GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi Spirituali (11)

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

11. La S. Messa

La SS. Eucaristia ci interessa, oltre che come presenza reale — e questo è fondamentale certamente — come Sacrificio della Messa. Perché nel momento stesso in cui per la transustanziazione Gesù Cristo diventa presente, in luogo della sostanza del pane e del vino che cessano e che sono transustanziati, in quello stesso momento avviene l’offerta del S. Sacrificio. Ora noi dobbiamo discorrere di questo e cercare di capire, per quanto ci è dato, il divino pensiero che sta in questo santo Sacrificio, e ciò che in tutto questo si viene disegnando, perché noi avremo una ragione di più per capire come la conversatio nostra debba essere in cælis. Come e perché l’Eucaristia è Sacrificio? Per questi motivi. Le parole che ha usato Gesù Cristo nella istituzione — offertur, effunditur, ecc. — sono tutte parole di carattere sacrificale. E poiché vengono riferite a ciò che teneva nelle mani, e precisamente al calice, evidentemente il carattere sacrificale è predicato di quello. E pertanto la rinnovazione dell’Eucaristia ha evidentemente carattere sacrificale. Del resto la profezia di Malachia era sufficientemente chiara a questo proposito, ed è singolare come nell’Antico Testamento il gesto di Melchisedec, che aveva offerto il pane e il vino, venga ritratto. È da credere che gli stessi che hanno ritratto questo gesto, forse non abbiano capito che cosa dicessero, che cosa scrivessero, ma l’hanno detto e l’hanno scritto. Davide stesso nel celebre salmo « Dixit Dominus », il primo dei Vespri della domenica, ha dovuto dire che il sacerdozio del Messia era secondo l’ordine di Melchisedec. – E Malachia aveva dovuto riprendere lo stesso tema. Nella Chiesa primitiva noi vediamo che si praticava così, col concetto sacrificale. E basta esaminare il testo già citato di S. Paolo (1 Cor. capp. X e XI) per rendersene conto. Nel primo tempo della Chiesa bisogna ritenere, almeno fino alla metà del secondo secolo, che la Messa-Sacrificio era chiamata con un titolo solo: « fractio panis ». E allora, se si accetta questa nomenclatura, come parrebbe storicamente doversi accettare, bisogna dire che la narrazione di Luca dell’incontro di Gesù coi due discepoli di Emmaus, ripresenti un’altra volta l’offerta del Sacrificio, la prima compiuta, il giorno di Pasqua, dopo la istituzione. Il carattere sacrificale della S. Messa, dell’Eucaristia, lo troviamo pure ampiamente descritto nella I Apologia di San Giustino dove egli, dovendo rispondere alle accuse che sono sporte agli imperatori — di fabulae œdipeæ, di comestiones tiesteæ — a proposito delle adunanze dei Cristiani, espone tutto, fatto e dottrina della S. Messa. È evidente dunque che tanto nella letteratura neo-testamentaria come nell’interpretazione data dalla Chiesa Apostolica e nell’uso dei primi tempi cristiani la S. Messa appare chiaramente avere carattere di sacrificio. – Forse non è male ricordare che cosa voglia dire sacrificio. Il sacrificio è un’offerta fatta a Dio di qualcosa in testimonianza del suo supremo dominio. La logica del sacrificio è questa: tu sei padrone di tutto, dovremmo restituirti tutto, dobbiamo riconoscere che tu sei padrone di tutto; noi non possiamo offrirti il mondo, perché non lo possiamo prendere nelle mani; non possiamo neppure offrirti la nostra vita, perché per prendere la nostra vita e offrirtela, noi dovremmo passare sopra un tuo precetto che ce lo impedisce. E allora, per simboleggiare l’offerta che ti facciamo di tutte le creature, Signore, noi ti offriamo questo. Qualche cosa ti offriamo. Il concetto di sacrificio è tanto vero che noi lo troviamo, con questo preciso significato, sia pure mescolato anche con altri elementi di contaminazione, presso tutti i popoli. È dell’anima umana