanto, ma dopo il nostro ultimo colloquio, il mio affetto per te è cresciuto ancora, immensamente. Era così dolce espandere la propria anima in quella della mamma, e sentirle vibrare all’unisono! Mi pare che il mio amore per te sia, non soltanto quello di una figliola per la più buona e la più cara delle madri, ma anche quello di una mamma per la sua bimba. Io sono la mammina dell’anima tua; e tu me lo concedi, non è vero? Noi siamo in ritiro per prepararci alla festa di Pentecoste; ed io lo sono ancor più delle mie consorelle, qui, nel mio caro piccolo cenacolo, separata da tutte. Chiedo allo Spirito Santo di rivelarti quella presenza di Dio in te, della quale ti ho parlato. Ho esaminato per te dei libri che trattano questo argomento, ma preferisco rivederti, prima di darteli. « Presta pur fede alla mia dottrina, perché essa non è mia ». – « Se leggerai il Vangelo di san Giovanni, vedrai come spesso Gesù insiste su questo comando: « Rimanete in me. ed io in voi » (San Giovanni, XV-4.), e sul pensiero tanto bello che ho scritto al principio di questa mia lettera, nel quale Egli ci promette di « fare in noi la sua dimora ». Nelle sue epistole, san Giovanni ci esorta a vivere « in società con la Trinità Santa » (San Giovanni, I-3). Questa parola è così semplice, e così soave! Basta credere, ci dice san Paolo. « Dio è spirito »  (San Giovanni, IV-24) e noi ci avviciniamo a Lui mediante la fede. Pensa che l’anima tua è « il tempio di Dio » (Corinti, VI-16): è ancora san Paolo che te lo dice. Ad ogni istante del giorno e della notte, le tre Persone divine abitano in te; e, se non possiedi di continuo l’Umanità santissima come allorché ti comunichi, porti sempre però nell’anima tua la Divinità, quell’Essenza ineffabile che i beati adorano in cielo. Quando si sa tutto questo, si stabilisce fra Dio e noi una intimità adorabile; non si è più soli, mai. Se preferisci pensare che Dio è vicinissimo a te, piuttosto che in te, segui pure la tua attrattiva, purché tu viva con Lui. Non dimenticarti di usare il coroncino che ho fatto apposta per te, con tanto amore; e poi, spero che farai quelle tre orazioni di cinque minuti, nel mio piccolo santuario. – Pensa che tu sei con Lui; e comportati come con una persona che ti è molto cara; la cosa è tanto semplice: non c’è bisogno di bei pensieri, basta l’effusione del cuore » (Lettera alla mamma – Giugno 1906.).

9) Ma non si pensa poi, come si dovrebbe, che questa divina presenza recata all’anima cristiana dalla grazia del santo Battesimo è in continuo progresso. Ogni nuovo grado di grazia santificante porta una nuova presenza della Trinità (San Tommaso I, q. 43, a. 6, ad 2). Non già che Dio cambi: ma l’anima, facendosi sempre più divina, entra in comunicazioni sempre più intime con ciascuna Persona della Trinità Santa. Il Padre è più intimamente presente, a misura che la grazia di adozione comunica all’anima una somiglianza maggiore con la natura divina. Il Verbo diviene più presente all’anima, a misura che questa, illuminata dai Suoi doni, non sa più vedere le cose divine ed umane se non in Colui che è la Sapienza increata, la Luce sostanziale, l’eterno Pensiero in cui Dio esprime tutto ciò che Egli vede: la Trinità e l’universo. L’Amore è sempre più presente a misura che l’anima spogliandosi di se stessa e di ogni affetto terreno, non si lascia più guidare che dagli impulsi di questo Spirito il Quale compie in Dio il ciclo della vita trinitaria. La teologia non ha titubanze su questo punto nel suo insegnamento; ed afferma che la presenza della Trinità in un’anima, cresce nella misura delle grazie ricevute, specialmente in certi periodi in cui Dio viene a visitarla con grazie straordinarie: grazie della professione religiosa o del sacerdozio, grazie di purificazioni passive, grazie mistiche che elevano l’anima di grado in grado, fino all’unione trasformante. – Suor Elisabetta della Trinità non insiste su questa dottrina capitale e che regola tutto il progresso della nostra vita spirituale sulla terra; ma alla sua maniera, per un altro sentiero, la ritrova e le dà particolare rilievo. Scrive infatti: « Egli vuole che là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità ma fin d’ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso » (« Il paradiso sulla terra », I-1.).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (10)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO III.

Preminenza molteplice dell’adozione divina rispetto alle adozioni umane.

È il momento di gettare uno sguardo all’indietro per mostrare con ciò che abbiamo visto come l’adozione divina differisca dalle adozioni umane. Adottare è concedere spontaneamente ad una persona estranea per origine, il titolo di figlio ed i diritti di erede. Con l’adozione perfetta il soggetto di questo favore entra così bene nella famiglia del padre adottivo che gode delle stesse prerogative come se gli appartenesse, non per privilegio, ma in virtù della sua nascita. Questo è ciò che Dio fa per amore, ed è così che ci adotta. Sì, entriamo nella sua famiglia benedetta, e per la sua grazia apparteniamo alla società del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa è la dottrina dei nostri Libri Sacri, e la nostra infinita consolazione e gloria è che non possiamo dubitarne, dopo tante solenni affermazioni. « Fedeli a Dio, per mezzo del quale siete stati chiamati alla Società con Gesù Cristo nostro Signore », scrive San Paolo ai fedeli di Corinto (1 Cor. I, 9). E S. Giovanni, l’Apostolo dell’amore: « Quello che abbiamo visto e udito ve lo annunciamo, perché entriate voi stessi in società con noi, e perché la nostra società sia con il Padre e con suo Figlio Gesù Cristo » (1 Gv. I, 3). Ma ammiriamo le differenze tra l’adozione umana e l’adozione divina, e vediamo come la seconda sotto ogni aspetto e da ogni punto di vista superi incomparabilmente la prima.

1. – In primo luogo, trovo che da parte di Dio l’adozione è infinitamente più spontanea, più un’opera d’amore, che da parte degli uomini. S. Agostino ci ha detto che ciò che ha introdotto l’adozione tra gli uomini sia stata o l’intimità naturale dei genitori, o la perdita e talvolta l’indegnità dei figli che Dio aveva dato loro. La natura rifiuta che i bambini, desiderati in casa, siano da lì portati via; lo si fa per scelta e per amore. Ci può essere qualche figlio, indegno del nome che porta, i cui crimini lo hanno estromesso dalla famiglia, come avviene ancora in Estremo Oriente: lo si rimpiazza con uno più degno, talmente che l’interesse proprio non abbia meno parte all’adozione che la benevolenza e l’amore. – Certamente, questo non è il caso del nostro grande Dio, quando vuole scegliere dei figli adottivi tra le sue creature. Da tutta l’eternità Egli ha generato un Figlio uguale a se stesso; un Figlio che delizia il suo cuore e riempie tutta la sua capacità di amare, così come esaurisce, per così dire, la fecondità del Padre; un Figlio, in una parola, che Egli ama e che lo ama di un amore tale che, amandosi, producono lo Spirito Santo, pegno e vincolo infinito del loro amore infinito. Qual dispiacere ha mai causato quest’Unico a suo Padre, e che bisogno Egli potrebbe avere di un altro figlio per essere eternamente felice, eternamente perfetto? Da dove viene, quindi, che avendo un Figlio, nato dalle sue viscere, un Figlio, l’oggetto più degno della sua indulgenza, Egli voglia tuttavia adottarci? Se non è ovviamente né l’indigenza né la necessità che vi obblighi, quale altra ragione può avere se non la sovrabbondanza infinita del suo amore? Certamente, l’Apostolo S. Giacomo ha detto con verità: “Voluntarie genuit nos“; Egli ci ha generati con la sua Volontà; una volontà libera, una volontà spontanea, una volontà gratuita ed amorosa, che lo ha portato a dare fratelli al suo Unico, e coeredi al diletto del suo cuore. (Bossuet, sermone per la festa del Rosario, 1° punto). – L’effusione della sua bontà non si ferma però qui. Non contento di unire al proprio Figlio i figli che adotta per misericordia, Dio consegna questo Figlio alla morte per dare alla luce gli adottivi. E non sono io a dire questo: è Gesù Cristo stesso che ce lo insegna nel Vangelo. « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché quelli che credono non periscano, ma abbiano la vita eterna » (Joan. III, 15). Vedete: offre il Figlio proprio per far vivere i figli d’adozione, e la stessa carità che lo abbandona e lo sacrifica, ci adotta, ci rigenera e ci vivifica. Ecco, dunque, di nuovo la nostra adozione alla sua fonte: l’amore infinitamente disinteressato del Padre. – A questo si aggiunga l’amore non meno disinteressato del Figlio. Se è stato offerto dal Padre suo, Egli stesso si è offerto; e ognuno dei figli dell’adozione può e deve ripetere appresso a S. Paolo: « Se io vivo, anzi se Gesù Cristo vive in me… è perché Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal. II, 20). Quanto è vero, quanto è urgente l’invito dello stesso Apostolo ai Cristiani di Efeso: « Siate imitatori di Dio, come figli amati, e camminate nell’amore, come Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi come offerta a Dio e come Ostia di odore soave » (Efesini V, 1-2). « Egli ci ha volontariamente generati con il Verbo di verità », cioè, secondo un’interpretazione molto plausibile del testo, da suo Figlio. Se fossimo stati solo servi, sarebbe stata già una grazia incomparabile; ma schiavi per natura, eravamo ancor più una razza decaduta, ribelle, decisamente indegna dei favori divini. E di quanti oltraggi personali abbiamo aggravato l’ingiuria fatta a Dio per mezzo del capo e rappresentante della famiglia umana. Ed ecco su quale letamaio Dio stesso è venuto a prenderci, per elevarci al rango di principi del suo popolo (Sal. CXII, 7), cioè, tra i suoi figli adottivi che sono rimasti immutabilmente fedeli a Lui che li aveva creati nella giustizia.

