NELLA SETTIMANA SANTA: MEDITAZIONE PER IL VENERDI’

MEDITAZIONE PER IL VENERDÌ.

Sopra la morte di N. S. G. C.

Mediteremo sopra la morte di N. S. Gesù Cristo e riconosceremo come per essa ha compiuto quella somma obbedienza al suo Divin Padre che la Chiesa ricorda tante volte nella liturgia di questi giorni, ripetendo nella sua ufficiatura le parole di S. Paolo: Christus factus est prò nobis obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philipp., II, 8): Cristo si è fatto per noi obbediente sino alla morte e morte di croce. C’immagineremo di vedere Gesù benedetto nel momento stesso che spira e prostrati a Lui davanti lo adoreremo piangendo.

PUNTO 1°.

Gesù con la sua morte ha obbedito totalmente.

Il peccato di Adamo fu peccato di superba disobbedienza e tali sono tutti i peccati degli uomini, che con essi negano superbamente di obbedire alla legge di Dio; è stato perciò stabilito da Dio che l’espiazione dei peccati si compiesse per mezzo dell’umile e totale obbedienza del Divin Verbo incarnato. Per obbedire al suo Padre Celeste Gesù discese dal cielo in terra e s’incarnò da Maria Vergine e nacque nella povera capanna di Betlemme; per obbedire al suo Divin Padre menò una vita di stenti e di travagli nella bottega di Nazaret; per obbedire al suo eterno Padre per tre anni andò intorno predicando per paesi e per città, assoggettandosi a fatiche, a privazioni, a umiliazioni d’ogni maniera. Infine, volendo il Padre suo che Egli per rendere più copiosa la redenzione morisse e non già di morte ordinaria, ma della morte più penosa e ignominiosa che mai vi fosse, della morte di croce, anche ad essa Gesù spinse la sua obbedienza. Quindi dopo essere passato per un’acerbissima Passione, dopo essersi lasciato crocifiggere, dopo aver agonizzato per tre ore sulla croce, giunto il momento di compiere la sua totale obbedienza e di mostrare la sua intera sottommissione al Divin Padre, chinò dolcemente il capo sopra il petto: et inclinato capite! (Jo., XIX, 30). Ecco l’estremo atto che lo dimostrava padrone della vita e della morte, e col quale impose alla vita di cessare in Lui e alla morte di appressarsi. Allora il cielo si fa più scuro, la terra trema, le rocce si spezzano, le tombe si aprono, le pallide ombre ne escono gemendo, il velo del tempio si squarcia in due parti, le sante donne svengono, la moltitudine tremante e pentita si picchia il petto, Giovanni scoppia in pianto, Maria rimane impietrita… E Gesù? Essendo divampata l’ultima fiamma d’amore per noi, impallidisce, chiude gli occhi versa ancor una lagrima, dà ancor un sospiro e muore: et inclinato capite tradidit spiritum! (Jo., XIX, 30).

PUNTO 2°.

Gesù con la sua morte ha obbedito generosamente.

Gesù, morendo in croce, non solo ha compiuta totalmente la volontà del suo Padre Celeste, ma l’ha compiuta altresì nel modo più generoso, col sacrificio più perfetto e sublime. Sonata l’ora di dar principio a questo sacrificio, egli vi si consacra senza più arrestarsi fino a che esso non sia pienamente consumato. E quando nel Getsemani la noia, la tristezza, la paura lo invadono per guisa da farlo sudare vivo sangue, egli grida: Ancora! ancora! E quando nel pretorio di Pilato le verghe ne straziano la carne innocente e le spine gli trapassano la testa, Egli grida: Più, più ancora! E quando condannato a morte e carico del suo patibolo, cade a terra più volte, sicché pare dover soccombere, Egli grida: Ancora, ancora di più. E solo si arresta in questo grido, quando non è possibile ottenere di più, quando la sua obbedienza ha dimostrato la suprema generosità, quando cioè con la crocifissione e morte ha compiuto del tutto l’eroico sacrificio. Per tal guisa il suo divin Padre, obbedito da Lui sino alla morte e morte di croce, accetta in odore di soavità il generoso sacrificio e gli dà in ricompensa ed eredità il dominio di tutte le genti. Intanto Gesù ci ha insegnato che, se anche noi desideriamo renderci ostie gradite al Padre suo, come dobbiamo obbedire sempre totalmente, così dobbiamo studiarci di obbedire con generosità, anche a costo di gravi sacrifici. Quante volte nella nostra vita si presentano occasioni, in cui a compiere l’obbedienza si prova immensa difficoltà, perché vi si tratta soprattutto di sacrificare l’amor proprio! Allora è il tempo di fissare lo sguardo su Gesù morto in croce per noi e per insegnarci a obbedire sino al massimo dei sacrifici.

PUNTO 3°.

Gesù con la sua morte ha obbedito -fruttuosamente.

Ammirabile è il frutto derivato dalla morte di Gesù. Questa morte, quanto fu crudele e obbrobriosa per Lui, altrettanto è stata utile per noi. Gesù, obbediente sul legno della croce, rappresentava tutti noi, che per suo mezzo, riconoscendo le nostre gravi disobbedienze, le abbiamo espiate. Anche noi peccatori siamo morti in Lui e con Lui. Perciò il decreto di morte, che per la disobbedienza di Adamo e nostra era stato emanato contro di noi, fu cancellato. Basta che noi, rigenerati nel Battesimo di Gesù, viviamo uniti a Lui con una vita di fede, di speranza e di carità, perché noi siamo realmente uomini nuovi, novelle creature (II Cor., IIII), in cui Iddio non trova più alcun motivo di dannazione: Nihil nunc damnationis est in his qui sunt in Christo Jesu (Rom., VIII). E così la perfetta obbedienza di Gesù è la perfetta nostra liberazione e il sigillo della nostra riconciliazione con Dio! Reconciliati sumus Deo per mortem Filii eius! (Rom., V, 10). Oh benefizio immenso recatoci dalla morte di Gesù! Oh carità infinita di Lui! Su adunque, anima mia, alza gli occhi e guarda il tuo Dio morto sopra una croce per scontare i tuoi peccati e salvarti! Come potrai pensare che le tue colpe lo hanno crocifisso e fatto morire e non piangerle amaramente per tutta la vita? Ah mio Gesù, pietà, perdono! Se vi ho offeso tanto, non vi offenderò più. Eccovi intanto il mio cuore: non rigettatelo da voi!

NELLA SETTIMANA SANTA: MEDITAZIONE PER IL GIOVEDI’

 

MEDITAZIONE PER IL GIOVEDÌ.

Sopra l’istituzione del SS. Sacramento.

Mediteremo sopra l’istituzione del SS. Sacramento fatta da Cristo in questo giorno. C’immagineremo di vedere Gesù nel cenacolo, che con insolita gioia, stando per separarsi dagli Apostoli, dà loro l’ultimo addio, comunica le sue ultime volontà e fa a tutti i suoi seguaci il gran dono dell’Eucaristia. Assisteremo a sì commovente spettacolo e rileveremo come Gesù in questo Sacramento si dia a noi come compagno del nostro pellegrinaggio, come prezzo della redenzione, come cibo d’immortalità.

PUNTO 1°.

Gesù ci si dà come compagno di pellegrinaggio.

Gesù, nella notte in cui doveva essere tradido, in qua nocte tradebatur (I Cor., XI, 23), per farci meglio comprendere il suo immenso amore, dopo aver compiuto con i suoi apostoli la cena legale e lavato loro i piedi, torna a mensa e preso del pane nelle sue mani adorabili, alzati gli occhi al cielo, lo benedice, lo spezza e lo distribuisce ai suoi Apostoli dicendo: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo. E prendendo poscia il calice, rende grazie e dice: Bevetene tutti, questo è il mio sangue, il sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per voi in remissione dei peccati. In virtù di queste parole onnipotenti il pane e il vino, conservando le sole apparenze, si tramutano nel corpo e nel sangue di Gesù. E questo prodigio si opererà sempre sui nostri altari; perché Gesù Cristo ha detto ancora agli Apostoli e a tutti coloro che ad essi succederanno nel sacerdozio: Fate questo in memoria di me. Così adunque Gesù ha mantenuto la sua promessa di non lasciarci orfani, così ha dimostrato quanto sia vero che prova la sua delizia restare con gli uomini: deliciæ meæ esse cum filiis hominum [Prov., VIII, 31); così ha comprovato con quanta verità Egli si sia rivolto alle anime tribolate per dir loro: Venite ad me omnes qui laboratis et honerati estis, et ego reficiam vos (MATTH., XI, 28): Venite a me, voi tutti che siete sotto il peso dei travagli, ed Io ristorerò le vostre forze; così si è dato realmente, come si esprime S. Tommaso: in socium nostræ peregrinationis, come compagno del nostro pellegrinaggio!O caro Gesù, come mi conforta il sapere che nel duro cammino da percorrere per giungere alla patria celeste, voi mi siete amabile compagno nel SS. Sacramento! Nei momenti difficili, oh, valgono più due minuti passati con fede e con amore davanti a Voi che non le giornate intere con coloro stessi che sembrano i più grandi amici e consolatori!

PUNTO 2°.

Gesù si dà come prezzo della redenzione.

Gesù nell’istituire il SS. Sacramento dell’Eucaristia anticipò altresì il sacrificio della croce, sebbene in modo incruento, e creando sacerdoti gli apostoli con la facoltà di crearne altri e ordinando loro di fare ancor sempre ciò che aveva fatto Egli, istituì pure l’Eucaristia come sacrificio, che rifacesse presente lo stesso sacrificio del Calvario. Gesù nel sacrificio del Calvario ha pagato il prezzo della nostra redenzione; ma opera la stessa cosa nella SS. Eucaristia, col darsi anche qui in pretium redemptionis, essendo che tutto nel sacrificio della Santa Messa è commemorazione viva della passione del Divin Salvatore: recolitur memoria passionis eius. Ivi il sacerdote, dicendo la stessa parola di Gesù: Questo è il mio corpo che sarà dato per voi; questo è il calice del mio sangue che sarà sparso per la remissione dei peccati; compie una misteriosa immolazione: Gesù è sacrificato sopra l’altare in nostro luogo; e l’amorosa sostituzione del Calvario si ripete ogni mattina. Ogni mattina, mentre noi stessi dovremmo morire, Gesù muore misticamente per adorare il suo Divin Padre, per ringraziare la sua bontà, per placarne la giustizia e coprire col suo sangue la moltitudine dei nostri peccati. Ecco perché il Signore ci risparmia non ostante le nostre colpe e ci fa ancora scendere sul capo una pioggia continua di benedizioni e di grazie che ci aiutano a operare la nostra salute. Gesù nell’Eucaristia, continuando a darsi in prezzo della nostra redenzione, ottiene per noi grazia e misericordia. Qual conto non dovrai dunque fare, o anima mia, della santa Messa? Con quali sante disposizioni non dovrai celebrarla o assistervi?

PUNTO 3°.

Gesù si dà come cibo d’immortalità.

Gesù nella SS. Eucaristia ha trovato il modo non solo di restare sempre con noi e di sacrificarsi per noi sui nostri altari, ma di darsi ancora in cibo all’anima nostra e in cibo di immortalità: in cibum immortalitatis. Parlando Egli di questo cibo e paragonandolo alla manna fatta da Dio cadere nel deserto a sostentamento degli Ebrei, diceva: Coloro che mangiarono la manna morirono, ma chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. E d ora dal santo tabernacolo continua a dire: Mangiate il mio Corpo e bevete il mio Sangue; compite la vostra perfezione, fate pago il vostro amore e il mio. La morte è nelle vostre viscere per il peccato; ma voi unitevi a me, Io sono la risurrezione e la vita: ego sum resurrectio et vita (Jo., XI, 25); io sono la vita che illumina lo spirito, la vita che dilata il cuore, la vita che corrobora la volontà, la vita che soffoca le passioni, la vita che fa germogliare la purità nei sensi, la vita che prepara la carne alla gloriosa risurrezione. E se è così, come non accostarci sovente e bene a questo cibo santissimo? Deh! oggi particolarmente che la Chiesa ricorda questa grande istituzione, e invita intorno all’altare i fedeli, andiamo a disfogare davanti a Gesù i sensi della nostra gratitudine per sì gran dono, risoluti di giovarcene per la nostra salute.

ORATIONES

205

Deus, qui prò redemptione mundi voluisti nasci, circumeidi, a Iudæis reprobari, a Iuda traditore osculo tradì, vinculis alligari, sicut agnus innocens ad victimam duci atque conspectibus Annæ, Caiphæ, Pilati et Herodis indecenter offerri, a falsis testibus accusari, flagellis et opprobriis vexari, sputis conspui, spinis coronari, colaphis cædi, arundine percuti, facie velari, vestibus exui, cruci clavis affigi, in cruce levari, inter latrones deputari, felle et aceto potari et lancea vulnerari, Tu, Domine, per has sanctissimas pœnas tuas, quas ego indignus recolo, et per sanctam Crucem et Mortem tuam, libera me a pœnis inferni et perducere digneris, quo perduxisti latronem tecum crucifixum. Qui cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas Deus per omnia sæcula sæculorum. Amen.

Quinquies: Pater, Ave et Gloria.

 Indulgentia trium annorum [3 anni].

Indulgentia quinque annorum, si feriis sextis Quadragesimæ oratio recitata fuerit. [nel venerdì di quaresima. ndr.]

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, sj. Quotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit (S. C. Indulg., 25 aug. 1820; S. Pæn. Ap., 6 oct. 1933 et 7 mart. 1941).

207

Eccomi ai vostri piedi, Nazareno Gesù; ecco la più miserabile delle creature, che viene alla vostra presenza, umiliata e pentita. Misericordia di me, o Signore, secondo la vostra grande misericordia! Peccai e contro di voi furono le mie colpe. A voi però appartiene l’anima mia, perché l’avete creata e redenta col prezioso Sangue vostro. Deh! fate che l’opera vostra non si perda, e abbiate pietà di me. Datemi lagrime di penitenza: perdonatemi, che sono vostro figlio: perdonatemi come perdonaste al ladro pentito: guardatemi dall’alto dei cieli e beneditemi.

Credo in Deum etc., …

Indulgentia trium annorum (S. C. Indulg., 26 iun. 1894; S. Paen. Ap., 12 maii 1931).

209

O mio Dio Crocifisso, eccomi ai piedi vostri, non vogliate rigettarmi ora che mi presento a voi come peccatore. Vi ho offeso tanto per il mio passato, Gesù mio, ma non sarà più così. Dinanzi a voi, mio Dio, presento tutte le mie colpe…, già le ho considerate e vedo che non meritano perdono; ma deh! date uno sguardo ai vostri patimenti e guardate quanto vale quel Sangue, che scorre dalle vostre vene. Chiudete, mio Dio, in questo momento gli occhi ai miei demeriti e apriteli agli infiniti meriti vostri e giacché vi siete compiaciuto morire per i miei peccati, perdonatemeli tutti, affinché mai più senta il peso di essi, perché quel peso, o Gesù, troppo mi opprime. Aiutatemi, mio Gesù, voglio ad ogni costo divenire buono; togliete, distruggete, annientate tutto ciò che si trova in me non conforme alla vostra volontà. Vi prego però, Gesù, ad illuminarmi, affinché possa camminare nel vostro santo lume (S. Gemma Galgani).

Indulgentia quingentorum (500) dierum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem devote repetita (S. Pæn. Ap., 16 febr. 1934 et 26 nov. 1934).

210

Adesto nobis, Domine Deus noster; et quos

sanctæ Crucis laetari facis honore, eius quoque

perpetuis defende subsidiis. Per Christum Dominum

nostrum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque (cinque anni) annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo

quotidie per integrum mensem oratio pia mente iterata fuerit (S. Pæn. Ap., 14 sept. 1934).

211

Deus, qui prò nobis Filium tuum Crucis patibulum

subire voluisti, ut inimici a nobis expelleres

potestatem: concede nobis famulis tuis;

ut resurrectionis gratiam consequamur. Per

eumdem Christum Dominum nostrum. Amen

(ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, quotidiana orationis recitatione in integrum mensem adducta (S. Pænit. Ap., 22 nov. 1934).

212

Deus, qui unigeniti Filii tui pretioso Sanguine,

vivificæ Crucis vexillum sanctificare voluisti:

concede, quæsumus, eos qui eiusdem sanctæ

Crucis gaudent honore, tua quoque ubique protectione

gaudere. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote reiterata fuerit (S. Pæn. Ap., 7 febr. 1935).

213

Domine Iesu Christe, Fili Dei vivi, qui hora

sexta prò redemptione mundi Crucis patibulum

ascendisti et Sanguinem tuum pretiosum in remissionem

peccatorum nostrorum f udisti ; te humiliter

deprecamur, ut post obitum nostrum paradisi

ianuas nos gaudenter introire concedas:

Qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen

(ex Missali Rom.).

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pie recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 18 iul. 1936).

191

Adoramus te, Christe, et benedicimus tibi;

quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Indulgentia trium annorum (S. Paen. Ap., 2 febr. 1934).

Fidelibus vero, qui pio animi affectu in Passionem ac Mortem D. N . I . C. Credo una cum supra relata precatiuncula recitaverint, conceditur: [il Credo e la preghiera con animo contrito ed partecipe della Passione e morte di N. S. G. C. –ndr.-]

Indulgentia decem annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem eamdem recitationem pia mente persolverint (S. Pæn. Ap., 20 febr. 1934).

192

Signore, vi ringrazio che siete morto in Croce

per i miei peccati (S. Paolo della Croce).

Indulgentia trecentorum dierum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocation quotidie per integrum mensem devote iterata (S. Pæn. Ap., 18 ian. 1918 et 10 mart. 1933).

HYMNUS

193

Vexilla Regis prodeunt,

Fulget Crucis mysterium,

Qua vita mortem pertulit,

Et morte vitam protulit.

Quae vulnerata lanceae

Mucrone diro, criminum

Ut nos lavaret sordibus,

Manavit unda et sanguine.

Impleta sunt quae concinit

David fideli Carmine,

Dicendo nationibus:

Regnavit a ligno Deus.

Arbor decora et fulgida,

Ornata regis purpura,

Electa digno stipite

Tarn sancta membra tangere.

Beata, cuius brachiis

Pretium pependit saeculi,

Staterà facta corporis,

Tulitque praedam tartari.

0 Crux, ave, spes unica,

Oentis redemptae gloria ! (1)

Piis adauge gratiam,

Reisque dele crimina.

Te, fons salutis, Trinitas,

Collaudet omnis spiritus:

Quibus Crucis victoriam

Largiris, adde præmium. Amen.

(ex Brev. Rom.). 

(1) Loco: Gentis redemptæ gloria, dicatur: Tempore Passionis: Hoc Passionis tempore! — Tempore Paschali: Paschale quæ fers gaudium! — In festo Exaltationis Crucis: In hac triumphi gloria! 

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem hymnus pie recitatus fuerit (S. C. Indulg., 16 ian. 1886; S. Pæn. Ap., 29 apr. 1934).

L’UFFICIO DELLE TENEBRE (2018)

GIOVEDÌ SANTO AL NOTTURNO:  L’UFFICIO DELLE TENEBRE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Paoline ed. Alba, impr. 1957]

Carattere di tale Ufficio.

L’Ufficio del Mattutino e delle Lodi dei tre ultimi giorni della Settimana Santa differisce non poco da quello degli altri giorni dell’anno. Giovedì, Venerdì e Sabato la Chiesa tralascia quelle esclamazioni di gioia e di speranza con cui suole cominciare la lode di Dio. Non si sente il recitativo del « Domine, labia mea aperies: Signore, sciogli le mie labbra, affinché possa annunziare la tua lode »; nè il “Deus, in adjutorium meum intende”: O Dio, vieni in mio soccorso; nè il Gloria Patri alla fine dei Salmi, dei Cantici e dei Responsori. Negli Uffici rimane solo ciò ch’è loro essenziale nella forma, scomparendo tutte quelle vive aspirazioni che i secoli vi avevano aggiunte.

Il Nome.

Si dà comunemente il nome di Tenebre ai Mattutini ed alle Lodi degli ultimi tre giorni della Settimana Santa, perché vengono celebrate al mattino presto, prima del levar del sole.

Il Triangolo dei quindici ceri.

