UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S, S. SAN PIO X – “PIENI L’ANIMO”

« … Prevenite il male dove fortunatamente ancor non si mostra; estinguetelo con prontezza dov’è sul nascere; e dove per sventura sia già adulto, estirpatelo con mano energica e risoluta. Di ciò gravando la vostra coscienza, vi imploriamo da Dio lo spirito di presenza e fortezza necessaria … » Sono queste le vigorose parole del santo Pontefice Pio X a sigillo della sua lettera Enciclica che  imponeva ai Vescovi di vigilare attentamente sulla scelta dei Sacerdoti e dei predicatori autorizzati. Quanta cristiana saggezza il Santo Padre infonde in questo documento forte, autoritario sì, ma di una forza che tende a tutelare l’operato dei Sacerdoti  secondo lo spirito evangelico fatto proprio dalla Chiesa di Cristo in particolare nei decreti immutabili ed inviolabili del Santo Concilio di Trento. Queste norme impartite nella presente lettera, se seguite completamente, avrebbero garantito un Sacerdozio cattolico idoneo a formare alla fede ed alla morale evangelica l’intera società. Ed è appunto dai seminari che le logge di perdizione degli empi demolitori della struttura ecclesiastica hanno cominciato a scardinare lentamente ma inesorabilmente la purezza d’animo dei giovani Sacerdoti, la cui formazione si sarebbe poi propagata fino alle più alte sfere della Gerarchia fino a creare le condizioni del “colpo di mano” del ’58 con la cacciata del legittimo  canonico Papa, la sua sostituzione usurpante con una serie di fantocci gestiti da logge e conventicole di “Illuminati” fino a far apparire la Chiesa di Cristo una combriccola di sacrileghi ministri senza fede e pronti ad eretiche innovazioni, introdotte con subdola e menzognera azione fino ad impregnare l’anima dell’intera società un tempo animata da salutari principi cristiani. Oggi questo abominio è sotto gli occhi di tutti, di coloro che hanno dormito, ed ancora dormono, il sonno della infingarda abulia, di coloro che usano tonaca e talare, o incarichi e prebende varie per fini personali materiali e di avidità, per non parlare dei vizi malcelati di innominabili e ributtanti pruriti che fanno orrore solo a nominarli. Ecco perché dobbiamo necessariamente pensare e credere che la vera Chiesa di Cristo, sua Sposa immacolata senza macchia e senza rughe, sgorgata dal costato ferito di Gesù morto sulla croce, sia “eclissata” secondo la tipica espressione profetica usata dalla Vergine Madre nelle sue apparizioni a La Salette.

san Pio X
Pieni l’animo +

Lettera Enciclica

Riafferma i concetti dell’Enciclica “Il fermo proposito” e richiama i Vescovi d’Italia alla maggiore cautela e severità nella scelta dei sacerdoti e dei predicatori.

Pieni l’animo di salutare timore per la ragione severissima, Che dovremo rendere un giorno al Principe dei pastori Gesù Cristo a riguardo del gregge da Lui affidatoCi, passiamo i dì Nostri in una Continua sollecitudine, a preservare, quanto è possibile, i fedeli dai mali perniciosissimi, onde è afflitta di presente l’umana società. Teniamo perciò come detta a Noi la parola del profeta “Parla senza mai stancarti, fa’ che la tua voce sia forte come una tromba“(Is. LVIII, 1);e non manchiamo, ora di viva voce ed ora per lettere, di avvertire, di pregare, di riprendere, eccitando sopra tutto lo zelo dei Nostri fratelli nell’episcopato, onde spieghi Ciascuno la più sollecita vigilanza sulla porzione dell’ovile, a cui lo Spirito Santo lo ebbe preposto. – Il motivo, che Ci spinge a levare di nuovo la voce, è del più grave momento, Trattasi di richiamare tutta l’attenzione del vostro spirito e tutta l’energia del Nostro pastorale ministero contro un disordine, di cui già si provano i funesti effetti: e, se con mano forte non si svelle dalle più ime radici, Conseguenze ancor più fatali si proveranno con l’andar degli anni. – Abbiamo infatti sott’occhile lettere di non pochi fra voi, o Venerabili Fratelli, lettere piene di tristezze e di lacrime, le quali deplorano lo spirito d’insubordinazione e d’indipendenza, che si manifesta qua e là in mezzo al clero. – Purtroppo, un’atmosfera di veleno corrompe largamente gli animi ai nostri giorni; gli effetti mortiferi sono quelli che già descrisse l’apostolo San Giuda 1: “Macchiano perfino la carne, disprezzano ogni dominio e bestemmiano la maestà” (Iud. 8); oltre cioè alla più degradante corruzione dei costumi, il disprezzo aperto di ogni autorità e di coloro che la esercitano. Ma che tale spirito penetri comecchessia fino nel santuario e infetti coloro, ai quali più propriamente convenir dovrebbe la parola dell’Ecclesiastico: “Loro nazione è l’obbedienza e il diletto (III, 1);è cosa questa che Ci ricolma l’animo d’immenso dolore. – Ed è soprattutto fra i giovani sacerdoti che si funesto spirito va menando guasto, spargendosi in mezzo ad essi nuove e riprovevoli teorie intorno alla natura stessa dell’obbedienza. E, ciò ch’è più grave, quasi ad acquistar per tempo nuove reclute al nascente stuolo dei ribelli, di tali massime si va facendo propaganda più o meno occulta tra i giovani, che nei recinti dei seminari si preparano al sacerdozio. – Pertanto, o Venerabili Fratelli, sentiamo il dovere di fare appello alla vostra coscienza, perché, deposta ogni esitazione, con animo vigoroso e con pari costanza diate opera a distruggere questo mal seme, fecondo di esizialissime conseguenze. Rammentate ognora che lo Spirito Santo vi ha posti a reggere. Rammentate il precetto di San Paolo a Tito: “Rimprovera con tutta autorità. Nessuno ti disprezzerà” (II, 15). Esigete severamente dai sacerdoti e dai chierici quella obbedienza che, se per tutti i fedeli è assolutamente obbligatoria, pei sacerdoti costituisce parte precipua del loro sacro dovere. – A prevenire però di lunga mano il moltiplicarsi di questi animi riottosi, gioverà moltissimo, Venerabili Fratelli, l’aver sempre presente l’alto ammonimento dell’Apostolo a Timoteo: “Non imporre ad alcuno troppo facilmente le mani” (I Tim. V22). È la facilità infatti nell’ammettere alle sacre Ordinazioni, quella che apre naturalmente la via ad un moltiplicarsi di gente nel santuario, che poi non accresce letizia. – Sappiamo esservi città e diocesi, ove, lungi dal potersi lamentare scarsità nel clero, il numero dei sacerdoti è di gran lunga superiore alla necessità dei fedeli. Deh! qual motivo, o Venerabili Fratelli, di rendere così frequente la imposizione delle mani? Se la scarsità del clero non può essere ragione bastevole a precipitare in negozio di tanta gravità, là dove il clero sovrabbonda al bisogno nulla è che scusi dalle più sottili cautele e da somma severità nella scelta di coloro, che debbono assumersi all’onore sacerdotale. Né l’insistenza degli aspiranti può menomare la colpa di siffatta facilità. Il sacerdozio, istituito da Gesù Cristo per la salvezza eterna delle anime, non è per fermo un mestiere od un uffizio umano qualsiasi, al quale ognun che lo voglia e per qualunque ragione abbia diritto di liberamente dedicarsi. Promuovano adunque i Vescovi, non secondo le brame o le pretese di chi aspira, ma come prescrive il Tridentino, secondo la necessità delle diocesi; e nel promuovere in tal guisa, potranno scegliere solamente coloro che sono veramente idonei, rimandando quelli che mostrassero inclinazioni contrarie alla vocazione sacerdotale, precipua tra esse la indisciplinatezza e ciò che la genera, l’orgoglio della mente. – Perché poi non manchino i giovani che porgano in sé attitudine per essere assunti al sacro ministero, torniamo, Venerabili Fratelli, ad insistere con più premura su ciò che già più volte raccomandammo, sull’obbligo cioè che vi corre, gravissimo dinanzi a Dio, di vigilare e promuovere con ogni sollecitudine il retto andamento dei vostri seminari. Tali avrete i sacerdoti, quali voi li avete educati. – Gravissima è su ciò la lettera che vi diresse, in data 8 dicembre 1902, il Nostro sapientissimo Predecessore, quasi testamento del suo diuturno Pontificato. Nulla Noi vogliamo aggiungervi di nuovo: richiamiamo solo alla vostra memoria le prescrizioni in essa contenute; e raccomandiamo vivamente che al più presto sieno messi in esecuzione i Nostri ordini, emanati per organo della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, sulla concentrazione dei seminari specialmente per gli studi della filosofia e della teologia, a fine di ottenere così il grande vantaggio derivante dalla separazione dei seminari piccoli dai seminari maggiori, e l’altro non meno rilevante della necessaria istruzione del clero. – I seminari siano gelosamente mantenuti nello spirito proprio, e rimangano esclusivamente destinati a preparare i giovani, non a civili carriere, ma all’alta missione di ministri di Cristo. – Gli studi di filosofia, di teologia e delle scienze affini, specialmente della Sacra Scrittura, si compiano, tenendosi alle Pontificie prescrizioni, e allo studio di San Tommaso, tante volte raccomandato dal venerato Nostro Predecessore e da Noi nelle Lettere Apostoliche del 23 gennaio 1904. I Vescovi poi esercitino la più scrupolosa vigilanza sui maestri e sulle loro dottrine, richiamando al dovere coloro, che corressero dietro a certe novità pericolose, ed allontanino senza riguardo dall’insegnamento quanti non approfittassero delle ricevute ammonizioni. Il frequentare le pubbliche università non sia permesso ai giovani chierici se non per molto gravi ragioni e con le maggiori cautele per parte dei Vescovi. – Sia onninamente impedito che dagli alunni dei seminari si prenda parte comecchessia ad agitazioni esterne; e perciò interdiciamo loro la lettura di giornali e di periodici, salvo per questi ultimi, e per eccezione, qualcuno di sodi principi, stimato dal Vescovo opportuno allo studio degli alunni. – Si mantenga con sempre maggior vigore e vigilanza l’ordinamento disciplinare. – Non manchi da ultimo in verun seminario il direttore spirituale, uomo di prudenza non ordinaria ed esperto nelle vie della perfezione cristiana, il quale, con cure indefesse, coltivi i giovani in quella soda pietà, che è il primo fondamento della vita sacerdotale. Queste forme, o Venerabili Fratelli, ove siano da voi coscienziosamente e costantemente seguite, vi porgono sicuro affidamento di vedervi crescere intorno un clero, il quale sia vostro gaudio e corona vostra. – Se non che il disordine d’insubordinazione e d’indipendenza, finora da Noi lamentato, in taluni del giovane clero va assai più oltre, con danni di gran lunga maggiori. Imperocché non mancano coloro, i quali sono talmente invasi da sì reprobo spirito, che, abusando del sacro ministero della predicazione, se ne fanno apertamente, con rovina e scandalo dei fedeli, propugnatori ed apostoli. – Fin dal 31 luglio 1894, il Nostro Antecessore, per mezzo della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari, richiamò l’attenzione degli Ordinari su questa grave materia. Le disposizioni e le norme date in quel Pontificio documento Noi le manteniamo e rinnoviamo, onerando su di esse la coscienza dei Vescovi, perché non abbiano ad avverarsi mai in veruno di loro le parole di Nahum profeta: “I tuoi pastori hanno dormito” (III, 18). – Nessuno può avere la facoltà di predicare, “se prima non sia stato provato nella vita e nei costumi” (Conc. Trid., Sess. V, cap. 2, De Reform.). I sacerdoti in altre diocesi non debbono ammettersi a predicare senza le lettere testimoniali del proprio Vescovo. – La materia della predicazione sia quella indicata dal divin Redentore, là dove disse: “Predicate il vangelo” (Marc. XVI15), “insegnando loro di conservare tutte le cose che vi ho affidate” (Matth. XXVIII20). Ossia, come commenta il Concilio di Trento, “annunciando loro i difetti che devono abbandonare e le virtù che devono seguire per poter sfuggire alla pena eterna e conquistare la gloria Celeste” (Loc. cit.). – Quindi si bandiscano del tutto dal pulpito gli argomenti più acconci alla palestra giornalistica ed alle aule accademiche che al luogo santo; si antepongano le prediche morali a conferenze, il men che possa dirsi infruttifere; si parli “non con le parole persuasive della sapienza umana, ma mostrando lo spirito e la virtù” (I Cor. II4). Perciò la fonte precipua della predicazione devono essere le Sacre Scritture, intese, non già secondo i privati giudizi di menti il più delle volte offuscate dalle passioni, ma secondo la tradizione della Chiesa, le interpretazioni dei Santi Padri e dei Concili. – Conformemente a queste norme, Venerabili Fratelli, egli è d’uopo che voi giudichiate coloro, ai quali vien da voi commesso il ministero della divina parola. E qualora troviate che talun di essi, più cupido degli interessi propri che di quelli di Gesù Cristo, più sollecito di plauso mondano che del bene delle anime, se ne allontani; e voi ammonitelo, correggetelo; se ciò non basti, rimovetelo inesorabilmente da un ufficio di cui si manifesta affatto indegno. – La quale vigilanza e severità tanto più dovete adoperare, perché il ministero della predicazione è tutto proprio di voi ed è parte precipua dell’ufficio episcopale; e chiunque oltre di voi lo esercita, lo esercita in nome vostro ed in vostro luogo; ond’è che resta sempre a voi di rispondere innanzi a Dio del modo col quale viene dispensato ai fedeli il pane della parola divina. – Noi, per declinare da parte Nostra ogni responsabilità, intimiamo ed ingiungiamo a tutti gli Ordinari di rifiutare e di sospendere, dopo le caritatevoli ammonizioni, anche durante la predicazione, qualsivoglia predicatore, sia del clero secolare sia del regolare, il quale non ottemperi pienamente alle ingiunzioni della precitata istruzione emanata dalla Congregazione dei Vescovi e Regolari. Meglio è che i fedeli si contentino della semplice omelia e della spiegazione del catechismo fatta dai loro parroci, anziché dover assistere a predicazioni che producono più male che bene. – Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti di sua natura al disprezzo dell’autorità; ma perché non pochi, fraintendendone la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d’immortale memoria. – Parliamo, ben l’intendete, della istruzione che circa l’azione popolare cristiana emanò, per ordine di Leone XIII, la Sacra Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari, il 7 gennaio 1902, e che fu trasmessa a ciascun di voi, perché nella rispettiva diocesi ne curasse l’esecuzione. – Questa istituzione altresì Noi manteniamo, e colla pienezza di Nostra podestà ne rinnoviamo tutte e singole le prescrizioni, come pure confermiamo e rinnoviamo tutte le altre da Noi stessi all’uopo emanate nel Motu proprio del 18 dicembre 1903 “De populari actione christiana moderanda“,e nella lettera circolare del diletto figlio Nostro il Cardinale segretario di Stato, in data 28 luglio 1904. – In ordine alla fondazione e direzione di fogli e periodici, il clero deve fedelmente osservare quanto è prescritto nell’art. 42 della Costituzione Apost. “Officiorum (25 gennaio 1897): “Agli uomini del clero… è vietato, salvo il permesso degli Ordinari, assumere l’incarico di dirigere giornali o fogli periodiciParimente, senza il previo assenso dell’Ordinario, niuno del clero può pubblicare scritto di sorta sia di argomento religioso o morale, sia di carattere meramente tecnico. Nelle fondazioni di circoli e società gli statuti e regolamenti debbono previamente esaminarsi ed approvarsi dall’Ordinario. – Le conferenze sull’azione popolare cristiana o intorno a qualunque altro argomento, da nessun sacerdote o chierico potranno essere tenute senza il permesso dell’Ordinario del luogo. – Ogni linguaggio, che possa ispirare nel popolo avversione alle classi superiori, è e deve ritenersi affatto contrario al vero spirito di carità cristiana. – Il similmente da riprovare nelle pubblicazioni cattoliche ogni parlare, che ispirandosi a novità malsana, derida la pietà dei fedeli ed accenni a nuovi orientamenti della Chiesa, nuove aspirazioni dell’anima moderna, nuova vocazione sociale del clero, nuova civiltà cristiana, e simili. I sacerdoti, specialmente i giovani, benché sia lodevole che vadano al popolo, debbono nondimeno procedere in ciò col dovuto ossequio all’autorità e ai comandi dei superiori ecclesiastici. E pure occupandosi, con la detta subordinazione, dell’azione popolare cristiana, deve essere loro nobile còmpito “di togliere i figli del popolo alla ignoranza delle cose spirituali ed eterne, e con industriosa amorevolezza avviarli ad un vivere onesto e virtuoso; riaffermare gli adulti nello fede dissipandone i contrari pregiudizi, e confortarli alla pratica della vita cristiana; promuovere tra il laicato cattolico quelle istituzioni che si riconoscono veramente efficaci al miglioramento morale e materiale delle moltitudini; propugnar sopra tutto i principi di giustizia e carità evangelica, ne’ quali trovano equo temperamento tutti i diritti e i doveri della civil convivenza.. Ma abbiano sempre presente, che anche in mezzo al popolo il sacerdote deve serbare integro il suo augusto carattere di ministro di Dio, essendo egli posto a capo dei fratelli animarum causa (San Greg. M., Regul. Past. Pars. II, c. VII); qualsivoglia maniera di occuparsi del popolo a scapito della dignità sacerdotale, con danno dei doveri e della disciplina ecclesiastica, non potrebbe essere che altamente riprovata“(Ep. Encicl., 8 dicembre 1902). – Del resto, Venerabili Fratelli, a porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d’oggi innanzi assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente, proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di iscriversi alla Lega democratica nazionale,il cui programma fu dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome dell’autore, fu nell’anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione provvisoria. – Sono queste le prescrizioni, che avuto riguardo alle condizioni presenti del clero d’Italia, ed in materia di tanta importanza, esigeva da Noi la sollecitudine dell’Apostolico ufficio. – Ora altro non ci resta, che aggiungere nuovi stimoli al vostro zelo, Venerabili Fratelli, affinché tali disposizioni e prescrizioni Nostre abbiano pronta e piena esecuzione nelle vostre diocesi. Prevenite il male dove fortunatamente ancor non si mostra; estinguetelo con prontezza dov’è sul nascere; e dove per sventura sia già adulto, estirpatelo con mano energica e risoluta. Di ciò gravando la vostra coscienza, vi imploriamo da Dio lo spirito di presenza e fortezza necessaria. E a tal fine vi impartiamo dall’intimo del cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 28 luglio 1906, anno III del Nostro Pontificato.

DOMENICA II DI AVVENTO (2022)

DOMENICA II DI AVVENTO (2022)

Stazione a S. Croce in Gerusalemme.

Semid. Dom. privil. Il cl. – Paramenti violacei.

Tutta la liturgia di questo giorno è piena del pensiero di Isaia, (nome che significa: Domini Salus: Salvezza del Signore), che è per eccellenza il Profeta che annuncia l’avvento del regno del Cristo Redentore. Egli predice, sette secoli prima, che « una Vergine concepirà e partorirà l’Emanuele »  — che Dio manderà « il suo Angelo, — cioè Giovanni Battista — per preparare la via avanti a sé (Vang.) e che il Messia verrà, rivestito della potenza di Dio stesso, (I e III antif. dei Vespri) per liberare tutti i popoli dalla tirannia di satana. « Il bue — dice ancora il profeta Isaia — riconosce il suo possessore e l’asino la stalla del suo padrone; Israele non m’ha riconosciuto: il mio popolo non m’ha accolto » (I Dom. 1° Lez. ) — « Il germoglio di Jesse — continua — s’innalzerà per regnare sulle nazioni » (Ep.) e « i sordi e i ciechi che sono nelle tenebre (cioè i pagani) comprenderanno le parole del libro e verranno » (Vang.). Allora la vera Gerusalemme (cioè la Chiesa) « trasalirà di gioia » (Com.) perché i popoli santificati da Cristo vi accorreranno (Grad. All). Il Messia — spiega Isaia — « porrà in Sion la salvezza e in Gerusalemme la gloria » — « Sion sarà forte perché il Salvatore sarà sua muraglia e suo parapetto » cioè il suo potente protettore. Così la Stazione è a Roma, nella Chiesa detta di S. Croce in Gerusalemme, perché vi si conservava una grossa parte del legno della Santa Croce, mandata da Gerusalemme a Roma quando fu ritrovata.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.


Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

 Introitus

Is XXX: 30.
Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri.

[Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

Ps LXXIX:2
Qui regis Israël, inténde: qui dedúcis, velut ovem, Joseph.

[Ascolta, tu che reggi Israele, tu che guidi Giuseppe come un gregge.]

Pópulus Sion, ecce, Dóminus véniet ad salvándas gentes: et audítam fáciet Dóminus glóriam vocis suæ in lætítia cordis vestri.

[Popolo di Sion, ecco il Signore verrà a salvare tutte le genti: il Signore farà udire la gloria della sua voce inondando di letizia i vostri cuori.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Excita, Dómine, corda nostra ad præparándas Unigéniti tui vias: ut, per ejus advéntum, purificátis tibi méntibus servíre mereámur:

[Eccita, o Signore, i nostri cuori a preparare le vie del tuo Unigenito, affinché, mediante la sua venuta, possiamo servirti con anime purificate:]

Lectio

Lectio Epístolæ beáti Pauli Apostoli ad Romános.
Rom XV: 4-13.
Fatres: Quæcúmque scripta sunt, ad nostram doctrínam scripta sunt: ut per patiéntiam et consolatiónem Scripturárum spem habeámus. Deus autem patiéntiæ et solácii det vobis idípsum sápere in altérutrum secúndum Jesum Christum: ut unánimes, uno ore honorificétis Deum et Patrem Dómini nostri Jesu Christi. Propter quod suscípite ínvicem, sicut et Christus suscépit vos in honórem Dei. Dico enim Christum Jesum minístrum fuísse circumcisiónis propter veritátem Dei, ad confirmándas promissiónes patrum: gentes autem super misericórdia honoráre Deum, sicut scriptum est: Proptérea confitébor tibi in géntibus, Dómine, et nómini tuo cantábo. Et íterum dicit: Lætámini, gentes, cum plebe ejus. Et iterum: Laudáte, omnes gentes, Dóminum: et magnificáte eum, omnes pópuli. Et rursus Isaías ait: Erit radix Jesse, et qui exsúrget régere gentes, in eum gentes sperábunt. Deus autem spei répleat vos omni gáudio et pace in credéndo: ut abundétis in spe et virtúte Spíritus Sancti.

 “Tutte le cose che furono già scritte, furono scritte per nostro ammaestramento, affinché per la pazienza e per la consolazione delle Scritture noi manteniamo la  speranza. Il Dio poi della pazienza e della consolazione vi conceda di avere un medesimo sentimento fra voi, secondo Gesù Cristo. Affinché di pari consentimento, con un sol labbro, diate gloria a Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo. Il perché accoglietevi gli uni gli altri come Gesù Cristo ha accolto voi a gloria di Dio. E veramente io affermo, Gesù Cristo essere stato ministro della circoncisione per la veracità di Dio, per mantenere le promesse fatte ai patriarchi: i gentili poi glorificare Iddio per la misericordia, siccome sta scritto: Per questo io ti celebrerò fra le nazioni e inneggerò al tuo nome. E altrove: Rallegratevi, o genti, col suo popolo. E ancora: “Quante siete nazioni, lodate il Signore, e voi, o popoli tutti, celebratelo. E Isaia dice ancora: Vi sarà il rampollo di Jesse e colui che sorgerà a reggere le nazioni, e le nazioni spereranno in lui. Intanto il Dio della speranza vi ricolmi di ogni allegrezza e pace nel credere, affinché abbondiate nella speranza per la forza dello Spirito santo. ,, (Ai Rom, XV, 4-13). –

***

L’intenzione di s. Paolo in questa lettera è di far cessare certe controversie domestiche, che lo spirito di gelosia aveva suscitate tra i Giudei ed i Gentili convertiti alla fede. Quelli si gloriavano delle promesse che Dio aveva fatto ai lor padri, di dare il Salvatore, che sarebbe della loro nazione; questi rimproveravano ai Giudei la manifesta ingratitudine della quale si eran fatti colpevoli uccidendo il loro Redentore. S. Paolo dimostra agli uni come agli altri che essi devono tutto alla grazia ed alla misericordia del Salvatore.

