UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “ALLATÆ SUNT” (2)

Benedto XIV
Allatæ sunt (2)

28. Nella Liturgia Latina e Greca si recita il Simbolo; la sua recitazione nella Messa, stabilita prima nella Chiesa Orientale, venne poi trasferita in quella Occidentale, come risulta dal terzo Concilio di Toledo del 589, che letteralmente dice: “In tutte le Chiese della Spagna o della Galizia, secondo la norma delle Chiese Orientali, del Concilio di Costantinopoli, cioè di centocinquanta Vescovi, si reciti il Simbolo della Fede, in modo che prima di dire l’Orazione Domenicale, sia recitato a chiara voce dal popolo” (can 2, tomo 5, p. 1009 della Collezione di Filippo Labbe). Per cui, dal momento che i Padri del Concilio di Toledo, stabilendo l’ordine di recitare il Simbolo nella Messa, si sono riferiti al Rito Orientale, è lecito riconoscere che questa disciplina, istituita per prima in Oriente, si era poi diffusa in Occidente: come dicono il Cardinale Bona nel Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 8, n. 2) e il Giorgio nel De Lyturgia Romani Pontificis (tomo 2, cap. 20, n. 2, p. 176). Ma, continuando l’argomento, Amalario (nel libro De Divinis Officiis, cap. 14), dopo che, fondandosi sull’autorità di San Paolino nella Lettera a Severo, riferì che nella Chiesa di Gerusalemme solo al Venerdì Santo vigeva la consuetudine di esporre al popolo, da adorare, la Croce dalla quale pendette Cristo, attribuisce a questa abitudine greca l’adorazione della Croce, che nell’Ufficio del Venerdì Santo si fa tutt’oggi in ogni Chiesa Latina. Il Trisagio Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis è una pia e frequentissima preghiera nella Liturgia greca, come giustamente annota Goario nelle postille all’Eucologio nella Messa di San Giovanni Crisostomo (p. 109). L’origine di questa invocazione si trae dal miracolo che a metà del secolo quinto accadde nella città di Costantinopoli. Mentre l’imperatore Teodosio, il patriarca Proclo e tutto il popolo pregavano Dio all’aperto, per essere liberati dalla prossima sciagura che li sovrastava a causa del violento terremoto, si vide un fanciullo che all’improvviso fu rapito in cielo; egli, poi, rimandato a terra riferì di aver udito gli Angeli cantare il suddetto Trisagio: per cui – poiché tutto il popolo per ordine del Patriarca Proclo cantava devotamente detto Trisagio – la terra si calmò dal terribile terremoto da cui era scossa, come narra Niceforo nel libro 14, cap. 46 e correttamente prosegue il Sommo Pontefice Felice III nella terza Epistola a Pietro Fullone, che si ha nella Collezione del Labbe, tomo 4. Lo stesso Trisagio al Venerdì Santo si canta nella Chiesa Occidentale in Greco e in Latino come puntualmente avverte il Cardinale Bona, Rerum Lyturgicarum (libro 2, cap. 10, n. 5). La benedizione dell’acqua alla vigilia dell’Epifania deriva dal Rito della Chiesa Greca, come diffusamente dimostra Goario nell’Eucologio, ovvero Rituale Greco; ora si fa questa funzione nello stesso giorno anche nella Chiesa Greca di Roma, come è ricordato nella nostra citata Costituzione 57 (paragrafo 5, n. 13), e contemporaneamente si concede che i fedeli siano aspersi della stessa acqua benedetta. Sul passaggio di questo Rito dalla Chiesa Orientale ad alcune Chiese Occidentali si può vedere quello che raccolse l’erudito Martene nel De antiqua Ecclesiae disciplina in Divinis celebrandis Officiis (tomo 4, cap. 4, n. 2) e ciò che si asserisce nella dissertazione di Padre Sebastiano Paolo della Congregazione della Madre di Dio, stampata a Napoli nel 1719 e il cui titolo è De ritu Ecclesiae Neritinae exorcizandi aquam in Epiphania, dove, fra l’altro (parte 3, p. 177 e ss.) opportunamente avverte i Vescovi, nelle cui diocesi da gran tempo si introdussero Riti derivanti dalla Chiesa Greca, che non si diano troppo da fare per eliminarli, affinché il popolo non si agiti e perché non sembrino disapprovare il modo d’agire della Sede Apostolica la quale, com’è stata al corrente di quei Riti, permise tuttavia di conservarli e di frequentarli. Egli cita anche a p. 203 la lettera del Cardinale Santoro del titolo di Santa Severina, del 1580, scritta a Fornario, Vescovo di Neritino, su questo stesso argomento e sulla benedizione dell’acqua per l’Epifania, che si fa in quella Diocesi. Del pari è Greco il Rito di spogliare e lavare l’altare il Giovedì Santo. Di questo Rito si può trovare traccia nel secolo quinto; di esso parla San Saba nel suo Typico, ossia dell’ordine di recitare l’Ufficio Ecclesiastico per tutto l’anno. Egli, secondo la testimonianza di Leone Allazio, De libris Ecclesiae Graecae dissertatio (I, p. 9), morì nel 451. Se si potesse affermare che l’Ordine Romano edito da Ittorpio fu composto per disposizione del Pontefice San Gelasio, il Rito di lavare gli altari il Giovedì Santo sarebbe quasi coevo nella Chiesa Latina alla consuetudine dei Greci, dacché il Papa San Gelasio morì nel 496. Ma essendo incerto se l’Ordine Romano pubblicato da Ittorpio sia eminente per così grande antichità e poiché, dopo di lui, lo spagnolo Sant’Isidoro fu il primo tra i Latini che parlò di questo Rito, e lo stesso Sant’Isidoro morì nel 636, è lecito che questo Rito dell’Oriente sia venuto in Occidente. Fino ai nostri tempi esso è osservato in alcune Chiese Latine, con l’approvazione dei Romani Pontefici, e nella Basilica Vaticana ogni anno si compie con grande solennità. Il Suarez, Vescovo di Vasione e Vicario della stessa Basilica, e Giovanni Crisostomo Battello, Arcivescovo di Amaseno, che era elencato tra i beneficiati minori di quella Basilica, pubblicarono due sofisticatissime dissertazioni, nelle quali illustrarono il Rito predetto. Stando così le cose, dagli esempi e dai fatti si evince chiaramente ciò che poco prima abbiamo detto, cioè che la Sede Apostolica non tralasciò, tutte le volte che lo trovò conforme a ragione, o di estendere a tutta la Chiesa Latina Riti che appartenevano alla Chiesa Greca, o di permettere che alcuni Riti importanti, che derivarono dalla Chiesa Greca, in alcune Chiese Latine fossero osservati.

29. Già poco prima parlammo del Trisagio, del modo meraviglioso con cui il suo canto fu introdotto nelle Sacre Liturgie della Chiesa Greca. Avendo tuttavia Pietro Fullo soprannominato Gnafeo, fautore dell’eresia degli Apollinaristi che si chiamano Teopasciti, osato aggiungere al Trisagio queste parole “Che fu crocifisso per noi“, come ampiamente ricorda Teodoro Lettore nelle Collectanearum, libro I, ed avendo alcune Chiese Orientali, soprattutto Siriache e Armene, per opera di certo Giacomo Siro, secondo la testimonianza di Niceforo (libro 18, cap. 52), accolto questa aggiunta; i Romani Pontefici, con quella vigile cura e sollecitudine che in casi simili furono soliti avere, non tralasciarono di opporsi al nascente errore e di interdire l’aggiunta fatta al Trisagio, respingendo l’interpretazione per la quale, riferendosi il Trisagio alla sola persona del Figlio, non alle tre Divine persone, si provvedeva a che fosse eliminato qualsiasi sospetto di eresia, sia perché restava sempre il pericolo di aderire al dogma eretico, sia perché la presunzione della mente umana non poteva riferire al solo Cristo l’inno cantato dagli Angeli in onore della Santissima Trinità. Il Lupo giustamente – dopo che aveva riferito che da Felice III e dal Concilio Romano era stata condannata l’aggiunta fatta al Trisagio – così dice: “L’inno cantato dagli Angeli sempre Santi alla sola Divina Trinità, affidato alla Chiesa da Dio stesso e dagli stessi Santi Angeli attraverso il sullodato fanciullo, confermato dall’allontanamento delle sciagure incombenti sulla Regia Città e inteso nel medesimo senso e ragione da tutto il Sinodo Calcedonese (parla sia dei Vescovi adunati nel predetto Concilio, sia degli altri contrari all’aggiunta fatta al Trisagio), tutto ciò attesta costantemente che per umana presunzione non poteva riferirsi al solo Cristo” (Concilio Trullano, note al can. 81). San Gregorio VII, con lo stesso zelo religioso, riprovò quell’aggiunta nella sua prima lettera del libro 8 scritta all’Arcivescovo, ossia al Patriarca degli Armeni. Lo stesso sostenne Gregorio XIII in alcune sue lettere scritte in forma di Breve al Patriarca dei Maroniti il 14 febbraio 1577. Il 30 gennaio 1635, essendo poi stata sottoposta all’esame della Congregazione di Propaganda Fide la Liturgia degli Armeni, ed essendo stato, fra l’altro, oggetto di più accurata discussione se l’aggiunta fatta al Trisagio poteva essere tollerata, per il motivo che sembrava potesse essere riferita alla sola persona del Figlio, fu risposto che ciò non si doveva permettere e che l’aggiunta doveva essere assolutamente eliminata. Il Sommo Pontefice Gelasio, nella sua lettera nona ai Vescovi della Lucania, cap. 26, riprovò la cattiva consuetudine, già entrata, secondo la quale le donne servivano la Messa al Sacerdote celebrante; ed essendo passato lo stesso abuso ai Greci, Innocenzo IV nella lettera che scrisse al Vescovo di Tuscolo lo condannò severamente: “Le donne non osino servire all’altare, ma siano inesorabilmente allontanate da questo ministero“. Con le stesse parole viene proibito da Noi nella nostra Costituzione citata più volte Etsi Pastoralis (§ 6, n. 21, tomo 1 del nostro Bollario). Il Giovedì Santo, a venerare il ricordo dell’Ultima Cena, si fa una funzione sacra nella quale si consacra il pane che si conserva per un anno intero perché con esso vengano ristorati i candidati alla morte, che chiedono per sé la Sacra Comunione in forma di Viatico, e talora al pane consacrato si aggiunge una piccola parte di vino consacrato. Siffatto Rito è descritto da Leone Allazio nel suo Trattato De Communione Orientalium sub specie unica (n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo IV, nella citata lettera al Vescovo di Tuscolo, interdisse tale Rito ai Greci con queste parole: “Non conservino l’Eucaristia consacrata il Giovedì Santo per un anno col pretesto degli infermi per comunicare con essa se stessi” e aggiunse che avrebbero sempre l’Eucaristia preparata per gli infermi, ma da rinnovare ogni quindici giorni. Arcudio, nel trattato De concordia Ecclesiae Occidentalis et Orientalis, libro 3, capitoli 55 e 56, non tralasciò di indicare le assurdità che derivavano da quel Rito, supplicando i Romani Pontefici perché lo abrogassero definitivamente. Decise questo Clemente VIII nella sua Istruzione e anche Noi ci prestammo nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, n. 3 e ss.) Nel Concilio di Zamoscia, esaminato da due Congregazioni, cioè del Concilio e di Propaganda Fide (De Eucharistia, § 3) si legge che se in qualche luogo vige ancora il Rito di consacrare l’Eucaristia il Giovedì Santo e di bagnarla con qualche goccia di Sangue e di conservarla per gli infermi per un anno intero, in seguito non lo si faccia più; ma i Parroci conservino l’Eucaristia per gli infermi, rinnovandola ogni otto o quindici giorni. La stessa via percorsero i Padri del Concilio Libanese, da Noi approvati, come risulta dal De Sacramento Eucharistiae (cap. 12, n. 24). Da questi esempi viene provato che la Sede Apostolica mai trascurò di proibire ai Greci alcuni Riti – quantunque da molto tempo durassero presso di loro – tutte le volte che essi erano perniciosi e cattivi.

30. Della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, come sopra dicemmo, si disputò principalmente tutte le volte che si trattò dell’Unione della Chiesa Greca e Orientale con la Latina ed Occidentale. L’esame di questo articolo presentò come tre aspetti; così fu redatto secondo questi tre capitoli. Primo: se la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio fosse dogma di Fede, e circa questo primo punto fu sempre risposto fermamente che non si doveva in alcun modo dubitare che la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio era da annoverarsi tra i dogmi di fede, e non c’era cattolico che non lo credesse e non lo professasse. Secondo: posto che questo era dogma di fede, se era lecito nel Simbolo della Messa aggiungere la parola Filioque quantunque essa non si trovasse né nel Concilio di Nicea né in quello di Costantinopoli, dal momento che dal Concilio di Efeso era stato decretato di nulla aggiungere al Simbolo Niceno: “Il Santo Sinodo stabilì che a nessuno è lecito professare, redigere o disporre un’altra Fede, all’infuori di quella stabilita dai Santi Padri che si radunarono a Nicea con lo Spirito Santo“. Per quanto riguarda questo secondo punto, si confermò che non solo era lecito, ma era anche molto conveniente che questa aggiunta si facesse al Simbolo Niceno, dal momento che il Concilio di Efeso aveva proibito soltanto le aggiunte contrarie alla Fede, o temerarie e diverse dal comune sentire, ma non quelle ortodosse e dalle quali qualche articolo di Fede implicitamente contenuto nel Simbolo venisse dichiarato in maniera più esplicita. Terzo: se, posto come indubbio dogma la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio e riconosciuto il potere della Chiesa di aggiungere al Simbolo la voce Filioque, si poteva permettere che Orientali e Greci nella Messa recitassero il Simbolo a quel modo che usavano un tempo, prima dello scisma, come a dire che tralasciassero la voce Filioque. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, la disciplina della Chiesa non fu sempre la stessa; talora permise agli Orientali e ai Greci di recitare il Simbolo senza il Filioque, allorché era risultato per certo che da loro erano accettati i primi due punti, o articoli, e che, se ad essi veniva negato ciò che con tanto amore chiedevano, veniva chiusa la possibilità dell’auspicata Unione. Talora poi si volle che dai Greci e dagli Orientali fosse recitato il Simbolo con l’aggiunta Filioque quando a buon diritto si poteva dubitare che essi non volevano recitare il Simbolo con l’aggiunta perché aderivano all’errore di coloro che opinavano e asserivano che lo Spirito Santo non procedeva dal Padre e dal Figlio, o che dalla Chiesa non si poteva fare al Simbolo quell’aggiunta Filioque. Due Sommi Pontefici, il Beato Gregorio X nel Concilio di Lione ed Eugenio IV in quello di Firenze usarono con i Greci il primo modo di comportamento per i motivi indicati, come consta dalla Collezione dei Concilii di Arduino (tomo 9, p. 698, D e tomo 9, 395, D). Altro modo, per le ragioni parimenti sopra esposte, abbracciò e osservò il Sommo Pontefice Nicolò III allorché rimproverò all’imperatore Michele di non agire in buona fede e di non stare a quello che aveva promesso nel patteggiare l’Unione che aveva stipulato e confermato con il Pontefice suo Predecessore Gregorio X. Documento di questo fatto, tratto dall’Archivio Vaticano, è stampato negli Annali di Raynaldo (Anno 1278, § 7). La stessa strada percorsero Martino IV e Nicolò III. E quantunque di questi Pontefici, sull’argomento, gli scrittori ci abbiano lasciato notizie divergenti, tuttavia Pachimere che allora affidava alla memoria dei posteri la storia di Costantinopoli (libro 6, cap. 14) dice apertamente che essi non seguirono l’indirizzo concessivo dei suoi Predecessori, ma vollero che dagli Orientali e dai Greci si recitasse il Simbolo con l’aggiunta del Filioque per togliersi il dubbio della loro Fede ortodossa, “per avere una certezza concreta della Fede e del parere dei Greci: il loro pegno sarà idoneo, se avranno pronunciato il Simbolo come i Latini“. Lo stesso Pontefice Eugenio, che nel Concilio di Firenze aveva concesso agli Orientali che senza quella parola Filioque potessero recitare il Simbolo, ricevendo nell’unità di Santa Chiesa gli Armeni, ordinò agli stessi che usassero il Simbolo aumentato della predetta aggiunta, come si può vedere nella Collezione dei Concili di Arduino (tomo 9, p. 435, B), per la ragione che aveva saputo che gli Armeni, non come i Greci, erano contrari a questa aggiunta. Il Romano Pontefice Callisto III, mentre mandava a Creta Fra Simone, domenicano, insignito dell’incarico di Inquisitore – nell’isola di Creta, nella quale si erano ritirati molti Greci fuggendo dalla città di Costantinopoli, di cui due anni prima si erano impadroniti i Turchi – comandò di osservare attentamente che i Greci recitassero il Simbolo con l’aggiunta Filioque, come narra Gregorio Trapezonzio nella sua lettera Ad Cretenses (tomo I, Graeciae Orthodoxae, presso Allazio, p. 537); ciò è confermato anche da Giacomo Échard, tomo I dell’opera Scriptorum Ordinis Sancti Dominici (p. 762). Forse il Papa temeva che i predetti Greci, come coloro che venivano da Costantinopoli, fossero meno sicuri in quel dogma di Fede. Nelle due formule della professione di Fede, che già sopra abbiamo ricordate (una delle quali Gregorio XIII aveva prescritto ai Greci, e l’altra Urbano VIII agli Orientali) non è contenuto null’altro che quanto fu stabilito nel Concilio di Firenze. Nelle due Costituzioni – una di Clemente VIII (che è la 34 del vecchio Bollario Romano,tomo 3, § 6), e l’altra nostra che comincia Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, tomo I, pars I) – ambedue edite per i Vescovi latini nelle cui Diocesi abitano dei Greci e degli Albanesi che osservano il Rito Greco, purché costoro dichiarino che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, e riconoscano che la Chiesa ha il potere di aggiungere al Simbolo la parola Filioque, non sono obbligati a recitare il Simbolo con questa aggiunta, a meno che, tralasciandola, non ci sia pericolo di scandalo, o in qualche luogo sia ormai invalsa la consuetudine di recitare il Simbolo con l’aggiunta del Filioque; o finalmente si reputi necessario che si dica il Simbolo con l’aggiunta predetta per manifestare l’indubbia prova della loro retta Fede. Rettamente non solo i Padri del Concilio di Zamoscia (tit. I De Fide Catholica), ma anche i Padri del Concilio Libanese (parte I della stessa opera, n. 12), per rimuovere ogni scrupolo stabilirono provvidenzialmente che tutti i Sacerdoti soggetti alle loro leggi usino il Simbolo secondo la consuetudine della Chiesa Romana con la particella Filioque.

31. Da quello che è stato detto finora si conclude chiaramente che la Sede Apostolica, sullo stesso argomento, talvolta per particolari circostanze, considerata l’indole di certe popolazioni, consentì di usare un certo modo, che tuttavia non permise affatto che fosse usato da altri per circostanze diverse e per le diverse caratteristiche di luoghi e di popoli. Per la qual cosa, per soddisfare all’incarico assunto, non resta altro che dimostrare che la stessa Sede Apostolica, mentre riconobbe certi popoli Orientali e Greci, fu più severa nell’uso di qualche Rito Latino, lo permise benevolmente, soprattutto se la consuetudine di usare questo Rito fiorì fin dai tempi più antichi e i Vescovi non solo non sono mai stati contrari ma o tacitamente o espressamente lo approvarono. Essendo stati portati in precedenza perspicui esempi di ciò, quando parlammo di quella categoria di Orientali e di Greci che, mantenendo in gran parte i propri Riti e venerando parimenti i Riti Latini e Orientali, abbracciarono qualche nostro Rito, ci asterremo da un’inutile ripetizione richiamando qui ciò che sopra fu esposto chiaramente in questa stessa Lettera. Aggiungeremo soltanto due esempi, presi dai Maroniti, a quelli già addotti. Da alcuni secoli i Maroniti usano i paramenti Pontificali e Sacerdotali della stessa forma che prescrive il Rito Latino, come nel citato Concilio Libanese del 1736 si legge (cap. 12 sul Sacramento dell’Eucaristia, n. 7). Il Sommo Pontefice Innocenzo III nella lettera al Patriarca Geremia del 1215, che inizia Quia Divinae Sapientiae bonitas, li esorta a conformarsi alla Chiesa Latina negli ornamenti pontificali. Per questa ragione lo stesso Pontefice e i suoi successori mandarono loro in dono paramenti sacri, calici e patene, come narra il Patriarca Pietro nelle due lettere mandate a Leone X, riportate nella Collezione dei Concilii di Filippo Labbe (tomo 14, p. 346 e ss.). Ora, nel citato Concilio Libanese al cap. 13, per unanime decisione e con la nostra approvazione, gli stessi Maroniti, quanto alla Messa dei Presantificati, hanno abbracciato il Rito Latino, celebrandola soltanto il Venerdì Santo, tralasciando, per cause giuste e gravi, la disciplina dei Greci i quali celebrano solo la Messa dei Presantificati nei giorni del digiuno quaresimale, eccetto il sabato, la domenica e la festa dell’Annunciazione della Beata Vergine, se per caso cade in Quaresima, secondo quanto prescritto nel Concilio Trullano (can. 52). In questi giorni il Sacerdote divide il Pane consacrato in tante particelle quanti sono i giorni che seguiranno, nei quali si celebra la Messa dei Presantificati, in cui si mangia il Pane Eucaristico, che prima consacrò, conservando nel Ciborio le altre particole consacrate, perché nei giorni seguenti, in cui celebrerà la Messa dei Presantificati, ne mangi e ne distribuisca anche agli altri presenti che ne facciano richiesta, come diffusamente ricorda Leone Allazio (Prolegomeni a Gabriele Naudeo, La Messa dei Presantificati, p. 1531, n. 1).

32. Qualcuno potrebbe ritenere che si debba concludere questa Lettera, poiché in essa è già stato risposto alle domande poste dal Sacerdote Missionario di Balsera: cioè Non si deve cambiare nulla, e sono qui indicate le regole precise che devono seguire i Missionari i quali cercano di portare gli Orientali all’Unità e alla Santa Fede Cattolica dallo scisma e dagli errori; né si comporta secondo le regole dei Canoni e delle Costituzioni Apostoliche colui che, nel convertire gli Orientali, cerca di togliere di mezzo il Rito Orientale e Greco, in ciò che è tollerato e ammesso dalla Sede Apostolica, o agisce in modo che coloro che si convertono abbandonino il Rito che fino allora seguirono, e abbraccino il Latino. Tuttavia, prima di por fine a questa Lettera è molto conveniente che si tocchino alcuni argomenti che appartengono propriamente alle questioni poste da detto Missionario, alle quali già fu risposto che non si deve cambiare nulla.

33. Inoltre, se nella città di Balsera dimorano Cattolici di Rito orientale, Armenio Siriaci, e mancano di una Chiesa particolare, si radunano nella Chiesa dei Missionari Latini, dove Sacerdoti di Rito Orientale celebrano il Divino Sacrificio e le altre cerimonie nei loro Riti, e i Laici intervengono alla Messa e ricevono i Sacramenti, non c’è molto da fare per difendere il principio che non si deve cambiare nulla come è stato scritto: e ciò che fu valido prima, deve essere conservato in futuro, permettendo ai predetti Sacerdoti e Laici che nella Chiesa Latina continuino a fare quello che hanno fatto finora. Infatti nel diritto canonico è stabilito che il Rito Orientale e Greco non si deve mescolare con quello Latino, come si può vedere nella Decretale di Celestino III presso Gonzales (cap. Cum secundumDe temporibus Ordinationum)e nella Decretale di Innocenzo III (cap. QuantoDe consuetudine, cap. QuoniamDe Officio Iudic. Ordinar.),e nella Decretale di Onorio III (cap. Litteras: De celebrat. Missar.), ma a nessun diritto si può affermare che la miscela di Riti, vietata da qualche Costituzione Apostolica, sia concessa per il fatto che l’Armeno, il Maronita, o il Greco secondo il proprio Rito celebrino nella Chiesa Latina il Sacrificio della Messa o altre cerimonie col popolo del proprio Rito, o viceversa il Latino faccia la stessa cosa nella Chiesa degli Orientali: mentre c’è una certa causa legittima, di cui nella presente fattispecie non si può in alcun modo dubitare, quando gli Orientali non hanno una loro Chiesa nella città di Balsera, che se ad essi non si aprisse la Chiesa dei Latini, mancherebbero assolutamente di un posto dove potessero celebrare il Sacrificio della Messa ed esercitare col popolo del proprio Rito quello che c’è da fare: essi devono essere tenuti in Santa Unione e riscaldati.

34. Sarebbe proibita la miscela di Riti, se il Latino celebrasse con pane fermentato e desse ai Latini l’Eucaristia consacrata a quel modo. La stessa cosa si dovrebbe dire se gli Orientali, che non abbracciarono la consuetudine del pane azimo, celebrassero in azimo e distribuissero alla loro gente l’Eucaristia così consacrata. Quindi i Vescovi latini cui sono soggetti gli Italo-Greci devono curare che i Latini si comunichino sempre in azimo e i Greci, dove hanno una propria parrocchia, sempre in fermentato, come è stabilito nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis 57 (n. 6 e n. 14, tomo 1 del nostro Bollario)Sarebbe pure vietata la miscela del Rito se un Sacerdote Latino celebrasse la Messa ora in Rito Latino, ora Greco, o se un Sacerdote Greco celebrasse ora in Greco ora in Latino. Ciò è proibito nella Costituzione di San Pio V che inizia Providentia (21, tomo 4, parte 2 del nuovo Bollario stampato a Roma dove sono revocate tutte le facoltà che in precedenza erano state concesse ad alcuni Sacerdoti in questa materia). A questa Costituzione di San Pio V è conforme anche la nostra citata (§ 7, n. 10). Ché se ai Sacerdoti della Compagnia di Gesù che sono a capo dei Collegi delle Nazioni Orientali eretti a Roma e che abbracciando la regola della predetta Compagnia erano passati dal Rito Greco al Latino fu concesso, come sopra accennato, di celebrare talvolta la Messa in Rito Greco e Orientale, questo fu fatto, come sopra spiegato, perché gli alunni che devono praticare il Rito Greco e Maronita imparino a celebrare la Messa nel predetto Rito e secondo il medesimo a celebrare i Divini Uffici per tutta la vita. Ma le particolari circostanze di questo caso singolare dicono che non si possono portare ad esempio per ottenere simili indulti: ciò è così vero che quantunque il Cardinale Leopoldo Kollonitz abbia esposto al nostro Predecessore Clemente XI che avrebbe giovato molto alla Chiesa Cattolica se si fosse permesso ai Missionari Latini di celebrare, in Ungheria, col Rito Greco tutte le volte che lo richiedesse la necessità, lasciando loro la libertà di tornare al Rito Latino, lo stesso Pontefice riflettendo che, secondo le leggi canoniche, ciascuno doveva restare nel suo Rito e non era lecito al Sacerdote celebrare ora in Rito Latino, ora in Rito Greco, rifiutò di concedere la facoltà richiesta dal predetto Cardinale, come risulta dalla lettera in forma di Breve che indirizzò allo stesso Cardinale il 9 maggio 1705 (pubblicata nel tomo 1, Epistolar. et Brev. selectior. Eiusdem Pontificis, typis editor, p. 205).

35. Questi ed altri esempi che si potrebbero citare facilmente riguardano la miscela dei Riti proibita dalle leggi della Chiesa. In verità, come già abbiamo detto, non si potrà mai chiamare miscela dei Riti proibita se, per una causa legittima, il Sacerdote di Rito Orientale, approvato dalla Sede Apostolica, viene ammesso nella Chiesa dei Latini per celebrarvi la Messa e le altre funzioni ed amministrare i Sacramenti al popolo della sua Nazione. Vediamo che ciò avviene pubblicamente a Roma dove ai Sacerdoti Armeni, Copti, Melchiti e Greci sono aperti i nostri templi per celebrarvi la Messa, per soddisfare la loro devozione, quantunque abbiano le loro Chiese particolari dove potrebbero celebrare: purché tuttavia portino con sé i paramenti sacri e le altre cose che sono necessarie a celebrare la Messa secondo il loro Rito e li accompagni un collaboratore della loro Nazione per servire i celebranti, e dai custodi e dai Rettori della Chiesa si provveda in modo che, per la novità della cosa, non si determinino turbolenze e tumulti fra gli astanti, come più dettagliatamente si dice nell’Editto che il 13 febbraio 1743 fu promulgato per Nostro ordine per gli Ecclesiastici e i Laici Orientali abitanti a Roma a mezzo del nostro Venerabile Fratello Giovanni Antonio, allora del titolo dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, Presbitero, ora Vescovo di Tuscolo, Cardinale di Santa Romana Chiesa, chiamato Guadagni, nostro Vicario generale in Roma e relativo distretto. Tuttavia per questo argomento Ci sembra di fare moltissimo, e tosto lo indicheremo. A metà circa del secolo XV, com’è noto, Maometto II espugnò Costantinopoli con la forza e alcuni Greci, che avversavano gli errori degli Scismatici e avevano conservato la comunione con la Chiesa Latina, si erano trasferiti a Venezia e qui erano restati. Il Cardinale Isidoro, greco di stirpe, essendo giunto in quella città, riferì al Senato il desiderio del Romano Pontefice che venisse assegnato agli uomini di questo Rito Greco un tempio nel quale potessero esercitare le loro funzioni. La commossa compassione del Senato concesse alla gente profuga la Chiesa di San Biagio dove per la durata di molti anni in una determinata cappella della stessa Chiesa i Greci fecero i Divini Offici in Rito Greco, e nelle altre cappelle i Latini in Rito Latino, come attesta Flaminio Cornelio, scrittore di gran famaPer alcuni anni gli Uffici di ambedue i Riti furono fatti in una sola Chiesa, se pure in diverse Cappelle” (Decad. 14. Venetarum Ecclesiarum, p. 359). Ciò avvenne fino a quando, aumentato il numero dei Greci, alla predetta Chiesa di San Biagio comune a Latini e Greci, fu dato un altro tempio che fosse proprio e riservato ai Greci.

36. Questo riguarda i Greci che, per celebrare, sono accolti nelle Chiese Latine. Ma perché sia mostrato più chiaramente che da ciò non segue nessuna miscela rituale condannata dalle leggi della Chiesa, non sarà senza significato parlare anche dei Latini che per dire Messa e assolvere i Divini Offici sono ammessi per giusti motivi nelle Chiese dei Greci. Ciò non solo confermerà il pensiero suesposto, ma anche contribuirà moltissimo a dimostrare quanto siano necessarie tra i Cattolici, sia pure di Rito diverso, l’unione e la benevolenza degli animi. Nella Russia Bianca i Ruteni Cattolici che chiamano Uniati hanno molte Chiese, e poche i Latini e, ciò che conta di più, molto distanti dai villaggi dei Latini che abitano tra i Ruteni. I Latini talora per lungo tempo mancavano della Messa di Rito Latino, per la ragione che trattenuti dai loro affari non potevano fare un così lungo cammino per recarsi alle Chiese Latine; né i Preti Latini potevano facilmente andare nelle poche Chiese Latine che si trovano nella Russia Bianca a celebrare la Messa, per la ragione che le Chiese erano separate da troppo lungo cammino dal loro domicilio. Perciò affinché i Latini non mancassero per troppo tempo della Messa in Rito Latino, restava solo che i Sacerdoti Latini, a comodità dei Latini, celebrassero Messe Latine nelle Chiese Rutene. Ma anche con questa soluzione esisteva una difficoltà: gli altari dei Greci non hanno la Pietra sacra, dal momento che essi celebrano sugli Antimensi che sono lini consacrati dal Vescovo nei cui angoli sono messe le reliquie dei Santi. Pertanto i Sacerdoti Latini erano costretti a portare con sé la Pietra sacra, con non lieve incomodo e attenzione, perché nel viaggio non si spezzasse. A tutti questi ostacoli, con l’aiuto di Dio, fu trovato e applicato un rimedio opportuno: poiché, consenzienti anche gli stessi Ruteni, fu concesso ai Preti Latini di celebrare la Messa in Rito Latino nelle Chiese Rutene e sopra i loro Antimensi e, questo sembrò ancor più sbrigativo, che i Sacerdoti Ruteni, andando talora in Chiese Latine per celebrarvi la Messa, dicessero la Messa sulle nostre Pietre sacre. Tutto questo si può ricavare dalla nostra Costituzione Imposito Nobis (n. 43, tomo 3 del nostro Bollario).

37. È inoltre molto importante per il nostro argomento ciò che subito aggiungeremo. Discutono fra di loro gli studiosi se, secondo la vecchia disciplina, nelle Basiliche della Chiesa Occidentale ci fossero uno o più altari. Sostiene la prima tesi Schelestrato (part. 1 Actor. Ecclesiae Orientalis, cap. 2, De Missa privata in Ecclesia Latina)ma per contro il Cardinale Bona (Rerum Lyturgicarum, lib. 1, cap. 14, n. 3), basandosi sull’autorità di Walfrido (cap. 4), dimostra che nella Basilica romana di San Pietro vi erano più altari. Se però si parla di Templi e Basiliche Orientali e Greche, è chiaro che in esse non esisteva che un solo altare, anche se orane esistono in gran numero, come si deduce dalla descrizione lineare di questi Templi che ne fecero il Du Cange in Costantinopoli Cristiana, il Beveregio nelle note alle Pandette dei Canoni e il Goario nell’Eucologio dei Greci. E poiché nel Tempio di Sant’Atanasio, che a Roma è tenuto dai Greci, ci sono molti altari, Leone Allazio nella lettera a Giovanni Morini Sui Templi più recenti dei Greci, n. 2, non esitò ad asserire che in quella Chiesa non c’era nulla di greco all’infuori del Bema, cioè del recinto che, da tutte le parti della Chiesa, evidenzia l’Altar maggiore. A quell’Altare, al quale il Sacerdote ha celebrato la Messa, non può un altro Sacerdote nello stesso giorno offrire una seconda volta la Messa. Di questa disciplina dei Greci parlano Dionisio Barbalibeo, Giacobita, Vescovo di Amida, in Spiegazione della Messa, e Ciriaco, Patriarca dei Giacobiti presso Gregorio Barebreo, pure Giacobita, nel suo Direttorio che cita Assemano nella Biblioteca Orientale (tomo 2, p. 184 e tomo 3, parte 1, p. 248). Circa la stessa disciplina il Cardinale Bona (citato, cap. 14, n. 3), così lasciò scritto: “Nelle loro Chiese hanno un unico altare e non giudicano lecito che nello stesso giorno si ripeta la Messa entro le mura del Tempio“. Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e Cirillo, Patriarca Antiocheno dei Greci, durante il Pontificato di Clemente XI, Benedetto XIII e Clemente XII più volte chiesero se dovevano abbandonare la vigente disciplina che vietava si offrisse un secondo sacrificio della Messa nello stesso giorno e allo stesso altare. Ma fu sempre risposto loro che nulla si doveva cambiare, e si doveva conservare appieno il vecchio Rito. Poiché si era diffuso nel popolo l’errore che non si offriva un secondo Sacrificio della Messa nello stesso giorno, allo stesso altare dove un altro Sacerdote aveva celebrato, perché il Sacerdote che celebrava dopo, usandogli stessi paramenti che aveva usato il primo, rompeva il digiuno, perciò nella nostra Enciclica al Patriarca antiocheno dei Greci Melchiti e ai Vescovi cattolici a lui soggetti, prescrivemmo che con ogni impegno curassero di eliminare questo errore tra il popolo, in modo tuttavia da conservare integro lo spirito secondo il quale all’altare dove celebrò un Sacerdote, è escluso vi celebri un altro Sacerdote lo stesso giorno, come si può vedere nella nostra Costituzione che comincia Demandatam (87, tomo 1 del nostro Bollario).

38. Infine, un tempo fu comune il Rito nella Chiesa Occidentale e Orientale che i Preti offrissero il Sacrificio della Messa assieme al Vescovo. I documenti di questa disciplina furono raccolti da Cristiano Lupo nell’Appendice al Sinodo di Calcedonia (tomo 1, Ad Concilia generalia et provincialia, p. 994 della prima edizione), dove interpreta queste parole di Bassiano “Con me celebrava la Messa, con me comunicava“, e da Giorgio, nella Liturgia Pontificia (tomo 2, p. 1 e ss., e tomo 3, p. 1 e ss.). Ora il Rito della concelebrazione nella Chiesa Occidentale è caduto in disuso, meno che nell’ordinazione dei Sacerdoti, che il Vescovo conduce, e nella consacrazione dei Vescovi, che viene compiuta dal Vescovo con altri due Vescovi assistenti. Ma nella Chiesa Orientale sopravvisse e vige tuttora un uso più frequente della concelebrazione dei Preti col Vescovo o con un altro Sacerdote, che sostiene la persona del primo Celebrante; questo uso si riferisce alle Costituzioni che si chiamano Apostoliche, libro 8, e al Canone ottavo tra quelli che si dicono Apostolici. Dovunque questa consuetudine è in vigore tra i Greci e gli Orientali, non solo è approvata ma anche si ordina di custodirla, come consta dalla nostra stessa Costituzione sopra citata Demandatam (§ 9).

39. Da questo Rito Greco e Orientale che fin qui abbiamo ricordato, alcuni colsero l’occasione di mettere in dubbio se per le Messe private, che si dicono da un solo Sacerdote, ci possa essere posto nella Chiesa Orientale e Greca del momento che, come abbiamo detto, nelle Chiese Greche esiste un solo altare, uno solo è offerto al sacrificio della Messa e i Sacerdoti concelebrano col Vescovo o con un Sacerdote che fa da primo Presbitero. I Luterani non trascurarono di mandare a Geremia, Patriarca di Costantinopoli, la Confessione di Augusta, nella quale si sopprimono le Messe private, sollecitandolo ad accettarla; ma siccome l’uso e la disciplina della Messa privata nella Chiesa Orientale si desumono e sono rivendicati dal Canone 31 del Concilio Trullano e dalle Note che su di esso compose Teodoro Balsamon, pertanto il Rito della frequente concelebrazione dei Sacerdoti col Vescovo rimase, e parimenti la consuetudine delle Messe private restò intatta nella Chiesa Orientale. Perciò i tentativi dei Luterani si conclusero nel nulla: ad essi fu risposto che era condannato dagli Orientali, come dagli Occidentali, l’uso malvagio di coloro che per l’immondo desiderio di ricevere l’offerta sono spinti all’altare, a differenza di coloro che, secondo pietà e religione celebrano le Messe private per offrire a Dio un sacrificio accettabile. Ciò appare dagli Atti della Chiesa Orientale contro i Luterani (Schelestrato, cap. 1, De Missis privatis in Ecclesia Graeca, verso la fine). A comodo dei Sacerdoti che desiderano offrire il Sacrificio della Messa, salva sempre la consuetudine che ad un solo altare si offra un solo sacrificio nei singoli giorni, i Greci cominciarono a costituire le Paracclesie di cui parla Leone Allazio nella citata lettera a Giovanni Morini. Le Paracclesie non sono altro che Oratori i contigui alla Chiesa nei quali è stato eretto un altare dove i Sacerdoti celebrano la Messa che non possono celebrare in Chiesa perché all’altare in essa costruito ha celebrato un altro Sacerdote.

40. Altri poi, da questa disciplina degli Orientali e dei Greci, giustamente pensarono che c’era da temere che i Sacerdoti latini venissero esclusi in perpetuo dal celebrare Messe nelle Chiese Greche, perché, come sopra si è detto, in esse esiste un unico altare dove nello stesso giorno un Sacerdote solo può celebrare; né i Sacerdoti Latini potevano celebrare nelle Paracclesie, in quanto costruite solo per i Greci. Ma ad eliminare il timore, in questo periodo si vede che per lo più nelle Chiese Greche viene costruito un secondo altare, nel quale da parte dei Preti Latini si possa offrire il Divino Sacrificio. Goario espose tre forme dei Templi Greci nell’Eucologio Greco; la terza di esse presenta un secondo altare posto per i Preti Latini, come dice lo stesso Goario nel luogo citato, e come prosegue lo Schelestrato (opera sopra indicata, p. 887). Nelle Chiese della Comunità dei Maroniti e dei Greci esistenti in Roma, oltre l’altare maggiore, ci sono altri altari nei quali si celebra la Messa da parte dei Preti Latini; nella nostra Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, nn. 8 e 9, tomo 1 del nostro Bollario)nella quale si offre agli Italo-Greci una sicurissima regola di agire, si vieta ai Sacerdoti latini di celebrare nei Templi Greci all’altare maggiore, se non lo richieda in tutti i modi una necessità e si abbia il consenso del Parroco greco. Inoltre, nella stessa Costituzione si concede ai Greci la possibilità di erigere nei loro Templi, oltre l’altare maggiore, altri altari nei quali i Sacerdoti latini se vogliono, possano celebrare il sacrificio della Messa.

