29 SETTEMBRE: DEDICAZIONE DI S. MICHELE ARCANGELO

29 SETTEMBREDEDICAZIONE DI SAN MICHELE, ARCANGELO

Oggetto della festa.

La dedicazione di S. Michele è la festa più solenne che la Chiesa celebra nel corso dell’anno in onore di questo Arcangelo, e tuttavia lo riguarda meno personalmente perché vi si onorano tutti i cori della gerarchia angelica. Nell’inno dei primi Vespri la Chiesa propone alla nostra preghiera l’oggetto della festa di oggi con le parole di Rabano Mauro, abate di Fulda: Celebriamo con le nostre lodi Tutti i guerrieri del cielo, Ma soprattutto il capo supremo Della milizia celeste: Michele che, pieno di valore, Ha abbattuto il demonio (Seguiamo la versione antica del Breviario monastico, non quella del Breviario romano, ritoccata da Urbano VIlI).

Origine della festa.

La festa dell’otto maggio richiama il ricordo dell’apparizione al monte Gargano e nel Medioevo si celebrava soltanto nell’Italia del Sud. La festa del 29 settembre è propria di Roma e segna l’anniversario della Dedicazione di una basilica, oggi scomparsa, che sorgeva sulla via Salaria, a Nord-Est della città. Il fatto della dedicazione spiega il titolo conservato alla festa nel Messale Romano: Dedicatio sancti Michaèlis. Le Chiese di Francia e Germania, che nel Medioevo seguivano la liturgia romana, hanno attenuato spesso nei loro libri liturgici il titolo originario della festa, che venne presentata come festa In Natale o In Veneratione sancti Michaèlis, così che dell’antico titolo non restava altro che il nome dell’Arcangelo.

L’ufficio di san Michele.

Anche l’Ufficio non poteva conservare il ricordo della dedicazione. Infatti gli antichi Uffici relativi alle dedicazioni celebravano il santo in onore del quale la chiesa era consacrata e non l’edificio materiale in cui egli era onorato; non avevano perciò niente di impersonale e rivestivano anzi un carattere molto circostanziato. L’Ufficio di san Michele può essere considerato una delle più belle composizioni della nostra liturgia e ci fa contemplare ora il principe delle milizie celesti e capo degli angeli buoni, ora il ministro di Dio, che assiste al giudizio dell’anima di ogni defunto, ora ancora l’intermediario, che porta sull’altare della liturgia celeste le preghiere dell’umanità fedele.

L’Angelo turiferario. I primi Vespri cominciano con l’Antifona Stetit Angelus, che deriva il testo dall’Offertorio della Messa del giorno: « Un angelo stava presso l’altare del tempio e aveva un incensiere in mano: gli diedero molto incenso e il fumo profumato si elevò fino a Dio ». L’Orazione della benedizione dell’incenso alla Messa solenne designa il nome di questo angelo turiferario: « Il beato Arcangelo Michele ». Il libro dell’Apocalisse dal quale son presi i testi liturgici ci spiega che i profumi, che salgono alla presenza di Dio sono le preghiere dei giusti: « Il fumo degli aromi formato dalle preghiere dei santi salgono dalla mano dell’angelo davanti a Dio » (Apoc. 8, 4).

Il Mediatore della Preghiera eucaristica.

È ancora Michele che presenta al Padre l’offerta del Giusto per eccellenza ed Egli infatti è designato nella misteriosa preghiera del Canone della Messa in cui la santa Chiesa chiede a Dio di portare sull’altare sublime, per mano dell’Angelo Santo, l’oblazione sacra in presenza della divina Maestà. È cosa molto sorprendente notare negli antichi testi liturgici romani che san Michele è sovente chiamato l’Angelo Santo, l’Angelo per eccellenza. Probabilmente sotto il pontificato di Papa Gelasio fu compiuta la revisione del testo del Canone nel quale l’espressione al singolare Angeli tui fu sostituita con quella al plurale Angelorum tuorum. Proprio a quell’epoca, sul finire del v secolo, l’Angelo era apparso al vescovo di Siponto, presso il Monte Gargano.

Vocazione contemplativa degli Angeli.

Come si vede la Chiesa considera san Michele mediatore della sua preghiera liturgica; egli è posto tra l’umanità e la divinità. Dio, che dispose con ordine ammirabile le gerarchie invisibili (Colletta della Messa) impiega, per opulenza, a lodare la sua gloria il ministero degli spiriti celesti, che contemplano continuamente l’adorabile faccia del Padre (Finale del Vangelo della Messa) e, meglio che gli uomini, sanno adorare e contemplare la bellezza delle sue infinite perfezioni. Mi-Ka-El: Chi è come Dio? Il nome esprime da solo, nella sua brevità, la lode più completa, la più perfetta adorazione, la riconoscenza totale per la trascendenza divina e la più umile confessione della nullità delle creature. Anche la Chiesa della terra invita gli spiriti a benedire il Signore, a cantarlo, a lodarlo e esaltarlo senza soste (Introito, Graduale, Communio della Messa; Antifona dei Vespri). La vocazione contemplativa degli Angeli è modello della nostra e ce lo ricorda un bellissimo prefazio del Sacramentario leoniano: « È cosa veramente degna… rendere grazie a Te, che ci insegni, per mezzo del tuo Apostolo, che la nostra vita è trasferita in cielo, che, con benevolenza comandi, di trasportarci in spirito là dove quelli che noi veneriamo servono e di tendere verso le altezze, che nella festa del beato Arcangelo Michele contempliamo nell’amore, per il Cristo nostro Signore ».

Aiuto dell’umanità.

La Chiesa sa pure che a questi spiriti consacrati al servizio di Dio è stato affidato un ministero al fianco di coloro, che devono raccogliere l’eredità della salvezza (Ebr. I, 14). Senza attendere la festa del 2 ottobre, dedicata in modo speciale agli Angeli custodi, la Chiesa già oggi chiede a san Michele e ai suoi Angeli di difenderci nei combattimenti che dobbiamo sostenere (Alleluia della Messa; Preghiera ai piedi dell’altare dopo l’ultimo Vangelo). Chiede ancora a san Michele di ricordarsi di noi e di pregare per noi il Figlio di Dio, perché  nel giorno terribile del giudizio non abbiamo a perire. Nel giorno terribile del giudizio il grande Arcangelo, vessillifero della milizia celeste, difenderà la nostra causa davanti all’Altissimo (Antif. Del Magnificat ai secondi Vespri) e ci farà entrare nella luce santa (Offertorio della Messa dei defunti).

Preghiera.

Da questa terra, nella lotta contro le potenze del male, possiamo rivolgere all’Arcangelo la preghiera di esorcismo che Leone XIII inserì nel rituale della Chiesa Romana: « Principe gloriosissimo della celeste milizia, san Michele Arcangelo, difendici nel combattimento contro le forze, le potenze, i capi del mondo delle tenebre e contro lo spirito di malizia. Vieni in soccorso degli uomini, che Dio ha fatti a sua immagine e somiglianza e riscattati a duro prezzo dalla tirannia del diavolo. » La Santa Chiesa ti venera come custode e patrono; Dio ti ha confidato le anime redente per portarle alla felicità celeste. Prega il Dio della pace, perché schiacci satana sotto i nostri piedi, per strappargli il potere di tenere gli uomini in schiavitù e di nuocere alla Chiesa. Offri le nostre preghiere all’Altissimo perché  sollecitamente scendano su noi le misericordie del Signore e il dragone, l’antico serpente, chiamato diavolo e satana, sia precipitato, stretto in catene, nell’abisso, perché non possa più sedurre i popoli »

[Dom Gueranger: l’anno Liturgico. Ed. Paroline, Alba, 1957]

LA GRAZIA E LA GLORIA (29)

LA GRAZIA E LA GLORIA (29)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO III

Conseguenze dei caratteri personali. – Lo Spirito Santo è la causa della nostra adozione.

I. – All’adozione dei figli di Dio contribuiscono essenzialmente due elementi: la grazia creata e la Grazia increata; in altre parole, la partecipazione finita alla natura divina con i privilegi che ne derivano e la sostanziale dimora di Dio nell’anima santificata. Ora, se c’è una verità evidente, è che il beneficio dell’adozione, considerato sia in se stesso, sia nei suoi principi costitutivi, è singolarmente attribuito allo Spirito Santo dalle Scritture e dagli interpreti della rivelazione. Quando io interrogo i nostri santi Libri per domandare loro chi ci abbia formato ad immagine del Figlio eterno, chi ci abbia costituiti figli per adozione del Padre, essi hanno una sola risposta: lo Spirito Santo! È lo Spirito Santo che grida in noi, cioè che ci dà il potere di dirci in tutta verità, figli e non più schiavi: Abbà, Padre (Gal, IV, 6-7; Rm VIII, 15); Colui che si unisce alla nostra anima ci fa agire come figli di Dio; Colui la cui intima presenza e operatività testimonia al nostro spirito che non portiamo invano questo titolo glorioso (Rm VIII, 14, 16); Colui il cui possesso ci fa conoscere che abitiamo in Dio e che Dio abita in noi (Joan. V, 13). Tutta la Tradizione fa eco ai Libri Sacri su questo punto. I testi si presenterebbero in abbondanza, se fosse necessario portarli a sostegno di una verità così evidente. Chi non sa, ad esempio, quante volte, parlando del Battesimo, si rappresenta lo Spirito di Dio portato sulle acque, come nei primi giorni del mondo, per fecondarle e infondere loro la virtù di produrre i figli di Dio? È per uno scopo simile che ci mostra lo Spirito Santo che scende sotto forma di colomba al battesimo di Gesù Cristo, non ovviamente per santificarlo, ma per rappresentare ciò che farà nelle membra di Cristo nel Sacramento della loro rinascita e adozione. È impossibile non riconoscere in tutti questi testi e in altri simili un meraviglioso parallelo tra la generazione temporale del Figlio per natura e la nascita spirituale dei figli adottivi. « Come potrà avvenire ciò? Come potrò io, la cui verginità non conosce uomo, diventare la madre del mio Dio? » Questa fu la domanda che la divina Maria pose all’Angelo. E Gabriele le rispose: « lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra » (Lc 1, 34-35). Come può rinascere un uomo già vecchio – si chiede Nicodemo, il fariseo a cui Gesù Cristo predica la rigenerazione spirituale dei figli adottivi? E Gesù gli risponde: « In verità, in verità nessuno può entrare nel regno di Dio se non nasce da acqua e da Spirito Santo » (Gv., III. 4-5. Cfr. L. I, c. 2.): dall’acqua, come causa strumentale e secondaria; dallo Spirito Santo, come causa principale e sovrana. – Ho letto in alcuni antichi Dottori, e in particolare in Sant’Ireneo, che lo Spirito di Dio è « il seme vivo e vivificante del Padre » (Sant’Ireneo, de Hæres, L. IV, c. 31, n. 2 P. Gr. t. 7, p. 1069). Una figura audace, di fronte alla quale quasi tutti i Padri che sono venuti dopo di lui sembrano aver indietreggiato, forse per paura dell’abuso che se ne potesse fare. In ogni caso, purché depurato da tutto ciò che potrebbe essere materiale, esso rende felicemente il duplice ruolo dello Spirito di Dio nella concezione del Verbo fatto uomo e nella formazione degli altri figli adottivi, le sue copie e i suoi fratelli (S. Jean Damasc., de F. Orthod., L. III, c. 2: P. Gr. t. 7, p. 985, col. S. Thom. P., q. 32, a. 2, ad 3; S. Thom, 3. p:, q. 32, a. 2, ad 2). In entrambi i casi, è la virtù fecondante dello Spirito di Dio che opera, là nel grembo della Vergine, qui nel grembo delle acque, secondo un paragone più volte usato dalla Chiesa. – Non mi dilungherò oltre su questo parallelo. Quanto ho detto è più che sufficiente, non solo per mostrarci nello Spirito Santo l’autore e la fonte della nostra adozione, ma anche per insegnarci il significato di questa formula. L’analogia, direi quasi l’identità delle espressioni, ci avverte a sufficienza che definire l’analogia, direi quasi l’identità delle espressioni, ci avverte abbastanza che definire il ruolo dello Spirito Santo nel concepimento del Dio-Uomo significa anche dare una comprensione di ciò che Egli sia nella nostra nascita soprannaturale.

2. – Ora, cosa ci insegna la teologia sul significato di questa formula del simbolo o di altre equivalenti: « Concepito di Spirito Santo? » Lo Spirito Santo è il principio che, unendosi all’umanità del Salvatore, costituirebbe formalmente il Dio fatto uomo? – Sarebbe un’eresia crederlo, e non c’è nulla nei testi che permetta una simile interpretazione. Vogliamo dire, almeno, che l’operazione che Nostro Signore formò nel sacro grembo della Vergine, fosse l’operazione propria e personale dello Spirito Santo? No ancora: perché la fede ci insegna che le operazioni esterne di Dio, di qualunque natura, e qualunque effetto producano, sono comuni alle tre Persone divine. « Il Padre mio – rispondeva Gesù ai farisei ipocriti e invidiosi che gli rimproveravano di violare il sabato con le sue opere miracolose – il Padre mio opera sempre e anch’io opero. Tutto ciò che il Padre fa, il Figlio lo fa come lui. » (Joan. V, 17-19). Uno stesso Dio può avere una sola natura, una sola volontà, una sola potenza e, di conseguenza, una sola azione indivisibile. – E allora perché attribuiamo così costantemente allo Spirito Santo ciò che non è affatto suo come principio formale, né di Lui solo come causa efficiente? È qui che dobbiamo fare riferimento alle leggi di appropriazione. Senza dubbio, l’operazione misteriosa che formerà l’umanità del Salvatore e lo unirà sostanzialmente al Verbo eterno, non è di una Persona a sé stante. Ma questa operazione, per quanto comune, presenta una particolare affinità e speciali analogie con le proprietà di questo Spirito divino; ed è questo il fondamento dell’appropriazione. Diamo ancora una volta la parola al dottore Angelico. Dopo aver dichiarato che il concepimento del corpo di Nostro Signore è opera di tutta la Trinità, considera tre ragioni principali che ci obbligano ad attribuirlo singolarmente allo Spirito Santo (S. Thom., 3 p., q. 32, a. 1. Cfr. Leon. XIII, Encycl. Divinum, 1897). È necessario tradurli quasi per intero, poiché, riportandoli, daremo così ciò che rende il mistero dell’adozione appropriato allo stesso Spirito. – « Ciò che richiede questa appropriazione, dice, è innanzitutto la causa dell’Incarnazione, considerata dal lato di Dio. Perché lo Spirito Santo è personalmente l’amore del Padre e del Figlio. Ora, l’incarnazione del Figlio di Dio, nel grembo purissimo della Vergine, è eccellentemente un’opera d’amore, perché il Salvatore stesso ha detto nel suo Vangelo: Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo unico Figlio (Joan. III, 16). Ciò che ancora la richiede è la causa dell’Incarnazione, considerata dal lato della natura che il Verbo ha fatto sua. Infatti, da questo impariamo che, se l’umanità del Salvatore è entrata nell’unità della sua Persona, non è stato per merito suo, come alcuni eretici hanno sognato, ma per semplice liberalità, per pura bontà. Non è forse allo Spirito Santo, il Dono sostanziale di Dio, che la Scrittura attribuisce tutta la grazia, secondo le parole dell’Apostolo: c’è grande diversità di grazie, ma non c’è che uno stesso Spirito. (I Cor., XII, 4). Infine, ciò che la richiede è l’Incarnazione, considerata dal punto di vista del suo fine: perché si stava facendo l’uomo, concepito dalla Vergine Maria, il Santo per eccellenza e il Figlio eterno del Padre. Ora, la terza Persona della Trinità non è forse lo Spirito Santo, lo Spirito di santificazione (Rom. I, 4; Luca, I, 35)? Vediamo che è attraverso i tre caratteri personali che abbiamo studiato nello Spirito Santo, e per la triplice relazione del mistero con questi stessi caratteri, che il Dottore Angelico dà conto dell’appropriazione allo Spirito Santo di un’opera essenzialmente comune alle tre Persone. – Cosa serve perché le stesse considerazioni ci facciano intendere come e perché l’opera di adozione sia singolarmente affermata dallo Spirito Santo? Basta cambiare semplicemente i termini. Anch’essa è opera dell’amore (Bossuet, Meditazione sul Vangelo, Serm. Sulla montagna, 22° giorno); anch’essa previene ogni merito; anch’essa conduce direttamente alla vita soprannaturale dell’adottato, cioè alla santità, Aggiungiamo che è il più alto complemento della natura razionale e che, di conseguenza, anche da questo punto di vista, ha la sua speciale affinità con Colui che ci è apparso come l’ultima perfezione della Trinità, il sigillo delle processioni divine. – Ci sono forse alcuni per i quali questa idea di appropriazione è poco più di una parola, vuota di significato, incapace di fornire una spiegazione dei fatti e dei testi che si vogliono interpretare a suo aiuto. Ma immagino che lo giudicherebbero in modo molto diverso, se avessero meditato a sufficienza su ciò che essa implichi e su ciò che essa contenga. Non è dunque nulla dire dello Spirito Santo che abbia, nella sua proprietà personale, delle ragioni particolari per essere considerato l’autore della nostra adozione; titoli che le altre Persone non possiedono in virtù del loro carattere ipostatico e, di conseguenza, un diritto singolare di rivendicare per sé tutto ciò che contribuisce a renderci figli adottivi di Dio? Ed ecco ciò che è per gli Scolastici e per noi, l’appropriazione. – È quindi facile comprendere perché le Sacre Scritture, e la Chiesa dopo di esse, volendo darci una qualche comprensione delle misteriose proprietà dello Spirito divino affermano specialmente di Esso ciò che di sua natura è opera comune di tutta la Trinità. Possiamo anche intravvedere quale significato dobbiamo dare sia a queste espressioni, sia ad altre dello stesso tipo, che citiamo nel primo libro: « Ogni creatura (santificata) diventa partecipe del Verbo nello Spirito Santo: è attraverso lo Spirito che partecipiamo alla natura divina… è attraverso di Lui  che siamo rinnovati. (S. Atanasio, ad Serap., cp. 1, n. 22-24, P. Gr., t. 26, p. 582, ss.); attraverso di lui il Cristo è formato in noi (S. Cirillo, de Trinit, Dial. VIII, t. cit. Papa S. Leone ha riassunto molto felicemente le idee contenute in questo capitolo: « Cujus spiritalem originem in regeneratione quisquis consequitur; et omni homini renascenti aqua baptismatis instar est uteri virginalis, codem Spiritu replente fontem qui replevit et Virginem ». S. Leo M. sermo in Nativ. Dom. 4. Ibid. p. 211, P. L. t. 54, p. 206. E ancora: « Factus est (Unigenitus) homo nostri generis, ut nos divinæ naturæ possimus esse consortes. Originem quam sumpsit in utero Virginis, posuit in fonte baptismatis; dedit aquæ quod dedit matri: virtus enim Altissimi et obumbratio Spiritus sancti quæ fecit ut Maria pareret Salvatorem, ædem facit ut regeneret unda credentem. Idem Serm. in Nativ. Dom s. Ibid. p. 211. Non sarà inutile, alla fine di questo capitolo, osservare che Leone XIII, nella sua Enciclica Divinum illud munus, ha confermato con la sua autorità la dottrina comune dell’appropriazione. « Non quod perfectiones cunctæ (divinitatis) atque ope a extrinsecus edita Personis Divinis communia non sint :… verum quod ex comparatione quadam et propemodum affinitate quæ inter opera ipsa et personarum proprietates intercedit, ea alteri potius quam alteri addicuntur, sive ut aiunt, appropriantur ». Da ciò consegue che le opere di santificazione sono generalmente attribuiti allo Spirito Santo). Pertanto, tutti questi favori divini non sono altro, nella sostanza, che la grazia dell’adozione.

NOVENA ALLA MADONNA DEL ROSARIO (Inizia il 28 settembre, festa 7 ottobre)

NOVENA ALLA MADONNA DEL ROSARIO (Inizia il 28 settembre, festa 7 ottobre)

I. Per quella pietà veramente divina che Voi mostraste di tutta la Cristianità allorquando, per liberarla dai disordini i più scandalosi e dalle eresie le più fatali, non che dai castighi imminenti per parte della divina Giustizia, disarmaste il braccio già alzato del vostro divin Figliuolo, e comparendo al vostro buon servo il Patriarca Domenico, gli faceste il dono singolarissimo del vostro S. Rosario, perché ne inculcasse la recita a tutto il mondo, predicandolo come il mezzo più efficace ad estirpar l’eresie, a correggere i vizi, a promuovere le virtù, a meritar la divina misericordia, a difendere la Santa Chiesa, intercedete a noi tutti, cara madre Maria, di praticare costantemente con vero spirito di fervore una devozione così santa, così potente. —

Regina sacratissimi Rosarii, ora pro nobis. Cinque Ave in memoria dei cinque Misteri Gaudiosi, poi un Gloria.

II. Per l’eccellenza ineffabile di quelle divine orazioni che compongono il vostro Rosario, per mezzo delle quali indirizziamo al trono della divina Misericordia le preghiere che sono tutt’insieme le più doverose, le più ordinate, le più importanti, le più efficaci; e per quei grandi misteri che, sollevando la nostra mente a contemplare i gaudi, le pene, le glorie di Voi e del vostro Unigenito, ricordandoci come in compendio i principali tratti della grand’opera della comune Redenzione, in cui aveste Voi tanta parte, intercedete per noi tutti, o cara madre Maria, di esser sempre riconoscenti a quei divini favori che da Gesù insieme e da Voi ci furono nella pienezza dei tempi impartiti, e di modellar sempre la nostra condotta sopra gli esempj santissimi di Colui ch’è propriamente la Via, la Verità e la Vita di tutti gli uomini, non altrimenti che di Voi, che siete lo specchio d’ogni giustizia, il vaso più insigne di devozione, e il modello il più perfetto di tutte le cristiane virtù. —

Regina sacratissimi Rosarii, ora pro nobis. Cinque Ave in memoria dei cinque Misteri Dolorosi, poi un Gl.

III. Per quei gloriosi trionfi che riportò in ogni secolo il vostro S. Rosario, sbaragliando eserciti, umiliando ribelli, richiamando eretici, illuminando infedeli, convertendo peccatori, infervorando tiepidi, perfezionando giusti, ridonando così la pace alle famiglie, la tranquillità agli Stati, l’allegrezza alla Chiesa, per quegli infiniti miracoli che si operarono colla recita e coll’uso della corona, arrestando torrenti, dissipando gragnuole, sedando tempeste, estinguendo incendi, liberando ossessi, guarendo infermi e risuscitando defunti; per quell’impegno vivissimo che mostrarono i Principi e i Prelati d’introdurre, di sostenere e di propagare, fino coi vistosi sacrifici delle proprie sostanze, una devozione così eccellente: finalmente con quei divini tesori di privilegi e di indulgenze che i S. Vicari di Cristo versarono a larga mano sopra coloro che si mettono sotto le bandiere di questa celestiale instituzione, intercedete a noi tutti, o cara madre Maria, di praticar sempre in maniera la divozione del S. Rosario, di ritrarne tutti i vantaggi pei quali venne istituito, ed acquistare tutte le indulgenze che vi concessero i sommi Pontefici; quindi ci adoperiamo con ogni sforzo per insinuare in chi la trascura, o ravvivare in chi la pratica con freddezza, una divozione cosi degna della comune venerazione. – Regina sacratissimi Rosarii, ora pro nobis.

Cinque Ave in memoria dei cinque Misteri Gloriosi, poi un Gl.

ORAZIONE.

Deus, cujus Unigenitus, per vitam, mortem, et resurrectionem suam nobis salutis æternæ præmia comparavit concede, quæsumus: ut hæc misteria sanctissimo beatæ Mariæ Virginis Rosario recolentes, et imitemur quod continent, et quod promittunt assequamur. Per eundem Dominum, etc.

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX Ed., Milano, 1888]

SANTI COSMA E DAMIANO (27 SETTEMBRE)

Santi Cosma e Damiano

[B. Baur: I Santi nell’Anno Liturgico; Herden ed. 1958]

27 settembre

Ss. Cosma e Damiano, Martiri

I. Secondo un’antica tradizione largamente diffusa, alla cui base sta certamente un nocciolo storico, anche se con molto di leggendario, i fratelli gemelli Cosma e Damiano discendevano da una pia famiglia cristiana. Entrambi erano medici nella città di Egea in Cilicia. Poiché non volevano compensi per i loro servigi ai malati, furono detti « Anargyroi » ossia guaritori disinteressati. Essi guarivano gl’infermi col segno della croce più che con l’arte medica. Si servivano della medicina soprattutto per guadagnare i pagani a Cristo. Così facendo ebbero tanto successo che i pagani li denunciarono a Lisia, luogotenente di Diocleziano. Questi li fece tormentare crudelmente e gettare prima in mare e poi nel fuoco; ma ogni volta furono salvati per l’intervento miracoloso del Signore. Alla fine furono uccisi di spada. Il loro culto era già largamente diffuso in Oriente al principio del secolo 59. Anche in Roma, dal 500 in poi sorsero numerosi santuari in onore dei due Santi. L’Introito della festa odierna fu redatto per la dedicazione della basilica dei Ss. Cosma e Damiano al Foro Romano, intorno all’anno 530. I nomi di entrambi i Martiri sono citati nel canone della Messa.