Perché Dio è chiamato il Dio della pazienza, della consolazione e della speranza?

Perché la sua longanimità verso i peccatori lo determina ad aspettare la loro conversione con pazienza; perché da Lui viene questa consolazione interiore che sbandisce ogni pusillanimità; e fa insieme trovar gaudio nelle croci; perché Egli è che ci dà la speranza di pervenire, dopo questa vita a godere Lui stesso.

Aspirazione. O Dio di pazienza, di consolazione e speranza, fate che una perfetta rassegnazione al vostro santo volere versi la gioia e la pace nei nostri cuori, e che la Fede, la Speranza e la Carità ci rechino, con la pratica delle buone opere, al possedimento del bene a cui fummo creati, e che ci attende nell’eternità, se adempiremo fedelmente le condizioni alle quali ci è stato promesso.

Graduale

Ps XLIX: 2-3; 5
Ex Sion species decóris ejus: Deus maniféste véniet,
V. Congregáta illi sanctos ejus, qui ordinavérunt testaméntum ejus super sacrifícia.

[Da Sion, ideale bellezza: appare Iddio raggiante.
V. Radunategli i suoi santi, che sanciscono il suo patto col sacrificio. Alleluia, alleluia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja,
Ps CXXI: 1
V. Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. Allelúja.

[V. Mi sono rallegrato in ciò che mi è stato detto: andremo nella casa del Signore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt. XI:2-10

In illo tempore: Cum audísset Joánnes in vínculis ópera Christi, mittens duos de discípulis suis, ait illi: Tu es, qui ventúrus es, an alium exspectámus? Et respóndens Jesus, ait illis: Eúntes renuntiáte Joánni, quæ audístis et vidístis. Cæci vident, claudi ámbulant, leprósi mundántur, surdi áudiunt, mórtui resúrgunt, páuperes evangelizántur: et beátus est, qui non fúerit scandalizátus in me. Illis autem abeúntibus, coepit Jesus dícere ad turbas de Joánne: Quid exístis in desértum vidére? arúndinem vento agitátam? Sed quid exístis videre? hóminem móllibus vestitum? Ecce, qui móllibus vestiúntur, in dómibus regum sunt. Sed quid exístis vidére? Prophetam? Etiam dico vobis, et plus quam Prophétam. Hic est enim, de quo scriptum est: Ecce, ego mitto Angelum meum ante fáciem tuam, qui præparábit viam tuam ante te.  

“In quel tempo avendo Giovanni udito nella prigione le opere di Gesù Cristo, mandò due de’ suoi discepoli a dirgli: Sei tu quegli che sei per venire, ovvero si ha da aspettare un altro? E Gesù rispose loro: Andate, e riferite a Giovanni quel che avete udito e veduto. I ciechi veggono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono mondati, i sordi odono, i morti risorgono, si annunzia ai poveri il Vangelo; ed è beato chi non prenderà in me motivo di scandalo. Ma quando quelli furono partiti, cominciò Gesù a parlare di Giovanni alle turbe: Cosa siete voi andati a vedere nel deserto? una canna sbattuta dal vento? Ma pure che siete voi andati a vedere? Un uomo vestito delicatamente? Ecco che coloro che vestono delicatamente, stanno ne’ palazzi dei re. Ma pure cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, vi dico io, anche più che profeta. Imperocché questi è colui, del quale sta scritto: Ecco che io spedisco innanzi a te il mio Angelo, il quale preparerà la tua strada davanti a te” .

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL PRECURSORE: UOMINI DI CARATTERE

Perché le sue parole non venissero sospettate d’opportunismo o di adulazione, Gesù aspettò che i due discepoli mandati da Giovanni Battista se ne fossero tornati al loro maestro che languiva nelle carceri di Erode. Poi cominciò a parlare di Giovanni alla moltitudine. – « Che cosa vi attirava nel deserto, quando lasciavate le case e. accorrevate in folla? Forse una canna che si piega ad ogni fiato di vento? Forse un uomo effeminato vestito con eleganza e mollezza? ». – No: Giovanni non era un effeminato cortigiano, egli che fin da fanciullo crebbe e si fortificò nelle solitudini di luoghi selvaggi: portava una veste di peli di cammello stretta ai fianchi con una cintola di cuoio; si nutriva con locuste e miele e non beveva mai vino. – Cristiani, Gesù loda Giovanni Battista perché era un uomo di carattere. Chi non ha carattere, non è un uomo, ma una cosa; Dante direbbe che è una pecora matta perché si muove non secondo ragione, ma secondo istinto: l’istinto della paura, l’istinto del piacere. Due cose fanno l’uomo di carattere: convinzione profonda; volontà energica. – 1. CONVINZIONE PROFONDA. Quando Mosè salì sul monte a ricevere gli ordini da Dio, una nube avvolse la vetta del Sinai e nascose i colloqui dell’Eterno con l’uomo. Ma il popolo rimasto alle falde della sacra montagna, col passar dei giorni, cominciò ad annoiarsi dell’attesa, a disinteressarsi di quello che avveniva oltre quella nube che non lasciava trasparir nulla, se non forse qualche lampeggiamento seguito dal brontolare del tuono. Alla fine perse la pazienza di restar fedele, si costruì un vitello d’oro, intorno al quale tutti se la godevano, mangiando e bevendo e ballando. E non pensavano che da un momento all’altro sarebbe potuto tornare Mosè? Ci pensavano, ma dicevano anche: « Di quel Mosè che ci ha liberati dalla schiavitù dell’Egitto e del suo Dio che sta sopra le nuvole, non sappiamo che cosa sia accaduto » (Es., XXXII, 1 ss.). – Noi sentiamo un fremito d’indignazione verso quel popolo sleale e ondeggiante tra il vero Dio e gli idoli, che cento volte prometteva fedeltà e altrettante la trasgrediva. Eppure non è questo il male di moltissimi Cristiani, il male che forse rode anche la nostra vita? Diciamo di essere creature poste sulla terra per il cielo, ma intanto lo dimentichiamo. Diciamo d’aver un cuore destinato ad amare la sola cosa veramente amabile, e intanto sciupiamo il nostro amore in vergognose passioni. Il vero motivo di questo nostro ondeggiare sta nella mancanza di convinzioni profonde. Ne avessimo almeno una, saremmo uomini; e invece siamo canne. La nostra fede ha radici superficiali, come quella del popolo ebraico nel deserto, e, in pratica, diciamo anche noi: « Di quel Gesù che ci ha redenti col sangue ed è salito oltre le nuvole a parlare col suo padre Celeste, non sappiamo che cosa sia accaduto ». Con siffatta perplessità d’idee, è impossibile pretendere d’assomigliare a Giovanni Battista. – Un pomeriggio domenicale, una persona di mondo entrò nella canonica del parroco d’Ars, attratta da quello che si diceva intorno all’austerità di quell’umile prete, alla generosità con cui donava tutto per vivere poi egli stesso in una povertà estrema, allo zelo con cui si prodigava di giorno e di notte per la salvezza delle anime. « Signor Curato, — disse quella persona — crede proprio a tutto quanto dice il Vangelo? ». – « Sì, a tutto ». « Ma è proprio sicuro che dopo la morte ci sarà il Paradiso? ». « Sicurissimo ». « Proprio sicuro, come dopo quest’oggi che è domenica verrà il lunedì? ». « No, molto più sicuro ». « Proprio sicuro come il sole che è tramontato adesso, sorgerà domani mattina? ». « No. Molto, molto più sicuro. Poiché può darsi anche che venga una domenica dopo la quale non ci sia più il lunedì, quale non ci sia un tramonto dopo il quale non ci sia più aurora, un inverno dopo il quale non ci sarà più primavera, ma non può darsi assolutamente che le parole di Cristo non s’avverino ». « Quali parole? ». « Queste: Io sono la Resurrezione e la Vita: chi crede in me, anche se fosse morto, vivrà… Io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». – Quella persona partì commossa e persuasa d’aver capito il segreto di quella grande santità. Soltanto una convinzione così profonda poteva dargli la forza di vivere come viveva. Tale profondità di convinzione era quella che condusse Giovanni Battista nel deserto, che gli diede il coraggio di rinfacciare al re il suo nefando peccato, che lo fece intrepido quando si lasciò troncare la testa. Tale profondità di convinzione era quella che sostenne i martiri: Agnese, bella e ricca ereditiera d’una cospicua famiglia romana, che a 13 anni, mentre le fiamme del rogo già la lambivano, esclamava: « Ecco che finalmente io vengo a Voi, Signore, che io amavo, cercavo, desideravo, senza intermissione »; Pancrazio di 14 anni che lasciò sbranare dalle belve la sua giovane vita, ma non sacrificò agli idoli; Policarpo di 85 anni, Simeone di 120, entrambi col corpo tremante di vecchiezza, ma con l’anima immobile nella certezza della fede. Né si creda che questa convinzione capace di sfidare perfino la morte, sia un ricordo archeologico di tempi antichi che non ritornano più. È del nostro tempo il fatto di una fanciulla americana, (Grazia Minford), convertita dal protestantesimo e divenuta suora domenicana. Suo padre morendo le lasciò la somma favolosa di 12 milioni e mezzo di dollari, a patto che abbandonasse il convento. Che cos’ha risposto quella fanciulla? « Il mio Padre del cielo è assai più ricco del mio padre della terra, e mi darà una ricompensa più grande ancora ». Questa è convinzione e forza veramente cristiana! («Schonere Zukunft », 1-5-1927). – Convinzione cristiana spinge ancora tante figliuole a rinunciare a un sogno di felicità, piuttosto che sposare una persona che non rispetterebbe la loro coscienza, a rinunciare a un impiego lucroso piuttosto che sgualcire il candore della loro innocenza in certi uffici. Convinzione cristiana sostiene il padre di famiglia in gravi e lunghi sacrifici piuttosto che violare la legge del Signore. – 2. VOLONTÀ ENERGICA. La volontà energica è una conseguenza naturale della convinzione profonda. L’uomo di carattere sa dimostrare la sua volontà decisa davanti al mondo, a sé, a Dio. – Davanti al mondo. Il mondo ha due armi terribili per trascinare al male: la lusinga e lo scherno. Le lusinghe del mondo sono le amicizie, certe amicizie specialmente; sono i divertimenti, come gli spettacoli licenziosi, i balli, le passeggiate sbrigliate e promiscue. Gli scherni del mondo sono fatti di sorrisi maliziosi, di mormorazioni, di ironia, di disprezzo, e perfino di persecuzioni; poiché spesso i buoni si vedono preclusa la via alle loro legittime aspirazioni, e alle ricompense meritorie. La volontà energica dell’uomo di carattere non cede alle lusinghe, non teme gli scherni: ma va diritta e sicura, ascoltando sempre la voce della coscienza. – Davanti a sé. Un nemico potente è entrato in noi stessi per il peccato originale, ed ha esteso il suo nefasto impero un poco su tutte le facoltà dell’anima. Bisogna riconquistare e difendere la nostra libertà interiore. I cattivi pensieri la minacciano nella nostra mente, i cattivi desideri nel rostro cuore, i cattivi istinti nella nostra carne: quale campo di battaglia aspra e incessante per la volontà! Chi cede è rammollito. – Davanti a Dio. Dio ogni giorno per purificarci o per provarci ci manda la nostra parte di fatica e di sofferenza. È necessaria la volontà energica, che tronchi ogni querela e ogni impazienza, e ci faccia accettare con santa e lieta rassegnazione la sua paterna e misteriosa volontà. La volontà energica sa placare la natura ferita, e la induce a ripetere quella preghiera che, quando è sincera, vuole coraggio e amore: « La tua volontà sia fatta! ».- Santa Giovanna è all’assedio d’Orléans. Sette ore ha combattuto, sempre calma e intrepida, in mezzo alle sue truppe; ora è il momento in cui deve strappare al nemico la famosa bastiglia di Tourelles. Repentinamente si slancia, afferra la scala, l’appoggia alla torre, e sale impetuosa. Una freccia la colpisce in mezzo al petto: sgorga sangue. Ella impallidisce, trema: sospesa a metà della scala, piange di dolore e di paura. Ridiscende e si nasconde a curarsi. Ecco la debolezza umana. Gli Inglesi imbaldanziscono, ed i Francesi spauriti cedono il campo, e suonano la tromba della ritirata. Ma al primo squillo, Giovanna scatta in piedi: ricorda le visioni che ebbe, le voci che udì, e fa una breve preghiera. Poi di colpo si strappa la freccia, e col petto chiazzato di sangue, grida: « Avanti, siamo vincitori! » E vince. – Cristiani, la vita è una battaglia per la conquista del regno di Dio. Se ci capitasse qualche momento di paura e di debolezza, richiamiamo i motivi della nostra fede, ravviviamo le nostre condizioni, e chiediamo forza con la preghiera, Poi come Santa Giovanna andiamo avanti, sicuri che la vittoria è nostra. –PREPARIAMOCI AL SANTO NATALE CON LA FEDE. Due parti ha il brano di Vangelo da commentare: il messaggio di S. Giovanni Battista a Gesù; l’elogio di Gesù per San Giovanni Battista. 1. Da parecchi mesi il Precursore languiva nella fortezza di Macheronte, erma e selvaggia sul mar Morto, dove lo teneva rinchiuso Erode. Venivano i suoi discepoli a trovarlo e non senza amarezza gli raccontavano i primi successi di Gesù. «Maestro, gli dicevano, sai, quell’uomo che era con te al di là del Giordano, a cui tu hai reso testimonianza? ecco battezza anch’egli, e tutti vanno da lui » (Giov., III, 26). – Per quei discepoli affezionati riusciva molto duro vedere il loro maestro prigioniero in una fosca e solitaria torre mentre pensavano che laggiù nella ridente Galilea un altro Maestro predicava alla luce del sole, e la folla lo ascoltava ammirata. E se qualche volta s’imbattevano a passare di là, sapendo che Gesù, con i suoi amici era entrato in qualche casa a mangiare, mossi da invidia e sdegno, si mettevano sulla porta a protestare (Mc., II, 18). – San Giovanni aveva cercato già di dissipare questi sentimenti non generosi, ma tanto naturali e facili a germinare nel cuore dell’uomo; e aveva detto: « Sentite: se una persona si sposa e tutti gli fan festa, il suo amico deve rattristarsi? No; ma l’amico dello sposo, che sta presso di lui, e lo ascolta, si rallegra grandemente nell’udire la voce dello sposo. Questa è la mia gioia: ed è perfetta. Bisogna che egli cresca, e io diminuisca » (Giov. III, 29-30). – Quella volta però in prigione, il Precursore sentendosi incapace a disarmare e a illuminare i suoi amici, ne scelse due e li mandò a interrogare Gesù: « Sei Tu colui che ha da venire, o ne aspetteremo un altro? » Lo scopo recondito dell’ambasciata fu subito intuito da Gesù che in presenza dei due inviati moltiplicò i miracoli. Al momento di congedarli, disse: « Andate ora, e riferite a Giovanni ciò che avete udito, ciò che avete visto ». Poi, volendo mostrare come leggesse nei loro cuori, aggiunse: « E beati quelli che non si lasciano sconcertare dalla mia maniera di fare! ». 2. Partiti che furono, evitata quindi anche l’apparenza d’adulazione, Gesù rese una magnifica testimonianza al suo Precursore davanti ad una gente che l’aveva conosciuto nel deserto. « Chi siete andati a vedere nel deserto? Forse una canna sbattuta dal vento? ». No. Di canne erano folte le rive del Giordano, senza andarle a cercare lontane nel deserto. Giovanni poi non era certo una canna, lui il predicatore terribile che non infinse, che non tacque, ma andò fin dal Re a rimproverargli l’adulterio. « Chi dunque siete andati a vedere nel deserto? — incalza Gesù con una seconda domanda. — Forse un uomo di lusso vestito alla moda? ». I cortigiani dalle ricche vesti, gli uditori di Gesù sapevano bene che non abitavano il deserto, ma la reggia. Nel deserto, dove da vestire non ci sono che’ pelli ispide, da mangiare che erbe e locuste, da bere che acqua e scarsa ancor quella, non vivono che i ladroni e i profeti. E Giovanni era un profeta, anzi più che un profeta. « Non ‘è sorto un altro tra i figli di donna più grande di lui, — disse Gesù conchiudendone l’elogio. — Egli è l’araldo preannunziato per prepararmi la strada ». Ora che abbiamo raccontato con qualche commento, il Vangelo, fermiamo l’attenzione sulla risposta che il Signore diede ai due inviati. Questa risposta ha per noi una grande importanza. Oggi, come allora, in molti cuori manca la fede, oppure s’è illanguidita, oppure s’è fatta inerte. Anche per questi cuori, perché si ridestino a una fede operosa e amorosa, perché con tale fede si preparino al santo Natale, Gesù incaricò i due discepoli del Battista di riferire quello che udirono e quello che videro. – 1. QUELLO CHE UDIRONO. Certamente udirono quello che Cristo ha detto di sé medesimo. Lo udirono cioè proclamarsi figlio di Dio, Dio uguale al Padre. Il Vangelo non ci riferisce le parole precise pronunciate da Lui in quell’occasione: ma non ci rincresce perché ne abbiamo molte altre equivalenti pronunciate in diverse circostanze. Basterà ricordarne alcune. a) Un giorno l’Apostolo Filippo lo prega di fargli vedere Dio Padre, di cui parlava con tanta affettuosa insistenza. E Gesù: « Filippo, chi vede me, vede anche il Padre. Non credi tu che Io sono nel Padre, e che il Padre è in me?» (Giov., XIV, 9-10). La terra nostra non aveva mai inteso prima d’allora un simile parlare. Non c’è che Dio solo, e niente è simile a Lui in tutto il mondo. Ed ecco che questo uomo, Gesù, afferma d’essere un unico Dio col Padre: di possedere la stessa eternità, la stessa potenza, la stessa scienza, la stessa natura e vita divina. E lo confidò anche a Nicodemo in quella notte in cui l’ammise a un colloquio segreto (Giov., III, 13-18); lo ripeté al cieco nato dopo avergli donata la vista (Giov., IX, 35-37); lo proclamò solennemente alla folla che l’attorniava nel tempio (Giov., X, 30); lo disse in faccia a Caifa, l’ipocrita che cercava un pretesto per scandalizzarsi di lui (Mt. XXVI, 63-64). – b) Non solo Gesù affermò d’essere Dio, ma anche d’avere quei diritti che competono soltanto a Dio. Ad esempio, l’onnipotenza in cielo e in terra. Salutando i suoi discepoli, prima di salire al cielo, disse loro: « Io ho ogni potere, lassù in cielo e quaggiù in terra ». (Mt., XXVIII, 18). – Un altra volta domanda per sé un amore sopra ogni cosa. « Chi non mi ama più di suo padre e di sua madre, di suo figlio e di sua figlia, non è degno di me » (Mt., X, 37). Soltanto Dio può pretendere un simile amore. Gesù voleva appunto dire d’essere Dio. – c) E se l’ha detto, lo è. Era troppo equilibrato, semplice, schietto, buono per illudersi o per illudere. Ma non solo lo disse, lo comprovò coi fatti, e i due inviati del Battista videro cose che non può fare se non colui che ha fatto il mondo e che è il padrone della vita e della morte. – 2. QUELLO CHE VIDERO. Videro Gesù avvicinarsi affettuoso alle pupille spente d’alcuni ciechi, e chieder loro: « Che cosa desiderate? ». « Vedere! Vedere! », « Ebbene, guardate ». Sotto l’impero di quella parola, davanti alle loro facce stupefatte si rivelava per la prima volta la luce del sole e in essa tutte le altre cose belle. Erano scoppi di gioia, parole di riconoscenza interrotte da incomprimibile meraviglia infantile: «Oh gli uomini, sono come alberi che camminano! » (Mc., VIII, 24). – Videro sordomuti gonfiare la gola nello sforzo d’esprimere la parola che non potevano dire e agitare le dita intorno alle orecchie. Gesù, appoggiato un dito tra le sue labbra, l’intinse di saliva, poi toccò la loro bocca e il loro orecchio: « Apriti! » esclamò. D’improvviso come se finalmente un ingorgo maligno fosse travolto, la parola libera e chiara usciva dal loro petto, entrava nel loro timpano. Videro storpi gettare via le grucce e saltare sulle loro gambe. Videro alcuni in un momento guarir dalla lebbra che è inguaribile. Forse videro anche il centurione supplicare il Maestro per un suo carissimo servo che giaceva a letto in condizioni disperate, e Gesù guarirglielo in distanza (Lc. VII, 259). Forse videro anche i funerali dell’unigenito della vedova di Naim. Gesù fermò la barella e comandò alla morte di cedergli la tenera preda. « Fanciullo, ti dico di alzarti! ». E il morto risuscitò (Lc., VII, 11-17). – Questi sono fatti sicuri che non hanno che una sola spiegazione: Gesù è Dio fatto uomo, e rivestito d’un corpo come il nostro. Eppure molti non si lasciano persuadere. Non c’è da stupirsi, quando si pensa che perfino due città di quelle che videro coi loro occhi i miracoli si ostinarono nella incredulità. Gesù abbandonandole rivolse su loro la maledizione: « Guai a te, Corozain! Guai a te, Bethsaida! Se i miracoli che sono stati fatti tra le vostre contrade fossero avvenuti a Tiro e a Sidone, già si sarebbero convertite » (Mt. 11.21). Che vuol dire ciò? Vuol dire che alla buona fede che lo cerca Gesù si presenta con prove certe della sua divinità, ma non s’impone per forza all’ostinazione che lo respinge. – S’avvicina il giorno in cui la Chiesa ricorderà a tutto il mondo il mistero della ancora nascita di Gesù. E la Grazia che da questo mistero sgorgò allora, verrà diffusa a tutti i cuori, nella misura che se ne renderanno capaci. Dio Eterno che nasce bambino per noi! C’è qui un abisso di amore e di degnazione di cui non ci sarà mai possibile vedere il fondo. Santa Maddalena de’ Pazzi con incessante amorosa adorazione ripeteva centinaia di volte al giorno: «Il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi ». S. Alfonso de’ Liguori non sapeva studiare se sul suo tavolo di lavoro non vedeva la cara immagine di Gesù Bambino. Ed infinite volte la baciava, adorando Colui che vi era rappresentato. Cristiani: in questa settimana d’Avvento più volte al giorno, sull’esempio dei Santi, diremo col cuore: « Bambino Gesù, io ti ringrazio d’essere nato per me! ». Ma forse qualcuno penserà: « Come farò a ricordarmelo? ». Ebbene: perché non l’abbiate a dimenticare tre volte al giorno, al mattino, al mezzodì, alla sera, la Chiesa fa suonare le campane dell’Angelo che annunzia l’incarnazione del Verbo. Nessuno dunque si scordi, almeno in questa settimana, che udendo quel suono deve pensare al Figlio di Dio che si fece uomo per la nostra salvezza. — I FRUTTI DELL’AVVENTO DEL SIGNORE.- Se un rincrescimento pungeva ancora Giovanni il Battista, non era per sé, ma per i suoi discepoli: quelli che avevano raccolta la sua parola gridata dalle soglie del deserto, che avevano ricevuto il suo battesimo di penitenza sulle rive del Giordano: i suoi discepoli che non volevano rassegnarsi a separarsi da lui, che ancora venivano a trovarlo in prigione, che per stare con lui trascuravano di seguire il Messia. Ah no! questo era troppo, questo non poteva più permetterlo. Solo Gesù è il Salvatore, solo Gesù bisogna seguire! Per ciò, sentendo imminente la sua tragica morte, mandò due discepoli a Cristo per dirgli. « Sei tu il Messia, o è un altro che dobbiamo aspettare? ». – Giovanni, si capisce, non dubitava nemmeno: egli fino dal seno materno, sobbalzando misteriosamente, l’aveva riconosciuto; egli l’aveva additato alle folle ignoranti; egli l’aveva battezzato mentre la voce dell’Eterno Padre discendeva dal cielo aperto. Ma nella squisitezza della sua fede e del suo amore voleva che i discepoli suoi lo vedessero coi loro occhi, lo udissero con le loro orecchie: così affascinati dal Cristo, si sarebbero staccati da lui senza rimpianti. E Gesù comprese lo scopo di quella ambasciata. Li accolse con affetto e se li tenne con sé amorevolmente facendo molti miracoli in presenza di loro. Poi li congedò con queste parole: « Tornate da Giovanni e ditegli quel che avete udito, quel che avete veduto ». Orbene, Cristiani: la santa Chiesa in principio dell’Avvento, imitando il gesto del Precursore, manda anche noi a considerare i frutti della venuta del Salvatore perché abbiamo a credere più fermamente in Lui, a seguirlo più coraggiosamente. Questi frutti sono molti, ma i principali sono tre: la pace, la luce, l’amore. – 1. LA PACE. Prima ancora che nascesse, da un profeta fu chiamato « principe della pace »; quando nacque, i cori d’Angeli cantarono che «la pace in terra, agli uomini» era discesa. Alla vigilia della morte diceva ai suoi amici: « Me ne vado, ma vi lascio la pace »; risuscitando disse: « Pace a voi ». Gesù Cristo, dunque è la nostra pace. Ipse enim est pax nostra (Eph., II, 14). Perciò non fa meraviglia se, con la sua venuta, mise pace tra Dio e l’uomo, tra l’Angelo e l’uomo, tra uomo e uomo. a) Tra Dio e l’uomo: dal momento che il primo uomo peccò, Dio voltò via la sua faccia sdegnata e abbandonò la nostra natura al giogo del demonio. Passarono migliaia e migliaia d’anni in cui nessun uomo poté, benché santo, entrare in Paradiso: né Adamo, né Mosè, né Isaia, né Davide, alla loro morte, lo trovarono aperto. Finalmente nel seno verginale di Maria la natura divina e la natura umana s’abbracciarono nell’unica Persona nel verbo incarnato. Come Iddio poteva continuare la sua inimicizia con gli uomini, se uomo era anche il suo Figlio Unigenito? – b) Tra l’Angelo e l’uomo. Fino alla venuta di nostro Signore Gesù, gli Angeli trattavano gli uomini come stranieri con superiorità ed asprezza. Perciò quando apparvero ad Abramo, a Loth, a Giacobbe, a Mosè, ad Ezechiele, a Davide gli uomini tremanti si gettavano a terra per adorarli come padroni. Ma dal giorno della venuta del Signore, tutta la schiera angelica ci è diventata benevola ed amica: ai loro occhi cessammo di apparire la razza degradata e maledetta, poiché vedono che il Figlio di Dio ha voluto rivestire umana natura, farsi uomo in carne ed ossa come noi. Se Dio ebbe di noi tanta misericordia da diventare uno dei nostri, gli Angeli come ci potrebbero ancora trattare duramente? Quando a S. Giovanni Evangelista apparì un Angelo, egli, secondo l’uso dell’Antico Testamento, fece per gettarsi sulla nuda terra ad adorarlo. Ma la celeste creatura glielo impedì, dicendo: « Che fài? Io sono come te un servo dell’Altissimo ». – c) Tra uomo e uomo. Prima che il Salvatore discendesse su questa terra, il sentimento più diffuso tra gli uomini era l’odio. I pagani odiavano i Giudei, i Giudei odiavano gli immondi pagani. I Greci chiamavano barbaro chiunque non fosse della loro nazione; i Romani non riconoscevano i diritti se non dei cittadini di Roma. La guerra e l’odio implacabile per i nemici era un vanto. Venne Gesù: e davanti a Lui non ci furono più né Giudei né Gentili, né Greci né barbari, né rivali né nemici, ma tutti gli uomini divennero fratelli suoi, compartecipi della sua natura umana: e perciò figli tutti d’un Padre unico, Iddio. L’uomo dunque da Dio, dagli Angeli, dagli uomini stessi era odiato e disprezzato come un lebbroso. Gesù Redentore, portandoci la pace con Dio, con gli Angeli, con gli uomini, ci ha mondati da quella lebbra. Leprosi mundantur. Ma guai a quelli che ritornano negli odi antichi! per loro il frutto dell’avvento divino è maturato invano. – 2. LA LUCE. Tutti i popoli camminavano nelle tenebre e nell’ombra della morte. In Egitto si adoravano le cipolle e il bue; in Grecia si erano costruite divinità viziose e libidinose; in Roma si incensavano i tiranni crudeli. Le madri uccidevano i loro figliuoli per placare le ire di Baal o di Astharte, idoli sanguinarî. Anche gli uomini più intelligenti d’allora non riuscivano a sapere del loro eterno destino quanto ora ne sa anche l’ultimo dei nostri bambini. Gesù venne: e fu come se si squarciasse la maligna nuvolaglia che ottenebrava il mondo e risplendesse improvvisamente il sole. Sole di giustizia è Gesù! Luce del mondo è Gesù! – Quante meravigliose verità ci ha Egli disvelate riguardo a Dio, all’anima nostra, alla vita eterna… Tutte le cose più utili al nostro vero bene il Vangelo ce le insegna. – I nostri occhi erano ciechi, ed ora vedono. Cæci vident. Eppure ci sono di quelli che la dottrina cristiana hanno dimenticata, che non vogliono più impararla. Eppure ci sono di quelli che vivono solo per mangiare e guadagnare, veri adoratori delle cipolle e del bue; di quelli che vivono per accontentare ogni istinto bestiale, veri adoratori delle passioni immonde; di quelli che i proprî figli non educano cristianamente e sacrificano la loro innocenza al demonio. Guai a questi che ritornano nell’antica tenebrosa ignoranza! per loro il frutto dell’avvento divino è maturato invano. – 3. L’AMORE « Signore, perché sei venuto sulla terra? ». «Sono venuto a portare il fuoco dell’amore sulla terra ghiacciata, e non bramo altro che di incendiarla tutta in questa mistica fiamma ». Anche senza l’Incarnazione, nella sua infinita misericordia, Dio avrebbe saputo trovare il modo di perdonarci e salvarci. Ma era l’amore della sua creatura, che il Creatore dell’universo voleva: e si fece uomo per amore. Nell’Antico Testamento avevano imparato a temerlo e a rispettarlo; lo sentivano presente nel fragore del tuono, nell’urlo della bufera, nell’ardore del fuoco; ma gli uomini non riuscivano ad amare un Dio invisibile. Ma ora Egli si è fatto visibile, e tutto il mondo vede la sua dolce Umanità. « Fratelli, — scriveva S. Paolo — dopo la sua venuta più nessuno può vivere per sé, ma solo per Lui, che visse e morì per noi ». E sorsero allora moltitudini di uomini, di donne, di fanciulli che con desiderio offrirono la loro vita nel martirio. Sorsero allora infinite schiere di Monaci e di Vergini che si ritirarono nei deserti a vivere solo per suo amore, già fatti angeli prima di morire. Sorsero in ogni tempo i Santi che non temettero penitenze e umiliazioni, fatiche e malattie, tribolazioni e persecuzioni, accesi com’erano nell’amore di Cristo, il Dio fatto Uomo. – Senza questo eterno amore, che sarebbero stati gli uomini se non dei cadaveri? – Gesù venne e li risuscitò. Mortui resurgunt. Eppure sono troppi quelli che non amano il Signore: passano lunghe settimane senza un pensiero e un palpito per Lui! Troverete di quelli che neppure una Messa alla festa sanno ascoltare per suo amore; per suo amore non sanno nemmeno compiere una piccola rinuncia. E se si volesse entrare nel segreto delle famiglie, quanti ne trovereste che non sanno più rispettare la castità coniugale e vivono nell’egoismo brutale, dissacrando ogni legge di Dio e di natura! Guai a questi che ritornano nell’antica morte dell’indifferenza e del peccato! Per loro la primavera della redenzione è venuta senza fiori e senza frutti. –  Dopo due millenni, nuovamente ci prepariamo al Santo Natale per partecipare maggiormente ai frutti della divina venuta. – S. Gaetano da Thiene sì struggeva in affettuose preghiere; S. Filippo Neri si ritirava nelle catacombe a meditare; San Francesco d’Assisi s’avviava verso Greccio gridando: « Amiamo il Bambino celeste! ». Noi che faremo? Facciamo pace con Dio e con gli Angeli togliendo via i peccati dal cuore, facciamo pace con gli uomini perdonando e chiedendo perdono. Ritorniamo a frequentare la Chiesa, a studiare la dottrina cristiana, ad ascoltare la parola di Dio. Infine, per amore di Gesù che tanto ci amò, facciamo un po’ di penitenza, di elemosina, di mortificazione. – Così la pace, la luce, la carità del nostro Signore ritorneranno in noi.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXXIV: 7-8
Deus, tu convérsus vivificábis nos, et plebs tua lætábitur in te: osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam, et salutáre tuum da nobis.