41. Da quanto abbiamo detto finora sembra sia già chiaramente dimostrato che, come prima, così in futuro si deve permettere ai Cattolici Armeni e ai Siriaci che abitano a Balsera misti ai Latini, e che mancano di una Chiesa propria, che si radunino in quella latina e in essa svolgano le sacre funzioni col proprio Rito: tanto più che non solo non ne deriva alcuna miscela di Riti condannata dalla Chiesa, ma si esercitano i doveri dell’ospitalità o, meglio, si adempiono precetti equitativi del diritto, che esige che a chi non ha un luogo opportuno a fare quelle cose che di diritto deve compiere, il luogo stesso venga concesso volentieri. Perciò non resta altro che ordinare che tutto venga fatto secondo le leggi della dovuta carità, e cioè che agli Orientali venga assegnata una cappella o una parte della Chiesa nella quale possano celebrare le loro funzioni, e per quanto si può fare ci si adoperi affinché in alcune ore i Latini e in altre gli Orientali facciano le loro funzioni. Se capiterà di fare altrimenti, subentrerà un motivo immediato di quei dissensi che tanto tormentarono i due nostri predecessori Leone X e Clemente VII; contro i patti stipulati nel Concilio di Firenze da Eugenio IV affinché non si recasse alcuna molestia ai Greci nel compimento dei propri Riti e delle proprie cerimonie, ai predetti Pontefici fu riferito che alcuni Latini andavano nelle Chiese dei Greci e celebravano la Messa in Rito Latino presso il loro altare con l’intenzione di creare ai Preti greci ostacolo ad offrire il Sacrificio secondo il loro Rito e a poter fare le loro funzioni. Di conseguenza i Greci, talvolta anche nei giorni di festa, mancavano del Sacrificio della Messa: “Non si sa con quale spirito (si parla dei Preti latini) talora occupano gli altari di dette Chiese parrocchiali e ivi, contro la volontà degli stessi Greci, celebrano la Messa e forse altri Divini Uffici, così che i detti Greci spesso restano senza aver udito la Messa, con grande agitazione d’animo, nei giorni festivi e negli altri giorni in cui erano soliti ascoltarla“. Questi lamenti papali riporta il documento che comincia Provisionis nostrae e che si trova nell’Enchiridion dei Greci (stampato a Benevento nel 1717, p. 86). Non è certo necessario che aggiungiamo le nostre lamentele, che non sarebbero più lievi né sarebbero prive di rimedi opportuni, se mai si riferisse a Noi che a Balsera, dai nostri Latini, viene impedito agli Orientali di compiere le loro funzioni nelle Chiese Latine.

42. Una seconda questione succede a questa prima: riguarda gli Armeni e i Siri. Si disquisisce se essi, nello stabilire il tempo della Pasqua e delle Feste che da essa dipendono, possano usare il vecchio Calendario, o piuttosto debbano seguire il nuovo, corretto, quando celebrano le funzioni sacre nelle Chiese Latine, e si dica fino a qual punto sia lecito da parte loro l’uso dell’antico Calendario, o tale indicazione riguardi anche quegli Orientali che hanno la loro Chiesa, ma così angusta e così piccola che non potendo tutti radunarsi in essa, per la maggior parte sono costretti a entrare nelle Chiese Latine.

43. Non è ignoto ad alcuno ciò che dai santi Papi Romani Pio e Vittore, e anche dal Concilio di Nicea fu stabilito circa la retta celebrazione della Pasqua. Tutti ugualmente sanno che dal Concilio Tridentino fu riservato al Romano Pontefice la correzione del calendario e che essendo papa Gregorio XIII la cosa fu risolta con tutti i relativi calcoli. Pertanto Bucherio nel Commentario alla dottrina dei tempi, nella prefazione al lettore scrisse: “A computare la certezza del tempo pasquale, all’ordine del Papa Gregorio XIII provvide largamente il nostro Clavio“. Egli fu un Sacerdote della Compagnia di Gesù, matematico preparatissimo, il quale diede al Pontefice un egregio contributo nella correzione del Calendario. Furono portati al Pontefice anche i calcoli di certo Luigi Lilio, il quale aveva trascorso molti anni nel comporli. Valutato e soppesato tutto in molte Congregazioni, alla presenza in consiglio di uomini eruditissimi, uscì nel 1582 la Costituzione che fissava le regole del Calendario; essa comincia: Inter gravissimas (n. 74, nel vecchio Bollario, tomo 2).

44. Abrogato il vecchio Calendario con questa Costituzione Pontificia, fu comandato ai Patriarchi, ai Primati, agli Arcivescovi, ai Vescovi, agli Abati e agli altri Prelati di servirsi del nuovo Calendario, corretto, come si può leggere nella stessa Costituzione, come si deduce dagli Annali dello stesso Pontefice (stampati a Roma nel 1742, tomo 2, p. 271). Per la verità, non essendosi fatta parola degli Orientali nella Costituzione, nasce il quesito se la stessa riguardi gli Orientali; tale questione investe non solo i dottori, come si può vedere in Azorio, Istituzioni morali (tomo 1, libro 5, cap. 11, quaest. 7), presso Baldello nella sua Teologia morale (tomo 1, libro 5, disput. 41); ma fu anche proposta e discussa in un convegno di Scienziati del 4 luglio 1631 nel palazzo del Cardinale Panfili che, salito al Papato, prese il nome di Innocenzo X. Allora uscì questa risoluzione: “I sudditi dei quattro Patriarchi d’Oriente non sono legati dai nuovi decreti pontifici se non in tre casi: primo, in materia dei dogmi di Fede; secondo, se il Papa esplicitamente nelle sue Costituzioni ne faccia menzione e disponga di essi; terzo, se implicitamente disponga di essi nelle stesse Costituzioni come nei casi di indirizzi al futuro Concilio“: viene riportata questa risoluzione sia dal Verricello (De Apostolicis Missionibus, libro 3, quest. 83, n. 4), sia nella nostra opera La canonizzazione dei Santi (libro 2, cap. 38, n. 15).

45. Noi consideriamo questa questione conclusa, non essendovi alcuna urgenza ora per discuterne. A Noi basterà indicare che cosa ha fatto la Sede Apostolica a questo proposito, quando dai fatti precedenti si evince che è quanto mai ragionevole la risposta che “non si deve cambiare nulla” data al quesito. Agli Italo-Greci che vivono tra di noi e vengono sottoposti al governo dei Vescovi Latini nelle cui Diocesi sono domiciliati, fu comandato dalla Sede Apostolica di conformarsi al nuovo Calendario, come si può vedere nella nostra citata Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 9, nn. 3 e ss. del tomo 1 del nostro Bollario)Il clero della Collegiata di Santa Maria del Grafeo, della città di Messina, che pratica il Rito Greco, osserva il nuovo Calendario scrupolosamente, come si può vedere nell’altra nostra Costituzione Romana Ecclesia (81, par. 1 dello stesso tomo 1 del nostro Bollario)tuttavia ciò fu comandato non così severamente che talvolta, richiedendolo gravi ragioni, non si sia lasciato posto ad un indirizzo concessivo. Gli Armeni cattolici residenti a Liburni non volevano sottoporsi al Calendario gregoriano ed inoltrarono suppliche a Innocenzo XII di poter usare il vecchio Calendario. Nella Congregazione del Sant’Officio il 20 giugno 1674 era stato approvato questo decreto: “Richiamata di nuovo la lettera 10 aprile del Nunzio Apostolico di Firenze circa le richieste fattegli dagli Armeni di pregare nella Messa per il Patriarca degli Armeni e circa la celebrazione della Pasqua e delle altre feste secondo il loro Rito, cioè secondo il calcolo vecchio che esisteva prima della correzione del calendario, e circa la celebrazione della Pasqua, ecc. ; riferita la Scrittura mandata dalla Sacra Congregazione di Propaganda Fide circa il modo di pregare nella Messa per il Patriarca Armeno, si risponda al Nunzio che, circa il permesso di pregare nella Liturgia per il Patriarca degli Armeni, la Sacra Congregazione sta ai decreti emanati il 7 giugno 1673, e cioè che non si può, e quindi è vietato. Quanto alla celebrazione della Pasqua e delle altre feste, restarono del pari ancorati ai decreti: cioè nella celebrazione della Pasqua e delle altre feste gli Armeni residenti a Liburni devono osservare il Calendario Gregoriano“. Poiché gli Armeni si rifiutarono di ottemperare a questo decreto, l’esame del caso fu affidato alla particolare Congregazione di Cardinali eminenti per dottrina, tra i quali erano il cardinale Gianfrancesco Albano, che poi divenne Papa, e il cardinale Enrico Norisio, uomo famoso tra i letterati. La stessa Congregazione tenutasi il 23 settembre 1699 emise questo decreto confermato dal Pontefice nello stesso giorno: “Discussa profondamente la cosa e considerate tutte le circostanze del fatto, stabilirono, secondo quanto è proposto, che si può chiudere un occhio con i Cattolici Armeni abitanti a Liburni; circa l’uso del vecchio Calendario, coloro che ritengono peculiare la Chiesa, si dispongano ad ogni modo all’osservanza del Calendario Gregoriano e frattanto al beneplacito della Sede Apostolica, con l’aggiunta, inoltre, di questa condizione: che nei giorni di precetto, secondo il Calendario Gregoriano, si astengano dalle opere servili e ascoltino la Santa Messa“.

46. Se si vuol parlare dei Greci Orientali, consta che talora avevano il desiderio di usare il nuovo Calendario corretto, ma questo non ebbe alcun risultato. Tra gli articoli e le condizioni poste ai Ruteni nell’Unione sotto Clemente VIII fu inserita, trattata e risolta anche quella dell’accettazione del Calendario; ad essa fu data la seguente risposta: “Assumeremo il Calendario nuovo se si può fare secondo l’antico“, come si può leggere nell’opera di Tomaso da Gesù (p. 329). Quantunque quella risposta presentasse una certa ambiguità, sappiamo che di quell’argomento non si trattò più, né su questo articolo pronunciò alcun giudizio il Teologo deputato ad esaminare la questione, come appare dalla stessa opera a p. 335 e ss. Talvolta gli Orientali stessi spontaneamente accettarono il nuovo Calendario, come si può apprendere dal più volte citato Concilio provinciale dei Maroniti del 1736: “Tanto nei digiuni quanto nelle feste dell’anno, sia mobili, sia immobili, comandiamo espressamente che il Calendario Romano, emendato con tanto merito per la nostra Nazione dal Sommo Pontefice Gregorio XIII, sia osservato in tutte le nostre Chiese e il suo metodo ed uso, come anche il Canto Ecclesiastico, comandiamo che in ogni Chiesa siano insegnati ai fanciulli dai Maestri“. Ma tutte le volte che gli Orientali non accondiscesero, ci fu il giustificato timore che nascessero tumulti e dissensi se si fosse ingiunto loro l’uso del Calendario nuovo. La Sede Apostolica permise che gli Orientali e i Greci abitanti in remote regioni conservassero la loro antica disciplina, cioè conservassero il vecchio Calendario, attendendo un’occasione più propizia per introdurre l’uso del Calendario nuovo e corretto. Sull’argomento sono concordi anche i decreti della Congregazione di Propaganda Fide e della Sacra Inquisizione, come si apprende, quanto alla prima, dai decreti del 22 agosto 1625 e 30 aprile 1631; quanto alla seconda, dai decreti del 18 luglio 1613 e del 14 dicembre 1616. Anzi, la cosa si spinse a tal punto che anche ai Missionari fu permesso l’uso del vecchio Calendario quando si trattenevano in quelle regioni in cui resisteva solo l’uso del vecchio Calendario, come si può sapere da alcuni decreti emanati dalla Congregazione di Propaganda Fide il 16 aprile 1703 e il 16 dicembre 1704.

47. Resta da parlare dell’ultimo quesito, cioè del digiuno. I Siri e gli Armeni cattolici, secondo il loro Rito, in tempo di digiuno si astengono dal mangiar pesci: ma vedendo che i Latini li mangiano ed è impossibile o almeno difficilissimo che si possano astenere dai pesci, che vedono i Latini mangiare, perciò si propone come conforme a ragione che si dia ai Missionari la facoltà di dispensare: ma prudentemente, ed escluso ogni scandalo, e surrogando con qualche buona azione l’astinenza dai pesci. Questa sarebbe un’occasione adattissima per discutere della vetustà del digiuno presso gli Orientali e della sua legge, sia pure più severa, tuttavia sempre osservata: ma per non diffonderci più del necessario diciamo solo che la Sede Apostolica si oppose ai Patriarchi tutte le volte in cui vollero attenuare l’antico rigore del digiuno prescritto ai propri sudditi. Pietro, Patriarca dei Maroniti, concesse agli Arcivescovi e Vescovi a lui soggetti di nutrirsi di carne come i Laici, quantunque secondo l’antica disciplina si astenessero dalle carni; e permise a tutto il popolo, in tempo di Quaresima, di mangiar pesci e bere vino, quantunque ciò fosse ad essi proibito. Ma il Papa Paolo V, spedendo una lettera in forma di Breve al Patriarca successore di Pietro il 9 marzo 1610, comandò che, abrogato ciò che Pietro aveva concesso, le cose venissero rimesse nella primitiva condizione. Durante il nostro Pontificato furono chiamate all’esame l’eccessiva facilità e indulgenza di Eutimio, Arcivescovo di Tiro e Sidone, e di Cirillo, Patriarca Antiocheno presso i Greci Melchiti; e furono disapprovate, come appare dalla nostra Costituzione Demandatam (87, § 6, tomo 1 del nostro Bollario): “Noi, con la nostra autorità, espressamente revochiamo l’innovazione e l’attenuazione delle astinenze, giudicando che si dimostrano di eccessivo detrimento all’antica disciplina delle Chiese Greche, quantunque altrove, venendo meno l’autorità della Sede Apostolica, vengano ritenute di nessuna importanza, e comandiamo che non abbiano alcun effetto in futuro e che ad esse non si dia esecuzione, ma in tutto il territorio del Patriarcato Antiocheno sia conservata la lodevole consuetudine derivata dagli antenati di astenersi ogni Mercoledì e venerdì dell’anno dal consumare pesce, come viene scrupolosamente osservato anche dagli altri popoli confinanti, dello stesso Rito Greco“. È assurdo asserire che si deve dare la dispensa o piuttosto una facoltà generale di dispensare perché gli Orientali, vedendo che i Latini si nutrono di pesci in tempo di digiuno, siano spinti facilmente non per un certo disprezzo, ma vinti dall’umana fragilità, a mangiare pesce in giorno di digiuno. Con questo argomento, se valesse qualcosa, prima di tutto nascerebbe una gran confusione di Riti; poi a seguire questa linea, ne conseguirebbe che i Latini vedendo i Greci vivere con particolari istituzioni, che non sono permesse ai Latini (sono anzi proibite) potrebbero chiedere la dispensa, perché fosse lecito a loro fare quello che vedono fare i Greci, dichiarando che essi riconoscono il Rito Latino, ma per la fragilità della natura non lo possono più a lungo praticare.

48. Sono queste le cose che giudicammo doversi esporre in questa nostra Enciclica, non solo per chiarire le ragioni su cui si fondano le risposte date al Missionario, che propose le questioni esposte all’inizio, ma anche perché a tutti sia chiara la benevolenza con la quale la Sede Apostolica abbraccia gli Orientali, mentre ordina che si conservino i loro antichi Riti che non si oppongono né alla Religione Cattolica né all’onestà; né chiede agli Scismatici, che tornano all’Unità Cattolica, di abbandonare i loro Riti, ma solo che abiurino le eresie, desiderando fortemente che i loro differenti popoli siano conservati, non distrutti, e che tutti (per dire molte cose con poche parole) siano Cattolici, non Latini.

Concludiamo infine questa nostra Lettera, impartendo la Benedizione Apostolica a chiunque la legga.

Roma, presso Santa Maria Maggiore, 26 luglio 1755, anno quindicesimo del Nostro Pontificato

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2022)

Last Judgement fresco by Vasari and Zuccari, Florence duomo, Tuscany, Italy

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Quest’ultima settimana chiude l’anno ecclesiastico, e con essa si chiude la storia del mondo, iniziatasi coll’Avvento. Perciò in questa domenica la Chiesa fa leggere nel Breviario il libro del Profeta Michea (contemporaneo di Osea e di Isaia) con il commento di S. Basilio, che tratta del giudizio universale, e nel Messale il Vangelo dell’Avvento del Giudice divino. « Ecco, dice Michea, che il Signore uscirà dalla sua dimora; e camminerà su le alture della terra; le montagne si scioglieranno sotto i suoi passi e le valli fonderanno come la cera dinanzi al fuoco, e spariranno come l’acqua su un pendìo. E tutto questo per causa dei peccati d’Israele ». Dopo questa minaccia il Profeta continua con promesse di salvezza « Ti radunerò totalmente, Giacobbe, riunirò quello che resta d’Israele; lo radunerò come un gregge nell’ovile ». Gli Assiri hanno distrutto Samaria, i Caldei hanno devastato Gerusalemme, il Messia riparerà tutte queste rovine. Michea annunzia che Gesù Cristo nascerà a Gerusalemme e che il suo regno, che è quello della Gerusalemme celeste, non avrà fine. I profeti Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia, i libri dei quali si leggono nell’ufficiatura della settimana, confermano quanto ha detto Michea. Gesù nel Vangelo comincia con l’evocare la profezia di Daniele, che annunzia la rovina totale e definitiva del tempio di Gerusalemme e della nazione giudea per opera dell’esercito romano. Questa abominazione della desolazione è il castigo in cui il popolo di Israele ha incorso per la sua infedeltà, che è giunta al colmo, quando ha rigettato Cristo. Questa profezia si realizzò infatti qualche anno dopo la morte del Salvatore, allorché la tribolazione arrivò a tal punto, che se avesse durato ancora più a lungo nessun Giudeo sarebbe sfuggito alla morte. Ma per salvare coloro che si convertirono in seguito ad una si’ rude lezione, Dio abbreviò l’assedio di Gerusalemme. Così farà alla fine del mondo, di cui è figura la distruzione di questa città. Al momento del secondo Avvento di Cristo vi saranno senza dubbio tribolazioni ancor più terribili. « Molti impostori, fra i quali l’Anticristo, faranno prodigi ancora più satanici per farsi credere il Cristo; allora, l’abominazione della desolazione regnerà in altro modo nel tempio, poiché, spiega S. Girolamo « sorgerà, secondo quanto dice S. Paolo, l’uomo dell’iniquità e dell’opposizione contro tutto quello che è chiamato Dio ed è adorato e spingerà l’audacia fino a sedersi nel tempio stesso di Dio ed a farsi passare egli stesso per Dio » « Verrà accompagnato dalla potenza di satana per far perire e gettare nell’abbandono di Dio quelli che l’avranno accolto » (3° Notturno). Ma qui ancora, continua S. Girolamo, Dio abbrevierà questo tempo, affinché gli eletti non siano indotti in errore (id.). Del resto, non vi lasciate ingannare, dice il Salvatore, poiché il Figlio dell’uomo non apparirà, come la prima volta, nel velo del mistero e in un angolo remoto del mondo, ma in tutto il suo splendore e dappertutto contemporaneamente e con la rapidità della folgore. Allora tutti gli eletti andranno incontro a Lui, come gli avvoltoi verso la preda. Compariranno, allora, nel cielo, il segno sfolgorante della croce e il Figlio dell’Uomo che verrà con grande potenza, e con grande maestà (Vangelo). – « Quando vi prende la tentazione di commettere qualche peccato, dice S. Basilio, vorrei che pensaste a questo terribile tribunale di Cristo, dove Egli siederà come giudice sopra un altissimo trono; davanti a questo comparirà ogni creatura tremante alla sua gloriosa presenza; là renderemo uno per uno conto delle azioni di tutta la nostra vita. Subito dopo, coloro che avranno commesso molto male durante la loro vita, si vedranno circondati da terribili e orribili demoni, che li precipiteranno in un profondo abisso. Temete queste cose, e, penetrati da questo timore, usatene come un freno per impedire all’anima vostra di esser trascinata dalla concupiscenza a commettere il peccato» (3″ Notturno). La Chiesa ci esorta perciò nell’Epistola, per bocca dell’Apostolo, a condurci in modo degno del Signore e a portar frutto in ogni sorta di buone opere, affinché, fortificati dalla sua gloriosa potenza, sopportiamo tutto con pazienza e con gioia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti capaci di aver parte all’eredità dei Santi, ora in ispirito, e all’ultimo giorno in corpo e in anima, per il Sangue redentore del suo Figlio diletto. Dio, che ci ha detto per bocca di Geremia di nutrire pensieri di pace e non di collera (Introito), e che ha premesso di esaudire le preghiere fatte con fede (Com.), ci esaudirà e ci affrancherà dalle concupiscenze terrene (Secr.) facendo cessare la nostra cattività (Intr. e Vers.) e aprendoci per sempre il cielo ove il trionfo del Messia troverà la sua gloriosa consumazione. – Vincitore assoluto sui suoi nemici, che risusciteranno per il loro castigo, e Re senza contestazione di tutti gli eletti, che hanno creduto nel suo avvento e che risusciteranno per essere gloriosi nel corpo e nell’anima per tutta l’eternità. Gesù Cristo rimetterà al Padre questo regno, che ha conquistato a prezzo del sul Sangue, come omaggio perfetto del capo e dei suoi membri. E sarà allora la vera Pasqua, il pieno passaggio nella vera terra promessa e la presa di possesso, per sempre, da parte di Gesù ed il suo popolo del regno della Gerusalemme celeste, dove, nel Tempio, che non è stato fatto da mano di uomo, regna sovrano Dio in cui metteremo tutta la nostra gloria ed il cui Nome celebreremo eternamente (Grad.). E per mezzo del nostro Sommo Sacerdote Gesù noi renderemo un eterno omaggio alla SS. Trinità dicendo: « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio ed ora e sempre e nei secoli, così sia. » Rendiamo infinite grazie a Dio Padre per averci riscattato per mezzo di Gesù Cristo dalla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose ed averci resi degni di partecipare con Lui alla gloria del suo regno celeste, che è l’eredità dei Santi nella luce. – Gesù è venuto nell’umiliazione, e tornerà nella gloria. Il suo Primo Avvento ebbe per scopo di prepararci al secondo. Coloro che l’avranno accolto nel tempo, saranno da Lui accolti quando entreranno nell’eternità; quei che l’avranno misconosciuto saranno rigettati. Perciò i Profeti non hanno separato i due avventi del Messia, poiché sono i due atti di un medesimo dramma divino. Così pure Nostro Signore non separa la rovina di Gerusalemme dalla fine del mondo, poiché il castigo che colpi i Giudei deicidi è la figura del castigo eterno, che toccherà a tutti quelli che avranno rigettato il Salvatore. Questo primo avvento ha già avuto luogo, il secondo si effettuerà: prepariamoci; la lettura del Vangelo di oggi, tende appunto a questo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]


Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.

[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

(“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché camminiate in maniera degna di Dio; sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando Dio Padre che i ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre; e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati”).

SAPERE.

San Paolo tocca mirabilmente tre verbi, che riassumono il fior fiore dell’attività veramente cristiana, con insistenza sul primo: sapere. Non è il caso di esagerare o piuttosto alterare l’azione che il Divin Maestro ha esercitato ed esercita sull’intelletto umano, e quella che l’intelletto umano deve esplicare docilmente, secondando gl’impulsi del Maestro. Ma non per nulla N. S. Gesù Cristo ha preso e conserva questo bel nome: Maestro. Rabbi. Non per nulla il Maestro è il Verbo di Dio, è la Sapienza incarnata di Lui. Verbo che illumina ogni uomo, quando specialmente, in carne mortale, viene a risiedere in mezzo a noi. – Il suo Vangelo è, inizialmente, radicalmente luce nuova. Ci ha strappato, dice San Paolo, parlando, si capisce, di preferenza ai convertiti, dal Gentilesimo, ci ha strappati dall’impero delle tenebre, trasportandoci nel regno della luce. Ed anche per questo il Cristianesimo è umano, cioè proporzionato, profondamente, perfettamente agli umani bisogni. L’uomo comincia di lì, dal sapere, dalla luce, dalla testa, la sua vita veramente umana. È un uomo perché pensa, uomo perché opera a ragione veduta. Il Cristianesimo ci prende di lì, comincia a prenderci di lì, dalla testa, colla sua rivelazione. Alla quale risponde la nostra fede, che è un sapere sovrannaturale, ma sapere. Sapere con una certezza nuova cose che erano oggetto di discussioni antiche; sapere cose nuove intravedute per « speculum in enigmate, » attendendo che venga di là, di lassù, la luce piena. E questo saper nuovo, scende sì, in noi, da Dio, ma dobbiamo noi pure accrescerlo col divino aiuto e la nostra operosità. Non tutti i Cristiani sono egualmente sapienti o veggenti. Paolo esorta i suoi lettori e discepoli a diventarlo sempre più. Augura loro e raccomanda che « siano riempiti della profonda conoscenza della volontà di Dio, in ogni sorta di spirituale sapienza e intelligenza spirituale ». Il che si consegue quando si studia e si medita il Vangelo, la rivelazione divina, il mondo della realtà cristiana. Si studia come fanno anche i più semplici Cristiani, leggendo il Catechismo, ascoltando la spiegazione evangelica dei Sacerdoti, e poi si medita come hanno fatto e fanno i grandi Cristiani, non solo sacerdoti e teologi, dirò così, di professione, S. Tommaso, S. Bonaventura, S. Bellarmino, ma anche i grandi laici, come Manzoni, Nicolò Tommaseo, Contardo Ferrini. Bisogna istruirsi per sapere; e bisogna sapere se si vuol essere degni del nome di uomini e di Cristiani. Ma, soprattutto, bisogna sapere cristianamente, per cristianamente lavorare e soffrire. Il sapere cristiano non è fine a se stesso; non è appagamento vano di vana curiosità. In ciò la sua profonda differenza dal sapere profano. S. Paolo segna subito quella finalità essenziale e doverosa del sapere cristiano, che è pratica. Augura a tutti i suoi lettori, a noi, che lo siamo dopo tanti secoli, di crescere in ogni maniera di sapienza spirituale perché — gli cedo la parola — « camminiate in modo degno di Dio in guisa da essergli in ogni cosa graditi, producendo frutti d’ogni opera buona ». – Del resto, è naturale, è logico. Alla luce si cammina meglio; più veloci, più alacri, nell’ordine fisico. Nell’ordine morale e religioso, è lo stesso. Quello che pareva problema di luce, si risolve in un problema di azione. Conoscendo meglio Dio, dobbiamo, — è quasi direi, una necessità, necessità logica, — amarlo di più. Conoscendo meglio noi stessi, dobbiamo lavorare di più alla nostra purificazione ed elevazione. Conoscendo meglio il prossimo, dobbiamo compatirlo di più e perdonargli più facilmente. C’è così, una vera termo-dinamica del mondo Spirituale. Siamo davvero immersi nella luce di Dio: questa ci circonda da ogni parte. Tutto è lucido attorno a noi. La via è nettamente tracciata. Si vedono molti ostacoli: avanti! « Ambulemus: » camminiamo. Lavoriamo: sapere per fare… Del qual fare è parte anche il soffrire, il sopportare. Il sacrificio è un Cristianesimo in forma di azione. Il soldato lavora e soffre, versa sudore e sangue. Noi dobbiamo essere i soldati di Gesù Cristo. – Sono cose buone, sempre a ricordarsi a noi, più utili ed opportune mentre si chiude un ciclo di vita ecclesiastica e se ne apre un altro. Un anno più dell’altro, il nostro programma deve essere: luce, lavoro, sacrificio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

(“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Quando adunque vedrete l’abbominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge comprenda): allora coloro che si troveranno nella Giudea fuggano ai monti; e chi si troverà sopra il solaio, non scenda per prendere qualche cosa di casa sua; e chi sarà al campo, non ritorni a pigliar la sua veste. Ma guai alle donne gravide, o che avranno bambini al petto in que’ giorni. Pregate perciò, che non abbiate a fuggire di verno, o in giorno di sabato. Imperocché grande sarà allora la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino a quest’oggi, né mai sarà. E se non fossero accorciati quei giorni non sarebbe uomo restato salvo; ma saranno accorciati quei giorni in grazia degli eletti. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o ecco là il Cristo; non date retta. Imperocché usciranno fuori dei falsi cristi e dei falsi profeti, e faranno miracoli grandi, e prodigi, da fare che siano ingannati (se è possibile) gli stessi eletti. Ecco che io ve l’ho predetto. Se adunque vi diranno: Ecco che egli è nel deserto; non vogliate muovervi: eccolo in fondo della casa; non date retta. Imperocché siccome il lampo si parte dall’oriente, e si fa vedere fino all’occidente; così la venuta del Figliuolo dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, quivi si raduneranno le aquile. Immediatamente poi dopo la tribolazione di quei giorni si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno dal cielo le stelle, e le potestà dei cieli saranno sommosse. Allora il segno del Figliuolo dell’uomo comparirà nel cielo; e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figliuol dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con potestà e maestà grande. E manderà i suoi Angeli, i quali con tromba e voce sonora raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità de’ cieli all’altra. Dalla pianta del fico imparate questa similitudine. Quando il ramo di essa intenerisce, e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina: così ancora quando voi vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino alla porta. In verità vi dico, non passerà questa generazione, che adempite non siano tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”).