2. – Più gratuita, più opera d’amore delle adozioni umane, l’adozione divina le sopravanza ancora in efficacia (S. Th., III p. q. 23, a, 1). Così è delle opere di Dio come della sue perfezioni. Quand’anche le une e le altre abbiano qualche rapporto con le nostre perfezioni e le opere delle nostre mani, esse sono sempre infinitamente superiori per la loro singolare eccellenza. Non devo mostrare qui quanto le perfezioni di Dio sorpassino le nostre: la Sapienza di Dio, la nostra sapienza; la sua giustizia, la nostra giustizia; la sua bontà, la bontà della creatura, per quanto grande noi supponiamo che sia. Ma per comprendere l’argomento che ci occupa, dobbiamo insistere sul confronto delle opere, o meglio ancora sui loro contrasti. Accanto alle creazioni di Dio, ci sono quelle che si chiamano le creazioni dell’uomo. I nomi sono comuni, ma nelle cose che differenza! L’atto creativo di Dio cerca il fine della sua attività fin dal nulla, mentre tutto il genio dell’uomo è impotente a fare dal nulla il più piccolo granello di polvere. – Dio e l’uomo possono affidare ad altri una parte della loro autorità, da esercitare sotto la loro dipendenza. Ma, se il Superiore è un uomo, l’azione con cui comunica il suo potere non penetra nelle profondità dell’essere per cambiarlo internamente; nessun perfezionamento fisico né nel corpo né nell’anima, risponde a questa comunicazione di autorità.  Tali non sono le attribuzioni di poteri fatte dalla munificenza del nostro Dio. Se dice all’uomo: «Tu dominerai sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie che si muovono sulla faccia della terra », gli dà la ragione del governarli, del dirigerli ed usarli (Gen. I, 28). Se, in un ordine superiore, Egli vuole che gli uomini ricevano e conferiscano i sacramenti della Chiesa per la loro propria santificazione e per la salvezza dei loro fratelli, questo potere di riceverli e questo potere di conferirli comporta per i battezzati che ricevono e per i ministri del santuario che conferiscono, una perfezione altrettanto reale e altrettanto vera del nostro potere di conoscere e di volere, il carattere sacramentale. – L’uomo può insegnare all’uomo. Ma come insegna? Tutta la sua azione si riduce immediatamente a segni esterni. È una direzione per l’intelligenza del discepolo; ma la parola del maestro non arriva direttamente all’intelligenza per risvegliarla, rafforzarla, crearla. L’insegnamento che Dio dà alla sua creatura è diverso. Egli è il Maestro che illumina producendo in essa il potere stesso di conoscere e di sentire (Giovanni I, 9); il Maestro che penetra quanto vuole anche nelle ultime pieghe dell’intelligenza per far nascere nuove idee, le più alte, le più luminose, in assenza di qualsiasi segno, indipendentemente da qualsiasi concorso preventivo degli Organi, nel silenzio di tutto ciò che non è Lui. Nostro Signore ci dice dunque che Lui è il Maestro davanti al quale tutti gli altri maestri sono come se non lo fossero, Egli il grande, l’Unico Maestro della creatura ragionevole. « Non lasciatevi chiamare maestri, perché non avete che un solo Maestro, il Cristo » (Matt. XVIII, 10). – Dove ci conducono queste considerazioni, se non a concludere che la paternità, quando è Dio che si fa dei figli, debba prevalere in efficacia su ogni altra paternità di adozione. Perché l’uomo che adotta il suo simile non comunica nulla di intrinseco al bambino che fa suo, né la sua natura, poiché questo bambino è un uomo come lui; né le qualità che possono determinare la sua scelta, poiché questa scelta le suppone e le motiva. Impotente nel dargli una salute più fiorente, un Sangue più generoso e più puro, una mente più viva, non gli da altro con il suo amore che un titolo e dei diritti: il titolo di figlio, i diritti di erede. Ben diversa è la condotta e l’amore del nostro Dio, quando per la sua grazia si degna di allargare il cerchio della sua famiglia e di scegliere per sé dei figli di predilezione. Ed è questo che dobbiamo studiare più particolarmente, alla scuola del Dottore Angelico. San Tommaso fa notare che c’è una differenza essenziale tra l’amore del Creatore e quello della creatura. Ciò che muove la volontà dell’uomo è il bene che preesiste nelle persone o nelle cose; ne consegue che l’amore umano non causa la bontà di ciò che ama, ma la presuppone in parte o addirittura in tutto. Al contrario, l’amore di Dio produce il bene nel suo termine per renderlo degno della sua compiacenza. Ciò che ama in se stesso non è ciò che trova, ma ciò che porta. Amare, per Dio, è volere e fare il bene. Quando diciamo che Dio ha più o meno amore, il più o il meno non deve essere inteso nel senso di una maggiore o minore intensità nell’atto con cui ama: poiché Egli ama tutte le cose e se stesso con un solo e medesimo atto, sempre semplice e sempre immutabile, che non è altro che la sua stessa essenza. Ma questo più e questo meno si riferiscono ai beni che Egli conferisce a coloro che ama (S. Thom.1 p, q. 20 a. 2 e 3). – Perciò, per amare gli uomini con questo amore speciale che li rende figli di adozione, è necessario che Egli li trasformi arricchendoli di perfezioni interiori e molto reali, in relazione all’amore che porta loro e alla dignità che conferisce loro (S. Th. C. Gent. L. III, c. 150, n. 2; de Verit. Q. 27, a, 1). – E questo è chiaramente ciò che ci dicono sia la Sacra Scrittura che i nostri Dottori nei testi già citati. Come capire una nuova nascita, una rigenerazione, una creazione, un rinnovamento di tutti noi stessi senza un cambiamento interiore? È possibile riparare nell’uomo l’immagine di Dio, renderlo parte della natura divina, rifarlo, ricrearlo, rifondarlo (tutte espressioni usate dagli Scrittori Sacri e dai Padri), e non aggiungere nulla di reale al suo essere? No, senza dubbio (Sup. I, 1, c. 2, p. 18-31). Si può discutere sulla natura di questa sublime metamorfosi, e avremo occasione di scartare le opinioni meno sicure per sostituirle con la vera dottrina. Ma da questo momento si impone una Conclusione: l’adozione divina è eccellentemente più efficace di tutte le adozioni umane.

