L’ORAZIONE DOMENICALE (3)

L’ORAZIONE DOMENICALE. (3)

 [J. J. Gaume: “Catechismo di Perseveranza”,

VI Ed. Vol. II, Torino, Tip. Sperani, 1881]

Quinta domanda: Rimetti a noi i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori. Nelle quattro precedenti domande abbiam chiesto al Padre nostro d’impartirci i beni temporali ed eterni; nelle tre successive lo preghiamo a liberarci da qualsivoglia male passato, presente e futuro; onde per tal modo l’Orazione Dominicale comprende quanto possiamo desiderare. Il male già passato sono i peccati che commettemmo; il mal futuro, le tentazioni che inducono a peccare; il mal presente, le tribolazioni e gli affanni tutti del faticoso nostro pellegrinaggio. Col domandare di essere liberati dal male, intendesi ancora la domanda di essere preservati dai mali grandissimi che sono i peccati che ci separano da Dio; e dai mali mediocri altresì, come ad esempio le tentazioni; perciocché sebben queste non siano per se stesse peccati, sono per altro incentivi possenti a trascinarci nella colpa; ond’è fuor d’ogni dubbio ragionevole chiamare col nome di male ciò che ci espone a sì grande pericolo. Per mali leggieri finalmente, in confronto degli altri di cui sono conseguenza, s’intendono le pene temporali ed eterne.In questa quinta domanda il Signor Nostro ne insegna dunque a chiedere il perdono dei nostri peccati, e per esprimerli Egli adopera la parola debiti, «debita ». Ma d’onde una tale espressione? Per tre ragioni, rispondono i Dottori: «La prima, perché ogni uomo che offende Dio, diventa debitore a Dio per l’ingiuria che gli ha fatto. La seconda, perché chi pecca trasgredisce la Legge di Dio; e perché essa Legge promette premio a chi l’osserva, e minaccia castigo a chi la trasgredisce: il trasgressore si trova perciò stesso debitor della pena fissata nella Legge. La terza, perché ciascuno di noi è obbligato a coltivare la vigna dell’anima sua, e renderne a Dio il frutto, che sono le buone opere; però chi non fa buone opere, e molto più chi ne fa di cattive, si costituisce debitore a Dio, il quale è il vero Padrone della vigna e dei frutti. E perché tutti noi spesso manchiamo, sia col fare ciò che non dovremmo, come col non fare quello che dovremmo, però più volte al giorno conviene dire con profonda umiltà a Dio «che ci rimetta i nostri debiti ». Bastano queste parole per ottenere la remissione dei peccati? — Se trattasi di peccati veniali e giornalieri, tali parole, purché accompagnate, siccome abbiamo detto, da vera contrizione, li rimettono direttamente; ma rispetto ai peccati mortali non li rimettono che indirettamente, nel significato cioè, che dispongono il cuore del nostro Padre celeste ad accordarci il dono di ricevere con frutto l’effusione della grazia e dei meriti del Signor Nostro Gesù Cristo nel Sacramento della Penitenza. Tanto i giusti, quanto i peccatori debbono dire rimetti a noi i nostri debiti: 1° perché  non è già lo stesso non conoscere i propri peccati, e non averne alcuno. Sebbene la mia coscienza, dice l’Apostolo, nulla mi rimproveri, non per questo io sono giustificato; 2° perché moltissimi sono i peccati occulti; 3° perché l’asserire d’essere senza peccato, dice l’Apostolo S. Giovanni, è un pretto mentire; 4° perché noi domandiamo non solo la remissione del peccato, ma quella eziandio della pena che gli è dovuta; 5° perché chiediamo il perdono così per noi, come ancora per tutti i nostri fratelli.

Siccome li rimettiamo a’ nostri debitori. Con tali parole noi diciamo al Padre nostro celeste: Per ottenere la remissione dei debiti de’ quali siam carichi verso di voi, noi rimettiamo ai nostri fratelli tutti quei debiti che essi hanno verso di noi. Chiunque ci offende contrae un debito verso di noi, poiché infrange la legge della carità, e qualche volta ancora quella della giustizia, e per conseguenza incorre l’obbligo di darci soddisfazione. Ora noi dichiariamo di assentire che Iddio prenda per regola della sua misericordia a nostro riguardo quella che noi usiamo verso il prossimo; dunque se noi perdoniamo imperfettamente o solo a metà, oppure non perdoniamo che a fior di labbra, conservando l’amarezza, l’antipatia, il rancore nel fondo dell’animo; e finalmente se non perdoniamo punto, invitiamo Iddio a fare altrettanto con noi. Tuttavolta coloro che non perdonano ai loro nemici possono recitare l’Orazione Dominicale, non, per vero dire, con l’intenzione che il Signore perdoni loro com’essi stessi perdonano, dappoiché ciò sarebbe un chiedere la propria condanna; ma nel significato che Iddio perdoni loro come eglino pure dovrebbero perdonare, e parlando a nome della Chiesa, che conta sempre trai suoi figli gran numero di Cristiani i quali perdonano ai nemici e pregano per loro. Perciò anche la Santissima Vergine, quantunque immune da ogni colpa, poteva recitare l’Orazione Dominicale, e dire perdona a noi; imperocché sul suo labbro queste parole significavano: Perdonate ai peccatori che come me appartengono alla Chiesa. « Se quelli soltanto, scrive S. Agostino, che amano i propri nemici possono dire: Rimetti i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo a’nostri debitori, io non so quel che mi debba dire, o quel che mi debba fare. Vi dirò io forse: No, non pregate punto? Certo io non lo ardisco; dirovvi invece: Pregate affinché possiate amare. Ma al postutto se voi non amate il prossimo, dovrò proibirvi di recitare l’Orazione Dominicale? Se vi astenete dal dirla non otterrete perdono; se a lei ricorrete e lasciate non ostante di eseguire quanto dite, non otterrete egualmente perdono. Che resta dunque a farsi? Recitarla e perdonare onde ottener remissione ». Quindi le parole siccome noi perdoniamo racchiudono una condizione che il Signor Nostro istesso ha voluto imporre alla divina sua misericordia. E perché mai una tale condizione? Per più ragioni, tutte egualmente degne della sua infinita sapienza. La prima, affinché appieno da noi si comprenda la grandezza del benefizio che Iddio c’imparte nel perdonare i nostri peccati; grazia sì grande ei non volle concederla, senza mettervi la condizione che noi pure usiamo misericordia verso i nostri fratelli. La seconda, a fine d’incoraggiare la nostra debolezza, dimostrandoci con qual estrema facilità si può dall’uomo conseguire l’immenso beneficio della remissione dei peccati, dappoiché Egli per parte sua ci promette misericordia se noi non la neghiamo al nostro prossimo: il che dipende affatto dal nostro volere. La terza, onde mantenere fra di noi la carità, la quale è il gran precetto del Vangelo, facendo della nostra la condizione e la regola della carità di Dio inverso di noi. La quarta finalmente, per fiaccare il nostro orgoglio e far palese quanto ingannati e colpevoli siano quelle persone del mondo che chiamano una viltà il perdonare e rinunziare alla vendetta. Quando infatti essi chiederanno misericordia, Iddio li condannerà con le stesse loro parole, dicendo: Come vuoi tu che io ti usi misericordia, se questa appunto tu abborri e poni in derisione? tu tratti da vile chi perdona; osi tu dunque pregarmi ch’io mi avvilisca perdonandoti, e vuoi che ti esaudisca? – Per le quali cose il dovere e l’utile nostro egualmente ne impongono di perdonare non solo esternamente, ma interiormente e senza indugio, giusta il detto della Scrittura: « Se voi non perdonate di tutto cuore, il vostro Padre celeste non vi perdonerà; ed altrove: il sole non tramonti giammai sull’odio vostro ». I Santi presero in ogni tempo queste parole per regola di loro condotta. San Giovanni l’Elemosiniero, Patriarca di Alessandria, aveva ripreso con qualche vivezza un Senatore, che perciò l’aveva lasciato fortemente indispettito. Giunta la sera, il Santo inviò un messo al Senatore con quest’ambasciata: Il sole è prossimo al tramonto. A queste parole il Senatore, compreso da vero dispiacere, corre presso il santo Vescovo, dal quale è accolto ed abbracciato come un fratello, e l’ultimo raggio del sole morente rischiarava questo quadro affettuoso di riconciliazione. Meditiamo spesso questo esempio, non meno della quinta petizione del Pater. – Iddio promette di perdonarci, perché noi pure perdoniamo ai nostri fratelli. Le offese che noi perdoniamo al prossimo sono un nulla in paragone di quelle di cui siamo debitori verso Dio. Noi l’abbiamo crocifisso! Noi domandiamo la remissione di dieci mila monete d’oro per qualche denaro che ci è dovuto! Ma se noi rimettiamo questa lieve somma con cuor sincero, e senza neanche aspettare che il debitore venga a pregarci; se la rimettiamo tutta intera e senza restrizione, vale a dire, se perdoniamo con animo volonteroso e con affetto fraterno; se noi preveniamo i nostri offensori con bontà e carità, invece di abbandonarci ad una cieca vendetta, e senza pretendere da essi soddisfazioni umilianti; se tutto ciò, io dico, noi opereremo, le nostre colpe saranno tutte perdonate. Non dimentichiamo giammai le parole del Salvatore: « Se voi perdonerete le offese ricevute, il vostro Padre celeste perdonerà quelle che gli avete fatto ». Questa promessa per altro suppone in colui, che perdona al suo prossimo, lo spirito di penitenza pe’ suoi propri peccati; imperocché è verità di fede, che senza lo spirito di penitenza nessun peccato può giammai venir rimesso. – Né contentiamoci soltanto di meditare queste parole, ma mettiamole in pratica, ad esempio di quel buon Religioso ricordato dalla storia. Aveva esso vissuto nel suo monastero con tale tiepidezza, che spesso si era attirato severe ammonizioni del Superiore. Giunto ad età inoltrata, cadde infermo per non più rialzarsi. Uno de’ suoi confratelli, vedutolo agli estremi, né scorgendo sul suo volto o timore od inquietudine di sorta, gli domandò, come mai poteva morire con tanta tranquillità dopo una vita così poco edificante. È verissimo, fratel mio, gli rispose il moribondo, che sono stato negligentissimo, e gli Angeli pure mi hanno spiegato innanzi agli occhi la lunga lista dei peccati, che ho commesso dopo il mio ingresso in religione: io sono convinto di tutto; ma intanto non mi poterono mostrare o un giudizio temerario, o la più piccola vendetta di cui mi sia reso colpevole. Allora io dissi loro: Io ho fiducia nelle promesse del Signore, il quale ha detto: Non giudicate, e non sarete giudicati; non condannate, e non sarete condannati; perdonate, e vi sarà perdonato. Ciò inteso, gli Angeli hanno lacerato l’elenco de’ miei falli, ed ecco da che nasce la mia fidanza. E in così dire si addormentò tranquillamente nelle braccia del Dio di misericordia, lasciando a tutti i suoi fratelli un salutare esempio ed una grande edificazione.

– Sesta domanda. E non c’indurre in tentazione. Allorquando figli bennati hanno ottenuto dal padre il perdono dei loro falli, non altro ad essi rimane che sfuggirli per lo innanzi, e mercé una condotta irreprensibile consolare il genitore ch’ebbero la disgrazia di contristare. Così pure il Signor Nostro vuol che si faccia da noi: quindi è naturale il legame che unisce alla precedente questa domanda dell’Orazione Dominicale. Nella quinta noi abbiamo domandato la liberazione dal male passato, cioè dal peccato commesso; nella sesta noi domandiamo l’aiuto di Dio contro il male futuro che è la tentazione. Tuttavolta questa per se stessa non è un male come il peccato; anzi non è male se non in quanto può trascinarci ad un altro male, cioè l’offesa di Dio. Ma per tal ragione è molto pericolosa, e perciò supplichiamo Iddio a volercene preservare. Qui pure conviene spiegar chiaramente il senso della nostra preghiera: Dicendo non c’indurre in tentazione, noi non chiediamo già di essere liberati interamente da ogni tentazione, ma chiediamo : 1° di non esser vinti dalle tentazioni; 2° di esser liberati dalle tentazioni straordinarie; 3° di non essere esposti a tentazioni o deboli o forti, se Dio vede che la vittoria non sarà nostra ma del demonio. – Ma perché non chiediamo noi di essere liberati da ogni sorta di tentazioni? Perché ci torna vantaggioso l’essere tentati. La tentazione ci ammaestra: per un lato ci fa conoscere la nostra debolezza, la nostra corruzione; dall’altro ne addimostra la potenza della grazia la quale con si deboli soldati, quali noi siamo, sa riportare splendide vittorie. La tentazione ci mantiene nell’umiltà. Affinché, scrive San Paolo, la grandezza delle mie rivelazioni non mi facesse insuperbire, lo stimolo della carne, l’angelo di Satanasso mi fu lasciato intorno per schiaffeggiarmi, vale a dire, per farmi ricorrere all’umiltà, alla vigilanza, alla preghiera. La tentazione ci assoda nella virtù. I venti che scuotono le piante, dice un santo Padre, nello stesso tempo le alimentano; e così pure le tentazioni accrescono vigore all’anima. – 4. La tentazione ci arricchisce; imperocché tutte le volte che noi le resistiamo, ci fa produrre atti di virtù e di fedeltà che aumentano i nostri meriti. La tentazione ci rende esperti, vuoi a nostro, vuoi a riguardo altrui. Chi non è stato tentato, quanto sa egli [Eccl. XXXIV, 11]? richiede giustamente il Saggio. Finalmente la tentazione ci fa compatire le debolezze altrui, e fa riposare su di noi lo spirito del Signore, secondo il dettato dell’Apostolo S. Giacomo: Beato l’uomo che tollera tentazione: perché  quando sarà stato provato, riceverà la corona di vita promessa da Dio a quelli che lo amano [Jacob. I, 12]. Noi diciamo al nostro Padre celeste: Non indurci in tentazione. Qual significato hanno tali parole? Forse che Dio ci tenta? No certamente; a parlare con proprietà Iddio non tenta alcuno, poiché tentare vuol dire indurre al male [Iacob. I, 13] . È bensì vero che nelle Scritture si legge avere Iddio tentato Abramo, ma questo significa che il Signore volle mettere a prova la fede e l’obbedienza di quel santo Patriarca. Ogni giorno Iddio tenta noi pure in simil guisa con le infermità, con le afflizioni , con i travagli, sia per convertirci come per accrescere i nostri meriti. Rispetto alle tentazioni propriamente dette Iddio permette soltanto che noi siamo tentati; e questo deve consolarci, attesoché per una parte i nemici dell’anima nostra non possono assalirci senza la permissione del Padre nostro celeste; e per l’altra Egli loro non permette giammai di tentarci oltre le nostre forze: Non vi ha sorpreso tentazione, dice l’Apostolo , se non umana: ma fedele è Dio, il quale non permetterà che voi siate tentati oltre il vostro potere, ma darà con la tentazione il profitto, affinché possiate sostenere. Ecco adunque qual è il senso della preghiera che noi gli volgiamo: Signore, noi conosciamo la nostra debolezza e fragilità, sappiamo quanta sia la malvagità e il potere del demonio; non vogliate dunque permettere che noi vostri servi siamo atterrati dalla tentazione, e neppure tentati, se non dobbiamo uscire vittoriosi dal combattimento. Ma ad ottenere la vittoria in una lotta sì pericolosa è mestieri ben conoscere i nostri nemici e le armi con cui si devono combattere. Tre grandi nemici son collegati ai nostri danni, né cessano mai dal tentarci: il demonio, il mondo, la carne. – Il demonio ne tenta col suggerirci pensieri peccaminosi d’ogni specie: d’orgoglio, d’invidia, di bestemmia, di vendetta, e somiglianti. Il mondo ci tenta coi cattivi discorsi, con le cattive letture, coi cattivi esempi. La carne ci tenta con criminose tendenze. Il più pericoloso di questi tre nemici è la carne, dappoiché da essa non possiamo un solo istante separarci. – Rispetto alle armi di cui dobbiamo valerci contro questi tre nemici, conviene opporre al demonio, il segno della croce e l’invocazione dei santi nomi di Gesù e Maria; al mondo, il disprezzo dei suoi motteggi, delle sue minacce, delle sue promesse, considerando la sua debolezza e la caducità delle cose temporali che svaniscono alla morte; alla carne, la fuga dalle occasioni, la mortificazione dei sensi, la divozione alla santa Vergine Madre di ogni purità. Ecco i rimedi particolari. I rimedii generali sono: l’umiltà, la preghiera, il digiuno, la meditazione della Passione del Signor Nostro Gesù Cristo e dei Novissimi; finalmente la fedeltà nello svelare al Confessore le tentazioni tutte dalle quali siamo molestati.

Settima domanda: Ma liberaci dal male. Quest’ultima domanda conferma le domande antecedenti, e vi aggiunge qualche cosa di nuovo. Difatti  nella quinta e nella sesta noi abbiam chiesto di essere liberati dal peccato e dalla tentazione, e qui pure imploriamo la stessa grazia, conciossiaché supplichiamo di essere liberati da ogni specie di mali; ma nel tempo stesso vi aggiungiamo la domanda di essere liberati da ogni afflizione corporale e spirituale, pubblica e privata, che potesse toglierci di pervenire all’eterna salute. Laonde dopo aver chiesto a Dio la liberazione dai mali passati e futuri, domandiamo di più la liberazione dai mali presenti; e così pure dopo aver pregato di esser liberati dal male della colpa, che è il peccato ed il maggiore di tutti i mali, noi supplichiamo di essere liberati dal male della pena, assai più lieve del primo, e che è riposto nelle afflizioni temporali ed eterne, funeste conseguenze del peccato. – « Ed avvertite che Nostro Signore con gran sapienza c’insegna a domandare la liberazione dal male in universale, e non viene al particolare, come dire dalle povertà, malattie, persecuzioni e simili cose; perché molte volte pare a noi, che una cosa ci sia buona, la quale Dio vede che per noi è cattiva: e per lo contrario a noi pare, che una cosa sia cattiva, e Dio vede che per noi è buona. E però noi, secondo l’ammaestramento del Signore, gli domandiamo che ci liberi da tutto quello che Egli vede, che per noi è male, o sia prosperità, o sia avversità ». – Ma non è egli superfluo il volere che noi domandiamo la liberazione del male, dappoiché la natura medesima ne suggerisce di ricorrere a Dio in ogni nostra tribolazione? È verissimo che sotto i colpi della sventura suolsi invocare l’aiuto divino; ma osservisi ancora, che taluni nol fanno, ed è pur necessario rammentar loro un obbligo cosi imperioso; altri poi lo fanno troppo tardi, e dopo avere esaurito tutti i mezzi umani. Iddio per costoro non è che un espediente, cui non si ricorre che alla peggio andare; e questa mancanza di fiducia è atto ingiuriosissimo, contro cui era necessario premunirli. Finalmente quasi tutti ignoriamo l’ordine e la maniera con cui si deve chiedere la liberazione dal male. Così per esempio, invece di chiedere innanzi tutto la liberazione dal peccato, noi domandiamo la liberazione dalla pena. Siam noi percossi da rovesci di fortuna, o da perdita di salute? Tosto domandiamo a Dio la liberazione da questi mali, senza nemmen pensare alla liberazione dai mali più importanti, vale a dire, il peccato e il pericolo di commetterlo. Da ciò nasce che nulla si ottiene, poiché non si osserva il precetto del Signore, il quale comanda di chiedere prima d’ogni altra cosa il regno di Dio e la sua giustizia. Oltre a ciò in luogo d’implorare con le debite condizioni la liberazione dai mali temporali, noi più spesso la domandiamo in modo assoluto, senza rassegnazione, talvolta pure con impazienza, uscendo eziandio in atti di disgusto e in parole di mormorazione se non l’otteniamo, oppure se Iddio ce la fa aspettare. Ora, affin di pregare come vuole Nostro Signore, convien chiedere in maniera assoluta che Dio ci preservi, o ci liberi per sua benignità dal peccato, che è il solo vero male; ma rispetto agli altri mali, noi dobbiam chiedere d’andarne immuni, in quanto solo una tal grazia può esser proficua alla nostra salute.

Ma liberaci dal male. Per restringere in due parole tutta l’importanza di questa petizione, noi diremo, che in tal modo devono sempre finire le preghiere dell’uomo decaduto. La liberazione dal male: ecco lo scopo di ogni Religione, di ogni sacrificio, di ogni penitenza pubblica o privata che mai siasi usata presso tutti i popoli sin dall’origine del mondo. Nella domanda che precede, noi preghiamo Dio a liberarci liberarci dal peccato, in questa noi lo supplichiamo a liberarci dalla pena del peccato, come a dire dalla morte subitanea, dai castighi riserbati agli empi, e dal fuoco del Purgatorio; da cui pure lo preghiamo con tutto l’ardore di liberare le anime che vi sono tormentate. Noi domandiamo di essere preservati da tutti i mali, tanto esterni che interni: dall’acqua, dal fuoco, dal fulmine, dalla gragnuola, dalla fame, dalla guerra, dai tumulti; facciam voti perché restino sempre da noi lontane le malattie, le pestilenze, gl’infortuni, le prigionie, gli esili, i tradimenti, le insidie; a dir breve, tutte le sventure che affliggono l’umanità. Domandiamo finalmente che le ricchezze, gli onori, la sanità, la vita stessa non tornino a detrimento ed a perdizione dell’anima nostra. Noi dobbiam chiedere tutto ciò con fiducia, perocché il nostro buon Padre, col comandarci di chiedere la liberazione dai nostri mali, ci ha pur dato malleveria di essere esauditi: Alzaron le grida i giusti, e il Signore li esaudì, e liberolli da tutte le loro tribolazioni In questa domanda la parola male significa ancora il malvagio, ossia il demonio. Noi preghiamo Iddio a liberarci da’ suoi assalti, attesoché il demonio fu l’autore di tutti i delitti e di tutte le sventure degli uomini. Abbiam detto malvagio e non malvagi, poiché tutti i mali che ci vengono dal nostro prossimo devono essere imputati alle maligne suggestioni dello spirito infernale. Laonde, anziché adirarci coi nostri fratelli, dobbiam volgere interamente il nostro odio contro Satanno, vera cagione di tutti i mali, che l’un l’altro si fanno gli uomini.

– La terza parte dell’Orazione Domenicale si compone di questa sola parola, che come suggello, conclusione, di tutta la preghiera.

Amen. Amen è parola ebraica, e vuol dire così sia, cioè, facciasi come ho chiesto; possano essere esauditi i miei voti, io lo credo, io lo spero. Come una rimembranza della Chiesa primitiva, e per rispetto alla veneranda nostra antichità, si è conservata questa voce ebraica; non meno che per venerazione al Signor Nostro, dalle cui labbra era frequentemente ripetuta. Amen esprime altresì un voto novello, un più vivo desiderio di ottenere le cose richieste. È mestieri profferire questa conclusione con pietà particolare e con affetto sincero, sia per supplire al mancamento di attenzione e di fervore che poté sorprenderci nel tempo della preghiera, che per tentare un ultimo sforzo, e toccare, per così dire, l’ultima corda al cuore del nostro Padre. – Tale è l’Orazione insegnata dal Signore: niente di più santo, di più affettuoso, di più augusto, di più efficace. È una chiave d’oro con la quale possiamo aprire a nostro talento i tesori del Cielo. Si ami dunque, si veneri, si custodisca come il bene più prezioso, si ponga indefessamente in uso. Ma tuttoché onnipossente, questa divina preghiera, non ci sarà in verun conto giovevole se non sarà fatta a dovere. Ora nulla di più opportuno a rianimare il nostro fervore nella preghiera, come nulla di più celebre negli annali dei Santi, che la visione di S. Bernardo. Ella ne fa conoscere le diverse classi di persone che si dedicano alla preghiera, e ne mostra al tempo stesso quali ricompense si meriti ognuna d’esse. Una notte, l’illustre fondatore di Chiaravalle, mentre tutti i suoi Religiosi recitavano il divino Officio, era assorto in profonda meditazione. Erano essi in gran numero, e Iddio gli fece conoscere che tutti andrebbero salvi, sebbene nel punto della visione non tutti egualmente fossero animati dal medesimo fervore. Vedeva il Santo che un Angelo stava al fianco d’ogni Religioso, e scriveva: alcuni di questi Angeli scrivevano in lettere d’oro, altri con acqua, alcuni finalmente con nero inchiostro. Il Signor Nostro degnossi di far comprendere al Santo il significato di questa visione. Gli disse che i Religiosi i quali pregavano col dovuto fervore erano quelli, le cui preghiere l’Angelo scriveva con lettere d’oro; quelli che pregavano con tiepidezza erano quelli, le cui preci venivano scritte coll’acqua; gli altri finalmente che pregavano distrattamente e sonnecchiando erano quelli, le cui orazioni scrivevansi col nero inchiostro: che i primi meritavano una grande ricompensa; i secondi nulla, o quasi nulla; e gli ultimi erano degni di castigo. – Voi che leggete questo racconto (supposto che sappiate in che modo scriva il vostro buon Angelo, quando alla mattina, o alla sera, in chiesa, o nel corso della giornata vi esercitate nella preghiera), la sua penna dovrebbe intingersi nell’oro, nell’acqua, oppure nel nero inchiostro? Lascio a voi il risolvere la questione.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver composto per me una preghiera breve, facile, perfetta ed efficacissima. Fatemi la grazia di poterla sempre recitare con le dovute disposizioni. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose e il mio prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, addopperò l’attenzione nel recitare il PATER nelle mie preghiere dei mattino. [Fine]

 

 

L’ORAZIONE DOMENICALE (2)

L’ORAZIONE DOMENICALE. (2)

[J. J. Gaume: “Catechismo di Perseveranza”, VI Ed. Vol. II, Torino, Tip. Sperani, 1881]

Prima domanda: Sia santificato il nome tuo. La prima cosa che domandar si deve è la gloria di Dio, dappoiché questa è la cosa più eccellente e ad un tempo il più grande di tutti i beni. Qual figli pertanto che di vero cuore desiderano l’onore del proprio padre, noi cominciamo primamente dal chiedere in generale che il nome del celeste Padre nostro, vale a dire, quello di Dio medesimo, che è quanto dire la sua maestà, la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, la sua misericordia, la sua giustizia siano santificate, conosciute, apprezzate, onorate, rispettate, amate così in terra come in Cielo; ch’è quanto dire, che ad imitazione degli avventurosi abitatori del Cielo tutti gli abitanti della terra onorino, amino, esaltino, lodino con le loro parole e con le azioni, con la fede, con la speranza, con la carità il nome adorabile di Dio. Noi domandiamo specialmente: 1° che gl’infedeli illuminati dalla luce divina giungano alla cognizione del vero Dio, e siano rigenerati con le acque del Battesimo nel nome del Padre, del Figliuolo, dello Spirito Santo; 2° che tutte l’eresie vengano estirpate, ed i loro seguaci conoscano ed abbraccino qual vera madre loro la santa Chiesa Cattolica, Apostolica e Romana, fuori della quale non v’ha effusione di Spirito Santo, né remissione dei peccati, né salute eterna; 3° che spariscano dalla faccia della terra le superstizioni, i sortilegi, le pratiche diaboliche, gli spergiuri, le bestemmie e tutti gli altri disordini coi quali il nome di Dio è vilipeso ed oltraggiato; 4° il ritorno dei peccatori sotto il dolce e sacro giogo del nostro Padre celeste; la persuasione sincera che tutti i beni del corpo e dell’anima vengono da Dio; la fedeltà nel riferirli tutti a gloria sua; e finalmente uno zelo religioso di onorare costantemente colle opere nostre la santa Trinità, affinché gli uomini dai nostri scandali non piglino occasione di bestemmiare il santissimo Nome. E tutto questo noi domandiamo per un giorno, ma per tutta la nostra vita, ovvero, in altre parole, noi chiediamo la perseveranza nel bene fino all’estremo sospiro.Il desiderio della santificazione del nome di Dio è certamente il più nobile che sortire dal cuor dell’uomo, attesoché appunto per questo noi fummo creati e dotati di ragione; ed è eziandio il più ardente e il più costante che sia stato formato dal Signor Nostro istesso, e dietro il suo esempio da tutti i Santi nel corso dei secoli.Sant’ Ignazio di Lojola rivolto un giorno al P. Laynez gli disse: « Se Iddio lasciasse alla vostra scelta di andar subito in Paradiso, oppure di rimanere ancora sulla terra con la probabilità di operare qualche gran fatto per la gloria del suo nome, a qual dei due vi appigliereste? — Accetterei di andare in Cielo, rispose il P. Laynez. — Quanto a me, riprese il Santo, preferirei di restare quaggiù per fare la volontà di Dio, e rendergli come potessi un qualche servigio. Rispetto alla mia salute, io non dubito punto che Iddio volesse dimenticarmi, e lasciar perire colui che per suo amore avesse volontariamente ritardato il suo ingresso nel Cielo ».

Seconda domanda: Venga il regno tuo. Dopo di aver desiderato la gloria di Dio, noi domandiamo che ci sia dato di partecipare della medesima, essendo questo lo scopo per il quale siamo stati creati, e per conseguenza la ragione suprema della Religione, della vita, del tempo, dell’eternità. Osservisi come noi domandiamo che il regno di Dio venga a noi, e non già che noi andiamo a lui, dappoiché è necessario che a noi venga il regno della grazia, acciocché possiamo giungere a quello della gloria. E infatti il regno di Dio in tre modi si può intendere: regno di natura, regno di grazia, regno di gloria. Il regno di natura è quello pel quale Iddio regge e governa tutti gli esseri creati e tutto quanto l’uman genere. Di questo regno parla la Scrittura quando dice: Signore, Signore, Re onnipotente, tu facesti il Cielo e la terra e tutto quello che nel giro dei cieli contiensi; in tuo dominio son tutte le cose, e non avvi chi al tuo volere resister possa [Esther XIII, 9-10]. Noi non chiediamo che questo regno arrivi, perocché esso esisté sin dall’origine del mondo, e gli stessi malvagi, vogliano o non vogliano, non possono sottrarvisi; domandiamo soltanto la sua manifestazione, e desideriamo che tutti riconoscano, ammirino, benedicano le leggi di quella materna Providenza che il tutto dispose in numero, peso e misura; che raggiunge la sua meta con altrettanta forza che dolcezza, ed alla quale tutti devono sottomettersi con filiale rassegnazione. – Il regno di grazia si è quello col quale Iddio regge e governa i cuori e le anime dei fedeli figli della Chiesa, mercé l’azione dello Spirito Santo, e per mezzo delle tre grandi virtù, fede, speranza e carità, le quali conducono ad osservare con piena fedeltà i suoi divini precetti ed a cercare la sua gloria prima di ogni altra cosa. – Il regno di gloria avrà luogo nell’altra vita dopo il generale giudizio. Allora Iddio regnerà coi Santi in tutte le creature senza opposizione di sorta, perché allora ogni potenza sarà stata tolta al demonio ed ai malvagi che insieme incatenati gemeranno nelle prigioni dell’eternità. Allora eziandio sarà distrutto l’impero della morte, della corruzione, delle tentazioni tutte del mondo e della carne che tormentano qui in terra i servi di Dio, tantoché sarà quello un regno tranquillo, pacifico, accompagnato dal godimento certo e sicuro di una felicità sincera e senza fine. – Di quale di questi tre regni affrettiamo noi con i voti la venuta nella terza domanda dell’Orazione Dominicale? Siccome superiormente dicemmo, non già del primo, poich’esso non deve venire, ma è venuto; noi non ne chiediamo nemmeno la continuazione, poiché c’impedirebbe il nostro ultimo fine, che è quello di veder Dio a faccia a faccia per tutta l’eternità. E neppure chiediamo il secondo, attesoché ne esprimemmo il desiderio nella prima domanda, ed è già in gran parte venuto. Domandiamo invece la venuta del terzo che deve venire, regno a cui tutti quelli i quali conoscono le miserie di questa vita ardentemente anelano, e che consiste nella fruizione del sommo bene e nella gloria perfetta del nostro corpo e dell’anima nostra. E siccome questa gloria non sarà perfetta se non dopo il finale giudizio, così noi domandiamo ogni giorno e con intenso affetto la fine di questo mondo e l’arrivo del generale giudizio. Noi domandiamo che questo mondo sì pieno d’iniquità e di disordini sia ben tosto surrogato da nuova terra e da nuovi cieli, in cui regnerà la giustizia, affinché Iddio sia tutto in tutte le cose. E sebbene gli amatori di questo mondo non possano sentire più disaggradevole annunzio di quello del finale giudizio, tuttavia noi altri, cittadini del Cielo, che viviamo quaggiù come pellegrini ed esuli, non possiamo e non dobbiamo avere desiderio più grande di quello di vederlo arrivare. – Perciò scrive S. Agostino: « Siccome prima che Gesù Cristo venisse al mondo tutti i desideri dei Santi dell’antica Legge s’indirizzavano alla prima venuta di Cristo: così ora tutti i desideri dei Santi della Legge nuova s’indirizzano alla seconda venuta dello stesso Cristo, che ci porterà la perfetta beatitudine(in Ps. CXVIII. – Bellarm., Dottrina crist. P. 79) ». Ecco una verità che importa sommamente di richiamare al nostro spirito e a quello degli altri. Nulla è più atto a nobilitare i nostri pensieri quanto la memoria di questo fine sublime al quale noi siamo destinati; nulla è più proprio a farci tollerare coraggiosamente le avversità, a resistere fedelmente alle tentazioni, a disprezzare tutti i beni della terra, quanto il meditare quei gaudi eccelsi che ci aspettano nell’eternità. Oh! sì; un giorno noi regneremo in compagnia del Signor Nostro; addestriamoci pertanto a far da padroni comandando alle nostre passioni, e costringendo il mondo a piegarsi innanzi alla nostra fede. Quale vergogna se altrimenti avvenisse! Forseché col portar le catene dello schiavo si può apprendere ad esser re?