OMELIA 

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

LA GIUSTIZIA FINALE DEL CRISTO

Tre momenti possiamo considerare nella giustizia finale del Cristo, come la predice il Vangelo. Dapprima, la crisi suprema del mondo. Le forze che reggono la compagine dell’universo si sbanderanno: i cieli si arrotoleranno come tende, il sole e la luna si oscureranno, le stelle cadranno come foglie di autunno. Poi l’improvvisa apparizione del Giudice. Nel cielo vuoto Gesù e la sua croce sfolgorante. Ai riverberi di quella luce oltremondana, ogni anima diverrà trasparente più che cristallo percosso dal sole, sicché tutte le macchie della coscienza, anche le più piccole, saranno visibilissime. Il terzo momento è la confusione dell’anima colpevole. Muta perché senza scuse, sola perché senza nessun protettore, ella piangerà; ed al suo pianto farà bordone il vasto singhiozzare delle tribù dei peccatori. La delusione d’un mondo che scompare. Il giudizio esattissimo del Giudice divino. La confusione dell’anima senza scuse e senza protezione. Son tre pensieri che gioverà meditare molto seriamente. – 1. LA DELUSIONE D’UN MONDO CHE SCOMPARE. « Il cielo e la terra passeranno… »; disgraziati tutti quelli che vi han collocato il loro cuore e il loro tesoro. Mi servirò di alcune similitudini di S. Agostino, adattandole un poco. a) Un architetto bravissimo passò un giorno davanti a una sontuosa villa costruita sul margine d’un ruscello e disse al proprietario: « Guarda che sta per crollare, rose dall’acqua, le fondamenta ormai cedono ». L’inquilino gli scrollò le spalle » alla sera radunò ancora gli amici al consueto festino, e dopo si pose a letto per dormire tranquillamente. Era nel primo e profondo sonno e la casa crollò, schiacciandolo sotto. Peggio per lui, direte, perché era stato avvisato. Orbene, anche noi siamo stati avvisati. Il costruttore del mondo ci dice che questo mondo ha da rovinare e che il fiume del tempo, trascorrendo con lena insonne, gli rode le fondamenta. Non siamo immensamente stolti se invece di sgombrare, di cominciare a porre altrove le nostre speranze, i nostri desideri, i nostri beni, li collochiamo e fissiamo in questo mondo come se avesse a durare sempre, come ci dovessimo fare una dimora perpetua? Poi viene la morte e tutto crolla. Poi viene la fine del mondo e tutto frana. Che delusione amarissima! b) Un contadino poneva il frumento sulla nuda terra, in un luogo umido e senz’aria. Viene un amico, il quale conosce bene la natura del frumento e della terra e gli fa vedere la sua ignoranza, dicendogli: « Che hai fatto? porre il frumento sulla nuda terra, in un posto umido? D’inverno, quando le lunghe piogge ammollano tutto, questo grano marcirà e la tua fatica andrà in fumo ». il contadino chiese: « Che debbo fare? » L’amico gli rispose: « Prima che le piogge incomincino, trasportalo di sopra ». L’altro ci pensò un poco, e poi parendogli troppo grossa fatica, non lo fece. Vennero le piogge: andò per vedere il frumento, e vide invece un mucchio di materia in fermentazione. Ah, noi — direte — non avremmo agito così. Dite bene, perché siete persone di senno; ma siatelo in tutto, anche nelle cose più importanti. Siete pronti ad ascoltare il consiglio d’un amico nell’affare del frumento, perché trascurerete il consiglio di Gesù, l’amico divino, intorno all’affare dell’anima vostra? Egli conosce la natura del vostro cuore, che è fatto per il cielo; conosce la natura della terra che è fatta per essere corrotta e distrutta, e vi avvisa: « Trasporta in alto il cuore, perché tutto ciò che è sulla terra marcirà e scomparirà ». Avete timore di porre sulla nuda terra un poco di frumento, e poi sulla nuda terra lascerete marcire e distruggere il vostro cuore? Collocate in alto, nei beni invisibili ed eterni, il cuore per non essere delusi da questo mondo che scompare. c) In una barca che faceva acqua da tutte le parti, un uomo gridava aiuto. Passò un vascello e dall’alto gli lasciarono calare un corda di salvataggio. Il naufrago si stringeva cupidamente la cassetta dei suoi tesori, faceva per afferrare la corda ma non vi riusciva perché aveva le mani impedite. Dal vascello qualcuno gli gridava: « Lascia andare ciò che tieni, prendi ciò che ti dò. Se non abbandoni, non puoi ricevere ». Stringere insieme cassetta e corda non poteva; abbandonare la cassetta non voleva; ad un tratto, la barca fu colma d’acqua, e l’uomo con la cassetta sprofondò. Noi che viviamo in questo mondo, siamo sopra una barca che fa acqua da tutte le parti, e cola fatalmente a picco. Nostro Signore è accorso a salvarci e lascia cadere fino a noi la corda della sua redenzione: ma per afferrarla, bisogna distaccare le nostre mani ed il nostro cuore dalle cose e dai piaceri sensuali e mondani. La mano, se stringe un oggetto, non ne può stringere un altro. Chi ama il mondo, non può amare Dio: ha la mano impegnata. E quanti stringendosi cupidamente sul cuore la loro avarizia, o il loro orgoglio, o la loro passione impura, sprofonderanno con questo mondo a picco. – 2. IL GIUDIZIO ESATTISSIMO DEL GIUDICE. Scomparso il mondo e le sue iridate illusioni, non resterà più che il bene e il male sparso in tutti i giorni della nostra vita, dal primo albeggiare della ragione e della responsabilità fino al momento estremo della morte. Di questo saremo giudicati. a) Saremo giudicati del male; — il male che abbiamo fatto noi, con le opere, con le parole, con le azioni; — il male che abbiamo fatto fare agli altri, e qui, ci pensino quelli che senza necessità fanno lavorare in festa, fanno mangiare di grasso nei giorni proibiti, impediscono in qualunque modo ai loro dipendenti di adempiere i doveri religiosi; ci pensino anche quelli che fanno bestemmiare, che fanno per la loro condotta sparlare della Religione, che con la loro moda di vestire e di comportarsi inducono a chi li vede pensieri e desideri immondi; ci pensino tutti quelli che hanno dato scandalo; — il male che abbiamo lasciato fare agli altri, mentre lo potevamo impedire: il male quindi che molti genitori con maggior vigilanza avrebbero potuto impedire nei loro figli; che i fratelli con maggior carità avrebbero potuto impedire nei loro fratelli; che tanti Cristiani con un po’ d’azione cattolica avrebbero potuto impedire nel loro prossimo; che io povero prete e pastore d’anime avrei potuto impedire nella mia parrocchia se avessi avuto più zelo. Signor nostro e Giudice nostro Gesù abbi misericordia! b) Saremo giudicati anche del bene: — il bene che non abbiamo fatto, e che potevamo fare: ad esempio, del rosari che tutti possono dire ogni sera nella loro famiglia e non si dice; delle Messe che si potevano ascoltare, delle elemosine che si potevano fare, degli aiuti alle opere buone al prossimo bisognoso che si potevano dare! — il bene che abbiamo fatto male: tutte le volte che fummo in Chiesa durante i sacri riti con gli sguardi svagati sulle persone, con la mente annuvolata di pensieri inutili e forse peccaminosi; tutte le volte che facemmo l’elemosina o lavorammo per essere veduti, stimati, ricompensati dagli uomini; — il bene finalmente che abbiamo fatto bene: questo è l’oro puro col qual soltanto si può comprare la vita eterna. – 3. LA CONFUSIONE DELL’ANIMA COLPEVOLE. a) « Quid sum miser tunc dicturus? ». Che potrà dire, quali scuse potrà avanzare l’anima colpevole? Forse dirà: « La tua legge, o Signore, era troppo difficile, non la si poteva osservare », No, non lo potrà dire, altrimenti intorno a Cristo sorgerebbe a protestare un turba infinita di uomini, di donne, di giovani e di fanciulle. Essi hanno saputo praticarla, e praticandola sentirono che il giogo del Signore è dolce e soave. Forse dirà: « La tua legge, o Signore, richiedeva troppo tempo, ed io avevo affari, commerci, negozi dall’alba a notte tarda ». No, non lo potrà dire, altrimenti intorno a Cristo sorgerebbe un’altra turba di anime che lavorarono ancor di più di lei, senza trascurare la salute eterna; e poi ragione voleva che si abbandonasse anche qualche affare materiale, per non perdere l’unico affare necessario, che è quello dell’anima. Forse dirà: « Avevo poca salute, preoccupazioni finanziarie molte, la casa piccola, non avevo posto per un altro lettino…» No, non lo dirà. Sentirà dentro dì sé che tutte erano scuse per nascondere la paura dei sacrifici, l’amore dei propri comodi, il desiderio d’avere libertà per godere la vita; sentirà dentro di sé, che se avesse amato il Signore avrebbe trovato il coraggio e la forza necessaria per superare ogni difficoltà. b) « Quem patronum rogaturus? ». Chi chiamerà in soccorso? Forse l’Angelo custode? No; l’anima non ha voluto mai ascoltare nei giorni della vita terrena il suo pianto silenzioso; ed egli ora non può, né vuole esaudire la sua angoscia disperata. Forse qualche Santo protettore? I Santi, chi non li invoca da vivo, ne ignora il nome da morto. Chi non li imita nella mortificazione, non sarà mai loro compagno nella gioia. Forse accorrerà la Madonna? No, essa è Madre dei peccatori, ma non la madre dei condannati. Dopo la condanna pronunciata dal suo divin Figlio, Ella si uniforma alla giusta sentenza. E se la Madonna non viene, Ella che è madre di misericordia e di speranza, segno è che ogni misericordia e ogni speranza è morta. – Nell’orto degli ulivi, quando Gesù andò incontro alla masnada che veniva per legarlo, disse semplicemente : « Ecco, sono Io! ». Quelli arretrarono e caddero come tramortiti dallo spavento. Eppure erano i giorni della sua mansuetudine, i giorni dell’agnello che tace mentre lo tosano, che non bela mentre lo conducono al macello. Che sarà allora nel giorno della sua giustizia, nel giorno del leone che ruggisce ed azzanna? « Ecco, sono Io! ». Quel Gesù che hai bestemmiato, che hai baciato da traditore, che hai oltraggiato con gli sputi e le percosse, che hai messo in croce con i chiodi dei tuoi peccati. — IL GIUDIZIO. A Felice, preside di Cesarea, doveva sembrare strano quell’uomo che un suo collega di Gerusalemme, Claudio Lisia, gli mandava da giudicare con un biglietto di raccomandazione. Era giudeo e i Giudei lo volevano massacrare; frequentava le sinagoghe ed insegnava una religione nuova: non aveva ancor visto Roma ed era cittadino romano fin dalla nascita; aveva gli occhi malati e lo sguardo fulmineo: Paolo di Tarso. Il prigioniero era così interessante che il preside Felice e sua moglie Drusilla lo chiamavano spesso nelle loro sale per udirlo parlare della fede in Gesù Cristo. E Paolo parlava, senza paure: parlava di giustizia a quell’uomo che ogni giorno la calpestava; parlava di castità a quell’uomo che viveva in adulterio; e infine parlò del giudizio futuro… di quel giudizio in cui ogni peccato piccolo e grande, pubblico e occulto, contro Dio o contro il prossimo, sarà manifestato a tutto il mondo radunato e tremante ai piedi di Cristo giudice. Drusilla e Felice l’ascoltavano immobili; con la mente fissa in quel giorno finale. E Paolo con foga irreprimibile lo descriveva come «il giorno di ira, giorno di tribolazione, giorno di oppressione, giorno di sciagura, giorno di miseria, giorno di tenebre, giorno di caligine, giorno di nebbia, giorno d’uragano, giorno di squilli e di urli » (Sof., I, 15). Felice cominciò a impallidire, poi a restringersi, poi a tremare, poi scattò in piedi gridando: « Basta! per ora vattene ». Tremefactus Felix respondit: quod nunc attinet, vade (Atti, XXIV, 25). Davvero che ci vorrebbe qui S. Paolo a parlarvi del giudizio e sentiremmo tutti ghiacciare il sangue di spavento! io invece non so che ripetervi le oscure parole del Vangelo. In quei giorni si oscurerà il sole come sotto una densissima caligine e la luna rossastra non darà più luce e tutte le stelle si precipiteranno dal cielo, e tutto il cielo sarà sconvolto come da un vento furiosissimo. Simile ad un uomo che muore e scoppia in gemiti e rompe in singhiozzi tormentosi, così questo vecchio mondo balzerà da’ suoi cardini e si commuoverà fin dal profondo delle sue viscere. Allora, tra le nubi, immensa, solenne, luminosa, brillerà la croce: e sotto piangeranno tutte le tribù della terra… et plangent omnes tribus terræ (Mt., XXIV, 30). Piangerà la tribù dei ricchi, perché tutto il loro danaro in quel momento non varrà a nulla; piangerà la tribù dei prepotenti perché in quel momento saranno schiacciati; piangerà la tribù dei disonesti perché tutti sapranno le loro vergognose azioni; piangerà la tribù dei bestemmiatori perché starà per giungere Colui che han bestemmiato. E verrà. Verrà, grande nella potestà e nella gloria, camminando come un gigante sulle nubi. Intanto gli Angeli squilleranno, sul vento, ai quattro angoli della terra l’ultima adunata. E comincerà il giudizio. In alto starà Lui, Cristo, e ai suoi piedi le genti, e sorgeranno gli accusatori. Sorgeranno gli Angeli, alla cui presenza peccammo. Sorgeranno, ghignando, i demoni a cui abbiam dato ascolto. Sorgeranno tutte le creature: il fuoco, l’aria, l’acqua, la terra. Il fuoco dirà: « Io lo rischiaravo con luce e lo riscaldava con calore: egli invece ti offendeva nella mia luce e nel mio calore. Signore! dammelo che lo bruci ». L’aria dirà: « Io, ad ogni attimo, nutrivo i suoi polmoni: egli, ad ogni attimo, peccava. Signore! dammelo ch’io lo sbatta con vento furioso ». L’acqua dirà: « Io dissetavo la sua bocca e purificavo le sue cose: egli, con i peccati, insozzava l’anima. Signore! dammelo ch’io, dentro di me, lo anneghi ». La terra dirà: « Io lo sostenevo e lo nutrivo ogni giorno con erbe e con animali: egli viveva per offenderti. Signore! dammelo ch’io, vivo, lo seppellisca ». E noi saremo là, colpevoli e tremanti, in faccia all’universo… Questo è orribile ma è il meno. Noi allora, soprattutto, avremo paura di due persone: di Cristo e di noi. Se vi sembra strano, ascoltate. – 1. I PECCATORI AVRANNO PAURA DI CRISTO. La vigilia della sua morte, Gesù passò il Cedron, risalì la riva opposta tra i filari delle viti, entrò con i suoi nel giardino di Gethsemani pieno d’ombre misteriose. Era triste e solo; e Giuda veniva, veniva la coorte con fiaccole con funi con armi; già si sentiva l’urlio dei soldati e il frascheggiare del loro passo per i boschetti. Gesù, che sapeva tutto, mosse incontro a loro. « Chi cercate? ». — Gesù Nazareno. « Son Io ». Tutti stramazzarono al suolo: Abierunt retrorsum et ceciderunt in terram (Giov., XVIII, 6). Pensate: bastava una semplice parola per farli morire di spavento. Che sarà allora nel giorno finale all’udire da quelle medesime labbra l’estrema condanna di maledizione? Nel Gethsemani c’era oscuro, e i soldati non avevano potuto vedere la maestà terribile che raggiava dal volto divino, ma nel giudizio finale gli occhi sfolgoranti di Cristo Giudice s’infiggeranno, come dardi, in noi. Nel Gethsemani Gesù era triste e solo: ma nel giudizio sarà in trono, in mezzo alle legioni degli Angeli, in faccia a tutta la generazione. Nel Gethsemani Gesù era ancora l’Agnello d’amore e di perdono, ma nel giudizio sarà solo l’Agnello di giustizia e di vendetta. Se tanto, adunque è stato terribile il Signore nel giorno dei suoi nemici, nell’ora delle tenebre, che cosa sarà nel suo giorno, « nel giorno di Cristo che è giorno di fuoco? » (TERTULLIANO). Sarà l’Agnello furibondo descritto da S. Giovanni nell’Apocalisse così: « Quando il sole sarà diventato nero come un sacco oscuro, quando la luna, spenta ogni stella, girerà nelle volte deserte come una macchia di sangue, quando il cielo si sarà ritirato come un manto che si straccia in due, allora passerà l’Agnello furibondo. I ricchi della terra, i principi, i tribuni, i potenti, tutti quanti, ricchi e poveri, si nasconderanno nelle spelonche, sotto le pietre, e diranno ai monti: nascondeteci dalla faccia e dall’ira dell’Agnello perché è venuto il giorno grande della sua vendetta, e chi vi potrà resistere? Quis poterit stare? (Apoc., VI, 17). Forse io, forse voi, Cristiani, potrete resistere? Vi dico che tutti noi che siam peccatori dovremmo morir dallo spavento, se Dio lo permettesse. « Quem quæritis? ». « Iesum Nazarenum ». « Ego sum ». Son Io, risponderà Gesù, son Io, guardami! sono Io che tu hai bestemmiato, che tu hai dimenticato, che tu hai deriso. Son Io, guardami! vedi la corona di spine che punge le mie tempia: e tu, te ne ridevi di essa quando nella tua mente assecondavi ai turpi pensieri. Vedi le mie mani e le piante dei miei piedi piagate: e tu, te ne ridevi di queste stigmate dolorose quando le tue mani s’attaccavano alla roba d’altri, quando i tuoi piedi ti portavano là, dove non avresti dovuto andare mai. Vedi il mio cuore, squarciato per te: e tu, te ne ridevi del mio amore quando correvi dietro le creature, e ti pascevi d’affetti impuri, e ti divertivi nei piaceri… Ora basta: son Io, guarda, che me ne rido di te! Ego quoque in interitu vestro ridebo et subsannabo (Prov., I, 26). – 2. I PECCATORI AVRANNO PAURA DI LORO MEDESIMI. Ho ancora davanti agli occhi la visione dolorosa d’una persona cara morente; e forse mi starà, così viva, fin ch’io campi. Era tanto giovane e mite e moriva d’un male misterioso e straziante di cui, neppure i medici, sapevano dir qualcosa. Soffriva senza intermittenze da un anno e mezzo ed era alla fine. La febbre quotidiana e alta gli aveva consumato ogni fibra e seccato ogni umore, rendendolo così scarno da sembrare uno scheletro ricoperto di pelle: solo che sotto la pelle traspariva la trama violenta delle vene. Respirava penosamente: sporgendo le labbra come se volesse raggiungere un fiato che gli sfuggiva. Le orecchie bianche, la bocca rossa e sanguinante, gli occhi dilatati paurosamente quasi a raccogliere l’ultima impressione delle cose che, per lui, svanivano. Negli ultimi mesi l’avevano assalito delle convulsioni nervose che gli schiantavano il petto, che gli rompevano le ossa: una volta furono così violente che il braccio gli rimase immobile e la mano stravolta. Pure, alla fine era rassegnato. La mattina del giorno in cui doveva morire, chiese uno specchio. Si voleva negarglielo: ma come non esaudire fin l’ultimo capriccio di una persona che sta per andar via, per sempre? Gli si porge lo specchio, trovò la forza per sollevarlo e vi pose sopra i suoi occhi ingordi… ma subito mandò un grido lacerante, e lasciò cadere lo specchio, singultendo. Aveva avuto paura di sé. La bruttezza che un male fisico può produrre nel corpo, è nulla in confronto di quella che il peccato, in un istante, produce nell’anima. Quanto dev’essere orribile un’anima dopo due, tre, dieci, cento… peccati, noi non lo sappiamo neppure immaginare, ma nel giudizio lo vedremo. Vedremo sotto la luce di Cristo, venire a galla ogni colpa più occulta e coprire di schifosissime croste l’anima nostra. E quante miserie di cui quasi non sospettavamo, verranno scoperte. Tu dicevi, sì d’avere un po’ d’amore per la tua persona: ma non dicevi che questo amore della tua persona ha suscitato in te la voglia di piacere agli altri; non dicevi che per piacere agli altri hai seguito il lusso e la moda scandalosa, suscitando in altri le passioni. Tu dicevi; sì, d’attaccare discorsi cattivi; ma non dicevi che questi discorsi hanno poi raffreddato il tuo amore per la famiglia, hanno sconvolto la tua vita coniugale. Tu dicevi, sì, di mormorare del prossimo; ma non dicevi che le tue parole toglievano l’onore, lo rovinavano negli affari. Tutto questo, allora, lo vedrai in te stesso, orribilmente; Dio porrà te contro te: Arguam te et statuam contra faciem tuam (Salmi, XLIX, 21). Ti vedrai come in uno specchio e tu stesso avrai paura di te. Ecco perché i reprobi grideranno ai monti: « Cadeteci addosso e sotterrateci » Cadite super nos, operite nos (Lc., XXIII, 30). Non diranno: monti, nascondeteci la faccia del Giudice adirato, non fateci vedere, o colli, i demoni che ci tormenteranno; ma diranno: colpite noi, perché di noi abbiam paura. Il padre Bourdaloue diceva: « Signore! nel giorno del giudizio non vi pregherò di difendermi dalla vostra ira, ma tutta la grazia che vi domanderò è che mi difendiate da me medesimo ». – Nel secolo V, due fratelli ateniesi, rimasti orfani e padroni della sostanza paterna, ebbero la crudeltà di mettere alla porta e gittare sulla strada un’unica loro  sorella. Si chiamava Atenaide. Non valsero pianti e suppliche della derelitta, che dovette ramingare per la terra. Passati alcuni anni i due spietati fratelli si sentono chiamare dall’imperatore di Costantinopoli. Ci vanno e sono introdotti nella sala del trono e vedono colà seduta nello sfoggio della sua bellezza e della sua potenza… Atenaide, la reietta, la raminga, che per una sequela di casi provvidenziali era divenuta imperatrice e consorte dell’imperatore Teodosio. Ella si levò in piedi e rivolse a loro queste tremende parole: « Mi conoscete? Son  io la sorella vostra: Atenaide! » A tale vista, a tale parola, quegli sciagurati caddero come morti sul pavimento. Anche noi, coi peccati, non facciamo altro che cacciar via da casa nostra il fratello maggiore: Gesù Cristo. Ma tra pochi anni, quando ci sentiremo chiamare dalla morte, noi lo vedremo, sfolgorante in solio, e lo sentiremo dire: « Mi conoscete? sono Io il fratello vostro, che avete maltrattato: Gesù Cristo! ». –IL SANTO TIMOR DI DIO. Secondo la liturgia della Chiesa oggi termina l’anno: con Domenica ventura entreremo nell’Avvento che è preparazione al santo Natale e s’incomincerà quindi un nuovo giro di feste. Per questo il Vangelo di oggi è tutto un cader di stelle, uno squillar lungo di trombe, e un piangere di paura sotto la maestà del Figlio di Dio veniente. Cristiani, volgiamoci indietro e consideriamo se in quest’anno liturgico non abbiamo fatto nulla di cui potremmo pentirci al giudizio finale. « Quando tornerà il Figlio dell’uomo sulla nuvola del cielo a giudicare i vivi e i morti? » avevano chiesto trepidando gli Apostoli. « Nessuno, — rispose Gesù, — ve lo potrà mai dire. State però all’erta: Egli verrà come il lampo che guizza a un tratto da levante a ponente; come un padrone partito lontano per affari che torna improvviso a sorprendere i servi, come un ladro che vien di soppiatto nella notte. Guai a quelli che saranno colti nella crapula o col cuore aggravato dalle ansiose sollecitudini di questa vita bugiarda! saranno presi al laccio. Intanto il sole si oscurerà. La luna perderà la sua bianca luce. Le stelle precipiteranno. Tutte le forze del cielo saranno sconvolte. Dai quattro angoli del mondo, gruppi di Angeli lanceranno gli squilli dell’eternità, e la tromba paurosa sospingerà gli uomini a radunarsi. Ed ecco, in alto, il gran segno del Figlio dell’uomo, ed ecco sulle nubi esso Figliuol dell’uomo. Tutti esterrefatti attenderanno la sua parola. E parlerà finalmente. Lui che ha taciuto nel suo Tabernacolo per secoli e secoli, Lui che ha taciuto quando lo bestemmiavano, Lui che ha taciuto quando le anime s’ingolfavano nel peccato, Lui parlerà allora, per dire la sentenza. E dopo che Egli ha parlato, passerà e cielo e terra, ma la sua sentenza non passerà in eterno. Cœlum et terra transibunt, verba autem mea non præteribunt. Ma, purtroppo, gli uomini non rammentano Gesù e la sua promessa. Vivono come se il mondo dovesse sempre durare come è stato fin qui e non si crucciano che per i loro interessi terreni e carnali. E se ancora languidamente credono a Dio, lo relegano nel suo paradiso, e senza più curarsene di Lui, cercano di fabbricarsi nei piaceri un altro paradiso, fuori dalla sua legge. E come nei giorni prima del diluvio si mangiava, si beveva, si prendeva moglie e s’andava a marito e la gente non si avvide di nulla fino al giorno in cui Noè entrò nell’Arca e cominciarono le acque ad invadere il mondo, così sarà anche per la venuta finale di Gesù Cristo. E come avvenne ai giorni di Lot, che tutti impazzirono nei peccati, fin quando cadde dal cielo una pioggia di fuoco e di zolfo che li fece tutti perire, così accadrà alla fine del mondo. Guardate nel mondo che follia di corruzione; nessuno teme il Ladro divino che giungerà improvviso nella notte, nessuno aspetta il vero Padrone. Timete Dominum. (Apoc., XIV, 7). – 1. ECCELLENZA DEL TIMORE DI DIO. Ci preserva dal peccato. Il timore di Dio fu paragonato da S. Giovanni Crisostomo a quel forte armato che sta davanti all’atrio e non lascia passare nessuno senza ucciderlo: così, nell’atrio di un’anima il timore santo di Dio uccide ogni tentazione che vuol penetrare e mette in fuga tutti i peccati: « Figlio mio! — diceva il vecchio Tobia accarezzando il suo unigenito — Se temeremo il Signore, schiveremo ogni peccato e faremo molto bene » (Tob., IV, 23). Ci ottiene molte grazie. Come una ricamatrice si serve dell’ago pungente per introdurre nella stoffa i bei fili d’oro o d’argento o di seta variopinta, così Iddio si serve del pungolo del timore per ricamare con belle grazie l’anima nostra. E nel « Magnificat » la Madonna ha detto che per quelli che temono il Signore c’è gran misericordia di secolo, di generazione in generazione. Ci dona la tranquillità in morte. Di tutta la vita umana i momenti più terribili sono quelli dell’agonia: essere alle porte dell’eternità, sentirsi già sulla fronte alitare il soffio dell’altro mondo, udire già il passo di Dio giudice che viene. Ebbene quelli che vissero nel santo timore si troveranno bene in quegli estremi istanti, e nel giorno della morte saranno benedetti. È la vera bellezza dell’anima. Non per la forma del suo volto e del suo corpo, ché questo è vanità, ma per il timore di Dio la donna sarà lodata (Prov., XXXI, 30). È la vera ricchezza dell’anima. Tanta povera gente consuma la vita per mettere insieme un po’ di roba, un po’ di danaro, per acquistarsi un onore o un diploma. Tutte questo la morte farà svanire come il sole la nebbia. Il timor di Dio, questo è il vero tesoro! (78., XXXIII, 6). È la vera forza dell’anima. Era l’Epifania del 372. Nella cattedrale di Cesarea il vescovo S. Giovanni Crisostomo celebrava solennemente, ritto sull’altare come una colonna di bronzo nel tempio del Signore. Ed ecco entrare l’imperatore Valente che in quei giorni con odio ariano aveva perseguitato i Cattolici. Al momento opportuno, con gli altri fedeli, anche l’imperatore si presentò per ricevere la Comunione. Il Vescovo si trovava tra la potestà del Cielo e quella della terra: porgere all’indegno imperatore il Corpo di Cristo era disprezzare Iddio col sacrilegio, negarglielo era offrirsi alla persecuzione. S. Giovanni Crisostomo temette il Signore e recisamente gli rifiutò il pane degli Angeli. Al giorno dopo un bando imperiale proscriveva il Vescovo dalla città: lo videro allora lasciare l’episcopio e prendere la via dell’esilio. Era senza paura. – 2. NECESSITÀ DEL TIMORE DI DIO. Di troppe cose hanno timore gli uomini: della malattia, della miseria, della perdita di un’amicizia, della puntura di un vile insetto. E non hanno timore di Dio, l’unico di cui dovrebbero veramente temere. Osservate poi come anche il più piccolo disprezzo che gli altri fanno di noi e delle nostre cose ci offende e ci adira. Provi qualcuno a disprezzare i figliuoli davanti al loro padre e alla loro madre! provi a disprezzare i consigli di un avvocato o la ricetta di un medico, in loro presenza! provi a disprezzare la merce davanti al mercante, e l’opera davanti all’artefice! subito vedreste ire terribili, e liti, vendette, Solo Iddio, dunque si lascerà irridere? e da chi poi? Temiamo Iddio che è presente in ogni luogo e in ogni momento. Alcuni popoli barbari avevano scelto come loro Iddio il sole, perché di notte almeno — quando il sole è assente — inosservati e impunemente potessero fare tutto quello che volessero. Ingenui, ma logici! Pensiamo invece alla nostra sfrontatezza quando, peccando, offendiamo Dio in sua presenza. Ogni bestemmia, ogni furto, ogni disonestà, anche ogni pensiero e desiderio illecito Dio vede, e tace. Ma non tacerà sempre: verrà il suo giorno per parlare, e sarà al giudizio finale. Temiamo Iddio che verrà a giudicarci. Tre cose faranno cruccio ai reprobi in quel momento, in cui apparirà la maestà del Figlio di Dio: la prima perché avranno offeso un Fratello buono, e un Padre che anche allora conosceranno amorosissimo; la seconda perché s’accorgeranno d’aver perso quello splendore immenso e quella letizia senza fine in cui gli eletti saranno avvolti; la terza perché il baratro infernale è aperto sotto loro ad inghiottirli inesorabilmente. Chi invocheranno? Chi li potrà aiutare? Forse la Madonna ch’è tanto buona? Forse la Madonna che è mamma, ch’è rifugio dei peccatori? – No: la Madonna sarà la impugnatrice più valida, allora. Aman, il ministro superbo, il traditore degli israeliti, l’uomo della frode, fu chiamato nella sala del banchetto, ed egli presagendo come la sua condanna fosse imminente, s’inginocchiò tremando ai piedi della regina Ester implorando con singhiozzi pietà. Ma la regina lo riguardò con occhio duro e disse: « Ecco, o re, Aman, il nostro nemico peggiore ». In quel momento entrava un servo ad annunciare che il supplizio era pronto. « Fatelo morire! » comandò Assuero. E lo trascinarono via. Ricordate le parole di Ester: « Inimicus noster pessimus iste est Aman » (Ester, VII, 6); migliori di queste, dalle labbra della Vergine Madre, non se le aspetti al giorno del giudizio l’uomo che è senza timore di Dio. Poiché la Madonna non farà allora che ratificare la condanna pronunciata dal suo divin Figlio.

 Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desideri celesti.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato].

Postcommunio

Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (228)

LO SCUDO DELLA FEDE (228)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (2)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

SPIEGAZIONE DELLA S. MESSA

Anello che ricongiunge il cielo colla terra, perno su cui s’appoggia tutta la religione, centro, a cui mirano tutti i sacramenti, e a cui tutti i riti sono ordinati, è il Sacrificio della santa Messa. E in vero il Sacrificio, è sempre come il compendio, e l’espressione più genuina delle religioni, in cui sì pratica; sicché dove materiale e grossolano è il sacrificio, è rozza la religione: dove crudele ed empio il sacrificio, barbara e diabolica è la superstizione; dove santo al contrario e, come nella Chiesa Cattolica, il Sacrificio è divino, la Religione è santissima e al tutto divina. Anche nell’entrare nel tempio santo è dato di scorgere che le membra del sacro edificio con tutti gli adornamenti convergono al Tabernacolo di propiziazione, e tutte le immagini, che ridono d’una celeste bellezza, pare che a quello i loro sguardi rivolgano, e stiano d’intorno all’altare quasi a guardia d’onore. Poiché sull’altare cattolico stanno come scolpiti in basso rilievo gli augusti Misteri della Fede Cristiana, ed in fronte ad esso come sopra un acroterio in sublime iscrizione sta espressa tutta l’economia celeste della redenzione nostra operata da Dio: ed il Sacrificio; che sull’altare si consuma, è un vero spettacolo della misericordia di Dio. Quindi la Chiesa doveva questo augusto mistero a Lei affidato compiere con dignità; ed in esso tradurre in atto le sue credenze. Essendo poi Ella madre, e la vera educatrice dei Popoli, coi suoi riti doveva inspirare le sue idee e dare i suoi ammaestramenti ai figliuoli. Lo compresero i santi padri, e non credettero meglio aiutare questa madre, che collo spiegare le auguste cerimonie da Lei praticate nell’esercizio del culto divino, e fare ad esse partecipare i fedeli. Fin dal secondo secolo s. Giustino filosofo e martire per difendere la Chiesa in faccia ai tiranni, e farla rispettare, anzi amare da tutto il mondo, non credeva poter far meglio che esporre i riti con cui si celebravano nelle Catacombe i santi Misteri. Quindi s. Cipriano, s. Basilio, s. Giovan-Grisostomo nelle loro Omelie, s. Cirillo nelle sue Catechesi, e tutti i santi Padri alla maestà dei riti sacri si ispiravano sovente, e, facendo partecipi delle loro sublimi ispirazioni i fedeli, lì mantenevano in comunicazione continua collo spirito della Chiesa, che li praticava. E se ciò allora era bene, quando il popolo assisteva così fervorosamente alle sacre funzioni, e queste in gran parte erano anche eseguite nel linguaggio che in quei tempi ancora si parlava comunemente; per cui i fedeli assistenti alla Messa erano in continuo colloquio colla Chiesa c col Sacerdote, pare necessario di dover «piegare le belle e devote significazioni di queste auguste pratiche ora che il popolo prende ogni dì sempre più poca parte a ciò che si fa nella Chiesa e le sacri funzioni tiene quasi in conto di cosa, vorremmo dire, di professione dei sacerdoti, in cui egli non s’abbia per poco che fare. Per rimediarvi alcuni hanno voluto che si dovesse, nell’esercizio del pubblico culto abolire il linguaggio latino. Eh! bisogna pur dire che costoro non fossero informati a quello spirito di universal carità, che è l’anima della Chiesa Cattolica, che abbraccia in una sola famiglia tutti gli uomini di tutti i tempi dispersi sopra la terra, di nazione, di lingua, di colore diversi. Madre di tutti, Ella ha bisogno di una lingua, che, studiata in ogni terra, non sia il privilegio di alcun popolo del mondo. Veramente quando per esempio un fedele d’Italia si trova ad ascoltare la s. Messa celebrata dal prete nero d’Etiopia, o di color di rame dell’Oceania, sentendo sull’altare il linguaggio che parla il Pontefice in Roma; allora, si trovasse pure agli antipodi in mezzo ai più estranei popoli, sente di essere in mezzo ai fratelli, tutti figli della medesima madre, che tutti conduce per mano a ricoverarli in Paradiso (Conc. Trid. sess. XXII, cap. 8.). Inoltre, la latina lingua antica e misteriosa, non più soggetta a variare coi tempi, mentre conviene assai bene al culto dell’Essere eterno, incomprensibile, immutabile, tiene al sicuro le verità eterne da quel vortice di variazioni, che strascina gli uomini e le cose, che da loro dipendono, in mutazioni continue; e meglio la serba nella loro interezza entro le esatte forme di un linguaggio fuori d’uso e custodito da tutti (Car. Bon. lib. De rerum liturg. dove tratta del variare continuo delle lingue viventi). Pare ancora che le orazioni in lingua latina raddoppino presso la moltitudine il sentimento religioso. Ché nel tumulto dei suoi pensieri e delle miserie, onde è assediata la vita, il buon fedele, pronunciando nella sua semplicità parole a lui poco famigliari od anche sconosciute del tutto, si persuade domandar cose che a lui mancano e che non saprebbe quali. L’indeterminazione della sua preghiera la rende più graziosa, e l’inquieta anima sua, che mal conosce ciò che ella desidera, e inclinata a fare voti misteriosi, come sono misteriosi i suoi bisogni (Chateaubr.). Del resto sapendo di ripetere le parole che gli mette in bocca come a bimbo la madre, a lei si affida, e da lei unito dell’intelletto per la fede, e del cuore per la carità, vivendo per Lei in un’atmosfera più sublime d’intelligenza e d’amore, come pensa coi suoi pensieri, così gli vien bene esprimerti nelle sue orazioni in grembo alla madre colla misteriosa parola ch’ella gl’insegna (Bened. XIV. De Sacrif. Miss. lib. II, cap. 2). Sia benedetta questa Madre santissima! È nella speranza di meritare anche noi la sua benedizione, noi (se ce lo concede Iddio), vorremmo farla da interprete tra lei ed i suoi figli; ed in certo qual modo, mentre si trovano in seno a lei allora che tratta con Dio di tutti i loro più cari interessi, noi vorremmo farci a ridestar l’attenzione dei figli, quasi dire con semplicità: « vedete, ascoltate, sentite ciò che vi dice e fa la Chiesa con quelle tali cerimonie, e con quelle sante parole, che le ispira Iddio. » Troppo ben fortunati, se avremo porta occasione ai RR. Parrochi e Sacerdoti di far sovente parola dei santi riti della Chiesa, e massime della santa Messa. Perché, a dir vero, di alcuni fedeli, (e noi l’abbiamo provato nel trattare con loro nei momenti delle più sincere loro espansioni, dedicati essendo alle Missioni sante), ci sembrarono troppo meschine e ristrette le idee che hanno infatti dei più sacri misteri. Onde è che di un tempo il più prezioso e veramente accettevole appresso a Dio si fa sovente per loro un tempo di noia mortale; pel che se ne vanno volentieri lontano. Par bene adunque che bisogni aiutarli a farsi famigliari coi pensieri della Chiesa nelle sacre funzioni, e che bisogni iniziarli alla grandezza, alla profondità delle cose di Dio. E ci pare carità il dar loro la mano per sollevarli dal tempio al cielo; e, quando entrano nel luogo santo, trasportarli quasi in un’atmosfera spirituale tra le braccia della madre Chiesa a conversare con Dio. Perché essendo la Messa piena d’utilissimi e grandi misteri (Cone. Trid. sess. XXII, cap. 8.), in essa troviamo come lo spirito di tutta la nostra religione, e, col compendio di tutti i misteri, anche un’idea di tutte le obbligazioni che il Vangelo c’impone, ed una caparra di tutte le promesse, che ci fa intravedere la fede, ed anche un saggio anticipato della felicità, che ci appresta la misericordia di Dio. Ah! quando conosceremo la forza e il valore di tutte le cerimonie alla grande oblazione consacrate, nel vedere Gesù, che mai non si spoglia della qualità di vittima, che si sacrifica, e resta in mezzo a noi, intenderemo, che la nostra con lui non deve essere una unione passeggiera, ma in ogni tempo, in ogni circostanza ci dovremo considerare come vittime da immolare con Lui nel sacrificio della vita cristiana, e vivere del cuore sempre uniti con Lui. Perciò, affinché non manchi questo sostanziale pascolo alle agnelle di Gesù Cristo, ed affinché i pargoli non chiedano pane, se non vi sia chi loro lo spezzi in mano, comanda la Chiesa, che spesso nella celebrazione della Messa ai fedeli raccolti si spieghi ciò che si legge e si pratica nel Sacrificio, e specialmente nei giorni di festa (Conc. Trid. sess. XXII, De Sac. Mis., cap. 8). – Come fecero, e fanno già molti, anche noi vorremmo aggiungere l’opera nostra. Desiderosi di farlo nel povero modo, che per noi si possa, abbiamo abbracciato anche tutte le occasioni, che ci si presentarono, per parlare di altri riti e di altre istituzioni, come chi gode di parlare coi fratelli di tutte le cose, che appartengono alla comune madre carissima; anche nella speranza di dare in mano ai fedeli, fossero pure neofiti, un Libro che basti a farli istruiti degli usi, per dir così, più comuni della nostra Chiesa, e metterli in comunicazione coi fratelli, che ci precedettero in paradiso; coi quali, benché siano in cielo, noi qui in terra facciamo una sola famiglia, quando siamo nella Chiesa Cattolica. – Abbiamo diviso tutta l’opera nostra in tre parti; cioè: La Preparazione, — Il Sacrificio. — Il ringraziamento della Messa. Ma prima è a dire che cosa sia il Sacrificio della santa Messa, ed il perché il Sacrificio si chiami Messa. Cominceremo pertanto da questo nome.

LA GRAZIA E LA GLORIA (47)

LA GRAZIA E LA GLORIA (47)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO V

Sulla natura della visione beatifica. L’atto in sé e le sue proprietà.

1. – Questo studio sulla visione beatifica rimarrebbe incompleto se non parlassimo dell’atto stesso, dopo averne considerato il principio e l’oggetto immediato.  La prima domanda che sorge è la seguente: questa operazione sarà unica e sempre la stessa, oppure dobbiamo credere che sarà uguale ai nostri pensieri attuali, cioè che ci sarà una molteplicità ed una successione di atti? – Innanzitutto, diciamo che è con un solo colpo d’occhio, con lo stesso atto, che gli eletti contemplano sia Dio che tutto ciò che vedono in Dio. – Questa risposta deriva chiaramente dalle nozioni che abbiamo stabilito: Infatti, la forma ideale che determina la loro intelligenza, cioè l’oggetto soprannaturalmente intelligibile che la penetra con la sua luce e la feconda, è infinitamente una. Pertanto, poiché l’operazione risponde alla forma ideale, non potrebbe essere multipla, senza che vi sia, per questo stesso fatto, un totale rovesciamento delle leggi intellettuali. Se ci è difficile concepire questa immensità con un solo sguardo, è perché, allo stato imperfetto della nostra conoscenza naturale, con un’intelligenza in cui ogni oggetto è dipinto nella sua particolare e limitata somiglianza, noi non possiamo comprendere la potenza e l’efficacia di questa forma unica, in cui si riassumono ogni luce ed ogni verità. – Uno per ogni momento della durata, l’atto dell’intuizione divina sarà sempre lo stesso, identico in se stesso, senza fine, senza intermittenza o successione, eterno di conseguenza? Sì, tutte queste proprietà sono le sue. – Nessun termine: perché noi saremo sempre con Dio (I Tess. IV, 16). E sarebbe con Dio colui che smettesse di contemplarlo faccia a faccia? Perché la visione beatifica dovrebbe avere una benché minima interruzione? È forse perché l’essere su cui si appoggia sarebbe destinato a perire, o a svanire per un istante? Ma Dio, che è l’oggetto di questa visione, è l’eternità stessa; ma l’anima, che è il suo solo soggetto e principio intimo, è immortale. È forse perché la forma ideale che illumina l’intelligenza si ritirerebbe da essa o subirebbe una qualche eclissi? Ma i doni di Dio sono senza pentimento; e se Egli si allontana, se si allontana da un’anima, è perché essa stessa ha posto la causa di questo abbandono. È perché i figli di Dio si staccherebbero dal loro Padre? Ma, come spiegheremo presto, l’anima che Lo contempla diventa impeccabile, immobilizzata com’è nella perfezione dell’amore. – È perché, infine, le influenze esterne, agendo su questi spiriti beati, potrebbero turbarli nella loro estasi e distrarli dalla vista del loro Dio? Certamente comprendo questi ostacoli e distrazioni nella nostra condizione attuale. Non si può rimanere a lungo fissi nella stessa contemplazione, anche se la volontà non risparmia sforzi per eliminare tutto ciò che potrebbe distogliere la mente da essa. Questo perché l’esercizio delle nostre facoltà più elevate, pur non avendo come principio un organo materiale, è in una dipendenza necessaria e continua dai sensi, dall’immaginazione e da mille altre cause diverse che lo disturbano o, almeno, ne cambiano la direzione. Ma niente del genere può raggiungere l’anima del vedente, perché la contemplazione che egli ha del suo Dio non è vincolata da alcun attaccamento alle funzioni delle facoltà inferiori. – Scendiamo ancora di più, se è possibile, nella profondità delle cose. Perché nella mente creata si passa così spesso da un pensiero all’altro? È perché in ogni nostra potenza di conoscere essa non è entrata in azione solo che in modo molto incompleto; in altre parole, è perché la forma ideale che agisce su di essa non ha conquistato così pienamente la forza vitale dell’intelligenza che una seconda forma non può afferrarla nello stesso momento a scapito della prima. Ma quando l’essenza infinita di Dio si è, per così dire, infusa nelle profondità dell’intelletto per applicarlo interamente alla contemplazione delle sue bellezze, quale altra immagine potrebbe essere mai tanto potente da sostituirla? Che cos’è? Ci potrebbero essere per lo studioso, l’artista o il Santo di quelle visioni così impressionanti che nessun rumore esterno, nessuna eccitazione sensibile sia talvolta sufficiente a distrarli dalla loro estasi. E Dio, l’eterna Verità, che si rivela con tutto il suo splendore, permetterebbe a non so quali cause create di interrompere l’estasi in cui la sua vista pone le anime?  Del resto su questo grave soggetto abbiamo le affermazioni ben espresse da Benedetto XIII nella Costituzione già menzionata; in essa vi si legge, infatti, che la visione intuitiva e il godimento beatifico che ne deriva devono persistere « eternamente, senza interruzione né rilassamento » (cfr. L. IX, c. 2). –  San Tommaso ha detto tutto in due parole: « Questa operazione è unica ed eterna » (Hæc operatio in eis est unica et sempiterna) 1. 2, q. 3, a 2 ad 4. « Creaturæ spirituales quantum ad affectiones et intelligentias in quibus est successio, mensurat tempore… Quantum vero ad eorum esse naturale, mensuratur ævo; sed quantum ad visionem gloriæ participant æternitatem ». Id. 1 p., q. 10. a. 5, ad 1). Unico: quindi senza molteplicità; eterno: quindi senza successione o fine. Che cosa ammirevole è questa contemplazione del nostro grande Dio! Lo abbiamo ben compreso: tutta la verità, tutta la bellezza, tutto lo splendore, visti e posseduti in un solo sguardo in quel presente unico e immobile che si chiama Eternità!  Un sant’Ignazio, dopo un’estasi di otto giorni interi, torna, per così dire, in mezzo ai mortali e si meraviglia di sapere che la sua estasi sia durata più di un momento. Chiedete agli eletti ai quali la morte del Redentore ha aperto le porte del cielo e chiedete loro da quanto tempo godono del volto del Signore; e se il buon Dio lo permette, risponderanno: “Per noi c’è solo un momento, ma un momento che non passa e non tramonta, perché non appartiene al tempo ma all’eternità” (S. Thom., c. Gent. L. III, c. 62). – Sì, ora capisco il significato profondo contenuto nelle parole del mio divino Maestro: « La vita eterna, o Padre, è che conoscano te, l’unico vero Dio, e Gesù Cristo che Tu hai mandato » (Gv. XVII, 3) e di queste altre che l’Evangelista ha posto dopo la sentenza finale: « E i giusti andranno alla vita eterna » (Mt. XXV, 46). La vista di Dio è la vita nel suo atto più perfetto, perché è un’operazione dell’intelligenza, la più sublime che si possa immaginare per quanto riguardi l’oggetto e il modo di raggiungerlo, poiché l’Uno è l’Essere per eccellenza, e l’altro, un’intuizione. È la vita eterna, perché da qualsiasi lato si guardi questo atto di vita, sia che lo si consideri in sé, sia che se ne esamini il principio e l’oggetto, non troviamo nulla che dia l’idea di successione, nulla che richiami la possibilità di un cambiamento. Allora, come dice in modo eccellente il grande Agostino: « I nostri pensieri non fluttueranno più da un oggetto all’altro, per poi tornare a quello che hanno lasciato: un colpo d’occhio  abbraccerà tutta la nostra scienza. » (S. August., De Trinit. L. XV, c. 16. Nulla è così bello come i passi delle Confessioni in cui il grande Dottore parla della felicità immutabile degli Angeli, di quella felicità che speriamo sarà la nostra. « Volete negare che esista qualche creatura così elevata e così unita da un amore casto al vero Dio, al Dio veramente eterno, che pur non essendo co-eterna con Lui, non si separa mai e non si ritira da Lui per cadere nei cambiamenti del tempo, ma riposa sempre nella contemplazione beata e perfetta di Dio? Perché, amandovi, Signore, quanto lo comandate vi mostrate ad essa, e gli bastate così tanto che non si allontana mai da Voi, nemmeno per rivolgersi a se stessa. Questa è la casa del Signore, non una casa terrena o celeste, avente la natura dei corpi, ma una casa tutta spirituale e partecipe della tua eternità, perché è senza macchia e lo sarà sempre… Essa procede da Voi, o mio Dio, eppure è completamente diversa da Voi e non è Voi stesso. È vero che non troviamo il tempo prima di essa o in essa, perché essa contempla sempre il vostro volto e non distoglie mai lo sguardo da esso, il che la rende immune da ogni cambiamento; tuttavia, in virtù della sua nativa mutevolezza, potrebbe diventare oscura e fredda, se la grandezza dell’amore che la unisce a Voi non ne facesse un pieno giorno tutto risplendente ed ardente con i vostri fuochi. » Confessioni, L. XII, c. 5. E altrove: « Che queste gerarchie di Angeli, innalzate sopra i cieli, cantino incessantemente le vostre  grandezze; spiriti benedetti che non sono obbligati a considerare questo firmamento delle vostre sante Scritture per leggere e conoscere la vostra parola. Essi vedono sempre il vostro volto e, senza l’aiuto delle sillabe del tempo, vi leggono i consigli della vostra volontà eterna. Essi li leggono, li abbracciano, li amano, li leggono sempre, e ciò che leggono non passa… Il loro libro non si chiude affatto e non si chiuderà mai, perché Voi stesso siete quel libro, e lo sarete in eterno. »- Id, ibidem, L. XIII c. 5).

2. – Eppure, questa visione, per quanto sì unica e perfetta, non esclude le confidenze particolari in cui Dio rivela ai suoi eletti sia i liberi consigli della sua volontà, sia dei fatti contingenti che non ha mostrato nella sua essenza. Essa non esclude gli atti di conoscenza più o meno moltiplicati che rispondono ad immagini create, acquisite naturalmente o infuse divinamente. – Ecco come gli spiriti angelici, sebbene fossero investiti dalla luce divina come da un sole, non abbiano appreso che solo più tardi dei tempi fissati per l’Incarnazione del Verbo e di molte circostanze del mistero; come i Dottori, e in particolare il grande Areopagita, ci parlino di illuminazioni che discenderebbero dal cuore di Dio fino agli ultimi ordini degli Angeli, passando per gli Ordini più elevati. Ecco soprattutto, perché i teologi siano concordi nel riconoscere nel Dio fatto uomo, oltre alla scienza dei comprendenti, cioè la visione beatifica, una scienza infusa ed anche una scienza acquisita. Dio, che è magnifico nei suoi doni, vuole che l’intelligenza dei suoi eletti riceva tutti i tipi di perfezione di cui è capace. Ma le Sue elargizioni non vanno contro l’ordine essenziale delle cose; e per quanto brillanti possano essere questi astri secondari illuminati nel cielo degli spiriti beati, tutti impallidiscono di fronte all’unica e sempre presente intuizione, come le stelle davanti al sole. Essa sola in effetti, riproduce in pieno il modo di conoscenza naturalmente proprio di Dio; quello, di conseguenza, che è la sostanza stessa della beatitudine eterna.