prendere qualche cosa per dimostrare che si vorrebbe prendere tutto, con questo poco dare tutto a Dio, restituire tutto a Dio, riconoscendo con questo esser Lui supremo Signore e supremo Ordinatore perché Creatore. È cosa che è stata sentita sempre e dovunque, ed è necessità dell’anima umana, è necessità della storia, dalla quale non si può prescindere. Il sacrificio è necessario alla vita spirituale degli uomini. Piuttosto noi possiamo domandarci come è sacrificio l’Eucaristia; cioè come il fatto di ritornare Gesù Cristo presente sotto le apparenze del pane e del vino sia sacrificio. E questa domanda non riguarda tanto l’affermazione teologica quanto l’esplicazione teologica. A ogni modo, prima di rispondere secondo quella che sembra la migliore esplicazione teologica, è necessario ricordare come la Lettera agli Ebrei affermi l’unità del sacrificio. È uno solo il sacrificio; non due, non tre, non infiniti. E allora è necessario ammettere che questo sacrificio che si compie nella transustanziazione eucaristica sia da riportarsi al primo eterno sacrificio di Gesù Cristo, quello compiuto sul Calvario, sicché la Messa non sia un nuovo sacrificio, ma sia una « nuova offerta » dell’antico sacrificio. Se noi dovessimo interpretare diversamente, non potremmo certo spiegare come nella S. Scrittura si abbia, con tanta veemenza e tanta forza, l’affermazione dell’unicità del sacrificio. E l’esplicazione teologica che più di tutte le spiegazioni viene a dare la visione semplice, armoniosa di tutti gli elementi che noi sappiamo teologicamente certi è questa: Gesù Cristo ha voluto che col fatto della transustanziazione si rinnovasse perennemente l’offerta del primo sacrificio della Croce, del quale, è certo, la Messa ha carattere rappresentativo e rinnovativo. Gesù Cristo ha dato quindi positivamente al fatto della transustanziazione — Egli poteva farlo, perché molte cose sono non di diritto naturale ma di diritto positivo divino — questo valore: non solo di commemorare, ma di rinnovare l’offerta di quel primo sacrificio. Così il sacrificio rimane sempre unico, e la sua rinnovazione lo propaga in altrettanti atti attraverso lo spazio e attraverso il tempo fino alla fine dei secoli. Sicché il sacrificio, che è sempre una offerta fatta a Dio, lo si fa in quanto l’atto che si compie pronunciando le stesse parole di Gesù Cristo ha il valore di ripetere una nuova volta l’offerta di quel primo sacrificio, l’offerta che Egli ha fatto di sé in croce all’Eterno Padre per la redenzione del mondo. E così noi sappiamo cosa è il Sacrificio. Ma in questo sacrificio, appunto perché c’è la stessa vittima, Gesù Cristo che è Dio, appunto perché è la reiterata offerta del primo eterno e infinito sacrificio, noi dobbiamo ritenere essere infinito il valore di questa nuova offerta, infinito e capace di infinite cose. – L’applicazione di questo valore in grazia avverrà non in modo infinito, e questo è ovvio, perché se l’applicazione avvenisse in modo infinito, basterebbe una sola volta. Se invece c’è una ripetizione e se Dio vuole la ripetizione indefinita di questo sacrificio fino alla fine dei tempi — l’aveva detto del resto, in qualche modo, e l’aveva fatto intendere lo stesso profeta Malachia — allora significa che, essendo il valore di questo sacrificio della Messa infinito, l’applicazione che ne viene fatta agli uomini non è infinita; potrà essere dilatabile all’infinito, secondo che concorrano le cause che possono provocare l’aumento di questa dilatabilità, ma non è infinita 1’applicazione agli uomini, e pertanto è necessario ripetere; pertanto è meglio dire due Messe che una; è meglio dirne cento che una, è meglio che noi sentiamo più Messe che una. E voi comprendete come sia di particolare grazia per voi se, mentre si celebra in questa cappella all’altare maggiore, la S. Messa viene anche celebrata negli altari