Terza domanda: Sia fatta la volontà tua. Nell’antecedente petizione noi abbiamo domandato la beatitudine eterna, che è il fine ultimo dell’uomo; ed in questa chiediamo il mezzo principale per arrivarvi. Ora questo mezzo, secondo la parola dello stesso Signor Nostro, è di adempiere la volontà del nostro Padre celeste: Se brami di arrivare alla vita, osserva i comandamenti (Matth. XIX, 17). E perché noi non siamo bastar da noi stessi ad osservare questi divini Comandamenti come si conviene, però noi imploriamo da Dio che sia fatta da noi la sua volontà, cioè che ci dia: 1° la grazia di adempiere la sua volontà, obbedendo in tutto e per tutto ai suoi santi Comandamenti, imitando in questo l’esempio dei nostro divino modello, che umiliò se stesso, fatto ubbidiente sino alla morte, e morte di croce (Filip. II, 3); 2° la grazia di accettare, se non con fiducia e con gioia filiale, senza mormorazioni almeno, le pene spirituali e corporali che ci possono affliggere, come la perdita delle sostanze, dei congiunti, degli amici. Infatti, tutte queste cose che Iddio comanda, o permette, tendono al maggior nostro bene; se noi siamo giusti ci aprono più vasto campo a meritare; se non lo siamo ne somministreranno almeno il mezzo di purificarci. –  Uomini di poca fede! Che possiamo chiedere di più vantaggioso che l’adempimento della volontà del nostro Padre? Ei ci ama più teneramente di quello che non ci amiamo noi stessi; la sua volontà è santa, giusta, perfetta. Ohimè! per non averla adempiuta il primo Adamo precipitò in quell’abisso di mali che sono il triste nostro retaggio; adempiendola, noi ce se libereremo e ne saremo preservati, o questi almeno saranno per noi di tanto minore aggravio, con quanta maggiore esattezza avremo adempiuta questa volontà perfetta; e ciò è così vero che su nel Cielo si gode la pienezza della felicità, posciaché ivi regna tutta sola, eternamente, la volontà di Dio. E questa felicità per ognuno di noi sarà proporzionata a quella fedeltà colla quale avrem fatto la volontà di Dio sulla terra.

Siccome in Cielo, così in terra. Nel chiedere a Dio la grazia di ubbidirgli, noi gli domandiamo ad un tempo che si degni di render meritoria e degna di Lui la nostra ubbidienza, vale a dire, somigliante a quella degli Angeli e di tutti i Santi cittadini del Cielo. Ora gli Angeli ed i Santi si soggettano alla volontà di Dio con tutta la pienezza dell’amore; obbediscono unicamente perché  Dio lo vuole, senza cercare l’amor proprio; adempiono i suoi cenni colla massima prontezza; non si lagnano, non discutono. Ad ogni volere dell’Altissimo essi rispondono con un cantico di lode, con rendimenti di grazie: Santo, Santo, Santo, è il Signore, Dio degli eserciti. E così pure dobbiam ubbidir noi: Oh! quanto sarebbe dilettevole questa terrena dimora, se tutti quei milioni di umane volontà non avessero in tutte le cose e in tutti i tempi altra volontà che quella di Dio! Quanto a noi almeno, deh! Siano sempre nel nostro cuore e sulle nostre labbra le parole dell’Apostolo San Paolo: « Signore, che volete voi che io faccia?» Quelle del Re Profeta: « Il mio cuore è preparato, o Signore, il mio cuore è preparato ». Quelle del santo Giobbe: « Il Signore me lo diede, il Signore me lo tolse, come a Lui piacque così fu fatto, sia benedetto il suo santo nome ». Quelle finalmente dello stesso divino nostro Maestro: « Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice: tuttavolta sia fatta la vostra e non la mia volontà ». – Tale si è la prima parte dell’Orazione Dominicale; e quando vogliansi considerare nel loro obbietto, nulla è più sublime delle tre domande di cui essa consta, nulla è più logico dell’ordine col quale sono esposte. Noi chiediamo primamente che il nome di Dio sia santificato, dappoiché prima di ogni altra cosa noi dobbiamo amar Dio, e cercare innanzi tutto la sua gloria; in secondo luogo domandiamo che venga a noi il suo regno, perciocché egli sarà perfettamente amato e benedetto, quando specialmente dopo il finale giudizio, regnerà pienamente e perfettamente su tutte le creature; in terzo luogo domandiamo la grazia di fare la volontà di Dio quaggiù in terra, allo scopo di cominciare anche in questa vita a santificare il nome del Signore, ed a vivere sotto il suo regno, onde giungere, mercé tale cominciamento, a quel luogo beato in cui sarà perfetto il suo regno, ed il suo nome perfettamente santificato. A dir breve, in queste tre prime petizioni noi chiediamo le cose pertinenti a Dio: che il suo nome sia santificato; che venga il suo regno; che i suoi Comandamenti siano osservati: in ciò consiste la perfezione e l’ultimo fine dell’uomo. – La seconda parte dell’Orazione Dominicale abbraccia quattro domande, per le quali si chiedono tutte le cose temporali necessarie per arrivare ai beni eterni. Che di più saggio? Alla stessa guisa che l’uomo si riferisce a Dio come a proprio fine, così pure i beni di questa vita si riferiscono a quelli dell’ altra come mezzi al loro fine. Ed ecco perché il Signor Nostro vuole che la domanda di questi beni terreni occupi il secondo luogo. Noi non dobbiamo domandarli se non in quanto Iddio medesimo lo permette, e che noi ne abbisogniamo per conseguire i beni celesti.

Quarta domanda: Dà a noi oggi il nostro pane quotidiano. Con queste parole così semplici ed affettuose noi chiediamo tutto ciò ch’è necessario al sostentamento della nostra vita temporale. Ora noi siamo composti di due sostanze, d’anima e di corpo; ambedue per vivere hanno bisogno di alimento. L’anima che è spirituale, esige alimento spirituale; il corpo che è materiale, richiede cibo materiale. La santa Eucaristia, la parola di Dio, le sante ispirazioni, ecco qual è il ristoro dell’anima, ecco quello che per essa noi domandiamo. – Bere, mangiare, vestire e consimili altre necessità sono le cose che richieggonsi per la conservazione del corpo, ed ecco ciò che pel medesimo noi chiediamo.

Dà a noi. Parole d’umiltà attissime a muovere a pietà il cuor di Dio! Per esse riconosciamo che noi non abbiam nulla, e siamo affatto uguali ai mendichi; riconosciamo che Iddio solo è ricco, e ch’Egli solo può darci il tutto; che a Lui andiamo debitori dell’esistenza e del necessario, sì per la vita spirituale che per la temporale, e non già alle nostre fatiche, alla nostra industria, alle nostre virtù. Meravigliose verità! È forse per virtù nostra che cresce il grano nei campi, il vello sul dorso della pecora? È per virtù nostra che si avviva nel nostro cuore la fede, si dilata la speranza, s’infiamma la carità? Oh! senza dubbio, ricchi e poveri, di qualunque grado o stato, tutti dobbiamo pregare che dia a noi; tutti senza eccezione siamo tapini chiedenti l’elemosina alle porte del Padre di famiglia. – I facoltosi devono dire dà a noi, e sulle loro labbra queste parole significano: Mio Dio! degnatevi di conservarci i beni che ci avete confidati, continuateci le vostre liberalità; noi sappiamo che ad ogni istante voi potete toglierci ogni nostro avere, tantoché col conservarceli voi ci fate la stessa grazia, come se ad ogni istante ce li donaste. –  I poveri devono dire dà a noi, e nella loro bocca queste parole significano: Mio Dio! noi aspettiamo dalla vostra liberalità tutto ciò che è necessario al nostro sostentamento; deh! inviatecelo o direttamente per Voi stesso, o indirettamente per mezzo dei ricchi ai quali Voi ispirate di essere caritatevoli verso di noi; benedite le nostre fatiche, né vogliate che le infermità o i pubblici infortuni ci privino del frutto dei nostri sudori. Ora sarebbe un tentare Iddio il credere ch’Egli fosse per inviarci la manna dal Cielo senza far altro del canto nostro che domandarla. No, quel Dio che comanda la preghiera, comanda altresì la fatica; e le nostre suppliche non hanno altro scopo che d’implorare le sue benedizioni sulle nostre fatiche, sui nostri sudori. Infatti ogni fatica nostra è inutile, se Iddio per sua grazia non la rende feconda: la nostra preghiera dà a noi è quindi una protesta che: viviamo della Providenza di Dio, anziché della nostra industria. Finalmente noi tutti, e ricchi e poveri, domandiamo non solo che Iddio ne conceda il nostro pane, ma che egualmente lo benedica, lo santifichi, affinché ne usiamo sempre a vantaggio non solo del corpo, ma eziandio dell’anima. – Noi diciamo dà a noi, e non dà a me, imperocché è proprio del Cristiano di non pensare solamente a se stesso; e vuole la carità che si abbia a cuore l’utile eziandio del nostro prossimo. D’altra parte Iddio non ci accorda i suoi benefizi perché ne approfittiamo noi soli e ci abbandoniamo all’intemperanza; ma vuole che facciamo parte agli altri di tutto quello che ne avanzi dopo di aver provveduto ai nostri personali bisogni.

Oggi. Questa parola ha due significati. Primieramente significa tutto il tempo della vita presente, poiché la vita non è che un giorno, senza ieri, senza domani. E noi chiediamo a Dio che ci doni per tutto il tempo di questo terreno pellegrinaggio i pane dell’anima e il pane del corpo, finché possiam giungere in quella patria fortunata dove più non abbisogneremo né di Sacramenti, né di prediche, né di materiali alimenti. Oggi, in secondo luogo, denota il giorno presente. E noi domandiamo a Dio che ne conceda oggi stesso quel pane di che abbisogniamo, poiché non ci vogliamo angustiare per l’indomani, non sapendo noi se domani saremo ancora in vita. Laonde il pane d’oggi si richiede oggi; quello di domani sarà chiesto domani. È egli possibile d’insegnarci più eloquentemente quell’amabile, quell’ammirabile povertà evangelica, che per un lato è riposta nel distacco assoluto dai beni della terra, e per l’altro in una filiale, assoluta fiducia nella divina Providenza? Il nostro Padre celeste non vuole che neppure per un giorno noi facciamo assegno sulle nostre forze, ma vuole che ogni giorno gli chiediamo il pane di ogni giorno; vuole che ogni giorno riposiamo in braccio alla sua Providenza, e in lei rimettiamo la cura di soccorrere alle nostre necessità. E quale inquietudine possiamo aver noi? Se prima d’ogni altra cosa cercheremo il regno di Dio e della sua giustizia, tutto il resto ne verrà donato per soprappiù. Osservate; non nutrisce egli forse il nostro Padre celeste gli augelletti dell’aria che non seminano punto? non veste Egli forse i gigli del campo che non filano? non fa Egli nascere ogni giorno il sole sul giusto e sul malvagio? – Ma dacché noi non dobbiamo occuparci che del presente, non è forse mal fatto accumulare provvigioni di grano, di vino e di ogni altra derrata per un anno intero? Allorché il Signore ne insegna ad occuparci soltanto del presente, Egli vuole solamente liberarci da quelle soverchie premure che sono ostacolo fortissimo alla preghiera, nonché alle altre occupazioni di maggiore importanza, e il cui adempimento può solo guidarci alla vita eterna. E però quando il pensiero dell’avvenire non è punto eccedente, ma sì bene misurato, come sarebbe il premunirsi di convenienti provvigioni, esso non è riprovevole; anzi, che dico io? un tale pensiero non si può dire dell’indomani, ma piuttosto del giorno d’oggi, poiché, aspettando l’indomani, potrebbe fors’essere troppo tardi.

Il nostro pane. Dopo di avere con l’antecedente petizione domandato la grazia che è la vita stessa, nulla è più naturale di chiedere in seguito il pane che alimenta la vita. Difatti la prima cosa che desidera il fanciullo appena nato è quel nutrimento che mantiene l’esistenza. Non esca però di mente, che qui noi pure domandiamo anzi tutto il pane spirituale, nutrimento dell’anima, e poscia il pane materiale, nutrimento del corpo; tanto esigono la ragione e la fede. Per pane spirituale s’intende in primo luogo la santissima Eucaristia, pane celeste e sovrannaturale che sostenta miracolosamente la vita dell’anima; in secondo luogo, la parola di Dio, la quale, ricevuta mercé la predicazione o la lettura, è possente aiuto ad alimentare la nostra vita spirituale; e da ultimo son denotate le sante ispirazioni, la preghiera e tutto ciò che contribuisce ad alimentare od accrescere in noi la grazia, la quale, siccome abbiam detto, è la vita dell’anima. – Perciò il Signor Nostro vuole che chiediamo ogni giorno la sua carne in cibo e il suo sangue in bevanda, che è quanto dire la santa Eucaristia, nutrimento giornaliero delle anime nostre; quindi noi dobbiamo vivere in guisa da renderci degni di riceverlo ogni giorno. Che pensare, o mio Dio! di coloro che non la ricevono se non una volta all’anno! Ei vuole altresì che domandiamo ogni giorno la sua divina parola. Che pensare pertanto di quegli infelici che non l’ascoltano, non la leggono, che per discuterne e censurarla? Costoro, per sentimento dei Padri, si condannano da se stessi alla morte spirituale, e si rendono colpevoli dello stesso sacrilegio dei profanatori dell’Eucaristia. È almeno indubitato che coloro i quali fuggono la parola di Dio, non men di coloro che si allontanano dalla santa Eucaristia, ignorano ciò che dicono allorquando dicono il Pater. – Per pane materiale s’intende tutto quello ch’è necessario alla vita del corpo, ma nulla più; nulla di quanto può appagare la sensualità o lusingare il lusso. Nostro Signore usa la parola pane, primieramente perché nelle Scritture una tal voce denota tutto ciò ch’è necessario alla vita, come ad esempio il vitto, il vestito, l’abitazione; e in seguito per insegnarci che dobbiamo contentarci di poco, senza cercare il superfluo, che mal si addice a viaggiatori che passano in terra straniera. Noi diciamo nostro pane, e questa parola racchiude un senso profondo. Infatti, se s’intende la santa Eucaristia, essa è nostro pane, dappoiché per noi soli fu formato nel seno della Vergine benedetta per opera dello Spirito Santo, fu cotto sulla croce nel fuoco della carità, imbandito sull’altare col ministero dei Sacerdoti. Essa inoltre è nostro pane, pane dei veri figli di Dio, non già dei cani, secondo l’energica espressione delle Scritture, vale a dire, dei peccatori; è pane dei Cattolici, non già degli eretici o degl’infedeli. Intendesi la parola di Dio? Col dire nostro pane noi domandiamo la sana e pura parola di Dio, dispensata dai veri Predicatori ai figli della Chiesa, e non già il pane straniero, il pane corrotto, avvelenato, che offrono gli eretici ai loro settari. Intendesi il pane materiale? Noi desideriamo che Iddio ci doni il nostro pane, non quello d’altrui, vale a dire, che ci aiuti a guadagnarlo col benedire le nostre fatiche, i nostri poderi, i nostri campi, le nostre vigne, affinché senza ricorrere alla frode, né aver bisogno di mendicare, ci possiamo procurare di che vivere. – Diciamo ancora nostro pane, non perché ci appartenga di diritto, ma sì bene affinché Iddio per somma sua misericordia si degni concederlo a noi, come nutrimento convenevole all’uomo; diciamo nostro pane e non mio pane, perché  ciascuno di noi deve chiedere pe’ suoi fratelli quello che chiede e desidera per se medesimo. Ma potremo noi dire di avere tal desiderio, se ricusiamo di metterli a parte di quel superfluo che Iddio ci dona?

Quotidiano. Questa parola ne insegna che da noi non devesi chiedere nutrimento squisito, né delicato, ma sì un cibo semplice, frugale e bastevole alle giornaliere necessità, giusta gl’insegnamenti dell’Apostolo: Avendo gli alimenti, e di che coprirci, contentiamoci di questo (I Tim. VI, 8). Alla qual lezione di frugalità la parola quotidiano ne aggiunge un’altra non meno eloquente di modestia e disinteresse: l’uomo chiede pane per un sol giorno, attesoché egli ignora se per lui sorgerà l’indomani! [2. Continua ...]

L’ORAZIONE DOMENICALE (1)

 L’ORAZIONE DOMENICALE. (1)

 [J. J. Gaume: “Catechismo di Perseveranza”,VI Ed. Vol. II, Torino, Tip. Sperani, 1881]

– Racconto-

Quantunque l’Orazione Dominicale entri nei novero delle pubbliche preghiere allorquando è offerta a Dio dal sacro ministro a nome di tutto il popolo fedele, tuttavolta noi la mettiamo a capo delle preghiere particolari, dappoiché il Signor Nostro Gesù Cristo la compose, a quanto sembra, principalmente per uso particolare di ogni Cristiano in tutti quei casi, che sì frequentemente ricorrono, nei quali abbiam bisogno d’implorare l’aiuto del Signore. « Quando tu fai orazione, leggesi in San Matteo, entra nella tua camera, e chiusa la porta, prega in segreto il Padre tuo, orando in tal guisa: Padre nostro, che sei ne’ Cieli, ecc. [Matth. VI; 6, 9] ». – L’Orazione Dominicale, sia che si consideri nel suo Autore, o nella sua forma e sostanza, è senza fallo la più eccellente di tutte le preghiere.

1° Rispetto al suo Autore. Non fu un Santo, né un Profeta, né un Angelo, ne un Arcangelo quegli che la compose, ma lo stesso Signor Nostro Gesù Cristo, il Figlio, l’eterna Sapienza di Dio.

2° Rispetto alla forma. L’Orazione Dominicale è chiarissima e non avvi chi non la comprenda, dal piccolo fanciullo al canuto vegliardo, dal villico al cittadino: ella è breve, ed ognuno può impararla con somma facilità, ritenerla fedelmente, e recitarla di frequente. Questo pregio la rende essenzialmente popolare, e per conseguenza degna di quel Dio che venne a salvare tutti gli uomini, e della Religione che dev’essere predicata così ai liberi come agli schiavi, così ai popoli civilizzati come ai barbari e selvaggi. Essa ha forza per persuadere, piena com’è di semplicità, di umiltà, di tenerezza, e perciò efficacissima pel modo con cui esprime a Dio le nostre necessità.

3° Rispetto alla sostanza. Essa è completa; racchiude tutto ciò che noi possiamo o dobbiamo chiedere, nella condizione di figliuoli di Dio, pel tempo e per l’eternità, pel corpo e per l’anima, per noi stessi e per gli altri. Ella è sapientissima, poiché ci rammemora e ci fa porre in pratica le tre virtù che sono le tre basi della Religione, della società, della salute, vale a dire, la fede, la speranza, la carità; ella è divinamente logica, poiché regola i desideri del nostro cuore insegnandoci ad esprimere in primo luogo i più nobili ed importanti, e poscia quelli che lo son meno – «Infatti, scrive S. Tommaso, egli è palese che l’obbietto precipuo dei nostri desideri dev’essere l’ultimo fine, e dopo questo i mezzi necessari per giungere al suo conseguimento. Ora; il fine ultimo è Iddio, verso del quale in due modi si portano i nostri affetti: primamente col desiderare la gloria di Dio; e in secondo luogo col bramare per noi pure il godimento di questa istessa gloria divina. Il primo modo appartiene alla carità, mercé la quale noi amiamo Dio in se stesso; il secondo egualmente alla carità, ma in quanto che amiamo noi stessi in Dio. Ed ecco il perché la nostra prima domanda è questa: Sia santificato il nome vostro, con cui chiediamo la gloria di Dio; e la seconda: Venga a noi il regno vostro, con la quale domandiamo di pervenire noi stessi alla gloria di Dio. Ciò premesso, si osservi, che una cosa può guidarci all’ultimo nostro fine, o per se stessa, o in modo accidentale. Per se stessa e direttamente, facendoci meritare la beatitudine eterna, mercé l’obbedienza ai Comandamenti di Dio, donde consegue, che la nostra terza domanda è così concepita: Sia fatta la volontà vostra così in Cielo come in terra; e per se stessa ancora, ma in un modo meno diretto, vale a dire, con l’aiutarci a meritare la beatitudine eterna, quindi la nostra quarta domanda: Dateci oggi il nostro pane quotidiano. Una cosa può condurci all’ultimo nostro fine in modo accidentale, allorquando rimuove gli ostacoli che potrebbero impedire il conseguirlo; e questi ostacoli sono di tre sorta: 1° il peccato che ce ne allontana direttamente, dal che è mossa la nostra quinta domanda: Rimettete a noi i nostri debiti; 2° la tentazione che conduce al peccato, onde la sesta domanda: E non induceteci in tentazione; 3° i mali temporali, funesta conseguenza del peccato, che rendono cotanto gravoso il peso della vita, quindi la nostra settima ed ultima domanda: Ma liberateci dal male! ». – Le sette domande dell’Orazione Dominicale corrispondono oltracciò ai sette doni dello Spirito Santo ed alle sette Beatitudini evangeliche, tantoché quest’ammirabile preghiera è in armonia perfetta con la gran tela della Religione, ed ha per iscopo di farci conseguire tutti quegli aiuti che sono indispensabili per fare del Cristiano un uomo perfetto in questo mondo ed un beato nell’altro. La qual considerazione moveva S. Agostino a designare l’Orazione Dominicale con questo sublime concetto: « quel modo e quella regola di pregare che il celeste Giureconsulto ha dato Egli stesso ai fedeli, affinché ottengano l’adempimento d’ogni loro voto ». Finalmente ciò che accresce ancora l’eccellenza dell’Orazione Dominicale si è che essa è la più necessaria di tutte le preghiere. – Molti Concili, e fra gli altri il Concilio di Roma, obbligano tutti i Cristiani a saperla a memoria, attesoché, secondo la dottrina dei Santi Padri, è necessario farne ciascun giorno la recitazione1 . «Vivendo noi, scrive S. Agostino, nel mezzo del mondo, in cui niuno può vivere senza cadere in peccato, la remissione delle nostre colpe trovasi non solo nelle acque sante del Battesimo, ma sì ancora nell’Orazione Dominicale e giornaliera. Essa in certa guisa è il nostro Battesimo di tutti i giorni ». « L’orazione Dominicale è adunque il rimedio de’ nostri falli quotidiani, vale a dire, dei peccati veniali, purché nel recitarla noi ci troviamo animati da un vero sentimento di contrizione. Egli è conveniente che ogni Fedele sappia questa preghiera nelle due lingue, latina e volgare: in latino, perché questa è la lingua dalla Chiesa; in volgare ossia nella lingua nativa, per intendere ciò che egli domanda.

Divisione dell’ Orazione Dominicale.

L’Orazione Dominicale si divide in tre parti: nella prefazione ossia preparazione, nel corpo della preghiera e nella conclusione. La prefazione consta di queste semplici ma sublimi parole:

Padre nostro, che sei ne’ Cieli. Salvatore avrebbe potuto senza dubbio farci dare a Dio dei titoli più improntati di maestà e più capaci d’infonderci rispettosa temenza; ma questi titoli sarebbero stati cagione che noi continuassimo a crederci gli schiavi del Sinai, mentre dobbiamo all’incontro essere i figli dei Calvario. Noi siamo adunque ammaestrati a dire, non già nostro Dio, nostro creatore, nostro padrone, ma sì nostro Padre. Fermiamoci alquanto a meditare questa parola rispetto a Dio, rispetto a noi stesso, rispetto al prossimo. Rispetto a Dio. Essa eccita mirabilmente la nostra fiducia, rammentandoci che, malgrado il nostro nulla e la nostra miseria, noi siamo figliuoli, non d’un principe. d’un re, d’un monarca terreno, ma bensì di Dio medesimo; e d’altra parte essa muove infallantemente il cuore di Dio col ricordargli ch’è nostro Padre; Padre sott’ogni riguardo, vale a dire, per creazione, per conservazione, per redenzione; Padre del nostro corpo, Padre dell’anima nostra. « A quella guisa, ne dice il Salvatore con queste tenere parole, che i figli si rivolgono al padre loro in tutti i bisogni, né temono di manifestarglieli per quanto grandi e numerosi; così pure voi dovete ricorrere al vostro Padre celeste, che vi consolerà, allevierà i vostri travagli, avrà pietà di voi, siccome un padre ha pietà dei propri figli ». Rispetto a noi stessi. Questa parola Padre nostro ci fa risovvenire più eloquentemente d’ogni altro discorso la nobiltà di nostra origine, e perciò ancora tutto il rispetto che dobbiamo avere sì pel corpo e per l’anima nostra, le cure diligenti che dobbiamo osservare onde mantenerci l’amicizia di Dio e vivere da veri suoi figli. se pur vogliamo ch’Egli ci esaudisca. I peccatori, che, secondo l’espressione del Salvatore medesimo, sono i figli del demonio, non possono a buon diritto dare a Dio il nome di Padre, dappoiché non inibiscono ai suoi santi comandamenti; stavolta non devono menomamente tralasciare la recitazione dell’Orazione Dominicale; anzi è da dire che neppur essi la recitano senza frutto. Se veramente sono penitenti, essi dicono Padre nostro, come il figliuol prodigo nell’atto di ritornare al padre suo, per ottenere il perdono dei propri falli; se poi sono indurati al mal fare, essi dicono Padre nostro, se non altro, in nome della Chiesa, della quale sono membri mercé la fede e la speranza. Rispetto al prossimo. La parola Padre nostro esprime la gran legge che ha salvato e che sola può ancora salvare il mondo, la legge cioè della fraternità universale, e c’insegna quello che sono per noi tutti gli uomini, e quello altresì che noi dobbiamo essere per loro. Difatto noi non diciamo Padre mio, ma sebbene Padre nostro, altesocché noi siamo tutti fratelli e dobbiamo pregare non solo per noi, ma ancora per tutti i cattolici, eretici, giudei, infedeli, amici e nemici, che è quanto dire, amarli di amore veramente fraterno In questa sola parola Padre nostro racchiudesi l’abolizione, o almeno la condanna di tutte le tirannie, l’esaltazione del piccolo, la protezione del debole, il sacrificio del ricco e del potente al sollievo corporale e spirituale dei suoi fratelli, meno di lui beneficati dai doni di fortuna e d’intelletto; in una parola, comprendesi in essa la carità, base della famiglia, vincolo della società, e pegno della felicità avvenire. Brevemente, noi diciamo Padre nostro, da una parte per attestare che noi preghiamo per tutti e in nome di tutti; d’altra parte, per impegnare il Signore ad accordarci pei meriti altrui quelle grazie che per noi stessi non meriteremmo di ottenere. Padre nostro! Egli è alle tre divine Persone che s’indirizza questa preghiera, dappoiché tutte tre meritano il nome di padre, a motivo della creazione, della redenzione, della santificazione.

Che sei ne’ Cieli. Il Dio a cui ricorriamo è dappertutto; tuttavolta noi diciamo che sei nei cieli, vuoi perché tutta la magnificenza della gloria colà rifulgono più che altrove, vuoi perché colà Egli regna in tutta la pienezza del suo amore sugli Angeli e sui Santi, e vuoi da ultimo per ricordarci continuamente che colà debbono essere i nostri pensieri, i nostri desideri, lo scopo delle nostre fatiche; in una parola, come dice l’Apostolo, la nostra conversazione: Padre nostro, che sei ne’ Cieli! Sì, tu sei nei Cieli, nel sommo della felicità, infinitamente ricco, infinitamente potente, infinitamente buono; e noi, tuoi figli, noi siamo sulla terra, in luogo di esilio, lontani dalla nostra patria, dalla nostra famiglia, poveri, deboli, infermi, circondati di nemici e di pericoli. Che di più efficace per intenerire il cuore di Dio? Che di più opportuno per imprimere nell’animo nostro un’umiltà profonda, un vivo sentimento dei nostri bisogni, e ad un tempo stesso il rispetto filiale, la purità, la carità verso i nostri fratelli? – E come non verrà esaudita una preghiera che dispone sì bene chi domanda e chi debba esaudire? Tale si è il proemio dell’Orazione Dominicale. Ma che cosa dobbiamo noi domandare, e con qual ordine? Pur troppo noi siamo tanto ciechi ed insensibili, che spesso non conosciamo né la natura dei nostri veri bisogni, né l’ordine giusta il quale dobbiamo chiederne l’alleviamento. Da ciò nasce che noi o non chiediamo cosa alcuna o che chiediamo male. Laonde per ovviare a questa doppia disgrazia il nuovo Adamo ha composto ei medesimo una supplica a nostro uso, nella quale si esprimono gli oggetti delle nostre suppliche e l’ordine da osservarsi nell’implorarli. Ciò posto, la ragione e la fede ne insegnano, che dai figli bennati ed intelligenti gli interessi del padre si debbono anteporre all’utile proprio; ai beni transitori di questo mondo quelli dell’eternità; il fine, in una parola, ai mezzi. E tutto ciò è appunto insegnato in modo ammirabile nella seconda parte dell’Orazione Domenicale. – Difatto il corpo di questa divina preghiera si divide, a guisa del Decalogo, in due parti. La prima riguarda Dio e comprende tre domande: Sia santificato il nome tuo; venga il regno tuo: sia fatta la tua volontà, siccome in Cielo così in terra. La seconda concerne l’uomo e contiene quattro domande: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, con ciò che segue sino alla fine. [1. Continua …]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO … E NON SOLO: “SACROSANTA ŒCUMENICA”

La Sacra Scrittura – il Santo Vangelo e la Sacra Bibbia – è stata da sempre l’oggetto, da parte dei nemici della Chiesa Cattolica, cioè di coloro che odiano Dio e tutti gli uomini, di manipolazione, riduzioni, sforbiciate, riduzioni arbitrarie, aggiunte non autorizzate, false interpretazioni e pretese nuove “illuminazioni” o “chiarimenti” da parte di strampalati e folkloristici pseudostudiosi, il cui vero intento è quello di mettere in confusione il fedele e portarlo alle porte degli inferi, per introdurlo poi ivi con tutta facilità. È successo tantissime volte: fin dall’inizio della vita della Chiesa, c’è stato sempre qualche giudaizzante interprete di una Bibbia monca e adattata già alla sinagoga gnostico-cabalistica, Bibbia già anatemizzata dagli stessi giudei, all’atto della compilazione della Bibbia dei Settanta, tradotta in greco perché l’ebraico biblico era oramai sconosciuto ai Giudei della diaspora. Poi sono apparsi di tanto in tanto neo-esegeti, ritrovatori di frammenti ammuffiti nelle grotte ove venivano gettate le copie errate degli scribi, e fatte passare come frammenti autentici [esempio classico sono i frammenti attribuiti alla setta degli Esseni, già di per sé eretici eredi della gnosi babilonese ed adoratori del dio-sole in agapi di “eletti” ben occultati. Sorvolando sui pittoreschi personaggi che di volta in volta si sono proposti [ed ancora ce ne sono tantissimi in giro!], come portatori della parola biblica, giungiamo alle aberrazioni dei protestanti, sempre più lontane dalla verità nella loro manipolazione, traduzione, interpretazione fino all’assurdo ed irreale “libero esame” che ancora oggi continua  a generare sette eretiche ed assolutamente improbabili, che mescolano elementi cristiani, gnostici, cabalistici e soprattutto fantasiosi, evidentemente prodotti dai fumi dell’alcool e delle droghe che infarciscono predicatori fanatici ed irresponsabili. Predicatori allucinati ed autoreferenziati sono oggi diffusi in ogni setta e derivati, e brulicano, oltre ai pretesi ignoranti (per vero o per inganno) professori delle conventicole massoniche, anche tra i settari del “novus ordo” e degli pseudo-tradizionalisti scismatici. Ma non è il caso di perdere tempo con ciarlatani ed imbonitori, oggi più che mai virulenti ed in salsa informatica. Noi Cattolici abbiamo una guida sicura, unico criterio di discernimento tra verità e cialtroneria: il Magistero della Chiesa Cattolica. Oggi iniziamo con il ricordare la sessione IV del Sacrosanto Concilio di Trento, per continuare poi con le principali Encicliche Pontificali riguardanti l’argomento: SACRE SCRITTURE.