3. – Vorrei soffermarmi per qualche istante ad esaminare alcune idee sulla visione beatifica che io trovo espresse in opere recenti. Se si dovesse credere agli autori, Dio non si fermerà nella manifestazione che Egli stesso fa ai suoi eletti. Contemplando il Suo volto adorabile, non smetteranno di scoprirvi nuove perfezioni; e, man mano che il loro amore aumenta in proporzione alla loro conoscenza ci sarà un progresso continuo, un progresso indefinito nella beatitudine, senza altri limiti che quelli dell’eternità. – Due considerazioni, una tratta dalla natura di Dio, l’altra da quella della creatura intelligente, sembrano decisive a favore di questa opinione. Dio non sarebbe il Bene sovrano se non tendesse a diffondersi: questa è il suo bisogno e la sua legge; e ce lo mostra chiaramente, poiché, secondo la bella formula di Sant’Agostino, ogni suo beneficio è il pegno di una generosità più abbondante: « beneficia Dei, beneficia et pignora ». Possiamo essere convinti che queste effusioni della generosità divina si esauriranno in cielo e che Dio pronuncerà lì quella parola che non ha mai pronunciato quaggiù: satis, basta così? D’altra parte, la natura creata non può accontentarsi di una felicità che sarebbe sempre la stessa. Una vita senza progresso e come immobilizzata, non può essere la vita perfetta, perché la vita è movimento. E poi, non c’è il rischio che uno spettacolo, per quanto delizioso, generi una sorta di noia, se nuove sorprese e più meravigliose estasi non ne dissipano la monotonia? – Se tutto questo non avesse altro scopo che quello di ammettere, al di fuori della visione beatifica, certe manifestazioni divine e certe conoscenze che si susseguono nelle intelligenze glorificate, ci sarebbe motivo di sottolineare l’esagerazione dei termini e ancor più l’inanità delle prove; tuttavia, la conclusione non presenterebbe nulla di inammissibile in sé. Ma sono in gioco l’atto essenziale e la visione beatifica. Ora, da questo punto di vista, che è il suo, la nuova dottrina, lungi dal poter contare, come pretende, sulla natura della beatitudine o sulla perfezione divina, vi trova la sua confutazione. – Voi pretendete che la bontà infinita di Dio non possa essere spiegata senza una generosità sempre più abbondante. Dimenticate che se non ha detto « basta » durante la durata della prova, è perché i suoi figli erano allora in fase di crescita, e che l’uso santo dei benefici ricevuti li stava preparando ad altri benefici. Ma in cielo, c’è lo stato dell’uomo perfetto. Il vaso è pieno, e piena è la misura. Fin dal primo momento, il veggente ha messo nel suo sguardo tutta l’energia, tutta l’ampiezza di cui il giudizio di Dio lo renda capace. Estendere il campo visivo richiederebbe un aumento della grazia santificante, un perfezionamento nella luce della gloria: infatti l’atto è adeguato al suo principio. La freccia è entrata nell’oceano di luce fin dove la spinta dell’amore poteva portarla, e l’amore stesso non aumenta, poiché gli eletti sono arrivati alla fine. – Inoltre, le prodigalità di Dio, lungi dall’arrestarsi, continuano a scorrere a fiotti più che mai, perché questo splendore di gloria Egli lo conserva, questa suprema perfezione di conoscenza, è costantemente sua. Ammirate la bontà divina quando solleva il sole sopra l’orizzonte delle anime, e la giudicate meno benefica quando le annega costantemente nella luminosità di un eterno mezzogiorno? – Ancora si obietta invano che una vita senza movimento non sia una vita. Lo ammetto, non c’è vita senza movimento; ma ammettete, a vostra volta, che il movimento che rende la vita perfetta non portI con sé né cambiamento, né successione, né progresso, poiché tutto ciò non è altro che il passaggio dalla potenza all’atto, e presuppone l’imperfezione della vita stessa. Se esiste una vita sovranamente piena e sovranamente perfetta, questa è la vita divina, essendo Dio stesso la sua vita. È un movimento infinitamente perfetto, perché è un atto infinitamente puro; è un movimento infinitamente immobile, perché è eterno ed immutabile per eccellenza. L’immobilità del cadavere è la totale privazione della vita; l’immobilità nella contemplazione della bellezza suprema ne è il suo possesso più completo. Quindi, per concludere, la vita degli eletti sarà tanto più perfetta quanto meno mobile, meno mutevole e meno progressiva. –  Non temete che questa visione di Dio, sempre uniforme, sempre uguale, alla fine diventi monotona e stancante. « Niente – dice il Dottore Angelico a questo proposito – niente è noioso in ciò che contempliamo con costante ammirazione, perché dove rimane l’ammirazione, rimane anche il desiderio. È impossibile che la sostanza divina non susciti eternamente l’ammirazione dello spirito creato che la contempla: perché se può vederlo, non potrà mai comprenderlo » (S. Thom, c. Gent, L. III, c. 62. Cfr. L. IX, c. 4). Un’osservazione profonda che, ben meditata avrebbe messo a tacere ogni scrupolo. – « Capisco la noia di fronte al traguardo di qualsiasi bellezza diversa da quella infinita, essa può nascere dall’oggetto stesso; ad esempio, quando scopro delle imperfezioni che all’inizio non mi avevano sconvolto. Essa può avere la sua origine dal lavorio o dalle preoccupazioni che accompagnano il godimento: è un bel concerto, ma io soffro, … ma gli affari urgenti mi chiamano; se si prolunga, la mia attenzione è divisa e presto il disgusto segue il piacere. E poi, non è possibile che una facoltà sia soddisfatta, senza che le altre abbiano il piacere che richiede? Infine, per il fatto stesso che ciò che vedo o ascolto è di una bellezza finita, né la mia intelligenza né il mio cuore si saziano pienamente; da qui l’inquietudine, l’ansia, quando, dopo l’eccitazione iniziale, si avverte il vuoto. – Ma, o bellezza sempre antica e sempre nuova, non c’è nulla di simile da temere per i figli che ammettete a vedere il vostro volto: né i difetti sconvolgono, poiché siete tutta la perfezione; né la stanchezza che irrita, poiché il corpo e gli organi, fossero ancor passabili, non hanno parte nell’operazione più spirituale che si possa concepire; né l’inquietudine nelle facoltà inferiori dell’anima, poiché la visione di Dio non prescinde dalla loro completa perfezione; né il sentimento di vuoto, poiché riempite pienamente tutta la capacità dello spirito che vi contempla. » (S. Thom, IV, D, 49, q. 3, a. 2, ad 3.).  Se, nonostante queste risposte, continuate a sostenere che la semplice continuità della stessa intuizione non può soddisfare perennemente la nostra sete di conoscenza, vi chiederò come fa Dio a non stancarsi della comprensione che ha di se stesso, Egli il cui sguardo è l’immutabile eternità?

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (9)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (9)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

2. – La Vita Sacramentale.

Non è la S. Messa l’unico mezzo di grazia e di progresso per la vita spirituale, ossia, non ci stanchiamo di ripeterlo, per la formazione dell’uomo perfetto. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto ch’Egli è venuto non per distruggere ma per compire, e la storia ha dimostrato la verità delle sue parole. Il Cattolico, ogni vero Cristiano, crede che seguendo Lui e usando i mezzi ch’Egli ha messo a nostra disposizione, l’individuo raggiunge il livello massimo in questa vita e per la futura, e nell’aderenza a Lui e alla sua legge s’innalza e si nobilita anche tutto il tenore della vita sociale collettiva. Egli crede che in ciò appunto consista la civiltà cristiana, e che obbedendo ai suoi comandi e in nessun altro modo si sia prodotta nell’umanità quella grande rivoluzione al cui confronto nessun’altra regge. Ora, fra i mezzi che Cristo ha messo a nostra disposizione, alcuni ve ne sono così semplici in se stessi da poter sembrare addirittura banali, ma, nella loro efficacia e a motivo del loro significato, assolutamente fondamentali di tutto il pensiero cattolico. Sono i sette sacramenti. Il cattolico sa che vi sono alcune cerimonie esteriori, alcuni atti o segni, istituiti e indicati, almeno in ciò ch’è loro essenziale, nella materia e nella forma, da Nostro Signore stesso. –  Queste cerimonie o atti compiuti secondo quanto Egli ci ha ordinato, con l’intenzione ch’Egli ebbe nell’istituirli e in prova della nostra fede nella sua parola e della nostra adesione a Lui, conferiscono all’anima per virtù propria qualche grazia speciale, qualche segno particolare della sua bontà che in nessun altro modo si potrebbe ricevere. Sapeva Cristo come la natura umana tenda ad essere attratta e impressionata dal cerimoniale esterno, dalle manifestazioni visibili e dal simbolismo sensibile. Una stretta di mano, il saluto di un superiore, una semplice parola, anche se convenzionale, uno sguardo, un gesto, un accento, tutte queste cose e molte altre ancora, trascurabili in se stesse ed insignificanti, possono invece diventare nei rapporti fra uomo e uomo così espressive e significative che la vita ne risulta tutta intessuta e anzi è da esse diretta. Sono segni materiali esteriori che contengono un intimo significato ed esprimono più delle parole, più preziosi dell’oro e dell’argento; sono riti sacri, in un certo senso sacramenti naturali che cementano la fratellanza umana in proporzione diretta della esiguità del loro valore intrinseco. – Non può quindi meravigliarci che, nella sua infinita bontà e quasi adeguandosi alla nostra piccolezza, Dio abbia voluto, per mezzo di Cristo suo Unigenito, stabilire certi segni esteriori o convenzioni fra Sé e l’uomo, certi atti o pegni in cambio dei quali l’uomo riceverà da Lui particolari prove della sua benevolenza e del suo amore. Ecco i sette sacramenti, che non sono soltanto segni di grazia ricevuta, ma essi stessi conferiscono la grazia, in questo senso che il fedele, il quale compie l’atto esteriore secondo lo spirito di Gesù Cristo che l’istituì e con le disposizioni ch’Egli richiede, immediatamente riceve la grazia che l’atto è inteso a significare. Come fra due persone una stretta di mano dopo un diverbio esprime non soltanto il pentimento dell’una e il perdono dell’altra, ma indica pure che sia il pentimento che il perdono sono stati effettivamente offerti ed accolti, così i sacramenti conferiscono le loro grazie speciali non soltanto in virtù delle disposizioni e dei meriti di chi li riceve, ma di per sé e per virtù loro propria. Le conferiscono oggettivamente e indipendentemente dal soggetto che li riceve, quali strumenti vivi nelle mani di Dio e per i soli meriti di Nostro Signore Gesù Cristo. “Fa questo — dice il Padre al figlio — dammi questa prova di sottomissione e di fiducia, e Io ti darò ciò che Io solo posso dare. Ecco perché il Cattolico tiene in sì gran conto i sacramenti. Essi costituiscono un elemento necessario, senza del quale la sua vita non può debitamente funzionare. Sono le vene del corpo che, dal centro, ossia dal cuore di Cristo, portano ad ogni membro il sangue della vita; sono i canali per cui le acque vive fluiscono all’orto concluso. Il Cattolico fa della fede nei sacramenti un tratto distintivo della sua religione in azione; si può quasi dire che la sua devozione e la sua frequenza ai sacramenti diano la misura della sua stessa fede. Ed è vero: quando si dice di un Cattolico che si accosta o meno ai sacramenti ogni altro Cattolico comprende subito che cosa significhi e non occorre dir altro. – Non sarà quindi fuor di luogo indugiare un istante sulla portata di ciascuno dei sette sacramenti nella Chiesa Cattolica. Sono, come abbiamo spiegato, dono gratuito di un Dio che ci ama, dono più grande e più bello di qualsiasi beneficio possiamo altrimenti ricevere. Da noi dipendono solo in quanto compiamo ciò che si richiede per riceverli, e, ciò fatto, sono essi che riversano sull’anima nostra in sovrabbondanza la grazia acquistataci dai soli meriti di Gesù Cristo. Ogni sacramento conferisce una grazia propria; ciascuno fu istituito per una circostanza particolare, per rispondere a uno speciale scopo o bisogno della nostra vita rituale, tanto grande è l’amorosa provvidenza del nostro Dio. – Così, nel Battesimo l’anima viene iniziata alla sua carriera spirituale, nasce di nuovo, e abbiamo già visto come effettivamente si compia questa rinascita. Il battezzando era prima un essere umano e nulla più, senz’altri diritti che quelli umani; battezzato, diventa un essere nuovo, con diritti proprî alla vita eterna. Riceve la grazia della rigenerazione spirituale, si purifica del peccato d’origine, il funesto effetto della caduta del primo uomo di cui abbiamo parlato altrove. Si crea nell’anima per il Battesimo “l’uomo nuovo”, rigenerato, “nato dall’acqua e dallo Spirito Santo” che vive della vita di Gesù Cristo. Come San Paolo arditamente si esprime, muore nel Battesimo l’uomo vecchio, l’uomo semplicemente naturale; l’anima è sepolta con Cristo, e con Lui risorge per vivere ormai una vita nuova che è la stessa vita risorta di Lui, una vita eterna, con tutti i diritti e le esigenze che le sono inerenti. « Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo i battezzati nella morte di Lui? Siamo stati dunque sepolti con Lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché, come fu resuscitato Cristo da morte per la gloria del Padre, così camminiamo ancor noi in novità di vita ». (Rom. VI, 3, 4). « Difatti quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo ». (Gal. III, 27). “Sepolti con Lui nel Battesimo, nel quale anche siete stati con Lui resuscitati per la fede nell’onnipotenza di Dio che Lui resuscitò da morte”. (Col. II, 12). Da questi testi e da altri simili possiamo facilmente dedurre che, nel pensiero di San Paolo e di tutti i primi Cristiani, il sacramento del Battesimo aveva un duplice significato ed effetto. Dava in primo luogo la morte al peccato, la grazia della crocifissione spirituale della natura inferiore, dell’ “uomo vecchio”, per la quale grazia l’anima è fatta capace di combattere e dominare le proprie inclinazioni cattive. E conferiva in secondo luogo la grazia della rigenerazione spirituale, ossia incorporava l’anima battezzata a Cristo suo Signore, ammettendola alla sua stessa vita e ponendola in grado di parteciparvi. La sollevava ad un’altezza in cui avrebbe potuto vivere in conformità al desiderio e all’esempio di Lui, diventando così un Cristiano perfetto, un altro Cristo. Ma di conseguenza, come San Paolo non si stanca mai di ripetere, si veniva a formare da parte del battezzato un impegno corrispondente. Essere battezzato significa accettare una responsabilità gloriosa, è vero, ed onorifica, ma sempre responsabilità, non costrizione, rimanendo intatto il libero arbitrio umano che Cristo non vorrà mai ostacolare e del quale l’anima dovrà usare da sé e per sé. Combattere dunque il peccato e le sue cause, sia nell’intimo dell’anima che nel mondo circostante, aderire a Cristo e riprodurlo in sé, tale è il compito di chi è battezzato “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. La Cresima o Confermazione è il secondo dei sacramenti che, come il termine stesso suggerisce, infonde al Cristiano nuova forza per le sue battaglie, confermandolo e consacrandolo soldato di Cristo. Quando il fanciullo si avvia alla virilità, quando giunge l’epoca in cui può venir richiesto di professare apertamente e generosamente, e forse anche a proprio rischio e pericolo, la fede e l’adesione a Cristo e alla sua divinità contro qualunque avversario, il sacramento della Confermazione gli è somministrato come arma di difesa, come baluardo è sostegno, soprattutto come antidoto al più abile dei suoi nemici, il rispetto umano, che è pura viltà per quanto generica e che trattiene tanti dalla pratica della fede che pure posseggono. La Cresima aumenta la luce della fede, dà una tranquilla sicurezza della verità anche quando la ragione non scorge che tenebre e quando l’ignoranza diviene aggressiva, genera vera letizia nel servizio di Dio quand’anche tutto il resto porti alla tristezza, alla sofferenza, al martirio. Col sacramento della Cresima lo Spirito Santo invade l’anima in una maniera nuova e così i suoi doni, già elargiti nel sacramento del Battesimo, si rinnovano e si diffondono e si accrescono. La fede è illuminata a vedere le cose migliori e messa in condizione di svilupparsi con più grande gioia e certezza, penetra più nell’intimo, diviene essenziale all’anima e ad essa connaturata. E al tempo stesso, mentre questo sacramento apre l’intelligenza a vedere e a comprendere, rinvigorisce la volontà per l’azione. Col suo aiuto si acquista maggior facilità sia a resistere al male che a compiere il bene. È questo, in breve, il sacramento della virilità cristiana che giunge provvidenziale all’epoca in cui si combattono in pieno le battaglie della vita. Il sacramento dell’Eucarestia non richiederebbe qui altre considerazioni, essendo già stato lungamente trattato altrove, sebbene in verità, per trattarlo in maniera conveniente e proporzionata alla importanza secondo il pensiero cattolico, “il mondo intero, credo, non potrebbe contenere i libri che se ne dovrebbero scrivere”. Il Cattolico l’ama come la luce degli occhi, lo considera un vero tesoro pel quale sarebbe disposto a sacrificare qualunque cosa; anzi, nell’avvicinarci al termine di questo studio, vien fatto anche a noi di chiederci se non avremmo meglio raggiunto lo scopo concentrando tutto su quest’unico argomento, dimostrando che precisamente nell’Eucarestia sta tutto il pensiero cattolico, tutta la vita della Chiesa Cattolica. In essa, tutto conduce all’Eucarestia o ne deriva. I Vangeli stessi culminano nel discorso alla sinagoga di Cafarnao e in quello dell’ultima Cena a Gerusalemme. Il primo segnava, come disse Cristo stesso, il divergere delle vie; il secondo doveva essere seguito dalla sua morte e dalla sua vittoria. Tutta l’umanità quindi sarebbe divisa secondo questo criterio: l’accettazione o meno del suo Corpo e del suo Sangue come cibo e come bevanda. L’unità cattolica non è mai meglio dimostrata e rivendicata che attorno al banchetto eucaristico; in nessun altro luogo e momento appare più evidente e più desolante la divisione degli acattolici. La dottrina stessa dell’Infallibilità si può dimostrare come conseguenza logica e necessaria del Verbo infallibile che ci diede il suo Corpo e il suo Sangue. Colui che disse: “Questo è il mio Corpo”, e poi: “Fate questo in memoria di me”, disse anche: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli”; “Chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me”. Così la Santa Eucarestia nutre insieme l’anima che la riceve e tutta la Chiesa di Dio, facendone una cosa sola con sé, la stessa infallibile Verità. Affinché sia il corpo che le membra possano sussistere e crescere, hanno bisogno di cibo adatto alla loro vita, e siccome si tratta di vita divina, solo un nutrimento divino può alimentarla. Questo ci è dato nella SS. Eucarestia, il sacramento del Corpo e del Sangue, dell’Anima e della Divinità di Gesù Cristo. Esso ci trasforma in altrettanti Cristi e ci riempie realmente, non solo metaforicamente, del suo spirito, del suo pensiero, delle sue virtù, soprattutto del suo amore vivo e fecondo. – Se l’anima ha la sventura di perdere, per il peccato, questa vita della grazia, o se si macchia di colpe veniali (chi mai potrà rimanerne esente?), allora interviene il sacramento riparatore della Penitenza a lavare la colpa, ad effettuare una nuova riconciliazione, ad infondere nuova speranza e nuovo coraggio, a mettere il peccatore in grado di riabilitarsi. In multis offendimus omnes: tutti abbiamo peccato in moltemaniere; ciascuno di noi deve dirlo di se stessoe Dio misericordioso sa che così è per noi tutti.“Se diremo di essere senza peccato, inganniamonoi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedeleper rimetterci i nostri peccati e purificarci daogni iniquità. Se diremo di non aver peccato,facciamo bugiardo Lui, e la sua parola non è innoi ». (I Giov. I, 8, 10).Gesù Cristo venne nel mondo innanzi tuttoe più che tutto “per salvare il suo popolo dalpeccato”.Di Sé parlò, più che altro, come di uno mandatomeno per i giusti che per un solo peccatoredisposto a far penitenza. Una volta sola nella suavita quaggiù provò il suo diritto divino direttamentecol miracolo, e fu quando per la primavolta osò dire: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”.Quando fu resuscitato da morte ed ebbe riunitoi suoi Apostoli, suggellò il patto strettocon loro con questa nuova missione: “Ricevetelo Spirito Santo. Colui al quale rimetterete ipeccati gli saranno rimessi”. Si è dato premura,in questa circostanza come in altre, di assicurareal sacramento della Penitenza la conferma piùmanifesta, essendo appunto questo che applica all’anima la virtù salvifica del suo Sangue prezioso.All’anima non si chiede che di confessar le suecolpe, di pentirsene sinceramente, di risolvere confermezza di non più peccare, e in virtù dell’assoluzioneessa è perdonata. Imporre condizioni ancorpiù facili sarebbe stato indegno di Dio e dell’uomo;una volta che la contrizione sia sincera, ègarantito un perdono completo e risanatore, dellanatura stessa di Dio.Vi è un’altra ora di debolezza alla quale haprovveduto l’amorosa condiscendenza del Signore.Quando la morte viene a battere alla nostra portaabbiamo ancora bisogno di esser rinvigoriti e aiutati,per quanto lo possano ausili umani e divini, a procedere verso il trono del Dio vivo, il Giusto Giudice al quale nulla rimane nascosto, al cui cospetto nemmeno gli Angeli son puri. Può darsi che le nostre colpe passate ci inducano all’avvilimento o al timore o, quel che è peggio, può darsi che nella durezza di un cuore ostinato non sentiamo alcun dolore dei nostri peccati. Anche le debolezze presenti, più o meno gravi, potrebbero farci tremare alla prospettiva del giudizio imminente, o, cosa più tragica, l’anima potrebbe varcare la soglia dell’aldilà in un atteggiamento di sfida ostentata. Allora si somministra al malato il sacramento dell’Estrema Unzione per fortificarlo o per dargli coscienza dell’istante fatale. Si ungono con l’olio consacrato gli organi di tutti i suoi sensi, le porte dalle quali può essere entrato il peccato, e nello stesso tempo si versa sull’anima una grazia di consolazione e di rinnovamento spirituale. La durezza del cuore cede alla verità, i resti della colpa vengono cancellati, la fiducia si ravviva, l’anima riceve forza per vincere le ultime prove e tentazioni, ed è tutta invasa da quella speranza espressa da San Paolo quando asseriva di aver combattuto la buona battaglia e si rallegrava al pensiero della corona che l’attendeva. E lasciateci concludere con un’osservazione a proposito di questo sacramento. Molto si parla di miracoli ottenuti dalle preghiere e dalle devozioni dei fedeli; noi crediamo che quelli operati dall’Estrema Unzione li superino tutti. Ogni sacerdote che abbia esperienza di moribondi ha probabilmente avuto occasione di meravigliarsi delle vie di Dio a loro riguardo, in grazia alle quali i fedeli ricevono questo sacramento anche con mezzi straordinari e, quando l’abbiano ricevuto, sono inondati in maniera evidente delle sue consolazioni naturali e soprannaturali. – Notiamo che questi cinque sacramenti sono dati per santificare l’anima singola e provvedere a tutti i suoi bisogni individuali quaggiù. Vi è il sacramento dell’inizio e quello della fine, e v’è il sacramento della maturità che è la Confermazione. Vi sono i sacramenti che conferiscono la vita: la Penitenza, risanando l’anima caduta, e l’Eucarestia, nutrendola del pane vivo che è Cristo. Ma ve ne sono altri due. Non essendo l’uomo solamente individuo, ma anche membro di una società, anzi di una duplice società, quella spirituale e quella temporale, per stabilirlo e confermarlo in ciascuna di esse sono stati istituiti altri due sacramenti che lo consacrano e lo santificano per i doveri che ciascuna li impone in relazione agli altri uomini. – Primo, il sacramento dell’Ordine. Esso dà ai ministri della Chiesa i poteri conferiti agli Apostoli da Nostro Signore Gesù Cristo, poteri che essi dovevano trasmettere ai loro successori, essendo la Chiesa destinata a vivere e ad operare in ogni tempo. Sono il potere di consacrare la Santa Eucarestia alla Messa, di assolvere dai peccati in nome di Cristo, di amministrare gli altri sacramenti, e anche il compito di andare a predicare il suo Vangelo. E oltre ai poteri, il sacramento conferisce anche la grazia corrispondente. La grazia cioè per chi è ordinato Sacerdote di diventar degno di questi poteri, di vivere in modo sì alto da esser davvero in tutto “servo fedele”; e in particolare un aumento di carità, di amore per la persona di Cristo ch’egli rappresenta, per il SS. Sacramento di cui è nominato custode, per le anime alle quali consacra la vita. Gli è data forza per accettare la sua responsabilità con cuor lieto e generoso, per dimenticarsi e, se occorra, per sacrificarsi in unione al Maestro che lo ha scelto e lo ha posto “affinché porti frutto e il suo frutto rimanga”. Chi non è sacerdote non può conoscere appieno il significato di queste grazie; per lui invece esse sono tangibilmente reali, tanto da modificare tutta la sua concezione della vita e anche il suo atteggiamento verso di essa. – Finalmente c’è la famiglia, l’unità da cui sorge la società, la distruzione della quale è sempre stata sinonimo di distruzione della società. La famiglia è sacra per natura, e Gesù Cristo che venne “non a distruggere, ma a compire”, volle renderla ancor più sacra con la sua benedizione e la sua santificazione. Egli ha reso assai più saldo di qualsiasi contratto umano il patto che assicura l’unità della famiglia: l’ha innalzato a dignità di sacramento così che nulla e nessuno possa separare ciò che Dio ha congiunto. Il sacramento del Matrimonio dà agli sposi una fiducia reciproca che nessun legame umano può dare, infonde anche la grazia e la forza di incontrare quegli obblighi dall’adempimento dei quali dipende non soltanto la vita loro, ma quella di tutta la società umana. Dà loro innanzi tutto, purché vogliano accettarla, la grazia di una costante e assoluta fedeltà reciproca e fedeltà al voto che l’amore li spinge a contrarre, la grazia di rispettare la santità del vincolo matrimoniale, malgrado gli istinti della natura corrotta. Li porta a rispettare i diritti di Dio, Signore del cielo e della terra e padrone assoluto della vita, della sua sorgente come della sua fine, affinché gli sposi siano fedeli non soltanto fra loro, ma anche verso quelle creature con le quali Dio potrà benedire la loro unione. – Così, per ogni circostanza importante della vita spirituale, per ogni dovere, individuale o sociale, Nostro Signore ha disposto nei sacramenti un apporto meraviglioso di grazia santificante, e affinché questa sia azionata, in aggiunta alla propria grazia particolare, ogni sacramento dà il diritto ad ulteriori grazie attuali che ci vengon concesse perché siamo animati alla pratica delle speciali virtù richieste da quelle date condizioni o doveri. La vita dei sacramenti è davvero sopra tutto la vita della grazia; comprendere e accettare l’una è comprendere e accettar l’altra, e quella comprensione e quella accettazione fanno la caratteristica dell’anima cattolica. Sono il substrato della sua fede che rendono facile e naturale; le pongono dinanzi il soprannaturale come realtà oggettiva alla quale le cose del tempo e dello spazio non sono che secondarie, le danno aspirazioni che superano ogni aspirazione terrena, e lo stimolo e la capacità di raggiungerne la meta. Sta all’anima che riceve la grazia dei sacramenti e ne è ispirata corrispondere a tanto dono. Si disporrà come meglio potrà ad accogliere le grazie che il suo Signore ed amico le offre, terrà in gran conto la dignità e l’onore che le derivano da ogni sacramento ricevuto, conserverà queste cose nel cuore in tutta la sua vita ordinaria, portando sopra di sé il segno di Cristo. La reverenza per i sacramenti e la premura di ricevere questi mezzi sovrani di salvezza e di unione con Dio e coi fratelli sono così caratteristiche dell’anima cattolica che i nemici stessi se ne rendon conto e, a quelle, la riconoscono.

LA VITA INTIMA DEL CATTOLICO (10)

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO IV

La natura della visione beatifica. L’oggetto principale e gli oggetti secondari.

1. – Cominciamo con l’oggetto principale di questa visione beata. Cosa vedremo? Ciò che Dio stesso vede in sé. Ciò che Egli è nella sua essenza, cioè l’infinita pienezza dell’Essere, la bontà, la gloria, la santità, la potenza, in una parola, la pienezza della perfezione: perché Egli è tutto questo nell’incomparabile fecondità del suo Essere, e tutto questo è in Lui verità sostanziale, vivente, universale, eterna. Ciò che Egli è nell’intimo della sua vita divina, cioè l’infinita conoscenza che da tutta l’eternità il Padre ha della propria bellezza, e questo Verbo uguale a se stesso in cui si racconta eternamente nei suoi infiniti splendori, immagine infinitamente perfetta di un Padre infinitamente perfetto; ed ancora l’amore infinito di questa bontà, fonte di ogni bontà, da cui sia il Padre che il Figlio producono l’Amore personale, lo Spirito Santo, terza e ultima Persona dell’adorabile Trinità. – Sì, questo è ciò che vedremo senza intermediari, senza distanze, senza sforzi, senza dimostrazioni, faccia a faccia, con un’intuizione modellata sull’intuizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.  Questi grandi misteri, che nessuna intelligenza creata può concepire, e di cui non avrebbe nemmeno il minimo sospetto, se il Figlio, che è nel seno del Padre, non ce li avesse rivelati per mezzo del suo Spirito; questi misteri, dico, il mistero della natura divina, il mistero della generazione eterna del Verbo, il mistero non meno insondabile della processione dello Spirito divino, e infine il mistero di un unico Dio in tre Persone, saranno messi a nudo davanti agli occhi della nostra anima: noi vi tufferemo i nostri occhi e vedremo più di quanto non crediamo. – Non dobbiamo infatti immaginare che Dio possa mostrarsi a chi lo contempli a metà, come in frammenti. Egli è pura unità; pertanto, vederlo è vederlo tutto intero. Io posso ammirare lo splendore esterno di un palazzo, senza sapere nulla delle bellezze che contiene, perché in esso queste diverse parti sono distinte. Allo stato attuale delle mie conoscenze, io posso ancora concepire una perfezione di Dio, senza rappresentarmi le altre, ed anzi ignorandole; ma questo perché Dio, offrendosi a me solo nelle sue immagini, i concetti che io me ne formo sono necessariamente imperfetti e molteplici come esse. Ma, ancora una volta, come potrebbero i beati abitanti del cielo vedere una perfezione divina e non vedere le altre, concepire l’essenza e non contemplare allo stesso tempo ciascuna delle Persone, se queste perfezioni sono con l’essenza un’unica realtà molto semplice e molto indivisibile; e se le Persone, pur essendo distinte tra loro, sono esse stesse assolutamente identiche quanto all’essenza (Concil. Lat. IV, c. “Damnamus“)? Perciò noi vedremo Dio nella sua interezza. – Eppure, non lo vedremo totalmente, cioè non lo comprenderemo nella misura in cui è intelligibile in se stesso. La ragione che i teologi ne danno è sì manifesta che basta formularla per fugare ogni incertezza. Dio è l’Essere infinito e, poiché l’Essere e la verità vanno di pari passo, è la Verità senza limiti e senza fondo. Pertanto, Egli è infinitamente intelligibile e, di conseguenza, nessuna intelligenza infinita è in grado di conoscerlo così completamente come Egli può essere conosciuto. La luce della gloria, per quanto possa portare in alto la virtù della mente creata, non le farà mai superare i limiti essenziali imposti dalla sua natura. Solo Dio può scandagliare l’oceano di luce che è Lui stesso, fino ai suoi più profondi ed intimi recessi. Versatelo, questo oceano, in un qualsiasi altro recipiente che non sia l’immensità dell’Intelligenza divina, ed esso traboccherà da tutte le parti. Ed è per questo che gli spiriti beati saranno eternamente deliziati da una doppia ammirazione: una per l’infinita bellezza che contemplano, e l’altra per gli infiniti abissi in cui il loro sguardo si perde, e che adorano, senza mai poterli penetrare, felici di vedere le meraviglie che abbracciano, non meno felici di sapere che la bellezza che essi amano sia così infinita che solo essa può essere pienamente conosciuta e compresa.

2. – Non solo la visione delle creature beatificate non può essere, come quella di Dio, una perfetta comprensione dell’Essere infinito, ma la misura della visione non è la stessa per tutti. La gloria risponde alla grazia e la beatitudine al merito. Ciò che San Paolo ci dice sulla differenza tra i corpi glorificati è ancora più vero per gli spiriti e le anime. Tra questi ospiti dell’eterno banchetto, ci sono alcuni a cui Dio, il vero cibo delle intelligenze, si comunica più liberalmente che ad altri. Le quote di eredità sono distribuite in modo diseguale ai figli di adozione, perché portano titoli diseguali al sovrano che li dona e che si dona. Questo è ciò che Nostro Signore aveva in mente quando disse ai suoi discepoli prima di lasciarli: « Ci sono molte dimore nella casa del Padre mio » (Joan. XIV, 2). Certo, non ce n’è una che non corrisponda alla magnificenza del Padre che le ha preparate per i suoi figli; ma chi non vede che il posto che riserva agli eroi della virtù debba essere diverso, altro quel posto che attende il Cristiano in cui vede una minore somiglianza con Gesù Cristo, suo figlio primogenito. – Ora so che l’elemento principale della beatitudine, quello che determina la misura di tutte le altre, è la visione della bellezza divina. Ci sono state controversie tra i teologi sull’essenza della beatitudine. Alcuni la mettono nella visione, altri nell’amore o nel godimento, altri ancora in tutti questi atti insieme. Ma ciò che non è e non può essere discusso è che nelle Sacre Scritture, nel linguaggio della Chiesa e nel comune sentire dei fedeli, il primato spetta alla visione. Ovunque il cielo ci viene rappresentato come la città della luce (Apoc., XXI, 23; XXII, 4, 5; Is. LX, 19), e la luce si riferisce all’intelligenza che vede, prima di andare al cuore che ama e gode. « O Signore – gridano i giusti da ogni parte – mostrateci il vostro volto allo scoperto e questa sarà la nostra salvezza » In lucis regione constituasDirige in conspectu tuo viam meam… Dedisti eis lumen ut viderent te ». Offic. defunctorum. « Redemptorem tuum facie ad faciem videas, et præsens semper assistens manifestissimam beatis oculis aspicias veritatem. » Ordo commendat, animæ.). – Ciò che la Chiesa chiede per i suoi fedeli, nell’ora dell’ultimo combattimento, ciò che prega il suo Sposo di concedere loro, quando affida le loro spoglie mortali alla terra, è che, accolti nella regione della luce, possano godere della presenza del loro Redentore e contemplarlo faccia a faccia. Qual è, infine, la suprema speranza di ogni Cristiano che muore nella pace del suo Signore e nel bacio di Cristo? Vedere Dio; vederlo come è in Se stesso, vederlo come è visto da Lui, non più attraverso le ombre, ma nella manifestazione radiosa del suo splendore (1 Joan, IL, 2: 1 Cor., XII, 12; Joan, XVII, 24)? È l’amore, ne convengo, più che la conoscenza, a muoverci alla ricerca e al possesso della bontà sovrana; ma il privilegio della conoscenza è quello di renderci presente questa bontà, di averne la comprensione e, di conseguenza, di renderla veramente nostra. – Se, dunque, la beatitudine è disuguale per i figli del Padre celeste, la visione che essi hanno delle sue infinite bellezze deve avere dei gradi. Da dove può derivare questa differenza, dal momento che la stessa essenza assimila le loro menti come forma intelligibile, dal momento che la stessa Verità sovranamente unica si offre come oggetto alla loro intuizione? Di certo, non si tratta dell’intelligenza stessa. La Regina del cielo, considerata nelle sue facoltà naturali, qualsiasi perfezione il nostro amore riconosca in lei, non è paragonabile agli spiriti angelici. Eppure, chi oserebbe dire o pensare che un Angelo, anche il più sublime dei serafini, possa guardare nel seno di Dio con uno sguardo così fermo, così penetrante, così ampio come questa gloriosa Madre del Salvatore? Il genio non è né il titolo alla ricompensa eterna, né la misura in cui questa ricompensa sia proporzionata. – Le visioni dei beati sono disuguali, perché non partecipano tutti allo stesso modo all’infinita perfezione dell’intelligenza divina; in altre parole, perché la luce della gloria, principio prossimo dell’intuizione di Dio, non è infusa in loro nello stesso grado. Ora – aggiunge San Tommaso d’Aquino – la misura di questa luce non sarà la maggiore o minore virtù della natura, ma la carità. « Perché dove c’è più carità, c’è più desiderio, ed è dalla veemenza del desiderio che nasce la capacità di ricevere il bene perseguito » (S. Thom, I p., q. 12, a. 6; Gent, L. III, c. 58). – Si giungerebbe alle stesse conclusioni se si considerasse la forma intelligibile, il principio necessario dell’intuizione che mette l’anima in possesso di Dio. Infatti, se Dio vede se stesso all’infinito, perché in Lui sta la forma intellegibile che è la sua essenza, e l’intelligenza stessa sono una stessa realtà infinita, quanto più perfettamente questa stessa forma è unita allo spirito creato, tanto più completamente anche la creatura deve partecipare alla comprensione divina. Ora, come abbiamo già dimostrato, ciò che rende l’Essenza di Dio intimamente presente ad ogni creatura ragionevole, e non lo è in maniera immediatamente intelligibile che alle sole intelligenze beate, è la luce della gloria. In essa e attraverso di essa, la verità, la pienezza e la fonte di ogni verità, arriva, per così dire, alla portata del nostro raggio visivo. Pertanto, nella misura in cui questa luce diventa più intensa e brilla più intensamente, gli splendori di Dio diventeranno più intelligibili, non in sé, ma per l’infermità della nostra vista creata. – Ma è comunque possibile che, vedendo Dio nella sua totalità, non lo vediamo totalmente né ugualmente? Ciò che abbiamo appena considerato lo dimostra, anche se possiamo difficilmente immaginarlo. I teologi ed i Santi, per aiutarci a capirlo meglio, hanno cercato esempi tra le cose che, toccandoci da vicino, sono anche alla nostra portata. – Ascoltiamo dapprima i paragoni geniali di San Francesco di Sales: « Questa luce visibile del sole che è limitato e finito, è così completamente visto da tutti coloro che lo guardano, che non è mai completamente visto da nessuno, e nemmeno da tutti insieme. È così quasi come per tutti i nostri sensi: tra molti che ascoltano una musica eccellente, sebbene tutti la sentano pienamente, alcuni non la sentono così bene, né con tanto piacere come altri, a seconda che le loro orecchie siano più o meno delicate. La manna è stata assaporata da tutti coloro che l’hanno mangiata, ma in modo diverso, a seconda della diversità degli appetiti di coloro che la prendevano, e non veniva mai assaporata completamente, perché aveva più sapori diversi di quante fossero le varietà dei gusti degli Israeliti. » (S. Françoise de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. III, c. 13). Non contento di queste analogie, il Santo ci mostra anche i pesci del mare, « che godono della grandezza incredibile dell’oceano » senza aver mai visto tutte le sue spiagge; e gli uccelli, « che si muovono a piacimento nella vastità dell’aria, senza che nessun uccello, nemmeno l’intera razza degli uccelli, abbia mai raggiunto la suprema loro regione » (idem, Ibid.). – Questi esempi e altri dello stesso tipo hanno la loro utilità; ed è questo che mi ha spinto a trascriverli. Ma i nostri Dottori ne propongono un altro meno materiale, e di conseguenza meno lontano dalla verità sublime che si tratta di mettere in luce. Vedete – essi dicono – una di queste verità feconde e magistrali che si trovano alla base delle scienze umane. Tra coloro a cui il principio è conosciuto, che disuguaglianza nella misura dell’intelligenza che possiedono! Laddove l’occhio acuto del genio scoprirà un intero mondo di conclusioni che questa verità conteneva in germe, le menti più ordinarie difficilmente andranno oltre le prime conseguenze, se non si fermano il più delle volte alla semplice comprensione del principio. E questa è un’immagine di ciò che si vedrà nella contemplazione della verità sovranamente piena e sovranamente perfetta, oggetto comune dell’intelligenza divina e degli spiriti beati.