Un rito imponente e misterioso, esclusivo di questi Uffici, conferma tale appellativo. Nel tempio, presso l’altare, si colloca un grande candeliere di forma triangolare, dove si dispongono quindici ceri. Questi ceri, come pure i sei dell’altare, sono di cera gialla, come quelli degli Uffici dei Defunti. Al termine d’ogni Salmo, o Cantico, si spegne successivamente uno dei ceri del grande candeliere; alla fine ne rimarrà acceso uno solo, quello posto al vertice del triangolo. Ora spieghiamo il senso di queste diverse cerimonie. Siamo nei giorni in cui la gloria del Figlio di Dio rimane eclissata sotto le ignominie della sua Passione. Egli era la « luce del mondo », potente in opere ed in parole, poco fa accolto dalle acclamazioni di tutto un popolo; ed ora eccolo spogliato di tutte le sue grandezze e divenuto « l’uomo dei dolori, un lebbroso », dice Isaia; « un verme della terra, e non più uomo », dice il Re Profeta; « un motivo di scandalo per i suoi discepoli», dice egli stesso. Tutti s’allontanano da lui: Pietro stesso nega d’averlo conosciuto. Tale abbandono e tale defezione pressoché generale sono appunto figurati nell’estinzione successiva dei ceri che stanno sul Triangolo e di quelli dell’altare.

Un antico rito.

Secondo un’usanza di origine franca, che ci è confermata da Amalario e ch’ebbe vita fino alla recente riforma, essendo stati spenti i ceri dell’altare durante la recita del Benedictus, il cerimoniere prendeva l’unico cero rimasto acceso sul candeliere e lo teneva appoggiato sull’altare durante il canto dell’antifona che si ripete dopo il Cantico. Poi andava a nascondere questo cero, senza spegnerlo, dietro l’altare. E lo conservava così, lontano da tutti gli sguardi, per tutta la recita del Miserere e della sua orazione conclusiva. Terminata la quale, si faceva un po’ di rumore contro gli scanni del coro fino all’apparire del cero ch’era stato nascosto dietro l’altare. [Simile rito viene officiato a Sessa Aurunca (CE), con il nome di “terremoto”] Con la sua luce sempre conservata annunciava la fine dell’Ufficio delle Tenebre. In realtà, la luce misconosciuta del Cristo non s’era mai spenta. Si metteva per un momento il cero sull’altare per indicare ch’esso era là come il Redentore sul Calvario dove soffriva e moriva. Poi, per significare la sepoltura di Gesù, si nascondeva il cero dietro l’altare e la sua luce scompariva. Allora un brusio confuso si diffondeva nel tempio immerso nelle tenebre per la scomparsa di quell’ultima fiammella. Tale rumore, unito alle tenebre, esprimeva la convulsione della natura nel momento in cui, spirato il Salvatore sulla croce, la terra aveva tremato, le rocce si erano spaccate e s’erano aperti i sepolcri. Ma tutto ad un tratto il cero riappariva nel pieno splendore della sua luce e tutti rendevano omaggio al vincitore della morte.

Le Lamentazioni di Geremia su Gerusalemme.

Le Lezioni del primo Notturno di ciascuno di questi tre giorni sono prese dalle Lamentazioni di Geremia. In esse vediamo lo spettacolo desolante che offrì la città di Gerusalemme, quando il suo popolo fu portato prigioniero in Babilonia, in punizione del peccato dell’idolatria. La collera di Dio è tutta impressa su queste rovine che Geremia deplora con parole così vere e terribili. Però un tale disastro non era che la figura d’un altro ancora più spaventoso. Se Gerusalemme cade in mano altrui ed è condannata alla solitudine dagli Assiri, almeno conserva il proprio nome; del resto, il Profeta che oggi si lamenta sopra di lei, aveva pure predetto un limite alla sua desolazione, che non sarebbe durata più di settant’anni. Ma nella seconda rovina la città infedele perdette anche il nome. Riedificata poi dai vincitori, per più di due secoli portò il nome di Elia Capitolina; e se, ristabilita la pace della Chiesa, tornò a chiamarsi Gerusalemme, non fu in ossequio a Giuda, ma per ricordarsi del Dio del Vangelo che Giuda aveva crocifisso nella sua città. Non è valsa la pietà di S. Elena e di Costantino, né i valorosi sforzi dei crociati a ridare in maniera durevole a Gerusalemme almeno l’ombra d’una città secondaria: la sua sorte è d’essere schiava degl’infedeli, fino alla fine dei tempi. È la maledizione che s’è attirata addosso in questi giorni: ecco perché la santa Chiesa, per farci capire la grandezza del delitto commesso, ci fa rintronare nelle orecchie i pianti del Profeta, che solo ha potuto adeguare le lamentazioni ai dolori. È un’elegia commovente, che si canta su un tono semplicissimo, e risale alla più remota antichità. Le lettere dell’alfabeto ebraico, che separano le strofe, indicano la forma acrostica che questo poema contiene nell’originale; noi le cantiamo perché anche i Giudei le cantavano.

189

Officium Tenebrarum

Fidelibus, qui feriis IV, V et VI Maioris Hebdomadæ Officiis, quae vocant, Tenebrarum interfuerint et psalmorum ac lectionum cantum aut devota lectione, aut piis super dominica Passione meditationibus vel orationibus, prò suo quisque captu, secuti fuerint, conceditur:

Indulgentia decem annorum unoquoque ex dictis diebus;

[in ognuno dei tre giorni: 10 anni]

Indulgentia plenaria, si cunctis tribus diebus eidem pio exercitio vacaverint et præterea peccata sua sacramental pænitentia expiaverint, cælesti Epulo enutriti fuerint et ad mentem Summi Pontificis oraverint (S. Pæn. Ap., 16 mart. 1935).

[Ind. Plen. Se espletati tutti i tre uffici, con Comunione, Confessione, e pregh. sec. le intenz. del Pontefice]

NELLA SETTIMANA SANTA: MEDITAZIONE PER IL MERCOLEDI’

[A. Carmignola: Meditazioni, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1942, impr.]

Nella Settimana Santa

MEDITAZIONE PER IL MERCOLEDÌ.

Sopra la lavanda dei piedi.

Mediteremo sopra la lavanda dei piedi, alla quale volle umiliarsi Gesù Cristo prima di dar principio alla sua passione e di istituire il SS. Sacramento dell’Eucaristia. C’immagineremo di vedere Gesù, che con un asciugatoio innanzi e con un catino d’acqua sta in ginocchio davanti agli Apostoli e lava loro i piedi. Ammireremo questo prodigio di bontà e di umiltà e, poiché sappiamo essere questo il suo desiderio, lo pregheremo che si compiaccia di lavare e purificare altresì con la sua grazia le anime nostre.

PUNTO 1°.

Gesù c’insegna il vero rispetto a Dio.

Il Divin Redentore, sapendo che la sua ora era venuta di passare da questo mondo al Padre, volle dare ai suoi una testimonianza più perfetta del suo amore, e là nel cenacolo, compiuta la cena, si dispose a lavar loro i piedi, a fare cioè il più umile ufficio dei servi. Gesù adunque si avvicinò a Simon Pietro pel primo. Ma questo fervido Apostolo, nel vedersi inginocchiato innanzi il Divin Maestro, non si poté rattenere dall’esclamare: Come, Signore, tu lavare i piedi a me? E rispondendogli Gesù: Quello che io faccio, tu ora non l’intendi, ma lo conoscerai in appresso; Pietro non si diede per vinto, ma ritraendosi replicò: Tu non mi laverai i piedi in eterno! Con tutto ciò Gesù gli soggiunge: Se io non ti avrò lavato, non avrai parte con me, cioè sarai escluso dalla partecipazione dei miei beni. Quale minaccia! Come mai la ripugnanza di Pietro nel lasciarsi lavare i piedi da Gesù meritava un castigo sì terribile? Lo avrebbe meritato, dice S. Basilio, con la sua disobbedienza al volere divino; perciocché il vero rispetto a Dio consiste anzitutto nel fare la volontà sua e non la nostra, nel lasciarci reggere e governare da Lui e non già nel governarci e reggerci da noi. Quale importante ammaestramento dunque Gesù ci dà in questa circostanza! Vale un bel nulla per l’eternità, tutto ciò che facciamo di volontà nostra contro quella di Dio, manifestataci da coloro che ci dirigono. Val dunque meglio lasciarci guidare dai nostri superiori, che non regolarci da noi stessi. Gersone dice che l’anima religiosa, quando non cura la guida del suo superiore, non ha bisogno di demonio che la tenti, diventando essa demonio a se medesima. Allorché pertanto nella tua superbia o nel tuo falso rispetto vorresti opporti alla volontà di chi ti regge, sappi cedere prontamente e con semplicità, sicuro che si tratta sempre del maggior bene per te e per la gloria di Dio.

PUNTO 2°.

Gesù c’insegna la mondezza dell’animo.

Appena S. Pietro conobbe essere volontà di Gesù che si lasciasse lavare i piedi, si arrese all’istante e si affrettò a soggiungere: Signore, lavatemi pure, e se volete, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo. Ma Gesù gli rispose: Chi è stato lavato, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi, del resto è tutto mondo. Con le quali parole Gesù, dalla esteriore e sensibile lavanda assorgendo alla purificazione spirituale dell’anima, ci insegnò che chi è mondo dalla colpa grave, non ha bisogno d’altro che pulirsi di quei difetti quotidiani che sono all’anima come la polvere ai piedi, e che anche questa sollecitudine importantissima si devono pigliare specialmente le persone consacrate a Dio. I difetti quotidiani, che si riducono a colpe veniali, non tolgono la grazia di Dio; ma non lasciano di offendere Lui e di macchiare l’anima. Or che penseremmo noi di un figlio, di una figlia che dicesse al padre: Io vi obbedirò nelle cose di maggior momento, ma in quelle leggiere non intendo obbedirvi? Essendo noi per la nostra condizione figli prediletti del Padre celeste, non dovremmo perciò usare la massima diligenza per non offenderlo neppure con leggieri mancamenti? Se non ci studieremo del continuo di emendarci dei difetti nostri e di purificarci sempre di più, non ci faremo mai santi, né avremo mai da Dio gli aiuti, i lumi e le grazie che tanto ci abbisognano per la nostra santificazione, e, quel che è peggio, corriamo pericolo di passare così dai difetti leggieri ai peccati gravi.

PUNTO 3°.

Gesù c’insegna e comanda l’umiltà.

Gesù, dopo aver lavato i piedi a Pietro, li lava a tutti gli Apostoli e ben anche a Giuda, pur sapendo che lo tradirà. Oh esempio senza pari di profondissima umiltà! Oh bontà ammirabile e inaudita! Ma quello che Gesù ha fatto, vuole che lo facciano anche i suoi. Perciò dice loro e dice a tutti i suoi seguaci: Io vi ho dato l’esempio, e questo esempio voi dovete imitare. Con il che volle dire: Per quanto elevata sia la vostra dignità, per quanto eletto il vostro ingegno, per quanto mirabili le opere che sapete compiere, per quanto sublimi i doni spirituali ricevuti da Dio, dovete nondimeno essere umili, ed umili al punto da gettarvi ai piedi dei vostri fratelli, prestar loro i servizi della carità, edificarli con la vostra bontà, guadagnarli con i sapienti abbassamenti della vostra elevatezza. Oh noi avventurati se seguiremo tanto esempio e sì grande ammaestramento di Gesù! Così certamente santificheremo noi stessi e faremo del bene agli altri, e non già con la nostra alterigia, con lo stare sul nostro, con la superba pretensione che si abbassino gli altri davanti a noi.

NELLA SETTIMANA SANTA: MEDITAZIONE PER IL MARTEDI’ – SETTE PAROLE

[A. Carmignola: Meditazioni, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1942, impr.]

Nella Settimana Santa

MEDITAZIONE PER IL MARTEDÌ.

Sopra le ultime parole di Gesù.

Mediteremo sopra le ultime parole di Gesù in croce. C’immagineremo di essere dappresso a Gesù come figli d’intorno al padre morente, e di ascoltarne gli ultimi addii. Con sentimenti di cordoglio assisteremo a quegli estremi istanti della vita di Gesù, stampandoci nel cuore i suoi estremi ricordi.

PUNTO 1°.

Quarta parola: Dio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

Essendosi Gesù caricato di tutti i nostri peccati affine di espiarli, il suo Divin Padre lo assoggettò ai patimenti più acerbi sino ad abbandonare la sua natura umana e inferma alle podestà delle tenebre, lasciandola in balìa dei suoi nemici, in preda al furore degli uomini e dei demoni, esposta a tutte le pene, e negandole ogni stilla di consolazione: proprio Figlio non pepercit, sed prò nobis tradidit illum: non la risparmiò, dice San Paolo, al proprio Figlio, ma per noi lo abbandonò ai tormenti e alla morte (Rom., VIII, 32). A questo colpo non potendo più resistere l’agonizzante Gesù, raccolto sulle labbra l’ultimo avanzo di fiato rimastogli, si lamentò di sì doloroso abbandono, esclamando a tutta voce: Dio, Dio mio, perchè mi hai abbandonato? Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (MATTH., XXVII, 46). Ma più ancora che lamentarsi, dice S. Leone, Gesù con tali parole ebbe in animo di far sapere a noi la ragione per cui patì tale abbandono, volle cioè farci comprendere che se Egli fu abbandonato dal suo Divin Padre, non fu per altro motivo se non perché noi coi nostri peccati abbiamo abbandonato Lui. Se è così, chi non griderà pentito ai piedi di Gesù: Signore, d’ora innanzi starò sempre unito a Voi; più nulla mi separerà dall’amor vostro? Tanto più che Gesù con quel grido, come dice S. Bernardo, volle ancora pregare il suo Divin Padre di non mai abbandonare alcuno di noi. E siccome questa sua preghiera, come tutte le altre, fu pienamente esaudita, così possiamo essere sicuri che per parte sua Iddio non ci abbandonerà mai definitivamente, sempre ci lascerà la via del ritorno aperta, sempre terrà le braccia distese per riabbracciarci. Deh! Liberiamoci adunque da ogni impaccio e laccio, che c’impedisca di unirci interamente a Dio e di essere suoi in eterno.

PUNTO 2°.

Quinta paróla: Ho sete.

Gesù nella sua passione condotto da questo a quel tribunale, flagellato e coronato di spine, obbligato a portare sopra le spalle la croce, e sopra di essa inchiodato, si trovava ornai con le vene esauste, sommamente affaticato e con un’arsura terribile. In tanto bisogno di bere, gridò dall’alto della croce: Ho sete; sitio (Jo., XIX, 28). A questo grido uno dei crocifissori prende una spugna, la immerge in un vaso di aceto, che, secondo l’uso, là si trovava, e collocatala sulla punta di una canna gliel’avvicina alla bocca. Oh crudeltà senza esempio! Eppure Gesù stende a quella spugna le arse labbra e prende di quell’aceto. Così, dice S. Ambrogio, non potendo prendere realmente l’agrezza delle nostre impazienze, dei nostri astii, dei nostri rancori, delle nostre escandescenze, dei nostri sdegni e delle nostre rabbie, la prese nel simbolo dell’aceto per rifondere in noi la soavità della sua grazia. Ma più ancora Gesù con quel grido ha voluto manifestare la sete, che aveva delle anime nostre e la sete che dobbiamo avere noi di salvarle. Sì, con questa parola sitio, ho sete, Gesù volle dirci: Non cerco altro, altro non bramo che le anime: queste sono l’acqua che estingue l’arsura del mio cuore, queste sono il refrigerio che cerco alle mie pene. Lavorate, lavorate a salvar anime, guadagnatene col vostro zelo, traetele dal peccato e mettetele sulla via della penitenza e della virtù, datele al mio Cuore divino e così mi estinguerete la sete che mi divora. O caro Gesù, oserò io dunque negar da bere a voi? E se per estinguere la vostra sete ci vogliono anime, non vi darò anzitutto la mia e non mi sacrificherò per darvene ancora delle altre?

PUNTO 3°.

Sesta e settima parola.

Gesù, vicino a trarre l’ultimo respiro, disse: Tutto è compiuto: consummatum est; vale a dire: è stato fatto tutto ciò che era necessario per compiere la volontà del Padre celeste, per redimere il genere umano, per acquistare la grazia dei sacramenti, per stabilire la Chiesa, per chiudere l’inferno e per aprire il paradiso! E tutto ciò è stato fatto a perfezione. Non rimane altro se non che gli uomini facciano la parte loro e si studino di corrispondere a quanto io ho fatto per loro e di trarne profitto per la loro salvezza. Ora possiamo noi dire di esserci già messi sul serio a compiere questa nostra parte? Non abbiamo invece finora sprecato tanto tempo più per rovinarci che per santificarci? Su adunque, non tardiamo più oltre a rendere perfetta l’opera di Gesù Cristo. Fine alla nostra freddezza, indifferenza e codardia! Diamoci subito a vivere conforme al nostro stato e alle grazie che Gesù ci ha fatte, perché anche noi al termine della nostra vita possiamo ripetere con soddisfazione e con gioia: Consummatum est: tutto è compiuto: non mi rimane che rimettere il mio spiritò nelle mani di Dio, mio Padre: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum! Queste furono le ultime parole di Gesù; con esse, a rendere perfetto il suo sacrificio, offerse ancora al divin Padre il suo spirito. Queste saranno pure le parole che potremo pronunziare noi stando per morire: il nostro spirito, dopo essere stato unito a quello di Gesù Cristo in vita, mediante la conformazione completa dei nostri pensieri, dei nostri affetti, dei nostri sentimenti, dei nostri desideri, delle nostre parole, delle nostre opere, della nostra vita a quella di Gesù, si unirà al suo spirito nella beata eternità.

PRECES IN MEMORIAM SEPTEM VERBORUM

QUÆ IESUS IN CRUCE PROTULIT

 

  1. Deus, in adiutorium meum intende.

Domine, ad adiuvandum me festina.

Gloria Patri et Filio, etc.

 

PRIMA PAROLA

Padre, perdonate loro, perché non sanno ciò che fanno.

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce a fine di pagare con le vostre pene il debito dei miei peccati, ed aprite la vostra divina bocca per ottenermene il perdono dall’eterna giustizia, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per i meriti del vostro preziosissimo Sangue sparso per la nostra salute datemi un dolore così vivo delle mie colpe, che faccia spirare l’anima mia nel seno della vostra infinita misericordia.

Tre Gloria Patri.

Miserere nostri, Domine, miserere nostri.

Mio Dio, credo in voi, spero in voi, amo voi e mi pento di avervi offeso coi miei peccati.

SECONDA PAROLA

Oggi sarai meco in paradiso

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce, e che con tanta prontezza e tanta liberalità corrispondete alla fede del buon ladro, che in mezzo alle vostre umiliazioni vi riconosce per Figlio di Dio, e lo assicurate del paradiso, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per i meriti del vostro preziosissimo Sangue ravvivate nel mio spirito una fede così ferma e costante, che non vacilli a qualunque suggestione del demonio, affinché anche io ottenga il premio del santo paradiso.

Tre Gloria Patri.

Miserere, ecc. Mio Dio, ecc.

TERZA PAROLA

Ecco la tua Madre. Ecco il tuo Figlio

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce, e dimenticando i vostri patimenti mi lasciate in pegno dell’amor vostro la stessa vostra Madre santissima, affinché per suo mezzo possa con fiducia ricorrere a voi nei miei maggiori bisogni, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per l’interno martirio di così cara Madre avvivate nel mio cuore una ferma speranza nei meriti infiniti del vostro preziosissimo Sangue, onde possa evitare l’eterna condanna, che mi sono meritata coi miei peccati.

Tre Gloria Patri.

Miserere, ecc. Mio Dio, ecc.

QUARTA PAROLA

Dio mio, Dio mio, perché mi avete abbandonato?

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce, e che aggiungendosi patimenti a patimenti, oltre tanti dolori nel corpo, soffrite con infinita pazienza la più penosa afflizione di spirito per l’abbandono dell’eterno vostro Padre, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per i meriti del vostro preziosissimo Sangue datemi grazia di soffrire con vera pazienza tutti i dolori e le angustie della mia agonia, affinché, unendo alle vostre le mie pene, possa poi essere partecipe della vostra gloria in paradiso.

Tre Gloria Patri.

Miserere, ecc. Mio Dio, ecc.

QUINTA PAROLA

Ho sete

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce, e che non sazio ancora di tanti obbrobrii e patimenti vorreste soffrirne anche di più, purché tutti gli uomini si salvassero, mostrando così che tutto il torrente della vostra Passione non è bastante ad estinguere la sete del vostro Cuore amoroso, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per i meriti del vostro preziosissimo Sangue accendete tanto fuoco di carità nel mio cuore, che lo faccia morire di desiderio di unirsi a voi per tutta l’eternità.

Tre Gloria Patri.

Miserere, ecc. Mio Dio, ecc.

SESTA PAROLA

Tutto è consumato

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce, e da codesta cattedra di verità annunziate di aver compito l’opera della redenzione, per la quale l’uomo da figlio d’ira e di perdizione è divenuto figlio di Dio ed erede del paradiso, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per i meriti del vostro preziosissimo Sangue distaccatemi interamente dal mondo e da me stesso, dandomi la grazia di offrirvi di cuore il sacrificio della mia vita in espiazione dei miei peccati.