CONCILIO DI TRENTO

“Sacrosanta Œcumenica”

SESSIONE IV (8 aprile 1546)

-S.S. Paolo III-

Primo decreto: Si ricevono i libri sacri e le tradizioni apostoliche.

Il sacrosanto, ecumenico e generale Concilio Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito Santo, sotto la presidenza dei medesimi tre legati della Sede Apostolica, ha sempre presente che, tolti di mezzo gli errori, si conservi nella Chiesa la stessa purezza del Vangelo, quel Vangelo che, promesso un tempo attraverso i profeti nelle scritture sante, il signore nostro Gesú Cristo, figlio di Dio, prima promulgò con la sua bocca, poi comandò che venisse predicato ad ogni creatura per mezzo dei suoi apostoli, quale fonte di ogni verità salvifica e della disciplina dei costumi. – E poiché il Sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte – che raccolte dagli Apostoli dalla bocca dello stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, tramandate quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, – seguendo l’esempio dei padri ortodossi, con uguale pietà e pari riverenza accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, – Dio, infatti, è autore dell’uno e dell’altro ed anche le tradizioni stesse, che riguardano la fede e i costumi, poiché le ritiene dettate dallo stesso Cristo oralmente o dallo Spirito Santo, e conservate con successione continua nella Chiesa Cattolica. – E perché nessuno possa dubitare quali siano i libri accettati dallo stesso Sinodo come sacri, esso ha creduto opportuno aggiungere a questo decreto l’elenco.

Dell’Antico Testamento: i cinque di Mosè, e cioè: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; Giosuè, Giudici, Ruth; i quattro dei Re; i due dei Paralipomeni; il primo e il secondo di Esdra (che è detto di Neemia); Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe; i Salmi di David; i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia con Baruch, Ezechiele, Daniele; i dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due dei Maccabei, primo e secondo. Del Nuovo Testamento: i quattro Evangeli: secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni; gli Atti degli Apostoli, scritti dall’evangelista Luca; le quattordici Lettere dell’Apostolo Paolo: ai Romani, due ai Corinti, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei; due dell’apostolo Pietro, tre dell’apostolo Giovanni, una dell’apostolo Giacomo, una dell’apostolo Giuda, e l’Apocalisse dell’apostolo Giovanni.

Se qualcuno, poi, non accetterà come sacri e canonici questi libri, interi con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella Chiesa Cattolica e come si trovano nell’edizione antica della Volgata latina e disprezzerà consapevolmente le predette tradizioni, sia anatema.

Sappiano quindi tutti, con quali argomenti lo stesso Sinodo, posto il fondamento della confessione della fede, procederà, e soprattutto di quali testimonianze e difese si servirà nel confermare gli insegnamenti e nel riformare i costumi nella Chiesa.

Secondo decreto: Si accetta l’edizione volgata della Bibbia e si prescrive il modo ai interpretare la sacra Scrittura ecc.

Lo stesso sacrosanto Sinodo, considerando, inoltre, che la Chiesa di Dio potrebbe ricavare non piccola utilità, se si sapesse quale, fra tutte le edizioni latine dei libri sacri, che sono in uso, debba essere ritenuta autentica, stabilisce e dichiara che questa stessa antica edizione Volgata, approvata nella Chiesa dall’uso di tanti secoli, si debba ritenere come autentica nelle pubbliche letture, nelle dispute, nella predicazione e che nessuno osi o presuma respingerla con qualsiasi pretesto. – Inoltre, per reprimere gli ingegni troppo saccenti, dichiara che nessuno, basandosi sulla propria saggezza, negli argomenti di fede e di costumi, che riguardano la dottrina cristiana, piegando la Sacra Scrittura secondo i propri modi di vedere, osi interpretarla contro il senso che ha (sempre) ritenuto e ritiene la santa madre Chiesa, alla quale spetta di giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre scritture o anche contro l’unanime consenso dei padri, anche se queste interpretazioni non dovessero esser mai pubblicate. Chi contravvenisse sia denunciato dagli ordinari e punito secondo il diritto.

Ma, volendo anche com’è giusto, imporre un limite in questo campo agli editori, i quali, ormai, senza alcun criterio – credendo che sia loro lecito tutto quello che loro piace – stampano, senza il permesso dei superiori ecclesiastici, i libri della Sacra Scrittura con note e commenti di chiunque indifferentemente, spesso tacendo il nome dell’editore, spesso nascondendolo con uno pseudonimo, e – cosa ancor piú grave, – senza il nome dell’autore, e pongono in vendita altrove, temerariamente, questi libri stampati, il Concilio prescrive e stabilisce che, d’ora in poi la Sacra Scrittura – specialmente questa antica volgata edizione, sia stampata nel modo piú corretto, e che nessuno possa stampare o far stampare libri di soggetto sacro senza il nome dell’autore né venderli in futuro o anche tenerli presso di sé, se prima non sono stati esaminati ed approvati dall’ordinario, sotto minaccia di scomunica e della multa stabilita dal canone dell’ultimo Concilio Lateranense.

Se si trattasse di religiosi, oltre a questo esame e a questa approvazione, siano obbligati ad ottenere anche la licenza dei loro superiori, dopo che questi avranno esaminato i libri secondo le prescrizioni delle loro regole.

Chi comunica o diffonde per iscritto tali libri, senza che siano stati prima esaminati ed approvati, sia sottoposto alle stesse pene riservate agli stampatori. Quelli che li posseggono o li leggono, se non diranno il nome dell’autore, siano considerati come autori. L’approvazione di questi libri venga data per iscritto, e quindi sia posta sul frontespizio del libro, sia esso scritto a mano o stampato. L’approvazione e l’esame siano gratuiti, cosí che le cose da approvarsi siano approvate e siano riprovate quelle da riprovarsi.

Volendo infine reprimere il temerario uso, per cui parole e espressioni della Sacra Scrittura vengono adattate e contorte a significare cose profane, volgari, favolose, vane, adulazioni, detrazioni, superstizioni, incantesimi empi e diabolici, divinazioni, sortilegi, libelli diffamatori, il Concilio comanda ed ordina per togliere di mezzo questo irriverente disprezzo, ed anche perché in avvenire nessuno osi servirsi, in qualsiasi modo, delle parole della Sacra Scrittura per indicare simili cose, che tutti i corruttori e violatori della Parola di Dio, siano puniti dai vescovi secondo il diritto o la discrezione dei Vescovi stessi.

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XIV DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXXIII:10-11.
Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília. [Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].
Ps LXXXIII:2-3
V. Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit, et déficit ánima mea in átria Dómini. O Dio degli eserciti, quanto amabili sono le tue dimore! l’ànima mia anela e spàsima verso gli atrii del Signore.

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice in fáciem Christi tui: quia mélior est dies una in átriis tuis super mília. [Sei il nostro scudo, o Dio, guarda e rimira il tuo Consacrato: poiché un giorno passato nel tuo luogo santo vale più di mille altri].

Oratio

Orémus.
Custódi, Dómine, quǽsumus, Ecclésiam tuam propitiatióne perpétua: et quia sine te lábitur humána mortálitas; tuis semper auxíliis et abstrahátur a nóxiis et ad salutária dirigátur.
[O Signore, Te ne preghiamo, custodisci propizio costantemente la tua Chiesa, e poiché senza di Te viene meno l’umana debolezza, dal tuo continuo aiuto sia liberata da quanto le nuoce, e guidata verso quanto le giova a salvezza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 16-24
“Fratres: Spíritu ambuláte, et desidéria carnis non perficiétis. Caro enim concupíscit advérsus spíritum, spíritus autem advérsus carnem: hæc enim sibi ínvicem adversántur, ut non quæcúmque vultis, illa faciátis. Quod si spíritu ducímini, non estis sub lege. Manifésta sunt autem ópera carnis, quæ sunt fornicátio, immundítia, impudicítia, luxúria, idolórum sérvitus, venefícia, inimicítiæ, contentiónes, æmulatiónes, iræ, rixæ, dissensiónes, sectæ, invídiæ, homicídia, ebrietátes, comessatiónes, et his simília: quæ prædíco vobis, sicut prædíxi: quóniam, qui talia agunt, regnum Dei non consequántur. Fructus autem Spíritus est: cáritas, gáudium, pax, patiéntia, benígnitas, bónitas, longanímitas, mansuetúdo, fides, modéstia, continéntia, cástitas. Advérsus hujúsmodi non est lex. Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixérunt cum vítiis et concupiscéntiis.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia III – Torino 1899]

Camminate secondo lo Spirito e non seguite la concupiscenza della carne; perché la carne appetisce contro lo Spirito e lo Spirito contro la carne, e queste cose sono ripugnanti l’una all’altra, affinché non facciate tutto ciò che volete. Che se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge. Ora le opere della carne sono manifeste; queste sono adulterio, fornicazione, immondezza, dissoluzione, idolatria, avvelenamenti, inimicizie, contese, gelosie, ire, risse, dissensioni, sette, invidie, omicidi, ubriachezze e cose a queste somiglianti; delle quali cose vi predico, come ho già predetto, che coloro che le fanno non possederanno il regno di Dio. Ma il frutto dello Spirito è carità, allegrezza, pace, pazienza, benignità, bontà, fede, mansuetudine, continenza. Contro a queste cose non vi è legge. Ora coloro che appartengono a Cristo han crocifìsso la carne cogli affetti e con le “concupiscenze”„ (Ai Galati, V, 16-24).

Queste sentenze dell’Apostolo si trovano nel capo quinto della sua lettera ai Galati, e appartengono, come dissi altrove, alla terza parte della medesima, la quale versa tutta nella morale; ed è cosa sì manifesta, che ciascuno di voi, in solo udirla, se ne sarà accorto. Il tratto che dobbiamo spiegare si divide in due parti differentissime: nella prima S. Paolo in una rapida enumerazione delle opere della carne, cioè dei peccati che dobbiamo fuggire ed abominare; nella seconda, che ne è l’antitesi, accenna i frutti e le opere dello Spirito, ossia le virtù che dobbiamo esercitare. L’esortazione dell’Apostolo non presenta difficoltà alcuna ed è eminentemente pratica, ed io non farò che amplificarla alquanto, affinché ciascuno di noi più facilmente la venga applicando a se stesso. – Come apprendiamo dalla prima parte della lettera, la Chiesa di Galazia era fieramente lacerata da discordie: chi diceva che per aver salute bisognava osservare tutte le prescrizioni sì gravi della legge mosaica, e nominatamente la circoncisione; chi affermava, e a ragione, che la legge mosaica nella sua parte cerimoniale era abolita da Cristo: quindi contese, ire, discordie, mormorazioni senza fine, tantoché S. Paolo grida loro: “Se voi continuate a mordervi e divorarvi gli uni gli altri, badate che vi struggerete tra voi „ (Capo V, vers. 15). E qui, o carissimi, non sarà superbia, né fuor di luogo una osservazione. Più spesso che non vorremmo siamo noi pure testimoni di dissidi, di lotte, di aperte discordie nella Chiesa: fedeli contro fedeli, fedeli contro parroci e Vescovi, parroci ed anche vescovi dissenzienti tra loro e contendenti sopra alcuni punti forse anche di dottrina. – È certamente doloroso questo spettacolo nella Chiesa: ma non è nuovo: lo vediamo nella Chiesa di Galazia stabilita da S. Paolo e lui vivente. Qual meraviglia che ciò avvenga anche in mezzo a noi? La fede e la grazia non sopprimono le debolezze della nostra intelligenza e volontà, né distruggono le nostre passioni; ci danno solo la forza di combatterle e vincerle. Come furono composte le discordie della Chiesa di Galazia? chi le troncò e vi ristabilì la pace? S. Paolo con la sua autorità di Apostolo. Facciasi altrettanto in mezzo a noi. Se l’autorità del parroco non basta, si ricorra al Vescovo; se quella del Vescovo non basta, si ricorra al Vescovo dei Vescovi, il Papa, o almeno si serbi nell’animo la volontà ferma e sincera di stare al suo giudizio se questo tarda a pronunziarsi, e in questa volontà ferma e sincera, si avrà il mezzo di conservare la pace. – Stando così le cose della Chiesa di Galazia, era naturale che l’Apostolo, volendo farvi alcun riparo, dovesse a quei fedeli inculcare la carità, l’amore scambievole, e perciò ricorda loro che tutta la legge di Cristo si assomma in una sola parola, ed è questa: “Ama il prossimo tuo come te stesso — Omnia lex in uno sermone impletur: Diliges proximum tuum sicut teipsum „ (vers. 14). Posto questo principio fondamentale della vita cristiana, S. Paolo lo viene svolgendo e mostra ciò che esso ripudia e condanna, e ciò che approva ed esige, e qui comincia il nostro commento. – Io vi dico: Camminate secondo lo Spirito e non seguite le concupiscenze della carne; ché la carne appetisce contro lo Spirito, e lo Spirito appetisce contro la carne, essendo se ripugnanti l’una all’altra, affinché non facciate tutto ciò che volete. „ In queste parole del grande Apostolo è compendiata tutta la storia della lotta che ogni uomo sente agitarsi nel fondo del suo cuore, e che manifestandosi al di fuori nelle varie sue forme, diventa lotta sociale. Carissimi! Entriamo in noi stessi, discendiamo nel santuario della nostra coscienza, scrutiamo tutte le pieghe del nostro spirito, ascoltiamo tutti i battiti del nostro cuore; dal dì che la luce della ragione spuntò sul cielo dell’anima nostra sino ad oggi, che vi troviamo noi? Sotto quali forze si svolge la nostra vita? In noi troviamo costantemente due forze, che si contendono il dominio del nostro cuore: guardando in alto, contemplando le cime del mio spirito e ascoltando il grido della mia coscienza, vedo e sento che la virtù è bella e santa cosa; apprezzo e stimo l’umiltà, la modestia, il disinteresse, la temperanza, la mansuetudine; ammiro la purezza, la pazienza, il perdono delle offese, la carità; mi sento compreso di venerazione e tentato d’inginocchiarmi dinanzi a questi angeli di carità che consumano la loro vita in mezzo agli orfanelli, ai derelitti, al capezzale dei poveri e dei morenti. Ma da un’altra parte il vizio, le passioni col loro lenocinio mi tirano a sé: amo grandeggiare, corro dietro alle vanità e alle ricchezze; cedo volentieri al solletico della gola e secondo l’intemperanza; lodo la sincerità e talvolta mentisco; mi irrito con chi mi offende, sono spinto alla vendetta e ne assaporo il piacere; accarezzo l’ozio e la mollezza e vorrei che tutto fosse immolato ai miei voleri. Ho qui dentro una tendenza, una forza indistruttibile che mi porta in alto, verso le altezze della virtù; sento qui dentro un grido, che senza posa mi incoraggia a guadagnarne le vette: e in pari tempo ho qui dentro una tendenza, una forza pur essa indistruttibile, che mi trascina in basso verso gli abissi del vizio; sento qui dentro un grido che mi chiama, mi invita, mi trae a gettarmi in braccio alle passioni ed a sbramare in esse le mie voglie; sono posto tra la virtù ed il vizio, tra il bene ed il male: sono come una nave combattuta da due venti impetuosi e contrari. In me si avvera la sentenza del poeta: “Vedo il bene e l’approvo, eppure mi appiglio al peggio. „ E ancor meglio la sentenza dell’Apostolo: “Sento nelle mie membra un’altra legge o forza che ripugna alla legge o forza della mia mente. „ Che è questo, o cari? D’onde questa lotta in me stesso? Forse vi sono in me due anime, l’una buona, l’altra cattiva? Ma io sento d’essere un solo, sempre quel desso, un solo io indivisibile: sento che le due forze operano sopra di me quasi esternamente, e che è in poter mio seguir l’una o l’altra: anzi sento che la forza che mi inclina al bene, che mi muove verso la virtù e mi invita ai suoi casti amplessi, risponde assai meglio alle mie aspirazioni più nobili, mi fa gustare gioie più pure, mi solleva in una atmosfera più serena e tranquilla, e sgorga quasi dalle viscere del mio essere; mentre quell’altra forza mi avvilisce ai miei occhi stessi, mi fa arrossire, mi agita e mette in tempesta il mio cuore. D’onde adunque, domando ancora una volta, d’onde questa lotta? D’onde queste due forze pugnanti tra loro nell’animo mio? Perché questo duello fra due nemici implacabili, del quale il mio cuore è sempre l’arena? La fede e la ragione congiuntamente ci danno la spiegazione di questo fatto sì doloroso. Esse ci insegnano che la parte inferiore della nostra natura, che è il corpo, tende per se stesso ai piaceri sensibili, che lo allettano e lo traggono a sé; che il corpo, attratto da questi piaceri sensibili, che rispondono alla sua natura, tira con sé più o meno l’anima, che sente nel corpo stesso; ci insegnano che il mondo esterno per mezzo del corpo fa subire all’anima le sue impressioni assai prima ch’essa sia capace di elevarsi al conoscimento delle eterne verità, e perciò il mondo esterno e sensibile esercita sull’anima un fascino, un’azione assai maggiore di quella che sopra di essa eserciti la verità stessa: il senso precede, e per molti anni, la ragione e lo sviluppo della fede, e perciò riesce più vivo. La fede poi ci insegna che l’uomo per sua colpa cadde dallo stato nobilissimo in cui Dio l’aveva creato, ed in lui si diminuì la signoria che aveva sopra di se stesso, e per conseguenza la parte inferiore ribellandosi, cominciò a molestare la superiore, e a far opera a trascinarla dietro a sé sulla via dei piaceri sensibili. Ora l’uomo, collocato tra queste due forze contrarie, che deve fare? A quale delle due deve cedere? Deve seguire le basse voglie della carne, o, combattendo virilmente queste, seguire la voce della coscienza, o, come scrive S. Paolo, lasciarsi guidare dallo Spirito? La fede e la ragione stessa ci fanno sentire il dovere di ubbidire alla voce della coscienza, di seguire lo spirito della grazia divina, e ciò come uomini e molto più come cristiani. Come uomini, guidati dal solo lume della ragione naturale, dobbiamo frenare le incomposte passioni che ci travagliano, e praticare quelle virtù naturali che alle forze della sola natura sono possibili e corrispondenti; come Cristiani poi, rischiarati dal lume della fede ed avvalorati dalla grazia divina, dobbiamo poggiare ben più alto e modellarci sull’esemplare sovrano d’ogni perfezione, che è Gesù-Cristo. – Su dunque, o carissimi figliuoli! In questa lotta incessante e feroce tra lo spirito e la carne, tra la grazia e le passioni, costretti a scegliere il nostro partito, non stiamo in forse un solo istante: gettiamoci animosamente dalla parte dello spirito contro la carne, della grazia contro le passioni, della virtù contro il vizio, di Cristo contro il mondo. Qual gioia più pura, qual gloria più bella del signoreggiare la carne, rintuzzare le passioni, debellare il vizio, soggiogare il mondo e levarci sulle ali dello Spirito verso il cielo, farci belli della bellezza di Dio? È vero, talvolta questa carne che portiamo, aggrava l’anima e ci fa sentire ciò che non vorremmo sentire: “Ut non quæcumque vultis, illa faciatis”; ebbene, santamente vendichiamocene. Come? Col far sentire noi pure alla carne ed alle sue cupidigie ciò che anch’esse non vorrebbero sentire, cioè il freno della mortificazione, il rifiuto del nostro consenso. “Che se poi, cosi continua S. Paolo, siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge. „ Che significa essa questa sentenza? Eccone il senso: “Se voi, o Galati, seguite i movimenti dello Spirito e ubbidite docilmente alle voci ed agli impulsi della grazia, che viene da Gesù, siete superiori alla legge mosaica, e avete quella forza che non potrete mai avere da quella”. Forse questa sentenza dell’Apostolo può ragionevolmente intendersi in altro senso, che è questo: Se voi vi lasciate condurre dallo Spirito, ossia dalla grazia di Gesù, vi affrancate dalla tirannia della legge della concupiscenza e spezzate il suo giogo; voi, così facendo, non sottostate a nessuna legge, siete veramente liberi, perché quel che fate, non lo fate per forza o per timore, ma perché lo volete voi stessi. Quando, o dilettissimi, sentiamo noi il peso d’una legge e gemiamo sotto di essa? Quando la consideriamo come cosa esterna, impostaci da altri e contraria al nostro volere e, se ci fosse possibile, la vorremmo respingere, anzi, distruggere; ma se la legge che ci è proposta, noi l’accettiamo, l’amiamo, la facciamo nostra, come se fosse opera della nostra volontà, allora non ne sentiamo il peso, la adempiamo con gioia, e lungi dal considerarla come contraria alla nostra libertà, la teniamo in conto di amica fedele, quasi come facente una cosa sola con noi stessi. Vi è un figliuolo, tutto amore e docilità verso il padre suo: questi impose al figlio una serie di opere che comportano molti e non lievi sacrifici: naturalmente al pensiero di questi sacrifici egli prova una viva ripugnanza: si sente spinto a sottrarsi a quel peso: ma egli ama il padre: pensa alla gioia che gli procura con l’ubbidienza pronta e generosa; pensa alla gioia purissima che n’avrà egli stesso, appagando il padre suo, e in un impeto di risoluzione magnanima esclama: Il volere del padre mio è mio, voglio ciò che egli vuole, checché avvenga. — Credete voi, o carissimi, che codesto figliuolo troverà grave l’opera da compire? Io non lo penso: penso per contrario che l’amore del padre facendo suo il volere di lui, allevierà ogni fatica, raddolcirà ogni pena, e quasi convertirà in piacere lo stesso dolore. Vedete certi uomini che si sottopongono volontariamente a durissime fatiche, ad aspri lavori e pericoli. Questi salgono sulle cime più alte delle Alpi, inerpicandosi sui ghiacci e sui burroni: quelli attraversano le sabbie ardenti del deserto: altri s’aprono la via tra montagne di ghiaccio, sotto il polo del nord in mezzo a stenti e pericoli infiniti: un drappello di giovani audaci snida dai loro covi i leoni e le tigri, e ne affronta il furore. Dite loro: Voi avrete sofferto! quali patimenti! quali terrori! Sorridendo vi risponderanno: Oh no! son cose che abbiamo voluto noi: come potevamo lagnarcene? Così è: ciò che vogliamo noi, sia quanto si voglia malagevole e doloroso per sé, torna facile e quasi giocondo a farsi, voi ne converrete. Che il volere di Dio diventi il nostro, e la via che dovremo percorrere sarà piana e spedita! E questo, credo io, ciò che voleva dire san Paolo nella sentenza citata: “Se siete guidati dallo Spirito di Dio, voi non siete sotto la legge — Si Spiritu ducimini, non estis sub lege. „ Uniti a Dio, formando con la conformità al suo volere una cosa sola con Lui, come Lui siete liberi e non soggiacete che alla legge della vostra volontà, perché la vostra volontà è quella di Dio. La legge dello Spirito, ossia la volontà di Dio e la volontà nostra, sono due cose distinte e differenti: necessariamente la volontà nostra soggiace alla volontà di Dio, che si manifesta nella sua legge e ne sente il peso: ma se di queste due cose noi ne facciamo una sola, è chiaro che non vi è più né quella che sovrasta, né quella che soggiace: è una sola cosa e opera a suo agio e diventa legge a se stesso. Congiungi adunque, o cristiano, la tua alla volontà di Dio per forma che sia una sola, e non sarai sotto la legge, e piena sarà la tua libertà. – Procediamo, seguendo l’Apostolo. Dopo aver accennato alle due leggi, od alle due forze che combattono tra loro, che sono la carne da una parte, e lo Spirito o la grazia divina dall’altra, S. Paolo enumera le opere dell’una e dell’altra: dopo averci messi dinanzi questi due alberi, ce ne mostra i frutti, e come i due alberi sono di natura affatto contrari tra loro, cosi affatto differenti e contrari sono i frutti loro. Quali sono i frutti o le opere della carne, ossia della mala concupiscenza, che nella carne s’annida? Udite: “Le opere della carne sono palesi: le quali sono fornicazione, adulterio, impudicizia, dissolutezza. „ Fermiamoci qui Io mi guarderò bene dallo spiegare partitamente il valore di queste parole ad una ad una perché potrei offendere le vostre orecchie e dire cose che sconvengono al carattere di chi vi parla ed al luogo santo, in cui ci troviamo! – Ma se l’Apostolo, divinamente ispirato, le scrisse nella sua lettera, che senza dubbio dovevasi leggere nell’adunanza dei fedeli, non sarà interdetto a noi il ripeterle e dire quel tanto che è necessario e conveniente per mettervi in orrore le opere della carne, fine inteso e voluto dalla Chiesa che oggi ce le fa leggere nella santa Messa. – Primieramente piacciavi osservare che san Paolo, enumerando le opere della concupiscenza, mette in primo luogo i peccati turpi, le brutture del senso. E perché? Perché, credo io, sono questi i peccati più comuni e quelli che tirano in perdizione il maggior numero di anime. In secondo luogo ponete mente come il santo Dottore in quelle quattro parole abbia abbracciato le forme principali che la sozza passione può assumere e purtroppo assume. Che posso io dirvi, o carissimi? Io grido a tutti voi che mi ascoltate: “Fuggite fuggite, detestate, abbominate ogni incontinenza. Siete liberi dai vincoli del matrimonio? Serbate casto il vostro cuore e il vostro corpo, come il tempio del Signore. Siete legati dai vincoli santi del matrimonio? Serbatevi a vicenda la più inviolabile fedeltà, e ricordatevi che la si può ferire e calpestare anche col solo pensiero, col solo affetto e col solo desiderio, come insegna il Vangelo. Siate puri, siate casti, siate incontaminati, sempre, in ogni luogo, anche soli, anche quando nessun occhio umano vi può vedere, perché anche là sta aperto sopra di voi l’occhio di Dio”. Chi può intendere, dirò col Vangelo, intenda! – Dopo aver messo in prima linea i peccati dell’incontinenza, S. Paolo prosegue la enumerazione delle opere della carne, ossia della natura corrotta, e nomina l’idolatria, o servitù degli idoli: Idolorum servitus. Ai nostri giorni e nella nostra società non v’è bisogno alcuno di combattere e riprovare il culto degli idoli, ultimo degradamento al quale possa discendere l’umana ignoranza: questa vergogna del culto degli idoli è scomparsa in mezzo a noi, ma era comune allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Egli la colloca tra le opere della carne, perché l’idolatria in sostanza è il culto dei sensi: per essa l’uomo spogliò Dio della sua natura spirituale ed invisibile; lo vestì di forme visibili e materiali, umane, e perfino bestiali, anzi brute e insensibili, e gettandosi ai piedi di queste opere delle sue mani, aventi occhi senza vedere, orecchi senza udire, lingua senza favellare, in un vero delirio di cecità e di ignoranza, esclamò: “Voi siete il mio dio; io vi adoro. „ Tanto pervertimento di mente e di cuore a noi sembra incredibile: eppure non lo vediamo noi, sotto altra forma, quasi comune nella società nostra cristiana? L’avaro che altro fa se non adorare le sue ricchezze? Il superbo, il goloso e il dissoluto, non prestano essi culto, non offrono essi sacrifici (e quali!) alla propria ambizione, al cibo ed alla bevanda di cui sono ghiotti, e agli oggetti dei brutti loro amori? Aveva ben ragione il Poeta di gridare:

Fatto vi avete Dio d’oro e d’argento:

E che altro è da voi all’idolatre,

Se non ch’egli uno e voi n’orate cento?

(Dante, inferno, c. XIX, v. 112 e segg.)