minori, perché voi potete unirvi all’offerta non di un S. Sacrificio, ma ben di tre SS. Sacrifici, il che aumenta, nella stessa unità di tempo, la capacità di ciò che potete ricevere dal Signore per il bene e l’elevazione dell’anima vostra. – Ora dobbiamo vedere qualche altra cosa. Qual è stata l’intenzione di N. S. Gesù Cristo? Un elementoche salta agli occhi, perché lo ha detto Lui con una esplicitezza singolare, è che questo Sacrificio deve sempre, fino alla fine dei tempi, ricordare agli uomini il sacrificio della croce. È sacrificio commemorativo del sacrificio della croce. Perché noi pensassimo al sacrificio della croce, vi fossimo logicamente obbligati, Gesù Cristo ha istituito la S. Messa; l’atto più grande. Io lascio a voi di giudicare che sorta di invito sia questo: di pensare, durante la vita, e avere come punto di riferimento delle proprie volizioni e delle proprie azioni il sacrificio della croce, cioè Gesù Cristo crocifisso. Perché? Perché questa caratteristica della Messa l’ha detta Lui, non la deduciamo noi. Non si tratta di una esplicazione o deduzione teologica; si tratta di una affermazione fatta direttamente da Lui — S. Paolo l’ha ricordato in chiarissimi termini nel cap. XI della Prima Lettera ai Corinti. Io vi chiedo se potete avere l’impressione che la vostra vita metta al centro come si conviene la Passione di Gesù Cristo. E lascio a voi giudicare se vi accorgete che l’Eucaristia, nella vostra vita, come è di positiva istituzione divina, serve a riportarvi alla Croce. Vedete l’orazione che si canta sempre prima della benedizione. È esatta, è perfetta, l’ha fatta S. Tommaso: « Deus qui nobis sub sacramento mirabili Passionis tuæ memoriam reliquisti, tribue, quæsumus, ita nos Corporis et Sanguinis tui sacra misteria venerari, ut Redemptionis tuæ fructus in nobis iugiter sentiamus ». Vi prego di interrogare la vostra coscienza: se la devozione eucaristica è dello stampo che ha avuto nell’Evangelo da Gesù Cristo, cioè se è un mezzo per portare mente, considerazione, orientamento, anima alla Croce. Io penso amaramente che mentre Gesù Cristo ha fatto di tutto perché nella mente degli uomini soprattutto rimanesse l’idea del suo eterno Sacrificio, molte anime pie fanno di tutto per farlo dimenticare. Questa Croce! E che cosa ci lasciano allora? Che sorta di scentramenti possono accadere anche tra la brava gente! Lo scopo dell’Eucaristia è anzitutto commemorativo del sacrificio della croce. E pertanto non è pietà eucaristica che sia adeguata all’orientamento evangelico quella che non è intimamente, e di natura sua, e sempre collegata con la devozione e la memoria della Croce e della Passione di N. S. Gesù Cristo. Allora si capisce perché il più grande libro che sia stato scritto sotto il sole, dopo la S. Scrittura, e cioè l’Imitazione di Cristo, dica chiaro e tondo, senza complimenti : « necesse est semper in meditatione Passionis Domini nostri Iesu Christi immorari »; è necessario restare sempre nella meditazionedella Passione di N. S. Gesù Cristo.Avete inteso dove ci porta la considerazione delS. Sacrificio della Messa? Sempre là! Guardate cheuna auscultazione liturgica della Messa o unaunione liturgica alla S. Messa è perfettamentescentrata se pensa a tutto, parla di tutto, si occupadi tutto e non si accorge del più, che è larinnovata offerta della Passione e morte di N. S.Gesù Cristo, cioè del sacrificio della croce delquale la Messa è rinnovamento applicativo. Questoè chiaro nella volontà di Nostro Signore. Abbiatelosempre presente, per avere una devozionerobusta e non molle. Capite che con una devozioneche attraverso l’Eucaristia, giusto centro dellanostra vita voluto da Lui, da N. S. Gesù Cristo,continua l’idea della Passione e della croce, siacquista spiritualmente una spina dorsale. E alloragli elementi dei quali si compone la vita spiritualenon rimangono