Tre Gloria Patri.

Miserere, ecc. Mio Dio, ecc.

SETTIMA PAROLA

Padre, nelle vostre mani raccomando lo spirito mio.

Caro Gesù, che per mio amore agonizzate sulla Croce, e che a compimento di sì gran sacrificio accettate la volontà dell’eterno Padre con rassegnare nelle sue mani il vostro spirito, per poi chinare il capo e morire, abbiate pietà di tutti i fedeli agonizzanti e di me; e quando sarò in quell’estremo, per i meriti del vostro preziosissimo Sangue datemi una perfetta uniformità al vostro divin volere, onde sia pronto a vivere o a morire, come più piacerà a voi; né altro io brami, che il perfetto adempimento in me della vostra adorabile volontà.

Tre Gloria Patri.

Miserere, ecc. Mio Dio, ecc.

Preghiera alla Vergine Addolorata

Madre santissima Addolorata, per l’intenso martirio, che soffriste a pie’ della Croce nelle tre ore di agonia di Gesù, degnatevi di assistere anche me, che son figlio dei vostri dolori, nella mia agonia, affinché con la vostra intercessione possa dal letto della morte passare a farvi corona nel santo paradiso.

V. A subitanea et improvisa morte,

R. Libera me, Domine,

V. Ab insidiis diaboli,

R. Libera me, Domine,

V. A morte perpetua,

R. Libera me, Domine.

 Oremus.

Deus, qui ad humani generis salutem in dolorosissima Filii tui morte exemplum et subsidium constituisti, concede, quæsumus, ut in extremo mortis nostræ periculo tantæ caritatis effectum consequi, et ipsius Redemptoris gloriæ consociari mereamur. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen.

Indulgentia septem (7) annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana precum recitatio in integrum mensem producta fuerit

(S. Rit. C , 26 aug. 1814; S. C. Indulg., 8 dec. 1897;

Pæn. Ap., 27 maii 1935).

NELLA SETTIMANA SANTA: MEDITAZIONE PER IL LUNEDI’

[A. Carmignola: “Meditazioni”, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1942, impr.]

Nella Settimana Santa

MEDITAZIONE PER IL LUNEDÌ.

Sopra le prime parole di Gesù in croce.

Mediteremo sopra le tre prime parole pronunziate da Gesù agonizzante sopra della croce. C’immagineremo di essere sul Calvario con le anime devote, che attorniano il divin crocifisso, e di ascoltare quei divini insegnamenti che, stando Egli per morire, ci dà ancora da quella cattedra, quasi compendiando alcuni insegnamenti più importanti della sua legge evangelica. Li custodiremo gelosamente dentro del nostro cuore e pregheremo l’adorabile Maestro che ci aiuti a farne tesoro nel tempo opportuno.

PUNTO 1°.

Prima parola: Padre, perdona loro.

Gesù, agonizzando sulla croce e meritando ogni compassione, è invece ancora dileggiato dai Giudei, ai quali egli risponde non già con collera, ma con mansuetudine, pregando per essi il suo Divin Padre così: Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si facciano: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt ( Luc. XXIII. 34). Oh preghiera di mitezza e misericordia infinita! Ben a ragione osserva S. Agostino, che non vi è stato mai un avvocato così abile a perorare la causa dei suoi clienti, come Gesù per i suoi crocifissori. Ma perché mai, anziché fare questa preghiera nel secreto del suo cuore, volle proferirla a voce alta? Per farci intendere ancora una volta con la parola e più ancora con l’esempio la gran legge del perdono!Senza dubbio praticare la dolcezza, la carità, essere mansueti, padroni di noi e perdonare, in certi casi, con persone, che a bella posta ci fanno del male, e che, peggio ancora, tentano coprire le loro intenzioni con la sembianza di far del bene, di compiere il loro dovere, di rimuovere degli scandali o dei pericoli di scandalo, e che nondimeno ci disonorano e ci fanno altri gravi danni, è assai difficile. Con tutto ciò chi mai potrà fare a noi il male che i Giudei fecero a Gesù? E se Gesù tuttavia li ha perdonati, ed ha ancora implorato il perdono per essi dal suo celeste Padre, perché noi, che vogliamo e dobbiamo essere imitatori di Gesù, non perdoneremo a chi ci fece un male immensamente minore? Rinnoviamo dunque davanti all’agonizzante Gesù il grande proponimento di praticare la mansuetudine e di perdonare sempre, a tutti e particolarmente ai nostri più fieri nemici, di ricambiare anzi il loro male con il nostro bene e col pregare per essi. Perdonando generosamente agli altri i loro torti verso di noi, meriteremo che Dio perdoni a noi i nostri peccati.

PUNTO 2°.

Seconda parola: Oggi sarai meco in paradiso.

Gesù, crocifisso tra due ladroni, mentre era dall’uno bestemmiato, dall’altro veniva grandemente compassionato. Che anzi, riconoscendo questi in Gesù il vero Messia, Figliuolo di Dio e Salvator del mondo, con viva fede e profonda umiltà gli rivolse questa preghiera; Signore, ricordatevi di me, quando entrerete nel vostro regno. Alla quale preghiera Gesù prontamente rispose: Oggi sarai meco in paradiso: hodie mecum eris in paradiso (Luc., XXII, 43). Oh prontezza della misericordia divina nel muovere incontro al peccatore penitente e nell’assicurarlo non solo del perdono, ma ancora dell’eterna beatitudine! L’uomo può sempre allargare alla speranza il suo cuore, anche dopo una vita malamente trascorsa, purché assecondi l’impulso della grazia, che Iddio pur negli estremi istanti di vita concede. Con tutto ciò imitando ora, se ne abbiamo bisogno, la illimitata fiducia del buon ladrone, guardiamoci bene dal differire la penitenza. Il buon ladrone all’estremo istante della vita si convertì; ma il cattivo si ostinò anche allora nella sua cecità e malizia e si perdette. E sì che stava vicino a Gesù, e il sangue di Lui si versava per la salute degli uomini, e le sue piaghe stavano aperte per riceverli. Ad ottenere la salute non basta esser vicini a Gesù per ragione del nostro stato, se non corrispondiamo alla grazia singolare della sua vicinanza col fare noi la parte nostra. Preghiamo adunque Gesù crocifisso che, avendoci fatta la grazia di chiamarci a vivere e morire dappresso a Lui, ci faccia ancor quella di corrispondervi degnamente, perché anche noi alla fine possiamo sentirci dire la consolante parola: Oggi sarai meco in paradiso.

PUNTO 3°.

Terza parola: Donna, ecco il tuo figlio!

Gesù Crocifisso, giunto al colmo delle sue pene e delle sue agonie, scorgendo Maria e Giovanni ai piedi della croce, posa sopra di essi il languido sguardo, già vicino a spegnersi nelle ombre di morte, e accennando l’uno all’altro dice a Maria: Donna, ecco il tuo figlio: Mulier, ecce filius tuus; e soggiunge a Giovanni: Ecco la tua madre: ecce mater tua! (Jo., XIX, 26, 27). Oh parole piene di tenerezza e di amore e nella loro semplicità sommamente feconde! Con esse Gesù premia la verginità di Giovanni e la sua vicinanza alla croce; con esse dà a Maria un sostegno pel restante della sua vita nella persona di Giovanni; con esse soprattutto costituisce Maria Madre nostra e raccomanda a noi di onorarla, di amarla, di servirla, di trattarla da buoni figliuoli. Fu come un dire a Maria: Donna, Voi che con i vostri dolori cooperate con me a dare la vera vita agli uomini, prendeteli adunque per figli vostri, facendo parte ad essi di quell’amore che avete per me, e adoperandovi sempre come loro Madre alla loro salvezza e santificazione. E fu come un dire a noi: O uomini, ecco che stando io per morire, e non avendo più altro da darvi, vi do la Madre mia per madre vostra: vogliatele bene, fate di amarla, di ossequiarla e compensarla di quello che Ella insieme con me ha fatto e farà ancora per voi. Maria ha corrisposto e corrisponde sempre alle intenzioni di Gesù! Corrispondiamo anche noi per la parte nostra! Sì, o Maria, vi amerò, vi onorerò, mi affiderò alla vostra pietà; anzi farò di tutto per farvi amare e onorare dagli altri.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: “NOTRE CHARGE”

Questa Lettera Enciclica scritta in francese ed indirizzata  contro il movimento politico “Sillon”, rappresenta una chiave di volta nella corretta interpretazione della questione sociale da parte della Chiesa. Le osservazioni, quanto mai pertinenti ed assolutamente lineari sotto tutti gli aspetti, del Santo Padre S. Pio X, rinnovano con vigore, tutte le indicazioni già manifestate da documenti precedenti fondamentali, non ultimi quelli prodotti dal suo sommo predecessore S. S. Leone XIII. A ben guardare, questa lettera potrebbe essere stata rivolta a tutti i movimenti politici dell’ultimo secolo, in particolare a quelli italiani, finti cattolici, autodefiniti ancora oggi falsamente democratici cristiani. Sappiamo bene che questi agglomerati pseudo-politici, dai tempi di Mazzini e Garibaldi sulla scia dei rivoluzionari francesi e degli Illuminati [o meglio “fulminati”] di Weishaut, sono una maschera grottesca indossata dalle sette massoniche che hanno sparso i loro letali veleni del “massonismo” applicato alla società, [basti il considerare che tra i “patetici” democristiani italiani ci sono stati, e forse ci sono ancora, noti esponenti massoni di altissimo grado, riconosciuti di livello mondiale], massonismo, tentacolo della solita antica piovra gnostica, al servizio dei poteri mondialisti che puntano al controllo globale, imponendo un governo unico sopranazionale, ed una religione unica, apparentemente umanitaria, filantropica, ecumenica, noachite, ma in sostanza ferocemente anticristiana e dichiaratamente luciferina. Questo si percepisce molto bene nell’enciclica seguente che potrebbe essere indirizzata anche oggi ai nostri “gloriosi” uomini politici che, di destra, di sinistra, di centro, dei “movimenti” o “leghe” varie e variegate, tutti più o meno intruppati nelle “conventicole”, stanno collaborando, in maniera più o meno conscia a realizzare il nuovo ordine mondiale per uccidere la libertà di tutti i popoli rendendoli schiavi di una entità demoniaca anticristiana, che indossa i soliti travestimenti felini di: “libertà, uguaglianza, fraternità”, tre principi tra loro inconciliabili. I Papi del recente passato, quelli “veri” prima dell’invasione del soglio di Pietro dei “sovrani grandi ispettori generali”, dei “cavalieri dell’aquila reale”, dei “principi dell’esilio”, etc., avevano perfettamente percepito l’andazzo ed inquadrato la situazione in modo chiaro, per cui oggi nessuno può lamentarsi dicendo: “… non lo sapevo”, o “… non avrei mai immaginato”. La differenza di questi documenti apostolici con quelli dei cosiddetti “complottisti” attuali, è che mentre questi ultimi non offrono soluzioni ai loro pur giusti rilievi e alle più o meno probabili teorie, i primi ne davano abbondantemente, attingendole dalla immensa Sapienza cristiana che affonda le radici nella “Sapienza” incarnata, Gesù-Cristo, infusa abbondantemente nella sua Sposa Immacolata ed Infallibile: la Santa Chiesa Cattolica. Per convincersene basta leggere ancora una volta i documenti di S. S. Leone XIII citati nella presente Enciclica, oltre ai consimili dei secoli precedenti, e alle successive Encicliche dello stesso Pio X e, di seguito, di Pio XI e Pio XII. Per oggi leggiamo questa impegnativa lettera enciclica che, pur lunga e densa di contenuti, è di lettura piana e veramente illuminante nella sua logica concatenazione!

LETTERA AGLI ARCIVESCOVI

E AI VESCOVI FRANCESI

NOTRE CHARGE APOSTOLIQUE

DI S. S. PIO X

“SULLA CONCEZIONE SECOLARIZZATA DELLA DEMOCRAZIA

E SULLE ERRATE TEORIE SOCIALI DEL SILLON”

AI VENERABILI FRATELLI, ARCIVESCOVI, VESCOVI

E AGLI ALTRI ORDINARI

AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE

PACE E COMUNIONE

PIO PP. X

SERVO DEI SERVI DI DIO

VENERABILI FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

La concezione secolarizzata della democrazia

[1] La nostra carica apostolica ci rende doveroso vigilare sulla purezza della fede e sull’integrità della disciplina cattolica, preservare i fedeli dai pericoli dell’errore e del male, soprattutto quando l’errore e il male sono loro presentati con un linguaggio trascinante, che velando l’incertezza delle idee e l’equivocità dell’espressione con l’ardore del sentimento e con l’altisonanza delle parole, può infiammare i cuori per cause seducenti, ma funeste. Tali sono state un tempo le dottrine dei sedicenti filosofi del secolo diciottesimo, quelle della Rivoluzione e del liberalismo, tante volte condannate; tali sono, ancor oggi, le teorie del Sillon, che, sotto le loro apparenze brillanti e  generose, mancano troppo spesso di chiarezza, di logica e di verità, e, da questo punto di vista, non derivano dal genio cattolico e francese.

[2] Abbiamo lungamente esitato, Venerabili Fratelli, a dire pubblicamente e in forma solenne il nostro  pensiero sul Sillon. Per deciderci a farlo è stato necessario che le vostre preoccupazioni venissero ad aggiungersi alle nostre. Infatti amiamo la valorosa gioventù schierata sotto la bandiera del Sillon, e la riteniamo degna di elogio e di ammirazione sotto molti aspetti. Amiamo i suoi capi, nei quali abbiamo il  piacere di riconoscere anime elevate, superiori alle passioni volgari e animate del più nobile entusiasmo per il bene. Li avete visti, Venerabili Fratelli, pervasi da un sentimento vivissimo di umana fraternità, presentarsi davanti a quanti lavorano e soffrono per sollevarli, sostenuti nella loro dedizione dall’amore per Gesù Cristo e dalla pratica esemplare della religione.

[3] Era l’indomani della memorabile Enciclica del nostro predecessore di felice memoria, Leone XIII, sulla condizione degli operai. La Chiesa, per bocca del suo capo supremo, aveva riservato sugli umili e sui piccoli tutte le tenerezze del suo cuore materno, e sembrava invocare paladini sempre più numerosi della restaurazione dell’ordine e della giustizia nella nostra turbata società. I fondatori del  Sillon non venivano, al momento opportuno, a mettere al suo servizio truppe giovani e credenti, per la realizzazione dei suoi desideri e delle sue speranze? E, di fatto, il Sillon innalzò in mezzo alle classi operaie lo stendardo di Gesù Cristo, il segno della salvezza per gli individui e per le nazioni, alimentando la sua attività sociale alle sorgenti della grazia, imponendo il rispetto della religione agli ambienti meno favorevoli, abituando gli ignoranti e gli empi a sentir parlare di Dio, e spesso sorgendo, nel corso di pubblici contraddittori, di fronte a un pubblico ostile, sollecitato da una domanda o da una espressione sarcastica, per gridare ad alta voce e con fierezza la propria fede. Erano i tempi belli del Sillon; è il suo lato bello, che spiega gli incoraggiamenti e le approvazioni che  non hanno risparmiato a esso l’episcopato e la Santa Sede, fino a quando questo fervore religioso ha potuto velare il vero carattere del movimento del  Sillon.

[4] Perché, bisogna dirlo, Venerabili Fratelli, le nostre speranze sono state, in gran parte, ingannate.  Venne il giorno in cui il Sillon  mise in evidenza, per occhi chiaroveggenti, tendenze inquietanti. Il  Sillon  usciva di strada. Sarebbe potuto capitare diversamente? I suoi fondatori, giovani, entusiasti e pieni di  fiducia in sé stessi, non erano sufficientemente dotati

di scienza storica, di sana filosofia e di solida teologia per affrontare senza pericolo i difficili problemi sociali verso i quali erano attirati dalla loro attività  e dal loro cuore, e per mettersi in guardia, sul terreno della dottrina e dell’ubbidienza, contro le infiltrazioni liberali e protestanti.

[5] I consigli non sono loro mancati; dopo i consigli sono venuti gli ammonimenti; ma abbiamo avuto il  dolore di vedere sia gli avvertimenti che i rimproveri scivolare sulle loro anime sfuggenti e restare senza  esito. Le cose sono giunte a un punto tale, che tradiremmo il nostro dovere, se mantenessimo più a lungo il silenzio. Dobbiamo la verità ai nostri cari figli del Sillon, che un ardore generoso ha condotto su una via tanto falsa quanto pericolosa. La dobbiamo a un gran numero di seminaristi e di sacerdoti, che il Sillon ha sottratto, se non all’autorità, almeno alla direzione e all’influenza dei loro vescovi; la dobbiamo  infine alla Chiesa, dove il Sillon semina la divisione e di cui compromette gli interessi.

Presa di posizione sulla dottrina del movimento del Sillon

Impossibilità di un’azione sociale senza dottrina, quindi necessità della subordinazione all’insegnamento della Chiesa

[6] In primo luogo, conviene rilevare con rigore la pretesa del  Sillon di sfuggire alla direzione dell’autorità ecclesiastica. Infatti, i capi del  Sillon sostengono di muoversi su un terreno, che non è quello della Chiesa; di occuparsi soltanto degli interessi dell’ordine temporale e non di quelli dell’ordine spirituale; che il collaboratore del  Sillon è solo e semplicemente un cattolico votato alla causa delle classi lavoratrici, alle opere democratiche, e che attinge, nelle pratiche della fede, l’energia della sua dedizione;  che, né più né meno degli artigiani, dei contadini, degli economisti e dei politici cattolici, si trova sottoposto alle regole della morale comuni a tutti, senza dipendere in un modo speciale, né più né meno di  loro, dall’autorità ecclesiastica.

[7] La risposta a questi sotterfugi è fin troppo facile. Infatti, a chi si farà credere che i membri cattolici del Sillon, che i sacerdoti e i seminaristi arruolati nei loro ranghi, mirino, nella loro attività sociale, solo agli interessi temporali delle classi operaie? Pensiamo che il sostenerlo sarebbe far loro un torto. In verità, i capi del  Sillon si proclamano idealisti irriducibili, pretendono di sollevare le classi lavoratrici, sollevando in primo luogo l’umana coscienza, di avere una dottrina sociale e princìpi filosofici e religiosi per ricostruire la società su un piano nuovo, di avere una speciale concezione della dignità umana, della libertà, della giustizia e della fraternità, e, per giustificare i loro sogni sociali, si richiamano al Vangelo interpretato a modo loro, e, fatto ancor più grave, a un Cristo sfigurato e sminuito. Inoltre insegnano queste idee  nei loro circoli di studio, le inculcano ai loro compagni; le mettono in pratica nelle loro opere. Sono dunque veramente professori di morale sociale, civica e religiosa; e, qualsiasi modifica possano introdurre Nell’organizzazione del loro movimento, abbiamo il diritto di dire che il fine del Sillon, il suo carattere, la  sua azione, sfociano nel campo morale, che è il campo proprio della Chiesa, e che, di conseguenza, i membri del Sillon si illudono quando credono di muoversi su  di un terreno, ai confini del quale cessano i diritti del potere dottrinale e direttivo dell’autorità ecclesiastica.

[8] Se le loro dottrine fossero esenti da errore, sarebbe già stata una mancanza gravissima alla disciplina  cattolica il sottrarsi ostinatamente alla direzione di quanti hanno ricevuto dal Cielo la missione di guidare gli individui e le società sulla retta via della verità e del bene. Ma il male è più profondo, lo abbiamo già detto: il Sillon, travolto da un malinteso amore dei deboli, è scivolato nell’errore.

[9] Effettivamente il Sillon si propone di risollevare e di rigenerare le classi operaie. Orbene, in questa  materia, i princìpi della dottrina cattolica sono fissati, e la storia della civiltà cristiana sta ad attestarne la benefica fecondità. Il nostro predecessore, di felice  memoria, li ha richiamati in pagine magistrali, che i  cattolici che si occupano di problemi sociali devono studiare e aver sempre presenti. Egli ha insegnato,  in modo particolare, che la democrazia cristiana deve mantenere la diversità delle classi, che è certamente la condizione propria della città bene ordinata, e volere per la società umana la forma e il carattere che Dio, suo autore, ha impresso in essa” (1). Egli ha condannato “una certa democrazia che giunge fino a un tal grado di perversità da attribuire al popolo la sovranità nella società e da perseguire la soppressione  e il livellamento delle classi” (2).  – Nello stesso tempo, Leone XIII imponeva ai cattolici  un programma di azione, il solo capace di ricondurre e di mantenere la società sulle sue secolari basi cristiane. Ora, che cos’hanno fatto i capi del Sillon?  – Non hanno soltanto adottato un programma e un insegnamento diversi da quelli di Leone XIII (il che sarebbe già di per sé singolarmente temerario da parte di laici, che così si pongono come direttori  dell’attività sociale della Chiesa, in concorrenza con il Sommo Pontefice); ma hanno apertamente rigettato il programma tracciato da Leone XIII e ne hanno adottato uno diametralmente opposto; inoltre, respingono la dottrina sui princìpi essenziali della società, richiamata da Leone XIII, situano l’autorità nel  popolo oppure quasi la sopprimono e assumono come ideale da realizzare il livellamento delle classi. Vanno dunque in senso contrario rispetto alla dottrina cattolica, nella direzione di un ideale condannato.

