L’ESAME DI COSCIENZA PER UNA BUONA CONFESSIONE

L’ESAME DI COSCIENZA PER UNA BUONA CONFESSIONE.

PECCATI CONTRO I DIECI COMANDAMENTI

APeccati contro il primo Comandamento
(1. Io sono il Signore tuo Dio: non avrai altri dèi all’infuori di me.)

-1) Hai dubitato in materia di fede? –O–

-2) Hai consultato maghi o indovini? –O–

-3) –O– Credi nei sogni? –O–

-4) Hai fatto uso di pratiche di superstizione? –O–

-5) Sei andato ai luoghi di falso culto e preso attivamente parte ai servizi religiosi di una falsa chiesa? [protestanti, ortodossi, novus ordo, lefebvriani, sedevacantisti, eretici vari, etc.] –O–

-6) Hai aderito alla massoneria, al comunismo,  ad altre società proibite,  o a partiti anticristiani? –O–

-7) Leggi libri o giornali anti-cattolici? –O–

-8) Hai trascurato l’istruzione religiosa? –O–

-9) Hai omesso i doveri religiosi per paura o per rispetto umano, o per non sembrare ridicolo? –O–

-10) Hai mormorato contro Dio, o la sua grazia? –O–

-11) Hai avventatamente presunto della sua bontà nel commettere peccati? –O–

-12) Hai pregato nel momento della tentazione? –O–

-13) Hai pregato per la tua famiglia? Hai trascurato con i familiari la preghiera quotidiana? –O–

-14) Hai recitato le preghiere distrattamente, con noncuranza, senza devozione, in modo sconsiderato, o  con la mente ad altro? –O–

-15) Hai impiegato una quantità ragionevole di tempo nel  ringraziamento dopo la Comunione? –O–

-16) Ti sei rivolto in modo irriverente verso Dio, persone,  luoghi o cose sacre? –O–

-17) Ti sei associato a persone che possono avere una cattiva influenza sulla tua vita?–O–

-18) Hai rifiutato di mettere segni di fede in casa, come crocifissi, immagini della Madonna o dei Santi? –O–


B” Peccati contro il secondo comandamento

(2. Non nominerai invano il nome del Signore tuo Dio.)

-1) Hai nominato il nome di Dio invano? –O–

-2) Hai deriso  il Nome di Dio con l’uso profano o irriverente nei discorsi con altri? –O–

-3) Hai dato cattivo esempio ai figli con tali discorsi in loro  presenza, o trascurato di correggerli quando hanno  utilizzato un linguaggio irriverente o profano? –O–

-4) Hai parlato con rispetto dei Santi o delle cose sante? –O–

-5) Hai tollerato che altri in famiglia lo facessero? –O–

-6) Hai giurato falsamente, chiamando cioè Dio a testimoniare la verità in quello che stavi dicendo, mentre in realtà stavi mentendo? –O–

-7) Hai giurato avventatamente, anche per materia leggera e banale? –O–

-8) Hai maledetto persone, animali o cose? –O–

-9) Hai bestemmiato, utilizzando un linguaggio insolente, disprezzando Dio, i suoi Santi o le cose sacre? –O–

-10) Hai indotto altri a farlo? –O–

-11) Hai criticato la misericordia o la giustizia di Dio, o diffidato della sua Provvidenza? –O–

C Peccati contro il terzo comandamento
(3. ricordati di santificare il giorno del Signore.)

-1) Di Domenica  e nei giorni comandati festivi dalla Chiesa, hai assistito, potendo, alla santa Messa?–O–

-2) Sei arrivato  tardi alla Messa? Ti sei comportato correttamente in chiesa? –O–

-3) Hai eseguito o comandato lavoro servile inutile, comprato o venduto senza necessità o impellenza? –O–

-4) Ti sei dato al  gioco d’azzardo, al bere, ai bagordi, ai piaceri e spettacoli illeciti, allo sport, profanando i giorni Santi? –O–

D Peccati contro il quarto comandamento
(4. Onora tuo padre e tua madre.)

-1) Hai dato il dovuto onore, amore, gratitudine ed obbedienza ai tuoi genitori? –O–

-2) Hai dimostrato onore ed obbedienza ai tuoi pastori e agli altri legittimi superiori? –O–

-3) Hai chiesto perdono per aver fatto loro del male? –O–

-4) Sei stato irrispettoso verso i tuoi genitori parlando loro con rabbia, rivolgendoti in modo scortese e con parole dure sul loro conto, o ti sei vergognato di loro? –O–

Se sei un genitore,

-5) Hai dimostrato mancanza di onore, amore e gratitudine verso i tuoi genitori alla presenza dei tuoi figli? –O–

-6) Li hai criticati respingendo i loro ordini? –O–

-7) Hai corretto e punito i tuoi figli per gravi trasgressioni, o proibito loro di esporsi a gravi occasioni di peccato? –O–

-8) Hai collaborato con gli insegnanti all’educazione dei tuoi figli? –O–

-9) Hai rifiutato di mandare i tuoi figli alla scuola cattolica quando avresti potuto farlo, od omesso senza permesso del Vescovo o del  parroco? –O–

-10) Se non esiste una scuola cattolica a te vicina, hai mandato almeno i figli al Catechismo fedelmente? –O–

-11) Hai partecipato con interesse alle loro lezioni di Catechismo? Hai collaborato col parroco o le suore nei loro progetti per stimolare la fede? –O–

-12) Hai addestrato e corretto i tuoi figli nella castità? –O–

-13) Sei stato irrispettoso verso le persone anziane? –O–

-14) Hai avuto adeguata cura per i figli e per i tuoi dipendenti sia in materia profana che religiosa, soprattutto dando loro un buon esempio? –O–

Se sei un figlio:

-15) Hai rifiutato di parlare con tuo padre e tua madre? –O–

-16) Provi risentimento verso di loro? –O–

-17) Hai obbedito ai genitori quando ti hanno ordinato di evitare cattive compagnie od occasioni di peccato? –O–

-18) Hai obbedito alle regole date per quanto riguarda persone da portare in casa, il trascorrere le ore notturne, il comportamento da tenere in casa? –O–

-19) Nel guadagnare denaro, quando vivevi a casa o quando eri ancora soggetto ai tuoi genitori, hai rifiutato di dare loro parte dei tuoi guadagni quando ne hanno avuto bisogno o ne hanno fatto richiesta? –O–

-20) Come cittadino, hai obbedito alle leggi della città e  del tuo Paese per la sicurezza ed il benessere di tutti? –O–

EPeccati contro il quinto comandamento
(5. : non uccidere.)

Il quinto comandamento proibisce: l’omicidio, il suicidio, la negligenza criminale che potrebbe causare gravi lesioni o morte di una persona, la forte rabbia e l’odio, l’aborto, l’eutanasia, l’uso di droghe, la sterilizzazione, l’ubriachezza, l’induzione a commettere un peccato mortale, il combattimento e il duello, la vendetta.

-1) Hai procurato, desiderato o  affrettato la morte di qualcuno? –O–

-2) Sei stato colpevole di rabbia, odio, litigi, vendetta? –O–

-3) Hai usato la lingua provocando, insultando o gettando nel ridicolo? –O–

-4) Ti sei rifiutato di parlare con altri? –O–

-5) Hai causato inimicizie? –O–

-6) Hai dato scandalo? –O–

-7) Hai mangiato o bevuto troppo? –O–

-8) Sei stato scortese, irritabile, impaziente? –O–

-9) Hai provocato in altri rabbia offendendoli, o fatto loro del male per ira o impazienza? –O–

-10) Hai avuto pensieri di gelosia, di vendetta, di avversione, di risentimento o di disprezzo verso gli altri? –O–

-11) Hai intrattenuto rapporti di compagnia con chi beve in eccesso? Li hai incoraggiati a bere? –O–

-12) Hai favorito la loro ubriachezza? –O–

-13) Hai trascurato la salute, messo in pericolo  la vita? –O–

-14) Hai trascurato di prenderti cura della salute dei tuoi figli o di coloro a te soggetti? –O–

-15) Hai messo in pericolo la vita di altri guidando  un’auto in stato di ebbrezza o tossicosi, con grave pericolo per la sicurezza, o in qualsiasi altro modo? –O–

FPeccati contro i sesto e il nono comandamento
(6. non commettere adulterio.)
(9. non desiderare la moglie del tuo prossimo.)

Questi due comandamenti richiedono purezza e modestia nella nostra vita: nei nostri pensieri, parole ed azioni, da soli o con gli altri. – In generale, questi comandamenti vietano: l’adulterio, la fornicazione, l’auto-abuso, le trasparenze indecenti, lo sbaciucchiare, i baci impuri, le danze e i balli provocanti, le espressioni volgari e sporche, i peccati contro natura, il controllo delle nascite, i tocchi sconvenienti, il petting, il guardare immagini impure, danze, spettacoli lascivi, film, la lettura di libri o riviste impuri.

-1) Hai avuto pensieri sconvenienti, impuri o immodesti, usate parole o fatte azioni impure da solo o con altri? –O–

-2) Hai usato parole o frasi a doppio senso? Hai raccontato storie sporche o provocanti? –O–

-3) Hai incoraggiato altri a farlo? Hai insegnato agli altri a farlo? –O–

-4) Hai evitato occasioni di peccato in questa materia? –O–

-5) Hai custodito la tua vista, o hai permesso agli occhi di vagare con curiosità su oggetti pericolosi? –O–

-6) Ti sei messo nell’occasione di peccare con la lettura di libri cattivi, con la visione di immagini indecenti, con cattive compagnie, assistendo a spettacoli immorali, guardando film, programmi televisivi o siti internet indecenti,  cantando canzoni oscene? –O–

-7) Hai distribuito riviste o libri osceni? Hai informato gli altri su dove e come fare a procurarseli? –O–

-8)Hai incoraggiato altri a leggerli? –O–

-9) Hai avuto desiderio di fare cose impure?  –O–

-10)Sei stato occasione di peccato per gli altri, con conversazioni, abbigliamento, aspetto o azioni provocanti? –O–

-11) Ti sei toccato  commettendo impurità? –O–

Se sposati:

-12) hai commesso peccato di impurità con persona sposata o single? –O–

-13) Ti sei dato ad effusioni prolungate, baci ed  abbracci con persona diversa dal tuo coniuge? –O–

-14) Hai usato mezzi contraccettivi nello svolgimento delle funzioni matrimoniali? –O–

-15) Hai rifiutato od omesso, senza motivi sufficienti, di assoggettarti al debito coniugale quando richiesto per fini leciti? –O–

GPeccati contro i comandamenti settimo e decimo
(7. non rubare.) – (10. non desiderare la roba d’altri.)

.-1) Questi comandamenti vietano: la rapina e il furto con scasso, il lucro da corruzione, tangenti, il furto con danno della proprietà altrui. –O–

Questi comandamenti non riguardano solo il rubare ma ogni tipo di comportamento disonesto, ad esempio il tradimento, l’ingiusto trattenere ciò che appartiene agli altri, il danno alla proprietà altrui, la frode da parte di funzionari pubblici. – Questi comandamenti sono violati anche da:

-2) i commercianti che usano falsi pesi e misure, –O–

-3) che fanno profitti esorbitanti o mentono circa le qualità essenziali dei loro prodotti; –O–

-4) da coloro che ottengono danaro, convincendo ad investimenti perdenti, con la garanzia di guadagno; –O–

-5) da coloro che consapevolmente spacciano denaro falso, o traggono vantaggio indebito dall’ignoranza o dalle necessità di un altro; –O–

-6) dai datori di lavoro che derubano i lavoratori; –O–

-7) dai dipendenti perditempo nelle ore lavorative, …–O–

-8) … o che eseguono il lavoro negligentemente –O–

-9) … o trascurano curar la proprietà dei datori di lavoro; –O–

-10) dai proprietari che applicano prezzi esorbitanti; –O–

-11) da chi non restituisce i prestiti; –O–

-12) da coloro che emettono assegni o carte false; –O–

-13) da chi non restituisce quanto trovato; –O–

-14) da chi vende articoli difettati al prezzo usuale; –O–

-15) da chi non paga le bollette o le tasse dovute; –O–

-16) da chi priva una famiglia delle sue necessità con gioco d’azzardo, alcool, droga o shopping inutile. –O–

-17) Hai rubato o conservato beni illeciti? –O–

-18) Hai danneggiato o perso cose di proprietà altrui? –O–

-19) Hai accettato tangenti, regali, mazzette? –O–

-20) Hai trascurato di effettuare la restituzione di beni indebitamente acquisiti, o di aiutare i poveri? –O–

-21) Hai desiderato i beni degli altri? –O–

– 22) Hai sperperato i tuoi  beni? –O–

-23) Come genitore, hai insegnato ai tuoi figli un rigoroso senso dell’onestà e della giustizia, punendo eventuali furti lievi o gli inganni? –O–

-24) Hai peccato secondo le suddette modalità? –O–

HPeccati contro l’ottavo comandamento
(8. non darai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.)

Questo comandamento proibisce: bugie, calunnie, maldicenza, falsa testimonianza; critiche ingiuste, inutili ed eccessive; pettegolezzi, calunnie, insulti, giudizi temerari, narrazione di segreti che si è tenuti a conservare, imbrogli, tradimenti, notizie maliziose.

-1) Hai reso falsa testimonianza per o contro qualcuno? –O–

-2) Ti sei reso colpevole di qualche calunnia, adulazione, ipocrisia, menzogna, giudizio temerario? –O–
-3) Hai avuto cattivi pensieri su altri? –O–

-4) Hai alimentato sospetti, coltivato risentimenti –O–

-5) hai rifiutato di perdonare agli altri quando hanno chiesto scusa? –O–

-6) Hai riferito maldicenze dette su di te? –O–

-7) Hai riportato le colpe dei tuoi genitori, di tua moglie, o marito, dei figli, ad altri che non hanno a che fare nulla con di loro? –O–

-8) Ti sei comportato in casa in modo infastidito, con lamentele,  spropositi, ignominie, meschinità e litigi? –O–
-9) Hai provocato danni al tuo prossimo, senza provare poi a riparare quanto è successo? –O–

-10) Hai cercato di distruggere il buon lavoro svolto da un altro, o ad ostacolarlo e comprometterlo? –O–

-11) Sei stato sensibile, compassionevole, senza cattivi pensieri, o malizia con gli altri? –O–

IPECCATI CONTRO I PRECETTI DELLA CHIESA

I. Hai rispettato le domeniche ed i dì festivi come comandato dalla Chiesa? –O–

II.
Hai praticato il digiuno? Hai mangiato carne nei giorni proibiti? –O–

Hai incoraggiato altri a violare i precetti della Chiesa? –O–

Hai dato scandalo mancando di obbedire alla Chiesa in quest0? –O–

III. Sei andato a confessarti almeno una volta all’anno? –O–

Hai ricevuto la Santa comunione durante il tempo Pasquale? –O–

IV. Sei membro di società proibite? … un comunista, un socialista, un massone? –O–

V. Hai contribuito al sostegno della Chiesa, della scuola cattolica, del pastore e parroco? Hai impedito gli altri da tale adempimento? Hai fomentato ribellione contro l’autorità Chiesa?

Hai dato il cattivo esempio ai figli rifiutando di sostenere la Chiesa?

Hai provato ad insegnare ai figli a dare la loro offerta per il sostegno della Chiesa?

Hai ridicolizzato coloro che fanno la loro parte ed offrono spesse volte di più della loro quota a sostegno della Chiesa? –O–

VI. Ti sei sposato violando le leggi della Chiesa cattolica, –O–

… o aiutato altri a farlo? –O–

Sei in compagnie [associazioni, partiti, etc.] che potrebbero un giorno rivelarsi pericolose per te ed indurti ad una violazione di questo precetto della Chiesa? Incoraggi altri a intrattenere tali compagnie? –O–

OBBLIGHI DI UNO STATO IN VITA

Doveri dei figli

Hai disobbedito ai tuoi genitori? Sei  stato causa della loro rabbia? –O–

Hai causato loro dolore? –O–

Hai usato un linguaggio offensivo nei loro confronti? –O–

Hai conservato o sprecato il tuo salario che doveva servire per il loro sostegno? –O–

Hai incitato i tuoi fratelli e sorelle o altri contro di loro? –O–

Hai trascurato di confortarli o prestare loro aiuto? –O–

Li hai trascurati nella malattia e nella morte? –O–

Doveri dei mariti

Hai afflitto o abusato di tua moglie; o l’hai accusata ingiustamente? –O–

Hai trascurato di fornire sostegno alla tua famiglia? –O–

Hai dato ai tuoi figli cattivi esempi? –O–

Non sei riuscito a correggere i loro errori? –O–

Hai interferito con la loro vocazione religiosa? –O–

Compiti delle mogli

Hai disobbedito a tuo marito? –O–

Hai indotto i tuoi figli a disobbedirgli e disonorarlo? –O–

Hai parlato delle sue colpe ai tuoi figli o a conoscenti ? –O–

Hai trascurato di correggere i tuoi figli? Hai dato loro cattivo esempio? Li hai istruiti nella religione? –O–

Hai interferito con la loro vocazione religiosa? –O–

Peccati capitali:

Orgoglio, –O–

Invidia, –O–

Ira,  –O–

Pigrizia, –O–

Avarizia, –O–

Gola,   –O–

Lussuria –O–  .

Annotazioni personali …..

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI ERETICI ED APOSTATI DI TORNO: CUM RELIGIOSI ÆQUE

Il Santo  Padre P. Lambertini, Benedetto XIV, riprende in questa lettera, un tema a lui particolarmente caro, l’insegnamento della Dottrina Cattolica, (tema già affrontato in: “Etsi minime”), argine all’ignoranza religiosa, foriera di condizioni spirituali e  materiali disastrose e che ha, come ultima conseguenza, la perdita dell’anima in eterno. Tra le altre, ricordiamo le esortazioni: “… che ogni Parroco faccia ciò che gli viene prescritto dal Sacro Concilio Tridentino ed anche dai Vostri Sinodi: che s’insegni in giorni determinati la Dottrina Cristiana dai Maestri e dalle Maestre delle Scuole; che i Confessori facciano il loro dovere quando qualcuno si accosta al loro Tribunale ignorando le cose necessitate Medii per salvarsi; e che lo stesso si faccia anche dai Parroci prima di congiungere in Matrimonio coloro che vogliono sposarsi. S’inculchi ai Padri di Famiglia e ai Padroni delle Case l’obbligo d’istruire e fare istruire i loro figli e i familiari nella Dottrina Cristiana …”. Queste esortazioni non sono state evidentemente sufficienti a richiamare tutti al loro dovere, cosicché, quando i satanici novatori, hanno ribaltato la dottrina cattolica, solo pochi hanno “arricciato il naso”, e nessuno ha veramente protestato abbaiando come saggi guardiani, e non restando cani muti, contro i lupi penetrati nell’ovile a sbranare le pecore … anzi non pochi pastori (finti e non) si sono seduti a mensa nelle agapi rosacrociane imbandite da quelli che hanno introdotto la sinagoga di satana nella Chiesa di Cristo: i nemici di Dio e di tutti gli uomini, come li appellava già l’Apostolo delle genti. Ed infatti, desti dal sonno profondo e colpevole, basterebbe rileggere solo pochi capitoli del Catechismo cattolico, per capire come la rivoluzione orgogliosa di lucifero, sia penetrata fin nelle midolla di falsi e corrotti prelati, tra i quali la maggior parte non sono mai stati ordinati, o per difetto di intenzione,  e privi di mandato e giurisdizione (ad es. i massonici cavalieri kadosh con le derivate “fraternità”, i tesisti eretici, i sedevacantisti cranio-vacanti, cerebro-privi, etc.), o per difetto di forma, come i falsi vescovi del “novus ordo” ordinati con la blasfema-gnostica formula dal 18 giugno del 1968. Riprendiamo allora i saggi consigli del Santo Padre Benedetto XIV, che tra l’altro ricorda S. Carlo Borromeo, studiamo la dottrina dagli scritti cattolici dei secoli scorsi che ancora si trovano, ed attendiamo fiduciosi il ritorno del Signore Gesù-Cristo che ristabilirà, ammantandola di nuovo splendore, la sua Sposa immacolata, la Chiesa Cattolica Romana, come ci ha promesso dicendo a Pietro, il Principe degli Apostoli: “portæ inferi non prævalebunt”.

Benedetto XIV

Cum Religiosi Æque

Essendoci stato rappresentato da persone di studio e zelanti dell’onore di Dio che sarebbe stata ottima cosa che nelle Nostre Basiliche Patriarcali di San Giovanni in Laterano, di San Pietro in Vaticano e di Santa Maria Maggiore si fossero stabiliti Ministri che istruissero i penitenti, i quali dalla Dataria Apostolica si trasferiscono alle predette tre Basiliche per adempiere in esse le opere servili e laboriose che vengono loro prescritte (e che devono adempiere prima che ad essi si rilasci la Dispensa Matrimoniale, per ottenere la quale si sono portati a Roma), e che l’istruzione si limiterebbe ad indurli a fare una fruttuosa Confessione ed a ricevere degnamente il Sacramento dell’Altare (il che viene pure prescritto loro dalla Dataria, oltre la visita delle sette Chiese e la salita alle Scale Sante); avendo Noi dato in materia gli ordini opportuni, come emerge nella Nostra Lettera Enciclica scritta ai Cardinali Arcipreti delle dette tre Basiliche in data 18 gennaio di quest’anno; avendo avuti sicuri riscontri dello zelo con il quale alcuni Canonici ed altri Ecclesiastici delle predette Basiliche si sono accinti indefessamente per l’esecuzione degli ordini dati, ne abbiamo avuto una straordinaria consolazione e ne abbiamo reso di cuore le dovute grazie al Signore Iddio, Autore di ogni bene.