2. – « Tutto il popolo cercava di toccarlo; perché  da lui scaturiva una forza che sanava tutti ». Così narra il Vangelo della messa odierna. Il Signore che al tempo della sua vita terrena risanò gli infermi e liberò gli ossessi (Vangelo) partecipa ai due medici Cosma e Damiano qualcosa del suo potere sulle malattie. Essi sono veramente medici cristiani, che adoperano la propria arte con fede nella forza del Signore che agisce in loro e con fiducia nel suo aiuto: medici che ripongono la loro fiducia più sulla virtù del segno di croce e nella potenza del soprannaturale, che non nella loro arte e nelle forze della natura: medici che esercitano le loro pratiche senza esigere nulla dai poveri infermi, ma unicamente per amore di Dio e di Cristo, per nobilissima carità cristiana. « Quello che avete fatto al minimo dei miei fratelli, lo avete fatto a me» (Matt. XXV, 41). Essi vogliono esser poveri coi poveri, confidando nella promessa del Signore: « Beati voi poveri, perché  vostro è il regno di Dio ». Quelli che sono poveri nel senso di Cristo non sono più in balìa delle cose create, dei beni e dei valori terreni. Liberati dalla signoria di questi, sono posti in condizione di aprire le anime loro alla luce dall’alto, alla grazia, al fluir della vita che Dio vuol loto partecipare. « Beati voi che adesso avete fame, perché sarete saziati» (Vangelo). Quanto bene comprendono Cosma e Damiano questa beatitudine! Per soccorrere gl’infermi essi sacrificano il loro tempo, le loro forze, la loro salute. Soffrono la fame per calmare quella degli affamati. Questo è genuino Cristianesimo, questa è vera carità! Nessuna meraviglia che il Signore accompagni con la sua benedizione la loro attività. « Beati sarete quando gli uomini vi odieranno, vi bandiranno e vitupereranno, e ripudieranno come abominevole il vostro nome, per cagione del Figlio dell’uomo », vale a dire perché credete in Cristo e per lui vivete. Proprio perché i due medici si occupano tanto amorevolmente dei poveri infermi ed adoperano la loro arte sanitaria per guadagnare i pagani a Cristo. contribuendo così a distruggere il regno di satana, essi vengono accusati presso il governatore Lisia. Viene loro ingiunto di rinnegare Cristo. Essi si rifiutano. Preferiscono sopportare l’odio degli uomini e lasciarsi torturare e uccidere dagli aguzzini. Sanno che « i giusti vivranno in eterno ». « Grande è la vostra ricompensa nei cieli ». « Riceveranno il regno della magnificenza e il diadema della bellezza dalla mano del Signore» (Epistola). « I giusti alzarono grida (al Signore per aver forza nelle loro pene e tormenti): e Dio li esaudì e li liberò da ogni loro angustia (dal profondo del mare in cui erano stati precipitati e dall’ardore del fuoco in cui erano stati gettati). Il Signore è vicino ai tribolati di cuore, e salva quelli che sono umili di Spirito » (Graduale). Oggi li vediamo meravigliosamente onorati da Dio in cielo. « Beati sarete, quando gli uomini vi odieranno per cagione del Figlio dell’uomo » perché siete fedeli a Cristo e vivete per lui con amore e con fedeltà.

3. – Nei santi Cosma e Damiano riconosciamo noi stessi. A noi vien detto: « Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio. Beati voi che adesso avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che adesso piangete, perché riderete. Beati sarete quando gli uomini vi odieranno, vi bandiranno e vitupereranno, e ripudieranno come abominevole il vostro nome per cagione del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli » (Vangelo). Proprio questo vogliamo partecipando alla celebrazione del santo Sacrificio: offrendo Lui vogliamo farci accogliere nella sua dedizione a Dio ed essere con Lui un’oblazione al Padre; vogliamo essere immolati con Cristo e siamo pronti a vivere insieme a Lui la sua vita di povertà, di umiliazione, di volontaria rinuncia. « Ma guai a voi, o ricchi, perché avete già la vostra consolazione. Guai a voi che siete satolli, perché patirete la fame. Guai a voi che

ora ridete, perché piangerete e gemerete. Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di voi» (Luc. VI, 24-26)

Preghiera

Fa, ti preghiamo, O Dio onnipotente, che celebrando la festa dei tuoi santi martiri Cosma e Damiano, noi siamo liberati per la loro intercessione da tutti i mali che ci minacciano. Amen

AI SS . FRATELLI MM. COSMA E DAMIANO (27 sett.)

martirizzati sotto Diocleziano nel 303.

[G. Riva: Manuale di Filotea, XXX ed. Milano, 1888]

1. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che quanto foste naturalmente fra voi congiunti per identità di origine, cospicuità di casato, singolarità di talenti, specialità di tendenze, altrettanto foste sempre umilissimi nell’aderir fedelmente ai primi inviti del Signore, che volendo fare di voi due perfettissimi modelli di fratellanza cristiana, vi inspirò la generosa risoluzione di consacrarvi entrambi perpetuamente ad un apostolato quanto nuovo ed efficace, altrettanto nobile e meritorio, applicandovi sempre gratuitamente alla cura del prossimo travagliato da qualche infermità, impetrate a noi tutti la grazia che dei vincoli anche più naturali di parentela, di amicizia, di impiego, non ci serviam mai peraltro, che per reciprocamente avanzarci nella cognizione e nel I’amore di Gesù Cristo, in cui solo diventano sante e proficue tutte quante le relazioni coi nostri simili. Gl..

II. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che dei vostri singolari talenti nella professione nobilissima della medicina non vi serviste mai che per operare il maggior bene dei prossimi, non solo curandoli senza ombra di interesse nelle varie loro malattie, per cui veniste da tutti distinti col soprannome onorifico di Anargiri, che è quanto dire senz’argento, ma procurando ancora colle vostre preghiere un’efficacia sempre sicura a tutte le vostre mediche ordinazioni per poi guarir d’ogni errore e d’ogni vizio quelli stessi che da voi riconoscevano il loro corporale risanamento, impetrate a noi pure la grazia, che, staccati affatto dalle cose di questa terra, non usiamo mai dei nostri talenti e delle nostre sostanze, che per procurare ai nostri prossimi l’unico bene che si merita la nostra stima, qual è la santificazione dell’anima, nell’atto stesso che in ispirito di carità ci facciamo un dovere di assisterli in tutti i bisogni del corpo. Gl.

III. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che, in premio della vostra costanza nel rifiutarvi ai sacrileghi sacrificj cui tentò con ogni mezzo di indurvi in nome dell’imperatore Diocleziano il suo crudelissimo emulatore Lisia prefetto della Cilicia, vi vedeste prodigiosamente preservati così dall’affogamento nelle acque del mare, come dall’abbruciamento tra le fiamme delle ardenti cataste, in cui legati nelle mani e nei piedi foste dai carnefici precipitati, ottenete a noi tutti la grazia che, conservandoci sempre fedeli a tutti i nostri doveri, così di religione, come di stato, non riportiamo mai il più piccolo nocumento nė dagli ardori della concupiscienza che interiormente non cessa di molestarci, né dalle torbide acque degli scandali e delle insidie del mondo, che da ogni parte ci ammorbano e da per tutto minacciano di affogarci. Gl.

IV. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che consumato appena il vostro sacrificio col troncamento del capo con cui volle il Signore sollecitare il vostro incoronamento su in cielo, vedeste all’invocazione del vostro nome, e pel veneramento delle vostre reliquie, moltiplicarsi per modo i prodigi delle guarigioni le più istantanee dalle infermità le più disperate, che in ogni parte del mondo vi si dedicarono altari e templi, e la Chiesa vi ascrisse nel novero di quei Santi, la cui invocazione è obbligatoria per tutti i sacerdoti nella celebrazione della Messa, impetrate a noi tutti la grazia che, studiandoci sempre di imitar fedelmente le eminenti virtù di cui foste resi modelli, meritiamo di essere da voi efficacemente assistiti in tutti i nostri bisogni così di corpo, come di spirito. Gl.

V. Gloriosissimi martiri Cosma e Damiano, che non paghi di prestarvi sempre solleciti al risanamento di quegli infermi che in voi riposero la propria confidenza, vi degnaste ancora più volte di consolarli preventivamente colla vostra personale apparizione, come faceste specialmente coll’Imperatore Giustiniano nell’atto d’accordargli perfetta guarigione da quei mali che l’avevano ridotto agli estremi, per cui da Giustiniano medesimo in Costantinopoli, e dal sommo Pontefice S. Felice in Roma vi si innalzarono bentosto i più magnifici templi, e nel secondo Niceno Concilio, tenuto contro gli Iconoclasti, si celebrarono i prodigi da voi operati come una prova innegabile della sovrumana efficacia della invocazione dei Santi e della legittimità del culto che prestasi alle loro immagini e alle loro Reliquie; impetrate a noi tutti la grazia di sempre riguardare la santa Chiesa come maestra infallibile di verità, e quindi di zelar sempre con Lei la maggior possibile venerazione a tutto ciò che Ella reputa degno del nostro culto, e di sempre onorare per modo i Beati che godono in Dio la ricompensa della loro santità, da meritarci la partecipazione alla lor gloria nell’altra vita, dopo di aver ben usato della loro amorosa assistenza nella presente. Gl.

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (25)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (25)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Il Paradiso sulla terra

«Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia.

«Il giorno in cui l’ho compreso, tutto si è illuminato in me; ed io vorrei confidare questo segreto a tutti quelli che amo ».

Come si può trovare il Paradiso sulla terra (*).

(*) Suor Elisabetta della Trinità compose questo ritiro nell’estate 1906, qualche mese prima della sua morte, per rispondere al desiderio di un’anima che le era tanto cara — sua sorella — e che l’aveva pregata di iniziarla al segreto della sua vita interiore. Quì, come nell’« Ultimo ritiro », i sottotitoli sono nostri.

Orazione Prima

La Trinità: ecco la nostra dimora

« Padre, voglio che là dove sono io, siano anche coloro che tu mi hai dati, affinché vedano la gloria che tu mi desti, avendomi amato prima che il mondo fosse » (San Giovanni, XVII-24.). Questa è l’ultima volontà di Cristo, la sua preghiera suprema prima di ritornare al Padre. Egli vuole che, là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità, ma anche ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso. È necessario dunque sapere dove dobbiamo vivere con Lui, per realizzare il suo sogno divino. –  « Il luogo dove sta nascosto il Figlio di Dio è il seno del Padre, ossia l’Essenza divina, invisibile ad ogni occhio mortale, inaccessibile a ad ogni intelligenza umana; il che faceva esclamare ad Isaia: «Tu sei veramente un Dio nascosto » (Is. XLV, 15). Eppure, ci vuole stabili in Lui, vuole che dimoriamo dove Egli dimora, nell’unità dell’amore; vuole che siamo, per così dire, quasi la sua ombra. « Il Battesimo — dice san Paolo — ci ha innestati in Gesù Cristo (Rom. VI, 5). E ancora: « Dio ci fece sedere nei Cieli con Cristo, per dimostrare ai secoli futuri le immense ricchezze della sua grazia » (Ephes. II, 6-7). E aggiunge poi: « Non siete adunque più ospiti e stranieri, ma siete concittadini dei Santi ed appartenete alla famiglia di Dio » (Ephes. II, 19) . La Trinità: ecco la nostra dimora, la nostra cara intimità, la casa paterna dalla quale non dobbiamo uscire mai.

Orazione Seconda

« Rimanete in me »

« Rimanete in me» (S. Giov. XV, 4). È il Verbo di Dio che ci dà questo comando, che esprime questa volontà. « Rimanete in me », non per qualche minuto soltanto, per qualche ora che passa, ma « rimanete » in modo permanente, abituale. Rimanete in me, pregate in me, adorate in me, soffrite in me, lavorate, agite. Rimanete in me quando vi incontrate in qualsiasi persona o cosa; penetrate sempre più addentro in questa profondità, poiché essa è veramente « la solitudine in cui Dio vuole attirare l’anima per parlarle » (Osea, II, 14). Ma, per capire questa parola misteriosa, non bisogna fermarsi alla superficie; bisogna entrare sempre di più, col raccoglimento, nell’Essere divino. – « Continuo la mia corsa » (Fil. III, 12), esclamava san Paolo; così noi dobbiamo scendere ogni giorno nel sentiero dell’abisso che è Dio; lasciamoci scivolare su questa china con una fiducia piena d’amore. «Un abisso chiama un altro abisso » (Ps. XLI). Lì appunto, nella profondità inscrutabile, avverrà l’urto divino; l’abisso della nostra miseria, del nostro nulla, si troverà di fronte all’abisso della misericordia, dell’immensità, del tutto di Dio; lì troveremo la forza di morire a noi stessi, e perdendo la traccia del nostro io, saremo trasformati nell’amore. « Beati quelli che muoiono nel Signore » (Ap. XIII, 12).

Orazione Terza

« Il regno di Dio è dentro di voi »

« Il regno di Dio è dentro di voi» (S, Luc. XVII, 21). Poco fa, Dio ci invitava a rimanere in Lui, a vivere con l’anima nell’eredità della sua gloria, ed ora ci rivela, che, per trovarlo, non è necessario uscire da noi stessi, perché « il regno di Dio è dentro di noi ». San Giovanni della Croce dice che Dio si dà all’anima proprio nella sostanza stessa dell’anima, inaccessibile al mondo e al demonio; allora tutti i suoi movimenti divengono divini, e quantunque siano di Dio, sono anche suoi, perché il Signore li produce in lei e con lei. – Lo stesso santo dice ancora che « Dio è il centro dell’anima »; quando, dunque, essa Lo conoscerà perfettamente, secondo tutta la sua capacità, quando Lo amerà e ne gioirà pienamente, allora sarà arrivata nel centro più profondo che in Lui possa raggiungere. È vero che l’anima, anche prima di essere giunta a questo punto, già si trova in Dio che è suo centro; ma non è nel suo centro più profondo potendo inoltrarsi ancora di più. Poiché è l’amore che unisce l’anima a Dio, quanto più intenso è questo amore, tanto più profondamente essa entra in Dio e in Lui si concentra. Possedendo anche un sol grado di amore, è già nel suo centro; ma quando questo amore avrà raggiunto la perfezione, l’anima sarà penetrata nel suo centro più profondo, e lì sarà trasformata a tal punto, da diventare molto simile a Dio. A quest’anima che vive « interiormente » possono essere rivolte le parole del Padre Lacordaire a santa Maria Maddalena: « Non chiedere più il Maestro a nessuno sulla terra, a nessuno nel cielo, poiché Egli è l’anima tua, e l’anima tua è Lui ».

Orazione Quarta

« Se qualcuno mi ama »

« Se alcuno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a Lui, e in Lui porremo la nostra dimora» (San Giovanni, XIV-23). – Ecco, il Maestro ci esprime ancora il suo desiderio di abitare « in noi »: « Se qualcuno mi ama… ». L’amore!… È l’amore che attira, che abbassa Dio fino alla sua creatura; non un amore di sensibilità, ma quell’amore « forte come la morte… che le grandi acque non possono estinguere » (Cant. VIII, 6-7). – « Perché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (S. Giov. VIII, 29): così parlava il Maestro divino, ed ogni anima che vuole vivere unita a Lui, deve vivere anche di questa massima, deve fare del beneplacito divino il suo cibo, il suo pane quotidiano, deve, ad esempio del suo Cristo adorato, lasciarsi immolare da tutte le volontà del Padre: ogni incidente, o evento, ogni pena come ogni gioia è un sacramento che le dona Dio; quindi, non fa più alcuna differenza fra l’una o l’altra di queste cose; le oltrepassa, le supera, per riposarsi, al di sopra di tutte, nel suo Dio. E Lo eleva ben alto sulla montagna del suo cuore; sì, più in alto dei Suoi doni e delle Sue consolazioni, più in alto della dolcezza che da Lui discende. La caratteristica dell’amore è di non ricercare mai sé, di non riservarsi nulla, di donare tutto all’oggetto amato. Beata l’anima che ama in verità! Il Signore è divenuto suo prigioniero d’amore.

Orazione Quinta

« Voi siete morti »

«Voi siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio » (Col- III. 3). Ecco che san Paolo viene a farci luce sul sentiero «Voi siete morti »: che cosa vuol dire se non che l’anima la quale aspira a vivere unita a Dio nella fortezza inespugnabile del santo raccoglimento, deve essere distaccata, spogliata e separata da tutto, almeno in ispirito? « Quotidie morior » (I Cor. XV, 31). Quest’anima trova in se stessa un dolce pendio di amore che va a Dio semplicemente; qualunque cosa facciano le creature, essa rimane invincibile; perché passa al di là di tutte le cose, mirando sempre a Dio solo. « Quotidie morior »: muoio ogni giorno; ogni giorno diminuisco, ogni giorno di più rinunzio a me stessa, affinché Cristo cresca e venga esaltato in me. « Quotidie morior »: la gioia dell’anima mia, (quanto alla volontàe non alla sensibilità), la ripongo in tutto ciò che puòimmolarmi, umiliarmi, annientarmi, perché voglio far postoal mio divino Maestro. « Non son più io che vivo; è Luiche vive in me» (Gal. II, 20): non voglio più vivere della miavita, ma essere trasformata in Gesù Cristo, affinché la miavita sia più divina che umana e il Padre, chinandosi sudi me, possa riconoscere l’immagine del « Figlio diletto nelquale ha posto tutte le sue compiacenze ».

Orazione Sesta

« Il nostro Dio è un fuoco consumante »

« Deus ignis consumens » (Ebr. XII, 20). « Il nostro Dio, scriveva san Paolo, è un fuoco consumante, cioè un fuoco d’amore che distrugge e trasforma in se stesso ciò che tocca ». Per le anime che, nel loro intimo, si sono pienamente abbandonate alla sua azione, la morte mistica di cui parla san Paolo diviene tanto semplice, tanto soave! Esse pensano molto meno al lavoro di spogliamento e di distruzione che rimane loro da compiere, che non ad immergersi nel fuoco d’amore che arde in loro, e che è lo Spirito Santo, quello stesso Amore che, nella Trinità, è il vincolo di unione fra il Padre e il suo Verbo. La fede ve le introduce; e là, semplici e quiete, sono da Lui stesso trasportate in alto, più in alto di tutte le cose, al di sopra dei gusti sensibili, fino alla « tenebra sacra », e trasformate nell’immagine divina. Esse vivono, secondo la espressione di san Giovanni, « in società » (I. S, Giovanni, I, 3) con le Tre adorabili Persone; la loro vita è in comune: è la vita contemplativa.

Orazione Settima

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra »

« Sono venuto a portare fuoco sulla terra, e che cosa desidero se non che si accenda?» (San Luca, XII-49.). Il Maestro stesso ci esprime il suo desiderio di veder bruciare il fuoco dell’amore. Infatti, le nostre opere tutte quante, le nostre fatiche sono un nulla al suo cospetto; niente poi possiamo dargli, e nemmeno appagare l’unico suo desiderio che è di accrescere la dignità dell’anima nostra. Vederla aumentare è ciò che più gli piace; ora, nulla può innalzarci tanto, quanto il divenire, in certo senso, uguali a Dio: ecco perché esige da noi il tributo del nostro amore, essendo proprio dell’amore uguagliare, nei limiti del possibile, l’amante all’amato. L’anima che possiede questo amore appare con Gesù Cristo allo stesso livello di uguaglianza, perché il loro reciproco affetto rende ciò che è dell’uno, comune anche all’altro. «Vi ho chiamati amici, perché a voi ho manifestato tutto quello che ho udito dal Padre mio » (San Giovanni, XV-15.). Ma per giungere a questo amore, l’anima deve prima essersi data interamente; la sua volontà deve essersi dolcemente perduta nella volontà di Dio, così che le sue inclinazioni, le sue facoltà, non si muovano più che in questo amore e per questo amore. Faccio tutto con amore, soffro tutto per amore: tale è il senso di ciò che cantava Davide: « Per te custodirò la mia forza » (Salmo LVIII-10.). L’amore, allora, la riempie, l’assorbe, la protegge così bene, che essa trova ovunque il segreto per crescere nell’amore; anche tra le relazioni che deve avere col mondo, tra le preoccupazioni della vita, ha il diritto di dire: mia sola occupazione è amare.

Orazione Ottava

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere »

« Per avvicinarsi a Dio, bisogna credere » (Ebrei, XI-16.). ci dice san Paolo; e soggiunge: « La fede è sostanza delle cose che dobbiamo sperare e convinzione di quelle che non ci è dato vedere » (Ebrei, XI-1.). Cioè, la fede ci rende talmente certi e presenti i beni futuri, che, per essa, prendono quasi essenza nell’anima nostra e vi sussistono prima che ci sia dato fruirne. San Giovanni della Croce dice che la fede « è per noi il piede che ci porta a Dio », che è « il possesso allo stato di oscurità ». Soltanto la fede può darci lumi sicuri su Colui che amiamo, può versare a fiotti nel nostro cuore tutti i beni spirituali; e noi dobbiamo eleggerla come il mezzo sicuro per giungere all’unione beatifica. È la fede quella « sorgente d’acqua viva zampillante fino alla vita eterna » (San Giovanni, IV-14.) che Gesù, parlando alla Samaritana, prometteva a tutti quelli che crederebbero in Lui. La fede, dunque, ci dona Iddio fino da questa vita; ce lo dà ascoso nel velo di cui l’avvolge, ma è tuttavia Lui, Lui realmente. « Quando verrà ciò che è perfetto, (ossia la chiara visione) ciò che è imperfetto (ossia la conoscenza dataci dalla fede) avrà fine » (I Corinti, XIII-10.). « Sì, abbiamo conosciuto l’amore di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I san Giovanni, IV-16.). Questo è il grande atto della nostra fede, il modo di rendere al nostro Dio amore per amore; è il « segreto nascosto è (Col. I, 26) nel cuore del Padre, che riusciamo finalmente a penetrare; e tutto l’essere nostro esulta. Quando l’anima sa credere a questo « eccessivo amore » che su lei si posa, si può dire di lei, come già di Mosè, che essa « è incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile » (Ebrei, XI-27.). Non si arresta più al gusto, al sentimento; poco le importa sentire Dio o non sentirlo, avere da Lui la gioia o la sofferenza: crede al suo amore, e basta, perché, forte di tutti gli ostacoli superati, va a riposarsi nel seno dell’Amore infinito il quale non può compiere che opera d’amore. A quest’anima, tutta desta e attiva nella sua fede, la voce del Maestro può dire nell’intimo la parola che rivolgeva un giorno a Maria Maddalena: « Va” in pace; la tua fede ti ha salvata » (San Luca, VII-50.)

Orazione Nona

« Conformi all’immagine del Figlio »

« Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del suo divin Figlio; e quelli che ha predestinati, li ha pure chiamati; quelli che ha chiamati li ha giustificati; e quelli che ha giustificati, li ha anche glorificati. Che diremo noi, dopo tutto ciò? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi mi separerà dalla carità di Gesù Cristo? » (Romani, VIII, 29-30… 35). – Tale si presenta allo sguardo dell’Apostolo il mistero della predestinazione, mistero della elezione divina. « Quelli che Egli ha conosciuti ». Non siamo noi pure di questo numero? Non può forse Iddio dire all’anima nostra ciò che disse un giorno con la voce del Profeta: «Ti sono passato accanto, e ti ho guardata; ed ecco, era giunto per te il tempo di essere amata; e sopra di te, ho spiegato il mio manto; ti ho giurato fede, ho stretto con te un patto, e tu sei divenuta mia » (Ezechiele, XVI-8.). Sì, noi siamo divenuti suoi col Battesimo: questo appunto vuol dire san Paolo con le parole « li ha chiamati », li ha chiamati a ricevere il sigillo della Trinità santa; mentre ci dice san Pietro che « siamo stati fatti partecipi della natura divina» (II san Pietro, I-4.), che abbiamo ricevuto quasi un « inizio del suo Essere » (Ebrei, III-14.). – Poi, «ci ha giustificati » coi suoi sacramenti, coi suoi tocchi, diretti nelle intime profondità dell’anima raccolta; « ci ha giustificati anche mediante la fede » (Romani, V-1.) e secondo la misura della nostra fede nella redenzione acquistataci da Gesù Cristo. Finalmente, vuole glorificarci; e perciò dice san Paolo, « ci ha resi degni di aver parte all’eredità dei santi, nella luce » (Colossesi, I-12.), ma noi saremo glorificati nella misura in cui saremo trovati conformi all’immagine del suo divin Figlio. Contempliamo dunque questa immagine adorata; restiamo sempre nella luce che da essa irradia, affinché si imprima in noi; poi accostiamoci alle persone, alle cose tutte, con le stesse disposizioni di animo con cui vi si recava il nostro Maestro santo; allora realizzeremo la grande volontà per la quale Dio ha in sé prestabilito di « instaurare tutte le cose in Cristo » (Efesini, 1-9).

Orazione Decima

« Il Cristo è la mia vita »

« Stimo tutte le cose una perdita, rispetto alla eminente cognizione di Cristo Gesù, mio Signore; per amor suo mi sono spogliato di tutto, e tutto tengo in conto di immondizia per possedere Cristo… Ciò che io voglio, è conoscere Lui, voglio la partecipazione ai suoi patimenti, la conformità alla sua morte… lo proseguo la mia corsa, cercando di giungere a quella méta alla quale Egli mi ha destinato, raggiungendomi quando lo fuggivo… Ad una sola cosa miro: dimenticando quello che ho dietro le spalle e protendendomi verso ciò che mi sta davanti, corro diritto alla mèta, alla vocazione alla quale Dio mi ha chiamato, in Cristo Gesù » (Filippesi, III-8…). È come dire: io non voglio più nulla, se non essere immedesimato con Lui. « Mihi vivere Christus est » (Fil. I, 21): Cristo è la mia vita!… Da queste frasi, traspare tutta l’anima ardente di san Paolo. Durante questo ritiro — il cui scopo è di renderci più conformi al nostro adorato Maestro, anzi di fonderci talmente in Lui da poter dire: « Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me, e la sua vita che ora vivo in questo corpo di morte la vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso alla morte per me » (Gal. II, 20): studiamo questo divino modello. La cognizione di Lui, ci dice l’Apostolo, « è così eminente ». Entrando nel mondo, Egli disse: « Gli olocausti non ti sono più graditi; allora ho preso un corpo; ed eccomi, o mio Dio, per fare la tua volontà » (PS. XXXIX, 7-9). E durante i trentatré anni della sua vita, questa volontà fu così perfettamente il suo pane quotidiano, che nel momento di rendere l’anima sua nelle mani del Padre, poteva dirgli: « Consummatum est » (San Giovanni, XIX, 30); sì, la tua volontà, tutta la tua volontà, io l’ho adempiuta; per questo « ti ho glorificato sulla terra» (San Giovanni, XVII, 4.). – Infatti, Gesù parlando ai suoi Apostoli di questo nutrimento che essi non conoscevano, spiegava loro che « consisteva nel far la volontà di Colui che l’aveva inviato sulla terra » (San Giovanni, IV-34.). . E poteva dire: « Io non sono mai solo (San Giovanni, VIII, 16); « Colui che mi ha mandato è sempre con me, perché io faccio sempre ciò che a Lui piace» (Idem, VIII, 29).  Mangiamo con amore questo pane della volontà di Dio; se talvolta la sua volontà sarà più crocifiggente, potremo dire anche noi col nostro adorato Maestro: « Padre, se è possibile, allontana da me questo calice »; ma aggiungeremo subito: «« Non come voglio io, ma come vuoi tu »(S. Matteo, XXVI, 39); quindi, calme e forti, saliremo noi pure il nostro Calvario col divino Condannato; cantando nel profondo dell’anima, ed elevando al Padre un inno di ringraziamento, perché coloro che camminano in questa via dolorosa sono « gli eletti ed i predestinati ad essere conformi all’imamagine del suo divino Figlio » (Rom. VIII, 29), il Crocifisso per amore!