[O Dio, rivolgendoti a noi ci darai la vita, e il tuo popolo si rallegrerà in Te: mostraci, o Signore, la tua misericordia, e concedici la tua salvezza.]

Secreta

Placáre, quǽsumus, Dómine, humilitátis nostræ précibus et hóstiis: et, ubi nulla suppétunt suffrágia meritórum, tuis nobis succúrre præsídiis.

[O Signore, Te ne preghiamo, sii placato dalle preghiere e dalle offerte della nostra umiltà: e dove non soccorre merito alcuno, soccorra la tua grazia.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Bar V: 5; IV:36
Jerúsalem, surge et sta in excélso, ei vide jucunditátem, quæ véniet tibi a Deo tuo.

[Sorgi, o Gerusalemme, e sta in alto: osserva la felicità che ti viene dal tuo Dio.]

Postcommunio

Orémus.
Repléti cibo spirituális alimóniæ, súpplices te, Dómine, deprecámur: ut, hujus participatióne mystérii, dóceas nos terréna despícere et amáre cœléstia.

[Saziàti dal cibo che ci nutre spiritualmente, súpplici Ti preghiamo, o Signore, affinché, mediante la partecipazione a questo mistero, ci insegni a disprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL SACRO CUORE DI GESÙ (60)

IL SACRO CUORE DI GESÙ(59)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE TERZA.

Sviluppo storico della divozione.

CAPITOLO SETTIMO

DALLA MORTE DI MARGHERITA MARIA AI NOSTRI GIORNI

I. – DAL 1690 AL 1725

La morte di Margherita Maria, grazie, in gran parte, al libro del P. Croiset, non fece che dare un nuovo slancio alla divozione. Il libro ebbe una diffusione prodigiosa; se ne fecero edizioni ed adattamenti in parecchie città di Francia; fu tradotto in diverse lingue. Dappertutto esso accendeva il fuoco sacro facendo conoscere, con il valore e l’unità della divozione, le sue origini celesti. – L’apostolato vivente faceva ancora di più. In ogni luogo ove era un monastero della Visitazione o un collegio di Gesuiti, si trovava qualche anima ardente per propagarla. Non era sempre senza difficoltà. Perché, se la divozione provocava l’entusiasmo, trovava anche delle opposizioni. Si vede dagli scritti del P. Galliffet, e ciò si sarebbe potuto indovinare, che, come d’ordinario, bisogna distinguere due o tre momenti nel progresso della divozione. Appena essa appare, alcune anime se ne innamorano: attrattiva della grazia, affinità naturale, entusiasmo di novità. È come polvere che s’incendia. – Ma ecco l’opposizione; essa nasce appunto dal successo medesimo; l’entusiasmo degli uni provoca la resistenza degli altri. È il momento delle divisioni delle dispute, delle critiche. Interviene l’autorità, per ristabilire la pace. Conservatrice per dovere, come per istinto, essa reprime gli slanci troppo vivi, le iniziative troppo brusche. Poi essa impone silenzio ai partiti. Le anime docili fanno silenzio. Ma quando il movimento viene da Dio, questa stessa docilità ne assicura il trionfo, mentre gli indocili e i fanatici mormorano forse, ed abbandonano quasi subito la causa che hanno compromessa con i loro eccessi e con la loro indiscrezione; gli altri più seri e più soprannaturali, la liberano di tutto ciò che poteva mescolarvisi di umano e di naturale; pregano, attendono, agiscono discretamente, sotto lo sguardo e con l’approvazione dell’autorità. Il movimento riprende a poco a poco, più profondo, senza rumore, senza urti. Fra gli oppositori i migliori riflettono, esaminano; sotto l’azione della grazia i pregiudizi, si mostra la verità; ed eccoli conquistati; essi saranno forse un giorno ardenti zelatori. – Noi abbiamo visto che tale fu la storia della divozione a Paray. Tale essa fu in molti monasteri della Vistazione; tale nei collegi della Compagnia di Gesù; tale quasi in ogni luogo dove si propagava la nuova divozione. Questa prima opposizione non era, di sua natura, un’opposizione giansenista. Ma vi si mescolarono qua e là influenze gianseniste che servirono a renderla più ostinata ed amara. Non è dei primissimi tempi che parla il P. Galliffet; ma si può dire con lui che « la persecuzione fu forte ». « Si arrivò, continua egli, a riguardare quelli che volevano praticare o stabilire questa festa, come una specie di setta, capace di turbare la Chiesa. Tutto, fino il nome della divozione, divenne odioso. Non si poteva nominare il cuore di Gesù, senza offendere certi spiriti ». I Cristiani istruiti e pii arrivarono presto ad apprezzamenti più giusti: « La verità, dice ancora il P. Galliffet, si faceva strada a poco a poco, i pregiudizî si dissipavano, gli spiriti si rialzavano, calmandosi in modo che, in pochi anni, si videro persone di tutte le condizioni e di tutti i caratteri abbracciare la nuova divozione e trovarvi la loro consolazione ». Egli aggiunge che essa « s’introdusse soprattutto nei conventi ». É ciò si comprende facilmente. È sempre stata la divozione degli eletti! – Ma fu obbligata a conquistare le anime una ad una. Anche la Visitazione, come corpo, e la Compagnia di Gesù, furono ben lungi dal lasciarsi conquistare ciecamente, alla prima, dalla nuova divozione. Vi furono perfino condanne dell’autorità, destinate a far riflettere i temerari e gli innovatori. Da Annecy, dalla « Sorgente santa ». partiva il 1 novembre 1693 una circolare che spiegava perché si era alieni da « quelle pratiche così singolari, che sono state introdotte da poco, per onorare il sacro Cuore di Gesù ». Non rigettavano la divozione, lo dicevano chiaramente: « Per questo, noi non vogliamo avere meno rispettoso culto per il sacro Cuore; noi lo consideriamo come il centro di tutti i nostri desiderî e la mèta di tutti i nostri voti ». Ciò che si respinge sono le pratiche nuove, contro le quali i santi fondatori avevano messo tanto in guardia. Ma la parola rimase dura. D’altra parte Annecy riceverà presto la Madre Greyfié, la sceglierà per superiora, e imparerà da lei ad apprezzare meglio la nuova divozione. – Cose analoghe nella Compagnia di Gesù. I profani  s’immaginano, talvolta, che una divozione reclamata dalle visioni e dalle rivelazioni di una religiosa, è sicura di trovar credito in questo mondo di predicatori, di confessori, di teologi… Si conoscono molto malel… Il P. Croiset e i suoi amici, pur essendo così prudenti, apparvero ad alcuni eccessivi e troppo crudeli. La cosa arrivò fino al P. Thyrse Gonzales, allora Generale della Compagnia. Egli non era certo disposto alle novità. Tuttavia non condannò la divozione; ma temeva che il P. Croiset non si fosse « volto ad opinioni singolari ». Gli si spiegò che non era così; egli rispose guardandosi dal biasimare la divozione, ma senza volerla incoraggiare e sopprimendo le pratiche contrarie agli usi. Ciò avveniva nel 1695. La Compagnia, per intero, non doveva fare atto di divozione al sacro Cuore che al tempo di Lorenzo Ricci, quando piombando su essa le disgrazie da tutte le parti, essa non aveva più speranza che nel sacro Cuore. – Frattanto, le confraternite si moltiplicavano, le pratiche principali erano adottate; si costruivano cappelle, si dedicavano altari; i predicatori parlavano. In pochi anni la devozione fu conosciuta da tutta la Francia, conosciuta nel Canada e fin nell’Estremo Oriente. Alcuni santi preti se ne facevano i propagatori zelanti. Abbiamo già parlato di Boudon. Un po’ più tardi, nel 1711, Simone Gourdan, il pio e sapiente canonico di San Vittore, ne faceva l’elogio in una consultazione celebre, in cui egli la mostrava come « la più antica, la più autorizzata, la più perfetta, la più utile, la più gradita da nostro Signore, di tutte le divozioni ». Alcune congregazioni religiose le spalancarono le loro porte. Le Benedettine del SS. Sacramento, furono preparate dal P. Eudes; così pure alcuni conventi di Benedettine e di Orsoline; le Certosine lo erano dalle mistiche del loro Ordine. Forse sono i Certosini che per i primi hanno adottato, quasi ufficialmente, la nuova divozione, Verso il 1692 alcune monache di questo ordine, domandavano al loro Superiore generale, don Innocente Le Masson, se potevano adottare le pratiche proposte in un piccolo libro della devozione al sacro Cuore: il ritrovo quotidiano in quel divin Cuore, alcune preghiere speciali, una consacrazione, un’ammenda onorevole, una specie di festa riparatrice in onore del sacro Cuore nel venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento. E gli mandarono il libro. Sembra che fosse il libretto di Digione, quello di suor Joly. Don Le Masson rispose: « Non solo acconsento… Ma vi esorto a farlo ». E volle scrivere lui stesso un Esercizio di devozione al sacro Cuore per le religiose Certosine che fu pubblicato nel 1694. – In questa prima diffusione della divozione ci piacerebbe distinguere le influenze di Margherita Maria e quelle del P. Eudes, vedere almeno come esse si uniscano e si fondano. Non si possono raccogliere a questo proposito che poche informazioni. Nel 1693 una lettera del P., Croiset ci mostra alcune Benedettine, le Dame di S. Pietro a Lione, che ritrovano, per così dire, nella divozione che vien loroproposta quella che il loro Ordine ha avuto in altri tempi. Ma esse ne avevano perduto ogni ricordo, Quelle Dame, « avendo gustato straordinariamente questa divozione, appresero che essa era stata altre volte molto ordinaria nell’Ordine…, e che c’era stata, molti anni avanti, una festa nell’Ordine e un Ufficio, in onore del sacro Cuore ». Sembrerebbe trattarsi di cosa di molti secoli prima. Non è così, pare. « Dio ha permesso, aggiunge il P. Croiset, ch’esse abbiano trovato, a Parigi, questo Ufficio a nove lezioni con una Messa molto bene composta in onore del sacro Cuore, il tutto approvato a Roma, con permesso, per tutto l’ordine di S. Benedetto, di fare tutti gli anni questa festa ». L’Ufficio di cui è fatta questione qui è probabilmente quello del Padre Eudes. In tutti i casi bisogna riconoscere che, se fra queste persone di Lione il P. Eudes era completamente sconosciuto, il collegamento della nuova divozione con l’antica si faceva nel modo più naturale. Questo servirsi dell’Ufficio e della Messa del P. Eudes per la divozione di Paray non sarebbe unico; già abbiamo avuto l’occasione di segnalarne delle tracce, fin presso le Visitandine, presso quelle di Strasburgo per esempio, di Nancy, di Metz. Lo si può pure constatare a Roven. Le Visitandine vi avevano accolto la divozione fin dal 1690. Là fu pubblicato, nel 1694, un opuscolo, La divozione al sacro Cuore di Gesù Cristo (Ripubblicato a Montreuil sur Mer, nel 1899, ma con adattamenti che ne fanno quasi un altro libro.). La divozione di Paray vi era nettamente. Esposta ed anche distinta, in certo modo, da quella del P. Éudes: ma la Messa che vi si unisce è quella del P. Eudes. Anche a Rouen si ritrovano a contatto le due influenze il 6 giugno 1608. Per la festa solenne della Confraternita adoratrice (che è proprio la festa di Paray, giugno, nel venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento, quella che Roma ha appunto allora concesso alle Visitandine), sono gli Eudisti, «i signori del Grande Seminario » che cantano la Messa del sacro Cuore, ed è un Eudista che fa la predica della sera. Toccava a loro, dice la circolare dove son raccontati tali avvenimertti, « di fare l’inaugurazione di questa devozione, già stabilita nella loro Congregazione da lungo tempo ». Sono questi fatti isolati, Oppure si presentano di frequente casi simili? Per rispondere occorrerebbero documenti precisi, che ancora non sono stati raccolti. Ma una cosa è sicura. L’impulso conquistatore, il movimento che invade l’Europa, l’Oriente, l’America, è partito da Paray. Presto il libro del P. Croiset non basta più. Se ne vedono apparire altri da tutte le parti. Spesso non sono che manuali ad uso delle confraternite che si stabiliscono in ogni luogo, raccolte di preghiere e di pratiche, con qualche spiegazione sulla natura e sulle origini della divozione con alcune approvazioni episcopali. Talvolta le confraternite, non sono che l’occasione; il libro è un vero trattato, pio e teologico insieme. Tale è quello del P. Froment, cominciato ancor prima della pubblicazione di quello del P. Croiset e sotto l’influenza di Margherita M, ma non apparve che nel 1699. Tale è quello del P. Bouzonié. Pubblicato a Parigi nel 1697. – Verso lo stesso tempo, i revisori generali della Compagnia di Gesù a Roma, ne esaminavano uno che sembra mirasse più in alto ancora, mirasse cioè ad ottenere la festa con Messa e Ufficio per la Chiesa universale. Essi lodarono l’opera « scritta con talento e sapere ed atta a promuovere la divozione e il culto del sacro Cuore ». Tuttavia furono di parere di non stamparla, E il P. Thyrse Gonzales, allora generale della Compagnia, decise, in conformitàal loro consiglio, per le ragioni che diremo fra poco. Che opera era quella e di chi? Fino adora non si sapeva. Si era creduto che si trattasse forse di estratti del P. Croiset o di una nuovqa edizione. Nuovi dati favoriscono un’altra congettura. 11 P. Pietro Charrier dice di aver trovato a Roma un Manoscritto del P. Galliffet De culto sacrosanti Cordis Jesu, datato dal 1696. Se queste inidicazioni sono esatte, non si può più dubitare che non sia quella l’opera sottoposta dal Provinciale di Lione ai revisori di Roma. Così il Padre Galliffet avrebbe aspettato per 30 anni l’ora della Provvidenza! La sua opera latina non apparve che nel 1726. La divozione stessa stava per subire altri ritardi davanti alla Corte di Roma. Le anime buone avevano creduto che le cose camminerebbero da sé. Non si aveva il desiderio di Gesù e la sua promessa, che egli regnerebbe malgrado le resistenze e le opposizioni?… Essendosi rivolte inutilmente a Roma una prima volta, nel 1687, le Visitandine si rivolgevano agli Ordinari, seguendo il consiglio di Roma stessa; e spesso gli Ordinari accordavano per le loro Confraternite la festa del sacro Cuore, con Messa e Ufficio propri. Altri Vescovi facevano lo stesso, ciascuno a piacer suo. Niente di uniforme, niente di sicuro; tutto dipendeva dal beneplacito dell’Ordinario. E poi mancava il prestigio dell’autorità papale. Dal 1693 le Confraternite furono approvate da Roma e arricchite d’indulgenze. Il P. Croiset si figurava che con questo si avesse tutto. « Si aspettavano le indulgenze, scriveva egli nel 1693. Appena Roma avrà parlato, mi aspetto di veder solennizzare questa festa dappertutto ». Anche lui stava per esser deluso.  – Nel 1697 si credette venuto il momento di tentare un grande sforzo presso Innocenzo XII, per avere la festa tanto desiderata, con Messa e Uffici proprî. Le Visitandine avevano interessato alla loro causa la regina decaduta di Inghilterra, Maria d’Este, moglie di Giacomo II. Era facile, giacché ella non aveva potuto dimenticare il suo predicatore del 1677, il P. de la Colombière. Dal suo esilio regale di Saint-Germain-en-Laye, ella scrisse al Papa, domandandogli di accordare ai monasteri della Visitazione la festa del sacro Cuore con Messa propria, il venerdì dopo l’ottava del Corpus Domini. Il Papa, secondo l’uso, rinviò la causa alla sacra Congregazione dei Riti. Il cardinale Prospero Bottini, Arcivescovo di Mira, fece le obbiezioni secondo l’uso, La principale era la novità; poi anche le conseguenze che se ne tirerebbero, per stabilire altre feste, specialmente quelle del cuor di Maria. Il postulatore rispose risolvendo le obbiezioni e ricordando i meriti della regina d’Inghilterra. La sacra congregazione emise il suo decreto il 30 marzo 1697. Essa accordava ai monasteri della Visitazione delle cinque piaghe per la festa del sacro Cuore. Si può vedere nei resoconti del tempo con quale entusiasmo e con quale solennità fu celebrata la festa. – Tuttavia, non era che una mezza soddisfazione. È la impressione a Roma non fu quella di una vittoria che incoraggia ad andare avanti… Due mesi dopo il decreto per la causa delle Visitandine, i revisori Gesuiti si pronunziarono, come noi abbiamo visto. Essi aggiungevano: « Noi speriamo che i Nostri non si impegnino più a patrocinare la causa del sacro Cuore alla Corte di Roma, e soprattutto che la paternità vostra non intervenga per ottenere che la festa con Messa e Ufficio propri del sacro Cuore siano accordati a tutta la Chiesa; particolarmente in un tempo in cuile nuove devozioni pullulano da ogni parte e sono spietatramente rigettate dalla santa Chiesa » – Infatti, verso la stessa epoca, le Orsoline di Vienna, che si erano rivolte, per loro conto, alla Congregazione dei Riti, per ottenere la festa per loro stesse, ricevevano dalla Congregazione un rifiuto formale: Non expedire. – La divozione stava per ricevere un colpo più forte. Nel 1704 il libro del P. Croiset fu messo all’Indice. Perchè? Il P. Galliffet spiegava così la cosa a Mons. Languet, venti anni dopo: « La novità della cosa, la mancanza di alcune formalità richieste qui e forse, anche, un po’ di malignità, da parte degli uomini, e molta certamente da parte dell’inferno ». Il libro non cessò di propagarsi; fu tradotto in italiano; corretti i difetti di forma: anche in Francia riceveva grandi elogi da Mons. Languet, che lo raccomandava senza fare la minima allusione all’Indice. Il P. Galliffet, nella sua lettera a Mons. Languet, esprimeva la speranza che, dopo l’approvazione della divozione, si farebbe « rendere al detto libro la giustizia che gli è dovuta ». Questa speranza si è realizzata, ma lungo tempo dopo, nel 1887. Malgrado tutti gli ostacoli, la divozione continuò a diffondersi nel pubblico. Le confraternite si moltiplicavano con approvazione e indulgenze da Roma. Indulgenze si avevano anche per tutti coloro che visitavano le chiese delle Visitandine, il giorno della festa. Le Orsoline di Vienna, imitavano le Visitandine di Francia: la Polonia apriva le braccia al sacro Cuore, come pure il Canada. – Nel 1707 le Visitandine rinnovarono le loro istanze presso Clemente XI per avere la Messa propria. Il Papa rispose loro, il 4 giugno 1707, lodando il loro zelo, la loro pietà, la loro prudenza, nella condotta di quest’affare; che esse aspettassero dunque, in pace, il giudizio della Chiesa; per questa sottomissione sincera esse arriverebbero direttamente al cuore del Signore. La peste di Marsiglia, nel 1720, fu forse la prima occasione di una consacrazione solenne, di un culto pubblico, al di fuori delle comunità religiose. Si sa come Marsiglia era stata ardente per il sacro Cuore, fin dai tempi di Margherita Maria. Da alcuni anni un’altra Visitandina, Anna Maddalena Rémuzat, vi diffondeva la stessa divozione. Ella aveva annunziato il flagello del 1720. Quand’esso scoppiò, nostro Signore le indicò il rimedio nella divozione al suo sacro Cuore. Ammenda onorevole e consacrazione furono fatte da Mons. di Belsunce, in mezzo alle lagrime ed ai singhiozzi di tutto un popolo; un decreto stabilì la festa per l’anno seguente. La peste cessò. Nel 1722 essa riapparve. Questa volta i magistrati stessi fecero il voto solenne di festeggiare ormai il sacro Cuore con Messa, comunione, omaggi e processione solenne. Altre città, colpite o minacciate, ricorsero pure al sacro Cuore: Aix, Arles, Tolone. Fu una supplica generale. Così la divozione diveniva popolare.