3. – In terzo luogo, aggiungiamo che è infinitamente fruttuoso. « Se siete figli, siete eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo » (Rom. VIII, 18). Qual è il bene di Dio? Dio stesso! Sarebbe Egli Dio se dovesse cercare fuori di sé la sua ricchezza e il suo tesoro? Conoscersi infinitamente, amarsi infinitamente, è per lui possedere il bene sovrano, la sua infinita ricchezza e il suo tesoro; possederlo, dico, nella sua pienezza. E poiché questa contemplazione e questo amore di se stesso sono Se stesso, da ciò deriva che Dio non solo è felice e ricco, ma è la sua stessa ricchezza, e la sua stessa beatitudine (S. Thom. C. Gent. L. I, C. 41 e 101). In virtù dell’ineffabile trasformazione che ci fa entrare come figli nella famiglia di Dio, noi poveri e miserabili come siamo, noi abbiamo in noi il diritto di partecipare un giorno alla beatitudine di Dio, a quel godimento che Egli ha di se stesso attraverso la visione e l’amore. Così, facendoci suoi figli, ci consacra suoi eredi, poiché ci chiama a possedere con Lui il Bene supremo. Una ricca, una splendida eredità (Sal. XV, 6): cosa sono, se comparate a Lui, le eredità terrestri? – Eredi di Dio; coeredi di Gesù Cristo; poiché questa è anche l’eredità che l’Unico ricevette come uomo, quando divenne nella sua umanità « plenus gratiæ et veritatis, pieno di grazia e di verità » (Joan, I, 14). Più tardi cercheremo di formarci un’idea meno confusa delle ricchezze indicibili che Dio riserva ai suoi figli adottivi; ma è già una conoscenza molto alta di esse sapere che sono al di sopra di tutto ciò che la mente dell’uomo possa immaginare e il suo cuore desiderare. – Qui, qualche lettore potrebbe fermarsi a considerare questa speciosa obiezione. Se sono solo un figlio per adozione, e, quindi, se non ho in me la natura stessa di mio padre, né la bontà né la bellezza divina sono mie. Non è infatti la mia ricchezza, ma solo quella di Dio. Senza dubbio, risponderei, queste perfezioni non saranno mai le nostre: né la saggezza, né la giustizia, né la grandezza, né l’onnipotenza, né, per dirla in una parola, l’essere sussistente, l’essere che non essendo che essere è tutto l’essere, può diventare la mia saggezza, la mia giustizia, la mia grandezza, la mia potenza, il mio essere. Ma non è meno vero che questa bontà suprema può essere il mio possesso, e di conseguenza la mia eredità. Perché cos’è possedere pienamente una cosa, se non goderne secondo la propria volontà; goderne immutabilmente, senza che nulla ci separi mai da essa? Cosa importa che questo campo non sia di mia proprietà, se sono assolutamente sicuro di conservarne sempre l’usufrutto ed il godimento? Ora, il godimento e il possesso della Verità Suprema e della Bellezza Sovrana consistono nel conoscerle ed amarle. Perciò, possedendo Dio attraverso la conoscenza e l’amore, entro veramente nel godimento; e sono un erede: un erede di diritto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; un erede di diritto e di fatto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; erede di diritto e di fatto, se muoio con la stessa grazia. « Ma, amati, ora siamo figli di Dio; ma ciò che saremo non appare ancora. Sappiamo che quando apparirà, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è » (I Joan. III, 2).

4. – È qui che dobbiamo ancora ammirare un’ultima prerogativa che chiamerò, in mancanza di un altro nome, la singolarità dell’adozione divina. Tra gli uomini, l’adozione, quando suppone qualche bambino nella famiglia, non può avvenire senza portargli pregiudizio o causargli dispiacere. A volte soffrirà nel suo onore, e, se l’onore è salvo, almeno soffrirà una divisione con un altro nell’eredità paterna e nell’amore. Non c’è niente del genere da temere invece, quando si tratta di adozioni divine. Mi chiedo: quale danno e quale dispiacere può ricevere il Figlio secondo la natura, Gesù Cristo Nostro Signore, dai fratelli che suo Padre si degnerà di dargli? Un pregiudizio: ma non resta ancora l’unico Figlio di Dio? È Lui stesso meno perfetto, meno santo, meno potente, meno Dio? Ditemi, quale prerogativa perde, e se cessa di essere infinitamente amato da un amore infinito? Un dispiacere; ma questa adozione, chi l’ha voluta, chi l’ha fatta, chi ha pagato con il Suo Sangue, volontariamente, liberamente, se non Lui? – La gloria di Dio è che Egli è così grande, così buono, talmente bello, così ricco, che senza esaurirsi, né perdere la minima parte delle sue infinite perfezioni, può riversare a torrenti sulle sue creature bontà, bellezza, grandezza e ricchezza. La gloria del Figlio Unigenito è che Egli può, rimanendo l’Unico nella sublimità incomunicabile della sua sfera, diventare, nella sua qualità di uomo, lo strumento ineffabile delle adozioni paterne. Pretendere di escluderle per l’onore del Figlio Unigenito, significa dire o che la perfezione di questo Unigenito sia troppo limitata per essere comunicata senza essere diminuita, o che il sangue versato da Lui sul Calvario non sia stato un prezzo pagato sovrabbondante alla dignità dei figli adottati. Per me, Gesù, mio Salvatore, mio fratello e mio Dio, Voi mi apparite tanto più bello, tanto più ricco e più amato, tanto più l’Unico del Padre, che vi dà più fratelli ed eredi. Il loro splendore accresce la vostra grandezza; e più numerosi li vedo affollarsi intorno a Voi, più vi ammiro e vi amo. – Dopo questo, che bisogno c’è di mostrare che la crescente moltitudine dei figli adottivi, lungi dall’essere una diminuzione dei privilegi per ciascuno di essi, non divenga piuttosto un meraviglioso accrescimento in loro? Nel cuore del Padre comune c’è posto per tutti, poiché questo cuore è infinito come Dio stesso. Non mi stupisce che tutte le eredità umane siano frammentate quanto più numerosi diventano gli eredi: sono beni materiali il cui possesso, per essere perfetto, deve essere esclusivo. Ma l’eredità spirituale, Dio, la verità posseduta dall’intelligenza, Dio, la bontà posseduta dall’amore, può essere tutta mia benché sia tutta vostra. Le due braccia con cui Lo stringo nel mio spirito e nel mio cuore non possono diventare un ostacolo al vostro abbraccio. Colui che è più vicino a questo grande e sublime spettacolo, non impedisce a nessuno di contemplarlo ed ammirarlo. Dall’alto del cielo il sole non mi illumina di meno, perché ci sono milioni di altri uomini a ricevere la sua luce con me (S. Agost. de Lib. L. Il, c. 14, Ricard. Victor. in Cact. c. 10). – Così la felicità del possesso in un figlio adottivo non esclude la felicità dell’altro; ne è piuttosto il complemento. Possedere Dio è la mia ricchezza e la mia felicità. Lo possiedo mille volte di più, se i fratelli che amo e che considero nella carità come altri me stesso, sono mille a possederlo con me. E non è tutto; contemplando Dio faccia a faccia ed investiti della sua luce, diventano tanti specchi splendenti in cui vedo con piacere ripetersi la bellezza che ammiro e che amo. A maggior ragione l’eredità del primogenito non può diminuire quella dei figli adottivi, così come l’eredità di questi ultimi non può diminuire quella del primogenito. né l’eredità di quest’ultimo può essere diminuita dalla loro. Né la sorgente sempre piena è in pericolo di inaridirsi per il defluire nei ruscelli; né i ruscelli sono impoveriti per fluire da una fonte inesauribile. – Aggiungiamo, prima di concludere, che questa eredità comune dei figli di Dio non conosce duolo. Sulla terra, perché i figli entrino nel godimento dei beni del padre, la morte deve colpire il padre e far posto agli eredi una volta eliminato. Ma l’eredità che i figli adottivi di Dio attendono è Dio stesso; e per loro sapere che Dio è il Re immortale dei secoli è essere sicuri che la loro eredità sia immutabile e che niente potrà mai rapirgliela: niente, dico, né la caducità del bene che sperano, né la morte dell’erede, poiché Dio, questo sommo Bene, eterno in sé, dà la vita eterna a chi lo possiede. – Dopo questa meditazione, chi non vorrebbe sottoscrivere le parole del santo Papa, Leone Magno: « Omnia dona excedit hoc donum ut Deus hominem vocet filium, et homo Deum nominet patrem (S. Leo. serm. 26 al. 25, in. Nativ., 6, c. 4). Il dono per eccellenza, quello che supera incomparabilmente tutti gli altri, è quello per cui Dio dica all’uomo: “Figlio mio!”, e l’uomo chiami Dio: “Mio padre”. Che gli altri si glorino delle loro ricchezze, delle loro dignità, delle loro alte alleanze; il Cristiano ha ben altra gloria: Io sono della famiglia di Dio, il figlio di Dio, l’erede di Dio. « Filius Dei sum ego ». Capirà quale eccesso di onore comporti questo titolo, colui che può capire cos’è Dio e il suo Figlio primogenito, Gesù Cristo nostro Signore. – Ma una parentela così alta, una filiazione così ammirevole, quanta santità di vita richiede! Pertanto, « che la razza eletta, la nazione reale, risponda alla dignità della sua rigenerazione; ami ciò che è amato dal Padre suo, e non sia mai in disaccordo con il suo autore, temendo di meritare quel reclamo che già fece una volta per bocca d’lsaia; ho nutrito ed esaltato dei figli, che mi hanno ricoperto di disprezzo » (S. Leo, Serm. loc. cit., c. 3). « Sì, poiché ci è dato di chiamare Dio nostro Padre, comportiamoci da figli; se ci compiacciamo per avere Dio come nostro Padre, facciamo che Egli si compiaccia per averci come figli, siamo in verità i templi di Dio, e sia manifesto che Egli abiti in noi: divenuti celesti e spirituali, non pensiamo, non amiamo se non ciò che sia del cielo e dello spirito » (S. Cipr., de Orat. Dom. n. 11). Ed è così che i Santi Dottori fanno emergere la lezione della nostra grandezza. Gesù Cristo l’aveva insegnato prima di loro: « Io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; pregate per i vostri persecutori e i vostri calunniatori. » E perché questi atti eroici della carità Cristiana? « Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli » (Matt. V, 44-45); esserlo per la somiglianza delle opere, « poiché Egli fa risplendere il suo sole sui buoni e sui cattivi »; diventarlo con l’imitazione sempre più perfetta, « affinché gli uomini, testimoni delle nostre virtù, glorifichino il Padre che è nei cieli » (Matt. V, 16; col. I Pet. II, 12). Allora potremo dire di ognuno di noi, in tutta proporzione, ciò che il centurione professò di Gesù Cristo, nostro fratello maggiore, sul Calvario: « Vere filius Dei erat iste » (Matt. XXVII, 54): Sì, costui è veramente un figlio di Dio!