3. – Finora abbiamo parlato solo dell’oggetto principale della visione beatifica; ma questo non è l’unico spettacolo meraviglioso offerto ai figli di adozione. Dio, vedendo se stesso, con lo stesso sguardo eterno, vede tutte le cose in se stesso. È una formula il cui senso ci è conosciuto, perché abbiamo avuto l’occasione di dire ciò che essa esprime. E anche noi, contemplando Dio nella sua gloria, vedremo in Lui spettacoli che nessuna intelligenza può concepire: la loro origine, le loro relazioni, la loro storia, il loro progresso, la loro consumazione. Queste vie della provvidenza, così sante e così rette, ma a volte così misteriose che la nostra debolezza sarebbe tentata di scandalizzarsi, non saranno più un segreto per noi. Ciò che la natura e la grazia hanno di più profondo, ciò che le scienze sacre e profane presentano di più oscuro, tutto questo il più piccolo degli eletti, il più piccolo nel regno dei cieli, lo conoscerà senza errori, incertezze, non per ragionamento, né per dimostrazione, ma per intuizione, nella stessa luce in cui Dio la contempla e la comprende. – Ricordiamo, infatti, che la stessa essenza, l’archetipo primo di tutto ciò che non è Dio, il modello sovranamente perfetto di tutto ciò che, in qualsiasi grado, partecipa o può partecipare all’essere, è per gli eletti, come per Dio, la forma infinitamente intelligibile da cui procede la visione benedetta. Se dunque è, ad esclusione di tutte le altre immagini intellettuali, una ragione sufficiente perché nulla sfugga allo sguardo di Dio, può e deve essere anche osservata ogni proporzione, il principio che più eminentemente supplisce ad ogni somiglianza finita nelle intelligenze glorificate della visione dei beati. – Così l’ordine della nostra conoscenza sarà più felicemente invertito. Qui noi vediamo le perfezioni invisibili di Dio, attraverso l’intelligenza che ci viene data dalle sue opere visibili, che salgono dalle creature al loro Autore. « Essendo usciti dalla terra dell’esilio e diventati cittadini del cielo, non abbiamo più bisogno di questa scala. La creatura celeste ha davanti a sé, a portata di mano, ciò con cui contempla le cose divine. Essa vede il Verbo e, nel Verbo, ciò che è stato fatto per il Verbo. Non è più obbligata a mendicare alle opere la conoscenza dell’operaio. Inoltre, anche per conoscere queste opere, non scende fino ad esse; perché le vede dove si manifestano in una luce incomparabilmente più luminosa che in se stesso » (San Bernardo, de Considerat, L. V, c, 1, n. 1). Sarebbe temerario cercare di definire fino a che punto si estenda questa visione per ciascuno degli eletti, questa visione delle creature in Dio. Diciamo, prima di tutto, che è come la visione stessa di Dio. Vale a dire che il campo è tanto più vasto quanto più la luce della gloria e l’Essenza divina con essa siano penetrate nell’anima per assimilarla all’intelligenza increata. Ciò che è assolutamente certo è che nessuna creatura arriverà mai a conoscere in Dio tutto ciò che l’onnipotenza potrebbe realizzare al di fuori di Lui: infatti, sarebbe tutto un conoscere tutti gli esseri possibili in Dio e comprendere l’onnipotenza o, il che è la stessa cosa, comprendere l’infinita perfezione di Dio. Come posso infatti vedere in Dio tutte le opere che possono uscire dalle sue mani, se non ho conosciuto adeguatamente la sua potenza; e come posso conoscere adeguatamente la potenza senza avere la comprensione di tutte le perfezioni divine con le quali questa stessa potenza è identificata? – Non meno indubbio è che ciascuno degli eletti contemplerà, nella luce divina, tutte le cose esistenti che lo interessano, tutto ciò che può legittimamente desiderare di conoscere. Secondo questa regola formulata dall’Angelo della Scuola, i Santi in cielo hanno in Dio un’intuizione immediata delle preghiere che noi rivolgiamo loro, così come degli onori che rendiamo ai loro gloriosi meriti (S. Thom., 2-2, q. 83, a. 4, ad 2; Suppl. q. 72. a. 1.). La stessa regola ci obbliga a concludere che tutti gli esseri della creazione, tutti i fatti che si stanno svolgendo e si svolgeranno nella lunga serie dei secoli, tutto, dico, fino ai pensieri più fugaci e nascosti, è presente con la luce della gloria allo sguardo umano del nostro Salvatore: perché tutto, senza eccezione, si riferisce a Lui come al Re dell’universo, al Pontefice universale, al Giudice sovrano dei vivi e dei morti (Id. 3 p.), «  Nihil prohibet dicere quod post diem judicit quando gloria hominum et Angelorum erit penitus consummata, omnes beati scient omnia quae Deus scientia visionis novit; ita tamen quod non omnes omnia videant in essentia divina. Sed anima Christi ibi plane videbit omnia, sicut et nunc videt; alii autem videbunt ibi plura vel pauciora secundum gradum quo Deum cognoscent, et sic anima Christi de his quæ præ aliis videt in Verbo, alios illuminabat. ». Id. IV, D. 49, a. 5, ad 25). – Infine, è in virtù dello stesso principio che possiamo credere di essere perennemente sotto gli occhi di Maria, la nostra Madre celeste. Non è forse un desiderio molto legittimo per una madre conoscere, almeno per quanto possibile, tutti i passi, tutti i movimenti, tutti i sentimenti, tutti i bisogni dei propri figli, soprattutto quando questi sono in età più debole e in condizioni di maggior pericolo? Non insisterò ulteriormente su quest’ultima applicazione, perché l’ho sviluppata più a lungo in un’altra opera (Devozione al Sacro Cuore, L. IV, c. 4, p. 311 ss.). – Notiamo, tuttavia, quale consolazione può darci questa dottrina nel dolore causato dalla perdita di coloro che ci sono cari. Morendo nella pace del Signore, ci lasciano per un po’ di tempo; ma grazie all’estasi eterna in cui li mette la vista sempre presente del loro Dio, noi non siamo assenti dal loro pensiero, perché, secondo la misura che il nostro interesse e la piena soddisfazione dei loro desideri richiedono, ci vedono nello specchio infinitamente chiaro della luce divina (ci vedono, dico, con una visione che supera incomparabilmente in chiarezza quella che è adatta agli occhi della nostra carne, e non meno immediata di essa). E quale spettacolo in cielo per ciascuno degli eletti quando, tutto penetrato da questa luce, vi contempla la moltitudine viva e radiosa dell’esercito dei Santi, con le sue bellezze, le sue felicità e la sua gloria! Lì, se vi degnerete di ricevermi, come spero che farete per la vostra infinita misericordia, vi vedrò, o mio Salvatore Gesù, negli splendori della vostra umanità glorificata; avrò perennemente davanti allo sguardo della mia anima sia le piaghe che avete accettato per me, sia quel Cuore che risplende mille volte di più nel vostro petto di quanto non fosse un tempo per l’amata di quel Cuore divino, Margherita Maria. Là, in uno specchio infinitamente puro, vedrò anche Voi, o santa e amabilissima Vergine Maria, Madre del mio Signore e Madre mia, e sarò inebriato dalle vostre perfezioni e dalla vostra bellezza, che è seconda solo a quella di Gesù vostro Figlio. Là, tutto ciò che amo, tutto ciò che ammiro, tutto ciò che potrei desiderare per la presenza e la vista, mi verrà mostrato in una luce incomparabilmente superiore alla luminosità del nostro sole. Dopo di che, chi si stupirebbe sentire i Santi, alla vista della magnificenza che l’arte e la natura mostrano ai loro occhi, esclamare con trasporto: Oh, quanto è brutta la terra per me, quando guardo il cielo! – I santi Dottori non si stancano mai di esaltare la luminosità e l’estensione della conoscenza che Dio comunica ai suoi eletti. « Che cosa possono ignorare, se essi vedono Colui che sa tutto », chiede San Gregorio Magno parlando degli Angeli (Mor. L. II, c. 3). « Come – egli dice – si potrebbe ignorare qualcosa, se tutti vedono insieme Dio, fonte della scienza? » (Id. Hom. 34 in Evang.). « Oh, la mirabile abbondanza, dove non c’è nulla che possa dispiacere, dove si ha tutto ciò che si desidera! Sarebbe una gloria consumata se ci fosse qualcosa di nascosto per noi? Perciò la nostra conoscenza non conoscerà tenebre, e questa è la saggezza che soddisferà pienamente la curiosità dell’uomo. O sapienza, che sarà la conoscenza perfetta di tutto ciò che è in cielo e sulla terra: poiché noi ci abbevereremo della scienza di tutte le cose alla sorgente stessa della Sapienza, in ipso fonte sapientiæ rerum omnium cognitionem bibentes » (S. Bernard., serm. 16, de tripl. genere bonor., n. 7). – È un bello spettacolo che il mondo dei corpi contempla nella luce di Dio; ma è più estasiante quello che in cielo ci offrirà il mondo delle anime. Ricordo una parola di Santa Caterina da Siena: « Se noi potessimo vedere un’anima in stato di grazia, non concependo nulla di più bello, la prenderemmo per Dio stesso, e cadremmo in ginocchio per adorarla. » Bossuet dal suo canto scrive: « Chi vedesse un’anima in cui Dio è per la grazia, crederebbe di vedere Dio stesso, come si vede un secondo sole in un bel cristallo, dove è entrato, per così dire, con i suoi raggi » (Bossuet, Lett. de piété. Lett, 25). – Ora, questo spettacolo noi lo avremo in eterno davanti ai nostri occhi. Tutto sarà pienamente sotto lo sguardo di tutti. Questo è ciò che Sant’Agostino predicava al suo popolo. Allora -egli diceva – i pensieri del cuore saranno messi a nudo. « Che cosa temete? Ora nascondete i vostri pensieri, e avete paura che nessuno li conosca: forse avete in mente cose cattive, vergognose o vane. Ma là, non ci sarà nel vostro cuore null’altro che di bene, di onesto, di puro, di vero. Come quaggiù voi mostrate il vostro viso, così vorrete che la vostra coscienza sia vista. E là, miei diletti, noi ci conosceremo tutti. Pensate che là mi riconoscerete perché mi avete conosciuto qui, e che non conoscerete mio padre, perché non lo avete conosciuto? No, conoscerete tutti gli eletti di Dio. E non si conosceranno dai lineamenti dei loro volti, ma in una luce incomparabilmente più alta… Pieni di Dio, essi vedranno divinamente. Divine videbunt, quando Deo pleni erunt » (S. August, serm. 243; in dieb. paschal, 14, n. 5. San Gregorio Magno ha una parola per caratterizzare questa trasparenza universale dei beati. La Gerusalemme celeste è per lui « Civitas, clara per aurum, per Vitrum perspicua » (Moralia, L. 34, c. 15). Essi vedranno divinamente i loro fratelli nella beatitudine; vedranno anche gli infelici che l’inferno ha inghiottito per sempre nei suoi abissi e i loro tormenti? Sì, risponde Sant’Agostino; ed è in questo senso che interpreta l’ultimo versetto di Isaia: « Ogni carne adorerà davanti alla mia faccia, dice il Signore; e usciranno e vedranno i cadaveri degli uomini che hanno prevaricato contro di me ». Egli dice: « Usciranno, non con un movimento corporeo, ma con la comprensione e con la visione manifesta dei tormenti di coloro che sono fuori dalla Gerusalemme celeste. Sembrerebbe che manchi qualcosa alla perfezione della loro beatitudine e della loro gratitudine, se questo spaventoso contrasto tra loro e i reprobi non facesse sentire quanto sia grande la loro ricompensa e la misericordia che li ha salvati. » (S. August., de Civit. Dei, L. XX, c. 22; S. Thom, Supplem., q. 94, a. 1. – Leggiamo nei dialoghi di Santa Caterina da Siena, c. 42, che Nostro Signore le disse un giorno: « La vista dei dannati aumenterà il godimento della mia bontà nei giusti, perché la luce è meglio conosciuta dalle tenebre e le tenebre dalla luce». – « Ibi dum justi sine fine damnatorum cruciatus conspiciunt, in Dei laudibus crescunt; et quia et in se cernunt bonum quo remunerati sunt, et in illis supplicium quod evaserunt, erit gratiarum actio et vox laudis. »  Riccardo di S. Vittore, Explic. in Cantic. c. 10. P. L., t. 196, pp. 435, sq.).

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (8)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (8)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO III

La vita nella Chiesa

1. Il Sacrificio della Messa

Non sarebbe possibile farsi un’idea della vera vita cattolica senza capire, in qualche misura almeno, che cosa è per il Cattolico quella ch’egli chiama la Santa Messa. È assai più che una cerimonia religiosa o una pratica di pietà, è il rito per eccellenza cui egli assiste quasi fosse il centro di tutta la Religione. Se va alla S. Messa egli considera compiuto l’essenziale del suo dovere religioso; nessun’altra funzione basterebbe a surrogarla né  un numero qualsiasi di funzioni. Quanto abbiamo detto sin qui ci ha condotto a trattare questo argomento, anzi è stato difficile escluderlo da buona parte delle considerazioni già fatte. – Se studiamo la vita dei veri Cattolici, basterà osservare le loro abitudini quotidiane per convincerci che la S. Messa è il fulcro della loro fede. Non la domenica soltanto, ma ogni giorno dell’anno, in tutte le chiese aperte al pubblico, si trovano gruppi di fedeli di ogni condizione riuniti attorno all’Altare per assistere alla Messa prima di iniziare il lavoro della giornata: in qualunque paese veramente cattolico all’ora della Messa si direbbe che ogni mattina fosse domenica. E riandando al passato, troviamo che pei figli della Chiesa ciò fu caratteristico e abituale in ogni tempo, pei re nei loro palazzi, (molti dei re inglesi davan principio alla loro giornata con l’ascoltare la Messa); pei soldati nelle loro tende, ché non incominciavano a combattere senza aver assistito al Santo Sacrificio; pei ricchi nei grandi santuari; pei poveri nella chiesetta del loro villaggio; per le classi operaie nelle sedi delle loro corporazioni; anche per le università e i centri di studio. Prima della riforma la Messa era il vincolo comune della cristianità, e dopo la riforma è rimasto il vincolo di unità al disopra di ogni altro per tutto il mondo cattolico. Nelle isole Britanniche in ispecie, i Cattolici hanno ben ragione di tenere la Messa nel massimo conto perché essa rappresenta in modo particolare il loro Sacrificio. Per essa morirono a centinaia i loro antenati; quando arrivò il giorno della distruzione, i nemici sapevano che quanto più importava era precisamente la Messa, e fecero tutto il possibile per liberarsene. Il celebrare la Messa meritava la morte, quanto la semplice dichiarazione di averne il potere; innumerevoli borghesi furono multati e ridotti alla miseria per averla ascoltata, e spesso i nostri poveri furono condannati a morte per questo, e per questo solo. Ciò non va dimenticato: se per la Messa i nostri antenati sacrificarono tanto, noi pure siamo disposti a fare continui e gravi sacrifici perché essa venga perennemente celebrata e debitamente onorata. Si costruiscono chiese su chiese, pur fra tante difficoltà economiche, e non si risparmiano fatiche per abbellirle; non si considereranno mai sprecati i valori che si prodigano nei santuari dove si celebra la Messa. E perché? Non è questo il luogo adatto per una discussione teologica né per una compiuta analisi della Messa, pur essendo entrambe necessarie, per una esatta comprensione del suo valore, anche al fedele che non ha pretese di cultura. Noi ci limiteremo qui ad esporre in breve ciò che della Messa il Cattolico pensa e crede. Innanzi tutto, per render subito chiaro ciò ch’è essenziale, il Cattolico crede con l’autore dell’Epistola agli Ebrei che Nostro Signore Gesù Cristo, il Sommo Sacerdote della nuova alleanza, ha riconciliato a Dio l’uomo peccatore per mezzo del solenne Sacrificio di Sé al Padre che è nei cieli. Questo Sacrificio si compì sull’altare della croce al Calvario e fu sufficiente, più che sufficiente, ad espiare tutti i peccati di tutto il mondo. Non vi è più bisogno di altri sacrifici, il debito dell’uomo verso Dio è stato completamente cancellato. È stato pagato tutto il prezzo che poteva riconquistare all’uomo la vita di unione col suo Creatore; quel sacrificio ha reso a Dio tutto l’ossequio che la creatura gli deve. L’amore è stato interamente ricambiato; si è ristabilita l’interrotta corrente d’amore fra Dio e l’uomo. Ma il Cattolico sa pure che questo Sacrificio unico, sebbene consumato sul Calvario, si rinnova e si rinnoverà ogni giorno sull’altare, sino alla fine dei secoli. Egli crede che alla vigilia della sua passione, Cristo istituì il mezzo di commemorarlo non solo, ma di ripeterlo in modo mistico eppur reale dovunque venga predicato il suo Vangelo e diffuso il suo regno. Questa rinnovazione quotidiana del sacrificio del Calvario è il sacrificio della Messa. Come Gesù Cristo si offrì, vittima cruenta al Padre sulla croce, così Egli scende ogni giorno sui nostri altari e rinnova quella stessa offerta di Sé al Padre per le mani del sacerdote. In altre parole, la Messa è il sacrificio stesso del Calvario misticamente ma realmente rinnovato ogni giorno, nel tempo. Chi offre il Sacrificio è lo stesso Signor nostro Gesù Cristo; la vittima offerta è la medesima: come allora, così ora Egli offre se stesso, e si offre allo stesso Iddio del cielo e della terra e per lo stesso scopo. Nella Messa si adempie la profezia: “Da dove sorge il sole fin dove tramonta, il mio Nome è grande fra le genti; e in ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome oblazione pura; perché grande è il mio Nome in tutte le genti, dice il Signore degli eserciti. – È ovvio che bisognerebbe dire assai di più per precisare la posizione e l’importanza della Messa nella fede e nella pratica cattolica; ma i motivi della nostra fede non ci interessano qui, occupandoci noi ora soltanto del lato pratico di essa. Il Concilio di Trento mette in evidenza tre cose che spiegano abbastanza chiaramente l’influenza della Messa sul pensiero e sull’anima cattolica. La Messa, così ammaestra il Concilio riassumendo tutto l’insegnamento che l’ha preceduto, fu istituita da Nostro Signore Gesù Cristo e fu lasciata in dono quaggiù alla sua diletta sposa la Chiesa, come Sacrificio visibile che rimanesse per sempre nelle sue mani per tre scopi:

Primo, quale memoria viva e perenne di Sé.

Secondo, affinché restasse fra i suoi una rappresentazione vivente, e non solo una commemorazione, della prova massima del suo amore, il Sacrificio del Calvario.

Terzo, affinché con questo mezzo fosse assicurata, fra Lui e l’anima umana, la comunione più intima che potesse Egli stesso immaginare. – Consideriamo questi tre aspetti separatamente. In quanto al primo; all’ultima cena, quando Nostro Signore ebbe convertito con la sua parola il pane nel suo Corpo e il vino nel suo Sangue, “Fate questo in memoria di me”. E con ciò diede agli Apostoli il potere di fare quanto Egli aveva fatto, di convertire cioè il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue. In quale senso particolare e a quale scopo particolare dobbiamo intendere quelle parole, San Paolo stesso ce lo spiega quando, ripetuto il racconto dell’istituzione della Messa, conclude: “Quante volte voi mangiate questo pane e bevete questo calice voi rammenterete l’annuncio della morte del Signore fino a che Egli venga” (I Cor. XI, 26). – Perciò la Messa doveva anzitutto essere per i suoi fedeli seguaci una commemorazione perpetua della sua passione e morte, con la presenza del vero Corpo e della vera Persona di Cristo stesso. Quando assistono alla Messa, i fedeli assistono in ispirito a quella scena del Calvario, hanno dinanzi agli occhi sopra ogni altra cosa il loro Signore crocifisso, Gesù in agonia, Gesù che compie per loro il Sacrificio supremo. – In secondo luogo, e questo è ancor più importante, la Messa è, oltre che commemorazione, rappresentazione viva del Sacrificio della croce. Così si esprime il Concilio di Trento: “In questo divino sacrificio che si svolge nella Messa, si contiene e si immola in maniera incruenta lo stesso Sacrificio che fu offerto nel sangue una volta per sempre sulla croce. È la medesima ed unica vittima, il medesimo ed unico Sommo Sacerdote, che si offre oggi per il ministero dei suoi sacerdoti dopo essersi offerto ieri sulla croce; solo la maniera dell’oblazione è diversa”. (Sessione XXII, c. 2). È lo stesso Sommo Sacerdote. Come già abbiamo veduto, il supremo Sommo Sacerdote della nuova legge, 1’unico Sacerdote nel senso più stretto, è Nostro Signore Gesù Cristo. È vero che nella Messa Egli si offre per il ministero dei Sacerdoti che sono semplici uomini, ma non poteva farsi altrimenti. E va notato, d’altronde, che da sé il Sacerdote non può far nulla; non offre sacrificio di per sé, agisce solo per libera volontà e investitura di Gesù Cristo. Il Sacerdote non è che un rappresentante, egli non fornisce che le mani e la voce per mezzo delle quali agisce Gesù Cristo suo Signore. Nella sua infinita condiscendenza, Cristo ha voluto far dipendere la sua presenza sull’altare dalla volontà e dalla parola di semplici uomini. Ma il prete non è tale che in quanto dipende da Gesù Cristo; egli non può crearsi prete da sé, né può un uomo qualsiasi conferirgli tale dignità. Nessuna autorità umana sulla terra può consacrarlo: il suo potere viene da Gesù Cristo solo, ed egli quindi non agisce che come rappresentante di Lui. D’altra parte, una volta debitamente ordinato, appena pronunciate le parole della consacrazione e compiuto l’atto della transustanziazione, sull’altare vi è Gesù Cristo che si offre al Padre, e l’oblazione fatta dal prete, e con lui dalla Chiesa universale, sebbene unita all’offerta di Gesù, è per se stessa una cosa ben distinta. Nella Messa è Gesù Cristo stesso che fa l’oblazione pel primo, il prete non la fa che “per Lui e con Lui e in Lui”, “ per ipsum, et cum ipso, et in ipso”. Come sul Calvario, così sull’altare nel Sacrificio della Messa il Sommo Sacerdote è Nostro Signore Gesù Cristo. Egli rimane pure la medesima vittima. Per effetto delle parole della consacrazione pronunciate dal Sacerdote, Nostro Signore diviene presente sull’altare, nascosto sotto il velo delle sacre specie, le apparenze del pane e del vino; è lo stesso Cristo con gli stessi affetti, le stesse aspirazioni e disposizioni che aveva sul Calvario. Si prostra in adorazione davanti al Padre, confessando la sua assoluta dipendenza da Lui in quanto uomo, implorando perdono per i peccati di tutta l’umanità, pronto a farsi ancora, se occorre “obbediente fino alla morte, e morte di croce”. –  Da quell’istante abbiamo sull’altare la stessa vittima del Calvario con le identiche disposizioni: abbiamo quindi il medesimo Sacrificio. Poiché non tanto vale il modo con cui l’atto si compie quanto l’atto stesso. Se l’immolazione cruenta del Calvario ha potere di commuoverci più della Messa, tuttavia, agli occhi di Dio, non è l’effusione del sangue quella che maggiormente conta; è piuttosto l’amore filiale con cui fu consumato il Sacrificio, è il profondo sentimento di religione che condusse il Figlio di Dio fatto uomo a compiere quel sacrificio perché la gloria del Padre fosse perfetta. Era senza dubbio necessaria una oblazione visibile, e oblazione di terribile olocausto, perché la volontà di Cristo fosse soddisfatta e il suo amore effuso in tutta la sua pienezza. Egli non si sarebbe appagato che di una immolazione sensibile proporzionata agli abissi della sua abnegazione. E naturalmente nulla meglio della completa ed assoluta immolazione del Calvario poteva esprimere questo desiderio di tutto donare a Dio Padre e all’uomo, questo amore sconfinato per entrambi, questa decisione di pagare qualunque prezzo perché essi si riconciliassero e fossero unificati. – Ma, ripetiamo, il valore massimo del Sacrificio, più che nell’effusione del sangue e nell’atrocità del tormento subito, sta nell’amore che indusse al pagamento di quel prezzo e nella religione verso il Padre, sentimenti che portarono l’oblazione al limite estremo. Ed è a questo stesso amore, a questo stesso sentimento del dovere che noi dobbiamo il mezzo mirabile con cui si perpetua il Sacrificio di Cristo, unico e identico sul Calvario e sull’altare. Lo stesso cuore con lo stesso amore per Iddio e per l’uomo, la stessa coscienza del debito di giustizia contratto verso il Padre offeso, lo stesso desiderio di darsi tutto all’uomo, rinnovano il sacrificio nell’identico spirito con cui si compì la prima volta sulla terra, come nel cielo, ove Cristo è “sempre vivo a fare intercessione per noi”, e la Messa è precisamente il miracolo della continuazione del Sacrificio di Cristo. – E da ultimo, come insegna il Concilio di Trento, la Messa è mezzo di comunione fra Gesù e l’anima umana, fra Dio e l’uomo. Forse non è questo terzo aspetto il più importante per se stesso, ma lo è per lo scopo delle nostre considerazioni. Sappiamo come negli antichi sacrifici consumare una parte della vittima simbolizzasse una comunione con questa e con Dio al quale essa era stata immolata. In questo senso, la santa Comunione è parte integrale e veramente essenziale della Messa, almeno per il Sacerdote che la celebra. E il Concilio di Trento insiste che dovrebbe esserlo anche per i fedeli che vi assistono, affinché essi pure partecipino più intimamente e più sensibilmente allo spirito e alla vita del loro Signore Gesù Cristo. Scopo infatti della SS. Eucarestia è, come già abbiamo osservato, la nostra più intima incorporazione a Lui, affinché “per Lui, in Lui e con Lui” possiamo meglio dar gloria a Dio e rimanere maggiormente uniti alle tre Persone della Santissima Trinità. – Innanzi tutto, dunque, la santa Comunione unisce e incorpora l’anima a Gesù Cristo. Per questa ragione, ci è lecito crederlo, fu istituita sotto la forma del pane e del vino. Sotto questa forma, Cristo ci nutre del suo Corpo, del suo Sangue, della sua Anima, della sua Divinità, di tutto se stesso, e la sua vita così fluisce in noi: ecco l’incorporazione. Egli ci dà il diritto di far nostro il suo cuore, dimodoché non vi è più tra noi che un cuor solo e un’anima sola, come amano ripetere San Paolo e tanti altri santi. È in verità un’unione così intima che non è facile immaginarne altra più stretta, pur continuando a rimanere noi stessi, ed è unione duratura. – “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed io in lui”. (Giov. VI. 56). È, inoltre, unione santificante che sempre più trasforma, chi si comunica, in un altro Cristo. A poco a poco, e qualche volta anche all’improvviso, si alterano i suoi pensieri e i suoi apprezzamenti, si rovescia la sua prospettiva, si sviluppa in lui una coscienza del vero e del bello che conduce a una comprensione nuova di tutte le cose. Non considera più la vita e gli avvenimenti dal punto di vista primitivo, umano e terreno, si slancia in una sfera più alta e riguarda questo mondo come se già lo avesse lasciato, e quasi inconsciamente impara a giudicare la vita dal punto di vista di Dio. Esercitandosi a osservare con gli occhi stessi di Cristo e a sentire coi sentimenti di Lui, la sua volontà sempre più si conforma a quella del Maestro. Vede e sente ch’Egli solo è la verità e la sapienza eterna, e vuole unicamente le cose ch’Egli vuole e come Egli le vuole. Facilmente, anzi spontaneamente, impara a ripetere: “Padre, sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra” e nell’adempimento di essa trova quella “pace in terra” promessa “agli uomini di buon volere”. Per una rinnovata unione e intimità con Lui, il suo cuore è sempre più staccato da tutto e da tutti; al confronto di Lui, più nulla e nessuno vale. –  E sempre meglio impara ad amare Colui che solo è degno di ogni amore; sempre più è indotto a considerare ogni cosa con gli occhi di Lui e ad amare perciò il mondo, con tutto quanto contiene, non meno ma più di prima poiché ora lo amerà con l’amore stesso di Lui, e per i motivi medesimi, e con la stessa totale abnegazione. – Così la santa Comunione completa il Sacrificio; attira l’anima del comunicando nell’anima e nel cuore della Vittima divina, e la sua vita nella vita di quella; trasforma in veri e propri olocausti anche il corpo e l’anima di chi di essa si nutre, unendoli alla Vittima per eccellenza nel suo ufficio di dar gloria a Dio, di espiare per l’umanità, di impetrare agli uomini le grazie che li innalzeranno al disopra di loro stessi. Nessuna meraviglia che San Paolo esca in una di quelle esclamazioni che solo nella dottrina dell’Eucarestia sembrano trovare la loro completa spiegazione: “Vi esorto dunque, o fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come ostia vivente, santa, gradevole a Dio, ciò che è il vostro culto ragionevole. E non conformatevi al secolo presente, ma trasformatevi col rinnovamento del vostro spirito, affinché possiate ravvisare qual è la volontà di Dio, ciò che è bene e gradevole e perfetto ”. (Rom. XII, 1, 2). – Ma nell’unire così l’uomo al suo Signore Gesù Cristo, la santa Comunione lo unisce anche alla Divinità tutta, ossia alle tre Persone della Santissima Trinità. Poiché in Gesù Cristo, 1’Unigenito di Dio e Verbo Incarnato, si trovano pure le altre due Persone: il Padre e lo Spirito Santo. Esse sono inseparabili, sono un unico Dio, vivono l’una nelle altre. Perciò quando il Figlio di Dio viene in noi, non è solo, viene col Padre, da cui è generato da tutta l’eternità e per tutta l’eternità: “Io e il Padre siamo uno”. Viene con lo Spirito Santo, che pure dall’eternità e per l’eternità procede per amore dal Padre e dal Figlio, – Incorporati a Cristo per il Battesimo, diventiamo per quell’atto figli adottivi di Dio, entriamo a far parte della sua famiglia, e nutriti del Corpo e del Sangue di Cristo, quella parentela diventa sempre più stretta e reale e quei vincoli sempre più saldi, perché non siamo più noi che viviamo, ma Egli vive in noi. Così si attua ogni giorno più, ad ogni Messa celebrata, ad ogni Comunione ricevuta, il fine della creazione, lo scopo che Dio ebbe nel fare l’uomo: una unione sempre più intima fra Dio e la creatura umana. – Ciò basta a spiegare perché il Sacrificio della Messa, con la Comunione come sua parte integrale, costituisca pel Cattolico l’atto culminante di tutto il culto, il centro della sua pietà, il fulcro di ciò ch’egli intende per religione sia nella dottrina che nella pratica, la sorgente più feconda e la riserva più ricca di vita soprannaturale. Ciò spiega perché il Cattolico consideri una vera sfortuna la perdita della Messa e perché, per difenderla, tanti siano morti sia del clero che del laicato. È un memoriale della Passione, e come tale ci porta ai piedi del Calvario a contemplarvi attraverso il tempo e lo spazio, nel dolore, nell’amore, nella vera simpatia di compagni e partecipanti, quel Signore crocifisso che ci ha amati fino a soffrire, ad agonizzare, a morire per le mani di coloro che ama e per amor loro. È una rappresentazione viva e reale del dramma del Calvario, e come tale mette fra le nostre mani tutta la virtù, tutta la grazia, tutti i meriti e i frutti del sacrificio consumato un giorno sul Golgotha. Nella Messa e per la Messa siamo uniti a Nostro Signore, l’Agnello di Dio, la vittima senza macchia, uniti a Lui anche noi, malgrado la nostra miseria e le nostre colpe, fatti capaci di glorificar Dio come merita, di ottenere il perdono dei nostri peccati, per quanto gravi, con impetrazione e riparazione nostra, capaci di implorare, con la certezza di venire ascoltati, le grazie e gli aiuti necessari alla nostra salvezza e santificazione. Poiché Gesù Cristo supplica insieme a noi con gemiti inenarrabili, e la sua preghiera non può venir respinta: lo Spirito Santo esprime i sentimenti del cuor nostro, e la sua voce è verità. – La S. Messa è una comunione intima fra noi e Gesù Cristo e, per Lui, fra noi e Dio stesso, una comunione che ci trasforma in altrettanti Cristi, che ci fa sempre più simili al divino Maestro e sempre più ci avvicina a quella perfezione del Padre che ci fu proposta a modello. Per questi motivi, e altri ancora ve ne sono, la Messa rimane la più grande fra tutte le devozioni del Cattolico, se pure è lecito darle questo nome. È il culmine della sua fede religiosa, la più efficace delle sue preghiere, quella a cui ricorre di continuo. E ha un proprio valore intrinseco, affatto indipendente da chi la celebra, come da chi l’ascolta, come dalla persona per la quale si offre, dipendente solo da Colui che è l’unico Sommo Sacerdote e l’unica vittima, lo stesso Nostro Signore Gesù Cristo. Il suo valore è oggettivo, ossia contiene realmente l’olocausto e la preghiera di Colui che si offrì una volta per tutte e di tutta la sua Chiesa universale, unita a Lui nell’offerta e nella preghiera. È un memoriale perpetuo di Lui, un perpetuo ricordo della sua presenza fra noi, con noi ancora “oggi e lo stesso per sempre”. È una perenne rinnovazione dell’unico sacrificio che fa testimonianza di quell’amore del quale neppur Lui avrebbe potuto mostrarcene uno più grande. È un patto di alleanza fra Lui e i suoi, mezzo di comunione con loro nell’amore, nel sacrificio, nella vita stessa, quale Dio solo poteva immaginare. – Così la Messa supera di gran lunga qualsiasi altra offerta, sacrificio, oblazione l’uomo possa fare da sé, qualsiasi altra forma di preghiera egli possa pronunciare. È, non ci stancheremo mai di ripeterlo, l’oblazione continuata del Calvario, non solo commemorazione e memoriale, ma, essendo identici il Sacerdote e la Vittima, è tutt’uno col Sacrificio primo del Calvario. Nella Messa il tempo e lo spazio si eliminano, gli occhi di Dio guardano attraverso il Sangue del suo Figliolo Gesù Cristo e in quel Sangue diventiamo tutti uno solo. Il cuore che fu squarciato sul Calvario è ancora aperto, è tuttora la sorgente dalla quale scendono incessantemente tutte le grazie meravigliose con cui Dio arricchisce la sua Chiesa e benedice tutto il genere umano. È il tesoro dei tesori, la perla di gran prezzo per aver la quale si dà tutto il resto e, se occorre, anche la vita. Nulla potrà ritenersi troppo bello per il luogo in cui si celebra la Messa e nulla troppo ricco per adornarlo. – La Messa ha ispirato le opere più nobili di ogni arte, ha sollevato l’umanità agli ideali più alti e le ha fatto raggiungere una unità che nessun trattato ha mai raggiunto né mai può sperare di raggiungere. Soprattutto e in primo luogo la Messa è il tesoro del Sacerdote cattolico. Si può dire che per essa egli esista e da essa riceva in cambio il suo sostentamento e insieme la sua ricompensa. Egli non vanta alcun diritto personale a quella sua alta dignità: è ciò che è, non per merito proprio, ma solo in virtù di Colui che ha detto: “Non voi mi avete scelto, ma io voi”, e che ha scelto chi ha voluto. Il Sacerdote ha ricevuto una unzione e un comando, e secondo questo comando, in virtù del potere che gli fu conferito, egli parla e agisce, non in nome proprio, ma nel nome e come strumento e voce di Gesù Cristo dal quale ricevé l’investitura. Non adopera parole proprie, ma si serve di quelle stesse di Cristo: “Questo è il mio Corpo, questo è il mio Sangue”, e in virtù di esse, come se parlasse Cristo in persona, il pane si cambia nel Corpo di Cristo, il vino nel suo Sangue, e Cristo stesso diviene presente sull’altare per l’intervento del Sacerdote. È questa la funzione prima della sua vita, e ne è anche il premio e la spiegazione sufficiente, formando il completamento del suo essere. Ed è pure la sua forza: dalla Messa e per la Messa gli viene ogni mattina l’aiuto necessario al suo compito quotidiano. Nella Messa attinge i mezzi di santificazione per sé e per gli altri, per tutte le anime che a lui si affidano. Lo zelo sacerdotale lo porta inevitabilmente ad amare la sua Messa quotidiana, allo stesso modo che l’amore di essa è garanzia sicura del suo zelo ardente per le anime. E i Cattolici riconoscono al Sacerdote il diritto a un posto privilegiato fra loro. La reverenza che hanno per lui è ben diversa da quella che hanno per chi occupa le posizioni anche più elevate: è una venerazione che sentono di dovergli per una dignità conferita a lui dall’alto, e non gliela negheranno mai, perché egli è “sacerdote in eterno”. Dovunque egli si trovi, a qualunque nazione appartenga, anche nemica, e per quanto possa apparire manchevole, egli è per i Cattolici un essere a parte, che Dio stesso ha scelto per la sua opera. Le sue mani sono state particolarmente consacrate per compiere questa speciale funzione, tutta la sua persona è ormai e per sempre diversa dalle altre. Potrà cadere e mostrarsi indegno, la debolezza umana potrà rivelarsi in lui non meno che in altri, ma per quanto grande possa essere la sua colpa e la sua vergogna, i Cattolici non potranno mai dimenticare quel ch’egli è, irrevocabilmente Sacerdote, segnato col segno indelebile che lo distinguerà, nella buona come nella cattiva sorte, per tutta l’eternità, rappresentante di Gesù Cristo stesso nella funzione più solenne del mondo. – Ed è la Messa che più di ogni altra cosa attira l’attenzione del miscredente. Egli non può passarle accanto e continuare ad ignorarla; potrà non capire, ma il suo fascino misterioso agirà facendo di lui o un amico o un nemico implacabile. È ancora la Messa che attira il peccatore ai piedi di Cristo perché la sua anima sia purificata dal sangue prezioso che vi si effonde. È la Messa che dà la forza sovrumana di resistere in ogni prova, sia interna che esterna; per essa hanno vissuto i Confessori e sono morti i Martiri, essa ha popolato di Santi i conventi e i focolari. Con l’aiuto della Messa l’infimo degli ignoranti e dei miserabili raggiunge l’apice della sua dignità umana e cristiana, come ha modo di constatare ogni giorno nel suo ministero il Sacerdote dei poveri. E d’altro canto, il più eminente fra gli uomini nella Messa apprende il dovere della sua posizione: in nessun luogo più e meglio che dinanzi all’altare di Dio gli uomini sono veramente fratelli e liberi, uniti, indipendenti e consci dei loro diritti reciproci. Per essa si rivela a tutti, piccoli e grandi, ignoranti e dotti, sciocchi e saggi, una visione nuova della vita; per essa sono tutti animati da nuovo coraggio e spinti ad accettare la verità pura anziché 1’apparenza o la convenzione o una falsa sapienza, a vivere una vita fatta di realtà più alte di quelle del mondo, una vita apparentemente semplice, in sostanza eroica. La Messa, con l’orizzonte sconfinato che ci scopre dinanzi, solleva le anime generose alle vette dell’unione mistica; in una parola, è attraverso la Messa, più che per ogni altro canale, che scorrono e si riversano sul mondo le acque salutari della Redenzione.

LA GRAZIA E LA GLORIA (45)

LA GRAZIA E LA GLORIA (45)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO IX

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO. QUESTA PERFEZIONE CONSIDERATA DAL LATO DELL’ANIMA

CAPITOLO III

La natura della visione beatifica. Il principio: l’essenza divina, la forma intellegibile; la luce della gloria.

1. – È attraverso la considerazione delle cose che rientrano nell’ambito della nostra conoscenza attuale che possiamo arrivare, per analogia, all’intelligenza delle realtà eterne. Perciò, per arrivare ad un’idea meno imperfetta dell’intuizione di Dio, nostra eredità e nostra gloria, diamo un’occhiata alla visione che più di tutte è alla nostra portata, cioè la visione sensibile di cui è capace il nostro occhio, intendo la visione sensibile di cui il nostro occhio è lo strumento. Cosa mi serve per vedere questo o quell’oggetto, ad esempio quest’albero? Due cose sono ugualmente necessarie: un organo vivente e la presenza luminosa dell’oggetto nell’organo. Che l’albero si riproduca attraverso la sua immagine sulla retina e si unisca all’organo; se l’organo stesso non è animato, se la facoltà di vedere si spegnein esso, non c’è visione. Non esiste nemmeno una visione con un organo perfettamente sano, con una facoltà nella pienezza della sua vita, finché l’oggetto rimanga estraneo ad esso. – Ora, ciò che abbiamo visto nella conoscenza sensibile, viene riprodotta per l’intuizione intellettuale. Datemi l’intelligenza più potente e libera nel suo esercizio, e tutto mi sarà oscuro, qualora alcun oggetto non abbia un’esistenza ideale nella mia facoltà di conoscenza. Supponiamo, invece, che un’intelligenza immersa, per così dire, nella luce, qualora manchi di una delle condizioni necessarie per entrare in azione, rimanga impotente a contemplare la verità che la penetra. Diciamo dunque in una parola, che la legge generale della conoscenza, comporta due elementi assolutamente essenziali: primo, una facoltà di conoscenza proporzionale all’oggetto; in secondo luogo, la presenza o l’unione dello stesso oggetto con la potenza che deve rappresentarlo.  Questo è ciò che l’Angelo della Scuola ha espresso molto felicemente quando dice: « Per costituire pienamente in noi il principio di ogni visione, ci deve essere la facoltà di vedere e l’unione dell’oggetto visibile con questa facoltà; infatti non c’è atto di visione senza che la cosa vista sia in qualche modo nel soggetto che la contempli » (S. Thom:; I p. q. 12, a. 2).Notiamo questa espressione generale: “in un certo modo”, quodammodo. Questo perché non tutti gli oggetti della conoscenza sono anche nel soggetto che li conosce. Io sono consapevole dei miei pensieri e dei miei giudizi: essi sono in me da se stessi e nella loro realtà. Io mi rappresento un oggetto distinto da me; che questo oggetto sia spirito o corpo, esso è in me, non con la sua sostanza, ma per l’immagine intellegibile dalla sua sostanza, per l’immagine intelligibile che me ne formo, grazie ai materiali fornitimi dalla conoscenza sensibile. – Non è possibile in questa sede spiegare nel dettaglio il complesso fenomeno della nostra attività intellettuale. Ma ciò che è importante notare è che l’oggetto, sia di per sé che per la sua somiglianza nella potenza del conoscere, svolge il ruolo di forma, in quanto la perfeziona, la completae ne determina l’operazione che deve compiere (« Effectus similatur causæ secundum formam suam. Forma intellectus ext res intellecta. Et ideo verbum quod oritur ab intellectu, est simililudo rei iulellectæ, sive sit idem quod intellectus, sive illud ». S. Thom. de Pot, q. 8, a. 1). Molto prima del Dottore Angelico, Sant’Agostino aveva esposto la stessa dottrina nella sua opera immortale sulla Trinità. « È evidente – egli scriveva – che ogni oggetto della nostra conoscenza cooperi a generare in noi la conoscenza che ne abbiamo: perché ogni conoscenza procede sia dal conoscente che dal conosciuto » (S. August., de Trinit., LIX, c. 46).È a quest’ultimo che appartiene la fecondazione dell’intelligenza, che senza di essa rimarrebbe sterile. È per questo che il grande Dottore, considerando l’intelligenza come quel tesoro di immagini che rappresentano in essa i diversi oggetti della conoscenza una volta acquisiti, la chiama una « memoria feconda »; ed è anche per questo che, parlando delle nostre idee, si usano le parole di parto dello spirito e di frutti dell’intelligenza « partus mentis, proles intelleclus » ricorrono così frequentemente nei suoi scritti. Questo, dunque, deve essere il principio successivo della nostra visione, se siamo chiamati a contemplare Dio faccia a faccia, come Lui contempla se stesso: una potenza vivente che è in grado di fissare il suo sguardo su questo sole risplendente di ogni verità, e Dio presente in questa potenza per fecondarla, attuarla e determinarla a vederlo come è in se stesso. Come avviene questa duplice elevazione dell’intelligenza creata? È questa la questione che cercheremo di risolvere, sostenuta da un lato dai dati della fede e dall’altro dalle conclusioni della sana teologia.