Orazione Undicesima

L’adozione dei figli di Dio

« Dio ci ha predestinati all’adozione di figli per mezzo di Gesù Cristo, in unione con Lui, secondo il decreto della sua volontà, per far risplendere la gloria della sua grazia mediante la quale ci ha giustificati nel Figlio suo di letto, nel quale noi abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati secondo le ricchezze della grazia la quale ha sovrabbondato in noi, in ogni sapienza e prudenza (Ephes. I, 5-8). L’anima, divenuta realmente figlia di Dio è, secondo la parola dell’Apostolo, mossa dallo Spianto stesso: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, sono figli di Dio… ». « Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù per guidarci ancora nel timore, ma lo spirito di adozione a figli, nel quale esclamiamo: — Abba! Padre! — Infatti, lo Spirito stesso rende testimonianza al nostro spirito che noi siamo figlioli di Dio; ma, se siamo figli, siamo anche eredi; dico eredi di Dio e coeredi di Cristo, se però soffriamo con Lui per essere con Lui glorificati » (Rom. VIII, 14-17). E proprio per farci raggiungere questo abisso di gloria, Dio ci ha creati a sua immagine e somiglianza. – « Osservate — dice san Giovanni — quale carità ci ha usata il Padre, concedendoci di essere chiamati figli di Dio, e di esserlo realmente. Adesso, noi siamo figli di Dio; ma non si è ancora manifestato quel che saremo. Sappiamo che, quando si svelerà, noi saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è; e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica, come Egli stesso è santo » (I San Giovanni, III, 1-3). Ecco la misura della santità per i figli di Dio: essere santi come Dio, essere santi della santità di Dio, vivendo in contatto intimo con Lui, « di dentro », nel fondo dell’abisso senza fondo. L’anima sembra avere allora una certa somiglianza con Dio il quale, pur trovando in ogni cosa le sue delizie, mai non ne trova quanto in se stesso, possedendo in sé un bene sovraeminente dinanzi al quale tutti gli altri beni scompaiono. Così, tutte le gioie che all’anima sono concesse, sono per lei come altrettanti inviti a gustare il Bene che possiede, preferendolo a tutto, perché nessun altro bene può essergli paragonato. « Padre nostro che sei nei cieli » (San Matteo. VI, 9). Nel piccolo cielo che Egli si è  fatto nel centro della nostra anima dobbiamo cercarlo e qui, soprattutto, dobbiamo dimorare. Cristo diceva un giorno alla Samaritana che « il Padre cerca veri adoratori in spirito e verità » (San Giovanni, IV-23); ebbene, per dare gioia al suo cuore, siamo noi questi adoratori. Adoriamolo in spirito, cioè avendo il cuore e il pensiero fissi in Lui e lo spirito pieno della cognizione di Lui, mediante il lume della fede. Adoriamolo in verità cioè con le opere, perché con queste soprattutto mostriamo se siamo veraci e sinceri, facendo sempre ciò che piace al Padre di cui siamo figli. Adoriamolo in spirito e verità cioè per mezzo di Gesù Cristo e con Gesù Cristo, perché Lui solo è il vero adoratore in spirito e verità. Allora saremo figli di Dio, ed esperimenteremo la verità di queste parole di Isaia: « Sarete portati sul seno, e sulle ginocchia sarete accarezzati » (Isaia, XLVI-12.). Infatti, sembra che Dio sia tutto e unicamente occupato nel colmare l’anima di carezze e di segni di affetto, come fa una mamma che alleva la sua creaturina e la nutre del suo latte. Oh, siamo attente alla voce misteriosa del Padre che ci dice: « Figliola mia, dammi il tuo cuore » (Prov., XXIII-26.).

Orazione Dodicesima

La Vergine dell’Incarnazione

« Si scires donum Dei! Se tu conoscessi il dono di Dio » (San Giovanni, IV-10.), diceva una sera il Cristo alla Samaritana. Ma che è mai questo dono di Dio, se non Lui medesimo? Il discepolo prediletto ci dice: « Egli è venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno ricevuto » (San Giovanni, I-11.). E san Giovanni Battista potrebbe ripetere ancora a molti quel suo rimprovero: « C’è, in mezzo a voi — in voi — uno che voi non conoscete » (San Giovanni, 1-26.). « Se tu conoscessi il dono di Dio!». Ma una creatura che ha conosciuto questo. dono di Dio, che non ne ha lasciato disperdere la minima particella; una creatura così pura, così luminosa, da sembrare, lei, la stessa Luce: « Speculum iustitiæ »; una creatura la cui vita fu tanto semplice, tanto nascosta in Dio, che quasi nulla se ne può dire. Virgo fidelis: è la Vergine fedele, colei che « custodiva tutto nel suo cuore (San Luca, I, II, 51). Se ne stava così umile, così raccolta dinanzi a Dio nel segreto del Tempio, che attirò le compiacenze della Trinità santa. « Perché Egli ha rivolto lo sguardo alla piccolezza della sua ancella, ormai tutte le generazioni mi chiameranno beata» (San Luca, I, 48). Il Padre, chinandosi verso questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, volle che fosse, nel tempo, la Madre di Colui di cui Egli è Padre nell’eternità. Intervenne allora lo Spirito d’Amore che presiede a tutte le opere divine; la Vergine disse il suo « fiat »: « Ecco l’ancella del Signore; si faccia di me seconde la tua  parola » (62), e il massimo dei misteri si compì. Con la discesa del Verbo in lei, Maria fu per sempre la preda di Dio. – La condotta della Vergine nei mesi che passarono tra l’Annunciazione e la Natività mi pare debba essere di modello alle anime interiori, a quelle anime che Dio ha elette a vivere raccolte « nel loro intimo », nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quanta pace, in quale raccoglimento, Maria agiva e si prestava ad ogni cosa! Anche le azioni più ordinarie erano da Lei divinizzate perché, in tutto ciò che faceva, la Vergine restava pur sempre l’adoratrice del dono di Dio; né questo le impediva di donarsi attivamente anche pella vita esteriore, quando cera da esercitare la carità: il Vangelo ci dice che « Maria percorse con grande sollecitudine le montagne della Giudea, per recarsi dalla cugina Elisabetta » (San Luca, I, 39). La visione ineffabile che contemplava dentro di sé non diminuì mai la sua attività esteriore, perché se la contemplazione si volge alla lode e all’eternità del suo Signore, ha in sé l’unità e non potrà perderla mai.

Orazione Tredicesima

Una lode di gloria

«In Lui siamo stati predestinati per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, ad essere la lode della sua gloria » (Ephes. I, 11-12): è san Paolo che ce lo dice, san Paolo istruito da Dio stesso. Come attuare questo grande ideale del cuore del nostro Dio, questa sua volontà immutabile riguardo alle anime nostre? Come, in una parola, rispondere alla nostra vocazione e divenire lodi perfette di gloria alla santissima Trinità? In cielo, ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo ed allo Spirito Santo, perché ognuna è stabilita nel puro amore e non vive più della propria vita, ma di quella di Dio. Allora essa Lo conosce, dice san Paolo, come è conosciuta da Lui. In altri termini: Una lode di gloria: è un’anima che ha posto la sua dimora in Dio, che Lo ama con amore puro e disinteressato, senza cercare se stessa nella dolcezza di questo amore; un’anima che Lo ama al di sopra di tutti i Suoi doni, anche se non le avesse dato nulla, e che desidera il bene dell’oggetto a tal punto amato. Ora, come desiderare e volere effettivamente del bene a Dio, se non compiendo la Sua volontà? Poiché questa volontà dispone tutte le cose per la Sua maggior gloria. Quest’anima deve dunque abbandorvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter voler altra cosa se non ciò che Dio vuole. – Una lode di gloria: è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che vi sia questa corda nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. –  Una lode di gloria: è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità; è un riflesso di tutto ciò che Egli è: è come un abisso senza fondo nel quale Egli può riversarsi ed espandersi; è come un cristallo attraverso il quale può irradiare contemplare le proprie perfezioni ed il proprio splendore. Un’anima che permette in tal guisa all’Essere divino di saziare in lei il bisogno che Egli ha di comunicare tutto ciò che è, tutto ciò che possiede, è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni. Finalmente una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; tutti i suoi atti, i suoi movimenti, i suoi pensieri, le sue ispirazioni, mentre la fissano sempre più profondamente nell’amore, sono come una eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: «Santo, santo, santo il Signore onnipotente …; prostrandosi adorano Colui che vive nei secoli dei secoli »(Apoc. IV, 8). Nel cielo della sua anima, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; il suo cantico è ininterrotto e, benché non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le consente di fissarsi in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito Santo che tutto opera in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio. Nel cielo dell’anima nostra, siamo lodi di gloria della Trinità santa, lodi di amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno, il velo cadrà, e saremo introdotte negli atrî eterni; ivi canteremo nel seno stesso dell’Amore infinito, e Dio ci darà il nome nuovo promesso al vincitore. E quale sarà questo nome?: « Laudem gloriæ ».

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

LA GRAZIA E LA GLORIA (28)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO VI.

LA NOSTRA FILIAZIONE NEL SUO RAPPORTO CON LA TERZA PERSONA DELLA TRINITÀ

CAPITOLO II.

Cos’è lo Spirito Santo in se stesso. Come Esso sia la Santità santificante, il Dono del Padre e del Figlio, e come un complemento della Trinità.

1. – Se lo Spirito di Dio, la terza Persona dell’adorabile Trinità, è l’amore sostanziale e personale, Esso deve essere lo Spirito Santo, lo Spirito di santità, la Santità Santificante. La conseguenza è evidente. Perché cos’è la santità se non il perfetto amore di Dio, la carità? Un compagno inseparabile in noi della grazia santificante! Questo è il motivo per cui S. Paolo chiama la carità il vincolo della perfezione (Col. V., 14) e il fine della fede (1 Tim., I, 5); per questo è chiamata da San Giacomo il comandamento reale. Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le proprie forze, è essere santi, tanto più santi quanto più profondamente l’amore di Dio affonda le sue radici nell’anima e più completamente si impadronisce del governo della sua vita. – Interroghiamo la Teologia per imparare da essa ciò che costituisce precisamente la santità. Essa risponde che la santità consiste, prima di tutto, nell’unione dell’anima con Dio come suo principio e fine ultimo; o, per usare altri termini ugualmente consacrati dalla Scuola, nella conversione dell’anima a Dio. Parlo di un’unione, una conversione, non semplicemente transitoria e fugace, ma abituale e permanente per sua natura. Questo significa che il principio fondamentale della santità debba essere l’amore di Dio: perché è l’amore che ci volge verso Dio, come verso il nostro fine ultimo, e ci fa aderire pienamente alla sua suprema bontà; ma è l’amore, come l’abbiamo studiato nel terzo libro di quest’opera, l’amore radicato nella grazia abituale, e che esce da questa grazia interiore come suo principio naturale. – A questo elemento costitutivo della santità ne sono legati altri due che sono solo sue conseguenze: la purezza e la fermezza. La  Purezza: « La santità in sé – dice l’autore dei Nomi Divini – è una purezza libera da ogni crimine, pienamente perfetta, senza la minima macchia » (S. Dion., de div. Nomin., c. 12). Tutto ciò che contamina l’anima, tutto ciò che tende a renderla meno pura, è una deviazione dall’amore, e quindi interrompe o almeno indebolisce e ritarda il suo movimento verso Dio. La Fermezza: perché l’unione del cuore con il Bene Sovrano non è come la tendenza ai beni finiti e contingenti. Questi, essendo solo mezzi con cui dobbiamo aiutarci per tendere all’acquisizione del nostro fine ultimo, devono quindi essere perseguiti solo con misura; ma quello, essendo il nostro fine supremo, richiede una costanza incrollabile nella tendenza. Ho cercato di riassumere fedelmente la dottrina sviluppata più a lungo dal Dottore Angelico (S. Thom. 2. 2. Q. 181, a. 8; Comp. Theol., c. 46-47, ecc.). Questo è sufficiente per farci capire come questi due caratteri dello Spirito Santo, l’amore e la santità, siano legati l’uno all’altro, e di fatto formino una sola e medesima proprietà personale (A sostegno di questa dottrina, citiamo un passo della lettera Enciclica di Leone XIII, Divinum – 9 maggio 1897 -: « Lo Spirito Santo è chiamato Santo, perché, essendo il primo e supremo Amore, dirige le anime verso la santità, che consiste giustamente nell’amore per Dio »). – Lo Spirito di Dio è amore, quindi è unione con la Bontà suprema; un’unione così intima e perfetta che arriva fino all’unità. Lo Spirito di Dio è amore, e questo amore è il termine infinito delle compiacenze divine del Padre e del Figlio nella loro infinita bellezza; quindi, esclude ogni affezione che sarebbe un disordine dell’amore. Lo Spirito di Dio è amore e questo amore è Dio: quindi Esso partecipa alla stabilità eterna ed immutabile di Dio. Non è la Santità sovrana, perfetta? E questa Santità è per eccellenza una virtù santificante. Perché è così? Perché è l’esemplare ed il prototipo di tutta la carità nella creatura; perché la natura propria dell’amore è quella di comunicarsi, di diffondersi, di donare e donarsi; perché il fiume, effuso dal Cuore di Dio, tende con tutto il suo peso a riversarsi nei ruscelli di benefici sulle creature di Dio per santificarle a sua immagine. – È dunque vero che è un tutt’uno, sia che si dica dello Spirito Santo che è Amore, sia che lo si chiami Virtù santificante o santità. Inoltre, questi stessi termini sono dati come equivalenti nei monumenti autorizzati della Tradizione. Così l’undicesimo Concilio di Toledo, nella sua magnifica professione di fede, dice dello Spirito Santo che procede sia dal Padre che dal Figlio: « poiché Esso è la carità o santità dell’uno e dell’altro ». S. Agostino, di cui esso seguiva la dottrina e di cui adottò persino le espressioni, aveva già scritto: « Lo Spirito Santo, essendo uno in essenza con  il Padre ed il suo Verbo, può essere considerato o come la loro comune unità, o come la carità o la santità: unità perché è carità: carità perché è santità » (Sant’Agostino, De Trinit., L. VI, c. 4, n. 7). Trovo le stesse idee in un notevole testo di San Basilio. « La via per la conoscenza di Dio va da un solo Spirito attraverso un solo Figlio a un solo Padre ». E, in un ordine inverso, la bontà naturale e la santità essenziale fluiscono dal Padre attraverso l’unico Figlio allo Spirito Santo » (Basilio, de Spir. S., n. 41. P. Gr, t. 32, p. 153.). Lo stesso pensiero è espresso da Gregorio di Nazianzo: « Voi date conto della nostra fede se insegnate che il Padre è veramente Padre … il Figlio veramente Figlio… lo Spirito Santo veramente Santo, perché non c’è nessun altro Santo come Lui, poiché Egli è la santità medesima » (Greg. Nazianzus, Orat. 25, n. 16: P. Gr. 35, p. 1221).  – E S. Cirillo di Alessandria: « Coloro che affermano che lo Spirito è santo per partecipazione e non per natura, ci dicano cosa è in se stesso e nella sua stessa ipostasi. La Scrittura lo chiama solo Santo… Questo, dunque, è l’appellativo che rende ciò che Egli è nella sua essenza: poiché lo si chiama Santo » (Cyrill Aless., Thesaur., P. Gr., vol. 75, p. 596). Vediamo che lo Spirito Santo riceve dal Figlio e dal Padre attraverso il Figlio. E cosa riceve? La natura divina, senza dubbio; ma, in virtù del suo modo di procedere, è come bontà, cioè come carità e santità, che la riceve. – Gli orientali si dilettano nelle metafore; e se le prodigano quando trattano i nostri più alti misteri, non rimproveriamoli. Infatti, oltre al fatto che Dio stesso ci ha dato un tale esempio nelle Sacre Scritture, niente è spesso più adatto a fare nei nostri misteri ciò che è meglio fare per far capire in essi ciò che ci è dato di capire. Ora, sotto quali immagini ci offrono lo Spirito divino? Abbiamo già visto che: è il profumo delizioso che si sprigiona dal balsamo; è l’olio che penetra nel corpo e nel cuore per santificarli; è il buon odore che emana il fiore nel suo mattino, la dolcezza che si gusta nel miele, il calore che si irradia da un focolare. Sono tutti simboli e figure che ci rappresentano lo Spirito di Dio nella sua relazione con il Padre e il suo Figlio unico. (Cfr. Franzel., de Deo trino, thes. 26; Petav, de Trinit., L. VII, c. 12, n. 11; c. 13, n. 21-22; ecc.) Bisognerebbe non aver mai letto i nostri Libri santi per non sapere che con queste metafore essi sono soliti esprimere l’eccellenza dell’amore puro e santo e i suoi frutti che sono le virtù (II Cor., II, 45, Cant. I, 4, 12, ecc.). – Gli stessi Padri non cessano di presentare la santità santificante come un carattere proprio dello Spirito di Dio. Qui il grande S. Basilio afferma che « lo Spirito Santo, poiché è santo per essenza, è la fonte di ogni santità » (S. Basilio, ep. 8, n. 10; ep. 159, n. 2. P. Gr. t. 32, p. 261 e 621), « Che si tratti di Angeli, di Arcangeli o di tutte le potenze celesti, tutti sono santificati dallo Spirito: perché lo Spirito ha la santità per natura e non per grazia; e per questo porta il nome di Santo in modo singolare. Qui, San Cirillo di Alessandria la chiama « la virtù santificante che, procedendo naturalmente dal Padre, dà agli imperfetti, la perfezione » (S. Cirillo Al., Thesaurus P. Gr., vol. 75, p. 597). – Aggiungiamo un’ultima osservazione che serve come risposta a questa domanda: Il nome Spirito Santo è proprio della terza Persona? Si potrebbe dubitarne: perché Dio per natura è spirito; è santo per essenza, e di conseguenza queste due parole « Spirito Santo », non soltanto separate, ma anche unite tra loro, non esprimono nulla che non si adatti alle tre Persone divine. Bisogna confessare che non è se non per questo nome, somma dei nomi di Padre e del Figlio, che rivelano con il suo significato nativo il carattere distintivo dei primi due. Tuttavia, non è senza motivo che la terza Persona l’abbia ricevuto dalla Scrittura e dalla Tradizione come suo nome distintivo. Infatti, dire che è Spirito è designarlo come il soffio o il movimento d’amore che, provenendo dal cuore di Dio, lo muove verso la sovrana bontà. Dire che è Santo significa implicare che questo stesso amore sia essenzialmente santo, poiché la santità perfetta è l’unione attraverso l’amore con la bontà sovranamente amabile. « Ed è da lì che viene la regola della fede cattolica che chiama la terza Persona lo Spirito Santo, quando ci fa dire: Io credo nello Spirito Santo » (S. Thom., Comp. Theol., c. 47).

2. – Essere il Dono del Padre e del Figlio è il terzo carattere che distingue lo Spirito Santo dalle altre due Persone; e non so se non sia anche frequentemente ricordato nelle Scritture e dai Padri più che quella dell’Amore personale e della virtù santa e santificante. All’inizio del secondo secolo, un grande Vescovo la cui nascita illustrò l’Asia e il cui martirio la nostra Gallia, Sant’Ireneo di Lione, scriveva:  « Dio nella sua bontà ci ha fatto un Dono, e questo Dono, è al di sopra di tutti gli altri doni, perché li comprende tutti in sé: è lo Spirito Santo » (S. Ireneo, c. Hæres, L. IV c. 33, n. 8; n. 4; L.III, c. 17, n. 2). Era d’altronde abitudine in quei tempi remoti, quando si enumeravano le Persone della Santa Trinità, designare la terza Persone con la parola Dono, come dal suo nome proprio (Petav., de Trinit., L. VIII c. 3.). – Sant’Agostino, così ben versato nella lettura dei Padri e dei Dottori antichi, testimonia espressamente che, « per i dotti e grandi interpreti delle divine Scritture, il carattere distintivo dello Spirito Santo è di essere il Dono di Dio » (Sant’Agostino, de Fid. et Symbol., n. 19). Egli stesso nelle sue meditazioni sulla Trinità, cercando con umile e rispettosa curiosità ciò che distingua le processioni in Dio; perché l’una essendo generazione, l’altra non ha come termine un Figlio, si arresta a questa soluzione, come la più certa: « Exiit non quomodo natus, sed quomodo datus; et ideo non dicitur Filius. » La sua origine non è una nascita, ma un dono; in altre parole, Esso è per la sua origine un dono; ed è per questo che non lo chiamiamo Figlio.  (S. August. de Trinit., L. V, c. 14). Questa è la dottrina che la Chiesa riassume mirabilmente quando chiama lo Spirito Santo, nei suoi inni, « Il dono dell’Altissimo, Donum Dei altissimi ». Ora, tutta questa dottrina dei Padri e della santa Chiesa, poggia manifestamente sulle Scritture, come Sant’Agostino ha sottolineato in più di un luogo (Id. ibid. L. XV, c. 19). Gli Atti ci dicono che Simone, quel mago di Samaria, quando vide che « lo Spirito Santo veniva dato ai battezzati con l’imposizione delle mani degli Apostoli, offrì loro del denaro. Disse loro: « Datemi questo potere che coloro sui quali impongo le mani ricevano lo Spirito Santo. » Pietro rispose: « Perisca con te il tuo denaro, tu che hai pensato che il dono di Dio potesse essere comprato con denaro » (Atti VIII, 17-21). Il Signore stesso aveva detto ai suoi discepoli: « Riceverete il dono dello Spirito Santo », cioè il Dono che è lo Spirito, poiché è questo Spirito divino che prometteva loro. (Act. II, 38) – Alla donna samaritana, alla quale chiedeva da bere, Gesù Cristo aveva già risposto: « Se tu conoscessi il dono di Dio, e chi è che ti dice: “Dammi da bere”, avresti potuto chiederglielo, ed Egli ti avrebbe dato il dono dell’acqua viva, che diventa in colui che la beve una sorgente che scorre verso la vita eterna (Joan. IV, 10, 14). E quest’acqua, Dono di Dio, non è altro che lo Spirito Santo. Infatti, dopo aver raccontato come Gesù gridò nel tempio: « Se qualcuno ha sete, venga a me e beva; chi crede in me, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno », l’Evangelista aggiunge subito: « Egli disse questo a causa dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che credevano in lui » (Gv. VII, 37-39). Quest’acqua viva e vivificante è dunque lo Spirito Santo, ed è questo che Gesù chiama il Dono di Dio. Ecco perché San Paolo, parlando dei fedeli, non teme di affermare che tutti « noi siamo abbeverati in uno stesso Spirito » (Cor. XII, 13); oppure, come leggeva Sant’Agostino, « noi tutti abbiamo bevuto dello stesso Spirito ». (S. Agostino, de Trinit., L. XV, c. 19). Questo stesso santo Dottore, avendo riportato questi testi e altri dello stesso genere, conclude in questi termini: « Ci sono molte altre testimonianze nelle Scritture per attestarci di concerto che il Dono di Dio è lo Spirito Santo, in quanto è dato a coloro che amano Dio attraverso di Lui. Tuttavia, sarebbe troppo lungo raccoglierli tutti… Ma, poiché sappiamo che lo Spirito Santo è chiamato Dono di Dio, non turbiamoci quando qualcuno ci parla del dono dello Spirito Santo; ma riconosciamo qui lo stesso tipo di locuzione che fa parlare S. Paolo della spogliazione del corpo. Paolo parla della spogliazione del corpo di carne, in éxpoliatione corporis carnis (Col. II, 11). Il corpo di carne non è altro che la carne; così il Dono dello Spirito Santo è lo stesso Spirito Santo (S. Aug. de Trinit., L. XV, n. 35-37 cum antec.; col. L. V, c. 16, 17). Dunque ,il titolo di dono è in tutta verità singolarmente proprio della terza Persona.

3. – Ma, per quanto solidamente stabilita possa sembrare, questa dottrina offre serie difficoltà che dobbiamo chiarire. Infatti, se la Scrittura ci insegna che lo Spirito Santo è dato a noi da Dio, ci assicura anche che il Padre ci abbia dato il suo unico Figlio, e non vediamo cosa potrebbe impedire al Padre di darsi Egli stesso a tutti. Di conseguenza, la qualità di Dono non è così propria dello Spirito Santo da non appartenere anche alle altre due Persone. Come può allora essere il suo carattere distintivo? Per risolvere questa questione, sono necessarie alcune osservazioni. Il dono, preso nel senso più generale della parola, si dice di tutto ciò che si presti ad essere dato gratuitamente e liberalmente, a qualunque titolo appartenga al donatore, sia per identità che in qualsiasi altro modo. In questo senso, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono anche per loro natura un Dono « Donum Dei ». Perché è così? Perché tutto ciò che caratterizza l’essenza del dono si trova in Dio, qualunque sia la Persona che consideriamo. In effetti Dio, considerato in se stesso, è sovranamente atto ad essere dato: perché il Bene supremo, la fonte di ogni bene, tende per sua natura a comunicarsi; ed è per questo che, senza subire alcun cambiamento o perdita in se stesso, eleva la sua creatura e la porta al più alto grado di perfezione. Non abbiamo visto che il dono creato della grazia ci è dato da Dio come mezzo necessario per possedere e godere il Dono increato?  Inoltre, la donazione che Dio fa di se stesso è sovranamente gratuita e liberale: perché Lui solo riversa la sua generosità, senza che nulla possa obbligarlo a dare, né nell’ordine della natura né nell’ordine della grazia; solo Lui può dare infinitamente. Solo Egli può dare all’infinito, poiché dona se stesso; solo Lui dà senza trarre per sé alcun profitto o utilità dai doni che fa, poiché è tutto il Bene. Perciò si può dire di Dio che Egli solo « è assolutamente liberale, perché non agisce per la propria utilità, ma solo per sua bontà » (S. Thom., 1 p., q. 44, a. 1, ad 1; col. 2. 2, q. 132, a. 1, ad 1).  Sarebbe ozioso cercare di dimostrare che la terza delle condizioni contenute nella nostra definizione sia soddisfatta in Dio, che sia Padre, Figlio o Spirito Santo. Potrebbe non appartenere a se stesso, il cui essere è la sua Essenza, tanto che supporgli qualche dipendenza è distruggere l’idea stessa di Dio? Così, in Dio, la qualità del “dono” è essenziale e quindi comune. – In un senso più stretto, il dono è detto di una cosa liberalmente data, ma distinta dal donatore. Ed è così che solo il Figlio e lo Spirito Santo possono essere dati: il Figlio da suo Padre, lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Se mi chiedete perché il Padre stesso non possa essere il dono increato delle altre Persone, Egli che da un lato è il Bene sovrano, e dall’altro è distinto da loro come loro lo sono da Lui, la risposta è facile: se può essere un donatore, Egli stesso non può essere dato che da se stesso: perché una Persona divina, per essere data, deve in qualche modo appartenere a chi la dona. Ora, solo due modi di appartenenza possono essere concepiti in Dio: uno basato sull’identità della Persona con se stessa, l’altro sulla processione d’origine. Così la santa Scrittura, che ci parla del dono della seconda e della terza Persona (Joan III, 16; XIV, 16), tace costantemente sulla prima. Infine, in un significato ancora più ristretto, il dono può essere preso per quello che, per sua natura, è il primo dono che un donatore fa, quello che precede gli altri in qualità di principio. In questo senso, lo Spirito Santo è singolarmente il Dono di Dio. Questo perché per il suo modo di origine è l’Amore personale, procedendo come Amore dal Padre e dal Figlio, e, di conseguenza, come il primo dei doni, il Dono per eccellenza. Infatti, dice San Tommaso, dal quale ho derivato tutta questa dottrina (S. Thom:, 1p., q. 38, at. 1 e 2), il primo dono non può essere che l’amore: perché il Dono propriamente detto non va senza gratuità. Ora, la gratuità nei doni ha come causa l’amore. Se do gratuitamente, è perché voglio il bene di chi lo riceve; in altre parole, è perché amo. Cos’altro è l’amore se non il dare amore? Quindi, procedere dal Padre e del Figlio come amore, è quindi essere il loro Dono, il Dono infinito, il Dono increato. Ed è in questo senso che Sant’Agostino dice che « per il Dono che è lo Spirito Santo, le membra di Gesù Cristo ricevono i doni propri a ciascuna di esse »  (S. Aug., de Trin., L. XV, 32. 34). Il dono, considerato nel suo senso proprio, si presenta con un doppio rapporto. Un rapporto al donatore, cioè alla Persona che lo possiede e lo fa: e questo rapporto non è altro che il rapporto originario in Dio. In rapporto con il donatario, cioè con la creatura ragionevole che sola è capace di ricevere lo Spirito Santo e di goderne. Come, infatti, possiamo concepire un dono senza pensare a chi può darlo e riceverlo? Tuttavia, non crediamo che, per essere un dono, lo Spirito Santo debba essere attualmente posseduto dalla creatura. Farlo sarebbe negargli questa proprietà personale, poiché, dato solo nel tempo, sarebbe esistito da tutta l’eternità senza essere il Dono di Dio. Perché lo Spirito Santo abbia questo carattere distintivo, è sufficiente che abbia dalla sua processione eterna la capacità e la tendenza ad essere dato, secondo il buon volere di Dio, il Padrone di tutti i doni perfetti. « Perché non è la stessa cosa essere un dono ed essere dato; poiché il dono può esistere prima di essere dato, ma esso non è dato se nessuno lo ha ricevuto. » – Ciò che ho detto sulla doppia relazione che l’idea del dono presenta allo spirito, deve essere inteso anche in relazione alla Santità santificante, questo altro carattere ipostatico dello Spirito divino. Infatti, quando chiamo lo Spirito Santo la santità del Padre e del Figlio, io affermo, non che Egli sia  formalmente ciò che li rende entrambi santi, ma che Egli procede da loro come il soffio, l’irradiazione, l’eterno profumo della loro santità comune; e quando la chiamo santità santificante o virtù santificante, la rappresento come la fonte di ogni santità per le creature, e con questo stesso fatto dichiaro la sua relazione, il suo rapporto con queste stesse creature, considerate come essere  o capaci di diventare giuste e sante attraverso di Lui. Allo stesso modo, affermando dello stesso Spirito che è l’Amore del Padre e del Figlio, l’Amore personale, esprimo di nuovo, almeno in modo confuso, questa doppia relazione. Egli non può meritare questo titolo se non alla sola condizione che sia il frutto della loro comune dilezione. Ora, l’amore con cui Dio ci ama è lo stesso amore con cui il Padre ama il Figlio e il Figlio ama suo Padre. Si può dunque dire in tutta verità che il Padre e il Figlio ci amino come amano se stessi attraverso lo Spirito Santo, perché questi termini, se correttamente intesi, significano una sola cosa, cioè che amando se stessi e noi con lo stesso infinito atto d’amore, producono un termine sostanziale che si riferisce a tutti gli oggetti dell’amore divino: in primo luogo alla Bontà sovrana, e secondariamente al bene delle creature. (S, Thom., 1 p., q. 37, a. 2). Si può aggiungere che senza lo Spirito Santo, l’Amore personale, né il Padre né il suo unico Figlio potrebbero amarci, perché togliere il termine del loro amore reciproco equivarrebbe a distruggere questo amore. È nello stesso senso che i santi Dottori, come ho già osservato, rimproveravano agli ariani di aver tolto al Padre sia l’intelligenza, sia la sapienza in Lui rifiutando un Verbo immanente e consustanziale. Nessuna intelligenza né volontà in atto senza un termine prodotto interiormente che è dove si trova il Verbo o l’amore (Cfr. Petav., de Trinit., L. VI, c. 9: S. Thom, de Potent:, q.10, a. 1; cont. Gent., L. IV, c. 14).  Tutto quello che abbiamo appena scritto sulle caratteristiche personali dello Spirito Santo, si trova in forma breve in un testo di Sant’Agostino. « L’amore che è di Dio e che è Dio, è lo Spirito Santo; questo Spirito per mezzo del quale la carità di Dio è riversata nei nostri cuori, che ci rende  ostie e tempio della Trinità. Ecco perché lo Spirito Santo è anche giustamente chiamato il Dono di Dio. E cos’è questo Dono, se non la Carità che conduce a Dio, e senza la quale nessun altro dono possa condurre a Dio » (S. Agostino, de Trinit., L. XV, n. 32). – Portare a Dio, condurre a Dio, cos’altro è se non la santificazione? Di conseguenza, queste tre caratteristiche dello Spirito Santo, il carattere dell’Amore, il carattere del Dono e il carattere della Santità, sono così essenzialmente unite che ciascuna di esse richiama le altre; o piuttosto, esse formano una sola e medesima proprietà, quella che rende lo Spirito Santo l’Amore personale: poiché questo Amore è la santità sussistente e santificante, e il Dono primordiale su cui si basano tutti i doni e da cui essi procedono. Se, quindi, la concatenazione tra le caratteristiche dello Spirito Santo è così stretta che non si possa affermare o negare l’una senza affermare o negare le altre; benché i Padri dell’Oriente si fossero soffermati di più su questa, e i Padri dell’Occidente sull’altra, non se ne potrebbe concludere nessuna diversità di dottrina: perché, ancora una volta, questi caratteri sono compatibili, e non sono che una stessa proprietà considerata da punti di vista diversi.

4. – Lo Spirito Santo ha ancora un altro nome nei Padri: essi lo chiamano « la pienezza, il complemento della Trinità » (S. Cirillo. Ales. L.-X., in c. XV Joan. P. Gr., L. 74, p. 417; col. Thesaur. Assert. 34. P. Gr., t. 75, p. 607). Egli è il termine supremo della vitalità divina. Poiché se il Padre è nel seno di Dio un Principio senza principio, se il Figlio, nato dal Padre come suo principio, è a sua volta con Lui il principio dello Spirito Santo, lo Spirito Santo non riversa la sua infinita perfezione in nessun’altra Persona. Il torrente della vita divina, che scorre dal Padre come da una sorgente eternamente piena, si ferma nel suo corso a questo Spirito divino. E anche la ragione stessa si rende conto che debba essere così. In uno spirito della massima purezza, qual è il nostro Dio, ogni processione immanente deve essere o per via di conoscenza o per via di amore, e da una parte e dell’altra il termine è essenzialmente uno, perché è essenzialmente infinito. Se si toglie lo Spirito Santo, non si ha l’effusione d’amore che segue naturalmente la contemplazione della bellezza suprema: Dio sarebbe dunque imperfetto. Mettete al contrario una quarta Persona dopo lo Spirito Santo, e questo sarebbe ancora un’alterazione dell’Essere divino, poiché dovreste avere una processione che la natura stessa di uno spirito sovranamente spirituale e sovranamente perfetto respinge. Quindi, lungi dal vedere, in questa apparente sterilità dello Spirito Santo, non so quale inferiorità che lo abbasserebbe al di sotto delle altre due Persone, è suo eterno onore essere così pienamente Dio, così grande, così amabile e così buono che qualsiasi altra Persona, venendo dopo di Lui, rovescerebbe l’intera economia dell’Essenza divina, e offuscherebbe la sua stessa gloria: perché non apparirebbe più come il completo compimento di quella vita per eccellenza, che è la divinità stessa. – Queste considerazioni potrebbero sembrare troppo lunghe, almeno in un’opera in cui il grande mistero della Trinità non sia il tema principale. Spero, tuttavia, che la loro utilità, e persino la loro necessità, sarà compresa quando avremo visto quanto siano importanti per la comprensione del ruolo attribuito dalla Scrittura e dai documenti ecclesiastici allo Spirito Santo nelle opere della grazia e della gloria.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. LEONE XIII – “CARITATIS PROVIDENTIÆQUE”

« … Opporsi, invece, ai … precetti e ricusare la guida della Chiesa, è lo stesso che opporsi alla volontà divina e ripudiare un insigne beneficio; giacché veramente nulla nello Stato rimane prospero e onesto, tutto scivola nella confusione, sia i reggitori sia i popoli vengono assaliti dall’ansioso timore di calamità. » È un significativo passaggio di questa lettera Enciclica indirizzata ai Vescovi polacchi, lettera ricca di spunti ed indicazioni pratiche per la vita sociale e religiosa di quel popolo. Sono raccomandazioni ancor più utili oggi, che gli uomini di Stato ed i reggitori dei popoli dovrebbero fare proprie ed attuare per il bene di popoli e Nazioni. Senza Dio e la sua Chiesa, ogni popolo – specie se apostata della fede – è votato alla distruzione, alla gran sofferenza, fino alla dissoluzione e alla rigenerazione, cioè, come si dice con termine tristemente attuale, al reset delle strutture sociali, economiche, spirituali. Tutto è stato anticipato e profetizzato nel Magistero ecclesiastico, non facciamoci trovare impreparati. Corriamo ai ripari con l’ingresso nella vera Chiesa cattolica, seppur solo di desiderio, con la preghiera fervorosa, la penitenza e la carità zelante … chissà che Dio non si impietosisca e faccia come a Ninive che, avvertita e mossa a conversione dalla predicazione di Giona, fu risparmiata da una fine imminente … come la nostra vecchia Europa ed il mondo un tempo cristiano…. ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta… Copriamoci di cenere e di sacco e facciamo penitenza.

Leone XIII
Caritatis providentiæque

Lettera Enciclica

19 marzo 1894

La particolare testimonianza della Nostra carità e previdenza che abbiamo offerto di tempo in tempo ad altri popoli cattolici nel senso di impartire con la consegna ai loro Vescovi di una specifica lettera insegnamenti d’esortazione apostolica, il poter similmente procurare a voi, secondo opportunità, tale servizio, era da lungo tempo un ingente Nostro desiderio. In verità Noi abbracciamo e sosteniamo codesto popolo, vario per stirpe, lingua, rito religioso – ciò che altra volta esprimemmo – tutt’insieme con un solo e medesimo affetto e non pensiamo mai ad esso se non con grande gioia: di esso aleggia da una parte l’illustre ricordo delle imprese, dall’altra costatammo ininterrottamente, congiunta con la fiducia, la grande devozione verso di Noi. – Tra le altre glorie, infatti, meritatamente perdura lo straordinario vanto di quei vostri padri, che, resa tremante l’Europa per gli assalti dei potentissimi nemici del nome cristiano, tra i primi opposero con insigni battaglie la protezione dei loro petti, [divenendo] essi fervidissimi garanti e fedelissimi custodi della Religione e del culto civile. Questi meriti sono stati da Noi con gioia non molti mesi fa apertamente ricordati, nella circostanza, cioè, in cui alcuni di voi, venerabili fratelli, conduceste a Noi in pellegrinaggio pie schiere di fedeli per salutarci e felicitarsi con Noi; questa bellissima testimonianza di fede fu occasione graditissima che Noi, a Nostra volta, Ci felicitassimo con la Polonia per il vivido decoro dell’avita Religione [rimasto] integro attraverso molte e difficili circostanze. – Ora poi se, per quanto Noi potevamo, non desistemmo affatto in passato di essere di giovamento alle sue cause sacre, desideriamo poterlo essere ancora più ampiamente ed è Nostra intenzione ora di farlo: per il motivo, certo, che appaia più chiara davanti alla Chiesa la manifestazione della Nostra sollecitudine per voi e che anche gli animi di voi tutti, rinvigorita la virtù, aumentati gli aiuti, vengano confermati ed eccellano nei doveri della professione cattolica. Abbiamo poi stabilito di fare questo con speranza chiaramente più fervida per il motivo che abbiamo riconosciuto e intravisto con quale solerzia voi, venerabili fratelli, siete soliti essere interpreti ed esecutori della Nostra volontà e con quale fermezza vi affatichiate nel difendere e accrescere i sommi beni dei vostri greggi. Quei frutti eccellenti, poi, che in essi desideriamo, Dio che spinge a parlare, li assecondi Egli stesso benigno. – Il beneficio della divina verità e grazia che con la sua Religione Cristo Signore recò al genere umano, è di utilità così grande ed eccellente tanto che nessun altro [beneficio] in nessuna maniera può essere con esso neppure paragonato e ad esso eguagliato. La forza di questo beneficio [che], come tutti sanno [è] molteplice e saluberrima, fluisce in modo mirabile nei singoli e nell’insieme di tutti, nella società domestica e in quella civile, a giovamento della prosperità della vita transeunte e per acquistare la felicità della vita immortale. Da ciò appare chiaramente che i popoli a cui è stata donata la Religione cattolica, giacché con essa godono del massimo di tutti i beni, così sono vincolati dal dovere, massimo fra tutti, di promuovere e amare la medesima. Contemporaneamente, poi, appare che essa non è cosa di tal genere che o i singoli o gli stati possano presumere di rettamente garantirla ad arbitrio proprio di ognuno di essi, ma solo in quel modo, con quella disciplina, quell’ordine che definì e comandò lo stesso divin Autore della Religione: cioè col Magistero e la guida della Chiesa, che è stata stabilita da lui come “colonna e base della verità” (1Tm 3,15) e fu in vigore con la singolare assistenza di lui per tutti i tempi, e sarà in vigore in perpetuo essendo stata pronunciata la promessa: “Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine dei secoli” (Mt XXVIII, 20). – Giustamente, quindi, il vostro popolo a partire dagli avi e dagli antenati ritenne tanto illustre l’onore della religione così che sempre aderì con somma fede alla madre Chiesa e persistette sempre irremovibile in un eguale ossequio ai romani Pontefici e nell’obbedienza ai sacri Vescovi che essi, secondo il loro potere, avessero designato. Quanti vantaggi e risorse siano a voi da ciò profluiti, quanti efficaci sollievi abbiate avuto in circostanze di trepidezza, quanti aiuti abbiate anche ora, voi stessi lo conservate nei vostri grati animi, lo professate con gratitudine. – Ogni giorno è manifesto quali circostanze di gravissime realtà stiano subentrando nei popoli e nei territori, venendo la Chiesa cattolica o rispettata e mantenuta in degna posizione o danneggiata con ingiuria o disprezzo. Essendo contenuti, infatti, nella dottrina e legge del Vangelo quegli elementi che sono sempre giovevoli alla salvezza e alla perfezione dell’uomo, sia nella fede e nella conoscenza, sia nell’impiego e nell’operare della vita, e potendo la Chiesa per diritto divino [ricevuto] da Cristo trasmettere e sancire con la Religione questa dottrina e legge, essa è quindi, per servizio divino, efficace come grande forza moderatrice dell’umana società, nella quale essa è sia fautrice di generosa virtù sia realizzatrice di beni sceltissimi. – La Chiesa, poi, alla quale presiede per diritto divino il romano Pontefice, è tanto lontana dall’arrogarsi per via di così grande ampiezza d’autorità qualcosa dell’altrui diritto o dall’indulgere alle brame ambigue di qualcuno, che essa spesso piuttosto, cedendo, rinuncia al suo diritto; e, provvedendo con sapiente equità ai più elevati e agli infimi, offre se stessa per tutti quale solertissima reggitrice e madre. Perciò agiscono ingiustamente coloro che anche in questo si adoperano per riportare in luce antiche calunnie contro di essa, già tante volte refutate e chiaramente consunte, composte con una nuova specie di vituperio. Ne sono meno riprovevoli coloro che per lo stesso motivo nutrono sfiducia per la Chiesa e le attizzano il sospetto presso i reggitori degli stati e nelle pubbliche assemblee dei legislatori, dai quali, invece, ad essa è dovuta grande lode e ringraziamento. Infatti, essa nulla affatto insegna o comanda che in qualche modo sia nocivo o avverso alla maestà dei principi, all’incolumità e al progresso dei popoli; piuttosto dalla sapienza cristiana fa assiduamente crescere molte cose di loro comune utilità chiaramente quanto mai vantaggiose. Tra di esse sono degne di essere ricordate queste: che coloro che reggono un principato rappresentano per gli uomini un’immagine del potere e della provvidenza divina; che il loro dominio deve essere giusto e imitare quello divino, temperato dalla bontà paterna, e che i guadagni spettano unicamente allo Stato; che essi dovranno un giorno rendere ragione a Dio giudice e che questa per il posto più eccelso di dignità [sarà] più pesante: coloro che poi sono sotto il [loro] potere, debbono costantemente mantenere per i principi riverenza e fedeltà, come a Dio che esercita il dominio attraverso gli uomini, e obbedire ai medesimi “non solo per motivo dell’ira, ma anche per motivo di coscienza” (Rm XIII, 5), presentare per essi “implorazioni, orazioni, richieste, ringraziamenti” (1 Tm II, 1-2); che debbono osservare la santa disciplina dello Stato, astenersi dalle macchinazioni degli improbi e dalle sette, né fare qualcosa in modo sedizioso; concorrere con tutto per mantenere la tranquillità della pace nella giustizia. – Codesti e simili precetti e disposizioni evangelici, che dalla Chiesa vengono insegnati con tanto impegno, là dove sono in onore e di fatto valgono, colà non cessano di portare frutti eccellentissimi e li portano più copiosi in quei popoli nei quali la Chiesa usufruisce di più libera facoltà nel suo compito. Opporsi, invece, ai medesimi precetti e ricusare la guida della Chiesa, è lo stesso che opporsi alla volontà divina e ripudiare un insigne beneficio; giacché veramente nulla nello Stato rimane prospero e onesto, tutto scivola nella confusione, sia i reggitori sia i popoli vengono assaliti dall’ansioso timore di calamità. – In verità, venerabili fratelli, circa queste tematiche avete prescrizioni già trasmesse da Noi all’occasione più diffusamente: tuttavia Ci è parso di dover richiamare sommariamente le medesime cose, affinché la vostra premurosità, quasi poggiandosi al nuovo segnale della Nostra autorità, si adoperi con più ardore e più successo in ciò medesimo. Certamente sarà ottimo e di utilità per i vostri greggi, se si starà in guardia dai discorsi delle persone turbolente che con pessime arti non osano nulla ormai [che non sia] in maniera oltremodo scellerata per abbattere, distruggere il potere; se nessuna parte dei doveri che sono dei buoni cittadini verrà meno, se dalla fede a Dio dovuta e sacra fiorirà la fedeltà verso la cosa pubblica e i principi. – Parimenti accentrate la diligenza sulla società domestica, l’educazione della gioventù e dell’Ordine sacro, gli ottimi modi di trattare della carità cristiana. – L’integrità e l’onestà della convivenza domestica, da cui profluisce in modo precipuo la sanità nelle vene della società civile, va attinta innanzitutto dalla santità del matrimonio, che venga contratto secondo i precetti di Dio e della Chiesa unico e indissolubile. Poi è necessario che i diritti e i doveri tra i coniugi siano inviolati e vengano espletati con quanta massima concordia e carità possibile; che i genitori provvedano alla protezione e al profitto della prole, soprattutto all’educazione; che essi antecedano col loro esempio di vita, del quale nulla è più eccellente né più efficace. Alla retta e proba educazione dei figli, tuttavia, giammai essi penseranno di potere, come conviene, provvedere, se non vigilando con estrema attenzione. Infatti, essi non devono solo evitare scuole e licei dove vengano con attenta opera mescolate con l’insegnamento falsità circa la Religione o dove quasi domini l’empietà, ma anche quelle in cui non c’è alcun insegnamento né disciplina circa le istituzioni e i costumi cristiani quasi elementi importuni. Infatti, quanti vengono educati nelle lettere e nelle arti, è pure chiaramente necessario che i loro ingegni vengano ammaestrati nella conoscenza e nel culto delle realtà divine, come persone che, per esortazione e comando della natura stessa, non meno che allo stato, molto più debbano a Dio, e come persone perciò che sono state accolte nella luce, affinché servendo allo Stato, dirigano il loro cammino alla patria del cielo che rimarrà e [lo] portino a termine con zelo. Non si dovrà poi affatto cessare in ciò, facendo progressi con la loro età la cultura civile; al contrario si dovrà con più intensità insistervi sia perché la gioventù, come ora particolarmente vengono condotti gli studi, ogni giorno è spinta con più ardore dal desiderio di sapere, sia perché ad essa ogni giorno sovrastano maggiori pericoli circa la fede per via delle grandi perdite già deplorate in così importante realtà. Ciò poi che concerne il modo di trasmettere la sacra dottrina, l’onestà e la competenza dei maestri, la scelta dei libri, quali cautele la Chiesa giudichi rivendicare a sé, quali modi predeterminare, ciò lo fa chiaramente di suo diritto; ne non lo può non fare a favore di quanto è tenuta a provvedere per gravissimo dovere, affinché mai si insinui qualcosa di alieno dall’integrità della fede e dei costumi che nuoccia al popolo cristiano. – D’altra parte confermi e porti a compimento l’educazione sacra che viene impartita nelle scuole, quella che in certi tempi e con certe prescrizioni si ha nelle curie e nei templi, dove i germi della medesima fede e carità, come nel loro suolo, vengono nutriti e crescono più abbondantemente. – Queste cose avvertono a sufficienza per se stesse che è necessaria singolare diligenza e azione per formare l’Ordine clericale che, per detto divino, deve crescere in modo tale e mantenere in modo tale il sacro proposito, da essere ritenuto “sale della terra” e “luce del mondo”. Entrambe le lodi, che esprimono specificatamente la sana dottrina e la santità di vita, debbono essere particolarmente curate nel clero adolescente, né tuttavia devono essere custodite e promosse di meno nel clero adulto, a cui più da vicino sovrasta “l’apprestamento dei santi nell’opera del ministero, nell’edificazione del corpo di Cristo” (Ef. IV,12). – Circa i sacri seminari dei chierici è a Noi ben noto, venerabili fratelli, che non manca affatto la vostra cura; come, al contrario che muovervi esortazioni, si addica attestare approvazione sia a voi sia a tutti coloro della cui assidua fatica nell’amministrazione e nell’insegnamento essi si allietano. Chiaramente nei tempi tanto nocivi alla Chiesa che sono sopravvenuti, quando i nemici della verità prendono vigore, quando la peste delle seduzioni non serpeggia più occulta, ma avanza senza pudore in tutto, se si deve aspettare più di prima sollievi e rimedi dall’Ordine sacerdotale, esso naturalmente deve venir preparato con cura ed esercizio maggiore di prima alla buona battaglia della fede e all’eguale dignità di ogni virtù. Ben sapete quali norme circa il modo di dirigere gli studi siano state da Noi a più riprese in passato stabilite, soprattutto in ambito filosofico, teologico, biblico: insistete su di esse, affinché i maestri si dispongano con grandissima diligenza, né tralascino alcune delle altre scienze che sono di ornamento a quelle più importanti e aggiungono affidamento alle cariche sacerdotali. Similmente sotto la vostra istanza i superiori disciplinari e spirituali (uomini che devono essere di provatissima esperienza per integrità e prudenza), temperino il modo della vita comune in modo tale, formino ed esercitino gli animi degli alunni in modo tale che risplendano in essi progressi quotidiani delle appropriate virtù: e si miri anche al fatto che imparino e si rivestano con maturità di ogni prudenza nel contatto con quanto è di potestà civile. In questo modo chiaramente da quei sacri [luoghi], come da palestre e accampamenti, ininterrottamente uscirà ottimamente addestrata la nuova milizia, che verrà in soccorso a quanti lavorano nella polvere e al sole e sostituirà, [ancora] intatta, gli stanchi e gli emeritati. In verità facilmente vedete quanto pericolo nello stesso adempimento dei compiti sacri incontri anche la solida virtù, e quanto sia umano intiepidire nei propositi e venire meno ad essi. Perciò le vostre preoccupazioni che offriate ai Sacerdoti come convenientemente possano ricoltivare e accrescere gli studi della dottrina, riguardino contemporaneamente innanzitutto come essi possano in modo più fervido, recuperate nel frattempo le forze d’animo, sia occuparsi della loro perfezione, sia giovare alla salvezza eterna degli altri. – Se voi, venerabili fratelli, avrete un tale clero, giustamente formato e riconosciuto all’altezza ai vostri occhi, sentirete certamente non solo alleviarsi per voi il compito pastorale, ma anche abbondare i frutti desiderati nel gregge: dei quali è lecito sperare abbondanza soprattutto dall’esempio del clero e dall’operosa carità. – Il precetto della medesima carità, che è “grande” in Cristo, sia oltremodo raccomandato a tutti di qualsiasi Ordine, e i singoli si applichino a realizzarlo nel modo in cui Giovanni apostolo esorta: “con opera e verità”; con nessun altro vincolo o sostegno, infatti, le famiglie e gli stati possono mantenere la saldezza, né – ciò che vale di più – acquistare i meriti della dignità cristiana. Noi ciò considerando e deplorando i tanto numerosi e acerbi mali che, posposto o abbandonato questo precetto, sono conseguiti pubblicamente e privatamente, abbiamo spesso sul medesimo tema espresso la voce apostolica: lo facemmo specificatamente attraverso la lettera enciclica Rerum Novarum, in cui esponemmo i princìpi più adatti a dirimere la questione sulla condizione degli operai partendo dalla verità e giustizia evangelica. Ora, con rinnovata esortazione, inculchiamo gli stessi principi: essendo movente e guida la santa carità, è manifesto dall’esperienza quanta forza ed eccellenza abbiano le istituzioni cattoliche, i sodalizi di quanti esercitano le arti, le associazioni di quanti si sovvengono mutuamente, e [di] questa sorta più realtà o per alleviare le fatiche dei più deboli o per istruire rettamente l’infima plebe: coloro poi che forniscono consiglio o autorità, denaro o opera a cedeste realtà, nelle quali è in gioco la salvezza anche eterna di molti, essi in modo verissimo si rendono egregiamente meritevoli nei confronti della Religione e dei propri cittadini. – A queste cose dette universalmente al popolo della Polonia, [Ci] è gradito aggiungerne certe che riteniamo che saranno di vantaggio specificatamente secondo la condizione dei luoghi nei quali vi trovate: e in tal modo di questi stessi moniti che abbiamo dati Ci aggrada imprimerne alcuni tanto più profondamente nei vostri animi. – Innanzitutto. affidiamo un’esortazione a voi, come i più di numero, che sottostate al dominio russo, [e che] è di diritto che lodiamo con il nome della professione cattolica. È punto principale della Nostra esortazione che manteniate e promuoviate energicamente codesto animo di costanza nel coltivare la santa fede, nella quale avete quel bene che è il principio e la fonte – come dicemmo – dei massimi beni. È assolutamente necessario che il cuore cristiano anteponga di gran lunga questo a tutte le altre realtà; questo stesso, come sono i comandi divini e gli splendidi fatti degli uomini santi, non lo abbandoni affaticato da nessuna difficoltà e lo custodisca con somme forze e fatiche e, sorretto dalla virtù del medesimo, attenda consolazione e forza, qualunque evento le cose umane adducano, sia sicurissimamente sia pazientemente da Dio che si ricorda [dell’uomo]. Per ciò che concerne Noi, abbiamo in verità, secondo il Nostro compito, appreso quale sia la condizione delle vostre cose; e [Ci] diletta molto codesta grande fiducia che a guisa di figli ponete in Noi. Così, perciò, [vi] esortiamo che rigettiate del tutto le menzogne che iniquamente vengono seminate contro la Nostra benevolenza e sollecitudine per voi; siate del tutto persuasi che Noi per nulla meno dei Pontefici predecessori abbiamo accolto e abbiamo rivolto le Nostre cure come per gli altri vostri compatrioti, così per voi; che, invece, per sostenere la vostra fiducia, siamo pronti in tutto a laboriosamente adoperarci e confidentemente perseguire. Giova richiamare alla memoria che Noi già dagli inizi del pontificato, pensando alla realtà cattolica da ristabilire costì, abbiamo opportunamente interposto gli uffici presso il Consiglio Imperiale, per raggiungere quanto sia la dignità di questa sede apostolica, sia il patrocinio delle vostre cause sembrassero richiedere. Da questi uffici è risultato che nell’anno 1882 sono stati stabiliti con esso certi accordi: tra questi che ai vescovi sarebbe stata concessa libera facoltà di reggere i seminari dei chierici secondo le leggi canoniche; poi che l’Accademia Ecclesiastica Metropolitana, che è aperta anche agli alunni polacchi, dovesse venir affidata pienamente alla giurisdizione dell’Arcivescovo di Mohilev e venir migliorata per più estesa utilità del clero e della Religione cattolica: [fu] fatta, inoltre, la promessa che quanto prima andassero abrogate o mitigate quelle leggi specifiche che il vostro clero lamentava per sé più severe. Da quel tempo giammai Noi, presa o ricercata l’occasione, cessammo di richiedere [il mantenimento] dei patti convenuti. Anzi [Ci] aggradò di portare le medesime richieste allo stesso potentissimo Imperatore, del quale abbiamo sia sperimentato l’atteggiamento d’amicizia verso di Noi, sia supplicato con gagliardia l’eccelso amore della giustizia nella vostra causa: né cessiamo di presentare richieste allo stesso di tempo in tempo, affidandole soprattutto a Dio, giacché “il cuore del re [è] nella mano del Signore” (Prov. XXI,1). Voi, poi, venerabili fratelli, continuate a difendere con Noi la dignità e i sacrosanti diritti della Religione cattolica: essa potrà veramente essere salda nel suo proposito e recare i benefici che deve, quando, padrona della giusta sicurezza e libertà, sarà fornita di idonei sostegni, per quanto sia necessario, per l’esecuzione della [sua] azione. Giacché poi voi stessi vedete quale opera abbiamo dedicato appunto alla raccomandazione e al mantenimento nei popoli della tranquillità dell’ordine pubblico, voi stessi non cessate di agire affinché il rispetto dei poteri più elevati e l’ottemperanza alla pubblica disciplina sia fermamente salda nel clero e parimenti negli altri: e così, allontanata totalmente ogni causa di offesa o di biasimo e mutata ogni specie di imputazione in riverenza, rimanga e cresca al nome cattolico la sua lode. – Parimenti sia vostra incombenza far sì che non manchi nulla circa la somma salvezza dei fedeli, né nell’amministrazione delle curie, né nell’impartire il pascolo della parola divina, né nell’alimentare lo spirito della Religione; che i fanciulli e gli adolescenti, soprattutto nelle scuole, vengano diligentemente impregnati di sacra catechesi e ciò, per quanto può essere fatto, ad opera di Sacerdoti, ai quali ciò venga da voi legittimamente demandato; che si accordino pienamente col culto divino sia il decoro degli edifici sacri sia lo splendore festivo delle solennità, donde la fede attinge buoni incrementi. Avrete agito, poi, molto bene mettendo in anticipo in guardia da discriminazioni, se per caso sembra che ne esista qualcuna in queste cose; per questa causa non dubitate di fare appello, pur se con gravità e prudenza, alle stesse convenzioni ratificate con questa Sede Apostolica. Certo, deve essere gradito e desiderabile non solo ai polacchi, ma a tutti coloro che sono guidati da sincera carità per lo Stato, sia che non ci siano tali discriminazioni, sia che vengano conferiti i beni confacenti. La Chiesa cattolica, infatti – ciò che all’inizio abbiamo insegnato e ogni giorno si segnala -, è nata ed è stata istituita così che sicuramente giammai partorisca agli Stati e ai popoli nulla di dannoso, ma felicemente molteplici splendide utilità, anche nell’ambito delle cose mortali. – Voi, poi, che siete nel dominio dell’inclita casa degli Asburgo, considerate negli animi quanto dobbiate all’augusto Imperatore, zelantissimo dell’avita Religione. Perciò si apra da parte vostra verso di lui la giusta fiducia e il grato ossequio più eccellentemente di giorno in giorno: si apra zelo non dissimile di ottenere tutte quelle cose che o sono già state ottimamente costituite o i tempi e le circostanze persuadano a provvidamente costituire per l’incolumità e il decoro della Religione cattolica. – Desideriamo fermamente che l’Università di Cracovia, antica e nobile sede delle scienze, venga difesa nella sua integrità e prestanza, e che pure emuli le glorie di tali accademie che, non poche, l’insigne cura di Vescovi o la liberalità di privati, col Nostro favore, promosse in questi nostri tempi. Come in quelle, così nella vostra, sotto la direzione della solerzia del diletto Nostro figlio il Cardinal Vescovo, tutte le importantissime scienze, armonizzando con la fede con patto amico e presentando tanto di sostegno per la sua difesa quanto da essa di luce e di fermezza prendono in prestito, magari siano sempre più in tutti gli aspetti di giovamento alla gioventù dilettissima. – Parimenti deve molto importare alle vostre cose, certo alle Nostre importa massimamente ,che presso di voi gli Ordini dei religiosi siano in rigoglio nella stima di tutti: essi, incaricati della perfezione della virtù che cercano di conseguire e di molteplice insegnamento e del lavoro fruttuoso nel guadagnare gli animi, sono come ricchezze più abbondanti a disposizione della Chiesa e non di meno le cittadinanze in ogni tempo hanno usato di essi come ottimi aiutanti per ogni onestissima iniziativa. E particolarmente, volgendo lo sguardo alla Galizia, ricordiamo con somma propensione l’antichissimo ordine basiliano, nel ristabilire il quale Noi stessi tempo fa demmo alcuni peculiari consigli e cure. Infatti, veramente cogliamo frutto non insignificante di letizia per il motivo che esso, assecondando con vivace religiosità la Nostra aspettativa, si rifaccia in piena misura alla gloria dei tempi anteriori allorché fu in molti modi salutare alla chiesa rutena: con la vigilanza dei Vescovi e l’operosità dei curatori i segnali di salvezza del medesimo cominciano già da esso a brillare più luminosi di giorno in giorno. – Qui però, giacché cadde la menzione sui Ruteni, permettete che ripetiamo l’esortazione che voi con essi, sebbene si interponga la differenza delle origini e dei riti, associate le volontà più strettamente e amantemente, come si addice a coloro che la comunione di territorio, cittadinanza e massimamente di fede associa. Come infatti la Chiesa li ha e li ama come benemeriti figli e permette loro con sapiente consiglio legittime consuetudini e riti propri, non diversamente voi, a cominciare dal clero, abbiateli e curateli così come fratelli dei quali sia un cuore solo e un’anima sola, a ciò in fin dei conti aspirando: che aumenti all’unico Dio e Signore la gloria e insieme vengano moltiplicati i frutti di ogni giustizia “nella bellezza della pace”. – Parimenti con animo gradito volgiamo la parola a voi che abitate la provincia di Gnesen e Posnania. Seppure tra le altre cose, [Ci] è grato ricordare come tra i vostri stessi cittadini, come era desiderio di tutti, innalzammo all’illustre sede di S. Adalberto un uomo insigne per pietà, prudenza e carità. Più grato è poi vedere con quale obbedienza, con quale amore siate unanimi favorevoli alla sua mite e operosa guida: da ciò veramente [c’è] da sperare che la condizione della Religione cattolica si allieterà presso di voi ogni giorno più di buoni incrementi. Al fine poi che la medesima speranza si confermi maggiormente e risponda più pienamente ai desideri, non senza causa comandiamo che voi confidiate nella magnanima giustizia del serenissimo Imperatore; del quale, tra l’altro, non una volta sola abbiamo conosciuto come testimoni la mente propensa e benevola verso di voi, che sarà per voi chiaramente di aiuto se persevererete nella verecondia delle leggi, in ogni gloria cristiana delle cose rettamente compiute. – Venerabili fratelli, vogliamo che ognuno annunzi queste prescrizioni ed esortazioni ai vostri greggi di modo che anche le vostre opere risultino più fruttuose. In questo riconoscano così i figli carissimi da quanto grande affetto di carità a loro stesso favore siamo spinti; questo poi essi stessi, come Noi fortemente desideriamo, [lo] accolgano con eguale rispetto e pietà. Se, infatti, coltiveranno queste cose diligentemente e costantemente – ciò che riteniamo per certo – potranno sicuramente sia allontanare i pericoli alla fede derivanti dalla gravezza del tempo, sia custodire le memorabili magnificenze dei padri, rinnovarne gli atteggiamenti e gli esempi, diffondendosi da ciò vantaggi quanto mai ottimi a sollievo anche di questa vita. – Vi chiediamo, poi, di implorare assieme a Noi con ardore favorevole abbondanza d’aiuto divino, presi per intercessori la gloriosissima Vergine Maria, Giuseppe santissimo, della cui solennità oggi il popolo cristiano si allieta, e i santi celesti patroni della Polonia. – Come auspicio di ciò e come testimonianza della Nostra particolare benevolenza impartiamo amantissimamente nel Signore a voi e al clero e a tutto il popolo affidato alla vostra vigilanza la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, 19 marzo 1894, anno XVII del Nostro pontificato.

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XVI DOPO PENTECOSTE (2022)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Come Domenica scorsa, la lettura dell’Uffizio divino coincide spesso in questo giorno con quella del libro di Giobbe che si suol fare nella 1a e nella 2a Domenica di Settembre. – Continuiamo quindi a leggere i testi del Messale in corrispondenza con quelli del Breviario. Giobbe è la figura del giusto, che il demonio superbo cerca di umiliare profondamente, affinché si rivolti contro Dio. « Lascia che io lo provi, dichiarò satana all’Altissimo, egli ti bestemmierà ». E Jahvè glielo permise, per fare di Giobbe il modello dell’anima che proclama il supremo dominio di Dio e si sottomette interamente alla sua volontà divina. La gelosia del demonio non conobbe allora più freno e fece piombare sullo sventurato Giobbe, con gradazione sapiente, tutte le calamità che ebbero potuto abbatterlo. Pure, benché privo di tutto e coricato sul letamaio, Giobbe non maledisse la mano onnipotente di Dio, che permetteva al demonio di accanirsi contro di lui, ma la baciò umilmente. Il Salmo dell’Introito rende mirabilmente la sua preghiera. « Abbi pietà di me, o Signore, porgi, o Signore, il tuo orecchio, poiché sono misero e povero ». Il Salmo del Graduale è anch’esso « la preghiera del povero quando è nell’afflizione », e i Versetti da 3 a 6: « Sono stato colpito come l’erba, a forza di gemere le ossa mi si sono attaccate alla pelle », sembrano l’eco delle parole di Giobbe che dice: « Le mie ossa si sono attaccare alla pelle, non mi restano che le labbra intorno ai denti » (Vers. 19, 20). Il Salmo dell’Offertorio parla anch’esso «del povero e dell’indigente» che supplica Iddio: « Non allontanare da me le tue misericordie, o Signore, poiché mali senza numero mi hanno circondato. Siano svergognati coloro che insidiano la vita mia » (Versetti 12-14). Infine, l’antifona della Comunione dice: « Piega, o Signore, verso di me, il tuo orecchio! Quante numerose e crudeli tribolazioni mi facesti provare! La mia lingua proclamerà dovunque soltanto la tua giustizia, e questa giustizia mi renderai quando coloro che cercano il mio danno saranno coperti di confusione e di vergogna » (Vers. 2, 20 e 24). Iddio, dicono infatti gli amici di Giobbe, esalta coloro che si sono abbassati, rialza e guarisce gli afflitti. La gloria degli empi è breve e la gioia dell’ipocrita non dura che un momento. Quando anche il suo orgoglio si innalzasse fino al cielo e la sua testa toccasse le nuvole, alla fine egli perirà. Tale è il retaggio che Dio serba agli empi. Essi si sono innalzati per un momento e saranno umiliati. – E Giobbe aggiunge: « Iddio ritirerà il povero dall’angoscia. Dio è sublime nella sua potenza. Chi può dirgli: Hai commesso un’ingiustizia? L’uomo che discute con Dio non sarà giustificato ». Infatti, commenta S. Gregorio, chiunque discute con Dio si mette alla pari con l’Autore di ogni bene; attribuisce a se stesso il merito della virtù, che ha ricevuta, e lotta contro Dio con gli stessi beni di Lui.. È quindi giusto che « l’orgoglioso sia abbattuto e l’umile innalzato » (2° Notturno, 2a Domenica di Settembre). « Chiunque si innalza sarà abbassato e chiunque si umilia sarà rialzato », dice anche il Vangelo di questo giorno. Dio, infatti, dopo aver umiliato Giobbe, lo rialzò, rendendogli il doppio di quanto prima possedeva. Giobbe è una figura di Gesù Cristo, che, dopo essersi profondamente abbassato, è stato esaltato meravigliosamente; è anche figura di tutti i Cristiani, ai quali Iddio darà un posto di onore al banchetto celeste se di tutto cuore avranno praticato la virtù dell’umiltà sulla terra. L’orgoglio, dice S. Tommaso, è un vizio per il quale l’uomo cerca, contro la retta ragione, di innalzarsi al disopra di quello che egli è in realtà; l’orgoglio è quindi fondato sull’errore e l’illusione; l’umiltà, ha, al contrario, il suo fondamento nella verità, ed è una virtù che tempera e frena l’anima, affinché questa non si innalzi al disopra, super, di quello che è realmente (donde il nome di superbia dato all’orgoglio). L’anima umile accetta in piena sottomissione il posto che ad essa si conviene; quel qualsiasi posto che da Dio, verità suprema ed infallibile, le è assegnato. Umiltà nelle parole, umiltà nelle azioni, umiltà nel sopportare le prove e le contraddizioni, è la virtù che Giobbe ci insegna durante tutta la sua vita e che Gesù Cristo ci raccomanda nel Vangelo della Messa di oggi. « Dopo aver guarito l’idropico, dice S. Ambrogio, Gesù dà una lezione di umiltà » (3° Notturno). Vedendo come i Farisei scegliessero sempre i posti migliori, Egli volle farli accorti della loro malattia spirituale e spingerli a cercarne la guarigione; a questo scopo guarì dapprima uno sventurato, che la malattia aveva fatto gonfiare, e cercò quindi, velando la lezione sotto una parabola, di guarire la spirituale enfiagione che affliggeva i convitati presenti e che purtroppo affligge anche la maggior parte degli uomini. – Il mondo è in balìa di tutte le esaltazioni e di tutte le infatuazioni dell’orgoglio, mentre l’umiltà è la condizione assoluta per entrar nel regno dei cieli, ed è questa la virtù che la Chiesa ci inculca nell’Orazione ove dice che la grazia di Dio deve sempre prevenire ed accompagnarci, e che S. Paolo insegna con energia ai Cristiani nell’Epistola di questo giorno. Senza merito alcuno da parte nostra, spiega l’Apostolo agli Efesini, ma unicamente perché serviamo di strumento di lode alla sua gloria, Dio ci ha eletti in Cristo. Allorché eravamo figli della collera, l’Onnipotente, che è ricco di misericordia, ci ha reso la vita in Gesù Cristo, per l’amore immenso che ci porta. Noi tutti, pagani ed estranei alle alleanze conchiuse da Dio col popolo di Israele, siamo stati riavvicinati e riuniti nel Sangue del Redentore, poiché Egli è la nostra pace, Egli che di due popoli ne ha fatto uno solo e per il quale abbiamo, gli unì e gli altri accesso presso il Padre, in un medesimo Spirito. Non siamo più dunque degli estranei, ma dei membri della famiglia divina. E questo non è opera nostra, ma di Dio, affinché nessuno glorifichi se stesso. Gettiamoci dunque ai piedi del Padre nostro, di nostro Signore Gesù Cristo, che è anche Padre nostro, affinché, attingendo nei tesori della sua divinità, sempre di più ci mandi lo Spirito Santo che ha effuso sulla Chiesa nella festa di Pentecoste e che nella fede e nell’amore ci unisce a Gesù, in modo che noi siamo colmati della pienezza di Dio. E chi potrà mai misurare questa carità sconfinata che iddio ci ha manifestata per mezzo del Figlio Suo? Questo amore del Padre per i suoi figli sorpassa infinitamente tatto quello che noi potremmo concepire e domandare a Dio. – A Lui dunque sia gloria in Gesù Cristo e nella Chiesa per tutti i secoli. « Cantiamo al Signore un cantico nuovo, poiché Egli ha operato prodigi » (Alleluia). « Tutte le nazioni temano il nome del Signore, tutti i re della terra annunzino la gloria sua », perché  Dio ha stabilito il suo popolo nella celeste Gerusalemme (Graduale). E questo  popolo che prenderà parte al gran banchetto della visione beatifica, sarà formato di tutti quelli che, rifuggendo da un’orgogliosa ambizione, saranno sempre stati umili sulla terra: Dio li esalterà nella stessa misura in cui essi si saranno con buon volere sottomessi alla sua santa volontà. S. Paolo ha ricevuto da Dio la missione di annunziare ai Gentili che essi, ai pari dei Giudei, sono eletti a far parte del popolo di Dio: elezione gratuita che deve riempirli di un’umile riconoscenza verso il Signore e premunirli contro lo scoraggiamento che è una forma di orgoglio. Per non lasciare un asino o un bue annegare in fondo ad un pozzo, i Giudei non esitavano a fare tutto quello che era necessario per ritirarneli, non ostante il giorno di Sabato in cui ogni opera servile era proibita. Perché dunque il Redentore non doveva poter guarire un ammalato in quel giorno? – « Va, mettiti all’ultimo posto » non vuol dire che il Superiore debba mettersi al di sotto dei suoi subordinati, né esporre la sua dignità al disprezzo; ma egli deve ricordare queste parole dei Sacri Libri: « Quanto più sei grande, tanto più devi mostrarti umile in tutte le cose e troverai grazia davanti a Dio » (Eccl. III, 20).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.

R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.

M. Misereátur nobis omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.

S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.

R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 3; 5
Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].


Ps LXXXV: 1
Inclína, Dómine, aurem tuam mihi, et exáudi me: quóniam inops, et pauper sum ego.

[Porgi l’orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi, perché sono misero e povero].

Miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die: quia tu, Dómine, suávis ac mitis es, et copiósus in misericórdia ómnibus invocántibus te.

[Abbi pietà di me, o Signore, poiché tutto il giorno ti ho invocato: Tu, o Signore, che sei benigno e pieno di misericordia verso quelli che ti invocano].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Orémus.
Tua nos, quǽsumus, Dómine, grátia semper et prævéniat et sequátur: ac bonis opéribus júgiter præstet esse inténtos.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios
Ephes III: 13-21

Fratres: Obsecro vos, ne deficiátis in tribulatiónibus meis pro vobis: quæ est glória vestra. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis et in terra nominátur, ut det vobis secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis, quæ sit latitúdo et longitúdo et sublímitas et profúndum: scire etiam supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem Dei. Ei autem, qui potens est ómnia fácere superabundánter, quam pétimus aut intellégimus, secúndum virtútem, quæ operátur in nobis: ipsi glória in Ecclésia et in Christo Jesu, in omnes generatiónes sæculi sæculórum. Amen.

[“Fratelli: Vi scongiuro di non perdervi di coraggio a motivo delle tabulazioni che io soffro per voi. Esse sono la vostra gloria. Perciò io piego i ginocchi davanti al Padre del Nostro Signore Gesù Cristo, dal quale prende nome ogni famiglia, in cielo e in terra, affinché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria, d’essere fortemente corroborati, mediante il suo spirito, nell’uomo interiore: che Cristo per mezzo della fede abiti nei vostri cuori, affinché, profondamente radicati e fondati nella carità, possiate comprendere con tutti i santi quale sia la larghezza e la lunghezza e l’altezza e la profondità; e d’intendere anche quell’amore di Cristo che sorpassa ogni coscienza, di modo che siate ripieni di tutta la pienezza di Dio. A Lui che, secondo la possanza che opera in noi, può tutto infinitamente di là di quanto noi domandiamo e pensiamo: a Lui sia gloria nella Chiesa e in Cristo Gesù per tutte le generazioni di tutti i secoli”.]

PIENI DI DIO IN GESU’ CRISTO.