1. La Nostra consolazione non è stata però completa in tutto e per tutto, essendoci stato riferito che in occasione dei Catechismi che si vanno facendo per disporre i Penitenti alla Confessione ed alla Comunione, si ritrovano spesso Dispensandi ignari dei Misteri della Fede, compresi quelli che sono necessari necessitate Medii; pertanto non possono essere ammessi ai Sacramenti. – A tale gravissimo inconveniente, quantunque i ricordati Ministri non manchino di porre gli opportuni rimedi con le necessarie istruzioni, non è però che oltre la sollecitudine e la fatica che quegli operai del Vangelo ritengono necessario ed indispensabile e che ben volentieri soffrono, ciò non amareggi i Dispensandi, i quali – essendo poveri e vivendo con le fatiche delle loro mani – non vedono l’ora di partire da Roma, tornare alle loro Patrie e contrarre il matrimonio cui anelano e per il quale hanno intrapreso il viaggio e si sono sottoposti alla pubblica, laboriosa penitenza.

2. Nel principio del Nostro Pontificato spedimmo una Lettera Enciclica nella quale eccitammo lo zelo dei Nostri Confratelli sull’insegnamento della Dottrina Cristiana nelle loro Diocesi. Abbiamo letto i loro Sinodi vecchie nuovi ed abbiamo riconosciuto che sono pieni di esortazioni e di istruzioni, e che nulla vi manca di quanto è necessario per l’importantissima opera dell’insegnamento della Dottrina Cristiana. Pertanto, in assoluta buona fede dichiariamo di essere persuasi che fra di loro non c’è nessuno che in questa materia abbia mancato al proprio Apostolico Ministero, e che l’ignoranza rilevata in alcuni loro Diocesani non sia determinata né provenga da loro colpa o negligenza, ma dalla ritrosia dei sudditi nell’ubbidire agli ordini dei loro Superiori, nel non andare alla Dottrina Cristiana e nell’accostarsi poche volte, o forse mai, a sentire la parola di Dio, o nell’incapacità di taluni di apprendere ciò che si insegna loro, o nell’essere stati alla Dottrina Cristiana solo nei primi anni della loro età senza più essersi curati di accostarsi a quei luoghi nei quali avrebbero potuto comodamente, e forse con maggior profitto intendere, nell’età adulta, quanto fu loro detto nell’età puerile, in modo che si riducono in tutto nella condizione simile a quella in cui si ritrovano coloro che nell’età puerile non sono mai stati istruiti né sono mai stati alla Dottrina Cristiana. Tutti questi disordini, che si sono verificati e si verificheranno nonostante le diligenze dei Nostri degni Confratelli, non esentano però Noi dal peso di dovere con questa Nostra Lettera Enciclica eccitare nuovamente il loro zelo, né esentano Essi dal proseguire e dall’accrescere le loro diligenze su una materia dalla quale dipende l’eterna salute delle Anime affidate alla loro cura.

3. Forse non vi sarà nessuno fra di Voi, Venerabili Fratelli, che non sia pienamente informato di quanto fece San Carlo Borromeo sia nella sua vasta Diocesi di Milano, sia in tutta la Provincia di cui era Metropolita, per stabilire un fruttuoso insegnamento della Dottrina Cristiana. Quante e quali furono le fatiche che Egli sopportò per ben fondare questo Santo Istituto! Quando Egli si accorse che le fatiche compiute non avevano conseguito il frutto che Egli desiderava, non si perdette d’animo ma aggiunse diligenze a diligenze, come si apprende dal suo quinto Concilio Milanese: “Nos multam hactenus diligentiam adhibuimus, ut omnes et singuli Christifideles in Fidei Christianae rudimentorum institutione erudirentur; sed cum parum Nos hucusque profecisse tanta in re cognoverimus, negotii, periculique magnitudine adducti, haec praeterea decernimus“. Era bastato a quel grande santissimo Presule sapere che v’era bisogno, per operare in avvenire, aggiungere diligenze a diligenze, nonostante quel molto che fino ad allora aveva fatto; nello stesso modo che bastò al Re degli Assiri avere avuto la notizia che le genti ignoravano i precetti di Dio: “Nuntiatumque est Regi Assyriorum, et dictum: gentes, quas transtulisti et habitare fecisti in Civitatibus Samariae, ignorant legitima Dei Terrae“, per spedirvi subito un Sacerdote che insegnasse a quei Popoli i precetti di Dio: “Praecepit autem Rex Assyriorum dicens: ducite illuc unum de Sacerdotibus, quos inde captivos abduxistis, et vadat et habitet cum eis, et doceat eos legitima Dei Terrae“, come si legge nel libro 4 Dei Re (2Re 17,27).

4. Noi, conformandoci a questo pratico insegnamento di San Carlo Borromeo, nonostante le diligenze finora praticate da Voi, Vi esortiamo, pregandovi per le viscere di Gesù Cristo, a non perdervi d’animo nella grande opera dell’insegnamento della Dottrina Cristiana. Fate che ogni Parroco faccia ciò che gli viene prescritto dal Sacro Concilio Tridentino ed anche dai Vostri Sinodi: che s’insegni in giorni determinati la Dottrina Cristiana dai Maestri e dalle Maestre delle Scuole; che i Confessori facciano il loro dovere quando qualcuno si accosta al loro Tribunale ignorando le cose necessitate Medii per salvarsi; e che lo stesso si faccia anche dai Parroci prima di congiungere in Matrimonio coloro che vogliono sposarsi. S’inculchi ai Padri di Famiglia e ai Padroni delle Case l’obbligo d’istruire e fare istruire i loro figlie i familiari nella Dottrina Cristiana.

Nelle Diocesi nelle quali è introdotta la disciplina, si prosegua; dove non è introdotta, si introduca che, prima o dopo la Messa Parrocchiale, si dicano ad alta voce, da parte dello stesso Parroco, gli Atti di Fede, Speranza e Carità, ben composti, ripetendo il Popolo le parole del Parroco. Non si trascuri l’adempimento dell’obbligo che ha il Parroco, se non di predicare nei giorni festivi, almeno di esporre dall’Altare il Vangelo al Popolo, e d’istruirlo nei Misteri principali della nostra Santa Religione, nei precetti di Dio e della Chiesa e in quanto è necessario per degnamente ricevere i Sacramenti. Si seguano le stesse orme dei Predicatori, ai quali si dia il salutare avvertimento di unire l’istruzione all’esortazione, dato che gli uditori hanno bisogno dell’una e dell’altra. Infine, il metodo d’insegnare (a chi è impreparato) la Dottrina Cristiana viene indicato da Sant’Agostino (De Catechizandis rudibus, cap. 10), dice essere utilissimo quello delle interrogazioni familiari, dopo aver fatto la spiegazione; dalla interrogazione familiare si rileva se chi l’ha udita l’ha capita, e se per farla capire occorre un’altra spiegazione: “Interrogatione quærendum est, utrum is, qui catechizatur, intelligat; et agendum, pro eius responsione, ut aut planius, et enodatius loquamur, aut quae illis nota sunt, non explicemus latius, etc. Quod si nimis tardus est, misericorditer succurrendus est, breviterque ea, quae maxime necessaria sunt, ipsi potissimum inculcanda“.

Teniamo per certo che da parte Vostra si farà sempre di più di quanto con questa Nostra Lettera Enciclica Vi additiamo. Nel frattempo, con pienezza di cuore, impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli ed al Vostro Gregge, l’Apostolica Benedizione.

Dato da Castel Gandolfo, il giorno 26 giugno 1754, decimoquarto anno del Nostro Pontificato.

ÆÆ

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE (2018)

Domenica II dopo Pentecoste (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XVII:19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[Mons. Bonomelli; Nuovo saggio di Omelie, Marinetti ed. vol III – Torino 1899, Omel. V]

“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e con la verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –

Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’Apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, si direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia, ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio portato sulla terra da Gesù Cristo, è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio, odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi Io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi Cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi, generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori Cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi Cristiani che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, ma se noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo, che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante, all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi. Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. É vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità, comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vita ai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’

anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ordine della carità vuole che amiamo noi stessi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non lo sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se lo fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma l’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo con la limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano l’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata

a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma con le opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „

Graduale

Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc XIV:16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

[Ut supra, omel. VI]

Gesù disse: Un certo uomo fece una gran cena ed invitò molti. E all’ora della cena mandò il suo servo per dire agli invitati che venissero perché tutto era pronto. Ma quelli tutti ad un modo, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comperato una villa e devo andarla a vedere: te ne prego abbimi per scusato. Ed un altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli: te ne prego, tienimi per scusato. Ed un terzo disse: Ho menato moglie e perciò non posso venire. E tornato il servo, ogni cosa riferì al padrone. Allora il padrone di casa indignato, disse al servo: Esci tosto nelle piazze e per le strade della città e mena qua i mendici, i monchi, gli storpi e i ciechi. Poi il servo gli disse: Signore, si è fatto come hai comandato e vi è ancora posto. E il padrone disse al servo: Va per le strade e per le siepi e costringili ad entrare affinché la mia casa si riempia. Perché io vi dico che nessuno di coloro che furono invitati assaggerà la mia cena „ .

Evidentemente la Chiesa ci fa leggere la parabola che vi ho recitata, in questa Domenica che corre nell’ottava del Corpus Domini, perché in essa vede in qualche modo adombrato, almeno indirettamente, il banchetto eucaristico. Somigliantissima a questa parabola di san Luca, a quella che troviamo nel capo XXII di S. Matteo, a talché parve ad alcuni interpreti che in sostanza le due parabole fossero una medesima parabola con alcune leggere differenze. Ma se le raffrontiamo accuratamente tra loro, è agevole il vedere che sono distinte, e che Gesù le recitò in tempi e luoghi diversi, con diverso intendimento, e che gli aggiunti diversi non permettono di confonderle in una sola (S. Ireneo e dopo lui il Maldonato ritennero identica la parabola riferita dai due Evangelisti con qualche differenza. Forse fu la stessa parabola proposta due volte da nostro Signore con qualche varietà e con diverso fine). Gesù, nei versetti che precedono la nostra parabola, aveva esortato gli uditori di mettersi sempre all’ultimo posto e di invitare ai conviti quelli che, essendo poveri, non possono ricambiare, perché, in tal modo operando, la mercede sarà data da Dio nella vita futura. Si comprende facilmente il perché di questa dottrina di nostro Signore, quando si avverta ch’Egli la espose mentre si trovava a mensa presso uno de’ principali farisei che l’aveva invitato. Udita quella dottrina, un tale che sedeva a mensa e di cui il Vangelo non ci lasciò il nome, esclamò: “Beato colui che siederà alla mensa nel regno di Dio. „ Allora Gesù, cogliendo occasione da quelle parole, disse la parabola che siamo per spiegare e nella quale rappresenta il regno di Dio sotto la immagine, a Lui famigliare, d’un grande convito. Ora a noi, o carissimi. – “Un certo uomo fece una gran cena e invitò molti. E all’ora della cena mandò il suo servo per dire agli invitati che venissero, perché tutto era pronto. „ Chi è desso quest’uomo, questo signore, che fa la gran cena? Chi rappresenta? Indubbiamente esso rappresenta Dio, o l’uomo-Dio, Gesù Cristo. E la cena che cosa adombra? Può adombrare la Chiesa militante: può adombrare eziandio la S. Eucaristia; ma sembra più naturale il dire che raffigura la vita eterna, la gloria celeste, a cui tutti sono chiamati gli uomini. Voi vedete che in questa senso la cena racchiude indirettamente la Chiesa militante e la S. Eucaristia, perché nessuno può aver parte a questa cena se prima non sia entrato nella Chiesa e non abbia partecipato alla Eucaristia. Si dice cena, perché si dà sul chiudersi della vita presente, che rispetto all’eternità è come un giorno, perché è come la mercede dovuta a chi ha lavorato tutto il giorno. Si dice poi cena grande, sia perché ivi tutti sono invitati, sia perché dura eternamente, sia perché la ricchezza di quella cena non ha l’eguale per la copia dei beni che faranno sazio ogni nostro desiderio. Il servo, che a nome del padrone chiama al banchetto gli invitati, rappresenta i profeti, gli Apostoli, tutti i continuatori del ministero apostolico, tutti i ministri della Chiesa, per mezzo dei quali Dio, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, fa udire la sua voce ed invita tutti alla Cena dell’Agnello, all’acquisto cioè, della vita eterna. Ho detto che Dio invita; alla gran cena; ma taluni di voi potrebbero farmi osservare che il sacro testo dice: molti e non tutti — Vocavit multos. — Ma voi sapete la parola molti significa talvolta tutti, la moltitudine, e veramente tutti sono molti, e qui senza dubbio, tutti sono invitati alla gran cena. E non è verità di fede che Iddio vuol salvi tutti gli uomini? che Gesù Cristo è morto per tutti? che Dio non vuole che alcuno perisca? La stessa ragione non ci dice che Dio, infinita bontà, deve volere la salvezza e la felicità di tutti gli uomini senza eccezione? Ora se Iddio, quanto è da sé, non chiamasse tutti alla sua cena, non tutti li vorrebbe salvi, giacché quelli che non invita, non possono venire a lui, e non venendo, perirebbero necessariamente. Dio pertanto invita, chiama  tutti al convito della vita eterna: vari sono i modi, ma non uno è escluso. Dio chiama con la parola dei profeti, dei patriarchi, degli apostoli, dei ministri: Dio chiama con l’esempio, coi rimorsi, con le ispirazioni interne, direttamente, indirettamente, coi libri, con le figure, con la voce della coscienza, in mille svariatissime maniere, note a Lui solo, ma invita, ma chiama tutti; e chi non fosse chiamato potrebbe dirgli: Signore! io non potevo venire alla vostra cena senza essere chiamato da Voi; Voi non mi avete chiamato e perciò non sono venuto: se colpa v’ è, non è mia, ma Vostra, perché non faceste giungere a me la vostra voce. Ecco perché Gesù nella parabola, non dice che l’invito fosse rifiutato ad un solo, verità che più innanzi nella parabola sarà più  manifesta. – Checché sia degli altri, vi è tra voi un solo che non sia stato invitato alla cena della vita eterna e ripetutamente e con le più calde istanze? Dio non vi ha prevenuto con le sue grazie, facendovi nascere in seno alla Chiesa? Non ha circondata la vostra infanzia, la vostra fanciullezza, la vostra giovinezza, la vostra virilità, la vostra vecchiaia de’ suoi favori?  Quante volte il servo del gran Padrone è venuto a voi, a chiamarvi, ad invitarvi alla cena? Come avete risposto? Alla vostra coscienza la risposta… – Gesù prosegue la sua parabola: “Gli invitati, tutti ad un modo, cominciarono a scusarsi. „ Voi sapete, che rifiutare un invito grazioso ed autorevole senza motivo proporzionato, è offesa che si fa, e tanto maggiore quanto è maggiore la dignità della persona che invita. E non dirle col fatto che non curiamo l’onore d’essere suoi commensali, che preferiamo i nostri comodi. Che scusa addussero gli invitati? – Il primo disse: Ho comperato una villa e devo andare a vederla: te ne prego, abbimi per scusato. Ed un altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli: te ne prego, tienimi per scusato. Ed un terzo: Ho menato moglie e perciò non posso venire. „ – Gli invitati che rifiutano di recarsi alla cena sono distinti in tre categorie e in queste tre categorie gli interpreti vedono indicate le tre concupiscenze capitali, che secondo S. Giovanni signoreggiano il mondo: la concupiscenza degli occhi, la concupiscenza della carne  e l’orgoglio della vita, ossia l’amore sregolato dei beni materiali, dei piaceri sensuali e della propria eccellenza. E in vero tutti i motivi o, meglio, i pretesti, pei quali l’uomo si sottrae agli inviti della grazia e si rifiuta di sedere al banchetto della vita eterna, si riducono costantemente a questa triplice concupiscenza, che ci incatena ai beni della terra, ai piaceri del corpo e all’orgoglio del proprio spirito. – “Che altro significa la villa, scrive S. Gregorio, se non i beni della terra? Egli se ne andò a vedere la villa, perché aveva tutti i pensieri e tutti gli affetti nei beni materiali (Homil. 36 in Evangel.). „ O miei cari figliuoli! quale spettacolo si dispiega continuamente sotto dei nostri occhi! Che fanno essi tutti o quasi tutti gli uomini? In mille modi essi corrono dietro senza posa ai beni della terra: chi attende al commercio, chi all’industria, chi ad acquistare campi e farli fruttare: tutti sono intesi ad accumulare danari, strumento del godere! È forse per questi beni, che Iddio ci ha creati? E quando pure potessimo procacciarli e possederli, vi troveremmo noi la felicità, la vera felicità, della quale andiamo in cerca? Oh! certamente no. Il nostro cuore, fossimo anche padroni del mondo intero, non direbbe mai basta, non troverebbe mai la felicità che domanda, sarebbe sempre inquieto e desolato. Perché dunque correre dietro a questi beni della terra, volgendo le spalle ai messi del Signore che ci invita alla sua cena, al godimento di quei beni che nessuno potrà più mai rapirci e che sazieranno per sempre tutti i desideri del nostro cuore? Questi beni della terra, dei quali siamo sì ghiotti, ci saranno irrevocabilmente tolti, al più tardi, alla nostra morte, e più li avremo amati e più acuto e straziante sarà il dolore di doverli lasciare. Dunque è sapienza lo staccare da essi il cuor nostro, prima che la morte ce ne divella a viva forza; è sapienza collocarlo là dove vivrà eternamente e dove troverà la vera e perfetta felicità. Nessuno pertanto di noi risponda villanamente a Dio, che ci chiama all’eterno convito: Ho comperato una villa, devo andare a vederla. –  – E l’altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli. „ In costui vediamo designati ancora quegli uomini che sono ingolfati negli affari mondani, come e peggio di quelli accennati sopra, giacché i buoi servono a coltivare la terra e sono congiunti, per naturale associazione di idee, alla terra ed ai proprietari della stessa. Tra la classe di uomini indicata sopra e quella qui designata, se male non vedo, corre quel divario, che corre tra i padroni o proprietari della terra ed i semplici coloni. Quei primi dicono: Noi abbiamo i nostri poderi, le nostre terre da vedere e dobbiamo sorvegliarne i lavori: sono i ricchi e i signori, che passeggiano pei loro campi, pieni d’orgoglio e dicono con altera compiacenza: tutto questo è mio. Questi secondi sono gli operai, gli uomini del lavoro, che stanno a’ cenni di quegli altri. Il lavoro è  dovere di tutti e nessuno può sottrarsi senza violare quella legge intimata al primo uomo: “Tu mangerai il tuo pane col lavoro delle tue mani e col sudore della tua fronte. „ Ma questo lavoro manuale, non deve mai impedire un lavoro troppo più nobile e necessario, il lavoro della mente e dello spirito che deve nutrire l’anima nostra. — Datemi un contadino, un operaio qualunque, che attendano solamente a svolgere la gleba del campo,  che siano sempre là curvi sugli istrumenti del lavoro, senza ricordarsi mai di Dio, della preghiera, dell’anima: per i quali la Domenica non differisce dal lunedì: i quali a chi ricorda loro che oltre il corpo vi è l’anima, che oltre il padrone terreno c’è il Padrone celeste, Iddio, e che bisogna santificare la festa, udire la parola di Dio, pregare e accostarsi  ai Sacramenti, rispondono: abbiamo altro da fare; ci attendono i campi, ci aspetta l’officina; questo contadino, questo operaio vi rappresentano a meraviglia l’uomo del Vangelo che invitato alla cena risponde: “Ho comperato cinque paia di buoi e vo’ a provarli. „ O carissimi figliuoli! non imitate costoro. Chiamati alla Chiesa, alla preghiera, al convito eucaristico, pegno del convito eterno del cielo, rispondete: Eccoci, veniamo. Al corpo la sua parte ed è ben larga, e all’anima la sua, che è ben poca cosa rispetto a quella del corpo. –  “Il terzo rispose: ho menato moglie e perciò non posso venire. „ S. Gregorio, in quest’uomo che rifiuta di intervenire al convito per ragione d’aver menato moglie, vede raffigurato l’uomo voluttuoso: Quid per uxorem nisi voluta carnis accipitur? (Hom. 36). È terribile, la sentenza d’un gran santo moderno, conoscitore perfetto della società, che disse: quelli che si perdono, o si perdono per il peccato di lussuria o non, senza di esso. „ Purtroppo è così. Dove sono, o mio Dio, quegli uomini o quelle donne che abbiano serbato monda l’anima loro in mezzo a questo contagio universale? Dove sono quelle anime che simili alla colomba noetica, abbiano aleggiato su questa terra senza posare il piede o imbrattare le candide piume sul fango che la copre? Voi solo, o Signore, lo sapete; ma devono essere ben poche, e perciò tanto più care a’ vostri occhi. Dilettissimi! entrate per pochi istanti nei penetrali del cuore, interrogate la vostra coscienza, e alla luce della fede, vedete se per avventura l’amore disordinato dei piaceri, la passione sensuale, quella che S. Giovanni chiama concupiscenza della carne, vi tenesse legati alla terra e vi impedisse di accorrere al banchetto celeste. Se così fosse, non perdiamo tempo: rompiamo questa catena, recidiamo queste funi, finiamola con queste tresche, con queste voluttà indegne di uomini, quanto più di Cristiani! Questa concupiscenza della carne è di natura sì rea, che lo schiavo di essa non si cura nemmeno di scusare il suo rifiuto all’invito del Signore, come fecero gli schiavi delle altre passioni. Questi dissero al servo che li invitava: ” Te ne prego, abbimi per scusato, „ e mostrarono nel rifiuto qualche cortesia; doveché quello bruscamente, villanamente rispose: “Ho menato moglie: non posso venire. „ La passione brutta ha questo di proprio, che soffoca i sensi più nobili del cuore, fa tacere gli affetti stessi più naturali e rende le anime volgari, abbiette, ingrate e peggio. “Via dunque, vi dirò con S. Agostino, via le vane e cattive scuse e andiamo al convito, ove le anime nostre saranno ristorate e nutrite. Non ci sia di ostacolo l’alterigia, non ci gonfi curiosità illecita, non ci metta paura la maestà di Dio, e non ce lo impedisca la voluttà della carne: andiamo e impinguiamoci (In Joan. c. 2, apud a Lapide). „ Non si vuole dimenticare, o carissimi: questa parabola fu detta da Cristo in un convito, offertogli da un principale tra i farisei, e indirizzata specialmente a quelli che l’ascoltavano, e in generale agli Ebrei che si mostravano ritrosi alla sua parola. Nei tre chiamati alla cena sono dunque adombrati direttamente gli Ebrei, e apprendiamo da Cristo che il loro rifiuto si deve attribuire all’orgoglio, all’amore delle ricchezze e alla propensione ai piaceri del senso. – Gli invitati rifiutarono di venire alla cena: resterà dunque questa deserta? La mensa sì talmente imbandita non sarà dunque onorata da commensali, a scorno del padrone? Tolga Iddio che così avvenga. “Il padrone di casa  indignato disse tosto al servo: Esci tosto per le piazze e per le vie della città, e mena qua i mendici, gli zoppi, i monchi ed i ciechi. „ I primi invitati appartenevano, come chiaro dal tutto insieme, alle classi ricche e ragguardevoli, e rappresentavano gli scribi, i farisei e in generale gli Ebrei, i quali, ammaestrati dai profeti e dalla legge, potevano conoscere facilmente la verità, rispetto ai poveri Gentili, avvolti in ogni maniera di errori. Ebbene: poiché i ricchi, i dotti d’Israele non vogliono venire alla cena imbandita dal padrone, cioè da Cristo, si chiamino al primo luogo i poveri, gli ignoranti, i reietti, questi mendici e storpi e ciechi; così si adempie la parola di Cristo, che disse: “I pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno dei cieli, e i primi saranno gli ultimi e gli ultimi primi. „ E veramente fu così: mentre i peccatori, i publicani, le peccatrici, i veri storpi e mendici, lasciata ogni cosa, seguivano Gesù, gli scribi e i farisei, i grandi, i ricchi, non si curavano di Lui, lo sprezzavano, lo rigettavano, lo perseguitavano: mentre Israele, nella sua grande maggioranza, infatuato nei sogni d’una mondana potenza, volgeva le spalle a Cristo, i Gentili pieni di docilità e di fede correvano a sedersi alla sua cena. I figli del regno per il loro orgoglio, per le loro cupidigie uscivano  dalla casa del Padrone, e d’ogni parte vi entravano, al loro luogo, i Gentili nella semplicità della loro fede. É ciò che avvenne in tutti i secoli ed avviene anche di presente. S. Paolo, fin dai suoi tempi, scriveva che non erano molti i sapienti, non molti i potenti, non molti i ricchi, non molti i nobili che seguivano il Vangelo (I. Cor. c. l , vers. 26); Origene ripeteva lo stesso due secoli dopo, e noi pure in qualche senso lo dobbiamo riconoscere ai nostri giorni, sono quelli che riempiono le nostre chiese,  che ascoltano la parola di Dio, che si accostano ai Sacramenti, che osservano le pratiche religiose? Generalmente siete voi, o figli del popolo, uomini del lavoro, voi che vivete col sudore della vostra fronte: raro è che i ricchi, gli uomini della scienza, vera od apparente che sia, si vedano in chiesa mescolati con voi e facciano pubblica professione di fede. Anch’essi sono chiamati alla cena evangelica e chiamati forse prima e più efficacemente di voi; ma l’orgoglio della gloria, la superbia e le terrene cupidigie, che si accompagnano sì facilmente alle ricchezze, fanno loro rispondere: Non possiamo venire. Non possum venire. Non scandalizzatevi di questi nostri fratelli, non scoraggiatevi di trovarvi quasi tutti poveri a questa cena: Gesù Cristo lo predisse, e la sua parola non può cadere.  – ” Poscia il servo, così prosegue il Vangelo, disse al signore: Signore, si è fatto come hai comandato, e vi è ancor posto. „ Certamente il numero degli eletti è noto a Dio tantoché a quella cena eterna non siederà non più od uno meno di quelli, che nella sua sapienza ha destinato. Perciò le parole di questo servo, che riferisce esservi ancor posto, non possono lasciar luogo al sospetto, che Dio ignori il numero degli eletti; sono aggiunte soltanto per ornamento della parabola e per mostrare che Dio chiama gli uomini alla salute eterna in vari modi, largheggiando più o meno della sua grazia. – Il padrone disse al servo: va per le strade e per le siepi e costringili ad entrare, sicché la mia casa sia ripiena. „ È questa la terza chiamata, che per ragione della estensione e dei modi pressanti mette in maggior luce la bontà del padrone di casa. Vuole che il servo percorra non solo le piazze e le vie della città, ma perfino le siepi fuor dell’abitato, e quanti ne trova di poverelli e zoppi e ciechi, e tutti li inviti non solo, ma li costringa ad entrare nella sua casa e prendere parte alla cena. Questa parabola prova ad evidenza come Dio voglia la salvezza di tutti, perché chiama e ripetutamente e in qualunque luogo o regione essi si trovino, senza badare alla loro condizione e miseria. Ponete mente a quella  parola fortissima “costringili ad entrare, compelle intrare—. Forseché Dio costringe ad entrare nella Chiesa e nel regno celeste? Forse che violenta la libertà nostra? No, mai: la libertà è dono di Dio e Dio non si ripiglia mai i suoi doni: anzi sta scritto che Iddio ci tratta con riverenza. Se Dio costringesse o forzasse comecchessia la nostra libertà, cesserebbe ogni nostro merito e perderebbe ogni valore il nostro omaggio, la nostra obbedienza. E verità di fede che noi possiamo resistere alla voce ed alla grazia Dio, e che quando la secondiamo, la secondiamo liberamente. Quella parola pertanto forte — costringili — ad entrare, significa chiamata energica, un impulso gagliardo, una grazia straordinaria, ma non mai un vero costringimento, che è impossibile, che farei torto a Dio ed a noi. La libertà nostra, che è riposta nella facoltà di scegliere, per la quale siamo arbitri, padroni dei nostri atti, è il maggior dono che Iddio ci abbia fatto, quello per il quale siamo a Lui più simili. Di questa libertà noi andiamo alteri, e guai se altri la offende od anche solo minaccia di offenderla. Chi non esalta e magnifica la libertà? Che non si fa per difenderla e conservarla? Eppure, vedete contraddizione! non sono pochi i dotti che, negando l’anima e riducendola ad una dote, funzione o qualità della materia, come il calore d’un corpo, negano necessariamente la libertà e fanno dell’uomo un essere che non può operare altrimenti di quello che fa, simili alla pianta che germoglia, fiorisce e fruttifica bene o male sotto i raggi del sole, simile al bruto che si regola coll’istinto! Tanto orgoglio congiunto a tanta bassezza! Levare a cielo la libertà, che poi si nega! Non apriamo le orecchie agli insegnamenti di costoro, che fanno ingiuria in pari tempo alla fede alla ragione e teniamo fermamente che abbiamo l’altissimo dono della libertà e che dell’uso suo dovremo rendere strettissima ragione. Taluno può forse meravigliarsi che il padrone di casa abbia usata quella parola sì forte: — Costringili ad entrare, — ma vi è un tale costringimento amoroso, che non ferisce la libertà, e di questo senza dubbio parla il Vangelo. – Una persona a voi cara e che voi altamente stimate vi invita, vi chiama presso di sé: voi non volete aderire: essa insiste, ripete l’invito, vi prega, vi piglia per mano, dolcemente vi tira, tanto fa e dice che finalmente fate il voler suo. Senza dubbio, quella persona non vi ha forzato nel senso rigoroso della parola, e voi potevate pur sempre rifiutare; ma è pur vero che altri potrebbe dire, che vi ha fatto dolce violenza e in qualche modo, vi ha costretto a fare il suo desiderio. Questa espressione “costringili ad entrare, „ ci fa conoscere e sentire al vivo quanto sia cocente il desiderio di Dio che tutti partecipino alla sua cena. – Si chiude la parabola con quella formidabile sentenza di Cristo: “In verità vi dico che nessuno di quelli che furono invitati, gusterà la mia cena. „ Furono invitati, rifiutarono villanamente: è dunque giusto che non assaggino quella cena che non vollero. Evidentemente, qui si parla della vita eterna, nella quale non potranno giammai entrare quelli che volontariamente si esclusero da se medesimi, respingendo i ripetuti ed amorosi inviti del Padrone. Deh! che nessuno di noi si trovi nel numero di quegli infelici, che col loro rifiuto al generoso invito di tanto Padrone, meritarono quella terribile condanna: “Io vi dico che nessuno di coloro che furono invitati, assaggerà la mia cena. „

Credo …

Offertorium

Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza

LO SCUDO DELLA FEDE (XIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

L’ESISTENZA DI DIO.

— L’esistenza di Dio dimostrata dall’esistenza nostra. — Dall’esistenza del mondo. — Dall’ordine dell’universo e del suo movimento. — Dal comune consentimento dei popoli. — Da coloro stessi che la negano.

— Capisco bene, che dopo d’esser stato convinto che devo credere a tutte le verità che insegna la Chiesa Cattolica, non avrei più da fare difficoltà di sorta per nessuna di esse. Ma il desiderio di istruirmi sempre più e di togliermi dalla mente ogni falsa idea anche intorno ai punti particolari della dottrina cristiana mi spinge a farmi da capo, certo che la sua bontà in rispondermi non verrà meno.

Ciò che tu desideri, lo desidero ancor più io per giovarti quanto più mi è possibile. Domanda perciò, esponi liberamente ogni dubbio, obbietta tutto quello che credi opportuno al tuo fine anche riguardo ai punti particolari della dottrina cristiana.

— Quale sarebbe adunque la prima verità da credere?

L’esistenza di Dio. S. Paolo dice chiaro a nome del Signore che chi vuol andare a Lui deve credere anzitutto che Egli esiste (V. Lettera agli Ebrei, Capo XI, Versetto 6). Epperò è questa la verità, che appare per la prima nell’insegnamento cristiano, la verità che ad ogni tratto ci è rivelata nelle Sacre Scritture sia dalle manifestazioni (teofanie) continue che di Dio ci sono in esse narrate, sia dalle affermazioni che esse ce ne fanno.

— Ma! Sarà poi vero che vi sia un Dio?

E sarà vero che ci sia tu?

— Oh! di questo mi pare di non dover dubitare.

Ma tu perché ci sei?

— Ci sono perché ci sono stati i miei genitori, che mi han dato la vita.

E i tuoi genitori perché ci sono stati?

— Oh bella questa! Perché ci furono i loro avi.

E i loro avi perché ci furono?

— Ma comprenderà bene che è sempre la stessa storia.

Oh no! questo che dici non è giusto. Se tu prendi in mano una catena e dalla fine di essa vai giù di anello in anello, arriverai certamente al primo. Così se risali da genitori in genitori bisogna pure che tu arrivi a trovare quelli che furono i primi genitori.

— Ciò è verissimo.

Or bene quei primi genitori, dimmi, hanno essi avuti altri genitori?

— Eh! allora non sarebbero più stati i primi.

Dunque come hanno fatto ad esistere quei primi genitori?

— Saran venuti fuori dalla terra.

Bambini o già adulti?

— Saran venuti fuori bambini.

Ma bambini non sarebbero morti subito per mancanza di aiuto?

— Allora saran venuti fuori adulti?

Adulti? Ma ti pare? Il solo pensiero che un uomo ed una donna siano saltati fuori dalla terra già grandi e grossi tutto ad un tratto non ti fa ridere? E poi perché, se ciò fosse avvenuto una volta, adesso non accade più mai?…  Inoltre come si son formati dalla terra questo primo uomo e questa prima donna?

— Si saran formati a poco a poco per mezzo di successive trasformazioni. Per esempio prima saranno stati un pugno di fango e poi questo pugno di fango per certe forze intrinseche si sarà sviluppato e trasformato in una specie di animale, questa specie di animale, ancora molto imperfetto, a poco a poco si sarà trasformato in un altro animale più perfetto, e questo in un altro ancor più perfetto fino a tanto che si sarà arrivati alla scimmia, e dalla scimmia il passaggio all’uomo non deve essere stato difficile.

Ah sì? E come mai da migliaia di anni, che il mondo si trova quale esso è, non si è più mai veduto nulla di simile ? Com’è che le scimmie sono sempre rimaste scimmie? che le rane sono sempre rimaste rane e i pesci sempre rimasti pesci? Com’è che se tu pigli un pugno di fango e lo poni, mettiamo, in una scatola, e lo lasci lì per anni ed anni, per secoli e secoli, rimane sempre un pugno di fango? E poi quando pure fosse come tu dici, non ci sarebbe ancor sempre da spiegare come cominciò ad esistere quel pugno di fango, e donde originarono quelle forze che lo hanno trasformato? Non ricordi il problema dell’uovo e della gallina? Un amico chiedeva ad un altro: Mi sapresti dire qual dei due sia stato prima: l’uovo o la gallina? — La gallina, rispose questi. — E questa gallina, riprese quegli, dond’è venuta? — Da un uovo. — E allora non fu più la gallina ad esistere per la prima. — Già lo vedo anch’io; dunque prima esistette l’uovo. — E questo uovo da chi provenne? — Eh, caro mio, vedo che non si finirebbe più sia a pensarla in un modo sia a pensarla ad un altro. — Dunque bisogna riconoscere che v’è stato chi produsse o il primo uovo o la prima gallina. – Alla peggio pertanto, tornando a noi, non bisognerebbe ammettere che c’è stato chi ha dato esistenza a quel primo pugno di fango e vi ha infuso dentro quelle forze?

— Ah! questo è vero.

Ma siccome il fango rimane sempre fango, perché non ha in sé e per sé nessuna forza che lo faccia passare ad uno stato migliore, siccome le bestie rimangono sempre bestie, siccome non è possibile che un primo uomo ed una prima donna, siano venuti fuori dalla terra né grandi e grossi, né piccoli bambini, e siccome vi è stato un primo uomo e una prima donna, da cui sono venuti al mondo tutti gli altri, perciò bisogna che vi sia stato qualcuno, che abbia formati il primo uomo e la prima donna, e ben si capisce qualcuno dotato di ragione e di volontà, di gran lunga superiore all’uomo, perché nessun uomo può formare per creazione un altro uomo; bisogna insomma che vi sia stato, che vi sia Dio.

— Ma come si fa a credere che ci sia Dio se non si vede?

E tu hai già veduto la tua mente? Hai già veduto l’aria? Hai già veduto la febbre? Eppure dubiti che ci sia la tua mente, che ci sia l’aria, la febbre?

— Ma la mia mente si rivela nei pensieri, che mi vengono, nelle parole che profferisco, nelle azioni che compio; l’aria la respiro, e la febbre posso sentirmela in dosso.

È la stessa cosa di Dio. Gira gli occhi intorno a te, levali in alto, gettali in basso, che cosa vedi tu?

— Vedo millanta cose. Vedo gli uomini, vedo gli animali, vedo le piante, vedo le case, vedo le colline, le montagne, il mare, i fiumi, il sole; di notte vedo la luna, le stelle!

E tutte queste cose che vedi chi le ha fatte?

— Talune, come le case, le hanno fatte gli uomini.

Benissimo! E vedendo una casa qualsiasi, fosse pure una miserabile catapecchia, ti è mai passata per la mente che siasi fatta da sé?

— Allora sarei un matto.

E se saresti matto nel pensare che una casa qualsiasi, fosse pure una catapecchia, si sia fatta da sé, non saresti matto egualmente nel pensare che siansi fatte da sé tutte le altre cose che esistono, e gli uomini non possono aver fatte, come le piante, i fiori, le erbe, le montagne, i mari, i fiumi, gli animali, gli uccelli, i pesci, le stelle, il sole, la luna, eccetera?

— Oh certamente.

Se adunque la luna, il sole, le stelle, i pesci, gli uccelli, gli animali, i fiumi, i mari, le montagne, le erbe, i fiori, le piante, eccetera, non si sono fatte da per sé, non ti rivelano chiaro che deve esistere qualcuno che le abbia fatte? che deve esistere il loro creatore? Che deve esistere Iddio?

— Sì, è vero.

Dicevano dunque bene quei due Arabi, ai quali chiedendosi in qual modo conoscessero che Dio esiste, rispondevano, l’uno: « Allo stesso modo che io riconosco dalle tracce segnate sulla sabbia che vi è passato un uomo od una belva; » e l’altro: « Non è forse l’aurora che mi annunzia il sole? » Epperò quanto giustamente le Sacre Scritture vanno dicendo che « la magnificenza della creazione fa vedere e conoscere all’anima nostra il Creatore d’ogni cosa « (v. Libro della Sapienza, Capo XIII, Versetto 5); e che « i cieli sono come le pagine di un libro, in cui si può leggere la sua gloria, e il firmamento annunzia ch’esso è l’opera delle sue mani, e il nome ammirabile di Dio si legge su tutta la terra » (v. Salmi XVIII e VIII). Ne son prova questi altri fatti. Il filosofo Sintennis prese un bambino e lo condusse in una villa segregandolo del tutto dal mondo e non parlandogli mai di Dio, pensando per tal guisa di poter dimostrare col fatto che l’uomo non arriva di per sé a conoscere l’esistenza di Dio. Ma rimase deluso. Perché cresciuto il fanciullo, un mattino lo vide tra l’incanto della natura indirizzare i suoi passi sopra un poggetto del giardino ed ivi inginocchiarsi e mandare baci al sole e dire: « O tu che sei così bello e che sei più vicino al Creatore di tutte le cose, salutalo per me, e digli ch’io l’amo! » Interrogato quindi il fanciullo chi gli avesse detto che c’era un Dio Creatore del mondo e chi gli avesse insegnato a pregare così, quegli rispose: « Tutto ciò che vedo e mi circonda, tutto mi dice che c’è chi ha fatto il mondo, e che io lo devo adorare. – Anche il giovane Tagliapietre di Saint Point, come narra Lamartine, ad un gentiluomo che lo interrogò, perché mai tutto solo attendesse al lavoro nella sua valletta rispose: « In tutta la mia vita non mi sono mai sentito solo un momento. Si è forse soli, quando si ha Dio al fianco e si è circondati da Dio? ». « Hai ragione, replicava il gentiluomo ; ma tu come hai saputo tutto da te sollevarti fino a questa presenza di Dio e avvezzarti a vedertelo al fianco come un amico? » – « Come ho potuto? Io sono ignorante, ma ho appreso da mia madre e da molte anime buone a conoscere e adorare Iddio. Ma quando anche ciò non fosse stato, quando pure non avessi mai udito il catechismo della Parrocchia, forse che non ci ha un catechismo in ogni cosa che ne circonda, il quale insegna agli occhi e all’anima dei più ignoranti? Il nome di Dio non abbisogna di lettere dell’alfabeto per essere letto. L’idea di Dio s’incontra coi nostri sguardi sin dal primo raggio di luce che ci visita e ci rallegra ».

« Dunque tu vedi Iddio? »

« Se lo vedo! E potrei io esprimere per quali modi e per quante immagini? Ora lo vedo come un cielo senza confine seminato di occhi da ogni parte Ora lo vedo come un mare che non ha lido, donde escono in gran numero isole e terre. Ora lo vedo come un gigante, carico di montagne, di mari, di soli, di mondi addossati l’un l’altro, di cui non sente il peso … Io sono un insipiente, le frasi e le immagini mie sono quelle di un ignorante… Ma io vedo il mio Dio! » – Il Metastasio espresse pur bellamente la stessa verità con queste due belle strofe:

Dovunque il guardo io giro

Immenso Dio, ti vedo;

Nell’opre tue t’ammiro,

Ti riconosco in me.

La terra, il mar, le sfere

Parlan del tuo potere:

Tu sei per tutto, e noi

Tutti viviamo in te.

Ma non è solo l’universo e la sua bellezza che ci mostrino l’esistenza di Dio; ce la mostrano altresì l’ordine, l’armonia, la disposizione ammirabile delle cose tutte. Se tu guardi un bel quadro, una bella statua, se tu consideri la struttura di un magnifico orologio, se tu ammiri un giardino ordinato con vaghissime aiuole, oseresti tu dire che quel quadro si è dipinto da sé e che i colori si sono distesi e stemperati gli uni accanto e sopra gli altri sulla tela fino a che ne è venuto fuori quel quadro stupendo? Oseresti tu dire che nel blocco di marmo, da cui è venuta fuori quella statua, da per sé si sono rotti i pezzi, levate le schegge lisciate le parti, fino a che di per sé si è formata la bella statua? Oseresti tu dire che in quell’orologio si sono collocati a posto di per sé i perni, e dentro di essi le ruote, e le une si sono di per sé incastrate nelle altre, tanto da mettere in movimento quell’orologio! Oseresti dire infine che in quel giardino le aiuole da se stesse si sono ordinate e piantate di fiori?

— Sarebbe da ridere.

Ebbene non sarebbe da ridere anche più nel vedere l’ordine che vi regna nell’universo, e dire che quest’ordine si è fatto da sé? Mira le stelle: ciascuna sta sempre al suo posto, percorre sempre la stessa orbita. Mira le stagioni; si succedono sempre regolarmente le une alle altre. Mira gli uomini, gli animali, le piante, si riproducono sempre secondo la loro specie. E non ci sarà dunque chi tutto ha ordinato così, come c’è un giardiniere che ha ordinato le aiuole di un giardino, come c’è un orologiaio che ha messo a posto le ruote d’un orologio, come c’è uno scultore che ha fatto una statua, come c’è un pittore che ha fatto un quadro?

— Sì, è vero, verissimo; ma non si potrebbe dire che il mondo si è fatto e ordinato a caso?

A caso? Ma che cos’è il caso?

— Non saprei dire.

Il caso, in questo caso, è nulla. E il nulla non fa nulla, non ordina nulla. Curiosa questa! Non diresti mai che il caso ha dipinto un quadro, tratta una statua, composto un orologio, ordinato un giardino, e vorresti dire che il caso ha fatto e ordinato l’universo?

— Ha ragione; ma se non si può dire che ciò abbia fatto e ordinato il caso, non può invece averlo fatto e ordinato madre natura?

Madre natura? Ecco; se per madre natura tu intendi quell’Essere che, dotato di intelligenza e volontà, ha tutto fatto ed ordinato, con ciò ammetti senz’altro l’esistenza di Dio creatore ed ordinatore, benché con una espressione affatto impropria e che tutt’altro che chiarire le cose non fa che ingarbugliarle. Ma se per madre natura intendi le proprietà e le forze che vi sono nel mondo, cioè nelle cose che essi stono, tu verresti a dire questa grande assurdità che il mondo si è creato ed ordinato dalle proprietà e forze che vi erano nel mondo già creato ed ordinato.

— E già, è così.

Aggiungi poi che oltre all’ordine nell’universo vi è il moto. Tutto ciò che nell’universo esiste tutto trovasi in movimento. Si muove la terra, si muovono gli astri, si muovono i mari, si muovono gli animali, le piante, si muove l’uomo, insomma non c’è essere alcuno che o in un modo o in un altro non si muova. Ora qualunque cosa che si muova, non altrimenti si muove, se non perché c’è una forza che la fa muovere. Questa forza potrà essere ripetutamente mediata, ma ti fa d’uopo da essa risalire ad una immediata. Quando ad esempio tu vedi un carrozzone elettrico che corre rapidamente sopra un binario, benché non veda esternamente alcuna forza che lo tiri o lo spinga, sai non di meno che è l’energia elettrica, con la quale è posto in comunicazione, che lo fa muovere. Ma l’energia elettrica è già ancor essa un movimento, del quale cercando la causa la troverai in un altro movimento, ad esempio in quello dell’acqua o del fuoco. E il movimento dell’acqua o del fuoco è cagionato esso pure da altro movimento. Così potrai da movimento in movimento andare fino ad un certo punto, ma alla fine ti è necessario arrivare ad una prima causa, che dà immediatamente movimento alle altre senza più essere mossa da alcuna, poiché altrimenti tu correresti nell’infinito senza potere trovare mai un punto ove fermarti, ciò che invincibilmente ripugna alla nostra mente. Ora quello che ti è d’uopo riconoscere gettando lo sguardo sopra un carrozzone elettrico, lo devi riconoscere gettando lo sguardo sopra qualsiasi altro essere, che ti capiti sotto gli occhi. E così da ogni essere in movimento (e tutti gli esseri, come già ti dissi, si trovano in un modo o in un altro in tale condizione), potrai e dovrai risalire a quell’essere, che senza punto essere mosso da alcuno è il motore di tutto, e che tutti intendono essere Dio.

— Anche questa dimostrazione è chiara. E congiunta alle altre non deve più assolutamente lasciar dubitare dell’esistenza di Dio.- Non di meno se ne dicono tante a questo riguardo… Per esempio, si dice che siano stati i sacerdoti, che abbiano inventato Iddio.

Chi parla così, parla assurdamente e non sa quel che si dice. Se io dicessi che tu hai inventato tuo padre…

— Mi metterei a ridere.

Ma molto più dovresti ridere quando ti si dice che sono i sacerdoti che hanno inventato Dio. I sacerdoti sono i rappresentanti di Dio presso gli uomini e i rappresentanti degli uomini presso Dio. Ora come mai i sacerdoti potevano essere tali, se prima di essi non era riconosciuta l’esistenza di un Dio, del quale essi si dichiaravano ministri? Dire adunque che i sacerdoti hanno inventato un Dio è la stessa assurdità che dire che i figli hanno inventato il padre.

— Ma non è forse verissimo che vi sono tanti uomini al mondo, che non credono all’esistenza di Dio?

È verissimo tutto il contrario. Tutti i popoli antichi e moderni, barbari ed inciviliti, in ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni clima, hanno riconosciuto che vi è Dio. Sono celebri in proposito le affermazioni di Cicerone e di Plutarco. « Non vi ha nazione sì rozza e sì selvaggia, dice il primo, che non creda l’esistenza degli dèi, sebbene s’inganni quanto alla loro natura ». E il secondo: « Voi potrete trovare una città senza muraglie, senza case, senza ginnasi, senza leggi, senza uso di moneta, senza coltura di lettere; ma un popolo senza Dio, senza preghiere, senza sacrifizio, senza riti religiosi, non si vide giammai ». Anche Massimo di Tiro osservò « che nel mondo vi ha un gran cozzo di leggi e di opinioni, ma che tutte le leggi e le opinioni si accordano su questo punto cioè che vi ha un signore e padre di tutte le cose ». – Pertanto se vi sono degli uomini, che non credano all’esistenza di Dio, prima di tutto essi sono assai pochi e difficilmente accade che non vi credano per sistema, per convinzione, e stabilmente, per un lungo corso di tempo. In generale dicono con la lingua di non credere all’esistenza di Dio, ma nel cuore la pensano ben diversamente; e se pure talvolta fanno una tal negazione per qualche tempo, quando cioè si trovano dominati da una sfrenata superbia, non persistono mai tuttavia in essa per lunghi anni, e il più delle volte al punto della morte cambiano parere. In secondo luogo quegli uomini, che non credono o dicono di non credere all’esistenza di Dio, sono per lo più coloro che lasciandosi sopraffare dalle loro malnate passioni, e dandosi ad operare il male, temono perciò i castighi di Dio e vorrebbero che Dio non esistesse, perché non li avesse a punire.

— Questo è vero, confesso che se talvolta ho avuto anch’io qualche dubbio sull’esistenza di Dio, l’ho avuto allora che ho accontentato od avrei voluto accontentare le mie cattive inclinazioni.

Vedi adunque che la Sacra Scrittura ha avuto ragione di dire che lo stolto ha detto in cuor suo che non vi è Dio. In cuor suo, e non nella sua mente, perché la negazione di Dio più che dall’offuscarsi della mente procede dal corrompersi del cuore. Chi si conserva buono, chi vive virtuosamente, non penserà mai a negare l’esistenza di Dio. – Il La Bruyère nel suo libro intitolato I Caratteri ha detto: « Io vorrei trovare un uomo sobrio, moderato, casto, equo, che dica non esservi Dio; egli almeno lo direbbe senza interesse; ma quest’uomo voi lo cercherete indarno ». E per altra parte c’è da meravigliarsi che vi siano stati e vi siano tuttora alcuni uomini che non credano all’esistenza di Dio? In una provincia di 500,000 abitanti non v i sono sempre per lo meno un 500 pazzi? È troppo naturale adunque che nella generalità degli uomini, i quali tutti ammettono la esistenza di Dio, ve ne sia pure qualcuno che non l’ammetta, e questa eccezione, eccezione rarissima, è una piena conferma della regola.

— Ma molti popoli nel credere all’esistenza di Dio non fecero cosa ridicola, come quelli ad esempio che credettero essere tanti dèi, e quegli altri che credettero essere dèi gli animali, le piante, gli astri o le statue fabbricate dalle loro mani?

Sì, è vero, molti popoli hanno errato nell’ammettere più di un Dio e nel credere Dio ciò che non era e non poteva assolutamente essere tale; ma con tutto ciò essi ammisero l’esistenza della divinità. Fecero adunque cosa ridicola nel concepire nella loro mente le pluralità degli dèi, e la essenza di Dio diversa da quella che è, ma fecero opera assennata credendo che Iddio esiste. Aggiungi poi che in generale tutti i popoli idolatri hanno pur sempre ammesso un Dio ai di sopra di tutti e di tutto. Sofocle in pieno teatro ricordava agli Ateniesi, adoratori delle divinità dell’Olimpo « che nelle leggi sublimi del mondo v’ha un Dio supremo, che non invecchia mai » (nell’Edipo).

— Ma i popoli nel credere all’esistenza di Dio non potrebbero essere stati vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi?

Vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi lo furono nel credere Dio ciò che non era Dio in tante maniere diverse secondo la diversità dei tempi, dei luoghi, delle passioni, come ad esempio lo sono tuttora certi abitatori delle Indie che per timore, per ignoranza e per pregiudizio credono divinità certi serpenti velenosissimi, ai quali perciò si guardano ben bene di dare la morte; ma i popoli non furono, né possono essere vittima del timore, dell’ignoranza, dei pregiudizi in un fatto che si presenta uniforme e costante, lo stesso in tutti i luoghi e in tutti i tempi.

— E una tale credenza non sarebbe forse nata dalla superstizione?

Tutt’altro; perciocché la superstizione è l’esagerazione del sentimento legittimo della fede sincera in Dio: quindi coloro che si abbandonano alla superstizione non altrimenti lo fecero e lo fanno che dopo esservi già stata tra di loro la credenza che Dio esiste.

— Ma in questa credenza gli uomini non avrebbero potuto seguire una consuetudine?

Qualunque consuetudine deve avere la sua origine e la ragione per cui si è formata. Ora quale origine e quale ragione si potrebbe assegnare a questa consuetudine di credere all’esistenza di Dio? Eh! si ha bel cercare e ricercare, ma nel fatto uniforme e costante del credere all’esistenza di Dio non si può trovare altra spiegazione di questa: che una tale credenza è una inclinazione della nostra natura, è una legge intrinseca della nostra intelligenza.

— Ma moltissime volte la nostra intelligenza si sbaglia.

Sì; ma vorresti tu affermare che tutto l’uman genere, con a capo tanti filosofi pagani e cristiani, Mercurio Trimegisto, Talete, Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca, S. Agostino, S. Anselmo, S. Tommaso d’Aquino, S. Bonaventura, eccetera, eccetera, abbia errato? No, ciò non è possibile.

— Dunque che si ha da dire di coloro che si ostinano a negare Dio?

Si ha da dire che sono anch’essi una prova che Dio esiste. « Se l’ateo ritenesse per certo che Dio non esiste, non si affannerebbe tanto a combatterlo. Ma perché mai il suo odio contro questa verità si spinge fino alla collera? La sua collera sino al furore? Il suo furore fino alla rabbia? La sua rabbia fino alla follia? » – Il poeta greco Aristofane, nella sua commedia intitolata I Cavalieri, ha introdotto tra due suoi personaggi questo breve dialogo:

« Credi tu, o Nicea, che esistano gli dèi ? »

« Certamente ».

« E la prova? »

« Eccola: io li odio ».

Credilo, amico mio, non pochi atei son qui dipinti; « il loro odio contro Dio è figlio della fede che hanno in Lui, e dall’accento con cui dicono: « Dio non esiste », è agevol cosa conchiudere che Dio esiste » (Monsabrè).

IL SACRO CUORE DI GESU’ E I TEMPI PRESENTI

Il Sacro Cuore di Gesù e i tempi presenti.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESU’; S.E.I. Ed. Torino, 1920 – impr.-]

 Cuore! Cuore! Ecco una di quelle parole più espressive, più ricche di significati, che maggiormente si odono sulla bocca degli uomini. E Cuore! Cuore! facciamoci a ripetere ancor noi. Ma non già per ricordare il viscere del petto umano, o le sue morali qualità, bensì per rappresentare dinnanzi a noi il viscere del petto divino e le sue grandezze, le sue perfezioni, i tesori del suo amore infinito per noi. Sì, diciamo e ridiciamo pur le cento volte Cuore! Cuore! per farci a conoscere, ad amare, ad imitare, ad adorare il Cuore Sacratissimo di Cristo. E potremo noi far uso migliore della parola Cuore? Potremo meglio riparare in tal guisa l’uso indegno, che di essa si fa in espressioni idolatriche e sacrileghe? Potremo con essa esprimere, significare qualche cosa di più grande, di più bello, di più sublime, di più buono, di più eletto, di più caro! Cuore, Cuore Sacratissimo, Cuore Santissimo, Cuore Divino, Cuore Adorabile, Cuore di Gesù Cristo, ecco adunque la voce, che noi fin da questo momento prenderemo a ripetere senza stancarci mai. E perché? Perché incominciando oggi il mese di giugno, nel quale ricorre la festa del Cuore di Gesù, e che noi, secondo l’uso cristiano ornai universalmente introdotto, consacriamo a questo Cuore istesso, prendevo col più vivo trasporto a parlarne ogni giorno, affine di accenderci ognora più della sua divozione. – Ed oh! a qual opera importante noi ci accingiamo! Oggidì massimamente si muove contro di Gesù Cristo una guerra atroce, ostinata ed implacabile. Si bestemmia orribilmente il suo santo Nome, si disprezza la sua celeste dottrina, si deridono i Sacramenti, frutti benefici del suo amore per noi, si oltraggia la Chiesa da Lui istituita per la nostra salute, si insulta e si fa patire l’Augusto Capo, che Egli vi ha preposto a governarla, e in cento guise diverse si lavora satanicamente a distruggere .nelle anime il regno di Gesù Cristo. Ora, prendendo noi a parlare del suo Sacratissimo Cuore, ne mostreremo, come meglio ci sarà dato, le grandezze, le perfezioni, le prove di carità per noi, e ci industrieremo per tal guisa a mantenere ed accrescere in noi la sua fede, il suo amore e a diffondere altresì questo amore e questa fede nel cuore dei nostri fratelli. E se a ciò riusciremo, oltreché avremo assicurate grazie specialissime di salute a noi, non arrecheremo altresì vantaggi segnalatissimi alla società, in cui viviamo? I tempi, o miei cari, corrono tristi pur troppo, non ostante le più fallaci parvenze del contrario. E la ragione della miseria ed infelicità presente non da altro è causata se non dall’abbandono e dal disprezzo, in cui fu lasciato cadere Gesù Cristo. – La divozione pertanto al suo Cuore Santissimo, che noi praticheremo e che col nostro esempio faremo praticare da altri, sarà uno dei mezzi più efficaci per risollevare la società presente dal suo abisso, e ridonarle la pace e la prosperità. Ed è ciò appunto che voglio dimostrarvi in questo primo discorso. Ma prima di metter mano agli importanti argomenti, che siamo per trattare, preghiamo umilmente il cuore Santissimo di Gesù, che si degni di purificare le nostre labbra e i nostri cuori. Quando Mosè fu per avvicinarsi al roveto ardente, intese da quello uscir una voce che gli disse: « Sciogliti prima i calzari, perché il luogo in cui stai è terra santa. Ed il Cuore di Gesù, nel quale dobbiamo entrare in questo mese con le nostre considerazioni, coi nostri sentimenti, e coi nostri affetti, è un luogo infinitamente santo, è il ricettacolo di tutta la santità. Diciamogli adunque con umiltà: O Cuore Sacratissimo, purificate le nostre menti, i nostri cuori, le nostre labbra, perché liberi da vani pensieri non riflettiamo più ad altro che a quello che voi ci farete intendere, perché mondi da terreni affetti non amiamo più altro che voi, perché casti nelle parole cantiamo più degnamente che sia possibile le vostre sante lodi.

— Ci andiamo inoltrando nel secolo ventesimo. Ed è innegabile, che chi considera soltanto con occhio superficiale lo stato presente delle cose, va fuori di sé per maraviglia allo spettacolo, che gli si para dinnanzi. Le scienze fisiche e naturali, le conquiste nel campo della materia, la libertà nell’ordine sociale, le agiatezze della vita, sembrano aver raggiunto il loro apogèo, e se pur rimane a fare qualche passo per raggiungerlo si è così sicuri di poterlo fare, che già oggi si dice baldanzosamente: Domani avremo trionfato di ogni difficoltà! Dappertutto per mezzo di fili elettrici, che scorrono per le pianure, travalicano le montagne, stendonsi sul letto dei mari, con la rapidità del fulmine il pensiero e la volontà dell’uomo si appalesano da una ad un’altra città, da un popolo ad un altro popolo, da un mondo ad un altro mondo; che anzi oggimai mercé le scoperte di un nuovo genio italiano ciò avviene anche senza la mediazione dei fili. Là, in mezzo agli oceani navi, che assicurate dai capricci dell’atmosfera e dalla tirannia dei venti volano senz’ali, sfiorando l’abisso, giungendo in porto ad ora stabilita e compiendo in pochi giorni un viaggio, per il quale i nostri antenati impiegavano mesi intieri. Sulla superficie della terra una immensa rete di ferro, sulla quale i treni passano sbuffanti, portati dal vapore, come da un’anima vivente, e trasportando le intere popolazioni a spettacoli, ad affari, a piaceri, che ai nostri maggiori erano ignoti. Le città e persino le ville illuminate la sera da splendori incantevoli, che sembrano eclissare il giorno; e i signori e le dame che folgoranti di sete, di ori, di diamanti o battono il cammino in aria di conquistatori, o nei superbi cocchi paiono essere condotti per le vie del trionfo. Nel tempo stesso la gente del popolo, gli operai, i servitori, gli uomini della gleba, che senza più alcun riguardo si frammischiano nelle agitazioni della vita alla nobiltà ed alla borghesia, tenendo alta la testa e mostrando scritto sulla fronte il pensiero del cuore: « Le distinzioni sono ornai scomparse; è il tempo della libertà, dell’uguaglianza e delle fraternità: anche noi abbiamo i nostri rappresentanti al maneggio della cosa pubblica; siamo ancor noi in pieno possesso dei nostri diritti. » La gioventù poi soprattutto ti si presenta lieta e festante, incoronata di fiori, senza timore che le si appassiscano, spensierata della vita presente e facendo sogni dorati per l’avvenire. Insomma sembrerebbe tornata l’età dell’oro, parrebbero giunti i tempi della prosperità e della tranquillità universale. Eppure… ah! non vi ha bisogno di un lungo esame per riconoscere, che la prosperità non è che apparente e che la tranquillità non esiste. Invece della prosperità regna la miseria, e miseria sì grave, sì orrenda e sì estesa da far soffrire la fame a intere popolazioni. Invece della tranquillità regna la cupidigia, l’agitazione, la lotta, il disordine. Si è fatta la pace, ma la pace non esiste, e più che mai rinvigoreggiano gli odii nazionali e regionali; si invoca la ristorazione morale e non mai i delitti furono più numerosi, più enormi e più feroci, perché non mai i costumi furono così depravati. Quadra troppo bene alla nostra età quella sentenza dell’apostolo Giovanni: Omne quod in mundo est, concupiscentia carnis est, et concupiscentia oculorum, et superbia vitae. ( I Eph. II, 16). Quant’è nel mondo tutto è compiacenza della carne, sete delle ricchezze, superbia della vita. La più parte degli uomini infatti obbliando il principio, onde nacquero, e il fine a cui sono chiamati, fissano tutti i loro pensieri e le loro sollecitudini nei vani e caduchi beni della terra, e violentando la natura e scompigliando l’ordine stabilito, si rendono volontariamente schiavi dei miserabili agi e piaceri dei sensi. È poi naturale che con l’amore degli agi e dei piaceri si accoppi la cupidigia di quanto serve a comprarli. Di qui quella sfrenata avidità di denaro, che acceca quanti invade, e corre tutto fuoco ed a briglia sciolta a scapricciarsi, senza divisare sovente il giusto dall’ingiusto, e non di rado con ributtante insulto all’altrui miseria e impotenza. Di qui la giustizia divenuta così rara, il furto, la rapina, la concussione, l’usura che si pratica sotto tante forme, le catastrofi finanziarie che si moltiplicano, i giuochi di borsa nei quali si rischia non solo quel che si possiede, ma ciò che non si ha e non si avrà giammai; i possessori della fortuna pubblica che vivono tranquillamente al coperto sotto la loro infamia, la qualifica di speculazione disgraziata ai giuochi in cui si è dilapidato il bene altrui, l’invidia alla sorte di quei ricchi disonesti, a cui la fortuna fu più propizia, e da un capo all’altro della scala sociale quel non aver più in credito ed in voga che un’arte, l’arte di riuscire a far denaro, anche a costo di metter le mani sull’oro altrui e di tingerle dell’altrui sangue. E di qual sangue! Talora del fratello, dei figli, del proprio padre e della propria madre! All’istesso modo l’animo inorgoglito per una parte tenta scuotere il giogo d’ogni legge, calpesta ogni autorità e solleva da per tutto la bandiera della ribellione: per l’altra, affine di prevalere ad ogni costo sopra gli altri, si appiglia alla menzogna, alla corruzione, alla forza ed all’arbitrio. Uno sguardo in basso, e le classi povere e lavoratrici vi faranno paura; uno sguardo in alto, e l’autorità o vi farà compassione o vi farà fremere. Il popolo più non rispetta l’autorità, anzi non solo non la rispetta, ma la disprezza e la odia, e la disprezza e la odia solamente perché è autorità. I piccoli, i poveri, gli operai, i diseredati della fortuna alzano il grido di Spartaco, e con celerità spaventosa questo grido si propaga nel mondo ingenerando i più spaventevoli rivolgimenti politici; il pugnale o la palla dell’assassino mette così spesso a pericolo e toglie ben anco la vita dei Capi delle nazioni, e il petrolio, la dinamite, le bombe talora mandano in aria le case o le famiglie dei ricchi, dei padroni, dei capitalisti e dei governanti. Questi poi per parte loro in gran numero arrivano oggi a sedere al banchetto dei pubblici affari non altrimenti che brogliando e corrompendo; e là seduti, serviti del danaro delle pubbliche gabelle, servono ad un tempo stesso alla setta, da cui dipende tutta la loro vita e la loro forza, o eccedendo vilmente di tolleranza verso i malvagi, o più odiosamente di dispotismo verso i buoni. Che se poi dalla società in generale voi vi affacciate in particolare al focolare domestico, dovete tosto ritrarvene atterriti, perciocché nozze senza santità, famiglie senza amore, coniugati senza fedeltà, genitori senza prudenza, figliuoli senza rispetto, anche qui fanno regnare l’alterigia, la disobbedienza ed il disordine. Insomma dappertutto, nella vita privata e nella pubblica, nonostante il progresso delle scienze e della materia, e la prosperità e la tranquillità apparente, decadenza, miseria, malessere e rivoluzione che spaventa. Ma a tanto male chi ha spalancato la via? Quale causa funesta lo ha ingenerato e cresciuto? Quale causa?… L’abbandono e il disprezzo pressoché totale di nostro Signor Gesù! O, Sì, purtroppo, o miei cari, con uno spirito fatale di superba e fallace innovazione, Gesù Cristo fu detronizzato e messo alla porta dalla società, dalla scienza dalla letteratura, dall’arte, dalla morale, dal governo, e persino dalla religione, che si pensò creare senza di Lui; anzi Gesù Cristo non solo fu escluso, ma beffato, insultato, maltrattato, combattuto nella scienza, nella letteratura, nell’arte, nella morale, nel governo e nella religione di nuovo conio. Né crediate che in ciò vi sia esagerazione di sorta. Non avete che a gettare qua e là lo sguardo per convincervi tosto di questa dolorosa e terribile verità. « Considerate l’andamento delle pubbliche scuole. Non solo non si dà luogo in esse all’ecclesiastica autorità, e si lascia d’informare alla pratica dei cristiani doveri gli animi della gioventù, ma si tace il più delle volte l’insegnamento religioso, e ciò che è peggio le si ammanisce una viziata dottrina, la quale, tutt’altro che istruire con le nozioni del vero, infatua coi sofismi dell’errore. » (LEO XIII) – Il libero pensiero ha negate le grandi verità religiose, epperò postergata affatto la fede divina, e filosofando col solo magistero della ragione, si insegna che quanto vi ha nel mondo tutto è corporeo; che gli uomini e gli animali hanno medesimezza di origine e di natura, che forse non vi ha neppure un Dio, sommo artefice del mondo e dominatore delle cose, e che se pure esiste egli è ben diverso da quello che la religione cristiana lo finge. – Considerate la stampa, che più ancora della scuola riproduce il libero pensiero, e col libero pensiero la coscienza libera, che ha proclamato norma unica delle azioni umane il proprio volere; consideratela nei romanzi, nei libri, nei manuali, nelle riviste, negli almanacchi e più ancora nel giornale, che forma oggidì la principale attrattiva del popolo. Da per tutto storie, racconti, novelle, ragionamenti, articoli scientifici e letterari concorrono come tanti colpi di scure contro il tronco di un albero che si vuole atterrare, a rovinare, cioè gli ultimi avanzi della fede popolare. Ivi si insultano i preti, si calunniano e si infamano senza smentita o ritrattazione di sorta; ivi si scherniscono e si combattono le processioni, i pellegrinaggi, le feste religiose, i congressi cattolici e tutte le manifestazioni di fede cristiana; ivi si assale con energia diabolica la Bibbia, il Vangelo, Gesù Cristo, Iddio; ivi con la più cruda fierezza si spaccia il materialismo popolare: « Che Dio non c’è, che Dio è il male, che l a religione ha fatto il suo tempo, che quando si è morti tutto è morto, che l’altro mondo non esiste, che nessuno ne è mai tornato, che il cielo, l’inferno, il purgatorio sono stupidezze; che i preti che li predicano fanno il loro mestiere, che le persone che ancor ci credono sono sciocchi o pazzi, che le persone dabbene non ci credono più, che il regno della superstizione è passato, che è il regno della scienza! » Sì, ecco in tutta la sua sincerità e in tutta la sua estensione la dottrina, che si spaccia ogni dì da milioni e milioni di fogli stampati. Considerate inoltre le stesse arti, già inventate pei comodi della vita e onesto sollievo dell’animo, fatte servire di esca ad infiammare le umane passioni; considerate le ampie e licenziose rappresentazioni teatrali; considerate la educazione laica e viziata che si imparte ai figliuoli nel seno istesso delle famiglie; considerate sopra tutto il lavorìo febbrile, incessante, diabolico delle sette anticristiane, ed il contegno talora aggressivo ed oppressivo dei poteri umani contro la Chiesa cattolica; e poi non penerete a conoscere, che non solo si è respinto Gesù Cristo e la sua dottrina da ogni cosa, ma che in ogni cosa si combatte Gesù Cristo e la sua dottrina e da per tutto si ripete il grido della giudaica perfidia: Nolumns hunc regnare super nos. – Ma che? Dove termina il regno di Gesù Cristo, termina per naturale conseguenza il regno della vita cristiana, e delle cristiane virtù, da cui solo viene ogni bene; termina la castità che conserva il pudore e il buon costume, termina la povertà che ci innalza al di sopra dei miseri beni del mondo, termina l’umiltà che ci rende sommessi all’autorità, dolci con gli eguali, fratellevoli cogl’inferiori, termina la mortificazione che ci fa rassegnati al patire, termina la carità che ci anima al perdono ed al sacrificio; termina insomma il regno di ogni pia bella virtù, e vi sottentra necessariamente, inevitabilmente, un altro regno, il regno del diavolo, il regno d’ogni più turpe vizio; il regno della disonestà, della cupidigia, dell’orgoglio, del godimento, dell’egoismo, dell’ingiustizia, della prepotenza, dell’odio, della vendetta, dell’insubordinazione e della rivoluzione, e accumula rovine sopra rovine, dolori sopra dolori, miserie sopra miserie. Tant’è, la giustizia nella stima e nell’amore di Gesù Cristo innalza e prospera le genti, ma il peccato nell’abbandono e nel disprezzo di Gesù Cristo li abbatte ed immiserisce: Iustitia elevat gentem, miseros autem facit populos peccatum. (Prov. XIV, 34) No, non è da cercare altrove la causa dei mali presenti; perciocché le stesse cause meramente esterne, quali sono gli sbagli gravissimi dei governanti, l’accrescimento enorme delle tasse, l’inferacità del suolo, e simili, non sono altro in fondo in fondo che effetti e castighi prodotti da quella causa prima ed unica.

II. — Se tale adunque è la causa vera e suprema dello stato infelice, a cui trovasi ridotta la nostra società, quale sarà il rimedio per guarirla e salvarla? La sapienza umana si avanza proponendo i suoi. Il socialismo ai giorni nostri vorrebbe a tal line rifare la costituzione sociale dalle sue basi. Ma chi non ha perduto interamente il buon senso, vede a primo aspetto, che nelle teorie del socialismo ridotte alla pratica, anziché un rimedio vi ha un pericolo maggiore del male. I filosofanti vorrebbero far penetrare meglio nelle masse l’idea del dovere, della giustizia e dell’onore. Ma che può mai sull’animo umano l’idea dell’onore, della giustizia e del dovere, quando mancando la dottrina di Gesù Cristo non vi è più nulla da far sperare e più nulla da far temere? Quando dalle pareti del tribunale, della scuola, dell’officina, della casa domestica si è strappato il crocifisso, che rammenta un Dio che tutto vede e tutto conta, anche i più segreti pensieri dell’animo, per darne premio o castigo, dovere, giustizia, onore sono parole prive di senso. I governanti si appigliano alle leggi ed alla forza. Ma moltiplicate pure all’infinito le leggi, raddoppiate le precauzioni, triplicate le serrature, ampliate le prigioni, aumentate le galere e i domicilii coatti, mettete gli stati di assedio, istituite i tribunali militari, pronunziate giudizi con la massima severità ed eseguiteli col maggior apparato di forza, non perciò si stabilirà la prosperità e la pace, non saranno perciò più sicuri i vostri beni e la vostra vita; un po’ di astuzia, un po’ di destrezza, un po’ di violenza basterà ad eludere e ad abbattere ogni cosa per coloro, nei quali avete fatto morire l’idea della legge cristiana e di quel tribunale che non si evita giammai. Miei cari! I rimedi che propone l’umana sapienza sono inutili, perché impotenti ed inefficaci. « Come questo mondo non altrimenti può essere conservato, che dalla volontà e provvidenza di Colui, che l’h a creato, così pure non possono gli nomini essere risanati, che dalla sola virtù di Colui, che gli ha redenti. » No, non est in alio aliquo salus: (Act. IV , 12) – Non havvi salvezza fuor di Lui. « Poiché se Gesù Cristo a prezzo suo sangue riscattò una volta sola il genere umano, nondimeno perenne e costante è l’efficacia di opera cotanta e di sì gran benefizio. » ( LEO XIII) Perciocché questo è il disegno di Dio, di ristorare mai sempre in Cesù Cristo tutto ciò che è nei cieli, e tutto ciò che è sulla terra; Instaurare omnia in Christo, quæ in cœlis et quae in terra sunt. (Eph. 1, 10) E Gesù Cisto ristoratore, dall’alto della sua croce, sollevato in mezzo all’universo ed al tempo, è il centro di ogni armonia che si ristabilisce, d’ogni bellezza che si rinnova, d’ogni grandezza che si ristora: Egli è la via, la verità e la vita. È « la guarigione dei mali presenti è riposta in questo, che mutato avviso, ritornino gl’individui e la società a Gesù Cristo ed al retto cammino della vita cristiana. » (Id.) Tale, nessun’altra, è la gran legge della riparazione: ricondurre Gesù Cristo nella scuola, nell’officina, nella famiglia, nella legislazione, nel governo, nella religione, in tutta quanta la vita sociale ed individuale. Bisogna che ogni cristiano, di fatto e non di nome soltanto, effettui l’ideale del Cristianesimo additato già dai santi Padri: Esso è un altro Cristo: Christianus alter Christus. – Bisogna che l’individuo, la famiglia, la società possa gridare con l’Apostolo: Io vivo, ma non già io, è Gesù Cristo che vive in me. È Gesù Cristo che anima la mia parola, i miei scritti, le mie opere, i miei movimenti, le mie aspirazioni, i miei commerci, le mie industrie, le mie leggi, i miei governi: vivo ego, jam non ego, vivit vero in me Christus. (Galat. II, 20). Oh! quando per mezzo di una vita essenzialmente ed universalmente cristiana, rifiorita di tutte le cristiane virtù sociali ed individuali, sarà ricollocato Gesù Cristo sul suo trono, sarà rimesso nel cuore della società, della famiglia, degl’individui, allora ritornerà il benessere, la prosperità e la pace, perciocché i grandi abbasseranno l’orgoglio, i piccoli si faranno rispettare per le loro virtù e non incuteranno timori coi tumulti, i maestri, i padroni, i genitori eserciteranno con dolcezza e con vigore la loro autorità, e i sudditi, i discepoli, gli operai, i servi, i figliuoli la riveriranno con stima ed affetto; la giustizia metterà la spada nel fodero e signore del mondo sarà l’amore; la miseria scomparirà dai nostri paesi e dalle nostre case, perché allora Iddio ci benedirà tutti de rore

meli et de pinguedine terræ.

III. — Ma io so bene che vi saranno di coloro, i quali nel loro cuore andranno dicendo che questo è un bel sogno, ma nient’altro che un bel sogno. L’apostasia del secolo è andata troppo avanti, l’incredulità è addivenuta troppo generale, perché si possa pervenire a questo di ristabilire largamente la vita e le virtù cristiane in seno alla società. Ed io non nego che tale ristabilimento abbia ad incontrare difficoltà ed ostacoli, né si possa effettuare ad un tratto solo. Ma viva Dio! Egli che « fece sanabili le nazioni » ha pur sempre a secondo della loro infermità apprestato gli opportuni rimedii. Al tempo che il paganesimo agonizzante tentava di mantenersi in vita con lo scannare a milioni i Cristiani, Iddio diede a suoi martiri il coraggio, per cui versando il sangue per la fede, effondevano il seme di cristiani ancor più numerosi. Quando gli eretici, sottentrati ai carnefici, con maggior furore e con maggior nocumento spargevano la zizzania nel campo della Chiesa, Iddio suscitò i Padri e i Dottori, che con la loro ammirabile sapienza ed operosità non tardarono a mondarlo. Quando tra i popoli accesosi lo spirito di odio e di vendetta, gli animi stavano inferociti tra loro nel seno della stessa città e famiglia e la mano correva sì presta a brandire la spada per versare umano sangue, Iddio risvegliava lo spirito di carità vicendevole e di universale fratellanza per mezzo delle grandi famiglie religiose. E in questi ultimi tempi, in cui dapprima il Protestantesimo, ed il Volterianismo, e l’incredulità dappoi, han fatto man bassa sopra i misteri più augusti della nostra santa fede e sopra le pratiche più sante e salutari della nostra santa Religione gridando satanicamente e senza alcun riguardo: « Abbasso Gesù Cristo! abbasso la Vergine e i Santi! » Iddio sembra offrire il rimedio opportuno nella divozione più ferma, più viva e più manifesta ai Santi, alla Vergine e a Gesù Cristo soprattutto. Perciò in questi tempi è che ad onore di vari santi, come ad esempio di san Giuseppe, si è esplicato un culto assai più fervido che nei tempi passati; è in questi tempi che le manifestazioni di amore alla grande Ausiliatrice dei cristiani si sono mirabilmente accresciute; ed è pure in questi tempi che si è fatta e si va facendo più ardente nel cuore dei Cristiani la divozione a Gesù Cristo mediante la divozione diretta al suo Cuore Sacratissimo. – Ora, che nella divozione a questo Cuore Sacratissimo di Gesù, per non dir nulla qui della divozione alla Vergine ed ai Santi, stia riposto un mezzo dei più acconci a ridonare alla società lo spirito, la vita e le virtù cristiane, epperò la pace e la prosperità, nessuno è di retto senso che nol possa vedere. Perciocché, se è vero, come abbiamo riconosciuto, che l’attuale disordine della società consiste nell’abbandono di Gesù Cristo, e che a far scomparire tale disordine non vi è altro mezzo che rimettere nella società Gesù Cristo, bisogna pur confessare che a ciò nulla giova maggiormente, che la divozione al suo Sacratissimo Cuore. Il Cuore di Gesù è il cuore, in cui sono raccolte tutte le bellezze, tutte le perfezioni, tutte le virtù, tutte le dottrine, tutti gli ammaestramenti di Gesù Cristo. Il Cuore di Gesù è il cuore, in cui stanno tutte le ricchezze e tutti i tesori della bontà di Dio verso gli uomini, e da cui sono sgorgate tutte le prove supreme della carità divina in nostro prò. Questo Cuore anzi è per eccellenza la Vittima di Carità per noi; perciocché essendo il cuore l’organo dell’amore, è con questo Cuore, che Gesù Cristo ci amò col più grande amore di sacrifizio, vale a dire con quell’amore che lo spinse a dare tutto se stesso per noi. Nella divozione adunque di questo Sacratissimo Cuore si vengono a studiare e riconoscere particolarmente e profondamente le sue bellezze, le sue virtù, i suoi insegnamenti, le sue prove d’amore, tutta insomma la grand’opera della sua redenzione, e conoscendo tutto ciò resta come impossibile non credere, non amare, non imitare Gesù Cristo e non riporre in Lui tutta la fiducia. Di Archimede si racconta che essendo riuscito ad incentrare tutti i raggi del sole nel disco di una gran lente, di là proiettava saette di fuoco ad incendiare le navi nemiche. Gesù Cristo invece avendo concentrato nel Cuor suo Sacratissimo tutte le grandezze della sua redenzione, da questo Cuore si volge al cuore degli uomini per illuminarli, per infiammarli, per eccitarli alla sua imitazione, alla sua adorazione, all’invocazione del suo aiuto. – E per tal guisa Gesù Cristo creduto, amato, imitato, adorato, invocato dagli individui ripasserà nelle famiglie e nella società, che di individui si compongono; e la famiglia e la società, ritornate cristiane, riavranno la felicità e la pace. Tale, senza dubbio, sarà l’efficacia meravigliosa di questa divozione ben’intesa e ben praticata. Ce ne sta garante la parola istessa di Gesù Cristo. Mostrandosi egli un giorno a santa Geltrude in compagnia di S. Giovanni Apostolo concesse a questa santa di posare la testa sopra il suo petto. Ed allora, intendendo essa i battiti così forti del Cuore di Gesù Cristo, rivolgendosi a S. Giovanni esclamò: Perché, o santo Apostolo, non avete parlato nel vostro Vangelo di quello che ora io sento? E a questa domanda s’intese a rispondere che « una cognizione più intima del Cuore di Gesù era riserbata a quei tempi, in cui essendosi raffreddati i cuori degli uomini nel suo amore, sarebbe stato necessario riaccenderli. » Non temiamo adunque. – Per quanto sia cresciuta l’incredulità e l’indifferenza, per quanto sembrino congiurate contro la fede e la vita cristiana la scienza e la politica, per quanto possa parere vicino un nuovo trionfo del paganesimo e della rivoluzione, non sarà così tuttavia. La vera divozione al Sacro Cuore di Gesù, che si va ogni dì più assodando, mercé il movimento portentoso ed universale verso la SS. Eucarestia, ci anima efficacemente a sperare in tempi migliori. Lo stesso evangelista S. Giovanni dopo aver narrato l’ultimo oltraggio recato al Crocifisso con la lanciata, per cui gli fu aperto il costato e ferito il Cuore, si

affrettò di notare, che ciò avvenne perché si adempisse la Scrittura che diceva: Volgeranno gli sguardi a Colui, che hanno trafitto: Videbunt in quem trafixerunt. (ZACC. XII, 10) E così avvenne realmente, perciocché dopo quella crudele ferita gli stessi crocifissori si volsero a guardar Gesù Cristo non più come oggetto di odio e di abbominazione, ma come oggetto di pietà e di religione, anzi di speranza e di salute. Lo stesso Longino, il soldato, che trasse il duro colpo di lancia, volgendo lo sguardo a quel Cuore ferito essendo stato bagnato dall’acqua e dal sangue, che ne scaturì, non solo acquistò la vista materiale di un occhio che aveva cieco, ma più ancora acquistò la vista dello spirito, poiché conosciuta la verità, l’abbracciò e la seguì, e si fece santo e morì martire! Così anche ora, per mezzo della devozione, volgendo lo sguardo al Cuore trafitto di Gesù Cristo, se ne trarranno per gli stessi malvagi, cha hanno rinnovato il delitto di Longino, torrenti di luce e di amore. Ed oh! voglia Iddio che da tutti si riconosca questa grade verità. Ma poiché Egli nella sua bontà si è degnato di farla riconoscere a voi, che devoti al Sacro Cuore di Gesù siete venuti qui ad onorarlo, fin da questo primo giorno del mese a Lui consacrato, deh! continuate voi ad avvalervi di questo gran mezzo di salute. No, non vi sia alcuno di voi, che creda non appartenergli punto la ristorazione della società od essere opera di ben altri uomini. Quando pure tra di voi non ci fossero che anime semplici e rozze, non vi scordate che Iddio si valse di dodici poveri pescatori per rigenerare il mondo. E con la devozione al Sacro Cuore di Gesù, che voi continuerete a praticare, e che anzi andrete ogni giorno più in voi accrescendo, riuscirete senza dubbio, benché occultamente, a fare al mondo un bene di gran lunga maggiore che non quello di tutti i legulei e filosofi moderni. Venite adunque, o carissimi, venite in questo mese a considerare, a studiare da vicino, a contemplare questo Sacratissimo Cuore. In Lui, secondo l’insegnamento della Chiesa, riconoscete la Vittima della Carità, l’Arca che contiene la legge di grazia e di misericordia, il Santuario intemerato della nuova Alleanza, il Tempio mille volte più santo dell’antico, la sorgente di ogni virtù. Venite ad adorare questo Cuore Divino, a rifugiarvi dentro di Lui, a gustare le sue dolcezze, a sperimentare le sue misericordie. Venite, o giusti, venite, o peccatori,, venite, o anime tranquille, venite, o anime tribolate, venite, venite tutti: nel Sacro Cuore di Gesù, nella sua cognizione, nel suo amore, nella sua imitazione, nella sua vera divozione, troverete tutti la pace, la salute, la felicità. – E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che sospingete al vostro capo, alle vostre mani, ai vostri piedi e a tutte le altre parti del vostro corpo, quel sangue preziosissimo con cui voleste operare la redenzione del mondo, deh! non permettete che una tale redenzione non abbia ad essere copiosa. Come un giorno vi commoveste di compassione al vedere innanzi a Voi una turba affamata di pane terreno, commovetevi oggi anche più nel vedere la presente società, che perisce in un’inedia terribile per la mancanza del cibo divino della vostra cognizione e del vostro amore. Mercé la divozione vostra disvelatevi ad essa in tutta la vostra amabilità, e riguadagnatevi tutti i cuori suoi; mercé questa divozione spargete sopra di essa le vostre benedizioni e le vostre grazie di salute, perché ancor essa fa parte del vostro popolo e della vostra eredità; sì, salvatela adunque e beneditela: Salvum fac populum tuum, Domine, et benedic haereditati tuæ.

CALENDARIO LITURGICO DEL MESE DI GIUGNO (2018)

GIUGNO È  IL MESE CHE CHIESA DEDICA AL SACRO CUORE DI GESU’

“… se è vero, come abbiamo riconosciuto, che l’attuale disordine della società consiste nell’abbandono di Gesù Cristo, e che a far scomparire tale disordine non vi è altro mezzo che rimettere nella società Gesù Cristo, bisogna pur confessare che a ciò nulla giova maggiormente, che la divozione al suo Sacratissimo Cuore. Il Cuore di Gesù è il cuore, in cui sono raccolte tutte le bellezze, tutte le perfezioni, tutte le virtù, tutte le dottrine, tutti gli ammaestramenti di Gesù Cristo…”

[Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESU’, S.E.I. Ed. Torino, 1920 – impr.-]

Indulgenze per il mese di giugno: 

253

Mensis sacratissimo Cordi Iesu dicatus

Fidelibus, qui mense iunio (vel alio, iuxta Rev.mi Ordinari prudens iudicium), pio exercitio in honorem Ssmi Cordis Iesu publice peracto devote interfuerint,conceditur:

Indulgentia decem annorum quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea peccatorum veniam obtinuerint, eucharisticam Mensam participaverint et ad Summi Pontificis mentem preces fuderint. Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia divino Cordi Iesu privatim praestiterint, conceditur:

Indulgentia septem annorum semel quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint (S. C. Indulg., 8 maii 1873 et 30 maii 1902; S. Pæn. Ap., 1 mart. 1933).

(A coloro che nel mese di giugno praticano un pio esercizio in onore del Sacro Cuore di Gesù in pubblico, si concedono 10 anni ed in privato 7 anni, e Indulgen. Plenaria se esso verrà praticato almeno per 10 giorni con le s. c.).

Altre indulgenze ove viene celebrato solennemente il Cuore Sacratissimo di Gesù con corso di predicazione:

Præterea, si mensis sacratissimo Cordi dicatus solemniter celebratur, scilicet cum sacra prædicatione aut quotidie, aut ad formam spiritualium exercitiorum (duplici saltem concione singulis diebus) per octiduum, sive in ecclesiis sive in publicis vel (prò legitime utentibus) semipublicis oratoriis, conceditur:

Indulgentia plenaria prò singulis visitationibus, die qua mensis clauditur, ab iis lucranda, qui diebus saltem decem sacris concionibus et piis precibus adstiterint, vel spiritualibus exercitiis ex integro vacaverint (piis obsequiis passim præstitis), si præterea sacramentalem confessionem instituerint, cælestem Panem sumpserint et sexies Pater, Ave et Gloria ad mentem Summi Pontificis in unaquaque visitatione recitaverint;

2° a) Indulgentia quingentorum dierum prò iis, qui aliquod præstant pium opus, ut præfatum exercitium magis diffundatur aut incrementum suscipiat;

b) Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, alicuius ecclesiæ vel publici oratorii visitatione et ad mentem Summi Pontificis oratione, prò iisdem, quoties sacram Communionem infra prædictum mensem receperint;

Indultum altaris privilegiati personalis, die qua mensis concluditur, concionatoribus et rectoribus ecclesiarum et oratoriorum, ubi praedictum exercitium solemniter peragitur (S. C. Indulg., 8 aug. 1906; Pius X, ex privata Audientia, exhibito documento, 26 ian. 1908; Pæn. Ap., 15 nov. 1927 et 5 iul. 1930).

256

Actus reparationis

Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas,

tanta oblivione, negligentia, contemptione,

ingratissime rependitur, en nos, ante altaria

tuae provoluti, tam nefariam hominum socordiam

iniuriasque, quibus undique amantissimum

Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus.

Attamen, memores tantæ nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque

vehementissimo dolore commoti, tuam in primis

misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria

expiatione compensare flagitia non modo

quae ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui,

longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem

ducemque sectari detrectant, in sua infidelitate

obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes,

suavissimum tuae legis iugum excusserunt.

Quae deploranda crimina, cum universa espiare

contendimus, tum nobis singula resarcienda

proponimus: vitæ cultusque immodestiam

atque turpitudines, tot corruptelæ pedicas

innocentium animis instructas, dies festos

violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata

maledicta àtque in tuum Vicarium ordinemque

sacerdotalem convicia irrogata, ipsum

denique amoris divini Sacramentum vel neglectum

vel horrendis sacrilegiis profanatum, publica

postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a

te institutæ iuribus magisterioque reluctantur.

Quae utinam crimina sanguine ipsi nostro

eluere possemus! Interea ad violatum divinum

honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in

Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie

in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos

tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium

Sanctorum, piorum quoque fìdelium expiationibus

coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita

nostra aliorumque peccata ac tanti amoris

incuriam firma fide, candidis vitae moribus,

perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum,

observantia, quantum in nobis erit, gratia tua

favente, nos esse compensaturos, tum iniurias

tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam

plurimos potuerimus ad tui sequelam convocaturos.

Excipias, quæsumus, benignissime Iesu,

beata Virgine Maria Reparatrice intercedente,

voluntarium huius expiationis obsequium nosque

in officio tuique servitio fidissimos ad mortem

usque velis, magno ilio perseverantiæ munere,

continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus

omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu

Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

 (Extra ecclesiam vel oratorium, loco: altaria tua, dicatur: conspectum tuum.)

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione, sacra Communione et alicuius ecclesiae aut publici oratorii visitatione, si quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.

Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ssmo Sacramento sollemniter exposito, conceditur: Indulgentia septem annorum; Indulgentia plenaria, dummodo peccata sua sacramentali pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1 iun. 1928 et 18 mart. 1932).

265

Deus, qui nobis, in Corde Filii tui, nostris vulnerato peccatis, infinitos dilectionis thesaurus misericorditer largiri dignaris; concede,

quæsumus, ut illi devotum pietatis nostræ prestante obsequium, dignæ quoque satisfaction is exhibeamus officium. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Miss. Rom.).

[Indulgendo quinque annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, quotidiana orationis recitatione in integrum mensem producta (S. Pænit. Ap., 18 apr. 1936).]

266

Concede, quæsumus omnipotens Deus, ut qui

in sanctissimo dilecti Filii tui Corde gloriantes,

præcipua in nos caritatis eius beneficia recolimus,

eorum pariter et actu delectemur et fructu.

Per eumdem Christum Dominum nostrum.

Amen.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote repetita fuerit (S. Pæn. Ap., 20 oct. 1936).

Queste sono le feste del mese di GIUGNO

1 Giugno Primo venerdì

2 Giugno Primo Sabato Ss. Marcellini, Petri, atque Erasmi Mártyrum.  Simplex

3 Giugno Dominica II Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor

4 Giugno S. Francisci Caracciolo Confessóris    Duplex .

5 Giugno S. Bonifatii Epíscopi et Martyris    Duplex

6 Giugno S. Norberti Episc. et Confessóris    Duplex

8 Giugno Sanctissimi Cordis Domini Nostri Jesu Christi    Duplex I. classis

9 Giugno Ss. Primi et Feliciani Mártyrum    Simplex

10 Giugno Dominica III Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor S. Margaritæ Reginæ Víduæ

11 Giugno S. Barnabæ Apostoli    Duplex *L1*

12 Giugno S. Joannis a S. Facundo Confessóris    Duplex

13 Giugno S. Antonii de Padua Confessóris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

14 Giugno S. Basilii Magni Confessóris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

15 Giugno Ss. Viti, Modesti atque Crescentiæ Mártyrum    Simplex

17 Giugno Dominica IV Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor

18 Giugno S. Ephræm Syri Confessóris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

19 Giugno S. Julianæ de Falconeriis Virginis    Duplex

20 Giugno S. Silverii Papæ et Martyri    Simplex

21 Giugno S. Aloisii Gonzagæ Confessóris    Duplex

22 Giugno S. Paulini Epíscopi et Confessóris    Duplex

23 Giugno In Vigilia S. Joannis Baptistæ    Duplex II. classis *L1*

24 Giugno In Nativitate S. Joannis Baptistæ    Duplex I. classis *L1*

25 Giugno S. Gulielmi Abbatis    Duplex

26 Giugno Ss. Joannis et Pauli Mártyrum    Duplex

28 Giugno S. Irenæi Epíscopi et Martyris    Duplex

29Giugno SS. Apostolorum Petri et Pauli    Duplex I. classis *L1*

30 Giugno In Commemoratione S. Pauli Apostoli    Duplex *L1*

IGNORANZA DELLA RELIGIONE

Ignoranza.

[G. Bertetti: Il Sacerdote Predicatore. S.E.I. Ed. Torino, 1919]

— 1. Ignoranza colpevole. — 2. Ignoranza inescusabile. — 3. Ignoranza funestissima nelle sue conseguenze.

1. IGNORANZA COLPEVOLE. — Non è colpa l’ignorare l’astronomia, la geometria,… e tutte le altre scienze umane… Son tutte cose bell’e buone, se si apprendono col retto intento d’aiutarci per mezzo di esse alla conoscenza di Dio:… ma Dio non ci fa nessun obbligo di studiarle, e alla conoscenza di Dio si perviene molto più facilmente con la semplicità del cuore che con la sublimità dell’intelletto: « Io ti ringrazio, o Padre, o Signore del cielo e della terra, perché hai tenute occulte queste cose ai saggi e ai prudenti, e le hai rivelate ai piccolini: così è, o Padre, perché così a te piacque» (MATTH., XI, 25, 26):…. È colpa ignorare ciò che siamo obbligati a sapere;… è colpa ignorare ciò che s’appartiene alla fede e alla morale cattolica, e quest’è obbligo per tutti indistintamente d’apprendere e sapere: « la vita eterna si è che conoscano te, solo vero Dio, e Gesù Cristo mandato da te». (JOAN., XVII , 3) . .. Ed è obbligo di ciascuno in particolare d’apprendere e conoscere ciò che s’appartiene al proprio stato e al proprio officio;… è perciò colpa ignorare quel ch’è necessario sapere in particolare per esercitare coscienziosamente la missione che a ciascun di noi il Signore ha affidato… «È cosa manifesta che chiunque tralascia d’avere o di fare ciò ch’è tenuto ad avere o a fare, fa un peccato d’omissione: perciò è peccato l’ignorare per negligenza quelle cose che s’è in obbligo di sapere ». (S. TH., 2A 2AE , q. 76, a. 2 ) … Eppure, mentre una vera frenesia assale gli uomini d’acquistare la scienza profana, ben pochi si curano della scienza che solo può condurre alla vita eterna… Molti vanno avidamente in cerca di ciò che non sono obbligati a sapere;… pochi sanno le cose che si devono assolutamente sapere… Le tenebre della più profonda ignoranza della religione avvolgono il mondo… Provatevi a interrogare sulle questioni più elementari del dogma e della morale gli artigiani, i mercanti, gl’industriali;… interrogate i dotti e i letterati.

2. IGNORANZA INESCUSABILE . — Quest’ignoranza non ammette scusa… « L’ignoranza della verità non iscusa dalla condanna coloro, ai quali era facile trovarla, se l’avessero voluta cercare: tocca a noi cercare la verità la salvezza, la vita; non alla verità, alla salvezza, alla vita tocca cercare, noi » (S. GIOV. CRIS. , homil. 78 in Matth.);… « altra cosa è non aver saputo, altra cosa non aver voluto sapere; ignorante scusabile è chi vorrebbe imparare e non può; ma chi per non sapere si tura le orecchie alla voce della verità non è solo un ignorante, ma un dispregiatore della verità » (S. BEDA, in 12 Luc.). Potranno scusare la loro ignoranza quegl’infedeli che non sentirono mai parlare di Gesù Cristo,… quei protestanti che furono educati nella persuasione di trovarsi nella vera Chiesa;… ma come potranno scusarsi i cattolici che con tanta comodità d’istruirsi nella religione dicono col fatto, e fors’anche con le parole, al Signore: «Va via da noi; non ne vogliamo sapere de’ tuoi insegnamenti? » (JOB, 21, 14) … — «La regina del mezzogiorno insorgerà nel dì del giudizio contro questa razza d’uomini, e la condannerà, perché venne dall’estremità della terra a udire la sapienza di Salomone: ed ecco qui uno che è da più di Salomone » (MATTH., XII, 42)… Si condanneranno e si renderanno inescusabili da se stessi, poiché non badarono a sacrifici per imparare le cose della terra, e non mossero un dito per imparare le cose del Cielo!

3. IGNORANZA FUNESTISSIMA NELLE SUE CONSEGUENZE. — Chi non conosce Dio, non può amarlo, non può servirlo, non può aspirare alla celeste patria… L’ignoranza colpevole conduce direttamente alla perdizione eterna… Il trascurare la parola di Dio è segno evidente di riprovazione: « Chi è da Dio, ascolta la parola di Dio; voi non lo ascoltate, appunto perché non siete da Dio » (JOAN., VIII, 47) L’ignoranza apre inevitabilmente la via all’errore,… all’eresia,… all’apostasia:… non si vuol più sapere dell’Evangelo, e si presta cieca fede a ogni follia;… non si vuol più sapere di Gesù Cristo, «luce del mondo » (JOAN., VIII, 13), e si perdono dietro a uomini, che sono «nuvoli senz’acqua trasportati qua e là dai venti; alberi d’autunno, infruttiferi, morti due volte, da essere sradicati; flutti del mare infierito, che spumano le proprie turpitudini; stelle erranti, per le quali è riservata tenebrosa caligine in eterno » (Luc., XII, 13). – L’ignoranza della religione conduce alla più sfacciata immoralità:… senza l’Evangelo, si ripiomba in pieno paganesimo;… si perde l’esatta nozione dell’onestà, del diritto, della giustizia, della carità, della santità coniugale, della dignità umana… — É vero che conoscere la religione non significa ancor praticarla;… ma è pur vero che soltanto con la conoscenza di Dio si può avere la virtù… Conoscendo Dio, l’uomo si trova spinto al bene da impulsi più forti di quelli che lo spingono al male;… e anche quando avesse fatto il male, l’uomo trova la forza di rialzarsi, trova almeno un resto di pudore che lo protegge contro l’estremo cinismo dell’immoralità… Quando invece l’ignoranza nelle cose di religione è assoluta, i disordini raggiungono le più immonde e le più sfacciate turpitudini, conducendo tutto un popolo allo sfacelo e alla maledizione di Dio.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (X)

Catechismo dogmatico (X) 

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.

§ IV.

 Della Ss. Eucaristia. 

— La Ss. Eucaristia è un Sacramento della nuova Legge?

È  un vero Sacramento della nuova Legge, e che sia tale è un espresso articolo di Fede (Conc. Trid. sess. VII, c. 1).

È pure un vero Sacrificio?

È similmente un espresso articolo di Fede che sia un vero Sacrifizio ( Conc. Trid. sess. XXII, cap. 1).

— Come si definisce la Ss. Eucaristia in quanto è Sacramento?

Un Sacramento della nuova legge, che contiene realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo sotto le specie del pane e del vino istituito a spirituale refezione dei fedeli. »

— Qual è  la materia di questo Sacramento?

Il pane fatto di frumento e il vino fatto di uva.

— Quale ne è la forma?

Sono le parole della consacrazione che proferisce il Sacerdote sopra il pane e il vino nella S. Messa.

— Proferite le parole della consacrazione, quale cangiamento si fa nel pane e nel vino?

È articolo di Fede che tutta la sostanza del pane si cambia nel corpo di Gesù Cristo, e tutta la sostanza del vino si cambia nel suo sangue.

— Perché si dice: tutta la sostanza?

Perché è articolo di Fede dichiarato dalla Chiesa contro alcuni eretici, che fatta la Consacrazione non vi resta più nulla della sostanza del pane e del vino, ma si cangia tutta nel Corpo e Sangue di Cristo; e per denotare che restano le specie, cioè il colore, l’odore, il sapore e la quantità tanto del pane quanto del vino; e perciò cangiandosi quelle sostanze nel Corpo e Sangue di Cristo, restano le apparenze del pane e del vino.

— Dunque nell’ostia consacrata vi è solo il corpo, e nel calice consacrato vi è solo il sangue di Cristo?

Questa sarebbe una eresia ( Conc. Trid. Sess. XIII, c. 3); giacché è di Fede che tanto sotto le specie del pane, quanto sotto le specie del vino, vi è Cristo intero, e perciò vi è anche la sua anima e la sua Divinità. Si dice che il pane si cambia nel corpo di Cristo, e il vino nel sangue di Lui, perché in virtù delle parole della Consacrazione il pane si cambia nel suo corpo, che come corpo vivo ha il suo sangue, e perché in virtù delle parole della Consacrazione del calice il vino si cambia nel sangue di Cristo, che come sangue vivo è unito al suo corpo; perciò per concomitanza insieme al corpo vi è il sangue, insieme al sangue vi è il corpo.

— Dunque tanto sotto le specie del pane quanto sotto le specie del vino si riceve Cristo vivo ed intero?

Certamente, e questo è un articolo di Fede.

— Quale sorta di pane si deve consacrare?

Qualunque pane: purché sia fatto di farina di frumento si consacra validamente; perciò sia pane fatto con lievito o senza lievito, con le parole della Consacrazione si cambia nel corpo del Signore; bisogna però avvertire, che la Chiesa ci comanda di usare il pane senza lievito, e ci è proibito di consacrare il pane fatto col lievito. Notate per altro che molti Greci, avendo l’uso antichissimo di consacrare il pane fatto col lievito, la Chiesa loro permette quest’uso; anzi non solo lo permette, ma vuole che lo mantengano (vedi Antoine, in opere morali de Euch. Append. De Orient. Ecc. etc. § 1).

— Non sarebbe cosa ben fatta che anche i secolari si comunicassero ricevendo il Ss. Sacramento sotto le specie del pane e insieme sotto le specie del vino?

Per molte savie ragioni ha proibito la Chiesa che si amministri ai secolari il Ss. Sacramento sotto le specie del vino; anzi sotto le specie del vino non si possono comunicare né meno i sacerdoti, quando non celebrano la S. Messa. Di più sarebbe eresia, condannata dal S. Concilio di Trento (sess. XXI, c. 1), il dire che i Cristiani siano obbligati a comunicarsi anche sotto le specie del vino. Si noti inoltre che, ricevendosi Cristo vivo e intero tanto sotto le specie del pane, quanto sotto le specie del vino, chi lo riceve soltanto sotto le specie del pane non può restare defraudato del frutto intero del Sacramento.

— Dividendosi un’ostia consacrata che cosa succede del corpo di Cristo?

Non avviene alcuna alterazione o cambiamento nel corpo di Cristo; ma è di fede che divisa quell’ostia anche in minute particelle tutto Cristo vivo e intero è in ciascuna delle particelle medesime (Conc. Trid. sess. XIII, can. 3); e lo stesso avviene se si dividono le specie del vino nel calice anche in minute gocce.

— Per quanto tempo resta realmente presente nel Ss. Sacramento il corpo e il sangue di Cristo?

È articolo di fede che Vi resta presente finché le specie non si consumino o non si corrompano; perciò se lasciate le specie del vino nel calice, svaporassero o si cangiassero in aceto, in quel calice non vi sarebbe più il sangue di Cristo.

— Quando ci comunichiamo, per quanto tempo resta in noi la reale presenza di Cristo?

Resta in noi finché il calore dello stomaco non cambia le specie sacramentali; perciò secondo la maggiore o minore forza degli stomachi resta per più o per meno tempo Cristo in noi realmente presente.

— Quale è il ministro del Sacramento dell’Eucaristia?

Il solo Sacerdote può consacrare il pane e il vino, cosicché né meno in caso di necessità chi non è Sacerdote può consacrare validamente. Perciò se, per esempio, un Diacono dicesse Messa non consacrerebbe, e quel pane resterebbe sempre pane, quel vino sempre vino, e ciò è di fede (C. Trid. sess. XXI, c. 2). L’amministrazione poi di questo Sacramento spetta pure ai soli Sacerdoti, sicché nessun altro può comunicare, ordinariamente parlando; e si dice ordinariamente parlando, perché in caso di necessità può comunicare anche il Diacono, e perciò è ministro straordinario di questo Sacramento, non per la consacrazione, ma per l’amministrazione (Hubert de Euch. c.  IV).

— Chi è il soggetto di questo Sacramento?

Ciascun uomo battezzato è il soggetto, ossia è capace di ricevere questo Sacramento; per altro per riceverlo con frutto, si richiedono le necessarie disposizioni negli adulti.

— I fanciulli adunque si possono anche essi comunicare?

Per molti secoli la Chiesa costumò di comunicare anche i fanciulli prima dell’uso della ragione; ma adesso questa consuetudine è cessata, sicché secondo l’odierna disciplina non è più lecito comunicarli. Anzi si avverta che il S. Concilio di Trento scomunicò chiunque asserisse essere necessaria la Comunione ai fanciulli prima che arrivino all’uso della ragione (Sess. XXI cap. 4).

— Quali disposizioni si richiedono negli adulti?

La grazia santificante; la cognizione del Sacramento, che cioè conoscano ciò che ricevono; tolto il caso di pericolo di morte, il digiuno da ogni sorta di cibo, e di bevanda ancorché fosse per medicamento. Queste sono le disposizioni più essenziali, ve ne sono altre che conferiscono a far ricevere questo Sacramento con maggior frutto; ma di quelle parlano i maestri di spirito.

— Chi fosse in peccato mortale e dovesse comunicarsi, basterebbe che si mettesse in istato di grazia con un atto di contrizione perfetta?

Nella risposta alla D. 14 del presente Capitolo § 1, abbiamo detto che no, essendovi il precetto di S. Paolo, il quale obbliga a premettere la Confessione ogni qualvolta chi vuole comunicarsi, è reo di qualche peccato mortale. Ciò però s’intende generalmente parlando; giacché se vi fosse urgente necessità di comunicarsi, e mancasse il Confessore, si potrebbe ricevere la S. Comunione col solo atto di contrizione perfetta; ma dei casi di tale necessità ne ragionano i moralisti, come dell’obbligo che quindi resta di confessare il peccato.

— Quali sono gli effetti di questo Sacramento?

Il primo effetto è lo spirituale nutrimento dell’anima mediante l’aumento della grazia santificante, il secondo effetto è la liberazione dai peccati veniali, il terzo il preservamento dai peccati mortali: questi effetti assegna il Sacrosanto Concilio di Trento (sess.XIII, c. 2). I Concili Fiorentino e Viennense, aggiungono il quarto effetto della dilettazione spirituale, il quale però come osserva San Bernardo (serm. de Ascens.) non si conferisce se non a quelli che sono bene staccati dagli  affetti terreni, e molto fervorosi di spirito. Questi sono quelli che comunicandosi provano sensibilmente quanto soave sia il Signore (Antoine de Euch. cap. IV art. 1, q. 2).

— Quale necessità vi è di ricevere la Ss. Comunione?

Tutti gli adulti per precetto Divino, ed Ecclesiastico sono obbligati a comunicarsi, e la Chiesa ha stabilito che questo obbligo vi è una volta all’anno; perciò chi non adempisse a quest’obbligo non si potrebbe salvare: vi è pure obbligo di comunicarsi avvicinandosi il termine di morte; ma di queste obbligazioni parlano i teologi moralisti. Si osservi però che questa necessità è solo di precetto, sicché qualora un adulto si trovasse impossibilitato a ricevere la S. Comunione potrebbe, ciò non ostante, salvarsi.

— Mi ha detto che la Ss. Eucaristia non solo è un Sacramento, ma che è pure un vero Sacrifizio: vorrei in primo luogo imparare che cosa sia sacrifizio?

Il Sacrifizio si definisce « Un’oblazione, ossia offerta, di una cosa sensibile fatta a Dio dal suo legittimo ministro in ricognizione del suo supremo dominio sopra tutte le creature, e questa offerta deve importare una qualche distruzione della cosa, ossia della vittima che si offerisce; altrimenti mancando questa distruzione non è più Sacrifizio ma una semplice oblazione. Questa definizione conviene pure ai sacrifizi dell’antica legge, nei quali si offrivano a Dio gli animali per mezzo dei legittimi Sacerdoti in ricognizione della sua suprema autorità e si offrivano dando loro la morte.