2. Cominciamo dalla presenza intelligibile di Dio nell’anima che deve contemplarlo nella sua gloria. Sappiamo che Dio è presente ad ogni creatura e sappiamo che, oltre a questa presenza comune, è unito in modo incomparabilmente più intimo alle anime che sono sue per la grazia e l’amore. Ma per quanto sia unito a queste creature privilegiate, non lo è in modo tale da rendersi immediatamente intelligibile per loro. Finché esse sono rivestiti della nostra mortalità, lo conoscono, ma attraverso le ombre della fede, nello specchio delle creature. – Come farà a diventare così presente in loro da essere loro intelligibile in se stesso, e perché la sua luce inaccessibile cada come un oggetto immediato davanti ai loro occhi? Basterà che Egli produca nelle profondità della mente un’immagine di se stesso, analoga a quelle che ci danno la conoscenza degli oggetti distinti dai nostri atti e da noi stessi? Questa è stata il sentimento di alcuni dottori; ma tutti i grandi maestri della scienza sacra sono unanimi nel respingere questa ipotesi. San Tommaso d’Aquino riassume in poche righe, nella Summa Theologica, le principali ragioni che lo portano a rifiutare qualsiasi fecondazione per immagine, quando si tratta della visione di Dio (Se un lettore volesse approfondire queste ragioni in tutto il loro sviluppo, potrebbe consultare S. Tommaso, 1 p., q. 12, a. 2; Supplem, q. 92, 9 a. 1; compend. Theol, 1a p. c. 105; 2° p., c. 9; de Verit. 1, ecc.). – Ecco la sostanza. Per quanto riguarda l’unione dell’oggetto con la facoltà che deve raggiungere l’essenza divina, nessuna somiglianza creata, nessuna immagine finita potrebbe bastare. La prima ragione è che nulla può essere conosciuto così com’è in sé da rappresentazioni di ordine inferiore. Così insegna giustamente Dionigi l’Areopagita nel suo trattato sui Nomi divini (Dionys: de divin, Nomin., c. 1, § 1. P. Gr., t, 3. p. 588.). Chi dirà mai che l’immagine di un corpo possa portarci alla piena conoscenza delle cose immateriali, considerate nella loro essenza? Essendo Dio incomparabilmente più elevato per natura di qualsiasi essere creato, di quanto lo sia un puro spirito al di sopra di un essere materiale, ne consegue chiaramente che nessuna similitudine creata sia in grado di rivelarci chiaramente la sua essenza. – Inoltre, questa essenza divina è l’Essere stesso: un privilegio incomunicabile a qualsiasi natura uscita dal nulla, poiché diventando puro essere sarebbe Dio. Ora, come potrebbe ciò che non è l’essere rappresentare l’Essere, non come si mostra imperfettamente a noi nelle fattezze delle creature, ma nella sua stessa sostanza, e tale come è nell’infinita purezza della sua natura? Infine, che cos’è l’Essenza divina, se non l’abisso infinito dell’Essere, un oceano senza sponde e senza fondo, che contiene in modo sovraordinato tutta la bellezza, tutta la perfezione, tutta la realtà possibile? Ora, una forma creata, per quanto perfetta la si possa immaginare, è necessariamente limitata nella sua virtù rappresentativa, poiché è limitata nel suo essere. Avrete, se volete, immagini distinte della giustizia, della sapienza e delle altre perfezioni che scaturiscono da Dio; ma una rappresentazione di questa perfezione sovrana, in cui tutti gli splendori dell’essere si identificano in un’unità molto semplice e indivisibile, nulla di creato potrà mai darla. – Se nessuna immagine può essere la forma intelligibile che rende Dio presente alla mente creata, cosa resta se non che Dio stesso si unisca alle nostre intelligenze, e che sia in esse ciò che è eminentemente per sé il principio fecondo e formale della visione beatifica? E questo è ciò che si degnerà di fare per i suoi eletti. Questa essenza, che è la pienezza della verità, penetrerà, per così dire, fin nelle più intime profondità del nostro intelletto e, attraverso questa meravigliosa unione, realizzerà pienamente la parola del profeta: « in lume tuo videbimus lumen, nella tua luce, o Dio, vedremo la tua luce » (Sal. XXXV, 10). – Allora capiremo anche il testo profondo dell’amato Apostolo: « Saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è in se stesso ». L’intelligenza, per conoscere il suo oggetto, deve assimilarsi ad esso, così che la misura dell’assimilazione sia anche la misura della perfezione della conoscenza. Vedere Dio, quindi, non in quel modo imperfetto che il nostro stato di infanzia può rivendicare, ma con un’intuizione modellata, per così dire, su quella di Dio, il che significa diventare come Lui, poiché Egli deve diventare incomparabilmente più simile, poiché deve essere Lui stesso in noi come la forma vivente ed il complemento luminoso del nostro essere intellettuale. – Non chiedetemi come si possa realizzare questa unione della luce sostanziale con l’intelligenza creata. Ci basta aver dimostrato che sia assolutamente necessario per concepire la visione che ci viene promessa. Inoltre, per quanto misteriosa possa essere in sé, la ragione non ha nulla nei suoi principi che ci obblighi a rifiutarla. Nessun’altra sostanza, è vero, anche se si tratta di uno spirito puro come quello degli Angeli, è in grado di fornire un’immagine di sé. Nessun’altra sostanza, è vero, anche se si tratta di un puro spirito come gli Angeli, può unirsi immediatamente all’intelligenza creata, in modo tale da diventare il principio determinante di una conoscenza di cui essa stessa sarebbe l’oggetto; ma altra è la condizione dell’Essenza divina, altra è la condizione della creatura. Solo quella è puramente luce e puramente verità, tutta la luce e tutta la verità, mentre la creatura partecipa alla luce ma non è Luce, partecipa alla verità ma non è la Verità, così come partecipa all’Essere e non è l’essere per essenza. Anche se, dunque, la sostanza creata è radicalmente impotente a svolgere il ruolo di forma intelligibile in qualsiasi intelligenza che non sia la sua, non ne consegue che abbiamo il diritto di attribuire la stessa impotenza alla sostanza increata: perché ciò che sarebbe un ostacolo per la prima non lo è lo più per la seconda. – Un’analogia proposta dall’Angelo della Scuola ci aiuterà forse a capire questo. Vedete – egli dice – l’anima umana: sebbene abbia una natura propria e sussista da sola, nulla le impedisce di unirsi alla materia per costituire con essa un unico e medesimo essere, un unico e medesimo principio di vita, perché è forma e nient’altro che forma. Ma il composto che risulta dall’unione non può in alcun modo diventare a sua volta l’elemento formale di un altro essere; e la causa di ciò sta nella sua materialità. Così, nell’ordine della conoscenza, può convenire a Dio, la verità pura, essere la forma ideale di uno spirito creato, per quanto questo ruolo sia incompatibile con un’essenza che non è di per sé né la verità né il centro da cui scaturisce ogni luce intellettuale (S. Thom, Gent, L. III, c. 51). – Il lettore mi sarà grato di mettergli ancora una volta davanti agli occhi l’insegnamento di S. Francesco di Sales. « Quando guardiamo una cosa – dice questo grande e santo Dottore – anche se è presente per noi, non è, non si unisce ai nostri occhi, ma invia loro solo una certa rappresentazione o immagine di sé che è chiamata specie sensibile, per mezzo della quale vediamo. E quando contempliamo qualcosa, nemmeno ciò che ascoltiamo si unisce alla nostra comprensione, se non per mezzo di un’altra rappresentazione e immagine molto delicata e spirituale che si chiama specie intelligibile. Noi vediamo e sentiamo così, tutto ciò che vediamo o sentiamo in questa vita mortale, ivi comprese le cose della fede… Ma in cielo, ah! mio Dio, qual favore! La divinità si unirà alla nostra comprensione, senza alcun tipo di intermediario o rappresentazione… O vero Dio! Quanto è dolce per la mente umana essere unita per sempre al suo oggetto sovrano, ricevendo non la sua rappresentazione, ma la sua presenza; non un’immagine o una specie, ma l’Essenza stessa della sua divina verità e maestà… in modo che la sostanza eterna serva da specie, oltre che da oggetto, alla nostra comprensione. – « Felicità infinita, Teotimo; e che non solo ci è stata promessa, ma ne abbiamo una caparra nel sacratissimo Sacramento dell’Eucaristia, il banchetto perpetuo della grazia divina, perché in esso riceviamo il sangue del Salvatore nella sua carne, e il suo sangue; il suo sangue che ci viene applicato con la sua carne, la sua sostanza attraverso la sua sostanza alla nostra bocca corporea, affinché sappiamo che Egli ci applicherà così la sua Essenza divina nel banchetto eterno della gloria. È vero che qui questo favore ci viene realmente fatto, ma sotto la copertura delle specie o apparenze sacramentali, laddove in cielo la divinità si donerà a noi allo scoperto, e noi la vedremo faccia a faccia così com’è » (S. Franç. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 11). – E ciò che è ancora più ammirevole è che l’intelligenza, una volta consumato questo matrimonio interamente spirituale con la Luce sostanziale che lo penetra, non ha più bisogno di specie intelligibili ed immagini finite per contemplare il mondo degli esseri creati, oggetto secondario della visione beata. Dio, vedendo se stesso, conosce con lo stesso atto ogni creatura distinta da sé, sia essa esistente o solo possibile. Non è questo il momento di dimostrarlo: ma se c’è un fatto certo è che la conoscenza che l’Intelligenza divina ha degli esseri creati non richiede né presuppone in essa come principio alcuna forma particolare che li rappresenti; la stessa perfetta semplicità dell’Essere divino si oppone, come una barriera insormontabile, a ciò che non sarebbe più una perfezione, ma la degradazione della sua natura (S. Thom. c. Gent., L, I, c. 51-52). – Eppure, la legge di ogni conoscenza richiede che nulla possa essere conosciuto se non è presente, per se stesso o per la sua somiglianza, nella facoltà che deve conoscerlo e concepirlo. – A chi dobbiamo chiedere la spiegazione di questo mistero? All’infinita perfezione dell’Essenza divina. Ogni essere, a parte Dio, è per sua natura un’imitazione più o meno perfetta, un’irradiazione più o meno pura di quella pienezza dell’Essere a cui tutto partecipa, tutto tranne il nulla. Ne consegue che, essendo l’Essenza divina davanti allo sguardo di Dio, non solo come l’abisso senza fondo delle perfezioni increate, ma anche come il prototipo e l’esemplare di tutta la realtà finita, Dio conosce con un solo atto e nell’esemplare tutto ciò che gli assomiglia in diversi gradi. La sua stessa essenza è dunque per Dio la forma intelligibile, infinitamente una, con la quale, contemplando se stesso nella sua gloria, vede con uno sguardo unico e sempre immutabile, e le sue infinite perfezioni, e quell’universalità di esseri che non sono, né possono essere, se non nella misura in cui lo rappresentano per qualche lato. – Queste spiegazioni ci porteranno alla comprensione di una formula che ricorre spesso nei trattati dei nostri teologi scolastici. Dio – essi dicono – vede se stesso in se stesso; quanto agli altri esseri, non li vede in se stessi, ma nella propria essenza. Ciò significa che di essi non conosce che l’essere che essi hanno in Lui? No, senza dubbio: perché Egli vede tutto ciò che sono e tutto ciò che hanno, al di fuori della loro fonte primaria, cioè al di fuori di Dio. Vedere una cosa in sé stessa vuol dire vederla nella sua specie o forma intelligibile; vederla in un’altra è anche conoscerla, ma per la forma o immagine dell’oggetto in cui è vista. Pertanto, poiché l’Essenza divina è per Dio la forma unica, in virtù della quale conosce tutto ciò che cade sotto lo sguardo della sua intelligenza, è vero dire che vede se stesso in se stesso, e che vede il resto in se stesso (S. Thom., c. Gent;: L. 1. C. 53-55: 1 p., q. 14, a. 5 e 6). – Pertanto, anche noi, vedendo Dio, la Verità sovrana, in se stesso, vedremo tutto in Lui. Perché? Perché questa stessa Essenza divina che, non essendo che una e medesima cosa con l’intelligenza di Dio, fa che essa sia l’infinita comprensione di tutta la verità, diventerà per la più ineffabile delle unioni la forma ideale della nostra stessa intelligenza; non una forma ridotta, ma una forma sussistente, archetipo e modello di ogni partecipazione creata dall’Essere infinitamente perfetto. « Così – dice l’Angelo della Scuola – nell’intelligenza creata che vede Dio si realizza la condizione di ogni conoscenza, cioè l’assimilazione del soggetto conoscente all’oggetto conosciuto. Infatti, le somiglianze delle cose preesistono nel loro archetipo, l’Essenza divina, alla quale questa intelligenza è unita. (S. Thom., 1 p., q. 12, a. 9).

3. – Dopo aver studiato come Dio si unisca all’intelligenza della sua creatura per diventare oggetto della contemplazione beatifica, ci resta da considerare questo potere stesso. Le sue forze native sono sufficienti; o se ha bisogno di qualche miglioramento, è sufficiente quello che ha ricevuto dalla fede? No, né la ragione né la fede hanno il potere di elevarci a quella visione sublime in cui Dio sarà in sé e nella sua stessa essenza la meta immediata della nostra intuizione. Ho già mostrato che su questo punto è presente la radicale impotenza della natura (L. II, c. 2.). Ho solo una parola da dire sulla fede: è che, pur aprendo davanti a noi orizzonti nuovi e radiosi, non cambia il nostro modo naturale di pensare e di concepire. Pertanto, laddove le energie naturali dell’uomo sarebbero assolutamente impotenti, l’aiuto che essa ci dà non può supplire all’incapacità della sola ragione. La fede ci fa credere e noi dobbiamo vedere ciò che crediamo. Le Sacre Scritture ci avvertono che la fede non rimane (1 Cor. XIII). Essa è la conoscenza imperfetta della via, non è la luce che ci è riservata per il termine. – Che cosa serve dunque all’intelligenza, se la virtù naturale della ragione, se la chiarezza soprannaturale della fede, non è in grado di portare i nostri occhi a queste misteriose altezze? La teologia risponde: la luce della gloria, cioè una forza intellettuale di ordine superiore, che corrisponde alla forma divina con cui lo spirito dell’uomo deve contemplare il suo Dio (S. Thom., 1 p., q. 12, a.5). Ascoltiamo ancora una volta gli insegnamenti del Maestro. « È impossibile – egli ci dice – che un essere si elevi ad operazioni superiori alle sue, se prima non riceva un supplemento di forza e di virtù. – Questa aggiunta può derivare, è vero, da un semplice aumento di intensità della sua energia primaria. Così il calore, per il fatto stesso di diventare più intenso, produce effetti sempre più violenti. Ma, osserviamo bene, questi effetti, per quanto grandi possano essere, non cambiano di natura e sono sempre dello stesso tipo. Se si vogliono ottenere effetti positivi di ordine incomparabilmente superiore, non è più solo la stessa forza, resa più intensa, che si debba applicare; è una virtù che si deve aggiungere all’energia primitiva. Nessun corpo sarà coronato da un’aureola luminosa se il sole non verrà a inondarlo con i suoi raggi. Ora, la virtù naturale dell’intelligenza è assolutamente impotente a vedere Dio faccia a faccia. Perciò essa ha bisogno di ricevere un complemento di luce intellettuale; e questo complemento deve essere di natura eminentemente superiore, poiché la ragione ultima della sua impotenza risiede nell’essenza stessa della sua virtù nativa » (S. Thom, c. Gent., L. III, c. 53; S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. III, c. 14). – Questo indispensabile complemento è ciò che i teologi hanno convenuto di chiamare luce di gloria: luce perché dissipa le nostre tenebre originarie e ci rende visibile Dio; luce di gloria perché vedere Dio è la gloria della creatura prima ancora che di Dio. – Questa prova è perentoria, ma ce ne sono altre che non di meno e certamente portano alla stessa conclusione. Ricordiamo che la visione beatifica presuppone, come elemento necessario, un’unione molto speciale dell’intelligenza con la Luce increata, principio e termine di questa visione. Ora la stessa unione, lungi dal rendere vana la luce della gloria, non può essere spiegata senza di essa. Infatti, due cose che non sono state unite non possono essere intimamente legate l’una all’altra, senza che almeno una di esse subisca un qualche cambiamento. Questo principio è abbastanza chiaro di per sé. Inoltre, l’abbiamo già utilizzato per dimostrare che la dimora dello Spirito Santo nei giusti non va senza una trasformazione soprannaturale delle anime che Egli benedice con la sua presenza. Se, dunque, nessuna intelligenza creata può aspirare alla visione di Dio, senza che l’essenza divina sia in essa come forma infinitamente intelligibile che la avvolge e la penetra, ci deve essere una modificazione da parte della creatura: perché la stabilità immutabile della natura divina si oppone a qualsiasi idea di cambiamento di cui diventerebbe oggetto. Ora, questa trasformazione dell’intelligenza umana, dove la troveremo, se la luce della gloria, invece di essere una realtà, sia solo una parola vana? – Aggiungiamo una terza ed ultima prova. L’Essenza divina è una forma intelligibile che, per sua natura, è così propria dell’intelligenza di Dio da non avere alcuna proporzione con essa: perché in Dio queste tre cose, l’intelligenza che conosce, l’oggetto che è conosciuto ed il principio formale da cui la conoscenza procede, sono una sola e medesima cosa, senza divisione o distinzione. Come potrebbe la stessa forma intelligibile diventare la forma di un’intelligenza creata, se questa intelligenza non ricevesse in sé una partecipazione più profonda e sublime dall’intelligenza a cui questa forma è naturalmente propria? Quindi, ancora una volta, è necessario, per la visione beatifica, che l’intelligenza creata sia resa ad immagine dell’intelligenza increata mediante un’assimilazione che superi in eccellenza ogni altra luce intellettuale, sia che provenga dalla natura, come la ragione, sia che provenga dalla grazia come la fede (S. Thom., Gent., vol. III, c. 53). La luce della gloria ha quindi due funzioni che si completano e si richiamano a vicenda: da un lato, è il legame necessario tra l’anima del veggente e la luce divina che la feconda; dall’altro, è una capacità aggiuntiva che dà l’attitudine necessaria a contemplare l’infinito splendore, presente in ciascuno degli eletti. Confesso che questa dottrina non è di fede in ogni dettaglio. Ciò che ogni Cattolico debba credere, perché la Chiesa, illuminata dalla rivelazione, lo ha solennemente definito, « è che l’anima umana ha bisogno della luce della gloria per elevarsi alla visione di Dio e per goderlo nella beatitudine » (Concil. Viennens. Damnat. error. Beguardorum… prop. 5). Per quanto riguarda la determinazione più esplicita e precisa di questa elevazione soprannaturale, questa è, in misura maggiore o minore, una questione di scienza teologica. Una cosa è certa: le stesse ragioni che provano l’esistenza di virtù infuse, anteriori agli atti meritori, dimostrano la necessità di una simile elevazione per l’intelligenza, ammessa alla contemplazione della bellezza eterna. Né l’analogia tra la natura e la fede, né la perfezione dello stato, richiesta per la beatitudine, ci permettono di immaginare una luce di gloria che non istituisca nell’anima alcun principio reale e permanente dell’operazione divina (S. Thom.; 2. 2., q. 175, a. 3 ad 2; de Verit., q. 20, a. 2; q. 13 ad 2 ecc.). Non credo che ci sia nulla nei Padri che ci obblighi a dubitare di queste verità. È vero che essi non parlano espressamente di questo principio creato che abbiamo chiamato luce della gloria. Questa è l’osservazione di Petau (Petav., de Theolog. dogmat., t. 1, de Deo, L. VII, c. 8, n. 3); ma bisogna riconoscere che tutti richiedono nel beato una virtù superiore alle forze naturali, come questo grande teologo concede e dimostra negli stessi testi. Che poi il nome di luce della gloria si applichi o all’Essenza divina che si unisce all’intelligenza come sua forma ideale, o alla virtù creata che rafforza l’intelligenza stessa, è una mera disputa di parole, purché si sia d’accordo sulla sostanza della dottrina. – Non mi sembra neppure che si possa attaccare la teoria di San Tommaso, di San Francesco di Sales e degli Scolastici in nome dei testi accumulati dal dotto Thomassin (Thomass. De Deo, L. V, c. 16). Secondo lui, la dottrina dei Padri si riassumerebbe in due affermazioni principali. In primo luogo, la forma intelligibile che rende visibile Dio all’anima beata è il Verbo; da qui la nota espressione: « Vedere nel Verbo ». In secondo luogo, la luce della gloria non è altro che lo Spirito Santo, che è unito molto strettamente alla mente del veggente. Così, è attraverso Dio che Dio viene visto, perché lo Spirito Santo è la potenza attraverso la quale viene visto, e il Figlio è la specie nella quale viene visto” (in un’appendice speciale sul verbo nella visione beatifica, diremo cosa si può intendere con queste parole: « vedere Dio nel Verbo »). Queste due affermazioni, dico, anche supponendo che esprimano bene il pensiero dei Padri a cui Thomassin le attribuisce, non vanno in alcun modo contro la nostra dottrina. Se ne sarà pienamente convinti, se ricordiamo i caratteri ipostatici del Figlio e dello Spirito Santo e le leggi di appropriazione. – Poiché il Figlio procede per via di intelligenza, come Verbo, e quindi come luce e verità, cosa c’è di più naturale che attribuire al Figlio ciò che è appropriato all’Essenza divina, in quanto Luce e Verità? Inoltre, che cos’è il Verbo se non l’immagine, la somiglianza, il volto, la parola, la manifestazione viva e sostanziale di Dio? Così, c’è un nuovo titolo per il ruolo di immagine e la funzione di forma ideale che la divinità ricopre nella visione beatifica, da appropriarsi a Lui, piuttosto che al Padre o allo Spirito Santo. D’altra parte, non dobbiamo forse vedere nel Principio superiore di attività che deve elevare l’intelligenza e renderla adatta alla contemplazione di Dio, la perfezione suprema e finale della creatura ragionevole, il dono per eccellenza che viene fatto all’uomo, la causa prossima della sua unione beata con Dio? Ora, se non sbaglio, è proprio questo il carattere degli effetti divini che attribuiamo singolarmente a Colui che si manifesta come il complemento della Trinità, il Dono personale, l’Unione del Padre e del Figlio, cioè allo Spirito Santo. – Leggo nel Vangelo: « Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e coloro ai quali il Figlio ha voluto rivelarlo » (Mt X, 27). E ancora: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio ». E ancora: « Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò a lui » (Gv. XIV, 21). Bisognerà concludere che questa rivelazione che ci viene fatta dal Padre e dal Figlio, sia l’opera esclusivamente personale del Figlio unico? Niente affatto, perché leggo altrove: « Nessuno conosce ciò che è in Dio se non lo Spirito di Dio; e noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che è di Dio, per conoscere i doni che Dio ci ha fatto » (1 Cor., II, 11-12). È sempre la stessa legge di appropriazione, attraverso la quale tutto si chiarisce e si riconcilia nell’unità armoniosa di una verità totale. – Un errore che non posso passare del tutto sotto silenzio consisterebbe nel supporre, come alcuni sembrano aver fatto in passato, che la luce della gloria sia la visione di Dio stesso, che è diventata, non so per qual influsso, la visione stessa della creatura. Chimere di menti sbagliate che non meritano di essere confutate. Perché non è forse follia lusingarsi di vedere con un atto che non sia nostro? Se non c’è altra visione che quella di Dio, diresti cento volte che essa non è comunicata; non è questo un atto in cui trovo la mia stessa vita: quindi, per quanto perfetta possa essere la visione divina, mi lascia nelle tenebre. Rispondereste che, se la visione divina non è vostra, ne avete la coscienza e che con questa coscienza entrate in possesso del suo oggetto? Si tratterebbe comunque di un’illusione manifesta: perché ciò che cade sotto l’occhio della vostra coscienza sono i vostri atti e non quelli degli altri. Chiunque volesse andare a fondo di tali teorie vi troverebbe presto il panteismo come corollario o principio; e questa ragione da sola è sufficiente perché esse siano universalmente bandite da ogni scuola e libro cattolico. Ma questo è sufficiente per parlare del principio prossimo della visione beatifica. È giunto il momento di studiarne esplicitamente l’oggetto e le operazioni.

(Vale la pena di citare il testo seguente, molto adatto a chiarire molte delle idee contenute in questo terzo capitolo. « Oportet nunc considerare et intelligere: quis sit modus videndi Deum per essentiam. In omni siquidem vision oportet ponere aliquid quo videns visum videat. Et hoc est vel essentia ipsius visi, sicut Cum Deus cognoscit seipsum, vel aliqua similitudo ejus, sicut cum homo videt lapidem. Et hoc ideo quia ex intelligente et intelligibili oportet aliquo modo fieri in intelligendo unum. Non autem potest dici quod essentia divina videatur ab aliquo intellectu creato per aliquam similitudinem…. Omnis enim similitudo divinæ essentiæ in intellectu recepta non potest habere aliquam convenientiam cum essentia divina, nisi analogice tantum. Et ideo cognitio quæ esset per talem similitudinem, non esset ipsius Dei per essentiam, sed multo imperfectior quam si cognosceretur substantia per similitudinem accidentis. Restat ergo ut illud quo intellectus creatus Deum per essentiam videt, sit essentia divina. Non auteun oportet quod ipsa essentia intellectus ipsius, quod se habeat ad ipsum ut forma. » – S. Thom. De Verit. D. 8, a. 1).

LA GRAZIA E LA GLORIA (46)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. BENEDETTO XIV – “ALLATAE SUNT” (1)

Questa lunga lettera Enciclica del Sommo Pontefice Benedetto XIV, fu scritta per regolare i rapporti fra le consuetudini ed i riti orientali ed occidentali all’interno della Chiesa Cattolica, per armonizzare le condotte dei pastori dei fedeli dell’una e dell’altra parte in modo da rispettare le consuetudini proprie, approvate già dalla Santa Sede, senza alterare minimamente i principii fondamentali della fede cattolica. Trattasi di un documento ben articolato e ricco di particolarità storiche e dottrinali, …fra l’altro, autorizza i Siriaci e gli Armeni che assistono alle cerimonie religiose nelle Chiese latine a conservare i loro riti; nega ai Missionari la facoltà di dispensarli dall’astinenza dai pesci in tempo di digiuno; precisa quando è permessa la Comunione sotto le due specie; illustra l’origine e l’intangibilità del Sanctus Deus, Sanctus Fortis, Sanctus Immortalis, miserere nobis; ribadisce quale dogma di fede la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio (Filioque); indica le regole cui devono attenersi i Missionari che cercano di portare gli Orientali e i Greci all’unione e alla fede cattolica dallo scisma e dagli errori; raccomanda infine l’adozione del Calendario Gregoriano. Questo è l’esempio del vero ecumenismo, portare tutti nell’unico ovile di Cristo sotto un solo Pastore, nulla a che vedere con gli apostati usurpanti posconciliari, gli adoratori delle pachamame e dello sterco di vacca indiana. Abbiamo diviso, per la sua lunghezza, in due parti la lettera per consentirne un maggiore approfondimento e goderne l’interessante prezioso contenuto.

Benedetto XIV
Allatæ sunt (1)

1. È giunta alla Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa preposti agli affari di Propaganda Fide la lettera di un Sacerdote assegnato come missionario alla città di Balsera, che comunemente chiamano Bassora, che dista da Babilonia quindici giorni di viaggio e che è celeberrima dal punto di vista commerciale. In tale lettera credette opportuno esporre che in quella città risiedevano molti cattolici di rito orientale, cioè Armeni o Siriani che, mancando di una loro Chiesa specifica, si recano nella chiesa dei missionari latini dove i loro Sacerdoti offrono il Santo Sacrificio secondo i loro riti particolari e compiono altre sacre cerimonie. I laici intervengono a questi sacrifici e ricevono i Sacramenti dai medesimi Sacerdoti. Per cui colse l’occasione per chiedere se i predetti Armeni e Siriani debbono osservare il loro rito o se si debba togliere la varietà nella stessa Chiesa, nella quale anche i Latini, come abbiamo detto, si radunano e non sembri più logico che Armeni e Siriani, lasciato il vecchio calendario, abbraccino quello nuovo nelle questioni che riguardano i tempi della solennità pasquale e della Comunione annuale, come pure della Quaresima e i giorni delle feste, sia mobili, sia immobili. Andando oltre, poiché ai predetti Armeni di Balsera e ai Siriani si comanda di osservare il nuovo calendario, chiese se ciò si deve prescrivere anche agli altri Orientali che hanno un tempio particolare ma così angusto che è ritenuto inidoneo ad ospitare le sacre funzioni in modo decoroso, così che per lo più si recano nella Chiesa dei Latini.

2. Inoltre lo stesso Missionario sottopose alla predetta Congregazione perché – mentre ai Cattolici Orientali Armeni e Siriani viene comandato, nei giorni di digiuno, di astenersi dai pesci – vi sono parecchi tra di loro che non osservano affatto ciò, spinti da un certo disprezzo, ma in parte trascinati dalla fragilità della natura, in parte dal fatto che vedono che i cattolici latini hanno un’altra tradizione: perciò non sembri strano se si dà al Missionario la facoltà di permettere, non a tutti, ma in particolare a questi o a quelli, di usare il pesce in tempo di digiuno, in modo che non nasca scandalo alcuno e siano obbligati a fare altra opera di pietà in luogo dell’astinenza dai pesci.

3. Questi quesiti, come abbiamo detto, furono sottoposti dal suddetto Missionario alla Congregazione di Propaganda Fide che, secondo il costume, rimise la stessa cosa da esaminare all’altra Congregazione generale dell’Inquisizione. Questa si riunì davanti a Noi il 13 marzo del corrente 1755 e con il consenso unanime dei Cardinali fu risposto che “nulla doveva essere innovato“. Ciò Noi stessi abbiamo confermato con la Nostra autorità, spinti soprattutto dal Decreto in altri tempi emanato dalla predetta Congregazione di Propaganda Fide il 31 gennaio 1702, che poi fu confermato e rinnovato non una volta sola ed è di questo tenore: “Referente R. P. D. Carlo Agostino Fabrono, Segretario, la Sacra Congregazione ordinò di comandare, come col presente decreto si comanda, a tutti e ai singoli prefetti di Missioni apostoliche e ai Missionari, che nessuno di essi in seguito, per qualunque occasione o con qualunque pretesto, osi dispensare i cattolici di qualunque Nazione Orientale da digiuni, orazioni, cerimonie e simili prescritti dal Rito proprio delle stesse Nazioni, e approvati dalla Santa Sede Apostolica. Inoltre la stessa Sacra Congregazione stabilì che non era lecito né è lecito ai predetti Cattolici allontanarsi dalla consuetudine e dall’osservanza del proprio Rito, approvato, come sopra, dalla Santa Chiesa Romana. Tale decreto, così confermato e rinnovato, gli stessi Eminentissimi Padri comandarono si dovesse osservare per intero e senza alcuna esitazione da tutti e singoli i suddetti Prefetti e Missionari“. Tale decreto riguarda i cattolici della Chiesa Orientale e i loro Riti approvati dalla Sede Apostolica. A tutti è noto che la Chiesa Orientale consta di quattro Riti: il greco, l’armeno, il siriaco e il copto, i quali Riti si intendono tutti compresi nell’unico nome di Chiesa Greca o Orientale, così come sotto il nome di Chiesa Latina Romana si comprendono il Rito Romano, Ambrosiano, Mozarabico e i vari Riti particolari degli Ordini Regolari.

4. È così chiaro il senso del decreto che non ha bisogno di alcuna spiegazione, per cui questa Nostra Lettera Enciclica ha lo scopo che questa legge sia conosciuta da tutti, per essere osservata con maggiore diligenza. Giustamente si può dubitare infatti che le questioni proposte dal Missionario di Balsera dipendano dalla ignoranza dei decreti che già molto tempo prima furono emanati. Ma poiché da molti altri e frequenti indizi siamo indotti a ritenere che i Missionari latini mettano ogni cura e impegno in questo: per convertire gli Orientali dallo scisma e dall’errore all’unità e alla Santa Cattolica Religione, tolgono di mezzo il rito orientale o almeno lo indeboliscono e attirano i Cattolici Orientali ad abbracciare il rito latino, non per altra ragione, se non col desiderio di amplificare la Religione e di fare opera buona e gradita a Dio, perciò reputammo consentaneo (poiché ci siamo decisi a scrivere) con questa Nostra Enciclica, di comprendere nella forma più breve tutto ciò che, a parere di questa Sede Apostolica, devono tenere di norma gli Orientali tutte le volte che si convertono alla Religione Cattolica, e quello che si deve osservare coi Cattolici Orientali che sono nei luoghi dove non abitano Latini o i Cattolici Latini quando dimorano con gli Orientali Cattolici.

5. Per certo non si può ignorare quanto abbiano fatto i Romani Pontefici, fin dai primi tempi della Chiesa, per ridurre ad unità gli Orientali, dopo il funesto scisma di Fozio, che al tempo del Sommo Pontefice San Nicola I, allontanato con la forza Sant’Ignazio, patriarca legittimo, occupò la Sede di Costantinopoli. San Leone IX, Nostro predecessore, mandò i suoi ambasciatori a Costantinopoli per eliminare siffatto scisma, che, sopito per circa due secoli, Michele Cerulario aveva rinfocolato; ma i suoi tentativi caddero nel nulla. Successivamente, Urbano II invitò gli Orientali al Concilio di Bari ma ne ricavò poco frutto, quantunque Sant’Anselmo, arcivescovo di Canterbury, abbia messo ogni cura per conciliarli con la Chiesa Romana, ed abbia loro manifestato gli errori in cui si trovavano con la luminosità della propria dottrina. Nel Concilio di Lione che il beato Gregorio X aveva indetto, l’imperatore Michele Paleologo e i Vescovi greci abbracciarono l’unità della Chiesa Romana; ma poi, cambiato parere, si allontanarono nuovamente da essa. Nel Concilio di Firenze (sotto il Papa Eugenio IV), dove si erano recati Giovanni Paleologo e Giuseppe, patriarca di Costantinopoli, con gli altri Vescovi Orientali, fu stabilita l’Unione e accettata con la firma di ognuno. Nello stesso Concilio le Chiese degli Armeni e dei Giacobiti ritornarono all’obbedienza della Sede Apostolica; poi il Pontefice Eugenio, partito da Firenze per Roma, ricevette anche gli ambasciatori del Re degli Etiopi e ridusse all’obbedienza della Sede Romana i Siri, i Caldei e i Maroniti. Ma poiché, come si legge nel Vangelo di San Matteo, il seme che cade sulla pietra non reca alcun frutto, perché non ha dove mettere le radici: “Questi sono coloro che ricevono con gioia la parola di Dio, ma non hanno in sé radice: per cui quando vengono la tribolazione e la persecuzione a cagione della parola, subito si scandalizzano” (Mt 13,20-21), così appena Marco Arcivescovo di Efeso, come un nuovo Fozio, cercò di distruggere l’Unione e cominciò ad alzare la voce contro di essa, subito il frutto desiderato andò perduto completamente.

6. Inoltre si dimostrerebbe ignorante di storia chi non sapesse che l’unione con gli Orientali fu fatta e confermata in modo che si accettasse il dogma della processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, così che ammettevano come lecita l’aggiunta della parola Filioque fatta nel Credo, e che il pane fermentato e l’azimo fossero materia dell’Eucaristia. Così abbracciarono il dogma del Purgatorio, della visione beatifica e del Primato del Romano Pontefice; in una sola parola, fu messa ogni cura per eliminare gli errori contrari alla Fede Cattolica, ma mai si fece sì che venisse alcun danno al venerabile Rito orientale. Ma anche chi ignorasse la presente disciplina della Chiesa, sulla quale non si fosse sufficientemente documentato, sappia che i Romani Pontefici, per nulla trattenuti dagl’insuccessi dei tempi passati, sempre pensarono di riportare i Greci all’Unione, come poco sopra abbiamo indicato: sempre insistettero e ancor oggi insistono, così come dalle loro parole e dai loro comportamenti chiaramente si comprende.

7. Nell’undicesimo secolo a Costantinopoli, ad Alessandria e nel Patriarcato Gerosolimitano si trovavano diverse Chiese latine, nelle quali si osservava il Rito latino, così come a Roma non mancavano Chiese greche nelle quali si celebravano i sacri Riti in Rito greco. Michele Cerulario, l’empio instauratore dello scisma, comandò di chiudere le Chiese latine. Invece Leone IX, Pontefice Romano, non restituì pan per focaccia, quantunque lo potesse fare con estrema facilità, e non chiuse a Roma i templi dei Greci, ma volle fossero aperti. Perciò, lamentandosi dell’ingiustizia compiuta contro i Latini, nella sua prima lettera, al cap. 9, così scrive: “Ecco, sotto questo aspetto, la Chiesa Romana quanto è più discreta, moderata e clemente di voi? Infatti, essendoci dentro e fuori Roma molti monasteri e Chiese dei Greci, nessuno di essi è turbato o gli è proibito seguire la tradizione avita o la specifica tradizione: ché anzi è persuaso ed esortato ad osservarle“.

8. All’inizio del secolo decimoterzo, avendo i Latini conquistato Costantinopoli e il Sommo Pontefice Innocenzo III avendo stabilito di istituire in quella città un Patriarca latino a cui obbedissero non solo i Latini, ma anche i Greci, tuttavia non dimenticò di dichiarare pubblicamente che egli non voleva interferire nei Riti greci, a meno che consuetudini da loro accolte costituissero un pericolo per le anime o fossero in contrasto con l’onestà della Chiesa. La decretale di questo Papa, data nel Concilio Lateranense IV, è riportata nel tomo VII della collezione dei Concili di Arduino, nel cap. Licet de Baptismo “Quantunque vogliamo eccitare i Greci ad obbedire e a ritornare alla Sede Apostolica, oggi vogliamo onorarli sostenendo, per quanto possiamo con l’aiuto di Dio, i loro costumi e i loro Riti, non vogliamo tuttavia sostenerli in quello che costituisce pericolo per le anime o deroga all’onestà della Chiesa“. Onorio III, poi, che successe subito a Innocenzo, usò le stesse parole quando scrisse al Re di Cipro che desiderava due Vescovi per alcune popolazioni del suo Regno, uno Latino per i Latini che colà abitavano, e l’altro Greco per i Greci che abitavano nei medesimi territori. Questa lettera di Onorio si legge stampata negli Annali di Rainaldo (Anno di Cristo 1222, n. 5).

9. Di documenti siffatti abbonda il secolo decimoterzo. A questo secolo appartiene la lettera di Innocenzo IV a Daniele, re di Russia, presso Rainaldo (Anno 1247, n. 29), il quale, lodando la speciale devozione del Re alla Chiesa Cattolica, concede che si conservino nel Regno stesso i Riti che non ripugnavano alla Fede della Chiesa Cattolica, così scrivendo: “Perciò, carissimo Figlio in Cristo, propensi alle tue suppliche, ai Vescovi ed agli altri Sacerdoti di Russia, permettiamo che sia lecito ad essi operare secondo il loro uso a fermento e permettiamo, in forza della presente, che possano osservare gli altri loro Riti che non siano contrari alla Fede Cattolica che la Chiesa Romana professa“. Qui viene a proposito la lettera dello stesso Innocenzo IV ad Ottone, Cardinale tuscolano, legato della Santa Sede nell’isola di Cipro, a cui aveva affidato l’incarico di comporre alcune controversie che erano nate tra Latini e Greci, come si apprende dalla sua Costituzione, che comincia “Sub Catholicae” e che nel vecchio Bullario, tomo I, è registrata al numero 14: “Ma poiché alcuni Greci da tempo tornati alla devozione della Sede Apostolica a questa obbediscono con reverenza, conviene che, tollerando, per quanto possiamo con Dio, i costumi e i Riti loro, li conserviamo nell’obbedienza alla Chiesa Romana, senza concessioni ai pericoli delle anime e all’onestà della Chiesa“.

Dopo avere disposto nella stessa lettera ciò che si doveva fare dai Greci, enumerò quello che pensava si dovesse loro permettere. Conclude con queste parole: “Ricordate poi all’Arcivescovo di Nicosia e ai suoi Suffraganei latini di non inquietare e molestare i Greci e nessuno dopo la nostra deliberazione“. Lo stesso Pontefice Innocenzo IV, nominando Lorenzo Minorita suo penitenziere, come delegato apostolico e dandogli piena autorità su tutti i Greci che abitavano nel Regno di Cipro, nei patriarcati Antiocheno e Gerosolimitano e anche sui Giacobiti, Maroniti e Nestoriani, questo soprattutto gli raccomandò: di mettere sotto la sua autorità tutti i Greci, difendendoli da tutte le molestie che potevano essere loro recate dai Latini: “Ti raccomandiamo che proteggendo con l’autorità apostolica i Greci di quelle parti, con qualunque nome vengano chiamati, tu non permetta che siano turbati da molestie o violenze recate dai Latini, facendo chiedere piene scuse e comandando ai Latini stessi che cessino completamente da cose simili“. Queste sono le parole di Innocenzo al predetto Delegato Apostolico che sono riportate da Rainaldo (Anno 1247, n. 30).

10. Alessandro IV, succeduto immediatamente al Pontefice Innocenzo, essendosi accorto che la volontà del suo Predecessore era stata vana e venendo a sapere che le agitazioni tra i Vescovi Greci e Latini esistevano ancora nel Regno di Cipro, comandò ai Vescovi Latini che lasciassero andare gli Ecclesiastici Greci ai loro Sinodi, e dichiarandoli soggetti ai decreti sinodali aggiunse la seguente condizione: “Accogliere e osservare gli Statuti Sinodali che non siano contrari ai Riti Greci della Fede Cattolica e che siano tollerati dalla Chiesa Romana“. Aderendo a tale lodevole esempio, Elia Vescovo di Nicosia nel 1340 nei suoi decreti sinodali inserì questa dichiarazione: “Con questo non intendiamo proibire ai Vescovi greci e ai loro sudditi di seguire i loro Riti, che non siano contrari alla Fede Cattolica, in conformità del patto pubblicato da Alessandro, Romano Pontefice di felice memoria, fra Greci e Latini nel Regno di Cipro, e rispettato“. Tutto questo si può vedere nella collezione di Filippo Labbe (edizione di Venezia, tomo 14, p. 279, e tomo 15, p. 775).