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNE: S. S. LEONE XIII – “EXEUNTE JAM ANNO”

«Niente può stare a fronte della Chiesa… Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati… lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata ». Queste parole della parte finale di questa magistrale Lettera Enciclica danno conforto a tutti i veri tenaci Cristiani che in ogni tempo e soprattutto oggi cercano di barcamenarsi impavidi tra errori dottrinali, corruzione estrema dei costumi, paganesimo luciferino, martirio spirituale e in molti casi anche corporale. Il nemico si è così ben insediato in ogni luogo di potere, soprattutto spirituale, per poter colpire occultamente o apertamente le anime di quanti gli resistono. Inutile dire che il nemico si sta servendo di falsi chierici, di false strutture religiose, di false autorità che fingono di essere Vicario di Cristo (come il duo famigerato del gatto e la volpe attuali che portano i loro sparuti ignoranti fedeli – sempre però più perplessi – nel regno dei balocchi infernali allontanandoli dal regno dei cieli), da spettacoli orripilanti proposti nelle “discoteche vaticane” o addirittura nei prestigiosi templi ove un tempo si sacrificava degnamente e maestosamente il Sacrificio redentivo di Cristo… Leone XIII, che pure nella sua celebre visione del 1888 aveva contemplato la discesa dei demoni che si impossessavano di S. Pietro e del Vaticano, dando vita ad una parodia satanica della Chiesa di Cristo, avrebbe orrore ed una paralisi totale nel constatare come la sua visione si sia materializzata nel modo peggiore immaginabile. Ma la lettera, e soprattutto le parole succitate, che sono la versione aggiornata del non praevalebunt evangelico, ci danno conforto e speranza come gli ultimi capitoli dell’Apocalisse biblica. Dopo l’arrivo del Signore, le bestie, i falsi profeti ed il dragone saranno scaraventati nello stagno di fuoco ove soffriranno in eterno, ed i fedeli di Cristo, del suo vero Vicario e della sua vera unica Chiesa, saranno accolti nella Gerusalemme celeste a godere l’eterna visione beatifica.