[10] Sappiamo bene che si vantano di rialzare la dignità umana e la condizione troppo disprezzata delle classi lavoratrici, di rendere giuste e perfette le leggi sul lavoro e le relazioni fra il capitale e i salariati, insomma di far regnare sulla terra una migliore giustizia e una maggiore carità e, per mezzo di movimenti sociali profondi e fecondi, di promuovere nell’umanità un progresso inatteso. Da parte nostra non biasimiamo certamente questi sforzi, che sarebbero eccellenti da ogni punto di vista, se i membri del Sillon  non dimenticassero che il progresso di un essere consiste nel rafforzare le proprie facoltà naturali con  nuove energie e nel facilitare il gioco della loro attività nel quadro e conformemente alle leggi della sua costituzione, e che, per contro, ferendo i suoi organi essenziali, spezzando il quadro della loro attività, non si spinge l’essere verso il progresso, ma verso la morte. Tuttavia è proprio questo che vogliono fare della società umana; il loro sogno consiste nel cambiare le sue basi naturali e tradizionali, e nel promettere una città futura edificata su altri princìpi, che osano dichiarare più fecondi, più benefici dei princìpi sui quali si basa la città cristiana attuale.

[11] No, Venerabili Fratelli – bisogna ricordarlo energicamente in questi tempi di anarchia sociale e intellettuale, in cui ciascuno si atteggia a dottore e legislatore, non si costruirà la città diversamente da come Dio l’ha costruita; non si edificherà la società, se la Chiesa non ne getta le basi e non ne dirige i lavori;  no, la civiltà non è più da inventare, né la città nuova da costruire sulle nuvole. Essa è esistita, essa esi-ste; è la civiltà cristiana, è la civiltà cattolica. Si  tratta unicamente d’instaurarla e di restaurarla senza sosta sui suoi fondamenti naturali e divini contro gli  attacchi sempre rinascenti della malsana utopia, della rivolta e dell’empietà: “omnia instaurare in Christo” (3).

[12] E perché non ci si accusi  di giudicare troppo sommariamente e con un rigore non giustificato le teorie sociali del Sillon, vogliamo richiamarne i punti essenziali. – La rappresentazione utopistica della democratizzazione dell’ordine politico, economico e morale

[13] Il Sillon ha la nobile preoccupazione per la dignità umana. Tuttavia questa dignità l’intende come certi filosofi di cui la Chiesa è ben lungi dal doversi vantare. Il primo elemento di questa dignità è la libertà, intesa nel senso che, salvo in materia di  religione, ogni uomo è autonomo. Da questo principio  fondamentale trae le seguenti conclusioni: Oggi il popolo è sotto la tutela di un’autorità da esso distinta; deve liberarsene: emancipazione politica. E’ sotto la dipendenza di padroni, che, possedendo i suoi strumenti di lavoro, lo sfruttano, lo opprimono, e lo abbassano; deve scuotere il loro giogo: emancipazione economica. Infine, è dominato da una casta detta dirigente, alla quale il suo sviluppo intellettuale assicura una preponderanza indebita nella direzione degli affari; deve sottrarsi al suo dominio: emancipazione intellettuale. Il livellamento delle condizioni da questo triplice punto di vista stabilirà fra gli uomini l’uguaglianza, e questa uguaglianza è la vera giustizia umana. Un’organizzazione politica e sociale fondata su questa duplice base, la libertà e l’uguaglianza (alle quali presto verrà ad aggiungersi la fraternità) è quanto chiamano Democrazia.

[14] Tuttavia, la libertà e l’uguaglianza ne costituiscono solo il lato, per così dire, negativo. Quanto fa propriamente e positivamente la Democrazia è la maggiore partecipazione possibile di ciascuno al governo della cosa pubblica. E questo comprende un triplice elemento, politico, economico e morale.

[15] In primo luogo, in politica, il Sillon non abolisce l’autorità; al contrario, la giudica necessaria; ma vuole suddividerla, o, per meglio dire, moltiplicarla in modo tale che ogni cittadino divenga una specie di re. E’ vero che l’autorità deriva da Dio, ma risiede primariamente nel popolo e ne emana attraverso l’elezione o, meglio ancora, la selezione, senza per questo lasciare il popolo e diventare indipendente da esso; sarà esteriore, ma soltanto in apparenza; in realtà sarà interiore, perché si tratterà di un’autorità consentita.

[16] Conservate le proporzioni, sarà lo stesso nell’ordine economico. Sottratto a una classe particolare, il padronato sarà tanto ben moltiplicato, che ogni operaio diventerà una specie di padrone. La forma chiamata a realizzare questo ideale economico non è, si afferma, quella del socialismo; si tratta di un sistema di cooperative sufficientemente moltiplicate da provocare una concorrenza feconda e da salvaguardare l’indipendenza degli operai, che non saranno incatenati a nessuna di esse.

[17] vediamo adesso l’elemento capitale, l’elemento morale. Dal momento che, come si è visto, l’autorità è ridottissima, occorre un’altra forza per supplirla e per opporre una reazione duratura all’egoismo individuale. Questo nuovo principio, questa forza, è l’amore dell’interesse professionale e dell’interesse pubblico, cioè del fine stesso della professione e dellasocietà. Immaginate una società in cui, nell’anima di ciascuno, insieme all’amore innato del bene individuale e di quello familiare, regnasse l’amore del bene professionale e del bene pubblico; dove, nella coscienza di ciascuno, questi amori si subordinassero in modo tale che il bene superiore primeggiasse sempresul bene inferiore; una tale società non potrebbe quasi fare a meno dell’autorità, e non offrirebbe l’ideale della dignità umana, avendo ogni cittadino un’anima da re, e ogni operaio un’anima da padrone? Il cuore umano, sottratto alla stretta dei suoi interessi privati ed elevato fino agli interessi della sua professione e, più in alto, fino a quelli dell’intera nazione, e, più in alto ancora, fino a quelli dell’umanità (infatti l’orizzonte del Sillon non si ferma alle frontiere della patria, si estende a tutti gli uomini fino ai confini del mondo), allargato dall’amore per il bene comune, abbraccerebbe tutti i compagni della stessa professione, tutti i compatrioti, tutti gli uomini. Ecco quindi la grandezza e l’ideale nobiltà umana realizzate dalla celebre trilogia: Libertà, Uguaglianza, Fraternità.

[18] Orbene, questi tre elementi, politico, economico  e morale, sono l’uno subordinato all’altro, e il principale, l’abbiamo detto, è l’elemento morale. Infatti, nessuna democrazia politica è realizzabile se non ha punti d’attacco profondi nella democrazia economica. A loro volta, né l’una né l’altra sono possibili se  non si radicano in uno stato d’animo in cui la coscienza si trova investita di responsabilità e di energie morali proporzionate. Ma, supposto che questo stato d’animo sia costituito di responsabilità cosciente e di forze morali, la democrazia economica ne deriverà  naturalmente con la traduzione in atti di questa  coscienza e di queste energie; ugualmente, e con lo stesso sistema, dal regime corporativo uscirà la democrazia politica; e la democrazia politica ed economica, questa sostenendo l’altra, si troveranno fissate nella coscienza stessa del popolo su posizioni inattaccabili.

[19] Questa è, in sintesi, la teoria, si potrebbe dire il sogno, del Sillon, e a questo tende il suo insegnamento e quanto esso chiama l’educazione democratica  del popolo, cioè il portare al grado massimo la coscienza e la responsabilità civica di ciascuno, da cui deriverà la democrazia economica e politica, e il regno della giustizia, della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità.

[20] Questa rapida esposizione, Venerabili Fratelli, vi mostra già con chiarezza quanto avessimo ragione  dicendo che il Sillon oppone dottrina a dottrina, edifica la sua città su una teoria contraria alla verità cattolica e falsifica le nozioni essenziali e fondamentali che regolino i rapporti sociali in ogni società umana. Questa opposizione diventerà ancora più evidente sulla base delle considerazioni seguenti.  –

L’autorità politica non è delegata dal popolo

[21] Il  Sillon situa in primo luogo la pubblica autorità nel  popolo, da cui passa poi ai governanti, ma in modo tale che continua a risiedere in esso. Orbene, Leone XIII ha formalmente condannato questa dottrina nella sua Enciclica Diuturnum illud sul Principato politico, in cui dice “Un gran numero di moderni,  seguendo le orme di quanti, nel secolo scorso, si diedero il nome di filosofi, dichiarano che ogni potere deriva dal popolo; di conseguenza, quanti esercitano il potere nella società, non lo esercitano come di loro propria autorità, ma come un’autorità a essi delegata dal popolo e a condizione di poter essere revocata dalla volontà del popolo, da cui l’hanno. Del tutto opposta è la convinzione dei cattolici, che fanno derivare da Dio, come dal suo principio naturale e necessario, il diritto di comandare” (4). Indubbiamente il Sillon fa discendere da Dio questa autorità che situa anzitutto nel popolo, ma in modo tale che “essa risale dal basso per andare in alto, mentre,  nell’organizzazione della Chiesa, il potere discende dall’alto per diffondersi in basso” (5). Tuttavia, oltre il fatto che è cosa anormale che il mandato salga, perché è  per sua natura discendente, Leone XIII ha confutato  previamente questo tentativo di conciliare la dottrina cattolica con l’errore del filosofismo. Infatti, prosegue: “E’ importante sottolinearlo qui; quanti presiedono al governo della cosa pubblica possono certamente, in determinati casi, essere eletti dalla volontà e dal giudizio della moltitudine, senza che ciò ripugni o si opponga alla  dottrina cattolica. Tuttavia, se questa scelta designa il governante, non gli conferisce l’autorità di governare; non delega il potere, ma designa la persona che ne sarà investita” (6).

[22] D’altronde, se il popolo resta detentore del potere, che cosa diventa l’autorità? Un’ombra, un mito; non vi è più legge propriamente detta e non vi è più ubbidienza. Il Sillon lo ha riconosciuto; infatti, poiché pretende, in nome della dignità umana, la triplice emancipazione politica, economica e intellettuale, la città futura per cui esso lavora non avrà più né padroni né servitori; i suoi cittadini saranno tutti liberi, tutti compagni, tutti re. Un ordine, un precetto, sarebbe un attentato alla libertà; la subordinazione a una qualsiasi superiorità sarebbe una diminuzione dell’uomo, l’ubbidienza uno svilimento. La dottrina tradizionale della Chiesa, Venerabili Fratelli, ci presenta così le relazioni sociali  nella città, anche la più perfetta possibile? Ogni società di creature indipendenti e disuguali per natura non ha forse bisogno di un’autorità che diriga la loro attività verso il bene comune e che imponga la sua legge? E, se nella società si trovano esseri perversi (e ve ne saranno sempre), l’autorità non dovrà essere tanto più forte quanto più minaccioso sarà l’egoismo dei cattivi? Inoltre, si può dire che un’ombra di ragione che vi è incompatibilità fra l’autorità e la libertà, a meno d’ingannarsi pesantemente sul concetto di libertà? Si può insegnare che l’ubbidienza è contraria alla dignità umana e che l’ideale consisterebbe nel sostituirla con “l’autorità consentita”? Forse l’Apostolo San Paolo non aveva presente la società umana in tutte le sue possibili tappe, quando prescriveva ai fedeli di essere sottomessi ad ogni autorità? Forse l’ubbidienza agli uomini in quanto legittimi rappresentanti di Dio, cioè, in fin dei conti, l’ubbidienza a Dio abbassa l’uomo, e lo degrada al di sotto di sé stesso? Forse lo stato religioso fondato sull’ubbidienza sarebbe contrario all’ideale della natura umana? Forse i Santi, che sono stati gli uomini più ubbidienti, erano schiavi e degenerati? Infine, forse si può immaginare uno stato sociale in cui Gesù Cristo, tornato sulla terra, non darebbe più l’esempio dell’ubbidienza e non direbbe più: “Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”? (7).

L’uguaglianza formale può far ammettere la democrazia solo come legittima forma di governo

[23] Dunque il Sillon, che insegna tali dottrine e le mette in pratica nella sua vita interna, semina fra la vostra gioventù cattolica nozioni erronee e funeste sull’autorità, sulla libertà e sull’ubbidienza. Non diversamente accade per la giustizia e l’uguaglianza. Dice di lavorare alla realizzazione di un’era di uguaglianza, che perciò stesso sarebbe un’era di migliore giustizia. Quindi, per esso, ogni disuguaglianza di condizione costituisce un’ingiustizia, o, almeno, una giustizia minore! Si tratta di un principio assolutamente contrario alla natura delle cose, generatore di invidia e d’ingiustizia e sovvertitore di ogni ordine sociale. Così solamente la democrazia inaugurerà il regno della giustizia perfetta! Non si tratta di un torto fatto alle altre forme di governo, che vengono in tal modo svilite la livello di governo di ripiego impotenti? D’altra parte il Sillon contrasta anche su questo punto con l’insegnamento di Leone XIII. Avrebbe potuto leggere, nella già citata Enciclica sul Principato politico che, “fatta salva la giustizia, non è proibito ai popoli darsi il governo che meglio risponde al loro carattere o alle istituzioni e ai costumi che hanno ricevuto dai loro antenati” (8); e l’Enciclica fa riferimento alla ben nota triplice forma di governo. Quindi suppone che la giustizia sia compatibile con ciascuna di esse. E l’Enciclica sulla condizione degli operai, non afferma chiaramente la possibilità di restaurare la giustizia nelle attuali organizzazioni della società, dal momento che ne indica i mezzi? Orbene, Leone XIII intendeva indubbiamente parlare non di una giustizia qualsiasi, ma della giustizia perfetta. Perciò, insegnando che la giustizia è compatibile con le tre note forme  di governo, insegnava che, da questo punto di vista, la Democrazia non gode di un privilegio speciale. I membri del Sillon , che pretendono il contrario, o rifiutano di ascoltare la Chiesa, oppure si formano un concetto della giustizia e dell’uguaglianza, che non è cattolico. Fraternità solo con rapporto all’amore cristiano.

[24] Lo stesso accade per la nozione di fraternità,  di cui stabiliscono la base nell’amore degli interessi comuni, oppure, al di la di tutte le filosofie e di tutte le religioni, nella semplice nozione di umanità, comprendendo così nello stesso amore e in un’eguale tolleranza tutti gli uomini con tutte le loro miserie, tanto intellettuali e morali quanto fisiche e temporali. Orbene, la dottrina cattolica ci insegna che il primo dovere della carità non consiste nella tolleranza delle convinzioni erronee, per quanto sincere esse siano, né nella indifferenza teorica o pratica per l’errore o per il vizio in cui vediamo immersi i nostri fratelli, ma nello zelo per il loro miglioramento intellettuale e morale, non meno che per il loro benessere materiale. Questa stessa dottrina cattolica ci insegna pure che la sorgente dell’amore per il prossimo si trova nell’amore di Dio, Padre comune e comune fine di tutta l’umana famiglia, e nell’amore di Gesù Cristo, di cui siamo le membra al punto che consolare un infelice equivale a far bene a Gesù Cristo stesso. Ogni altro amore è illusione o sentimento sterile e passeggero. Certamente, l’esperienza umana sta a provare, nelle società pagane o laiche di tutti i tempi, che in certi momenti la considerazione dei comuni interessi o della naturale somiglianza è di scarsissimo peso di fronte alle passioni e agli affetti disordinati del cuore. No, Venerabili Fratelli, non vi è vera fraternità al di fuori della carità cristiana, che per amore di Dio e del suo Figlio Gesù Cristo, nostro Salvatore, abbraccia tutti gli uomini per confortarli tutti e tutti condurre alla stessa fede e alla stessa felicità celeste.- Separando la fraternità della carità cristiana intesa in tal  modo, la Democrazia, lungi dall’essere un progresso, costituirebbe un disastroso regresso per la civiltà. Infatti, se si vuol arrivare, e noi lo desideriamo con tutta l’anima nostra, alla maggior quantità di benessere possibile per la società e per ciascuno dei suo membri, per mezzo della fraternità, oppure, come ancora si dice, per mezzo della solidarietà universale,  sono necessarie l’unione degli spiriti nella verità, l’unione delle volontà nella morale, l’unione dei cuori nell’amore di Dio e di suo Figlio, Gesù Cristo. Orbene, questa unione è realizzabile soltanto per mezzo della carità cattolica, la quale solamente, di conseguenza, può condurre i popoli sul cammino del progresso, verso l’ideale della civiltà.

La dignità umana può essere concepita solo come una libertà nel quadro di una morale.

[25] Infine il Sillon pone, alla base di tutte le falsificazioni delle nozioni sociali fondamentali, un’idea falsa della dignità umana. A suo avviso, l’uomo sarà  veramente uomo, degno di questo nome, soltanto a  partire dal giorno in cui avrà acquisito una coscienza illuminata, forte, indipendente, autonoma, che può  fare a meno di un padrone, che ubbidisce solo a sé stessa ed è capace di assumere e di portare senza cedere le più gravi responsabilità. Ecco i paroloni con  cui si esalta il sentimento dell’orgoglio umano; come  un sogno che trascina l’uomo, senza luce, senza guida e senza soccorso, sulla via dell’illusione, dove, aspettando il gran giorno della piena coscienza, sarà divorato dall’errore e dalle passioni. E questo gran  giorno, quando verrà? A meno di cambiare la natura umana (il che non rientra nel potere del Sillon), verrà mai? E i Santi, che hanno portato la dignità umana al suo apogeo, avevano tale dignità? E gli umili della terra, che non possono salire tanto in alto e si accontentano di tracciare modestamente il loro solco nel ruolo che la Provvidenza ha loro assegnato, compiendo con energia i loro doveri nell’umiltà,  nell’ubbidienza e nella pazienza cristiana, non sarebbero degni del nome di uomini, proprio loro che il Signore sottrarrà un giorno alla loro condizione oscura, per insediarli nel cielo fra i principi del suo popolo?

Presa di posizione sulla prassi del membri del Sillon

[26] Interrompiamo qui le nostre riflessioni sugli errori del  Sillon. Non abbiamo la pretesa di esaurire l’argomento, perché vi sarebbe ancora da attirare la vostra attenzione su altri punti, ugualmente falsi e  pericolosi, per esempio sul modo di comprendere il potere coercitivo della Chiesa. Adesso è importante vedere l’influenza di questi errori sulla condotta pratica del Sillon e sulla sua azione sociale.

Cameratismo senza autorità

[27] Le dottrine del Sillon non restano nel campo dell’astrazione filosofica. Vengono insegnate alla gioventù cattolica, e, ancor di più, si prova a viverle. Il Sillon si considera il nucleo della città futura; perciò la rispecchia il più fedelmente possibile. Infatti, nel  Sillon non vi è gerarchia. L’élite che lo dirige si è staccata dalla massa in modo selettivo, ossia imponendosi per la sua autorità morale e per le sue virtù. Vi si  entra liberamente, come liberamente se ne esce. Gli studi vi si fanno senza maestro, al massimo con un consigliere. I circoli di studio sono autentiche cooperative intellettuali, nelle quali ciascuno è insieme maestro e alunno. Fra i membri regna il cameratismo più assoluto, che mette in totale contatto le loro anime; ne deriva l’anima comune del Sillon. E’ stato definito ” un’amicizia”. Anche il sacerdote, quando vi entra, abbassa l’eminente dignità del suo sacerdozio e, con una stranissima inversione dei ruoli, si fa alunno, si mete al livello dei suoi giovani amici ed è solamente un compagno.

[28] In queste abitudini democratiche e nelle teorie sulla città ideale che le ispirano, riconoscerete, Venerabili Fratelli, la causa segreta delle mancanze disciplinari, che avete dovuto tanto spesso rimproverare al Sillon. Non è sorprendente che non troviate nei capi e nei loro compagni formati in questo modo, anche se seminaristi o sacerdoti, il rispetto, la docilità e l’ubbidienza dovuti alle vostre persone e alla vostra autorità; che avvertiate da parte loro una sorda opposizione, e che abbiate il dispiacere di vederli sottrarsi completamente, oppure, costretti all’ubbidienza, dedicarsi con disgusto a opere estranee al Sillon. Voi siete il passato; essi sono i pionieri della civiltà futura. Voi rappresentate la gerarchia, le disuguaglianze sociali, l’autorità e l’ubbidienza: istituzioni invecchiate, di fronte alle quali le loro anime, conquistate da un altro ideale, non si possono più piegare. Su questo stato d’animo abbiamo la testimonianza  di fatti dolorosi, capaci di strappare le lacrime; e non possiamo, nonostante la nostra longanimità, sottrarci a un giusto sentimento d’indignazione. Davvero! S’ispira alla vostra gioventù cattolica la sfiducia verso la Chiesa, che ne è madre; si insegna ad essa  che, dopo diciannove secoli, non è ancora riuscita a costruire nel mondo la civiltà sulle sue vere basi; che non ha capito le nozioni sociali dell’autorità, della  libertà, dell’uguaglianza, della fraternità e della dignità umana; che i grandi vescovi e i grandi monarchi, che hanno creato e tanto gloriosamente governato la Francia, non hanno saputo dare al loro popolo né la vera giustizia, né la vera felicità, perché non possedevano l’ideale del Sillon.

[29] Il soffio della Rivoluzione è passato su ciò, e  possiamo concludere che, se le dottrine sociali del Sillon sono erronee, il suo spirito è pericoloso e funesta la sua educazione.

La falsa connessione fra cattolicesimo e democrazia

[30] Ma allora, che cosa dobbiamo pensare della sua  azione nella Chiesa, di esso, il cui cattolicesimo è tanto puntiglioso che, quasi quasi, a meno di abbracciare la sua causa, si sarebbe ai suoi occhi un nemico  interno del cattolicesimo e non si capirebbe niente del Vangelo e di Gesù Cristo? Crediamo opportuno insistere su questo problema, perché proprio il suo ardore cattolico ha ottenuto al Sillon, fino a questi ultimi tempi, incoraggiamenti preziosi e illustri sostegni. Ebbene, di fronte alle parole e ai fatti, siamo costretti a dire che il Sillon, tanto nella sua azione quanto nella sua dottrina, non soddisfa la Chiesa.

[31] In primo luogo, il suo cattolicesimo si accorda  soltanto con la forma del governo democratico, che giudica essere la più favorevole alla Chiesa, e, per così dire, confondersi con essa; perciò assoggetta la sua religione a un partito politico. Non siamo tenutia dimostrare che l’avvento della democrazia universale non riguarda l’azione della Chiesa nel mondo; abbiamo già ricordato che la Chiesa ha sempre lasciato alle nazioni il compito di darsi il governo che ritengono più vantaggioso per i loro interessi. Ciò che vogliamo affermare ancora una volta dopo il nostro predecessore, è che vi è errore e pericolo nell’asservire per principio il cattolicesimo a una forma di governo; errore e pericolo che sono molto più grandi quando si fa la sintesi della religione con un genere di democrazia le cui dottrine sono erronee. E’ proprio il caso del Sillon; che, di fatto, e per una forma politica speciale, compromettendo la Chiesa, divide i cattolici, strappa la gioventù e anche sacerdoti e seminaristi all’azione semplicemente cattolica, e disperde, in pura perdita, le forze vive di una parte della nazione. Cosmopolitismo neutrale sul piano culturale e politico

[32] Osservate poi, Venerabili Fratelli, una stupefacente contraddizione. Proprio perché la religione deve dominare su tutti i partiti, invocando questo principio il Sillon si esime dal difendere la Chiesa attaccata. Certamente la Chiesa non è scesa nell’arena politica; la vi si è trascinata per mutilarla e per spogliarla. Il dovere di ogni cattolico non è dunque di usare le armi politiche che ha in mano per difenderla, e anche per forzare la politica e restare nel suo ambito e a occuparsi della Chiesa soltanto per renderle quanto le è dovuto? Ebbene, si ha spesso il dolore di vedere, difronte alla Chiesa in tal modo violenta, i membri del Sillon incrociare le braccia, a meno che non trovino il loro interesse nel difenderla; li si vede enunciare o sostenere un programma che in nessun punto, né ad alcun grado, rivela il cattolico. Il che non impedisce che gli stessi uomini, in piena lotta politica,sotto il colpo di una provocazione, dichiarino pubblicamente la loro fede. Quindi non resta altro da dire che vi sono due uomini in ogni membro del Sillon: l’individuo, che è cattolico; il membro del Sillon, l’uomo di azione, che è neutrale.

[33] Vi fu un tempo in cui il Sillon, in quanto tale, era formalmente cattolico. Relativamente alla forza  morale, ne conosceva soltanto una, la forza cattolica, e andava proclamando che la democrazia sarebbe stata cattolica oppure non sarebbe stata. Venne un momento in cui cambiò parere. Lasciò a ciascuno la  sua religione o la sua filosofia. Smise pure di qualificarsi cattolico e, alla formula: “la democrazia sarà cattolica”, sostituì quell’altra: “la democrazia non sarà anticattolica”, non più d’altronde che antiebraica o antibuddista. Fu l’epoca del più grande Sillon. Si chiamarono alla costruzione della città futura tutti gli operai di tutte le religioni e di tutte le sette. Si chiese loro unicamente di abbracciare lo stesso ideale sociale, di rispettare tutte le credenze e di portare un certo  sostegno di forze morali.  Certo, si proclamava, “i capi delSillon mettono la loro fede religiosa al di sopra di tutto.  Ma possono togliere agli altri il diritto di attingere la loro energia morale là dove possono? Al contrario, essi vogliono che gli altri rispettino il loro diritto di attingerla nella  fede cattolica. Essi chiedono dunque a tutti quanti vogliono trasformare la società attuale nel senso della democrazia il non respingersi reciprocamente a causa delle convinzioni filosofiche o religiose che possono separarli, ma di camminare mano nella mano, non rinunciando alle loro convinzioni, ma  cercando di fare sul terreno delle realtà pratiche la prova dell’eccellenza delle loro convinzioni personali. Forse su questo terreno dell’emulazione fra anime legate a differenti convinzioni religiose o filosofiche potrà realizzarsi l’unione” (9). E nello stesso tempo si dichiarò (come lo si poteva realizzare?) che il piccolo Sillon cattolico sarebbe stato l’anima gemella del grande Sillon cosmopolita.

[34] Di recente è scomparso il nome  più grande Sillon, ed è comparsa una nuova organizzazione, senza modificare, anzi tutt’altro, lo spirito e la sostanza delle cose ” per mettere ordine nel lavoro e per organizzare le diverse forze operative. Il Sillon resta sempre un’anima, uno spirito, che si mescolerà ai gruppi e ispirerà la loro  attività”. E tutti i raggruppamenti nuovi, divenuti apparentemente autonomi: cattolici, protestanti, liberi pensatori, sono pregati di mettersi all’opera. ” – I compagni cattolici

lavoreranno fra loro in un’organizzazione speciale per istruirsi ed educarsi. I democratici protestanti e liberi pensatori faranno altrettanto da parte loro. Tutti,  cattolici, protestanti e liberi pensatori avranno a cuore di  armare la gioventù non per una lotta fratricida, ma per una generosa emulazione sul terreno delle virtù sociali e civiche” (10).

[35] Queste dichiarazioni e questa nuova organizzazione dell’azione del  Sillon richiedono riflessioni assai gravi.

[36] Ecco, fondata da cattolici, un’associazione interconfessionale, per lavorare alla riforma della civiltà, opera in primo luogo religiosa: infatti non esiste vera civiltà senza civiltà morale, e nessuna civiltà morale senza la vera religione: è una verità dimostrata, si tratta di un fatto storico.  E i nuovi membri del Sillon non potranno addurre a pretesto che lavoreranno soltanto “sul terreno delle realtà pratiche” dove non ha importanza la diversità delle credenze. Il loro capo sente tanto bene l’influenza delle convinzioni dello spirito sul risultato dell’azione, che li invita, a qualsiasi religione essi appartengano, a “dare, sul terreno delle realtà pratiche, la prova dell’eccellenza delle loro convinzioni personali”. – E a ragione, perché le realizzazioni pratiche rivestono il carattere delle convinzioni religiose, come le membra di un corpo, fino alle ultime estremità, ricevono la forma dal principio vitale che lo anima.  Organizzazioni che riuniranno tutte le religioni  sulla base di una religione universale?

[37] Detto questo, che cosa bisogna pensare della promiscuità in cui si troveranno coinvolti i giovani cattolici con eterodossi e con non credenti di ogni genere, in un’opera di questa natura? Per loro, non è mille volte più pericolosa di un’associazione neutrale? Che cosa dobbiamo pensare di questo appello a tutti gli eterodossi e a tutti i non credenti a provare l’eccellenza delle loro convinzioni sul terreno sociale, in uno speciale concorso apologetico, come se questoconcorso non durasse da diciannove secoli, in condizioni meno pericolose per la fede dei fedeli e del tutto onorevoli per la Chiesacattolica? Che cosa dobbiamo pensare di questo rispetto per tutti gli errori e della strana esortazione, fatta da un cattolico a tutti i dissidenti, a fortificare le loro convinzioni con lo studio e a farne sorgenti sempre più abbondanti di forze nuove? Che cosa dobbiamo pensare di un’associazione in cui tutte le religioni e perfino il “libero pensiero” possono manifestarsi apertamente, a loro piacimento? Infatti, i membri del Sillon che nelle conferenze pubbliche e altrove proclamano con fierezza la loro fede individuale, non hanno certamente intenzione di chiudere la bocca agli altri e d’impedire al protestante di affermare il suo protestantesimo e allo scettico il suo scetticismo. Infine, che cosa pensare di un cattolico che, entrando nel suo circolo di  studio, lascia il suo cattolicesimo fuori dalla porta, per non spaventare i suoi compagni che “sognando un’azione sociale disinteressata, si rifiutano di farla servire al trionfo di interessi, di faziosità oppure di convinzioni, qualunque esse siano”? Tale è la professione di fede del nuovo comitato democratico di azione sociale, che ha ereditato la maggior parte del ruolo dell’organizzazione precedente, e che, esso stesso dice, “rompendo l’equivoco costruito intorno al più grande Sillon, tanto negli ambienti reazionari che negli ambienti anticlericali”, è aperto a tutti gli uomini ” rispettosi delle forze morali e religiose e convinti che non è possibile alcuna autentica emancipazione sociale senza il fermento di un generoso idealismo”.

[38] Si, ahimé!, l’equivoco è rotto; l’azione sociale del  Sillon non è più cattolica; il membro del Sillon, in  quanto tale, non lavora per una fazione, e “la Chiesa – afferma – non saprebbe a nessun titolo beneficiare delle  simpatie che la sua azione potrebbe suscitare”. Insinuazione davvero strana! Si teme che la Chiesa approfitti  dell’azione sociale del Sillon con uno scopo egoistico e interessato, come se tutto quanto favorisce la Chiesa non favorisse l’umanità! Strano capovolgimento delle idee: la beneficiaria dell’azione sociale sarebbe la Chiesa, come se i più grandi economisti non avessero riconosciuto e dimostrato che l’azione sociale, per essere seria e feconda, deve beneficiare della Chiesa. Ma sono ancor più strane, nello stesso  tempo spaventose e rattristante, l’audacia e la leggerezza di spirito di uomini che si dicono cattolici, che sognano di rifare la società in simili condizioni e di  stabilire sulla terra, al di sopra della Chiesa cattolica, ” il regno della giustizia e dell’amore”, con operai venuti da ogni parte, di tutte le religioni oppure senza religione, con o senza credenze, purché dimentichino quanto li divide, le loro convinzioni religiose e filosofiche, e mettano in comune quanto li unisce, un  generosi idealismo e forze morali prese ” dove possono”.  – Quando si pensa a tutto quanto è necessario in forze,  in scienza, in virtù soprannaturali per istituire la città cristiana, e alle sofferenze di milioni di martiri, e alle illuminazioni dei Padri e dei Dottori della Chiesa, e alla dedizione di tutti gli eroi della carità, e a una potente gerarchia nata dal Cielo, e ai fiumi di grazia divina, e il tutto edificato, collegato, compenetrato dalla Vita e dallo Spirito di Gesù Cristo, la Sapienza di Dio, il Verbo fatto uomo; quando si pensa, diciamo, a tutto questo, si è spaventati nel vedere nuovi apostoli intestardirsi a fare di meglio mettendo in comune un vago idealismo e virtù civiche. Che  cosa produrranno? Che cosa sta per uscire da questa collaborazione? Una costruzione puramente verbale e chimerica, in cui si vedranno luccicare alla rinfusa e in una confusione seducente le parole di libertà, di giustizia, di fraternità e di amore, di uguaglianza e di umana esaltazione, il tutto basato su una dignità umana male intesa. Si tratterà di un’agitazione tumultuosa, sterile per il fine proposto e che avvantaggerà gli agitatori di masse meno utopisti. Sì, davvero si può dire che il Sillon scorta il socialismo, con  l’occhio fisso su una chimera.

[39] Temiamo che vi sia ancora di peggio. Il risultato  di questa promiscuità nel lavoro, il beneficiario di  quest’azione sociale cosmopolitica,  può essere soltanto una democrazia che non sarà né cattolica, né pro-testante, né ebraica; una religione (siccome il movimento del Sillon, i capi l’anno detto, è una religione) più universale della Chiesa cattolica, che riunirà tutti gli uomini divenuti finalmente fratelli e compagni, nel “regno di Dio”. – ” Non si lavora per la Chiesa: si lavora per l’umanità”.

[40] E ora, pervasi dalla più viva tristezza, ci domandiamo, Venerabili Fratelli, che cos’è diventato il cattolicesimo del Sillon. Ahimé!, esso che, in altri tempi dava tanto belle speranze, una tale fiume limpido e impetuoso è stato captato, nel suo corso, dai moderni nemici della Chiesa e d’ora innanzi forma solo un misero affluente del grande movimento di apostasia, organizzato, in tutti i paesi, per l’instaurazione di una Chiesa universale, che non avrà né dogmi, né gerarchia, né regole per lo spirito, né freno per le passioni, e che, con il pretesto della libertà e della dignità umana, ristabilirebbe nel mondo, qualora potesse trionfare, il regno legale dell’astuzia e della forza, e l’oppressione dei deboli, di quelli che soffrono e che lavorano.

III. Giudizio complessivo ed esortazioni

Illuminismo e spirito della Rivoluzione

[41] Conosciamo fin troppo le cupe officine, in cui  si elaborano queste dottrine deleterie, che non dovrebbero sedurre spiriti chiaroveggenti. I capi del Sillon non hanno potuto difendersene; l’esaltazione dei loro sentimenti, la cieca bontà del loro cuore, il loro misticismo filosofico, mescolato con una componente illuministica, li hanno trascinati verso un nuovo vangelo, nel quale hanno creduto di vedere il vero Vangelo del Salvatore, al punto che osano trattare Nostro Signore Gesù Cristo con una familiarità assolutamente irrispettosa e che, poiché il loro ideale è imparentato con quello della Rivoluzione, non temono di fare collegamenti blasfemi fra il Vangelo e  la Rivoluzione, che non hanno la scusa di essere sfuggiti a qualche tumultuosa improvvisazione.

Vangelo e società idealizzata

[42] Vogliamo attirare la vostra attenzione, Venerabili Fratelli, su questa deformazione del Vangelo e del carattere sacro di Nostro Signore Gesù Cristo, Dio e Uomo, praticata nel Sillon e altrove. In altri ambienti è di moda, quando si tocca la questione sociale, mettere anzitutto da parte la Divinità di Gesù Cristo, e poi parlare soltanto della sua sovrana mansuetudine, della sua compassione per tutte le miserie umane, delle sue pressanti esortazioni all’amore del prossimo e alla fraternità. Certo, Gesù ci ha amati di un amore immenso, infinito, ed è venuto sulla terra a soffrire e a morire affinché, riuniti attorno a Lui nella giustizia e nell’amore, animati dai medesimi sentimenti di carità reciproca, tutti gli uomini vivano nella pace e nella felicità. Ma, per la realizzazione di questa felicità temporale ed eterna, Egli ha posto, con un’autorità sovrana, la condizione che si faccia parte del suo gregge, che si accetti la sua dottrina, che si pratichi la virtù e che ci si lasci ammaestrare e guidare da Pietro e dai suoi successori. Inoltre, se Gesù è stato buono con gli smarriti e con i peccatori, non ha rispettato le loro convinzioni erronee, per quanto sincere sembrassero; li ha tutti amati per istruirli, per convertirli e per salvarli. Se ha chiamato a Sé, per consolarli, quanti piangono e soffrono, non è stato per predicare loro l’invidia di un’uguaglianza chimerica. Se ha sollevato gli umili, non è stato per ispirare loro il sentimento di una dignità indipendente e ribelle all’ubbidienza. Se il suo Cuore traboccava di mansuetudine per le anime di buona volontà, ha saputo ugualmente armarsi di una santa indignazione contro i profanatori della casa di Dio, contro i miserabili che scandalizzano i piccoli, contro le autorità che opprimono il popolo sotto il carico di pesanti fardelli, senza muovere un dito per sollevarli. Egli è stato tanto forte quanto dolce; ha rimproverato, minacciato, castigato, sapendo e insegnandoci che spesso il timore è l’inizio della saggezza e che a volte  conviene tagliare un membro per salvare il corpo. Infine, non ha annunciato per la società futura il regno di una felicità ideale, da cui sarebbe bandita la sofferenza; ma, con le sue lezioni e i suoi esempi, ha tracciato il cammino della felicità possibile sulla terra e della felicità perfetta in Cielo: la via regale della Croce. Sono insegnamenti che si avrebbe torto ad applicare soltanto alla vita individuale in vista della salvezza eterna; sono insegnamenti eminentemente sociali e ci mostrano in Nostro Signore Gesù Cristo una realtà ben diversa da un umanitarismo senza consistenza e senz’autorità.  Il fondamento per la soluzione della questione sociale: l’adempimento dei doveri sociali e la giusta organizzazione della società secondo prospettive realistiche

[43] Da parte vostra, Venerabili Fratelli, continuate attivamente l’opera del Salvatore degli uomini, con l’imitazione della sua dolcezza e della sua forza. Siate attenti a tutte le miserie; nessun dolore sfugga alla vostra sollecitudine pastorale, nessun lamento vi trovi indifferenti. Ma predicate anche coraggiosamente i loro doveri ai grandi e ai piccoli; spetta a voi formare la coscienza del popolo e dei pubblici poteri. La questione sociale sarà decisamente prossima alla soluzione quando gli uni e gli altri, meno esigenti sui loro reciproci diritti, compiranno più precisamente i loro doveri.

[44] Inoltre, come nel conflitto degli interessi, e soprattutto nella lotta con forze disoneste, la virtù di un uomo, la sua stessa santità non è sempre sufficiente per garantirgli il pane quotidiano, e i meccanismi sociali dovrebbero essere organizzati in modo tale che, con la loro attività naturale, paralizzino gli sforzi dei cattivi e rendano accessibile a ogni buona volontà la sua parte legittima di felicità temporale, desideriamo vivamente che prendiate una parte attiva nell’organizzazione della società a questo fine. Per questo scopo poi, mentre i vostri sacerdoti si dedicheranno con ardore al lavoro della santificazione delle anime, della difesa della Chiesa, e alle opere di carità propriamente dette, voi ne sceglierete alcuni, attivi e di spirito prudente, dotati della qualifica di dottore in filosofia e in teologia, e che possiedano perfettamente la storia della civiltà antica e moderna, e li applicherete agli studi meno elevati e più pratici della scienza sociale, per metterli, a tempo opportuno, alla testa delle vostre opere di azione cattolica. Tuttavia questi sacerdoti non si facciano deviare, nel dedalo delle opinioni contemporanee, dal miraggio di una falsa democrazia; non prendano a prestito della retorica dei peggiori nemici della Chiesa e del popolo un linguaggio enfatico, pieno di promesse tanto sonore quanto irrealizzabili. Abbiamo la convinzione che la questione sociale e la scienza sociale non sono nate ieri; che in ogni tempo la Chiesa e lo Stato, felicemente concertati, hanno suscitato a questo scopo organizzazioni feconde; che la Chiesa, che non ha mai tradito la felicità del popolo con alleanze compromissorie, non deve distaccarsi dal passato e che le basta riprendere con la collaborazione dei veri operai della restaurazione sociale, gli organismi infranti dalla Rivoluzione e adattarli, nel medesimo spirito cristiano che li ha ispirati, al nuovo ambiente creato dall’evoluzione materiale della società contemporanea: infatti i veri amici del popolo non sono né rivoluzionari, né novatori, ma tradizionalisti.

[45] A quest’opera sommamente degna del vostro zelo pastorale, desideriamo che la gioventù del Sillon, liberata dai suoi errori, lungi dal porvi ostacolo, vi  apporti, nell’ordine e nella sottomissione convenienti un concorso leale ed efficace.