11. Sulla fine del secolo decimoterzo si colloca la citata Unione dei Greci e dei Latini concordata nel Concilio Generale di Lione, sotto il beato Gregorio X, Sommo Pontefice, che mandò a Michele Paleologo la Confessione di Fede e il decreto di Unione confermato dal Concilio e giurato dai Legati Orientali, affinché lo stesso Imperatore e gli altri Vescovi Greci lo sottoscrivessero. Tutto fu fatto dall’Imperatore e dagli Orientali, aggiuntavi però questa condizione che è contenuta nella stessa lettera riportata nella sua Raccolta da Arduino: “Ma chiediamo alla Vostra Grandezza di restare nei nostri Riti, che usavamo prima dello scisma, Riti che non sono contrari alla Fede né contro i Divini Comandamenti” (Arduino, tomo 8, p. 698). Quantunque la risposta di Gregorio Papa a questa lettera degli Orientali sia andata perduta, tuttavia poiché egli reputò abbastanza sicura l’Unione da essi accettata e sottoscritta, da ciò naturalmente si deduce che questa condizione fu da lui accettata e approvata. E in verità Nicolò III, successore di Gregorio, per mezzo dei suoi ambasciatori che mandò a Costantinopoli, con queste parole rivelò fino in fondo il suo animo, come si ha presso Rainaldo nell’anno di Cristo 1278: “Circa gli altri Riti dei Greci, la stessa Chiesa Romana vuole che i Greci, per quel che Dio permette, possano perseverare in quei Riti che abbiano l’approvazione della Sede Apostolica purché con essi non si violi l’integrità della Fede Cattolica, né si deroghi ai sacri statuti dei Canoni“.

12. Per quel che riguarda il secolo decimoquinto, può bastare la sopra citata Unione stabilita nel Concilio di Firenze che, approvata da Papa Eugenio, Giovanni Paleologo sottoscrisse con questa nota: “Purché non si muti alcunché dei nostri Riti“, come si può vedere dalla Raccolta di Arduino (tomo 9, p. 395). Ma non avendo in animo di elencare i singoli provvedimenti che furono presi dai Romani Pontefici nei secoli successivi, ne sottolineeremo alcuni principali dai quali si conosca manifestamente che essi hanno fatto ogni tentativo affinché gli Orientali cancellassero da se stessi gli errori che occupavano i loro animi, ma nel contempo con chiari argomenti i Pontefici avevano manifestato che volevano protetti e difesi i Riti che i loro antenati, prima dello scisma, con l’approvazione della Sede Apostolica, avevano praticato; né mai avevano chiesto agli Orientali che, se volevano essere cattolici, abbracciassero il Rito latino.

13. Nella raccolta di documenti greci, edita a Benevento, si hanno due Costituzioni, di Leone X e di Clemente VII, nelle quali si sgridano violentemente quei Latini che censuravano nei Greci l’osservanza delle norme che nel Concilio di Firenze erano state loro permesse; soprattutto perché celebravano la Messa con pane fermentato, prendevano moglie prima di adire ai Sacri Ordini, e la conservavano dopo aver ricevuto l’ordinazione, e perché davano l’Eucarestia sub utraque specie anche ai bambini. Pio IV nella Costituzione Romanus Pontifex (n. 75, tomo 2, dell’antico Bollario)mentre stabilisce che i Greci abitanti nelle Diocesi dei Latini sono soggetti ai Vescovi Latini, subito aggiunge: “Con questo tuttavia non intendiamo che i Greci siano sottratti al loro Rito Greco o che siano impediti dagli Ordinari locali o da altri in alcun modo“.

14. Gli Annali di Gregorio XIII raccolti da Padre Maffeo e stampati a Roma nel 1742 riportano molte cose che lo stesso Pontefice fece, sia pure con esito poco felice, per convertire alla Fede Cattolica i Copti e gli Armeni. Ma si confanno soprattutto al nostro argomento quelle che si leggono nella Costituzione 63 (nel nuovo Bollario al tomo 4, parte 3), e in altre due, cioè la 157 e la 173 dello stesso Bollario (tomo 4, parte 4) a proposito della fondazione in Roma di tre Collegi istituiti dallo stesso Pontefice per Greci, Maroniti e Armeni, nei quali volle che gli alunni delle dette Nazioni fossero educati in modo che restassero sempre nei loro Riti Orientali. Fu celeberrima l’Unione dei Ruteni con la Sede Apostolica al tempo di Papa Clemente VIII di felice memoria, i cui documenti si leggono negli Annali del Venerabile Cardinale Baronio dove si espone il decreto fatto dagli Arcivescovi e Vescovi Ruteni per realizzare l’Unione, a questa condizione: “Salve e osservate per intero le cerimonie e i riti del culto Divino e dei Santi Sacramenti, secondo la tradizione della Chiesa Orientale, correggendo soltanto quei particolari che potrebbero impedire l’Unione stessa, in modo che si faccia tutto secondo l’antico costume, come fu una volta” (edizione romana dell’anno 1596, tomo VII, p. 682). Ma poco dopo a turbare la pace, si diffuse la voce che nell’Unione erano stati tolti tutti i Riti che i Ruteni avevano usato nella divina salmodia, nel sacrificio della Messa, nell’amministrazione dei Sacramenti e nelle altre sacre cerimonie. Paolo V nel 1615 in una lettera apostolica sotto forma di Breve, che è stampata nella stessa Raccolta di Greci, dichiarò la sua volontà solennemente con queste parole: “Purché non contrastino con la verità e con la dottrina della Fede Cattolica e non escludano la comunione con la Chiesa Romana, non c’è stata né c’è l’intenzione, il pensiero e la volontà nella Chiesa Romana di togliere o far scomparire con la citata Unione (i Riti Orientali): né che ciò si potesse dire od opinare, ché anzi i detti Riti per apostolica benignità ai Vescovi e al Clero Ruteno furono permessi, concessi e dati“.

15. Da qui si può facilmente arguire che le Chiese che in seguito i Romani Pontefici concessero in Roma ai Greci, ai Maroniti, agli Armeni, ai Copti, ai Melchiti, e che tuttora esistono, apertamente fanno le sacre funzioni, ciascuna secondo il proprio Rito. Qui si potrebbe citare opportunamente come Papa Clemente VIII nella sua Costituzione 34 (paragrafo 7 del vecchio Bollario) fissò un Vescovo greco a Roma, affinché amministrasse gli Ordini secondo il Rito greco, per gli Italo-Greci che abitavano le diocesi latine. Successivamente da Clemente XII, nostro immediato Predecessore, con la Costituzione Pastoralis fu aggiunto un altro Vescovo greco, che ha sede nella Diocesi di Bisignano, per ordinare gli Italo-Greci, affinché quelli che abitano lontano da Roma non siano costretti a fare un lungo cammino per ricevere gli Ordini dal Vescovo greco residente a Roma secondo la citata Costituzione di Clemente VIII; nemmeno ai Vescovi Cattolici dei Maroniti, dei Copti e dei Melchiti, che talvolta vengono a Roma, viene negata la facoltà di conferire gli Ordini secondo il proprio Rito alle persone del proprio popolo, purché ne siano idonee. Del pari qui si potrebbe aggiungere che ogni volta in cui sembrò dovesse modificarsi qualcosa nella disciplina degli Orientali o degli Italo-Greci, la Sede Apostolica lo fece precisando subito che nulla doveva toccarsi del Rito Orientale o dichiarando apertamente che si dovevano accettare le cose che si stabilivano per gl’Italo-Greci abitanti fra noi e soggetti alla giurisdizione dei Vescovi Latini, e che in nessun modo esse devono estendersi ai Greci Orientali che, separati da noi da lungo tempo, vivono sotto i loro Vescovi Greci Cattolici.

16. Ciò si apprende da quanto è stato approvato dal Sinodo provinciale dei Ruteni avvenuto nella città di Zamoscia nel 1720, di cui dovemmo occuparci personalmente, come Segretario della Congregazione del Concilio, su mandato di Benedetto XIII di felice memoria. È lecito ritenere che egli assecondasse le proposte dei Padri dello stesso Concilio, dai quali diversi Riti vigenti fra i Greci erano stati temperati o aboliti con propri decreti. Infatti, nel 1724 approvò il predetto Sinodo con una lettera apostolica in forma di Breve, tuttavia con la seguente dichiarazione: “Con la nostra approvazione del Sinodo nulla si pensi siasi derogato alle Costituzioni dei Romani Pontefici nostri predecessori e ai decreti dei Concili i generali, emanati circa i Riti greci che, nonostante questa approvazione, debbono sempre restare in vigore“. La stessa cosa si deduce da molte nostre Costituzioni che sono contenute nel nostro Bollario circa i Riti dei Copti, dei Melchiti, dei Maroniti, dei Ruteni e degli Italo-Greci in genere, e in ispecie, circa i Riti del clero della Chiesa collegiata messinese detta di Santa Maria “de Grafeo”, e infine del Rito Greco da osservare nell’Ordine di San Basilio. Nella Costituzione 87 (cf. stesso Bollario, tomo 1), sui Riti dei Greci Melchiti così si legge: “Sui Riti e i costumi della Chiesa Greca abbiamo decretato che in primis si deve stabilire che a nessuno fu, né è lecito, a qualunque titolo, o colore, o per qualunque autorità o dignità, anche se patriarcale, o episcopale, innovare alcunché o introdurre qualcosa che diminuisca l’integra ed esatta osservanza degli stessi“. Inoltre, nella precedente Costituzione 57, che comincia Etsi Pastoralis (al § 9, n. 1 che riguarda gli Italo-Greci) si dispone: “Poiché i Riti della Chiesa Orientale, partiti in non piccola parte dai Santi Padri, o trasmessi dai nostri antenati, si sono talmente fissati negli animi dei Greci e degli altri, i Pontefici Romani nostri Predecessori ritennero preferibile e più prudente approvare o permettere tali Riti, che in parte non sono contrari alla Fede Cattolica, né generano pericolo nelle anime, o derogano alla chiarezza della Chiesa, che ricondurli alle norme del cerimoniale romano“. Esi legge: “Inoltre, ciò che in qualunque regione concedemmo agli Italo-Greci (o consentimmo, dichiarammo, prescrivemmo, ordinammo, interdicemmo o proibimmo), o in Oriente fu concesso ai Greci residenti sotto la giurisdizione di propri Vescovi, Arcivescovi o Patriarchi cattolici, o in qualsiasi altra Nazione Cristiana che pratichi Riti approvati o permessi dalla Santa Sede, a qualunque titolo o giuridico, o di consuetudine, o in qualunque altro legittimo modo attribuito, o da Costituzioni Apostoliche, o da decreti di Concili generali o particolari, o delle Congregazioni dei nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa in materia di Riti Greci o di altri Riti Orientali, intendiamo che non sia pregiudicato da alcun patto o che ad esso si porti pregiudizio” (Ivi, § 9, n. 24).

17. Quindi, tralasciate molte altre testimonianze, diremo liberamente che i Pontefici Romani hanno messo ogni assidua cura per sconfiggere le eresie da cui partì lo scisma tra la Chiesa Orientale e Occidentale, e perciò richiesero la detestazione e l’abiura da quegli orientali che domandano di tornare all’unità della Chiesa o da coloro sui quali si deve indagare se veramente appartengono all’unità della Sede Apostolica. Sono due le professioni di fede, la prima delle quali fu prescritta da Gregorio XIII (tomo 2 dell’antico Bollario Romano, n. 33); l’altra fu stabilita da Urbano VIII fra gli Orientali. Ambedue furono stampate dalla tipografia della Congregazione di Propaganda Fide, la prima nel 1623, l’altra nel 1642. Poiché nel 1665 il Patriarca di Antiochia, siriano di Ierapoli, e l’Arcivescovo dei Siri che abitano nella stessa città di Ierapoli, avevano trasmesso a Roma la loro professione di Fede, che era stata data da esaminare a padre Lorenzo de Lauria, conventuale, allora consultore del Santo Officio e poi Cardinale di Santa Romana Chiesa, questi il 28 aprile dello stesso anno produsse per iscritto il suo parere, che fu approvato dalla Congregazione e che si conclude con queste parole: “Va tutto bene, ma c’è da segnalare a chi di dovere, che in seguito curino che sia emessa la professione di Fede prescritta da Urbano VIII di felice memoria per gli Orientali, perché essa contiene l’abiura di molte eresie e altre cose necessarie per quelle zone“.

18. Avendo il nemico, per seminare zizzania, spinto l’animo di taluni a tal punto di malizia da spargere errori nei Messali, nei Breviari e nei Rituali dai quali gli ecclesiastici e gli altri del clero venissero avvelenati, con decisione opportuna e dopo accurato esame i Romani Pontefici curarono la stampa, per i tipi della Congregazione di Propaganda Fide, del Messale Copto e Maronita, e così pure Slavo e simili. Né si deve passare sotto silenzio quanta cura e fatica siano costate nel correggere l’Eucologio greco, che uscì negli ultimi mesi, emendato, dalla Tipografia della stessa Congregazione. L’esame di quest’opera fu iniziato con grande impegno sotto il Papa Urbano VIII e tralasciato dopo non molto tempo; di nuovo fu ripreso recentemente sotto Clemente XII, nostro immediato Predecessore; Dio ottimo massimo Ci diede questa gioia, dopo molte veglie, fatiche e discussioni compiute nel tempo del Nostro Pontificato da Cardinali, Vescovi, Teologi e studiosi di lingue orientali, che accuratamente ricercando, leggendo e rileggendo, valutando tutto ciò che doveva essere letto e consultato, ci hanno dato un’opera di assoluta profondità, realizzata con sistematica accuratezza e scrupolosa cura: un’opera, che guardiamo con ammirazione, nella quale non fosse assolutamente toccato il Rito greco, ma restasse intatto ed integro quantunque nei tempi precedenti tra i nostri teologi non siano mancati quelli che totalmente ignari delle liturgie orientali e dei Riti che vigevano nella Chiesa Orientale prima dello scisma riprovavano tutto quello che era contrario al Rito della Chiesa Occidentale, il solo che conoscevano bene. Per dirla in una parola, curando il ritorno dei Greci e degli Scismatici Orientali alla Religione Cattolica, massima preoccupazione dei Romani Pontefici fu di estirpare radicalmente dalle coscienze gli errori di Ario, Macedonio, Nestorio, Eutiche e Dioscoro, dei Monoteliti e di altri, nei quali erano sciaguratamente incappati, salvi tuttavia e intatti i Riti e la disciplina che osservavano e professavano prima dello scisma, e ciò che si fonda nelle loro venerande, antiche Liturgie e nei Rituali. I Romani Pontefici non richiesero mai che tornando alla Fede Cattolica dovessero abbandonare il loro Rito e abbracciare quello Latino: ciò avrebbe portato con sé tale devastazione della Chiesa Orientale e dei Riti Greci che non solo non fu mai tentato, ma fu, ed è, totalmente alieno dai propositi di questa Santa Sede.

19. Da quello che finora fu riferito ampiamente, facilmente si possono trarre molte conclusioni. Primo: da quel Missionario che cerca di indurre all’unità, con l’aiuto di Dio, gli Scismatici orientali e i Greci e ad allontanare dal loro animo gli errori contrari alla Fede Cattolica che i loro antenati abbracciarono, per avere un motivo purchessia per dividersi dall’unità della Chiesa e per sottrarsi all’obbedienza e all’ossequio al Romano Pontefice, come capo della stessa Chiesa, devono essere esperiti tutti i tentativi e tutte le cure, e questo soltanto. Per quel che riguarda gli argomenti che il Missionario deve usare, dal momento che gli Orientali aderiscono assai ai propri Padri antichi, la cosa è già stata fatta dall’operosa assiduità del diligentissimo Leone Allazio e di altri famosi Teologi, i quali dimostrarono, senza ombra di errore, che tra di loro concordano ampiamente gli antichi e più rinomati Greci e i nostri Padri della Chiesa occidentale in tutto ciò che riguarda il dogma e nella confutazione degli errori nei quali gli Orientali e i Greci sono ora miseramente caduti. Per cui lo studio di questi libri indubbiamente recherà la massima utilità. Per la verità, i Luterani nel secolo scorso tentarono di trarre gli Orientali e i Greci nei loro errori. Lo stesso tentarono i Calvinisti, strenui nemici della presenza reale di Cristo nel Sacramento dell’Eucaristia e della transustanziazione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, e attirarono dalla loro parte il patriarca Cirillo, come si dice. Tuttavia, come i Greci, ancorché Scismatici, si accorsero che con le eresie di Lutero andavano contro l’autorità dei loro antichi Padri, in particolare dei Santi Cirillo, Giovanni Crisostomo, Gregorio Nisseno, Giovanni Damasceno, e contro i veri argomenti che vengono dalle loro Liturgie per affermare la reale presenza e transustanziazione, non tollerarono di essere ingannati né vollero in alcun modo recedere dalla verità cattolica. Tutto ciò si deduce dallo Schelestrato nella dissertazione Del perpetuo consenso della Chiesa Orientale contro i Luterani sotto il titolo Della transustanziazione (tomo 2, p. 717), degli Atti della Chiesa Orientale. Gli stessi in due Sinodi condannarono unanimi il patriarca Cirillo, cioè i dogmi Calvinisti passati sotto il suo nome, come si può vedere presso Cristiano Lupo (parte 5, Concili generali e provinciali, e soprattutto nella dissertazione Di alcuni luoghi, cap. 9, in fine). Da ciò brilla innanzi tutto una speranza non lieve, che le opinioni dei vecchi Padri, sottoposte ai loro occhi, combattano i loro nuovi errori, favoriscano più che mai il nostro Dogma Cattolico, rendano facile la via del loro ritorno e li spingano a vera conversione. Poi si può dedurre una seconda conseguenza, cioè che non solo non è necessario agli Orientali e ai Greci, per essere richiamati sulla via dell’unità, che siano toccati e cambiati i loro Riti; in verità ciò fu sempre alieno dalle decisioni della Sede Apostolica, che in questa materia dei sacri Riti seppe distinguere la zizzania dal grano, quando fu necessario. Tentativi siffatti erano molto contrari alla desideratissima Unione, come ben disse Tommaso di Gesù Sulla conversione di tutte le genti (libro 7, cap. 2): “Si deve anche mostrare che la Chiesa Romana approva e consente che ciascuna Chiesa aderisca ai propri Riti e alle proprie cerimonie, dal momento che gli Scismatici sono attaccatissimi ai propri Riti. E perché il sospetto infondato di doverli perdere non li allontani dalla Chiesa Romana, si deve opportunamente lavorare perché si persuadano che si conservano le loro cerimonie“. Infine, da quanto abbiamo detto sopra si deduce questo terzo principio: il Missionario che desidera convertire lo Scismatico orientale, non cerchi di indurlo a seguire il Rito Latino; questo solo dovere viene affidato al Missionario: richiamare l’Orientale alla Fede Cattolica, non indurlo al Rito Latino.

20. Fatta nel Concilio di Firenze l’Unione che sopra abbiamo ricordata, alcuni Latini Cattolici, che abitavano in Grecia, stimarono fosse loro lecito passare dal Rito Latino al Greco, attratti forse da quella libertà che era stata riservata ai Greci, di trattenere, dopo l’Ordine Sacro, le mogli che avevano sposato prima di ricevere l’Ordine. Ma Nicolò V, Pontefice Massimo, non trascurò di porre un rimedio opportuno a questa corruzione, come si deduce dalla sua Costituzione (tomo 3, parte 3 del Bollario edito di recente a Roma, p. 64): “Giunse al nostro orecchio che nei luoghi che in Grecia sono soggetti ai Cattolici, molti Cattolici, col pretesto dell’Unione, passano spudoratamente ai Riti Greci. Siamo molto meravigliati e non cessiamo di meravigliarci, non sapendo che cosa sia che li spinse, dalla disciplina e dai Riti nei quali sono nati e cresciuti, a trasferirsi in Riti forestieri: infatti, anche se i Riti della Chiesa Orientale sono lodevoli, non è lecito tuttavia mischiare i Riti delle Chiese, né ciò mai permise il Sacrosanto Sinodo Fiorentino“. Dal momento che il Rito Latino è quello che usa la Santa Romana Chiesa, che è Madre e Maestra delle altre Chiese, deve preferirsi a tutti gli altri Riti. Da ciò si deduce che non è lecito passare dal Rito Latino a quello Greco, né a quelli che una volta dal Rito Greco o Orientale passarono a quello Latino è pacifico tornare all’antico Rito Greco come appar chiaro dalla Nostra Costituzione Etsi Pastoralis (nel Nostro Bollario, tomo 1, 57, par. 2, n. 13), a meno che non intervengano delle circostanze rilevanti, che persuadano a dare una dispensa per questa ragione, come in passato e anche ora avviene nel Collegio dei Maroniti di questa nostra Urbe, nel quale, quando si trovi qualche Sacerdote della Compagnia di Gesù che, entrando in Congregazione, ottenne la dispensa di passare al Rito Latino, talvolta da esso viene dispensato, così da celebrare la Messa nella Chiesa di detto Collegio in Rito Siriaco e Caldaico e recitare l’Ufficio divino secondo lo stesso Rito. Per di più, può insegnare lo stesso Rito agli alunni ospiti nel medesimo Collegio. Ciò appare chiaramente da diversi decreti del Santo Officio, uno datato 30 dicembre 1716, uno 14 dicembre 1740, nonché da un altro più recente che Noi abbiano ordinato di spedire il 19 agosto 1752.

21. Ciò riguarda il passaggio dal Rito Latino al Greco. Ora poi parlando del passaggio dal Rito Orientale e Greco a quello Latino, si può liberamente affermare che questo passaggio è interdetto non come il primo; tuttavia non è lecito al Missionario indurre il Greco e l’Orientale, desiderosi di tornare all’Unità della Chiesa Cattolica, ad abbandonare il proprio Rito, poiché da questo modo di agire possono derivare gravissimi danni, come sopra abbiamo detto. I Cattolici Melchiti volentieri una volta passavano dal Rito Greco a quello Latino: ma ciò fu loro proibito, e i Missionari furono ammoniti a non consigliare quel transito, il cui permesso è riservato al giudizio esclusivo della Sede Apostolica, come è manifesto nella Nostra Costituzione Demandatam del Bollario (tomo 1, 85, paragrafo 35): “Inoltre a tutti e ai singoli Melchiti Cattolici, che osservano il Rito Greco, proibiamo espressamente di passare al Rito Latino. A tutti i Missionari comandiamo, a prezzo delle pene che più sotto verranno indicate e di altre che verranno stabilite a nostro giudizio, di non presumere di far passare chiunque di essi dal Rito Greco al Latino, né lo permettano a coloro che lo desiderano, senza avere consultato la Sede Apostolica“. Dello stesso tenore sono i decreti di Urbano VIII, Nostro Predecessore, circa il Rito Greco-Ruteno, emessi in sua presenza dalla Congregazione di Propaganda Fide il 7 febbraio e il 7 luglio 1624. Quantunque sembrasse giusto lasciare libera facoltà agli Italo-Greci di passare dal Rito Greco al Latino, dal momento che sono tra noi e sono soggetti ad un Vescovo latino, tuttavia si è stabilito che si richieda l’autorità della Sede Apostolica se si tratta di Ecclesiastici, sia Secolari, sia Regolari; se poi Laici e Secolari hanno chiesto questo passaggio, basta il permesso del Vescovo, che può moderatamente concedere per giuste e legittime cause a certe persone, ma mai ad un’intera comunità. In questa fattispecie occorre sempre l’autorità della Sede Apostolica, come si può vedere nella Nostra spesso citata Costituzione Etsi Pastoralis (17, § 2, n. 14 primo tomo del nostro Bollario).

22. Se si volesse sostenere gli Orientali e i Greci che, abiurando l’eresia e ritornando all’Unità, a buon diritto possono essere attratti e sollecitati a denunziare i propri Riti e ad abbracciare interamente il Rito Latino, tanto più che in altri tempi fu approvato, ed ancor oggi si approva, che gli Orientali e i Greci seguano qualche Rito Latino, viene risposto che non è opportuno. Infatti, gli Orientali e i Greci costituiscono come due categorie. La prima è di coloro che, non contenti in nessun modo di quanto è stato loro permesso dalla Sede Apostolica per conservare l’Unione, sono portati fuori dai confini dell’onestà, sostenendo che quanto è compiuto da loro avviene a buon diritto, e che sono in errore i Latini che non sollecitano le stesse cose. Ad esempio il pane azimo: i Greci e gli Orientali, per essere Cattolici, devono dichiarare che il pane, sia azimo, sia fermentato, è materia valida del Sacramento dell’Eucaristia e che bisogna che ogni Chiesa segua il proprio Rito. Pertanto, chiunque contesta il Rito Latino, che nella consacrazione dell’Eucaristia usa il pane azimo, si allontana dalla verità e cade in errore. Il monaco Ilarione nella sua Orazione Dialettica che Leone Allazio tradusse dal greco in latino (tomo 1 della Graecia Ortodossa, edito dai tipi della Congregazione di Propaganda Fide nel 1652, p. 762) così si esprime: “Vi ho scritto, Greci amicissimi, non accusando il vostro pane che, adorando, venero come il nostro azimo, ma per lamentare e dire che voi non vi comportate né onestamente, né come si conviene a un cristiano, quando offendete il pane azimo dei Latini con parole e con fatti, e vi ostinate nell’ingiuria: in ambedue infatti, come si è detto, è contenuto Cristo“. Ecco un esempio della libertà lasciata alla Chiesa Orientale e Greca: coloro che in essa sono insigniti dei Sacri Ordini e anche del Sacerdozio possono tenere le mogli che presero prima dell’Ordinazione, come chiaramente reca il Canone Aliter (dist. 31, cap. “Cum olim, de Clericis coniugatis”) I Romani Pontefici, riflettendo che questo non era contrario né al diritto Divino né a quello naturale, ma solo alle regole ecclesiastiche, ritennero opportuno lasciare questa consuetudine vigente tra i Greci e gli Orientali perché, frapponendo l’autorità Apostolica con il proposito di estirparla, non si desse loro l’occasione di allontanarsi dall’Unità, come spiega bene Arcudio nella sua Concordia (libro 7, cap. 33). Tuttavia, chi lo crederebbe? Non mancarono, né mancano, tra i Greci e gli Orientali, taluni che ingiuriano la Chiesa Latina in quanto contraria al matrimonio perché, seguendo l’esempio degli Apostoli, ha conservato e conserva il celibato nei suoi Suddiaconi, Diaconi e Presbiteri. Si può leggere Incmaro di Reims (tomo 2, epist. 51 delle sue opere). Un terzo esempio lo recano parecchi Copti, il cui Rito prescrive che dopo il Battesimo sùbito si amministri la Cresima; tale costume non c’è nella Chiesa Occidentale, che nei Confermandi per lo più richiede una età tale che possano distinguere il bene dal male. La Chiesa Romana non si oppone all’antica consuetudine dei Copti. Ma (chi lo crederebbe?) tra loro vi sono alcuni che rifiutano però il Battesimo dei Latini perché dopo il Battesimo non viene amministrata la Cresima. Perciò nella nostra Costituzione 129 che inizia Eo quamvis tempore (tomo 1 del nostro Bollario), giustamente sono ripresi e condannati: “Come alla bontà e alla pazienza della Sede Apostolica può sembrare coerente che i Copti perseverino nella loro consuetudine, così non si deve tollerare che essi considerino con ripugnanza il Battesimo conferito in Rito Latino e separatamente dalla Cresima“.

23. Un altro gruppo è costituito da quegli Orientali e dai Greci che mantenendo in gran parte i loro Riti e insieme venerando i Riti Occidentali e Latini, ne seguono alcuni, per vecchia consuetudine rispettata dai loro Vescovi, e inoltre espressamente o tacitamente confermata dalla Sede Apostolica. In questa categoria si possono mettere gli Armeni e i Maroniti che lasciarono il pane lievitato e fanno l’Eucaristia col pane azimo come i Latini, come testimonia Abramo Echellense nel suo Eutichio Vendicato, p. 477. Diversi attribuiscono questa disciplina degli Armeni a San Gregorio Illuminatore, primo Vescovo degli Armeni, che all’inizio del quarto secolo, sotto il re Tiridate, conseguì la corona del martirio; altri al Pontefice San Silvestro, oppure la dichiarano accettata da San Gregorio Magno nelle trattative iniziate con la nazione Armena e che sono indicate dal Sommo Pontefice Gregorio IX nelle sue lettere al re di Armenia, riferite da Rainaldo (anno 1139, n. 82). Che quella disciplina sia stata data agli Armeni dalla Chiesa Romana è testimoniato dal Patriarca degli stessi Armeni Silense Gregorio in una lettera ad Aitone, padre di Leone, re di Armenia, cenobita, come si legge presso Clemente Galano nella Conciliazione della Chiesa Armena con la Romana (tomo I, p. 449): “Per cui da Santa Romana Chiesa abbiamo ricevuto l’unione dell’acqua (col vino nel calice) come dalla stessa abbiamo ricevuto il pane azimo, la Mitra Vescovile e il modo di segnare la Croce“. Del pari è antichissima e immemorabile presso i Maroniti la consuetudine del pane azimo, come si sa da Morini nella Prefazione alle Ordinazioni dei Maroniti e dalla Biblioteca Orientale di Assemano il Vecchio (tomo 1, p. 410). Inoltre è testimoniata dal Sinodo Nazionale svoltosi sul monte Libano nel 1736 e da Noi confermata nella Nostra Costituzione Singularis (31, tomo 1 del Nostro Bollario)nella quale, cap. 12, sul Sacramento dell’Eucaristia, quando si parla del pane azimo, si leggono queste parole: “Il quale costume nella nostra Chiesa e presso gli Armeni in Oriente dura da tempo immemorabile, e possiamo citare documenti autentici di questo fatto“. Con questo esempio degli Armeni e dei Maroniti, il Cardinale Bessarione, al quale per primo fu affidata l’Abbazia di Grottaferrata in Diocesi di Tuscolo, ottenne che i Monaci Greci che in essa si trovavano potessero consacrare in azimo, come si può leggere nella Nostra Costituzione 33, Inter multa (paragrafo Ut autem, tomo 2° del nostro Bollario). Questo fu sempre osservato, e anche oggi si osserva, nella Chiesa collegiata di Santa Maria di Grafeo, posta in Diocesi di Messina, al cui clero è consentito di mantenere il Rito Greco (come si può leggere nella nostra Costituzione 81, che comincia Romana Ecclesia (§ 1, tomo 1 del nostro Bollario), la loro disciplina e di celebrare l’Eucaristia in lievitato, quantunque, parlando in generale, i preti Italo-Greci operino in Italia e nelle isole adiacenti, e i Sacerdoti, sia di Rito Latino, o Greco, siano spesso avvertiti di non trascurare di consacrare l’Eucaristia e distribuirla ciascuno secondo il proprio Rito, come è dichiarato nella nostra Costituzione che comincia Etsi Pastoralis (57, § 1, n. 2 e § 6, n. 10 e ss. del nostro Bollario,tomo 1).

24. In alcuni secoli si affermò l’uso di dare l’Eucaristia ai fanciulli dopo il Battesimo, con la convinzione che ciò era necessario all’eterna salute dei fanciulli, ma per puro Rito e tradizione allora in auge, come saggiamente dissero i Padri del Concilio di Trento (sess. 21, cap. 4). Tra gli errori degli Armeni condannati dal Sommo Pontefice Benedetto XII, il cinquantottesimo presso Rainaldo (Anno 1341, § 66), viene registrato quello, secondo il quale, alla salute eterna dei fanciulli e per la validità del Battesimo ad essi conferito, oltre la Cresima si doveva amministrare loro anche l’Eucaristia. Nella Chiesa Occidentale da quattrocento e più anni non si dà ai fanciulli l’Eucaristia dopo il Battesimo. Ma non si può negare che nei libri dei Rituali Orientali si cita il Rito della Comunione da dare ai fanciulli dopo il Battesimo. Assemano il Giovane (Codice Liturgico, libro 2, p. 149), riporta la regola dell’amministrazione del Battesimo presso i Melchiti; e a p. 309 espone l’ordine del Battesimo dei Siri, stampato da Filosseno di Mabbügh, Vescovo Monofisita; a p. 306 ne riporta un altro preso dal vecchio Rituale di Severo, patriarca di Antiochia, antesignano dei Monofisiti; nel libro 3 dello stesso Codice (p. 95 e p. 130), riporta due altri ordini osservati tra gli Armeni e i Copti nel dare il Battesimo: in tutti si comanda che ai fanciulli dopo il Battesimo si dia l’Eucaristia. San Tommaso (part. 3, quest. 80, art. 3), asserisce che questa consuetudine durò presso alcuni Greci fino ai suoi tempi. Arcudio, poi, nel libro 3, De Sacramento Eucharistiae, cap. II, scrive che questa era la disciplina dei Greci, ma alcuni di loro a poco a poco l’abbandonarono per le difficoltà che incontravano nell’amministrare la Comunione ai fanciulli dopo il Battesimo. Negli atti del Sinodo celebrato sul monte Libano il 18 settembre 1596 sotto Sergio, Patriarca di Antiochia dei Maroniti, e che fu presieduto da padre Girolamo Dandino, gesuita, legato del papa Clemente VIII, si leggono queste parole: “Poiché a stento si può dare la Comunione di Cristo ai fanciulli senza grande indecenza e senza offesa al venerabile Sacramento, per il futuro tutti i Sacerdoti si guardino di ammetterli prima dell’uso di ragione” (Ivi, can. 7). Dello stesso parere sono i Padri del Concilio di Zamoscia del 1720 (nel § 3 del De Eucharistia). Altrettanto viene confermato negli Atti del Concilio del Libano del 1736, come si legge nel Santissimo Sacramento dell’Eucaristia (cap. 12, n. 13), le parole del quale sono queste: “Nei nostri antichi Rituali, come nel vecchio Ordine Romano e nelle Eucologie Greche, al Ministro del Battesimo viene prescritto chiaramente di curare i bimbi purificati dal Battesimo e dalla Cresima col Sacramento dell’Eucaristia; tuttavia per la reverenza dovuta a questo augustissimo Sacramento e poi perché non è necessario alla salvezza degli’infanti e dei fanciulli, prescriviamo che agli infanti, quando vengono battezzati, l’Eucaristia non venga data a nessuna condizione, nemmeno sub specie Sanguinis”. La stessa cosa fu stabilita nella Costituzione per gli Italo-Greci, Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, 57, § 2, n. 7, tomo 1).

25. Dell’uso di dare l’Eucaristia sub utraque specie anche ai laici, secondo la disciplina orientale e greca, parlano diffusamente Arcudio nella Concordia occidentale e orientale nell’amministrazione dei Sacramenti (libro 3, cap. 4), e Leone Allazio nella prima annotazione De Ecclesiae Occidentalis atque Orientalis consensione (p. 1614 e ss.). Nel Collegio greco che fu eretto a Roma, come dicemmo, da Gregorio XIII, fu stabilita la legge che il Greco si conservi in quel Rito, come attesta Leone Allazio nel suo Tractatus de aetate et interstitiis (p. 21), secondo le Costituzioni del Collegio stesso, confermate dal Sommo Pontefice Urbano VIII: gli alunni ogni otto giorni devono confessarsi, e comunicarsi ogni quindici giorni, nonché nelle feste solenni e nelle domeniche di Avvento e di Quaresima, osservando il Rito Latino; nelle feste più solenni, cioè a Pasqua, Pentecoste e Natale è loro comandato di ricevere l’Eucaristia sub utraque specie col Rito Greco, cioè con pane lievitato, intinto nel Sangue, per fare la qual cosa il Sacerdote usa un piccolo cucchiaio, che mette nella bocca di chi si comunica. Lo stesso Rito si osserva con tutti gli altri Greci, che in quei giorni convengono per la Messa solenne, o che negli altri giorni dell’anno nella Chiesa del Collegio Greco chiedono che venga loro amministrata l’Eucaristia con Rito Greco. Ma per gli Italo-Greci nella ricordata Costituzione Etsi Pastoralis (57, § 6, n. 15), l’Eucaristia sub utraque specie è permessa solo in quei luoghi in cui è conservato il Rito di questa Comunione; ma negli altri luoghi, dove lo stesso Rito è obsoleto, la Comunione sub utraque specie è proibita. Da questa disciplina o Rito della Comunione sub utraque specie, pur accettato in tutta la Chiesa Orientale, alcuni Greci e Orientali a poco a poco si sono allontanati. Luca Olstenio, uomo famoso, nella lettera a Bertoldo Nimisio, che si legge stampata negli opuscoli Greci e Latini di Leone Allazio (p. 436), riferisce di aver dato l’Eucaristia nella Basilica Vaticana a un Sacerdote abissino che, dovendo comunicarsi, si era accostato con altri alla Sacra Mensa. Avendogli amministrato la Comunione sotto l’unica specie del pane, allo stesso ed anche agli altri uomini della Chiesa di Etiopia fu chiesto se, secondo il Rito della loro patria erano soliti prendere l’Eucaristia sub unica specie, tanto nella liturgia solenne quanto nella quotidiana partecipazione all’Eucaristia, nonché quando in immediato pericolo di morte la recavano come Viatico. Egli attesta che da essi fu risposto che sempre si amministrava l’Eucaristia sotto l’unica specie del pane e che questa era l’antica disciplina che ancora durava nella Chiesa Etiopica. Tra i quesiti posti al Sommo Pontefice Gregorio XIII dal Patriarca dei Maroniti si trova questo: “Noi celebriamo la Messa solo in azimo; ma i nostri laici si comunicano sub utraque specie”. Gli rispose il Papa: “Se vogliono consacrare in azimo non sembra che si debba loro proibire, ma i Laici piano piano devono essere allontanati dalla Comunione sub utraque specie; infatti tutto il Cristo è contenuto in una sola specie e nell’uso del calice c’è gran pericolo di effusione“, come è possibile leggere nella lodata opera di Tomaso da Gesù De conversione omnium gentium (p. 486 e ss.). Anche i Padri del Concilio del Libano celebrato nel 1736 (part. 2, cap. 12, n. 21), aderendo a questo orientamento così stabilirono: “Aderendo alle leggi della medesima Santa Romana Chiesa, vi ordiniamo e comandiamo letteralmente che a nessun laico o chierico con Ordini Minori venga data la Comunione sub utraque specie ma solo sub una, quella del pane“, permettendo ai soli Diaconi di ricevere nella Messa solenne l’Eucaristia sub utraque specie, cioè prima sotto la specie del pane e poi sotto quella del vino, rimosso tuttavia l’uso del cucchiaio, che sopra abbiamo ricordato: “Ma ai Diaconi concediamo e permettiamo, soprattutto nella Messa solenne, di poter ricevere l’Ostia intinta nel Sangue dai Sacerdoti, purché sia evitato l’uso del cucchiaio che abbiamo stabilito doversi abolire totalmente“.

26. Da ultimo, senza allontanarci dall’Eucaristia, qui parleremo di un altro Rito Orientale e Greco per cui il Sacerdote, dopo la consacrazione e prima della consumazione, vuota nel calice un po’ di acqua tiepida. Matteo Blastaris in Syntagmate Alphabetico (cap. 8, tomo 2), Synodicon Graecorum (p. 153), ricorda questo Rito e ne spiega il significato. Eutimio, Arcivescovo di Tiro e di Sidone, nel 1716 pose al Sommo Pontefice Clemente XI alcuni quesiti, uno dei quali era perché ai Melchiti di Siria e di Palestina si doveva proibire di versare acqua tiepida nel Sangue divino dopo la Consacrazione; fu risposto, con l’aggiunta di un’accurata e ricca spiegazione, approvata dallo stesso Pontefice e per suo ordine trasmessa ai Superiori delle Missioni di Terra Santa, di Damasco, di Tiro e di Sidone. Fu ingiunto allo stesso Arcivescovo di non proibire che ciò si facesse, trattandosi di vecchio Rito, studiato dalla Sede Apostolica e permesso ai Sacerdoti Greci anche a Roma; da ciò si deduce l’ardore di Fede che deve bruciare verso tanto Mistero. Simile risposta il 31 marzo 1729 per ordine del Papa Benedetto XIII fu data a Cirillo di Antiochia, Patriarca dei Greci. Lo stesso Rito è permesso agli Italo-Greci nella citata Costituzione 57, Etsi Pastoralis (nel nostro Bollario, § 6, n. 2, tomo 1). Nelle Congregazioni che subito dopo si ebbero per la correzione dei libri ecclesiastici della Chiesa Orientale, al fine di usare una diligenza quanto mai accurata, essendosi disputato molto e a lungo se si dovesse proibire il Rito di versare acqua tiepida nel calice dopo la Consacrazione, avendo il Cardinale Umberto di Selva Candida in precedenza parlato moltissimo con veemenza contro questo Rito, il 1° maggio 1746 fu risposto che non si doveva rinnovare nulla, e questo rescritto fu poi confermato da Noi; si scoperse infatti che le ragioni addotte da questo Cardinale non erano di alcun peso. Tuttavia i Padri del Concilio radunati a Zamoscia nel 1720 per gravi motivi proibirono ai Sacerdoti Ruteni di versare acqua tiepida nel calice dopo la Consacrazione, come si può leggere al paragrafo sulla celebrazione delle Messe: “Proibisce per grave ragione e abroga la consuetudine tollerata nella Chiesa Orientale di versare acqua tiepida nelle Specie consacrate del calice, dopo la Consacrazione, prima della Comunione“.