LO SCUDO DELLA FEDE (230)

LO SCUDO DELLA FEDE (230)

LA SANTA MADRE CHIESA NELLA SANTA MESSA (4)

SPIEGAZIONE STORICA, CRITICA, MORALE DELLA SANTA MESSA

Mons., BELASIO ANTONIO MARIA

Ed. QUINTA

TORINO, LIBRERIA SALESIANA EDITRICE, 1908

LA MESSA

PARTE I

LA PREPARAZIONE

CAPO II

Art. 1

SACRE VESTI.

L’Amitto

Segnasi col segno di croce per porsi, dirò, sotto la croce come sotto l’albero della salute, e venire protetto dall’ombra sua, come colui, che allo scoperto non reggerebbe di presentarsi alla Divinità. Poi impone l’amitto sopra il capo. Come gli antichi guerrieri mettevansi l’elmo in capo, e della gorgiera, di che l’elmo era fregiato, si coprivano a difesa il collo intorno, così dell’Amitto, scopresi il capo, il collo, e lo stende giù per le spalle e sul petto (Rub. Miss. Præp.). L’amitto è un misterioso velo, che significa il Sacerdote dovere solo per Dio riservare gli affetti del cuore, a Lui interamente consacrato, anzi coprirsi come d’un velo il capo, la bocca, il petto, perché niente di guasto, di vano, di falso abbia da offendere colui che è chiamato sul santo Monte a conversare con Dio (Bona, Trac. ant. de Missa., Bened. XIV, De sac. Missæ). L’uomo, così posto al sicuro dagli attacchi del mondo, alza il capo, il cuore, la voce, per combattere le battaglie del Signore, forte per l’armatura della fede, di che risplende terribile al nemico di Dio e degli uomini. Così il Sacerdote resta il capitano della crociata di Dio. Ecco ragione della guerra eterna dell’inferno e de’ suoi contro i Sacerdoti. Bene sta: quando si fa guerra al re, sono i guerrieri, che stan per lui, che ne ricevono i colpi della vita. Il Sacerdote dice perciò mettendosi l’amitto: « imponi, o Signore, al mio capo l’elmo della salute per combattere gli assalti diabolici. » Mai non è da dimenticarsi, che il Sacerdote non solo sacrifica in nome di Gesù Cristo, ma anche lo rappresenta; perché il suo sacerdozio è uno con quello del gran Pontefice eterno Gesù Cristo, il quale è pur la gran Vittima ad un tempo. Il perché il Sacerdote rappresenta Gesù come sacrificatore, e rende immagine di Gesù Cristo come vittima (Durandus Minut. Ep. Ration., div. off. lib. 3, cap. 4.). – Perciò giova qui avvisare, che dopo le altre significazioni simboliche e morali, noi toccheremo delle significazioni, che riguardano Gesù Cristo direttamente; fra le quali una è questa, che l’amitto significa il velo, col quale i Giudei bendarono gli occhi a Gesù, quando gli scaricarono sul volto benedetto quegli orrendi schiaffi, dicendo: « Indovina chi ti ha percosso, o Profeta da burla (Manzi loco cit.). » L’Amitto significa pure la corona di Spine, egualmente che la santa umanità, di che velò sulla terra la sua divina persona (Bona loc. cit. Manzi Del vero ecclesiastico).

Il Camice.

Ecco il bianchissimo camice (alba), simbolo dell’umana natura purificata nel Sangue dell’Agnello immacolato Gesù (Card. Bona trac. an. de Missa.). Il battesimo, la penitenza, poi le sante lagrime, la compunzione e tutti i mezzi di santificazione mirano qui, cioè a riparare i guasti fatti dal peccato nelle anime nostre, ed a restituirle nell’originale giustizia e santità; affinché, purificati per i meriti di Gesù Cristo, compiamo la nostra destinazione, che è questa, di poter giungere ad essere beati in seno a Dio. Dice perciò nell’atto di vestire il Camice: « Lavatemi, o Signore, e mondate il mio cuore, affinché, reso candido nel Sangue dell’Agnello, possa fruire dei gaudi sempiterni. » – Ecco adunque il Sacerdote vestito tutto di bianco, che significa l’uomo dover essere purificato delle braccia, perché si affretti a lavorare a gloria di Dio, e deporre della sua vita continue offerte sull’Altare, che arde in cielo innanzi al trono dell’Eccelso; purificato delle ginocchia, e fatto degno di prostrarsi innanzi all’altare, a presentare all’Altissimo ossequiosa adorazione; purificato dei piedi, affinché cammini diritto sul sentiero della legge divina, sull’orme segnate dall’Uomo-Dio; purificato del petto e di tutta la persona, perché, ricreato in santità, sia degno d’essere assorto in Dio (Idem. Amalarius Ben. XIV, loc. cit. Rupertus Abba. Tuil. de div. off. lib. I, cap. 20. De Alba Hug. Card. in Apocal. cap. 2, I. Durand. loc. cit.). – Il Camice significa anche la veste di Cristo, con che Erode lo vesti per ischerno per farsi trastullo di lui come d’uomo pazzo (Manzi loc. cit.). Bene sta; una vita monda che piace a Dio, è stoltezza agli occhi di coloro, che s’involgono nel fango d’ogni lordura, qui sulla terra. Ahì disgraziati! hanno bruttato in sé la santa immagine di Dio, perciò, senza pure volerlo, sentono ribrezzo di presentarsi a Dio, e per non sentire i lamenti della coscienza, che latra, gridano allegramente: « godiamo, godiamo l’istante presente; » e con brama infocata si ingolfano nei vizi, cercando furiosi nelle soddisfazioni della carne la felicità, che sola si trova in Dio; carnefici della propria pace, ché per andamenti sozzi di vita e mper opere dissolute, diventano feccia e scolatura d’ogni ribalderia, e sì gettano miseramente a disperazione!

Il Cingolo.

Poi il Sacerdote si stringe la vita col Cingolo, che significa l’angelica virtù della purità (Miss. Rubr. de præpar. Miss.), che rende la carne nostra degna di Dio: e, « cingetemi, o Signore, ei dice, col cingolo della purità ed estinguete nella mia carne l’umore della libidine, affinché rimanga in me la virtù della continenza e della castità. » Il voto della castità sposa a Dio il Sacerdote che ha giurato di volere i suoi affetti purificati (Bona Durand. Rutio div. off. lib. 3, cap. 3 De Alba Petrus Bles. Barhon Arcid. cit. 40.) tutti a Lui consacrare, e le sue delizie cercare in Lui solo; ed il Cingolo significa questo legame di caste nozze divine. Come i buoni fedeli appendono quei loro voti d’argento con belli nastri e gala intorno alle immagini care alla divozione dei popoli; così questo Cingolo appunto appende come un voto purissimo all’altare, a piè del Crocefisso, la persona devota e consacrata a Dio, e legata a Gesù unico oggetto delle sue tenerezze di Paradiso (Ben. XIV loc. cit.): e rappresenta pure i vincoli, che legarono Gesù nell’Orto. In tal modo il Sacerdote si lega, e va ad offrirsi con Gesù sull’Altare.

Il Manipolo.

Stende quindi il braccio sinistro a ricevere il Manipolo, e bacia sopra esso la croce. Questo era forse anticamente una pezzuola, di che i fervorosi nostri antichi Padri si asciugavano le lagrime, senza cui non potevano mai celebrare così santi Misteri. Sembra pure che il Manipolo servisse come di un pannolino per astergersi (Alcuinus De div. off. c. quid. signif. vestim.), e presentare con garbo e pulitezza sull’altare i santi vasi al Suddiacono affidati. Esso, colla croce che porta, significa la vita presente, in cui la nostra miglior porzione sono le lagrime ed i travagli, che Gesù ci comparte (Id. Rub. Miss. de præp.). La terra è un esilio per noi creati pel paradiso; la vita è un tempo di prova, e sono meriti di vita eterna le tribolazioni della vita presente. Verrà tempo, e non è lontano, quando sarà per noi gran fortuna l’aver avuto da soffrire con Gesù Crocifisso. Mieteremo allora in gaudio per l’eternità ciò che abbiam seminato lagrimando nel tempo (Duran. Ruper. ab Bona. Psal. CXXV.). Noi adunque, finché siam confinati qui sulla terra, siamo in bando, in pressura, in catene; ed il braccio sinistro, a cui si lega il Manipolo, significa la carne umana; che tiene legata la nostra persona colla terra, in cui dobbiamo espiare le nostre colpe coi patimenti (Ben. XIV loc. cit.). E siccome il Manipolo rappresenta anche la corda, che teneva avvinto alla colonna il benedetto Gesù, mentre Egli sopportava quella tempesta di battiture (Durandus, loc. cit.), ed eziandio la sua santa umanità, per cui restava Egli legato al mondo e soggetto ai patimenti; noi così con Gesù Cristo legati alla terra soffriamo, Lui fissando lassù in cielo dove godremo la vera libertà dei figliuoli di Dio, e diciam flagellati con Gesù Cristo, come il Sacerdote nello stendere il braccio, a cui si stringe il Manipolo: « fatemi degno, o Signore, di portare il Manipolo del pianto, e del dolore, perché con esultanza riceva la grande mercede eterna, che la vostra misericordia ai brevi travagli di questa povera vita apparecchia in paradiso; » e baciamo la mano, che ci manda le croci, e ci santifica i patimenti.

La Stola.

Così l’uom di Dio rinnovellato alla vita in Gesù Cristo, con Lui preparato a combattere la battaglia del Signore, e durarla da forte sotto il peso della tribolazione, pone sul collo segnato di croce la Stola. La Stola esprime il terzo vincolo, col quale fu legato Gesù, quando portava la croce. Essa è un dignitoso ornamento di autorità che si adopera nel presentarsi alle più importanti funzioni: significa la veste dell’immortalità, che, perduta pel peccato del primo Padre, riacquistiamo nei meriti di Gesù Cristo. Adunque, dove nell’anima nostra, spogliata della grazia che la rendeva degna di vita eterna, sovrabbondò il peccato, e del peccato fu stipendio la morte, ora la giustizia di Gesù Cristo, cancellando la nostra ingiustizia, fa che nell’anima nostra sovrabbondi la grazia (Ad Rom. V, 20.); e questa grazia è pegno di vita immortale. La Stola di color vario secondo il variare della solennità d’ogni dì, e splendida di oro e fino brillante di gemme, significa la veste dell’immortale gloria, che in cielo ricorda i vari meriti dei beati. Chi visse vita angelica in carne qui, vestirà il candor degli Angeli in cielo; e belli della luce del color di mite viola di paradiso saranno gli umili e i penitenti: splendidi i martiri dello splendor del Sangue divino: e le anime grandi in carità ricche in quella gloria della stola d’oro del regno dell’immortalità. Tutto questo viene significato dal nobile arredo, che è la ricca Stola, di che si adorna il Sacerdote dicendo: « rendetemi, o Signore, la Stola l’immortalità, affinché, quantunque indegno m’accosti al vostro santo Ministero, meriti pure il sempiterno gaudio ». Qui giova osservare il bel rito, con cui il Sacerdote compone la Stola sulla sua persona. Prende adunque egli questa, che significa la veste dell’immortalità infiorata di tutte virtù, che hanno da render risplendente l’anima nostra eternamente in paradiso, e la indossa formando con essa stretta sul petto una Croce, per farci intendere, che la virtù negli uomini è sincera e sicura solo, quando è saldata nella Croce di Gesù Cristo. Lo possiamo dire francamente: abbiamo diciotto secoli di prove, e sappiamo dalla storia di molte migliaia d’uomini che, chi guarda il Crocifisso, e lo medita, e vi si raccomanda, sotto la Croce di Gesù Cristo, si sente venire giù sull’anima da quelle piaghe santissime un balsamo, che guarisce le due piaghe eterne del cuore degli uomini; la piaga dell’orgoglio vile, e della voluttà schifosa; ma, chi volge le spalle al Crocifisso, con tutta la filosofia in corpo, resta pur sempre l’uomo dell’orgogli o vile e della voluttà schifosa. Non vi è adunque altro me a salvarci, fuorché unirci a portar la croce con Gesù Cristo, obbedienti insieme con Lui fino alla morte (Rub. Miss. praep. Bona, Durand. Ben. XIV loc. cit.) crocifiggendo la propria carne, serbarci immacolati dalle sozzure di questo secolo. Col cingolo ferma al fianco la Stola, il che pare voglia esprimere, che tutte virtù stanno in sesto, massime nei Sacerdoti, e risplendono come i più belli ornamenti agli occhi di Dio e degli uomini, finché campeggiano sopra di una vita monda. Che se d’una carne rinata nel Sangue di Gesù Cristo si fa vitupero di brutto peccato, allora si rompe il legame, che la unisce a Gesù e la compone a santità: e come nel vestimento sacerdotale, rotto il cingolo, cade giù a penzolone dalla persona in disonesto modo ogni adornamento, così, rotta al mal costume la vita, che deve essere santa, cade tutto in disordine vituperevole: lasciandosi poi andare l’uomo ai desideri d’una carne corrotta in fracido di snervamento dell’anima e del corpo, anche il lustro della virtù che sì possedeva, serve a rendere più disonorevoli e più deformi i disordini di una vita vituperata. Il Sacerdote velato dell’amitto, di candida veste interamente coperto, stretto dal cingolo al fianco, col manipolo legato al braccio, adorno della stola, colla croce sul petto, rappresenta l’uomo ricreato in Gesù Cristo, e rigenerato nello Spirito Santo alle opere di vita eterna.

La Pianeta.

Or ecco che veste la Pianeta; che significa la veste nuziale, colla quale solo è permesso comparire ad aver parte al gran convito per noi preparato da Dio (Innoc. INI, Ben. XIV, et Bona De Missa ei Durandus loc. cit.). E la veste nuziale è la carità, la quale colla sua forza e soavità rende leggiero il giogo di Dio (Rubrica Miss.). La Pianeta ha la croce dinanzi, che l’occupa tutta: perché, quando Gesù Cristo s’addossò la croce, coprì colla sua carità la moltitudine dei nostri peccati. La Pianeta significa anche la tunica inconsutile del Salvatore, che fu giocata ai dadi ai piè della Croce (Durand. loc. cit.). La bontà del Redentore per noi ha lasciato che gli giocassero fin l’ultimo de’ cenci che lo coprivano: così dava proprio tutto per noi! Ora il Sacerdote che rappresenta la Chiesa, la prende come il regal vestimento, che convien alla Sposa del Re divino, che ha dato per lei fino la vita (S. Laurentius Justin. lig. Visa de Car.). Perciò il Sacerdote, della Pianeta ricoperto nella persona, ci rappresenta Gesù Cristo, che porta nella Croce il peso delle nostre iniquità (Bona loc. cit.). Colla carità di Gesù Cristo confida di portare con costanza il peso del suo ministero, ed il caro giogo della legge di Dio; dice adunque in atto d’indossarsela, « O Signore, che avete detto: Il mio giogo è soave, ed il mio peso è leggero, fate che io così portar lo possa da meritarmi la vostra grazia. » Così il santo ministro, immediatamente a Cristo congiunto per l’unione dell’immortal Sacerdozio, che Gesù continua in Cielo, e cui esso Sacerdote come suo strumento esercita in terra, deve sempre ardere di quella carità, che in Dio sfavilla uguale ed eterna; la cui figura in terra nella legge antica si aveva in quel fuoco perpetuo, che doveva ardere sull’altare degli olocausti, per bruciarvi il grasso delle ostie pacifiche; il quale fuoco veniva mantenuto dal Sacerdote col porvi ogni mattina le legna (Lev. 6, 12, 13). Ora Cristo accese sulla terra la carità, fuoco spirituale, da quel materiale significato; e il Sacerdote ha da mantenerlo colle legna (chi nol vede?) della Santa Croce, di cui egli ha misticamente caricatala sua persona, e sulle quali rinnova egli ogni mattina il gran sacrificio dell’altare; il qual fuoco della carità donde ha da poter venire, se non dal cielo? Questo indicavano le fiamme, che, cadute nella legge antica di cielo, consumavano i sacrifizi. Ecco adunque il principio e la fonte inesauribile di quella vita di carità, che rende immortale, sempre attivo è più potente della morte, il Cattolicismo; voglio dire il sacrificio del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, che si consuma vero olocausto dal Sacerdote in un incendio di carità divina. Così egli è pronto all’azione tremenda, questo uomo di Dio. Ha il segno della corona di spine sul capo, la croce sul petto, la croce sulle spalle, la croce sul braccio; la croce sull’uno e sull’altro fianco, le mani piene di sacri crismi, che ricordano le mani piene di Sangue di Gesù Crocifisso, vero rappresentante di Cristo, il sacerdote misticamente con Lui crocifisso; come Gesù si avviava al Calvario portando la croce, egli, recando gli arredi, coì mezzi quali vuole compiere il gran sacrificio, va all’altare.

LA GRAZIA E LA GLORIA (51)

LA GRAZIA E LA GLORIA (51)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO X

LA PERFEZIONE FINALE DEI FIGLI DI DIO CONSIDERATA DAL LATO DEL CORPO

CAPITOLO PRIMO

La resurrezione della carne, sulla testimonianza della natura e della fede.

1. Ecco il figlio di Dio glorificato, consumato dalla parte principale di sé: è entrato attraverso l’anima nel possesso della sua eredità eterna: un’eredità di luce, di amore e di godimento inenarrabile. Cosa resta perché l’adozione sia completa ed il capolavoro della grazia sia compiuto? Resta da fare il Corpo, questa parte inferiore ma sostanziale di noi stessi, ad immagine del corpo di Gesù Cristo, l’unigenito Figlio di Dio; cioè farlo risorgere dal sepolcro, unirlo all’anima beata per adornarlo con tutti i doni richiesti da questa alleanza. Finché non siamo ancora liberati dalla schiavitù della corruzione, « noi gemiamo in noi stessi, aspettando l’adozione dei figli di Dio, che sarà la redenzione del nostro corpo » (Rm. VIII, 23). È di questa gloriosa risurrezione che dobbiamo parlare, prima di tutto per dimostrarne la certezza e poi, per quanto ci è possibile, per spiegarne le prerogative e gli splendori. Se considerassimo l’uomo solo dal punto di vista della pura e semplice ragione, sarebbe forse molto difficile, per non dire impossibile, portare delle prove a favore della risurrezione che siano in grado di darne certezza. Tuttavia, in assenza di prove rigorose, ci sarebbero comunque seri motivi per accogliere come una speranza questo ritorno alla vita che sarà la risurrezione dei nostri corpi. I santi Padri, soprattutto quelli che dovettero difendere questo dogma della nostra fede contro gli increduli dei primi secoli (Atenagora, S. Clemente, Minut. Felice, Tertulliano, Cirillo, Gerol., ecc.), ne svilupparono diverse con energia non minore dell’eloquenza, e i nostri grandi teologi, con S. Tommaso in testa, riprendendo le stesse induzioni dopo di loro, non hanno fatto altro che dare loro talvolta una forma meno oratoria e più concisa. – Questa prova della resurrezione della carne, gli Apologeti la richiedevano alla giustizia di Dio. Non è forse necessario che nella vita futura la ricompensa o il castigo corrispondano alle opere buone o cattive? Ora, essi vi risponderebbero, può essere mai che il corpo, una volta consegnato alla polvere, non ne debba mai uscire per unirsi all’anima e con questa nuova unione ricostituire l’uomo? Perché è l’uomo intero che qui fa l’opera del male e l’opera del bene; l’uomo che benedice Dio e che lo bestemmia; l’uomo che si piega alla sua santissima volontà per osservare la legge morale o che si ribella per violarla; l’uomo, in una parola, che ama il suo Dio o che lo oltraggia. Non obiettate che ci siano crimini in cui il corpo non ha alcun ruolo. Non ne conosco nemmeno uno. Infatti, l’unità del nostro essere umano è tale che nessuna operazione dell’anima si svolge in esso senza il concorso degli organi. Né la mente ha un pensiero se non entra in gioco l’immaginazione, né la volontà agisce se la sua libera determinazione non abbia il suo punto di partenza o la sua ripercussione nella sensibilità. – Almeno ammetterete prontamente, e questa sarebbe una prova sufficiente, che, se pur ci siano delle eccezioni, la cooperazione o la complicità del corpo è la regola generale. E la santa Chiesa di Dio lo ha capito così bene che, nelle preghiere con cui accompagna le estreme Unzioni che impartisce ai suoi figli per cancellarne le ultime macchie, parla solo dei peccati commessi con i sensi del corpo. « Che il Signore, per questa santa unzione – essa dice – e per la sua piissima misericordia, vi perdoni tutto ciò che avete commesso di male con gli occhi, con le orecchie, ecc. ». Né mi dite pure che lo strumento cieco di un crimine o di un atto eroico di virtù non venga né premiato né punito: il coltello dell’assassino, per esempio, o la spada del soldato che muore per la sua Patria. Senza rispondere, come potrei, che l’uno è accolto con rispetto, mentre l’altro è respinto con una sorta di orrore, mi accontenterò di far notare quali sentimenti opposti la natura stessa impartisca alle spoglie di un criminale e a quelle venerate di un uomo di grande virtù. Il corpo, infatti, non è uno strumento separato, come l’ascia o la spada: esso è una parte dell’uomo che lo usa; è quest’uomo stesso in uno degli elementi essenziali che costituiscono la sua natura e la sua persona. Dunque, è giustizia di Dio che, nel giorno della retribuzione finale, la carne esca dalla tomba per seguire il destino dell’anima, o nella ricompensa o nel castigo (Athenag., de Resurr., mort., n. 48-24). P. Gr., t. 6. p. 1008, cfr. Thom, c. Gent, L. IV, c. 79). Diciamo di più: anche se il corpo non avesse contribuito in alcun modo agli atti che saranno oggetto del giudizio di Dio, dovrebbe comunque comparire lì con l’anima: perché è l’uomo che ha compiuto questi atti. « L’uomo è, in effetti, un composto di due sostanze; egli deve quindi presentarsi con ciascuna di esse per essere giudicato tutto intero. Egli ha vissuto nella sua interezza; quindi, come ha vissuto, così deve essere giudicato, poiché il giudizio riguarda la sua vita. Qualis ergo vixerit, talem judicari (dicimus), quia de eo quod vixerit habeat judicari » (Tert. De Resurr. Carnis, c. 14, col. 16), dice Tertulliano nel suo linguaggio vigoroso. – Dopo la giustizia, è la sapienza di Dio che esige la resurrezione. Ancora una volta, che cos’è l’uomo? Non ascoltate chi vi dice che è pura materia, più o meno perfettamente organizzata: è un errore troppo evidentemente assurdo e troppo evidentemente degradante. Non ascoltate nemmeno coloro che, per un errore contrario, vorrebbero renderci puri spiriti, racchiusi per un certo tempo nel corpo, ma destinati un giorno a liberarsi da esso, come un prigioniero che viene liberato dalle sue catene, un insetto alato che rifiuta i suoi involucri informi. L’uomo non è né un corpo né un’anima, ma il composto vivente e sostanziale dell’uno e dell’altro, anche se la preminenza spetta all’anima in virtù della sua stessa natura. Quando, dunque, l’anima viene separata dal corpo, è un’opera incompleta, come una magnifica cattedrale il cui coro sia in piedi e la cui navata sia stata abbattuta. Posso mai persuadermi che la Sapienza divina, l’Artefice onnipotente la cui mano ha creato questo capolavoro (Sap. VII, 21), facendo violenza alla natura delle cose, possa lasciare i detriti alla terra e conservare per l’eternità solo la parte maestra (S. Thom. Ibid.)? È ancora una volta alla provvidenza di Dio che i Padri e i nostri Dottori si appellano. In qualsiasi stato dell’umanità, se Dio non l’avesse creata come ha fatto, per un destino soprannaturale, avrebbe dovuto darle la felicità dopo una prova vittoriosamente subita. Ora, senza la risurrezione del corpo, questa felicità non sarebbe completa, né risponderebbe pienamente alle aspirazioni che la natura, cioè Dio stesso, ha posto nel cuore dell’uomo. – Io ho detto che non sarebbe completa, perché la beatitudine, cioè la perfezione finale, presuppone come fondamento la prima perfezione dell’anima, quella che le è propria per natura. Ora, questa prima perfezione su cui poggia la beatitudine, l’anima separata dal corpo non la possiede interamente: infatti, in virtù dei requisiti stessi del suo essere, essa è parte dell’uomo, poiché la sua funzione nativa è quella di essere in esso come forma del corpo (« Anima, cum sit pars humanæ naturæ, non habet naturalem perfectionem nisi secundum quod est corpori unita ». S. Thom, 1 p., q. 90, a. 4; col. q. 76 a. 1). Se, dunque, nessuna parte ha la perfezione della sua natura al di fuori dell’insieme verso cui è ordinata, come potrebbe l’anima trovare la sua suprema perfezione, eternamente esclusa dall’insieme organico in cui ha ricevuto l’esistenza? Così il Dottore Angelico riassume una prova eloquentemente sviluppata fin dal II secolo da Atenagora ed altri Padri (S. Thom., c, Gent., l. c.; de Pot.., q.5 a. 10; Atenag. de Resurr. mort., n. os 15 e 24, l. c.). Ho aggiunto che la beatitudine dell’anima separata non risponderebbe completamente alle aspirazioni del cuore umano. Perché no? Perché il desiderio innato dell’uomo è di essere completo nel suo essere. Da qui quell’istintivo orrore per la morte che può essere superato, è vero, quando il dovere lo richieda; ma che permane anche quando si vola con eroico ardore verso una fine gloriosa. Orrore e desiderio che difficilmente possono essere spiegati, se la separazione dovesse essere per sempre la condizione normale della nostra esistenza e della nostra futura beatitudine (S. Thom., c. Gent., l. c.; Compend. Theol., c. 15). – E ancora, se fosse vero che la compagnia del corpo sia essa stessa un ostacolo allo sviluppo di nobili facoltà, capirei come, nonostante la relativa perfezione che derivi dalla separazione, l’anima, per conquistare la sua suprema perfezione, dovrebbe dire un eterno addio al suo corpo. Ma l’ostacolo non viene dal corpo, bensì dal suo attuale stato di mortalità. « Corpus quod corrumpitur aggravat animam; il corpo che si corrompe appesantisce l’anima » (Sap. IX, 16). Questo è il peso che ci lega alla terra e « abbatte lo spirito capace di pensieri più elevati » (Ibid.). (Che questa mortalità svanisca, dunque, per lasciare l’anima libera di librarsi verso le regioni della luce; ma che non si privi lo spirito dell’uomo, con il pretesto di liberarlo, del suo complemento naturale.  Infine, i nostri Apologeti si appellano alla magnificenza di Dio, giocando con gli splendori della creazione. Che cosa ha voluto Egli fare nel produrre l’uomo? Costruire un ponte, per così dire, tra il mondo dello spirito e quello del corpo; unire intelligenza e materia con un legame permanente. Separando l’anima ed il corpo senza speranza di ricongiungimento, c’è soluzione di continuità, l’accordo si rompe, l’armonia cede il passo ad una dissonanza. Io non trovo più nel piano divino la sua grande e meravigliosa unità, perché la catena di esseri che da Dio è scesa fino all’abisso del nulla ha perso il suo anello più necessario: l’uomo, nel quale si combinavano l’esistenza puramente materiale e l’esistenza spirituale. Non sento nemmeno quel concerto unanime di esseri che hanno tutti una voce per lodare e benedire il loro comune Creatore e Padrone; se il mondo corporeo può ancora fornire un soggetto per la lode e l’adorazione, così non ne è più né lo strumento né l’organo. Anche da questo punto di vista, quindi, è necessario che l’uomo, dopo una momentanea dissoluzione, si ritrovi come Dio l’ha fatto, spirito e corpo, una miscela armoniosa e vivente in cui si riassume tutta la creazione. Quanto sono più forti e più evidenti queste belle convenienze della risurrezione tratte dalla contemplazione della nostra natura, quando il Cristiano guarda la sua carne dal punto di vista soprannaturale! Tra tutti gli Apologeti, Tertulliano ha messo in luce in modo mirabile ciò che l’economia della grazia ha fatto per rafforzare i diritti dei nostri corpi alla futura risurrezione. – Che cos’è in effetti la nostra carne agli occhi della fede? Questo grande uomo ce la mostra come investita di funzioni sacerdotali. Il fine del sacerdozio è far salire le anime a Dio e far scendere Dio verso gli uomini (Ebr. V., 1 seg.). Ora, è per mezzo della carne che saliamo a Dio: essa ci trasporta sulle ali del sacrificio, della mortificazione e della preghiera; è con la sua assistenza, attraverso il suo ministero, col suo ausilio, che ci offriamo a Dio come ostie viventi e che celebriamo le sue lodi. È anche attraverso di essa che Dio viene a noi. Ascoltiamolo dalla bocca dello stesso Tertulliano: « Quando – egli esclama –  l’anima si pone al servizio di Dio, è attraverso la carne che riceve questo onore. È la carne che viene bagnata, perché l’anima sia purificata; la carne che viene unta, perché l’anima sia consacrata; la carne che viene segnata con il segno sacro, perché l’anima sia consacrata; è la carne che si piega sotto l’imposizione delle mani, affinché l’anima sia illuminata dallo spirito; è la carne che è nutrita dal corpo e dal sangue di Gesù Cristo, affinché l’anima sia impinguata con la sostanza divina » (Tertull., de Resurr. carnis, c. 8.). Poi, riprendendo in una breve e calda sintesi i diritti che la natura e la grazia hanno dato alla carne: « Così, ricapitolando, questa carne che Dio ha formato con le sue mani e a sua immagine, che ha animato con il suo soffio a somiglianza della sua vita, che ha stabilito in questo universo per abitarlo e goderne, per comandare a tutte le sue opere, che ha rivestito con i suoi Sacramenti e la sua disciplina; questa carne di cui ama la purezza, di cui approva le mortificazioni, di cui apprezza le sofferenze, questa carne, dico, non risorgerebbe, essa che prende da Dio tanti titoli! Hæccine non resurget, toties Dei? No, no, lungi da noi pensare che Dio abbandoni ad una distruzione senza ritorno l’opera delle sue mani, del suo industriarsi, l’involucro del suo soffio, la regina della sua creazione, l’ereditiera della sua liberalità, la sacerdotessa della sua Religione, il soldato della sua testimonianza, la sorella del suo Cristo » (ibid., c. 9). Ripeto, queste prove, anche con la nuova forza che la consacrazione della carne nel Cristiano conferisce loro, non pretendo di presentarle come assolutamente dimostrative (San Tommaso, sebbene nessuno enunci le prove filosofiche della risurrezione con più forza di lui, si guarda sempre bene dal fornirle come vere dimostrazioni. Nel quarto libro contro i Gentili, c. 79, dice: « evidens ratio suffragatur », « Immortalitas animarum exigere videtur resurrectionem corporus futuram », aggiunge nello stesso luogo. E altrove (Supplem:, q. 75, a. 3, ad. 2): « Ex rebus naturalibus non cognoscitur aliquid non naturale (qualis est ex ipso resurrectio) ratione demostrante persuadente, sed ratione persuadente... ». Ne consegue che le prove tratte dall’ordine della natura « fidei resurrectionis persuasive adminiculantur » – ibidem). Ma come esse ci preparano a credere all’insegnamento infallibile del Vangelo, quando afferma a nome di Dio che la nostra carne, uscita dal sepolcro, sarà di nuovo vivificata dall’anima e non conoscerà più la morte! Questa è la bella riflessione che fa Tertulliano: « Dio – egli dice – ci ha dato la natura come maestra, prima di illuminarci con la sua parola, affinché, istruiti alla scuola della natura, credessimo più facilmente alla sua parola divina » (Job. XIX, 25-27). Noi che abbiamo ascoltato questa grande lezione della natura, impariamo da Dio stesso che cosa riservi nella loro carne, non più a dei semplici servi, ma ai suoi figli; non più ad umili creature ragionevoli, ma a degli dei divinizzati dalla grazia e dalla gloria.

2. – C’è una verità costantemente affermata nei nostri Libri sacri, predicata da Cristo, annunciata dagli Apostoli, custodi e testimoni della sua dottrina, insegnata dalla Chiesa in tutte le fasi della sua esistenza: la risurrezione dei morti. L’Antico Testamento stesso era pieno di questa convinzione: fu questa convinzione a consolare Giobbe, nel mezzo della sua angoscia, mostrandogli da lontano il Redentore della sua carne (« Prærmisit naturam magistram, submissurus et prophetiam, quo facilius credas prophetiæ, discipulus naturæ. » Tertull. de Resurr. carnis, c. 12); quella che rafforzò gli eroici Machabei nell’orrore dei loro tormenti (II Mach. VII, 9 segg.); quella che mostrò a Daniele coloro che dormono nella polvere, risvegliando alcuni alla vita eterna e altri all’eterno obbrobrio (Dan. XII, 2). Che cosa mi importa, allora, delle vane pretese di una falsa scienza e delle pretese impossibilità che essa oppone alla mia fede? Dio, la verità, afferma che risorgerò; Dio, l’Onnipotente, saprà come realizzare ciò che afferma. Per questo mi unisco con tutto lo sforzo della mia anima, e senza ombra di dubbio, alla grande voce del popolo cristiano che canta attraverso i secoli e soprattutto sulle lande: Credo nella resurrezione della carne e nella vita eterna, il dono della vita eterna, Credo resurrectionem mortuorum et vitam æternam », certi che questa voce sia solo l’eco fedele della predicazione degli Apostoli, dei Padri e dei Dottori; un’acquisizione necessaria della parola di Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente, che ci ha detto di sé: « Io sono la resurrezione e la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, io lo risusciterò nell’ultimo giorno » (Gv. XI, 25; VI, 53, 59, ecc.). E certamente, data l’economia della Nuova Legge, i corpi dei figli di Dio dovranno un giorno essere riuniti alle loro anime, glorificati con loro e come loro. L’Apostolo ce l’ha detto: « Noi tutti, per quanto numerosi, siamo un solo corpo, di cui Gesù Cristo è il capo e noi le membra » (Rom., XII, 5; cfr. Lib. V, c. 4). E non è solo attraverso l’anima che siamo parte di Cristo. Lungi da noi commettere un errore che ci attirerebbe il rimprovero dello stesso Apostolo: « Non sapete che le vostre membra sono membra di Cristo » (I Cor. VI, 15). Ciò che il Verbo ha unito a sé quando è diventato uno di noi nel grembo della Vergine è la nostra intera natura, anima e carne. Di conseguenza, Egli vuole che questa natura entri nel suo Corpo mistico, non solo con l’anima, la sua parte principale, ma interamente e senza alcuna divisione. E per suggellare questa felice alleanza, unisce nella più augusta delle vesti il suo Corpo al nostro corpo, le sue membra alle nostre membra, affinché il fedele ed il Cristo siano due in una stessa carne; è anche questa la conseguenza che traeva S, Ireneo da questa presa di possesso del nostro corpo da parte del Corpo di Gesù-Cristo: « da qual fronte si osa negare che possa ricevere il dono della vita eterna, questa carne che si è nutrita del corpo e del sangue del Cristo e che è un membro suo? » – Una conclusione così necessaria e così certa che revocarla significherebbe addirittura minare la nostra fede dal profondo. Non sono io ad affermarlo, ma San Paolo e lo Spirito di Dio attraverso di lui: « Quando vi sarà stato predicato che Gesù Cristo è risorto dai morti, come potrà qualcuno di voi osare dire che i morti non risorgeranno? Se i morti non risorgono, non è forse risorto Gesù Cristo stesso? E se Gesù Cristo non è risorto, vana è la nostra predicazione e vana la vostra fede, e voi siete ancora nei vostri peccati » (I Cor. VI, 12 segg.). Così Gesù Cristo non poteva risorgere solo in parte; è necessario che questo Trionfatore della morte abbia una risurrezione piena, completa, totale, in modo che la morte non sia indebolita ma assorbita nella sua vittoria. Ora, dove sarebbe la pienezza del trionfo di Gesù Cristo sulla morte, se le membra non seguissero il capo; le membra, dico, nella loro integrità, cioè sia le anime che i corpi? Proseguiamo sulle orme del grande Apostolo. Se vedessimo queste membra eternamente sparse e mescolate alla polvere, non saremmo autorizzati a concludere della stessa Testa che è come loro sepolta nelle viscere della terra? Così « il Cristo che esce dalla tomba, può essere veramente chiamato la primizia di coloro che dormono ancora nel sepolcro…. Come tutti muoiono in Adamo, così tutti devono rinascere nel Cristo. » E questa è giustizia: perché se la caduta e la morte del primo capo della razza umana ha portato alla morte dei suoi discendenti, la risurrezione del nuovo Adamo, Capo dell’umanità rigenerata, deve a miglior titolo chiamare il ritorno finale alla vita per la nostra natura. Ma, aggiunge l’Apostolo, « … ciascuno al proprio posto: prima Cristo, come primizia; poi quelli che sono di Cristo » (1 Cor., XV, 20-23). Pertanto, come Dio ha risuscitato il Signore, così risusciterà noi con la sua potenza. Non sapete che le vostre membra sono membra del Cristo? » (I Cor., XV, 14, 15). Che dico: Egli ci risusciterà. « Dio, che è ricco di misericordia per il grande amore che ci ha dimostrato… ci ha già vivificati in Gesù Cristo e per mezzo di Gesù Cristo. Ci ha innalzati con Lui e ci ha fatti sedere nei cieli in Cristo Gesù » (Ef., II, 4-6). Aprite gli occhi della vostra fede e guardate: ecco nello splendore della gloria tutti coloro che vivranno e moriranno membri del Corpo mistico il cui capo è Gesù Cristo; essi sono là, non ancora in realtà, ma in speranza e di diritto: perché io vi vedo già il Capo, e Voi, Vergine Santissima, la più perfetta e la più unita delle sue membra (« Christo a mortuis excitato, capite nostro, et nos una surreximus, et, sedente capite, una et corpus sedet. S. Giov. Crisost,. Hom. 4 in Efesini, II, 6). – Nei giorni della sua vita mortale, il mio Salvatore conservò come imprigionate nella parte superiore della sua anima le delizie celesti, frutto naturale della visione intuitiva, che regnava su quelle alte vette. Da lì non discendeva nulla nelle regioni inferiori, perché doveva essere la nostra vittima, e per essere vittima doveva soffrire sia nel suo corpo che nella sua anima. Ma, una volta consumato il sacrificio cruento, la gloria rompendo gli argini inondava l’anima, i sensi e il corpo del mio Maestro. – È per lo stesso disegno che la sofferenza e la mortalità dominano ancora nelle membra vive di Gesù Cristo, che sono i fedeli: la passione del loro Capo deve essere completata in loro. Ma quando questa passione totale del Capo nelle membra sarà terminata, la pienezza della vita inonderà l’intero corpo di Cristo e « non ci sarà più la morte » (Ap. XXI, 4). Verrà giorno, quando il Padre metterà tutti i nemici sotto i piedi del suo Cristo. Perciò l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, perché Egli ha posto tutte le cose sotto i suoi piedi » (1 Cor., XV, 25, 26): cioè, se vogliamo prendere le parole nel loro significato più completo, sotto le membra più infime della sua Persona, che sono i piedi ancora attaccati alla terra. – Così, per la natura delle cose e secondo le ripetute affermazioni dello Spirito di Dio, il dogma della nostra futura risurrezione è una conseguenza dell’incorporazione dei fedeli nella Persona mistica di Gesù Cristo Nostro Signore. Si può obiettare che questo ragionamento si spinga troppo in là, poiché, se portato alle sue conseguenze, condurrebbe a pensare che il Corpo mistico di Gesù Cristo rimarrebbe incompleto, se tutti i corpi degli uomini non si elevassero configurati al suo stesso splendore. Un’obiezione vana che viene risolta da una parola sola: anche se tutti i corpi risorgono, non appartengono più a Cristo, le cui anime sono eternamente separate da Lui. Come può allora il suo Corpo rimanere incompleto, perché non ha membra che non sono e non possono essere sue? – Riportiamo la stessa conclusione generale in una nuova forma. Gesù Cristo disse ai Giudei: « Distruggete questo tempio e io lo ricostruirò in tre giorni…. Ed è del tempio del suo corpo che Egli parlava », secondo l’osservazione dell’Evangelista (Giov., II, 19-21). Gesù Cristo chiama il suo corpo tempio, perché « la pienezza della Divinità abitava in Lui corporalmente » (Col. II, 9). Ma anche noi siamo templi di Dio; templi di Dio attraverso le nostre anime, templi dello Spirito Santo attraverso le nostre membra (I Cor. II, 10): perché la divinità scende dal capo al corpo, dal capo alle membra, per riempirle della sua presenza (Col. II, 10). Ora, il tempio che è Cristo e il tempio che siamo noi non sono due templi separati, ma uno stesso tempio di cui Gesù Cristo è il fondamento e la sua umanità la parte più augusta e sacra. « Non ho visto un tempio nella Gerusalemme di lassù, perché il Signore Dio onnipotente è il suo tempio e l’Agnello » (Ap. XXI, 22). Pertanto, se c’è un solo tempio in cielo, e se ogni fedele è un tempio di Dio, per grazia e gloria noi siamo di quel tempio (“Simul omnes unum templum, et singuli singula templa sumus“. S. Sant’Agostino, ep. 187, al. 57, n. 20 Cfr. Ef. II, 20-22). –  Pertanto, quando Nostro Signore ha detto: «  Distruggete questo tempio e lo ricostruirò in tre giorni », questa ricostruzione, che si riferiva direttamente a Lui, riguarda noi stessi in modo mediato. Non più di quanto il Corpo mistico di Cristo, il tempio di Dio che è l’Agnello, possa rimanere eternamente incompiuto. Ciò che è più o meno il destino dei santuari costruiti con le mani degli uomini, non può essere appropriato al tempio costruito con le mani di Dio. – Membri di Gesù Cristo, templi viventi di Dio, due titoli alla futura risurrezione. Ne trovo una terza, più immediatamente basata sulla nostra condizione di figli di Dio e di fratelli di Gesù, il primogenito del Padre. Ricordiamo il ragionamento di San Paolo nella lettera ai Romani: « Voi avete ricevuto lo Spirito di adozione a figli, con il quale gridiamo a Dio: “Abbah, Padre…” Ora, se voi siete figli, siete eredi, eredi di Dio e coeredi con Gesù Cristo, se solo soffriamo con Lui per essere glorificati con Lui » (Rom. VIII, 15, 17). Partecipando quindi alla figliolanza del Verbo incarnato, dobbiamo nella stessa misura partecipare alla sua eredità. Una parte di questa eredità, non la più eccellente, ma bella e certa, è la glorificazione della sua carne. Perciò, o eredi di Gesù Cristo, rallegratevi nella speranza dei beni futuri e, guardando con gli occhi della fede a Cristo risorto dai morti, vedete cosa vi aspetti, se non degenerate dal vostro sangue. « Ed è per questo – dice l’Apostolo – che viviamo già in cielo, da dove aspettiamo il Salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo, che riformerà l’umiltà del nostro corpo e lo renderà conforme alla sua carne gloriosa, secondo quella potente operazione con la quale Egli è in grado di sottomettere tutte le cose. » (Fil. III, 20, 21). – Se la morte, prima di essere pienamente abbattuta, addormenta ancora nella polvere questi figli di Dio, membra vive di Cristo, non temiamo per loro: « essi non sono morti, ma dormono »; dormono, dico, nel Cristo vivente, e il loro risveglio, alla voce dello stesso Cristo risorto, sarà d’ora in poi vita piena ed immortale (Marc., V, 39; I Cor. XV 15; 20). Ed è per questo che, secondo un’osservazione molto consolante di San Giovanni Crisostomo, il campo dei morti porta un nome veramente profetico tra i Cristiani: noi lo chiamiamo cimitero, cioè dormitorio: perché questo è ciò che si intende con il termine greco (κοιμητήριον = koimeterion): da cui si è formata questa parola. Siamo portati lì ed adagiati, infranti, sfigurati, senza forza né vita, ma per riposare all’ombra di Colui che abbiamo desiderato (Cant., II, 3; cfr. Wiseman, Fabiola, 2a parte, c. 3), nella cura della sua potenza e del suo amore, fino all’ora in cui risuonerà il richiamo vittorioso: « Alzatevi, voi che dormite, risorgete dai morti e Cristo vi illuminerà » (Ef. V, 14). E « l’ultimo nemico, la morte, sarà distrutto, perché Dio ha posto ogni cosa sotto i piedi del suo Cristo » (I Cor. XV, 25-26). – Quando e come avverrà questa beata resurrezione dei figli di Dio? Lo Spirito Santo, senza rivelarcene l’intero mistero, non ha voluto tenercene completamente all’oscuro. Una convinzione comune nella Chiesa è che ciò avverrà quando il numero degli eletti, predestinati alla gloria, sarà completo; quando l’edificio del Corpo mistico di Gesù Cristo sarà perfetto, e non mancherà nemmeno una pietra al tempio che Dio si è degnato di costruire per sé con gli uomini; quando, infine, la grande famiglia dei figli adottivi, sparsi nello spazio e nel tempo, sarà riunita al Padre celeste (Ef. IV, 12 segg.). Allora, « in un attimo, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, i morti risorgeranno incorrotti (« Incorrupti intégritate membrorum, sed tamen corrumpendi dolore pænarum », ha detto Sant’Agostino dei reprobi. Ep. 205, al. 146 n. 15), e noi saremo trasformati ». (I Cor., XV, 52). « Resurget igitur caro, et quidem omnis, et quidem ipsa, et quidem integra. In deposito est ubicumque apud Deum,. per fidelissimum sequestrem Dei et hominum Jesum Christum, qui et homini Deum et hominem Deo reddet, carni spiritum et spiritui carnem. Utrumque jam in semetipso foederavit, sponsam sponso et sponsum sponsae comparavit, Nam etsi animam quis contenderit sponsam, vel dotis nomine sequetur caro. Non erit anima prostituta, ut nuda suscipiatur a sponso: habet instrumentum, habet cultum, habet mancipium suum carmen; ut collectanea comitabitur. Sed caro est sponsa, quae et in Christo Jesu spiritum sponsum per sanguinem pacta est. Hujus interitum quem putas, secessum scias esse. Non solo anima seponitur: habet et caro secessus suos interim, in aquis, in ignibus, in alitibus, in bestiis. Cum in hæc dissolvi videtur, velut in vasa transfunditur. Si etiam ipsa vasa defecerint, cum de illis quoque effluxerit, in suam matricem terram quasi per ambages resorbetur, ut rursus ex illa repræsentetur Adam, auditurus a Domino: Ecce Adam est quasi unus ex nobis factus, vere tunc compos mali quæ vasit, et boni quod invasit  », Tertull. de Resurr. carn., c. 63). Sarà l’ultimo giorno, non di questo o quell’uomo in particolare, ma di tutta l’umanità attuale, novissimus dies: giorno di resurrezione per tutti, di giudizio per tutti, di premio o supplizio totale per tutti (Joan. VI, 32; XI, 24; XII, 48). E non ci sarà più tempo, perché il destino di tutti sarà irrevocabilmente fissato nella morte eterna o nella vita eterna, per sempre.

LA GRAZIA E LA GLORIA (52)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO IV

LA VITA DELL’UOMO IN SE STESSO

3. – Sua applicazione.

Nell’amore e nel sacrificio sta dunque tutta la perfezione cristiana; son queste le due forze che fanno l’uomo perfetto secondo l’ideale cristiano. E chi vorrà dire che, con l’aiuto della grazia di Dio, non sia possibile raggiungerlo? “Da voi nulla potete”, verissimo; ma: “Tutto posso in Colui che mi conforta ”. Può esser tanto difficile amare Chi ha dimostrato di essere infinitamente amabile e infinitamente amoroso e quindi infinitamente degno dell’amor mio, la cui Persona è inoltre in perfetta armonia di affinità con la mia propria? Colui che per primo mi ha amato: “In questo è la carità, che, senza aver noi amato Dio, Egli pel primo ci ha amati ”, (I Giov. IV, 10), che ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figliuolo, che ci ha amati fino a farci suoi figli: “Guardate di quale amore ci ha amati il Padre, concedendoci di poterci chiamare ed essere di fatto figliuoli di Dio” (I Giov. III, I)? E d’altronde l’amore ch’Egli mi chiede non è una cosa straordinaria; è l’amore più consono alla mia natura, quello che la innalza al livello più alto. È amore di devozione, diremo anzi di dedizione, a Lui e alla sua causa, l’ufficio più nobile che io uomo possa compiere. È il dono di me stesso a Lui affinch’Egli faccia di me ciò che gli piace. “Dio lo vuole” è stato un grido di guerra e rimane il grido del soldato di Cristo nelle battaglie di Dio e soprattutto in quella battaglia interiore che mai cesserà in lui. In che cosa consistono in pratica quest’amore e questa lotta? Poiché la nostra vita è soprattutto pratica: non possiamo fermarci alla teoria. Per molti di noi, anzi, non esiste teoria, tanto l’anima è assorbita dalla vita, e non possiamo che compiangere coloro che fanno della teoria ad ogni costo, che continuano a porre quesiti e, non avendo né guida né basi né autorità, vanno sempre a tastoni brancolando attorno a loro stessi. Orbene, per incominciare: anche il solo voler amare o desiderar di amare è già per se stesso amare, come dice S. Leone. Non c’è desiderio dove non c’è amore; desiderare è amare. E osservare i comandamenti di Dio, ecco l’amore; gettarsi ai suoi piedi nel nostro nulla, nella nostra debolezza, nella nostra indegnità, guardare a Lui e fidare in Lui, sapere ch’Egli ci riguarda con misericordia e anche con fiducia, domandargli perdono quando l’abbiamo offeso, aspettare con fede dalla sua mano quanto ci occorre, poiché sappiamo benissimo che se il bambino domanda del pane il Padre non gli darà un sasso. E nell’allontanarci da Lui, vivere per amor suo la vita ch’Egli ci ha indicata, ecco che cos’è viver davvero, poiché è amare e dimostrare il proprio amore con la vita. Accettare il dovere che ci si presenta qualunque esso sia, perché Egli ce lo dà a compiere, e nella maniera in cui Egli vuole che lo compiamo, perché così possiamo piacergli, rende anche la cosa più insignificante e la vita stessa, e qualunque vita, degna di esser vissuta. E l’atto stesso di prendere il riposo e la ricreazione, dopo il lavoro quotidiano, e il cibo e il sonno, perché anche queste cose Egli ha disposto e vuole che in esse troviamo piacere, tutto ciò è ancora amare. “Venite in disparte in luogo tranquillo a riposare un poco” fu l’invito amoroso rivolto un giorno da Cristo ai diletti discepoli. No, per la maggior parte di noi, come ha detto S. Paolo più di una volta, la vita d’amore non è difficile quando si abbia conosciuto Colui della grazia di Dio, una volta avutane la visione, nulla vi è di più facile e di più naturale, se è lecito usar questa espressione nell’ambito del soprannaturale, che esercitarsi di continuo così nell’amor di Dio e per tal mezzo crescere in quella perfezione della nostra virilità che sola è degna di questo nome. – È vero che la pratica del sacrificio è più difficile; se fosse cosa facile la natura umana non le darebbe il nome di sacrificio, l’ammirerebbe di meno, non chiamerebbe eroe colui che lo compie nobilmente. Iddio, d’altronde, e la nostra vita cristiana quaggiù per Lui non esigono il sacrificio più che non lo esiga la natura umana in genere. Non domandano che facciamo di esso uno scopo. come se avesse valore di per sé, non vogliono che lo ricerchiamo come unica fonte di perfezione.. “Se distribuissi tutto il mio ai poveri, e dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, a nulla mi gioverebbe”. (I Cor. XIII, 3). L’unico valore del sacrificio sta in ciò ch’esso deriva dall’amore e a quello conduce. Basta amar Dio e cercare il suo amore e rendersi conto che in questa vita mortale ciò non può farsi senza qualche rinuncia. Molti sono gli ostacoli all’amore di qualunque genere; e chi vuole amare bene deve esser deciso a superarli. Preso in questo senso, il sacrificio appare veramente un bene, atto ragionevole e tollerabile; in breve diventa desiderabile e alla fine anche amato e gustato. È il segreto dei Santi. “O soffrire o morire” esclamava uno di essi. E un altro: “Non morire, ma piuttosto soffrire”, poiché ambedue sapevano l’amore che si cela dietro alla sofferenza e la trasforma in bene prezioso. La madre che ama la sua creatura non esiterà, quando questa sia colpita da grave malattia, a passare lunghe ore accanto al suo letto, incurante della propria stanchezza e della propria sofferenza, che saranno anzi l’unico suo conforto; e non v’è dubbio che l’assiduità e il sacrificio materno non avranno più limite se da quelli potrà dipendere la vita della creatura in pericolo. La stessa eroica generosità si manifesta in ogni campo, quando si ami davvero. Potremo esaltare e ricercare il piacere e l’appagamento di ogni capriccio, potremo perseguire le comodità e l’abbondanza, ma non potremo a meno d’inchinarci con sincera ammirazione dinanzi al sacrificio nobilmente compiuto per un nobile scopo, come dinanzi all’unica vera espressione di vita. Nessuna parola di Cristo ha ottenuto il consenso del mondo intero più facilmente di questa: “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per l’amico”. Questa e non altra è l’attitudine del Cattolico verso il sacrificio. Egli è guidato e sospinto dall’amore verso Dio, e sopra ogni cosa desidera di esser fedele a quell’amore e di dimostrarlo coi fatti. Ha fiducia, anzi certezza che, sacrificando quanto lo ostacola nell’esercizio di questo amore, darà a Dio quanto Egli chiede, gli sarà accetto, diffonderà la sua gloria e al tempo stesso, sebbene questo non sia che un fine secondario, assicurerà la propria salvezza, consolazione e perfezione. « Chi avrà perduto la sua vita per amor mio la ritroverà”. Tutto questo egli sa perché glielo insegna un’autorità degna di fede e perché lo sente confermato dalla propria esperienza, lo vede nell’esempio di tante nobili esistenze intorno a sé e davanti a sé e soprattutto in quella che di tutte è il modello: la vita dell’Uomo-Dio. Che cosa non sopportò Egli perché il Padre fosse debitamente glorificato e le anime fossero salve, per dimostrare l’amore ardente che lo consumava per il Padre e per gli uomini? E noi, suoi discepoli, incorporati a Lui per il Battesimo, nutriti del suo Corpo e del suo Sangue, chiamati ad aver parte con Lui affinchè “compiamo ciò che manca alla passione di Cristo”, potremo esitare a soffrire in compagnia di Colui che protestiamo di amare, per cagion sua, per amor suo e per quei fini stessi che indussero Lui a soffrire volontariamente? D’altra parte, anche a riflettere alla nostra sola esperienza personale, non dobbiamo riconoscere che la sofferenza non è affatto da ritenersi un male assoluto? Chi non ha mai sofferto merita compassione, chi pone tutto il suo studio nell’evitare la sofferenza è degno di disprezzo, mentre chi molta ne ha avuta in sorte nella vita conquista facilmente il nostro affetto. Sappiamo, inoltre, come alla scuola della sofferenza si apprendano cose che non potrebbero altrimenti apprendersi, e come per essa ci agguerriamo contro ogni genere di male e di falsità. “Nella croce sta la salute, nella croce la vita; nella croce sta la difesa da’ nemici; nella croce l’infusione delle celesti dolcezze”, dice l’autore dell’Imitazione di Cristo. (II, XII, 2), o, come si esprime S. Agostino: “Per i cuori che amano nessuna fatica è troppo gravosa, anzi diventa una gioia, così come gli uomini trovan piacere nelle fatiche della caccia, nelle noie del commercio… Poiché quando un’anima ama, non soffre più, o, se soffre, la sofferenza stessa è amata”. (De bono viduitatis). – Come illustrazione dei pensieri sviluppati in questo capitolo, diamo una preghiera di quel grande Cancelliere inglese, Sir Thomas More, Santo che la Chiesa sta per elevare solennemente all’onore degli altari, definito da alcuni l’inglese più tipicamente rappresentativo, del suo paese che abbia mai esistito. Non era ancor giunta la condanna, ma egli la sentiva venire. Il suo re aveva spavaldamente preso partito contro di lui, sebbene solo un anno prima avesse dato a vedere di amarlo con tutta l’anima. More aveva dato le dimissioni dal suo alto ufficio, e si era ritirato nella casetta di Chelsea sperando di vivervi in pace, coi diletti familiari, il resto dei suoi giorni. Fu durante questo periodo che scrisse a margine del suo Libro delle Ore la seguente preghiera, documento umano quant’altri mai:

Dammi la tua grazia, o buono Iddio,

per tenere il mondo in conto di nulla,

per fissare in Te la mia mente e non curarmi delle vane parole degli uomini,

per amar la solitudine e non desiderare la compagnia del mondo, e a poco a poco ripudiarlo del tutto,

per liberare il mio cuore da ogni cosa di quaggiù, per non desiderar di ascoltare alcun rumore terreno,

perché anzi le fantasie mondane riescan fastidiose al mio orecchio, per pensare a Te con gioia,

per implorare il tuo aiuto umilmente e confidare nel conforto tuo,

per adoprarmi con diligenza ad amarti,

per conoscere la mia miseria e la mia malizia,

per umiliarmi e abbassarmi sotto la tua mano possente,

per piangere le mie colpe passate e soffrir con pazienza, per espiarle, ogni avversità,

per viver lietamente il mio purgatorio quaggiù,

per esser sereno nella tribolazione,

per camminare nella via stretta che conduce alla vita portando la croce con Cristo,

per ricordar sempre i novissimi,

per non mai perder di vista la mia fine che incombe,

per rendermi la morte familiare,

per prevedere e meditare l’eterno fuoco infernale,

per implorar perdono dal Giudice che verrà,

per tener sempre fissa in mente la passione che Cristo sofferse per me,

per ringraziarlo senza posa dei suoi benefici,

per riguadagnare il tempo perduto,

per astenermi da vane conversazioni sulle cose del mondo; e considerare un nulla, per conquistar Cristo, la perdita degli amici, della libertà, della vita, per considerare i nemici come gli amici miei migliori poiché i fratelli di Giuseppe non avrebbero mai potuto fargli tanto bene col loro affetto quanto gliene fecero con la loro malizia e il loro odio.

Questi sentimenti ognuno deve desiderare più di tutti i tesori dei principi e dei

re, cristiani e pagani, riuniti e ammassati insieme.

Nota. — Il Libro delle Ore a margine del quale è scritta questa preghiera è in possesso del Duca di Denbigh e conservato a Newnham. – Ne diamo la dicitura testuale sull’autorità del defunto Cardinal Gasquet.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (14)

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: DICEMBRE 2022

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA DI DICEMBRE 2022

Dicembre è il mese che la Chiesa Cattolica dedica all’Avvento del Salvatore, e alla Immacolata Concezione della Vergine Maria.

Il decreto dell’Incarnazione Divina. — Iddio, — sì ingratamente offeso dall’uomo — poteva abbandonarlo alla sua sorte — come già vi aveva abbandonato Lucifero — dando corso alla sua giustizia: — volle invece — misericordioso — l’Incarnazione riparatrice!

Che provvidenza! — Senza l’Incarnazione Redentrice, l’uomo — tutto il genere umano — senza eccezioni — non avrebbe più potuto entrare in Cielo; — il « Paradiso perduto » sarebbe stato suo rimpianto eterno! — Inoltre per lo più sarebbe precipitato in peccati personali — irremissibili — traboccando così nell’inferno — a spasimarvi — disperato — per sempre! — E neppure in questa vita egli avrebbe avuta consolazione efficace ai suoi mali: — né valido ritegno ai suoi vizi: — né felicità — neanco relativa — individuale — o sociale!

Che sapienza! — Coll’utilità massima del riscatto dell’umanità, l’Incarnazione del Figliuolo di Dio conciliò anche la massima gloria di Dio. — Gesù, come Uomo, poté espiare le nostre colpe: — come Dio, diede alla sua espiazione valore morale infinito. Ne rimaneva così sovranamente ripagata la Divina Giustizia, — con infinito margine alla Divina Misericordia per reintegrarci e colmarci di grazie — sino alla nostra apoteòsi in Cielo — purché noi non resistessimo… — E Gesù stesso. Che divino Capolavoro! — Che capolavoro la Madonna SS.! Che bontà! — « Sic Deus dilexit mundum. ut… suum Unigenitum daret! » — « Ut servum redimeres. Filium tradidisti!

». — E il Figlio Divino? — « Dilexit me. et tradidit, semetipsum pro me! ». — E questo, pur prevedendotutte le empietà avvenire — tutte le bestemmie — tutti isacrilegi — le mille più odiose persecuzioni ai Sacerdotie alla Chiesa — gli innumerevoli abusi di grazie — leindifferenze incredibili — le freddezze anche di animepie — di persone sacre! — « Tu solus Sanctus! — Tu solus bonus!» — « Copiosa apud Deum redemptio!». — Ringraziamo!— Confidiamo sempre! — Approfittiamo ditanta generosità!

(G. Monetti S. J.: La Sapienza Cristiana, vol. II – Un. Tipog. Edit. Torinese, 1949)

124

Novendiales preces ante festum

Nativitatis Domini

Fidelibus, qui novendiali pio exercitio, in honorem divini Infantis Iesu publice peracto ante festum Nativitatis Domini, devote interfuerint, conceditur:

Indulgentia decem annorum quolibet die;

Indulgentia plenaria, accedente sacramentali confessione, sacra Communione et oratione ad mentem Summi Pontificis, si per dies saltem quinque novendiali supplicationi adstiterint.

Iis vero, qui præfato tempore preces vel alia pietatis obsequia divino Infanti privatim praestiterint, cum proposito idem per novem dies continuos explendi, conceditur:

Indulgentia septem annorum semel quolibet die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, novendiali exercitio absoluto; at ubi hoc publice peragitur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint (Secr. Mem., 12 aug. 1815; S. C. Indulg., 9 iul. 1830; S. Pæn. Ap., 21 febr. 1933).

[A chi pratica un pio esercizio in onore del divino Infante pubblicamente (o privatamente se legittimamente impedito) per nove giorni prima della festa della Natività del Signore, si concede: indulgenza di dieci anni (sette se in privato) per ogni singolo giorno; Indulgenza plenaria a chi, confessato e comunicato e pregato per le intenzioni del Papa, lo avrà praticato almeno per cinque giorni]

125

Novendiales preces

a die i6 ad diem 24 cuiusvis mensis

I. Eterno Padre, io offro a vostro onore e gloria, per la mia salute eterna e per quella di tutto il mondo il mistero della Nascita del nostro divin Redentore.

Gloria Patri.

II. Eterno Padre, io offro a vostro onore e gloria, per la mia eterna salute e per quella di tutto il mondo, i patimenti della Ss.ma Vergine e di san Giuseppe in quel lungo e faticoso viaggio da Nazareth a Betlemme, e l’angoscia del loro cuore per non trovare luogo da mettersi al coperto, allorché era per nascere il Salvatore del mondo.

Gloria Patri.

III. Eterno Padre, io offro a vostro onore e gloria, per la mia eterna salute e per quella di tutto il mondo, i patimenti di Gesù nel presepio ove nacque, il freddo che soffrì, le lagrime che sparse, ed i suoi teneri vagiti.

Gloria Patri.

IV. Eterno Padre, io offro a vostro onore e gloria, per la mia eterna salute e per quella di tutto il mondo, il dolore che sentì il divino Infante Gesù nel suo tenero corpicciuolo, allorché si soggettò alla circoncisione; vi offro quel Sangue prezioso, che allora Egli sparse la prima volta, per la salvezza di tutto il genere umano.

Gloria Patri.

V. Eterno Padre, io offro a vostro onore e gloria, per la mia eterna salute e per quella di tutto il mondo, l’umiltà, la mortificazione, la pazienza, la carità, le virtù tutte di Gesù Bambino, e vi ringrazio, amo e benedico infinitamente per questo ineffabile mistero dell’Incarnazione del divin Verbo.

Gloria Patri.

V- Verbum caro factum est;

S . Et habitavit in nobis.

Oremus.

Deus, cuius Unigenitus in substantia nostræ carnis apparuit; præsta, quæsumus, ut per

eum, quem similem nobis foris agnovimus, intus reformari mereamur: Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

Indulgentia septem annorum semel quovis die.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, novendiali

exercitio in finem adducto (S. C. Indulg., 23 sept. 1846;

S. Pæn. Ap., 14 oct. 1934).

II

PRECES

V. Deus, in adiutorium meum intende;

S . Domine, ad adiuvandum me festina.

V. Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto, Sicut erat in principio et nunc et semper, et in sæcula sæculorum. Amen.

Pater noster.

I. Iesu Infans dulcissime, e sinu Patris propter nostram salutem descendens, de Spiritu Sancto conceptus, Virginis uterum non horrens, et Verbum caro factum, formam servi accipiens, miserere nostri.

S. Miserere nostri, Iesu Infans, miserere nostri.

Ave Maria.

II. Iesu Infans dulcissime, per Virginem Matrem tuam visitans Elisabeth, Ioannem Baptistam Præcursorem tuum Spiritu Sancto replens, et adhuc in utero matris suæ sanctificans, miserere nostri.

Miserere, etc. Ave Maria.

III. Iesu Infans dulcissime, novem mensibus in utero clausus, summis votis a Maria Virgine et a sancto Ioseph expectatus, et Deo Patri pro salute mundi oblatus, miserere nostri.

S. Miserere, etc. Ave Maria.

IV. Iesu Infans dulcissime, in Bethlehem ex Virgine Maria natus, pannis involutus, in præsepio reclinatus, ab Angelis annuntiatus et a pastoribus visitatus, miserere nostri.

Miserere, etc. Ave Maria.

Iesu, tibi sit gloria, Qui natus es de Virgine, Cum Patre et almo Spiritu, In sempiterna sæcula. Amen.

V. Christus prope est nobis.

Venite, adoremus.

Pater noster.

V. Iesu Infans dulcissime, in Circumcisione post dies octo vulneratus, glorioso Iesu nomine vocatus, et in nomine simul et sanguine Salvatoris officio præsignatus, miserere nostri.

S . Miserere, etc. Ave Maria.

VI. Iesu Infans dulcissime, stella duce tribus Magis demonstratus, in sinu Matris adoratus, et mysticis muneribus, auro, thure et myrrha donatus, miserere nostri.

Miserere, etc. Ave Maria.

VII. Iesu Infans dulcissime, in templo a Matre Virgine præsentatus, inter brachia a Simeone amplexatus, et ab Anna prophetissa Israeli revelatus, miserere nostri.

Miserere, etc. Ave Maria.

VIII. Iesu Infans dulcissime, ab iniquo Herode ad mortem quaesitus, a sancto Ioseph in Ægyptum cum Matre deportatus, a crudeli cæde sublatus, et præconiis Martyrum Innocentium glorificatus, miserere nostri.

Miserere, etc. Ave Maria.

Iesu, tibi sit gloria, Qui natus es de Virgine Cum Patre et almo Spiritu

In sempiterna sæcula. Amen.

V. Christus prope est nobis.

Venite, adoremus.

Pater noster.

IX. Iesu Infans dulcissime, in Ægyptum cum Maria sanctissima et Patriarcha sancto Ioseph usque ad obitum Herodis commoratus, miserere nostri.

S. Miserere, etc. Ave Maria.

X. Iesu Infans dulcissime, ex Ægypto cum Parentibus in terram Israel reversus, multos labores in itinere perpessus, et in civitatem Nazareth ingressus, miserere nostri.

S. Miserere, etc. Ave Maria.

XI. Iesu Infans dulcissime, in sancta Nazarena domo, subditus Parentibus, sanctissime

commoratus, paupertate et laboribus faticatus, in sapientiæ, ætatis et gratiae profectu confortatus, miserere nostri.

C. Miserere, etc. Ave Maria.

XII. Iesu Infans dulcissime, in Ierusalem duodennis ductus, a Parentibus cum dolore quæsitus, et post triduum cum gaudio inter Doctores inventus, miserere nostri.

S. Miserere, etc. Ave Maria.

Iesu, tibi sit gloria, Qui natus es de Virgine Cum Patre et almo Spiritu.

In sempiterna sæcula. Amen.

Die Nativitatis Domini et per Octavam:

V. Verbum caro factum est, alleluia.

S. Et habitavit in nobis, alleluia.

In Epiphania Domini et per Octavam:

V. Christus manifestavit se nobis, alleluia.

R. Venite, adoremus, alleluia.

Per annum.

V. Verbum caro factum est,

R. Et habitavit in nobis.

Oremus.

Omnipotens sempiterne Deus, Domine cæli et terræ, qui te revelas parvulis; concede, quæsumus, ut nos sacrosancta Filii tui Infantis Iesu mysteria digno honore recolentes, dignaque imitatione sectantes, ad regnum cælorum promissum parvulis pervenire valeamus. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen.

Indulgentia quinque annorum semel in die.

Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, iis qui die

25 cuiusvis mensis supra relatas preces pia mente recitaverint

[I. P. a chi, in ogni 25 del mese, reciterà le preghiere suddette

(S. C. Indulg., 23 nov. 1819; S. Pæn. Ap., 8

iun. 1935).

Queste sono le feste del mese di Dicembre: 2022

2 Dicembre S. Bibianæ Virginis et Martyris    Semiduplex

                        PRIMO VENERDI

3 Dicembre S. Francisci Xaverii Confessoris    Duplex majus

                        PRIMO SABATO

4 Dicembre Dominica II Adventus  –  Semiduplex II. classis

                      S. Petri Chrysologi Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris,  Duplex

5 Dicembre Sabbæ Abbatis  –  Simplex                     

6 Dicembre S. Nicolai Episcopi et Confessoris   – Duplex

7 Dicembre S. Ambrosii Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Dicembre In Conceptione Immaculata Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis

10 Dicembre S. Melchiadis Papæ et Martyris    Feria

11 Dicembre Dominica III Adventus  – Semiduplex II. classis

S. Damasi Papæ et Confessoris    Duplex

13 Dicembre S. Luciæ Virginis et Martyris    Duplex

14 Dicembre Feria IV Quattuor Temporum in Adventu    Ferial

15 Dicembre In Octava Concept. Immac. Beatæ Mariæ Virginis    Duplex majus

16 Dicembre S. Eusebii Episcopi et Martyris    Semiduplex

                      Feria VI Quattuor Temporum in Adventu    Ferial

17 Dicembre Sabbato Quattuor Temporum in Adventu   Ferial

18 Dicembre Dominica IV Adventus    Semiduplex II. classis

21 Dicembre S. Thomæ Apostoli – Duplex II. classis

24 Dicembre In Vigilia Nativitatis Domini  –  Duplex I. classis

25 Dicembre In Nativitate Domini – Duplex I. classis

26 Dicembre S. Stephani Protomartyris    Duplex II. classis

27 Dicembre S. Joannis Apostoli et Evangelistæ – Duplex II. classis

28 Dicembre Ss. Innocentium  –  Duplex II. classis

29 Dicembre S. Thomæ Episcopi et Martyris    Duplex *L1

3o Dicembre – Dominica Infra Octavam Nativitatis    Semiduplex Dominica minor

S. Thomæ Episcopi et Martyris – Duplex

31 Dicembre S. Silvestri Papæ et Confessoris    Duplex

S. ANDREA APOSTOLO (30 NOVEMBRE 2022)

(Otto Hophan: Gli Apostoli – Marietti ed. 1951)

Passando da Pietro ad Andrea, suo fratello e compagno d’apostolato, ci sembra di trasferirci da un lago agitato a una spiaggia tranquilla; egli attrae persino col suo bel nome. « Andrea » — da « andreîos » — significa « virile », « valoroso », e sebbene nome greco, era diffuso fra i Giudei fin dal secondo secolo precristiano; gli artisti, che ci diedero le prime immagini di Andrea nel secolo quarto e quinto, erano evidentemente sotto l’influsso del significato di questo nome; sempre e ovunque infatti lo rappresentano robusto, virile; la presenza risoluta ed energica trapela sin dai capelli, che son rivolti all’insù quasi irti. « Andrea non era piccolo ma grande, un po’ ricurvo, con naso grande e alte ciglia »: così è dipinto in una biografia del nono secolo, che certamente desunse queste notizie da fonti ben più antiche. « Non piccolo, ma grande »: in queste parole è ritratta anche la figura morale dell’Apostolo. Le informazioni del Vangelo sono scarse, ma quelle che abbiamo provano chiaramente ch’egli fu in verità quello che il nome significa: un uomo; e però non si notano in lui quei lineamenti rigidi, che troppo spesso macchiano proprio gli uomini dalla forte tempra, non è ruvido, duro né ambizioso; ha colto giusto lo Spagnoletto, dipingendo Andrea come un vecchio tranquillo, serio, affabile, che tiene nella destra nerboruta un pesce pendente dall’amo. Ora egli ci deve raccontare come abbia preso il Pesce santissimo (*) o, meglio, come egli stesso sia stato preso da Lui per sempre. (Il pesce è un intelligente e caro simbolo di Cristo fin dall’età cristiana più remota. Nella parola greca I-Ch-Th-Y-S = pesce, si vedevano le lettere iniziali del nome e delia natura di Cristo; I = Gesù; Ch = Cristo; Theoù = di Dio; Youiòs = Figlio; Sotér = Salvatore).

ANDREA IL PRIMO

Andrea era fratello naturale di Simone Pietro (Giov. 1, 40); non è però possibile precisare se fosse di lui più giovane o più anziano; si inclina a ritenerlo piuttosto per il più giovane, nonostante la sua indole equilibrata, poiché abitava nella casa di Simone, in quella casa, che ebbe l’alto onore di offrire ospitalità al Signore stesso durante la sua attività pubblica in Galilea e che anzi Gli servì di prima chiesa e di primo pulpito. Può essere che Andrea, dopo una morte prematura del padre Giona (Giovanni), si fosse trasferito col fratello Pietro da Bethsaida, dov’erano nati tutti e due, a Cafarnao. Quivi visse nell’oscurità e anche, — perchè no? — nella vivacità della famiglia del fratello, con la sposa e i piccoli di lui e… la suocera. Che si debba a questa situazione familiare, se il popolo cristiano ha scelto l’apostolo Andrea a patrono dei matrimoni felici e del… buon tempo? – Andrea era pescatore come il fratello, il Vangelo anzi fa pensare che esercitassero il mestiere uniti, in modo che con i loro guadagni potevano far fronte alle spese per il mantenimento della famiglia; poiché l’arte era sì modesta, ma insieme anche redditizia; si sa infatti che i pesci abbondavano nel lago di Genezareth e il mercato del pesce era molto frequentato; era dunque assicurato un buon introito. E il Signore, merita che lo si noti, scelse per apostoli anzitutto dei pescatori; è vero, accogliendo nel collegio apostolico Giacomo Minore e suo fratello Taddeo,  accordò tanto onore anche all’agricoltura; accogliendovi poi Paolo, onorò la scienza e con Matteo — per tacere di Giuda! — fece onore pure agli affari e al commercio; tuttavia non sarebbe difficile provare che fra i dodici Apostoli almeno sei erano pescatori; il Signore anzi delineò l’ufficio apostolico proprio come una « pesca d’uomini ». Abbiamo qui un simbolo profondo! Soltanto colui che conosce il tempo e le correnti, colui che il sole non accieca e la tempesta non spaventa, colui che sa stare attento, colui soprattutto che sa portare pazienza, come un pescatore, solo costui è idoneo all’apostolato. Quando dunque Andrea col fratello suo Simone gettava le reti nel lago azzurro e tranquillo e, dopo lunghe ore, le ritirava con grande gioia, se cariche, o con calma rassegnazione, se leggere, egli era già alla scuola preparatoria all’apostolato. Oh, se i due fratelli avessero potuto sospettare che un giorno avrebbero dovuto consacrare la loro vita al santo « Ichthys » — Gesù Cristo! – Ma un simile pio presentimento non doveva essere tanto lontano dal loro spirito, perché dovevano sentirsi fortemente inclinati alla religione; il Vangelo infatti non ce li presenta soltanto intenti al lavoro sul lago, ma ce li fa incontrare anche al Giordano, nel gruppo dei discepoli di Giovanni (Giov. 1, 35 Ss.). Il potente grido del Battista: « Il regno dei Cieli è vicino! » aveva tratto fuori dalla loro esistenza civilmente onesta anche i nostri due fratelli; ed essi, tutti protesi, stettero in ascolto dei passi di Colui, che doveva venire. E fu appunto ivi, presso il Battista, che Andrea visse la grande ora del suo incontro con Gesù…, perché noi non possiamo mai percorrere da soli tutta la via che mena a Lui, Egli ci viene incontro con la sua grazia… Non sarebbe possibile riferire quell’incontro in un modo più attraente di quello dell’evangelista Giovanni, che in quell’ora era compagno di Andrea, ma tace modestamente il proprio nome. Giovanni Battista « vide Gesù venire a sé e disse: “Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo!”. I due discepoli lo sentirono dir così e seguirono Gesù. Gesù si voltò e, quando vide ch’essi Lo seguivano, chiese loro:  “Che cosa cercate?”. Essi Gli risposero: “Rabbi — che vuol dire: Maestro —, dove abiti?”. Egli rispose: “Venite e vedete!”. Essi andarono e videro dov’Egli abitava, e rimasero quel giorno con Lui. Era l’ora decima — pomeriggio inoltrato —. Uno dei due, che L’avevano seguito alla parola di Giovanni, era Andrea, il fratello di Simone Pietro ». Andrea insieme con Giovanni è il primo fra tutti, che seguì Gesù; per questo antichi manoscritti gli concedono il titolo onorifico del « primo chiamato ». Il suo nome risplende come un vessillo in testa ai miliardi di uomini, che nei secoli seguiranno Cristo; possa adempiersi il detto: « Nomen est omen — il nome annunzia l’avvenire »! Andrea! Chiunque corre il rischio di seguire Cristo dev’essere «andreîos — virile ». Andrea fu anche il primo, che reclutò uomini a Cristo. Il Vangelo sopra riferito continua la sua narrazione: « Andrea incontrò dapprima suo fratello Simone e gli disse: “Abbiamo trovato il Messia — che significa l’Unto —”. E lo condusse a Gesù ». In un’ora decisiva della vita pubblica del Signore, Simone Pietro professerà dinanzi a Lui: « Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente » (Matth. XVI, 16), e questa sua professione, emessa quando l’insegnamento di Gesù era al suo apice, è senza dubbio più matura e più profonda che il grido giulivo di Andrea, risuonato al primo presentarsi in pubblico del Maestro; ma nessuno potrà togliere ad Andrea il merito d’aver seminato nell’anima di suo fratello Pietro, quale germe di fede, la parola del Messia Gesù e d’aver dato Gesù a Pietro e Pietro a Gesù; questa fu la pesca più ardita e l’azione apostolica più sublime di tutta la sua vita. Non ci potrà or sorprendere se un uomo così bene disposto sarà chiamato a condividere in pieno la vita di Gesù. Dal primo incontro con Lui presso il Giordano erano passati parecchi mesi, quasi un anno, e Andrea era ritornato al lago, alla barca e alla rete; i suoi pensieri però non erano più, come per l’addietro, tutti fissi al mestiere; ritornavano insistentemente a Colui, del quale nell’intimo del suo cuore sperava il ritorno. E il Sublime venne, e questa volta lo chiamò non per un giro o una predica o un miracolo semplicemente, ma per sempre. Questa chiamata a seguire stabilmente Gesù è riferita da Luca subito dopo la pesca miracolosa (Lc. V, 1-11): anche Andrea dovette fissare con occhi sbalorditi il miracolo vivente della rete; perché, dopo che « per tutta la notte non avevano preso nulla », sull’« ordine del Signore » presero una così grande quantità di pesci, che « le loro reti minacciavano di rompersi »; presso il Giordano l’aveva affascinato la personalità di Gesù, sul lago di Genezareth lo costrinse a inginocchiarsi la sua potenza; anche Andrea forse ripeté timidamente, balbettando, la confusa preghiera di suo fratello: «allontanati da me, perché sono un uomo peccatore! ». Ma Gesù non era venuto per spingerli, bensì per chiamarli a Sè; « Egli disse loro: “SeguiteMi! Vi farò pescatori d’uomini”. Essi condussero a terra le barche, abbandonarono tutto e Lo seguirono »!. Le barchette se ne stettero solitarie sulla riva del lago tranquillo; e il lago stesso sembrò tener dietro, con i suoi occhi azzurri, interrogativi pescatori, e mesti ai buoni che si allontanavano da esso per sempre, verso un mare, ch’era più vasto, più profondo, più tempestoso di quello di Galilea, ch’era addirittura immenso. Chi fa così è veramente «andreios », un uomo, un grande, un primo. – Il posto eminente di Andrea è evidente anche nei quattro cataloghi degli Apostoli, contenuti nella Sacra Scrittura, perché il suo nome è costantemente ricordato nella prima delle tre serie, insieme con i confidenti di Gesù; gli evangelisti Matteo e Luca lo mettono persino al secondo posto, immediatamente dopo Simone Pietro, di cui è detto fratello con enfasi (Matth. X, 12). Anche nel Canone della Santa Messa il suo nome viene subito dopo quello dei due Principi degli Apostoli Pietro e Paolo; il Pontefice Gregorio Magno lo accolse pure nel così detto « Embolismus » — preghiera interpolata —, che segue il « Pater Noster », e ci fa ricorrere all’Apostolo per supplicarlo, unitamente a Maria, a Pietro e a Paolo, d’una speciale impetrazione. Un posto tutto suo Andrea lo occupa pure nella venerazione del popolo fedele; se ne ha la prova negli usi svariati del giorno della sua festa il 30 novembre. Andrea è un primo; sotto certi aspetti anzi è il primo fra tutti i dodici Apostoli.

ANDREA IL NASCOSTO

Non può quindi non sorprendere che questo Apostolo  passi tanto sotto silenzio nel Vangelo e ancor più negli Atti degli Apostoli:  non si riferisce di lui nessun gesto, non si ricorda nessuna lettera, che sia stata ricevuta da lui. Oltre la notizia della sua vocazione, il Vangelo non ha di lui che tre soli accenni assai brevi. Il primo s’incontra nella moltiplicazione miracolosa del pane (Giov. VI, 1 ss.): di fronte alle folle affamate gli Apostoli sono perplessi; Filippo osserva timidamente: « Pane per duecento denari — oltre 150.000 lire secondo l’odierna quotazione del denaro — non basta per costoro, anche se ciascuno non dovesse riceverne che un pezzetto »; Andrea, obbediente e inosservato, s’informa delle provviste a disposizione e poi comunica il meschino risultato: « V’è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci »; quindi, quasi scusandosi di non portare migliore notizia, soggiunge: « Ma che è mai questo per così tanti? »; poi rientra modestamente fra le fila. –  L’evangelista Giovanni, che dovette guardare all’amico della sua giovinezza sempre con particolare affetto, come si può dedurre dalla vicenda primaverile dei due sulle rive del Giordano, riferisce una seconda singolare apparizione di Andrea. Prima dell’ultima festa di Pasqua, « alcuni greci », che erano certo dei « proseliti », ossia dei pagani convertiti alla pura fede nel Dio dei Giudei, stavano in Gerusalemme e si rivolsero all’apostolo Filippo con la richiesta: « Signore, vorremmo vedere Gesù ». Filippo, alquanto formalista, non volle prendersi da solo tutta la responsabilità della cosa, perché sapeva della riservatezza di Gesù nei riguardi dei gentili; portò dunque la richiesta non a Pietro e non a Giovanni, ma al suo compatriota Andrea, ch’era d’animo cortese e risoluto insieme. E in questa umile circostanza Andrea mostrò il suo carattere: non si disinteressò del servizio e neppure si diede aria d’importanza: « Andrea e Filippo andarono e lo dissero a Gesù ». L’Evangelista non ci riferisce se Gesù abbia esaudita quella preghiera, nota però una profonda parola, detta dal Signore in quell’occasione e proprio di fronte ad Andrea: « Se il grano di frumento non cade a terra e muore, rimane solo; ma se muore, porta molto frutto ». Solo pochi giorni dopo, Andrea è ricordato dal Vangelo di sfuggita una terza volta: il Signore aveva profetizzato la distruzione di Gerusalemme, che per un giudeo era tale avvenimento da sconvolgergli tutta l’anima: « quando poi si fu messo a sedere sul Monte degli Olivi di fronte al Tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea, rimasti soli, Lo interrogarono: “Di a noi, quando avverrà questo, e qual è il segno che questo s’adempirà?” » (Mc. XIII, 3, segg.). Se si prescinda da questi tre testi, Andrea rimane sempre nascosto nello sfondo del Vangelo, e questo deve sorprendere specialmente se pensiamo agli Apostoli in prima linea: quanto spesso si parla di Pietro e con quale importanza! Con quanta disinvoltura si fanno innanzi i figli di Zebedeo: « Fa’ che nella tua gloria uno di noi sieda alla tua destra e l’altro alla tua sinistra »!; richiesta talmente presuntuosa, che sarebbe inconcepibile in Andrea. Ci colpisce ancor più che il Signore stesso abbia lasciato il nostro Apostolo nell’oscurità: chiamò a presiedere e a precedere non lui, ma suo fratello Simone, sebbene questi dovesse ad Andrea la sua conoscenza di Gesù; non sarebbe stato capace anche Andrea di tenere le chiavi del regno dei Cieli? o non sarebbe stato anche più idoneo del suo tempestoso fratello, almeno umanamente parlando? Nell’ultima Cena Gesù permise che riposasse sul suo cuore Giovanni, non Andrea; amava questi il Signore meno di Giovanni? Non aveva vissuto anche lui con Giovanni l’ebbrezza della « decima ora »? Non appartenne neppure al gruppo dei tre intimi, che il Signore mise a parte nelle ore supreme della sua vita: alla risurrezione della figlioletta di Giairo lui dovette attendere fuori della camera, insieme con gli altri otto Apostoli; con questi fu pure lasciato a valle, quando il Signore con Pietro, Giacomo e Giovanni, suo fratello, s’incamminò verso la cima del Tabor per la trasfigurazione; nemmeno fu ammesso alla rivelazione più profonda dell’umanità di Gesù sul Monte degli Olivi, sebbene quivi forse si sarebbe tenuto più desto che i tre primi, i quali s’addormentarono! La posizione un po’ staccata di Andrea nel Collegio apostolico appare anche dai cataloghi degli Apostoli. Marco nel Vangelo e, ciò che sorprende ancor di più, Luca pure negli Atti non hanno più Andrea al secondo posto, ma senz’altro al quarto; gli son passati innanzi i figli di Zebedeo e l’hanno cacciato, per così dire, ai margini del primo gruppo. Può essere che Pietro stesso abbia vietato a Marco di scrivere tante cose, che tornavano a lode della sua famiglia; Luca poi avrà voluto farci intendere il posto di prima importanza, ch’ebbe Giovanni nella Chiesa primitiva, dinanzi al quale dunque Andrea dovette retrocedere. Dai testi addotti più sopra appare che il Vangelo ricorda per due volte Andrea insieme con Filippo; ora nei Cataloghi degli Apostoli Filippo è sempre il quinto, in testa cioè al secondo gruppo: possiamo concluderne che Andrea, il quarto, quando non poteva accompagnarsi con i tre privilegiati, cercava volentieri di unirsi al suo compaesano Filippo. E così Andrea è certamente uno dei primi, ma l’ultimo dei primi; è grande, ma un grande nascosto e un nascosto grande. Ma si badi: questo non vuol dire che il Signore lo abbia stimato da meno dei primi tre; piuttosto, precisamente in questa apparente noncuranza era palese una grande fiducia: Andrea era stato chiamato per primo, era, per così dire, il primogenito di Gesù; fra Gesù e lui correva quella tacita intesa, che v’è fra un padre e il figlio suo maggiore; questi comprende il padre, anche se non è dovunque accanto a lui; si sa da lui stimato; anche se non riceve speciali incarichi; si sente amato anche senza manifeste preferenze; così dobbiamo pensare che fosse anche di Andrea nei suoi rapporti con Gesù. La lezione, che dobbiamo apprendere da questo grande nascosto, è quindi di tenerci piccoli anche se siamo grandi, e come gli ultimi anche se primi; poiché è più facile all’orgoglio umano essere primo in un posto umile, che secondo o quarto in un posto elevato; Andrea, il grande ultimo, è esempio della difficile umiltà dei grandi e realizza la parola del Signore: « Il più grande tra voi sia come il minimo e il superiore come il servo » 2°(S. Luc. XXII, 26). Benedetta quella comunità, che ha più grandi uomini che uffici elevati! Giacché è molto meglio che un uomo grande onori un piccolo ufficio, che non un alto ufficio debba onorare un uomo piccolo.