Orientamenti per i membri  del movimento del Sillon

[46] Rivolgendoci dunque ai capi del  Sillon con la fiducia di un Padre che parla ai suoi figli, chiediamo  loro per il loro bene, per il bene della Chiesa e della Francia, di cedervi il loro posto. Certamente ci rendiamo conto della portata del sacrificio che sollecitiamo da loro, ma li sappiamo anche sufficientemente  generosi da compierlo, e, anticipatamente, in nome del Nostro Signore Gesù Cristo, di cui siamo l’indegno rappresentante, per questo li benediciamo. Quanto ai membri del Sillon, vogliamo che si organizzino per diocesi allo scopo di lavorare, sotto la direzione dei rispettivi vescovi, alla rigenerazione cristiana e cattolica del popolo, contemporaneamente al miglioramento della sua condizione. Per il momento, questi gruppi diocesani saranno indipendenti gli uni dagli altri; e allo scopo di sottolineare che hanno rotto con gli errori del passato, prenderanno il nome di Sillon cattolicie ciascuno dei loro membri  aggiungerà alla sua qualifica di “membro del Sillon” lo stesso aggettivo di  cattolico. Resta indiscusso che  ogni membro del  Sillon cattolico conserverà la libertà di mantenere d’altra parte le sue preferenze politiche, epurate di tutto quanto non sia completamente conforme, in questa materia, alla dottrina della Chiesa. Se tuttavia, Venerabili Fratelli, dei gruppi rifiutassero di sottomettersi a queste condizioni, dovreste considerarvi, per questo, in stato di rifiuto di sottomettersi alla vostra direzione; e, allora, vi sarebbe da esaminare se essi si limitano alla politica o all’economia pura, o se perseverano nei loro vecchi sbandamenti. Nel primo caso, è chiaro che non dovreste occuparvene più che dei comuni fedeli; nel secondo,  dovreste agire di conseguenza, con prudenza, ma con fermezza. I sacerdoti dovranno mantenersi completamente al di fuori dei gruppi dissidenti e si limiteranno a fornire il soccorso del santo ministero individualmente ai loro membri, applicando loro al tribunale della Penitenza le regole comuni della morale relativamente alla dottrina e alla condotta. Quanto ai gruppi cattolici, i sacerdoti e i seminaristi, pur  favorendoli e assecondandoli, si asterranno dall’aderirvi come membri, perché è giusto che la milizia sacerdotale resti al di sopra delle associazioni laiche, anche le più utili e animate dallo spirito migliore.

Conclusione

[47] Tali sono le misure pratiche, con le quali abbiamo creduto necessario sanz ionare questa lettera sul Sillon e sui suoi aderenti. Voglia il Signore, e noi lo preghiamo dal fondo dell’anima, far comprendere a questi uomini e a questi giovani le gravi ragioni che l’hanno dettata, dia loro la docilità del cuore, e il coraggio di provare, di fronte alla Chiesa, la sincerità del loro fervore cattolico; e ispiri a voi, Venerabili  Fratelli, per loro, che ormai sono vostri, i sentimenti di un affetto assolutamente paterno.

[48] In questa speranza, e per ottenere questi tanto desiderabili risultati, vi accordiamo di tutto cuore,  come al vostro clero e al vostro popolo, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 agosto 1910, nell’anno ottavo del Nostro Pontificato PIO PP. X

Note:

(1) “[…] dispares tueatur ordines, sane proprios bene constitutae civitatis; eam denum humano convictui velit formam atque indolem esse, qualem Deus auctor indidit” (Leone XIII Enciclica Graves de

communi [del 18-1-1901, in ASS, vol. XXXIII, p.387])

(2) “Hinc imperium penes plebem in civitate velint esse, ut, sublatis ordinum gradibus aequatisque civibus, ad bonorum  etiam inter eos aequalitatem sit gressus” (ibidem): “Per questo vogliono che il potere nella città sia in mano al popolo, affinché, soppresse le classi sociali e livellati i cittadini,  si apra fra loro la via anche all’uguaglianza dei beni”

(3) “Instaurare tutte le cose in Cristo” (Ef. 1, 10); l’espressione paolina fu assunta da Papa san Pio X come divisa del suo  pontificato.

(4) “Immo recentiores perplures, eorum vestigiis ingredientes qui sibi superiore saculo philosophorum nomen inscripserunt, omnem inquiunt potestatem a populo sibi mandatam, et hac quidem lege, ut populi ipsius voluntate, a quo mandata est, revocari possit. Ab his vero dissentium catholici homines, qui jus imperandi a deo repetunt velut a naturali necessarioque principio” (Leone XIII, Enciclica Diuturnum illud, del 29-6-1881, in ASS, vol. XIV, p.4)

(5) Marc Sangnier, Discorso di Rouen, 1907

(6) “Interest autem attendere hoc loco, eos, qui reipublicae prae futuri sint, posse in quibusdam causis voluntate iudicioque deligi multitudinis, non adversante neque repugnante doctrina catholica. Quo sane delectu designatur princeps, non conferuntur iura principatus: neque mandatur imperium, sed statuitur a quo sit gerendum” (Leone XIII, Enciclica Diuturnun illud, cit., pp.4-5).

(7) Mt. 22,21

(8) “Quamobrem, salva iustitia, non prohibentur populi illud sibi genus comparare reipublicae, quod aut ipsorum ingenio, aut maiorum istitutis moribusque magis apte conveniat” (Leone XIII, Enciclica Diuturnum illud, cit., pp. 5).

(9) Marc Sangnier, Discorso di Rouen, 1907.

(10) Marc Sangnier, Parigi, maggio 1910.

[l’Enciclica Diuturnum illud è stata pubblicata nella nostra rubrica

https://www.exsurgatdeus.org/wp-admin/post.php?post=5198&action=edit]

DOMENICA DELLE PALME [2018]

DOMENICA DELLE PALME [2018]

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.[ Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI [I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].
D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. . [I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]
Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Nuova serie di Omelie, vol. II; Omelia XII, Marietti ed. Torino, 1898).

 “E come si furono avvicinati a Gerusalemme e venuti a Betfage, presso il monte Oliveto, allora Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nel villaggio, che sta davanti a voi, e tosto troverete una giumenta legata ed un puledro con essa: scioglieteli e menateli a me: e se alcuno vi dice nulla, dite che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. Ora tutto ciò avvenne, perché si adempisse la parola del profeta, che dice: Dite alla figliuola di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto, assiso sopra un asinello e puledro di asinella da giogo. E i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro comandato, e condussero l’asinella e il puledro, e posero sopra di quello le loro vesti e ve lo fecero montare. E intanto una turba grandissima distese le sue vesti nella via; altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano per la via, e le turbe che andavano innanzi e quelle che seguivano, gridavano, dicendo: Osanna al Figliuolo di Davide! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi. „ (S. Matteo, XXI, 1-9).

Gesù Cristo, lasciata la cittadella di Geco, dove aveva ridonata la vista a due ciechi, il sabato precedente l’ultima sua Pasqua, era giunto a Betania, a due chilometri circa da Gerusalemme. Ivi fu accolto da Lazzaro, che non molto prima aveva risuscitato, e dalle due sorelle, Marta e Maddalena, con qual cuore e con qual gioia vel dica Iddio. La sera stessa di quel sabato accettò l’invito di sedere alla mensa di Simone, detto il lebbroso, come più innanzi ci narra lo stesso S. Matteo (XXVI, 6 seg.). Il giorno appresso, cioè la Domenica, che noi chiamiamo delle Palme, per la commemorazione che ne facciamo tuttora, avvenne l’ingresso solenne in Gerusalemme, che qui si narra e che forma l’oggetto della presente Omelia, e che, attesa la insolita lunghezza della funzione, sarà più breve delle altre. – “Come si furono avvicinati a Gerusalemme e furono venuti a Betfage, presso il monte Oliveto, allora Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nel villaggio, che sta davanti a voi, e tosto troverete un’asinella legata ed un puledro con essa: scioglieteli e menateli a me: e se alcuno vi dice nulla, dite che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. „ Gesù, movendo da Betania, saliva le pendici del colle Oliveto, che sta ad oriente di Gerusalemme, e giungeva al villaggio di Betfage, che in nostra lingua significa Gasa della valle o della bocca, perché posto all’imboccatura della valletta di Giosafat, a mezzo chilometro circa dalla città. Egli era accompagnato dai suoi discepoli, che lo seguivano dovunque. La voce del suo arrivo a Betania e della sua venuta in Gerusalemme erasi sparsa dovunque e particolarmente nella città, dove aveva molti discepoli e maggiori e potenti nemici, che avevano giurata la sua morte. Gerusalemme formicolava di pellegrini per la imminente festa della Pasqua venuti da tutta la Giudea, dalla Galilea e dalle regioni più lontane. Il nome Gesù era sulle bocche di tutti: si narravano le sue virtù, i suoi miracoli operati da un capo all’altro della Palestina e fresca e viva era in tutti la memoria della risurrezione di Lazzaro, avvenuta nella prossima Betania, sulle porte di Gerusalemme, alla presenza di tanti testimoni, amici e nemici. Era dunque naturale che tutta Gerusalemme si commovesse alla fama della sua venuta e il popolo, nel suo entusiasmo, gli preparasse un’accoglienza trionfale. Vedete, o cari, differenza di giudizi e sentimenti! il popolo, il buon popolo, specialmente, io credo, delle campagne, accorso a Gerusalemme, crede che Gesù sia un profeta, anzi l’aspettato Messia, e che il suo regno sia per cominciare, e nell’ardore della sua fede si precipita sulla via di Betania per festeggiare la sua venuta. Non si cura degli scribi, dei farisei, dei suoi capi, pieni di livore e di odio implacabile contro di Gesù; esso ubbidisce all’impulso del suo cuore e della sua fede, impulso sempre retto e generoso, se non è traviato per opera dei tristi, come avverrà cinque giorni dopo. L’entusiasmo del popolo è contagioso e si allarga e cresce in un baleno, fa tacere e soffoca le opposizioni, soverchia e trascina anche gli indifferenti, a guisa di torrente impetuoso. Mentre le turbe, uscendo da Gerusalemme ed ingrossando ad ogni istante, si incamminavano confusamente incontro a Gesù, Gesù dall’altra parte, fattosi condurre l’umile cavalcatura, di cui parla il Vangelo, s’avvicinava alla città. E giunto sul colle degli Olivi (Il colle degli Olivi giace ad oriente di Gerusalemme. Il suo versante orientale fino a Betania è dolce, sparso di olivi scarsi e poveri: il versante occidentale, cioè verso Gerusalemme, è ripido a talché non si può discendere che per sentieri (strade non vi sono) girando e rigirando il colle. Sul suo vertice, da cui si gode la più bella vista di tutta Gerusalemme, si mostra il luogo dove Gesù si fermò e pianse. Il pellegrino che giunge e si arresta in quel luogo e contempla la città, e vede in alto la torre di Davide, più basso la cupola della Moschea di Omar e quella del sepolcro di Cristo e col pensiero abbraccia la storia da Davide a Cristo, ai Crociati, a noi, ricorda che i suoi piedi premono la terra che fu premuta dai piedi di Cristo e che li Egli pianse, prova ciò che lingua umana non sa ridire), d’onde si poteva contemplare la città, come narra altrove S. Luca, s’arrestò, pieno di tristezza la rimirò, i suoi occhi si gonfiarono, pianse e singhiozzò, pronunziando quelle parole piene di tenerezza inesprimibile: “Gerusalemme! oh! se tu avessi conosciuto, almeno in questo giorno, le cose appartenenti alla tua pace! Ma ora sono nascoste ai tuoi occhi! „ Gesù in mezzo al trionfo pacifico, che il popolo gli prepara, è sopraffatto da profonda mestizia e versa lagrime amare. Prima che venga il giorno (ed è vicinissimo) delle lotte supreme e dei supremi dolori, il Padre gli ha preparato un’ora di gioia, di spontaneo trionfo, ed Egli lo dimentica per non pensare che al suo popolo, all’ingrata e colpevole città ed alla catastrofe spaventosa in cui deve piombare, e ch’Egli vede e predice. Ah! il cuore di Gesù si rivela tutto in quel pianto, in quei singhiozzi, in quelle parole. – Il potere supremo religioso, che risiede in Gerusalemme, si accieca, si ostina, si irrita, si scandalizza, freme contro di Gesù e ne delibera la morte; il popolo, i semplici, i poveri, i disprezzati, gli ignoranti riconoscono, sentono che Gesù è il Messia: i maestri della legge, i capi del popolo, i dotti lo bestemmiano; la coscienza del popolo lo proclama Figlio di Davide! — Sono misteri che opprimono l’anima, ma che si spiegano facilmente alla luce della fede e della ragione: la verità è rigettata dai superbi ed entra nelle anime umili: “Dio resiste ai superbi e abbonda delle sue grazie con gli umili — Deus resistit superbis, huniilibus autem dat gratiam. „ – Qui, o dilettissimi, si affaccia una domanda troppo naturale, perché io la possa passare sotto silenzio. Il Vangelo di quest’oggi descrive in poche ma brillanti linee il trionfo di Gesù, che entra in Gerusalemme, salutato come profeta, come Messia, anzi come re. Ora noi sappiamo che Gesù Cristo in tutta la sua vita pose ogni studio in nascondersi, in fuggire gli onori, in vietare persino che si pubblicassero alcuni dei suoi miracoli e nominamente la sua gloriosa trasfigurazione: sappiamo dagli Evangelisti, ch’Egli si sottrasse al popolo allorché, visto il miracolo della moltiplicazione del pane, voleva a forza proclamarlo re. Come sta che oggi Gesù Cristo non solo non si sottrae al trionfale ingresso, che i discepoli e i suoi ammiratori gli apparecchiano, ma vi si presta, e diremmo quasi lo incoraggia ed Egli stesso in parte lo vuole regolare, chiedendo una cavalcatura, approva e difende chi lo acclama? Come comporre questa condotta, che sembra affatto nuova, del Salvatore divino? Alla vigilia della sua morte riceve e gradisce quegli onori che in tutta la sua vita mostrò di non curare, dirò meglio, studiosamente sfuggì: come spiegare questo fatto? Non è mestieri il dirlo; tutti gli atti di Gesù Cristo devono essere degni della infinita sua sapienza, e perciò lo deve essere questo pure, checché al corto nostro vedere possa sembrare Gesù Cristo era re e re supremo, come Figlio di Dio, e l’affermò solennemente dinanzi a Pilato: re delle intelligenze, re dei cuori, re spirituale, non temporale, re umile e mansueto, come l’aveva annunziato il profeta Zaccaria, citato dal Vangelista. Inoltre, permettendo e volendo questo trionfo popolare, ravvivava la fede dei suoi cari, si preparava alle prove vicine, mostrava ai suoi nemici la fede delle turbe, ed era come un ultimo appello, un ultimo invito ad abbracciare la verità. Più in quei giorni nella città di Gerusalemme si introducevano gli agnelli destinati al sacrificio, e Gesù, adombrato da quelli, entrava pur esso come il vero Agnello, come vittima coronata, che si conduce al sacrificio. Fors’anche l’amabile Gesù volle quel breve, ma pubblico trionfo; volle quelle grida festose “Osanna al Figlio di Davide, benedetto chi viene nel nome del Signore, „ per rendere più umiliante e più vituperosa la scena di cinque giorni appresso, la sua passione e la sua condanna al grido: “Toglilo, toglilo; alla croce, alla croce — Tolle, tolle; crucifige, crucifige eum. „ – Gesù, sedendo, come sembra, alternativamente ora sull’asinella, ora sul puledro, si avanzava verso la città, mentre gli Apostoli e le turbe stendevano le loro vesti e spargevano frondi e rami sulla via per rendergli onore, e gridavano: “Osanna al Figlio di Davide: Benedetto Colui che viene in nome del Signore, osanna nel più alto de’ cieli, „ ch’era un riconoscere in Gesù il Messia promesso nella famiglia di Davide, che veniva come mandato da Dio: Osanna a Lui! era come per noi il gridare: Viva, salute, onore sulla terra e in cielo: il cielo lo protegga! Una osservazione comunissima, o cari, ed ho finito. Non è raro udire certuni riprovare le manifestazioni esterne del culto cattolico, le processioni pubbliche, il canto del popolo, la pompa degli apparati e via dicendo. Il fatto narratoci dall’Evangelista, il trionfale ingresso di Cristo, ci mostrano in qual conto dobbiamo tenere questi giudizi degli uomini del mondo. Noi imiteremo, ogni qualvolta sia opportuno, gli Apostoli e le turbe che condussero trionfalmente in Gerusalemme il Salvatore benedetto: noi lo accompagneremo per le vie allorché vi è portato come in trionfo nel divino Sacramento: noi le adorneremo; noi canteremo le sue lodi, noi lo benediremo, noi ci inginocchieremo sul suo passaggio, certi che Egli accoglierà i nostri omaggi e le nostre adorazioni, come già accolse le lodi, gli applausi e le benedizioni degli Apostoli e delle turbe fedeli che lo accompagnavano in Gerusalemme, sotto gli occhi dei suoi nemici che ne fremevano e ne mossero lamento a Gesù Cristo istesso, certi di far cosa grata a Lui, che mostrò di gradire il trionfo procacciatogli dagli Apostoli e dalle turbe.

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis». [Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis». [Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]
Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis». [Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]
Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus 147
Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus». Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!
Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis». [Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis». [Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.
[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus
Ps XXI:20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [ Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

LECTIO 

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II:5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.” [Fratelli: Abbiate in voi gli stessi sentimenti dai quali era animato Cristo Gesù: il quale, essendo nella forma di Dio, non reputò che fosse una rapina quel suo essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso, prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto quale uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte e morte di croce. Perciò Dio stesso lo esaltò e gli donò un nome che è sopra qualunque nome: qui si genuflette onde nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli abissi; e affinché ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre.]

OMELIA

[Mons. Bonomelli: Nuova serie di Omelie, vol. II; Omelia XI, Marietti ed. Torino, 1898).

“Abbiate in voi lo stesso sentimento, che fu anche in Gesù Cristo; il quale essendo la forma di Dio, non tenne per usurpato il suo essere pari a Dio; ma, presa forma di servo, annichilò se stesso, fatto alla somiglianza degli uomini e giudicato esternamente simile all’uomo, abbassò se stesso, essendosi reso ubbidiente fino a morte e morte di croce. Per la qual cosa Iddio sovranamente lo innalzò e gli diede un nome, che è sopra ogni nome, affinché nel nome di Gesù si curvi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri ed infernali, ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre „ (Ai Filippesi, capo II, 5-11).