Una delle cose più stupende, e, se volete anche strane, quando ci facciamo a studiare bene l’uomo, è la sua estrema elasticità. Gli animali sono quel che sono, tutti: i buoi tutti lenti, gravi; i cervi tutti veloci; i leoni tutti crudeli, e gli agnelli tutti mansueti. Ma l’uomo… l’uomo è capace di assumere gli atteggiamenti più diversi, più contrari. Può andare da un estremo all’altro. Un trasformismo fenomenale. Possiamo purtroppo abbrutirci, e quanti uomini si abbrutiscono! Potrebbero essere degli uomini e diventano animali e peggio. S. Paolo l’afferma nettamente l’esistenza di questo « animalis homo.» E’ l’uomo che discende la scala dell’abisso. Si abbrutisce nel pensiero, che non è più pensiero, ricerca faticosa, conquista umile della verità, ma schiavitù dei sensi, superficialismo di impressioni molteplici e varie. Pensa e ragiona come una bestia: cioè non pensa, non ragiona più; urla, non parla. Si abbrutisce l’animalis homo, nel cuore corrotto e violento. Nessun battito generoso più, ma bramiti come di belva. Sogni, compiacenze voluttuose: il fango. Oppure la crudeltà: la belva accanto al bruto; col fango il sangue. La guerra e il dopoguerra hanno moltiplicate queste dolorose esperienze di crudeltà feroce, di ferocia bestiale. Abbiam visti uomini capaci di far paura alla bestia. Artigli, zanne, occhi iniettati di sangue. E per queste vie trionfali di discesa, si direbbe non ci sia limite. Si può andare, e si va sempre più in giù, e ci si abbrutisce sempre più. Tutto questo bisognava ricordare, bisogna meditare per comprendere l’altro moto diametralmente contrario. L’uomo può angelicarsi, mi direte voi. Ciò, vi dico con San Paolo, è ancora poco, troppo poco per il Cristiano, il quale, invece, può e deve divinizzarsi. Dal fango a Dio. Sicuro, è il programma del Cristianesimo, di quel Cristianesimo che davvero atterra e suscita questa povera umanità. L’atterra nella polvere davanti a Dio, la umilia profondamente, ci proclama peccatori, guasti; corrotti, figli di ira, vuole che ci mettiamo in ginocchio, che ci mostriamo davanti a Lui. « Venite adoremus. » Ma ci esalta, perché ci scopre la nostra origine e razza divina, ci dà il diritto di chiamarci, e il potere di diventare figli di Dio, di divinizzarci. Meditiamo pure bene, meditiamo spesso questi contrasti. L’umanità è cattiva, peccatrice, ci insegna il Cristianesimo, ed eccoci nella polvere della abbiezione. E, a parte che dobbiamo stare in ginocchio, colla faccia a terra, perché siamo peccatori, dovremmo starci ginocchioni così, prostrati così davanti a Dio, perché siamo uomini, povere creature di Dio, scintille davanti a un incendio, gocce di fronte al mare. È questo il preludio del dramma, non è il dramma. Il dramma è l’esaltazione sino a Dio. L’eritis sicut Dei, che suonò audace bestemmia sulle labbra del demone, suona dolce invito sulle labbra di Gesù Cristo. « Estote perfectì sicut Pater vester coelestis perfectus est. » Gesù non invita all’impossibile; se mai, ci invita all’impossibile, rendendolo possibile. Dobbiamo diventare come Dio in ciò che Dio ha di più tipico, di più suo, di più caratteristico: la bontà.«Nemo bonus nisi unus Deus:» ma anche noi dobbiamo diventare buoni, anzi perfettamente buoni (estote perfecti), come Lui, come Dio. Non si può andare più in là, più in su. Ma San Paolo adopera un linguaggio ancor più espressivo, più enfatico, direi, se la parola enfasi non portasse con sé l’idea della esagerazione. Paolo vuole che ci riempiamo noi Cristiani, ci riempiamo di Dio, anzi, per usare proprio la sua frase, d’ogni pienezza divina.Quanti sono i Cristiani pieni di Dio? Ne conosco tanti pieni di ben altre cose, di vanità, d’orgoglio, di avarizia, di viltà, di invidia… ma pieni di Dio! Cerchiamo di fare noi questo miracolo in noi stessi, coll’aiuto di Dio, nel nome di Cristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.

[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore, e tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua.

[Poiché il Signore ha edificato Sion e sarà veduto nella sua maestà.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps XCVII: 1
Cantáte Dómino cánticum novum: quia mirabília fecit Dóminus. Allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo: perché Egli fece meraviglie. Allelúia.]

 Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV: 1-11
In illo témpore: Cum intráret Jesus in domum cujúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Jesus dixit ad legisperítos et pharisæos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cujus vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

[“In quel tempo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno de’ principali Farisei per ristorarsi, questi gli tenevano gli occhi addosso. Ed eccoti che un certo uomo idropico se gli pose davanti. E Gesù rispondendo prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: È egli lecito di risanare in giorno di sabato? Ma quelli si tacquero. Ed egli toccandolo lo risanò, e lo rimandò. E soggiunse, e disse loro: Chi di voi, se gli è caduto l’asino o il bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato? Né a tali cose poterono replicargli. Disse ancora ai convitati una parabola, osservando com’ei si pigliavano i primi posti dicendo loro: Quando sarai invitato a nozze, non ti mettere a sedere nel primo posto, perché a sorte non sia stato invitato da lui qualcheduno più degno di te: e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedi a questo il luogo; onde allora tu cominci a star con vergogna nell’ultimo posto. Ma quando sarai invitato va a metterti nell’ultimo luogo, affinché venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più in su. Ciò allora ti fia d’onore presso tutti i convitati. Imperocché chiunque si innalza, sarà umiliato; e chi si umilia sarà innalzato”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

IL MANSUETO

Con tutta probabilità, l’invito a pranzo che, in quel sabato, i Farisei offersero a Gesù era un ignobile tranello. Infatti, entrato nella sala, si trovò davanti a un poveretto, ammalato d’insanabile idropisia: Gesù s’accorse che il capoccia e gli altri commensali gli tenevano gli occhi addosso. Nelle loro pupille bieche traspariva la malvagia disposizione dell’interno del cuore: guarire una malattia generalmente tenuta per incurabile non era la cosa più facile; dato poi il caso che riuscisse a guarirla, quello era giorno di sabato, e allora l’avrebbero accusato come un violatore della gran legge del riposo. Che razza d’abbietti! usare della miseria e della vergogna umana per una segreta e bassa mira! Perché Iddio non li ha travolti con un vento furioso? Perché non li ha sbranati come un leone? Per insegnarci che non è gloria per il leone sbranare un branco d’agnelli, ma gloria è per un agnello trionfare di un branco di leoni. Ecco perché il mansueto Figlio di Dio si rivolse a loro che sapevano a memoria il codice mosaico e disse: « Ditemi, per piacere, è lecito o no curare gli ammalati in sabato? ». Silenzio perfetto. Di quei dottoroni nessuno rispose. Gesù allora prese dolcemente nella sua la mano del sofferente e lo guarì. Mentre il miracolato se ne andava lietissimo, riprese a domandare: « Se un vostro asino o un vostro bue in sabato cadesse nel pozzo, chi di voi lo lascerebbe affogare dentro? ». Ancora silenzio perfetto. Di quei dottoroni nessuno poteva rispondere, senza tirarsi la zappa sui piedi. Intanto era venuto il momento di mettersi a tavola, e Gesù osservava come alcuni s’affannavano per sospingersi ai posti d’onore. Ne approfittò per contare la succosa paraboletta di un certo invitato a nozze che s’era messo al primo posto, ma al sopraggiungere di un personaggio altolocato fu costretto dal padrone, a tirarsi indietro, così dovette finire pien di vergogna dopo tutti. Di tre cose parla dunque il brano evangelico di questa domenica: del sabato, dell’idropico, dell’invitato a nozze. Ebbene da ognuna di esse possiamo ricavare il medesimo insegnamento: la mansuetudine. Attendete. Non fu tutto mansuetudine il contegno di Gesù coi maligni Farisei nella subdola questione del riposo sabbatico? E l’idropsia che gonfia le vene, il corpo e fa tumultuoso il battito del cuore, non è simile all’ira che gonfia l’anima e getta in tumulto il nostro intimo? Perché il miracolo dell’idropico guarito è un invito a guarire dall’ira. Infine la paraboletta di chi volle occupare il primo posto e fu mandato all’ultimo, indirettamente, con l’invito all’umiltà, non essa pure c’inculca la mansuetudine? Infatti, la dolcezza e l’umiltà sono sorelle mai l’una dall’altra disgiunte, come pure la collera è sorella della superbia. Non c’è uomo dolce, se in cuor suo non tace la passione dell’alterigia, come non c’è bonaccia in mare se il vento non posa. Allora lasciate ch’io condensi tutta l’esortazione pratica di stavolta in quelle parole dell’Agnello divino: « Imparate da me che sono umile e mite di cuore ». Cristiani, due pensieri adunque vi proporrò: non adiratevi! non provocate all’ira. – 1. NON ADIRATEVI. Un famoso medico pagano di nome Galeno vide sulla soglia d’una casa un uomo iroso, proprio nella raffica della sua passione. Aveva gli occhi sanguigni e stralunati, agitava tutta la persona come un epilettico, e con labbra livide e tremante vomitava contro il cielo una grandinata d’orribili giuramenti e di bestemmie atroci. Di tanto in tanto taceva, ma la sua bocca era convulsa e il suo petto mandava gemiti come di un toro ferito. Galeno fu preso da un tremito d’orrore poiché gli sembrava che quello non era più uomo ma una bestia selvaggia, e concepì tale avversione per la collera che in tutta la sua vita non gli sfuggì uno scatto d’ira. Se la ragione è ciò che distingue gli uomini dalle bestie, dobbiamo conchiudere proprio che l’ira ci trasforma in bestie poiché appunto ci priva della ragione. E magari per una vera inezia. Il collerico si mette a scrivere: la penna scricchiola e non lascia inchiostro. Niente di straordinario, eppure già è diventato rosso come una fragola, già trema, già tutto va per aria, foglio penna e calamaio. Il collerico apre un uscio: la chiave s’intoppa e non gira. Niente di straordinario, eppure digrigna i denti stizzosamente, picchia i piedi, si slancia da forsennato contro la porta, la batte coi pugni. Il collerico siede a tavola: alla prima cucchiaiata s’accorge che la minestra è insipida. Una sbadataggine della moglie, ma presto rimediabile; basterebbe aspergerla con sale raffinato. Invece è una cateratta di parole ingiuriose, d’imprecazioni, di bestemmie ed infine, come conclusione, scaglia la scodella contro la parete e la posate sul pavimento. I bambini impauriti si sono rifugiati dietro la porta e piangono. Basta di questi incresciosi episodi: intanto pensiamo che vita penosa nella case del collerico! Se poi di carattere furioso è la donna, allora ha ragione lo Spirito Santo che è meglio scappare nel deserto. Melius est habitare in terra deserta, quam cum muliere rixosa et iracunda (Prov., XXI, 19). Intanto pensiamo ai mali esempi, ai danni materiali, alle inimicizie, ai disordini che provengono dall’ira. Pensiamo soltanto alle infinite bestemmie che ogni giorno salgono a provocare la vendetta di Dio, le quali tutte sono male erbe nate nel campo dell’iroso. Prevengo un’obbiezione. « Capisco che non vado bene — dice il collerico — ma io son fatto così ». « Sei fatto così, ma devi correggerti ». « È impossibile!… ». « Non è vero; altri più di te infelici nel carattere sono diventati mansuetissimi, quindi anche tu, se vuoi, puoi modificarti. E se lo vuoi veramente usa questi tre mezzi: la preghiera, perché niente di buono possiamo compiere senza l’aiuto dall’Alto; lo sforzo quotidiano ed energico per dominare te stesso, perché il Cielo t’aiuta se t’aiuti; infine, la frequente Confessione, la quale t’obbligherà a ripensare le tue mancanze e a detestarle e t’infonderà nuovo coraggio. E poi aggiungo un consiglio indispensabile! non dire né fare nulla mentre sei agitato dall’ira, perché quando il sangue bolle l’occhio è turbato, la mente è nuvolosa e non parleresti né agiresti con assennatezza. Archita, filosofo di Taranto, rincasando una sera udì dal fattore i malestri compiuti da alcuni servi e montò sulle furie. « Che debbo fare? » chiese il fattore. « Se non fossi adirato, — soggiunse il filosofo — li farei battere tutti a sangue. Ma torna domattina, e ti darò gli ordini opportuni ». Saggia risposta! Ed ancora state attenti di non sgridare, né castigare i vostri figliuoli nei momenti di furia: non sapreste conservare il giusto mezzo, e la riprensione non otterrebbe lo scopo. Lasciate sbollire la collera, poi vedrete meglio l’entità dello sbaglio e il castigo adatto a punirlo. Racconta Seneca che Platone, una volta, si lasciò sorprendere da un colpo di rabbia contro il suo schiavo ed afferrò lo staffile. Ma come s’accorse d’essere adirato, rimase con la mano sospesa in atto di colpire ma immobile come una statua. Proprio in quel momento gli capitò in casa un amico: « Che fai?» gli disse meravigliato. « Sto aspettando che mi passi la rabbia » rispose Platone (De ira; lib. III, cap. 12). – 2. NON PROVOCATE ALL’IRA. Quando le palle di cannone incontrano il soffice non esplodono e si fermano innocue. Ecco perché durante la guerra con imbottiture di lana e con sacchetti di sabbia si difendono i monumenti d’arte dagli obici degli avversari. Non diversamente è nella vita: se voi circondate l’uomo collerico con la vostra dolcezza, egli è disarmato ed innocuo. Aggiungerò un’altra similitudine. Quando Davide vedeva il re Saul in preda a furore come un indemoniato, in silenzio, in quiete prendeva l’arpa e ne traeva dolcissimi accordi. Man mano le note s’alzavano tremule nell’aria, Saul le sentiva come gocce di rugiada cadere sull’arsura della sua anima, le sentiva come gocce di balsamo diffondersi in lenimento de’ suoi bruciori. Non diversamente è nella vita: se nella vostra casa, se nel vostro vicinato, se nella vostra officina c’è un carattere furioso, placatelo con la soave musica della vostra dolcezza: È dolcezza mantenere con tutti la bontà del cuore e delle azioni; non porgere stimoli all’ira altrui con risposte scortesi o maligne; soffrire con pazienza le ingiurie; e soprattutto tacere, tacere, tacere. Un gentiluomo di Ginevra l’aveva a morte col Vescovo della città, S. Francesco di Sales, e non sapeva ormai che cosa inventare a sfogo della sua verde bile. Un giorno corse al vescovado con tutti i suoi cani e i servitori, gli uni perché abbaiassero e gli altri perché insultassero. Fu un baccano d’inferno, ma nessuno venne alla finestra. Allora egli stesso, salì in camera del santo e vomitò contro di lui ogni più barbara specie d’ingiurie. Il Vescovo l’ascoltava senza far querela; ma il suo nemico interpretando quel silenzio per disprezzo raddoppiò la foga, e non potendone più se ne venne via. Gli amici di S. Francesco, che avevano assistito alla scenata, gli chiesero come avesse potuto tacere. Rispose il santo: « Abbiam fatto un patto, la mia lingua ed io: si è convenuto che fin tanto che il cuore è agitato dalla bocca non esca verbo ». Questo medesimo patto devono concluderlo tutte le donne che hanno il marito iroso; tutti gli uomini che hanno la moglie collerica; tutti quelli che hanno in casa una suocera o una nuora, un cognato o una cognata facili all’ira. E poiché siamo tutti — più o meno — suscettibili d’iracondia, tutti dobbiamo fare il patto che San Francesco fece con la sua lingua: saper tacere. Allora, o Cristiani, in ogni nostra famiglia avverranno quei miracoli di trasformazione che S. Agostino dice avvenuti nella sua famiglia per opera di Monica sua madre. Si era Monica sposata con Patrizio, di religione infedele, di professione soldato, di costume barbaro. Oltre ad alcuni bei difettucci, il padre di S. Agostino era un tipo collerico. « E Monica al vederlo in furia cedevagli, e né con fatto né con parola contrastava alla sua ira. E se in collera fosse montato a torto, lasciatolo calmare, coglieva il destro opportuno per ammonirlo del suo modo di fare. « Accadeva talvolta che molte signore, che pur avevano mariti più discreti, imbattendosi a discorrere insieme, si querelavano in confidenza dei mali trattamenti dei mariti loro, e documentavano la verità mostrando il volto ammaccato da battiture. E Monica, benché scherzevole in sembianti, con serietà le avvisava: « Tal sia di voi; è la vostra lingua che ve le tira… ». « Monica ebbe anche a fare colla suocera, la quale messa su dalle serve, era intrattabile e faceva dispetti e scenate ad ogni cosa di lei. Ma la buona nuora tutto in silenzio in mansuetudine sopportava, e tanto le si pose intorno con ossequio e cortesia, che alla fine se la rese amica. « D’altra bella qualità tu, o Signore, avevi fornita quella buona ancella di mia madre, cioè il metter pace da per tutto ovunque lo potesse. Interveniva spesso che delle donne rissose venivano a lei; e l’una, assente l’altra, garriva e gettava fuori le più nere calunnie contro l’avversaria, quali appunto sa far vomitare la stizza e  discordia sobbollita. E Monica prudentissima non ne manifestava all’altra se non quanto valesse a ricomporre gli animi e a ritornare la pace. Questo io non lo avrei a gran merito, se con molto dolore, non mi toccasse tutto di vedere gente senza numero, presa da malignità pestilente e rovinosa, non solo rapportare male dall’uno all’altro, ma aggiungervi anche a bella posta cattivezze e tristizie, per fare maggior ira. Orrenda cosa e contraria alla natura!» (Le confessioni, lib. IX, Cap. IX). – Non v’è ignota lo storia di Giuseppe ebreo, quello che fu venduto ai mercanti d’Egitto, e divenne vicerè. Poi che i suoi fratelli sospinti dalla carestia andarono in terra egiziana a comprare frumento, egli dopo averli messi alla prova, li colmò di doni e li rimandò alla casa del vecchio padre con queste parole: «Non adiratevi lungo il viaggio » Ne irascamini in via. Anche Gesù, o Cristiani, oggi vi dice lo stesso. Questo viaggio non è che la mia strada che dobbiamo fare per giungere alla casa dell’eterno nostro Padre, il Cielo. Non adiriamoci dunque gli uni contro gli altri nel cammino della vita, ma tutti uniti nel vincolo della fede e dell’amore, andiamo in pace verso la beata eternità.Nella sala del convito erano rimasti in piedi, con gli occhi sbarrati sul nuovo miracolo che Gesù aveva operato. Un povero idropico gli si era messo davanti sulla soglia invocando la guarigione: il Salvatore l’aveva toccato e sanato in un attimo. Passato il primo stupore, tutti pensarono al banchetto ed ecco molti affannarsi per correre a sedere nei posti migliori. Gesù li osservava. Poi, non tanto per insegnare una regola di civiltà esteriore, quanto per inculcare a’ suoi fedeli la fuga dell’ambizione ed esortali, non solo a star contenti degli ultimi posti, ma ad amarli e preferirli con sincera umiltà, disse questa parabola: « Se mai ti capiterà la fortuna di essere invitato a un pranzo di nozze, non correre a sedere nel primo posto. Può darsi che sia già stato invitato qualcuno più degno di te; e quegli che ha invitato te e lui venga a dirti: — Ritirati indietro. — Che figura allora per te dover lasciare in faccia a tutti il primo posto e andare a sedere in uno degli ultimi! Meglio allora, se t’avverrà d’andare a nozze, che tu ti metta a sedere all’ultimo posto. Il padrone, scorgendoti in luogo umile, ti dirà: — Amico, vieni più in su. — Che onore allora per te, esser condotto dallo stesso padrone, in faccia a tutti, a sedere al primo posto! « Chiunque s’innalza sarà abbassato, concluse Gesù, e chiunque s’abbassa sarà innalzato ». Questa non è soltanto la conclusione della parabola, ma può stare a conclusione di tutto il Vangelo. – La rovina degli uomini venne dalla superbia, quando Adamo in una follìa, che solo il demonio poteva rendere credibile, accettò il frutto proibito sperando di diventar uguale a Dio. La nostra salvezza, dunque, non ci poteva venire che dall’umiltà. Di umiltà fu il primo atto di redenzione: Dio che si fa uomo. Di umiltà la prima parola di Gesù quando dalla montagna promulgò la legge nuova: « Beati i poveri di spirito perché il regno dei cielo è loro ». Di umiltà è il modello che dobbiamo seguire: « Imparate da me che sono mansueto e umile di cuore ». Non disse, come osserva S. Agostino, imparate da me a fabbricare i cieli e la terra; imparate da me a non mangiare né bere per quaranta giorni; imparate da me a risanar gli infermi, a scacciare i demoni, a risuscitare i morti, o far altre cose prodigiose; ma imparate, disse, da me ad essere mansueti ed umili di cuore. Discite a me quia mitis sum et humilis corde (Mt., XI, 29). Si può fare miracoli, e finire all’inferno; ma nessun umile di cuore verrà escluso dal paradiso, perché il paradiso è dei piccoli. Ma non è della bellezza dell’umiltà, non è de’ suoi vantaggi che io voglio parlarvi; ma è soltanto di alcune contingenze pratiche della vita in cui si distingue chi è umile, da chi è superbo. – 1. VINCERE IL RISPETTO UMANO. A Pollone, paese del Piemonte, durante una Messa festiva, mancando il sacrestano, era passato tra la folla un giovane distintissimo, figlio d’un senatore, studente universitario, con la borsetta a ritirar l’elemosina. Nell’uscir dalla chiesa, mentre i fedeli sfollavano, qualcuno gli si avvicinò e gli disse: « Oh, Pier Giorgio, sei diventato un bigotto! » E quel giovane, che è morto nel fior della vita e nel profumo delle santità, rispose semplicemente: « Non sono diventato niente. Sono rimasto quel che ero: un Cristiano ». Che cosa siamo noi? Ricchi e poveri, sapienti e ignoranti, re e sudditi, tutti siamo creature di Dio. Perché dobbiamo aver vergogna di umiliarci davanti a Lui che ci creò, perché dobbiamo aver rossore di compiere per Lui, anche i più umili uffici? Quei che si lasciano vincere dal rispetto umano sono superbi: ci tengono al giudizio della gente, hanno paura di essere presi come bigotti, come ignoranti, come persone di poco spirito. Per me, Davide non riesce mai così simpatico come quando me lo immagino danzare davanti all’Arca. Si doveva condurre l’Arca dalla casa di Obededon levita fino a Gerusalemme, e Davide organizzò un ingresso trionfale. Sette cori cantavano inni di lode, e ad ogni sei passi dal s’immolava un bue e un montone. Intanto davanti all’Arca Davide il re, deposte le insegne regali e vestito di un ephod di lino, saltava con tutte le sue forze come un fanciullo. Et David saltabat totis viribus ante Dominum (II Re VI, 14). Quando ritornò a casa, Michol, che l’aveva spiato dalla finestra, gli disse con pungente disprezzo: « Come stava bene oggi il re, danzante in faccia ai suoi sudditi come un buffone! » Ed il re le rispose fieramente: « Al cospetto del Signore, il quale elesse me piuttosto che tuo padre a capo d’Israele, io danzerò ancora di più; ancora di più mi avvilirò e sarò umile! ». Dei Cristiani che ragionano come Michol, ve ne sono ancora. Quanti non vogliono inscriversi alle associazioni e nelle confraternite, per non portare la candela nella processione, per non rivestire la divisa benedetta! Siamo umili, Cristiani! Il mondo ci chiami pure buffoni « Unus de scurris ». Davanti a Dio è gloriosissimo essere anche buffoni. – 2. ACCETTARE LE CORREZIONI. Serapio, il famoso santo del deserto si vide un giorno comparire un certo monaco che quasi ad ogni parola si chiamava peccatore. Il santo allora, dopo averlo fatto sedere alla sua mensa ospitale, si permise di fargli alcune osservazioni per il bene della sua anima. « Figliuolo — gli disse con grande dolcezza e carità — sei sulla via giusta. Però se vuoi progredire nella perfezione, non andar troppo in giro di qua e di là: rimani ritirato nella tua cella, attendendo all’orazione, al lavoro, al raccoglimento interno, altrimenti… ». Non poté finire, perché il monaco s’era fatto cupo, e tentava di rispondere malamente come fosse stato insultato. « Fratello mio, — disse al monaco — ti manca tutta l’umiltà ». Provate voi, a far la medesima correzione, a una donna, a una fanciulla: « Anima del Signore, sei sempre fuori di casa: di mattina, di mezzogiorno, di sera, sprechi ore e ore oziando, cianciando inutilmente… ». Basta un’osservazione di queste per suscitare una lite in tutta la contrada. Per essere umili non basta aver il coraggio, e ce ne vuol poco in questo caso, di manifestar alcuni nostri difetti, ma bisogna aver il coraggio di sentirseli dire dagli altri, e senza perdere la pazienza, ma con animo tranquillo, anzi riconoscente. Mancano quindi d’umiltà quei Cristiani che, quando il prete fa delle osservazioni nelle prediche, per tutto il giorno e per altri ancora, non fanno che mormorare. Mancano d’umiltà quelle mogli che non accettano correzioni dal marito; quelle nuore che non le accettano dalla suocera. Mancano d’umiltà quei figli, e quelle figlie anche, che, ai genitori che li avvisano in bene, hanno la sfrontatezza di rispondere: « I vostri consigli teneteli per voi, ho la mia età ». – 3. PERDONARE FACILMENTE. Al cominciar della quaresima del 1076, come in tutti gli anni in quel tempo, il papa Gregorio VII teneva un sinodo. Erano convenuti moltissimi perché si dovevano trattare affari importanti e prendere urgenti deliberazioni contro l’imperatore Enrico IV che perfidamente angariava la Chiesa. Mentre tutti già erano adunati, entrò un messo dell’imperatore, Rolando. Costui aveva offeso più volte e crudelmente il cuore del Papa: lo aveva chiamato odioso tiranno, aveva sparso nel popolo la voce ch’egli non era il sommo pastore di Cristo, ma il lupo feroce. Come lo videro comparire, i presenti, indignati, scattarono e con le spade e i pugnali si lanciarono sopra quel tristo per trafiggerlo: ma il Papa, ch’era un santo, in una mossa fulminea era disceso dal trono e si mise tra le spade e il colpevole, coprendolo con la sua persona. « Rolando » gli diceva in mezzo al tumulto, « son io che ti salvo e ti perdono. E tu pentiti, che ti possa perdonare anche Iddio ». Quanta umiltà d’animo! Il papa Gregorio VII era stato offeso nel modo più atroce e nel modo più ingiusto: eppure non aspetta che l’altro domandi perdono, è lui il primo che spontaneamente glielo concede, e lo salva dalla morte. Eppure, ci sono moltissimi Cristiani che vivono per anni ed anni, covando in cuore un odio terribile, e desiderando l’ora della vendetta. — Io non posso perdonare, il mio onore non me lo permette — rispondono alcuni. — Ma se perdona anche Iddio? dunque voi vi credete più in alto che Dio stesso. — Ma l’offesa che m’ha fatto è troppo grave. — Considerate con occhi d’umiltà questa vostra offesa, e vedrete che il Signore ne ha perdonato a voi di ben più gravi. È la vostra superbia che vi gonfia come un pallone un torto da nulla. — Sì, io gli perdono, ma deve venire a domandarmi scusa in ginocchio… — Ma questo è un perdono che tutti sanno dare; anche i pagani sanno perdonare così. — Sì, io perdono; ma però il torto che m’ha fatto non lo dimenticherò mai; non avrà più da me una parola. — Tutta superbia: le anime umili perdonano facilmente, dimenticano subito le offese, e beneficano di preferenza quelli da cui ricevettero qualche male. – 4. PREGARE CONTINUAMENTE. Dio è tutto. Noi siamo nulla. Quando Sansone, cedendo alle insidie d’una donna, perse coi capelli la grazie di Dio, divenne debole come un bambino, ed i fanciulli stessi se ne facevano ludibrio. Talvolta lo sorprendevano a dormire, o assorto nel dolore della sua abbiezione, e improvvisamente gridavano: « Sansone, levati! levati! ti sono sopra i Filistei. » Egli si levava, imponente come una torre, credeva di abbatterli tutti con un pugno gli eserciti dei Filistei, e invece s’accorgeva che tutta la sua forza lo aveva abbandonato, e non avrebbe più saputo far male a un passero. E tornava ad accasciarsi disperatamente. Come mai, giovanetto ancora, s’era avventato sopra un leone, e afferrandolo per la gola l’aveva squartato in un colpo? Come mai con un osso d’asino era riuscito a sgominare un esercito armato di spada e di scudo? Come mai un mattino, da solo, aveva sconficcato dai cardini le porte di Gaza e con quelle era corso sul monte? Per la grazia di Dio. E senza la grazia di Dio? Non ha potuto far nulla. Così anche noi, Cristiani. Tutto quello di buono che siamo o che facciamo è solo per la grazia di Dio. Dunque, bisogna continuamente invocarla questa grazia: ogni mattina, ogni sera; quando lavoriamo, quando mangiamo; mentre godiamo, mentre soffriamo; nella preghiera e nella tentazione. – Gesù camminava davanti, solo: forse pregava. Intanto dietro gli Apostoli litigavano, discutendo chi di loro doveva essere il primo nel regno dei cieli. Forse Giovanni, il prediletto, ch’era il più giovane? Forse Andrea che fu uno dei primi a seguire Gesù? Forse Pietro ch’era costituito capo dei dodici? Forse Giuda che teneva il danaro per tutti? Gesù li sentì, e volgendosi disse: « Gli ultimi saranno i primi ». O Cristiani! chi di noi ascenderà più in alto in paradiso? chi di noi sarà il primo nel regno dei cieli? Non il più ricco, non il più sapiente, non il più bello, ma il più umile: l’ultimo.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 14; 15
Dómine, in auxílium meum réspice: confundántur et revereántur, qui quærunt ánimam meam, ut áuferant eam: Dómine, in auxílium meum réspice.

[Signore, vieni in mio aiuto: siano confusi e svergognati quelli che insidiano la mia vita per rovinarla: Signore, vieni in mio aiuto.]

Secreta

Munda nos, quǽsumus, Dómine, sacrifícii præséntis efféctu: et pérfice miserátus in nobis; ut ejus mereámur esse partícipes.

[Purificaci, Te ne preghiamo, o Signore, in virtù del presente Sacrificio, e, nella tua misericordia, fa sì che meritiamo di esserne partecipi].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXX: 16-17;18
Dómine, memorábor justítiæ tuæ solíus: Deus, docuísti me a juventúte mea: et usque in senéctam et sénium, Deus, ne derelínquas me.

[O Signore, celebrerò la giustizia che è propria solo a Te. O Dio, che mi hai istruito fin dalla giovinezza, non mi abbandonare nell’estrema vecchiaia.]

Postcommunio

Orémus.
Purífica, quǽsumus, Dómine, mentes nostras benígnus, et rénova coeléstibus sacraméntis: ut consequénter et córporum præsens páriter et futúrum capiámus auxílium.

[O Signore, Te ne preghiamo, purifica benigno le nostre anime con questi sacramenti, affinché, di conseguenza, anche i nostri corpi ne traggano aiuto per il presente e per il futuro].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (221)

LO SCUDO DELLA FEDE (221)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IX)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE IX

Appello ad arruolarsi senza rispetto umano sotto lo stendardo di Gesù Cristo

Che momento solenne è mai questo! Siamo qui per stringere un patto nuovo di fedeltà col Signore Dio nostro. Benedetti voi, o giovani, che correte coll’ardore della vostra età sotto lo stendardo di Gesù Cristo! Quale arringo vi si apre per la vostra età ventura! quanto bel tempo di far del bene e campo a conquistare vittorie, che vi faranno consolata tutta la vita! Bravi voi, che combattete sempre fedeli sotto la scorta e la guardia del divin Salvatore, e che riposando sopra tante palme raccolte nei passati combattimenti, pigliate conforto a nuove battaglie pel trionfo della eterna gloria! Coraggio a voi convertiti, i quali rimpiangendo un tempo perduto, lo potrete riguadagnare col fervore nel servire a Dio. Pace anche a voi, i quali finalmente, stancati dalle vostre passioni, cercate e troverete riposo tra le braccia del perdono di Dio. Formiamo adunque un popolo di fervorosi che vogliamo essere un esercito di bravi e fedeli soldati di Dio, fino alla morte: tutti insieme siamo la crociata guidata da Gesù Cristo al conquisto del regno eterno. In questa missione io ho fatto come il profeta Samuele. Egli, radunato in massa tutto il popolo di Dio, gli rinfacciò le colpe; per cui aveva meritato tanti castighi; e quel popolo rispondendogli colle strida del più acuto dolore, giurarono insieme nuova fedeltà al Signore: così formossi consolidato il regno d’Israele. Anch’io nella presente missione vi gridai: ritornate al Signore, e voi correste tutti a gittarvi tra le braccia della sua bontà. Oh siamo adunque qui tutti, proprio ancor tutti salvi!… Anche quei nostri amati fratelli, che ci facevano tanto spavento, perché erano già, meschinetti! sopra l’abisso dell’inferno che minacciava d’ingoiarli!… Dio della misericordia! abbracciamoci scampati, come chi per miracolo fuor di naufragio si volta e guata il mare, da cui scappa atterrito. Corriamo tutti al Salvatore nostro Gesù, e serriamoci intorno a Lui, decisi di combattere sotto il suo stendardo fino alla morte. Ecco una società di empii che pretendono di cacciar Dio dal suo regno in terra, e regnarvi essi come fossero déi. Ferve la guerra tutta contro a Gesù accanitissima, perché Egli è Figliuolo di Dio. Se in altri tempi fingevano almeno d’inchinarsi davanti a Lui, acclamandolo il benefattore più grande dell’umanità, e se volevano, ipocriti! Comparire Cristiani, era per loro la religione un affare di convenienza, e la moderazione di quei mondani onorati era la maschera di un vile egoismo. Ora l’attacco è smascherato. Giù giù la maschera, oprudenti del secolo: o con noi e con Gesù; se no, noi contro di voi. Noi combatteremo a visiera alzata: noi colla irrevocabile decisione del martire; noi colla fiducia del trionfatore sulla fronte; noi col grido, terror dei nemici di Dio: Emanuele Gesù è Dio con noi: noi seguendo Gesù fino al paradiso avremo fino all’ultimo nostro sospiro la parola d’ordine: Adveniat regnum tuum! O Gesù Cristo, eterno trionfatore de’ vostri e dei nostri nemici, toglieteci questa vita, se mai tentassimo disertare. O Maria, ausiliatrice al tempo opportuno, terribile come mille schiere ordinate, proteggeteci voi in mezzo a tutte prove, e raccoglieteci in seno a voi fino a quando vi spireremo in seno, coll’anelito del cuore e col labbro in sorriso ripetendo i cari nomi « Gesù e Maria! » Bravi voi, miei cari, che udiste l’appello: siete qui adunque tutti per arruolarvi nell’esercito dei santi combattenti con Gesù Cristo in terra per la conquista del suo regno. Ora ci ordineremo in drappelli. Il primo drappello è dei giovani, e fin dei fanciulli: il secondo drappello è delle persone di una certa età che son già bravi, distinti per l’esperienza nelle prove della vita; ai quali stanno congiunti tutti convertiti d’ogni condizione, ma tutti rinati a vita nuova. Cominceremo adunque col riordinarci e comunicarci, come si dice, l’ordine del giorno per le battaglie. – Ora il primo drappello siete voi, o giovani, fiore delle nostre speranze: Dio benedetto vi vuole proprio salvi; Egli vi elesse con tanto amore. Per non lasciarvi perdere neppure un poco della vostra vita tanto preziosa, vi affidò alle più tenere cure dei genitori cattolici. Vi fece nascere tra le braccia di una madre cristiana; e la madre cristiana per istinto d’amore materno si fece subito interprete del disegno che ha per voi la bontà divina. Ella, dimentica fino di se stessa, vi avrebbe versato il cuore suo nella vostra personcina: vi vegliava alla culla; e quando vi svegliavate, la vedeste cogli occhi allargati negli occhietti di voi, collo sguardo al cielo, che la vi accennava subito una qualche cosa in alto di più del soffitto della vostra stanzetta. Colla materna parola vi svegliava l’anima a ragionare, vi rivelava un mondo invisibile; vi parlava insomma di Dio. Per farvelo conoscere nella sua bontà questo Dio, che ci ama come figliuoli del suo Sangue, ella vi faceva guardare appeso al muro al di sopra della culla il Crocifisso suo Figliuolo; e sotto al Crocifisso sempre la Madonnina, per cagion di dirvi: figliuolo delle viscere mie, ecco chi ti ha da condurre salvo in paradiso: vedi, è Gesù Cristo; e la sua Madre, che è pur Madre nostra, ti tirerà per mano appresso a Lui. Su di’ adunque con me: Gesù e Maria! e di’ con Gesù, che fu anch’egli Bambino, a Dio in cielo: O Padre nostro, vi voglio tanto bene; e voletemi anche Voi tanto bene col Figliuol vostro Gesù. Così la madre vostra vi faceva dire le orazioni sul petto suo. Oh figliuoli, quanto sarete contenti di aver sempre continuata la vita, come l’avete cominciata insieme colla madre vostra cristiana! Colla vostra madre terrena si accordò la madre Chiesa subito subito. Per noi appena nati mandò il Sacerdote sulla porta della parrocchia, in cui risiede sempre Gesù nostro in persona, come sul campo delle battaglie sta nella tenda il capitano. E il prete, avutici tra le braccia, da noi cacciò via il demonio che già ci rondava d’intorno: ci mise al coperto sotto le sue benedizioni; e, portatici alla fonte battesimale, ci aprì sul capo la porta del paradiso. Egli ci disse: io ti battezzo nel Nome del Padre, e volle dirci: bimbo mio, Dio Creatore onnipotente ti adotta in suo figlio, e ti ha per figliuolo del Sangue del suo Gesù: chiamalo pur col nome di Padre, ché Egli ti prepara l’eredità del paradiso in cielo. Nel Nome del Figlio. Dio te lo mandò il Figliuolo suo dal suo proprio seno; ed il Figliuol suo ti salvò: su con Lui a meritarti di qui il paradiso. Nel Nome dello Spirito Santo. Si, a Lui, a Lui bontà di Dio il confortarti nelle prove della vita: Egli ti infonderà il valore a combattere, ti ravvolgerà nel seno della sua bontà per portarti a beatitudine nell’eterno amore in cielo. Poi il buon prete ci scrisse nel libro dei battezzati, vogliam dire nel libro degli eletti pel cielo, come nel registro dei coscritti i quali debbono diventare soldati di Gesù Cristo. Spiegherò qui il pensiero con un fatto. Udite. Quando le nazioni Cristiane per l’unità della fede si erano collegate nel Sacro Impero a fine di combattere contra la Turchia che minacciava la Religione e la civiltà in Europa, esse avevano stabiliti sul lembo dell’Austria i così detti confini militari. In quei paesi, appena nasceva un bambino, veniva subito fatto iscrivere nei registri della Comunità, e restava arruolato come soldatello. Da quell’istante correva per lui il soldo dello stipendio, e gli si passava la razione da mantenerlo, a cui partecipavano i genitori in famiglia. Ma i genitori si facevano un dovere di coscienza di allevarlo, mano mano che cresceva, agli esercizi della soldatesca disciplina; e poi lo menavano tratto tratto al municipio a render conto del profitto fatto nella militare scuola domestica. Affinché poi niente andasse perduto di quella vita sacra alla difesa della Religione e della patria (come avviene nei fanciulli nabissi svagati), la madre, appena il bimbo le giocherellava alle ginocchia, a mostrargli la spada del padre ucciso nel battersi nella conquista del santo Sepolcro, e a ripetergli: vedi! tu hai da combattere sempre per Gesù e pel nostro paese. In simil modo la Chiesa fa cresimare i fanciulli, collo intendimento di farne subito dei soldatelli per Gesù Cristo. Quando li vede frequentare assidui il catechismo, e pendere la bocca aperta alla parola della dottrina cristiana, come i fiori al tepore di primavera si aprono a bere la rugiada del cielo; e in quei vispatelli s’accorge che già il demonio con certi sussulti li stimola a gittarsi coi monelli disgraziati che si avvoltolano nel fango dei vizi, la Chiesa li chiama fuori della compagnia dei tristanzuoli, e tiratisili in seno, fa loro intendere come gl’inviti Gesù: fa loro conoscere il dover di combattere; ed essi tutti in festa ad offrirsi de miglior cuore. Allora li cresima, cioè gli arruola come soldatelli per le battaglie del Signore; e per vestirli dell’uniforme, stampa loro in fronte il segno della santa croce. Ora dunque, o bravi giovanetti, voi siete già arruolati, e formate il bel drappello da mandare come i più arditi, e, come si direbbe adesso, i piccoli bersaglieri da scorrere innanzi a tutti. Senza paura voi siete, e spensieratelli, inesperti di tutte cose del mondo, senza conoscere affatto il rispetto umano, arditi e franchi vi fate in faccia a tutti. Ecco in qual maniera si formavano nei primi secoli del Cristianesimo quei miracoli di giovanetti, e fin di bambini. Parlo dei fanciulli martiri. No no, nessuna nazione del mondo pagano, tuttoché si vanti di aver avuto uomini del più grande valore, non può mostrare un esercito di giovincelli capaci di versar il sangue da grandi eroi, come i martiri fanciulli della Chiesa primitiva. Essi la gloria più bella, e più attraente della Chiesa Cattolica. Essa sola, battezzati e cresciuti ì giovanetti, li raccoglieva a maniera di soldatelli tutte notti nei sotterranei: nella santa Comunione in tutte le Messe loro distribuiva il santissimo Pane dei forti, e faceva loro girare attorno il calice del Sangue di Gesù Cristo, che ingenera l’eroismo santo. E mandava poi fuori talvolta quei vispatelli affidati alla guardia di Gesù Cristo, cui portavano sul petto, a portare il Santissimo Sacramento in conforto dei fratelli che erano lontani durante il tempo delle persecuzioni. Eglino inosservati scivolavano dentro in mezzo alle guardie vestite di ferro nelle prigioni. In tal maniera uscivano fuori da quelle caverne fieri come leoncelli, colla lor croce in sulla fronte, colla decisione e col desiderio di morir martiri in cuore. Piccoli, ma invincibili questi eroi alle prove di inauditi tormenti, facevano restar storditi i Romani vincitori del mondo. Allor Giusto e Pastore, che venivano dalle scuolette, veduto sulla piazza tagliar la testa ai Cristiani, dimenticano scuola e lezione, casa e parenti, e buttati via i libri, che avevan sotto l’ascella, si dan la mano e gridan, correndo in mezzo ai carnefici: Viva Gesù! anche noi siamo Cristiani, noi! Ed i manigoldi: dunque anche a voi taglieremo la testa; e caddero decapitati sui martiri ammucchiati. Allora s. Cirillo, d’undici anni appena, agli sgherri che gli mostravano in aria i bastoni armati di piombo se non rinunciava a Gesù Cristo: giù giù, gridava, battete pure…. Oh Gesù mio! Cadeva cogli ossicini infranti sotto dei colpi. Agapito, in sui quattordici anni guardava la scure in aria, gridando: evviva Gesù; e la sua testa ricciutella trabalzava sul palco. Venanzio, alla stessa età stendeva prontamente il piede, a fine di esser legato alla coda d’un cavallo, per dire agli sgherri: via via, battete pure questo furioso puledro, ché io, lasciate le membricciole tra gli steppi de’ campi, volerò più presto al paradiso. Pancrazio di pie’fermo aspetta la pantera che lo acceffa nel petto; e stringendole l’orrida testa, grida: grazie a Dio, oh! la mi manda al cielo… Agata, Lucia, Blandina, e fino Agnese ancor fanciulletta, con cento e cento altre vergini, le braccioline in croce sul petto, gli occhi al cielo, sporgono la gola a dire: Taglia pure, o carnefice, la gola; noi saliamo in cielo, pregando per te. Correvano quasi a festa sulle piazze in mezzo ai patiboli, e cadevano sotto le mannaie di quei manigoldi le lor bionde testoline, come cadono i fiori sotto la falce del mietitore ridenti di rugiada verso del cielo, e morivano in ripetendo col sorriso sul labbro il nome di Gesù. No no, lo predicherò ad alta voce, per gloria vostra, o fanciulli, o giovani che mi udite: il mondo intiero di tutte le nazioni pagane non ebbe in nessun tempo un esercito dì bimbi, di fanciulli e di giovani; laddove i giovanetti cristiani non mancarono mai di darci un gran contingente di soldatelli ancor piccoli della personcina, ma di grandi eroi in coraggio e santità. Vedemmo ancor nel Giappone, molti secoli dopo, il bambino Carlo nascosto sotto il manto della dama sua madre, che si voleva menar al patibolo, sporgere in fuori la testolina, e mettere un grido son anch’io Cristiano, e voglio morire per Gesù Cristo! Fanciulli e fanciullette in quella carneficina universale dei Cristiani per tutto quel regno, quando udivano la sbirraglia chiamar al martirio questo o quest’altro per nome, rispondevano essi all’appello per andare a morire: eh, son qui io, mi chiamo io con tal nome. Via via, faceva ribrezzo fino a quei mostri il vedere fanciulletti alle fiamme dei roghi, in cui abbruciavano legati ai pali le loro madri, vederli dico colle vampe alle testoline, battendo la manina a gioia col vivace Aleluia, correre a gettarsi sulle ginocchia a quelle, e restare carboncini anche essi insieme a lor abbruciate. – No, no, lo predicherò ad alta voce per consolazione a gloria nostra, e massime di voi, o fanciulletti; quelli della vostra età, anche pei primi, non mancarono mai di rispondere all’appello nei maggiori pericoli a tutte prove. Quando si faceva appello ai Cristiani per le crociate, e i Cristiani correvano a mille a mille generosi appiè de’ Vescovi a fine di pigliare la croce sul petto, ed ire a combattere contro i turchi e liberare la Terra Santa, tra quella folla in ginocchio si vedevano saltar fuori di sotto le testoline dei giovinetti, per farsi mettere la croce dei combattenti sul piccol petto anch’ essi. Poiché, dicevano essi fino piangenti: anche noi, anche noi vigliamo andare a scacciare quei brutti figlioli dei turchi dalla grotta di Betlemme, dalla casa di Nazaret dove stava fanciullo Gesù. – Eh, i giovanetti sono sempre gli stessi, sempre pronti a correre i primi. Lì avete veduti in questa missione. Gli invitai venissero alle predichine, e dissi loro ciò che aveva nel cuore. Essi corsero allegri e bevvero fino cogli occhietti negli occhi miei le mie parole; e se le portarono via vive vive, più che scolpite nel petto. Eh, quando loro gridai: chi vuol seguire Gesù, ma sempre, ma fino alla morte? Essi tutti colle braccia innalzate a prometterlo. Stesero tutti alla fonte battesimale le loro manine gridando la loro promessa. Noi, tanti quanti siamo, abbiamo pianto, forse perché non eravamo più fanciulli con essi a ricominciare una vita tutta santa. – Adunque il primo drappello è formato. Padri e madri, ora li consegniamo in guardia a voi. Le vostre case debbono essere le tende, dove incominciar subito ad esercitarli alla vita cristiana. A voi si addice vegliare alla loro custodia, e, come l’Angelo colla spada di fuoco sulla porta, voi dovete tener lontano i perfidi che vorrebbero tirarseli al diavolo. Voi tutti i dì far dire ad essi le orazioni, raccoglieteli a piè della croce sotto Gesù tutti i dì, e far loro promettere di ricordarsi che Dio li porta in braccio sempre; e dovete ammonirli che sotto gli occhi suoi benedetti non si lascino andare mai coi cattivi. Loro mostrando inchiodato in croce pei nostri peccati Gesù, fatevi promettere che essi non peccheranno mai, n’andasse la vita. La Regina Bianca di Francia quotidianamente questo si faceva promettere dal suo Luigino; e il suo Luigino, giurandole tutte mattine che non peccherebbe mai, sempre innocente pur in mezzo a tante battaglie, per tanto tempo, fino in mezzo ai Turchi conservossi sempre il gran Re s. Luigi. Padri e madri, intanto pensate come, più presto che io non vel dica, vi cresceranno in gioventù i figliuoli Allora, padri, in modo particolare a voi è imposto sostenere i giovincelli colla potenza del vostro autorevole esempio: voi, i quali colla forse dolorosa esperienza del mondo ne conoscete i pericoli, dovete far della famiglia come il quartiere in cui renderli agguerriti: dovete farne l’arringo, dove esercitarli mano mano. Mettendoli a parte dei lavori in cui vi adoperate per loro, avete campo da dare buone lezioni di vita in pratica. Mostrate in voi stessi come si possano con disinvoltura trattare i negozi coi mondani, e con franca lealtà uno abbia a diportarsi da fedel seguace di Gesù Cristo; e come noi che siamo Cristiani in casa ed in chiesa, dobbiamo porgerci Cristiani in piazza, nelle botteghe, nelle adunanze, in faccia a tutti mostrando sempre il più deciso carattere di Cattolico fedele al Papa. Menateli poi con esso voi alle prove; con voi usino alla parrocchia, alle prediche, ai Sacramenti, e presentinsi in vostra compagnia alla Comunione a pieno popolo. Così questi onorati giovani, a tutti in rispetto, lontani sempre dai malvagi, cresceranno siccome angioli che ignorano il male; ma pronti sempre come angioli delle battaglie a difender l’onore di Dio. Qual consolazione sarà la vostra, quando li distinguerete in coro colle brillanti loro voci fare eco ai beati in cielo; quando li vedrete nelle compagnie in processioni far da guardia nobile a Gesù in Sacramento! Noti a tutti, come i più buoni, anche i mondani in veggendoli si diranno in cuore: fossero anche i nostri, come sono questi! Così si forma il drappello della bella gioventù. Ora a voi, o giovani nel più bel fior della vita, ecco l’appello e l’ordine del giorno per la battaglia sotto lo stendardo di Gesù contra gli abbietti che sono la sequela del diavolo. Ben formati nelle pratiche della divozione alla militare santa disciplina per il conquisto del regno celeste, voi uscirete dalle case vostre e dalle chiese, che son le tende del Signore, a fine di combattere nella milizia della vita umana. Franchi della vostra risoluzione di porgervi sempre buoni Cristiani in tutte le occasioni, fieri del giovanile coraggio, colla irrevocabile decisione dell’eroe in cuore, voi iscorgete la ciurmaglia degli schiavi del demonio incatenati nei vizi diventare vile al vostro cospetto; e gli uomini più onorati del mondo, il quale pur non si degna di questi suoi, avere per voi sempre un rispettoso saluto col sorriso dell’amore sul labbro. Gli è perché vi traspira sul volto il fervore della vita che cresce bollendo in petto, e vi spinge a far bene; è perché l’onestà del vostro costume a voi splende sui volti aperti; è perché fin dagli occhi vi si spandono i palpiti del vostro buon cuore; è perchè l’aureola della pietà fa brillare in voi tutti un bellezza attraente, come una bella armatura d’argento nel drappello dei più prodi soldati della guardia d’onore, che sì eleggono i sovrani a difesa e a decoro della lor maestà. Però vi debbo porre in sull’avviso che al primo presentarvi nel mondo vi verrà intorno una marmaglia di giovinastri cresciuti nelle tane dei peccatori sulla rovina totale dell’onestà, corrotti fino al midollo, per farvi, come cagnuzzi, moine schifose; per volgervi brutti discorsi e fino adoperare stomachevoli tratti, coll’intendimento di attirarvi fra l’accozzaglia dei peccatori. Che volete! Vedete anche bene voi come fino presso all’usignolo il mattino, quando scende dal nido in sul cespuglio, gracidan sotto dal fosso ranocchi da schifo. Ma l’usignolo che imparò dalla madre a cantare e a volare, fa la svolta, e via battendo l’aletta nell’atmosfera colore di rosa, sospira e trilla in faccia al sol d’oriente; mentre quei bavosi nel fango ad ingozzare si stanno la melma e ad essere dalle serpi divorati. Adunque, o giovani, la vostra casa debbe sempre essere il caro nido paterno, dove ripararvi a riposare in seno ai vostri buoni; e la chiesa sempre la tenda e il campo, dove respirare un’atmosfera più pura a rinfrancarvi di valore sempre nuovo. Quindi per tutto il ben che vi voglio, giovani, non lasciatevi dalla bordaglia staccar dalla famiglia e dalla chiesa. Se il soldatello non ancor provato nelle pugne va all’abbandonata solo verso il campo nemico, gl’irrompe alla vita la turma dei nemici che l’aspettavano nell’imboscata, e resta così fatto prigioniere. Guai se, abbandonata fa casa, tutte le lunghe sere ai caffè, vi fermate ai gabinetti di lettura a legger cattive gazzette; guai se nelle feste, più che alle funzioni, andate a zonzo coi compagnoni da buon tempo; guai se, più che alle prediche, sarete assidui alle partite di giuochi; guai se, più che ai Sacramenti, interverrete ai conviti, e fino ai bagordi, ai balli, poi ai godimenti! Voi sareste sorpresi da perfidi, arreticati da gente che han l’anima venduta al diavolo per far reclute di nemici da combattere contro di Dio. Fanno costoro come quel gran malvagio, chiamato il vecchio della Montagna. Udite, udite. Quel tristo Turco faceva rapinare tutti i giovani che trovava sguinzagliati nei vizi, e li gittava ubbriachi in un giardino di piaceri, dove sviatisi nel delirio della voluttà venivano incatenati con ghirlande di rose da sozze maghe, e tradotti appiè del tiranno per legarsi a lui coi più terribili giuramenti di restare schiavi ai suoi voleri. Così quel ribaldo si faceva l’esercito dei venduti a’ suoi delitti. Anch’io tremo per che nelle amicizie cogli empi non restiate legati in quelle società d’Internazionali, di… Che Dio ve ne scampi! Ah fratelli, io grido forte, per avvisarvi che il demonio manda uomini con lui perduti a fare le sue reclute! E sapete dove i perfidi arruolano i coscritti? Essi appostano i poveri popolani nelle osterie tenute aperte all’ora delle funzioni, li attendono nelle compagnie dei panciardi in goderia, e alla notte negli antri di tutti i vizi. I giovani più eleganti poi sono aspettati là nei ridotti dei giuochi, in certi caffè, dove gli arruolatori si danno l’aria di saputi politici, e colle gazzette in mano van calunniando il Papa, vantandosi maestri di moralità di moderazione politica; laddove sono astutissimi maestri di perdizione. In quei luoghi, gettati via gli avanzi di religione delle loro famiglie, spogliati d’ogni ben di Dio, vestono l’uniforme dell’empietà. Arruolati che li abbiano così, le istruzioni di strategica infernale vengono date agli adepti nei libri dell’empietà, e nei romanzi, dove è disegnata la via di correre a tutti i delitti. Il resto poi lo faranno le generose lupe, quando i melanconici sentimentalisti cadranno tra i diabolici loro artigli, e le rinfocate passioni che li consumano avranno in essi spento ogni buon lume di ragione. Ecco pur troppo come va perduto un povero giovane che ha abbandonata la famiglia e la Chiesa. – Alla casa torna egli ancora (alla chiesa no; non vi torna più, perché ora guarda come un nemico il prete, in cui trovò per tutti i suoi anni più belli l’amico del conforto e del buon consiglio; e per poterlo odiare, ha già imparato a calunniarlo!): sì, torna ancora alla casa, nella quale a notte inoltrata la madre coi sospiri lo aspetta. Ahi la buona madre con melanconica tenerezza ben gli porge tutto con tanto amor preparato pei suoi bisogni; ma collo sguardo indagatore ella scorge pur troppo che non è più egli il figliuol suo; e nasconde una lacrima!… Il padre mormora tristo, chè il grande suo fastidio è il figlio; e sta sempre trepidante, in paura incerta che non abbia da udire un qualche suo delitto. Poveri papà, povere mamme! Si assottigliarono la vita col sudore e col sangue per mantenerlo agli studi: e’ speravano di tirarsi su un figliuolo fortunato; in quella vece si allevarono un tristo, terrore di loro e nemico di Dio… Entra il disgraziato cupo cupo la notte nella sua stanza, e stanco della grama vita, si butta sul letto: guarda malcontento il crocifisso appeso al muro; ma egli non l’ha più nel cuore!… Oh povero giovane! Senza amor di famiglia, scontento di sé, e nemico a Dio; dove andrà a finire?… Mi manca il cuore solo a pensarlo. Cari miei giovanetti, vi voglio dare ancora un avviso. Giacché sono i cattivi compagni che incamminano quei della vostra età alla perdizione, per difendervi da loro, cercatevi un buon compagno; entrate, dichiarandovi senza rispetto umano, nelle congregazioni, nelle compagnie dei buoni…. Un buon compagno di pietà resta un grande sostegno per istar fermo in mezzo ai cattivi. Non so se ricorderete un fatto celebre, che deve dare tanto coraggio ai giovani, i quali vivono in santa amicizia e si confortano nei cimenti contra i cattivi. Frequentavano la famosa scuola d’Atene quei due bravi giovani studenti forniti di belle doti di ingegno e di gran fortuna nel mondo, i quali riuscirono poi due grandi uomini, luminari del loro secolo: io dico s. Basilio il Grande e s. Gregorio. Per sostenersi insieme contra le sfacciate angherie ed i vili insulti di Giuliano, cristiano apostata, crudele tiranno, quando quello sciagurato tentava schernirli svergognatamente in faccia a tutta la gioventù, eglino per tutta risposta gli domandarono: E che mai tu pretendi da noi? che diventiamo, quale tu prepari ad essere, un gran mostro cioè d’infamia dell’umanità? Anche voi potreste franchi domandare alla ribaldaglia dei giovani che crescono pur troppo a tutti i delitti: e che pretendete da noi in nome della vostra libertà? Che noi diventiamo vostri cagnotti da corrervi appresso a fine di render infame la nostra gioventù? Che noi, come voi fate, un giorno facciamo morire di crepacuore le povere madri? Che, imitandovi, veniamo a disonorare la famiglia, facciamo vegliare i padri di notte trepidanti pei pericoli? Voi ci vorreste ai ridotti, ai bagordi, a consumare la vita, dentro i teatri per applaudire delitti esecrati? Ai giuochi che gettano tanti a disperazione? Noi no; vogliam consolarci nelle nostre case coi buoni delle nostre famiglie i quali si confortano delle nostre speranze. Voi in compagnia degli empi e sfaccendati tutto il di a berle giù grosse in quelle gazzette scritte dai giornalisti quotidiani al soldo di chi più paga per farvi ingannare? Ebbene, noi no: noi in chiesa tutte le domeniche ad ascoltare la parola immutabile come la verità eterna dell’Evangelo che liberò gli schiavi, francò dalla barbarie la civiltà. Noi andare, come alcuni, a prostituirsi in mali costumi? Noi piuttosto nelle società dei caritatevoli a visitare i poveri, a consolare i disgraziati, a salvar gl’innocenti. Ditecelo chiaro: voi vorreste dunque strascinarci nelle tane a farci divorare dalle lupe la vita?… Ah no no! Noi, come spaventati dalle lupe, vi rispondiamo chiaro che vogliamo andare nelle chiese a comunicare con Dio. Vel diciamo altamente, vorremmo salvi anche voi con Gesù Cristo Salvator del mondo. Però, miei cari giovanetti, voi dovete pigliare animo, lasciatemi dire, fino dalla loro debolezza. Poiché giova osservare, o buoni, che i figliuoli così perdutamente guasti sono pochi; e che i molti compaiono tristi solo perché sono paurosi. Ai pochi così profondamente malvagi, col solo mostrarvi fieri del giovanile coraggio, voi agevolmente potrete fare il viso dell’armi, ed isgagliardire i vili; e ad un tempo nei molti ridestare quel resto di bontà che conservano tuttavia ì giovani nascosta in cuore per la paura dei tristi. Questo mondo è sempre di chi se lo piglia, voi lo sapete; e alle prese la vincono i più arditi, perchè l’accozzaglia dei molti è timida e mogia sempre. Un bravo giovane, deciso come un eroe, fa ognora grande impressione nel cuor dei compagni, ed io qui ve lo voglio mostrare con un esempio tolto dall’antichissima poesia. Ascoltate. Era nato, dice il mitologico racconto, un bambino tutto fuoco ad una timida madre; e la paurosa, a fine di toglierlo a tutti i guerreschi cimenti se l’ebbe nascosto tra le donne da allevare in femminile costume. Veniva su il bel giovanetto azzimato di narciso come una damigella: aveva sulla profumata testa spartiti i capelli, e le bionde chiome già sulle spalle inanellate, intanto che sotto i nonnulla donneschi restava soffocata l’indole sua generosa. Quand’ecco! un valoroso che lo cercava per la guerra, l’ebbe scoperto. Questi per dirgli tutto, gli presenta in faccia, quasi specchio, lo scudo di forbito acciaio, e: Achille!; Achille!… guardati qui… Achille guarda in ispecchio se stesso… guarda il guerriero a tutto punto armato di ferro; e stracciando le chiome, le pugna per vergogna si morde. Slanciasi al guerriero, e urlando: anche a me, anche a me un brando; e; diventò il più terribil campione dei Greci. Con questo io voglio dire, che può tanto per suo ascendente: il coraggioso esempio di un bravo giovane sul cuore; dei compagni. Su su dunque da bravi tutti a vincere il rispetto umano… Oh che dico io mai? Con voi, o bravi, non si debbe usare la parola rispetto umano, quasi meritasse rispetto la bordaglia in vilume. No no: tra voi e quèi vigliacchi la timidità non sarebbe rispetto a persone umane, ma si è pecorile paura di grami indegna di voi. Sol che vi dichiariate apertamente, il drappello è formato, il drappello s’ingrossa tutti i dì alla battaglia, anzi alla vittoria del Signore, il quale è con voi. Ora a voi tutti, a voi, buon popolo cristiano, che siete la gran massa, di cui poi è formato il grosso dell’esercito. A voi dunque è affidata |a rivista e l’ordine del giorno. Fatevi innanzi a tutti, voi brava gente, uomini e donne che siete sempre costanti nel far il bene. Ah quante derisioni e calunnie! È vero; ma passarono come il villano insulto di un soffio d’aria di cattivo odore sul volto abbronzito di un fiero soldato. Quanti patimenti, e forse quanti danni a voi, ed anche alle vostre famiglie fecero soffrire tiranni malvagi nell’ora della lor prepotenza. Povere donne! quante lacrime sprezzate dal mondo avete versate sul Cuor di Gesù! quante virtù esercitate a Dio solo note! Ve lo voglio dire altamente: soventi volte in quelle povere donnicciole batte un cuor grande, e sono nascoste vere anime sante. Quelle prove passarono, come da qui un momento tutto è passato. Oh valorose, noi vi salutiamo con un evviva! Un evviva eziandio a voi che vi siete sempre mantenuti buoni Cristiani anche nei tempi più cattivi. Vorrei mostrarvi ad uno ad uno in faccia al popolo come veterani, i quali non deste mai indietro in nessun combattimento. Voi fermi sul campo come rocca che non crolla al soffiar dei venti mostrate i vostri splendidi esempi delle virtù combattute, siccome le antiche torri guerriere mostravano pendenti gli scudi d’argento ad ornamento e difesa. Voi siete come quei bravi valorosi, che si guardano sul petto le medaglie guadagnate in tante vittorie, e rivivono della bella vita passata; e vi consolate. Bene sta; e noi con voi ringraziamo il Signore che prepara la corona alla vostra perseveranza. Diciamo tutti gloria a Gesù, perché coloro che combattono per Lui, guadagnano sempre. E mentre aspettiamo di vederceli tutti innanzi, come ce lo promette lo Spirito Santo, alla destra del Salvatore nostro Gesù nel secondo finale giudizio, essi perseveranti sono già giudicati nel primo giudizio di Dio. Poiché il primo giudizio di Dio è la voce di tutto il popolo che riconosce coloro i quali furono sempre buoni, e li proclama, come le persone più degne, di onore. Così resta a voi aggiudicata la prima corona. Intanto voi fate a guisa del guerriero invecchiato nelle battaglie che riposa sulle palme conquistate. Esso, quando ode lo squillo della tromba chiamare i prodi alla guerra, rimbalza ringiovanito col brando in mano, cui non depose dal fianco mai; e corre alla testa delle nuove reclute che lo salutano col lampo delle loro spade. Non altrimenti voi freschi di forze, rinfervorati nella pietà, confortati dal Pane dei forti nelle ripetute Comunioni, voi mettetevi alla testa di tutto il popolo cristiano; e per dirigere ed incoraggiare le file il migliore ordine del giorno sia la Vostra esperienza. Adunque ad incoraggiare tutto il popolo cristiano, lo primamente a voi faccio appello. Dite, dite se non siete contenti di essere sempre stati fedeli a Dio col testimonio della vostra coscienza, senza rimorsi, nella serenità della mente vostra che guarda a speranze eterne in un avvenire che ha termine in Dio. È vero o no, che sentite compassione dei poveri peccatori, i quali lacerati da rimorsi, cercano folleggiando di coronarsi di rose, di godere, arrabbiati di brame, piaceri che loro sfuggono colla rapidità del baleno? Su su, anche voi che foste sempre costanti a Dio, anche voi i più tribolati tra gli uomini, anche voi le più meschine delle donne che nascondete le vostre lacrime sprezzate dai mondani in seno solo di Gesù Cristo, fatemi testimonianza. Voi potete dire: anni di disgrazie, di malattie che consumaron la nostra vita, siete pure passati. Vedete: alla morte anche Filippo re di Spagna confessava piangendo che sarebbe stato contento di aver passata la vita deriso e sofferente anzi che d’esser vissuto nello splendore del trono. Intanto fino da quest’ora voi vi trovate contenti di aver fatto del bene. Di aver fatto del male tutti alla fin fine si pentono, e n’han da piangere assai; laddove chi è sempre vissuto da fervoroso Cristiano non vorrebbe, no certo, cambiar la vita coi godimondi, fossero pure godimenti di re e di regine. –  Ma fatevi appresso, coraggio, anche voi che vi siete convertiti in questa missione. Perocché, che cosa vuol dire insomma fare, come abbiam fatto, una missione? Vuol dire: che io venni mandato da Dio per richiamarvi tutti a Gesù a conquistare il paradiso. Io trovai in voi le persone del più buon cuore che mai esser possano nel mondo. Colla più semplice parola di Dio io non feci altro che correre ad abbracciarvi; colla confidenza di un padre vi strinsi, per dir così, la vostra testa fra le mie mani, e vi dissi coi palpiti: Cari miei, siam creati da Dio, abbiam da andare in paradiso; gettiamoci in braccio a Gesù qui con noi che ci conduce sicuramente. Subito ci siamo trovati quasi amici d’antica data, d’accordo tutti in queste grandi verità che ci tengono uniti nella cristiana famiglia. Oh! se siete buoni: alcune ore sole lontani dagli strepiti del mondo, e la nostra ragione in voi fece tosto sentire i suoi diritti, la vostra coscienza vi fece sentire i suoi lamenti, e voi come probe persone che siete, avete detto: provvediamo subito: e che? non aspettiamo l’incerto dimani. Ora il primo nostro dovere è di giurare nuova fedeltà al Re del cielo, risoluti di seguir il Salvatore nostro Dio combattendo fino alla morte. –  Finalmente eccoci qui anche noi che ad una certa età siam già forse per entrar presto nella gloria, nel gaudio del Signore. Vecchi, per noi il mondo non ha più attrattive, eh no! Lo guardiamo anzi con ribrezzo e con isdegno come un perfido che ci fece tradire i nostri doveri. Là via! Che un giovane nel fuoco della bollente sua età sia stato travolto nel vortice delle passioni; che i tristi che lo volevano al servizio del loro egoismo, lo abbiano tradito fingendosi innamorati della cara patria e fino della Religione, è da piangere nel compatirli: ma ora noi lo conosciamo per esperienza propria che quelle sirene erano maghe le quali cambiavano gli amatori in ciacchi!… Viva Gesù, siamo qui anche noi convertiti: tardi, è vero, ma pur in tempo ancora siamo incorporati anche poi coi prodi nell’esercito della crociata per il conquisto del regno del cielo. – Eh, sarebbe troppa vergogna, che noi dai mondani, i quali ci vogliono al servizio del diavolo, ci fossimo lasciati ancor ingannare. Che un uomo serio e di giudizio, così prudente in trattare affari, attento ai doveri dell’uom onorato e del fedele Cristiano preferisse ancora le baie degli spensierati, e avesse continuato a fare ciò che non vorrebbe che facessero i suoi figli: che una testa calva avesse voluto mettersi sul cranio nudo le corone di rose e folleggiare coi vani del mondo, sarebbe stato cosa da vergogna e da scherno. Via; noi rispettiamo la nostra età. Però se mai fossimo tentati di dare indietro, guardiamoci innanzi, ché già ci aspetta la tomba. Sentite i colpi della zappa che scava la nostra fossa vicino agli amici, la cui memoria forse manda un fetore orribile come i loro cadaveri nel sepolcro imputriditi… Ah fortunati anche noi vecchi i quali ci troviamo convertiti in braccio alla madre Chiesa, la quale sola medica senza ribrezzo le piaghe nostre, anche le più incancrenite, e le guarisce col balsamo del Sangue di Gesù Cristo nei Sacramenti. – Certamente noi siamo ritornati a Dio un po’ troppo tardi; ma, coraggio, abbiam da fare con Gesù Cristo, col gran Padrone dell’Evangelo, il quale per la sola sua bontà dà intiera la ricompensa anche a chi venne a Lui l’ultima ora del giorno. Coraggio adunque, lo ripeto. Voi vi ricorderete del più gran capitano dei tempi moderni il quale, dopo di aver perduto quasi in tutta la giornata, stavasi colle braccia incrociate sul petto guardando tristo il mucchio di cadaveri menati da lui alla morte sul campo. Quando ecco gli giunse un corpo fresco di armati. Guardò l’orologio, e mise un grido cui ascoltarono anche i fuggenti in rotta: prodi miei, ecco qui, ecco qui forze ancora fresche; abbiamo un’ora di giorno ancora, prodi e cari miei: abbiam perduto una battaglia in questo giorno, su, su, ne vinceremo un’altra. Voi vi commovete? Aveva dunque ragione di dirvi fino dal principio, che sol per vedervi ricevere tutti Gesù mi trovava già consolato. Egli è perché vi amo d’amor di madre, sapete. Figliuoli del nostro Sangue di Gesù, che in tutti scalda la nostra vita, stendete le mani a Maria; tra le sue braccia ponetevi al sicuro, riparandovi nel Cuor di Gesù. Vita vestra abscondita cum Christo (Col. III, 3): voi vi troverete franchi non altrimenti che il bimbo in grembo alla mamma. E siccome quando il bambino balzato dalle sue ginocchia si allontana per poco e sente rumor che lo spaventi, egli corre subito ancor alla mamma; così voi ad ogni vento di tentazione, ad ogni pensiero che vi spaventi. Su adunque fanciulli bravini e giovani ardenti, su o prodi sempre fedeli; su buoni convertiti, su venerandi vecchi: tutti abbiamo ancora un’ora di tempo; stringiamoci intorno a Gesù, e giuriamo di volere seguirlo fino alla morte. Su adunque fanciulle, donne, tutti stringiamoci intorno a Gesù, giuriamo tutti di esser fermi nel seguirlo fino alla morte. Abbiamo ancora un’ora di tempo a conseguir la vittoria, a guadagnarci il paradiso; e chi combatte con Gesù trionfa sicuramente. Vedrete una turma di vigliacchi che abbandonarono Gesù per paura dei mondani. Disgraziati! una volta si dicevano anch’essi Cristiani, ma erano soldati da marmitte; erano del grosso partito del pan da mangiare. I vili che andavano in chiesa, e ricevevano i sacramenti quando conveniva al loro interesse. A noi, a noi in mezzo a questi vili si addice mostrare il viso dell’armi. Essi hanno vergogna a far la Pasqua, e noi, sì faremo pubblicamente a chiesa piena la Comunione frequentemente. Miserabili che sono, essi van colla bordaglia dei cattivi uomini, la festa a tuffarsi nei vizi; e noi colle nostre famiglie onorate alle funzioni della Chiesa: essi a sentire a bocca aperta o a leggere le gazzette stampate da quei miserabili che hanno un tanto al giorno per studiare di darla ad intendere: dessi beversele su, e credere a’ malvagi onorati, e noi a sentir la parola di Dio. Ma padre, mi direte, il numero dei nemici di Dio va crescendo tutti i dì; molti, che erano con noi, disertano come grami soldati. Coraggio! è l’ora questa della prova più grande, è l’ora di mostrarci più buoni fedeli. Quando al crescere dei nemici i vili disertano e fuggono dalla battaglia, eglino, i buoni, si serrano intorno alla bandiera, e se vedessero mancare e perire tutto, quel sol che resta si ravvolge dentro la cara bandiera, si tien l’asta stretta sul petto e si muor combattendo con la spada nell’altra mano. Moriremo! Che dico? non moriremo, ma voleremo a ricevere in paradiso la corona dalla mano di Gesù Cristo.