ANDREA IL FORTE

La Sacra Scrittura non fa nessun accenno all’attività apostolica di Andrea; nemmeno gli Atti degli Apostoli, che pur riferiscono la seduta vivace del Concilio apostolico; ricordano ancora una volta il suo nome, e poi il più alto silenzio; non vi può essere però nessun dubbio circa l’intenso suo lavoro apostolico, anche se non conseguì speciali onori; era stato il primo fra i Dodici a scendere in campo, quando aveva condotto al Signore il fratello Simone e più tardi, facendosi intermediario a favore dei gentili, ancor prima del loro tempo; quale non sarà stato il suo zelo quando venne a trovarsi nella messe! Nel giorno della sua festa il Breviario lo esalta così: « Andrea con la sua predicazione e con i suoi miracoli convertì a Cristo innumerevoli uomini », e in una lezione applica all’Apostolo l’eloquente tratto della lettera ai Romani: « Chiunque invoca il Nome del Signore sarà salvato. Ma come invocheranno — giudei e pagani — Colui, nel quale non credono? Ma come crederanno in Colui, del quale non hanno nulla udito? Come udranno senza predicatore… Ma chiedo: “Non hanno forse udito?”. Oh, certamente! In tutto il mondo si spinse il loro suono, sino ai confini della terra le loro parole » (Rom. X, , 13-18). Gli « Atti di Andrea e Matteo » apocrifi, scritti nell’ultima metà del secondo secolo, indicano come campo missionario di Andrea « la città dei cannibali », detta pure « città dei cani ». Essi ebbero la loro continuazione, versione ed elaborazione negli « Atti di Pietro e Andrea », negli « Atti di Andrea e Bartolomeo » e negli « Atti di Paolo e Andrea »; ma sono tutti scritti favolosi, che non meritano d’essere citati; l’unica notizia degna di fede è che Andrea, insieme con un altro Apostolo, che per buoni motivi si può concludere essere stato Simone Pietro, annunziò il lieto messaggio in una regione di barbari. Eusebio, il padre della storia ecclesiastica (270-339), assegna ad Andrea quale campo d’apostolato la selvaggia Scizia, quelle regioni cioè che oggi costituiscono quasi la Russia meridionale; questa notizia però non è troppo sicura, perché finora non consta di nessuna traccia di Cristianesimo nella Scizia durante i tre primi secoli; in quelle regioni inoltre non v’erano forse colonie giudaiche, che Andrea potesse evangelizzare, e d’altra parte la popolazione indigena, selvaggia com’era — « città degli antropofagi! » —, doveva essere ancor troppo refrattaria al Vangelo. È più credibile invece che Andrea, come sappiamo da informazioni antiche e abbastanza concordi, abbia faticato nelle terre limitrofe alla Scizia, nella Bitinia, nel Ponto e specialmente in Sinope, regione che si stende a sud e a est del Mar Nero, insieme al fratello Simone Pietro; questi di fatto indirizza la sua prima lettera « ai pellegrini nella diaspora del Ponto, della Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia ». In biografie più tardive e anche più leggendarie vengono ricordate, come campo apostolico di Andrea, le terre di Lidda, del Kurdistan e dell’Armenia. È probabile che, in un tempo posteriore della sua attività, dalla Bitinia, sita a nord-est, attraverso la Tracia, la Macedonia e la Grecia, si sia spinto fin giù nell’Acaia, nell’odierno Peloponneso: le vie apostoliche di Andrea si incrociano con quelle di Paolo; perché, non dimentichiamolo, anche se Paolo ha lavorato più degli altri, non ha lavorato però lui soltanto; è vero che non era nel suo metodo metter la falce nel campo altrui, ma può essere che nel suo campo si siano dischiusi parecchi germi sparsi dalla mano di altri; e poi per ogni Apostolo s’adempie in qualche proporzione la parola del Signore: « Uno semina, l’altro raccoglie. Altri si sono affaticati e voi siete entrati nelle loro fatiche » (S. Giov. IV, 37). In Grecia, e precisamente a Patrasso, l’operosità apostolica di Andrea ebbe anche, secondo sicure informazioni, il suo coronamento sanguinoso. Una « lettera » circolare dei preti e diaconi dell’Acaia intorno al martirio di Sant’Andrea» racconta con tinte vivaci e devozione la morte del santo Apostolo. Questa « circolare », di cui si vale la Chiesa per le lezioni del Breviario nella festa di Sant’Andrea, non si deve scambiare con gli Atti apocrifi di Andrea sopra ricordati; veramente risale solo alla fine del quarto secolo, ma nelle sue linee principali attinge a una storia sicura della vita e della passione dell’Apostolo più antica. Secondo questa circolare, dopo ch’egli, in qualità di vescovo di Patrasso, detta allora « Patræ », ebbe annunziato il Vangelo in Acaia, dal governatore (Helladarchen) Ægeates o anche Ægeas fu condannato alla morte sulla croce, che, secondo una diffusa opinione, era croce obliqua; ma, perché il tormento durasse più a lungo, non fu fermato alla croce con chiodi, bensì con le corde, sicché Andrea, benché fosse stato prima flagellato, visse sulla croce ancora due giorni. La sentenza fu eseguita nonostante il popolo avesse insistito perché si accordasse indulgenza; migliaia erano accorsi sul luogo della esecuzione, chiedendo la liberazione da quel tormento; persino il fratello del governatore, Stratokles, s’era interposto a favore dell’Apostolo, ma inutilmente. Dopo la morte, ne seppellì la salma una samaritana. Nell’anno 365 le reliquie furono trasportate nell’imperiale Bisanzio, il capo però nel 1452 fu portato a Roma; così i due fratelli Simone Pietro e Andrea, che come pescatori tante notti avevano sonnecchiato nella barca l’uno accanto all’altro sul lago di Galilea, riposano nuovamente l’uno vicino all’altro, assopiti e però così vigili pescatori d’uomini. Oh, come è larga e mirabile la via dei pescatori, che si sono consacrati al santo « Ichthys »! Non conosciamo l’anno della morte di Andrea; solo gli apocrifi ci trasmettono, abbastanza concordi, la curiosa notizia che egli era già morto quando rimpatriò Maria santissima. La sua festa è celebrata fin da epoca remota il 30 novembre. La lettera circolare del clero di Acaia sopra ricordata ha una descrizione commovente della morte del nobile Apostolo: « Quando Andrea fu condotto al luogo del martirio, alla vista della croce gridò a lungo e ad alta voce: “O buona croce! Tu hai ricevuto il tuo ornamento dalle membra del Signore. O croce per tanto tempo bramata, ardentemente amata, incessantemente ricercata ed ora all’anima bramosa preparata! Toglimi agli uomini e dammi al Maestro mio! Per te m’accolga Colui, che per te m’ha redento!” ». Un giorno, nella primavera della sua vita, il Battista gli aveva gridato sulle rive del Giordano: « Ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo! »; e il Signore stesso, pochi giorni soltanto prima della sua morte violenta, aveva risposto a una richiesta di Andrea con la metafora del « grano di frumento », che deve morire per portare frutto ». Ci è lecito pensare che il sacrificio del Signore fosse impresso nell’anima di Andrea più profondamente che non negli altri Apostoli, di più che non in suo fratello Simone, che un dì s’era interposto con una energica protesta contro la croce; Andrea invece saluta la croce col grido di festa: « Salve crux! »: un grido e un saluto eroico; solo a pochi riesce di emetterlo; è già molto se lo si balbetta; però ogni sì detto alla croce, per quanto lo si dica sommessamente, è un atto sublimissimo; chi alla sua croce dice « Salve », è anche « Andrea », è un uomo virile! – La croce, sulla quale morì Andrea, era forse obliqua e per questo una croce di questa forma è chiamata « croce di Sant’Andrea »; essa ha la forma d’un «X »; ora l’«X » è anche la lettera iniziale del nome greco di Cristo. Qui dunque v’è un’ultima cosetta da notare: chi è confitto all’« X », a questa grandezza doppiamente sconosciuta, chi è confitto alla croce, costui è pure confitto a Cristo, e chi vuol essere confitto a Cristo, costui deve anche essere confitto alla croce; il Signore stesso lo esige: « Chi vuol essere mio discepolo, prenda ogni giorno su di sè la sua croce! » (S. Matth. XVI, 24). «X» = «X»; croce = Cristo; Cristo = croce! La croce ha il compito di condurci alla più intima somiglianza col Signore, a « darci al Maestro », proprio come pregava Andrea dinanzi alla sua; un altro Apostolo, Paolo, esprime lo stesso mistero con le profonde parole: « Sono crocifisso con Cristo. Non son più io che vivo, ma Cristo vive in me»? (Gal. II, 19 segg.). E per questo, soprattutto per questo, anzi unicamente per questo esclamiamo: « Salve, crux — ti saluto, o croce! ».

NOVENA PER L’IMMACOLATA CONCEZIONE

NOVENA PER L’IMMACOLATA CONCEZIONE

(Inizio 29 Nov. Festa 8 dicembre).

(G. Riva: Manuale di Filotea, XXX Ediz. – Milano 1888)

Che la Concezione di Maria SS. sia stata esente da ogni macchia di peccato, fu in tutti i secoli ritenuto come verità incontestabile insegnata dagli Apostoli. In Oriente la relativa Festa è di data antichissima; ma in Occidente non ebbe luogo prima del VII secolo. Primi a celebrarla furono Gondisalvo vesc. di Tolosa al principio del 600; poi S. Idelfonso vesc. Di Toledo, Federico patriarca di Aquileja circa l’890, l’inglese abb. Elpino e il Cantorberiense S. Anselmo nel 1109, il Clero di Lione nel 1141, tutto l’Ordine Francescano nel 1163, quindi tutte le accademie d’Europa. Il sempre crescente impegno dei fedeli d’ogni ordine per tal festa determinò i Papi ad aggiungervi il suggello di loro infallibile approvazione. Di qui è che Sisto IV nel 1483 la collaudò con tre Bolle, confermate poco dopo da Alessandro VI. Giulio Il approvò gli ordini religiosi intitolati all’Immacolata; Clemente VII ne stese l’apposito Ufficio; Pio V le appropriate lezioni; Clemente VIII ne elevó la festa a Rito Maggiore, Alessandro VII vi aggiunse l’Ottava, Innocenzo VII nel 1693 la rese obbligatoria per tutto il mondo; Clemente XI nel 1708 la dichiarò festa di precetto; Benedetto XIV la volle festa di Cappella Papale: Gregorio XVI permise di aggiungere il titolo immacolata a quello di Concezione nel Prefazio, e Regina sine labe originali concepta nelle Litanie. Pio IX poi, l’8 dic.1854 compi l’opera e i voti di tutti col farne un articolo di fede indispensabile a credersi per salvarsi, a cui nel 25 sett. 1863 aggiunse la distinzione di apposita Messa ed Ufficio di affatto nuova composizione.

NOVENA

I. Vergine amabilissima, che sino ab eterno foste l’oggetto de’ divini amori, ottenete anche a noi tutti di farvi sempre caro oggetto di nostra divozione. Ave.

II. Vergine ammirabile, la cui concezione fu speciale favor di Dio, e frutto di grandi orazioni, limosine e mortificazioni dei Patriarchi, dei Profeti e di tutti i giusti, impetrate anche a noi tutti di sempre disporci con tali mezzi a partecipare dei divini favori. Ave.

III. Vergine privilegiata, che foste concepita da sterili genitori divenuti prodigiosamente fecondi, ottenete anche alle sterili anime nostre di divenir feconde di santi affetti e di virtuose operazioni. Ave.

IV. Vergine immacolata, che unica fra tutte le creature, foste preservata e dal peccato originale e da ogni altra ancor più lieve colpa, ottenete a noi pure di preservarci da qui in avanti da ogni macchia di peccato. Ave.

V. Vergine felicissima, che foste preservata anche dal fomite della colpa, ottenete a noi pure di frenare per modo codesto fomite, che non ci faccia mai schiavi della legge del peccato. Ave.

VI. Vergine singolarissima, che nel vostro concepimento foste confermata nella divina carità, ottenete anche a noi tali e tanti ajuti di grazia, da conservarci sempre cari e fedeli al Signore. Ave.

VII. Vergine santissima, che nella vostra Immacolata Concezione foste riempita d’ogni pienezza di grazia, impetrate a noi pure tutte le grazie necessarie a santificarci e a salvarci. Ave.

VIII. Vergine beatissima, che sino dal primo istante di vostra vita, foste arricchita di tutte le più belle virtù, a noi ancora ottenete la più viva fede, la più ferma speranza, la più accesa carità, e tutte le altre virtù proprie di un’anima cristiana. Ave.

IX. O Vergine benedetta, che annunciaste col vostro concepimento il prossimo spuntare del divin Sole, siate, vi prego, la fiaccola della mia mente, la gioja del mio cuore, la mia difesa nei pericoli, il mio sostegno nelle tentazioni il mio sollievo nelle cadute, e fate che in me fioriscano quelle virtù che resero Voi sì ammirabile qui sulla terra, e sì gloriosa nel Cielo. Ave, Gloria.

OREMUS.

Deus qui per Immaculatam Virginis Conceptionem, dignum Filio tuo habitaculum præparasti, quæsumus; ut qui, ex morte ejusdem Filii tui prævisa, eam ab omni labe præservasti, nos quoque mundos, ejus intercessione ad te pervenire concedas. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (12)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (12)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO IV

LA VITA DELL’UOMO IN SE STESSO

2. – Suoi caratteri.

Se tale è l’ideale dell’uomo perfetto, come Cristo nostro Signore ce lo ha rivelato e come, in ispirito almeno, il Cristianesimo lo ha sempre accettato, sarà utile per noi cercar di vedere in che modo esso si rifletta sulla vita pratica e in che modo la determini, studiare insomma più da vicino i suoi lineamenti essenziali. San Tommaso d’Aquino ce li riassume in una sola frase: “La perfezione della vita cristiana consiste intrinsecamente ed essenzialmente nell’amore; in primo luogo amore verso Dio, in secondo luogo amore per il prossimo.” In questa frase e in altre simili che spesso ricorrono nell’opera dell’Angelico Dottore, egli dichiara, come fatto evidente così da non richiedere delucidazioni, che la perfezione cristiana è interamente fondata sulla carità, che, all’infuori di essa, nulla può formare l’uomo perfetto, non tutti i doni della natura, non l’educazione delle scuole, né le virtù, né i successi del mondo, mentre avendo la carità in un grado di perfezione ogni altra cosa viene di conseguenza, E per carità, come spiega qui e altrove, S. Tomaso intende innanzitutto l’amor di Dio. Dio è per lui la grande realtà, l’Essere che in sé contiene tutto ciò che è degno di amore, che l’amor suo ci ha dimostrato in mille modi meravigliosi e che merita quindi d’esser riamato con tutta l’anima. Ricambiare dunque Iddio con amore, non foss’altro per gratitudine, apprezzare sempre più tutto ciò ch’Egli ha fatto e ch’Egli è, amarlo di conseguenza ogni giorno più, ed essere finalmente consumati da quell’amore in modo che nessun’altra cosa possa intromettersi fra l’uomo e Dio, è questo, secondo S. Tomaso e secondo tutti i Santi che hanno reso gloriosa la storia del mondo, il fondamento primo della perfezione umana. Ma in secondo luogo e senza prescindere dall’amor di Dio, egli mette l’amore dell’uomo per i suoi simili; non può separare i due affetti: l’uno è il completamento dell’altro. All’amor di Dio deve seguire l’amore pel prossimo non solo come un frutto dell’albero, ma come sua diretta, anzi più diretta manifestazione. San Giovanni esprime efficacemente lo stesso pensiero: “Noi dunque amiamo Dio poiché Egli per il primo ci ha amati. Ma se uno dirà: “Io amo Dio” e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede? E questo comandamento abbiamo da Dio: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello.” (I Giov. IV, 19, 21). – E San Paolo così riassume il suo insegnamento: “Fatevi dunque imitatori di Dio come figli bene amati, e vivete amandovi, come anche Cristo amò voi e diede se stesso per noi, oblazione e sacrificio a Dio, profumo di soave odore.” (Efes. V, 1.2). – Quando parliamo di amore riguardo a Dio e, come dice il comandamento, “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”, e quando parliamo dell’amore pel prossimo “come te stesso”, la parola amore è evidentemente usata in un senso che trascende quello del linguaggio ordinario. Ciò spiega perché S. Paolo preferisse a quella la parola “carità”; ai suoi tempi, come ai nostri, il termine corrente era stato così diminuito, avvilito e profanato che non esprimeva più la gemma pura e splendida di cui egli intendeva parlare. Eppure la sua. “carità” non voleva in nessun modo distruggere l’amore naturale, ché anzi la carità di Cristo perfeziona l’amore dell’uomo, lo innalza ad una sfera superiore, lo stimola con motivi ancor più nobili, gli insegna migliori metodi di espressione e gli offre più vasti campi d’azione. Difende l’amore umano, essenzialmente buono e vero in sé, da tutti quei pericoli che sempre minacciano ciò che è semplicemente naturale, mette in moto tesori d’amore che per semplici motivi naturali non si sarebbero mai neppur rivelati. Poiché il Dio che amiamo non è una divinità astratta, separata e lontana da noi; non è solamente il Dio che la ragione può scoprire, supremo, indipendente, padrone di tutto. È il Dio della SS. Trinità che la Rivelazione ci fa conoscere; e la SS. Trinità è l’espressione dell’amore essenziale di Dio, della sua essenziale vita d’amore. È il Dio che si chiama Padre in tutto il significato del termine, poiché Egli è davvero per noi quale vuole che noi lo pensiamo. È il Dio che chiamiamo Gesù Cristo, Verbo Incarnato, la testimonianza dell’amore del Padre, la testimonianza dell’amore umano divinizzato. È il Dio che chiamiamo Spirito Santo, l’amore personificato. Noi quindi amiamo Dio non solo per ciò che la ragione c’insegna, che pur sarebbe motivo sufficiente di affetto, di gratitudine e di generosità, lo amiamo infinitamente di più perché sappiamo per fede essere Egli infinitamente amabile e amoroso, esigente e condiscendente insieme, fino ad abbassarsi sino a noi senz’altro chiederci che un contraccambio d’amore. E lo amiamo con qualche cosa di più del nostro povero, piccolo amore umano, lo amiamo con un amore perfezionato, divinizzato, fatto degno di Lui perché unito all’amore stesso di Cristo. È un amore che passa attraverso il suo Cuore ed è corroborato dalla grazia ch’Egli stesso ci dà perché possiamo amare sempre più e sempre meglio. Questo amore per Iddio non è un fatto sentimentale, non è un semplice esercizio di sensibilità e di emozioni, non è una sottile compiacenza di sé. Basta considerare la vita di coloro che ne sono stati maggiormente infiammati, che si sono letteralmente innamorati di Dio, per capire la forza, l’ardore divorante di quella passione. Vero è che, finché vive quaggiù, l’uomo rimane sempre uomo, con un corpo oltre che con un’anima. Di conseguenza anche i suoi affetti più nobili e più generosi di rado andranno esenti da qualche emozione; perfino il Santo che ha dato tutto se stesso senza nulla chiedere in cambio, sospirerà qualche volta di poter sentire che il suo diletto gradisce e ricambia tanto amore. Tuttavia, l’emozione o amore sensibile, se così possiamo chiamarlo, in nessun campo è garanzia sicura di vero amore, e tanto meno sarà condizione, sintomo o prova dell’amore dell’uomo per Iddio. L’emozione non è affatto richiesta dall’essenza dell’amore. Piuttosto, l’amore, in ogni suo grado, è dedizione, e ne sarà quindi miglior garanzia la volontà di dare, la gioia del dare, nell’unica considerazione di Colui al quale si dà. E così è dell’amore per Iddio; a Lui l’amore dà tutto con entusiasmo e, se occorre, anche tutto se stesso, per Lui e per la sua maggior gloria, preferendo il suo beneplacito al proprio e a quello di ogni altra creatura. È questo, nella sua origine, nel suo oggetto, nella sua manifestazione, l’amore del Cattolico per il Dio che gli si è così meravigliosamente manifestato; e lo stesso sarebbe da dirsi, nelle debite proporzioni, del suo amore per il prossimo. Per noi, come già abbiamo avuto frequenti occasioni di osservare, il prossimo è assai più di un nostro simile. Chiunque esso sia, è immagine di Dio, fatto a sua somiglianza, un riflesso delle sue perfezioni divine, e capace di rifletterle sempre meglio. È la dimora di Dio, o, se non altro, un’anima in cui Dio desidera dimorare; in Dio e con Dio in sé, è anch’egli capace di ogni perfezionamento di bellezza e di amore. Amare e servire questo prossimo è amare Cristo stesso, è rendere servizio a Colui che merita ogni servigio. Per questa ragione sopra ogni altra, per amore di Dio più che per amore dell’uomo in sé, o piuttosto perché l’amor di Dio ha assorbito, trasformato e soprannaturalizzato l’amore pel prossimo, i Cattolici si amano come fratelli. E vedendo in ciascun fratello un essere prezioso riscattato da Dio col sangue del proprio Unigenito Cristo Gesù, essi hanno per Lui quella tenerezza viva che desidera all’amato tutto il più ed il meglio, non solo la prosperità e la felicità sulla terra, ma anche il bene soprannaturale, la perfezione della vita, la beatitudine eterna. Così l’amore per l’uomo è un vero riflesso dell’amore per Iddio. Non sono due amori distinti, due virtù di carità, una per Iddio e una pel prossimo; non vi è che una sola carità che entrambi li abbraccia, Dio per amor suo, e il prossimo, anzi tutto il creato nella debita scala, per se stesso in quanto è visto con gli occhi di Dio. Ma se la perfezione dell’uomo si basa essenzialmente sull’amore di Dio e del prossimo, ne deriva di necessità che la via della perfezione deve seguire la direttiva di questo amore. L’anima che vuole esser perfetta deve molto amare, intensamente e generosamente, deve lasciarsi guidare dall’amore, ma da un amore puro, sincero, disinteressato, altruista. Un amore che ricerchi se stesso non è più amore; il vero amore si misura dal suo contrario. Né l’amore vero potrà esaurirsi o appagarsi con un semplice atto di carità, sia pur compiuto, in parola o in azione, col massimo fervore. « E se anche distribuissi tutto il mio ai poveri e dessi il mio corpo per essere arso, è non avessi la carità, a nulla mi gioverebbe » (I Cor. XIII, 3). – L’amore va oltre gli atti; questi non sono che germogli dell’amore, segni della sua esistenza, e null’altro. Poiché l’amore è veramente vita e mezzo di vita, permea tutto ciò che siamo e tutto ciò che facciamo; è una maniera di pensare, di sentire, di volere. Quando amiamo, immediatamente l’oggetto amato assume per noi nuovi colori, diventa più reale, più bello, più amabile, più degno di esser servito con tutto ciò che abbiamo e che siamo. Quando amiamo, non viviamo più noi, ma in noi vive l’essere amato. Ogni nostro atto diventa un adempimento della sua volontà, non della nostra; viviamo per piacere a lui, non più a noi stessi, e ad ogni istante esprimiamo il nostro amore per colui che a tutto e a tutti preferiamo. E così avviene che ogni cosa che facciamo, la nostra vita con tutte le sue minime azioni, può esser trasformata in un continuo atto d’amor di Dio, contribuendo alla formazione dell’uomo perfetto; e il progresso sarà tanto più reale quanto più l’amore sarà intenso, dimentico di sé, generoso, energico e costante. Ciò che vale agli occhi di Colui che amiamo non è l’offerta dell’atto in se stesso. Che cosa potrebbe per sé valere qualunque atto di noi meschine creature dinanzi a Dio onnipotente? Ma quello che conta è la volontà con cui l’atto si compie e si offre, è lo sforzo d’amore ch’esso rivela, indipendentemente dalla propria consolazione o soddisfazione o speranza di premio. – E identico è il carattere del vero amore per il prossimo, poiché, essendo esso una cosa sola con l’amore di Dio, dimostrarlo in qualunque modo efficace a un fratello qualsiasi è dimostrarlo a Dio stesso. “Quante volte avete fatto qualche cosa a uno di questi minimi dei miei fratelli l’avete fatto a me”. In verità, come appare evidente dalla vita dei grandi Santi, spesso l’amore di Dio più e meglio si manifesta nell’amore per il prossimo; l’amor di Dio, quand’è genuino e generoso, facilmente e necessariamente si effonde sul prossimo. Chi ama Dio, riconoscendo nei fratelli un riflesso di Lui, anzi lo stesso Gesù Cristo, si prodiga nel servirli, si dà a loro con quello slancio e con quella instancabile generosità con cui servirebbe l’adorabile suo Signore. Poco importa alla Piccola Suora dei Poveri che il vecchio ch’essa cura e serve sia per lei un perfetto estraneo e forse ingrato e malato e ripugnante. Egli è amato da Cristo, porta in sé, anche se nascosta e velata, la sua divina rassomiglianza; servir lui è servir Cristo, e la Piccola Suora è completamente paga. Né importa al missionario che il suo messaggio sia respinto dai sapienti e dai prudenti, ch’egli debba annunciare la buona novella solo agli umili, ai diseredati, ai rifiuti dell’umanità. In essi, non meno che in altri, è l’immagine di Gesù Cristo; anch’essi son capaci di amor di Dio quanto gli uomini più raffinati; in essi il servo vede il suo Padrone e ciò gli basta. Tale amore costituisce l’uomo perfetto secondo la concezione cattolica e anche secondo i criteri umani di questa vita. – Ma la vita umana quaggiù non è uno stato perfetto in sé. Abbiamo già osservato che, anche redento, l’uomo conserva le proprie tendenze al male; c’è una legge nelle sue membra, come dice l’Apostolo, che continuamente lo spinge a compiere il male che non vorrebbe. In parole diverse, c’è nell’uomo un altro amore in contrasto con quello di cui abbiamo or ora parlato. In cielo saremo liberi e sciolti da qualunque impedimento, ameremo come siamo amati, senza pericoli e senza timori. Ma qui sulla terra, come è provato dalla nostra esperienza quotidiana, è tutt’altra cosa. Nel nostro stato attuale di natura decaduta, non è possibile amare di un amore sincero e fattivo senza sacrificio, senza cioè la soppressione di un amore inferiore che s’intromette e accampa i suoi diritti. E ciò è tanto più vero nei riguardi dell’amor di Dio. Essendo umani, e con aspirazioni e inclinazioni umane verso le cose di quaggiù, non possiamo amar Dio completamente senza lotta, senza qualche genere di rinuncia. La natura inferiore dev’essere soggiogata, l’amore illecito dev’essere bandito; dal primo albeggiare della ragione fino al nostro ultimo respiro, sempre ci troveremo nell’occasione di lottare. È vero che non sarà lotta continua, si daranno per tutti momenti di tregua, si verran formando delle abitudini che potranno render la lotta facile e quasi connaturale. Tuttavia, l’uomo che vuol esser perfetto non potrà mai deporre le armi, dovrà sempre stare all’erta. È questa la ragione di quell’ascetismo che fa parte dell’insegnamento cristiano. Non è crudeltà, non è fanatismo, non è un andar contro natura; è il generoso perseguimento di un ideale che vuole combattere tutto quanto gli ostacola la via. È un riconoscimento della gloria dell’uomo e della grandezza della vita umana, ma è allo stesso tempo il prezzo che si deve pagare per conseguire quella grandezza e quella gloria.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (13)