L’Apostolo trovavasi in Roma l’anno 60 circa dell’era nostra, tenutovi in ceppi: è questa la sua prima prigionia, che cominciò in Gerusalemme, continuò in Cesarea, e poi, dopo il suo appello a Cesare, si protrasse per due anni in Roma. I cristiani di Filippi, città di Macedonia, che S. Paolo aveva convertiti alla fede, sapendolo in carcere, gli mandarono soccorsi per mezzo di Epafrodito, suo discepolo. Questi si ammalò gravemente a Roma; riavutosi, dovette ritornare a Filippi, portatore della lettera. In essa S. Paolo effonde l’anima sua in sensi vivissimi di affetto e gratitudine verso quei suoi neofiti e a rapidi tratti tocca alcuni punti dogmatici e morali della dottrina evangelica, senza discendere ai particolari. I versetti, che vi ho sopra riferiti, si leggono nella epistola di questa Domenica delle Palme, e devono essere il soggetto delle mie parole e delle mie e delle vostre considerazioni. S. Paolo, dopo avere fortemente eccitati e ingiuriati i suoi cari Filippesi a stare uniti nella carità, umili nel deferire agli altri, e nel cercare non il proprio, ma sì l’altrui bene, propone il modello che essi debbono tenere innanzi agli occhi nell’esercizio di queste sì alte e pratiche virtù, e scrive: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che fu anche in Gesù Cristo. „ Non occorre il dirlo, Gesù Cristo, perché Dio-Uomo, fu e sarà sempre il sovrano esemplare d’ogni umana perfezione, sotto qualunque rispetto lo si consideri, e quegli tra gli uomini meglio si accosterà alle supreme altezze della perfezione morale, ossia della virtù, che sarà maggiormente simile a Gesù Cristo, e perciò il grande Apostolo in cento luoghi delle sue lettere inculca la necessità di ritrarre Cristo in sé, e qui vuole che abbiamo in noi lo stesso sentimento che Gesù Cristo ebbe in sé. I frutti dell’albero, o cari, donde traggono la loro vita, l’alimento e lo sviluppo della medesima? Dall’albero stesso, dal suo umore, dalle sue radici; essi sono una emanazione, una efflorescenza dell’albero, tantoché quelli seguono la natura di questo, e se l’albero avvizzisce e muore, anche i frutti avvizziscono e muoiono. Che cosa sono le virtù? Sono i frutti di quest’albero, che è l’uomo: esse traggono la loro esistenza e la loro conservazione e perfezione dall’anima, dall’intima vita del cuore, dalla grazia divina che lo informa. Se questa regna nel fondo del nostro cuore, se ne vedranno tosto i frutti nelle parole e nelle opere; se questa fa difetto, l’uomo sarà somigliante ad un albero disseccato od inselvatichito. Se in ciascuno di noi abitasse la grazia, ossia la vita di Gesù Cristo, vale a dire se pensassimo, se amassimo, se sentissimo come Lui, non è vero o cari, che si vedrebbero in noi le opere stesse di Cristo? L’Apostolo svolge la verità, e nel supremo modello d’ogni virtù, che è Cristo, mette in rilievo ammirabile quella che più gli sta a cuore. Vuole, S. Paolo, che i suoi Filippesi siano uniti tra loro col vincolo soave della carità e d’una mutua deferenza. Ora quali sono gli ostacoli principali a questa carità e mutua deferenza? Sono due: l’orgoglio e l’egoismo; l’orgoglio e l’egoismo, che non vedono che sé, tutto ordinano a sé, che disprezzano gli altri, che immolerebbero il mondo intero al proprio interesse. Togliete l’orgoglio, soffocate l’egoismo, e la carità e la scambievole deferenza regnano nei cuori; così se abbassate i rialzi del terreno e riducete a perfetto livello, le acque vi si spanderanno sopra in modo eguale. Ora l’Apostolo per atterrare l’orgoglio e fiaccare l’egoismo dell’uomo e spargere nel suo cuore le acque vivifiche della umiltà e della carità, che sono inseparabili, grida: “Figli miei, levate i vostri occhi, rimirate Cristo, di cui siete discepoli e dovete essere immagini fedeli; Cristo, il quale, essendo nella forma di Dio, non tenne per usurpato il suo essere pari a Dio, ma, presa forma di servo, annichilò se stesso. „ Che importano, che vogliono dire queste parole? Cristo, essendo per natura, o nella natura Dio (la parola forma qui usata da S. Paolo, vuol dire quello che v’è di più perfetto in ogni cosa, ciò che dà o fa l’essere, la perfezione d’ogni cosa, secondo Aristotele; e questo è la natura o  l’essenza della cosa. Perciò il dire che Cristo era nella forma di Dio è come dire che era nella essenza di Dio, nella natura di Dio, che era Dio e quindi pari a Dio, a Dio Padre, ecc. Il che apparisce dall’antitesi che segue, cioè prese la forma o forma di servo o di uomo), e perciò avendo coscienza di non fare usurpazione di sorta, dichiarandosi pari a Dio, contuttociò, prendendo la natura di servo, la natura umana, ossia facendosi, uomo, si annichilò. In questa espressione si racchiude l’affermazione precisa e chiarissima di tre dogmi fondamentali riguardanti i misteri della Trinità e della Incarnazione: si afferma che Gesù Cristo è Dio, poi che si dice “lui essere nella forma, ossia nella matura di Dio, e non usurpare la dignità di Dio quando afferma d’essere eguale a Dio; „ si afferma in pari tempo, benché in modo indiretto, la distinzione personale di Cristo da Dio Padre, dicendo, che è verità, Lui essere eguale a Dio Padre; si afferma il mistero della Incarnazione, allorché Paolo insegna che questo Dio, eguale al Padre, prese la forma, cioè assunse la natura di servo, o di uomo; e finalmente si afferma l’unità di persona in Gesù Cristo, fatto uomo, perché si dice, che Colui che è Dio, eguale al Padre, si è fatto uomo, e come uomo fu riconosciuto: Cristo è Dio, eguale al Padre: Cristo è uomo, vero e perfetto uomo, e il medesimo che è Dio, è anche uomo: ecco le tre grandi verità della fede contenute in queste poche parole dell’Apostolo. – Ora veniamo all’applicazione morale, secondo la mente di S. Paolo. Il Verbo, il Figlio di Dio, eterno, immutabile, onnipotente, come il Padre, col quale ha comune la natura! Vi può essere alcun che di più grande, di più eccelso? In Lui sono tutte le perfezioni, in grado sommo, incomparabili, infinite: tutto ciò che apparisce nel mondo, anzi nell’universo, non è che una pallida immagine, un povero riflesso di ciò ch’Egli precontiene in se stesso. Tutto è da Lui, e nulla è senza di Lui, ed Egli non riceve nulla da chicchessia. Egli è il primo, che non ripete l’essere da altri, ma l’ha da sé, ed è perché è: in questo Verbo stanno gli esemplari eterni, perfettissimi di tutte le cose che esistono e di quelle che potrebbero esistere; tutti raccolti in uno, eppure distintissimi, e secondo essi e per essi le cose tutte son fatte e sussistono. Ebbene; questo Verbo, o Figlio di Dio, che si ammanta dell’infinita sua gloria , annichilò se stesso, e letteralmente, vuotò se stesso, exinanivìt, non già della divinità, che sarebbe assurdo, ma si vuotò, cioè si spogliò di tutte quelle grandezze e prerogative che si competevano alla natura umana assunta da Lui personalmente. Egli, il Verbo, prese la forma o la natura di uomo per guisa che fu simile in tutto ed eguale agli uomini, e da tutti esternamente fu giudicato uomo: In similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut homo. Si può concepire abbassamento maggiore o maggior carità? L’infinito è divenuto finito, l’immutabile si è fatto mutabile, l’immortale mortale, l’impassibile passibile, Dio uomo! Il sole di eterna giustizia, sfolgorante di luce nel pieno meriggio, in un cielo senz’ombra di nube, si è ecclissato, si è avvolto nel fitto velo d’una nube, la nube dell’umanità, ma solo per accostarsi all’uomo, per comunicarsi all’uomo. Quest’uomo, povera creatura, soggetta ai sensi, che ha sempre bisogno dei sensi per pensare, per elevarsi a ciò che sta sopra i sensi, come l’uccello, che ha bisogno del ramo dell’albero per riposare, nell’umanità di Cristo trova il ponte che lo conduce a Dio, trova Dio stesso: in essa ode la voce di Dio, vede Dio, tocca Dio, si unisce a Dio. Oh! il mistero di Dio fatto uomo è il mistero dell’abbassamento di Dio, dell’amore di Dio, e in pari tempo dell’innalzamento dell’uomo. – Ma qui non s’arresta l’Apostolo. Dopo aver detto che Dio, rimanendo pur sempre Dio, si vuotò, si annichilò, a nostro modo di dire, facendosi uomo, va più innanzi e scrive: “Abbassò se stesso, essendosi reso ubbidiente fino alla morte. „ Badate bene, in sostanza dice S. Paolo, badate bene: al Figlio di Dio non bastò discendere fino all’uomo, e farsi uomo, ed essere stimato uomo: volle essere uomo soggetto, ubbidiente. Non c’è dubbio: il Figlio di Dio poteva farsi uomo, ma anche come uomo avrebbe potuto essere il Re della terra, stringere in pugno lo scettro di tutte le nazioni, circondarsi di tutte le grandezze e magnificenze del potere, della scienza e della gloria: avrebbe potuto fare in modo che i fulgori della sua divinità avvolgessero l’umile natura assunta a talché i popoli tutti si prostrassero riverenti dinanzi a Lui. Chi ne può dubitare? In quella vece Gesù Cristo non pure volle essere uomo e uomo soggetto a tutte le miserie comuni della natura del peccato e della ribellione delle passioni inferiori: ubbidiente a tutte le autorità domestiche e pubbliche, civili, politiche e religiose, ma ubbidiente fino alla morte, il supremo dei dolori e dei mali nell’ordine fisico. E basta? No. Gesù Cristo poteva discendere ancora: v’era ancora un gradino più basso, l’ultimo nella grande scala delle umiliazioni: e quale? La morte, e la morte di croce: “Usque ad mortem, mortem autem crucis”. Era un immenso abbassamento quello della Incarnazione, in cui Dio per poco scompariva, ma restava uomo: quest’uomo si abbassa e si impiccolisce anche nella natura sua assunta, mettendosi all’ultimo posto, rilegandosi volontariamente in una officina, soggetto a tutti: Et erat subditus illis. Ma restava pur sempre la vita d’un uomo quale che apparisse agli occhi del popolo. Anche questa vita naturale cessa col sacrificio della morte, sacrificio dell’obbedienza al volere del Padre: ma poteva rimanere ancora agli occhi degli uomini almeno un po’ di nome, un po’ d’onore, un estremo riverbero d’una vita immolata per obbedienza: ancor questa è totalmente annientata: Cristo muore, e muore in croce, sopra il patibolo destinato agli schiavi; vi muore come un ribelle alle autorità politiche e religiose del suo paese, come un nemico e ribelle a Dio stesso, di cui usurpa il nome e la dignità; vi muore abbandonato da tutti, sotto gli occhi d’una intera città, la capitale della patria sua, e proprio allora che colà si raccoglieva tutta la nazione e d’ogni parte della terra vi convenivano i credenti. Abbassamento, umiliazione, annientamento come quello di Gesù non è possibile a concepirsi: dal seno del Padre in quello della Vergine: dal seno della Vergine in una stalla, nell’esilio, in una officina, nelle angosce della morte e d’una morte vituperosissima: Exinanivit semetipsum semetipsum humiliavit factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. La vostra onnipotenza, o Gesù, ha toccato il fondo di tutti gli abbassamenti possibili. Ma è legge di provvidenza giustissima, che brilla dovunque, che chi volontariamente si abbassa sia sollevato in alto, chi si umilia sia esaltato. Che un ricco signore entri in un miserabile tugurio per soccorrere un poverello; il popolo lo applaude; che un monarca lasci la sua reggia, e passi di casa in casa, di ospedale in ospedale per visitare e confortare i percossi dal cholera, e le moltitudini si accalcheranno intorno a lui, acclamandolo e benedicendolo: quel signore, quel monarca si sono abbassati, e i popoli li innalzano e celebrano il loro nome. Cristo per salvare gli uomini, per ammaestrarli, consolarli e così glorificare il Padre suo, è disceso fino agli uomini infermi, fino a farsi uno di loro, patire e morire ignominiosamente per loro; gli uomini adunque dovevano glorificarlo, e lo fecero e lo fanno: lo doveva glorificare sovra tutto il Padre suo, e tanto quanta era la umiliazione volontaria, a cui si era sottomesso. E lo fece. Udite S. Paolo: “Per la qual cosa Dio sovranamente lo innalzò e gli diede un nome, che è sovra ogni altro nome. „ Per la qual cosa, che è quanto dire, in vista, in premio di tanto abbassamento del Figliuol suo fatto uomo, il Padre lo innalzò sovranamente, ossia gli diede una gloria altissima, che trascende ogni gloria e pareggia il suo abbassamento. E come lo innalzò? Come lo glorificò? ” Col dargli un Nome, che è sovra ogni altro nome. ,, Gli pose nome Gesù, che vale Dio-Salute, o Dio-Salvatore (Il nome di Gesù, secondo i glossologi, è composto di Jehova Shuah, nome proprio di Dio il primo; il secondo, di Dio fatto uomo e divenuto Salvatore del mondo), e rivela la sua dignità e il suo ufficio che a nessun altro, né uomo, né Angelo può competere. Questo nome pertanto, che a Gesù perfettamente conviene, annunzia tutta la sua grandezza e rivela tutta la sua gloria, che i secoli prima in terra, poi in cielo, confermeranno pienamente. Per indicare la grandezza e la gloria di Gesù e del nome, che ne esprime l’ufficio, S. Paolo prosegue: “Affinché nel nome di Gesù si curvi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri ed infernali. „ Ecco, o cari, il frutto dell’abbassamento volontario di Gesù Cristo al di sotto di tutte le creature: esse, tutte, senza eccezione, curvano il ginocchio, vale a dire si prostrano a lor modo e lo adorano: lo adorano gli Angeli del cielo, e lo riconoscono loro re: lo adorano i buoni sulla terra, e lo proclamano loro salvatore: lo adorano lor malgrado gli spiriti infernali ed i malvagi giù nell’abisso eterno, tremando sotto quella mano che li punisce. Questo trionfo di Cristo, che risponde alle inenarrabili sue umiliazioni, ora non è compiuto, ma iniziato: esso avrà il suo pieno compimento al termine dei secoli, quando ogni cosa sarà soggetta a Cristo; Cristo stesso, come uomo, sarà soggetto a Colui che gli ha sottoposta ogni cosa, acciocché Dio sia ogni cosa in tutto, giusta la espressione di S. Paolo (I Cor. XV, 28). Allora ogni lingua delle creature intelligenti del cielo, della terra e dell’inferno, volontariamente o forzatamente confesserà che Gesù Cristo è Signore per la gloria del Padre, in altri termini, siede alla destra del Padre, ha eguale la potenza, la maestà e la gloria col Padre, è Dio come il Padre. Evidentemente qui S. Paolo stabilisce, che la gloria immensa di Cristo è una mercede dovuta alle opere sue, alle sue umiliazioni, e necessariamente suppone che Gesù Cristo meriti una ricompensa. Ad alcuni parve strano che Gesù Cristo potesse meritare a se stesso una gloria, che gli è dovuta necessariamente, essendo egli Dio. Ma non vi è ombra di difficoltà, quando le cose si intendano a dovere. L’umanità di Gesù poté essa meritare l’onore ineffabile di essere congiunta in unità di persona al Figliuolo di Dio? La risposta non può essere dubbia: non meritò, né poté meritare tanto onore, perché questa umanità non poté esistere, e quindi non poté meritare cosa alcuna prima della sua unione: che se avesse anche potuto esistere prima dell’unione (il che sarebbe contro la fede), non avrebbero mai potuto meritare l’unione ipostatica, la quale è grazia, che supera al tutto qualunque merito di creata natura. Gesù Cristo poté Egli meritare la visione beatifica all’anima sua benedetta? No, perché questa visione beatifica l’anima di Gesù Cristo l’ebbe nell’istante istesso della sua unione ipostatica e precedette qualunque suo atto che avesse ragione di merito. Gesù Cristo pertanto con le sue umiliazioni, con i suoi dolori, con la sua morte meritò la redenzione e la grazia agli uomini ed anche agli Angeli, e meritò a se stesso non la gloria interna, sostanziale, dovuta a Lui come Figlio di Dio, ma la gloria esterna, accidentale, avventizia, che riceve e riceverà per tutti i secoli da tutte le creature, e di questa ragiona l’Apostolo nei versetti ora spiegati. E perché gli ammaestramenti di S. Paolo, racchiusi nel breve tratto che vi ho chiosato, rimangano impressi negli animi vostri, ve li riduco in poche parole. Vuole S. Paolo che abbiamo lo stesso sentimento che ebbe Gesù Cristo, il quale dalla somma altezza discese per amore, per il bene degli uomini all’ultima bassezza, Dio si fece uomo: vuole che crediamo, Lui essere Dio eguale al Padre, Lui essere uomo vero e perfetto e Lui essere nell’assunta natura unica persona, e questa divina. Vuole che impariamo che, alla umiliazione estrema, a cui Gesù Cristo si sottopose, risponderà la massima gloria, quale ricompensa a Lui dovuta.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus Ps. XXI:2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant: S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

Credo

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

Communio Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

SAN GABRIELE ARCANGELO

449

Deus, qui inter ceteros Angelos, ad annuntiandum incarnationis tuæ mystèrium, Gabrielem Archangelum elegisti; concede propitius, ut, qui festum eius celebramus in terris, ipsius patrocinium sentiamus in cœlis: qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen (ex Missali Rom.).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 25 apr. 1949).

SAN GABRIELE ARCANGELO

[G. Lardone: Fra gli astri della santità cattolica; S.E.I. Ed. Torino, 1928 –impr.]

Fra gli innumerevoli spiriti che formano la vasta gerarchia dei cieli, compongono la corte del gran Re e ne eseguiscono gli ordini in qualità di fedeli ministri, tre ve ne sono dei quali i libri santi ci hanno in modo esplicito rivelati i nomi: Michele, Raffaele e Gabriele. Le loro apparizioni ed i rapporti particolari che ebbero con gli uomini nel rivelare i decreti di Dio possono considerarsi come la causa di questa distinzione così onorevole per essi, e così preziosa per noi. Il pontefice San Gregorio nella sua trentaquattresima omelia sul Vangelo ci illustra il significato dei lor nomi; e, seguendo, con S. Girolamo, l’etimologia ebraica, assegna a Gabriele precisamente la significazione di Forza di Dio: Gabriel antera fortitudo Dei (S. GREG. , Op., Parigi, 1535, Voi. I , p. 1478). Il nome adunque è significativo ed eloquente; e, se la Chiesa ha voluto ricordarcelo con una speciale solennità si è perché da lui, Forza di Dio, che fu l’Arcangelo dell’Incarnazione in Cielo, nella Antica Legge e nel Nuovo Testamento, apprendiamo anche noi ad aderire sempre più a Gesù Cristo Redentore per portare con fortezza alle genti l’annunzio della Buona Novella.

1 . — IN CIELO.

Nella sua prescienza innata Iddio ha dall’eternità previsto la caduta dell’uomo dallo stato soprannaturale per causa della colpa di origine. Ma siccome in Lui non vi è successione né di tempo né di momenti, nella stessa previsione della prima e universale caduta, volle la Redenzione, cioè la riparazione dei danni del peccato, affinché l’uomo potesse di nuovo sollevarsi all’abbraccio del perdono d’Iddio e riascendere a quella felicità soprannaturale dalla quale era volontariamente decaduto. Decretò quindi l’Incarnazione cioè che il Verbo Eterno assumesse la umana carne con tutte le miserie ad eccezione del peccato, affinché abbassandosi Iddio fino all’uomo, potesse di nuovo l’uomo risollevarsi fino a Dio. Senonché fra quegli spiriti che Iddio aveva creato perché fossero come intravede Ezechiele il primo Angelo Signaculum similitudinis, plenus sapientia et perfectus decore in deliciis paradisi Rei (EZECH., XXVIII), uno ve ne fu, Lucifero, che desiderò, inordinatamente l’unione ipostatica per essere assunto all’ufficio altissimo di Redentore (SUAREZ, lib. VII, 13, De Angelis). « Ascenderò nel Cielo, egli disse, eleverò il mio trono sopra gli astri del firmamento… siederò sulla più vertiginosa altezza, ai lati dell’aquilone al disopra delle stesse nubi e sarò simile all’Altissimo » (ISAIA, XIV). Ma Iddio rigettò la natura angelica che aspirava all’unione con la divinità, e prescelse invece la natura umana per unirla, nell’unione personale, col Verbo, che doveva incarnarsi per la salute del mondo: Miniasti eum paulo minus ab Angelis (Salm., VIII). E chi prescelse Iddio dall’eternità, mentre volle la Redenzione e stabilì l’incarnazione del Verbo, per darne l’annunzio consolatore? L’arcangelo Gabriele, il quale, nel pensiero di Dio, divenne lo spirito più adatto per essere il messaggero di così alti misteri e per proclamare al cospetto dei cori angelici prima che alla terra che tutti avrebbero dovuto adorare il Figlio di Dio fatto uomo: Et adorent eum omnes Angeli eius (Hebr., I , 6). Maturata poi la rivolta di Lucifero, il quale, non volendo assoggettarsi ai decreti di Dio, pronunziò il suo: Non serviam (IER., II, 20), fu allora che, secondo la visione di San Giovanni: Factum est prœlium magnum in cœlo (Apoc, XII, 7) con l’arcangelo Michele, essendo conveniente che colui il quale voleva essere simile a Dio fosse sconfitto da quegli il cui nome significa appunto nell’interpretazione etimologica e gregoriana: quis ut Deus! Tale fu adunque il ministero dell’Arcangelo Gabriele in cielo: quello di essere l’angelo dell’Incarnazione onde proclamare l’onore che le potestà celesti dovevano al Figliuolo di Dio fatto uomo.

  1. — NELL’ANTICA LEGGE.