– Fine dunque, fine ad ogni idolatria! Creati per conoscere, amare ed adorare Dio solo nostro Creatore, che è nei  cieli, non sia mai che facciamo oltraggio a Lui e a noi stessi, amando disordinatamente e quasi adorando le sue creature e spesso inferiori a noi. Dopo l’idolatria S. Paolo colloca tra le opere della carne ì veneficii od avvelenamenti. Trovando qui dopo l’idolatria ricordato dall’Apostolo il delitto orribile dell’avvelenamento veneficia, „ è forza il credere che fosse non raro. È cosa che riempie l’animo di spavento il pensare che nella società greco-romana dei tempi di S. Paolo, in mezzo al fascino delle ricchezze, delle lettere, delle arti, delle grandezze di quella civiltà, gli avvelenamenti, congiunti quasi sempre col tradimento, fossero pressoché comuni. Eppure la storia stessa profana l’attesta; né deve recarci meraviglia, sapendo troppo bene come la raffinatezza del lusso, delle arti, e le strabocchevoli ricchezze ingenerino i massimi corrompimenti del costume e spingano a delitti senza nome. Se i delitti di sangue, i suicidi e omicidi non sono infrequenti nella nostra società cristiana, che si dà vanto di civiltà matura, che vorrà essere stato della pagana? – S. Paolo continua nella trista enumerazione, e dice: ” Pur opere della carne sono ire, contese, gelosie, sdegni, risse, dissensioni, sètte, invidie, omicidi. „ Tutte le passioni che tormentano la povera nostra natura si riducono a due, a quella che dicesi concupiscibile ed all’altra, che chiamasi irascibile. Noi tutti senza eccezione, e sempre, desideriamo e procuriamo di acquistare ciò che ci diletta e ci giova, onori, ricchezze, piaceri e andate dicendo: ecco la passione concupiscibile; noi tutti egualmente respingiamo ed odiamo ciò che ci impedisce il possesso di questi beni o riputiamo beni: ecco la passione irascibile; con la prima tiriamo a noi il piacere, con la seconda respingiamo tutto ciò che ce lo contende. Anzi, se ragioneremo sottilmente, comprenderemo che le due passioni, concupiscibile ed irascibile, si riducono ad una sola, come insegna S. Tommaso, ed è l’amore. Noi amiamo e vogliamo il bene, anche quando ci appigliamo al male, perché lo apprendiamo sempre come bene. È  questo stesso amore che ci porta al bene, quello che ci fa odiare e combattere gli ostacoli che si frappongono al bene, onde l’odio  stesso è amore, amore del bene, che non vuole il suo contrario. – S. Paolo, nella prima parte or ora spiegata, enumera le opere della carne spettanti alla passione concupiscibile; qui enumera le principali che si riferiscono alla irascibile. Vuole che sbandeggiamo l’ira, che ci spinge alla vendetta, a volere o fare il male del prossimo: vuole che sbandeggiamo le contese, le gelosie, gli sdegni, le risse, le dissensioni, le sette, le invidie, gli omicidi. „ che sono tutte cose, le quali rompono la carità, seminano gli odii, mettono sossopra le famiglie, le parrocchie e la stessa società. Tutti questi disordini, contro dei quali il grande Apostolo levava la sua voce e  voleva fossero tolti di mezzo alla Chiesa primitiva, ohimè! li vediamo turbare ed avvelenare le nostre famiglie, le nostre parrocchie e la nostra società, ancorché tutte cristiane. Quante contese e gare e sdegni! risse e dissensioni e partiti rabbiosi! Giriamo intorno gli sguardi, porgiamo orecchio allo strepito che ci assorda, e troveremo che anche al presente, come ai tempi di san Paolo, noi ci mordiamo e ci divoriamo gli uni gli altri. E siamo fratelli, figli dello stesso Padre, che è nei cieli, e della stessa madre, che è la Chiesa! Quale vergogna! quale vituperio! – Né qui si arresta S. Paolo, ma, come suole, nella sua foga, enumera altre opere malvagie della carne: “Ubriachezze, gozzoviglie e somiglianti — Ebrietates, comessationes et his similia. „ Queste parole cadute dalla penna dell’Apostolo ci richiamano alla mente uno spettacolo doloroso, che quasi ogni giorno ci sta sotto gli occhi. Molti soffrono la fame, non hanno con che coprire la loro nudità, albergano in miserabili tuguri, o piuttosto tane, ed altri seggono a laute mense, si ubriacano, spendono somme favolose in lusso, in passatempi, in sozzi piaceri! E l’ubriachezza che toglie all’uomo ciò che lo fa uomo, la ragione (lasciate che lo dica francamente), è più comune tra voi, o poveri, che tra i ricchi, Povertà ed ubriachezza! non si può immaginare accoppiamento più brutto di questo. Genitori ubriachi alla bettola, mogli e figliuoli piangenti di fame e freddo a casa! Sono disordini, sono mali che stringono il cuore e che sembrano impossibili in una società cristiana. Ma ponetevelo ben addentro nell’animo, grida qui indignato il santo Apostolo: “Ve lo dissi, ed ora ve lo ridico, tutti quelli che operano queste cose non possederanno il regno di Dio. „ Non illudiamoci, o fratelli miei: quanti si renderanno colpevoli di questi peccati, saranno inesorabilmente condannati da Dio alle pene eterne (Alcune delle colpe commemorate da S. Paolo in molti casi possono essere semplici peccati veniali, come le contese, le ire, le gelosie, le invidie ecc.; ma, in certe circostanze possono essere gravi. Dalla sentenza, con cui chiude la enumerazione, si rileva, che S. Paolo le considera nei casi che le costituiscono colpe gravi). E sentenza dell’Apostolo, è dottrina del Vangelo, e non ne cadrà invano una sola sillaba: riflettiamoci sopra, come vuole la grandezza della pena intimata. Chi ha qualche famigliarità con lo stile di S. Paolo, si accorge facilmente ch’egli ama le antitesi, ossia quella maniera di dire, per la quale ad una cosa si mette di fronte la contraria, e qui ne abbiamo una prova. Dopo aver fatto passare sotto i nostri occhi la lunga e brutta serie delle opere o peccati della carne o delle passioni, ora ci schiera dinanzi una serie quasi eguale delle opere o dei frutti dello Spirito, o della grazia di Dio in quelli che la posseggono. Udiamolo. – Il frutto dello Spirito è carità, gaudio, pace, longanimità, benignità, bontà, fedeltà, mansuetudine, continenza, modestia. „ Vedete, carissimi, un albero coperto di fiori e di fratti: quei fiori e frutti donde germogliano? Donde traggono il succo vitale che li nutre e li fa vigoreggiare? Dalla radice, dal seme che gli diede la vita. Vedete un uomo adorno di tutte le virtù cristiane: donde queste virtù e gli atti, nei quali si vanno svolgendo le stesse virtù? Dallo Spirito di Dio, dalla grazia, che ne è il primo germe. S. Paolo, volendo porci innanzi i fiori e i frutti benedetti della grazia divina, come ci ha messi innanzi i frutti amari e mortiferi della concupiscenza, comincia dalla carità, che è la regina di tutte le virtù, e sulla quale, come sul suo fondamento, poggiano tutte le altre, quasi rami sul loro tronco: carità verso Dio e verso il prossimo, carità ricca non di sole parole, ma di opere. Frutto di questa carità è il gaudio, cioè quella coscienza netta, serena, tranquilla, che spande nell’anima una gioia soavissima, e che brilla eziandio al di fuori e soprattutto negli occhi. Inseparabile compagna di questa coscienza pura e contenta di sé è la pace interna, che sta riposta nell’equilibrio di tutte le potenze dell’anima, o, come scrive S. Agostino, nella tranquillità dell’ordine, per cui tutto è composto in un’armonia inalterabile. Col gaudio e con la pace vanno congiunte la longanimità e la benignità, che ci rendono facili al compatimento, dolci ed umili nella parola, nel tratto, in ogni cosa, con ogni classe di persone, anche coi tristi, coi malevoli, coi nemici stessi. Con questi doni dello Spirito di Dio si accompagnano la bontà, che ci porta a far bene a tutti, e la mansuetudine, che fa soffrire ogni cosa senza fiele e con la serenità sulla fronte; vengono poi la fedeltà, nemica della frode e della menzogna, che ci rende leali osservatori delle promesse fatte e dei doveri assunti: la modestia, che dà a tutti i nostri atti esterni la giusta misura, e finalmente la continenza, che mette il freno a tutte le nostre voglie, fermo l’occhio nella regola infallibile della fede. – Non è a credere, o dilettissimi, che qui san Paolo abbia voluto ricordare tutti i doni dello Spirito di Dio e i frutti della sua grazia; no, ha ricordato soltanto i principali, come gli si affacciavano alla mente e come tornava più utile ai Galati, turbati, allora da intestine discordie. – In questa sì bella enumerazione noi pure abbiamo molto da apprendere: essa mi pare somigliante ad una lauta mensa, su cui sono imbandite molte e squisite vivande: ciascuno prende ciò che maggiormente gli piace e giova; lo stesso facciamo noi, fermando la nostra attenzione su quella virtù, che risponde meglio ai bisogni speciali di ciascuno di noi. “Contro a siffatte cose, dice S. Paolo, non vi è legge. „ Fate che un uomo operi secondo questo Spirito del Vangelo e dia questi frutti di vita, qual legge mai lo potrà biasimare o condannare? Di qual legge volete voi che abbia bisogno? Egli è legge a se stesso e non ha nulla a temere, perché adempie perfettamente ciò che la legge prescrive. – “Ora quelli che appartengono a Cristo, conchiude S. Paolo, hanno crocifissa la loro carne con i vizi e con la concupiscenza. „ Gesù Cristo, così mi sembra ragionare l’Apostolo, Gesù Cristo tolse sopra di sé la pena ch’era dovuta ai nostri peccati, e sulla croce scontò nella sua carne santa le nostre colpe: Egli crocifisse per noi la sua carne. Ora che dobbiamo far noi? Questa carne è il fomite delle nostre passioni: in essa si appiatta la concupiscenza con tutti i vizi, dei quali è madre feconda: essa senza tregua combatte lo Spirito. – Noi dobbiamo metterci dalla parte dello Spirito, dalla parte cioè di Cristo, e combattere questa carne, questa concupiscenza, che giorno e notte ci insidia e tormenta. Come Cristo confìsse alla croce il suo corpo, così noi mettiamo in croce la carne con i suoi vizi e le sue concupiscenze, ed allora mostreremo d’essere veramente discepoli di Cristo e suoi soldati. E come la porremo in croce? Porse materialmente, come fece Gesù Cristo? No, ma moralmente, come a noi ora è possibile e imposto. La concupiscenza ti gonfia con la vanità, con l’orgoglio, con l’ambizione? E tu con l’umiltà la schiacci. Ti invita, ti spinge ad accumulare ricchezze, non badando che talvolta sono il prezzo della iniquità, il frutto di chi soffre la fame? E tu le volgi le spalle e sii largo coi poverelli. Ti trae a trasmodare nel mangiare e bere e quasi, come scrive altrove lo stesso Apostolo, a farti Dio del ventre? tu resisti all’abbietta voglia e tieniti saldo nei confini della temperanza e castiga la gola. Ti solletica con la mollezza dell’ozio? Ti punge con lo stimolo dell’invidia? ti accende in cuore il fuoco dell’ira e dell’odio? Ti accarezza e tenta sedurti con le blandizie e con i sozzi piaceri del senso? E tu sventa le insidie, rigetta gli assalti, reprimi e calpesta l’implacabile nemica sotto qualunque forma si presenti. Con il timore dei divini giudizi, con la vigilanza costante sopra i tuoi sensi, con la preghiera, con la mortificazione, con la penitenza raffrena e crocifiggi la concupiscenza, ed apparterrai al numero di coloro che sono di Cristo.

 Graduale
Ps CXVII:8-9
Bonum est confidére in Dómino, quam confidére in hómine.
È meglio confidare nel Signore che confidare nell’uomo.

V. Bonum est speráre in Dómino, quam speráre in princípibus. Allelúja, allelúja
  [È meglio sperare nel Signore che sperare nei príncipi. Allelúia, allelúia].

 Alleluja

XCIV:1.
Veníte, exsultémus Dómino, jubilémus Deo, salutári nostro. Allelúja.
[Venite, esultiamo nel Signore, rallegriamoci in Dio nostra salvezza. Allelúia.]

 Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt VI: 24-33
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini.
Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum? Respícite volatília coeli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester coeléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adjícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quaerite ergo primum regnum Dei et justítiam ejus: et hæc ómnia adjiciéntur vobis”.

 Omelia II

[Mons. G. Bonomelli: ut supra Omelia IV .- Torino 1899 – Impr.]

“Gesù disse ai suoi discepoli: Nessuno può servire a due padroni; perciocché o avrà in odio l’uno ed amerà l’altro, ovvero aderirà all’uno e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio ed a mammona. Per questo vi dico: Non siate angustiati per il cibo per la vostra vita, né del vestito per la vostra persona. La vita non è forse da più del cibo, e la persona non è da più del vestito? Guardate gli uccelli dell’aria, come non seminano, né mietono, né ripongono sui granai; eppure il Padre vostro celeste li pasce. Ora non siete voi forse da più senza confronto di essi? E chi di voi può, con l’affannarsi, aggiungere un cubito alla sua statura? E del vestito a che mostrarvi ansiosi? Vedete i gigli del campo, come crescono: essi non lavorano e non filano; eppure io vi dico, che nemmeno Salomone, con tutta la sua magnificenza, andò vestito come uno di questi. Se pertanto Iddio veste in tal modo l’erba del campo, che oggi è, e domani è gettata nel forno, non lo farà egli più assai per voi, uomini di poca fede? Non vogliate adunque angustiarvi, dicendo: Che mangeremo, o che berremo, o di che ci vestiremo? Di tutte queste cose si danno affannosa cura i pagani; ma il Padre vostro vede che ne avete bisogno. Cercate adunque anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte „ ( San Matteo, VI, 24 – 33). Fin qui l’odierno Vangelo. – Sulla sponda destra del lago di Tiberiade o Genesaret, a tre ore da Cafarnao, sorge una collina solitaria, fiancheggiata da due alture: ai piedi di quella collina si stende una bella prateria. Tutto intorno la pianura è verdeggiante, e al tempo delle messi somiglia un oceano di spighe, che l’aria mollemente fa ondeggiare. A tramontana si vede biancheggiare la vetta del Libano, e ad oriente, chiuso tra le rive, coperte un tempo, di oleandri, di vigne e di olivi, ora nude e squallide, increspa le sue onde azzurre il lago. La collina nel mese di aprile, è seminata di gigli, e sciami di uccelli, lietamente cantando, volteggiano per quell’aria tranquilla ed imbalsamata della fragranza, di primavera. Su quella collina secondo un’antica e rispettabile tradizione, Gesù tenne il discorso che si chiama del monte. E da quel discorso è tolto il brano che avete udito. Esso è d’una bellezza e soavità inarrivabile: è, direi quasi, un inno, un cantico innalzato alla Provvidenza; nelle sentenze, che verremo meditando, si sente traboccare tutta l’anima di Gesù, che riposa e si delizia nella confidenza illimitata e nell’amore infinito del Padre suo, che non vede e non ama che Lui e tutti quelli che si raccolgono sotto le ali della sua provvidenza. Mi tarda di farvi gustare le dolcezze ineffabili di questo tratto dell’Evangelo. – “Nessuno può servire a due padroni, perché o avrà in odio l’uno, ed amerà l’altro; ovvero aderirà all’uno, e disprezzerà l’altro; non potete servire a Dio ed a mammona. „ Gesù Cristo stabilisce una dottrina, che basta annunziarla per dimostrarla. Non è possibile servire a due padroni, s’intende, che siano tra loro contrari. E perché? Perché, essendo tra loro contrari, andando avverso dell’uno, sarà forza offendere l’altro; stando con l’uno, l’altro naturalmente si considererà abbandonato e disprezzato. E chi sono codesti due padroni tra loro contrari, ai quali è affatto impossibile il servire? Gesù Cristo lo dice chiaramente nell’ultima sentenza di questo versetto: “Non potete servire a Dio ed a mammona. „ Chi sia Dio, non occorre il dirlo. Chi è mammona? E una parola fenicia, nota in Palestina, che significa ricchezza o danaro; perciò la sentenza di Cristo si può tradurre così: ” Non potete servire ad un tempo stesso a Dio ed alla ricchezza, ai beni della terra. „ Osservate che Gesù non disse: Non potete tener il danaro o le ricchezze, o i beni di questa terra; non potete usarli, né conservarli od accrescerli; ma disse: Non potete servire a Dio e servire insieme alle ricchezze, quasi pareggiandole a Dio, ed anziché essere padroni delle ricchezze, farvi vergognosamente loro servi. Quanta verità! Quanta sapienza in queste parole! Vediamo di penetrarne il senso. – L’uomo è creato da Dio in modo, che ha bisogno di moltissime cose: ha bisogno di cibo, di bevanda, di vesti, di casa; ha bisogno di chi gli fornisca gli strumenti per procurarsi tutte queste ed altre cose, che non importa ricordare. Come averle? Come indurre gli altri a cederle a nostro uso o proprietà? Col dare a loro ciò di cui anch’essi hanno bisogno; così si stabilì a principio lo scambio delle cose. Ma per rendere più facile e comune questo scambio necessario delle cose, si trovò il danaro, che per comune consenso è l’equivalente di tutte; onde col danaro avete il cibo, la bevanda, le vesti, la casa, gli animali, i campi, i passatempi, tutto che volete; ed in questo senso la Scrittura stessa ci dice che: “Al danaro tutto obbedisce — Pecunim omnia obediunt „ (Eccle. x). Ora siccome l’uomo ha bisogno di molte cose che soddisfino ai suoi bisogni legittimi; non basta, siccome ha bisogno di infinite cose per procurarsi tutti i piaceri, dei quali è ghiotto, siano leciti, siano illeciti, così volge tutti i suoi sforzi all’acquisto del danaro, perché con questo tutto può avere, o almeno crede di poter avere. Il perché in qualche senso possiamo dire, che tutti gli amori dell’uomo verso i beni della terra sì concentrano in un solo amore, l’amore della ricchezza, attesoché questa nella universale estimazione equivale a tutte le cose. Ecco, o carissimi, la ragione di questa fame e sete rabbiosa delle ricchezze, onde si struggono pressoché tutti gli uomini: ecco perché per un po’ d’oro non badano a coscienza, a leggi, ad onore, e nemmeno alla salute ed alla vita stessa del corpo, che pure sì ardentemente amano. La qual fame e sete dell’oro trova il suo stimolo non solo nei piaceri che procura direttamente a chi li vuol godere per sé, ma trova un complice potentissimo nelle incertezze dell’avvenire, nel timore di bisogni futuri, nell’amore dei figli, dei nipoti e perfino nei desideri e disegni della beneficenza. Io non esito a dire, che la cupidigia del danaro, qual mezzo sicuro per giungere ai piaceri, in fondo in fondo è la prima e più terribile delle passioni che tiranneggiano la natura umana; non è la prima qual fine, ma sì qual mezzo al fine, e chi studierà bene la storia e la natura umana, senza dubbio dovrà meco convenire, onde è vera quella doppia sentenza dello Spirito Santo, che disse: “Radice d’ogni male è la cupidigia dell’avere; „ e: ” Non vi è uomo più malvagio dell’avaro. „ E perfino il sommo dei poeti pagani ebbe a chiamare esecrabile, la fame dell’oro: Auri sacra fames; e un altro poeta cantò che l’oro è il Dio degli uomini, la maestà suprema (Petronio e Giovenale). — Era dunque troppo giusto che Gesù Cristo, conoscitore infallibile del cuore umano, sfolgorasse questa malnata passione, che si mette per poco a fianco di Dio ed osa dividere con lui l’impero sull’animo nostro, ammonendoci: ” Non potete servire a Dio ed a mammona. „ – Seguitiamo il nostro commento. La ragione, o pretesto, che si suole mettere innanzi dagli avari, che servono alle ricchezze e non dicono mai basta, suole essere questa: — Noi ne abbiamo bisogno per noi, pei nostri figli: abbiam bisogno di vivere, del pane e del vestito e di tante altre cose: queste come provvederle senza l’oro? Servire alle ricchezze è una necessità, come è una necessità l’aria per respirare —. Gesù previene questa difficoltà, e risponde con una eloquenza sì naturale, che nulla di più bello. Voi dite: Senza danaro come ci nutriremo? come ci vestiremo? ” Per questo io vi dico: Non siate angustiati per l a vostra vita, né del vestito per la vostra persona.„ Vogliate por mente che Gesù non disse: Non vi date pensiero alcuno del cibo e del vestito; non curate di provvedere il necessario; lasciate il lavoro, non arate i vostri campi, non li seminate, non potate le vostre viti, riposate in un ozio beato. No, non disse, né poteva dir questo Egli che lavorò fino a 30 anni in una povera officina; Egli che allora lavorava, ammaestrando il popolo; Egli che volle il lavoro qual condizione della vita, e lo santificò in se stesso; ma disse solo: “Non siate ansiosi od angustiati — Ne sollicìti sitis. „ Non la cura affannosa, la febbre del lavoro per arricchire, che è ben altra cosa del lavoro onesto inteso a provvedere il necessario, ed anche il conveniente, ma non il superfluo. La dottrina di Cristo è questa: Lavorate onestamente e cristianamente per vivere voi ed i vostri figli, e soccorrere altri se ne hanno bisogno; provvedete pur anche alle incertezze dell’avvenire, ma non vogliate servire alla insaziabile cupidigia di accumulare ricchezze: lavorate secondo il vostro stato e le vostre forze, e poi con serena e figliale confidenza rimettetevi alla bontà infinita del Padre vostro Iddio. E perché? Perché Dio ci ha data la vita, e la vita è da più del cibo e del vestito: ora chi dà il più, deve dare il meno: chi ci ha data la vita, che è il più, non può essere scarso nel darci il cibo ed il vestito, che sono il meno. È un argomento semplicissimo e che non ammette replica. Dov’è l’uomo che fabbrichi la casa, e poi non si curi di conservarla? Che abbia comperato il cavallo, e che non lo alimenti e custodisca ? Dov’è il padre che rifiuti il pane ai suoi figli? L’autore e padrone d’una cosa qualunque, anche di pochissimo valore, è sollecito di conservarla: noi tutti siamo opere, anzi figli di Dio, da Lui teneramente amati; come volete che ci dimentichi e non provveda ai nostri bisogni? Qui, Gesù Cristo, rincalzando l’argomento, ricorre ad una graziosissima immagine. Egli parlava all’aperto, dalla collina su cui era seduto (capo V, 1); forse in quell’istante alcuni augelletti passarono sopra il suo capo, o fecero udire i loro lieti gorgheggi dagli alberi vicini” il divino Maestro, continuando il suo discorso, ed avvivandolo con una immagine bellissima e che cadeva sotto gli occhi dei suoi uditori, levò la mano e gli occhi, e disse: “Guardate gli uccelli dell’aria, come non seminano, né mietono, né ripongono nei granai, eppure il Padre vostro celeste li pasce. Ora non siete voi forse assai più di loro? „ In questa immagine, in queste parole, che dovette pronunziare con gli occhi scintillanti d i gioia e con accento d’inesprimibile tenerezza, tutto rivela il candore dell’anima di Gesù e la bontà del suo cuore divino. Gli uccelli spiegano alla luce del sole la ricchezza delle loro piume: chi le ha lavorate con tanta varietà e vaghezza di tinte? Chi li ha vestiti con tanta pompa? Dio, solo Dio. Essi non lavorano, non mietono, non ripongono provvigioni pure vivono; l’aria, gli alberi e la terra forniscono loro il cibo necessario: la terra è perpetuo banchetto imbandito per essi, e l’acqua del ruscello o del lago li disseta. Chi li nutre? “È il Padre vostro celeste „ che li provvede e non ne lascia perire un solo di fame. Notate quella forma sì affettuosa di dire: “E il Padre vostro che li nutre; „ come se dicesse: Dio non è padre di questi augelletti, ma sì è Padre di voi, uomini; ora s’Egli pasce queste creature sì piccole, di sì poco valore, e delle quali non è padre, come non dovrà pascere voi, che siete da tanto più di loro, che siete le opere più grandi delle sue mani, voi, dei quali Egli si dichiara Padre? Non si può immaginare argomento di questo più semplice e più efficace per dimostrare la cura paterna che Dio ha e deve avere di ciascuno di noi. Gesù passa ad un’altra prova pur essa in sommo grado popolare. Chi di voi, domandava Cristo ai suoi uditori, chi di voi, per affannarsi che faccia, può aggiungere un cubito alla propria statura? „ Nessuno: voi non potete aggiungere una sola linea alla vostra statura; non potete nemmeno, diceva in altro luogo del Vangelo, far nero o bianco un solo capello del vostro capo. Impotenti a far questo, a che vi affannate tanto per le cose della terra? Assai volte non è in poter vostro mutarle, crescerle, diminuirle, averle o non averle; dunque chetatevi, e, fatto ciò che per voi è possibile, lasciatene la cura a Dio, Padre vostro. Di due cose soprattutto gli uomini sono angustiati, del cibo e del vestito, e sono veramente le principali quanto ai bisogni del corpo. Sopra, coll’immagine degli uccelli, Gesù ha provato che non dobbiamo angustiarci del cibo: ora, quanto al vestito, adopera un’altra similitudine non meno felice e graziosa. La terra intorno era coperta d’un verde tappeto, ed in mezzo ai fiori, ond’era smaltata, apparivano qua e là i candidi gigli. Vedendoli, Gesù proseguì il suo parlare: “E del vestito, perché vivere in angustia? Vedete i gigli del campo (e li additava), come crescono: essi non lavorano e non filano; eppure io vi dico, che nemmeno Salomone, con tutta la sua magnificenza, andò vestito come uno di questi. „ Quanta semplicità, quanta grazia e quanta verità in questa espressione del divino Maestro! Voi, così Egli, vi date grande affanno per il vestito: vedete questi gigli come son belli, candidi come la neve! Essi certamente non hanno lavorato, né filato quei sottilissimi fili, onde si intessono le loro foglie: essi non hanno lavorato la loro corolla, né architettato quel loro calice dai contorni sì perfetti e simmetrici. Vedeteli: essi sono senza confronto più belli, più magnifici di quelli, ond’era trapuntato il manto di Salomone, allorché compariva in tutto lo splendore della regale sua maestà (Si dice che i re antichi ed anche Salomone portassero il manto ornato di gigli, come già i re Borboni. Può essere, ed allora le parole di Cristo quadrano a capello). Eppure, argomenta nuovamente Cristo, che cosa sono questi gigli? Sono un po’ d’erba, là quale oggi è, e domani è gettata nel forno.  Ora se Dio veste di tanta bellezza quest’erba che vedete, che non serve a nulla, che ha la vita di pochi giorni, come con maggior cura non vestirà voi, suoi figliuoli? — È sempre lo stesso argomento; se Dio è sì largo con creature sì spregevoli, come non lo sarà maggiormente coll’uomo, capolavoro delle sue mani?  Qui, a modo di dolce rimprovero, Gesù aggiunge queste parole: “Uomini di poca fede. „ – Voleva dire: Sarebbe ben debole la vostra fede, o figliuoli; mostrereste di conoscere ben poco Dio e il suo cuore paterno, e gli fareste offesa ben grave, se vi fosse possibile il pensare e credere che Quegli, il quale ha tanta e sì tenera cura delle più piccole tra le sue creature, avesse a dimenticare voi, suoi figli dilettissimi e lasciarvi in difetto delle cose necessarie. Non vi è uomo e cristiano, che consideri e comprenda alcun poco questa sentenza sì cara, e non sentasi commosso e confortato a riporre in Dio ogni fiducia. – Segue un versetto, che è il compendio naturale delle medesime. “Non vogliate adunque angustiarvi dicendo: Che mangeremo, o che berremo, o di che ci vestiremo? „ Giova qui ribadire ciò che sopra già dissi, perché è cosa pratica ed importante: Gesù Cristo, predicando la necessità di collocare ogni nostra speranza in Dio e nella sua provvidenza, non intende di inculcare l’ozio e l’inerzia, quasi eliminando la parte, e grandissima, che ha l’uomo di stabilire, con l’uso della propria libertà, le sue sorti sulla terra ed in cielo: nulla di più contrario alla dottrina del Vangelo di quel cieco fatalismo, che condanna l’uomo alla in operosità e tutto aspetta da Dio; siffatta dottrina, propria dei Musulmani e dei Bramini dell’India, è un insulto al Vangelo ed alla coscienza nostra, e importa la negazione di ciò che forma la grandezza dell’uomo, la libertà. Gesù Cristo vuole che l’uomo dal canto suo faccia tutto ciò che è in suo potere, proscrivendo solo quell’ansia, quella inquietudine e quell’affannarsi per le cose di quaggiù, che proviene dal manco di fede nella Provvidenza divina, e per questo ripete ancora ciò che disse sopra nel versetto ventesimoquinto: ” Non vogliate angustiarvi, dicendo, che mangeremo o che berremo, o di che ci vestiremo? „ A che serve l’angustiarsi? Accresce le nostre pene interne, turbando la pace dello spirito, ed offende Dio nostro Padre, mostrando col che dubitiamo o della sua potenza o della sua bontà. – Il Salvatore continua il suo discorso condannando ancora più vivamente questo affannarsi per le cose terrene. Sapete voi, così Egli, ciò che fate allorché vi mostrate sì inquieti e ansiosi per questi beni materiali, che pur vi sono necessari? Voi allora, sappiatelo bene, fate come i pagani: ” Di tutte queste cose si danno briga affannosa i pagani. „ I pagani, o non avevano un’idea della Provvidenza, o l’avevano imperfettissima; come non avevano idea di Dio, o l’avevano imperfetta e contraddittoria. Senza idea di Dio e della sua provvidenza, o con idee false e contraddittorie, era cosa naturale che quei poveri pagani fossero tutto affanno in pensare e procurare i beni della terra, non potendo contare sulla provvidenza di Dio. Essi meritavano qualche compatimento per la ignoranza, in cui si trovavano: ora volete voi, educati alla scuola della fede, voi, figli di Dio, fare come i pagani? Sarebbe una vergogna e una colpa inescusabile. Voi sapete che “il Padre vostro vede che di tutte queste cose avete bisogno — Scit enim Pater vester quia his omnibus indigetis. Ma basta egli che Iddio conosca i nostri bisogni perché siamo sicuri del suo aiuto? E perché nostro Signore non aggiunse la promessa, che al conoscimento dei nostri bisogni sarà unito il suo soccorso? Miei cari! Allorché si tratta degli uomini il conoscere i bisogni è necessario, ma non basta se fanno difetto il potere e il volere di provvedervi; ma quando si tratta di Dio, nel quale al conoscimento perfettissimo delle cose sono pari la potenza e la volontà, basta il dire: “Il Padre vostro sa che di queste cose abbisognate. „ Egli è Onnipotente e buono, infinitamente buono, e perciò nell’atto che conosce i nostri bisogni, e può e vuole aiutarci. È egli possibile che un padre sappia che il figliuolo suo ha bisogno di pane e di vesti, e potendo, non voglia dar quello e queste ? Ora Dio è il Padre nostro: tutto può, e ci ama dell’amore più tenero, di un amore infinito, comparato al quale l’amore di tutti insieme i padri della terra, è nulla; dunque non può non stendere la mano soccorrevole. – Udite come in altro luogo parla Gesù Cristo: “Se tra voi un figlio chiede al padre un pane, gli darà questi forse una pietra? E se un pesce, gli darà forse per pesce un serpente? O se chiede un uovo, gli darà forse in mano uno scorpione? Se pertanto voi che siete cattivi, sapete dare buone cose ai vostri figli, quanto più il Padre vostro dal cielo darà spirito buono a quelli che glielo domandano? „ Queste parole dipingono il cuore paterno di Dio verso di noi suoi figliuoli. – Qui prevedo due difficoltà che vi si affaccino, ed alle quali è prezzo dell’opera rispondere brevemente. Voi dite: Se Dio sa (e chi ne può dubitare?) i nostri bisogni, non occorre che lo preghiamo: e come avviene che conoscendoli e pregato da noi, non rare volte non ci ascolta, non ci soccorre e ci lascia soffrire? Sa i nostri bisogni meglio che non li conosciamo noi, eppure vuole che li confessiamo e lo preghiamo; lo vuole, perché è bene per noi che lo preghiamo; ed è bene per noi perché con la preghiera eccitiamo la fede, ravviviamo la speranza in Lui, esercitiamo l’umiltà, e in qualche modo meritiamo ciò che domandiamo. Vuol essere pregato, non per bisogno ch’Egli n’abbia, ma sì per il bene nostro. Talvolta poi, anche pregato, non ci esaudisce, e ci lascia lottare coi bisogni, che ci assediano, è vero:  ma perché? Non perché ignori i nostri bisogni, o quasi si diletti del nostro patire, Egli che ci ama come suoi tìgli, ma perché nella sua sapienza trova più utile per noi il soffrire e lasciarci alle prese con le nostre privazioni e coi nostri bisogni; perché ci porge occasione di esercitare la pazienza: perché così ci costringe a raddoppiare i nostri sforzi, a perseverare nella preghiera; perché così ci addestra ai forti combattimenti della virtù, accresce i nostri meriti e ci viene staccando dall’amore sregolato della terra e quasi sforzandoci a volgere i nostri pensieri e desideri al cielo. Ah! dunque, o dilettissimi, quando lottate con le necessità della vita, quando la povertà vi stringe, e vedete i figli, la moglie, le persone a voi più care soffrire la fame, non potersi difendere dal freddo, ricordatevi che Dio sa tutto questo, tiene i suoi occhi pieni d’ amore sopra di voi, e, se è lecito il dirlo, soffre con voi e per voi, e se vi lascia nelle vostre angustie, credetelo, lo fa perché vi ama e vuole arricchirvi di beni maggiori e migliori: è un padre che nega al figliuolo suo un frutto desiderato, perché sa che gli nuocerebbe. – Il discorso di Gesù Cristo si chiude con una sentenza bellissima, che vorrei non dimenticaste mai; è questa: ” Cercate adunque in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte. „ Gesù Cristo vuole che sopra tutto cerchiamo il regno dei cieli, cioè la vita eterna e la sua giustizia, cioè la grazia, qual mezzo indispensabile per giungere alla vita eterna. Così vuole Gesù Cristo, e così vuole altresì il vero nostro bene. La ragione e la fede esigono che noi siamo solleciti maggiormente i n procurarci quei beni che sono i più necessari per noi e per se stessi più nobili e più eccellenti: è verità evidente, che non abbisogna di prova. – Ora che vediamo noi, o dilettissimi? Che accade continuamente intorno a noi? Ohimè! E pur forza confessarlo: la maggior parte dei cristiani, anche di quelli che con 1’esempio dovrebbero andare innanzi agli altri, tiene contrario cammino. Cristo dice: ” Cercate in primo luogo il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno sopraggiunte; „ ed essi cercano in primo luogo queste cose, cioè le cose del tempo, sperando ed avendo la pretensione che il regno di Dio e la sua giustizia saranno dati per giunta. Quale stravolgimento di idee! quale dimenticanza della sentenza evangelica! Correre dietro a queste cose misere della terra, come se queste dovessero formare la nostra felicità, e mettere in secondo luogo quelle del cielo, che sole meritano tutto il nostro amore ed i nostri sforzi! Dio ci fa la generosa promessa di darci quasi in sovrappiù il necessario della vita, a patto che ci volgiamo a Lui con tutto il nostro cuore, e noi non curare la promessa e respingere l’offerta! Ci offre un cambio per noi vantaggiosissimo, dicendoci: ” Voi pensate a me, ed io penserò a voi; voi servite a me con la mente e col cuore, ed io servirò voi quanto al corpo „ e noi rifiutarlo villanamente! Non dimentichiamo mai che il corpo è ordinato all’anima, e che i beni di quaggiù sono mezzi per giungere al fine, che è la vita eterna; non vogliamo capovolgere ogni cosa, ponendo il fine al luogo dei mezzi, l’anima al luogo del corpo. E qui, sul finire dell’ omelia, non vi sia di peso che rettifichi un’idea, che è entrata in alcuni, anche buoni cristiani, e che non è conforme all’insegnamento del Vangelo. Iddio, nell’antica legge, agli Ebrei che la osservavano fedelmente, aveva promessa, oltre il premio in cielo, la ricompensa anche in terra nell’abbondanza dei beni materiali. Sembra che alcuni, per mancanza di istruzione, o riflessione, credano quella promessa di beni materiali potersi e doversi estendere anche nella legge di grazia, e si appoggiano a questa sentenza di Gesù Cristo. Ma è un errore, e vuolsi schivare con ogni cura. In questa sentenza Gesù Cristo ci dice soltanto, che facendo dal canto nostro ciò che possiamo e dobbiamo, e servendolo fedelmente (e per servirlo fedelmente bisogna lavorare ciascuno nel suo stato), ci darà queste cose in aggiunta . Ma quali sono queste cose ch’Egli ha nominato? Leggete attentamente il Vangelo sopra citato, e vedrete che sono il cibo ed il vestito necessario, non le ricchezze: quelli, non queste, promette, e quelli non ci verranno meno. Gesù Cristo è venuto sulla terra, ha predicato il Vangelo a tutti; ha promesso ai suoi fedeli seguaci non onori, non piaceri, non ricchezza, non lunga vita, non sanità sulla terra, ma ha predicato il distacco dalle ricchezze, lo spirito di povertà, la mortificazione, l’amore al lavoro: e ha promesso il necessario, cioè il vitto ed il vestito. Avendo di che nutrirci e di che coprirci, esclamava il suo grande Apostolo san Paolo, non domandiamo altro: Questo ci basti: “Habentes quibus vescimur et quibus tegamur, his contenti simus”.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XXXIII:8-9
Immíttet Angelus Dómini in circúitu timéntium eum, et erípiet eos: gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus. [L’Angelo del Signore scenderà su quelli che Lo temono e li libererà: gustate e vedete quanto soave è il Signore].

Secreta
Concéde nobis, Dómine, quǽsumus, ut hæc hóstia salutáris et nostrórum fiat purgátio delictórum, et tuæ propitiátio potestátis. [Concédici, o Signore, Te ne preghiamo, che quest’ostia salutare ci purifichi dai nostri peccati e ci renda propizia la tua maestà].