Leone XIII
Exeunte iam anno

Lettera Enciclica

Sul declinare dell’anno in cui, per singolare dono e beneficio di Dio, abbiamo celebrato sani e salvi il cinquantesimo anniversario di sacerdozio, l’animo Nostro naturalmente ripercorre col pensiero i mesi trascorsi, e nel ricordo di tutto questo tempo grandemente si diletta. – E n’ha ben donde: infatti un avvenimento che Ci riguardava solo personalmente, e che non era né grande per se stesso, né meraviglioso per la novità, suscitò tuttavia negli animi un insolito entusiasmo, venendo celebrato con tante e così luminose manifestazioni di esultanza e di congratulazione che non si poteva desiderare di più. La qual cosa certamente Ci tornò sommamente gradita ed amabile: ma ciò che soprattutto in essa apprezziamo è il significato delle dimostrazioni e la costanza nella fede apertamente professata. La concorde acclamazione, con la quale venimmo salutati da ogni parte, diceva chiaro ed aperto che da tutte le regioni le menti e i cuori sono rivolti al Vicario di Gesù Cristo; che, fra tanti mali dai quali siamo oppressi, gli uomini rivolgono fiduciosi gli sguardi alla Sede Apostolica, come ad una perenne e incontaminata fonte di salvezza; e che dovunque vige il nome cattolico, si rispetta e si venera, com’è doveroso, con ardente amore e somma concordia la Chiesa Romana, madre e maestra di tutte le Chiese. – Per queste ragioni nei trascorsi mesi più d’una volta levammo gli occhi al cielo, ringraziando Iddio ottimo ed immortale, che Ci aveva benignamente concesso una lunga vita e quel conforto delle Nostre pene, che più sopra abbiamo ricordato. Nello stesso tempo, appena Ci si offerse l’occasione, dichiarammo a chi di dovere la Nostra riconoscenza. Ora poi la chiusura dell’anno e del giubileo C’invita a rinnovare la memoria del beneficio ricevuto; e Ci torna molto gradito che la Chiesa tutta si unisca con Noi nel rinnovare il ringraziamento a Dio. Il Nostro cuore contemporaneamente domanda che attestiamo pubblicamente – e lo facciamo con la presente lettera – che come Ci furono di non lieve lenimento alle cure e ai travagli Nostri le molte prove di ossequio, di urbanità e di amore ricevute, così pure ne vivranno perenni in Noi la memoria e la riconoscenza. – Ma un più grave e santo dovere ancora Ci rimane. In questo trasporto di animi, esultanti nel rendere con inusitato ardore riverenza e onore al Romano Pontefice, Noi ravvisiamo la potenza e la volontà di Colui che suole spesso, e che solo può, trarre da minime cose il principio di grandi beni. Sembra infatti che il provvidentissimo Iddio abbia voluto, in mezzo a tanto traviamento d’idee, ravvivare la fede e offrirci insieme l’opportunità di richiamare il popolo cristiano all’amore di una vita migliore. Pertanto non resta che metter mano all’opera, affinché il seguito corrisponda al felice inizio, e attivarsi al massimo affinché i disegni di Dio vengano compresi ed attuati. Allora finalmente l’ossequio verso la Sede Apostolica sarà pieno e perfetto in ogni sua parte, quando, associato all’ornamento delle virtù cristiane, valga a condurre gli uomini alla salvezza: risultato che è il solo desiderabile e duraturo in eterno. Dall’alto del ministero apostolico, in cui la bontà di Dio Ci ha collocati, prendemmo spesso il patrocinio della verità, e Ci studiammo di esporre principalmente quei punti della dottrina che Ci sembravano più adatti alla necessità, e più proficui al pubblico bene, affinché, conosciuta la verità, ognuno, vegliando e cautelandosi, fuggisse il soffio nefasto degli errori. Ora poi, quale padre amantissimo verso i suoi figliuoli, Noi vogliamo parlare a tutti i Cristiani e con familiare discorso esortare ognuno di loro a intraprendere un tenore di vita cristiana. Infatti, per ben meritare il nome di Cristiano, oltre alla professione della fede occorre l’esercizio delle virtù cristiane, dalle quali non solo dipende l’eterna salvezza dell’anima, ma anche la vera prosperità sociale e la tranquillità del consorzio civile. – Se si esamina lo svolgersi della vita, non vi è chi non veda quanto i costumi pubblici e privati siano discrepanti dai precetti evangelici. Si adatta troppo bene alla nostra età quella sentenza dell’Apostolo Giovanni: “Tutto ciò che è nel mondo, è concupiscenza della carne, concupiscenza degli occhi e superbia della vita” (1Gv II,16). I più, infatti, dimenticando il principio per cui nacquero ed il fine a cui sono chiamati, fissano tutti i loro pensieri e le loro sollecitudini nei vani e caduchi beni della terra; violentando la natura e scompigliando l’ordine stabilito, si rendono volontariamente schiavi di quelle cose che l’uomo dovrebbe, secondo ragione, dominare. – È poi naturale che con l’amore degli agi e dei piaceri si accoppî la cupidigia delle cose idonee a comprarli. Di qui quella sfrenata avidità di denaro che rende ciechi quanti invase, e corre tutto fuoco e a briglia sciolta a scapricciarsi, senza distinguere spesso il giusto dall’ingiusto, e non di rado con ributtante insulto alla miseria altrui. E così moltissimi, la cui vita nuota nell’oro, vantano a parole una fratellanza col popolo, che poi nell’intimo del cuore superbamente disprezzano. Allo stesso modo l’animo preso dalla superbia tenta di scuotere il giogo di ogni legge, calpesta ogni autorità, chiama libertà l’egoismo. “Come il puledro dell’onagro, ritiene di essere nato libero” (Gb, 11,12). – Gl’incentivi del vizio e i fatali allettamenti al peccato avanzano: intendiamo dire le licenziose ed empie rappresentazioni teatrali; i libri e i giornali scritti per fare apparire onesto il vizio e sfatare la virtù; le stesse arti, già inventate per le comodità della vita e l’onesto sollievo dell’animo, sono utilizzate quale esca per infiammare le passioni umane. Né possiamo spingere lo sguardo nel futuro senza tremare, vedendo i novelli germi dei mali che vengono di continuo deposti e accumulati in seno alla adolescente generazione. Vi è noto l’andamento delle pubbliche scuole: in esse non si dà luogo all’autorità ecclesiastica; e proprio nel tempo in cui sarebbe sommamente necessario informare con la più solerte cura gli animi ancor giovani alla pratica dei doveri cristiani, tacciono il più delle volte gl’insegnamenti della Religione. Gli adolescenti poi vanno incontro ad un pericolo maggiore, qual è una viziata dottrina; la quale sovente è tale che, più che ad istruire con la nozione del vero, serve ad infatuare la gioventù con i sofismi dell’errore. Infatti, nell’insegnamento delle scienze, moltissimi, trascurata la fede divina, amano filosofare col solo magistero della ragione; per cui, rimossi il solido fondamento e lo smagliante lume della fede, sono incerti in molte cose, e non distinguono il vero. Tale è il credere che quanto è nel mondo, tutto sia materiale; che gli uomini e gli animali abbiano identità d’origine e di natura; né mancano taluni che stanno in forse se vi sia, o no, un sommo Artefice del mondo e dominatore delle cose, Iddio; ovvero errano grandemente, a mo’ dei pagani, intorno alla sua natura. Donde è necessario che vengano alterati anche il concetto e la forma della virtù, del diritto e del dovere. E così mentre essi boriosamente vantano grandemente la supremazia della ragione e magnificano oltre misura l’acume dell’ingegno, scontano con l’ignoranza d’importantissime verità la pena dovuta alla loro superbia. Col pervertimento delle idee, si infiltra fin nelle vene e nel midollo delle ossa la corruzione dei costumi, e questa in tale gente non può venire sanata che con grandissima difficoltà: poiché da un lato i falsi principi alterano il giudizio dell’onestà, e dall’altro manca la luce della fede cristiana, che è principio e fondamento di ogni giustizia. – Per queste ragioni vediamo ogni giorno in qualche modo coi nostri occhi da quanti mali sia travagliata la società umana. Il veleno delle dottrine rapidamente invase la vita pubblica e privata: il razionalismo, il materialismo, e l’ateismo partorirono il socialismo, il comunismo, il nichilismo: atre e funeste pestilenze, le quali dovevano logicamente e inevitabilmente scaturire da quei principi. In verità, se si può rigettare impunemente la Religione cattolica, la cui divina origine è chiara per segni tanto evidenti, perché non si dovrebbero respingere le altre forme di culto, che certamente mancano di tali prove di credibilità? Se l’anima non è per sua natura distinta dal corpo, e per conseguenza, se nella morte del corpo nessuna speranza ci resta di un’eternità beata, perché dovremo noi sobbarcarlo a fatiche e a travagli al fine di sottomettere il talento alla ragione? Il sommo bene dell’uomo sarà riposto nel godimento degli agi e dei piaceri della vita. E poiché non v’è alcuno che per istinto e impulso di natura non tenda alla felicità, a buon diritto ognuno spoglierebbe gli altri, secondo le sue possibilità, per procacciarsi con le cose altrui il godimento della felicità. Né vi sarebbe potere al mondo che avesse così poderosi freni da imbrigliare le impetuose passioni; conseguentemente ove venga ripudiata la somma ed eterna legge di Dio, è inevitabile che il vigore delle leggi s’infranga, e ogni autorità si svigorisca. Ne consegue necessariamente che la società civile si sconvolga fin dal profondo, e che i singoli membri siano spinti a perpetua lotta dalla loro insaziabile cupidigia, affannandosi gli uni a raggiungere gli agognati beni, e gli altri a conservarli. Tale è certamente la tendenza dell’età nostra. Tuttavia, vi è di che consolarci alla vista dei mali presenti, e sollevare l’animo a liete speranze per l’avvenire. Infatti “Dio creò tutte le cose perché esistessero, e fece sanabili le nazioni di tutto l’orbe” (Sap 1,14). Ma come questo mondo non può essere conservato se non dalla volontà e dalla provvidenza di Colui che l’ha creato, così pure gli uomini non possono essere risanati che dalla sola virtù di Colui che li ha redenti. Infatti, Gesù Cristo a prezzo del suo sangue riscattò una volta sola il genere umano, ma perenne e perpetua è l’efficacia di tanta opera e di sì gran beneficio: “e non c’è salvezza fuori di Lui” (At IV,12). Pertanto, quanti si affaticano