Però il suo carattere di nunzio dell’Incarnazione ha un più evidente risalto dalle narrazioni dell’Antica Legge che al mistero del Redentore si riferiscono e specialmente dalle visioni di Daniele. Trovandosi alla corte di Baldassarre, parve al profeta di venir trasportato a Susa e là intravide quanto sarebbe accaduto nelle monarchie e nei regni futuri. Descrisse quindi, secondo gli interpreti, le lotte di Alessandro con Dario, dei Greci con i Persiani: previde la potenza e la crudeltà di uno fra i successori di Alessandro che i commentatori credono Antioco Epifane (A LAPIDE, Vol. XIII, pag. 98, Ed. Parigi, 1866). Per interpretare questa visione così complicata e così confusa Iddio inviò al Profeta l’arcangelo Gabriele: Stetit in conspectu meo, dice il Veggente, quasi species viri (DAN., VIII, 15), il quale dopo avergli spiegata la visione secondo la storica successione degli imperi, fermandosi in modo particolare ad illustrare le persecuzioni che avrebbero dovuto soffrire gli Ebrei degeneri, conchiuse: Tu ergo visionem signa (ivi, 26) cioè conservala: perché allora nessuno avrebbe potuto comprenderla ma soltanto quattrocento anni dopo, cioè quando sarebbero stati maturi i tempi stabiliti dall’Eterno per l’avvento del Messia. – In una seconda visione, essendo il Profeta afflitto dal pensiero che il tempo della desolazione si approssimava per la città santa, rivolse a Dio, prosternato nella polvere, la celebre preghiera che noi leggiamo nel capo IX della sua profezia. Poi, narra il racconto profetico: « Mentre pregavo e confessavo i miei peccati e quelli del mio popolo Israele … ecco Gabriele, che avevo visto fin da principio in visione, il quale, appressandosi nel volo a me, mi raggiunse durante il sacrificio serotino … e mi disse: Daniele, io sono venuto affine di insegnarti e farti comprendere… tu dunque medita la parola e comprendi la visione… ». E l’Arcangelo Gabriele allora gli rivelò il Messia, l’epoca in cui sarebbe venuto al mondo, la sua morte, la riprovazione del popolo giudaico e l’alleanza che Iddio avrebbe stretto con nuovi popoli più fedeli alla sua legge santa. Tale rivelazione è contenuta nella profezia detta delle settanta settimane (DAN., IX, 20-27): « Sono state fissate settanta settimane per il popolo tuo e per la tua città santa, affinché la prevaricazione sia tolta… e sia cancellata l’iniquità… Sappi adunque… da quando uscirà l’editto per la riedificazione di Gerusalemme fino al Cristo principe vi saranno sette settimane e sessanta due settimane… E dopo sessanta due settimane il Cristo sarà ucciso e non sarà più suo il popolo che lo rinnegherà… E la città e il Santuario sarà distrutto da un popolo con un condottiero che verrà… E alla metà della settimana verranno meno le ostie ed i sacrifici e sarà nel tempio l’abbominazione della desolazione… ». Da questo annunzio profetico è adunque chiaro che la missione dell’arcangelo Gabriele ebbe per oggetto l’Incarnazione di Gesù e la Redenzione del genere umano. – Il suo carattere di fortezza poi l’Arcangelo nostro lo conserva ancora in numerose altre apparizioni tramandateci dalle sacre carte. Nota, ad es., quella del capo X di Daniele, dell’anno terzo di Ciro, re dei Persiani, allorché al Profeta, macero dai digiuni e dalle penitenze, apparve l’Arcangelo «vestito di abiti di lino con i fianchi ricinti di fusciacca di fino oro: e il suo corpo era come il brisolito e la sua faccia aveva la somiglianza di folgore, e gli occhi di lui come lampada ardente, e le braccia e le parti all’ingiù fino ai piedi erano simili ad un bronzo rovente: e il suono di sue parole come il mormorio di una gran turba» (DAN., X, 5-6, Trad. Martini). Cornelio A Lapide commenta che fu conveniente questa apparizione nuova ed in forma così maestosa da parte dell’Arcangelo, perché veniva ad annunziare al Profeta le vittorie dei Maccabei, e per conseguenza, la gloria e la maestà che ne proveniva al popolo di Dio. Tanto più che le lotte e le vittorie annunziate erano tipo e figura delle lotte e dei trionfi che i cristiani avrebbero col tempo dovuto sostenere contro gli idolatri e contro gli infedeli che avrebbero perseguitato nella Chiesa il regno spirituale del Salvatore.

  1. — NEL NUOVO TESTAMENTO.

Ma dove più spicca per il nostro il carattere di Angelo dell’Incarnazione si è nel Nuovo Testamento, poiché appunto nel Nuovo Testamento si narra come l’Arcangelo Gabriele …

…Venne in terra col decreto

della molt’anni lacrimata pace

ch’aperse il ciel dal suo lungo divieto.

(Purg., X).

Si approssimava il tempo nel quale Colui che è la forza e la sapienza di Dio doveva venire nel mondo. Le settimane profetate da Daniele erano oramai compiute: il Santo dei Santi doveva ricevere l’unzione divina che lo costituiva sacerdote eterno nel tempo stesso in cui doveva diventare la grande vittima offerta per la salute del mondo; doveva, in una parola, compiersi il mistero dell’Incarnazione. Orbene sei mesi innanzi l’Annunziazione della Vergine un grande avvenimento accadde al tempio di Gerusalemme: l’Arcangelo Gabriele vi discese dal cielo per annunziare l’inizio della gioia che la nascita del Redentore doveva portare a compimento. C’era, dice San Luca, un sacerdote per nome Zaccaria della classe di Abia: sua moglie, delle figlie di Aronne, si chiamava Elisabetta. Erano tutte e due giusti al cospetto di Dio, camminando irreprensibili nei precetti e decreti del Signore. Posta una così perfetta ubbidienza a Dio, una edificazione così grande per il prossimo, non è a stupire che i coniugi santi abbiano attirato su di sé e sulla loro famiglia gli sguardi e la benedizione del Signore, non è a stupire che siano stati eletti a portare al mondo il Precursore del Verbo. E fu l’arcangelo Gabriele che venne loro inviato, nunzio della lieta novella. Egli comparve alla destra dell’altare dell’incenso, mentre Zaccaria offriva il sacrificio, e, visto lo sbigottimento del sacerdote, gli disse: « Non temere, Zaccaria, perché è stata esaudita la tua preghiera, tua moglie Elisabetta ti partorirà un figlio, a cui metterai nome Giovanni, e sarà a te di allegrezza e di giubilo, e molti si rallegreranno per la sua nascita, ecc. ». Siccome poi Zaccaria recava in campo l’età avanzata sua e di Elisabetta, l’Arcangelo soggiunse: « Io sono Gabriele che sto in presenza di Dio e sono stato mandato a parlarti e recarti questa buona notizia » (LUCA, I, 5-19). I più importanti prodigi stavano per avverarsi ed era ben conveniente che quel Dio il quale Fecit potentiam in brachio suo (LUCA I, 51), inviasse colui che era più spiccatamente la rivelazione della sua forza per portarne l’annunzio al Giusto prescelto pure a grandi cose. Però dove l’Arcangelo fu propriamente Nunzio di grandi cose si fu nell’annunziazione della Vergine benedetta: allorché fu mandato « ad una città di Galilea di nome Nazaret, ad una Vergine che aveva per sposo un uomo della stirpe di Davide per nome Giuseppe e la Vergine si chiamava Maria » (LUCA, I, 26). È qui il più bel trionfo di Gabriele perché la gloria che gli venne nella sua qualità di ambasciatore dell’Altissimo fu immensa. « Non bisogna credere, esclama San Bernardo, che egli sia uno di quegli Angeli che Iddio invia frequentemente sulla terra e per una causa ordinaria. Egli deve custodire un segreto che nessuno degli Angeli deve conoscere prima della Vergine: eppure Iddio a lui lo confida perché dev’essere di una perfetta eccellenza per venir ritenuto degno e del nome che porta e della missione che gli viene confidata. Fu lui il primo che ha pronunziato il saluto che si ripete oramai da due mila anni nel mondo intero e che dovette pure essere adottato in cielo dai cori angelici per onorar la loro regina. « Salve, o piena di grazia, il Signore è con te! ». Fu lui che rassicurò la Vergine turbata all’annunzio del tremendo mistero: « Non temere, o Maria, hai trovato grazia davanti a Dio ». Fu lui che alla Vergine diede chiara, esplicita, formale la rivelazione dell’incarnazione del Verbo: « Concepirai nel seno e partorirai un figlio ». Fu lui che pronunziò per primo il nome adorabile del Figlio di Dio fatto uomo: « Cui porrai nome Gesù» (LUCA, I, 26-32). F u lui infine che venne fatto degno di ricevere il consenso di Maria per portarlo al trono dell’Eterno. – Potevano dunque darsi rapporti più stretti tra l’Arcangelo nostro ed il mistero della nostra salute? Inoltre questi rapporti furono confermati da altre apparizioni, le quali nell’ora della Redenzione, vengono attribuite all’Arcangelo della fortezza. San Cipriano ed altri scrittori pii opinano che lo stesso San Gabriele sia apparso ai pastori nella notte della natività di Gesù per convocarli alla culla del Messia. Altri dottori pensano che lo stesso Arcangelo sia disceso all’Orto degli Ulivi per confortare il Salvatore nella spasimante agonia del sudore di sangue (SUAEEZ, I part., tom. II, disp. 244, n. 3; e LUDOVICO DA PONTE, Med. de agon. Christi in Orto). Alcuni infine opinano che Gabriele Arcangelo sia stato deputato alla custodia del Sepolcro di Cristo e che a luì sia stato concesso l’onore di dare per il primo l’annunzio della Risurrezione del Salvatore. Orbene, questi molteplici rapporti, così augusti, così intimi, così misteriosi col mistero del Verbo Incarnato mentre ci donano la più alta idea di questo spirito immortale che sta davanti al trono del Signore ci devono ispirare la più viva confidenza nella sua valida protezione e ci devono spronare a celebrarne la festa con venerante pietà. – Creato arcangelo dell’Incarnazione per la sua fortezza, egli fu l’annunziatore di Gesù. Preghiamolo adunque affinché apporti anche a noi la buona novella del Cristo, ci comunichi in abbondanza i lumi supremi sui misteri adorabili della di lui persona e ci insegni ad amarlo ed a servirlo con una fedeltà inviolabile. Egli fu il visitatore di Maria. Chi mai, dopo Gesù, ha visto Maria più da vicino? Chi è meglio penetrato nei sublimi segreti della di Lei anima? Chi ha potuto avere una più giusta ammirazione per la purezza perfetta, per l’umiltà profonda, per l’ubbidienza ammirevole della Vergine Santa? Egli fu certo il primo devoto di Maria. Preghiamolo quindi affinché ci conduca alla Vergine e ci renda meritevoli di stringere con Lei quei legami di venerazione che hanno caratterizzato la sua visita all’umile dimora nazarena. – In un’antica effigie scoperta a Palermo nel 1516 (A LAPIDE, Vol. 21, pag. 21-2) il nostro Arcangelo è rappresentato mentre tiene nella destra una face e nella sinistra uno specchio di diaspro verde chiazzato di macchie rosse. Possano i suoi simboli segnare la nostra via. Agitiamo anche noi la face che segnali a tutti la nostra fede in Gesù: sia la nostra vita come uno specchio fedele delle virtù mariane: e noi, come l’Arcangelo, annunzieremo Gesù e saremo realmente uniti a Maria. Imploriamo quindi da San Gabriele che ci impetri la grazia di essere forti e costanti nell’attaccamento a Gesù ed a Maria; che ci ottenga l’onore di pronunziare sempre, come egli li ha pronunziati, questi nomi sacri, in modo degno del Figlio e della Madre, affinché un giorno siamo ancora noi glorificati per la vista di Gesù e di Maria.

 

 

PECCATO VENIALE

PECCATO VENIALE.

[G. Dalla Vecchia: Albe primaverili; G. Galla ed. Vicenza, 1911]

Et ecce leprosus veniens, adorabat eum dicens:

Domine, si vis, potes me mundare.

Ed ecco un lebbroso, accostatosi a lui, lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mandarmi.

(Matt. XVIII, 2.)

ESORDIO. — Un lebbroso si avvicina a Gesù, si prostra, lo adora, lo prega : Signore, se vuoi, puoi guarirmi. E Gesù: Voglio; già sei guarito… E da quel povero corpo emaciato la lebbra scomparve… Notate : Il lebbroso viveva, ma il suo male lo avrebbe

stremato, corroso fino a morirne… Il lebbroso riconosce la potenza divina di Gesù: Se vuoi, puoi mondarmi, si affida alla sua bontà…

— L’anima, che volontariamente e con frequenza commette il peccato veniale, è una povera lebbrosa. Il peccato veniale, vera lebbra spirituale, le snerva le forze, le corrode ogni energia per il bene, per resistere alle tentazioni; e lentamente la conduce alla morte col peccato grave… — E intanto essa crede in Gesù, frequenta i sacramenti…; ma, se non si emenda, la sua vita si affievolisce…, si spegne.

— Povera infelice! gettati ai piedi di Gesù, lo prega: Domine, si vis, potes me mundare. — Ed oggi da questa croce Gesù ti risponde: Lo voglio. — Signore, tu lo vuoi? Aiutami dunque a meditare bene che cosa sia il peccato veniale contro di te, contro l’anima mia… Ed io pure ti dirò: Signore, con la tua santa grazia, anch’io voglio guarire da questa lebbra così schifosa e di tanto danno al mio progresso spirituale.

PARTE PRIMA

Il peccato veniale è una piccola disobbedienza alla legge di Dio; si dice veniale, perché non dà morte all’anima e viene perdonato con più facilità. — Però, sebbene veniale, non è cosa piccola, né riguardo a Dio, né pei danni che apporta all’anima. — Infatti: 1° – Che cosa fa il peccato veniale contro Dio?

— L’offende. — Offende un’infinita Maestà, il nostro Benefattore, il nostro unico e sommo Bene. — Non gli volti le spalle, come col peccato mortale, ma gli rechi dispiacere. Innalzi fra te e Dio un velo denso, che impedisce ai raggi della sua grazia e del suo amore di giungere fino a te. — Non attenti alla sua vita; ma però lo flagelli, lo cingi di spine… E non ti pare orribile?

— Prendi una bilancia: da una parte poni tutti i dolori di questa vita, vi aggiungi anche 1’inferno, in quanto è pena; dall’altra vi metti una sola bugia ufficiosa… Pesa più quel peccato veniale; mentre l’inferno è pena, la bugia è colpa; ed ha più ragione di male la colpa, che la pena (S. Tommaso). — Tutti i dolori della Vergine e dei Santi non possono cancellare una sola colpa veniale…; e Gesù è morto anche per i peccati veniali. Offende Dio: se un’anima ama il Signore, eviterà certo il peccato veniale, che gli dà tanto dispiacere.

2° – Che cosa fa Dio contro il peccato veniale?

— Lo odia. — La colpa, anche più piccola, ripugna essenzialmente alla divina natura. — Egli, la stessa purezza, non può tollerare la minima macchia.

— Lo castiga. — Maria, sorella di Mosè, mormora contro il fratello… ; per tre giorni è coperta di lebbra.

— Sara, moglie di Lot, per una curiosità, diventa una statua di sale. — Un atto d’impazienza… ; batte due volte la rupe, da cui zampilla l’acqua, e Mosè non può entrare nella terra promessa. — I Betsamiti (50.000) guardano l’Arca con poco rispetto… ; e sono colpiti di morte.

— S. Gerardo fisa un po’ troppo un oggetto pericoloso, e tosto diventa cieco. — S. Francesca romana sta un po’ di tempo oziosa, e riceve dall’Angelo uno schiaffo solenne…

E, se per i peccati mortali vi è 1’inferno, per i veniali vi è il Purgatorio. Anche nel purgatorio, e fuoco, ed atroci dolori, e privazione della vista di Dio… Vi si deve soddisfare la divina giustizia fino all’ultimo centesimo.

Il Kempis scrive: « Un’ora di purgatorio sarà più dolorosa, che cento anni di grave penitenza qui sulla terra. »

— E l’Angelico: « Signore, se il fuoco, che ci avete dato in questo mondo per vostra misericordia, è così terribile, che cosa sarà quello del purgatorio, acceso dalla vostra giustizia per l’espiazione della colpa? ».

— E dirai cosa piccola il peccato veniale? — Ma i Santi erano risoluti a qualunque sacrificio piuttosto, che commettere una piccola colpa… E tu?

3° – Che cosa fa il peccato veniale contro l’anima?

L’anima innocente è tutta bella, e Dio l’onora di sua amicizia. Quam pulcra es, amica mea!… Surge, propera, amica mea, et veni (Cantico). — È l’amica, la figlia, la sposa di Dio… — Ora il peccato veniale allenta questa preziosa amicizia, rompe l’intimità fra l’anima ed il suo Signore. Infatti; l’amicizia consiste:

(a) Nell’unione dei cuori. (Eadem velle, eadem nolle).

— Col peccato veniale, con quella critica, con quella vanità, tu fai il contrario di quello che vuole il Signore.

— Tu offuschi il candido velo dell’innocenza; Dio non trova più in te le sue compiacenze e cerca altre anime più generose… Ecco rotta 1′ intimità, l’amicizia…

(b) Nella comunicazione dei beni. — Dio è diffusivo di sua natura, Deus charitas est. Ti ricolma di favori, di attenzioni. — Tu, con le piccole colpe, gli ricusi i leggeri sacrifici, che Egli ti chiede… Uno sguardo…, una curiosità…, un affetto… ; e tu gli neghi cose sì piccole!

— Disgustato se ne lamenta coi suoi eletti… ; a poco per volta, ritira le sue grazie…, non ti onora più dei suoi favori… ; le ispirazioni, gl’impulsi segreti, le sue visite di amore si fanno sempre più rare… Incìviam te evomere ex ore meo (Apoc. III, v. 10). L’amicizia non è più.

(c) Nell’esercizio di amore. — Tu cerchi sempre le occasioni di mostrare all’amico l’affetto che nutrì per Lui.

— Dio ti ama davvero; è sempre pronto ad accorrere alle tue chiamate…, sollecito ti presta aiuto, conforto… — Tu invece, a parole, tante proteste di amore; ma poi vieni meno alle promesse più sante. Tu sei quindi tiepido, infedele, ingrato verso il tuo Amico divino. Ed Egli si asconde, ti rigetta, ti abbandona… Maledictus…, qui facit opus Dei fraudolenter (Ieremia XLVIII, 10).

Maledetto chi fa l’opera di Dio con negligenza. — Quindi non sei più il suo amico… E potrai tenerti tranquillo? E non ti risuona terribile la sentenza di G. C.: Chi non è con me, è già contro di me? Ma l’amicizia si mostra specialmente – (d) – nella stabilità dell’affetto; essa deve durare anche oltre la tomba. — Dio ti ha sempre amato, e sempre ti amerà, se a Lui fedele. Cantate perpetua dilexi te, et ideo attraxi te, miserans. (Geremia XXXI. 3). — Un dì sarà il tuo premio per i secoli eterni… Ma tu gli ricusi le piccole cose, quindi non lo ami; esponi debole il fianco al demonio…, che a tempo opportuno darà un assalto più fiero…, e cadrai nella colpa mortale. — In pigriiiis humiliabitur contignatio. (Eccli. IX, 18).

; Giuda, prima avaro, poi traditore, sacrilego, muore impiccato. — Pietro, prima presuntuoso, poi negligente…, rinnega il divino Maestro… Questa è la storia di tutti i malvagi… Qui spernit modica, paullatim decidet (Eccli. XIX, 1).

4° – Dunque: che cosa deve fare l’anima contro il peccato veniale?

(a) Temerlo…, evitarlo, a qualunque costo… ; ed appunto, perché si tratta di cose piccole, vi sarà più diligente…

In omnibus operibus tuis præcellens esto. (Eccli. XXXIII., v. 23).

(b) Si fortificherà, per combatterlo, colle pratiche di pietà, con le giaculatorie, coll’esame della sera; con una tenerissima devozione a Gesù in Sacramento…

(c) Confesserà con esattezza e pentimento tutte le colpe anche più piccole; e riceverà la forza per non ricadervi… Qui timet Deum, nihil negligit (Eccles. VII, 19).

(d) Userà diligenza nell’acquistare le sante indulgenze …; nel compiere qualche piccola mortificazione… ; nell’adempimento dei propri doveri, per fare sulla terra un po’ di penitenza dei peccati veniali commessi, e diminuire così il tempo del Purgatorio… Ne verearìs usque ad mortem iustificari. (Eccli. XVIII, 22).

CONCLUSIONE. — Guerra dunque al peccato veniale, che disgusta il Signore, e lo costringe a punirlo con tanto rigore. — Guerra al peccato veniale che allenta e distrugge la nostra amicizia con Dio; unico vero amico, ultimo fine della nostra esistenza… Fortis est ut mors dilectio (Cantic. VIII, 6). E quindi, ai piedi del Crocefisso, preghiamolo a volere mondare questa povera anima nostra dalla lebbra pericolosa delle colpe leggere: Domine, si vis, potes me mundare… Scongiuriamolo a non ritirarsi da noi; di creare anzi in noi un cuor nuovo, puro, umile, ardente di amore… Ne vroicias me a facie tua… Cor mundum crea in me Deus (Salmo L). E deponiamo ai suoi piedi la ferma promessa di volere anche morire, piuttosto che tornare a commettere un solo peccato veniale.