Communio
Matt VI:33
Primum quærite regnum Dei, et ómnia adjiciéntur vobis, dicit Dóminus. [Cercate prima il regno di Dio, e ogni cosa vi sarà data in più, dice il Signore.]

 Postcommunio
Orémus.
Puríficent semper et múniant tua sacraménta nos, Deus: et ad perpétuæ ducant salvatiónis efféctum.
[Ci purífichino sempre e ci difendano i tuoi sacramenti, o Dio, e ci conducano al porto dell’eterna salvezza].

LO SCUDO DELLA FEDE (XXV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXV.

I L PECCATO ORIGINALE.

Lo stato di pura natura. Lo stato soprannaturale. Gli animali mansueti o feroci? — Il peccato originale. — Sua gravezza.Il serpente. —Conseguenze del peccato originale. — Perché anche noi ne dobbiamo portare la pena. — Perché il peccato originale si chiama macchia? — E se avesse peccato soltanto Eva?

— Ed ora vorrei Che discorressimo un po’ sul peccato originale, intorno al quale ne ho inteso a dire di cotte e di crude.

Lo so anch’io che a questo riguardo vi sono molte false idee nelle menti degli uomini. Sarà dunque cosa utilissima di ricercare e riconoscere su questo punto capitale della dottrina cristiana la verità. E per riuscirvi meglio ci converrà discorrere con ordine. Devi pertanto sapere, che Iddio nel creare l’uomo avrebbe potuto lasciarlo nello stato di pura natura.

— E che cosa è questo stato di pura natura

Lo stato di pura natura è quello che è richiesto dalla natura propria dell’uomo. È certo che Dio poteva lasciare di creare l’uomo; ma poiché lo volle creare doveva dargli quello che alla natura umana conveniva, cioè il corpo e l’anima: il corpo con i suoi sensi, con le sue membra, con le sue perfezioni; l’anima con le sue facoltà, con la intelligenza, con la volontà, con la libertà, con l’immaginazione, eccetera. In questo stato di pura natura l’uomo sarebbe iridato soggetto al dolore, alla concupiscenza, alla difficoltà di apprendere le cose, ed anche alla morte. Tuttavia anche in questo stato avrebbe dovuto conoscere, amare e servire Iddio vincendo le difficoltà che avrebbe incontrate, mediante aiuti naturali che Dio gli avrebbe dati, e dopo la morte sarebbe stato premiato da Dio col godimento naturale di Lui stesso, oppure qualora non avesse osservato i suoi doveri, sarebbe stato punito con un condegno castigo.

— E non è questo lo stato, in cui Iddio pose uomo creandolo?

No, non è questo. Iddio nella sua immensa bontà por l’uomo, liberissimamente, senza esservi punto obbligato, lo volle, nell’atto stesso della creazione o pure qualche tempo dopo (questo non si può dire con precisione), sollevare ad uno stato, che avendo in sé  dei doni superiori a quelli richiesti dalla natura umana, fu soprannaturale.

— E quali sono questi doni?

Il primo fu la grazia santificante, che rendeva l’uomo oggetto di compiacenza a Dio: il secondo fu l’integrità ossia una piena soggezione della concupiscenza alla ragione, in virtù della quale l’uomo non sentiva stimolo alcuno della carne contro lo spirito, né quale era uscito dalle mani di Dio aveva ad arrossir di nulla. Il terzo dono fu una scienza meravigliosa, della quale Adamo ci lasciò un saggio nell’imporre a tutti gli animali i nomi loro convenienti, e con la quale, futuro padre di tutto il genere umano, avrebbe insegnato a tutti i suoi figliuoli quanto riguarda Iddio e la morale. E da ultimo il dono della immortalità, per cui sottratto ad ogni dolore, ad ogni infermità ed alla morte stessa dopo un tempo da Dio stabilito l’uomo avrebbe abbandonato questa terra e in una dolce estasi di amore divino, in cui il suo corpo sarebbe divenuto glorioso, sarebbe passato in cielo a godere Iddio per sempre. – E tutto ciò Iddio aveva per tal modo congiunto alla natura umana, che l’uomo nello avere dei figliuoli in quello stato soprannaturale, insieme colla vita naturale avrebbe in loro trasfusi quegli stessi tesori di grazia, che egli possedeva. Ecco la giustizia originale, in cui da principio l’uomo fu costituito.

— È vero che trovandosi l’uomo in quello stato d’innocenza, gli animali non avevano alcuna ferocia, ed erano tutti mansueti come agnelli?

Ciò è vero per riguardo all’uomo, dinanzi al quale per virtù dello stato soprannaturale in cui esso trovavasi, le belve obliavano la loro natia tendenza. Ma così certamente non era di fronte agli altri animali: giacché se gli animali erbivori dovevano nutrirsi di erbe, gli insettivori dovevano nutrirsi di insetti, e i carnivori di carne, taluni perciò dovevano essere naturalmente feroci verso tali altri.

— Ho inteso. Dunque l’uomo dallo stato di originale giustizia decadde per il peccato!

Precisamente. L’uomo, destinato nello stato soprannaturale a possedere e godere eternamente Iddio in cielo, doveva meritarsi tanto premio col sottostare ad una prova. A tal fine Dio gli proibì di mangiare il frutto di un albero. Ed egli in quella vece …

— Ne mangiò. Ma, scusi, è stato veramente questo il peccato di Adamo, l’aver mangiato il frutto materiale di un vero albero?

Sì, senza dubbio; e coloro i quali, pretendendo di essere uomini di spirito, lo immaginano ben diverso, danno a vedere di aver dello spirito di rapa.

— Ma se nel peccato originale si tratta di aver mangiato veramente il frutto di un albero, la prova, cui Iddio volle sottomettere i nostri progenitori, non sembra uno scherzo indegno della sua grandezza!

Anche tu, caro mio, parlando in tal guisa mostri di avere poco buon senso. Dunque ascolta bene. L’albero della scienza del bene e del male era desso nulla più che un albero? No, certamente. Esso era pure un’idea, un simbolo, il limite morale, che Dio aveva posto alla sovranità dell’uomo per provare, nella fede alla sua divina parola e nell’obbedienza al suo divin volere, se Adamo rispondeva ai suoi benefizi con gratitudine e con amore. Là in quell’albero doveva riconoscere, che se era re del mondo visibile, era tuttavia vassallo di Dio.

— Questo lo capisco. Ma Iddio avrebbe ben potuto obbligare l’uomo a riconoscere la sua sovranità in altro modo.

Senza dubbio. Ma se egli volle scegliere questo, si fu perché lo riconobbe il più adatto, ed in vero l’uomo essendo anima e corpo doveva sottostare ad una prova, che lo interessasse in tutto il suo essere. E così mentre la proibizione di quel frutto, per una parte si indirizzava ai sensi del corpo, per l’altra si riferiva alla facoltà dello spirito, esigendo per tal guisa una prova da tutto quanto l’uomo.

— Queste spiegazioni mi chiariscono assai le idee. Ma quel peccato di Adamo e di Eva nel mangiare un frutto proibito non mi sembrerebbe poi tanto grave.

Così può sembrare a prima vista. Ma se tu rifletti, che quel precetto era facilissimo ad osservarsi, e che trasgredendolo disobbedirono al volere espresso di Dio, si mostrarono ingrati ai suoi benefizi, credettero piuttosto al demonio che a lui, si spinsero a tale grado di superbia da pensarsi di diventare simili a Dio, soddisfecero la loro golosità, diedero scandalo ai loro discendenti e li travolsero nelle conseguenze della loro colpa, allora riconoscerai che il loro peccato è stato gravissimo.

— Sì, è vero. Ma come mai Adamo ed Eva si lasciarono andare a commettere tale peccato?

Lo sai bene: essi cedettero alle tentazioni del serpente, ossia del demonio.

— Ma com’è questo fatto del serpente e del demonio? Il demonio è desso entrato nel corpo di un serpente, oppure ha preso la forma di un serpente?

A questo riguardo puoi pensare come vuoi; è sentenza libera. Può essere che il demonio si sia giovato del corpo di un serpente facendolo con la sua potenza parlare, è può essere anche che il demonio (cosa per lui facile) si sia trasfigurato sotto la forma di un serpente. Il fatto si è che egli tentò i nostri progenitori a violare il comando di Dio, dicendo loro una grande menzogna, ed essi vilmente si lasciarono ingannare e commisero la colpa.

— E dopo di ciò che avvenne?

Per giusto castigo di Dio perdettero subito quei doni soprannaturali, di cui erano stati arricchiti, furono condannati ai dolori ed alla morte, indeboliti nella intelligenza e nella volontà sì da non potere che con difficoltà ritrovare il vero e con lotta praticare il bene; e se fossero morti in quel punto sarebbero andati all’inferno.

— Insomma, se non erro, in pena del loro peccato i nostri progenitori, decadendo dallo stato soprannaturale, rimasero nello stato di pura natura e meritevoli dell’inferno.

Precisamente: non potevi dir meglio.

— Ma se è così, che cosa è dunque questo peccato originale col quale nasciamo anche noi?

Non è altro propriamente che questo: la privazione di quello stato soprannaturale, ossia di quella originale giustizia, in cui Dio aveva da principio costituiti i nostri progenitori; privazione che importa l’ignoranza, la concupiscenza, i dolori, la morte, ossia tutte le debolezze e miserie della pura natura, più la perdita del paradiso.

— E la perdita del paradiso, che mi ha qui indicato, non è lo stesso che la dannazione all’inferno?

No, ma solo l’esclusione dal godimento soprannaturale di Dio in cielo. I nostri progenitori, sì, col peccato che commisero propriamente essi con la loro libera volontà, meritarono l’inferno; ma i loro discendenti, siccome questo peccato lo ereditano soltanto, e siccome questa eredità del peccato originale non è così dipendente dalla loro deliberata volontà, perciò è vero che non hanno diritto al paradiso, ma non restano neppur per ciò solo meritevoli dell’inferno. E questa è appunto la ragione per cui, come già ti dissi parlando dei bambini che muoiono senza Battesimo e con nessun altro peccato che quello originale non andranno all’inferno, ma esclusi dal paradiso godranno in un limbo, o dove a Dio piacerà, una felicità naturale.

— Ciò va benissimo. Ma ad ogni modo perché  dobbiamo anche noi portare la pena di un peccato, che noi non abbiamo commesso? Ciò non è un’ingiustizia?

Sta attento e per mezzo di un paragone che ti farò, qualche cosa capirai e vedrai che non si tratta d’ingiustizia alcuna. Ecco: il re prende a volerti bene senza alcun tuo merito particolare, e un bel dì ti chiama a sé, ti conferisce il titolo di barone, e ti dà tante ricchezze che ti bastino più che mai a vivere decorosamente con quel titolo. Ora se tu venissi ad avere dei figliuoli in tale condizione, è più che naturale che trasmetteresti ai medesimi il tuo titolo di nobiltà e il godimento delle ricchezze avute.

— Ciò è chiarissimo.

Ma tu invece, perdona l’ipotesi, dopo aver ricevuto tanto onore e tanto bene dal re, gli fai un’ingiuria, per cui il re giustamente si sdegna e ti castiga, togliendoti quel titolo di barone e spogliandoti delle ricchezze, che ti aveva dato. E d ora, dimmi, se tu in questa condizione di decaduto dalla dignità, in cui eri, e divenuto povero avrai dei figliuoli, potrà ancor essere che eglino abbiano ad ereditare e titolo di barone e relative ricchezze?

— No, mai più; si troveranno invece in quella condizione decaduta e meschina, in cui mi son ridotto io.

E in tutto ciò trovi forse che vi sia qualche ingiustizia da parte del re?

. — No, non ve n’ha nessuna: nel darmi quel titolo e quelle ricchezze manifestò meco una grande bontà, nel togliere tutto ciò a me e conseguentemente ai miei discendenti ha compiuto un atto di giustizia.

Ebbene applica il paragone al caso di Adamo e nostro, e riconoscerai che se noi ora veniamo al mondo decaduti dallo stato soprannaturale non è per altra ragione, se non perché Adamo decaduto egli pel primo e come padre di tutta l’umanità non può più a’ suoi discendenti trasmettere la grandezza perduta, e che in ciò non v’è l’ombra d’ingiustizia per parte di Dio.

— Certamente considerando la cosa sotto questo aspetto diventa abbastanza chiara e si manifesta molto giusta. Io invece avevo inteso dire che Adamo come nostro padre rappresentava tutti noi, e che peccando egli aveva peccato anche per noi, e così il peccato originale era divenuto nostro come suo. Ed è perciò che nel peccato originale mi pareva esservi un’ingiustizia.

Ebbene da chiunque ti sia venuta questa spiegazione, ti dirò francamente che ripugna al buon senso. Con tale spiegazione si verrebbe a dire che Adamo ha presunto la nostra volontà di commettere la colpa e di incorrere nel castigo di essa, ciò che non può essere. Sta bene che, ad esempio, essendovi taluno che mi offra un bel favore per te, io presuma che tu sia per accettarlo e in tuo nome lo accetti; ma io non dovrò mai presumere che tu voglia dare, supponiamo, uno schiaffo ad alcuno e subire le conseguenze di questo oltraggio, e realmente lo faccia in tuo nome. – È vero che S. Paolo dice che « in Adamo tutti peccarono » ; ma ciò vuol dire che essendo stato Adamo il capo, il principio e la radice di tutto il genere umano, perciò il suo peccato produsse delle conseguenze fatali a tutto il genere umano, ma non già che egli abbia peccato rappresentando la volontà di peccare di tutto il genere umano.

— Ho inteso abbastanza. Ma com’è adunque che il peccato originale si chiama macchia? Io mi figuravo con questo nome, che fosse qualche cosa di nero, di brutto, di deforme sull’anima nostra. Ed invece ella mi ha detto non essere altro che la privazione della giustizia originale largita ad Adamo e il ritorno dell’uomo allo stato di pura natura, in cui avrebbe potuto essere creato. Come si conciliano queste cose?

Vedi : poiché Iddio non ha Voluto creare l’uomo nello stato di pura natura, ma invece ha voluto sollevarlo allo stato soprannaturale, perciò, che ora l’uomo venga al mondo privo di questo stato, ancorché riceva da Dio insieme con la vita lo stato naturale, è uno sconcio, una deformità opposta all’ordine voluto da Dio; epperò l’essere in tal guisa l’uomo privo di quella bellezza soprannaturale, che dovrebbe avere, è come una bruttura, una macchia. Ecco in qual senso si dice, che noi veniamo al mondo macchiati dal peccato originale. Ed è pure sotto questo aspetto che S. Paolo dice che noi nasciamo figliuoli di ira, perché non nasciamo quali Dio ci vorrebbe per porre in noi la sua compiacenza.

— Dunque prima che noi siamo battezzati Iddio ci sdegna?

Prima che noi siamo battezzati Dio ci ama in quanto che vede in noi la natura propria dell’uomo, cioè l’anima ragionevole, il corpo ben formato, e le altre doti umane; ma ci riprova e ci sdegna in quanto che non vede risplendere in noi quell’originale giustizia, che secondo il suo disegno in noi dovrebbe trovarsi.

— Ancora una domanda. E se avesse peccato solamente Eva?

S. Tommaso insegna, che se Adamo non avesse peccato, ma soltanto Eva, sarebbe stata sventurata essa ma non l’umanità, essendo l’uomo quegli da cui traggono origine le generazioni. Ma questa e un’ipotesi ed è meglio lasciarla insolubile.

CONOSCERE SAN PAOLO (4)

PCONOSCERE SAN PAOLO (4)

[F. Pratt, S. J.: la Teologia di San Paolo; S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Corrispondenza con Tessalonica (2).

I. LA PRIMA AI TESSALONICESI.

1 . TIMORE DEI NEOFITI. — 2. PROSPETTIVA PROSSIMA DELLA PARUSIA. — 3. LA SORTE DEI VIVI.

1. Fu una gran gioia per l’Apostolo, perseguitato di città in città dall’odio degli Ebrei, ancora dolente dell’insuccesso di Atene e sofferente nel suo isolamento a Corinto, il sapere che i neofiti di Tessalonica, lasciati da lui esposti alla persecuzione, sostenevano coraggiosamente gli assalti di una furiosa tempesta (Act. XVII, 14-16; XVIII, 5; I Tess. III, 1-6) . Si vantava dovunque la loro fede, la loro costanza nella prova, il loro ammirabile fervore, la loro carità fraterna (I Tess. I, 3-6). Tuttavia nel quadro vi era un’ombra: essi s’impietosivano oltre misura su la sorte dei loro fratelli privati dalla morte del privilegio di assistere al ritorno trionfante del Cristo che, evidentemente, essi giudicavano prossimo. Il vero scopo di Paolo nello scrivere a loro è di correggere la falsa idea che essi avevano dello stato d’inferiorità dei cristiani defunti, in confronto con i vivi; ma prima di venire al punto principale, egli espande il suo cuore e pare voglia esaurire il vocabolario dell’affetto. – Che belle parole gentili e pittoresche gli detta l’amore! Ora è il padre che esorta, incoraggia e rianima ciascuno dei suoi figli; ora è la madre che riscalda con le sue ardenti carezze il bimbo prediletto. Appassionato per loro, egli vorrebbe dare a loro non soltanto la verità e la gioia, ma la stessa sua vita e l’anima sua (I Tess. II). I più sublimi insegnamenti del dogma e della morale, che si alternano con le parole affettuose, si perdono, per così dire, in quell’effusione di tenerezza paterna. Tutta la prima parte della lettera è un canto di riconoscenza e un inno di ringraziamento, ed è questo appunto che ne forma l’unità e ne stabilisce il disegno: ringraziamenti per la maniera con cui i Tessalonicesi hanno accolto e fatto fruttificare il Vangelo, ringraziamenti per la buona riuscita della sua predicazione, per il felice ritorno di Timoteo e per le buone notizie che egli porta. Disegno molto semplice il quale si presta assai bene ad evocare ricordi e che fa di questa lettera, in cui i « voi ricordate, voi sapete » si ripetono a profusione, una vera conversazione da lontano. Eco fedele della predicazione di Paolo, la prima Epistola ai Tessalonicesi è piena di allusioni al Giudice che deve venire, al regno dei cieli che è oggetto delle nostre speranze, alla collera divina pronta a scatenarsi sopra gli Ebrei infedeli (I, 10; II, 12; II, 16), alla severità dei giudizi di Dio. La parusia del Signore (33) è nominata quattro volte ed è essa appunto, a parere di tutti, che forma l’argomento principale della lettera. E assai probabile che l’Apostolo risponda a una domanda formale dei Tessalonicesi dei quali forse Timoteo era l’intermediario. Il passaggio repentino e la formola rigida ripetuta due volte: «riguardo ai dormienti … riguardo al tempo e alle circostanze », ricorda esattamente le risposte ai dubbi dei Corinzi. – Tra le due parti di questo consulto teologico vi è questa differenza, che la seconda si accontenta di appellarsi ai ricordi dei neofiti e non ci lascia sperare nessun insegnamento nuovo, mentre la prima promette una rivelazione « in nome del Signore ». Non vogliamo poi, o fratelli, che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non vi rattristiate come gli altri che non hanno speranza. Se infatti crediamo che Gesù morì e risuscitò, nello stesso modo ancora Dio condurrà con lui coloro che in Gesù si sono addormentati. Poiché vi diciamo su la parola del Signore, che noi che siamo vivi, che siamo riserbati per la venuta del Signore, non preverremo quelli che si addormentarono. Poiché lo stesso Signore al comando e alla voce dell’Arcangelo, e al suono della tromba di Dio, scenderà dal cielo, e quelli che in Cristo sono morti risorgeranno i primi. Quindi noi che siamo vivi, che siamo superstiti, saremo con essi trasportati sopra le nubi in aria, incontro al Signore, e così saremo perpetuamente col Signore. Consolatevi dunque scambievolmente con queste parole. Intorno poi ai tempi e ai momenti non avete bisogno, fratelli, che noi vi scriviamo. Poiché voi stessi sapete benissimo che i l giorno del Signore verrà come un ladro di notte. Poiché quando diranno pace e sicurezza, allora sopraggiungerà loro repentina la perdizione, come i dolori del parto a donna gravida, e non avranno scampo. Voi però, o fratelli, non siete nelle tenebre, onde quel dì v i sorprenda a guisa di ladro: infatti voi tutti siete figliuoli della luce e figliuoli del giorno: non lo siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri. Poiché quelli che dormono, dormono nella notte, e quelli che s’inebriano, s’inebriano nella notte. Ma noi che siamo (figliuoli) del giorno, siamo sobri, rivestiti della corazza della fede e della carità, e dell’elmo della speranza della salute. Poiché Dio non ci ha destinati all’ira, ma all’acquisto della salute per il Nostro Signore Gesù Cristo il quale è morto per noi, affinché sia che vegliamo, sia che dormiamo, viviamo insieme con Lui. Per la qual cosa confortatevi gli uni gli altri e siate di edificazione l’un l’altro come pur fate (IV, 13; V, 11). – L’ultimo paragrafo non annunzia nessuna nuova rivelazione: « intorno ai tempi e ai momenti », i fedeli sanno tutto ciò che devono e possono sapere, « che il giorno del Signore arriva di notte come un ladro ». Ogni curiosità a questo riguardo è vana e inopportuna. Il giorno del Signore non è noto a nessuno, dicono i Sinottici — neppure al Figlio, aggiunge San Marco (XIII, 32) — ma arriverà improvviso, quando meno si aspetterà. Il paragone del ladro notturno era classico; è adoperato da San Matteo, da San Luca, da San Giovanni, da San Pietro e da San Paolo, e doveva entrare in tutti i discorsi su la parusia (I Tess. V, 4). L’immagine della donna partoriente è presa dai profeti; nella descrizione drammatica del Giorno del Signore, essa era una parte obbligata; passò poi nello stile apocalittico e dipinge a meraviglia il sopraggiungere improvviso della sorpresa, del dolore e dell’abbattimento (Matt. XXIV, 8; Marc. XII, 8). Riguardo alla pratica, i Tessalonicesi non hanno bisogno di consigli, poiché, secondo il precetto evangelico, sono vigilanti e armati: vigilanti contro gli assalti notturni, armati contro i malfattori. Le tre virtù teologali servono loro di armatura: la speranza come elmo, la fede e la carità come corazza. Vegliando essi continuamente, per loro non vi è notte, essi sono « figliuoli del giorno e della luce »; il ladro potrà venire, ma non li sorprenderà. – Mentre questa seconda parte non esce dal disegno ordinario delle prediche escatologiche, la prima ci presenta una rivelazione che l’Apostolo non aveva ricevuto prima o che non aveva creduto opportuno di comunicare fino allora. Paolo l’attribuisce espressamente a una « parola del Signore » (I Tess. IV, 15), o a una parola pronunziata da Gesù nella sua vita mortale e non registrata dagli evangelisti, oppure a una parola interiore attribuita al Maestro con la certezza dell’ispirazione. « Nel giorno della parusia, i viventi non precederanno i morti »; questo è il messaggio che egli ha incarico di comunicare. I neofiti s’immaginavano che, all’arrivo del giudice supremo, i vivi avessero qualche vantaggio sui morti; ma egli distrugge tale illusione. Nell’ultimo giorno i morti non invidieranno I vivi, né i vivi compiangeranno i morti: morti e vivi compariranno insieme dinanzi al Signore, gli uni con il loro corpo attuale trasfigurato e trasformato, gli altri con il loro corpo dì una volta, ricostituito e glorificato; insieme essi saranno trasportati per lo spazio; insieme raggiungeranno il loro capo e incominceranno con lui un regno senza fine. Se vi è differenza, questa è piuttosto in favore dei morti, perché essi risusciteranno prima, prima che la presenza del Cristo glorioso abbia trasformato i vivi. – Il trasalire della natura, la nube che serve di cocchio o di trono al Giudice, il corteo degli Angeli, le grida dei presenti, il suono della tromba, sono tratti comuni a tutto le apocalissi, presi dalla terribile apparizione di Jehovah sul Sinai, la quale aveva impresso nella fantasia nazionale un ricordo incancellabile. In quale misura queste allusioni al passato si verificheranno nell’avvenire! Quale può essere in esse la parte dell’immagine e del simbolo? Questo è il segreto di Dio.

2. È un fatto innegabile, che i cristiani dell’età apostolica si credevano vicini alla fine del mondo, e San Pietro si vedeva costretto a spiegare i lunghi indugi del Cristo (II Piet. III, 9 ). Il loro errore, fatto in parte di desiderio e di speranza, dipendeva anche dal pregiudizio universale degli Ebrei di quel tempo, dall’apprezzamento pessimistico degli avvenimenti contemporanei, forse da una falsa interpretazione di una parola del Signore: « Non passerà questa generazione senza che tutto questo avvenga (Matt. XXIV, 34) ». Si continuava ostinatamente a credere che certi privilegiati, come il discepolo prediletto, sarebbero vissuti fino a quel giorno; persino il nome di parusia (presenza) col quale si soleva indicare il ritorno trionfale del Cristo, ridestava l’idea di una venuta prossima, ed è cosa nota che i profeti, soliti a proiettare sopra un solo schermo gli avvenimenti futuri, sembrano far coincidere il principio dell’era messianica con la fine del mondo. Paolo partecipò egli pure alla comune illusione? Da principio, non vi è nulla che vi si opponga, poiché l’ispirazione non dà la scienza di tutte le cose e in ogni caso non poteva dare la conoscenza dell’ultimo giorno, che il Padre celeste ha riservata per sé. Eccetto la verità di cui è depositario, lo scrittore sacro può ignorare, esitare, appoggiare un’opinione sopra probabilità o verisimiglianze, mettersi alla ricerca della verità con i mezzi di cui dispongono gli altri uomini: tutto sta che egli non insegni l’errore. – Paolo, sapendo meglio di altri, che la data dell’ultimo giorno non entra nell’argomento della rivelazione, non insegna che il mondo è prossimo a finire, dichiara formalmente che la fine non ne è imminente, ma in mancanza di lumi speciali, si attiene alla parola del Vangelo (Matt. XXIV, 34; Mc. XIII, 30; Luc. XXI, 32). Tuttavia sembra che egli non veda dinanzi a sé una lunga serie di secoli. Certamente quelle parole: « Noi che siamo vivi, che siamo superstiti, andremo incontro al Signore (I Tess. IV, 17) », non pregiudicano nulla, perché la Chiesa non muore, e tutti i cristiani si possono identificare con essa, come se dovessero assistere, in un lontano avvenire, ai suoi trionfi e alle sue prove. Tuttavia l’Apostolo parlerebbe così, se avesse l’intuizione precisa, che migliaia di anni lo separano dall’ultimo giorno? In seguito la prospettiva si allontanerà; quanto più durerà il mondo, tanto più si farà l’abitudine di vederlo durare; l’idea della parusia diventerà più rara, e la parola stessa andrà perduta. Quello che noi non possiamo ammettere, con certi esegeti moderni, è che lo spirito di Paolo si sia evoluto nel breve lasso di tempo che passa tra le due lettere ai Corinzi ai quali tiene sempre, fino alla fine, lo stesso linguaggio tenuto con i Tessalonicesi.

3. Egli non mutò neppure il suo insegnamento, che l’ultima generazione dei giusti sarà rivestita d’immortalità senza passare per la morte: « Quelli che in Cristo sono morti, risorgeranno i primi; quindi noi che siamo vivi, che siamo superstiti, saremo con essi trasportati sopra le nubi in aria, incontro al Signore, e così saremo perpetuamente col Signore ». Sant’Agostino confessava di non aver mai potuto leggere attentamente queste parole, senza trovarci il significato, che l’ultima generazione dei giusti sarà esente dalla morte. E quello che qualche volta lo metteva in imbarazzo, era precisamente il testo che avrebbe dovuto confermarlo di più in questo sentimento, che era il sentimento comune dei Padri della Chiesa, se invece dell’inesatta traduzione latina: « Noi risusciteremo tutti », avesse conosciuto il vero testo di San Paolo: « Noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati… Sonerà la tromba, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati (I Cor. XV, 51) ». È impossibile comprendere queste parole in senso diverso da quello in cui le compresero gli stessi Corinzi i quali incominciarono a desiderare il privilegio degli ultimi superstiti del mondo. La morte ci fa orrore perché è un castigo e perché spezza violentemente i vincoli naturali del composto umano. Anche noi vorremmo, come i Corinzi, rivestire l’immortalità senza subire la morte. Questo desiderio è legittimo, risponde l’Apostolo, se non ha nulla di sregolato; è soprannaturale, purché non tolga nulla alla nostra fiducia e alla nostra rassegnazione; è effettuabile, purché la seconda venuta del Cristo ci trovi ancora in vita: Si tamen vestiti non nudi inveniamur. Questo sarà il privilegio dei pochi; ma che importa? Sia che viviamo, sia che moriamo, noi siamo del Signore (II Cor. V, 1-9). Come mai affermazioni così chiare, tre volte ripetute, possono aver dato luogo al dubbio? Già l’abbiamo detto, la causa ne è l’antica versione latina che leggeva: Omnes resurgemus, oppure: Omnes moriemur, supponendo in un modo e nell’altro la morte universale. L’Ambrosiastro, pensando di conciliare le due sentenze, immaginò di far morire e risuscitare i giusti, testimoni della parusia, durante il loro rapido trasporto per aria (Comm. I Tess. IV, 14 (XVII, 450). Sant’Agostino che conobbe questa ipotesi, fu tentato di accettarla, senza osare di adottarla fermamente, e scrisse nelle sue Ritrattazioni la confessione della sua invincibile incertezza: « O essi non morranno, oppure passeranno dalla vita alla morte e dalla morte alla vita così rapidamente, che non sentiranno la morte ». Il Maestro delle Sentenze, citando San Gerolamo e l’Ambrosiastro, che egli scambia con Sant’Ambrogio, ricusa di pronunziarsi, come se le due autorità si neutralizzassero a vicenda. San Tommaso, pure mantenendo la probabilità delle due opinioni, trova già che quella dell’Ambrosiastro è più sicura e più comune. Dal secolo decimoterzo in poi, l’opinione dei Padri perdette sempre più il credito, tanto che Soto e Catarino la chiamano temeraria; ma essi pure sono apertamente tacciati di temerità dal Suarez, per il loro giudizio esagerato. Ma la lezione della Volgata lasciava sempre luogo alle difficoltà, e quasi soltanto ai nostri giorni si è ripresa, con la sana esegesi di San Paolo, la tradizione patristica di Tertulliano, di San Gerolamo, di Sant’Epifanio, di San Gregorio Nisseno, di San Giovanni Grisostomo, di Teodoreto, di Primasio e di molti altri. Poche tesi teologiche hanno subito vicende più singolari. – Questo ritorno al passato ha la sua ripercussione sul modo di spiegare il settimo articolo del Simbolo. Invece di cercare nei morti e nei vivi i peccatori e i giusti (Sant’Agostino), oppure i morti e i vivi in un momento qualunque della durata del mondo (San Tommaso), oppure i morti e i vivi relativamente a chi recita il Simbolo (Suarez), s’intendono semplicemente, per morti e per vivi, i morti e i vivi che l’arrivo del Giudice troverà su la terra.

III. LA SECONDA AI TESSALONICESI.

1 . NUOVI TERRORI. — 2. L’OSTACOLO ALL’APPARIZIONE DELL’ANTICRISTO.

1. Erano passati alcuni mesi appena dopo la prima lettera ai Tessalonicesi, quando nacque un nuovo malinteso. Ben rassicurati ora riguardo ai loro morti, i neofiti erano più che mai convinti dell’imminenza della parusia, e tale convinzione, invece di eccitarli al bene, li turbava e li paralizzava. Alcuni anzi, trascurando i doveri del loro stato, andavano errando di porta in porta, nella pigrizia e nell’inoperosità, come persone i cui giorni sono contati. Di dove provenivano i loro stolti terrori? San Paolo lo lascia capire chiaramente dal consiglio che rivolge a loro: Ora noi vi preghiamo, o fratelli, riguardo la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e la nostra riunione con lui, che non vi lasciate smuovere sì presto dai vostri sentimenti, né atterrire o da spirito, o da parola, o da lettera come mandata da noi, quasi sia imminente il giorno del Signore (II Tess. II, 1-2). Ci potevano essere di mezzo tre cause: una rivelazione supposta o male compresa, una parola attribuita, a torto o a ragione, a San Paolo o forse a qualche altro personaggio ragguardevole, una lettera apocrifa dell’Apostolo o una lettera autentica male intesa. Non era la prima ai Tessalonicesi che si fosse prestata all’equivoco, e le parole « come mandata da noi » sembrano proprio indicare una falsificazione. Per finirla una buona volta con le frodi, Paolo aggiungerà d’ora innanzi di suo pugno il saluto finale che servirà di firma. L’abitudine allora generale di dettare le lettere, rendeva necessaria tale precauzione. Noi pensiamo che lo « spirito » a cui alluda, sia una manifestazione del genere dei carismi. Nelle loro preghiere estatiche, i glossolali dovevano ripetere spesso: Maranatha Etiam, venio cito! Ancora poco esperti nel discernimento degli spiriti, gli uditori avevano potuto prendere quelle parole non come pii desideri, ma come profezie destinate ad avverarsi a breve scadenza. L’origine del malinteso del resto importa poco; l’Apostolo si difende dall’avervi dato occasione con i suoi discorsi o con i suoi scritti; no, la fine non è tanto prossima. “Nessuno vi seduca in alcun modo, poiché (ciò non sarà) se prima non sia seguita la ribellione, e non sia manifestato l’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione, il quale si oppone e s’innalza sopra tutto quello che si dice Dio e si adora, talmente che sederà nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio. Non vi ricordate che quando ero ancora presso di voi, vi diceva tali cose? E ora voi sapete ciò che lo rattiene, affinché sia manifestato a suo tempo. Poiché il mistero d’iniquità opera già, solamente che chi ora lo rattiene, lo rattenga fino a che sia levato di mezzo. E allora sarà manifestato quell’iniquo (che il Signore Gesù ucciderà col fiato della sua bocca e lo annichilirà con lo splendore di sua venuta); l’arrivo del quale è per operazione di satana con tutta potenza e con segni e prodigi bugiardi” (II Tess. II, 3-12). Paolo qui altro non fa che ricordare a mezze parole alcuni tratti della sua predicazione orale. Egli suppone i Tessalonicesi familiari con le sue idee, perché le istruzioni date ai neofiti comprendevano sempre un capitolo sui novissimi, raggruppati intorno alla parusia. L’Apostolo si accontenta di rinfrescarne la memoria. Già da tempo egli ha insegnato a viva voce e ripete ora per iscritto, ma in termini il cui laconismo è per noi enigmatico, che l’ultimo giorno dev’essere preceduto da due grandi crisi, l’apostasia e l’apparizione dell’Anticristo. Egli parla dell’una e dell’altra come di cose note che non occorre spiegare. L’apostasia indica certamente una defezione religiosa, una ribellione contro Dio e i suoi rappresentanti; essa appare strettamente legata con l’azione e con i prestigi del grande avversario. Questi, formalmente distinto da satana che gli dà il suo aiuto e se ne serve come di suo ministro, è descritto con le fattezze e i caratteri dei personaggi di cui è l’antitipo. Egli s’innalzerà sopra tutto ciò che è Dio o si chiama Dio, come Antioco Epifane; si farà passare per Dio e vorrà essere trattato come Dio, come il principe di Tiro in Ezechiele, e il re di Babilonia in Isaia; sederà nel tempio stesso di Dio, come l’abbominazione della desolazione predetta da Daniele. Queste reminiscenze non sono tanto profezie, quanto piuttosto allusioni a testi antichi, e non è necessario aspettarne l’avveramento letterale; sono simboli che si possono avverare secondo una legge di proporzione che ci sfugge. Quando leggiamo che il Signore Gesù « distruggerà l’Iniquo con un soffio della sua bocca », queste parole ci fanno pensare al modo con cui il Figlio di Davide, secondo Isaia, deve annientare l’empio; ma che cosa possiamo conchiudere del modo vero con cui avverranno le cose? Quello che è detto senza figure, è che l’Anticristo opererà falsi miracoli, prodigi e prestigi, che sedurrà un gran numero di anime, che provocherà un laceramento nella Chiesa, che finalmente sarà vinto e che la sua caduta sarà il segnale della parusia.

2. Sopra un punto solo Paolo va più innanzi degli altri che lo hanno preceduto: egli ci parla di un ostacolo che si oppone all’irruzione immediata dell’Anticristo e ce ne dà questa descrizione: È una persona o una cosa personificata (ὁ κατέχων al maschile), ed è nel tempo stesso una forza fisica o morale (κατέχον al neutro). L’ostacolo è già in attività e frena il mistero d’iniquità; gl’impedisce di lasciar passare l’Iniquo (ὁ ἅνομος). Appena scomparirà, il campo resterà libero all’Anticristo, la cui apparizione (παρουσία = parusia) precederà di poco, sembra, l’apparizione (παρουσία) del Figlio di Dio. Qual è questo ostacolo? I Tessalonicesi lo avevano saputo dalla bocca di Paolo, ma noi ora non lo sappiamo, e tutto ci fa credere che non lo sapremo mai. L’oscurità proverbiale di questo passo ha dato luogo a innumerevoli sistemi. Con unanimità fraterna, catari, valdesi, ussiti, discepoli di Wiclef, di Lutero e di Calvino, angligani antichi e moderni, quasi fino ai nostri giorni, hanno veduto nell’Anticristo il Papa e, nell’ostacolo che si oppone al trionfo dell’Anticristo, prima l’imperatore romano, poi l’imperatore tedesco. Nel 1518, quando già fermentavano in lui le prime idee della ribellione, Lutero ebbe un leggero sospetto, che il Papa potesse benissimo essere l’Anticristo: nel 1519, lo diceva all’orecchio di un confidente; al principio del 1520 ne era quasi sicuro e, alla fine del medesimo anno, quando la rottura con Roma fu completa, ne era divenuto affatto sicuro. Dieci anni dopo si sdegnava perché la confessione di Augsbourg non avesse espresso un articolo di fede così fondamentale; ma l’errore fu riparato a Smalkalde dove si definì che « il Papa è il vero Anticristo il quale s’innalza contro il Cristo e sopra di lui. La sola divergenza tra i protestanti, è che parecchi ammettevano due Anticristi, uno per l’Oriente, Maometto e l’Islamismo, e l’altro per l’Occidente, il Papa e il Papato. Un commentatore più audace ha persino scoperto che se il Papa è sempre l’Anticristo, naturalmente il mistero d’iniquità è il gesuitismo, il tempio di Dio è la pura dottrina luterana, e l’ostacolo che si oppone alla venuta, non dell’Anticristo, come vuole il testo di San Paolo, ma di Gesù, è ancora il Papa. Non è molto tempo che luterani, calvinisti e anglicani hanno rinunziato a questa esegesi, per loro più sacrosanta che non sia per noi la più solenne definizione di fede. Tanto sono difficili a sradicare i pregiudizi di setta e di casta, rafforzati dall’abitudine e dall’educazione! In quanto ai razionalisti, essi affermano tutti, che la profezia di San Paolo non si è avverata e non si dovrà mai avverare, essendo un sogno dell’Apostolo. Ma quando si tratta di precisare l’oggetto di questo sogno, sono così divisi, che non è possibile trovarne due del medesimo parere. Parecchi, ritornando all’idea di Grozio, cercano l’avveramento dell’enunciato apocalittico negli avvenimenti contemporanei all’autore, e allora la profezia non sarebbe che una predizione ex eventu o una previsione a breve distanza. L’Anticristo potrebbe essere Caligola, l’empio sarebbe Simon Mago, e l’ostacolo, Vitellio (Grozio); oppure l’empio sarebbe Tito, e l’Anticristo Nerone, mentre l’ostacolo rappresenterebbe la guerra civile dell’anno 70 (Wetstein); oppure l’Anticristo sarebbe ancora Simon Mago, la defezione, l’eresia gnostica, l’ostacolo, l’unione temporanea del giudaismo e del Cristianesimo (Hammond). Per altri, l’ostacolo sarebbe o San Paolo stesso (Koppe, Schott, e Grimm), oppure tutti gli Apostoli e specialmente San Giacomo (Bohme), oppure il profeta Elia (Ewald), oppure il filosofo Seneca (Kreyber)! E non andiamo oltre! (53). – Non si può dire neppure che siano d’accordo i commentatori cattolici; però, nonostante mille differenze nei particolari, essi considerano quasi tutti la parusia come il ritorno personale di Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti; nell’anticristo vedono un individuo, benché Sant’Agostino pensi piuttosto a una tendenza; nell’apostasia, una defezione e una ribellione, o religiosa o politica, o religiosa e politica insieme; nel mistero d’iniquità, o Nerone e i persecutori, o gli eretici e i scismatici; nel tempio di Dio, o il tempio di Gerusalemme ricostruito o la Chiesa cristiana; nell’ostacolo finalmente o l’impero romano o lo Stato cristiano erede dell’impero. Ma qual è oggi lo Stato che oppone una diga all’invasione del male! In mancanza di meglio, parecchi opinano per la fede ancora vivente nel cuore di molti, o per il decreto divino di far predicare il Vangelo nel mondo intero. Non solo l’ostacolo non è ancora trovato, ma crediamo che non si sia mai cercato nella direzione giusta. San Paolo si mantiene sul terreno dell’escatologia ebraica e cristiana; come Daniele, come San Giovanni, egli descrive una lotta del male contro il bene, la quale ha un’eco su la terra, ma che si svolge altrove. È infatti satana che la ingaggia e la sostiene, dando al suo ministro tutta l’energia del suo aiuto. L’antagonista deve essere una potenza dello stesso ordine. Nella profezia di Daniele, è il condottiero dell’esercito celeste, il capo del popolo di Dio, Michele, che prende la difesa della nazione santa, specialmente al tempo della gran tribolazione e alla vigilia della risurrezione dei morti (Dan. X, 12). In San Giovanni, è ancora Michele con i suoi Angeli, che combatte contro il Drago, l’antico serpente, Lucifero, il diavolo, satana, e che finisce con assicurare la vittoria al Cristo (Apoc. XII, 7-8). La lotta di Michele e di Satana continua attraverso i secoli. Non occorre interrogare gli apocrifi — il libro di Enoch, il Testamento dei dodici patriarchi, l’Apocalisse di Mosè — per sapere la parte capitale che dovrà sostenere Michele nell’ultimo giorno. Egli, secondo San Paolo — la cosa non è quasi messa in dubbio — darà il segnale della risurrezione e del giudizio. Non sarebbe egualmente lui, il protettore della Sinagoga prima, e poi della Chiesa, che con le sue milizie chiuderà il passo alle potenze dell’inferno fino alla pienezza dei tempi? Tutte le parti della descrizione di Paolo gli si adattano: essere personale (ὁ κατέχων), comanda a un esercito e rappresenta una forza (τό κατέχον); è immortale, e la sua lotta contro satana, ingaggiata fino dall’età apostolica (ᾄρτι), si prolunga attraverso la storia per toccare alla fine il suo apogeo. Se la sua momentanea disparizione (ἒως ἐκ μέσου γένηται) significasse una sconfitta, questo carattere non le sarebbe più applicabile, ma le parole dell’Apostolo non hanno questo senso, e non vi è nulla che ci obblighi a sottintenderlo. Finché gli esegeti ridotti à mal partito abbiano trovato una soluzione migliore, noi cercheremo là l’ostacolo misterioso che ritarda l’apparizione dell’Anticristo. Tutto ci lascia credere che le inquietudini riguardo all’imminenza della parusia si calmarono presto, e non vediamo che si siano manifestate altrove; sia che a Tessalonica dipendessero da circostanze locali, sia che l’Apostolo, istruito dall’esperienza, avesse d’allora in poi procurato di prevenire qualunque malinteso.

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[Alla luce dei recenti avvenimenti (iniziati con il colpo di mano del 26 ottobre 1958), pensiamo che la parole di San Paolo si siano in pieno dimostrate esatte, essendo naturalmente ispirate dalla Luce divina dello Spirito Santo. Il Kathecon (ὁ κατέχων = o catékohn) effettivamente è il Vicario di Cristo, il Santo Padre, il Papa, che con l’infallibilità assicuragli da Gesù Cristo, (il Papato: τό κατέχον) ha frenato nel corso dei secoli, con la sua energica e puntuale azione, il mistero di iniquità, (τό μυστήριον τἥς ἀνομίας = to musterion thes anomias), cioè la penetrazione della gnosi-cabalistica, la teologia di satana (che già ai tempi di San Paolo era attiva … poiché il mistero d’iniquità opera già … come vera e propria sinagoga di satana – si pensi ai protomassoni adoratori del sole-lucifero: gli Esseni – opposta totalmente e sostituitasi progressivamente alla Sinagoga di Mosè). Questo fino al 26 ottobre del 1958, giorno in cui il Kathecon (cioè il Papa neo-eletto Gregorio XVII) fu imprigionato ed impedito nella sua Autorità (“ … levato di mezzo”), – prigionia ed impotenza in cui si trova anche l’attuale Pontefice Gregorio XVIII – e sostituito da un fantoccio nelle mani della cricca kazaro-giudaica, il massone 33:. Angelo Roncalli, che provvide poi a promuovere cardinale, per la successiva investitura a Pontefice massimo, il giudeo “patriarca degli illuminati” Giovanbattista Montini, discepolo “eletto” di satana e della sua conventicola. A questo punto l’Apostasia ha cavalcato a briglie sciolte portando tutta la terra nella confusione morale, sociale e spirituale attuale, guidata da altri “eletti del dragone” i kazari “illuminati” della sinagoga di satana, (… il teosofo polacco, il nuovo patriarca degli illuminati ed il suo buffone…) che sono oramai in procinto di consegnare il trono usurpato all’anticristo, come profetizzato dal profeta Daniele e dall’Apostolo in II Tessal. Tutto è stato descritto con meticolosa precisione e appropriatezza di termini, come una cronaca vista e riportata. Tutto coincide alla perfezione, non ci resta che aspettare, nella situazione in cui ci troviamo adesso ( … ribellione, e manifestazione dell’uomo del peccato, il figliuolo di perdizione, il quale si oppone e s’innalza sopra tutto quello che si dice Dio e si adora, talmente che sederà nel tempio di Dio, spacciandosi per Dio … il baphomet-lucifero, il “signore dell’universo” del novus ordo), l’avvento dell’anticristo in carne ed ossa, la feroce persecuzione dei residui cristiani, ed il … non prævalebunt,  … ecco apparirà il Signore Gesù (παρουσία), in tutta la sua maestà … … e allora sarà manifestato quell’iniquo (che il Signore Gesù ucciderà col fiato della sua bocca e lo annichilirà con lo splendore di sua venuta); l’arrivo del quale è per operazione di satana con tutta potenza e con segni e prodigi bugiardi”. Allora interverrà l’Arcangelo Michele, il Capo della milizia celeste, a restaurare la Chiesa di Cristo, in luogo della fetida falsa “chiesa dell’uomo”, abominio della desolazione, e la Vergine Maria scenderà a schiacciare la testa del serpente maledetto, come era stato annunziato addirittura già nel giardino dell’Eden .. et Ipsa conteret caput tuum! – La Scrittura divina non fallisce e … neppure uno iod andrà perso, come il divin Maestro ci ha assicurato, tutto si svolgerà come annunziato da secoli dai santi Profeti del Vecchio e del Nuovo Testamento, ispirati dallo Spirito Santo; e San Paolo è stato una bocca fedele ed una mano guidata dalla Sapienza divina, dalla Sapienza incarnata: il Nostro Signore Gesù-Cristo. – ndr. -].

CONOSCERE SAN PAOLO (3)

CONOSCERE SAN PAOLO (3)

[F. Pratt, S. J.: la Teologia di San Paolo; S. E. I. Ed. Torino, 1945]

Corrispondenza con Tessalonica (1).

I. LE LETTERE DI PAOLO.

1. CARATTERI GENERALI. — 2. LETTERE O EPISTOLE? — 3. LO STILE DELLE LETTERE.

1. Le due Epistole ai Tessalonicesi, scritte verso l’anno 6, durante il secondo viaggio apostolico, notano il passaggio dall’insegnamento orale, semplice e familiare, alle controversie dommatiche delle lettere maggiori. – Affettuoso, cortese, delicato, pieno di vivacità, di abbandono, di fine ironia, con quel potere istintivo d’insinuarsi nello spirito degli altri, di comprendere e di dividere le loro gioie e le loro pene, che giustamente fu chiamato il dono della simpatia, Paolo era meravigliosamente adatto allo stile epistolare. Senza studio e senza ricercatezza, egli si è creato un genere in cui la spontaneità e la naturalezza si uniscono bellamente con la profondità del pensiero e con la forza della dialettica. Quello che più si ammira è l’unione, nella stessa pagina e nella stessa frase, delle più sublimi lezioni di teologia con le applicazioni più familiari della vita ordinaria. Non si trova nulla di simile nella letteratura classica, come si può ben vedere confrontando il biglietto a Filemone con una lettera scritta da Plinio il Giovine su un argomento quasi identico e in circostanze simili (Plinius Sabiniano, Epist. IX, 21). Il confronto riesce tutto a onore dell’Apostolo. Come appaiono aride e rigide le formole di saluto in uso presso i Greco-romani, vicino alle formule corrispondenti, così sciolte, così varie, così poco convenzionali, delle lettere di Paolo! Per trovare qualche cosa che somigli da lontano alla maniera dell’Apostolo, bisognerebbe piuttosto consultare i papiri recentemente esumati dalle sabbie egiziane. Tutte le sue lettere hanno un pronunziatissimo sapore di famiglia. L’ordine è quasi sempre lo stesso: soprascritta solenne, assai caratteristica, elogio dei destinatari in forma di ringraziamento, esposizione dell’argomento con prova conforme, raccomandazioni morali, augurio finale e benedizione, di pugno dell’Apostolo. – La soprascritta non si deve confondere con l’indirizzo il quale si scriveva a tergo, in modo da restare visibile quando la lettera era chiusa e sigillata. Siccome questo non aveva speciale importanza, perché era sviluppato nella soprascritta interna, non fu trascritto. I titoli che esse portano attualmente, per quanto antichi, non rimontano a San Paolo. La soprascritta comprende tre elementi che si seguono in questo ordine: nome e qualità dei corrispondenti; nome, titoli e meriti dei destinatari, e auguri a questi ultimi. Paolo si dà abitualmente il titolo di Apostolo (eccetto in Tess. I e II, Fil. e Filem.) e unisce quasi sempre con sé dei compagni, Timoteo, Silvano o Sila, Sostene, tutti fratelli che sono con lui. Quando esse non sono interamente personali, come sono le Epistole a Tito e a Timoteo, sono indirizzate a una chiesa particolare, o ai membri di una chiesa, o a una chiesa e ai suoi membri, o ai fedeli e al clero, o a ima chiesa locale e a tutti i cristiani della provincia e anche del mondo intero, oppure a particolari nel tempo stesso che alla chiesa locale. Anche nelle lettere personali vi è un saluto per la chiesa. Eccetto l’Epistola ai Galati, la menzione dei destinatari, collettivi o individuali, è sempre seguita da una parola di elogio o da epiteti onorifici. Paolo augura a tutti la grazia e la pace; le due lettere a Timoteo vi aggiungono la misericordia. L’esordio è un atto di ringraziamento oppure una specie di dossologia. Si spiega l’assenza di questa formula nell’Epistola ai Galati, per lo sdegno dell’Apostolo. Il tono familiare delle Pastorali può anche spiegare l’esordio ex abrupto nell’Epistola a Tito, nella prima a Timoteo. Al ringraziamento vanno unite alcune parole di elogio ai destinatari, alcuni ricordi del passato, certi particolari su le circostanze presenti, o liete o tristi, poiché per lui tutto è motivo di ringraziamento. Qualche volta il ringraziamento si prolunga tanto da occupare l’intera lettera e da farne come lo sfondo (I Tess.); altre volte invece ne è nettamente separato (I e II Cor., Fil.); per lo più finisce con confondersi nell’argomento principale a cui esso porta insensibilmente. – Il corpo della lettera varia naturalmente secondo la differenza degli argomenti che si trattano. Quando è una tesi, viene enunziata da principio dopo l’esordio (Rom., Gal., Eph.), e lo sviluppo segue metodico e regolare nelle Epistole ai Romani e ai Galati. più libero e più oratorio nelle Epistole agli Efesini e ai Colossesi. Le lettere a tesi presentano questa particolarità, che la morale è separata dal dogma, in modo che la divisione è binaria; mentre le lettere di argomento multiplo non si possono dividere secondo questo principio, essendo la morale multipla come il dogma. Aggiungeremo che in parecchie Epistole la divisione è poco marcata o non esiste affatto, il che non deve fare meraviglia, poiché in fin dei conti una lettera non è altro che una conversazione scritta. La conclusione incomincia generalmente con comunicazioni personali, con notizie di carattere intimo, seguite da una raccomandazione in favore del messaggero. Poi viene ordinariamente una lista più o meno lunga di saluti. In quel momento Paolo prende egli stesso la penna e vi aggiunge alcune parole o alcune frasi di suo pugno, quasi come firma. Si può prendere come esempio tipico l’Epistola ai Colossesi; ma ciascuna ha le sue particolarità degne di osservazione.

2. Gli scritti di San Paolo sono lettere o epistole? La questione può parere strana, ma non è priva d’interesse né d’importanza, così per l’esegeta come per il teologo. La lettera è una conversazione a distanza; un epistolografo dell’antichità la definisce assai bene: « Uno scritto il quale esprime a una persona assente ciò che le si direbbe se fosse presente ». Tolta la lontananza, la lettera non avrebbe più ragione di essere, perché una visita la sostituirebbe. – Quello che la distingue dall’epistola non è la lunghezza, poiché vi sono conversazioni lunghissime; non è l’argomento, poiché una conversazione può svolgersi intorno alle questioni più serie; non è lo stile, perché certe persone hanno naturalmente un tono oratorio e un linguaggio forbito; non è il fatto che non viene pubblicata, poiché vi sono epistole destinate dai loro autori alla pubblicità, che non hanno mai veduto la luce, mentre certe lettere esimiate recentemente dalle antiche città egiziane, ebbero l’onore di una pubblicità che i loro autori non si aspettavano davvero. Ciò che distingue la lettera dall’epistola, è che l’epistola è una composizione destinata al pubblico, e la lettera è una comunicazione intima e privata. – Non si deve pensare che gli antichi fossero meno gelosi di noi nell’assicurare il segreto delle lettere: i Romani sigillavano col piombo, con la pece o con la cera, le estremità della cordicella che legava le loro tavolette, per sottrarne il contenuto agli sguardi indiscreti; i Greci spingevano talora la precauzione fino a introdurre il legame attraverso i giri del rotolo di papiro, che non si poteva più svolgere senza lacerarlo; gli abitanti della Caldea e dell’Assiria chiudevano le loro corrispondenze in una busta di argilla che, indurita al fuoco, si doveva poi rompere col martello. Qualunque vera lettera è per sua natura segreta e, benché sia del destinatario, questi non ha mai il diritto di pubblicarla mentre è ancora vivo il suo corrispondente, o senza il suo permesso. Le lettere fittizie non sono lettere, e neppure le lettere pubbliche: le lettere poi dette aperte sono così poco lettere, che non sempre si prende la pena di mandarle al destinatario. Ma tra questi generi estremi vi sono infinite gradazioni: vi è la lettera circolare, qualche volta così vicina alla lettera, che appena se ne distingue: vi è la lettera collettiva che molto si avvicina all’epistola; vi è la lettera in cui l’autore non intende di restringere ad un solo lettore il benefizio della sua composizione e mira ad un pubblico più esteso, oltre al destinatario effettivo; vi è finalmente la lettera di cui si prevede la divulgazione, e che perde tanto più il suo carattere intimo, quanto più l’autore è preoccupato dal pensiero di un pubblico indeterminato, e Cicerone osservò molto bene questo fenomeno psicologico. Chi può dubitare che la preoccupazione di lettori estranei non abbia qualche volta fatto deviare la penna dei più celebri epistolografi? Le loro lettere sono epistole nella misura in cui si presenta al loro pensiero l’immagine di un pubblico possibile. Ad uno di questi generi intermedi appartengono tutte le lettere di Paolo. Che cosa manca a quella pagina incantevole che è il biglietto a Filemone, per essere una lettera in tutto il rigore del termine? Che cosa vi può essere di più familiare, di più personale, di più vivo? Paolo vi appare come amico, come padre, più che come apostolo. Eppure se si osserva più da vicino, egli associa a Filemone non soltanto Appia e Archippo che possono essere della famiglia, ma tutta la comunità cristiana (Fil. 2); è dunque una lettera collettiva. Così l’Apostolo passa con tutta naturalezza e senza pensarci, dal singolare al plurale: « Preparami un alloggio, perché spero di essere presto restituito a voi (Fil. 22) ». Egli non avrà creduto necessario il chiuderla e dovette consegnarla aperta nelle mani di Onesimo che non poteva ignorarne il contenuto. – Le Pastorali sono lettere amministrative che Paolo scrive in virtù della sua autorità apostolica, e in esse parla ai suoi delegati come un superiore ai suoi mandatari. Forse esse contenevano particolarità troppo intime per essere lette interamente alla chiesa, in presenza dei principali interessati, ma è certo che Paolo, nel suo pensiero, unisce sempre a Tito e a Timoteo le comunità cristiane di cui essi hanno temporaneamente la cura. Dimenticando talora che si rivolge a un solo corrispondente, generalizza i suoi avvisi e i suoi ordini; saluta direttamente la chiesa di Efeso e quella di Creta; passa con somma facilità dal singolare al plurale: « La grazia di Dio sia con voi (II Tim. IV) », oppure: « con tutti voi (Tit. III, 15) ». Se questo non basta per togliere alle Pastorali il carattere di vere lettere, dimostra almeno che l’Apostolo, o predichi o scriva, augura sempre alla sua parola la massima diffusione, che le sue comunicazioni non sono di ordine esclusivamente privato e che, ben lungi dal fuggire la pubblicità, la cerca quanto può. – Le lettere ai Tessalonicesi, ai Galati e ai Filippesi, hanno questo di comune con il biglietto a Filemone e con le Pastorali, che devono cioè la loro esistenza ad un bisogno passeggero dei destinatari e che non sarebbero state scritte, se Paolo si fosse potuto recare personalmente dai suoi neofiti. Sotte questo aspetto esse sono vere lettere; ma se ebbero in origine un carattere personale, non hanno nulla di segreto. L’Apostolo prevede che esse circoleranno, e non vi si oppone affatto; sapendo che le lettere passano da una mano all’altra (II Tess. II, 2), ha cura di premunire i fedeli contro i falsari e previene le frodi con mandare un saggio della sua scrittura (II Tess. III, 18); ma non gli viene l’idea di impedire quella divulgazione che egli anzi desidera. – Per la natura del loro contenuto, quelle indirizzate ai Corinzi e ai Colossesi parevano non dover uscire da queste chiese. In esse egli riprende severamente i colpevoli, corregge i disordini di Corinto con un rigore di cui fu tentato di pentirsi, condanna senza riguardi gli errori dei Colossesi. Intanto esige che la lettera mandata ai fedeli di Colossi, sia comunicata ai cristiani di Laodicea, i quali in cambio manderanno quella di cui sono depositari (Col. IV. 16). Le lettere di Paolo circolano mentre egli è ancora vivo — e per ordine suo — nelle altre chiese. Potevano forse i Corinzi tenere esclusivamente per sé le lettere destinate « ai santi di tutta l’Acaia (II Cor. I, 1) », oppure, oltre i confini della Grecia, « a tutti quelli che invocano il nome di Nostro Signor Gesù Cristo, in qualunque luogo? (I Cor. I, 2) ». Se la lettera è tanto meno lettera, quanto più è indeterminato il destinatario e meno personale l’argomento della corrispondenza, quella di Paolo ai Romani si dovrebbe chiamare piuttosto epistola. Paolo scrive a una chiesa che conosce appena di fama e, se si eccettua il motivo di preparare il terreno per un prossimo apostolato, non si vede perché esponga ai Romani, piuttosto che ad altri, la sua tesi su la giustificazione e su le relazioni fra la Legge e il Vangelo. Come circolare, l’Epistola agli Efesini è ancora più impersonale, e sono più indeterminati i suoi destinatari. Per sentire la differenza che passa tra questi due generi di scritti, basta confrontare tra loro le Epistole ai Romani e ai Galati da una parte, e le Epistole agli Efesini e ai Colossesi dall’altra. Paolo suole scrivere in principio delle sue lettere i nomi dei suoi compagni di apostolato, e questo fatto non è senza importanza nella presente questione: egli depone il suo carattere personale e privato nelle sue corrispondenze, e le trasforma, per così dire, in documenti semiufficiali, suscettibili di una pubblicità sempre maggiore. Non già che bisogni dare troppa importanza all’uso del plurale invece del singolare. Se la teoria secondo la quale Paolo, quando parla di sé al plurale, si associa sempre mentalmente o i cristiani in generale o i suoi compagni di apostolato, è insostenibile, ci vogliono però prodigi di sottigliezza — e di una sottigliezza di cattiva lega — per scoprire in quei « noi » l’intenzione di darsi del tono o qualche altra intenzione speciale: è semplicemente una figura retorica così comune nei contemporanei letterati e illetterati del grande Apostolo, che aveva perduto qualunque significato particolare. Al termine del nostro esame, abbiamo il diritto di conchiudere che tutti gli scritti di Paolo sono vere lettere, realmente mandate ai loro destinatari per supplire l’assenza dell’Apostolo e per provvedere a necessità più o meno urgenti. Ma tanto nell’intenzione dell’autore, quanto aghi occhi dei suoi corrispondenti, non erano fatte per rimanere la proprietà esclusiva di una famiglia o di una chiesa; esse dovevano prolungare nel tempo e nello spazio la predicazione di Paolo; erano epistole che le comunità cristiane si facevano premura di raccogliere, e che ben presto presero l’abitudine di leggere pubblicamente nelle riunioni liturgiche.

3. Queste Epistole di una fisonomia così precisa, sono scritte in uno stile ancora più personale. Generalmente i Padri danno ragione all’Apostolo, quando egli dice di non possedere l’arte di una bella lingua: imperitus sermone. Sant’Ireneo gli rimprovera degli iperbati; Origene, delle frasi oscure; Sant’Epifanio, dei periodi intricati; San Gregorio Nisseno, l’uso di parole disusate o adoperate in significato che non è il loro ordinario; San Giovanni Grisostomo, trascuratezza di stile; San Gerolamo, parole improprie, cilicismi e anche solecismi. E Bossuet li riassume tutti quando scrive nel suo celebre Panegirico: « Andrà questo ignorante dell’arte del dire, con la parola rozza, con la frase che sa di forestiero, andrà in quella Grecia raffinata, madre di filosofi e di oratori; e nonostante la resistenza del mondo, egli solo vi fonderà più chiese, che non siano stati i discepoli guadagnati da Platone, con quell’eloquenza che fu creduta divina. Egli predicherà Gesù in Atene, e il più saggio dei suoi senatori passerà dall’Areopago alla scuola di quel barbaro ». Ma vi è anche il rovescio della medaglia: San Gerolamo vanta la forza, l’energia, i tuoni di Paolo; Sant’Agostino, la sua calda eloquenza; San Giovanni Grisostomo, il suo fascino e la sua potenza persuasiva; lo stesso pagano Longino, la sua passione oratoria e il vigore della sua dialettica. Nello stile, in senso largo, entrano tre elementi: il lessico, la grammatica e la composizione. È noto che il vocabolario di Paolo è anzitutto biblico. Le parole estranee alla lingua dei Settanta, sono per lo più di origine popolare. San Gerolamo le chiamava cilicismi perché, non avendole trovate nei suoi autori, a torto le credeva proprie del territorio della Cilicia; ma un certo numero di esse furono recentemente trovate nei papiri o nelle iscrizioni di quel tempo, e quanto più si spingeranno innanzi tali ricerche, tanto più si accorcerà la lista dei termini di cui si attribuiva finora il conio agli scrittori sacri. Questi non cercavano di creare vocaboli nuovi che non avrebbe compreso nessuno, ma traevano il maggior partito possibile dalle parole usuali e, occorrendo, davano loro nuovi significati. Rivolgendosi al popolo, adoperavano il linguaggio del popolo, e quel linguaggio era ricco, pittoresco e gustoso. – Si è rimproverata a Paolo « ima singolare povertà di espressione »: giudizio troppo sommario e contradetto dai fatti. Nessun altro scrittore del Nuovo Testamento dispone di un vocabolario così esteso. Si sa che egli accumula volentieri i termini quasi sinonimi di cui vuol mettere in rilievo le diverse sfumature; cerca anche le assonanze, le paronomasie, le antitesi, il che suppone un autore interamente padrone della sua lingua. Le frequenti ripetizioni di parole, non sono una prova di povertà, ma è questo un procedimento dialettico od oratorio voluto e pensato, per fissare l’attenzione e per meglio scolpire il pensiero nella mente del lettore. – Certamente la sua sintassi non è la sintassi classica. Se i solecismi propriamente detti vi sono affatto eccezionali, gli ebreismi, pure meno numerosi di quanto si è preteso, non sono tuttavia rarissimi. Ma le sue lettere sono piene di anacoluti, cioè di periodi incompiuti o che si compiono prendendo una piega diversa (Rom. II, 17-21; V. 12-14; I Cor. XIV, 21, Gal. II, 6, etc.). Si devono notare due curiose particolarità: le serie di incidenti che sovraccaricano la frase, rompendo a ogni istante il filo del discorso; e soprattutto le costruzioni di genitivi articolati, in cui il rapporto esatto di ciascun genitivo con la parola che precede, rimane alquanto oscuro. Molte di queste negligenze si spiegano con l’improvvisazione. Paolo non scriveva egli stesso le sue lettere, e l’abitudine di dettare era allora così comune, che « dettare » significava comunemente « comporre ». Certe allusioni degli antichi, ci farebbero credere che la fatica materiale dello scrivano era considerata come incompatibile col lavoro mentale. L’Apostolo seguiva tale usanza che la sua debolezza di vista rendeva per lui più imperiosa. Da ciò derivano le frasi incomplete, i cambiamenti di costruzione, gli incisi e le parentesi, i passaggi repentini da un’idea all’altra, i frequenti ritorni alla stessa idea. Ma mentre gli stilisti rivedevano accuratamente i loro scritti per toglierne gli errori e per cancellarne le asprezze, Paolo li spediva tali e quali, oppure con qualche aggiunta o qualche nuova digressione. Quando però vuole, e forse anche senza pensarci, scrive pagine di una grecità impeccabile; maneggia con maestria quello che vi è di più delicato in un idioma, le particelle; si vede che egli parla il greco come sua lingua materna e non come una lingua appresa tardi e imperfettamente posseduta. Più intimo e più personale che il vocabolario e la sintassi, è l’ordine, la forma e la disposizione delle idee. In un senso verissimo si è potuto dire che lo stile è l’uomo: « La lingua di Paolo è la sua immagine vivente. Come il corpo dell’Apostolo, vaso di argilla, si curva sotto il peso del suo ministero, così le parole e le forme del suo linguaggio si piegano e si spezzano sotto il peso del suo pensiero. Ma da questo contrasto scaturiscono gli effetti più meravigliosi. Che potenza in quella debolezza! Che ricchezza in quella povertà! In quel corpo infermo, che anima di fuoco! Tutta la forza, tutto il movimento, tutta la bellezza vengono dal pensiero; non è lo stile che lo porta, ma è il pensiero che porta lo stile; il pensiero cammina sempre sovraccarico, trafelato, oppresso, trascinandosi dietro le parole… Per portare questa pienezza riboccante d’idee e di sentimenti, le parole e il loro significato ordinario non bastano più; ciascuna di esse, per così dire, è obbligata a portare un peso doppio o triplo. In una preposizione o nell’unione di due termini, Paolo mette tutto un mondo di idee, ed è questo appunto che rende così difficile l’esegesi delle sue epistole e la loro traduzione assolutamente impossibile (A. Sabatier: L’Apôtre Paul, 1896) ». – Il migliore commento ne è la lettura costantemente rincominciata. Bisogna abituarsi a quel dire strano che dapprima respinge e sconcerta per la sua singolarità. Vi s’incontrano frasi le cui parti rientrano in certo modo le une nelle altre, come i cilindri di un cannocchiale, frasi lunghissime, accidentate da digressioni e da parentesi, di cui l’occhio cerca invano di abbracciare l’insieme. Il periodo greco, per quanto classico, non ammette simili dimensioni, perciò quelli di San Paolo non sono periodi. Le sue frasi si possono semplificare, si possono sbarazzare dai particolari che le ingombrano, scaricarle dal peso degli incisi, senza alterare la loro fisonomia e senza turbare la loro andatura. L’idea principale forma un disegno abbastanza apparente in cui sono disposte, come addentellati, definizioni e spiegazioni. Con un po’ di riflessione e di abitudine, si riesce facilmente a scoprirlo. Lo scopo generale serve come punto di ritrovo e, fissando quello, il lettore riesce a orientarsi. Paolo è un dialettico vigoroso che si muove a suo agio nei dedali di un’argomentazione astrusa e lunga. Egli non indietreggia mai dinanzi ad una digressione utile, ancorché il suo lavoro ne abbia da perdere sotto l’aspetto letterario. Certi suoi capitoli presentano l’aspetto di quei conglomerati geologici formati da depositi sedimentari e da lave solidificate, ma il pensiero si segue sempre, come un filone non interrotto, tra quelle masse di apparenza eterogenea. Esaurita la questione incidentale, egli rientra nel suo argomento con una parola messa in vista, piuttosto che con un’esplicita transizione. Se non è assediato dalla parola, come gli viene rimproverato, è trascinato dall’idea che egli segue a ogni costo; ed è anche vero che il suo pensiero qualche volta gira intorno a una parola. Egli percorre volentieri tutta la scala dei significati di un termine, per rivoltare la sua idea sotto tutti i suoi aspetti. Una leggera deviazione lo mette ogni volta sopra un terreno nuovo, e passiamo da un senso all’altro con tanta facilità, che non sempre ci accorgiamo del passaggio. – Egli poi è affatto indifferente alla sua rinomanza di scrittore; se la ride dei precetti della retorica e qualche volta anche delle regole di grammatica. Se molte volte arriva a toccare le più alte cime dell’eloquenza, lo fa sempre, dice Sant’Agostino, senza averne l’intenzione: in lui tutto sgorga dalla sorgente, da una mente riboccante di idee, da un cuore capace di comunicare la commozione quasi senza volerlo. Quando Terzo o qualche altro suo segretario gli rilegge una lettera, non pensate che si fermi a forbire una frase arruffata o a correggere un solecismo, un iperbato o un anacoluto: anzi egli vi aggiunge quei sovraccarichi di cui il suo stile rigurgita, quasi che temesse, col troppo studio e con la troppa raffinatezza, di togliere qualche cosa alla virtù del Vangelo e di offuscare con uno sfoggio di sapienza umana il trionfo della croce.

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

SANTISSIMO CUORE DI MARIA

 [V. STOCCHI, Discorsi sacri; Tip. BEFANI, ROMA, 1884 – DISCORSO XXIV].

“Qui me invenerit, inveniet vitam”.

PROV. VIII, 35.

1. Fino da quando da chi mi tiene il luogo di Dio mi fu posto sopra le spalle il carico alla natura poco soave, di predicare la parola di Dio in tanta iniquità di tempi, il mio cuore e i miei occhi si conversero subito alla stella benedetta del mare, alla Madre immacolata di Dio e Madre nostra Maria, e posi incontanente le mie povere fatiche sotto gli auspici e sotto il patrocinio di Lei, alla quale fino dagli anni primi della mia vita ho dedicato tutte le cose mie e me medesimo. Da Lei madre di grazia, di luce, di fortezza e di verità sperai forza e vigore, da Lei grazia e virtù, da Lei efficacia e dono per condurre le anime a Gesù Cristo, da Lei insomma ogni cosa, e se nulla hanno operato le povere mie fatiche, se qualche frutto ha secondato il sudore e il travaglio della parola di Dio seminata da me, tutto il merito è stato sempre di Maria della quale la misericordia e il patrocinio e nel corpo e nell’anima tocco tutto giorno con mano. Essendo così, è naturale che io ardentemente desideri di fare alcuna cosa che sia cara a questa Vergine gloriosa per attestarle la mia gratitudine; e fra le altre è mio costume di argomentarmi di tirare a Lei i cuori di tutti persuadendo a tutti che trovata Maria, troveranno la vita conforme a quello: qui me invenerit inveniet vitam. E per riuscire in questo intento soavissimo io ho per costume di non lasciare che trascorra alcun corso di predicazione, nella quale io abbia parte, senza favellare del Cuore benedetto di Maria, additandolo a tutti come porto unico e soavissimo di pace, di sicurezza, di misericordia. Tale io ho trovato il Cuore di Maria per me, tale l’ho sempre mostrato agli altri, tale a voi, se mi udirete, lo mostrerò stamattina signori miei. Vi parlerò del cuore di Maria pianamente e devotamente, quanto mi sarà possibile, cercando di innamorarne tutti e specialmente i poveri tribolati, gli afflitti e i peccatori, e beato me se riuscirò nell’intento. Innamorarsi del Cuore di Maria è come far suo quel Cuore benedetto; chi ha fatto suo il cuore di chi che sia è padrone di tutto l’uomo. E che bramerà di vantaggio chi abbia fatto suo il Cuor di Maria?

È cosa che si ripete ogni giorno nella santa Chiesa Cattolica, e che mille volte ridetta torna sempre gradita come se nuova fosse al popolo cristiano, che nulla è più amabile più soave più salutare del pensiero, del nome, della memoria della Madre di Dio. Maria! Basta pronunziare questo nome perché palpiti ogni cuore, perché sorrida ogni labbro; perché ogni tristezza si dilegui, perché ogni petto si riempia di giubilo. Come, se dando luogo i nembi, la stella del mattino scintilla tremula nell’azzurro del firmamento, o come se dopo la pioggia si colori tra le nubi la variopinta gloria dell’iride; così dice Bernardo, tra le tenebre di questa terra sgombrano le nuvole, riede il sereno, chetano i turbini e fiorisce la pace, quando s’invoca Maria: Maria nella quale tutto innamora, il nome, il grado, la grazia, la gloria, la dignità. Tutto questo è verissimo e io mi glorio di predicarlo, né tacerò le glorie e le misericordie di tanta Madre, finché il cuore nel petto mi palpita, e si snoda alla parola la lingua. Con tutto ciò dilettissimi dopo avere detto Maria, provatevi a dire Cuore di Maria; voi sentite subito di avere detto qualche cosa di più caro, di più tenero, di più soave che dicendo semplicemente Maria. Accade a noi o Madre benedetta quando menzioniamo il tuo Cuore quello che ci accade quando menzioniamo il Cuore del tuo Figliuolo. Io dico Gesù, e il nome di Gesù è miele alle labbra, melodia alle orecchie, giubilo al cuore, ma se dopo avere detto Gesù passo innanzi e dico Cuore di Gesù, sento l’anima mia essere percossa di affetti insoliti verso il mio Redentore e me ne rendo questa ragione. Quando io dico Gesù mi si rappresenta al pensiero nella pienezza della sua magnificenza della sua potestà il Verbo incarnato. Lo vedo quindi non solamente uomo ma Dio, non solamente amico e fratello ma Pontefice e Re. non solamente Padre ma Giudice. Non così quando dico Cuore di Gesù. Il cuore è simbolo dell’amore, è sede dell’amore. è organo dell’amore. Chi dico cuore dice amore, chi vede il cuore vede l’amore, e quando nomino il Cuore di Gesù, sparisce il giudice, il re, l’onnipotente a cui ogni ginocchio si curva in Cielo ed in terra, e vedo solo l’amante delle anime, il Pastor buono, il vero padre ed amico dell’uman genere morto in croce per me. E anche in questo o Madre benedetta, voi vi rassomigliate al vostro Figliuolo. Io dico Maria, e nominandovi vedo Voi tutta quanta. Non vedo solamente la più amabile e misericordiosa creatura che abbia fatto il Signore, ma vedo ancora la augusta Regina della terra e del Cielo, l’innalzata al consorzio della Trinità sacrosanta, la piena e soprappiena di santità. E allora sento di amarvi, ma all’ amore si mesce la riverenza, e per alta ammirazione la mia fronte si curva davanti a Voi. Eppure noi abbiamo bisogno di accostarci a Maria con fidanza filiale. E però passiamo avanti e diciamo Cuore di Maria. Ed ecco alla menzione del cuore sparisce la grande, la regina, la sublime, la tutta santa, e altro più non vediamo fuorché la Madre piena di misericordia e di amore. Vengono quindi al dolce richiamo del tuo cuore vengono gli uomini al tuo cospetto o Maria e ti raccontano i loro dolori e ti partecipano le gioie, ti svelano le proprie miserie e ti chiedono le tue ricchezze, i nostri peccati, i nostri peccati medesimi non ci sgomentano vedendo il tuo cuore, e scuoprendoli a te, sentiamo rilevarsi l’anima e speriamo la misericordia e il perdono. E questo è il motivo perché in questi miseri tempi Maria ha svelato straordinariamente il suo cuore. Ha voluto alla nostra generazione pervertita dalla empietà offrire un’esca dolcissima e un porto di salute e di pace. E gli uomini hanno inteso quest’arte di amore, e veduto il Cuor di Maria come trovato avessero un centro di attrazione invincibile, a quello sono corsi e in quello hanno trovato vita, salute, grazia, ogni bene: e più facile sarebbe contare le stelle del cielo e le arene del mare che le misericordie e le grazie d’ogni maniera, che la devozione al suo cuore ha espugnato a Maria. No, quando si fa capo al suo cuore, Maria non resiste.

2. Ma entriamo alquanto più addentro e scandagliamo la ragione intima di tanta forza di attraimento che esercita sugli uomini il Cuore benedetto di Maria e la troveremo, per così dire, naturale nell’ordine soprannaturale della grazia. Mi aiuti Maria perchè il concetto della mente esprima adeguatamente la lingua. Uno degli spettacoli più misteriosi e più teneri che la natura appresene è l’amore dei figliuoli verso la madre, e viceversa l’amore della madre verso i figliuoli. Feri questo spettacolo la mente e gli occhi del divino Crisostomo, e lo espresse con viva eloquenza così. Mostra a un pargoletto lattante ancora e ignaro di tutto una regina coronata di gemme e vestita di oro dall’una parte, dall’altra mostragli la sua madre avvolta nei cenci e coperta di povertà e di squallore e vedrai. Nulla intende quel piccioletto nulla conosce, ma con tutto ciò non cura la regina, la sprezza, la sdegna, la risospinge, ma non così con la madre. Si ravviva tutto vedendola, brilla, sorride, e protendendo verso di essa coll’animo la persona, si scaglia e quasi si avventa per abbracciarla. Che è mai questa attrattiva, questo impeto e questa foga che rapisce quell’animo inconsapevole verso la madre? Che sia, non domandare che io non lo so, so che è cosa verissima e potentissima ed è un senso, un istinto ideato dalla mente divina e dalla divina mano inserito nell’anima, che stabilisce, corrobora, illegiadrisce le relazioni naturali tra figlio e madre, tra madre e figlio. Essendo così, qual luogo tiene Maria nell’ordine mirabile della redenzione e della grazia? Tiene il luogo di madre. Mirabil cosa Gesù Cristo è venuto in terra per stabilire tra gli uomini una famiglia collegata con i vincoli dell’amore e della fede, la quale in terra si inizi, e si consumi e perfezioni nel Cielo. In questa famiglia è un Padre ed è Dio, un primogenito ed è Gesù Cristo, fratelli moltissimi di ogni popolo, d’ogni tribù, di ogni lingua. Ma alla buona economia della casa è richiesto che ogni famiglia abbia una madre, che divida col padre l’autorità, che vegli con occhio amoroso la prole, e soprintenda agli uffici più intimi e più delicati di casa. Ora Dio non ha voluto che a questa gran famiglia della sua Chiesa una madre mancasse, ed ottima di tutte le madri le ha dato Maria. E Madre la saluta la Chiesa, e il vocabolo col quale ogni cristiano appella Maria è il dolce nome di Madre. Né questa è squisitezza o esagerazione mistica, ma verissima dottrina cattolica: e i Padri di tutti i secoli con consenso pienissimo insegnano che come Gesù Cristo è il nuovo Adamo miglior dell’antico, capo del genere umano rigenerato, così è Maria l’Eva novella madre per grazia di tutti quelli che Gesù Cristo rigenerò alla salute; e sono celebri i paralleli che tra Eva e Maria tessono Ireneo, Epifanio, Agostino e Bernardo. Voleva quindi ogni ragione che come nell’ordine della natura Dio inserisce nei figli un attraimento arcano verso la madre per cui anche il pargoletto inconsapevole la discerne tra mille e a lei corre e in lei si abbandona, così nell’ordine della grazia un affetto arcano, una propensione quasi istintiva fosse inserita verso Maria. E questo affetto, questa propensione, lo Spirito Santo medesimo inserisce nei petti cristiani sino da allora che nel santo Battesimo muoiono all’antico Adamo e rinascono al nuovo Adamo che è Gesù Cristo. In quelle acque sacrosante nelle quali veniamo rigenerati, insieme con la grazia santificante e con gli abiti delle virtù soprannaturali che ci si infondono, ci si infonde ancora l’abito dell’amore a Maria. E per negare che questo affetto ce lo troviamo quasi inserito nel cuore, bisogna chiudere gli occhi alla luce, bisogna negare quello che ci dice ragionando altamente nel nostro cuore l’intimo senso. Pigliate quel pargoletto e quella pargoletta che pendono ancora dal seno materno, mostrate loro la immagine di Maria. Vedrete un’arcana simpatia, una tenerezza, una propensione, un attraimento di quell’anima innocente verso la benedetta fra le donne. Insegnategli a giungere le tenere mani e a balbettare con labbro infantile Maria, e vedrete con quanta facilità con quanto diletto quel dolce nome si stampa in quella memoria e in quel cuore, e dal cuore viene sul labbro, e sarete costretti a dire che lo Spirito Santo diffuso nei loro cuori generi questo affetto, generato lo nutrisca, nutrito lo perfeziona. Quindi è che questo affetto, se il peccato e l’iniquità non lo spengono, insieme colla fede cresce con gli anni e ci appresenta quello spettacolo che tutto giorno e agli altri porgiamo noi stessi, e noi stessi ammiriamo negli altri. – Se ci stringe un pericolo, chi invochiamo per soccorso? Maria. Se ci rallegra una consolazione chi ringraziamo per gratitudine? Maria. Se un affanno ci preme, chi invochiamo per refrigerio? Maria. Se ci assedia una necessità a chi ci volgiamo per sovvenimento? A Maria. Si vede, o si vede e si tocca con mano in questa gran famiglia cristiana quello che si vede in ogni ben composta famiglia, e come in quella in ogni necessità, in ogni pena, in ogni consolazione i figli fanno capo alla madre e tratti quasi da una dolce necessità ne la chiamano a parte, cosi anche in questa. E come nella famiglia un figlio che non ama la madre, che la disconosce e le fa villania si ha in conto di mostro snaturato e maledetto dagli uomini e da Dio; così fra i cristiani quelli che non amano, che non curano, che hanno alieno e avverso l’animo da Maria, sono pochi perché sono mostri, e i mostri non sono mai un gran numero. Anche fra i Cristiani di vita prodigata e perduta troverete di rado alcuno che non serbi nel petto qualche scintilla di amore a Maria, e questo è pegno di salute e ancora di misericordia, e basta perché non se ne debba disperare la conversione. Ma se qualcuno se ne trova, o Dio, guai a lui; fa orrore, mette spavento appunto come un mostro, e fra i segni di riprovazione non ce n’è alcuno che sia più terribile di una non so quale alienazione e avversione di animo da Maria. Questa avversione questo allenamento si è sempre visto negli eresiarchi più atroci e più empì, e Lutero diceva, siccome è noto, tutta l’anima mia si ribella e non posso patire in pace che mi si dica che la mia speranza è Maria. Infelice, cui il demonio invasava il petto del veleno e dell’odio che lo consuma contro la sua nemica. Quest’odio vediamo rinnovellato ai dì nostri nei settari che si sono venduti alle congreghe d’inferno, e fanno guerra a Maria ne bestemmiano il nome, ne distruggono il culto e le immagini, anime reprobe e destinate all’inferno. Da questi infuori regna in tutti i cuori cattolici l’amore, la tenerezza e una propensione filiale verso Maria. Ma che dico solo tra i cattolici? Domandate donde trae suo principio la conversione degli eretici alla Chiesa cattolica e sentirete che il primo passo fu un pio affetto che sentirono nascersi in petto verso Maria. Interrogate il missionario che si aggira per le barbare spiagge dell’Australia e della Polinesia come fa ad attrarre a se quei barbari e di bestie farli uomini e di uomini cristiani? Sotto un padiglione di verzura adorna di veli e di fiori che dà il paese, campeggia una cara immagine di Maria. Il selvaggio dal folto dei macchioni e dal cupo degli antri dove si intana vede quella cara sembianza e si accosta, e attonito domanda chi sia quella matrona sì augusta e sì amabile? Ode che è la Madre di Dio, e tirato e vinto quasi da catena amorosa dal nome di Maria è condotto a Gesù Cristo e alla Chiesa. Non vi faccia meraviglia. L’anima, disse sapientemente Tertulliano, è naturalmente cristiana, e avendo col Cristianesimo proporzione sì grande, non può non avere propensione naturale verso chi è la Madre di Gesù Cristo e del Cristianesimo, delle membra e del capo. Ma se Maria è la Madre universale andate al suo cuore. La madre più che altro si governa col cuore, e se volete espugnarla ragionate poco e date opera di guadagnarle il cuore: guadagnato il cuore è già vinta. Maria è madre andiamo al suo cuore, preghiamola pel suo cuore, espugniamo il suo cuore: la impresa è facile, ed otterremo ogni cosa.

3. Ma Dio che tanto amore ha infuso e propensioni affettuose così mirabili nel cuore del popolo cristiano verso Maria, avrà poi lasciato imperfetta l’opera sua, e non avrà acceso una fiamma di amore corrispondente nel cuore di tanta Madre? Voi intendete bene che questa mia domanda significa questo. Se ci ama Maria, e il vostro cuore ha risposto a quest’ora, se ci ama Maria? E non è il medesimo dire Maria e dire la più tenera e amorosa di tutte le madri? Le opere di Dio sono perfette nell’ordine della natura, ma nell’ordine della grazia sono perfette infinitamente di più. Ora la natura con la sua mano innesta nel petto dei figli l’amore verso la madre, ma nel cuore delle madri inserisce un amore molto più veemente molto più tenero, molto più sviscerato e costante. Vedrete quindi moltissimi figli disamorati delle loro madri, ma madri che non amino i figli le troverete rarissime, e appena qualcuna che vi metterà come snaturata sdegno e ribrezzo. Ora volendo Dio dare in Maria al mondo una madre, inserì nel cuore degli uomini un grande amore di Lei, ma nel cuore di Lei accese verso di noi un amore che non ha paragone altro che coll’amore che per noi arde nel cuore di Gesù. E per questo affetto cominciò il signore l’opera sua fino da quando questa futura Madre di Dio e degli uomini fu concetta, e le collocò in petto un cuore somigliante a quello che da Lei preso avrebbe Gesù, perché Maria, dice sapientemente S. Efrem Siro, è un’opera fatta solamente pel Verbo incarnato, di forma tale che se il Verbo non si fosse dovuto incarnare Maria non sarebbe stata nel mondo introdotta. A questo cuore poi lavorato apposta per amare gli uomini, Gesù medesimo che creato lo aveva, dette con la sua mano stessa la perfezione e la tempera, e lo empié del suo amore medesimo e lo scaldò della sua medesima fiamma. E chi ne può dubitare? – Gesù prese carne dei sangui purissimi sgorgati dal Cuore di Maria, Gesù albergò nove mesi nel santuario verginale dell’utero di Maria, e quei due cuori palpitarono di un medesimo palpito e vissero di una medesima vita. Che faceva quei nove mesi che tenne compresso il claustro delle viscere materne, che dico il Cuore di Gesù? Ardeva di amore smisurato ed ineffabile verso i figliuoli degli uomini. Come dunque non doveva accendere il cuore di Maria del suo medesimo ardore e temperarlo alla fucina delle fiamme che consumavano il suo? Ma che sarà stato poi durante quei trentatré anni che Ella dimorò con Gesù pellegrina celeste sopra la terra? Ci dice il Vangelo che questa Verginella prudente teneva sempre gli occhi in quel modello divino e tutto esaminava notava tutto, e quello che Gesù faceva e quel che diceva, e le comunicazioni mirabili col Padre, e le predilezioni verso i figliuoli degli uomini, e le propensioni, e i desideri e gli affetti, e nulla le sfuggiva e faceva tesoro di tutto, e tutto conservava dentro al suo cuore e tutto ponderava, tutto pensava, tutto seco medesima conferiva con diligenza celeste. Conservàbat omnia verbo hæc in corde suo. (Luc. II, 51) Avete udito? Teneva assiduamente il suo cuore alla scuola del Cuore di Gesù e lo formava su quel modello divino con sollecitudine tenera, gelosa, assidua, squisita. Conservabat omnia, verbo, haec in corde suo. E che altro da quel Cuore poteva imparare il tuo cuore o Maria fuor che ad amare quantunque immeritevoli, quantunque ingrati i figliuoli degli uomini? Ma che fa mestiere procedere per argomenti a mostrare l’amore di Maria verso gli uomini? Basta aver occhi per vedere com’Ella tutti mirabilmente fornisce gli uffici di ottima madre. A che prove conoscete se una madre ama veramente i figliuoli? Alle opere. Vedete non vive altro che per la sua famiglia, altro non cerca, di altro non si briga, non pensa ad altro. Ora in ogni famiglia ben ordinata, chi guardi bene vedrà che essendoci una madre e un padre sono tra questo quasi domestico magistrato compartiti gli uffici. L’autorità paterna è un’autorità grave e robusta, la materna, amorosa e soave, il padre sopraintende ai negozi che escono fuori delle pareti domestiche, e regola le relazioni esterne della famiglia, la madre è una autorità casalinga a cui appartengono le cure tenui ed interne. Alle cure grandi e rilevanti attende il padre, la madre dà opera alle incombenze minute. Però la madre si tiene davanti da mane a sera la sua famigliola e vede tutto, tutto procura, nulla le sfugge. Al modo medesimo passano le cose in questa gran famiglia della Chiesa, dice Bernardo. Ci è Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro fratello e da loro scende ogni bene. Ma ci è anche una madre a cui appartiene il governo e l’economia domestica di questa famiglia ed essa è Maria. Si tiene Essa però davanti tutti i figli della santa Chiesa cattolica, e tutti ci vede, ci conosce tutti, tutti ci custodisce, tutti ci veglia, vede tutte le nostre necessità, indaga i bisogni e pensa e provvede. E questo povero figlio è peccatore, è peccatrice questa povera figlia: e questo è tribolato, quest’altra è afflitta: e quale è infermo e quale in pericolo: a questo tende insidie il demonio, quest’altro il mondo lusinga: questa sta per cedere a un seduttore, quell’altro incatenano i lacci di una occasione: vede Maria vede, il cuore materno s’intenerisce, l’amore la sollecita e non ha pace. Si volge al Figlio, si appresenta al trono della Trinità sacrosanta, e supplica e implora a questo la conversione, la salute a quell’altro, a chi la forza e la grazia, a chi la speranza, a chi la consolazione, a chi lo scampo e la vita, a chi la vittoria contro il maligno in vita e in morte. Però è sempre attorno pel Paradiso, e i santi Padri leggiadramente la chiamano del Paradiso la faccendiera, però come nella famiglia i figlioletti chiamano più la madre che il padre, così nella Chiesa cattolica si chiama Maria continuamente, Maria, Maria. Non udite? Maria si grida dal mare se minaccia procella, e se l’onda è tranquilla le si insegna a salutarla stella del mare: Maria si invoca dalla terra o volgono prosperi e felici i successi o corrono torbidi e avversi. Dai letti del dolore si chiama Maria, nelle angustie e nelle distrette Maria s’invoca. Ed Ella? Ed Ella come colei che tota suavis est ac piena misericordiæ, che tutta è soave e piena di misericordia, omnibus sese exorabilem, dice Bernardo, omnibus clementissimam præbet, omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur Con quel suo cuore buono, largo, benfatto, generoso, benefico, a tutti si porge esorabile, clementissima a tutti, e con amplissimo affetto s’intenerisce alle necessità di tutti. Però ogni tempio, ogni lido, ogni terra, ogni spiaggia è piena dei monumenti e dei voti che attestano, che cuore sia quello di Maria, e quei monumenti e quei voti gridano in loro linguaggio, Maria ha un cuore grande, tenero, gentile, benefico: chi fa capo a quel cuore non patisce ripulsa: omnium necessitatibus amplissimo quodam miseratur affectu.

4. E perché Maria fosse tale Dio volle esercitare e perfezionare col dolore il cuor suo immacolato, verginale, santissimo, innocentissimo. Avrete sentito dire che Maria dal momento che divenne Madre di Dio divenne madre ancor di dolore, e portò sempre infitta nel mezzo al cuore una spada. È verissimo e così fu, e così conveniva che fosse. Perché osservate. Una madre buona e degna di questo nome ama tutti egualmente i figliuoli suoi: non ha parzialità per nessuno: sono tutti frutti delle sue viscere, li ama tutti ad un modo. Ma se tra i figli alcuno ne sia pel quale sperimenti più tenerezza qual è? È quello per cui ha molto patito. Il cuore di ogni madre è fatto così, il dolore patito genera amore, e il figliuolo delle lacrime e del dolore è il figliuolo prediletto. Essendo così, Dio che ci ha dato per figli a Maria, e ha costituito Lei nostre madre perché tutti ci avesse in grado di prediletti ha voluto che tutti fossimo per Lei figli di dolore. Già fin da quando aperse le sue viscere al Verbo di Dio intese che quel figliuolo destinato ad essere vittima del genere umano sarebbe per lei figliuolo di lacrime: ma lo intese anche meglio poco di poi. Aveva appena da quaranta giorni partorito Gesù e madre fortunata e incomparabile portava al tempio il frutto delle sue viscere, quando torbido e rabbuffato le si fece incontro un vegliardo per nome Simeone e presole di tra le braccia il bambino, questo bambolo, esclamò, è posto in ruina e in resurrezione di molti, e in bersaglio di contradizione: e tu donna preparati perché per conto di lui una spada ti trapasserà il cuore da parte a parte. Intese allora Maria tutto il mistero e capì che quel figlio all’età di trentatré anni le morirebbe crocifisso. Povero cuore da quel giorno in poi non ebbe più lieta un’ora, e come Gesù dal presepio al calvario ebbe sempre nel cuore la croce, così tu o Maria avesti sempre nel cuore la spada. Cresceva Gesù, crescendo in età sempre diveniva più vezzoso, più giocondo, più bello, lo irraggiava la sapienza, lo infiorava la grazia, Dio e gli uomini si compiacevano in esso, le spose e le madri di Sion ti predicavano beata, e tu tacevi: ma chi ti avesse letto nel cuore avrebbe letto le parole della desolata Noemi: non mi chiamate felice ma amara perché il Signore mi ha ripiena di amaritudine: e il significato di queste parole si sarebbe inteso quel giorno che ti sarebbe conferito il grado di Madre degli uomini. Orsù dilettissimi, rispondete: quando e dove Maria veramente ci partorì e diventò madre nostra? Nel gran giorno del dolore là sul Calvario. Stabat iuxta crucem Jesu Mater ejus (Ioan. XIX, 25.) Pendeva Gesù dalla croce sanguinolento olocausto: ai piedi della croce stava Maria. Presso Maria, rappresentante nostro, stava Giovanni. Maria trambasciava di dolore, Gesù la vide, e additandole Giovanni le disse: ecco il tuo figliuolo, e a Giovanni: ecco la madre tua. Allora divenne Maria madre nostra, e in Giovanni tutti quanti ci accettò per figliuoli, e Gesù consumò l’opera gettandole in petto una parte di quella fiamma che nel suo Cuore allora ardeva per noi. Coraggio o carissimi, coraggio: Maria ci ama, siamo suoi figli e non figli in qualunque modo, ma figli del suo dolore, e però prediletti, e quando ci vede ricordandosi quel che ha patito s’intenerisce, il suo cuore non regge più e dimentica tutto e solo sente le voci dell’amore. Tutta la terra è piena delle misericordie di Maria verso i figliuoli degli uomini che si cantano in ogni lingua, si magnificano da ogni labbro. Come mai in tal Regina tanto amore verso una generazione scortese, ingrata, villana? Non vi stupite gli uomini sono figliuoli del suo dolore. Nessuno dunque abbia temenza di accostarsi a Maria. Ogni temenza sarebbe irragionevole. Andate pure e sappiate che quando un figliuolo la supplica, il cuor suo non resiste. Guardatela ha il cuore in mano e par che vi dica son io sì, son io, son vostra madre, accostatevi e vedrete che cuore è questo.

5. E però è che la santa Chiesa tutti invita, tutti sprona a rifuggire al Cuor di Maria: ma di preferenza appresenta quel cuore ai peccatori, che pei peccatori sembra che sia aperto principalmente in questi tempi novissimi, onde la devozione al Cuore di Maria è ordinata principalmente alla conversione dei peccatori. Intendo, intendo. Datemi una madre tenera, sviscerata quanto volete dei suoi figliuoli, datemela a vostro talento imparziale verso tutti i frutti delle sue viscere: vedrete con tutto ciò, che se uno dei suoi figliuoli o le cade infermo e il morbo si aggrava, o geme prigioniero, o vaga tribolato e ramingo sembra che questa madre muti natura. Non sembra più imparziale né eguale con tutti i figli: sembra invece che dimentichi tutti gli altri, che non li curi: tutte le sollecitudini sembrano essere pel figliuolo che tribola e che patisce, sembra che in lui si concentri tutto l’affetto. La vedete quindi o assisa di dì e di notte alla sponda del letto molcere le angosce e alleviare i dolori del caro infermo, o sollecita di sapere le novelle del prigioniero diletto, e dell’amato ramingo, di altro non favella se parla, ad altro non pensa se tace, non ode volentieri che si parli di altri fuorché di loro. Sono tribolati, hanno ragioni sovrane sul cuor materno. Ora chi sono in questa gran famiglia che Dio ha dato a Maria i poveri peccatori? Sono figli prigionieri, sono figli raminghi, son figli infermi. Infermi della pessima malattia del peccato, raminghi ed esuli dalla casa del Padre, prigionieri del diavolo già condannati all’inferno. Li vede Maria e ne sa la miseria incomparabile, e il suo Cuore materno si strugge e si consuma di dolore e di amore. Poveri figli non sanno quello che fanno, sono ciechi, sono travolti da infelicissimo errore: si perdono e non intendono il loro male. Ah! il Cuor di Maria non ha pace, grida mercé al suo Figlio, li cerca, li scuote, li sollecita, li invita, li alletta, e con tenere voci da mane a sera li chiama, e poiché non ascoltano si volge ai figli fedeli, e voi, dice, voi aiutatemi, se mi amate, aggiungete la vostra voce alla mia, e uniti insieme riconduciamo al Padre questi profughi sconsigliati e cari. Peccatori, sentite a quando a quando quelle voci al cuore, quelle grida della coscienza lacerata, quegli impeti, quegli impulsi a tornare al Padre? Sono le voci di Maria che vi chiama, ah! se avete cuore umano nel petto consolate il dolore e rasserenate il cuore di questa Madre. Su rispondete, parlate. Quem fructum habuistis in quibus nunc erubescitis? (Rom. VI, 21.) Vi è messo conto a partirvi dalla casa del Padre? A mettervi per le vie tribolate dell’iniquità? A cambiare il giogo di Gesù colla catena del diavolo? O cari anni della vostra innocenza! O giorni felici della coscienza serena! Allora passavano i dì tranquilli, allora correvano placide e dolci le notti, allora guardavate il cielo con lieto sembiante, allora invocavate con dolce affetto i nomi di Gesù e Maria, il presente era giocondo, non vi atterriva il futuro, la pace del cuore si dipingeva nell’occhio sereno e nel volto. E ora? E ora non ci è più pace. Torbidi i giorni, tetre le notti, la coscienza s’indraga siccome un serpe, pochi momenti di ubriaca voluttà e poi tempesta e fremito nel cuore, e il tumulto e la rabbia del cuore vi si dipinge negli occhi torvi, nel volto arroncigliato, nelle parole rabbiose, nei modi protervi. Su dunque sorgete, poveri assetati di pace, tornate al Padre. Ma vi manca la lena, il giogo del peccato vi grava verso la terra, vi stringe i piedi la catena inveterata di satana. Ecco vi si apre in buon punto il Cuor di Maria. Alzate gli occhi: guardate quella benedetta sembianza, contemplate quegli occhi, quel cuore, quel dolce atto d’invito e poi non confidate se vi riesce. O sì, sì confidiamo, confidiamo tutti o Maria. Il tuo nome infonde fiducia, rincuora la tua sembianza, ma se contempliamo il tuo Cuore, forza è che ci diamo per vinti, perché esercita un’attrattiva che ci trascina. Trahe nos dunque trahe nos Maria … Mostraci, mostraci cotesto Cuore. In odorem curremus unguentorium tuorum, (Cant. IV, 10.) correremo all’odore dei tuoi profumi, e riconciliati con Dio e salvi con Te e per Te, cominceremo nel tempo e continueremo nella eternità a cantare o clemens, o pia, o dulcis virgo Maria.

 

CONOSCERE SAN PAOLO (2)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J.: La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (2)

III. LA VIA DI DAMASCO.

1. APPARIZIONE DEL CRISTO. — 2. ORIENTAMENTO TEOLOGICO.

1. Il martirio di Stefano non aveva fatto altro che stimolare di più la sua sete di sangue cristiano. Non contento di assistere al supplizio delle vittime, penetrava nelle case, ne strappava gli abitanti, uomini e donne, per trascinarli nelle prigioni. Ben presto, per mancanza di vittime, la persecuzione si estingueva a Gerusalemme, e Saulo dovette portare altrove la sua rabbia insaziata. Egli supplicò il sommo sacerdote (Era forse ancora Caifa, deposto nel 36) perché lo investisse di una missione ufficiale per cercare, nelle sinagoghe di Damasco, i discepoli occulti di Gesù e per condurli incatenati al Sinedrio. Qui lo attendeva il dito di Dio. – Essendo la conversione di San Paolo, dopo la risurrezione del Salvatore, il miracolo meglio affermato, il più ribelle a qualunque spiegazione naturale e perciò il più incomodo al libero pensiero, non bisogna stupirsi che la critica razionalistica abbia fatto sforzi disperati per attenuarne la forza dimostrativa. Come per la risurrezione di Gesù Cristo, si è tentato di mettere in disaccordo le testimonianze. Nel Libro degli Atti vi sono tre narrazioni della visione di Damasco; una è fatta da San Luca per conto suo (Act. IX, 1-13), e le altre due sono messe in bocca di San Paolo (Act. XXII, 3-21; XXVI, 12-20). Come tutti ammettono, le tre narrazioni concordano su tutti i punti di qualche importanza: l’occasione, il luogo, l’ora dell’accaduto, la luce abbagliante che improvvisamente avvolse la carovana, il dialogo tra Paolo prostrato a terra e la voce misteriosa, la sua cecità temporanea, il suo battesimo, la sua guarigione, l’orientamento affatto nuovo che ad un tratto fece di un persecutore un Apostolo. Si vanno scrutando, per trovarci contradizioni, i particolari più insignificanti, certe minuzie che si avrebbe vergogna di rilevare in una storia profana, circostanze estranee al fatto in sé e riguardanti soltanto le impressioni provate dai compagni dell’attore principale, le quali sono necessariamente soggettive e forse diverse. Il più curioso è il trovare tali obbiezioni proprio in quei critici i quali suppongono che l’autore abbia composto i discorsi degli Atti per metterli d’accordo col suo racconto! Bisognerebbe almeno scegliere tra due mezzi di opposizione che si escludono a vicenda; poiché o San Luca compose egli stesso i discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi, e allora non è il caso di parlare di antilogie né di contradizioni; oppure egli li ha inseriti nel suo racconto, a titolo di documenti, nonostante le differenze che potevano offrire con la sua narrazione, e allora bisogna riconoscere e lodare altamente i suoi scrupoli di storico. – Si nega il miracolo dell’apparizione, senza prendersi la pena di spiegare questo altro miracolo di ordine morale, ancora più inesplicabile se si nega il primo, cioè la conversione di Paolo. Tutta la vita dell’Apostolo, la serietà del suo fariseismo, la fermezza incrollabile della sua fede cristiana, protestano contro qualunque sistema che voglia fare di lui un allucinato, un esaltato. Protestano con non minore forza i suoi scritti (I Cor. IX, 1; I Cor. XV, 8; Gal. I, 15). Nella sua conversione non vi sono tappe, non vi è una marcia graduale verso la fede: Gesù Cristo lo ha preso d’improvviso nella sua corsa. Il colpo che lo atterrò fu un colpo fulmineo, irresistibile; non vi fu nulla che lo presagisse e che lo preparasse, ma fu puramente effetto della grazia onnipotente. Supponete forse che avesse prima relazioni con i cristiani! Egli li conosceva soltanto come il carnefice conosce le sue vittime. Egli della loro dottrina non sapeva nulla, eccetto questo: che era incompatibile con la Legge di Mose, inconciliabile con il giudaismo, perciò odiosa e degna di sterminio; questo gli bastava e non cercava di saperne di più. Direte forse che avesse qualche esitazione, qualche ansietà, qualche rimorso? Egli stesso vi risponde che non sentiva nessun turbamento, nessuna inquietudine, che credeva sinceramente di servire Dio, che era in buona fede e che alla sua ignoranza deve l’aver ottenuto misericordia. Dinanzi a tali affermazioni precise, le ipotesi faticosamente accatastate dai critici razionalisti non possono reggersi. Per sopprimere un miracolo, si fabbrica un miracolo psicologico ancora più meraviglioso: è meglio non cercare di spiegare ciò che è inesplicabile. – Certamente la grazia incontrava nella ricca natura di Paolo un terreno propizio e germi preziosi. Le forti convinzioni al servizio della passione si possono più facilmente volgere al bene, che non lo scetticismo armato d’indifferenza. Dio entra più facilmente nei cuori e nelle menti che non hanno peccato contro la luce. Il bisogno innato di giustizia e il profondo sentimento della sua impotenza inclinavano spontaneamente quell’anima verso la dottrina cristiana dove queste due tendenze dovevano trovare soddisfazione e riposo.

2. L’apparizione di Damasco esercitò su la teologia dì San Paolo un’influenza molteplice di cui conviene qui notare alcuni tratti. Una delle teorie più ardite e più originali dell’Apostolo è l’incorporazione al Cristo, in virtù della quale il Cristo è tutto in tutti, e tutti sono una cosa sola con lui. Ma questa teoria non è già contenuta in germe in quella domanda di Gesù: « Saulo, perché mi perseguiti? ». Paolo non assaliva direttamente la persona di Gesù Cristo: dunque vi è tra Gesù e i suoi un’identità misteriosa, se nel colpire i discepoli si colpisce il Maestro. – Nella conversione di Paolo, l’opera della grazia è tangibile, il cambiamento è improvviso: è un lampo che abbaglia, è l’adesione rapida alla chiamata divina di una volontà che quasi non ha coscienza di avere acconsentito. Chi ha conosciuto una simile crisi, ha il sentimento più preciso, l’intuizione più viva, che tutto l’onore di quel cambiamento viene da Dio; egli si figura l’operazione della grazia come fulminante, la fede come un atto di obbedienza, libero sì, ma che fatto una volta vi getta ad un tratto in un nuovo mondo di diritti e di doveri, di obblighi e di privilegi. È appunto la fede dell’Epistola ai Galati e dell’Epistola ai Romani, quella fede attiva in cui il cuore ha la stessa parte della mente, quella fede che mette in rivoluzione tutto l’essere, invade tutte le potenze dell’anima e in un istante orizzonta tutta la vita. – Finalmente il Cristo intraveduto lascia nella memoria di Paolo un ideale indimenticabile: da quel momento il suo sguardo resta immobilmente fisso sul modello impareggiabile. Egli aspira e vuole che si aspiri alla misura, alla pienezza del Cristo; non sarà possibile mai neppure avvicinarlesi, ma che importa? bisogna tendervi sempre. La morale di Paolo è tutta imbevuta di quel ricordo vivente e invece di proporci l’esempio di Gesù nella sua vita mortale, c’invita a imitare il Cristo risuscitato e glorioso. – Sarebbe troppo però il far derivare tutta la teologia di San Paolo dal fatto della sua conversione, sia pure fecondata dall’esperienza religiosa. La visione di Damasco è la più chiara e la più intima delle rivelazioni, ma è soltanto la prima, e l’esperienza religiosa può trarre da un fatto soltanto quello che esso contiene realmente. La fede cristiana non si riduce a un’impressione soggettiva, e i nostri dogmi non sono i prodotti arbitrari e relativi della coscienza individuale: l’attenuare fino a tal segno il compito della rivelazione è cosa contraria alla verità e alla formale testimonianza dell’Apostolo, come vedremo dai fatti.

IV. RIVELAZIONE PROGRESSIVA.

1. LA SERIE DELLE RIVELAZIONI. — 2. ELABORAZIONE DELL’ELEMENTO DIVINO. — 3. SENSO E DIREZIONE DEL PROGRESSO.

1. Né la natura né la grazia non procedono a salti, perciò l’educazione di Paolo, come quella degli altri Apostoli, non si doveva compiere in un giorno. Se il suo principio fu segnato da una crisi subitanea, lo sviluppo ulteriore ebbe un corso normale e progressivo; se la visione di Damasco fu l’esca di una sintesi teologica, la sintesi stessa sarà il frutto di una rivelazione lenta e continua. La voce gli aveva detto: « Alzati, entra in città: là ti sarà indicato ciò che devi fare (Act. IX, 6) ». Anania fu per quella volta il canale delle comunicazioni celesti. Dopo il Battesimo, il neofito si ritira nel deserto dell’Arabia, sia per meditare la rivelazione ricevuta, sia per disporre l’anima sua a nuove illustrazioni celesti. La voce gli parla ancora, tre anni dopo, nel Tempio di Gerusalemme (Act. XXII, 18). Il cielo s’incarica sempre d’illuminarlo e di condurlo: per rivelazione, va a perorare presso gli Apostoli la causa dei Gentili (Gal. II, 2); lo Spirito di Dio gli proibisce di predicare in Asia (act. XVI, 6), gli chiude le frontiere della Bitinia (Act. XVI, 7) e lo spinge irresistibilmente in Macedonia (ivi, 9, 10); lo incoraggia e lo consola a Corinto, dopo la disdetta di Atene (Act. XVIII, 9); lo riconduce per forza a Gerusalemme, nonostante la prospettiva di una lunga prigionia (Act. XX, 22); poi, quando ogni speranza di vedere Roma sembra perduta, gliene ripete l’assicurazione (Act. XXIII, 11). Insomma, la Provvidenza lo conduce sempre quasi per mano. Essa mostra la stessa sollecitudine così per istruirlo come per guidarlo; ma l’illuminazione divina saggiamente graduata, si scopre soltanto a poco a poco: « Io ti sono apparso, gli è detto la prima volta, per costituirti ministro e testimonio delle cose che tu hai vedute e di quelle che ti manifesterò ancora (Act. XXVI, 16) ». Sono visioni innumerevoli di cui Paolo avrebbe diritto di essere orgoglioso, se non preferisse gloriarsi della sua debolezza la quale dà maggior gloria al suo Maestro; visioni sublimi di cui piacque al Signore temprare l’eccesso e smorzare lo splendore con dare alla sua carne un pungiglione, messaggero importuno di Satana (II Cor. XII, 1). Oh! Perché non ci è dato di riprodurre tutta la serie di tali illustrazioni celesti? L’Apostolo fa allusione una volta a un rapimento al terzo cielo ove intese parole ineffabili che all’uomo non è possibile né permesso proferire (II Cor. XII, 4). Quella grande estasi che lasciò in Paolo un’impressione duratura, ma di cui non riuscì mai a spiegarsi il modo, coincide presso a poco con gli inizi del suo apostolato effettivo. Era forse una preparazione immediata alle missioni tra i Gentili e una visione più intima della verità che stava per predicare a loro? Non lo sappiamo: ma il fatto è che egli costantemente rivendica alla sua predicazione un’autorità e un’origine divina. « Vi dichiaro, scrive ai Galati, che il Vangelo annunziato da me non è secondo l’uomo. Difatti io non l’ho né ricevuto né imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal. I, 11-12) ». Il valore di questa dichiarazione dipende un poco dal senso che si dà a ciò che San Paolo chiama il suo vangelo. Quando egli afferma di aver esposto ai fedeli di Gerusalemme e, in particolare, ai suoi colleghi nell’apostolato il vangelo da lui predicato ai Gentili, dice che essi non vi trovarono nulla da riprendere né da completare (Gal. II, 2), intende forse parlare di tutta la catechesi cristiana, compreso il ciclo dei dogmi elementari, il compendio della morale, la simbolica dei sacramenti con il racconto sommario della vita e della morte di Gesù? Non ci sembra probabile, perché c’erano troppi punti comuni affatto fuori di questione. Paolo intende certamente per suo vangelo la forma che prendeva il messaggio della salute passando dal giudaismo alla gentilità, la forma caratteristica della sua predicazione in mezzo ai Pagani. Sarebbe dunque in prima linea l’eguaglianza degli uomini nel disegno della redenzione, l’ammissione dei Gentili nella Chiesa alla pari con gli Ebrei, l’abolizione della Legge mosaica, la libertà che ne deriva per tutti, specialmente per i cristiani venuti dal paganesimo, la giustificazione degli uomini per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge, l’incorporazione dei fedeli al Cristo per mezzo del Battesimo, l’unione di tutti in Lui, la comunione dei santi che ne è il corollario, insomma tutte le proprietà del Corpo mistico del Cristo. – Quando ai Romani rivolge l’augurio di essere confermati nel « suo vangelo », Paolo identifica questo vangelo col Mistero, prima nascosto ed allora svelato (Rom. XVI, 25), mistero di cui le Epistole della prigionia ci spiegano il segreto e ci danno la definizione. L’Apostolo riferirebbe dunque alla rivelazione immediata di Gesù Cristo soltanto quei punti particolari della sua predicazione, per i quali i giudaizzanti lo accusano di predicare un vangelo diverso da quello dei Dodici. È vero che la dottrina del corpo mistico ha molte ramificazioni, e può essere che l’istituzione dell’Eucaristia, l’indissolubilità del matrimonio e il destino dei giusti nel giorno della parusia, riguardo le quali Paolo sembra che rivendichi a sé una rivelazione speciale, ne derivino in linea retta. Egli stesso indica chiaramente il rapporto che vi è tra la comunione dei fedeli con il corpo del Salvatore e la loro unione nel corpo mistico: « Noi siamo uno stesso pane, uno stesso corpo, perché tutti noi comunichiamo con uno stesso pane (I Cor. X, 17) ». Poco dopo afferma che ha « ricevuto dal Signore quello che alla sua volta (I Cor. XI, 23) ha trasmesso » ai neofiti di Corinto, cioè il fatto e il modo dell’istituzione dell’Eucaristia. Ora non ci sembra possibile che si debba intendere questo ricevere per un ricevere mediante intermediari, poiché in tal caso Paolo non differirebbe per nulla dall’ultimo dei credenti; bisogna dunque che Gesù Cristo gli abbia comunicato direttamente questo mistero. Per gli altri due punti indicati sopra, sarebbe permesso il dubbio. Quando l’Apostolo dice: « Ordino alle persone coniugate — non io ma il Signore — che la donna non si separi dal marito e il marito non mandi via sua moglie (I Cor. VII, 10-11) », egli può alludere al precetto del Salvatore, scritto nel Vangelo; tuttavia il senso mistico del vincolo coniugale che figura l’unione del Cristo con la Chiesa (Ef. V, 32), depone in favore di una rivelazione immediata. In quanto alla dichiarazione fatta ai Tessalonicesi « su la parola del Signore (I Tess. IV, 15) », riguardo alla sorte dei giusti che vedranno il giorno della parusia, può essere che si tratti di una parola pronunziata da Gesù durante la sua vita mortale e trasmessa per tradizione, benché tale ipotesi non sia molto verisimile. Anche qui noi incliniamo ad ammettere una rivelazione diretta, tanto più che la risurrezione dei giusti e la glorificazione dei viventi dipendono intimamente, per San Paolo, dalla teoria del corpo mistico. – Occorre andare più innanzi e riferire alla stessa fonte divina tutto ciò che l’Apostolo ha predicato, anche quello che facilmente poteva apprendere da intermediari, come la vita, i miracoli, i discorsi di Gesù? A noi non sembra; in tal caso Paolo sarebbe stato molto più favorito che i suoi colleghi nell’apostolato, che dovettero apprendere, dal racconto di altri, molti fatti di cui non erano stati testimoni oculari. La Provvidenza che non fa mai nulla d’inutile, anche nel miracolo pratica una certa economia di mezzi. Certamente, secondo la saggia osservazione di Estio, al Signore non sarebbe costato di più l’insegnargli in un istante tutte le verità della fede cristiana, che il convertirlo miracolosamente; tuttavia Dio volle servirsi del ministero di Anania,, affinché nessuno disprezzi il magistero umano, vedendo il Dottore delle Genti catechizzato da un uomo: in questo non vi è nulla di contrario alle pretese di Paolo. « Egli ha ricevuto tutti gli elementi della fede, come gli altri catecumeni, al momento del suo battesimo; ma il Cristo si riserva d’insegnargli egli stesso i misteri più profondi del Cristianesimo ».

2. L’azione della luce divina sull’intelligenza dell’uomo non è meno misteriosa che l’azione della grazia su la sua volontà. Come si distinguomo le verità infuse dalle cognizioni acquisite naturalmente? Di dove viene al profeta la certezza che ha inteso Dio e che ne annunzia esattamente il messaggio? Non sapremmo dirlo e appena possiamo concepirlo. Come osserva San Tommaso seguendo Sant’Agostino, i profeti dell’Antico Testamento erano illuminati ordinariamente da emblemi o da simboli di cui una luce interiore spiegava loro il significato; il loro linguaggio colorito, immaginoso, pieno di allegorie e di parabole ha conservato la traccia indelebile di quella maniera di rivelazione. In San Paolo non vi è nulla di simile: la sua mente riceve direttamente e riflette come uno specchio il raggio divino; egli comprende per intuizione il disegno della redenzione; penetra l’essenza e la ragione di essere del gran Mistero. Se talora le sue rivelazioni sembrano rivestire una forma sensibile, se si rappresenta la Chiesa come un corpo di un organismo perfetto, o come un albero che cresce indefinitamente, o come un tempio che lancia verso il cielo le sue linee armoniche, si vede subito che tali immagini non hanno né rilievo né costanza, che si mescolano e si confondono, che la fantasia non riesce a ricostruirle, che sono reminiscenze dell’Antico Testamento e che, ben lungi dal restare nella mente di Paolo allo stato di visione, sono invece lo sforzo di un’idea che si vuol rendere concreta. Quello che più volentieri l’Apostolo augura ai suoi discepoli, è l’intelligenza chiara della verità, e quando rivendica a sé la comprensione dei misteri, egli esprime con la parola più esatta l’azione di Dio sopra di lui. – Non già che un avvenimento provvidenziale non favorisca lo schiudersi della rivelazione, o che la ragione non intervenga alla sua volta per fecondarla: la mente di Paolo non era né passiva né inerte. L’esagerata accondiscendenza di Pietro gli fece comprendere il pericolo della conservazione della Legge nelle chiese miste; le pretese dei giudaizzanti gli fecero afferrare, meglio e prima che agli altri, il principio e le conseguenze dell’eguaglianza cristiana; la negazione e il dubbio erano spesso l’urto in cui si accendeva la luce soprannaturale. Insomma, quello che distingue le sue rivelazioni è il carattere individuale e l’opportunità. La questione presente, non occorre dirlo, non ha nessun senso per i teologi razionalisti i quali sopprimono le rivelazioni di fatto, se anche le mantengono di nome. Gli uni, infeudati al panteismo di Hegel, fanno evolvere le idee di Paolo da movimenti continui e da soprassalti insensibili. Essendo tutto l’essere contenuto nelle sue cause prossime, il progresso non è altro che il risultato del conflitto di due elementi contrari ridotti all’unità da un principio superiore. Chiunque si sforza di ricostruire la teologia di Paolo su questi dati hegeliani, la cerca tutta quanta nei suoi elementi preesistenti, cioè nell’ellenismo greco, nel giudaismo rabbinico, nella mescolanza di entrambi in dosi più o meno disuguali, senza tuttavia negare che questo fondo primitivo non si sia potuto arricchire con l’analisi del suo contenuto o con un procedimento dialettico. Perciò Paolo altro non sarebbe che un idealista, un sognatore ozioso il quale passa la sua vita nel mettere insieme concetti e nel fabbricare sistemi: precisamente il rovescio dell’uomo ispirato e pratico che ci è mostrato dalle sue meravigliose Epistole. – Il tempo però ha fatto giustizia di queste fantasie che non reggono alla prova dei fatti. Presentemente i teologi razionalisti, imbevuti di kantismo, predicano più volentieri il procedimento psicologico. La dottrina di Paolo, dicono essi, « non è una teologia speculativa, dedotta logicamente da un’idea generale, ma una teologia veramente positiva il cui punto di partenza è la reltà interiore della fede ». Con la fede, e soprattutto con l’amore, Paolo s’identifica con il Cristo. « Egli è divenuto membro del Cristo; è posseduto da lui; ha la sicurezza invincibile che il Cristo è non solo la causa, ma l’autore sempre attivo della sua vita spirituale e del suo pensiero ». Quello che prova nella sua vita personale, « l’Apostolo lo ritrova e lo indica come una legge nella storia dell’umanità ». Riassumendo, « il pensiero di Paolo ha sempre seguito la sua esperienza religiosa e non l’ha mai preceduta. Nato nella sfera della vita individuale, il suo pensiero si è elevato, per via di generalizzazione, alla sfera sociale e storica; e siccome tendeva con uno sforzo incessante verso l’unità e gli ultimi principi, è arrivato finalmente a svolgersi nella sfera metafisica… Le vedute storiche dell’Apostolo nascevano dalla sua antropologia; le sue idee speculative, dalla sua costruzione della storia, e tutti questi sviluppi insieme erano nella sua fede primitiva, come la pianta è nel germe che la produce (De Sabatier)». Andando a fondo in queste metafore, si trova questo: Paolo dà un corpo ai suoi sentimenti, generalizza la sua esperienza, rende oggettiva l’idea che egli si fa del Cristo. Su che cosa poggi questa idea, a che cosa risponda questo sentimento, che cosa valga questa esperienza, poco importa: la teologia di Paolo si riduce a un’impressione soggettiva. – Tutti questi inventori di teorie oltrepassano apertamente i limiti delle loro attribuzioni. Il compito dei teologi non è quello di sostituire se stessi all’Apostolo né d’immaginare quello che egli doveva dire o quello che essi avrebbero detto al posto suo, né di cercare per quale via egli sia giunto alla sua concezione del mondo soprannaturale, supponendo che egli si muova nel dominio dell’irreale e del chimerico. Se vi è una cosa certa, è che Paolo non è né hegeliano né kantiano: bisogna dunque prenderlo come è, e non sarebbe possibile riconoscerlo nelle ricostruzioni laboriose e arbitrarie del suo pensiero. Quali anatemi non avrebbe fulminato contro questi interpreti indegni dell’opera sua, egli che scriveva ai Galati. « Il mio Vangelo non l’ho ricevuto da un uomo né imparato dagli uomini, ma per rivelazione di Nostro Signor Gesù Cristo! ».

3. Noi concepiamo ben diversamente il progresso del vangelo di Paolo. Esso non è né un sentimento che si rende oggettivo né un’idea che si sviluppa con l’analisi; l’impulso viene di fuori, dall’ispirazione divina che si adatta agli avvenimenti esteriori. Non dimentichiamo che l’Apostolo non scrisse un’esposizione sistematica delle sue dottrine, non tenne il diario delle sue rivelazioni, ma tutte le sue Epistole sono lavori di polemica o lettere di direzione, scritte secondo che richiedevano le circostanze speciali; che se esse spiegano la sua predicazione, la suppongono sempre e perciò rispecchiano le difficoltà in cui veniva a incontrarsi la diffusione della fede, e di lavorio interno che accompagnò lo sviluppo del Cristianesimo. Il progresso che esse manifestano, è dunque parallelo allo stesso progresso della vita della Chiesa primitiva; ed è questo appunto che ne costituisce per noi la maggiore importanza. – Al momento della loro conversione, i neofiti davano un assenso incondizionato alla predicazione apostolica. Essi ricevevano la parola di Paolo non come una parola umana, ma come la parola di Dio, quale era realmente e nella sua origine e nel suo oggetto. A nessuno veniva in mente di discutere il suo insegnamento, e fa stupire il vedere con quanta facilità le popolazioni pagane accettavano il monoteismo; la morale cristiana s’imponeva subito per l’evidenza della sua perfezione; il compito del Redentore non pare che abbia sollevato nessuna seria obbiezione. Ma l’esposizione drammatica della fine del mondo colpiva le fantasie e commoveva i cuori e talora lasciava un certo turbamento nelle menti. Molti credevano di essere prossimi all’ora suprema, si preparavano all’imminente venuta del Giudice, speculavano sui relativi vantaggi dei morti e dei viventi; parecchi arrivavano al punto di trascurare le cure delle cose terrene, divenute insignificanti in confronto con gli imminenti interessi eterni. – Le lettere ai Tessalonicesi attestano appunto queste vive apprensioni, e siccome esse sono il solo documento che ci resti di quel tempo, potremmo essere tentati di credere, con un’illusione di prospettiva assai naturale, che la catechesi apostolica fosse soltanto un’escatologia, invece di essere un breve compendio del dogma e della morale. Ma perché l’articolo che riguardava la fine del mondo aveva fatto su gli uditori un’impressione così forte, l’Apostolo, nei suoi primi scritti, è obbligato a ritornare mille volte su l’argomento della parusia. Forse in seguito si regolò in modo da evitare la ripetizione di simili malintesi. Quel periodo di fede semplice di fiducia assoluta non poteva durare sempre. La questione delle osservanze legali che era stata messa avanti al primo momento della predicazione di Gesù e che aveva precipitato la rottura tra lui e i farisei, doveva per molto tempo essere il problema vitale della Chiesa nascente. Il compromesso conchiuso a Gerusalemme non aveva soddisfatto i giudaizzanti; la controversia di Antiochia, risortasi col trionfo delle idee di Paolo, non li sconcertò affatto. L’Apostolo li incontrava dappertutto sui suoi passi: in Galazia, a Corinto, a Efeso, come ad Antiochia e a Gerusalemme. Non appena egli aveva fondato una cristianità, essi si affrettavano a seguire le sue piste e ad opporgli una missione contraria; le sole chiese della Macedonia sembrano essere sfuggite alla loro propaganda sfrenata. Per combattere efficacemente il Vangelo di Paolo, essi osavano prendersela contro di lui, contestare il suo apostolato, abbassarlo molto sotto i Dodici, lasciandogli soltanto quel compito secondario che non si rifiutava agli apostoli di second’ordine, a un Apollo o ad un Barnaba. Per un anno intero Paolo ebbe da lottare contro quegli sleali avversari; ma non dobbiamo dolerci di questo, perché le sue quattro Epistole maggiori sono il frutto di quella lotta. Se in esse occupa una gran parte la polemica, non poteva essere altrimenti; tuttavia l’Apostolo mantiene la controversia molto più in alto che le meschine questioni personali; egli risale alla fonte della grazia e all’origine del peccato; analizza la natura della giustificazione e il valore della fede; studia l’impotenza della Legge e la necessità di una redenzione comune a tutti: egli sta su le più alte cime dei principi da cui risolve, per via di corollari, i più oscuri problemi. Ma questo è soltanto uno degli aspetti della sua dottrina durante quella fase del suo insegnamento. Mentre le mene dei giudaizzanti lo obbligavano a dilucidare l’armonia dei due Testamenti e la subordinazione dell’antica economia al Vangelo, sorgevano nella Chiesa molti dubbi teorici e pratici su diversi punti della catechesi primitiva. La prima Epistola ai Corinzi ci dà un’idea dei numerosi casi di coscienza che l’Apostolo doveva spesso risolvere, o a voce o per iscritto, per spiegare e completare la sua predicazione, e si può tenere per certo che il trattamento dei cristiani scandalosi, il ricorso ai tribunali pagani, la questione delle vittime sacrificate agli idoli, il velo delle donne, la celebrazione dell’agape e dell’Eucaristia, l’uso dei carismi, il dogma della risurrezione, il modo di organizzare le collette, non sono le sole questioni che egli risolve nelle nascenti cristianità. – Incominciava appena a calmarsi la controversia dei giudaizzanti, quando una nuova eresia sorse a minacciare la purezza del Vangelo. La fede prendeva contatto con la scienza profana, e già si era pronunziata la parola filosofia; ma non si trattava della filosofia greca, sempre un po’ razionale anche nei suoi errori; si trattava invece di una teosofia orientale assai più pericolosa, perché di contorni meno precisi e perciò meno facile a confutarsi. Soprattutto la persona e il compito del Cristo preoccupavano le menti; si voleva sapere che cosa Egli era prima della sua apparizione su la terra; quali rapporti lo univano a Dio, al mondo, all’umanità; qual era il suo grado in mezzo a quelle legioni di esseri soprannaturali, mediatori tra Dio e l’uomo, di cui le fantasie orientali popolavano i cieli. Nelle sue Epistole della prigionia, Paolo non solo sodisfa a quei desideri di sapere e di comprendere, ma innalza il Cristo a tale altezza, che a Lui non si può più paragonare nulla; lo mette nel seno stesso di Dio, come fa Giovanni del sue Logos, in modo da formare con Dio un’unità indivisibile. Poi, prendendo da questo occasione per meglio spiegare le funzioni del Cristo nell’ordine della salute, lo presenta come la fonte universale della grazia, come il principio dell’unione tra tutti i fedeli, e completa così la teoria del corpo mistico già abbozzata prima. Nuove parole, o adoperate in un significato affatto nuove soprascienza, mistero, pleroma, capo della Chiesa – provano quella muova corrente di idee che ha la sua espressione più completa nella formula In Christo Jesu. – Parecchi critici dei nostri giorni mettono in dubbio l’autenticità delle Pastorali, perché in esse non trovano verificata la legge del progresso quale è da essi concepita: « Con l’Epistola ai Filippesi, essi dicono, si ferma il progresso vivente; con le lettere pastorali incomincia la tradizione conservatrice ». Ma questo appunto non corrisponde forse alle condizioni delle cose? Paolo che vede avvicinarsi la sua fine, sente il bisogno di organizzare le chiese da cui la morte lo separerà, e di difenderle contro l’invasione di dottrine estranee: egli non pensa più a creare, ma a conservare, e la sua parola d’ordine sarà d’ora innanzi: « Custodite il deposito della fede e della tradizione ». Egli ha combattuto la buona battaglia ha finito la sua corsa; non attende più altro che la corona incorruttibile dell’apostolato e del martirio.