per estinguere, a forza di leggi, la crescente fiamma delle passioni popolari, essi si affaticano sì per la giustizia, ma si debbono anche persuadere che con nessuno o con scarsissimo risultato consumeranno la fatica, ove persistano a ripudiare la forza del Vangelo e a non volere la cooperazione della Chiesa. La guarigione dei mali è riposta in questo che, mutato indirizzo, gl’individui e la società ritornino a Gesù Cristo e al retto cammino della vita cristiana. – Ora la sostanza e il perno della vita cristiana consistono nel non assecondare i corrotti costumi del secolo, ma nell’osteggiarli con virile fermezza. Questo ci insegnano le parole e i fatti, le leggi e le istituzioni, la vita e la morte di Gesù, “autore e perfezionatore della fede”. Dunque, per quanto il guasto della natura e dei costumi ci attiri altrove, lontano dalla meta, occorre che noi corriamo “alla tenzone che ci aspetta”, agguerriti e pronti con quel coraggio e con quelle armi con le quali Egli, “propostosi il gaudio, sostenne la croce” (Eb XII, 1-2). – Gli uomini vedano pertanto e comprendano quanto sia lontano dalla professione della fede cristiana il seguire – come si fa oggi – ogni sorta di piaceri e rifuggire le fatiche, compagne della virtù e nulla rifiutare a se stesso di quanto piacevolmente e delicatamente alletta i sensi. “Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso coi vizi e le concupiscenze la propria carne” (Gal V, 24): dal che si rileva che non sono di Cristo coloro i quali non si esercitano né si abituano a patire, disprezzando le mollezze e la voluttà. L’uomo, mercé l’infinita bontà di Dio, fu restituito alla speranza dei beni immortali dai quali era precipitato; ma non può conseguirli, se non cercando di calcare le orme di Cristo, meditandone gli esempi, conformando a Lui il cuore e i costumi. Pertanto, non è consiglio, ma dovere, né solamente per quelli che abbracciarono un genere di vita più perfetto, ma per tutti, “il portare nel corpo la mortificazione della carne” (2 Cor IV, 10). Come potrebbe altrimenti rimanere salda la stessa legge di natura, la quale comanda all’uomo di vivere virtuosamente? Infatti, col santo Battesimo si cancella la colpa che si contrasse nascendo, ma non per questo vengono recisi i rei germogli innestati dal peccato. Quella parte dell’uomo che è irragionevole, ancorché non possa nuocere a chi, mercé la grazia di Cristo, si oppone virilmente, tuttavia contrasta con il regno della ragione, turba la pace dell’animo e tirannicamente trascina la volontà lontano dalla virtù con tanta forza che, senza una lotta quotidiana, non possiamo né fuggire il vizio né compiere i nostri doveri. “Il santo Concilio riconosce e dichiara che nei battezzati rimane la concupiscenza, o stimolo, che, lasciata all’uomo per la battaglia, non può nuocere a chi non si arrende, ma anzi la respinge virilmente con la grazia di Gesù Cristo; chi debitamente combatterà, verrà coronato” . In questa battaglia vi è un grado di forza a cui non perviene che una virtù eccellente, cioè quella di coloro i quali, combattendo i moti contrari alla ragione, si avvantaggiarono a tal punto che sembrano condurre in terra una vita quasi celeste. – Per quanto sia di pochi una così rilevante perfezione, tuttavia, come la stessa antica filosofia insegnava, nessuno deve lasciare senza freno le proprie passioni, soprattutto coloro che utilizzando ogni giorno le cose terrene sono più esposti ai pericoli del vizio, a meno che qualcuno non pensi stoltamente che deve essere minore la vigilanza dove è più imminente il pericolo, o abbiano meno bisogno della medicina coloro che sono più gravemente ammalati. Quanto poi alla fatica che viene sostenuta in tale lotta, essa viene compensata, oltre che dai beni celesti e immortali, anche da altri grandi vantaggi, il primo dei quali è che, riordinati gli appetiti dell’uomo, moltissimo si rende alla natura della sua dignità primitiva. Infatti, con questa legge e con quest’ordine l’uomo venne creato affinché l’anima dominasse il corpo, e la cupidigia fosse governata dalla ragione e dal buon senso: da ciò deriva che il non darsi in preda alle tiranniche passioni sia la più sublime e desiderabile libertà. – Inoltre, senza quella disposizione di animo, non si vede che cosa ci si possa aspettare di bene nella stessa società umana. Potrà, per ventura, essere propenso a beneficare gli altri chi è abituato a prendere norma e misura di quanto deve fare, o fuggire, dall’amore di se stesso? Nessuno, che non sappia dominare se medesimo, e disprezzare per amore della virtù tutte le cose umane, può mai essere né magnanimo, né benefico, né misericordioso, né disinteressato. Non taceremo nemmeno che gli uomini – come è deciso dalla volontà divina – non possono raggiungere la salvezza senza fatica e senza pena. Infatti, se Dio concedette all’uomo la liberazione dalla colpa e il perdono dei peccati, glieli accordò con questa legge: che il suo Unigenito ne portasse la giusta e dovuta pena. E Gesù Cristo, pur potendo per altre vie soddisfare alla giustizia divina, volle piuttosto soddisfarla a prezzo di sommi tormenti, col dono della vita. E ai discepoli e seguaci impose questa legge suggellata col suo sangue: che la loro vita fosse una continua battaglia coi vizi dei costumi e dei tempi. Che cosa formò invitti gli Apostoli nell’addottrinare con la verità il mondo, e rinvigorì innumerevoli martiri nel dare testimonianza alla fede cristiana con la prova suprema del sangue, se non la disposizione dell’animo ossequiente senza timore a detta legge? Non scelsero di andare per altra via quanti ebbero a cuore di vivere cristianamente e di procacciare con la virtù il proprio bene; né per altra dobbiamo incamminarci noi, se vogliamo provvedere alla nostra e alla comune salvezza. – Pertanto, in mezzo a questa spudorata e dominante licenza, è necessario che ciascuno virilmente si difenda dagli allettamenti della lussuria; e poiché è tanto sfrontata l’ostentazione che si suol fare di una vita agiata ed opulenta, è anche necessario premunire l’animo contro il fascino del lusso e delle ricchezze, affinché il cuore, desiderando quelle cose che si dicono beni ma che non possono sfamarlo e sono fugaci, non venga a perdere un tesoro immarcescibile in cielo. Da ultimo, è altresì da deplorare che massime ed esempi dannosi abbiano avuto tanta forza da effeminare gli animi a tal punto che moltissimi oggi arrossiscono del nome e della vita cristiana, il che è proprio o di una profonda corruzione, o di una grande insipienza. Entrambe detestabili, entrambe tali che non può capitare all’uomo un male peggiore. Infatti, quale scampo rimarrebbe agli uomini, o in che cosa appoggerebbero essi la loro speranza, se tralasciassero di gloriarsi del nome di Gesù Cristo e ricusassero di comportarsi a viso aperto e con fermezza secondo i precetti evangelici? È comune lamento che la nostra età è infeconda di uomini forti. Si richiamino in vigore i costumi cristiani, e con ciò saranno restituite fermezza e costanza alle umane capacità. – Ma a tanta grandezza e varietà di doveri la virtù dell’uomo non può bastare da sola. Quindi conviene che, come si domanda a Dio il pane quotidiano per alimento del corpo, così pure da Lui s’implorino la forza e il vigore per l’anima, affinché questa si consolidi nella pratica della virtù. Per cui, quella comune legge e condizione della vita, che dicemmo consistere in un perpetuo combattimento, va sempre congiunta con la necessità della preghiera, poiché, come con verità e grazia dice Agostino, la pia orazione trascende gli spazi del mondo e fa scendere dal cielo la misericordia divina. Contro gli assalti delle torbide passioni e contro le insidie del demonio dobbiamo, per non essere irretiti dalle sue frodi, chiedere i conforti e gli aiuti celesti, secondo il divino oracolo: “Pregate per non cadere in tentazione” (Mt XXVI, 41). Quanto maggiormente ne abbiamo bisogno, se in più vogliamo procurare la salvezza agli altri! Cristo Signore, l’Unigenito Figlio di Dio, fonte d’ogni grazia e virtù, ci comandò con le parole quanto per primo ci dimostrò con l’esempio, “trascorrendo le notti nella preghiera a Dio” (Lc VI, 12), e vicino al sacrificio “pregava più intensamente” (Lc XXII, 43). – Per la verità assai meno sarebbe da temere la fragilità della natura, né i costumi si pervertirebbero nell’ozio e nell’infingardaggine, se questo divino precetto non fosse così spesso per negligenza o per stanchezza trascurato. Infatti, Dio è placabile con la preghiera; Egli vuole beneficiare gli uomini, e ha chiaramente promesso che a larga mano darà dovizia di grazie a chi gliene chiederà. Ché anzi Egli stesso ci invita, e quasi ci provoca con amorevolissime parole: “Io vi dico, chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi verrà aperto” (Lc XI, 9). E affinché non temiamo di pregarlo con fiducia e familiarità, tempera la sua divina maestà con l’immagine e la somiglianza di un tenerissimo padre a cui nulla è più caro dell’amore dei figli: “Se voi che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a coloro che gliele domandano?” (Mt VII, 11). – Chi avrà meditato queste cose, non si meraviglierà se a Giovanni Crisostomo la preghiera sembra tanto efficace da reputarla paragonabile alla stessa potenza di Dio. Infatti, nello stesso modo in cui Dio con una parola creò l’universo, l’uomo con la preghiera ottiene da Lui ciò che vuole. Niente è più efficace per ottenere grazie, quanto le buone orazioni, poiché esse contengono quei motivi dai quali Iddio si lascia più facilmente placare e intenerire. Nell’orazione noi storniamo l’animo dalle cose terrene e, attratti col pensiero nella contemplazione del solo Dio, abbiamo coscienza dell’umana debolezza: pertanto riposiamo nella bontà e nell’amplesso di nostro Padre, e cerchiamo rifugio nella potenza del Creatore. Noi ci presentiamo con insistenza all’Autore di tutti i beni, come per mostrargli l’anima nostra inferma, le forze fiacche e la nostra indigenza; pieni di speranza imploriamo tutela e soccorso da Colui che solo può somministrare il rimedio alle nostre infermità e offrire conforto alla nostra miseria