MADONNA DELLA MERCEDE (24 Settembre)


Fondazione dell’Ordine della Mercede

Fino dal 416, la Spagna fu_travagliata dai Vandali e dai Goti che, cessato il Romano Impero, se ne resero padroni. Vinto però ed ucciso da Giuliano conte di Ceuta stabilito nell’Africa l’ultimo Re dei Goti Roderico nel 713, la Spagna fu invasa dai Saraceni venuti d’Africa, i quali, essendo Maomettani, perseguitavano in ogni maniera , oltre il trattare da schiavi tutti i Cristiani del regno: il che continuò fino al principio del XIII, cioè circa 600 anni. Maria Santissima, a cui istantemente raccomandavansi tutti i buoni, apparve la notte del 10 agosto 1218 al piissimo e ricchissimo signore San Pietro Nolasco, che contava allora 29 anni, ed era a tutti oggetto di speciale edificazione, e gli comando di instituire un nuovo Ordine Religioso denominato della Mercede, il cui scopo doveva esser quello di adoperarsi con tutti i mezzi possibili a redimere i Cristiani dalla schiavitù degli infedeli. Alla mattina egli conferì l’avuta visione col suo confessore, che era San Raimondo di Pegnafort, e con gran gioja senti che a lui pure era apparsa Maria, e aveva fatta la stessa intimazione. Entrambi si recarono per partecipare il proprio disegno al Re Giacomo, il quale dominava in Aragona quella parte di Spagna che, fin dal 778, era stata da Carlo Magno tolta ai Mori. E quale non fu la loro sorpresa in sentire che anche al Re Giacomo era apparsa Maria, e gli aveva fatta la stessa ingiunzione! Cerziorati tutti e tre della volontà divina, non si frappose più indugio alla nuova Istituzione, per cui nel giorno medesimo, nella Cattedrale di Barcellona dal Vescovo del luogo, Berengario della Palù, San Pietro Nolasco ricevette la veste bianca e lo scapolare distintivo del nuovo Ordine, e ai soliti tre voti
aggiunse quello di dare, occorrendo, anche la vita per la Redenzione degli Schiavi, e Re Giacomo gli cedette per prima casa del nuovo Istituto la maggior parte del proprio palazzo. Cosi principiò il grand’Ordine che ben tosto dilatossi in fogni parte, e recò immensi vantaggi alla Cristianità, l’Ordine della Redenzione degli Schiavi, e Maria sotto il titolo della Mercede acquisto nuovi titoli alla comune riconoscenza, essendo ELla stata la institutrice di un Ordine cosi benemerito della Religione e della Società.

MADONNA DELLA MERCEDE (24 settembre).
ossia della Redenzione degli Schiavi.

I.

Amabilissima Vergine Maria, che non contenta di avere così efficacemente cooperato alla liberazione delle anime nostre dalla schiavitù del peccato allora quando, col sacrificio del vostro Cuore, rendeste più compito e più abbondante
quel Sacrificio divino che della propria persona faceva là sul Calvario il vostro divin Figliuolo, voleste ancora diventare la Redentrice dei nostri corpi, ordinando ai vostri divoti d’instituire sotto i vostri auspicj il santissimo Ordine della Mercede per riscattare i Cristiani dalle barbare mani degli infedeli, ottenete a noi tutti la grazia di riguardarvi mai sempre come la nostra più generosa benefattrice, e di travagliare continuamente, a vostra imitazione per la salute così spirituale come corporale dei nostri prossimi. Ave.
II.
Amabilissima vergine Maria, che, per liberare dalla tirannia dei Saraceni dominatori della Spagna tutti i Cristiani che venivano da quegli empj condotti in durissima schiavitù, vi degnaste di comparire nella medesima notte a S. Pietro Nolasco e a S. Raimondo di Pegnafort, non che a Giacomo Re d’Aragona, affinché, animati dalla vostra protezione, si applicassero immediatamente all’istituzione dell’Ordine tanto benefico della Mercede, impetrate a noi tutti la grazia di avere a vostra imitazione
una compassione tenera ed efficace per tutti i travagli del nostro prossimo, e di viver sempre in maniera da meritare le vostre particolari illustrazioni per procurargli costantemente il miglior bene. Ave.

III.

Amabilissima vergine Maria, che, ad ottenere efficacissima la redenzione degli schiavi, mediante l’Ordine santissimo della Mercede da Voi medesima instituito, ora infondeste nei facoltosi una generosità tutta nuova perché largheggiassero nelle elemosine, ora moltiplicaste il denaro nelle mani dei Religiosi quando mancavano del
necessario al riscatto dei loro fratelli, ora con aperti miracoli sottraeste alle mani dei barbari gli schiavi vostri divoti, ottenete a noi tutti la grazia di non perdere mai la libertà di figli adottivi di Dio, e di essere subito liberati dalla schiavitù del demonio, quando con qualche peccato ci fossimo a lui venduti spontaneamente, onde, dopo avervi servita come nostra padrona qui in terra, passiamo a ringraziarvi per tutti i secoli quale nostra ‘correndentrice‘ su in Cielo. Ave, Gloria.
ORAZIONE.
Deus, qui per gloriosissimam Filii tui Matrem, ad liberandos Christi fideles a potestate Paganorum, nova Ecclesiam tuam prole amplificare dignatus es,
præsta, quæsumus: ut quam pie veneramur tanti Operis institutricem,
ejus pariter meritis et intercessione a peccatis omnibus et captivitat dæmonis liberem eumdem Dominum, etc…

[G. RIVA: Manuale di Filotea, XXX ed. Milano 1888]