— Come si può appropriare questa definizione alla Ss. Eucaristia?

Nella S. Messa vi è l’oblazione di una cosa sensibile, cioè del Corpo e Sangue di Gesù Cristo sotto le specie dei pane e del vino. Vi è il legittimo ministro che è il Sacerdote, e vi è l’immolazione ossia distruzione della vittima la quale fu fatta realmente nel Sacrifizio della Croce, quando Gesù Cristo realmente versò il suo sangue e realmente morì; questa immolazione si fa misticamente nella S. Messa, in cui Gesù Cristo non versa più il suo sangue e non muore più realmente, ma misticamente, in quanto che in forza delle parole della consacrazione il corpo di Cristo vien soltanto sotto le specie del pane, e il sangue di Cristo soltanto sotto le specie del vino, e se insieme al corpo vi è pure il sangue e insieme al sangue vi è pure il corpo, questo succede per concomitanza, non potendo più separarsi realmente il sangue di Cristo dal suo corpo; ma non succede in forza delle parole della Consacrazione. Perciò nella Messa, stanti le specie diverse del pane e del vino, si offerisce come separato il corpo e il sangue del Signore, e questo basta perché si abbia una mistica distruzione, ossia immolazione della vittima (vedi Hubert de Euch. Antoine de Sacrif. Missæ e gli altri Teologi).

— Quale Sacrifizio si dovrà dire che sia la S. Messa?

È definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess. XXII cap. 2), che la santa Messa è lo stesso Sacrifizio della Croce, solo diverso da quello nel modo in cui viene offerto, perché la stessa vittima che si offrì allora si offre adesso sugli altari, cioè Gesù Cristo che si è fatto vittima per i nostri peccati e lo stesso Sacerdote, offre questa vittima perché Gesù Cristo è il principale offerente, il Quale si offre come sul Calvario, mediante però il ministero dei Sacerdoti: quando dunque si celebra la S. Messa, si rinnova il Sacrifizio della Croce che allora fu cruento, cioè con vera effusione di sangue, e adesso è incruento, cioè con mistica e non reale effusione di sangue.

— Quali sono le qualità del Sacrifizio della Santa Messa?

È Lateutrico, cioè Sacrifizio di lode, che dà a Dio una lode infinita.  – È Eucaristico cioè Sacrifizio di ringraziamento, che vale a ringraziarlo di tutti i possibili benefizi. – È Propiziatorio, che cioè vale a placarlo per tutti i peccati. – É Impetratorio, che cioè vale ad impetrarci ogni grazia.

— Il Sacrifizio della Croce non ebbe tutte queste doti, e non bastò per tutto? Perché dunque si dovrà riconoscere per vero Sacrifizio la S. Messa?

In primo luogo bisogna osservare che come dimostra S. Tommaso [S. Th. 2. 2. q. 86, art. 1], la vera Religione deve avere un Sacrifizio che possa offrire a Dio; or noi non abbiamo altro Sacrificio, perché gli antichi sono stati abrogati e perciò, se non vi fosse la S. Messa, la Religione Cristiana non potrebbe offrire a Dio nessun Sacrifizio. Bisogna osservare in secondo luogo che, quantunque il Sacrifizio della Croce sia stato bastante e più che bastante per tutto, per altro con la S. Messa si rinnova a Dio l’onore che ebbe dal Sacrifizio della Croce, ed ella è un mezzo potentissimo perché ci siano applicati i meriti del Sacrifizio medesimo che offrì sulla Croce il nostro Salvatore (Antoin. pars 2 de Sacrif. Missæ q. l § 3).

— Il Sacrifizio della S. Messa giova soltanto ai vivi?

È articolo di fede definito dal S. Concilio di Trento (sess. XXII, c. 2), che il Sacrifizio della S. Messa non solo giova ai vivi ma anche ai defunti che sono nel Purgatorio.

— Si possono celebrare le Messe in onore dei Santi?

È similmente articolo di Fede, definito nella stessa sessione citata, che è cosa ben fatta celebrare le Messe ad onore dei Santi; intendesi però che il S. Sacrifizio si deve solo offrire a Dio per ringraziarlo delle grandi grazie concesse ai Santi, e per ottenere il loro patrocinio; perciò a nessun Santo si può offrire la Santa Messa, ma solo a Dio in ringraziamento delle grazie loro accordate e affinché si degni farci partecipi della loro intercessione; frattanto siccome tutto ciò ridonda ad onore dei Santi, si dice giustamente che si celebrano Messe in onore dei Santi.

— Chi può offrire il Sacrifizio della Santa Messa?

Gesù Cristo che lo istituì nell’ultima cena, e che fin d’allora, offrì in tal modo un vero Sacrifizio del suo corpo, e del suo Sangue sotto le specie del pane e del vino, è veramente e propriamente il principale offerente della Santa Messa. In secondo luogo il Sacerdote, immediatamente e propriamente come ministro, può egli soltanto offrire questo sacrifizio, come già abbiamo detto, e la S. Messa non si potrebbe celebrare validamente da qualunque altra persona che non fosse Sacerdote. In terzo luogo tutti i fedeli come membri della Chiesa quando ascoltano convenientemente la S. Messa offrono anche insieme col Sacerdote il S. Sacrifizio come consta dalle orazioni del canone (Antoin. de Sacrif. Missæ cap. ult. q. 6).

— Se anche tutti i fedeli offeriscono il Sacrifizio insieme col Sacerdote, dovranno tutti comunicarsi nella Messa che ascoltano?

É bene che tutti quelli che sono disposti si comunichino; ma non vi è alcuna necessità; anzi sarebbe scomunicato dal Concilio di Trento chi asserisse non potersi celebrare la S. Messa, senza che si comunichino i circostanti.

— É necessario nella S. Messa mettere nel vino da consacrarsi un poco di acqua?

Non è necessario per la validità, giacché per le parole della consacrazione il vino si cambierebbe nel sangue di Cristo ancorché nel calice non vi fosse stata posta quell’acqua: ma è necessario il mettervela perché, come dicono i ss. Padri, così fece Cristo nell’ultima cena, così la Chiesa ha sempre costumato, e severissimamente comanda che così si costumi. Anzi sarebbe scomunicato dal S. Concilio di Trento (sess. XXII can. 9) chi asserisse non doversi mettere nel vino quel poco di acqua. Bisogna però osservare di non mettere nel calice acqua in troppa quantità, perché il vino mescolato con tanta acqua non resterebbe materia adattata per la consacrazione.

— Non sarebbe cosa meglio fatta se la Santa Messa si celebrasse in lingua volgare e tutta a voce alta, affinché il popolo potesse intenderne tutte le preghiere?

Chi dicesse che la Messa si deve celebrare solo in lingua volgare, e tutta a voce alta, compreso il canone, e le parole della consacrazione, incorrerebbe la scomunica fulminata dal Concilio di Trento (sess. XXI can. 9). Similmente incorrerebbe la scomunica fulminata dallo stesso Concilio chi disprezzasse le cerimonie, i riti, o le vesti che si usano nel celebrare la S. Messa.

[Ogni pseudo-Messa del “Novus Ordo” ricade, oltre che in diverse altre, in questa terribile scomunica che coinvolge non solo il celebrante (oggi quasi tutti falsi preti mai validamente consacrati), ma pure i laici partecipanti, che da quella sacrilega cerimonia uscirebbero scomunicati eternamente, salvo remissione operata da un Sacerdote Cattolico con Giurisdizione e facoltà di rimozione delle censure – ndr. -]

NELLA FESTA DELLA SS. TRINITA’

NELLA FESTA SANTISSIMA TRINITA’

2° DISCORSO PER LA DOM. DELLA SS. TRINITÀ’.

Sopra la santificazione delle domeniche e delle feste.

[Mons. Billot, Discorsi Parrocchiali; S. Cioffi Ed. Napoli, 1840]

“Euntes docete omnes gentes, baptizantes

eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti” (Matth. XXVIII)

Un solo Dio in tre Persone, Padre, Figliuolo e Spinto Santo, le quali, sebbene distinte l’una dall’altra, pure non hanno che una medesima natura e le medesime perfezioni, si è, fratelli miei, ciò che noi chiamiamo il mistero della ss. Trinità, di cui la Chiesa celebra in questo giorno una festa particolare. Il Padre non era prima del Figliuolo, né il Figliuolo prima dello Spirito Santo; ma il Padre, Figliuolo e lo Spirito Santo sono tutti e tre da tutta l’eternità; sono tutti e tre dappertutto, tutti e tre sono egualmente buoni, egualmente sapienti, egualmente potenti, egualmente degni delle nostre adorazioni e del nostro amore. Questo mistero ineffabile è superiore alla nostra cognizione, e i nostri lumi sono troppo limitati per penetrarne la profondità; non v’è che Dio medesimo che possa comprendersi, perché è infinito. Non sarebbe tale, se noi medesimi potessimo comprenderlo. Ma se non ci è permesso di giungere alla cognizione di questo mistero incomprensibile, noi possiamo e dobbiamo crederlo, rendergli omaggio delle nostre menti e dei nostri cuori. Si è per eccitare la nostra fede ed il nostro amore che la Chiesa si propone oggi questo mistero ineffabile da onorar nella festa particolare che essa ne celebra: entriamo nei disegni di questa tenera madre, e siccome il santo giorno di domenica, chiamato il giorno del Signore, è consecrato alla gloria della santissima Trinità, noi non possiamo far meglio per onorare un Dio in tre Persone che passare santamente le domeniche e le feste: il che m’induce a parlarvi dell’obbligo e del modo di santificare cosi fatti giorni, che la maggior parte dei cristiani profanano. I giorni delle domeniche e delle feste, sono santi di loro istituzione : primo punto. Come dovete voi santificarli: secondo punto.

I. Punto. Benché Dio meriti d’essere servito in tutto il tempo della vita, e l’uomo debba effettivamente tutti i giorni adempiere verso di lui questo dovere; vi sono nulladimeno certi giorni ch’Egli si è riserbati perché fossero specialmente consacrati al suo servizio: tali sono i giorni di domenica e delle feste, giorni santi nella loro istituzione, perché sono particolarmente destinati a glorificare Dio e a santificare l’uomo; due circostanze che ne provano la santità. Che deve far l’uomo per glorificare Dio suo creatore? Egli deve riconoscerlo pel primo principio da cui in ogni cosa dipende; deve ringraziarlo per i beni che ne ha ricevuti; ed è per questi due fini particolari che i giorni delle domeniche e delle feste sono stati istituiti. Andiamo subito all’origine di questa verità, e ne saremo ben presto convinti. Se noi apriamo i libri santi, vi leggiamo che Dio impiegò sei giorni a creare questo vasto universo; che durante quei sei giorni s’occupò a formare il cielo, la terra, gli astri, le piante, gli animali e tutte le creature; ma che santificò il settimo giorno, in cui si riposò. Dio aveva forse bisogno di riposo dopo aver creato il mondo, Egli che non è suscettibile di alcuna noia, d’alcuna fatica? No, senza dubbio, fratelli miei: che cosa vuole dunque insegnarci la Scrittura quando si dice che Dio si riposò nel settimo giorno? Volle far conoscere all’uomo che se Dio accordavagli sei giorni nella settimana per lavorare, Egli voleva che il settimo gli fosse specialmente consacrato con un santo riposo, in cui l’uomo avesse il tempo di riconoscere la sua dipendenza dal Creatore e i benefìzi che ne ha ricevuti. Quindi quelle precauzioni che Dio prese così spesso di richiamare al suo popolo la memoria del giorno del sabato; quindi quei precetti reiterati che gli fece di santificare quel giorno: Memento ut diem sabbati sanctifices (Ex.20.). E per qual ragione Dio fa al suo popolo un comando sì formale? Lo spiega egli stesso nel libro dell’Esodo e del Deuteronomio: Voi lavorerete (disse il Signore agli Ebrei) durante i sei giorni della settimana; nel settimo giorno, che è il sabato, non farete alcun lavoro né voi né vostro figlio né vostra figlia né il vostro servo né la vostra serva né gli animali che vi appartengono, né gli stranieri che si ritroveranno nei recinti delle vostre mura» E perchè? Perchè il Signore ha fatto in sei giorni le sue opere e si è riposato il settimo; e questa è la ragione per cui Egli ha benedetto questo giorno e vi comanda di santificarlo: Septimo autem die sabbatum Domini tui est, non facies omne opus in eo (Ibid.).. Voi vedete, fratelli miei, da queste parole che dei sette giorni della settimana Dio se n’è riserbato uno per essergli consacrato con un santo riposo. E perché questo giorno di riposo? Per richiamarci la memoria del riposo che ha preso Egli medesimo dopo di averci creati. Perché finalmente fa ricordarci di quel riposo, se non per metterci avanti agli occhi il benefìcio della nostra creazione, e per conseguenza farci riconoscere la nostra dipendenza dal Creatore? Ecco il primo motivo dell’istituzione del giorno del sabato. – Il Signore ne propone ancora un altro al suo popolo nel libro del Deuteronomio. Egli trae questo motivo dalla libertà che gli accordò liberandolo dalla schiavitù d’Egitto. Ricordatevi, disse Mosè al popolo per parte di Dio, che voi avete servito nell’Egitto, donde il Signore nostro Dio vi ha cavati con la forza del suo braccio. Sappiate altresì che questa è la ragione per cui Egli ha stabilito il suo sabato e vi ha comandato di osservarlo: Ideo præcepit. tibi ut observares diem sabbati (Deut. III). Fu ancora in memoria di questa famosa liberazione che il popolo ebreo celebrò sì religiosamente ogni anno la festa di pasqua ed osservò sì regolarmente in ogni settimana il giorno di sabato, per ringraziare Dio dei benefizi che ne aveva ricevuti. Quindi i terribili castighi con cui si punivano coloro che non osservavano questo precetto. Testimonio quell’uomo che fu colto un giorno di sabato ad ammassare legna e fu condannato ad essere lapidato da tutto il popolo fuori del campo, perché Dio aveva proibito sotto pena di morte il trasgredire quel santo giorno: Qui polluerit illud, morte moriatur (Exod. XXXI). Quindi anche la precauzione che fu intimata agli Ebrei, per parte di Dio medesimo, di preparare il giorno innanzi del sabato tutte le provvisioni necessarie per vivere, affinché alcuno non si occupasse in quel giorno che di ciò che riguardava il suo culto. Si è per questa ragione che, allora quando Iddio nutrì quel popolo d’una manna miracolosa che cadeva dal cielo, volle che il giorno precedente al sabato ne raccogliesse tutto ciò ch’era necessario per vivere in quel giorno, mentre questa manna non potevasi conservare gli altri giorni oltre quello in cui si raccoglieva, ed il soprappiù che radunavano si corrompeva; accadeva per un altro miracolo che quella che era raccolta pel giorno del sabato si conservava molto tempo per profittarne. Non era questa forse, fratelli miei, una prova molto sensibile che il giorno del sabato era un giorno santo, un giorno in cui nulla dovevasi fare di servile, un giorno che doveva essere specialmente consacrato al culto del Signore ed impiegato a riconoscere la sua grandezza e i suoi benefizi? – Ora quel che era il giorno del sabato agli Ebrei è la domenica per rapporto ai Cristiani: mentre due cose vi sono nel comandamento che Dio fece altre volte di osservare il giorno del sabato: l’una che era il diritto naturale; l’altra che era di precetto cerimoniale. Che si debba specialmente consacrare  qualche giorno al servizio di Dio; è di diritto naturale; ma che questo giorno fosse il giorno del sabato piuttosto che un altro, era un’osservanza cerimoniale, da cui Gesù Cristo e la  Chiesa sua sposa, in virtù del potere ch’ella ne ha ricevuto, ha potuto dispensare i suoi figliuoli; il che essa ha fatto per buone ragioni, dice s. Agostino sostituendo la domenica al giorno del sabato, perché nel giorno di domenica si sono operati i più grandi misteri della nostra religione. Si è in questo santo giorno che tiensi Gesù Cristo venuto al mondo, che le stelle ne abbiano annunziata la nascita ai magi. Si è nel giorno di domenica che Gesù Cristo è risuscitato, ch’Egli ha inviato lo Spirito Santo ai suoi Apostoli. E perciò questo giorno è chiamato, a preferenza di tutti, il giorno del Signore: dies dominica. E da ciò che ne segue? Ne siegue che l’osservanza del santo giorno di domenica è per noi d’un obbligo così stretto come il giorno di sabato presso gli Ebrei; che i lavori ci sono in esso altrettanto vietati quanto agli Ebrei il giorno di sabato; che questo giorno deve essere unicamente ed interamente impiegato a servire e a glorificar Dio, a riconoscere il suo sapremo dominio su di noi, a ringraziarlo dei beni che ne abbiamo ricevuti. Ed invero, se il giorno di domenica ci rammenta il beneficio della nostra creazione, noi dobbiamo più particolarmente in quel giorno che in tutt’altro fare a Dio una protesta solenne della dipendenza in cui siamo del suo supremo dominio. Se il santo giorno di domenica ci mette avanti gli occhi le vittorie che Gesù Cristo ha riportate sulla morte con la sua risurrezione noi dobbiamo riguardare questo giorno, come un giorno di libertà, poiché Gesù Cristo, risuscitando, ci ha data la vita e ci ha liberati dalla schiavitù del demonio, più funesta per noi che quella in cui erano gl’Israeliti tra gli Egiziani. Noi dobbiamo, per conseguenza, ringraziare Dio solennemente di questa felice liberazione e di tutti i beni ch’ella ci ha procurati. Al che dovete, fratelli miei, particolarmente impiegare quei santi giorni; ed è per questo che la Chiesa ci obbliga in quei giorni al santo Sacrificio della Messa, perché non evvi azione alcuna che renda maggior gloria a Dio e che gli dimostri meglio la nostra riconoscenza che questo adorabile sacrifizio. Per questo medesimo fine la santa Chiesa, in quei giorni uffizi ha instituiti, ove i fedeli radunati insieme uniscono le loro voci per lodare le perfezioni di Dio e ringraziarlo dei suoi benefizi. Entrate, fratelli miei, nei sentimenti della Chiesa ; rispettate il santo giorno di domenica ed impiegatelo secondo la sua istituzione. Iddio, che merita d’essere servito tutti i giorni e tutti i momenti di vostra vita, poteva riserbarsene di più, per essere specialmente consacrati al suo culto. Di sette giorni ve ne dà sei per attendere ai vostri affari temporali e ai vostri lavori; è forse troppo riserbarsene uno per sé? E non sarebbe una grande ingiustizia il ricusarglielo? Al santo giorno di domenica aggiungiamo le feste che la Chiesa ha istituite, sia per richiamarci la memoria dei misteri della nostra santa religione, sia per onorare la santa Vergine Madre di Dio, gli Apostoli, i Martiri ed altri Santi, i cui esempli la Chiesa ci propone ad imitare; giorni di feste che noi dobbiamo celebrare secondo la sua intenzione, astenendoci dalle medesime cose che ci sono vietate nelle domeniche e praticando quelle che ci sono comandate; con questa differenza che la domenica essendo d’istituzione divina e le altre feste d’istituzione ecclesiastica, quel giorno ha qualche cosa di più rispettabile e soffre meno dispense che questi. Ma gli uni e gli altri debbono essere impiegati a glorificare Dio e a santificare noi medesimi: secondo motivo della loro istituzione. Egli è vero che l’uomo deve tutti i giorni della sua vita attendere alla propria santificazione. In qualunque stato egli sia, da qualsivoglia affare sia occupato, non deve giammai perdere di vista l’unico necessario che abbia in questo mondo, il quale è di salvare l’anima sua. Tutti gli altri affari debbono riferirsi a quello della salute, e nulla deve farsi che con la mira della propria salute. Ma quanto è egli facile, fratelli miei, perdere di vista questo grande affare tra gli impacci del mondo, nei diversi imbarazzi che dividono la vita degli uomini! mentre per faticare alla propria salute, si richiede raccoglimento, riflessione, attenzione continua sopra se stesso. Or questo raccoglimento, quest’attenzione sono forse compatibili con la moltitudine degli affari, con le occupazioni d’uno stato che dissipano lo spirito e conturbano il cuore? L’anima ripiena delle cure d’una vita tumultuosa è quasi sempre fuori di se stessa; or occupata dai diversi bisogni cui convien provvedere, ora oppressa sotto il peso della fatica o dell’applicazione inseparabili da una professione, in cui è taluno impegnato, ella si abbandona a mille oggetti che fissano successivamente la sua attenzione e non le lascian tempo di pensare a Dio né  alla sua salute. Ne chiamo qui in testimonio la quotidiana esperienza. Un uomo di giustizia non è forse occupato dalla mattina sino alla sera dei diversi affari che si presentano e non è egli obbligato di privarsi spesso del necessario riposo per soddisfare i suoi clienti? Un uomo di negozio non impiega forse tutta la sua giornata nei traffici? Un contadino, un artigiano, sempre piegati verso la terra, sopportano il freddo ed il caldo per soccorrere ai bisogni della loro famiglia; ed appena in tutta la settimana gli uni e gli altri prendono alcuni momenti per pensare a Dio e alla loro salute; appena si presentano avanti a Dio la mattina e la sera per rendergli quegli omaggi che una creatura deve al suo Creatore. – Saggiamente adunque e per nostro interesse particolare ci ha Iddio fissati alcuni giorni di riposo, in cui, sciolti dalla cura e dall’impaccio degli affari stranieri, noi abbiamo ad occuparci unicamente del grande affare della salute. Si è in questi giorni che rientrando in noi medesimi con un santo raccoglimento, ripariamo i danni che le occupazioni della settimana han recato al nostro spirito e al nostro cuore. Si è allora che noi abbiamo maggior comodo di chiederci in particolare: perché sono io al mondo? Io ho faticato molto durante questa settimana, io mi sono molto applicato, molto stancato per gli altri; ma nulla ho fatto per me. Io ho fatto avanzi, ho accumulati beni temporali; ma ho trascurata la mia fortuna eterna. Convien dunque che adesso io pensi a me, che io lavori per me. Ringrazio la misericordia del mio Dio di avermi posto in questa fortunata necessità col precetto che mi ha fatto di santificare questo giorno, e con ciò di santificare me stesso. – Si è anche per questa ragione, fratelli miei, che la Chiesa vi comanda nei giorni di domenica e delle feste la pratica di certe opere di pietà alle quali questa non vi obbliga negli altri giorni, come sono l’assistenza al santo Sacrificio della Messa, ai divini uffici, l’assiduità ad ascoltare la divina parola, perché tutte queste azioni sono altrettanti mezzi efficaci ch’ella vi presenta per operare la vostra salute. Mezzi di salute nel sacrificio della Messa, che vi ottiene il perdono dei peccati e le grazie necessarie per perseverare nella virtù. Mezzi di salute nei divini uffici, che v’innalzano a Dio, v’inspirano santi desideri e vi rammentano la bella sorte che avrete un giorno di cantare nel cielo le sue lodi, con una maniera molto più perfetta ancora che non si cantano sulla terra. Mezzi di salute nella parola di Dio che voi dovete ascoltare o meditare o leggere nei libri di pietà, perché questa divina parola v’insegna ciò che dovete fuggire e praticare per meritare la felicità eterna. Finalmente, mezzi di salute che la Chiesa vi propone nell’esempio dei santi di cui ella fa la festa, mettendovi innanzi agli occhi le virtù che eglino han praticate nel medesimo stato che voi, quantunque soggetti alle medesime debolezze e alle medesime tentazioni che voi. Rammentandovi le virtù di quei santi, la loro umiltà, la loro povertà, il loro distacco dai beni, dagli onori, dai piaceri del mondo, la loro pazienza nel sopportare ogni sorta d’afflizioni, d’ingiurie e di dispregi, vi dice la Chiesa ciò che s. Agostino diceva altre fiate a se stesso: Come! non potete voi fare quel che questi e quegli hanno fatto? Non poteris quod isti et istæ? Siete voi forse meno interessati che essi a seguire lo stesso genere di vita che hanno essi seguito? Non avete voi forse altrettanto a temere e a sperare che avevan essi? Perché non farete voi dunque ciò che essi facevano? Non poteris quod isti et istæ? Non è egli vero, fratelli miei, che udendo voi raccontare le azioni eroiche dei santi, vi siete sentiti qualche volta animati dal desiderio d’imitarli, soprattutto allorché vi hanno rappresentate le magnifiche ricompense di cui godono nel cielo? Voi avete risoluto di fare ogni vostro potere per arrivare alla medesima felicità, avete anche praticate alcune opere buone per questo fine; il che non avreste fatto in altri giorni. Convenite dunque che questi sono giorni a proposito stabiliti per santificarvi. Ma come dovete voi santificare questo giorno? Secondo punto.