e alla nostra debolezza. Grazie a questa umile e modesta disposizione d’animo, necessaria da parte del credente, meravigliosamente Iddio si piega a clemenza; perché, come resiste ai superbi, “così dà grazia agli umili” (1Pt V, 5). – Sia dunque sacra a tutti la pratica dell’orazione: preghino la mente, l’anima, la voce, e concordi il vivere con il pregare; affinché la nostra vita, mercé l’osservanza delle leggi divine, appaia un continuo volo dell’anima a Dio. Come tutte le altre virtù, così anche questa di cui parliamo venne generata e sorretta dalla fede divina. Infatti, Dio è Colui che ci dà a intendere quali siano i veri e desiderabili beni; e ci fa conoscere la sua infinita bontà e i meriti di Gesù Redentore. Ma niente vien meglio in aiuto ad alimentare e crescere la fede quanto la pia pratica dell’orazione. Appare chiaro quanto sia stringente il bisogno di tale virtù, che in molti è rilassata e in altri addirittura spenta. Infatti, da essa deve specialmente attendersi non solo la correzione dei costumi privati, ma anche la norma per giudicare di quelle cose, il cui conflitto non lascia gli Stati tranquilli e sicuri. Se il popolo è tormentato da una sete ardente di libertà, se dappertutto scoppiano minacciosi i fremiti dei proletari, se la snaturata ingordigia dei più ricchi non dice mai basta, e se vi sono altri sconci di tal fatta, a questo certamente non si può recare, come altra volta più diffusamente dimostrammo, un rimedio migliore e più sicuro della fede cristiana. – Qui cade in proposito rivolgere il pensiero e la parola a voi tutti, che Dio elesse a suoi cooperatori nell’amministrazione dei misteri e investì del suo divino potere. Ove si ricerchino le cause della privata e pubblica salute, non v’ha dubbio che, sia per il bene, sia per il male, influiscono assai la vita e i costumi degli ecclesiastici. Si ricordino dunque di essere da Cristo chiamati “luce del mondo”; poiché “come la luce che irraggia tutto l’orbe, conviene che splenda l’anima del sacerdote” . Si ricerca nel sacerdote un lume non comune della dottrina, dato che è suo compito infondere negli altri la sapienza, estirpare gli errori, essere guida del popolo per gli sdrucciolevoli e incerti sentieri della vita. La dottrina poi vuole innanzi tutto avere per compagna l’innocenza della vita; massime perché nella riforma degli uomini si ottiene più con gli esempi che con la parola: “Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone” (Mt V, 16). Questa sentenza divina significa che nei sacerdoti la perfezione e la raffinatezza della loro virtù devono essere tali da servire da specchio a chi li osserva. “Nulla meglio ammaestra gli altri nella pietà e nel culto di Dio, come la vita e l’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero, poiché, essendo essi esposti agli sguardi in luogo più alto e sovrastante le cose del mondo, tutti si specchiano in loro, e da loro prendono il modello da imitare” . Per la qual cosa se tutti gli uomini debbono accuratamente guardarsi di cadere nei pericoli dei vizi, e di non correre con smodato amore dietro le cose caduche, appare ben chiaro con quanta più ragione debbano fare ciò con ogni scrupolosa cura e con costanza i Sacerdoti. – Ma non è sufficiente non servire alle passioni: la santità del loro sublime grado domanda in più che si abituino a padroneggiare virilmente se stessi e a sottomettere a Cristo tutte le forze dell’anima, specialmente l’intelletto e la volontà, che sulle altre dominano. “Tu che ti prepari ad abbandonare tutto, ricordati che tra le cose da lasciare vi è l’amore di te stesso, anzi, sopra tutto rinnega te stesso”. Quando essi abbiano sciolto e liberato da ogni cupidigia il cuore, allora finalmente concepiranno un alacre e generoso zelo per l’altrui salute, senza neppure provvedere abbastanza alla propria: “Un solo guadagno, un solo vanto, una sola gioia essi debbono cercare nei loro fedeli, ed è di studiarsi di preparare in essi un popolo perfetto. A questo fine tutti debbono adoperarsi, mortificando anche la carne e il cuore, e non badando a fatiche e pene, a fame e sete, a freddo e nudità”. Codesta impavida e sempre desta virtù, che si prodiga per il bene del prossimo in ardue imprese, viene mirabilmente alimentata e rinvigorita dalla frequente contemplazione delle cose celesti, e quanto più ad essa si dedicheranno, tanto meglio comprenderanno la grandezza e la santità del ministero sacerdotale. Comprenderanno quanto sia deplorevole cosa che tanti, redenti da Gesù Cristo, piombino nell’eterna rovina: con la meditazione dell’essere divino ecciteranno maggiormente se stessi e gli altri all’amore di Dio. Ecco la via sicurissima della salvezza pubblica. Però bisogna stare molto attenti che nessuno si abbatta per la grandezza delle difficoltà o disperi della guarigione per la permanenza dei mali. L’imparziale ed immutabile giustizia di Dio riserba il premio alle buone opere, la pena alle malvagie: ma quanto alle nazioni, che non possono propagarsi oltre la cerchia del tempo, conviene che esse abbiano la loro retribuzione su questa terra. Non è cosa nuova, è vero, che prosperi successi allietino una nazione peccatrice, e ciò per giusta disposizione di Dio, il quale, non essendovi popolo al mondo che sia privo di ogni onestà, con siffatti premi talora ricompensa le lodevoli azioni; come successe al popolo romano secondo Agostino. Nondimeno è legge stabilita che il più delle volte alla prospera fortuna giovi il pubblico culto della virtù, massime di quella che è madre di tutte le altre, cioè la giustizia. “La giustizia solleva, il peccato deprime e immiserisce i popoli” (Pr 14,34). Non vale qui rivolgere l’attenzione alla trionfante ingiustizia, né ricercare se vi siano regni i quali, correndo prospera la cosa pubblica e secondo i loro desideri, covino tuttavia nelle intime viscere il germe dei mali. Questo solo vogliamo che s’intenda, e di questi esempi è ricca la storia: doversi presto o tardi pagare il fio delle ingiustizie, e tanto più severamente quanto furono più durevoli i misfatti. – Quanto a Noi, Ci è di gran conforto la sentenza dell’Apostolo Paolo: “Tutte le cose sono vostre; voi siete di Cristo; Cristo è di Dio” (1Cor III, 22-23). Il che significa che per arcana disposizione della provvidenza divina il corso delle cose mortali viene retto e governato in modo che quanto succede agli uomini è subordinato alla gloria di Dio, e parimenti portano alla salvezza le opere di coloro che seguono Gesù Cristo sinceramente e di cuore. – Di questi è madre e nutrice, guida e custode la Chiesa, la quale, come con intima e immutabile carità è unita a Cristo, suo Sposo, così si associa con Lui nelle lotte e partecipa della vittoria. Non siamo dunque né possiamo essere inquieti per la causa della Chiesa: ma temiamo vivamente per la salvezza di moltissimi, i quali, voltate superbamente le spalle alla Chiesa, errando per vie diverse, precipitano nella dannazione, e Ci angosciamo altresì per quegli Stati che siamo costretti a vedere lontani da Dio, e con stupida sicurezza addormentati sull’orlo del precipizio. “Niente può stare a fronte della Chiesa… Quanti la combatterono, altrettanti perirono. La Chiesa trascende i cieli. La sua grandezza è tale che, combattuta, vince; insidiata, supera gli agguati… lotta e non è abbattuta, si azzuffa nel pugilato e non è mai superata”. – Né soltanto non è mai superata, ma conserva intera quella virtù riformatrice della natura, principio di salute ch’ella perennemente attinge e deriva da Dio: resta immutabile pur nel mutare dei tempi. Se già divinamente rigenerò il mondo invecchiato nei vizi e perduto nelle superstizioni, perché non potrà richiamarlo, traviato, sul retto sentiero? Tacciano una buona volta i sospetti e gli odii: e la Chiesa, tolti di mezzo gli ostacoli, sia ovunque padrona dei propri diritti, poiché ad essa spetta conservare e diffondere i benefici procurati da Gesù Cristo. Allora si potrà conoscere, attraverso l’esperienza, fin dove giunga il potere illuminante del Vangelo, e quanto possa la virtù di Cristo redentore. – Questo stesso anno prossimo a finire ha mostrato, come dicemmo all’inizio, non pochi indizi che la fede torna a rivivere nei cuori. Voglia Dio che questa piccola scintilla cresca in gran fiamma, la quale, distrutte le radici dei vizi, sgombri sollecitamente la via al rinnovamento dei costumi e ad opere salutari. Noi, preposti al governo della mistica nave della Chiesa in tempi così burrascosi, fissiamo la mente e il cuore nel divino Pilota che siede invisibile a poppa, governandone il timone. Tu vedi, o Signore, come da ogni parte erompano impetuosi i venti ed il mare si arruffi, levando altissimi flutti. Deh, Tu che solo lo puoi, comanda ai venti e al mare. Rendi all’umana famiglia la vera pace, che il mondo non può dare, e la tranquillità dell’ordine. Cioè gli uomini, mercé la tua grazia e il tuo impulso, facciano ritorno all’ordine dovuto, restaurando nei loro cuori la necessaria pietà verso Dio, la giustizia e la carità verso il prossimo e la temperanza verso se stessi, con pieno dominio della ragione sull’ingordigia. Venga il tuo regno; e quelli stessi che lontano da Te si affaticano invano nella ricerca della verità e della salute, intendano che è indispensabile che a Te si assoggettino e Ti servano. Sono connaturate nelle tue leggi la giustizia e una soavità paterna: e Tu stesso spontaneamente ci doni, mercé la tua grazia, la possibilità di osservarle. La vita dell’uomo sulla terra è combattimento, ma Tu stesso “sei spettatore della battaglia, aiuti l’uomo a vincere, se è scorato lo rinfranchi, e se è vincitore lo coroni” . Con l’animo sollevato da queste considerazioni verso una lieta e salda speranza, Noi amorosamente nel Signore impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero e a tutto il popolo cattolico l’Apostolica Benedizione, auspice dei celesti doni e testimone della Nostra benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù dell’anno 1888, undecimo del Nostro Pontificato.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: AGOSTO 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: AGOSTO 2022