27. Di questi ed altri esempi consimili, che si potrebbero facilmente aggiungere, si avvalgono coloro che sono più propensi al passaggio dal Rito Orientale e Greco a quello Occidentale e Latino, o certamente coloro che credono di agire con pieno diritto, quando, convertendo lo Scismatico orientale all’unità della Chiesa, cercano di condurlo da un Rito che era solito osservare prima di unirsi a noi, ed è fermamente conservato ed osservato da tutti gli altri Orientali e Greci, per antica disciplina. In verità, né gli esempi sopra citati, né gli altri che si potrebbero addurre recano alcuna prova in loro favore, perché nel passaggio dal Rito Orientale e Greco all’Occidentale e Latino si toglie tutto quello che è prescritto dal Rito Greco e non è conforme al Rito Latino; ciò non accade negli esempi che sopra sono stati portati nei quali, se si toglie qualche peculiare solennità del Rito Greco, il Rito stesso tuttavia e tutto quello che in esso è prescritto vengono conservati intatti; sia perché togliere anche una certa parte del Rito, salve le altre parti dello stesso, non è materia di un uomo privato, ma è necessario intervenga la pubblica autorità, cioè quella del Capo Supremo di tutta la Chiesa, qual è appunto il Romano Pontefice. Infatti la Sede Apostolica è la sola che, per diritto proprio, tutte le volte che ritenne giusto, cancellò qualche Rito dalla Chiesa Orientale e lo trasferì nell’Occidentale o permise che qualche Rito Greco venisse praticato in qualche Chiesa latina. La stessa Sede Apostolica, tutte le volte che apprese che qualche Rito pericoloso o indecoroso si era intrufolato nella Chiesa Orientale, lo condannò, lo disapprovò e ne proibì l’uso. Infine la stessa Sede Apostolica, dopo che vide che talune popolazioni Orientali o Greche erano fortemente decise nell’uso e nella difesa di qualche Rito Latino e in particolare quando il Rito stesso risale a un’epoca antica e da tutti è generalmente accettato, e dal Vescovo è espressamente o tacitamente approvato, confermò il Rito stesso, tollerandolo e per ciò stesso approvandolo.

[Continua … ]

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica negli anni in cui la Pasqua cade il 24, o il 25 Aprile si anticipa al Sabato (rispettiv. 19, 20 Nov.) con tutti i privilegi della Domenica occorrente, cioè Gioria, Credo, Prefazii della Trinità e Ite Missa est per lasciar luogo rispettivamente nei giorni 20, 21 Novembre alla Domenica ultima dopo Pentecoste. Il tempo dopo Pentecoste è simbolo del lungo pellegrinaggio della Chiesa verso il cielo; le ultime Domeniche ne descrivono profeticamente le ultime tappe. In quest’epoca si leggono nel Breviario gli scritti dei grandi e dei piccoli profeti, che annunziano quello che accadrà alla fine del mondo. Quando i Caldei ebbero condotti gli Israeliti in cattività a Babilonia, Geremia percorse le rovine di Gerusalemme, ripetendo le sue Lamentazioni « Guarda, Signore, poiché è caduta nella desolazione la città che una volta era piena di ricchezza, la padrona delle nazioni è assisa nella tristezza. Essa amaramente piange durante la notte e le sue lagrime scorrono sulle sue gote » (3° Responsorio, 1a Dom. Nov.; Antit. del Magnificat, 2a Dom.). E profetizzò il doppio avvento del Messia che restaurerà tutte le cose. « Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; e verranno ed esulteranno sul monte Sion e si rallegreranno dei beni del Signore » (1° Responsorio, lunedì 2a settimana). Fra i prigionieri condotti a Babilonia si trovava un sacerdote detto Ezechiele. Egli aveva annunziato la cattività che stava per ricadere su Israele: « Ora la fine è su di te e manderò contro di te il mio furore; e ti giudicherò secondo la tua vita e non avrò pietà » (1a Lezione, Mercoledì, 1a settimana). E nell’esilio egli profetizzò: « Le nostre iniquità e i nostri peccati sono sopra di noi; come dunque possiamo vivere? Ma il Signore ha detto: Non voglio la morte dell’empio, ma che egli si tolga dalla cattiva strada e viva. – Distoglietevi dalle vostre male vie e non morrete » (3a lezione, Lunedì 2a settimana). Dio mostrò al profeta in una visione il futuro su di un’alta montagna e gli indicò il culto perfetto che Egli attendeva dal suo popolo quando lo condurrebbe verso i colli eterni di Sionne (7a lezione Venerdì 2a settimana). Daniele, che era pure tra i prigionieri di Babilonia, spiegò il sogno di Nabucodonosor, dicendo che la piccola pietra che, dopo aver fatto cadere la statua d’oro, d’argento, di ferro e di argilla, diventò una grande montagna, è figura di Cristo, il regno del quale, consumerà tutti gli altri regni e sussisterà eternamente (Lunedì 3° settimana). – Le guarigioni e le risurrezioni corporali, compiute dal Signore, sono la figura della nostra liberazione e della nostra risurrezione futura: Da tutte le parti ricondurrò i prigionieri » dice Geremia nell’Introito « Tu hai fatto cessare la cattività di Giacobbe » aggiunge il Versetto dell’Introito « Signore, tu ci hai liberato da coloro che ci odiavano » continua il Graduale. « Dal fondo dell’esilio le nazioni hanno infatti gridato verso il Signore, supplicandolo di ascoltare la loro preghiera » spiegano l’Alleluia e l’Offertorio e, come in Dio vi è un’abbondante redenzione, Egli riscatterà il suo popolo da tutte le sue iniquità » (stesso Salmo, vers. 7 e 8). Preghiamo dunque con fiducia, poiché se Gesù risuscitò la figlia di Giairo e guarì l’emorroissa, ciò fu fatto secondo la parola del Signore: « Tutto quello che domanderete, lo riceverete ». Quale terrore quando il Giudice verrà ad esaminare rigorosamente ognuno!… dice la Sequenza dei Defunti. La tromba squillerà fra le tombe e convocherà tutti gli uomini davanti al Cristo. La morte e la natura resteranno interdette quando la creatura risorgerà per rispondere al giudizio divino. Allorché l’eterno Giudice siederà sul suo seggio, tutto quello che è nascosto sarà palesato e nulla resterà impunito. Giusto Giudice, nella tua clemenza accordami grazia e perdono prima del giorno del rendiconto ». Nelle ultime parole dell’Epistola odierna, l’Apostolo allude al libro di vita ove sono scritti i nomi dei Cristiani che la loro condotta esemplare rende degni della vita eterna. Gesù resuscita la figlia di Giairo con la stessa facilità con la quale noi svegliamo una persona che dorme. Così la sua divin virtù resusciterà i nostri corpi l’ultimo giorno.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]


Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

(“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”.).

LA NUOVA IDOLATRIA.

Ecco: voi siete convinti, credo tutti, che l’idolatria abbia fatto il suo tempo; il Cristianesimo l’ha seppellita. E se io vi dicessi che v’è ancora, che vive, forse vi scandalizzereste e, scandalizzati, mi dareste su la voce. E invece ecco qua San Paolo che ci parla di una idolatria diversa da quella che adorava Giove, Saturno… ma non meno verace idolatria di quella. E ce la presenta come l’abisso nel quale precipitano i nemici della Croce di Gesù Cristo. Questi nemici sono due; singolarmente due passioni, due stati d’animo: due gruppi di persone in questi stati d’animo: il piacere e l’orgoglio. L’orgoglio odia la Croce di Gesù Cristo, perché essa è simbolo e personificazione di umiltà. « Umiliò se stesso alla obbedienza della Croce » dice San Paolo, parlando di N. S. Gesù Cristo. Ma per ciò gli orgogliosi non lo tollerano, par loro un’ignominia, un avvilimento. Parlano con sdegno della servitù o schiavitù della Croce… Abbiamo ancora nell’orecchio le frasi blasfeme del poeta pagano. Gesù, egli il pagano poeta, lo vede nell’atto di gettare una Croce sulle spalle di Roma, dicendole, intimandole: portala e servi. E coll’orgoglio fa comunella contro la Croce il piacere, contro la Croce che canta l’inno austero del dolore, che gronda lagrime, lagrime amare. C’è un mondo che vuol divertirsi, che intuisce la vita come voluttà, come piacere. La Croce a questo mondo di uomini sensuali fa paura. Non la vogliono, le si ribellano, la respingono. Ma le passioni che li allontanano dalla Croce diventano il loro castigo, la divina nemesi della loro apostasia. La sensualità vince gli uomini del piacere, che, del piacere, diventano schiavi. E allora il loro dio, il loro padrone, colui al quale tutto sacrificano e che non sacrificherebbero mai, in nulla e per nulla, il loro dio è il ventre. Si riducono a vivere per mangiare, invece di mangiare per vivere e vivere per Dio. O se il loro Dio, il loro tiranno, il loro ideale non è il cibo con la bevanda relativa, è l’abito, la vanità nel vestire, o la casa comoda, sfarzosa, sempre la materia. Alla quale servono proni, supinamente proni, invece di servirsene. Il loro Dio è il ventre, dice San Paolo, che ha poche nebbie al suo pensiero e pochi peli sulla lingua quando il suo pensiero nitido si tratta di esprimerlo: « quorum Deus venter est ». Bella divinità! Valeva la pena di ribellarsi a Gesù Cristo, alla sua Croce, per cadere così in basso? Per gli orgogliosi c’è un altro destino, un altro castigo. L’orgoglioso diventa lo schiavo di se stesso, rimane solo in balìa di sé, delle sue esaltazioni tumide. Il suo Dio è il suo io, l’ipertrofia del suo io. L’umanità è bella, buona, ma a posto suo, come, del resto, ogni cosa di questo mondo. Fuor di posto, messa al posto di Dio, fa pessima figura e si guasta. La domestica sta bene al posto suo proprio, la serva-padrona è ridicola e funesta a sé e agli altri. È la sorte della umanità divinizzata, e la divinizzazione dell’umanità è la logica della superbia, dell’orgoglio nemico della umile Croce di Gesù Cristo. Il confusionismo è poi la risultante di questo orgoglio, confusionismo di idee e confusionismo di opere. – E quando si contemplano i due abissi a cui mettono capo l’orgoglio e la sensualità dei nemici del Cristianesimo, viene voglia non solo di prostrarsi con rinnovato fervore di adorazione davanti alla Croce, ma di abbracciarla e baciarla ripetendo: «O Crux, ave spes unica! »

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

[“In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne divulgo’ la fama per tutto quel paese”].

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

TOCCARE GESÙ

Nella sala del banchetto si fece un silenzio improvviso. Un uomo, stanco ed ansimante come uno che arrivi di corsa, entrò: aveva il viso pallido e sconvolto, aveva gli occhi umidi di lagrime, aveva nella voce un singhiozzo che tremava. Era il capo della Sinagoga, Giairo, che veniva a cercare Gesù perché gli era appena morta l’unica figlia. Appena lo vide, lo guardò, si gettò a terra, l’adorò e gli disse; « Signore! te ne supplico, vieni a casa mia. La mia bambina è appena morta, ma se tu la tocchi colla tua mano potente, essa vivrà ancora! ». La fede di quell’uomo che domandava la risurrezione di sua figlia, come fosse la cosa più semplice del mondo, commosse Gesù che lasciò la mensa e gli andò dietro insieme ai suoi Apostoli. Ed ecco che sulla strada c’era insieme alla turba una povera donna ammalata. Erano dodici anni che pativa perdite di sangue e non aveva trovato né medici né medicine capaci di ridonarle la salute perduta. Aveva fede soltanto in Gesù. Se Egli sapeva risuscitare i morti, forse non avrebbe saputo guarirla dal suo male? Si gettò in mezzo all’onda fluttuante del popolo e riuscì a giungere vicino al Signore. « Oh! se riuscissi — pensava — a toccare anche l’estremo lembo del suo mantello, sarei guarita! » Tremando si accostò, di dietro, e protese la mano fino a sfiorare il suo vestimento. In quell’istante una commozione profonda la sconvolse fibra a fibra e comprese di essere guarita. Gesù si rivolse e la vide: « Figlia, — le disse — confida che la tua fede, oggi, ti ha guarita ». Guardate con quanto desiderio Giairo sospira che il corpo morto dell’unica figliola venga in contatto delle mani di Gesù; osservate con quale ansia la povera emorroissa vorrebbe toccare anche solo un lembo delle vesti del Maestro. Toccare Gesù ed essere da Lui toccati: ecco la brama di tutti i sofferenti che vivevano al tempo del Signore. Ma se non siamo ammalati nel corpo, quante malattie tormentano le anime nostre! Tocchiamo allora Gesù, lasciamoci da Lui toccare ed a noi come alla donna, come alla giovane del Vangelo, Egli donerà la salute. Adesso però Gesù non lo vediamo più coi nostri occhi: Egli è salito col suo corpo visibile alla gloria del cielo e là soltanto i nostri occhi lo potranno vedere così come è: ma anche quaggiù in qualche modo ci è dato ancora toccarlo, Lo tocchiamo per mezzo della fede e della preghiera, lo tocchiamo ancora nella S. Eucaristia dove è realmente presente. Ed io, in questa Domenica, vorrei proprio, coll’aiuto di Dio, accendere in voi l’ardore che avevano quelli che poterono vedere e toccare Gesù. – 1. CON LA FEDE. Il 15 dicembre 1502 Cristoforo Colombo, nel suo quarto viaggio pel nuovo mondo, era quasi agonizzante per le grandi tribolazioni subite, quando da una delle caravelle partiva un grido disperato che annunziava estremi pericoli. Tutto l’equipaggio fu preso da spavento alla vista di un cono immenso, di una tromba marina che riuniva il mare al cielo, innalzando le acque come immense montagne. Un vento impetuoso spingeva questo terribile fenomeno contro la piccola flotta che certo sarebbe affondata in un batter d’occhio. Cristoforo Colombo, quando sentì il muggito dei venti ed il grido disperato dei suoi, pensò alla scena evangelica in cui Gesù dormiva mentre il mare in burrasca riempiva di panico gli Apostoli. La figura soave del Maestro che con un gesto solenne calmava le onde si affacciò alla sua mente ripiena di fede e raccogliendo le sue forze si buttò in ginocchio per dire a Gesù che egli credeva alla sua potenza e lo supplicava a salvarli dall’imminente pericolo. Fu esaudito perché quando il capitano, per ispirazione divina, tracciò contro il turbine un gran segno di croce, questi mutò direzione ed andò a disperdersi nell’immensità dell’Atlantico. E Cristoforo Colombo poté portare la croce a popoli ignoti. Attraverso il gran mare della vita anche noi, o fratelli carissimi, siamo indirizzati ad una meta che deve essere ad ogni costo raggiunta: il paradiso. Anche noi, ciascuno in quel posto in cui l’ha messo il Signore, dobbiamo far conoscere e far amare un poco Iddio. Ma quante volte l’orizzonte si oscura ed appaiono dei turbini strani che s’avvicinano per farci perire. Chiamatele così le tentazioni che non ci lasciano mai in pace un momento e rendono difficile il servizio di Dio. Chiamatele così le contrarietà e i dispiaceri della vita che ci vengono senza andarli a cercare o che ci procurano i nostri fratelli che non ci vogliono bene. Cristiani, pensiamo a Gesù! Rendiamo così viva la fede che ci faccia quasi vedere  Gesù coi nostri occhi e come il grande ammiraglio cristiano supplichiamolo che voglia salvarci. Ogni volta che noi crediamo in Gesù, è come se toccassimo le sue vesti, se gli stringessimo con amore le ginocchia, se baciassimo la mano miracolosa. Ed ogni volta che facciamo questi tre atti di fede, un fluido di vita, uno sprazzo di vivida luce penetra nelle nostre anime e le rende sempre più invincibili. È questo spirito di fede e di preghiera che scioglie ogni difficoltà e ci rende salvi non solo, ma apostoli di bene tra i nostri fratelli. Ben più fortunati di Cristoforo Colombo, noi scopriremo una terra dove la felicità sarà eterna. – 2. CON LA SANTA COMUNIONE. « Tu vuoi fare la prima Comunione, ma… quanti anni hai? Mostrami i tuoi dentini ». E la piccina, di appena cinque anni, che voleva dal Padre Missionario la SS. Eucaristia, mostrò una fila di denti da latte. « Ma tu hai ancora i dentini da latte, sei ancora troppo piccina! ». La bambina tace un momento, ma poi soggiunge: « E quando non avrò più questi denti, mi prometti che mi darai Gesù? » « Sì, te lo prometto ». La bambina se ne va e ritorna dopo dieci minuti, ma in quale stato, mio Dio! Tremante, col viso bagnato di lacrime e la bocca macchiata di sangue… Armata di un sasso, ella aveva fatto saltare i suoi denti. Il giorno dopo, con la testina fasciata, ella si presentava felice alla santa Mensa, e attraverso a quella bocca ferita per amore, Gesù entrava nel cuore di quella piccina. C’è nell’episodio una barbara ingenuità, ma guardate che c’è anche un grande eroismo. Certe cose le capiscono soltanto quelli che hanno le predilezioni del cuore di Gesù. Ma io in questo episodio vorrei farvi notare con quale prontezza una bambina di cinque anni ha voluto togliere subito, sia pur con dolore quello che… le impediva, secondo il suo modo infantile di ragionare, di ricevere Gesù. Pensate invece quanti potrebbero tanto spesso ricevere la Santa Comunione e non hanno il coraggio di rendersi degni. C’è il peccato mortale nell’anima? Una buona confessione lo distrugge. Ci sono dei piccoli attacchi alle cose del mondo, alle creature di questa terra, ai propri comodi, alle proprie idee? Con un po’ di coraggio ogni cosa si vince. E poi dove meglio che nella Santa Comunione noi possiamo accrescere la nostra fortezza? Cristiani, è ora di scuoterci dal nostro torpore, è ora di deporre il nostro freddo. Gesù non si accontenta del tabernacolo di marmo: Egli vuole dei tabernacoli vivi, palpitanti di amore che sono i nostri cuori. Se li toccherà Gesù, saranno sanati. – Al tempo della peste di Milano, avveniva tra le tante una scena davvero commovente. I magistrati avevano dato ordine che i cadaveri fossero trasportati dietro i lazzaretti per venire tutti assieme in ogni sera seppelliti in una ampia fossa. Ma perché lungo la notte sopraggiungevano altri morti, al nuovo giorno il cumulo dei cadaveri era già pronto. Giacevano quei corpi gettati là alla rinfusa, accavallati gli uni agli altri, chiazzati di livide macchie, coperti di mosche, contaminati da schifezze. Quand’ecco che una mattina, mentre passava di lì frettoloso il piccolo corteo che portava il S. Viatico, da quell’orribile monte si levò una voce fioca: « Padre, padre, anche a me, per amor di Dio, anche a me la S. Comunione. Almeno, morirò contento ». Era un povero vecchio che colpito dalla peste e creduto morto era stato gettato là con gli altri per essere sotterrato. Levatosi a stento di mezzo ai cadaveri si pone in ginocchio e ricevuto che ebbe l’assoluzione e la Sacra Particola, chiude gli occhi e col sorriso sul volto ricade morto fra i morti per non levarsi più. Le tentazioni e i patimenti che ci opprimono da ogni parte, ci fanno spesso sembrare di essere in mezzo ad un’atmosfera di morte, tetra e spaventosa. Cristiani, quando fosse così, invochiamo Gesù col fervore della fede e la fiducia della preghiera; riceviamolo nella santa Eucaristia e sul nostro volto tornerà il sorriso, e nella nostra anima rifluirà la grazia che è seme di vita intensa e di gloria perenne anche quando il corpo si dovesse sfasciare nella corruzione della morte.– LA COMUNIONE FREQUENTE. Com’è bella questa pagina di Vangelo, piena di sprazzi di fede come un cielo di marzo è pieno di raggi di sole. Non è sulla persona dell’emoroissa che ci fermeremo a pensare: a noi poco interessa sapere se fosse Marta sorella di Lazzaro come vuole S. Ambrogio, o se fosse la Veronica, quella che asciugherà il volto del Signore, quella che insorgerà nel pretorio di Pilato a difendere Gesù, come appare nei vangeli apocrifi. Non questo c’interessa: ma è il desiderio bruciante che spingeva verso il Maestro le anime di Giairo e della donna che ci deve far riflettere e forse piangere sopra la nostra freddezza. Noi siamo indifferenti verso Gesù forse perché a casa nostra non c’è nessuno che muore; ma dite, non muore l’anima nostra quando commettiamo peccato? Forse perché noi non siamo malati; ma, dite, non sono malattie quelle cattive abitudini in cui ci trasciniamo da anni e anni? E le nostre passioni non sono quei cattivi medici che hanno scialato tutto il nostro patrimonio spirituale di preghiere, di purità, di elemosine? Allora, perché non andiamo frequentemente da Gesù? Gesù si trova nella Comunione. Ci si lamenta che la fede non è più viva come una volta, come al tempo dei martiri e degli eremiti; sapete perché? Perché ai nostri tempi ci si comunica troppo poco. Ci sono due classi di persone che tendono ad allontanarsi dall’Eucaristia per diversi motivi: i buoni per falso rispetto, i cattivi per ingrato dispetto. Ed io, con l’aiuto della Madonna, vorrei convincere tutti che lontani dalla Comunione si muore: quì elongant se a te peribunt (Salmi, LXXII, 27).1. I BUONI PER FALSO RISPETTO. Un mattino sereno, due barche si cullavano sulla riva del mar di Genezaret, mentre gli uomini di pesca erano discesi e lavavano le reti nell’acqua. Gesù ne sale una, e prega Simone di remare al largo: e là, in mezzo al lago gli dice di gettar le reti. Fu dapprima un sorriso triste che sfiorò il volto di Simone, come uno che sospetti d’essere scherzato, ma poi si rincorò, e per ubbidienza fece. Ma quando ritirando la rete la sentì schiantarsi per troppo peso, quando s’accorse che i pesci erano così abbondanti da riempir due barche, mandò un grido: « Signore, va via da me che son peccatore » (Lc., V, 8). Un altro giorno, il Maestro, senza volerlo, si trovò circondato da una folla che lo acclamava. S’era a Cafarnao. Gesù non era contento e disse: « Voi mi cercate perché ho moltiplicato, per voi, nel deserto cinque pani e pochi pesci. Non il cibo del corpo, ma il cibo dell’anima io voglio darvi ». E disse loro che cibo dell’anima era Lui, pane vivo disceso dal cielo, e non era lontano il giorno che avrebbe dato a tutti da mangiare la sua carne, e da bere il suo sangue. Molti, anche de’ suoi discepoli, si alzarono a protestare: « Com’è possibile ciò? Le tue parole sono dure, e nessuno le può digerire ». E se ne andarono. Gesù guardò i dodici, e mormorò tristissimamente: «Anche voi volete andarvene? ». Allora Simone, quel Simone che aveva scongiurato il Signore a stargli lontano, saltò su a dire: « Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi ti conosciamo » (Giov., VI, 69). Anime buone, che il pensiero. delle vostre miserie passate, della vostra debolezza presente, della vostra indegnità passata presente e futura, vorrebbe tener lontani dal Santo Altare, nei due gridi di Pietro non avete trovato la risoluzione dei vostri timori dubbiosi? Se dovessimo guardare i nostri peccati soltanto, giammai dovremmo comunicarci: neppure una volta. « Exi a me, quia homo peccator sum, Domine! ». Ma che sarebbe poi dell’anima nostra senza il suo Pane vivo? « Ad quem ibimus? verba vitæ æternæ habes ». « Ma come posso io comunicarmi spesso, dicono certe anime dubbiose, — se vivo in una casa dove non si rispetta la religione, se passo la giornata fra operai che ne dicono d’ogni colore? », Appunto per questo è necessaria la Comunione frequente: tu vivi in una fornace ardente e se non vuoi bruciare, è necessario che un Angelo ti difenda da quelle fiamme. L’Angelo bianco è l’Eucaristia. — Ma io ho tante tentazioni: vi resisto, è vero; ma ritornano sempre. E sono pensieri, e sono immaginazioni… — Appunto per questo è necessaria la Comunione frequente: la vita dell’uomo è una battaglia e tu hai bisogno di armi e di coraggio per vincere. La tua arma e il tuo coraggio è l’Eucaristia. — Ma il mondo mi chiamerà ipocrita, mi accuserà di mangiar Cristo a tradimento, mi rinfaccerà i miei difetti. Lascia dir la gente, come Gesù lasciò dire quando mormoravano perché mangiava in casa dei peccatori. E se trovano difetti in te, nonostante la Comunione frequente, ne troverebbero dei maggiori senza di essa. — Ma io non sono mai tranquillo… ho paura. — Giusta e santa è questa paura. Consigliati col tuo confessore e poi serenamente a lui ubbidisci. E, per finire, a queste anime titubanti, ripeterò le parole del Vescovo di Ginevra: « Temete di avvicinarvi a questa adorabile mensa; ma soprattutto temete d’allontanarvene ».2. I CATTIVI PER INGRATO DISPETTO. Dopo la burrasca, Gesù toccò terra nel suolo di Gerasa. Nell’uscire dalla tremante barchetta, vide correre in mezzo alle tombe, scavate nei fianchi del colle, un uomo ignudo che urlava selvaggiamente. Un brivido di pietà e di spavento prese gli Apostoli. Quell’infelice era posseduto dallo spirito impuro. Invano erasi tentato di legarlo: rompeva d’un tratto le funi, e ripigliava le sue corse vagabonde fra le tombe, e si percuoteva con le pietre dei colli. Assaliva perfino i passanti sul loro cammino, e non pochi avevano sofferto per lui.Come da lontano scorse venire Gesù, cominciò a gridare: « Che vi è di comune tra me e te, o Gesù figlio dell’Altissimo? Vattene, te ne congiuro; non tormentarmi » (Mc. V, 7). Questo indemoniato mi pare una paurosa figura dell’uomo cattivo che non vuol ricevere Gesù. Era un ossesso, homo in spiritu immundo, e l’uomo che ha peccato, in certo senso, è pure posseduto dal demonio, che in lui abita come in casa sua. Era un ossesso da uno spirito immondo, homo in spiritu immundo, ecco il principale motivo che tiene lontano gli uomini dalla Comunione: chi si ciba di ghiande di porci, non ha più gusto per il pane degli Angeli. V’è di più: l’infelice abitava in mezzo alle tombe tra la corruzione dei cadaveri: qui domicilium habebat in monumentis. Certe sale di divertimento, certi ritrovi sono tombe ove si corrompe non solo il corpo, ma anche l’anima. Chi frequenta questi luoghi non ha più il tempo di ritornare alla Chiesa per la Comunione. L’indemoniato di Gerasa rompeva ogni catena, dirupisset catenas; sono le catene delle leggi di Dio, delle leggi di natura, dei doveri di famiglia che l’uomo impuro spezza, per sprofondarsi nel fango. E non si accontenta della propria rovina ma con gli scandali, trascina nel suo baratro molti incauti. Proprio come l’ossesso: sævus nimis, ita ut nemo posset transire per viam illam (Mt.; VIII, 28). Quand’è così, non fa più meraviglia, se queste persone rifiutano di comunicarsi? È una conseguenza logica della loro vita quel grido: “Che c’è di comune tra me, che grufolo nel pantano, e te, o Gesù purissimo? Vattene; non tormentarmi. Ne me torqueas“. Non tormentarmi con i tuoi soavi inviti alla Comunione: io amo il piacere della disonestà e non ho voglia di riceverti. C’è pure un altro peccato che allontana dalla Eucaristia: l’avarizia. Proseguiamo il racconto dell’indemoniato e capiremo. Gesù comandò ai demoni che uscissero da quell’uomo sventurato. C’era in quei dintorni montuosi un branco di porci, e i demoni prima di lasciare quell’uomo dissero a Gesù: « Mandaci là che vogliamo entrare almeno quel gregge immondo ». Il Maestro permise. Gli animali atterriti e percossi come da un uragano improvviso, si slanciarono in gruppo verso la sommità della montagna, donde precipitarono, a picco, in mare. Accorsero i padroni e molta gente dalla città; e come conobbero il disastro pregarono Gesù di andarsene in fretta, perché la sua presenza non li rovinasse maggiormente. Et rogare cœperunt eum ut discenderet de finibus eorum (Mc., V, 19). Che umiliazione per Gesù! quella gente preferiva, a Lui, un branco di porci. L’uomo avaro preferisce una manata di soldi, un po’ di roba, al supremo bene che è la Comunione. E lo sentirete dire che non ha tempo per comunicarsi: ha tempo solo per gli affari di questo mondo. Eppure Gesù tutti chiama e sforza a sé, come l’uomo che aveva fatto una grande cena. Compelle intrare (Lc., XIV, 23). Resisteremo ancora a questo pressante invito, dispettosamente? Passeranno ancora mesi e mesi senza comunicarci? Con questo non voglio dire che si debba ricevere la Comunione anche senza le dovute disposizioni, perché se sta scritto che chi non mangia la carne del Figlio dell’uomo dovrà morire (Giov., VI, 54), sta scritto pure che chi la mangia indegnamente, ingoia la sua condanna. Ma come ho incoraggiato con la parola di S. Francesco di Sales, a comunicarsi quelli che si astenevano per un vano rispetto, così a costoro che per dispetto non ricevono Gesù, ripeterò l’austera parola del Crisostomo: « O fratelli! se alcuno tra voi capisce d’essersi reso indegno della santa Comunione, io lo scongiuro che si renda degno ». – Torniamo all’emorroissa. Eusebio nella Storia Ecclesiastica racconta che la donna, guarita dal flusso di sangue, era oriunda da Cesarea di Filippo. In riconoscenza volle che in mezzo alla sua città si elevasse una statua a Cristo, proprio con quella veste i cui lembi aveva baciati. Si diceva che sotto a quel monumento crescesse l’erba di nessuna virtù; ma tosto che, cresciuta, toccava i lembi della veste di Gesù, acquistava il potere di sanare ogni male. Cristiani! non in mezzo alla città, ma in mezzo al nostro cuore eleviamo un trono a Gesù e su di esso poniamoci non una statua, ma la sua Persona viva e vera com’è nella santa Comunione. Ogni nostro pensiero, ogni nostro affetto, ogni nostra gioia ed ogni dolore sarà santificato, come quell’erba, dalla sua presenza ed acquisterà valore per la vita eterna. Dice ancora S. Gerolamo che Giuliano l’Apostata aveva tentato una volta di rimuovere quella statua, per sostituirla con una propria immagine. Ma un fulmine dal cielo sminuzzò la sordida figura dell’imperatore sacrilego. Se noi ricevessimo frequentemente Gesù, vi assicuro che appena il demonio tentasse di porre la sua immagine in noi (e l’immagine del demonio è il peccato) Gesù saprebbe frantumarla e ci salverebbe da ogni male. — Allora, ogni quanto tempo ci dovremo comunicare? Il più frequente possibile: ciascuno però si consigli col suo confessore. — Comprendo — direte voi — tutto questo va bene per le donne; ma per gli uomini? Ho parlato anche, e specialmente per gli uomini. Nel Vangelo di oggi non è appena una donna che ha mostrato desiderio di Gesù; fu un uomo, Giairo, che lo scongiurò a venirgli in casa.– IL PECCATO VENIALE. Ecco due donne ed entrambe ammalate: l’una d’un male che tormenta per anni e anni, l’altra d’un male che in poco tempo uccide. Queste donne sono simbolo dell’anima nostra, e le loro malattie sono simbolo delle malattie dell’anima nostra. Non è il peccato mortale quel terribile morbo che in un attimo toglie la vita dell’anima, la rende nemica di Dio, maledetta in vita e nell’eternità? Ma c’è un’altra malattia, che se non l’uccide la indebolisce di volta in volta; che se non la fa nemica di Dio, la rende però a Lui nauseante; che se non la fa maledire, non la fa neppure benedire: il peccato veniale. Tutti facilmente comprendono la nefandità del peccato mortale, ma troppo spesso anche i Cristiani non sentono il dovuto orrore per il peccato veniale. « Che male c’è — dicono — ad accontentare un po’ le nostre passioni? è peccato veniale, è cosa leggera, è roba da poco ». Sì, è vero: il peccato veniale in confronto al peccato mortale, è leggero. Anche la terra intera confrontata con l’immensità del cielo è un pulviscolo, ma per questo nessuno oserà dire che i cinque continenti insieme e l’oceano che li separa siano una quantità trascurabile. Considerate con l’occhio della fede il peccato veniale, consideratelo in se stesso, nelle sue conseguenze, poi anche voi come santa Caterina da Genova esclamerete inorriditi: « Meglio qualsiasi sciagura, ma non il più piccolo peccato veniale ». – 1. IL PECCATO VENIALE È UN MALE GRAVE IN SÉ. Atalarico re dei Goti aveva comandato la strage dei Cristiani. Faceva passare per le contrade un carro con sopra la statua d’un idolo: tutti quelli che non uscivano ad adorarlo, tutti quelli che non mangiavano la carne sacrificata all’idolo, venivano uccisi. Nella regione dove dimorava S. Saba, vi erano dei pagani così affezionati per le sue virtù e per la sua carità a questo servo di Dio, che volevano ad ogni modo conservarlo in vita. Ma poiché sapevano bene che egli non si sarebbe lasciato persuadere in nessun modo ad apostatare, pensarono di recarsi dagli ufficiali imperiali per testificare che nel loro circondario non v’era neppure un Cristiano, e che risparmiassero quindi di venire con il carro e con l’idolo. Appena il Santo conobbe questo pensiero, cominciò a gridare: Sventurati, che cosa state macchinando? Volete dire una bugia per salvarmi? Volete offendere Dio per conservarmi la vita? Che cos’è la mia vita e tutto il mondo perché la si debba anteporre alla gloria del Signore? E quando giunse il carro dell’idolo, egli subito uscì fuori gridando: « Non io adorerò il demonio! Non io mangerò le carni a lui sacrificate! Sono Cristiano vero: uccidetemi » (VOGEL, Vite dei Santi). Aveva ragione di chiamarsi cristiano Vero, perché non si può essere Cristiani se non quando alla propria vita, al proprio comodo, al proprio capriccio si preferisce la gloria di Dio. Cristiano vero fu S. Giovanni Crisostomo che piuttosto che un peccato veniale avrebbe voluto restar invasato dal demonio per tutta la vita. Cristiano vero fu S. Agostino e S. Anselmo che volentieri si sarebbero precipitati in una fornace. ardente, pur di risparmiare la più piccola offesa al Signore. E in verità consideriamo il peccato veniale e riguardo all’anima che lo commette e riguardo a Dio. Riguardo all’anima il peccato veniale significa una diminuzione di bellezza e di splendore. Che direste voi di un principessa reale che indifferentemente comparisse in pubblico con la faccia lorda di fango, con le vesti smunte e sbrandellate? L’anima nostra è appunto questa principessa reale, essa che è figlia di Dio. Ed il peccato veniale è quello che macchia il suo volto e lacera il suo manto e spegne il suo splendore. Riguardo a Dio, poi, significa offesa; ma ogni offesa fatta all’Essere perfettissimo, benché minima, è sempre un male sommo. E subito ce ne convincono i castighi con cui Dio talvolta punisce il peccato veniale. Una donna, contro il divieto del Signore, si volta indietro a guardare una città in fiamme. Fu un attimo: e la moglie di Lot rimase pietrificata. Mosè ed Aronne titubarono un istante della parola di Dio, e dovettero morire senza por piede nella terra promessa, essi che per quarant’anni, sotto il sole e la pioggia, con fame e con sete, avevano guidato il popolo. Un profeta accetta un invito a colazione, e Dio glielo aveva proibito: quando riprende il cammino sbuca un leone che lo rovescia in terra e lo sgozza. Anania e Zaffira, marito e moglie, portando una grossa elemosina a San Pietro dicono una bugia. E subito, in faccia a molti Cristiani raccolti in preghiera, stramazzano ai piedi dell’Apostolo, esanimi. La loro bugia, commentano S. Gerolamo e S. Agostino, era soltanto un peccato veniale e Dio li ha puniti di morte a nostro insegnamento. E noi crediamo che gli unici mali sono le malattie, la morte, la miseria, le liti… Queste cose sono nulla in confronto del peccato: anche del più piccolo peccato veniale. – 2. IL PECCATO VENIALE È GRAVE NELLE CONSEGUENZE. Una madre, da tanto tempo lontana, ritornava alla sua famigliola ove l’aspettavano i suoi bambini e il focolare spento. Lungo la via trova un palazzo: vi entra, beata di riposarsi un poco, ella che aveva dovuto camminare tanto, camminare sempre. Abbagliata dallo splendore di quelle sale, sedotta. dai profumi e dalle vivande che la circondavano, dimenticò i suoi figliuoli che lontano la chiamavano piangendo. Rimase un giorno o un’ora? neppur ella lo seppe. Ma quando fece per andarsene sulla porta di entrata trovò distesa nel sole una ragnatela: fine, leggera, quasi invisibile. Sorrise la madre davanti a questo delicatissimo ostacolo, e con una mano la strappò. Ed ecco, dietro alla prima, una seconda ragnatela; e la seconda ne nascondeva una terza, e la terza una quarta. Strano! ce n’erano cinque, sei… venti. Ella le strappa tutte, ma ce n’è ancora; sempre. Ella continua a strapparle, e le ragnatele continuano a riapparire ancora… ancora. La povera donna è affannata, gronda di sudore, soccombe alla fatica, e si butta per terra disperatamente. Davanti a lei, in alto, luccicava e dondolava nel sole quell’ostacolo da nulla: leggero, e pure vincitore. Da lontano il vento portava il grido dei piccoli figli, che attendevano invano: « Mamma, mamma! ». È cosa da nulla il peccato veniale, è un filo di seta, è una ragnatela: ma dopo il primo ne viene un altro, poi un terzo, poi una catena lunga, non mai spezzata appunto perché si credeva fatta di cose da poco. E intanto si formano le cattive abitudini che ci tengono prigionieri, come quella povera madre, lontano dal nostro dovere. E intanto dalle cose da poco si scivola nelle cose da tanto, senz’accorgersene. Guai, dice S. Paolo, se si comincia a lasciare un posticino al diavolo! « Nolite dare locum diabolo! » (Ef. IV, 27). Da un posticino ne vuole due, tre, quattro… vuole tutto noi e ci porta via. Da lontano piangono i nostri Angeli custodi abbandonati e ci chiamano invano come quei figli piangenti chiamavano invano la loro mamma. Che male c’è stare alla finestra oziando, qualche ora alla sera? Che male c’è fissare, sorridere, parlare scioccamente con persone di sesso diverso? Domandatelo a Davide. Che male c’è, se i fanciulli rubano qualche golosità; se nel far spesa s’imbroglia di qualche lira il ricco negoziante; se il contadino si crede lecito d’allungare la mano nel campo del vicino; se l’operaio si porta via da bottega un asse, un ferro, un pezzo di cuoio? Che male c’è? Domandatelo a Giuda. Che male a chiacchierare in chiesa, conservare poco raccoglimento davanti a Dio presente? Che male c’è dimenticare le orazioni mattino e sera? Che male c’è sciupare il tempo davanti allo specchio, seguire l’ambizione della moda? Oh! Vorrei che venisse a rispondervi un’anima del purgatorio; una di quelle che da anni e anni è consumata in quei tormenti indicibili forse per un solo peccato veniale! E penserete ancora che il peccato veniale sia una cosa da nulla? Cosa da nulla è un sassolino: ma se si distacca dalla montagna e precipita a valle e colpisce la statua colossale nel suo calcagno di creta, in un attimo la rovescia in pezzi. Cosa da nulla è un pugno di neve: ma se si arrotola su altra neve s’ingrossa e diventa una valanga che travolge i paesi nello sfacelo. In un serraglio stava legato con grossa fune un terribile leone. Durante il silenzio della notte uscì un minuscolo topolino e per lunghe ore rosicchiò la fune. All’alba quando il domatore entrò nella gabbia del leone legato, la belva, destandosi, s’allungò verso l’uomo. La corda rosicchiata, a quell’urto, si ruppe; dopo un istante il domatore era disteso con il petto orribilmente squarciato. Il leone son le nostre passioni: il topolino è il peccato veniale. All’erta, perché  egli rosicchia la corda, ed al momento opportuno, ci troveremo sopraffatti dalle tentazioni e, abbandonati da Dio, soccomberemo. – Roma cresceva. Dalla sponda africana Cartagine intuiva che solo di là poteva giungere la sua rovina. Perciò in un giorno di festa, davanti alla folla radunata nel tempio, Asdrubale condusse il suo figlioletto Annibale e lo sollevò perché potesse arrivare all’ara fumante degli dei. Il piccolo Annibale, con negli occhi il fosco bagliore del fuoco e del fumo, distese la mano sulla fiamma e gridò nel silenzio: « Odio eterno al nemico! ». Noi pure sappiamo che la nostra rovina ci può venire solamente dal peccato. E bene: oggi, davanti all’altare del Signore vero, gridiamo anche noi con irremovibile volontà: « Odio eterno al peccato: non solo mortale, ma anche veniale ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris.

[Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

(Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché a coloro ai quali concedi di godere di una divina partecipazione, non permetta di soggiacere agli umani pericoli.)

Preghiere leonine

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA