UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI A-CATTOLICI ED APOSTATI DI TORNO: INTER PRÆCIPUAS MACHINATIONES DI S. S. GREGORIO XVI

 

“ …ripudiata la parola di Dio, quale risuona nella Tradizione, e, respinta l’autorità della Chiesa Cattolica, cercano di manomettere il testo delle Scritture o di travisarne il senso nell’esposizione”. Questo è il ritratto del finto Cattolico, e nel contempo il nocciolo, lo zoccolo duro della Lettera Enciclica di Gregorio XVI con la quale si condannano tutte le edizioni bibliche e le ignobili traduzioni in lingua volgare che in ogni tempo sono state e vengono fatte ancor più oggi, con rinnovato ardore, da singoli, associazioni e sette di ogni risma che tentano di seminare la zizzania nei pascoli verdi della Scrittura Sacra, la cui autenticità è garantita unicamente dall’Autorità della Chiesa Cattolica, l’unica depositaria della Parola di Dio contenuta nella Scrittura, e l’unica autorizzata divinamente a darne la corretta interpretazione, sulla testimonianza dei Padri e Dottori della Chiesa, e Teologi Scolastici. – Questo avveniva all’epoca del Santo Padre Gregorio XVI, ma ancora oggi vediamo, a parte i somari [senza offesa per gli umili equini] che ciclicamente si propongono come fantasiosi e strampalati “esperti” di lingue antiche e di ritrovamenti cavernosi dell’ultima ora (attualmente pure in Italia ci sono diversi improvvisati soggetti, senz’arte né parte, sbandierati dai media e “lanciati” nell’agone dalle logge e dalle conventicole tenebrose), e soprattutto la nuova setta modernista-ecumenica degli usurpatori del Vaticano II, fusa in una lega sempre più stretta con i protestanti eretici e scismatici luterani, anglicani, calvinisti, gnostici massoni, etc. nella compilazione di pseudo-bibbie “interreligiose ed ecumeniche”, commentate da cani e porci [… senza offesa per canini e suini] in talare, in clergy-man o in giacca e cravatta, in cui gli errori più grossolani adombrano e contrastano verità e dogmi di fede rivelata e conosciuta, spronando gli incauti lettori ad ogni libera interpretazione, tanto libera da non coincidere mai con l’autentica tradizione Cattolica del Magistero Pontificio e dei Padri e Dottori riconosciuti della Chiesa, con danno mortale per un numero incalcolabile di anime. Questa setta infame, gestita a nome di coloro che odiano Dio, il suo Cristo e tutti gli uomini, e “garantita” da clown e “spaventapasseri” biancovestiti, specchietto per le allodole di quanti credono di essere Cristiani pur aderendo alla sfacciata apostasia modernista, si è arrogata il diritto, usurpandolo indebitamente e truffaldinamente, di interpretazione e modifica dei testi sacri [ultimamente persino l’evangelico Pater noster!!), per non dispiacere gli scellerati fratelli (… loro tutti figli di satana) separati … a chiacchiere, e cioè gli apostati, gli eretici e gli scismatici e giungere così ad un’unica anti-religione mondialista con a capo l’angelo sprofondato nel lago di fuoco, il lucifero-baphomet delle logge massoniche, oggi in versione “light” sugli altari del Novus ordo. Allora rileggiamoci questa bella Enciclica e facciamola nostra per respingere, senza oziose ed inutili discussioni etero-ecumeniche, tutte le indebite e strampalate bufale [… senza offesa per i poveri bovini] che ci propinano gli apostati a-cattolici novusordisti, fratellastri falsi-sacerdotisti, tesisti e sedevacantisti falsi-tradizionalisti in auge: … Inter præcipuas  machinationes, quibus nostra hac ætate acatholici diversorum nominum insidiari cultoribus catholicæveritatis

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Inter præcipuas machinationes

di S. S. Gregorio XVI

Fra le più sottili scaltrezze con le quali ai nostri giorni gli acattolici di diverse denominazioni tendono insidie ai cultori della verità cattolica, cercando di allontanare gli animi dalla purezza della Fede, non occupano l’ultimo posto le Società Bibliche le quali, istituite in Inghilterra e poi ampiamente diffuse ovunque, vediamo concordemente impegnate a tradurre in tutte le lingue volgari i libri delle divine Scritture, diffondendone un gran numero di esemplari, senza alcun discernimento, fra i Cristiani e gl’Infedeli, invitandoli alla lettura senza alcuna guida. In questo modo, come già ai suoi tempi lamentava Girolamo , vogliono rendere accessibile agli uomini di qualsiasi condizione, anche “alla garrula vecchietta, al vecchio ormai delirante, al verboso sofista e a tutti“, purché sappiano leggere, l’arte di comprendere le Scritture, senza la guida di un maestro: anzi (quello che è addirittura assurdo, anzi inaudito) non escludono da questa comprensione neppure le popolazioni degli infedeli. – Certamente non vi sfugge, Venerabili Fratelli, dove vogliono arrivare gli sforzi di quelle Società. Infatti, ben conoscete l’ammonimento di Pietro, Principe degli Apostoli, il quale, dopo aver lodato le epistole di San Paolo, afferma che “in esse ci sono alcune cose difficili da comprendere; gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari di altre Scritture, procurandosi la rovina“. Ma subito aggiunge: “Fratelli, essendo stati preavvertiti, state in guardia per non venire meno nella vostra fermezza, travolti anche voi dagli errori degli empi” (2Pt III,16.17). Voi conoscete pure l’arte che fin dalla prima epoca del nome Cristiano fu propria degli eretici: Neppure ignorate quanta diligenza e quanta sapienza siano necessarie nel tradurre fedelmente in altra lingua le parole del Signore; onde nulla di più facile che, o per ignoranza, o per frode di tanti interpreti, s’insinuino gravissimi errori nelle innumerevoli versioni delle Società Bibliche: errori che per la loro moltitudine e varietà restano nascosti a lungo, a danno di molti. A queste Società Bibliche non importa un gran che se coloro che leggono la Bibbia nelle diverse traduzioni cadono in diversi errori, purché a poco a poco acquistino l’abitudine d’interpretare il senso delle Scritture secondo il proprio giudizio, disprezzando le divine tradizioni custodite nella Chiesa Cattolica secondo l’insegnamento dei Padri, anzi rigettando lo stesso magistero ecclesiastico. – Per raggiungere tale scopo, questi diffusori della Bibbia non cessano di calunniare la Santa Chiesa e questa Sede di Pietro accusandole, nel corso di tanti secoli, di essersi adoperate per tenere il popolo fedele lontano dalla conoscenza delle sacre Scritture, quando, anzi, esistono tanti chiarissimi documenti di un’impegnativa sollecitudine con la quale, anche nei tempi a noi più vicini, i Sommi Pontefici (e sotto la loro guida altri Vescovi cattolici) si sono sforzati affinché le loro popolazioni cattoliche fossero accuratamente istruite nella Parola di Dio, sia scritta, sia viva nella tradizione. A questo si riferiscono in primo luogo i decreti del Concilio di Trento nei quali non solo fu prescritto che i Vescovi curino che nelle loro diocesi si illustrino con maggior frequenza “le Sacre Scritture e la Legge divina” , ma, ampliando le istituzioni del Concilio Lateranense , fu inoltre provveduto che in tutte le Chiese cattedrali e in quelle Collegiate delle città e dei più insigni paesi non mancasse la Prebenda Teologale e questa venisse conferita esclusivamente a persone capaci di spiegare ed esporre la Sacra Scrittura. Di questa Prebenda Teologale, da istituirsi secondo le norme espresse dal Tridentino e da svolgersi secondo pubbliche lezioni che il Canonico Teologo deve leggere pubblicamente al Clero e anche al Popolo, hanno trattato diversi Sinodi Provinciali, nonché il Concilio Romano del 1725, nel quale Benedetto XIII di felice memoria, Nostro Predecessore, aveva convocato non solo i Prelati della Provincia di Roma, ma anche molti Arcivescovi, Vescovi e altri Ordinarii immediatamente soggetti a questa Santa Sede . A tal fine quel Sommo Pontefice indirizzò Lettere Apostoliche nominative per l’Italia e per le Isole adiacenti . Infine, voi, Venerabili Fratelli, che siete soliti ragguagliare la Sede Apostolica, nei tempi stabiliti, su quanto concerne la situazione delle vostre Diocesi, dalle risposte date ripetutamente ai vostri Predecessori o a voi stessi da parte della Nostra Congregazione del Concilio, conoscete bene in qual modo questa Santa Sede sia solita congratularsi con i Vescovi quando i loro Teologi Prebendati adempiono con lode l’ufficio di leggere pubblicamente le Sacre Scritture, né mai cessa di sollecitare e aiutare le loro cure pastorali, anche se talvolta l’iniziativa non ebbe il successo auspicato. – Del resto, per quanto riguarda la Bibbia tradotta in diverse lingue volgari, già da secoli i sacri Prelati di vari paesi furono talvolta costretti a più attenta vigilanza o perché quelle versioni si leggevano in segrete adunanze, oppure venivano dispendiosamente diffuse dagli eretici. A questo si riferivano gli ammonimenti e le cautele di Innocenzo III, Nostro Predecessore di gloriosa memoria, a proposito delle adunanze miste di uomini e di donne che si svolgevano in segreto nella Diocesi di Metz , sotto il velo della pietà, con il pretesto di leggere le Sacre Scritture; si aggiungano poi le proibizioni delle Bibbie in lingua volgare che non molto tempo dopo si ebbero in Francia e, prima del secolo XVI, anche in Spagna . Ma fu necessario un più ampio provvedimento quando gli acattolici Luterani e Calvinisti osarono contestare la dottrina immutabile della Fede con un’incredibile varietà di errori; quando nulla lasciarono d’intentato per ingannare le menti dei fedeli con perverse interpretazioni delle Sacre Scritture pubblicate per i loro seguaci nella lingua del popolo. Per moltiplicare gli esemplari e diffonderli rapidamente, si avvalsero dell’arte tipografica da poco inventata. Pertanto, nelle regole scritte dai Padri del Concilio Tridentino a ciò delegati, approvate da Pio IV di felice memoria, Nostro Predecessore e premesse all’Indice dei libri proibiti, con disposizione generale fu stabilito che la Bibbia nella lingua volgare non venisse permessa se non a coloro ai quali la lettura potesse recare qualche “profitto della fede e della pietà” . A questa regola, temperata poi di nuove cautele per il perseverare degli attacchi degli eretici, l’autorità di Benedetto XIV aggiunse una dichiarazione che permette la lettura nelle versioni popolari soltanto nelle “edizioni approvate dalla Sede Apostolica” o recanti “annotazioni desunte dai Santi Padri della Chiesa o da dotti uomini cattolici” . – Frattanto non mancarono nuovi settari della scuola di Giansenio che, secondo lo stile dei Luterani e dei Calvinisti, osarono condannare questa prudentissima disposizione della Chiesa e della Sede Apostolica, come se la lettura delle Scritture fosse utile e necessaria in tutti i luoghi e in tutti i tempi a qualsiasi categoria di fedeli: quindi non poteva essere proibita da nessuna autorità. Ma due Sommi Pontefici di recente memoria, Clemente XI nella Costituzione Unigenitus del 1713 e Pio VI nella Costituzione Auctorem Fidei del 1794 con solenne censura condannarono l’audacia dei Giansenisti, con il plauso di tutto l’Orbe cattolico. – Così dunque, prima che sorgessero le Società Bibliche i fedeli della Chiesa venivano da tempo ammoniti con i sopraddetti Decreti contro le frodi degli eretici, nascoste nello specioso pretesto di voler diffondere le Lettere divine ad uso comune. Anche Pio VII, Nostro Predecessore di recente gloria, che vide crescere con grande vigore quelle Società, non si astenne dall’opporsi ai loro sforzi sia tramite i suoi Nunzi Apostolici, sia per mezzo di Lettere e di Decreti emanati da varie Congregazioni di Cardinali della Santa Romana Chiesa, sia con due proprie Lettere Pontificie spedite agli Arcivescovi di Gnesna e di Mohilow. Successivamente Leone XII di felice memoria, Nostro Predecessore, condannò i propositi delle Società Bibliche con l’Enciclica indirizzata a tutti i Vescovi del mondo cattolico il 5 maggio 1824, e lo stesso fece l’ultimo Nostro Predecessore di felice memoria, Pio VIII, con l’Enciclica 24 maggio 1829. Noi poi, che siamo succeduti nel seggio di quest’ultimo con meriti molto impari, non abbiamo omesso di volgere la Nostra Apostolica sollecitudine al medesimo scopo, e fra le altre cose Ci siamo preoccupati che si ravvivassero nella mente dei fedeli le regole già stabilite intorno alle traduzioni delle Scritture . – Dobbiamo quindi congratularci vivamente con voi, Venerabili Fratelli, che, spinti dalla pietà e dalla prudenza e rassicurati dalle suddette Lettere dei Nostri Predecessori, quando è stato necessario non avete mai trascurato di ammonire le pecore cattoliche contro le insidie che venivano tramate dalle Società Bibliche. Per la diligenza dei Vescovi uniti con l’impegno di questa Sede di Pietro, con la benedizione del Signore è avvenuto che alcuni uomini cattolici, che favorivano imprudentemente le Società Bibliche, conosciuta la frode se ne ritrassero, e così rimase salvo il rimanente popolo dei fedeli dal contagio che lo sovrastava. – Questi Settari Biblici erano affascinati dalla speranza di poter conseguire altissima lode nell’indurre gl’Infedeli a professare il nome Cristiano attraverso la lettura dei Sacri Codici editi nella loro lingua; si preoccupavano che i libri venissero distribuiti in grande quantità di esemplari dai loro missionari, o piuttosto emissari, in tutte le regioni, anche a coloro che non li volevano. Ma a questi uomini che si adoperavano di propagare il nome Cristiano al di fuori delle regole stabilite dallo stesso Cristo, non derivò alcun frutto, se non che poterono creare talvolta nuovi impedimenti ai Sacerdoti Cattolici i quali, recatisi a quelle popolazioni dopo averne ricevuto il mandato da questa Santa Sede, non risparmiavano fatiche predicando la parola di Dio, amministrando i Sacramenti, rigenerando nuovi figli alla Chiesa, pronti anche per la salvezza di questi e per testimoniare la Fede a versare perfino il sangue fra i più efferati tormenti. – Frattanto fra questi Settari, delusi nelle loro aspettative e dolenti nel dover riconoscere di aver erogato tanto denaro nello stampare le loro Bibbie e di averle diffuse senza alcun frutto, recentemente si trovarono alcuni che con nuovo orientamento si disposero ad aggredire gli animi degli Italiani e persino dei cittadini della Nostra stessa Roma. Infatti, da notizie e documenti ricevuti ora, abbiamo saputo che nello scorso anno molti uomini di diverse Sette sono convenuti a New York, in America, e il 12 giugno hanno fondato una nuova Società denominata Alleanza Cristiana con l’intento di ampliarla e di accrescerla con membri di ogni nazione, costituendo Sodalizi a suo sostegno, con il comune proposito d’infondere nel cuore dei Romani e degli Italiani la libertà religiosa o, meglio, una stolta indifferenza in fatto di religione. Confessano che le istituzioni di Roma e d’Italia nel lungo corso dei secoli hanno acquistato ovunque tanto prestigio, che nulla si è realizzato di grande in tutto il mondo che non abbia avuto principio da questa Alma Urbe. Tutto questo non sarebbe derivato dal supremo seggio di Pietro, qui stabilito per disposizione divina, ma da alcuni resti dell’antico dominio dei Romani usurpato, come dicono, dal potere dei Nostri Predecessori. Risoluti quindi a voler donare a tutti i popoli la libertà di coscienza (o piuttosto dell’errore), fonte, come essi proclamano, di libertà politica ed incremento di pubblica prosperità, sembra loro di non poter far nulla se prima non riescono ad affermarsi presso gli Italiani e i Romani, per poi usare della loro autorità e del loro prestigio presso gli altri popoli. Essi confidano di raggiungere facilmente l’intento. Essendo molti gli Italiani sparsi nelle varie terre, e molti anche quelli che ritornano in patria, essi sperano di allettarne tanti che, già inclinati ad accettare le novità, possono essere indotti dalla miseria o dai loro inquinati costumi ad iscriversi a questa Società o a vendere la propria opera per denaro. Essi rivolsero dunque le loro cure a diffondere a mezzo di tali operai le Bibbie in volgare e corrotte, mettendole di soppiatto nelle mani dei fedeli; inoltre, cercano di propagare assieme ad esse altri pessimi libri, onde alienare le menti dei lettori dall’ossequio alla Chiesa ed a questa Santa Sede: opere composte anche da Italiani o tradotte nella patria lingua, fra le quali la Storia della Riforma scritta da Merle d’Aubigné e Le memorie sopra la Riforma presso gl’Italiani di Giovanni Cric. D’altra parte, per quanto si riferisce al genere di libri, lo si comprende dal fatto che a norma dello Statuto della Società è prescritto che alle particolari assemblee deputate alla scelta dei libri non possano partecipare due membri di una medesima setta religiosa. – Appena giunsero a Nostra conoscenza queste cose, non potemmo non rattristarci profondamente in considerazione del pericolo che sovrasta l’integrità della Nostra santissima Religione da parte di questi Settari non soltanto in luoghi lontani dall’Urbe, ma presso lo stesso centro dell’unità cattolica. E sebbene non sia da temere che venga meno la Cattedra di Pietro, nella quale da Cristo Signore fu piantato l’inespugnabile fondamento della Sua Chiesa, tuttavia non Ci è permesso desistere dal difenderne l’autorità; l’ufficio stesso del supremo Apostolato Ci ammonisce che dovremo rendere strettissimo conto al divino Principe dei Pastori della zizzania che cresce nel campo del Signore se il nemico la seminerà quando il sonno Ci coglieva, o per il sangue delle pecore affidate alla Nostra sollecitudine che dovessero perire per colpa Nostra. – Pertanto, radunati a consiglio alcuni Cardinali di Santa Romana Chiesa, dopo aver esaminato la cosa nella sua gravità, siamo arrivati alla decisione, anche con il loro consenso, d’inviare a tutti voi, Venerabili Fratelli, questa Lettera con la quale condanniamo nuovamente con la Nostra Apostolica autorità le sopraddette Società Bibliche, già proscritte dai Nostri Predecessori, e con sentenza particolare del Nostro Supremo Apostolato riproviamo e condanniamo nominativamente la suddetta nuova Società dell’Alleanza Cristiana, istituita lo scorso anno a New York, e altre associazioni dello stesso genere se mai fossero già unite ad essa o stessero per unirsi. Quindi sia noto ad ognuno che tutti coloro che osassero aderire a qualcuna di tali Società, o prestare ad esse la propria opera e favorirle in qualsiasi maniera, si renderebbero colpevoli di un gravissimo crimine davanti a Dio e alla Chiesa. Confermiamo inoltre e rinnoviamo con l’Autorità Apostolica le sopraddette prescrizioni già promulgate circa il produrre, divulgare, leggere e trattenere i libri della Sacra Scrittura tradotti in lingua volgare. Quanto alle altre opere di qualunque scrittore, richiamiamo alla mente che si debbono osservare le regole generali e i decreti dei Nostri Predecessori premessi all’Indice dei libri proibiti; inoltre ci si deve guardare non solo dai libri registrati nell’Indice stesso, ma anche da tutti gli altri dei quali si tratta nelle ricordate prescrizioni generali. – E a voi, Venerabili Fratelli, che siete chiamati a condividere la Nostra sollecitudine, caldamente raccomandiamo nel Signore che, secondo l’opportunità dei luoghi e dei tempi, annunziate e spieghiate alle popolazioni soggette alle vostre cure pastorali questo giudizio Apostolico e queste Nostre prescrizioni, e che vi adoperiate per allontanare i fedeli della predetta società dell’Alleanza Cristiana e dalle altre che la sostengono, nonché da tutte le Società Bibliche e da qualsiasi rapporto con esse. A norma di questa Lettera sarà pure vostro dovere togliere dalle mani dei fedeli sia le Bibbie tradotte in lingua volgare che furono pubblicate contro i decreti dei Pontefici Romani, sia pure tutti gli altri libri proibiti o perniciosi; dovrete provvedere a che i fedeli, attraverso i vostri ammonimenti e la vostra autorità, “imparino a distinguere i pascoli salutari da quelli nocivi e mortiferi” . Frattanto insistete ogni giorno di più, Venerabili Fratelli, nel predicare la parola di Dio direttamente voi stessi e per mezzo di coloro che hanno cura d’anime nelle vostre Diocesi, come pure per mezzo di altri Ecclesiastici idonei a questo ministero; controllate con molta attenzione specialmente quelli che sono destinati a tenere pubbliche lezioni di Sacra Scrittura affinché adempiano con diligenza il loro ufficio secondo la capacità d’intendere degli uditori; né ardiscano mai, sotto qualsiasi pretesto, d’interpretare e di spiegare le Sacre Scritture contro la tradizione dei Padri o diversamente dal pensiero della Chiesa Cattolica. – Infine, come è del buon Pastore non solo nutrire e difendere le pecore che gli sono vicine, ma anche rintracciare e ricondurre all’ovile quelle che si dispersero lontano, così sarà Vostro e Nostro dovere mettere in atto tutta la forza dello zelo pastorale, affinché tutti coloro che si lasciarono sedurre dai Settari e dai propagatori di libri cattivi giungano a conoscere la gravità del loro peccato e studino di espiarlo con una salutare penitenza; e neppure avvenga che la vostra sacerdotale sollecitudine respinga quei seduttori e maestri di empietà, poiché sebbene la loro responsabilità sia maggiore, non dobbiamo astenerci dal promuovere con tutti i mezzi e in tutti i modi la loro salvezza. – Quanto al resto, Venerabili Fratelli, contro gli agguati e i raggiri degli associati all’Alleanza Cristiana chiediamo una particolare e più attiva vigilanza da parte di coloro, fra voi, che reggono le Chiese situate in Italia o nei luoghi dove gl’Italiani si trovano più spesso, specialmente ai confini d’Italia e dovunque esistono mercati e porti dove c’è maggior movimento verso l’Italia. Poiché i Settari sono decisi a mandare ad effetto i loro disegni, è necessario che con indefessa e costante premura i Vescovi di quelle località lavorino per dissipare con l’aiuto di Dio le loro macchinazioni. – Non dubitiamo che queste Nostre e Vostre preoccupazioni troveranno aiuto nel Potere civile e specialmente presso i Principi più potenti d’Italia, sia per il loro grande desiderio di conservare la Religione Cattolica, sia perché non sfugge alla loro prudenza quanto importi, nell’interesse dello Stato, che questi tentativi dei Settari vadano a vuoto. È infatti comprovato dall’esperienza dei tempi passati che nulla spiana meglio la via alla rivolta del popoli contro l’autorità dei Principi, quanto quella indifferenza in fatto di Religione che i Settari vanno propagando sotto il nome di libertà religiosa. Ciò non nascondono quei nuovi membri del sodalizio Fraternità Cristiana i quali, pur dichiarandosi alieni dal suscitare rivoluzioni civili, tuttavia confessano che dal rivendicato arbitrio popolare di interpretare le Scritture e dalla libertà di coscienza diffusa in tal modo fra gl’Italiani parimenti sorgerà spontaneamente in Italia la libertà politica. – Ma prima di tutto e sopra tutto leviamo insieme le mani a Dio, Venerabili Fratelli, e a Lui raccomandiamo con tutta l’umiltà possibile delle nostre fervide preghiere la causa Nostra, di tutto il gregge e della Sua Chiesa, interponendo anche la devotissima preghiera di Pietro, Principe degli Apostoli, degli altri Santi e specialmente della Beatissima Vergine Maria, a cui fu dato di estirpare tutte le eresie nel mondo intero. – Infine, come pegno della Nostra ardentissima carità, a voi tutti, Venerabili Fratelli, agli Ecclesiastici ed ai Laici fedeli affidati alla vostra cura, con tutta l’effusione del Nostro cuore impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 maggio 1844, nell’anno decimoquarto del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DI AVVENTO (2018)

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII:1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio  
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV:1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

OMELIA I

 [Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia VII; Torino 1899]

“Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto nei dispensatori si richiede che ciascuno sia trovato fedele. Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano; anzi neppur io giudico me stesso. Perché in coscienza io non mi sento colpevole di cosa alcuna, ma non per questo sono giustificato. Colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore, che metterà in luce le cose nascoste nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, ed allora ciascuno avrà, la sua lode da Dio „ (I. Cor. IV, 1-5). Sono questi i primi cinque versetti del capo quarto della prima lettera di S. Paolo ai Corinti, che si legge nella Messa di questa Domenica. I fedeli della Chiesa di Corinto, che S. Paolo aveva fondato, erano sossopra per molte cause, come apparisce dalla stessa lettera. Non fate le meraviglie, o cari, che vi fossero dei disordini anche nella primitiva Chiesa: dove sono uomini ivi sono anche le debolezze e le passioni umane. La causa principale dei dissidi della Chiesa di Corinto era il parteggiare che facevano quei fedeli, chi per l’uno e chi per l’altro. Viveva in Corinto un certo Apollo, sacerdote d’ingegno, di molta eloquenza e virtuoso. Alcuni dicevano: Noi stiamo con Apollo; ed altri rispondevano: E noi stiamo con Paolo; ed altri protestavano di seguire Pietro; ed altri infine, quasi a troncare ogni questione, dichiaravano d’essere discepoli di Gesù Cristo. Erano gare deplorevoli, che dividevano gli animi e che non è raro vedere anche ai giorni nostri. Spesso noi vediamo certi fedeli, anche buoni e pii, che, scambiando le persone con la religione, si legano a quelle più che alla religione stessa: seguono l’uomo più che Gesù Cristo, il ministro più che Colui, del quale il ministro non è che ministro. – L’Apostolo per togliere quel disordine, parla del giudizio che si deve fare dei ministri di Dio. L’argomento riguarda noi sacerdoti e voi, laici, e si raccomanda assai alla nostra attenzione. – “Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Dio. „ A Corinto, come or ora vi dicevo, vi era un grave dissidio tra i fedeli, per il diverso apprezzamento che si faceva dei sacri ministri, parteggiando chi per questo e chi per quello. Voi, o Corinti, diceva l’Apostolo, siete divisi a cagione di noi, ministri di Cristo. Ma in nome del cielo, come dovete voi giudicarci? Unicamente per quello che siamo. Considerate in noi, non l’ingegno, non la scienza, non l’eloquenza, non le altre doti naturali, ma solamente l’ufficio e il potere, che teniamo di ministri di Cristo e di dispensatori dei misteri di Dio. Con la parola dispensatori dei misteri di Dio, S. Paolo significa i misteri della fede, le verità sovraumane del Vangelo, o i Sacramenti, fonti della grazia, e più probabilmente l’una e l’altra cosa insieme. Qui ci si porge un grande ammaestramento, che vuolsi attentamente considerare. Assunti all’altissimo onore di annunziarvi le eterne verità, uscite dalla bocca di Gesù Cristo, e di dispensare i santi Sacramenti, mezzi infallibili della grazia divina, nella virtù e nella santità della vita noi dobbiamo camminare innanzi a voi, o fedeli, e rendere rispettabile e venerando l’ufficio che esercitiamo. È nostro dovere, e guai a noi, se veniamo meno; sarà terribile il giudizio che ci attende. Che se per nostra grande sventura nella nostra condotta non rispondiamo all’altezza dell’ufficio che teniamo, voi, o cari, non dovete mai dimenticare, che noi siamo pur sempre ministri di Gesù Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Un liquore prezioso è sempre prezioso, sia che lo teniate chiuso in un vaso di cristallo o in un vaso d’oro, e un diamante è sempre diamante, sia desso legato in oro finissimo o in vile metallo. Quali che siano le nostre doti di mente e di cuore; siamo buoni o cattivi, assai istruiti o poco istruiti, voi dovete sempre ricordare, che siamo ministri di Cristo, e che i nostri difetti e le nostre colpe non possono né togliere, né diminuire la nostra dignità, perché veramente non è nostra, ma di Gesù Cristo. Al di sopra delle nostre povere persone dovete fissare gli occhi in Colui che ci manda e al quale si deve onore, tutto l’onore nei suoi rappresentanti, anche più indegni. Sublime, divina è la nostra dignità; ma noi non siamo Angeli; siamo fratelli vostri, soggetti come voi alle stesse passioni, e se col manto della carità dovete coprir tutti indistintamente, dovete compatire pur noi, perché noi pure ne abbiamo bisogno e siamo fratelli vostri. È verità che facilmente si dimentica dai laici e che li dovrebbe rendere più giusti, più caritatevoli verso dei sacerdoti erranti. È un fatto, che non so spiegare a me stesso: in generale si compatiscono con grande facilità i falli dei laici, e somma è la severità che si usa con i Sacerdoti. Lo comprendo, o fratelli: i falli nostri sono assai più gravi dei vostri: ma è pur vero altresì che maggiore è la necessità che noi abbiamo della carità vostra. Come potremo noi con frutto esercitare il nostro ministero se voi senza pietà gettate in pasto ad un pubblico, avido di scandali, le nostre colpe? Se non noi, il ben pubblico esige che maggiore sia la carità vostra col Clero. E fossero almeno sempre vere le colpe che ci si appongono! Quante volte sono a studio ingrandite, anzi inventate per disonorarci! E poi chi non vede un’altra ingiustizia, che si commette sì spesso contro il Clero? Un prete sarà caduto in una colpa, se volete, gravissima: che si fa? che si dice? Subito si grida: “Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi!” La colpa di uno diventa colpa di tutti. Non è questa una imperdonabile ingiustizia? Pecca un prete, hanno peccato tutti i preti! E perché non si adopera la stessa misura con i laici, con ogni altro ceto di persone? E se la colpa d’un uomo di Chiesa la si vuole colpa di tutti gli uomini di Chiesa, perché non si tiene la stessa regola col bene ch’essi fanno? Perché se un prete, un religioso compie un’opera buona e generosa non si dice egualmente: Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi? Ah! il male che si fa da un prete o da un religioso è male di tutto il clero, il bene poi è solo di colui che lo fa! E questa è giustizia? – Del resto, soggiunge S. Paolo, nel dispensatore dei beni altrui, che cosa si richiede? Una cosa sopratutto si richiede e basta, ed è che sia fedele, cioè adempia fedelmente i voleri del padrone. Questa è la sostanza. Dunque, dice S. Paolo, anche in noi, ministri di Cristo, badate a questo, cioè se adempiamo il nostro dovere, annunziando la parola di Dio, dispensando i Sacramenti, visitando gli infermi e compiendo tutti gli altri uffici del ministero: tutto il resto a voi poco importa. Voi avete il diritto di esigere che il sacerdote sia fedele nel suo ufficio verso di voi; quanto al resto non è cosa che vi riguardi, né avete diritto di occuparvene. S. Paolo procede e conferma la stessa verità. – “Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano. „ Voi fate differenza tra ministro e ministro, e questo preferite a quello: di ciò non mi curo, e non mi curo dei vostri giudizi favorevoli o sfavorevoli, o di qualsiasi tribunale terreno. L’Apostolo scrisse, non tribunale terreno, ma “giorno umano”, alludendo al giorno del Signore per eccellenza, che è il giorno del giudizio finale. Continua l’Apostolo: “Sì poco mi curo dei giudizi umani, che non mi do pensiero nemmeno di giudicare me stesso. “Neque meipsum judico”. Quale linguaggio degno dell’Apostolo delle genti! Egli non cura le lodi, né teme i biasimi del mondo: non giudica delle sue doti, delle sue intenzioni; intende ad una sola cosa, ad adempire cioè il ministero ricevuto da Gesù Cristo. Ecco il modello perfetto del sacerdote, che, quando occorra, deve sfidare le ire dei tristi, disprezzare le loro lodi e una sola cosa aver sempre dinanzi agli occhi, l’adempimento del proprio dovere. “Perché in coscienza non mi sento colpevole di cosa alcuna. „ Non mi curo, non mi do pensiero, nemmeno di giudicare me stesso, “perché la coscienza, così l’Apostolo, non mi rimorde di nulla quanto all’esercizio del mio ministero. — Felici quelle anime, che, interrogando diligentemente se stesse, possono rispondere con l’Apostolo: “Non sento in coscienza d’essere colpevole! „ È la più cara testimonianza, il più dolce conforto ohe l’uomo possa avere anche in mezzo alle tribolazioni più gravi. Vediamo di meritare questa, che è la mercede del giusto sulla terra e la forza che ci tiene saldi nelle prove sì amare della vita. Sembra strano ciò che S. Paolo soggiunge: Sento in coscienza di non essere colpevole: “con tutto ciò non sono giustificato. „ – “Il non avere rimorsi, quanto all’esercizio del mio ministero, scrive l’Apostolo, non vuol dire ch’io sia giusto, inescusabile, santo, no”. Ben è vero che non si commette mai peccato se non quando sappiamo, od abbiamo coscienza di commetterlo; è verità chiarissima; ma potrebbe accadere di non porre mente al male che facciamo, e ciò per colpevole negligenza, o di non ricordarci al presente del male già commesso con piena deliberazione, e in tal caso il non avere rimorsi non vorrebbe dire che siamo innocenti e giusti, né ci varrebbe di scusa dinanzi a Dio. Pur troppo moltissimi sono quelli, che vivono immersi in ogni sorta di peccati e non sono molestati dal più lieve rimorso. La distrazione, la trascuratezza, in cui vivono, il callo che hanno fatto ad ogni disordine, l’abitudine inveterata di non ascoltare le grida della coscienza, fanno sì che più non sentono i rimorsi. Forseché costoro, perché non sentono i rimorsi, si potranno dire giusti? Certamente, no. Possiamo essere gravemente ammalati e non sentire dolori; così possiamo essere colpevoli e non sentire rimorsi, e ciò non varrà a scolparci innanzi a Dio. Il nostro giudizio non è sicuro, insegna S. Paolo: il solo giudizio di Dio è infallibile, e a Lui rimettiamoci: “Qui judicat me, Dominus est.,, È questa, o carissimi, una verità di sommo conforto per tutti, ma particolarmente per quelli, i quali, esercitando un ufficio, non raramente sono fatti segno a biasimi ingiusti e ad apprezzamenti erronei. Quante volte gli uomini biasimano a torto quel padre e quella madre, quasi trascurati nella educazione dei loro figli! Accarezzano sospetti ingiuriosi a carico di quella persona, condannano l’opera di quel padrone, di quel servo, la condotta di quel prete, di quel parroco, giudicando dalle apparenze! Spesso chi sta in alto diviene bersaglio delle più gravi accuse, delle più nere calunnie ed è impotente a difendersi. Sono pene acerbe, agonie di spirito, che Dio solo conosce. È pur dolce allora il potersi gettare dinanzi a Lui, che tutto conosce, aprirgli il cuore ed effondere l’anima e dirgli: Signore, Voi conoscete tutto; voi conoscete la mia rettitudine, la mia innocenza; mi abbandono nelle vostre braccia paterne. — “Dominus est qui judicat me.,, Credo che tra di voi, che m’ascoltate, non vi sia pur uno che un giorno non abbia sentito il bisogno di dire: “Il Signore sa ch’io sono innocente; Egli solo mi ha da giudicare”. S. Paolo applica a tutti in genere la dottrina stabilita, e dice a modo di conseguenza: “Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore. „ Noi pure, è vero, possiamo giudicare le cose e le persone in quanto si manifestano con le parole o con le opere e possiamo dire: Questa è buona, questa è cattiva: ma giudicare le cose e le persone in sé, nella loro mente e nella loro coscienza, è riserbato a Dio solo. Quante volte un atto esterno, che giudichiamo buono e lo è in se stesso, è cattivo per l’intenzione di chi lo fa, e quello che reputiamo cattivo, è buono per la retta intenzione dell’operante! Dio solo legge nelle coscienze e perciò non giudichiamo gli altri nel loro interno. Quali veramente siano le opere dell’uomo lo conosceremo allorché verrà Dio e farà il gran giudizio. “Egli illuminerà le cose tenute nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, „ come insegna l’Apostolo. Nel presente ordine di cose noi vediamo solo ciò che apparisce; a nessuno di noi è dato di penetrare nelle menti e nei cuori se non tanto quanto essi si aprono volontariamente mediante la parola; parola che non è sempre mezzo sicuro della verità. – I cuori, le menti, le coscienze umane sono avvolte in fitte tenebre, che saranno pienamente rischiarate soltanto in quel dì, che il Giudice supremo verrà sulla terra. Che avverrà allora, o dilettissimi? Udite. Un valente artefice, chiuso in una stanza a tutti inaccessibile, lavora, ponete, una statua di cristallo; per il corso di molti anni, con pazienza ammirabile, vi si travaglia intorno e non vi è un punto solo della statua, che non sia lavorato. Compiuta l’opera sua in quel recesso impenetrabile, al lume d’una lampada, un bel dì la trae fuori e la espone al pubblico sotto la luce del mezzodì, sotto i fulgori del sole di luglio. Ad un tratto voi vedete quella statua, cesellata in ogni parte, e se vi è un solo punto, in cui il cesello abbia fallito, voi lo rilevate tosto. Non è vero che allora in un istante voi vedete il lavoro di molti e molti anni, compiuto occultamente, ignoto a tutti? Ecco una immagine del giudizio divino. Nel corso della nostra vita, che si svolge nelle tenebre di questo secolo, al fioco lume della ragione, avvalorato dal lume della fede, nel fondo della nostra coscienza, impenetrabile ad ogni occhio mortale, noi abbiamo lavorato la nostra statua, compiuta l’opera nostra, che rimarrà eterna. In quel momento, che avverrà il giudizio, l’opera condotta a termine nel corso di tanti anni, sarà posta sotto la luce infinita, che raggia dal volto di Gesù Cristo, e tutto sarà perfettamente manifesto il nostro lavoro, bello o brutto ch’esso sia. Allora saranno svelate le coscienze, rischiarate tutte le tenebre, fatto il giudizio e data a ciascuno la lode che gli si dee, come dice S. Paolo. E chiaro adunque, o carissimi, che nella presente vita ciascuno di noi va scrivendo sul libro della coscienza la sentenza che Cristo leggerà e pronunzierà nel giorno del giudizio e che con lui leggeremo e pronunceremo noi pure. — Figliuoli carissimi! badiamo bene a tutto ciò che pensiamo, vogliamo, diciamo e facciamo in vita, perché tutto si scrive nel libro indistruttibile della nostra coscienza e tutto rimarrà a nostra gloria od a nostra infamia eterna.

Graduale 
Ps 144:18; 144:21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III:1-6
Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli: Omelie, ut supra; Om. VIII]

“L’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, essendo Ponzio Pilato procuratore della Giudea, ed Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca “della Iturea, e della regione Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilina, sotto i pontefici Anna e Caifa, la parola di Dio fu indirizzata a Giovanni, figliuolo di Zaccaria, nel deserto. Ed egli venne in tutto il paese del Giordano, predicando la penitenza, in remissione dei peccati, siccome sta scritto nel libro delle parole di Isaia profeta: Voce d’uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i sentieri di lui; sarà ricolmata ogni valle e abbassato ogni monte ed ogni colle e i luoghi distorti si muteranno in dritti e gli aspri in piani, ed ogni uomo vedrà il Salvatore di Dio „ (Luca, III, 1-6).

Eccovi, o carissimi, il Vangelo proprio di questa Domenica quarta ed ultima d’Avvento. In esso si parla della missione di Giovanni e della sua predicazione. La Chiesa tutta intenta in questi giorni a preparare i suoi figli alla venuta di Gesù Cristo, va loro ripetendo quelle parole, che il Precursore rivolgeva ai Giudei, eccitandoli a prepararsi alla venuta dell’aspettato Messia. Ascoltiamo dunque le parole del Precursore, e, più docili dei figli d’Israele, vediamo di metterle in pratica. Il fatto massimo della nostra Religione è il fatto della Incarnazione, per il quale fatto Dio divenne anche uomo e comparve e visse in mezzo a noi. A quel fatto è ordinato tutto l’antico Testamento con i suoi riti, con la sua legge, con i suoi sacrifici e con le sue profezie; a quel fatto si rivolge e si lega intimamente tutta la economia cristiana; è la pietra fondamentale di tutta la Religione nostra santissima. – Il fatto adunque della manifestazione dell’Uomo-Dio, di Gesù Cristo in Israele, doveva accertarsi nel modo più solenne affine di rendere impossibile qualunque dubbiezza della scienza, che più tardi avrebbe tentato tutti i modi per oscurarlo o negarlo. S. Luca, cominciando a narrare la vita pubblica di Gesù Cristo, ossia la manifestazione del fatto della incarnazione, piglia il fare di storico e determina il tempo, in cui avvenne, con una accuratezza, che non potrebb’essere maggiore. Giova udire lui stesso lo storico sacro: “L’anno decimoquinto di Tiberio Cesare, essendo Ponzio Pilato procuratore della Giudea, ed Erode tetrarca della Galilea [Erode Antipa (Antipatro) l’uccisore di S. Giovanni.], e Filippo, suo fratello [Questo Filippo non è quel Filippo, che era marito di Erodiade, ma un altro, che visse privato e si capisce come dovesse subire la vergogna di vedere la moglie convivere pubblicamente col fratello Erode Antipa], tetrarca dell’Iturea e della regione Traconitide, e Lisania tetrarca dell’Abilina,, sotto i pontefici Anna e Caifa. „ Noi abbiamo qui nominato Tiberio Cesare e determinato l’anno del suo impero [Augusto associò all’impero delle Provincie Tiberio-Cesare, suo figliastro: tre anni appresso Augusto morì e gli successe Tiberio. Se datiamo l’impero di Tiberio dalla morte d’Augusto, sarebbe questo l’anno 12° di Tiberio, come fa Tertulliano: se lo datiamo dalla sua associazione ad Augusto, è questo l’anno 15° del suo impero. S. Luca tiene questa data e a ragione, perché in sostanza l’impero per Tiberio cominciò quando Augusto lo assunse a socio.), il decimoquinto]. Abbiamo pure nominato il rappresentante dell’imperatore nella Giudea, Ponzio Pilato. Erode, l’uccisore dei bambini, lasciò il regno ai suoi figliuoli e, questi contendendo tra loro, Augusto lo divise in quattro parti, ossia tetrarchie, assegnandole ai medesimi, come dice espressamente il Vangelo [Archelao era figlio di Erode ed ebbe la Giudea, la parte principale. Ma per la sua crudeltà fu rimosso dall’Imperatore e cacciato in esilio. La Giudea allora fu data in governo ad un Procuratore romano e fu Ponzio Pilato]. Dopo avere con ogni esattezza descritto lo stato politico del regno d’Israele, Luca accenna eziandio al governo religioso e dice, che governavano come pontefici Anna, o Anano, e Caifa. Secondo la legge di Mosè uno solo doveva essere il sommo sacerdote, e veramente fu sempre un solo; ma al tempo di Cristo il sommo sacerdote Anna, o Anano, fu deposto per opera dei Romani e in suo luogo eletto Caifa, suo genero. Ma sia perché Anna era ricco e potente, sia perché Caifa, a lui sostituito, era suo genero, sia perché il popolo doveva considerare Anna legittimo sacerdote, questi esercitava ancora l’ufficio suo pressoché in comune col genero Caifa. Perciò S. Luca scrive che allora erano due i sommi sacerdoti, Anna e Caifa, accennando il fatto senza approvarlo. S. Luca poi volle sì accuratamente indicare i prìncipi civili e religiosi di quell’epoca per mostrare l’esattezza storica con cui narra i fatti riguardanti Gesù Cristo; per mettere in evidenza il cessare del principato civile presso gli Ebrei e l’adempimento della profezia di Giacobbe, e perché i personaggi nominati si collegano strettamente con la vita di Gesù Cristo, che imprende a narrare. – Stando le cose civili e religiose d’Israele in questi termini, che avvenne? “La parola di Dio, scrive S. Luca, fu indirizzata a Giovanni, figliuolo di Zaccaria, nel deserto. „ Sappiamo dalla tradizione, che Giovanni Battista, fino dalla sua fanciullezza si mostrò ripieno dello Spirito di Dio e ancora giovinetto si ridusse nel deserto, vivendovi con quella austerità, che altra volta dicemmo. Questo genere di vita, abbracciato da Giovanni, non era nuovo, e molti e grandi esempi somiglianti troviamo nei profeti e in quella che si diceva scuola dei profeti. Giovanni adunque viveva nel deserto; la sua era una vita di silenzio, di preghiera, di penitenza, e certamente non doveva essere ignota a molti dei suoi concittadini. Ma fino a quel tempo non aveva fatta udire la sua voce, anzi sembrava fuggire ogni consorzio umano. Allora, cioè l’anno 15° dell’impero di Tiberio Cesare, Iddio fece conoscere a Giovanni, o con una ispirazione interna, o col ministero degli Angeli, o in qualunque altro modo, che era venuto il tempo di cominciare la sua missione; e Giovanni, ubbidiente alla voce di Dio, uscì dal fondo del deserto, dove dimorava e “venne in tutto il paese del Giordano. „ Il Giordano discendendo dal Libano, attraversa in gran parte la Palestina ad oriente, forma il lago di Genesaret o Tiberiade e finisce nel mare o Lago Morto. Giovanni pertanto abbandonò il suo deserto e comparve sul Giordano, scorrendo i paesi che sorgevano sulle due rive e predicando alle turbe, che in folla accorrevano ad udirlo. E che cosa predicava Giovanni? In questo Vangelo di S. Luca e negli altri abbiamo un cenno delle verità, che il Precursore annunziava: ma qui l’Evangelista compendia in una brevissima sentenza la predicazione del Battista: “Egli, così S. Luca, predicava il battesimo della penitenza, per la remissione, de peccati. „ Predicava cioè la necessità di fare penitenza (segno della quale era il battesimo che dava nel Giordano), affine di ottenere il perdono dei peccati. Vi è una doppia penitenza, o dilettissimi: la penitenza interna, o del cuore, e l’esterna, che consiste in qualche atto di mortificazione, come sarebbe il digiuno, l’astinenza, la veglia. La prima è la radice della seconda, e questa tanto vale in quantoché deriva da quella. La penitenza del cuore è sì necessaria, che senza di essa non è possibile ottenere il perdono dei peccati, anzi senza di essa Dio stesso, che è onnipotente, non potrebbe condonarli. I peccati vengono dal cuore, ossia dalla volontà: è essa che li concepisce e li genera di sé; è dunque necessario ch’essa li rigetti, li cacci da sé, disvolendo ciò che malamente volle. Ecco la penitenza interna, o il dolore dell’animo, che distrugge il peccato e riconcilia l’anima con Dio. Questa penitenza del cuore si potrebbe avere e si ha molte volte senza atti di penitenza esterna, come allorché il peccatore è impotente a farli o per difetto di tempo o di forze; così il ladrone sulla croce ottenne il perdono con la sola penitenza del cuore. Ed anche può avvenire che si abbiano atti e grandi di penitenza esterna, digiuni, macerazioni, limosine, senza la penitenza interna, come avveniva nei farisei per sentenza di nostro Signore: tutte le penitenze esterne non giovano nulla senza quella del cuore, e perciò il profeta gridava ai Giudei: “Spezzate (col dolore) i vostri cuori e non le vostre vesti. „ Ottima poi è la penitenza interna ed esterna insieme congiunta, e noi in questi giorni ci studieremo di praticare la prima, detestando i nostri peccati e preparandoci alla santa confessione; e la seconda, osservando almeno la doppia legge dell’astinenza e del digiuno, impostaci dalla madre nostra, la Chiesa. – Il battesimo di Giovanni, lo dissi altra volta, non aveva efficacia di cancellare i peccati: era un atto di umiltà, un segno della penitenza interna, una preparazione al Battesimo di Gesù Cristo; la penitenza nostra congiunta alla Confessione è il secondo Battesimo e cancella per virtù propria tutti i peccati. Figliuoli carissimi! le turbe correvano al Giordano per ricevere il battesimo di Giovanni e così prepararsi a ricevere il Messia, ch’egli annunziava vicino: e noi in questi giorni corriamo al lavacro benedetto della Confessione, ben più facile del battesimo di Giovanni, e ci prepareremo a ricevere santamente Gesù Cristo nei nostri cuori ed a celebrare con letizia il suo nascimento. – Di Giovanni e della sua predicazione, dice l’evangelista S. Luca, cinque secoli innanzi aveva parlato il profeta Isaia, e riporta le sue parole stesse: “Voce d’uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore; raddrizzate i sentieri di lui. „ Per fermo il Precursore, al quale Isaia mette in bocca queste parole, non intende parlare delle vie e dei sentieri materiali; ma, se ben vedo, vuol dire così: “Come allorché si aspetta un gran personaggio, un re, i popoli si affrettano ad acconciare le vie, le allargano, le appianano, le puliscono; così voi, o Giudei, dovete acconciare, allargare, appianare e pulire, non le vie materiali, ma le vostre menti, i vostri cuori, affine di accogliere debitamente il Salvatore del mondo. „ Come nell’ordine materiale la via retta è quella che si deve seguire, così nell’ordine spirituale e morale l’uomo che vive a norma della ragione e della fede si dice camminare per la via retta, vivere rettamente, si dice uomo retto. È il linguaggio delle Sante Scritture, ed è anche il linguaggio comune. Per converso l’uomo che si scosta dalle norme della ragione e della fede si dice che cammina per vie torte. La verità e la fede e per conseguenza la virtù, che ne è l’attuazione, si può rappresentare come una linea perfettamente retta, l’errore ed il vizio si può disegnare come una linea più o meno curva e torta. Allorché dunque il Precursore grida: “Raddrizzate i sentieri del Signore, „ vuol dire, lasciate l’errore, fuggite il vizio, abbandonate il peccato e ritornate sulla diritta via, la via della verità e della virtù —. Ma non si può raddrizzare ciò che è malamente piegato senza sforzo e senza dolore. Se il vostro piede o il vostro braccio per mala ventura sono distorti, il chirurgo non li riporrà al loro posto senza vostro dolore, proporzionato senza dubbio alla gravezza dello storcimento. Così avviene eziandio nell’ordine morale: senza dolore non è possibile lasciare il peccato, smettere i mali abiti, ridurre all’obbedienza le ribellanti passioni; il dolore è la condizione necessaria del ritorno alla grazia, della riconciliazione con Dio. Ecco perché il Precursore mette insieme la penitenza e il raddrizzamento dei sentieri del Signore: “Fate penitenza: raddrizzate le vie del Signore! „ – “Ogni valle, continua Isaia citato da san Luca, ogni valle sarà ricolmata, e sarà abbassato ogni monte ed ogni colle, e i luoghi distorti si muteranno in diritti e gli aspri in piani. „ Segue lo svolgimento dell’idea sopra annunziata del “preparare la via del Signore e raddrizzare i sentieri di Lui. „ Con questo linguaggio metaforico e vivacissimo il profeta forse volle dire, che i superbi, gli orgogliosi, che si sollevano a guisa di colli e di monti, dovevano abbassarsi, umiliarsi, riconoscere le proprie miserie, e Dio li avrebbe riempiti delle sue grazie. Voi lo sapete, le acque non si fermano sulle vette superbe, battute dai venti e dalle procelle ed arse dal sole, ma scendono nelle valli, che si coprono di bionde messi e di verdi prati. In sostanza in queste parole Isaia volle dire ciò che più tardi Gesù Cristo disse in linguaggio più semplice e popolare: Chi si esalta sarà abbassato e chi si abbassa sarà esaltato —. In questi giorni Colui che a ragione si chiama l’Altissimo, si abbassa fino a farsi uomo, bambino, l’ultimo, il più povero dei bambini a talché nasce in una stalla; abbassiamoci noi pure, dirò meglio, riconosciamo la nostra miseria, il nostro nulla, e allora avremo la gioia di vederlo per viva fede e di imitarlo.

Credo

Offertorium

Orémus
Luc 1: 28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta
Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Communio
Is. VII:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XLII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO DELLA FEDE

XLII.

IL POTERE TEMPORALE.

Perché la Chiesa non approva il fatto compiuto della spogliazione del suo dominio temporale? — Questo fatto non è avvenuto per volontà di tutti gli Italiani e per il gran bene dell’unità d’Italia? — Che differenza c’è tra il dominio perduto dal Papa e quello perduto da altri principi? E il Papa può essere re e buon re? — È giustificabile l’esistenza del dominio temporale, ancorché abbia dato causa a brutte piaghe? — Che bisogno ne ha la Chiesa? — Non sta meglio senza, col compenso delle guarentigie? — Regnum meum non est de hoc mundo; e da principio la Chiesa non ebbe alcun dominio temporale! — Il dominio temporale è un dogma? — Come mai chi vuole il dominio temporale può essere amante della patria e buon italiano ?

— Ella mi disse con le parole dell’attuale Pontefice, che tra i due poteri ecclesiastico e civile è necessaria assolutamente una perfetta armonia. Ma ad ottenere la medesima non dovrebbe la Chiesa travagliarsi per la prima? E ciò mi sembra che essa non faccia, massimamente qui, nell’Italia nostra, dove essa si ostina a mantenere il dissidio nato da alcuni anni.

Tu sei in errore, giacche la Chiesa per il bene di tutti sommamente desidera che il presente contrasto abbia a cessare. E per parte sua, credilo pure, sarebbe pronta a fare tutto ciò che è giusto, perché un tale stato di cose avesse a finire.

— Ma il contrasto, che regna fra lo Stato e la Chiesa, non proviene dalla Chiesa medesima, che non vuole approvare il fatto compiuto del suo spodestamento temporale, e che non vuole perciò entrare in relazione diretta col governo? Non prò viene dal Papa, che non vuol saperne di ricevere l’appannaggio offertogli, e dichiarandosi prigioniero non vuole uscire a passeggiare per Roma a ricevervi gli onori regali, che gli furono decretati?

E vuoi tu dunque che, perché trattasi di un fatto compiuto, la Chiesa approvi un’ingiustizia? ed entri perciò in amichevoli rapporti con chi l’ha spogliata del suo dominio? Supponi che ieri dei ladri rapaci fossero entrati in casa tua e, abusando della tua impossibilità di difenderti, alla tua presenza avessero fatto man bassa di quanto possedevi, che anzi si fossero installati nella tua abitazione, rintanando te in un angolo qualunque della medesima; dovresti oggi, perché il fatto è compiuto, dire che i ladri han fatto bene, e finire per congratularti con loro entrando nella loro amicizia?

— Oh! no certo.

Come dunque la Chiesa dovrà approvare il fatto della spogliazione del suo dominio ed entrare in relazione diretta con i suoi spogliatori? Come mai il Papa dovrebbe ricevere il denaro assegnatogli, se con ciò confermerebbe l’altrui violenza e rinunzierebbe ai suoi diritti? Come dovrebbe uscire a passeggiare per Roma per ricevere onori regali da chi gli ha tolto il regno e nel rischio di essere ad un tempo insultato da molti?

— Mi scusi, ma la cosa qui è diversa da quella che lei mi presesenta. Qui non si tratta di spogliazione violenta, ma di semplice occupazione fatta per assecondare la volontà di tutti gl’Italiani per l’unità d’Italia, volontà addimostrata con splendidissimi plebisciti.

Eh! mio caro: così ti potranno dare ad intendere tutti coloro che con una sicumera incredibile, e pei loro rei intendimenti, vogliono falsare la storia. Ma così non è certamente. Del resto quando pure fosse che tutti, o quasi tutti, gl’Italiani avessero voluto quella che tu chiami semplice occupazione anziché spogliazione violenta del dominio temporale, credi tu che in un popolo vi sia il diritto di far occupare da un principe il dominio di un altro principe, massime quando questo principe è saggio e buono, per la sola ragione che sia unificata la nazione?

— Dunque in un popolo questo diritto non c’è?

Certamente si può ammettere con San Tommaso che la nazione (nota bene quel che dico, perché la nazione non sono i facinorosi e le sette) possa ritrarsi dall’obbedienza al principe, che viola sostanzialmente i patti fondamentali dello Stato ed esercita una vera tirannide, che anzi possa con nazionale decreto, in questo caso, destituirlo; ma non si può ammettere che un popolo possa spodestare il suo principe, quando non tiranneggia, per porsi sotto al regime di un altro con questa sola ragione, che si tratta di unificare un regno. Io non ti nego che l’unità d’Italia potesse, con la sua indipendenza dallo straniero, essere per se stessa cosa buona e desiderabile. – Ma bisognava perciò, che l’ottenere tale unità non importasse la violazione di diritti preesistenti e sacri, quali sono quelli del dominio temporale del Papa.

— Ma se ella medesima mi concede che l’unità d’Italia poteva essere un bene, perché mai per riguardo a questo bene non si potevano lasciar da banda questi diritti?

E bravo! Ma non sai che se si dovesse ammettere questo detestabile principio, che sia lecito fare il male per un fine anche ottimo, tutta la morale evangelica e naturale andrebbe a fascio, e tutto il mondo a soqquadro!? Con questo principio il tuo vicino, affine di arrotondare i suoi poderi e giovare all’agricoltura, potrebbe senza più cacciar te dalla tua casa e dal tuo campo per impadronirsene egli!

— Ciò che ella dice è giusto. Ma io non capisco perché altri prìncipi abbiano potuto perdere il loro dominio, senza che perciò si credano violati i loro diritti, e invece non sia così del Papa.

Ascolta. È vero che altri prìncipi hanno perduto il loro dominio o per la guerra o per altre cause, e in modo tale che non si abbiano a dire perciò violati i loro diritti, cui secondo il diritto delle genti dovevano rinunziare; benché non rare volte sia accaduto anche per essi il contrario. Ma il Papa non si trova ad avere sopra il temporale dominio solamente quel diritto che è proprio di ogni altro principe, ma un diritto molto più elevato. Precisamente perché egli è Papa, e cioè Vicario di Gesù Cristo, perciò questo diritto diventa in lui sacro ed ecclesiastico come la sua persona. Inoltre essendo egli il Capo di tutta la Chiesa, questo diritto non lo ha soltanto come individuo, ma a nome di tutti i Cattolici, ai quali tutti torna di vantaggio. Epperò il dominio temporale  non essendo solo di diritto comune e naturale ma eziandio di diritto ecclesiastico e sacro, e di diritto di tutta la Chiesa Cattolica ossia di tutti i fedeli, interessati nel diritto del loro capo, deve essere rispettato non solo come ogni altro dominio, ma più di qualsiasi altro, e quindi la sua usurpazione importa la violazione non solo di diritti comuni ad ogni principe, ma altresì di diritti, che i prìncipi laici non hanno, e che ha solo il Papa, Vicario di Gesù Cristo e Capo della Chiesa Cattolica.

— Ora ho capito la differenza che passa tra il dominio temporale del Papa, ossia della Chiesa, e quello degli altri prìncipi. Tuttavia a me pare strano che il Papa debba essere re, e possa esserlo come si conviene. Il Papa, perché Vicario di Gesù Cristo e Capo della Chiesa non dovrebbe avere una potestà civile, perché se egli l’esercita a dovere resta impedito di occuparsi come si conviene del bene di tutta la Chiesa; e se egli la trascura, non può essere un buon governatore de’ suoi sudditi.

Anche qui tu sei in errore: giacché se il Papa può e deve anche essere re, è precisamente per il bene di tutta la Chiesa; e benché Capo di tutta la Chiesa meglio di ogni altro principe può curare il bene de’ suoi sudditi. – Dovendo egli come Capo della Chiesa essere pienamente libero, del tutto indipendente, per esercitare quegli atti, che mirano al bene di tutta la Chiesa, la Divina Provvidenza, quando giunse il tempo opportuno, lo ha dotato perciò della regia dignità e potestà, siccome del mezzo più naturale e sicuro. E sebbene come re debba sobbarcarsi a cure temporali per il bene altresì dei suoi sudditi temporali, ciò egli può fare assai meglio di altri prìncipi, sia perché non ha figli da allevare, sia perché risparmia il tempo, che altri prìncipi impiegano nei teatri, nei balli, nelle caccie e in altri simili divertimenti, sia perché il suo dominio è assai ristretto e può farsi aiutare nel suo governo da ministri scelti e valenti, sia per altre ragioni ancora.

— Sì, ciò è vero: bisogna convenirne. Ma l’origine e l’uso di questo dominio temporale è poi veramente tale da giustificarne la esistenza?

Ascolta: il dominio temporale del Papa è

1°: il dominio più antico che vi sia al mondo, essendo esso cominciato nel 754 sotto Stefano II;

2°: è il più legittimo, non essendo provenuto al Papa per via di ingiustizie o di guerre, ma per voto dei popoli, dopoché gl’Imperatori bizantini abbandonarono il ducato romano, e per le donazioni che Pipino e Carlo Magno fecero alla Chiesa;

3° : fu il più buono, essendo che i Papi, generalmente parlando, ne fecero sempre uso pel bene religioso, morale e civile non solo dei loro sudditi immediati, ma di tutta quanta la cristianità. E se vi ha chi accusa il governo pontificio di debolezza nel reprimer certi disordini, come ad esempio il brigantaggio, o di prepotenza nel condannare certi delitti politici, bisogna pur riconoscere che lo fa per spirito di parziale e deliberata malevolenza contro la Chiesa, giacché lo si può benissimo sfidare a trovare, anche presentemente, sulla terra un governo, contro del quale non si possano lanciare ben maggiori accuse. Ora un dominio, che fu acquistato legittimamente, che fu posseduto da antichissimo tempo e impiegato sempre per il bene de’ suoi soggetti e di tutta la Cristianità, non è tale da dover giustamente esistere?

— Certo stando così le cose bisogna pur ammettere che tale dominio esista giustamente. Non si potrà tuttavia disconoscere che lungo il corso dei secoli ha dato causa ad ambizioni, a scismi, e a quella brutta piaga che si chiama nepotismo.

Ed io non ti nego che v i siano stati ambizioni e scismi nell’elezione di qualche Pontefice. Ma ve ne furono altresì prima che esistesse il dominio temporale. Il che prova che la tua obbiezione non ha quel gran valore che ti credi. D’altronde qual è mai il bene, del quale non si possa abusare? E se perciò si dovesse abolire tutto quello, di cui si abusa, guai a noi! che cosa di buono ci sarebbe ancora al Mondo?In quanto poi al nepotismo ti concedo pure che sia un punto nero nella storia del Papato, ma devi riflettere che taluni dei Papi si trovarono quasi forzati ad innalzare i loro nipoti alle dignità ed al comando per avere intorno a sé gente più fida e sicura, che molti di essi fecero di tutto per sterminarlo, e che quelli degli ultimi tempi ne sono affatto immuni.

— Ad ogni modo ella deve pur concedermi che la Chiesa non ha assoluto bisogno del dominio temporale e che sta ancor meglio senza col compenso delle guarentigie.

Che la Chiesa non abbia bisogno di dominio temporale potrà parere a te e a tutti coloro che in sì grave materia giudicano superficialmente, ma non certo a chi abbia un po’ di senno e riconosca come il Papa non debba sottostare ad alcun governo e debba essere pienamente libero nell’esercizio medesimo della sua spirituale autorità. Certamente la Chiesa continua a sussistere senza il dominio temporale; e ciò dimostra chiaro che la sua sussistenza non dipende dal dominio temporale, e che in modo assoluto può farne senza. E forseché non sussisteva anche allora che era perseguitata nel modo più atroce? Ma dal sussistere nella persecuzione e nella schiavitù, al sussistere, come ha diritto, nella libertà e nell’indipendenza ci corre assai! E questa libertà e indipendenza, relativamente al pieno esercizio della sua autorità e missione, non può averla senza il dominio temporale. Del resto è poi vero, come tu dici, che sta ancor meglio senza di esso, col compenso delle guarentigie? L’esperienza dimostra chiaramente che no. Con tutte le pretese guarentigie e garanzie di libertà e di rispetto fatte al Papa nello spogliarlo del suo dominio, non c’è, da quel momento in cui fu spogliato, non c’è villania, scherno, insulto, sfregio, al quale il Papato e la Chiesa non siano stati fatti segno nella stessa città di Roma. E poi il compenso delle guarentigie, dato pure, ciò che non è; che avesse finora assicurato al Papa la libertà e la indipendenza, di cui abbisogna, come gli fu concesso dal voto delle Camere legislative di quel tempo, in cui fu privato del suo dominio, non gli potrebbe essere tolto dalle Camere legislative di oggi o di domani? E non si è già più volte parlato di far ciò? Quindi è che la libertà e l’indipendenza, che può avere il Papa per la legge delle guarentigie, non è sua propria, ma dipendente dalla volontà dei ministri e dei membri del Parlamento e del Senato, una libertà e indipendenza che perciò non è tale.

— Ma allora perché mai Gesù Cristo ha detto: Regnum meum non est de hoc mundo?

E che c’entra ciò al nostro proposito? Gesù Cristo con quelle parole volle dire a Pilato, cui erano rivolte (e basta un po’ di grammatica per capirlo), che la sua autorità regale o il suo regno, comeché voglia chiamarsi, non venivagli dal mondo, ma da Dio; che perciò nessuna potestà della terra, neppur Pilato, condannandolo a morte, poteva privamelo. Or dunque che hanno a fare queste parole di Gesù Cristo col dominio temporale dei Papi?

— Eppure a principio, quando S. Pietro non era che povero pescatore, i Papi non ebbero alcun dominio terreno.

La bella trovata! Se allora la Chiesa era ne’ suoi esordii e non aveva bisogno di ciò, se n’ha ad inferire che non debba averne bisogno adesso, che s’è pienamente sviluppata? Anche al bambino appena nato bastano a sostenerlo alcuni cucchiaini d’acqua zuccherata e un po’ di latte, ma divenuto uomo adulto potrebbe così scampare la vita?

— Dunque il dominio temporale è un dogma, negando il quale non si è più Cattolici?

E chi mai ti dice che il dominio temporale sia un dogma? No esso non lo è, e non lo sarà mai. Ma se non è un dogma, è un fatto che si basa sopra un diritto sacro, che non assolutamente lecito di violare senza offendere la giustizia. Chi pertanto nega la necessità di questo fatto, se non perde la fede, perché non nega alcun dogma, offende non di meno l’onestà e la giustizia, e se lo fa con conoscenza di quello che fa, pecca certissimamente, e non può più dirsi perciò buono e vero Cattolico, ancorché in tutto il resto stesse con la Chiesa e si regolasse da buon Cristiano. – Dimmi, è forse un dogma che la casa, che tu hai ereditato da tuo padre, sia tua? No certamente. Ma se venendoti usurpata vi fossero di quelli, che approvassero quell’usurpazione e negassero il diritto della tua proprietà, ne avversassero la restituzione, ancorché, costoro non perdessero la fede per ciò, si potrebbero non di meno ritenere per uomini giusti e onesti? Niente affatto: ciò è chiaro anche ad un bambino. Ora io non nego che tra i laici Cattolici (non certamente tra i preti), vi possano essere taluni che in buona fede avversino il potere temporale del Papa: ma dopo tante dichiarazioni della Chiesa, così solenni e così precise a questo riguardo è un po’ difficile. E ad ogni modo costoro sarebbero nel dovere di formare la loro mente al riguardo leggendo spassionatamente libri e giornali Cattolici, domandando cognizioni in proposito a chi loro le può dare, eccetera.

— Vuol dire che il Papa quando pronunzia discorsi o compie degli atti, intenti a rivendicare i diritti del dominio temporale, alla fin fine compie un suo dovere.

Certamente egli rivendica in tal guisa i diritti della Chiesa, dei quali più che arbitro è tutore. « Noi, diceva Pio VII al Radet, che lo arrestava in nome di Napoleone I, non dobbiamo ne vogliamo cedere, né abbandonare quello che non è nostro. Il dominio temporale appartiene alla Chiesa, e noi non ne siamo che l’amministratore ».

— Così adunque non c’è a credere che il Papa rinunzi mai a questi diritti e si stabilisca la pace fra Lui e il governo italiano?

— Quando il Papa rinunziasse a questi diritti, diventerebbe immantinente suddito di un altro sovrano, e come suddito non sarebbe più assolutamente libero. Si ha un bel dire che lo si lascerebbe esercitare pienamente la sua autorità spirituale, ma nell’esercizio di tale autorità dovrebbe alle volte insorgere contro dello stesso governo, di cui sarebbe divenuto suddito, e il governo potrebbe offendersi e levarsi contro di lui, e magari giudicarlo e condannarlo, e per tal guisa provenire dei danni gravissimi a tutta la Cristianità. Che se per queste ed altre ragioni, che già ti dissi, il Papa continua sempre a sostenere i suoi diritti, e così non si stabilisce la pace da tutti desiderata, non è certamente sua la colpa.

— Dunque toccherà al governo italiano di restituire il dominio temporale al Papa? Io credo che ciò non accadrà più mai.

Dio è padrone dei tempi e degli eventi. E ad ogni modo Egli provvederà mai sempre perché il Papa, anche nella condizione di martire perenne, passa compiere la sua missione.

— Ella dice ottimamente e non avrei mai creduto che ci fossero ragioni così ovvie e così buone a prò del dominio temporale. Ma intanto chi tiene tali idee e si regola in conformità delle medesime, non può presentemente nell’Italia nostra amare la patria, non può essere un buon italiano.

Ecco qui un errore gravissimo, nel quale cadono molti pur troppo ai giorni nostri, i quali confondono la patria col disordine settario, a cui l’Italia nostra trovasi presentemente in preda. La patria, nel senso nostro, è la nazione con tutte le più intime relazioni che in essa troviamo per noi, con tutte le sue bellezze, con tutte le sue grandezze, con tutte le sue buone istituzioni, con tutto ciò che ce la rende cara; ma non è già la rivoluzione, la prepotenza, il governo più o meno ateo e settario, che nella patria vi può essere, con tutte le male conseguenze, che ne derivano contro l’autorità divina ed ecclesiastica. Quindi è che il vero Cattolico con le sue giuste idee al riguardo non solo non odia la patria e non lascia di essere buon italiano perché, amando la sua nazione odia i l disordine che in essa vi è, massimamente per la continuata violazione dei diritti della Chiesa, ma si deve dire il vero patriota e il vero italiano, giacché desiderando egli che nella patria cessi il funesto dissidio con la restituzione al Papa di ciò che gli spetta, vuole il vero assetto dell’Italia, il suo vero bene. In conferma di ciò che ti dico e a norma sicura dei sentimenti, che devi avere per questo riguardo, ti metterò innanzi un tratto sapientissimo, preciso ed energico di una Enciclica di Leone XIII al popolo italiano, dove, mentre è sfatato l’errore che il vero cattolico sia nemico dell’Italia, è indicato altresì nettamente il dovere suo di volere che al Capo della Chiesa sia restituito il dominio che gli appartiene. Ti prego di voler leggere e ponderare seriamente le sue auguste parole.

« I cattolici italiani in forza degli immutabili e noti principii della loro religione, rifuggono da cospirazione e ribellione qualsiasi contro i pubblici poteri, ai quali rendono il tributo che ad essi si deve. La loro condotta passata, alla quale tutti gli uomini imparziali possono rendere onorata testimonianza, è garante di quella futura, e ciò dovrebbe bastare ad assicurar loro la giustizia e la libertà, a cui hanno diritto tutti i pacifici cittadini. Diremo di più; essendo essi, per la dottrina che professano, i più solidi sostenitori dell’ordine, hanno diritto al rispetto; e se la virtù ed il merito fossero adeguatamente apprezzati, avrebbero anche diritto ai riguardi ed alla gratitudine di chi presiede alla cosa pubblica. Ma i Cattolici italiani, appunto perché Cattolici, non possono prescindere dal volere che al loro Capo supremo sia restituita la necessaria indipendenza e la pienezza della libertà vera ed effettiva, la quale è condizione indispensabile per la libertà e l’indipendenza della Chiesa Cattolica. Su questo punto i loro sentimenti non cambieranno né per minacce, né per violenze; essi subiranno l’attuale ordine di cose; ma fino a che questo avrà per scopo la depressione del Papato e per causa la cospirazione di tutti gli elementi antireligiosi e settari, essi non potranno mai, senza violare i loro più sacri doveri, concorrere a sostenerlo con la loro adesione e col loro appoggio. — Il richiedere dai Cattolici un positivo concorso al mantenimento dell’attuale ordine di cose, sarebbe pretesa irragionevole ed assurda; poiché ad essi non sarebbe più lecito ottemperare agli insegnamenti ed ai precetti di questa Apostolica Sede, anzi dovrebbero agire in opposizione ai medesimi e dipartirsi dalla condotta che tengono i Cattolici di tutte le altre nazioni. Quindi è che l’azione dei Cattolici italiani, nelle presenti condizioni di cose, rimanendo estranea alla politica, si concentra nel campo sociale e religioso, e mira a moralizzare le popolazioni, renderle ossequenti alla Chiesa ed al suo Capo, allontanarle dai pericoli del socialismo e dell’anarchia, inculcar loro il rispetto al principio di autorità, sollevarne infine l’indigenza colle opere molteplici della carità cristiana.— Come dunque i Cattolici potrebbero essere chiamati nemici della patria ed esser confusi coi partiti che attentano all’ordine ed alla sicurezza dello Stato? Siffatte calunnie cadono dinanzi al solo buon senso. Esse si fondano su questo solo concetto, che le sorti, l’unità, la prosperità della nazione consistano nei fatti compiuti a danno della Santa Sede, fatti pur deplorati da uomini punto sospetti, i quali dichiararono apertamente essere immenso errore il provocare un confitto con quella grande istituzione, che Dio pose in mezzo all’Italia e che fu e rimarrà perpetuamente il suo vanto precipuo ed incomparabile; istituzione prodigiosa che domina la storia, e per la quale l’Italia divenne l’educatrice feconda dei popoli, la testa ed il cuore della Civiltà Cristiana. Di qual colpa pertanto sono rei i Cattolici quando desiderano il termine del lungo dissidio, sorgente di grandissimi danni per l’Italia nell’ordine sociale, morale e politico? quando domandano che sia ascoltata la voce paterna del loro Capo supremo, che tante volte ha reclamato le dovute riparazioni, mostrando i beni incalcolabili che da esse deriverebbero all’Italia? I nemici veri d’Italia bisogna ricercarli altrove; bisogna ricercarli tra coloro, che mossi da spirito irreligioso e settario, chiuso l’animo dinanzi ai mali ed ai pericoli che pesano sulla patria, respingono ogni vera e feconda soluzione del dissidio, e procurano, pei loro riprovevoli disegni, di renderlo sempre più lungo e più acerbo ».

— Davvero che il Papa qui ha parlato ben chiaro. E in quanto a me seguirò fedelmente i suoi insegnamenti. Le dichiaro intanto che sono contentissimo delle spiegazioni avute e vorrei che le intendessero e riconoscessero giuste tanti altri.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (XIII)

 

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XII.

Il re della Città del male.

Lucifero, il Re della Città del male — Chi è, secondo i nomi che gli dà la Scrittura Dragone, Serpente, Avvoltoio, Leone, Bestia, Omicida, Demonio, Diavolo, Satana — Spiegazione particolareggiata di ciascuno di questi nomi.

Secondo l’insegnamento universale, noi dedicammo il quadro delle celesti gerarchie; che magnificenza in quelle angeliche creazioni! che armonia in quel grande esercito dei cieli! che ammirabile varietà, e nel tempo stesso, che potente unità nel governo della Città del bene! Se l’uomo intendesse, la sua vita, supposto che potesse vivere, sarebbe una lunga estasi. Ma egli morrebbe di spavento se potesse vedere coi suoi propri occhi il Re della Città del male, circondato dal suoi orribili principi e dai suoi neri satelliti. Di lui dunque ci occuperemo adesso. Chi è questo Re della Città del male? quali sono i suoi caratteri? quale idea dobbiamo noi avere della sua potenza e del suo odio? Quale spavento deve egli ispirarci? domandiamone la risposta a Colui che solo lo conosce a fondo. Abbiamo detto che nominare, è definire. Definire è esprimere le qualità distintive di una persona o di una cosa. Ora, Colui che non può ingannarsi nominando, chiama Re della Città del male: Il Dragone, il Sergente, Avvoltoio, il Leone, la Bestia, l’Omicida, il Demonio, il Diavolo, Satana. Perché tutti questi nomi differenti di un medesimo essere? Perché Lucifero riunisce tutti i caratteri delle bestie alle quali è assomigliato: e ciò in un tal grado che formano di lui un essere a parte. Un angelo, un Arcangelo, forse il più bello degli Arcangeli, divenuto in un batter d’occhio tutto ciò che vi è di più immondo, di più odioso, di più crudele, di più terribile nell’aria, sulla terra e nelle acque; qual caduta! E questo per un peccato solo! O Dio, che cosa è dunque il peccato? Così è; questo principe angelico, anticamente cosi buono, cosi dolce, cosi risplendente di luce e di bellezza, la Scrittura lo appella Dragone, Draco, gran Dragone, Draco magnus. Nei libri santi, come nello spaventoso ricordo di tutti i popoli, questa parola indica un animale mostruoso per la sua statura, terribile per la sua crudeltà, spaventoso per la sua forma, tremendo per la rapidità dei suoi movimenti e per la penetrativa della sua vista. Animale di terra, di mare, di palude; rettile con le ali vigorose, con lunghe file di denti di acciaio, con gli occhi sanguigni; spavento della natura intera; il dragone della Scrittura e della tradizione è tutto questo. (Bellar. in Ps. 109; Corn. a Lap. in s. LI, 9, et passim; Id. S. Aug, Sopra il dragone, Enarrat, in ps. CIII. n. 9 opp. t. IV, p. 1678).Sotto questa forma o quella di qualche mostruoso rettile il demonio, padrone del mondo innanzi l’incarnazione, trovasi dappertutto. Quanti santi fondatori nella S. Chiesa non veggonsi obbligati a cominciare, giungendo alla loro missione, dal combattere un drago: ma un drago in carne ed in ossa! Nella Bretagna è sant’Armelo, san Tugdalo, sant’Efflam, san Brieuc, san Paolo di Leon. Roma, Parigi, Tarascona, Draguignan (Draguignan, il cui nome medesimo viene da draco), Avignone, Perigueux, il Mans, non so quanti luoghi della Scozia e altrove, furono testimoni dello stesso combattimento. Oggidì ancora non è contro il Drago o il Serpente adorato, che debbono lottare i nostri missionari nell’Africa?Ma questi antichi racconti non appartengono alla Leggenda? Queste descrizioni sono quadri immaginati? Il Drago è egli realmente esistito? Prima di tutto noi risponderemo che il Drago con i suoi differenti caratteri è troppo spesso nominato nei santi libri ed anche in tutte le lingue antiche, per non essere che un animale fantastico. Noi risponderemo in seguito che in ogni tempo e dappertutto, a Babilonia come in Egitto, il demonio ha preferito la forma di drago per offrirsi alle adorazioni dei pagani; ed è per questo che i loro templi portavano il nome generale di Dracontia. Inoltre questa forma trovasi troppo di frequente nell’origine cristiana dei popoli; essa è troppo bene attestata dalla tradizione che i nostri dotti moderni riconoscono finalmente: quattro volte più vera della storia, (Aug. Thierry) per non essere che un simbolo del paganesimo. Noi ci annoiamo finalmente di sentir trattare i nostri più gloriosi titoli di pie allegorie, o racconti leggendari. Non ammettiamo il sistema di mito per base della nostra storia religiosa, non solo nelle lotte dei primi missionari contro il serpente in carne e in ossa, quanto nella tentazione del Paradiso terrestre. Crediamo invece a tutti questi materiali combattimenti, visibili e palpabili, perché gli inviati da Dio ne avevano bisogno per accreditare la loro missione; essendo testimonianza dei nostri padri in tutti i secoli, e perché l’evoluzione di tutti questi fatti si opera, come dice Mabillon, nelle abitudini normali del miracolo, e perché la Chiesa sanziona questi racconti ammettendoli nella sua preghiera pubblica. Finalmente noi rispondiamo che, mercé le scoperte recenti della Geologia, l’esistenza del Drago non può essere posta in dubbio. Riguardo al drago come al liocorno, dei quali Voltaire e la sua scuola avevano tanto motteggiato, la scienza è venuta a dar ragione alla Bibbia ed alla antica credenza dei popoli. David parla del liocorno. Aristotele descrive l’Origia (asino indiano), il quale secondo lui non aveva che un corno. Plinio indica la Fera Monoceros (bestia rossiccia con un corno solo). Gli storici Chinesi citano il Kiota-ouau (animale con un corno diritto) che abita la Tartaria. Tutte queste testimonianze non diminuivano l’empietà burlesca dell’ultimo secolo. Contuttoció dovevano venire a riconoscere 1’antica esistenza del liocorno, forse anche la scoperta di questo animale: verso il 1834 questa speranza è stata realizzata. Un inglese residente nelle Indie, il sig. Hodgson, ha inviato all’accademia di Calcutta la pelle ed il corno di un liocorno, morto nel serraglio del Radjah di Népaul. Dipoi, conforme all’indicazione data dagli storici cinesi, si è scoperto nel Thibet una valle nella quale abita l’animale biblico. (L’illustre abate Moigno, la cui testimonianza vale, al dire degli stessi increduli, quanto l’autorità di tutta la scienza moderna, dimostra con forti argomenti che il liocorno della Bibbia è l’Abou-karhn. (Vedi Les livres saints et la Science , c. III.). Quanto al Drago, lasciamo parlare il nostro più illustre geologo: « Un genere di rettili molto notevole,, dice Cuvier, e le cui spoglie abbondano nelle sabbie superiori, e il Megalosaurus (grande lucertola), è cosi nominato giustamente, imperocché con le forme di lucertola, e particolarmente dei Monitors, e che ha pure i denti incisivi e frastagliati era di una cosi enorme statura che attribuendogli le proporzioni dei monitors, doveva passare settanta piedi di lunghezza: quest’era una lucertola grande come una balena. » Più oltre, Cuvier parla del Plesiosaurus (prossimo alla lucertola) e del Pterodactylus (che vola con le sue zampe come il pipistrello) specie di lucertola: « armati di denti acuti; posanti sopra alte gambe e la cui estremità anteriore ha un dito eccessivamente lungo che portava verosimilmente una membrana atta a sostenerlo per l’aria, accompagnato da quattro altri diti di ordinaria dimensione, terminati da unghie adunche. » Ed aggiunge: « Se qualche cosa potesse giustificare quelle idre e quelli altri mostri dei quali i monumenti del medio evo hanno tante volte ripetuta la figura, sarebbe incontestabilmente questo Plesiosauro. » (Il sig. Buckland l’ha scoperto in Inghilterra, ma ne abbiamo pure in Francia). Difatti, a questo mostro ed a suoi simili, che cosa gli manca per essere i Draghi dell’istoria? Pur nonostante per restituir loro questo nome senza contestazione, la conoscenza positiva di certi dettagli mancava prima di tutto al grande naturalista. La loro prodigiosa dimensione e la loro facoltà di volare non sono per lui ancora altro che supposizioni e verosimiglianze. Ma ecco che a confusione della incredulità la terra apre di nuovo le sue viscere, e le congetture di Cuvier divengono fatti palpabili. Alcuni scavi conducono alla scoperta di rettili giganteschi. Cuvier gli vede e ne dà la seguente descrizione: Eccoci, dice, giunti a quelli fra tutti i rettili e forse di tutti gli animali fossili, che meno rassomigliano a quel che conosciamo, e le cui combinazioni di struttura sembrerebbero, senza alcun dubbio, incredibili a chiunque non fosse capace di osservarli da se stesso. – « Il Plesiosauro con zampe di cetaceo, con testa di lucertola e collo lungo, composto di più di trenta vertebre, numero superiore a quello di tutti gli altri animali conosciuti, che è lungo quanto il suo corpo, e che si alza e si ripiega come il corpo dei serpenti. Ecco ciò che il Plesiosauro e FIchtyosauro sono venuti ad offrirci, dopo essere stati sepolti per parecchie migliaia d’anni sotto enormi cumuli di terra e di marmi. » (Ricerche ecc., t. V, p. 245. — « Gli occhi dell’Ichtyosauro erano di una straordinaria grandezza. La loro potenza visiva permetteva loro a un tempo di scoprire la loro preda alla più gran distanza e inseguirla durante la notte, o nelle più oscure profondità del mare. Si sono veduti dei crani d’Ichtyosauro, le cui cavità orbitali avevano un diametro di 35 a 36 centimetri. Nel più grande spazio, le mascelle armate di denti acuti hanno una apertura di quasi due metri. » Mangin. Il mondo marino, n. 3, p. 219, ed. 1865). – Parlando del Gigante-Pterodactylo: « Ecco dunque, continua il grande naturalista, un animale il quale nella sua osteologia, dai denti sino alle estremità delle unghie, offre tutti i caratteri classici dei Saurii (Lucertole). Non si può dunque dubitare che non abbia altresi i caratteri nei tegumenti e nelle parti molli; e che non ne abbia avute le squame, la circolazione…. Era nel tempo stesso un animale provvisto di mezzi di volare… che poteva ancora servirsi dei più corti dei suoi diti per tenersi sospeso…. ma la cui posizione tranquilla doveva essere ordinariamente sopra i suoi piedi di dietro, ancora come quella degli uccelli. Allora doveva altresì, com’essi, tenere ritto il suo collo e ricurvo indietro, affinché il suo enorme capo non rompesse tutto l’equilibrio. » – Col tempo la dimostrazione diventa sempre più splendida. Di guisa che nel 1862 si è scoperto, con un tronco di strada ferrata in esecuzione vicino a Poligny, gli avanzi di un enorme sauro, o pipistrello. La dimensione delle ossa raccolte è tale che non si può assegnare all’animale rinvenuto meno di 30 o 40 metri di lunghezza. Il celebre Zimmermann dal canto suo ha pubblicati i disegni di giganteschi fossili scoperti recentemente in Germania. Cosa degna di nota! questi disegni, copia fedele della realtà, si accostano molto alle figure dei draghi conservati dai cinesi, il popolo più tradizionalista del mondo. « Trovansi, dice il dotto alemanno, i fossili di lucertole della statura della più enorme balena. Ad una di queste specie mostruose appartiene l’Hydrarchos (il principe delle acque), il cui scheletro ha 120 piedi di lunghezza…. a cui aggiungiamo un altro mostro che sembra giustificare tutte le leggende dei tempi antichi, intorno ai draghi alati, che è il Pterodactilo. « Il suo patagion, o membrana che serve a volare, si spiega tra il piede dinanzi e il piede di dietro, in modo da lasciare le granfie libere per carpire la preda. La testa del mostro è quasi grande quanto la metà del tronco. La sua mascella è armata di acuti denti e ricurvi, i quali dovevano farne un terribile nemico per gli animali facendone tante sue vittime. » (II mondo avanti la creazione dell’uomo, lib. XXXII, p. 4; 1856). Piglino pure il loro partito, Voltaire e la sua generazione; è esistita una specie di mostri anfibii di cento piedi di lunghezza e di una grossezza proporzionata, ritti sopra alte gambe che vanno a terminare come le granfie del leone, aventi le ali del pipistrello, le squame del coccodrillo, i denti del pesce cane, la testa del maschio della balena, il collo e la coda di serpente, ed ecco il Drago. – E questo drago dà il nome all’arcangelo decaduto, al re della Città del male. All’oggetto di vendicare la Scrittura, abbiamo creduto estenderci intorno al primo nome che essa gli dà. – Essa lo chiama Serpente, Serpens; antico Serpente, Serpens antiquus. Questo nome si addice a Lucifero e perché come serpente ha sei mila anni d’età e perché una lunga pratica lo rende il più terribile: e perché ei si serve per tentare Eva del ministero del serpente; e perché ha tutte le qualità dell’odioso rettile. Serpente per l’astuzia, serpente per il veleno, serpente per la forza, serpente per la potenza del fascino. Tale è questa potenza che seduce l’intero mondo: seducit universum orbem; di maniera che il culto del demonio sotto la forma del serpente, ha fatto il giro del pianeta. I Babilonesi, gli Egizii, i Greci, i Romani, tutti i grandi popoli, pretesi inciviliti dell’antichità pagana, hanno adorato il serpente, come l’adorano anche oggi i negri degradati dell’Africa. (Corn. a Lap., in Gen. III, 15; e Dan. XIV, 22). E questo serpente, il più spaventoso di tutti gli altri è l’arcangelo decaduto, è il Re della Città del male! – Essa lo chiama Avvoltoio, Uccello di rapina, Avis. Per le regioni ch’egli abita, per l’agilità dei suoi movimenti, per l’abilità nello scuprire la preda, per la sua prontezza a gettarsi sopra, per la sua rapidità nel corrergli dietro per l’aria, per la crudeltà con la quale egli succhia il sangue e gli divora le carni, il demonio è bene un uccello di rapina, un avvoltoio. E questo avvoltoio più crudele di tutti gli altri, è l’arcangelo ribelle, il Re della Città del male! (S. Cyp., de Proelat.simpl., tract, III – S. Greg., lib. XXXIII Moral., XIV).Lo appella Leone, Leo. Come il Verbo incarnato è chiamato Leone della tribù di Giuda, Leo de tribù Juda, a motivo della sua forza: la Scrittura ha cura di chiamare, il demonio, Leone ruggente, Leo rugiens, Leone  sempre in furore e cercante preda, quaerens quem devoret. (S. Aug serm. XLVI, de diversis, n. 2). Nessun nome fu mai meglio applicato. Il leone è il re degli animali: Lucifero è il principe dei demoni. Orgoglio, vigilanza, forza, crudeltà: tale è il leone, e tale l’angelo decaduto, il leone divora non solamente quando ha fame, ma specialmente quando è in collera. In Lucifero, la fame e l’odio delle anime sono insaziabili. Il leone disprezza i lordi avanzi delle sue vittime. Non v’ha sorte di avaria, talora di cattivi trattamenti che il demonio non faccia subire ai suoi schiavi senza parlare delle vergogne alle quali sempre li trascina. – Ardente per natura, il leone è libidinoso all’eccesso. (Vid. Com. a Lap., in Dan. VII, 4). – Altrettanto può dirsi del demonio in questo senso perché nulla omette per spingere l’uomo all’impuro vizio. Il leone esala un odore acuto e sgradito. Il demonio spande un odore di morte. Perciò l’ebreo lo chiama Capro; e la storia afferma che di solito ei piglia la forma di quell’immondo animale, per offrirsi agli sguardi e alle adorazioni degli evocatori. E questo leone ruggente, e questo capro immondo è l’arcangelo ribelle, il Re della Città del male! (Corn. a Lap., I Petr., v, 8). – Lo appella Bestia, la bestia propriamente detta, Bestia. Riunite tutti i caratteri dei diversi animali nei quali la Scrittura personifica l’Arcangelo decaduto, e voi avrete la bestia per eccellenza: in uno stesso mostro la grandezza della balena, la gola e la voracità del pesce cane, i denti, gli occhi, le ignobili inclinazioni del coccodrillo, l’astuzia ed il veleno del serpente; l’agilità dell’uccello di rapina, la forza e la crudeltà del leone. Per compiere il ritratto dell’Arcangelo divenuto Bestia, gli oracoli divini gli danno sette teste, come simbolo energico dei suoi terribili istinti, o dei sette demoni principali che formano il suo corteggio. E questa bestia che non può rappresentarsi senza impallidire, è l’Arcangelo decaduto, vale a dire il Re della Città del male! (Corn. a Lap., Apoc., XII, 8). Ancor più che le spaventevoli qualità di cui abbiamo descritto il quadro, due cose lo rendono terribile: la sua natura ed il suo odio. Il leone ed il drago, il serpente e gli altri mostri corporei, non hanno che una limitata potenza. Essi sono soggetti alla fatica, alla fame, alla vecchiaia, alla morte, alle leggi della gravità e delle distanze. Allontanati, sazi, infermi, morti, incatenati o addormentati essi cessano di nuocere. Come semplice spirito, Satana non conosce né stanchezza, né bisogno, né catene, né vecchiaia, né morte, né sonno, né gravezza, né distanza apprezzabile ai nostri calcoli. (S. Th., I, p. 9,. 53, art. 3, ad. 3). Per la sua stessa essenza egli ha sul mondo della materia una naturale potenza. Come il corpo è fatto per essere messo in moto mediante l’anima, cosi la creazione materiale è, in ragione della sua inferiorità, soggetta all’impulso degli esseri spirituali. Nella sua caduta satana non ha perduto niente di questa potenza. Essa è tale che egli può, in parte almeno, scuotere il nostro pianeta, rovesciarlo e combinarne gli elementi in modo da produrre i più meravigliosi effetti. ( S. Th., I p. q. CX, art. 3, De malo, q. xvi, art. 10, ad 8). Se noi ne giudichiamo dalla potenza della nostra anima, quella di satana non ha nulla che debba meravigliarci. Che cosa non fa l’anima umana della creazione materiale che essa può colpire? E che non farebbe ella se non ne fosse impedita? Fra le sue mani, la materia, anche la più ribelle, è come un giocattolo tra le mani di un fanciullo. Essa la sconvolge, la scava, la sminuzza, la trasloca, la sommerge negli abissi dell’Oceano; essa la lancia in aria, e la forza a tenersi in piedi per secoli interi. Non v’è forma che essa non le imprima. Ora la rende solida, ora liquida, o aeriforme. Essa la condensa, la dissolve, la fa ridurre in scoppi. Con le sue forze combinate, essa produce la folgore che uccide, o l’elettricità che trasporta il pensiero con la rapidità del lampo. Ossia ghiaccio, o neve, o fuoco, scoglio, montagna, pianura, bosco, lago, mare o fiume, essa gli comanda da padrona. Ciò che l’anima umana fa della materia che può colpire, essa lo farebbe del pari del rimanente del pianeta. Che dico? essa farebbe mille volte più se non fosse impedita dagli impacci, che la uniscono al corpo e dall’imperfezione degli istrumenti di cui dispone. Tutti i giorni i suoi giganteschi pensieri fanno testimonianza che non è la forza che le manca, ma i mezzi di esecuzione. Se la potenza dell’anima nostra sulla materia ha dei limiti che ci sono sconosciuti, come misurare quella dell’angelo, puro spirito, di una natura molto superiore a quella dell’anima nostra? (I p. q. LXXV, art. 7, ad 2). Come soprattutto calcolare la potenza del principale degli spiriti? Ora, tale è satana, il Re della Città del male: « Il primo angelo che peccò, dice san Gregorio, era il capo di tutte le gerarchie. Come egli superava in potenza, egli le superava in splendore. (Homil. XXXIV in Evang., e S. Th. I p. q. LXVII, art. 7 e 9 ». Per non citare che un esempio di quel che egli può, contentiamoci di ricordare la storia di Giobbe. Allo scopo di esperimentare la virtù del santo uomo, Iddio permette a satana di usare contro di lui, dentro un certo limite, della potenza del suo odio. In un attimo egli ha condensato le nubi, scatenato i venti, acceso il fulmine, scossa la terra, e i fabbricati di Giobbe sono atterrati. Le sue greggi spariscono, i suoi figliuoli muoiono. Pochi istanti gli sono bastati per cagionare tutte queste rovine. Allorché gli sarà dato il permesso, ei porrà meno tempo ancora a ricoprire Giobbe dal capo sino ai piedi, di ulceri puzzolenti, e farà del più magnifico principe dell’Oriente, un solitario mendico, e il patriarca del dolore. Più tardi noi lo vediamo assalire, senza conoscerlo, il Figliuolo stesso di Dio. Con la rapidità del lampo, ei lo trasporta alternativamente dal fondo del deserto sul pinnacolo del tempio e sulla cima d’una montagna. Ivi, con uno di quei prestigi, che noi non possiamo comprendere, ma che gli sono famigliari, ei fa passare davanti agli occhi del Verbo incarnato tutti i regni della terra con le loro magnificenze. Ora, ciò che era a tempo di Giobbe e della redenzione, il Re della Città del male lo è oggidì. La stessa natura, per conseguenza la stessa potenza, lo stesso odio dell’uomo e del Verbo fatto carne. Di qui deriva a lui un altro nome. Esso è chiamato omicida, omicida per eccellenza, homicida ab initio, Omicida sempre, omicida di volontà, omicida di fatto, omicida di tutto ciò che respira, omicida del corpo, omicida dell’anima. Questo nome troppo lo giustifica.

Omicida del Verbo. — Nell’istante stesso in cui il mistero dell’Incarnazione gli fu rivelato, divenne omicida. Allo scopo di far mancare il piano divino, concepì pensiero di uccidere il Verbo incarnato. Egli l’uccise in cuor suo, e fu omicida dinanzi al Padre, dinanzi al Figlio, dinanzi allo Spirito Santo, dinanzi al mondo angelico, aspettando d’esserlo in realtà dinanzi al mondo umano. (Rupert, in Joan., lib. VIII, n. 242, III.

Omicida degli Angeli. — Strascinandoli nella sua rivolta ei fu per essi la cagione della dannazione, cioè della morte eterna. Far soccombere, quanto possano soccombere degli spiriti, centinaia di milioni di creature, le più felici e le più belle che sieno uscite dal nulla; qual carneficina e qual delitto! (Viguier, LXXXVII).

Omicida dei Santi. — Quel che fu in cielo egli è sulla terra. Omicida d’Adamo, omicida d’Abele, omicida dei profeti, omicida dei Giusti dell’antico mondo, immagini profetiche del Verbo incarnato. In essi è lui che perseguita, lui che tortura, lui che uccide. Omicida degli Apostoli e dei martiri, continuazione vivente del Verbo incarnato. In essi ancora è lui, sempre lui che insulta, che oltraggia, che flagella, che sbrana, che mutila, che brucia, che uccide e che ucciderà sino alla fine dei secoli.

Omicida dell’uomo in generale. — Egli è che ha introdotto la morte nel mondo. Nessuna agonia succede che egli non ne sia la cagione; non una goccia di sangue versato che non ricada su di lui; non un uccisione di cui non ne sia egli l’istigatore. Gli avvelenamenti, gli assassinii, le guerre, i combattimenti dei gladiatori, i sacrifici umani, l’antropofagia, vengono da lui. Omicida specialmente dell’infante, immagine più perfetta e più amata dal Verbo: sono a miliardi i fanciulli che satana ha fatti immolare al suo odio, presso tutti i popoli dell’Oriente e dell’Occidente, e che continua a fare immolare. (oggi con la barbara pratica dell’aborto – ndr. -). Omicida, non solo spingendo l’uomo ad uccidere il suo simile, ma eccitandolo ad uccidere se medesimo. Il suicidio è opera sua. Noi lo mostreremo altrove, provando che il suicidio, sopra una grande scala non si è visto nel mondo che nelle due epoche, in cui il regno di satana fu al suo apogeo. Intanto, citeremo la testimonianza di uno dei nostri Vescovi missionari: « Quanti fatti avrei io da raccontarvi per dimostrarvi sempre più, se se ne potesse dubitare, la potenza di satana sugli infedeli. Tra mille eccone uno il quale è ordinario in Cina, come pure nel Su-Tchuen che qui, in Mandchourie, e che è attestato da migliaia di testimoni. Quando per qualche lite con sua suocera o col suo marito, per colpi ricevuti o per amare parole, piglia ad una donna la voglia di impiccarsi, ed il caso è frequente in questo impero, sovente non è necessario ricorrere alla sospensione. Questa disgraziata si pone a sedere sopra una sedia o sopra il suo kango (specie di panchetto), si passa al collo la corda fatale, e quegli che fu omicida sin da principio s’incarica del resto…. e serra il nodo. (Annali della Propag. ecc., 1857, n. 175, p. 428. Lettera di Monsig. Vérolles, vescovo di Mandchourie). Uccidere il corpo non gli basta. L’uomo è soprattutto per l’anima l’immagine del Verbo incarnato, e il grande omicida tende principalmente all’anima. La sua esistenza non è che una caccia alle anime: e quale carneficina non ne fa egli! Milioni di cacciatori e milioni di carnefici sono ai suoi ordini. Dappertutto le loro insidie, dappertutto le loro vittime. La terra è ricoperta degli uni, l’inferno pieno degli altri. Che cosa è l’idolatria che ha regnato e che regna tuttora sulla maggior parte del pianeta, se non una immensa macelleria d’anime? Chi ne è la causa divoratrice? il grande omicida, nascosto sotto mille nomi e sotto mille differenti forme. (S, Th., 2a 2æ 10, q. XCIV, art. 4, corp.) Dal seno stesso del Cristianesimo, donde viene la funesta tendenza e sempre più generale che spinge tanti milioni d’anime al suicidio di sé medesime? Non potendo essere dello Spirito Santo, è dunque altresì e sempre dell’eterno omicida.1 (S. Th,, I p. q. LXIV, art. 2, corp. ; id,, id., CXIV, art. 3, corp.; id., Ia 2ae, q. LXXX, art. 4. Corp.). – Tale è la guerra accanita, spietata, che satana fa al Verbo incarnato e che gli merita il nome di omicida: ma ne ha ancora degli altri. Esso è detto Demonio, Dæmon. Per nominare Lucifero, i sacri oracoli dicono il Demonio, cioè a dire il demonio più terribile, il Re dei demoni. La sua spaventosa scienza delle cose naturali, la sua scienza non meno spaventosa dell’uomo e di ciascun uomo, del suo carattere, delle sue inclinazioni, delle sue abitudini, del suo temperamento, insomma delle sue disposizioni morali, gli hanno fatto dare questo nome che significa: intelligente, dotto, veggente. Non potendo leggere immediatamente. nell’anima nostra, egli vede quel che accade dalle finestre dei nostri sensi. I nostri occhi, il nostro volto, il tuono della nostra voce, i moti dei nostri membri, il nostro incesso, la maniera di abbigliarci, di tenerci, di mangiare, di comportarci in tutte le cose, sono altrettanti indizi da cui ei trae certe conclusioni, per tenderci insidie e scagliarci dei dardi. – Egli è chiamato Diavolo o piuttosto il Diavolo, Diabolus. – Odioso tra tutti, questo nome significa calunniatore. Due cose costituiscono la calunnia: la menzogna e l’oltraggio. A questo doppio punto di vista, Lucifero è il calunniatore per eccellenza. Dal punto di vista della menzogna, il suo nome presenta allo spirito uno spaventoso composto d’ipocrisia, di scaltrezza, di frode, d’astuzia, d’inganno, di malizia, di bassezza e di tracotanza. Il mentire è la sua vita. È desso che ha inventato la menzogna, ed è la menzogna vivente: Mendax et Pater mendacii. Egli mentì in cielo, e mente sulla terra; mentì ad Adamo e mente a tutta la sua posterità. Egli mentì nelle sue promesse, mente nei suoi terrori; mente dicendo la verità, poiché non la dice che per meglio ingannare. (S. Th. I p. q. LXIV,  art. 2, ad 5). – Mente sopra ogni cosa, mente con audacia, mente sempre e tutte le sue menzogne sono tanti oltraggi. Sotto questo punto di vista è del pari degno del suo nome. Calunniare, cioè dire, oltraggiare e bestemmiare il Verbo fatto carne; calunniarlo nella sua divinità, nella sua Incarnazione, nella sua veracità, nella sua potenza, nella sua sapienza, nella sua giustizia, nella sua bontà, nei suoi miracoli e nei suoi benefizi; calunniare la Chiesa sua sposa, calunniarla nella sua infallibilità, nella sua autorità, nei suoi diritti, nei suoi precetti, nelle sue opere, nei suoi ministri, nei suoi figli; provocare cosi l’odio e il disprezzo del Verbo incarnato e di tutto ciò che gli appartiene; tale è, la storia lo prova, l’incessante occupazione del Re della Città del male. Egli è chiamato satana, satanas. Quest’ultimo nome riassume tutti gli altri. satana vuol dire avversario, nemico. Nemico di Dio, nemico degli angeli, nemico dell’uomo, nemico di tutte le creature, nemico instancabile, implacabile, sveglio notte e giorno, e al quale tutti i mezzi son buoni; nemico per eccellenza, il quale riunendo in sé tutte le potenze ostili con la loro astuzia e forza, gli pone a servigio del suo odio: tale è l’Arcangelo decaduto. –  Di fronte a un simile nemico, la presuntuosa ignoranza può sola rimanere noncurante e disarmata. Altri sono i pensieri, altra è la condotta del genio. Sempre camminare coperto dell’armatura divina, che sola può difenderlo dai dardi infiammati di satana, è la sua sollecitudine del giorno e la sua preoccupazione della notte. Traiamo profitto dagli avvertimenti che un terrore troppo giustificato ispirava a sant’Agostino: « Che cosa vi è di più perverso, di più malefico del nostro nemico? Egli ha posto la guerra in cielo, la frode nel paradiso terrestre, l’odio tra i primi fratelli: ed in tutte le opere nostre ha seminato la zizzania. Vedete: nel mangiare, ha messo la gola; nella generazione, la lussuria; nel lavoro, la pigrizia; nelle ricchezze, l’avarizia; nel conversare tra di noi, la gelosia; nell’autorità, l’orgoglio; nel cuore, i cattivi pensieri: sulle labbra, la bugia, e nei nostri membri operazioni colpevoli. Quando siamo svegli ci spinge al male; si dorme, ci dà dei sogni vergognosi; nella gioia, ci porta alla dissolutezza; nella tristezza, allo scoraggiamento ed alla disperazione. Per dir tutto in una sola parola: tutti i peccati del mondo sono un effetto della sua perversità. » (Serm. comm., IV). L’odio di lui va più oltre. Nella stessa guisa che il Verbo incarnato appropria la sua grazia alla natura, alla posizione ed ai bisogni di ciascuno; cosi satana approfittando della sua penetrazione cambia i suoi veleni, secondo la particolare disposizione di ciascuna anima. Ascoltiamo ancora un altro genio: « L’astuto serpente, dice san Leone, sa a chi deve presentare l’amore delle ricchezze; a chi gli allettamenti della gola; a chi le eccitazioni della lussuria; a chi il virus della gelosia. Egli conosce chi bisogna turbare col rimorso; chi bisogna sedurre con la gioia; chi bisogna abbattere col timore; chi affascinare con la bellezza. Di tutti egli discute la vita, districa le sollecitudini, scrutina le affezioni; e dove vede la preferenza di qualcuno, ivi egli cerca un’occasione di nuocere. » (Et ibi causas quærit nocendi, ubi quemcumque viderit studiosius. Serm. VIII, de Nativ.). – Tale è satana, l’arcangelo decaduto, il re della Città del male.

CONOSCERE SAN PAOLO (35)

LIBRO QUARTO

L’opera della redenzione

CAPO I.

La missione redentrice

I. L’INVIATO DA DIO.

1. SCOPO DELLA MISSIONE REDENTRICE. — 2. IL MEDIATORE DELLA NUOVA ALLEANZA. — 3. FUORI DI LUI NON VI È ALTRO MEDIATORE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Già abbiamo detto che l’iniziativa della nostra salvezza spetta sempre al Padre celeste. A lui san Paolo si compiace di riferire il complesso dei disegni di redenzione la cui esecuzione è affidata al Figlio, mediatore naturale tra Dio e gli uomini: “Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò suo Figlio, nato da una donna, messo sotto la Legge, per riscattare coloro che erano sotto la Legge, per farci ricevere la filiazione adottiva” (Gal. IV, 4-5). Questo breve passo esprime il fatto, il tempo, il modo, lo scopo della missione redentrice. — Il fatto: Dio Padre manda il suo unico Figlio, assai bene distinto da tutti coloro che parteciperanno al nome di figli, per lo stesso suo isolamento e per la relazione incomunicabile che lo unisce al Padre; Egli lo manda da vicino a sé, dall’alto dei cieli, secondo la forza della parola composta adoperata dall’Apostolo; lo manda in un momento preciso della durata, ma non lo costituisce Figlio nel mandarlo, perché questa missione suppone evidentemente la preesistenza reale del Figlio. — Il tempo: è la pienezza dei secoli, espressione che indica ad un tempo lo spirare degli indugi liberamente fissati dal Padre e la fine delle preparazioni provvidenziali che dovevano disporre il mondo a quel grande avvenimento. Dopo sarebbe stato troppo tardi; prima sarebbe stato troppo presto: il termine delle profezie messianiche doveva coincidere con la maturità del genere umano. — Il modo è sintetizzato in questa breve formula: « nato da una donna, messo sotto la Legge ». Conveniva infatti che il Figlio partecipasse alla natura di coloro che veniva a riscattare, col nascere da una donna, come tutti gli altri uomini, per avere il diritto di chiamarli suoi fratelli e per farli partecipi della sua qualità di figlio; conveniva pure che fosse sottomesso alla Legge, per liberare i suoi compatrioti dal giogo della Legge; convenienza che diventa necessità nel disegno attuale della redenzione, secondo il quale Dio ha stabilito di salvare gli uomini mediante il principio della solidarietà. — Lo scopo doppio della missione corrisponde al doppio stato dell’inviato divino: sottrarre gli Ebrei dalla tirannia della Legge per sottometterli al Vangelo; conferire a tutti gli uomini Ebrei e Gentili, la filiazione adottiva. Un altro testo, celebre tanto per la sua difficoltà intrinseca, quanto per le divagazioni degli esegeti, è assai simile al precedente, ma ne differisce in un punto: l’idea principale, espressa dal verbo in modo personale, non è più la stessa missione del Figlio, ma la condanna del peccato nella carne, che risulta da tale missione: Cosa che era impossibile alla Legge, perché era indebolita dalla carne, – Dio, mandando il suo proprio Figlio in una carne simile alla carne del peccato e per il peccato, condannò il peccato nella carne, affinché si compisse in noi la giustizia della Legge (Rom. VIII, 3-4). – Fatta astrazione da tutti i punti dubbi, da questo complesso periodo risulta chiaramente come uno dei motivi di Dio, nel mandare suo Figlio, era di rimediare all’impotenza, oramai riconosciuta, della Legge mosaica. La Legge mostrava all’uomo la via della giustizia e ve lo doveva condurre; ma essa era stata intralciata e paralizzata dalla carne, cioè dall’inclinazione al male che ora infetta la natura umana. Per vincere e annientare il peccato nel suo stesso dominio, Dio manda suo Figlio « nella somiglianza di una carne di peccato ». Paolo non dice « nella somiglianza della carne », poiché così lascerebbe capire o che il Cristo non aveva vera carne, o che la sua carne era di natura diversa dalla nostra. Non dice neppure « in una carne di peccato », perché così si potrebbe intendere che il Cristo rivestì una carne peccatrice. Egli dice invece, con espressione veramente felice, « nella somiglianza di una carne di peccato »; infatti la carne del Cristo è proprio una carne reale che fisicamente non si distingue per nulla dalla nostra, ma essa è soltanto in apparenza una carne di peccato, poiché non è né l’eredità, né la sede, né il fomite, né lo strumento del peccato. – Siccome aveva la missione di condannare il peccato nella carne, Gesù-Cristo non doveva avere nulla di comune col peccato. Dio lo manda espressamente « in vista del peccato », cioè per espiare e per riparare il peccato; e non solamente il peccato originale, ma il peccato in generale, qualunque ne sia la natura e la sorgente. I migliori esegeti di tutte le scuole hanno veduto benissimo che non si tratta qui di una semplice condanna per comparazione, come sarebbe quella che risulterebbe, per l’uomo peccatore, dallo spettacolo della carne innocente del Cristo, e neppure di una sentenza platonica la quale lascerebbe le cose nello stato di prima. Essi danno al verbo « condannare » gli equivalenti più forti « vincere, abbattere, distruggere, abolire, annullare, espellere, uccidere, sterminare »; essi hanno ragione senza dubbio, poiché la condanna di Dio, essendo efficace, deve necessariamente sortire il suo effetto; ma l’idea di condanna effettiva di cui si contenta san Paolo, è abbastanza chiara, ed è meglio fermarsi a questa. Dio condanna all’impotenza il peccato che regnava nella carne; e lo condanna nella stessa carne, poiché la carne del Cristo è la nostra. La maggior parte dei commentatori, per aver voluto cercare in questo testo quello che san Paolo non vi ha messo, se ne sono chiusa la via per capirlo. Essi lo hanno completato arbitrariamente, e ciascuno a modo suo, o intendendo l’espressione « per il peccato » nel senso di «sacrificio per il peccato »; oppure supponendo che la condanna del peccato abbia luogo nella sola carne del Cristo, quasi che il testo dicesse « nella sua carne »; oppure dimenticando che la condanna del peccato è qui l’opera del Padre il quale incarica il Figlio di metterla in esecuzione.

2. Questa missione costituisce Gesù Cristo mandatario di Dio e rappresentante degli uomini, in altri termini, mediatore. Nella religione giudaica vi furono: tre sorta di mediatori: i re, i sacerdoti e i profeti. Il profeto porta agli uomini i messaggi di Dio; il sacerdote amministra a nome degli uomini le cose di Dio; il re teocratico era il luogotenente di Dio. Sacerdoti e profeti sono egualmente mediatori tra Dio e l’uomo; però su la scala misteriosa che unisce il cielo con la terra, il sacerdote sale, e il profeta discende: il profeta inviato da Dio, discende verso gli uomini; il sacerdote, delegato dagli uomini, sale verso Dio. Senza dubbio, compiuta la loro missione, essi eseguiscono un movimento inverso: il profeta, risale verso Dio per rendergli conto del suo messaggio, e il sacerdote scende di nuovo verso quelli che lo hanno mandato, per distribuire loro le benedizioni del cielo; ma la prima direzione è quella che li caratterizza. In quanto poi al re teocratico, il suo trono è « il trono di Jehovah » stesso (Ps. XLIV); Davide, vestito dell’ephod, benedice il popolo in nome di Dio (II Sam. VI, 18); nei salmi messianici, il re discendente di Davide si presenta come l’intermediario titolato tra Dio e il popolo. – Gli Ebrei contemporanei di Gesù Cristo, pensavano alla triplice mediazione del Messia, re, profeta e pontefice? Avevano essi l’idea di un sacerdozio diverso dal sacerdozio levitico, e riconoscevano essi generalmente il Messia nel « sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedeeh »? Il profeta che aspettavano era egli lo stesso Messia o un precursore del Messia? Questioni spinose, rese più intricate dalle controversie e oscurate dall’incertezza e dalla forma poco precisa dei dati contrari. Gli scrittori del Nuovo Testamento ci mostrano bensì la regalità spirituale, la pienezza dello spirito profetico ed il sacerdozio eterno in Gesù Cristo, ma senza mai unire insieme queste tre attribuzioni; sembra anzi che essi se le dividano, poiché i Sinottici mettono in rilievo la qualità del re messianico, san Giovanni, l’autorità del profeta per eccellenza, l’Epistola agli Ebrei, la dignità del pontefice che per il primo apre la via del cielo. Paolo invece non chiama il Cristo né re né sacerdote né profeta; e benché gli attribuisca funzioni regali, sacerdotali e profetiche, questa divisione ternaria delle mansioni del Cristo, estranea alle speculazioni messianiche degli Ebrei, quasi sconosciuta ai Padri, introdotta o messa in voga, dopo curiosissimi brancolamenti, dai riformatori del secolo XVI, non conviene punto alla teologia paolina. – L’Apostolo soltanto una volta dà a Gesù Cristo il nome di mediatore. « Unico è Dio, unico pure il mediatore di Dio e degli uomini, Gesù Cristo uomo, il quale ha dato se stesso come riscatto per tutti I Tim. II, 5)». L’estendere a tutti il benefizio della volontà di salvare, rendendo propizio Iddio col sacrificio spontaneo della vita che egli offre come rappresentante del genere umano, questo era lo scopo il mezzo e la condizione della sua mediazione onnipotente. Siccome l’uffizio speciale del mediatore è quello di servire come mezzo per unire le due parti, per riconciliarle se sono in guerra, per stringere di più i loro vincoli se sono in pace, l’Uomo-Dio era eminentemente adatto per compiere questa parte; infatti con le sue due nature egli s’identifica con i due estremi, e, col suo composto teandrico, li lega con una unione indissolubile. Gesù Cristo fu dunque mediatore non solamente per il suo stato, intermediario tra la via e il termine, tra la prova e la corona, e neppure solamente con la sua persona, unione armonica della umanità e della divinità, ma soprattutto come dispensatore dei benefizi divini dei quali è l’unico depositario. Infatti il Cristo di san Paolo non è un semplice mediatore naturale, come il Logos di Pilone, ma è un mediatore di vita soprannaturale. Per mezzo di Lui infatti noi abbiamo la grazia (Rom. I, 5; V, 21), la salvezza, cominciata su questa terra e consumata in cielo (I Tess. V, 9); per mezzo di Lui abbiamo la giustizia e il frutto della giustizia (Rom. III, 24); per mezzo di lui abbiamo la giustificazione (Rom. V, 18), la redenzione (Rom. III, 24) e la riconciliazione; per mezzo di lui abbiamo la pace (Rom. V, 1) e la pacificazione generale (Col. I, 20); per mezzo di lui abbiamo il libero accesso a Dio (Rom. V, 2; Ephes. II, 18) e un rifugio sicuro contro l’ira divina (Rom. V, 9); per mezzo di lui abbiamo la consolazione spirituale (II Cor. I, 5) e la fiducia che nulla può turbare (II Cor. III, 4); per mezzo di lui abbiamo il dono dello Spirito Santo (Tit. III, 6) e la filiazione adottiva (Ephes. I, 5); per mezzo di lui abbiamo la vittoria sopra tutti i nostri nemici (Rom. VIII, 37); per mezzo di lui abbiamo il regno senza fine (Rom. V, 17). Per mezzo di lui solo noi possiamo gloriarci in Dio (Rom. V, 11) e dobbiamo rivolgergli i nostri ringraziamenti (II Cor. I, 20); poiché come tutte le promesse divine ebbero in lui il loro sì, cioè il loro compimento, per mezzo pure di lui i fedeli pronunziano il loro amen, in un atto di fede sincera e riconoscente, per far risalire a Dio tutto l’onore e la gloria (II Cor. I, 20). In una parola, nell’ordine della grazia, più ancora che nell’ordine della natura, « tutto è per mezzo di lui (o per lui) e noi siamo per mezzo di lui (I Cor. VIII, 6) » poiché egli è il principio della nostra vita e di tutto il nostro essere.

3. Perciò non vi è più nessun altro mediatore o superiore o uguale a Lui. I Colossesi, con un malinteso culto degli Angeli, che nel loro pensiero si collegava con l’osservanza della Legge mosaica, derogavano alla mediazione universale del Cristo. « Si andava dicendo loro che la Legge era stata data per mezzo degli Angeli, perché questi avevano prestato il loro ministero nella sua promulgazione e non potrebbero perciò vedere con occhio indifferente il disprezzo della Thora » della quale erano essi i custodi. Col violare la Legge, si andava dunque incontro allo sdegno e alla vendetta degli spiriti celesti. Ma l’Apostolo li assicurava che questo non è punto vero: Dio spogliando (delle loro funzioni passate) i principati e le potestà, li ha esposti ostensibilmente agli sguardi (di tutti, così spogliati e privati dei loro onori), trascinandoli in trionfo (al seguito del Cristo vincitore, assiso) in croce (o per mezzo della croce) (Col. II, 15). San Paolo conosce soltanto due specie di esseri sovrumani, i buoni ed i cattivi, gli spiriti della luce e gli spiriti delie tenebre, gli Angeli di Dio e gli angeli di satana. In nessun luogo dei suoi scritti appare il concetto di esseri intermedi destinati forse a diventare angeli o demoni, ma che attualmente non sarebbero né angeli né demoni. Per gli Ebrei contemporanei di san Paolo, e per lo stesso san Paolo, gli angeli associati alla promulgazione della Legge erano gli Angeli buoni, e non veniva a nessuno l’idea che essi fossero venuti meno al loro mandato o avessero rivolto contro Dio l’autorità di cui erano investiti. I Colossesi che li veneravano, non ne avevano affatto un’idea diversa, e l’Apostolo parlerebbe in modo incomprensibile se li mettesse in un’altra ipotesi. Non vi è dunque nulla che insinui una prevaricazione di quegli Angeli; ma dopo l’abolizione della Legge, il loro compito fu terminato e la loro mediazione non ebbe più il suo oggetto. Gesù Cristo, infinitamente elevato sopra le potenze sopraterrestri, il solo capace di rivelarci il Padre del quale è l’immagine perfetta, il solo intermediario titolato tra Dio e gli uomini, si sostituisce oramai agli spiriti celesti promulgatoli e custodi di una legge che, invece di favorire il disegno della redenzione, gli è piuttosto di ostacolo. Perciò quando la Legge vien messa in disparte, essi partecipano in certo modo alla sua disgrazia, e il loro ministero non ha più ragione di essere. Dio li fa servire come di scorta al Cristo trionfatore: per sé, questo sarebbe un onore, ma è anche una diminuzione perché rappresenta la fine della loro autonomia ed è la prova che essi sono soltanto i subalterni ed i satelliti del gran mediatore. Perché dunque san Paolo, parlando del Cristo, è così avaro del nome di mediatore? Sarebbe forse perché, nell’opinione e nel linguaggio comune degli Ebrei di quel tempo, Mosè era il mediatore per eccellenza! (Gal. III, 19). Eppure l’Epistola degli Ebrei che non ignora tale usanza, chiama Gesù Cristo mediatore della nuova alleanza (Ebr. VIII, 6). La ragione si deve cercare altrove: il mediatore, nel senso usuale della parola, è estraneo alle due parti che deve mettere in relazione tra loro; non così è di Gesù Cristo, nel quale la pienezza della divinità abita corporalmente, e che realmente è entrato nella famiglia umana. Egli è mediatore, ma non è un mediatore ordinario; egli è il nuovo Adamo: questo è un titolo che san Paolo crea apposta per Lui e che, contenendo eminentemente quello di mediatore, lo rende perciò inutile.

II. IL NUOVO ADAMO.

1. PARALLELO TRA I DUE ADAMI. — 2. COMPITO E QUALITÀ DEL SECONDO ADAMO.

1. L’immagine più completa, più feconda, più originale che l’Apostolo ci dà della missione redentrice del Cristo, è quella del nuovo Adamo. È più che dubbio che tale immagine gli sia stata, suggerita dalla teologia ebraica contemporanea, perché la denominazione di secondo Adamo o di ultimo Adamo si trova soltanto in certi scritti di ben poca autorità e di assai bassa epoca, e si può benissimo credere che la locuzione tanto frequente Adam ha-Eishon non significhi il primo Adamo, ma semplicemente il primo uomo. Ad ogni modo era riservato a Paolo di esprimerne il valore dottrinale e di far vedere le armoniche relazioni che essa stabilisce nel complesso della soterologia cristiana. Adamo e il Cristo riassumono i due periodi dell’umanità, essi non li simboleggiano soltanto, ma li realizzano nella loro persona con una misteriosa identificazione. La prima volta che il parallelo si presenta sotto la penna di Paolo prende questa forma antitetica: “Se vi è un corpo psichico, vi è un corpo spirituale. Così sta scritto: Il primo uomo, Adamo, diventò un’anima vivente; l’ultimo Adamo (diventa) uno spirito vivificante. Ma non è lo spirituale (che passa) prima; è quello psichico, poi lo spirituale. Il primo uomo, (tratto) dalla terra, (è) terrestre; il secondo uomo (viene) dal cielo. Quale il terrestre, tali anche i terrestri; e quale il celeste, tali anche i celesti; e come noi abbiamo portato l’immagine del terrestre, porteremo (o portiamo) anche l’immagine del celeste” (I Cor. XV, 44-49). Senza lasciarci distrarre dalle idee accessorie e dalle parentesi esplicative — esistenza e origine del corpo spirituale, origine, natura e priorità del corpo psichico — fermiamoci all’idea centrale. L’Apostolo ha detto prima: « Un corpo psichico è seminato, un corpo spirituale risuscita »; egli conclude, dopo la sua lunga spiegazione: « Come noi abbiamo portato l’immagine del terrestre, porteremo anche l’immagine del celeste ». Il corpo psichico è il corpo perituro tale e quale viene restituito alla terra, tale e quale ebbe il primo uomo dalle mani del Creatore. Il corpo di Adamo fu fatto di terra, o più particolarmente dal limo della terra; ma quando Dio gli ebbe ispirato il soffio della vita, diventò un’anima vivente; così la Scrittura indica un essere animato, dotato di un principio vitale. Adamo non può trasmettere ai suoi discendenti più di quello che possiede per natura, cioè un corpo psichico e mortale. Né si può obiettare che egli fu ornato della grazia santificante e fu destinato all’immortalità: questi doni soprannaturali che non erano inerenti a lui e che egli non seppe conservare, non fanno parte del suo retaggio. Egli è terrestre e non può dare origine che a uomini terrestri. Ben altra è la condizione del secondo Adamo. Egli è del cielo, non solamente perché il cielo è il suo centro di gravitazione e il luogo attuale della sua dimora, dal quale ritornerà glorioso al momento della parousia, ma soprattutto per la sua preesistenza divina e per i doni celesti che questa gli conferisce per lui e per i suoi (I Cor. XV, 47). Egli è celeste per tutti i titoli, e il suo corpo risuscitato è spirituale perché  è sciolto dalle limitazioni della materia ed è interamente dominato dallo Spirito. Se il corpo psichico è quello che serve di organo all’anima sensitiva ed è proporzionato alla medesima, il corpo spirituale sarà quello che serve di strumento ad un principio di operazione di un ordine superiore — chiamato da san Paolo spirito — e che partecipa alle sue perfezioni. Il momento della risurrezione è quello in cui Gesù Cristo prende effettivamente questo corpo spirituale al quale gli danno diritto la pienezza dello Spirito Santo posseduta fin dalla sua miracolosa concezione e il merito acquistato nell’opera redentrice; ed è pure il momento della risurrezione quello in cui diventa spirito vivificante, capace di effondere e di trasfondere la vita soprannaturale di cui è dotato. Perciò mentre il primo Adamo tramanda la morte a tutti quelli che sono una sola cosa con lui per il fatto della generazione naturale, il secondo Adamo trasmette la vita a tutti quelli che sono una cosa sola con lui per il fatto della generazione soprannaturale. Adamo è « di terra », è « terrestre », e diventa « un’anima vivente » nell’istante della sua creazione, quando comincia ad essere capo dell’umanità; il parallelismo c’invita a mettere i tre termini opposti in rapporto col momento in cui Gesù Cristo diventa il capo glorioso dell’umanità redenta. L’Apostolo, dopo un lungo giro, ritorna al suo punto di partenza: « La morte è per mezzo di un uomo ed anche per mezzo di un uomo la risurrezione dei morti; poiché come in Adamo muoiono tutti, così pure nel Cristo tutti saranno vivificati (I Cor. XV, 21-22) ». Il carattere di Adamo, tanto del primo quanto del secondo, è essenzialmente rappresentativo. Adamo porta in sé tutto il genere umano: dunque ciò che conviene al padre conviene anche ai figli. Noi, discendenti secondo la carne da un uomo terrestre, saremo terrestri come lui; discendenti secondo lo spirito da un uomo celeste, saremo celesti come lui (I Cor. XV, 48-49). Noi riceviamo a volta a volta l’immagine dell’uno e dell’altro. Il testo che abbiamo ora esaminato è tutto fatto di antitesi: differenze di origine, di natura, di azione e di destino tra i due Adami; quello che vedremo ora unisce il parallelismo al contrasto, benché vi domini il contrasto: « Perché come per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel mondo, e per mezzo del peccato la morte », così per mezzo di un solo uomo la giustizia è rientrata nel mondo e, per mezzo della giustizia la vita perduta in « Adamo che è il tipo dell’Adamo futuro ». — Prima somiglianza.

« Ma non è del dono gratuito come della colpa: perché se per la colpa di un solo molti  sono morti, quanto più la grazia di Dio e il dono gratuito che derivano da un solo uomo, Gesù Cristo, si riversarono sopra molti », cioè su tutti. — Primo contrasto.

« E non è del dono come (dell’atto compiuto) da un solo peccatore: poiché il giudizio (parte) da un solo (atto delittuoso e arriva) alla sentenza di condanna; ma il dono gratuito (parte) da una moltitudine di colpe (e arriva) ad una sentenza di giustificazione ». — Secondo contrasto.

« Perché se, per la colpa di uno solo, la morte regnò per il (fatto del) solo (Adamo), quanto più quelli che hanno ricevuto l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per il solo Gesù Cristo ». — Terzo contrasto.

« Così dunque come per una sola colpa (il giudizio cade) sopra tutti gli uomini in sentenza di condanna, anche per un solo atto meritorio (la grazia discende) sopra tutti gli uomini in giustificazione di vita ». — Seconda somiglianza. « Poiché come per la disobbedienza di un solo uomo molti  sono stati costituiti peccatori, così, per l’obbedienza di un solo, molti (ossia tutti, qualunque ne sia il numero) saranno costituiti giusti ». — Terza somiglianza.

« Ora la Legge interviene per far abbondare la colpa; ma là dove il peccato abbondava, la grazia è sovrabbondata; affinché, come il peccato regnò per mezzo della morte, così la grazia regni per mezzo della giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo Nostro Signore » (Rom. V, 12-21). —

Riassunto del parallelo e del contrasto.

Vi sono dunque, senza contare la conclusione finale, tre analogie e tre disparità. La prima analogia riguarda un fatto, cioè l’introduzione nel mondo e la diffusione universale del peccato e della morte per parte di Adamo, della giustizia e della vita per parte del Cristo. Una parentesi abbastanza lunga, la quale spiega come tutti gli uomini muoiono in Adamo per aver peccato tutti in Adamo, turba un poco il parallelismo; ma il rapporto tipologico, ricordato con una parola, non resta meno chiaro. La seconda analogia riguarda il modo: l’unione di solidarietà che vi è tra l’intera stirpe ed i suoi capi rispettivi, qualunque sia il numero degli individui rappresentati. La terza analogia riguarda la causa meritoria: da una parte l’obbedienza del Cristo, e dall’altra la disobbedienza di Adamo; la prima ha costituito peccatori tutti gli uomini, come la seconda li ha/costituiti giusti. Accanto alle analogie vi sono i contrasti. Il primo oppone tra loro gli strumenti: il peccato e la grazia; ma il bene la vince sul male, e la grazia è più potente a salvare, che il peccato a perdere. Il secondo contrasto paragona gli effetti: da una parte un solo peccato che si trasmette, dall’altra un solo atto di grazia che scancella e ripara peccati senza numero; vi è un evidente eccesso da parte della grazia. Il terzo contrasto paragona le persone: da una parte vi è soltanto un uomo, e dall’altra vi è Gesù Cristo il cui nome è sopra ogni nome.

2 . Riparare il peccato e vincere la morte è il compito dei secondo Adamo. Egli riparerà il peccato col dono della giustizia, e vincerà la morte con associare noi alla sua vita. « Il Cristo Gesù è venuto in questo mondo a salvare i peccatori (I Tim. I, 9) »: ci voleva questo motivo per attirarlo quaggiù. Su questo punto l’insegnamento dell’Apostolo non ha nulla di caratteristico; san Giovanni, san Pietro, come pure l’autore dell’Epistola agli Ebrei ed i Sinottici, parlano precisamente come lui. Tutti mettono la missione del Cristo in relazione col peccato, tutti presentano la sua morte come l’espiazione delle nostre colpe; nessuno lascia capire che Egli sarebbe venuto su questa terra, se non vi fossero stati peccatori da salvare (Ebr. X, 4-7). Siccome non vi è nulla che possa supplire al silenzio della rivelazione, quando si scruta il mistero dei consigli divini, l’ipotesi dell’incarnazione per un altro ordine di provvidenza non può avere che una base precaria (S. Tommaso, S. Th. III, q. art. 3), eccetto che si voglia imporre a Dio, nelle sue operazioni ad extra, l’obbligo di fare il più perfetto, il che sarebbe la negazione stessa della libertà. – Oltre la missione speciale per la quale è accreditato, il secondo Adamo deve avere due qualità essenziali: la natura umana e l’esenzione dal peccato. Che Gesù Cristo sia esente dal peccato, lo insegnarono così chiaramente come san Paolo, anche san Giovanni, san Pietro e il redattore dell’Epistola agli Ebrei. In san Giovanni, Gesù sfida i suoi nemici a trovare in lui una colpa: Quis ex vobis arguet me de peccato? Per lui, come per gli altri evangelisti, l’immunità dal peccato in Gesù, è un dato dell’esperienza che risulta da una vita tutta pura, tutta santa. Il redattore dell’Epistola agli Ebrei la deduce dal sacerdozio del Cristo; il pontefice ideale dev’essere « santo, senza macchia, separato dai peccatori » con una barriera insormontabile, « simile quanto è possibile ai suoi fratelli, eccetto il peccato ». San Pietro la deduce dalla qualità di vittima: « E Cristo è morto per (espiare) i peccati (degli uomini); Egli giusto, per gli ingiusti »; e noi siamo stati riscattati « dal sangue prezioso dell’agnello senza difetto e senza macchia, il Cristo ». San Paolo invece fonda l’impeccabilità del Salvatore sopra la missione di secondo Adamo. Gesù Cristo riceve la missione di « vincere il peccato nella carne » e non lo può vincere negli altri se non dopo di averlo vinto in se stesso; perciò, benché abbia una carne affatto simile alla nostra, Egli ha soltanto in apparenza una carne peccatrice. Non solamente Egli non ha nessuna esperienza del peccato, ma non potrebbe avere nulla di comune col peccato; ecco perché « Dio lo fece peccato, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui », certo che, lungi dall’essere macchiato dal contatto dei peccatori, il Cristo avrebbe loro comunicato la sua giustizia (Rom. III, 3; II Cor. V, 21). Ma altra cosa è il peccato, e altra cosa è la natura umana. « Se il Cristo non fosse veramente uomo, dice Tertulliano, tutta la sua vita non sarebbe altro che menzogna »: menzogna la sua nascita verginale, la sua agonia e la sua passione, la sua morte in croce, la sua risurrezione gloriosa; menzogna, conchiude sant’Ireneo, sarebbe tutta la redenzione. Difatti se Gesù Cristo non fosse veramente uomo, non sarebbe nostro fratello; se non fosse nostro fratello, non sarebbe nostro capo nel senso stretto della parola; se non fosse nostro capo, non sarebbe nostro rappresentante; la sua grazia gli sarebbe personale, e la sua giustizia non sarebbe la nostra per nessun titolo. Perciò si spiega l’insistenza con cui san Paolo inculca continuamente la realtà della natura umana nel Cristo.

CONOSCERE SAN PAOLO (34)

 

LIBRO TERZO

CAPO III.

Gesù Cristo uomo.

1. LA NATURA UMANA DEL CRISTO: – 2. IL CRISTO VERAMENTE UOMO, MA UOMO-DIO. — 3. MISTERO DI QUESTA UNIONE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Non vi è nulla che uguagli l’enfasi con cui san Paolo afferma che il Cristo, del quale ha insegnato la preesistenza, è anche veramente uomo, simile a tutti gli altri uomini, eccetto il peccato. Gesù Cristo infatti non può essere mediatore perfetto se non a condizione di partecipare della nostra natura: « Unico è Dio, unico pure il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo uomo (1 Tim., II, 5) ». Egli è vincitore del peccato e della morte unicamente in virtù della solidarietà la quale fa della sua causa la nostra: « La morte deriva da un uomo e la risurrezione dei morti (deve) pure (derivare) da un uomo (I Cor. XV, 21) ». – Queste asserzioni esplicite non devono lasciare nessun dubbio sul vero senso di certe espressioni che per se stesse si potrebbero prestare all’equivoco. Quando san Paolo dice che « il secondo uomo è del cielo (I Cor. XV, 47) », fa allusione alla sua origine eterna; egli lo oppone, sotto questo aspetto, al primo Adamo formato di terra e incapace di trasmettere ai suoi discendenti altra vita che quella psichica. Quando egli afferma che colui il quale era « nella forma di Dio » prese « la forma di schiavo (Fil. II, 6) » e comparve « nella somiglianza degli uomini », ben lungi dal negare la verità della natura umana, soggiunge subito che il Cristo fu « riconosciuto per uomo » per l’esperienza della sua vita intera, poiché fu capace di obbedienza e soggetto alla morte. Finalmente quando parla della missione del Figlio di Dio « nella somiglianza di una carne di peccato », evidentemente intende di escludere la carne peccatrice e non già la stessa carne, poiché tale missione aveva appunto lo scopo di « condannare il peccato nella carne (Rom. VIII, 3) ». – E quale esegesi perversa poté scoprire una qualunque traccia di docetismo nel passo seguente: « Se noi abbiamo conosciuto secondo la carne il Cristo, ora non lo conosciamo più (II Cor. V, 16) » in tale maniera? Altra cosa è il non riconoscere la realtà della carne del Cristo, e altra cosa è non più conoscere il Cristo secondo la carne, cioè secondo le idee, basse, terrene, carnali, degli avversari di Paolo. – Bisogna che il Cristo, per compiere la sua Missione sia veramente uomo; infatti, nell’economia attuale, Egli dev’essere il « secondo Adamo, il primogenito tra i morti, il primogenito tra molti fratelli, il pontefice » ideale (Rom. V, 14, I Cor., XV, 22, etc. ); ora se non fosse veramente uomo, non sarebbe il nuovo Adamo, né risuscitato, né pontefice, e non avrebbe per fratelli i santi. Nell’ordine attuale della Provvidenza, nel quale l’uomo cade e si rialza per il principio della solidarietà, era necessario che il Figlio di Dio assumesse la nostra natura, e non una natura superiore, che fosse uomo e figlio dell’uomo per essere tutto dedicato ai nostri interessi e capace di servirli. Egli doveva prendere la sua carne dalla massa peccatrice per deporre in essa un lievito di santificazione e doveva rivestirsi della somiglianza della carne del peccato per condannare il peccato nella carne. Perciò egli è « apparso nella carne (I Tim. III, 16) »; e la carne, per l’Apostolo, è l’anima unita al corpo, il composto umano. Egli dimostrò di essere veramente uomo con tutta la sua vita terrena e col suo lungo commercio con gli uomini, specialmente con la sua debolezza, con i suoi patimenti, con la sua morte e con la sua risurrezione: Habitu inventus et homo (Fil. II, 8). Egli discende dai patriarchi (Rom. IX, 5); è figlio di Abramo (Gal. III, 16); è figlio di Davide secondo la carne (Rom. I, 3); è nato, o più esattamente «fatto da una donna (Ga. IV, 4) », cioè formato con la sostanza e col sangue di una donna, senza il concorso dell’uomo e contro le leggi della generazione naturale; ma questo privilegio, dovuto alla sua dignità trascendente e al bisogno di spezzare ogni vincolo col peccato che doveva distruggere, non gli impedisce di essere veramente uomo quanto il primo Adamo che uscì direttamente dalle mani del Creatore (Rom. V, 15; I Cor. XV, 21; Fil. II, 8). – Dio e uomo ad un tempo, Gesù Cristo deve ricevere tutti i predicati che convengono a Dio e all’uomo. Questa comunicazione degli idiomi in nessun luogo è più rimarcata che in san Paolo. La preesistenza, l’esistenza storica e l’esistenza glorificata sono assai frequentemente riunite nello stesso periodo e riferite allo stesso soggetto, senza nessuna preoccupazione di quello che noi potremmo chiamare l’ordine cronologico:

a) Sussistendo nella forma di Dio.,… (Preesistenza),

b) prese la forma dello schiavo (Esistenza terrena),

c) perciò Dio lo ha esaltato (Fil. II, 6, 7, 9) (Esistenza gloriosa).

a) Per mezzo di lui fu creata ogni cosa

b) ed è il capo del corpo, della Chiesa,

c) Egli che è il principio, il primogenito dei morti (Rom. I, 3-4).

a) Egli si è fatto povero per noi,

b) egli che era ricco,

c) per arricchirvi con la sua povertà (II Cor. VIII, 9).

a) Riguardo suo Figlio,

b) diventato della stirpe di Davide secondo la carne,

c) stabilito Figlio di Dio dalla risurrezione dei morti (Rom. I, 3-4).

a) In lui abita corporalmente

b) tutta la pienezza della divinità

c) e voi avete parte della sua pienezza (Col. II, 9-10).

Siccome certi attributi non convengono alla natura umana, e altri sono incompatibili con la natura divina, bisogna necessariamente che vi siano in Gesù Cristo due nature: bisogna inoltre che in Lui vi sia una sola Persona, poiché il soggetto delle attribuzioni resta il medesimo.

  1. 2. In che modo si compie il mistero di questa unione? Paolo non lo spiega: egli mette le basi della sua dottrina; toccherà ai teologi il trarne le conseguenze. Tuttavia le sue due formule dell’incarnazione sono degne di attenzione: « In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col. II, 9) ». Gli esegeti riconoscono che la pienezza della divinità non può essere altro che l’integrità dell’essenza divina e perciò la stessa divinità. Difatti θεότης (= teotes) (deitas), astratto di θεός (= teos), non è identico a θειότης (= teiotes) – (divinitas), astratto di θεῖος (=teios). Quest’ultimo termine si potrebbe intendere della qualità; il primo si deve intendere della natura. Questo significato s’imporrà con maggior forza ancora quando Paolo combatterà l’errore dei Colossesi, il quale mette nelle potenze superiori particelle ed emanazioni delle divinità; ma in fondo esso è indipendente da questa ipotesi. Che cosa vuol dire « corporalmente? ». Molti Padri lo traducono con « realmente » e « sostanzialmente »; ma il corpo ha questo significato soltanto quando viene opposto all’ombra. Corporalmente significa « in un corpo, sotto forma di corpo »; questa accezione quadra a capello, e non occorre cercarne altra. La vostra pretesa filosofìa, dice san Paolo, non è che un vano inganno; voi vi indugiate in dottrine elementari, puerili; voi chiedete protettori e mediatori al mondo chimerico della fantasia e trascurate Colui nel quale, sotto una forma visibile e tangibile, esente da errore e da illusione, « risiede corporalmente tutta la pienezza della divinità ». E siccome Egli possiede questa pienezza Assoluta (πᾶν τὸ πλήρωμα = pan to pleroma) per un titolo permanente, Egli la farà riversare sopra di voi in grazie spirituali e voi potete perciò fare a meno di altri intercessori. Questo testo insegna bensì l’unione della divinità e dell’umanità nell’unica Persona del Cristo, ma non ci dice come si fa tale unione. Un altro passo solleva un po’ di più il velo del mistero: « Esistendo nella forma di Dio, non considerò come furto, l’essere (trattato) alla pari di Dio, ma spogliò se stesso prendendo la forma di schiavo, diventando simile agli uomini (Fil. II, 7) ». Senza ritornare all’esegesi particolareggiata di questo testo, considereremo come stabiliti questi punti: La forma di Dio è la natura divina, e la forma di schiavo è la natura umana. — Lo spogliamento avviene per il fatto che il Cristo sopraggiunge alla natura divina, che aveva da tutta l’eternità, la natura umana che prende nel tempo. — V i sono dunque in un medesimo soggetto, in una medesima Persona, nel Cristo, due nature, una divina e l’altra umana. — Siccome la natura divina è immutabile, e poi si afferma che il Cristo la conserva, lo spogliamento non può consistere nell’abbandono o nella diminuzione di questa natura. — Lo spogliamento, se non significa l’abbassamento, l’annientamento che risulta dall’assunzione, da parte del Verbo, di una natura inferiore, non può dunque essere altro che l’abbandono spontaneo degli onori divini ai quali il Cristo aveva diritto come Uomo, e che si sarebbe potuto rivendicare in virtù dell’unione ipostatica. — La natura umana non è assorbita in questa unione, poiché il Cristo rimane veramente uomo ed è riconosciuto come uomo per esteriorità (σχήματι= skemati) che non ingannano, e da tutto il corso di una vita di obbedienza, di umiliazioni e di dolori.

II. LA FIGURA STORICA DI GESÙ.

1. CIO’ CHE PAOLO NON DICE INTORNO A GESÙ. — 2. CIO’ CHE NE POTREBBE DIRE.

1. Quando era in gran voga la chiassosa critica tedesca, Renan scriveva: « Paolo ha un bel dire, ma è inferiore agli altri Apostoli: egli non vide Gesù e non intese la sua parola; le divine logie, le parabole, egli appena le conosce: il Cristo che fa a lui rivelazioni personali, è un suo fantasma, e questo egli ascolta credendosi di ascoltare Gesù (Renan, Paris, 1869) » Trent’anni dopo, Renan, col suo carattere malleabile e col suo ingegno versatile, si sarebbe certamente accordato con la critica nuova e forse avrebbe sottoscritto a queste giudiziose riflessioni di Sabatier: « Secondo la scuola di Tubinga, Paolo o avrebbe conosciuto molto imperfettamente la vita e l’insegnamento storico di Gesù, oppure avrebbe avuto a sdegno quella tradizione, come se fosse stata una conoscenza di Gesù secondo la carne, la quale avrebbe reso il suo Vangelo dipendente da quello dei primi apostoli. Ma né l’una né l’altra di queste due ragioni sono ben fondate… Non si riesce a capire come mai la conoscenza tradizionale delle azioni, dei patimenti e degli insegnamenti di Gesù, avrebbe potuto nuocere all’indipendenza del suo apostolato e all’originalità del suo vangelo (Sabatier, 1896) ». D’allora in poi si sono infatti cambiate di molto le posizioni. Oggi si ammette generalmente che Paolo conoscesse la vita e la dottrina del Maestro, che dallo spirito di Lui si ispirasse, che ne riflettesse fedelmente il pensiero. Le allusioni alla vita terrena di Gesù sono altrettanto numerose nelle Lettere di Paolo, quanto negli altri scritti apostolici, eccetto i Vangeli che hanno lo scopo preciso di raccontarla. Vi sono anzi, conservando le debite proporzioni, meno allusioni ai fatti evangelici nell‘Apocalisse, nelle Epistole cattoliche, nell’Epistola agli Ebrei, negli Atti degli Apostoli, che non nelle Lettere del Dottore dei Gentili. Se ne può meglio giudicare dal seguente rapido abbozzo. – Prima di scendere su questa terra, il Cristo preesisteva nella forma di Dio (Fil. II, 6); era ricco di tutte le ricchezze del cielo (II Cor. VIII, 9). Al termine delle preparazioni provvidenziali e nel tempo stabilito dai decreti divini, Egli, il Figlio di Dio, è mandato da suo Padre per compiere l’opera della salvezza (Gal. IV, 4; Rom. VIII, 3). Gesù è il discendente di Abramo (Gal. III, 16), il figlio di Davide (Rom. I, 3; II Tim. II, 8), la gloria del popolo ebreo (Rom. IX, 5). Egli nasce da una donna, sotto il regime della Legge (Ga. IV, 4), vive in mezzo agli Ebrei (Rom. XV, 8), e Gerusalemme è il centro della sua Chiesa (Gal. I, 17; Rom. XV, 19-27). Egli è veramente uomo, in tutto simile a noi (Rom. V, 15), eccetto il peccato (II Cor. V, 21). Egli ha dei fratelli secondo la carne (I Cor. IX, 5), imo dei quali, Giacomo, è indicato col suo nome (Gal. I, 11). Per avere collaboratori e continuatori della sua opera, si circonda di Apostoli (I Cor. IX, 5, 14), in numero di dodici (I Cor. XV, 5); tre di essi, Pietro, Giacomo e Giovanni, sono espressamente nominati (Gal. I, 18-19); ma tra loro Cefa, Pietro, occupa un posto che non ha pari (I Cor. IX, 5). Nel dare ai suoi Apostoli l’incarico di predicare la sua dottrina, dà loro il diritto di vivere del Vangelo (I Cor. IX, 15) e il potere di fare miracoli (II. Cor. XII, 19). Trascorsa su questa terra una vita di povertà (II Cor. VIII, 9), di sommissione (23 Fil. II, 5) di ^obbedienza (Rom. V, 19) e di santità (25), si abbandona volontariamente ai suoi nemici (Gal. I, 4), ai Giudei che lo mettono a morte (I Tess. II, 15). – L’istituzione dell’Eucaristia è raccontata con maggiore precisione e con più particolari che non nei Vangeli. Paolo ricorda in modo speciale il tradimento di quella notte tragica che ricorda la sinistra espressione nox erat, di san Giovanni. Se la passione è descritta con linee generali, noi sappiamo che l’Apostolo ne faceva a viva voce, ai catecumeni, una pittura assai viva (Gal. III, 1). Egli ci parla spesso della croce (I Cor. II, 2 etc.), del sangue (Rom. III, 25), e anche dei chiodi (Col. II, 12). I carnefici di Gesù sono i Giudei (I Tess. II, 15) ed i prìncipi di questo mondo (Ephes. I, 7). L a Passione avviene verso la Pasqua, nel tempo degli azimi (I Cor. V, 6-8), sotto Ponzio Pilato (I Tim. VI, 2). La sepoltura non è dimenticata (I Cor. XV, 4) perché dà al Battesimo il suo valore figurativo (Rom. VI, 4; Col. II, 12). Ma Paolo insiste di più sopra la risurrezione avvenuta il terzo giorno, e sopra le varie apparizioni del risuscitato (I Cor. XV, 4-7). Gesù Cristo è salito al cielo (Ephes. IV, 8-10), siede alla destra del Padre (Ephes. I, 20), ritornerà a giudicare i vivi i morti (I Tess. I, 10). Questi sono articoli del Credo, le cui formule sono prese in larga parte dall’Apostolo dei Gentili. – Tale è in succinto la descrizione che Paolo ci fa di Gesù: è qualche cosa di più che un abbozzo; è un ritratto somigliante e un disegno fatto con precisione e sicurezza, che gli evangelisti potranno completare senza però modificarne l’espressione. Ma questo non è tutto: dopo le azioni vengono le parole, dopo la fisonomia del Maestro, ci è dato il riassunto del suo insegnamento. Paolo ha sottratto dall’oblio questa sentenza di Gesù: « Vi è più felicità nel dare che nel ricevere (Act. XX, 35) ». Egli riproduce le parole della Cena più completamente degli evangelisti, eccetto forse san Luca (I Cor. XI, 24-26). – Nel parlare del matrimonio, si riferisce all’insegnamento del Cristo, quale si trova in san Matteo e in san Marco, e lo distingue espressamente dai suoi propri precetti (I Cor. VII, 10- 12). Quando proclama il diritto che ha l’operaio evangelico di vivere del Vangelo, non si può fare a meno di pensare alle disposizioni prese da Gesù in favore degli araldi della fede (I Cor. IX, 14); e tale impressione si cambia in certezza, nel leggere in san Paolo il passo testuale di san Luca: Dignus est operarius mercede sua (I Tim. V, 18;Luc. X, 7). Quando si appoggia sopra una parola del Signore per istruire i fedeli intorno alla parousia, il senso più naturale è certamente quello di prendere la parola del Signore non già per una rivelazione interiore, ma per una parola realmente detta da Gesù Cristo nel corso della sua vita mortale (I Tess. IV, 15). L’Apostolo non pensa a legiferare a suo proprio nome quando non può invocare un ordine del Signore (I Cor. VII, 25). Egli si appella sempre alla legge del Cristo che suppone sia conosciuta dai suoi neofiti (Gal. IV, 2), legge che obbliga anche lui come i semplici fedeli (I Cor. IX, 21). La regola morale, che egli inculca ai catecumeni, non è sua, ma di Gesù (I Tess. IV, 1-2); il trasgredirla sarebbe un disobbedire a Gesù (I Tim. VI, 3); e il dovere dei fedeli è quello di imparare il Cristo, come quello degli Apostoli è di insegnare il Cristo (Ephes. IV, 20-21). Per verificare e nel tempo stesso per completare questa rapida rassegna, bisognerebbe prendere qualche termine di confronto, per esempio il Discorso della Montagna o il gran Discorso escatologico. Qui le numerose somiglianze di sostanza e di forma sono evidenti e risalgono evidentemente alla stessa fonte che è l’insegnamento di Gesù. Il fatto è così palpabile, che nessun critico di buon senso potrà contestarlo.

2. Dunque se si raccolgono le allusioni alla vita terrena di Gesù, sparse negli scritti di san Paolo, se si confronta la sua dottrina morale con quella di Gesù, se si esaminano le identità di espressione troppo numerose per poter essere casuali, non si potrà dire che l’Apostolo ignori o sdegni il contenuto della storia evangelica. Questo studio è già stato fatto da altri, e non occorre che noi lo rifacciamo qui; noi ci limiteremo a formulare le seguenti conclusioni: Le allusioni, scoperte o latenti, alla vita e alla dottrina di Gesù, sono assai più numerose di quanto lascerebbe supporre un esame superficiale; ve ne sono di più, mantenute le debite proporzioni, che nel resto del Nuovo Testamento, eccetto il Vangelo. Queste allusioni si riferiscono alle volte a minute particolarità e per conseguenza implicano una conoscenza più vasta e più generale dei fatti menzionati appena incidentalmente. La maniera con cui sono fatte, dimostra che tanto nell’autore quanto nei lettori, vi è un fondo comune di istruzioni e di ricordi che basta evocare perché siano capiti da tutti. Finalmente l’immagine che ne risulta è un ritratto fedele, e colui che lo ha tracciato può ben vantarsi di avere « lo spirito del Signore ». Ma non bisogna stancarsi di ripetere che Paolo non intende di fare la biografia di Gesù, che egli la mette tra gli elementi della fede che nessun neofito deve ignorare, che egli ritorna soltanto incidentalmente sopra questa catechesi elementare, che invece di insistervi, per lo più si contenta di una semplice allusione e che finalmente egli ne sa infinitamente più di quanto abbia occasione di scriverne. Se non erano i disordini delle agapi e i dubbi dei Corinzi intorno alla risurrezione, potremmo forse sospettare che egli possedesse, sopra le circostanze dell’istituzione dell’eucaristia e sopra le apparizioni di Gesù risorto, tanti particolari esatti e precisi che gli evangelisti non si curarono di tramandarci!

IL PRECURSORE (4)

Il PRECURSORE (4)

TERZA DOMENICA D’AVVENTO

(Giov., I. 19-28).

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, vol. I, soc. Ed. Pensiero e Vita, Milano 1939)

4.

LO SCONOSCIUTO

Il mondo era stanco d’attendere. Eran secoli e secoli che i patriarchi e i profeti l’avevano annunciato, ed ogni giorno il popolo scrutava i confini del deserto per vedere se venisse verso Sion il Dominatore della terra (Is., XVI, 1), ed ogni alba alzava le mani verso l’alto e scongiurava che si squarciasse alfine il cielo e il Salvatore discendesse ( Is., LXIV, 1). Ed ecco che fuori dalle lande desolate della Perea esce un uomo, e si ferma sulla riva sinistra del Giordano, presso Betania, a battezzare e a predicare. L’asprezza del suo abito, fatto con peli di cammello e stretto ai fianchi con cinghia di cuoio, l’austerità del suo volto e della sua vita, che sostentava di radiche amare e di miele silvestre, la sua parola minacciosa e sdegnosa fece balenare a molti l’idea ch’egli fosse il Messia atteso. – I Giudei di Gerusalemme lo mandarono ad interrogare per bocca di autorevoli rappresentanti: sacerdoti e leviti. « Sei tu il Cristo? ». Ma il Battezzatore protestò e confessò: « No: io non sono il Cristo ». « Allora sarai Elia ? o almeno un profeta? ».

« Né Elia io sono, né un profeta. Sono l’eco della Sua parola che  s’alza dal deserto; sono l’ombra della Sua figura che s’avanza; sono indegno di essergli schiavo e di curvarmi a sciogliergli i legacciuoli dei calzari ».

Quelli disillusi protestarono: « Allora perché battezzi? ».

« In acqua soltanto io battezzo. Ma in mezzo a voi c’è Uno che voi non conoscete ».

Medius autem vestrum stetit quem vos nescitis.

Ed in mezzo a quella gente, ignoto, c’era il Figliol di Dio, incarnato per la salute del mondo. Portava vesti d’operaio, mangiava carne e beveva vino coi peccatori, lo chiamavano il figlio del fabbro. Sì, figlio del fabbro: ma di quel fabbro che edificò il mondo non col martello, ma con il comando della sua volontà, di quel fabbro che compaginò con ordine gli elementi dell’universo, di quel fabbro che accese il sole e le stelle con fuoco non terreno, di quel fabbro che, all’impeto della sua voce, fece balzare dal nulla ogni cosa.

Medius autem vestrum stetit quem vos nescitis.

Questo rimprovero può essere rivolto anche a un gran numero di Cristiani, ai nostri tempi. Quel Gesù che era presente e sconosciuto in mezzo agli Ebrei ai giorni del Battista, è pure presente e sconosciuto in mezzo a noi.

Il piccolo Catechismo c’insegna che nell’Eucaristia vi è lo stesso Gesù che nacque dalla Vergine Maria; che vi è vivente e immortale come lo è in Paradiso; che vi è certamente perché ce l’assicurò Egli medesimo quando disse: questo è il mio corpo. Da fanciulli imparammo queste verità, le credemmo, e le crediamo ancora; ma in pratica Gesù Eucaristico è uno sconosciuto tra gli uomini. – Perché i Cristiani sentono così poco desiderio della S. Comunione? – Perché a stento e non tutti riescono ad ascoltare una Messa alla settimana? – Perché le chiese sono sempre silenziose e deserte, mentre tutta la vita ferve nei teatri, nelle osterie, nelle piazze? Perché Gesù Eucaristico è in mezzo a noi come uno sconosciuto:

sconosciuto nella S. Comunione

sconosciuto nella S. Messa

sconosciuto nel S. Tabernacolo.

Oggi, davanti a Lui che ci guarda e ci vede fin nel profondo del cuore, esaminiamo in proposito la nostra coscienza.

1. GESÙ È SCONOSCIUTO NELLA S. COMUNIONE

Una tempesta improvvisa colse la nave su cui viaggiava Satiro, fratello di S. Ambrogio quando già all’orizzonte s’intravvedeva il profilo scialbo del porto. – Il vento gonfiava le onde enormemente e le nubi erano discese in giro alla nave come una coltre grigia e densa. Il fragore dell’acque copriva l’ululo delle donne e il pianto dei bambini. Qualche mercante s’era buttato sopra le sue casse, piene di prodotti oltremarini, quasi per strapparle alla furia selvaggia dell’elemento, o per sommergersi con esse in fondo al mare. Satiro, quando vide che la nave, sbattuta contro uno scoglio, faceva acqua da ogni parte e calava a picco, dimenticò la sua roba e i suoi denari, e gridò ad alcuni Cristiani: « Datemi l’Eucaristia ». – Quelli portavano seco il Sacramento come permetteva la liturgia del tempo. Ma Satiro non poteva far la Comunione, che ancora non era battezzato: perciò, posta sul cuore l’Ostia santa, si gettò in mare. Che cosa può fare un uomo contro l’infinita rabbia del mare? Ma quest’uomo portava Gesù, il dominatore del mare, e toccò la sponda della salvezza. Ogni giorno quante persone fan naufragio nella vita! Sono giovani travagliati dalla passione impura, che a loro suscita in mente una fosca nuvolaglia di pensieri, che a loro ridesta in cuore rabbiose ondate di desideri, e deboli e stanchi della dura lotta si abbandonano agli istinti cattivi disperatamente. Sono fanciulle che dopo aver cercato di resistere alle frivolezze della moda, dei divertimenti, delle compagnie, sfiduciate si lasciano trascinare dalla corrente vorticosa del male verso la rovina eterna. Sono uomini che non si sentono capaci di liberarsi dalla bestemmia, dal gioco, dal vino, dal furto, da un affetto proibito e impuro. Sono madri di famiglia che hanno persa la pazienza e la forza di portar la croce: e non sanno più educare i figliuoli, e s’imprecano la morte ogni giorno, e più volte al giorno. – Povera gente! Avete in mezzo a voi Colui che può salvarvi dalla bufera, e voi non lo conoscete, non lo volete conoscere. Perché v’attaccate a mille cose di quaggiù, come quei mercanti che speravano di salvarsi dal naufragio gettandosi sopra le cassi delle loro merci? Imitate piuttosto l’esempio di Satiro; gridate anche voi: « Datemi l’Eucaristia!» Con essa nel cuore non temerete né il demonio, né le passioni; con la forza che in voi metterà Gesù Eucaristico trionferete di ogni vizio, porterete ogni croce e la serenità della vita ritornerà ancora sopra il vostro cielo. – Alcuni credono di aver toccata la perfezione se una volta all’anno, a Pasqua, non tralasciano la Comunione. Oh quanto poco conoscono Gesù! Valeva forse la pena, allora, di rimanere tra noi sotto le specie di pane? « Si panis est — dice S. Ambrogio — quomodo illum post annum sumis? ». Se questo pane celeste avesse virtù di prolungare per molti anni la vita terrena, o soltanto di guarire dalle infermità corporali, in folla il popolo si accosterebbe alla sacra mensa. Ma la vita e la salute dell’anima non è da più di quella del corpo? Ma Gesù Cristo non è il dono che supera ogni dono? Si: ma troppi Cristiani lo ignorano. Medius vestrum stetit quem vos nescitis.

2. GESÙ SCONOSCIUTO NELLA MESSA

Circa l’ora nona d’un Venerdì, lontano ormai dei secoli, moriva in croce il Salvatore del mondo. Era disceso dal cielo in una notte rigida d’inverno, era cresciuto nel lavoro e nell’umiltà, per tre anni aveva camminato senza requie predicando e facendo miracoli, ed infine perseguitato e calunniato e flagellato moriva come un delinquente, lui il Figlio di Dio, per la salvezza degli uomini. E gli uomini non se ne davano pensiero. – A Roma forse in quell’ora tutto il popolo era assembrato nella cavea del circo, urlando di gioia beluina ad ogni gladiatore che gettasse il rantolo dell’agonia. Ad Atene la gente non pensava che a danzare e a mangiare allegramente. Ad Alessandria, ad Antiochia affluivano i mercanti non desiderosi d’altro che di perle e di profumi orientali. A Gerusalemme stessa la maggior parte della popolazione attendeva alle solite faccende d’ogni giorno. E Gesù, intanto, spasimava e agonizzava per tutti costoro. – Sul Calvario c’erano delle persone. Ma i più erano là indifferenti e curiosi: Stabat populus spectans ( Lc., XXIII, 35). E Gesù moriva per loro. I ricchi e i caporioni lo beffavano: « Alios sàlvos jecit, se salvum faciat ». E Gesù moriva per loro. Anche i soldati lo prendevano in giro, e gli umettavano le labbra riarse con l’aceto : « Si tu es rex, salvum te fac ». E Gesù moriva per loro. Perfino il ladro, a sinistra crocifisso, lo scherniva: « Si tu es Christus, salvum fac temetipsum et nos ». E Gesù moriva per lui. Cristiani, questa tragedia che non ha confronti nel mondo, si ripete ancora e spesso tra noi. Che cosa è la S. Messa? è il Sacrificio della croce, — risponde il Catechismo, — che si rinnova sui nostri altari realmente quantunque senza spargimento di sangue. È ancora Gesù che si sacrifica al suo divin Padre per la salute di noi peccatori. « Prendimi, o Dio — sembra che dica ogni volta che il sacerdote leva l’ostia e il calice in alto — prendimi, ma salva gli uomini ». – Fra tutte le azioni più sacre e venerande della fede, non ve n’ha  alcuna che possa paragonarsi al sacrificio della Messa: questa è il compendio di tutta la nostra santissima Religione. Eppure gli uomini, ancora come in quel venerdì ormai lontano nei secoli, se ne danno così poco pensiero! Come gli antichi Romani, come gli Ateniesi, come i commercianti di Alessandria e d’Antiochia gli uomini anche oggi hanno tempo per tutto: per i teatri, per i balli, per le chiacchiere, per gli affari; ma per la Santa Messa, no. Quanti Cristiani hanno il coraggio di non trovare, nemmeno alla festa, il tempo per ascoltare la S. Messa? I selvaggi, convertiti dai missionari, fanno giornate di cammino, attraverso foreste senza sentieri, per udire una S. Messa; e noi non sappiamo balzare dal letto qualche tempo prima, e noi non abbiamo la forza di fare un piccolo sacrificio per ricevere tanto bene.

Medius vestrum stetit quem vos nescitis.

Oh se lo si conoscesse Gesù che s’immola ogni giorno sull’altare, sarebbe ben diverso il nostro contegno durante la S. Messa! Molti vi assistono di malavoglia e con la noia in cuore. Si preferisce stare in fondo alla chiesa, addossati alla porta, e nei giorni d’estate si ama rimanere fin sul sacrato per divagarsi meglio con la gente che passa. Si mormora del prete che nel celebrare non è frettoloso come si desidera. Si girano gli occhi su tutto e su tutti con un’aria curiosa e maliziosa. Si cerca un amico per scambiare qualche chiacchiera o qualche sorriso. Si viene alla chiesa a sfoggiare il lusso delle vesti, l’acconciatura del volto e della persona. Così, così han fatto i Giudei sotto la croce. Intanto sull’altare Gesù muore un’altra volta per noi! … – S. Giovanni Crisostomo, accortosi un giorno che durante il Santo Sacrificio stavano taluni in piedi e cianciavano, in un impeto di zelo così li apostrofò: « Qui stanno tremanti perfino gli Angeli e voi, in piedi, cianciate? Mi meraviglio come non vi colpisca un fulmine, o sacrileghi. Mentre il sangue dell’Agnello leva al Padre per i Cristiani voci di misericordia, contro voi lancia una voce terribile di vendetta e maledizione ». Non così, o Cristiani, rechiamoci ad ascoltare la S. Messa, ma coi sentimenti di Tomaso apostolo quando disse: « Andiamo anche noi e moriamo con lui! » (Giov., XI, 16). Con Cristo che rimuore sull’altare, moriamo al peccato e al mondo.

3. GESÙ SCONOSCIUTO NEL TABERNACOLO

Assalonne, privato da Davide suo padre dell’onore di comparire alla sua presenza, non sa trovar pace. Che gli vale essere sfuggito alla morte, se vivo gli è proibito di vedere il volto di suo padre? Che sollievo potevano dargli, in questo stato, le parole degli amici da cui era corteggiato e l’abbondanza dei beni che possedeva? Cupo di giorno, inquieto di notte, s’aggira come un’ombra singhiozzante intorno alla reggia, penetra furtivamente nelle anticamere, e scongiura qualcuno che gli ottenga il sospirato favore. Un giorno, non potendone più, ferma Gioab e gli dice: « Recati innanzi al re mio padre e digli che da due anni languisco. Che non mi neghi più di vedere la sua faccia ! E se il mio delitto è tale da non lasciarmi sperar perdono, o Gioab, digli allora che mi è più dolce morire che vivere senza vederlo ».  Obsecro ergo ut videam faciem regis; quod si memor est iniquitatis meæ, interficiat me (II Reg., XIV, 32). – Quale stridente confronto, o Cristiani, tra noi e quel figlio sgraziato!

Gesù nel Santo Tabernacolo ove s’è fatto eterno prigioniero d’amore, non ci proibisce d’andare a lui, anzi c’invita: «Voi che faticate, voi che siete angosciati, venite da me che vi ristorerò » (MT., XI, 28). « O assetati, venite all’acqua !» (Is., LV, 1). Eppure le chiese per tutta la giornata sono sempre silenziose e deserte come una tomba. Quante volte si passa davanti alla chiesa e perché non si entra almeno un minuto a salutare Gesù?

— Non si ha tempo — si dice; ma se s’incontra un amico per strada, nonostante tutta la fretta che ci sospinge, ci si indugia per delle mezz’ore. Perché nei lunghi pomeriggi le buone donne di casa non sanno correre da Gesù per una visitina? Perché si va, a poco a poco, dimenticando la bella consuetudine di passare da Gesù, dopo il lavoro della giornata, a prendere la perdonanza?

Medius vestrum stetit quem vos nescitis.

Quando il rimorso dei peccati vi stringe il cuore, voi cercate il rimedio nelle dissipazioni: e in mezzo a voi c’è Uno che vi può guarire, e non lo conoscete. Quando qualche disgrazia, qualche calunnia, qualche discordia vi strazia l’anima, voi cercate conforto tra gli amici, che non vi sanno comprendere, né vi possono aiutare; e in mezzo a voi c’è Uno che vi può consolare, e non lo conoscete.

CONCLUSIONE

Nella notte di Natale, S. Gaetano da Thiene, vegliava in preghiera ardente davanti ai presepio nella basilica di S. Maria Maggiore. Con la sua fede rifaceva la storia di quella notte santa, e gli pareva d’esser lui pure un pastore a cui l’Angelo annunciasse la grande gioia. E gli pareva d’accorrere anche lui giù per le stradette rupestri verso la grotta di Betlemme, ove con un fìl di voce gemeva l’Onnipotente nato bambino. Ed ecco, mentre così meditava, gli apparve davvero la Vergine Maria che portava il Bambino. E venne da lui e reclinò sulle sue braccia aperte e tremanti il piccolo Figlio di Dio. E Gaetano lo guardava, e stringeva al suo cuore di povero uomo quel Cuore di Dio, e gustava il paradiso. (Brev. Ambr.: 9 Agosto).

Cristiani, in questo tempo d’Avvento, ravviviamo il nostro amore e la fede verso il santissimo e divinissimo Sacramento. Che Gesù Eucaristico non sia più per noi lo Sconosciuto! Allora nella Comunione di Natale, che tutti vorremo ricevere, sarà la Madonna che metterà tra le nostre braccia, nel nostro cuore tremante di poveri peccatori il suo piccolo Figlio di Dio. E gusteremo un presagio di paradiso.

5.

PREPARIAMOCI AL S. NATALE CON L’UMILTÀ’

Quando sulle rive del Giordano venne San Giovanni a predicare e a battezzare, le speranze del popolo si rivolsero segretamente a lui come all’atteso da secoli. Ma di questo favore popolare ognora crescente s’insospettì il Sinedrio di Gerusalemme, che gli mandò una delegazione di preti e di leviti.

Gli chiesero : « Tu chi sei: ».

Giovanni più che alla loro domanda espressa, rispose al loro secreto sospetto decisamente. « No: io non sono il Messia ». I delegati, sicuri ormai sul punto capitale proseguirono la loro inchiesta.

« Non sei forse Elia ? ».

« No: io non sono Elia ».

« No: io non sono il Profeta ».

« Non sono che una voce che vien dal deserto a dire: fate la strada al Signore che viene ».

Rimasero delusi. E qualcuno obbiettò: « Se non sei il Messia, non sei Elia, non sei il Profeta, perché battezzi? ». Allora disse chi era: un semplice precursore, e il suo battesimo una cerimonia di preparazione. Ma in mezzo a loro, benché ancora sconosciuto, già stava Uno a cui si sentiva indegno perfino di slegare le stringhe dei calzari. – Davanti alla rude umiltà di san Giovanni Battista viene spontanea questa osservazione. Il primo peccato nell’universo fu di superbia. A redimere il mondo rovinato dalla superbia ci volle l’umiltà di Colui che, essendo Dio per natura, s’abbassò fino alla nostra misera condizione di uomini. Volendo poi mandare avanti chi gli preparasse la strada, era conveniente che scegliesse un uomo come Giovanni, che sapeva stare al proprio posto. Questi infatti non s’arrogò il posto di Dio:

«No, io non sono il Cristo ». Questi infatti non s’arrogò il posto del prossimo:

« No, io non sono Elia; no, io non sono il profeta ».

Umiltà con Dio, umiltà col prossimo prepareranno nel nostro cuore la strada al Signore che viene nel santo Natale.

1 . UMILTÀ CON DIO

Nella Storia sacra si racconta che a Nabucodònosor venne in mente di farsi una statua d’oro e di innalzarla in mezzo a un vasto piano. Nel giorno dell’inaugurazione fece dare questo bando: « Magistrati e popolo, siete avvisati: appena udrete la poderosa orchestra suonare con trombe, flauti, arpe, cetre, zampogne, sull’istante vi butterete per terra adorando la statua del Re. Se qualcuno non lo farà, una fornace di fuoco inestinguibile già arde per lui ».

Evidentemente una folle superbia spingeva Nabucodònosor a credersi Dio, e a scimmiottare il castigo divino dell’inferno. Non passò molto tempo che la vendetta del Signore lo raggiunse. Fu preso da un male strano e bestiale per cui urlava e morsicava come una belva, mangiava fieno come un bue, e gli crescevano sulle dita le unghie come artigli. Chi volle farsi Dio, si trovava ad essere bestia. (DAN.. III, 17; IV, 26-30). L’orgoglio è quella profonda depravazione che induce l’uomo a mettersi al posto di Dio.

a) Sono io il Messia! gridano tante anime, non a parole ma con la pratica della vita: ad esempio, con lo spirito d’indipendenza dalle leggi di Dio. Perché il Signore deve proibirmi questo piacere? Che c’entra lui con l’uso che del matrimonio io credo di fare nel secreto della mia famiglia? Così della propria volontà si fanno una statua d’oro da adorare.

b) Sono io il Messia! gridano tante anime con il loro spirito d’egoismo che le inclina ad operare per sé, come se fossero fine a se stesse.Perché devo perdere un guadagno se mi viene da un lavoro di festa? Che mi viene in tasca a frequentare la Chiesa, le prediche? Così, del proprio interesse si fanno una statua d’oro da adorare.

c) Sono io il Messia! gridano tante anime con il loro spirito di vana compiacenza che si diletta nelle proprie qualità come se Dio non ne fosse l’autore; che si vanta per qualche opera buona come se essa non fosse, prima di tutto e principalmente, il risultato dell’azione divina in loro. Così della propria stima si fanno una statua d’oro da adorare.E in conclusione, tante anime, arrogandosi il posto di Dio, misconoscendo la loro realtà di creature che devono ubbidire, servire, adorare il Signore, sono diventate più felici? più elevate? Né più felici, né più Dio le vede cadute nell’abbiezione di Nabucodònosor. Si sono preclusa la comprensione e la grazia dell’umile nascita di Gesù nella stalla di Betlemme.

1. UMILTÀ COL PROSSIMO

San Giovanni Battista ricusò di innalzarsi nella stima dei suoi contemporanei, proclamandosi Elia o il Profeta. Quanti invece tenendosi per grandi uomini, disprezzano il prossimo col cuore, con la parola, con gli atti.

a) Col cuore perché hanno invidia dei buoni successi altrui; si rattristano come di un torto fatto a loro; e giungono perfino a desiderarne il male. Essi sono il grande Elia, il Profeta atteso, e guai a chi fa ombra su di loro.

b) Con la parola perché vedendo il prossimo sbagliare, lo diffamano ripetendo a tutti con maligna mormorazione quel che hanno veduto o saputo. E non vedono i loro sbagli e i loro peccati; si credono zelanti come Elia, santi come il Profeta.

c) Con gli atti perché non riconoscono nessuna superiorità più in su della loro, e vogliono’ a tutti soprastare. Se si ricordassero che coi loro peccati hanno meritato l’inferno, e dovrebbero stare sotto i piedi del demonio, con quanta più delicata carità tratterebbero il prossimo! Ma essi si credono come Elia destinati al Paradiso prima ancora di morire.

CONCLUSIONE

Il santo Natale s’avvicina. Moviamo incontro a Gesù Bambino col sentimento della nostra nullità e miseria. Egli è Colui che redimendoci dalla maledizione e dalla schiavitù ci ha riaperto le porte del paradiso, di cui avevamo smarrito la chiave.

A S. Gerardo Maiella, quand’era fanciullo, capitò un caso tanto bello che quasi non parrebbe vero: ma è degno di fede perché fu esaminato e riconosciuto dalla Chiesa quando si trattò la causa della sua beatificazione. Gerardo faceva da servitorello al vescovo di Lacedonia. Un giorno fu visto con la faccia pallida e piena di spavento vicino al grande pozzo sulla piazza del mercato. Con negli occhi una muta angoscia guardava in quell’oscura profondità. Neppur lui sapeva dire come fu: ad un certo momento udì un tonfo, ed erano le chiavi di casa sgusciategli dalle dita. E adesso che fare? che cosa gli avrebbe detto il suo padrone, malaticcio e nervoso? Forse l’avrebbe messo alla porta. Dove sarebbe andato, solo senza lavoro, senza tetto? Di colpo gli balenò un’idea. Attraversa correndo la piazza, entra nella cattedrale, e prende dalla cuna in cui giaceva, la statuetta del Bambino Gesù. « Bambino Gesù! — supplica Gerardo quasi stringesse non una figura di gesso, ma proprio Lui di carne, vivo e respirante. — Tu soltanto puoi aiutarmi. Tu e nessun altro: fammi dunque ripescare la chiave! » Poi legò il Bambino Gesù alla corda del pozzo e lo fece calare dolcemente. Come lo sentì nell’acqua gli gridò dentro con tutta la forza della sua speranza: « Bambino Gesù! portami su la chiave ». E cominciò a ritirare la corda. Un grido di gioia: già sull’orlo era apparso il Bambino Gesù e nella manina teneva la chiave. Gerardo la prese da lui, e poi sospinto come da un vento di allegrezza e di riconoscenza corse a riportarlo nella sua cuna. – Cristiani, questo fatto è la conclusione più bella al Vangelo che abbiamo spiegato in questa terza domenica d’Avvento. Gli uomini per la loro superbia avevano persa la chiave della loro casa, cioè del Paradiso. Il demonio con l’astuzia e con la menzogna l’aveva fatta sgusciare dalle loro mani, e con riso beffardo l’aveva gettata in un abisso, donde era impossibile riprenderla. Venne Gesù Bambino, ci ripescò la chiave, e ci riaprì il cielo: non da noi, ma solo da lui venne la nostra salvezza. Umiliamoci! Il triste tempo della chiave perduta è finito: la chiave del Paradiso c’è per tutti che la vogliono. Rallegriamoci con riconoscenza amorosa! E se qualcuno sentisse di non potersi rallegrare perché nel suo cuore s’è spalancato ancora un pozzo di peccati e la chiave di nuovo gli è caduta dentro, con un’umile, sincera confessione faccia calare Gesù Bambino in quel suo pozzo. Riavrà la chiave.

6.

PREPARATE LA STRADA AL SIGNORE

Tutti correvano al Giordano. Fuori dal deserto, a quelle sponde era venuto un uomo austero che insegnava alla gente come dovevano prepararsi alla venuta del Messia. Gli esattori non dovevano esigere più di quanto era stato fissato; i soldati dovevano accontentarsi della loro paga; chi aveva due tuniche doveva darne una a chi n’era senza; lo stesso doveva fare chi avesse cibo e vino in abbondanza. Alcuni andarono da Gerusalemme a chiedergli chi fosse. « Sei tu Elia ».

« No ».

« Sei tu il profeta? ».

« No ».

« Sei tu il Cristo? ».

« No ».

« Chi sei, dunque? ».

« Io son la voce che grida dal deserto: preparate la strada al Signore ».

Anche a noi che ci prepariamo al santo Natale, S. Giovanni grida:

Dirigite viam Domini. Gesù Bambino è per venire e la via per cui verrà è il nostro cuore: bisogna prepararglielo. Per preparare la strada all’ingresso d’un re prima la si eguaglia, poi la si netta da ogni lordura, infine la si adorna. Eguagliar la via del cuore significa, dunque, togliere ogni occasione di caduta in peccato. Nettare il cuore da ogni lordura significa purificarlo da ogni colpa. Infine adornarlo non è altro che abbellirlo d’opere buone. Queste son le tre cose che verrò spiegando un poco, son le tre cose che dobbiamo fare prima che giunga Natale

1. TOGLIERE LE OCCASIONI

Gerolamo il dalmata, un giorno, sparì dalle liete brigate romane: lo si cercò alle terme, al circo, ai divertimenti; invano. Per lunghi anni non si seppe più nulla di lui, così allegro, così intelligente. Ma una volta Vigilanzio lo scovò in una grotta di Palestina presso Bethlem, sfinito dalla penitenza, colla faccia sulla terra, pregante. Lo chiamò:

« Gerolamo! perché ti sei rintanato come un orso in questa spelonca, di che temi? ».

Si rizzò il santo sulle ginocchia e, guardandolo, gli disse: « Vigilanzio; sai di che temo? temo di tanti pericoli tra i quali tu vivi, temo i discorsi oziosi, le liti, l’avarizia sordida, temo gli occhi della donna mondana ».

Poi ritornò a poggiare la testa sul suolo di quella grotta dove quattro secoli prima era nato Gesù, il Salvatore.

« Questo è un fuggir da vigliacco, — insistè Vigilanzio, — e non un vincere da glorioso. Bello è saper resistere al male pur vivendone in mezzo! ».

« Basta, Vigilanzio. Se questa mia è debolezza, confesso d’essere debole. Confiteor imbecillitatem meam. Preferisco fuggire per vincere, che rimanere per perdere ».

L’unico modo, dunque, di toglier le occasioni è quello di fuggirle. Se un santo, già disfatto dalle penitenze, assicura di non saper resistere in mezzo alle occasioni, come pretenderemo noi di non cadere senza lasciar quella compagnia, senza abbandonar quel ritrovo, quella relazione, senza bruciar quel libro? – S. Bernardo dice che la nostra natura è troppo debole, e perciò è più facile risuscitare un morto che vivere nelle occasioni senza peccare. – Via adunque quella lettura, via quella persona, via quel gioco. Il Signore viene, bisogna preparargli la strada.

2. TOGLIERE IL PECCATO

Era un giorno arioso d’aprile quando Gesù uscito dalla casa di Marta prese la via di Gerusalemme. Il mezzogiorno dorato si stendeva sopra la città affollata d’ogni gente accorsa per la celebrazione della Pasqua vicina. La notizia si diffuse rapidamente e la moltitudine cominciò ad affluire. Irrompeva giù dall’Oliveto incontro al Signore, agitando rami di palma, frasche di mortella, ciocche d’ulivi. Alcuni gettavano sotto al suo passo i propri mantelli. – Gesù avanzava: mite e solenne come un trionfatore, cavalcando un asino non mai aggiogato. Tutti che l’accompagnavano si sentivano esaltare in quell’ora di trionfo luminoso.

« Benedetto chi viene in nome di Dio! » gridò qualcuno; tutta la folla rispose con urlo impetuoso: « Osanna, osanna! ».

« Benedetto il re d’Israele che viene! » gridarono altri che sopraggiungevano allora e tutti in un rapimento sovrumano risposero: « Osanna, Osanna!». Non era questo il giorno più bello per Gesù? Eppure, come dall’alto della costa Gesù vide Gerusalemme bianca di marmo e piena di sole, scoppiò in pianto sopra di essa.

Videns civitatem, flevit super illam ( Lc., XIX, 41).

Buon Dio! Ora che la città è tutta in festa dentro le sue mura, ora che tutto il popolo corre ad incontrarlo con fronde e con grida, Gesù piange. Gesù, che non ha pianto quando quelli del suo paese lo buttarono fuori dalla sinagoga; che non ha pianto quando gli gridarono dietro ch’era indemoniato; che non ha pianto quando tolsero su i sassi per lapidarlo, piange ora, nel giorno suo più bello.

Videns civitatem flevit super illam.

Perchè? Egli intravvedeva sotto le frondi di palma e d’ulivo il tradimento; distingueva tra osanna e osanna il terribile crucifìge di pochi giorni dopo; e quei mantelli sotto il suo passo gli erano immagine delle sue vesti di cui l’avrebbero tra poco spogliato. Per questo piangeva. Or ecco, Cristiani, che Gesù sta ancora per venire. Nel santo Natale Gesù entra nel mondo, entra nei nostri cuori. Io so che in tutte le famiglie all’avvicinarsi di questa solennità c’è molta preparazione. Le massaie fan rilucere il rame; il capo di famiglia pensa ai vestiti nuovi per i figliuoli; i figliuoli sognano i regali; ogni soglia s’adorna con vischio, con fronde di alloro, con piccoli abeti. Tutto questo va bene: ma forse son come le palme agitate dagli ebrei, son come gli osanna d’allora. Tutta esteriorità e sotto c’è il peccato. Gesù Bambino venendo nelle nostre case, nei nostri cuori, Egli che vede fino in fondo alla coscienza, forse scoppierà in pianto. Videns… flevit. Vede che abbiamo dimenticato i nostri doveri di famiglia: che abbiamo trascurato l’educazione dei figli; che li abbiamo considerati come un fastidio da evitare. Vede la nostra passione per il gioco, per il vino; vede quell’amicizia indegna, vede i cattivi desideri, i pensieri. Vede che da mesi e mesi non ci confessiamo mentre sulla coscienza pesano certi peccati, certi sacrilegi, certe confessioni mal fatte. – Gesù Bambino vede e piange. – Come fa pena un bimbo che piange! quando di notte, svegliandoci, s’ode il suo vagito passare nel tenebroso silenzio, ci si stringe il cuore, non possiamo riprendere sonno e mormoriamo: « Ma perché lo lasciano piangere?… ». – Allora, perché non ci farà pena il vagito di un Dio Bambino, perché lo lasceremo piangere? Purifichiamoci con una bella confessione! che non li veda più i nostri peccati! sorriderà.

3. ORNIAMO IL CUORE

È  commovente leggere nella Storia sacra, con quale desiderio bruciante i patriarchi invocavano la nascita del Messia. Quando qualche disgrazia li opprimeva, dicevano: « Gocciate o cieli, dall’alto; s’aprano le nubi e discenda il Giusto » (Is., XLV, 8). Quando la tirannia di qualche re li angariava, sognavano il soavissimo regno di Cristo: « Signore, dicevano, manda il tuo Agnello a regnare su Gerusalemme » (Is., XVI, 1). E quando Mose ebbe l’incarico di liberare il popolo dalla schiavitù, e tremava di spavento, gli sgorgò l’invocazione sublime: « Signore, manda colui che devi mandare, che m’aiuti » (Esodo, IV, 13). – In questi giorni che precedono il Santo Natale facciamo nostre queste aspirazioni; ripetiamole mattino e sera, ma soprattutto nei momenti della tentazione. Ripetiamole quando l’adempimento del nostro dovere ci pesa; quando l’osservanza della legge del Signore ci sembra dura e difficile. Solo così, con la preghiera e con le opere buone, si può adornare il nostro cuore. Gesù venendo non troverà in noi lo squallore della stalla di Bethlem, ma un’abitazione calda d’affetto.

CONCLUSIONE

L’anima diletta dei Sacri Cantici, nel cuore della notte, udì strepere vicino alla sua porta. Si sveglia e tende l’orecchio. Sentì una voce che la chiamava: « Aprimi, sorella mia, amica, colomba! ». Ella, sorpresa così tra la veglia e il sonno, pensava: « Devo proprio vestirmi e scendere ad aprire che fa freddo, che è notte, che ho sonno? E si voltò dall’altra parte. Ma poiché la voce insisteva a chiamarla, poiché alla sua porta s’insisteva a bussare, dopo un poco decise di scendere ad aprire. Ma quando fu aperta la porta, non trovò più nessuno. S’accorse, disperata, che di là era passato il suo Signore, che aveva bussato proprio alla sua porta, e ch’ella, per pigrizia, non gli aveva aperto, ed Egli se n’era andato lontano. – Lo chiamò allora, con quanto fiato avesse in gola, perché tornasse, ma la sua voce velata di pianto, tremava nella notte senza stelle, e nessuno le rispondeva:  vocavi et non respondit mihi. Lo cercò allora, correndo come pazza in giro per la città, interrogando le sentinelle, ma non lo trovò: quæsivi eum et non inveni. Il Santo Natale è vicino, e Gesù Cristo già bussa alla porta dell’anima nostra. Ci scuote dal sonno dei peccati e ci dice: « Aprimi! Scaccia fuori il demonio e apri al Signore ». – Temiamo che se ne vada via per sempre da noi. Forse è l’ultima volta che Gesù ci chiama a convertirci poi ci abbandonerà in balia delle nostre passioni. Forse è l’ultimo Natale della nostra vita, poi verrà la morte. – E nel momento della morte saremo noi che busseremo alla casa di Gesù; ma se adesso non gli apriamo, neppure Egli aprirà a noi, allora.

IL PRECURSORE (3)

IL PRECURSORE (3)

TERZA DOMENICA D’AVVENTO

(Giov., I. 19-28).

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, vol. I, soc. Ed. Pensiero e Vita, Milano 1939)

1.

UMILE CONOSCENZA DI NOI STESSI

Antonio fu un giorno rapito in estasi: quando ritornò in sé, i suoi buoni religiosi gli si fecero intorno per domandargli quello che aveva visto. « Figli miei! — rispose il santo, — io ho visto il mondo tutto avvolto in fili invisibili entro i quali i miseri uomini incespicavano precipitando in abissi spaventosi ». Allora, i religiosi dissero: « Ma se tutto il mondo è fasciato da queste misteriose reti, chi mai ne potrà scampare? ». Rispose il santo: « Coloro che sono umili, e nella luce dell’umiltà hanno conosciuto se stessi ». – Or si capisce come S. Agostino levasse a Dio questa preghiera : « Signore, ch’io conosca me, ch’io conosca te! ». Si capisce anche come S. Bernardo potesse scrivere a papa Eugenio parole come queste: « Non sarai sapiente, se non conoscerai te stesso. Perché tanta curiosità d’indagare il mondo esteriore e tanta trascuratezza di scrutare il nostro mondo interiore? Ritorna in te; considerati qual sei. Non essere come l’occhio che tutto vede e sé non vede. Ti dico che nessuna ignoranza è peggiore di quella d’ignorarsi. Se ignorerai la filosofia, la letteratura, la meccanica, le leggi, la medicina ti potrai ancora salvare: ma se ignori te stesso, non ti salverai ».

Sed si te ignoras, non salvaberis.

Se uno vi fu al mondo che non ha meritato i rimproveri di S. Bernardo, questi è S. Giovanni Battista. Mentre battezzava sulle sponde boscose del Giordano, gli arriva una delegazione di sacerdoti leviti: « Noi veniamo a te da Gerusalemme — dissero — e siamo mandati dai capi della città e del popolo per chiederti se il Messia aspettato sei tu ». L’occasione era grande: bastava che egli accennasse col capo affermativamente, e tutti lo avrebbero proclamato. Ma il Battezzatore non ebbe un attimo d’incertezza: negò replicatamente di essere il Messia.

« No! io non lo sono. No! ». « Almeno sarai Elia, quello che dovrà precederlo ». E Giovanni ancora: « No ». –

« Allora sei un profeta ». E Giovanni sempre: « No ».

« Che risposta dobbiam dare a chi ci ha mandato? ».

« Dite — esclamò Giovanni — che io sono la voce che nel deserto grida: Spianate la via al Signore ». – Poteva essere più umile e più sincero? che cosa è una voce se non un brivido che nassa in un attimo e svanisce nell’aria? e che cosa è l’uomo davanti a Dio se non questo?… Ma quando egli credette d’essersi abbassato sotto il livello d’ogni uomo, Gesù lo esaltò sopra tutto i l mondo: « È più che un profeta! È un angelo! è il più grande dei nati da donna ». Che S. Giovanni ora ci aiuti a conoscere noi stessi, egli che così bene si era conosciuto. Dobbiamo scrutare chi siamo: chi siamo per natura, chi siamo per grazia.

1. CHI SIAMO PER NATURA

Per natura noi siamo un composto di anima e di corpo. Non dunque appena corpo, come molti dicono con la pratica della loro vita. Che cos’è il corpo. Il profeta Isaia udì una voce dirgli: « Grida! ». « Gridar che cosa? » rispose meravigliato. E quella voce insisté: « Grida che ogni corpo è come il fieno, che orai carne è come il fiore. Il fieno secca, il fiore cade, e che rimane? » (Is., XL). – Entriamo, nel cimitero, avviciniamoci ai sepolcri e vedremo che cosa è il nostro corpo. Homo putredo et filius hominis vermis (IOB., XXV). « Questo già lo sapevo » penseranno tra voi moltissimi. Ma se conoscete davvero che cos’è il vostro corpo, perché a lui sacrificate i diritti dell’anima? Perché lo circondate di mollezze e di vanità? Perché lo adornate, lo pitturate, lo vantate? – Che cos’è l’anima. È una creatura nobile ed immortale, sorella degli Angeli, simile a Dio: è un gran tesoro che noi portiamo in vaso fragile. Oh se conoscessimo davvero l’eccellenza della nostra anima, come ce la sapremmo guardare da ogni minima sozzura!… Dice la storia sacra che Nabucodònosor, da gran re che era, si trovò cambiato in bestia schifosa. Scacciato dalla sua reggia, andava carponi a cibarsi di erba come un bue: sul suo capo che aveva portato la corona imperiale i capelli divennero irsuti come penne d’aquila; sulle sue mani che tennero lo scettro, le unghie s’alzarono come gli artigli d’uccello rapace (DAN., IV). Questa pagina paurosa dei libri santi si avvera troppo spesso anche tra noi: molti non comprendono l’onore di un’anima bella e la costringono coi peccati a diventare bestia schifosa. Ci sono di quelli che si sono fatti simili ai cani per la loro incredulità: ad essi Gesù nega le sue cose sante. Nolite dare sanctum canibus (Matth., VII, 6). Ci sono di quelli che si sono fatti simili ai porci per la loro disonestà: ad essi Gesù nega le sue gemme. Neque mittatis margaritas ante porcos. Povera gente, che inconscia della propria dignità, si è abbassata ai giumenti, fino ad assimilarsi a loro!

2. CHI SIAMO PER GRAZIA

a) Per grazia siamo diventati cristiani.

Un giorno intorno a noi fu celebrata una misteriosa e sublime cerimonia. Contavamo pochi giorni di vita e i nostri pii genitori ci fecero portare alla Chiesa. « Rinunci a satana e a tutti i suoi piaceri? — ci domandò il Sacerdote rappresentante di Cristo Redentore. — Non si può servire a Dio e al demonio: scegli ». « Rinuncio al demonio e servirò Dio in tutti i giorni di mia vita » risposero per nostro bene i padrini. E noi l’abbiamo dimenticato e in molti giorni della nostra vita, forse anche oggi, siamo ritornati a servire al demonio o a chiedergli i suoi piaceri. – Ci rivestì anche di veste bianchissima e bella dicendoci: « Prendi questa veste immacolata, ricordati che con questa un giorno dovrai comparire davanti al tribunale di Dio ». E noi l’abbiamo dimenticato. Dov’è ora la nostra innocenza? dov’è quella veste spirituale? oh quanti strappi, quante macchie, quante toppe! Come faremo in simile guisa a ricomparire un giorno davanti al Signore? Infine il Sacerdote offrendoci un lume ardente: « Portalo, — ci disse, — acceso sempre, che ti farà luce nell’ora oscura della morte ». Quel lume era la fede: e noi l’abbiamo lasciato languire leggendo stampe che i Cristiani dovrebbero odiare, accettando discorsi che i Cristiani dovrebbero respingere, esponendoci ai venti delle passioni. Ora il nostro lume fumiga appena, e forse è spento; chi ci illuminerà nell’estrema agonia? – Quando uscimmo dal Battistero, una mirabile trasformazione era avvenuta in noi. Gli Angeli non ci riconoscevano più nel nuovo splendore per quelle miserabili creature di prima. L’ombra del Maligno era sparita dall’anima nostra ove, come in un tabernacolo di luce, era disceso ad abitare lo Spirito Santo. Da poveri figli dell’uomo che eravamo fummo elevati ad essere figli di Dio: Dio guardandoci riconosceva in noi un po’ della sua natura, trovava in noi una meravigliosa somiglianza col suo Unigenito Gesù Cristo. Ci dichiarava allora suoi veri figli, fratelli di Gesù Cristo stesso, col quale ci costituiva eredi de’ suoi possessi eterni.

b) O cristiano riconosci la grandezza di quello che sei!

I ricchi si vantano delle loro terre e dei castelli e delle grosse eredità che aspettano: ed il Cristiano possiede non terra ma cielo, non castelli diroccati ma la città divina costrutta di gemme, non eredità passeggere ma eterne. I sapienti insuperbiscono per la loro intelligenza, eppure non riescono a comprendere che poche cose create: il cristiano ha un lume nel quale un giorno vedrà e comprenderà i misteri di Dio. I nobili decantano l’antichità e il pregio della loro stirpe; il Cristiano è della stirpe di Dio. Genus Dei sumus (Atti, XVII, 29). I principi si gloriano se qualche volta il Re passa la soglia della loro casa; ma lo Spirito Santo abita dentro l’anima del vero Cristiano, in dolcissima e stabile dimora… Dio è in noi! … O Cristiano, conosci te stesso! O Cristiano non degradarti nel fango di quaggiù!… Le antiche cronache francesi narrano che il conte Beranger, che fu pio suocero di S. Luigi IX, s’era impaniato in cattivi affari fino a ridursi nella miseria più nuda. Ed ecco presentarsi a lui un pellegrino ignoto: egli lo riceve in casa ed avendolo conosciuto per un esperto maggiordomo gli affida i suoi affari malandati e la sovraintendenza della sua casa. Sembrerebbe incredibile, eppure quel pellegrino seppe agire con tanta sagacia e avveduta destrezza che, in pochi anni, i debiti furono estinti, le rendite furono triplicate, le casse della contea di Provenza riempite d’oro e d’argento, le quattro figlie del conte sposate degnamente a quattro re. L’invidia allora mosse le male lingue e le calunnie maligne giunsero fino alle orecchie del conte, il quale parve dubitare dell’onestà del suo maggiordomo. Il buon pellegrino, impotente a difendersi dalle accuse, rassegnò il suo ufficio e i conti esatti nelle mani del conte Béranger, e prima che altri lo scacciassero, partì da quella casa che aveva salvato dalla miseria e dal disonore. Non fu una vergogna questa per il conte? Supponete ora che non solo l’abbia lasciato partire, ma che dopo qualche mese, sentendone bisogno, l’abbia richiamato, e che ancora dopo qualche tempo senza motivo l’abbia preso per le spalle e scacciato con queste parole: « Via di qua, ospite inutile e sgradito! », e che così abbia fatto per dieci o venti volte; che pensereste voi? Non direste forse che quel conte, crudele e stupido, meriterebbe una fine vergognosa?… – Ecco quello che abbiamo fatto tante volte, non con un pellegrino ignoto, ma con lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo che è venuto dentro noi per il Battesimo, che ci ha pagato i nostri debiti, che ci ha nobilitati, arricchiti, resi degni delle nozze eterne del Re dei re, e che noi abbiamo scacciato ripetutamente con amare e blasfeme parole: «Via di qua, ospite inutile e sgradito, lascia il tuo posto a satana! ». – Pensate che ingiuria ! Pensate alle terribili conseguenze! O Cristiano, conosci te stesso! O cristiano non degradarti nei fango di quaggiù!

CONCLUSIONE

Agostino (Epist., XXII) dice che, dopo morte, l’anima nostra nuda e tremante batterà alla porta del Paradiso. « Chi sei? » rintronerà dal di dentro la voce di Cristo. « Fui un uomo » risponderà essa. E allora la medesima voce sussurrerà: « Come hai trattato il tuo corpo di fango? come hai trattato la tua anima immortale? ». Che risponderemo?…

« Sono Cristiano » aggiungerà l’anima; e Cristo di rimando:

« Fammi vedere le tue mani se sono piagate come le mie, fammi vedere la tua fronte se è coronata della mia corona. E la veste battesimale dov’è? E il lume acceso di fede dov’è? Mostrami la tua faccia affinché ti possa riconoscere per mio fratello… per figlio di mio Padre… per tempio dello Spirito d’Amore… ».

Che risponderemo allora?

2.

ESAME DI COSCIENZA

Giovanni Battista era un uomo veramente straordinario; correvano di bocca in bocca il suo nome, le sue virtù, le sue gesta. Si parlava di lui come d’un profeta, come del Messia. Ed il Sinedrio decise di inviare a lui un’ambasciata per chiedere spiegazione di quanto succedeva. « T u chi sei, dunque? ». E Giovanni non tacque ma confessò chi era, poiché egli non era un illuso sul proprio conto, o un distratto dalla propria realtà. – Quanto sarebbe opportuno che capitasse di frequente a molti Cristiani, a noi, ingolfati in cento preoccupazioni pur necessarie, ma sempre terrene e devianti, una bella e terribile ambasciata che ci obblighi ad una visione o revisione profonda, reale del nostro « io » e delle nostre partite. Ma se ascoltiamo, è un complesso di voci che davvero premono attorno a noi, suscitate da Dio e nascoste nelle pieghe della nostra coscienza, ovvero nel rude richiamo di certi contrattempi o nelle voci di chi ci critica e ci assale, o nelle circostanze diverse della vita. Una vera ambasciata che interroga spesso, rompendo gl’incantesimi: «Chi sei tu? Perché fai questo? Ne sei degno? Sai quello che compi? ». Se fossimo noi stessi, poi, che ci rivolgiamo tali domande e sapessimo rispondere con sincera franchezza, quale profitto nella nostra vita morale! L’esame di coscienza è argomento tanto utile: vediamone la necessità e le diverse specie.

I. L’ESAME DI COSCIENZA E’ NECESSARIO

a) Per conoscersi.

Colpisce il modo con cui Giovanni risponde ai suoi interlocutori. La sua coscienza è un libro aperto, ordinato, edificante. La sua risposta è sincera, chiara e di inconfondibile umiltà e verità. Non sono il Cristo; gli preparo, tuttavia, la strada. Battezzo, ma in acqua: è il preludio del grande Sacramento. Non sono né Elia, né un profeta, ma una voce soltanto. Vedete, piuttosto, il Messia che è già tra voi e nessuno s’accorge. Esame e risposta pronta. – Un segno, invece, di grossa trascuratezza morale in molti Cristiani è la riottosità e talora l a ripugnanza a mettersi di fronte al proprio « io ». Passare anche un sol minuto a faccia con se stessi par di morire. Ed è vero. Morirebbe quella personalità fittizia, bizzarra, insignificante che ci siam fatto di giorno in giorno dall’uso di ragione in poi. Son proprio gli antichi Pagani che ce ne danno la lezione. Essi ritenevano l’esame ai coscienza un mezzo importantissimo per acquistar la sapienza. Chi non ricorda il loro motto « conosci te stesso »? Lo scolpivano anche sul tempio. Seneca scrive di sé: « Io mi sforzo di ripensare alla mia responsabilità quotidiana, ogni sera quando il lume è spento e i servi dormono. Misuro le mie parole e le mie opere; non mi dissimulo nulla e mi castigo dove ho mancato per non ricadervi ». Sapienza antica, ma vera; e quanto perfezionata dal Cristianesimo! S. Paolo raccomandava ai Galati: « ciascuno esamini le proprie azioni ». S. Agostino, incamminandosi nella vita della luce ritrovata, mormorava in preghiera: « Noverim te Domine, noverim me: » Preghiera che dovremmo ripetere anche noi se aspiriamo ad un po’ di perfezione.

b) Per correggersi.

Non abbiam mai visto certe carte geografiche antiche, in certi punti segnate così : « Terra sconosciuta » « Zona ignorata »? Quanti di noi potrebbero dire così della loro coscienza! Quante pieghe del nostro cuore ancora inesplorate! Si arrischia davvero di morire senza esserci conosciuti almeno a sufficienza. Non sono pochi gli illusi che credono di essere galantuomini mentre hanno la coscienza letteralmente coperta di idee false e di pregiudizi sulla Religione, sul proprio carattere, sui doveri dello stato, della necessità delle opere buone, sull’obbligo dell’istruzione religiosa. E quando non si conosce una zona, come si può valorizzarla, bonificarla? Come ottenere rendimento? Se il medico non esamina bene l’ammalato, non gli sarà facile curarlo. È pretesa stolta di correggersi, di profittare nella virtù, se non ci si esamina. L’ottavo Sacramento (l’ignoranza) che spesso, si dice, salva molti Cristiani, è da vedere « se » e « quando » vale nel caso individuo, dopo tutti i richiami del Signore, che sono una vera ambasciata che ci assedia. – S. Ignazio di Lojola dice che la malattia, la quale ci dispensa dalla preghiera ordinaria, non ci esonera dall’esame di coscienza. S. Giovanni d’Avila, vero maestro di spirito dichiarò apertamente: « se voi fate con costanza l’esame di coscienza, i vostri difetti non possono durare a lungo ». Sicché potremmo affermare che più siamo consapevoli delle nostre condizioni di coscienza e più sarà elevata la nostra perfezione.

II. DIVERSI ESAMI DI COSCIENZA

Solitamente se ne distinguono tre sorta: l’esame per la Confessione, l’esame quotidiano e quello particolare.

a) Non si pretenderà sempre dalla comune dei fedeli l’esame particolare. Ma non si dica che sia una piccineria da convento. È un breve piccolo esame che si compie ogni tanto nella giornata su un fatto o su una virtù. Ad es. al mattino appena levato e fatto il segno di croce: mezzogiorno, cambiando gli abiti dopo il lavoro: « quante volte ho scivolato nella critica? Mi guarderò meglio, riprendendo il lavoro ». Piccole cose; ma non è di piccoli punti il prezioso ricamo? Non è a piccoli moti d’ala che l’uccello si eleva verso il cielo? Non è a piccole esplosioni che la motocicletta divora la via?

b) Se durante il giorno il lavoro ci assorbe, è pur bello e doveroso per un Cristiano piegar il ginocchio, a sera, e prender in mano come un libro la propria coscienza e rileggere sia pure a volo d’uccello quanto si è compiuto. Fissati i punti neri, sulle prime si constata che le colpe difficilmente diminuiscono; ma a poco, a poco la volontà reagirà con frutto. Bisogna rintracciare anche i punti d’oro (non solo evitare il male, ma è necessario far il bene) e chiedersi se non si è sciupato tempo prezioso. Meglio accorciare le preghiere se si è stanchi, ma non tralasciare l’esame di coscienza! Il vantaggio dell’esame quotidiano a sera, renderà molto facile l’esame di confessione.

c) Almeno qui, fossimo premurosi e seri! Proprio quelli che non si esaminano mai, non riescono a trovar mai nulla di grave. I santi invece, abituati a gettar fasci di luce nella loro coscienza scoprivano sempre difetti e rendevano di conseguenza sempre più rifulgente il loro spirito. Ecco perché S. Carlo conduceva persino in Visita pastorale il suo direttore spirituale: per non lasciarsi sfuggire nulla e risplendere sempre agli occhi del suo Dio.

CONCLUSIONE

La sincerità ci deve sempre guidare. Con Dio e con noi stessi. Non c’è che tender l’orecchio per sentirci richiamati dalla legge di Dio, dai nostri doveri, dai giudizi dei nostri amici e familiari. Quanto è utile, sì, far tesoro anche di questi. Tu quis es? Come ci sentiremo impacciati a rispondere anche a loro. Ci parrà di rimpiccolire. Anche di fronte a una nostra virtù essi possono sempre aggiungere un « però » un « ma » che ci confonde. Dunque la scena dell’ambasciata a S. Giovanni ci ricordi l’importante dovere dell’esame di coscienza.

3.

LA FERMEZZA CRISTIANA

Tutta l’antichità ha levato alle stelle Ercole, l’eroe che uccideva i leoni, che strozzava i giganti, che tagliava d’un colpo sette teste all’idra favolosa: eppure questo mitologico tipo della forza pagana era un debole perché non ha saputo vincere le proprie passioni della sensualità, dell’orgoglio, dell’ira. Più valente è colui che vince se stesso che non il capitano che vince alla guerra. Ora ecco un uomo che non solo ha saputo resistere ad ogni difficoltà esteriore, ma ha soffocato anche ogni passione nella sua anima: Giovanni Battista, il simbolo della fortezza cristiana. Per ciò di lui il Signore ha potuto dire: « Tra tutti gli uomini nessuno è grande come Giovanni Battista ». Non era egli una canna pieghevole al soffiare d’ogni venticello, ma tra il Giordano e il deserto appariva simile a un leone. Iustus quasi leo confidens absque terrore (Prov., XXVIII, 1). E dei leone aveva simile il vestito e la voce. A lui che battezzava nei dintorni di Betania di là del fiume, giunse una maligna ambasceria da parte dei Giudei di Gerusalemme. « Chi sei? » gli domandarono. Il Battezzatore comprese che quella gente sospettava ch’egli fosse il Messia. Che bella occasione per farsi proclamare Re, e gustar la gioia d’un immenso trionfo, fosse pure per breve tempo! Ma il precursore che aveva domata ogni sensualità vivendo per lunghi anni nel deserto e cibandosi di frutta e di miele selvatico, aveva soffocato anche ogni ribellione della superbia. Udite con che forza risponde:

« No: io non sono il Cristo che attendete ».

« Allora, sei forse Elia disceso dal carro di fuoco? ».

« No ».

« Sei almeno uno dei profeti ? ».

« No ».

« Chi sei allora? ».

« Sono soltanto un grido che s’alza nel deserto e dice: preparatevi che il Signore è alle porte ».

« Ma se tu sei niente, perché battezzi? ».

« I o sono niente e perciò battezzo in acqua. Ma Colui che è tutto, verrà dietro a me e battezzerà in fuoco e in Spirito Santo. Credetemi, non sono degno nemmeno di cavargli i sandali ».

Un uomo che parla e opera così, io non mi meraviglio più se avrà il coraggio di affrontare i più ricchi e i più influenti cittadini con rimproveri asprissimi: « Razza di vipere! Sepolcri imbiancati! Fate penitenza che la falce della morte vi è già alle gambe ». Non mi meraviglio, se avrà il coraggio di varcare la soglia della reggia e dire in faccia al re adultero: « Non si può ». Non mi meraviglio, se indomito piegherà la testa a lasciarsela stroncare sul piatto che sarà dato in premio a una ballerina. – Il Cristianesimo non si può vivere senza la forza; veri Cristiani non si può essere senza la forza. Non la forza del corpo che il mondo rimpaganito tanto apprezza negli sports e sulle gazzette, ma quella dell’anima che il mondo rimpaganito non capisce più. Oh quanti salutari insegnamenti giungono anche a noi dalla rude e violenta figura del Battezzatore! noi che siamo incostanti nella via del bene e tremiamo e cediamo a tutte le difficoltà; noi che un giorno siamo col Signore e con mille propositi di santificazione, e un giorno andiamo col demonio e con mille desideri di godimento peccaminoso. Ci vuol fortezza: nelle parole e nelle opere.

1. NELLE PAROLE

L’imperatore Valente, postosi a servizio degli Ariani, cercava tutte le maniere per distruggere la Chiesa Cattolica. Ma a Cesarea, impavido come una rupe sotto l’uragano, stava il vescovo Basilio. Contro di lui l’imperatore mandò il capitano della sua guardia armata, Domizio Modesto, uomo prepotente e sanguinario che già aveva ucciso ottanta ecclesiastici.

« Ma dunque che cosa vale per te l’imperatore? » gli diceva con tono minaccioso perché il Vescovo non si voleva arrendere.

« Quando dà simili comandi vale niente; niente di più di un uomo qualunque ».

Modesto rimane sconcertato di fronte a questa franchezza.

« E non temi i castighi che il mio comando ti può infliggere? ».

« E che castighi? » domandò calmo Basilio con un punta d’ironia.

« Confisca di beni, prigionia, morte! ».

« Se non hai niente di peggio, sappi che queste minacce non mi sfiorano neppure. Vuoi i miei beni? prenditi quest’abito logoro e i miei libri. Vuoi mandarmi in esilio? da per tutto troverò la mia patria e il mio Dio. La morte e la tortura? questi sono benefici che mi fanno giungere più presto a Dio, per il quale io vivo, al quale servo, a cui sospiro. – Modesto comprese che la partita era perduta e concedendogli un giorno di tempo, lo pregò che avesse a ponderare bene ogni cosa e a risolversi in meglio.

« È inutile, — rispose l’Arcivescovo, — domani sarò quello di oggi » .

Modesto era sbalordito.

« Nessuno mi ha mai parlato così » disse con voce fioca. E Basilio di rincalzo:

« Gli è perché non ti sei mai imbattuto in un vero Cattolico ».

Dunque se le vostre parole non sono così franche e schiette, è segno che non siete dei veri Cattolici. Queste sono le risposte che la fortezza cristiana deve dare a tutte le cattive domande. – Un valente intagliatore, padre di numerosa famiglia, nonostante l’abilità sua e il suo mestiere, pativa la miseria per la scarsità di lavoro. Ed ecco capitargli una lucrosa commissione, ma svolgendo i disegni s’accorse che la virtù della modestia era oltraggiata. « Signore! — disse respingendo la commissione — queste figure io non le so intagliare ». L’altro, che dagli occhi e dal volto aveva tutto compreso, gli rispose ridendo: «Via questi scrupoli! sarete ben retribuito. E poi l’arte è arte… ».

« Se l’arte è arte, anche la legge di Dio è legge, e bisogna osservarla ». E preferì patire la miseria ancora, ma non eseguire quel lavoro non bello.

Esaminiamo la coscienza: è così che noi rispondiamo ad ogni proposta d’ingiusto o d’illecito commercio? O l’amor del guadagno ci fa tremare e cadere come piante senza radici? Un «no » risoluto e detto a tempo è un bell’atto di fortezza. Quando taluno vi offre da leggere un giornale, un libro pericoloso: «No, — rispondetegli — questa roba non è fatta per i miei occhi, che un giorno vedranno Dio ».

Quando vi si invita a certi spettacoli, a certi balli, in certi ritrovi:

« No, — rispondete — questi divertimenti non rallegrano il mio cuore consacrato a Dio ».

Quando vi rivolgono qualche parola che suona offesa alla fede, alla Religione, ai ministri del Signore:

« No, — rispondete, — queste parole non le posso ascoltare, perché le mie orecchie vogliono un giorno deliziarsi alle armonie degli Angeli ». – Ma soprattutto ci vuol fortezza a rispondere in materia di onestà. Quando qualche cattivo ha il coraggio di indirizzarvi certi motti allusivi, maliziosi, equivoci, che il vostro occhio non resti brillante, né la vostra bocca atteggiata a sorriso! Tutto in voi deve dir di no: e gli occhi e la lingua e il volto corrucciato e i piedi incamminati altrove. Ricordatevi di S. Bernardino da Siena, che, giovanetto amabile, da una persona udì un cattivo invito: subito arrossendo, non si poté frenare e lanciò uno schiaffo dicendo:

« A un tal parlare conviene questo gestire ».

.2 CON LE OPERE

I santi ci hanno insegnato la sublime fortezza che talvolta giunge fino alla morte. Il bene costa, e senza fatica è difficile compiere opere buone. Costa fatica udire frequentemente la Messa, non perdere mai la spiegazione domenicale della dottrina, eppure senza la preghiera e senza l’istruzione cristiana non si può vivere bene. Costa fatica, e che fatica, perdonare le ingiurie, fare del bene a quelli che ci vollero male, mortificare la lingua che vorrebbe diffondere i difetti e i torti altrui: eppure senza l’amore del prossimo non si può ottenere l’amore di Dio. Costa fatica mantenersi casti secondo il proprio stato: tutto il giorno è una trafittura di tentazioni che ci assillano; in ogni parte si ascoltano parole impure, si vedono figure e persone immodeste. Eppure niente di contaminato entrerà nei cieli. – S. Ignazio per ciò esclamava: « Vengano pure contro di me e il fuoco e la croce e le belve; siano rotte le mie ossa, dilaniate le mie carni, tormentata la mia anima: tutto sopporterò purché un giorno possa godere Cristo ». – E S. Vincenzo martire, morendo, ci ha lasciato un sublime esempio di fortezza: spogliato fu disteso sull’eculeo e stirato così che ogni giuntura si slogò. Fu poi battuto con nervi con catenelle con graffi di acciaio; i carnefici stessi erano stanchi di tormentare, ma non lui di patire. Il prefetto Daciano impose allora di collocarlo sopra una graticola irta di punte sotto la quale ardevano i carboni: e Vincenzo da quel letto di strazio sovrumano parlava dell’amore di Dio con dolcezza che sembrava fosse disteso in un letto di morbidissime piume. Davanti a questi esempi, davanti all’esempio di Giovanni Battista, davanti all’esempio del Salvatore nostro crocifisso, ci sembrerà troppo greve sopportare le croci che ci sono nella nostra famiglia, senza lamentarci? – Ci sembrerà troppo duro superare le cattive abitudini già contratte o della bestemmia o del vino o dell’ira? Ci sembrerà ancora impossibile educare cristianamente tutti i figli che Iddio vorrà largirci, dar loro buon esempio, correggerli con severità e dolcezza? Se non abbiamo la forza di far questo, che Cristiani siamo? Il regno dei cieli patisce violenza e solo i forti lo raggiungono.

CONCLUSIONE

Una sera d’inverno che fioccava e tirava vento gelidissimo, S. Valerico giunse, dopo parecchi giorni di cammino, ad Amiens. Era tutto bagnato, era stanco, aveva freddo e fame. Per fortuna trovò aperta una locanda e vi chiese ospitalità per quella notte. Ma come si pose vicino al fuoco per rasciugarsi e rifocillarsi, s’accorse che le persone che là si trovavano, tenevano discorsi osceni.

« Se Dio domanderà conto anche di una sola parola inutile, che cosa farà per queste che voi dite? ».

Ma quelli non cedettero, anzi diabolicamente raddoppiarono le oscenità e cominciarono a maltrattare il santo. Questi, quando li vide irriducibili, disse: « Meglio il freddo che la puzza delle vostre parole ». E uscì. – Era notte oscura e nevicava: ogni casa era chiusa, non un lume traluceva più dalle finestre. Ed il santo si trovò sulla strada; bagnato e affamato, sotto la sferza di un ventaccio gelido, con tanto cammino da fare. Avanti, avanti, S. Valerico! Gli Angeli invisibili ti sono daccanto e camminano al passo con te. – Avanti, avanti, coraggiosi Cristiani che con sublime fortezza patite per la giustizia e siete perseguitati per la sincerità della fede e per il coraggio delle convinzioni! Forza e avanti: il mondo ignora il vostro eroismo, e non scrive il vostro nome sulle gazzette e sui manifesti; lo scrivono però gli Angeli di Dio sul libro del cielo.

Gaudete quia nomina vestra scripta sunt in cœlo.

ERO CRAS

17 DICEMBRE

INIZIO DELLE GRANDI ANTIFONE

La Chiesa apre oggi la serie settenaria dei giorni che precedono la Vigilia di Natale, e che sono celebrati nella Liturgia con il nome di Ferie maggiori. L’Ufficio ordinario dell’Avvento assume maggiore solennità; le Antifone dei Salmi, alle Laudi e alle Ore del giorno, sono proprie del tempo e hanno un rapporto diretto con la grande Venuta. Tutti i giorni, ai Vespri, si canta una grande Antifona che è un grido verso il Messia e nella quale gli si dà ogni giorno qualcuno dei titoli che gli sono attribuiti nella Scrittura. – Il numero di queste Antifone, che sono dette volgarmente antifone O dell’Avvento, perché cominciano tutte con questa esclamazione è di sette nella Chiesa romana, una per ciascuna delle sette Ferie maggiori, e si rivolgono tutte a Gesù Cristo. Altre Chiese, nel medioevo, ne aggiunsero ancora due: una alla Santissima Vergine, O Virgo Virginum! e una all’Angelo Gabriele, O Gabriel! oppure a san Tommaso, la cui festa cade nel corso delle Ferie maggiori. – Quest’ultima comincia così: O Thomas Didime! [Quest’antifona è più moderna; ma a partire dal XIII secolo sostituì quasi universalmente quella: O Gabriel!]. Vi furono anche delle Chiese che portarono fino a dodici il numero delle grandi Antifone, aggiungendone alle nove di cui abbiamo parlato altre tre, e cioè: una a Cristo, O Rex pacifice! una seconda alla Santissima Vergine, O mundi Domina! e infine un’ultima a mo’ d’apostrofe a Gerusalemme, O Hierusalem! – Il momento scelto per far ascoltare questo sublime appello alla carità del Figlio di Dio è l’ora dei Vespri, perché è alla sera del mondo, vergente mundi vespere, che è venuto il Messia. Si cantano al Magnificat, per denotare che il Salvatore che aspettiamo ci verrà da Maria. Si cantano due volte, prima e dopo il Cantico, come nelle feste Doppie, in segno della maggiore solennità; ed era anche antica usanza di parecchie Chiese cantarle tre volte, cioè prima del Cantico stesso, prima del Gloria Patri e dopo il Sicut erat. Infine, queste meravigliose Antifone che contengono tutto il midollo della Liturgia dell’Avvento, sono adorne d’un canto armonioso e pieno di gravità, e le diverse Chiese hanno conservato l’usanza di accompagnarle con una pompa tutta speciale, le cui manifestazioni sempre espressive variano secondo i luoghi. Entriamo nello Spirito della Chiesa e riceviamole per unirci, con tutta l’effusione del nostro cuore, alla stessa santa Chiesa, allorché fa sentire al suo Sposo questi ultimi e teneri inviti ai quali egli infine si arrende.

I ANTIFONA

O Sapienza,

che sei uscita dalla bocca dell’Altissimo, che attingi l’uno e l’altro estremo, e disponi di tutte le cose con forza e dolcezza: vieni ad insegnarci le vie della prudenza. O Sapienza increata che presto ti renderai visibile al mondo, come si vede bene in questo momento che tu disponi tutte le cose! Ecco che, con il tuo divino permesso, è stato emanato un editto dell’imperatore Augusto per fare il censimento dell’universo. Ognuno dei cittadini dell’Impero deve farsi registrare nella sua città d’origine. – Il principe crede nel suo orgoglio di aver mosso a suo vantaggio tutto il genere umano. Gli uomini si agitano a milioni sul pianeta, e attraversano in ogni senso l’immenso mondo romano; pensano di obbedire a un uomo, e obbediscono invece a Dio. Tutto quel grande movimento non ha che uno scopo: di condurre cioè a Betlemme un uomo e una donna che hanno la loro umile dimora in Nazareth di Galilea, perché quella donna sconosciuta dagli uomini e amata dal cielo, giunta al termine del nono mese dalla concezione del suo figliuolo, dia alla luce a Betlemme il figlio di cui il Profeta ha detto : « La sua origine è fin dai giorni dell’eternità; o Betlemme, tu non sei affatto la più piccola fra le mille città di Giuda, poiché da te appunto egli uscirà ». – O sapienza divina, quanto sei forte, per giungere così ai tuoi fini in un modo insuperabile per quanto nascosto agli uomini! Quanto sei dolce, per non fare tuttavia alcuna violenza alla loro libertà! Ma quanto sei anche paterna nella tua premura per i nostri bisogni! Tu scegli Betlemme per nascervi, perché Betlemme significa la Casa del Pane. Ci mostri con ciò che tu vuoi essere il nostro Pane, il nostro nutrimento, il nostro alimento di vita. Nutriti d’un Dio, d’ora in poi non morremo più. O Sapienza del Padre, Pane vivo disceso dal cielo, vieni presto in noi, affinché ci accostiamo a te, e siamo illuminati dal tuo splendore; e dacci quella prudenza che conduce alla salvezza.

18 DICEMBRE

II ANTIFONA

O Adonai,

Signore, capo della casa d’Israele, che sei apparso a Mosè nella fiamma del roveto ardente e gli hai dato la legge sul Sinai, vieni a riscattarci nella forza del tuo braccio. O Supremo Signore, Adonai, vieni a riscattarci, non più nella tua potenza, ma nella tua umiltà. Una volta ti sei manifestato a Mosè, tuo servo, in mezzo ad una divina fiamma; hai dato la Legge al tuo popolo tra fulmini e lampi. Ora non è più tempo di spaventare, ma di salvare. Per questo la tua purissima Madre Maria, conosciuto, al pari dello sposo Giuseppe, l’editto dell’Imperatore che li obbligherà ad intraprendere il viaggio di Betlemme, si occupa dei preparativi della tua prossima nascita. Dispone per te, o divino Sole, gli umili panni che copriranno la tua nudità, e ti ripareranno dal freddo in questo mondo che tu hai fatto, nell’ora in cui apparirai nel profondo della notte e del silenzio. Così ci libererai dalla servitù del nostro orgoglio, e il tuo braccio si farà sentire più potente quando sembrerà più debole e più immobile agli occhi degli uomini. Tutto è pronto, o Gesù! I tuoi panni ti attendono. Parti dunque presto e vieni a Betlemme, a riscattarci dalle mani del nostro nemico.

19 DICEMBRE

III ANTIFONA

O rampollo di Jesse,

che sei come uno stendardo per i popoli; davanti al quale i re ammutoliranno e le genti offriranno le loro preghiere: vieni a liberarci, e non tardare. Eccoti dunque in cammino, o Figlio di Jesse, verso la città dei tuoi avi. L’Arca del Signore s’è levata ed avanza, con il Signore che è in essa, verso il luogo del suo riposo. « Quanto sono belli i tuoi passi, o Figlia del Re, nello splendore dei tuoi calzari » (Cant. VII, 1), quando vieni a portare la salvezza alle città di Giuda! Gli Angeli ti scortano, il tuo fedele Sposo ti circonda di tutta la sua tenerezza, il cielo si compiace in te, e la terra trasalisce sotto il dolce peso del suo Creatore e della sua augusta Regina. Avanza, o Madre di Dio e degli uomini, Propiziatorio onnipotente in cui è racchiusa la divina Manna che preserva l’uomo dalla morte! I nostri cuori ti seguono e ti accompagnano, e al seguito del tuo Regale antenato, giuriamo « di non entrare nella nostra casa, di non salire sul nostro letto, di non chiudere le nostre palpebre e di non concederci riposo fino a quando non abbiamo trovato nei nostri cuori una dimora per il Signore che tu porti, una tenda per il Dio di Giacobbe ». Vieni dunque, così velato sotto i purissimi fianchi dell’Arca santa, O rampollo di Jesse, finché ne uscirai per risplendere agli occhi del popolo, come uno stendardo di vittoria. – Allora i re vinti taceranno dinanzi a te, e le genti ti rivolgeranno i loro omaggi. Affrettati, o Messia; vieni a vincere tutti i nostri nemici, e liberaci!

20 DICEMBRE

IV ANTIFONA

O chiave di David

e scettro della casa d’Israele, che apri, e nessuno può chiudere; che chiudi, e nessuno può aprire: vieni e trai dalla prigione il misero che giace nelle tenebre e nell’ombra della morte. O figlio di David, erede del suo trono e della sua potenza, tu percorri, nella tua marcia trionfale, una terra sottomessa un tempo al tuo avo, e oggi asservita dai Gentili. Riconosci da ogni parte, sul tuo cammino, tanti luoghi testimoni delle meraviglie della giustizia e della misericordia di Dio tuo Padre verso il suo popolo, nel tempo di quell’antica Alleanza che volge verso la fine. Presto, tolta la virginea nube che ti ricopre, intraprenderai nuovi viaggi su quella stessa terra, vi passerai beneficando e guarendo ogni languore ed ogni infermità, e tuttavia senza avere dove posare il capo. Oggi almeno il seno materno ti offre ancora un asilo dolce e tranquillo nel quale non ricevi che le testimonianze dell’amore più tenero e più rispettoso. Ma, o Signore, bisogna che tu esca da quel beato ritiro; bisogna che tu, O Luce eterna, risplenda in mezzo alle tenebre, poiché il prigioniero che sei venuto a liberare languisce nella sua prigione. – Egli giace nell’ombra della morte, e vi perirà se non vieni prontamente ad aprirne le porte con la tua Chiave onnipotente ! Il prigioniero, o Gesù, è il genere umano, schiavo dei suoi errori e dei suoi vizi. Vieni a spezzare il giogo che l’opprime e lo degrada! Il prigioniero è il nostro cuore troppo spesso asservito a tendenze che esso sconfessa. Vieni, o divino Liberatore, a riscattare tutto ciò che ti sei degnato di rendere libero con la tua grazia, e a risollevare in noi la dignità di fratelli tuoi.

21 DICEMBRE

V ANTIFONA

O Oriente,

splendore della luce eterna! Sole di giustizia! vieni, ed illumina coloro che giacciono nelle tenebre e nell’ombra della morte! O divin Sole, o Gesù, tu vieni a strapparci alla notte eterna: sii per sempre benedetto! Ma come provi la nostra fede, prima di risplendere ai nostri occhi in tutta la tua magnificenza! Come ti compiaci di velare i tuoi raggi, fino all’istante segnato dal Padre tuo celeste, nel quale devi effondere tutti i tuoi fuochi! Ecco che attraversi la Giudea, ti avvicini a Gerusalemme, e il viaggio di Maria e Giuseppe volge al termine. Sul cammino, incontri una moltitudine di uomini che vanno in tutte le direzioni, e che si recano ciascuno alla sua città d’origine per soddisfare all’Editto del censimento. Di tutti quegli uomini nessuno pensa che tu gli sia vicino, o divino Oriente! Maria, Madre tua, è ritenuta una donna comune; tutt’al più, se notano la maestà e la modestia incomparabile dell’augusta Regina, sentiranno vagamente lo stridente contrasto fra la suprema dignità e l’umile condizione; ma hanno presto dimenticato quel felice incontro. Se guardano con tanta indifferenza la Madre, rivolgeranno forse un pensiero al Figlio ancora racchiuso nel suo seno? Eppure quel Figlio sei tu stesso, o Sole di giustizia! Accresci in noi la Fede, ma accresci anche l’amore. Se quegli uomini ti amassero, o liberatore dell’universo, tu ti facessi sentire ad essi; i loro occhi non ti vedrebbero ancora, ma almeno s’accenderebbe loro il cuore nel petto, ti desidererebbero e solleciterebbero il tuo arrivo con i loro voti e i loro sospiri. O Gesù, che attraversi così quel mondo che tu hai fatto, e che non forzi l’omaggio delle tue creature, noi vogliamo accompagnarti per il resto del tuo viaggio; baciamo sulla terra le orme benedette dei passi di Colei che ti porta nel seno, e non vogliamo lasciarti fino a quando non siamo arrivati con te alla dolce Betlemme, a quella Casa del Pane in cui finalmente i nostri occhi ti vedranno, o Splendore eterno, nostro Signore e nostro Dio.

22 DICEMBRE

VI ANTIFONA

O re delle genti,

oggetto dei loro desideri! Pietra angolare che riunisci in te i due popoli! Vieni e salva l’uomo che hai formato dal fango. O Re delle genti! Tu ti avvicini sempre più a quella Betlemme in cui devi nascere. Il viaggio volge al termine, e la tua augusta Madre, che il dolce peso consola e fortifica, conversa senza posa con te lungo il cammino. Adora la tua divina maestà e ringrazia la tua misericordia; si rallegra d’essere stata scelta per la sublime missione di servire da Madre a un Dio. Brama e teme insieme il momento in cui finalmente i suoi occhi ti contempleranno. Come potrà renderti i servigi degni della tua somma grandezza, quando si ritiene l’ultima delle creature? Come ardirà sollevarti fra le braccia, stringerti al cuore, allattarti al suo seno mortale? Eppure, quando pensa che si avvicina l’ora in cui, senza cessare d’essere suo Figlio, uscirai da Lei ed esigerai tutte le cure della sua tenerezza, il suo cuore vien meno e mentre l’amore materno si confonde con l’amore che porta verso Dio, è sul punto di spirare in quella lotta troppo impari della fragile natura umana contro i più forti e i più potenti di tutti gli affetti riuniti in uno stesso cuore. Ma tu la sostieni, o Desiderato delle genti, perché vuoi che giunga al felice termine che deve dare alla terra il suo Salvatore, e agli uomini la Pietra angolare che li riunirà in una sola famiglia. Sii benedetto nelle meraviglie della tua potenza e della tua bontà, o divino Re, e vieni presto a salvarci, ricordandoti che l’uomo ti è caro poiché l’hai formato con le tue stesse mani. Oh, vieni, poiché l’opera tua è degenerata, è caduta nella perdizione, e la morte l’ha invasa: riprendila nelle tue potenti mani, rifalla, salvala, perché l’ami sempre, e non arrossisci della tua creazione.

23 DICEMBRE

VII ANTIFONA

O Emmanuele,

nostro Re e nostro Legislatore, attesa delle genti e loro salvatore, vieni a salvarci. Signore Dio nostro! O Emmanuele, Re della Pace, tu entri oggi in Gerusalemme, la città da te scelta, perché è là che hai il tuo Tempio. Presto vi avrai la tua Croce e il tuo Sepolcro, e verrà il giorno in cui costituirai presso di essa il tuo terribile tribunale. Ora tu penetri senza rumore e senza splendore in questa città di David e di Salomone. Essa non è che il luogo del tuo passaggio, mentre ti rechi a Betlemme. Tuttavia Maria Madre tua e Giuseppe, suo sposo, non l’attraversano senza salire al Tempio per offrire al Signore i loro voti e i loro omaggi; e si compie allora, per la prima volta, l’oracolo del Profeta Aggeo il quale aveva annunciato che la gloria del secondo Tempio sarebbe stata maggiore di quella del primo. Quel Tempio, infatti, si trova in questo momento in possesso d’un’Arca d’Alleanza molto più preziosa di quella di Mosè, e soprattutto non paragonabile a nessun altro santuario e anche al cielo, per la dignità di Colui che essa racchiude. Vi è il Legislatore stesso, e non più soltanto la tavola di pietra su cui è scritta la Legge. Ma presto l’Arca vivente del Signore discende i gradini del Tempio, e si dispone a partire per Betlemme, dove la chiamano altri oracoli. Noi adoriamo, O Emmanuele, tutti i tuoi passi attraverso questo mondo, e ammiriamo con quanta fedeltà osservi quanto è stato scritto di te, affinché nulla manchi ai caratteri di cui devi essere dotato, o Messia, per essere riconosciuto dal tuo popolo. Ma ricordati che sta per suonare l’ora, tutto è pronto per la tua Natività, e vieni a salvarci. Vieni, per essere chiamato non più soltanto Emmanuele, ma Gesù, cioè Salvatore.

24 DICEMBRE

GRANDE ANTIFONA A GERUSALEMME

O Gerusalemme, città del gran Dio, leva gli occhi intorno a te, e guarda il tuo Signore, poiché egli presto verrà a liberarti dalle tue catene. Consideriamo la purissima Maria, sempre accompagnata dal suo fedele sposo Giuseppe, che esce da Gerusalemme e si dirige verso Betlemme. Essi vi giungono dopo alcune ore di cammino e, per obbedire al volere celeste, si recano alla sede del censimento secondo l’editto dell’Imperatore. Sul pubblico registro si nota così il nome dell’artigiano Giuseppe, falegname a Nazareth di Galilea; senza dubbio vi si aggiunge anche il nome della sposa Maria che l’ha accompagnato nel viaggio; forse è stata qualificata anche come donna incinta al nono mese: questo è tutto. O Verbo incarnato, agli occhi degli uomini, tu non sei dunque ancora un uomo? Visiti questa terra e vi sei sconosciuto; tuttavia tutto quel movimento, tutta l’agitazione che porta con sé il censimento dell’impero, non hanno altro scopo che di condurre Maria, Madre tua, a Betlemme per darti alla luce. O Mistero ineffabile! Quanta grandezza in questa apparente bassezza! Tuttavia il sommo Signore non ha ancora toccato il fondo del suo abbassamento. Ha percorso le dimore degli uomini, e gli uomini non l’hanno ricevuto. Cercherà ora una culla nella stalla degli animali senza ragione: è qui che nell’attesa dei canti angelici, degli omaggi dei pastori e delle adorazioni dei Magi, troverà « il bue che conosce il suo Padrone, e l’asino che vien legato alla mangiatoia del suo Signore ». O Salvatore degli uomini, o Emmanuele, o Gesù, anche noi ci recheremo alla stalla; non lasceremo compiersi solitaria e derelitta la nuova Nascita. A quest’ora, tu vai bussando alle porte di Betlemme, senza che gli uomini vengano ad aprirti, e dici alle anime, con la voce del divino Cantico: « Aprimi o sorella mia, amica mia, poiché il mio capo è pieno di rugiada e i miei capelli imbevuti delle gocce della notte ». Noi non vogliamo che tu abbia a passare oltre la nostra dimora: ti supplichiamo di entrare, e ci teniamo vigilanti alla nostra porta. « Vieni dunque, o Signore Gesù, vieni ».

Le prime lettere delle sette antifone, lette all’inverso, formano: ERO CRAS, cioè « domani sarò con voi » !

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI APOSTATI DI TORNO: UBI PRIMUM DI S. S. PIO IX

In questa Lettera il Santo Padre, da poco eletto al Soglio della Cattedra di S. Pietro, e già esiliato a Gaeta, inizia la sua opera di definizione dogmatica della Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, Madre del Cristo, Dio incarnato, opera che si concluderà con la definizione infallibile ed irriformabile della “Ineffabilis Deus”, del 1954. Questa verità di fede attendeva la sua proclamazione ufficiale dalla Santa Sede da tempo immemorabile, ma solo in quel tempo la imperscrutabile Volontà di Dio permetteva la conclusione di quell’iter dogmatico, confermato oltremodo dalle Apparizioni della Santissima Vergine di Lourdes a Bernadette Soubirous. Si può qui constatare le prudenza estrema del Pontefice, la sua volontà di coinvolgere tutto il mondo ecclesiastico, tutta la Chiesa militante, finanche i laici, chiamati alla preghiera perché le sue decisioni fossero illuminate dallo Spirito Santo. Un tripudio quindi di gioia e timore, di venerazione e di saggezza prudente, quella saggezza poi mortificata e calpestata dalle “porte degli inferi”, i cui rappresentanti hanno eclissato la Chiesa Cattolica con l’infame conciliabolo c. d. Vaticano II, abominio dottrinale e ruggito satanico, volto a stravolgere le deboli volontà di sedicenti e falsi Cattolici solo di nome, “canne al vento” flesse ad ogni vento di dottrina ed incapaci di radicarsi nella vera fede della Chiesa di Cristo. Il Santo Padre Pio IX, opera qui con la delicatezza di un padre che ama i figli affidati dal Pastore celeste a Simon-Pietro, il Principe degli Apostoli ed ai suoi successori perpetui, senza interruzione, quei figli stessi che Cristo Redentore, dall’alto del suo trono regale, il Crocifisso, ha affidato alla Madre sua, la Vergine Maria, affinché fosse Corredentrice e pegno di Salvezza certa per chi a Lei si affida imitandola ed ubbidendola. Che questa lettera susciti quindi in noi sentimenti di amore incondizionato alla Vergine Santissima, Immacolata dal primo istante della sua Concezione, in vista dei meriti di Cristo, il Figlio di Dio e di Maria, e ci sproni a sostare fino all’ultimo istante della nostra vita mortale, nell’Arca di salvezza, l’unica vera Arca di salvezza, la Chiesa Cattolica guidata dall’unico “Nocchiero”, il Vicario di Cristo, l’unica guida certa al porto di salvezza che attende tutti coloro che lo hanno riconosciuto credendo alla parola di Gesù Cristo:  “… su questa pietra fonderò la mia Chiesa”, e quindi solo essa sarà garanzia di salvezza, per coloro solo che sono soggetti all’Autorità dell’unico “vero” Santo Padre, Gregorio XVIII, pur se prigioniero, come lo era all’epoca Pio IX, impedito, eclissato da bestie immonde, immagini del loro padre infernale che li attende beffardo e gongolante nel regno della eterna dannazione. Meditiamo con gioia questa lettera Enciclica passando poi alla straordinaria Ineffabilis Deus, dove potremmo esplodere in un inno di gioia alla Vergine e a Dio Padre, Artefice di questa misericordia immensa; e a nostro conforto nell’ora presente, ora di grande tribolazione per la Chiesa ed i veri Cristiani, ricordiamo che “ … portæ inferi non prævalebunt”, e soprattutto:

“… IPSA conteret caput tuum!”.

ENCICLICA
UBI PRIMUM
DEL SOMMO PONTEFICE

PIO IX

A tutti i Venerabili Fratelli

Patriarchi, Primati, Arcivescovi e Vescovi dell’orbe cattolico.

Il Papa Pio IX.

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

Non appena fummo elevati, non per nostro merito, ma per arcano disegno della divina Provvidenza, alla sublime Cattedra del Principe degli Apostoli e prendemmo in mano il timone di tutta la Chiesa, fummo presi da grandissima consolazione, Venerabili Fratelli, nel rilevare come già sotto il Pontificato del Nostro Predecessore Gregorio XVI, di felice memoria, fosse divenuto ardente nel mondo cattolico il desiderio che finalmente venisse definito dalla Sede Apostolica, con solenne provvedimento, che la Santissima Madre di Dio e Madre nostra amabilissima, l’Immacolata Vergine Maria, era stata concepita senza peccato originale. Questo piissimo desiderio è chiaramente e indubbiamente testimoniato dalle suppliche inviate al Nostro Predecessore e a Noi: suppliche con le quali celebri Vescovi, insigni Capitoli di Canonici e Famiglie Religiose, tra le quali l’inclito Ordine dei Predicatori, gareggiarono nell’implorare con insistenza che si permettesse di annunciare pubblicamente e di aggiungere nella sacra Liturgia, particolarmente nel Prefazio della Messa della Concezione della beatissima Vergine, l’aggettivo “Immacolata”. Sia il Nostro Predecessore, sia Noi esaudimmo molto volentieri queste aspirazioni. A ciò si aggiunge che moltissimi di voi, Venerabili Fratelli, non cessarono di inviare lettere al Nostro Predecessore e a Noi stessi, per implorare con rinnovate istanze e raddoppiato entusiasmo che definissimo come dottrina della Chiesa Cattolica che il concepimento della beatissima Vergine Maria fu del tutto immacolato ed assolutamente immune dal peccato originale. Né sono mancati, anche ai giorni nostri, uomini insigni per ingegno, virtù, pietà e dottrina, i quali con i loro dotti e poderosi scritti hanno illustrato questo argomento e questa piissima opinione; tanto che molti si stupiscono che la Chiesa e la Sede Apostolica non abbiano ancora decretato alla santissima Vergine quell’onore che la comune pietà dei fedeli così ardentemente desidera sia tributato alla Vergine dal solenne giudizio e dall’autorità della Chiesa e della medesima Sede Apostolica. – Senza dubbio questi voti sono tornati di sommo gradimento e gioia a Noi che, fin dalla Nostra più tenera età, nulla abbiamo avuto più a cuore che venerare con speciale pietà, devozione e intimo affetto la beatissima Vergine Maria, e mettere in pratica tutto ciò che era diretto a procurare la maggiore lode e gloria della stessa Vergine, e a promuoverne il culto. Perciò, fin dall’inizio del Nostro supremo Pontificato, con il maggior ardore possibile, abbiamo rivolto le Nostre sollecitudini e il Nostri pensieri ad una così importante questione, e non abbiamo trascurato di innalzare umili e devote preghiere a Dio, affinché voglia illuminare la Nostra mente con la luce della sua grazia celeste, onde possiamo conoscere ciò che in tale materia dobbiamo fare. Grande infatti è la Nostra fiducia in Maria, la beatissima Vergine che fece salire i suoi meriti sopra i cori angelici fino al trono di Dio; che schiacciò con la potenza del suo piede il capo dell’antico serpente; che, collocata fra Cristo e la Chiesa, tutta amorevole e piena di grazia, liberò il popolo cristiano dalle più gravi calamità, dalle insidie e dagli assalti di tutti i nemici, sottraendolo sempre alla morte. Voglia Ella anche ai nostri giorni, con lo splendido tratto del misericordioso affetto materno, con il suo patrocinio sempre efficace e potentissimo presso Dio, allontanare le presenti tristissime vicende piene di lutti, le gravissime tribolazioni, le angustie, le difficoltà e i flagelli della collera divina, che ci affliggono per i nostri peccati; voglia sedare e disperdere le agitatissime tempeste di mali, da cui, con profondo Nostro dolore, è dappertutto sbattuta la Chiesa, e cambiare così in gioia la Nostra amarezza. Voi infatti ben sapete, Venerabili Fratelli, che ogni fondamento della Nostra fiducia riposa nella santissima Vergine; dal momento che Dio ha posto in Maria la pienezza di ogni bene, sappiamo che ogni speranza, ogni grazia, ogni salvezza derivano da Lei, perché questa è la volontà di Colui che stabilì che tutto ricevessimo per mezzo di Maria. – Pertanto abbiamo scelto alcuni ecclesiastici di specchiata pietà ed affermati negli studi teologici, ed alcuni Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa, illustri per virtù, religione, santità, senno e conoscenza delle cose divine, e abbiamo affidato loro l’incarico di fare, conforme alla loro prudenza e dottrina, un diligente, profondo e completo esame dell’argomento, comunicandoci successivamente con pari scrupolosità il loro parere. Così facendo, riteniamo di seguire le orme dei Nostri Predecessori e di imitare i loro esempi. – Abbiamo perciò pensato, Venerabili Fratelli, di scrivervi la presente Lettera per spronare la vostra esimia pietà e il vostro zelo pastorale, e per inculcarvi con ogni premura di volere, secondo il vostro prudente giudizio, indire e tenere pubbliche preghiere nelle vostre diocesi, onde il clementissimo Padre di ogni lume si degni di illuminarci con la luce del suo divino Spirito, perché in una cosa di tanta importanza possiamo prendere quella deliberazione che più risponda alla maggior gloria del suo Nome, alla lode della beatissima Vergine ed all’utilità della Chiesa militante. Desideriamo inoltre ardentemente che, con la maggiore sollecitudine possibile, vogliate farci conoscere quale sia la devozione che anima il vostro clero e il vostro popolo cristiano verso la Concezione della Vergine Immacolata, e con quale intensità mostri di volere che la questione sia definita dalla Sede Apostolica; ma soprattutto, Venerabili Fratelli, amiamo sapere quale sia in questa materia il vostro pensiero ed il vostro desiderio. – E poiché abbiamo già permesso al clero romano che, invece di quelle contenute nel comune Breviario, possa recitare le speciali ore canoniche in onore della Concezione della beatissima Vergine, recentemente composte e pubblicate, con la presente Lettera concediamo anche a voi, Venerabili Fratelli, se ciò sarà di vostro gradimento, che tutto il clero delle vostre diocesi possa recitare lecitamente e validamente le stesse ore canoniche della Concezione della santissima Vergine in uso presso il clero romano, senza che dobbiate perciò domandare il permesso a Noi o alla sacra Congregazione dei Riti. – Non dubitiamo affatto, Venerabili Fratelli, che per la vostra particolare pietà verso la santissima Vergine Maria sarete lieti di corrispondere con ogni premura ed ogni zelo a questi Nostri desideri, e che vi affretterete ad inviarci le opportune risposte, che vi abbiamo richiesto. Frattanto, come auspicio di ogni celeste favore e come particolare attestato della Nostra benevolenza verso di voi, ricevete l’Apostolica Benedizione, che con vivissimo affetto impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, a tutti i sacerdoti e ai fedeli affidati alle vostre cure.

Dato a Gaeta, il 2 febbraio 1849, anno terzo del Nostro Pontificato.