II. Punto. Per santificare i giorni delle domeniche e delle feste, due cose sono necessarie: astenersi dalle opere servili e praticare opere di pietà: questi sono i propri termini della legge, come ve li ho di già riferiti al principio di questo discorso. Il settimo giorno, che è il giorno di sabato, voi non lavorerete, dice il Signore, nè i vostri figliuoli , né i vostri servi, né i vostri animali, perché Dio ha benedetto questo giorno e l’ha santificato. Voi non farete in esso alcun’opera servile: Omne opus servile non facietis in eo ( Lev. XXIII). Ora che intendiamo noi per le opere servili che sono vietate nei giorni delle domeniche e delle feste? Noi intendiamo quelle a cui le persone d’arte e di lavoro sono solite applicarsi: come coltivare la terra, esercitare un’arte meccanica, negoziare, far mercati, contratti di vendita e di compra o altri di questa specie, fare atti di giustizia che riguardano qualche lite; come piatire, esaminare testimoni, dare sentenze. In una parola, opere servili sono tutte le azioni che di loro natura si riferiscono a qualche profitto, qualche utilità temporale. Perché mai queste opere servili sono, esse proibite nei giorni delle domeniche e delle feste? Perché allontanano lo spirito ed il cuore dal servigio di Dio, in cui si debbono impiegare questi santi giorni, non essendo possibile che lo spirito occupato ed immerso negli affari temporali possa occuparsi del suo Dio e della sua salute. Ma oimè! Fratelli miei, quanti vediamo noi al giorno d’oggi cristiani sedotti dall’allettamento di un sordido interesse che violano impunemente la santa legge del Signore? Gli uni sotto pretesto d’una necessità che non sussiste che nella loro immaginazione, non si fanno scrupolo di occuparsi in certi lavori che essi credono permessi secondo le massime d’una coscienza, che si fanno a modo loro e conformemente ai loro interessi. Gli altri si asterranno per verità da un lavoro vietato dalle leggi civili per tema d’incorrere le pene da queste leggi portate, ma non si fanno veruno scrupolo d’impiegare i giorni delle domeniche e delle feste a fare viaggi pei loro affari, dopo avere udito una Messa in fretta, ovvero anche di mettersi in istrada prima di avervi assistito. Passeranno essi tutto il giorno ad andare da una parte e dall’altra cercando quel che loro è dovuto, faranno mercati con questi e conti con quelli, passando cosi tutto il giorno in una dissipazione continua che li distoglie dal servigio di Dio e dall’affare della loro salute. Ed è questo, fratelli miei, soddisfare al precetto di santificare le feste? No, senza dubbio: questo è rendersi egualmente colpevole che con l’attendere alle opere servili, poiché il tumulto degli affari è così incompatibile col raccoglimento necessario per bene santificare le feste, come lo sono le opere servili. Io so benissimo che tutti quelli di cui vi ho ora parlato non mancano di trovare scuse e pretesti per giustificare la loro condotta. Non posso, dirà uno, differire quest’opera servile, questo lavoro ad un altro giorno, senza risentirne grave danno. Io non trovo, dirà l’altro, che nei giorni delle domeniche e delle feste coloro con cui ho da trattare: bisogna dunque ch’io mi metta in viaggio in quei giorni per incontrarli e finire le bisogne con essi. Io convengo primieramente che una urgente necessità può mitigare la legge che proibisce le opere servili nei giorni di festa; che vi sono certe occasioni in cui non si possono differire queste opere senza risentirne del danno, come sono i tempi della ricolta pei terreni, od altri casi simili di necessità, di pietà, per cui è sempre a proposito di consultare i parrochi e di chiedere loro permissione, principalmente quando la cosa è dubbiosa. Ma non bisogna confondere la necessità con la cupidigia. Si può moltissime volte differire un lavoro che si crede necessario un giorno di festa ad un altro giorno senza risentirne del danno. Bisogna che l’interesse cede alla legge di Dio, e non già la legge di Dio all’interesse. Ora l’interesse, che accieca la maggior parte degli uomini fa loro fare molte cose nei giorni di festa che potrebbero rimettere ad altri giorni. E perché s’impiega un giorno di festa per fare certi lavori lucrosi? Gli è perché ve ne sono altri nella settimana che non si avrebbe il tempo di fare; gli è che si vuol guadagnare nei giorni di festa come negli altri giorni della settimana: ed ecco i pretesi danni che servono di velo alla cupidigia, cioè un interesse meno considerevole di quello che si avrebbe, se si lavorasse nei giorni vietati. Eh! se un profitto fosse una ragione di trasgredire la legge, sarebbe sempre permesso di violarla. Falso principio, falsa conseguenza. Perché mai viaggia taluno nei giorni domeniche e di festa? Perché non vuol togliere dal suo lavoro un giorno della settimana per vacare ai suoi affari. Dunque è la cupidigia e non la necessità che fa aprire a quel mercante la sua bottega o che gli fa vendere in segreto; che occupa quell’uomo di giustizia dalla mattina sino alla sera in affari che può differire ad un altro giorno. È la cupidigia e non la necessità che fa lavorar quell’artigiano che teme di perdere i suoi avventori, quell’agricoltore che teme un cattivo tempo che non accadrà. È la cupidigia e non la necessità che induce quel padrone a mettere i servi alla fatica, sotto pretesto che niente hanno a fare; come se Dio non avesse proibito ad ogni uomo di lavorare da se stesso nei giorni di festa o di far lavorare coloro che gli appartengono. – Ah! fratelli miei, quanto mal capite vostri veri interessi! Sapete voi pure che i lavori che fate nei giorni di festa vi sono molto più nocevoli. Voi vi perdete più che non vi guadagnate. Chi ve lo assicura? Dio medesimo: Se voi non osservate i miei santi giorni, io vi visiterò con la miseria; voi avrete bel seminare, niente raccoglierete; il cielo sarà di bronzo, la terra di ferro; la siccità brucerà le vostre raccolte, o la tempesta le porterà via; le malattie, le pestilenze, la fame vi opprimeranno; si metterà fuoco nelle vostre case è consumerà tutto ciò che avrete ammassato (Levit. XXVI). E non è ciò, fratelli miei, che noi vediamo spesso accadere: vediamo con istupore alcuni che non possono mai prosperare, malgrado la loro assiduità al lavoro; ne vediamo altri afflitti da perdite di beni, di bestiami, oppressi da sinistri accidenti. Donde le vengono queste disgrazie? Dal non essere il loro lavoro secondo Dio. Più premurosi di acquistare i beni della terra che quei del cielo, intraprendono cose incompatibili col servizio di Dio, lavorano nei giorni in cui non dovrebbero pensare che a glorificare Dio: ecco perché Dio non li benedice, ma li affligge. Felici ancora, se non fossero puniti che in questa vita, ma lo saranno molto più severamente nell’altra. Laddove ogni cosa viene in abbondanza e prospera a coloro che cercano in primo luogo il regno di Dio; quelli che santificano, le domeniche e le feste attraggono su di essi le benedizioni del Signore, come lo ha loro promesso: Se voi osservate i giorni ch’io mi sono consacrato, io vi darò nelle pioggie nei loro tempi; la terra produrrà in abbondanza, gli alberi saranno carichi di frutti, io benedirò voi e i vostri figliuoli (Levit.XXVI).- E certamente, fratelli miei, Dio non è Egli il padrone dei tempi e delle stagioni? É la sua provvidenza che il tutto governa. Se voi ubbidite alla sua legge non può Egli forse rendere fertili le vostre terre, ed arrestare le tempeste che potrebbero disertarle? Laddove se voi trasgredite questa santa legge, Egli vi toglierà i vostri beni, vi affliggerà con funesti accidenti. Il miglior partito che avete dunque a prendere è di fare la sua volontà, ed Egli stesso farà la vostra, rendendosi favorevole ai vostri desideri: Voluntatem timentium se faciet (Levit. XVI). Oltre le opere servili, che sono vietate nei giorni di festa e permesse in altri tempi, ve ne ha di proibite in ogni tempo e particolarmente nei giorni di festa. Queste sono le opere di peccato, i divertimenti colpevoli, le dissolutezze, cui molti si abbandonano, in quei giorni più che negli altri della settimana. Noi le chiamiamo con s. Tommaso, opere servili, perché chi commette il peccato è schiavo del peccato, ndice Gesù Cristo: Qui facit peccatum servus est peccati (Jo. VIII). Queste opere sono particolarmente proibite nei giorni di festa, perché sono formalmente opposte al fine per cui sono istituiti i giorni di festa, che è di glorificar Dio e santificar l’uomo. Non è forse fare una grande ingiuria a Dio, dice s. Cirillo, ed una specie di sacrilegio, lo impiegare nelle follie del mondo, nei divertimenti profani, giorni che sono consacrati al Signore. in una maniera speciale? Non è forse anche portare a se stesso un gran pregiudizio, dei giorni di salute farne giorni di riprovazione con i peccati che in essi si commettono? Sembra contuttociò ad un gran numero di cristiani che i giorni di festa non siano loro accordati che per divertirsi e per risarcirsi con piaceri vietati dalle fatiche che hanno sopportato nella settimana. E quando è, infatti, che le osterie sono più frequentate? Nei giorni delle domeniche e delle feste. Quando si vede il libertinaggio regnare più sfrenato? Quando si odono più risse ed alterazioni, si vedono più disordini in una parrocchia? Nei giorni delle domeniche e delle feste. Quando è che la gioventù si abbandona maggiormente alla dissolutezza, forma brigate di spettacoli, di danze, di bagordi ed altri divertimenti peccaminosi? Nei giorni delle domeniche e delle feste. Questi sono i giorni che si scelgono per mantenere commerci pericolosi, per vedersi, per abboccarsi nei luoghi assegnati, nei passeggi, in siti solitari ed anche ad ore indebite. Questi sono i giorni in cui si fa servire la divozione medesima al libertinaggio, allorché,, sotto pretesto, di andare a qualche convegno di pietà, di fare viaggi in onore de’ santi, si trova il mezzo d’incontrarsi e trattenersi con persone che non si debbono in verun modo frequentare. Gli è finalmente ne’ giorni delle domeniche e delle feste che le passioni, che sono state nel riposo e come sopite dalle fatiche della settimana, sembrano risvegliarsi per abbandonarsi a tutti gli eccessi: di modo che si può dire che nel giorno di domenica o di festa Iddio è sovente più offeso che non è stato in tutta la settimana. Ah! dovran dunque , o mio Dio, i giorni destinati a servirvi e glorificarvi impiegarsi ad offendervi? I giorni che voi avete dato all’uomo per pensare e adoperarsi alla sua salute, diverranno per lui giorni di riprovazione per il cattivo uso ch’Egli ne fa? Sarebbe meglio in qualche modo che non vi fosse alcuna festa, o per lo meno sarebbe meglio, dice sant’Agostino, che si passasser quei giorni o a lavorar la terra o ad esercitare qualche altro mestiere che profanarli, come si fa, con i disordini che in essi si commettono; almeno il Signore non sarebbe cotanto offeso. L’uomo nel suo lavoro, nella sua professione, non pensa che a ciò che lo occupa; e perché nei giorni di festa non lavora, perciò, lo ripeto, non pensa che ad offendere Dio. Sarebbe dunque meglio che quell’intemperante lavorasse la terra nelle domeniche e nelle feste, che frequentare in questi santi giorni le osterie, ove perde con ciò che ha guadagnato nella settimana, la sanità. Almeno non si vedrebbe al ritorno dal lavoro, portar in casa sua il disordine, bestemmiare, maltrattare la moglie e i figliuoli, come fa. Sarebbe meglio per quella donna ch’ella fosse occupata nel governo domestico: che passare le ore intere e gran parte della feste a dir male del suo prossimo. Sarebbe meglio che quella figlia fosse occupata al fuso nei giorni di festa, e che quel giovine coltivasse la terra, che mantenere ree corrispondenze, che andare in quei balli, in quelle conventicole profane, donde non si esce giammai così puri come quando vi si è entrato: danze e conventicole che sono miseri avanzi del paganesimo: mentre si è in tal modo che gli idolatri onoravano le loro false divinità. Convien forse stupirne? Quei falsi Dei che essi onoravano, erano soggetti essi medesimi alle dissolutezze, alle impurità ed ai medesimi delitti di quelli che loro rendevano omaggi. Ma non è forse un’indegnità, che Cristiani, che adorano un Dio crocifisso, che onorano santi umili, penitenti, mortificati, santi che hanno tutto sacrificato; beni, piaceri, la vita medesima per la loro religione, che questi Cristiani, dico, celebrino le loro feste come i pagani celebravano quelle dei loro falsi Dei? Questo è ciò che è capace di fare stupire gl’idolatri medesimi e che fa mettere in derisione le nostre feste dai nostri nemici: viderunt hostes sabbata eius et deriserunt [Thren.1]. Ecco, fratelli miei, ciò che attrae la maledizione di Dio sopra i suoi popoli: la profanazione delle feste è la cagione delle tempeste che disertano le vostre campagne, degli incendi che consumano le vostre case, delle infezioni che distruggono i vostri bestiami, delle malattie che vi riducono alla miseria, perché voi cangiate i giorni santi in giorni di dissolutezza, invece di rendervi un Dio propizio, voi ne fate un Dio vendicatore; invece di procurarvi protettori nel Cielo col ben celebrare le feste dei santi, voi ve ne fate dei nemici, i quali ben lungi di domandare grazie per voi, domandano a Dio vendetta della profanazione che voi fate dei giorni del loro trionfo. Non basta dunque astenervi dalle opere servili nei giorni di festa; bisogna ancora astenervi dai divertimenti peccaminosi, che sono sì comuni in quei giorni. Se voi prendete qualche riposo, come non vi è proibito, sia esso in qualche ricreazione onesta, e non dì lunga durata. La vostra allegrezza, dice s. Paolo, sia secondo Dio, la vostra modestia sia conosciuta da tutto il mondo: Gaudete in Domino, modestia vestra nota sit omnibus; ma non prendete ricreazione alcuna che dopo aver adempito alle opere che vi sono comandate. – Imperciocché non bisogna fratelli miei, che il riposo prescritto nei giorni di festa sia una cessazione da ogni opera, da ogni azione anche corporale. Se Dio ci proibisce le opere servili, si è per darci tempo di attendere alle opere di pietà, cioè alle opere che riguardano Dio e la nostra salute; mentre se noi dobbiamo impiegare i giorni di festa per glorificare Dio e santificare noi stessi, non già riposandoci corrisponderemo ai disegni di Dio, ma bensì operando e adempiendo ciò che Dio comanda di fare e ciò che la Chiesa ci comanda da parte sua.

Pratiche. Ora che cosa ci comanda la Chiesa in quei giorni? Di assistere al santo Sacrificio con tutta la modestia del corpo e l’attenzione della mente che convengono a quella grande azione. Ci invita particolarmente, questa santa madre, ad assistere alla Messa parrocchiale, perché ivi i fedeli tutti, uniti insieme per far la loro preghiera, attraggono su di sé una più grande abbondanza di grazie; ivi i medesimi fedeli ascoltano la voce del loro pastore, cui Dio ispira quel che convien dire alle sue pecorelle; ivi apprendono le verità necessarie alla salute, la loro anima ne è nutrita, e così fortificata ella compatte fedelmente il resto della settimana e trionfa costantemente de’ suoi nemici.

. La Chiesa esorta e comanda anche ai fedeli, per santificare le feste, di assistere ai divini uffizi. Mentre perché mai incarica ella i suoi ministri di celebrare in quei giorni le lodi del Signore con maggiore solennità che gli altri giorni, se non affinché i fedeli vengano a unire le loro voci, o per lo meno unirsi di cuore ai canti devoti onde risonano le nostre chiese? Non è forse un abuso intollerabile, nel mentre si cantano i divini uffizi, vedere gran numero di persone ai pubblici passeggi, ai giuochi, agli spettacoli, o passare una gran parte di giornata alla caccia o in banchetti o in combriccole di divertimenti? Contente di una Messa udita la mattina, si dispensano senza difficoltà degli altri esercizi di religione, come se una mezz’ora passata a pie degli altari fosse bastante per santificare tutto il giorno. Come? Non trovarsi ad alcuna delle adunanze di pietà che si fanno nei giorni di festa, passar tutto il restante del giorno nella mollezza e nell’ozio, egli è questo santificare come si deve quei santi giorni? No, è un abusarsene, è un profanarli, come i Giudei carnali, che, contenti d’astenersi dalle opere corporali, proibite nei giorni delle loro feste, profittavano di quei giorni per abbandonarsi alla mollezza e ai piaceri vietati.

3°. Per santificare le domeniche e le feste convien ascoltare la parola di Dio o, se ciò non si può, leggerla e meditarla in buoni libri. La Chiesa obbliga i suoi ministri a distribuire il pane della parola ai suoi figliuoli: ora e qual fine gl’incaricherebbe essa di quell’obbligo, se i fedeli non fossero altresì obbligati ad ascoltarli? L’obbligazione per gli uni porta seco necessariamente un dovere per gli altri. Siate dunque assidui, fratelli miei, alla parola di Dio che vi si predica in quei giorni di salute, principalmente alle spiegazioni del Vangelo, e ai catechismi dei vostri pastori, dove voi profitterete più che in tutte le altre istruzioni; sia perché Dio sparge una benedizione particolare su quella dei pastori, sia perché questa sorta d’istruzioni sono più adattate alla capacità di tutti. É una santa pratica nei giorni di festa l’assistere alle congregazioni, alle adunanze di pietà, dove si ricevono grazie maggiori per le orazioni che si fanno in comune, e dove si ritrovano anime giuste, che attraggono sulle altri doni celesti. E anche una santa pratica il visitare il ss. Sacramento nei giorni di festa; poiché da questo si ricevono molte grazie; niuno esce dalla sua casa senza riportare qualche favore. – Finalmente, fratelli miei, per ben santificare le domeniche e le feste, sarebbe a proposito accostarsi ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, mentre non potete meglio santificar voi medesimi che purificandovi dei vostri peccati al tribunale della penitenza ed unendovi a Gesù Cristo, autore d’ogni santità. Era questa la pratica dei primi fedeli, che cornunicavansi ogni qualvolta assistevano al divin sacrificio. La Chiesa bramerebbe che questa santa pratica fosse ancora in vigore tra i suoi figliuoli: ma, il fervore dei Cristiani essendosi

rallentato su questo punto, bisogna per lo meno nei giorni di festa purificare le vostre coscienze fin dal principio del giorno con vivo dolore dei vostri peccati, comunicarvi spiritualmente con un desiderio ardente di unirvi a Gesù Cristo, visitarlo nel suo santo tempio, oltre il tempo della messa e degli uffizi; visitarlo anche nella persona dei poveri e degl’infermi; in una parola, praticare tutte le opere di pietà che la religione sarà per ispirarvi, Perché non posso io, fratelli miei, per animarvi alla pratica di queste buone opere, rappresentarvi qui il modo con cui i primi Cristiani celebravano le feste! Voi vedreste quei primi discepoli della religione astenersi non solamente da ogni opera servile, da ogni peccato, da ogni divertimento profano, ma ancora occuparsi durante quei santi giorni, ed anche durante la notte, nell’orazione, nel cantar le lodi di Dio e fare tutte le azioni di virtù che il fervore del Cristianesimo nascente loro ispirava. Celebrate nello stesso modo le vostre feste, fratelli miei, questo è il mezzo di partecipare un giorno alle allegrezze della festa eterna che si farà nel cielo. Così sia.