Surge! Jam terris fera bruma cessit,
Ridet in pratis decus omne florum,
Alma quæ Vitæ Génitrix fuísti,
Surge, María!

Lílium fulgens velut in rubéto,
Mortis auctórem teris una, carpens
Sóntibus fructum pátribus negátum
Arbore vitæ.

Arca non putri fabricáta ligno
Manna tu servas, fluit unde virtus,
Ipsa qua surgent animáta rursus
Ossa sepúlcris.

Prǽsidis mentis dócilis minístra,
Haud caro tabo pátitur resólvi;
Spíritus imo sine fine consors
Tendit ad astra.

Surge! Dilécto pete nixa cælum,
Sume consértum diadéma stellis,
Teque natórum récinens beátam
Excipe carmen.

Laus sit excélsæ Tríadi perénnis,
Quæ tibi, Virgo, tríbuit corónam,
Atque regínam statuítque nostram
Próvida matrem.
Amen.

[Inno  – dal Proprio dei Santi –
Sorgi! Cessi già in terra l’aspro inverno; rida nei prati ogni bellezza di fiori: tu, che fosti la divina Madre della Vita, sorgi, o Maria! / O giglio fulgente tra le spine, tu sola abbatti l’autore della morte, togliendo il frutto negato ai padri colpevoli con l’albero della vita. / Nell’arca fabbricata con legno non guasto conservi la manna, da cui fluisce la forza che dai sepolcri fa di nuovo risorgere, animate, le ossa. / Docile ministra della mente di Dio, la carne non si assoggetta alla corruzione; anzi per sempre consorte dello Spirito, sale al cielo, /Sorgi! Col tuo Diletto, vola in cielo, ricevi il diadema intrecciato di stelle ed accogli il carme dei figli, che ricanta, te beata. / Lode perenne alla Triade eccelsa, che a te, o Vergine, consegnò la corona
e provvide a stabilirti Regina e nostra Madre. Amen.]

Dagli Atti del Papa S. S. Pio XII

Poiché la Chiesa universale nel corso dei secoli ha manifestato la fede nell’Assunzione corporea della beata vergine Maria, e i Vescovi del mondo cattolico con quasi unanime consenso chiesero che questa verità, fondata sulla sacra Scrittura, insita profondamente nell’animo dei fedeli e sommamente consona con le altre verità rivelate, fosse definita come dogma di fede divina e cattolica, il sommo pontefice Pio XII, annuendo ai voti di tutta la Chiesa, stabilì di proclamare solennemente questo privilegio della beata vergine Maria. Perciò il primo novembre 1950, anno del massimo giubileo, a Roma, nella piazza della basilica di san Pietro, alla presenza di moltissimi Cardinali e Vescovi di santa romana Chiesa giunti anche dalle più remote regioni, dinanzi ad un’ingente moltitudine di fedeli, col plauso dell’universo mondo cattolico, con infallibile oracolo proclamò in questi termini l’assunzione corporea in cielo della beata vergine Maria: « Dopo aver innalzato ancora a Dio supplici istanze, ed aver invocato la luce dello Spirito di verità, a gloria di Dio onnipotente, che ha riversato in Maria la sua speciale benevolenza, ad onore del suo Figlio, re immortale dei secoli e vincitore del peccato e della morte, a maggior gloria della sua augusta Madre ed a gioia ed esultanza di tutta la Chiesa, per l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei santi apostoli Pietro e Paolo e nostra, pronunziamo, dichiariamo e definiamo esser dogma da Dio rivelato che l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo ».

Il Cuore Immacolato di Maria SS. — Giunta tant’alto là dove niun’altra semplice creatura mai giungerà — quale sarà il cuore di Maria SS. verso di noi — esuli figli di Eva – eredi miserabili di colpe e di sciagure? — Il dubbio sarebbe ragionevole, se si trattasse d’una donna qualsiasi: — è tanto difficile che un cuore in festa armonizzi nel suo palpito con cuori in lutto: — com’è difficile che le luminose ebbrezze della gloria làscino ancor un affettuoso interesse alle necessità degli umili, ormai troppo al di sotto … Ma non è così di Maria SS. — anche nella gloria celeste il suo Cuore non muta! — È sempre il bel ore d’una volta!

Cuore di Vergine! — Immune assolutamente dal peccato originale — come pure da qualsiasi personale mancanza — esso fu ed è Cuore senza alcun naturale difetto: — tanto si doveva alla sua dignità di Madre di Dio! — Inoltre esso fu ed è un Cuore ripieno incredibilmente della divina grazia — e dei doni dello Spirito Santo — anche per la continua corrispondenza usata qui in terra ai divini favori: — quanto dunque non dovette quel Cuore divenire anche soprannaturalmente sempre più bello — più perfetto — più degno di tutte le nostre simpatie — e quindi pienamente meritevole di tutta la nostra fiducia!

È Cuor di Regina! — Destinata da Dio all’Impero dell’Universo, — Impero anche spiccatamente di misericordia — la SS. Vergine ebbe, appunto per questo, dalla Divina Provvidenza un Cuore magnanimo — che cioè si piace di moltiplicare sulla più larga scala i suoi benefici. — Possiamo dunque approfittarne amplissimamente — assiduamente — e per l’anima e per il corpo — e per l’eternità e per il tempo — e per noi personalmente e per i nostri cari — per i nostri amici e dipendenti — e per quanti siano oggetto della nostra sollecitudine!

È Cuore di Madre! — « Cuore di Madre! ». — Lo capiamo noi che cosa voglia dire? — Allora n’avremo basta, per confidarci interamente a Maria SS. in tutte le nostre miserie — e di corpo — e di spirito — in tutte le afflizioni — e persino in quei giorni, in cui il rimorso travagliasse la povera anima nostra. — E, su quel Cuore materno posando il nostro capo, nulla avremo a temere: — ché Maria SS. è onnipotente a nostro favore — essendo insieme e Madre di Dio e Madre nostra: — onnipotente per grazia, dacché il suo Divin Figlio è l’Onnipotente per natura! (G. Monetti S.J.: Sapienza cristiana vol. II, p. 2)

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Fidelibus, quolibet mensis augusti die, si ad honorem immaculati Cordis B. M. V. aliquas preces vel alia pietatis exercitia devote præstiterint, conceditur:

Indulgentia quinque annorum semel. Iis vero, qui per integrum præfatum mensem eiderh exercitio quotidie vacaverint, conceditur: Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. C. S. Officii, 13 mart. 1913; S. Pæn. Ap., 2 iun. 1935).

Agosto è il mese che la Chiesa Cattolica dedica all’Assunzione in cielo della Vergine ed al Cuore Immacolato di Maria SS

ECCO LE FESTE DEL MESE DI AGOSTO 2022.

1 Agosto S. Petri ad Vincula    Duplex majus *L1*

               Commemoratio: Ss. Mártyrum Machabæorum

2 Agosto S. Alfonsi Mariæ de Ligorio Episc. Conf. et Eccles. Doct.    Duplex

                Commemoratio: S. Stephani Papæ et Martyris

3 Agosto De Inventione S. Stephani Protomartyris    Semiduplex *L1*

4 Agosto S. Dominici Confessoris    Duplex majus

5 Agosto S. Mariæ Virginis ad Nives    Duplex

6 Agosto In Transfiguratione Domini Nostri Jesu Christi    Duplex II. classis *L1*

7 Agosto Dominica IX Post Pentecosten II. Augusti    Semiduplex Domin. minor *I* 

                 S. Cajetani Confessoris    Duplex

8 Agosto Ss. Cyriaci, Largi et Smaragdi Martyrum    Semiduplex

9 Agosto S. Joannis Mariæ Vianney Confessoris    Duplex

10 Agosto S. Laurentii Martyris    Duplex II. classis *L1*

11 Agosto Ss. Tiburtii et Susannæ Virginis, Martyrum    Feria

12 Agosto S. Claræ Virginis    Duplex

13 Agosto Ss. Hippolyti et Cassiani Martyrum    Feria

14 Agosto Dominica X Post Pentec. III. Augusti  Semiduplex Domin. minor*I*

                 In Vigilia Assumptionis B.M.V.    Duplex II. classis

15 Agosto In Assumptione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis *L1*

16 Agosto S. Joachim Confessoris, Patris B. M. V.    Duplex II. classis

17 Agosto S. Hyacinthi Confessoris    Duplex

18 Agosto S. Agapiti Martyris    Feria

19 Agosto S. Joannis Eudes Confessoris    Duplex

20 Agosto S. Bernardi Abbatis et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

21 Agosto Dominica XI Post Pentec. IV. Augusti    Semiduplex Domin. minor *I*

               S. Joannæ Franciscæ Frémiot de Chantal Viduæ    Duplex

22 Agosto Immaculati Cordis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis

23 Agosto S. Philippi Benitii Confessoris    Duplex

24 Agosto S. Bartholomæi Apostoli    Duplex II. classis

25 Agosto S. Ludovici Confessoris    Duplex

26 Agosto S. Zephyrini Papæ et Martyris    Feria

27 Agosto S. Josephi Calasanctii Confessoris    Duplex

28 Agosto Dominica XII Post Pentec. V. Augusti    Semiduplex Dominica minor

29 Agosto In Decollatione S. Joannis Baptistæ    Duplex *L1*

30 Agosto S. Rosæ a Sancta Maria Limanæ Virginis    Duplex

31 Agosto S. Raymundi Nonnati Confessoris    Duplex