sparsi, legati come da unacatenina e flessibili a ogni tocco: gli elementi siraccolgono e fanno veramente una spina dorsaleall’anima, una di quelle spine dorsali che sannosostenere tutta l’impalcatura, che non piegano alpiù piccolo alitar di vento e che possono portareveramente, senza alcuna teatralità, all’eroismo veroe completo della virtù, alla santità.Così ha fatto l’impostazione N. S. Gesù Cristo.Questo si vede. Ma si vede dell’altro. E perchéha voluto che il S. Sacrificio, il primo, fosse sensibilizzatocosì attraverso tutti i tempi? Sensibilizzato,perché Lui ritorna a compiere l’offerta, Lui,eterno sacerdote. Perché Lui è fisicamente presente;perché è fisicamente presente lo stesso corpo e la ,stessa anima che furono straziati sulla croce. Perchél’ha voluto presente così, facendo che nellastessa separazione del pane e del vino fosse sufficientementerichiamata ai fedeli la separazione trail Corpo e il Sangue suo versato sulla croceper la salvezza del mondo? Perché l’ha voluta,questa presenza, fisicamente obiettivata come è sostanzialmenteripetuta nel valore infinito e nella indefinitaapplicabilità a tutti gli uomini, al mondointero, agli offerenti della Messa, al celebrante dellaMessa, a quelli che più direttamente vi si uniscono,che pertanto, con una più diretta unione, aumentanol’applicabilità della stessa? Perché ha voluto questo?Perché non ha fatto tutto in una volta, là,sulla croce, e basta? Perché ha rispettato che noisiamo fatti di anima e di corpo e che, se conl’anima possiamo congiungerci a tutti i tempi eanche a un punto nel tempo lontano, impastaticome siamo di anima e di corpo, abbiamo bisognodella sensibilizzazione e ripetizione; perchéil S. Sacrificio fosse i n mezzo alla nostra vita e lanostra vita potesse disporsi intorno a quella comecentro.Guardate, la Chiesa ha messo tutto intorno allaMessa, tutto. Voi sapete che tutti i Sacramentisono in qualche modo collegati con la S. Messa.Lo stesso battesimo — lo si dà tutto l’anno pernon lasciar aspettare le anime a diventare cristiane— ma nella forma solenne, nel momento solennein cui ufficialmente, grandiosamente lo siamministra, è incluso nella celebrazione vigiliaredel Sabato Santo, è unito alla Messa. E là è al suo posto, al Sabato Santo. Tutti i sacramentisono più o meno congiunti con la S. Messa e lestanno dintorno; tutta l’ufficiatura divina, l’ufficiatura notturna come l’ufficiatura diurna, gira intorno al S. Sacrificio e prende l’avvio dal S. Sacrificio e dalle commemorazioni che si faranno nel S. Sacrificio. Gesù Cristo ha voluto che fosse in mezzo allo spazio, in mezzo al tempo, in mezzo ai fatti. Perché ha voluto essere in mezzo? Soltanto perché siamo impastati di anima e di corpo? No. Perché fosse chiaro che Lui è in mezzo a tuttele ragioni che si agitano nel sotterraneo dellastoria e del mondo, è in mezzo a tutto! – Che cosa accade quando si sta celebrando la S. Messa? Il S. Sacrificio, qualunque Messa ha un effetto di portata universale e riguarda tutto il mondo. Poi ha anche una applicabilità di carattere particolare, aumentabile secondo le disposizioni e le circostanze dei celebranti e di coloro che vi si uniscono. Ha una valenza della quale dispone soltanto il sacerdote celebrante, come strumentale offerente, in luogo e in vece di Gesù Cristo, primo sacrificatore ed eterno Sacerdote. E di quello dispone Lui solo, e ne dispone secondo la sua volontà: è ciò che legittima l’applicazione della S. Messa. C’è quello che va al sacerdote; c’è quello che va ai fedeli che in qualunque modo e a diverso titolo si uniscono a Lui e che hanno cooperato alla celebrazione, si sono uniti fisicamente o spiritualmente alla celebrazione; a coloro che hanno concorso alla costruzione della chiesa, alla bellezza dei paramenti, allo splendore della divina liturgia. Tutti concorrono: quelli che cantano, quelli che suonano, quelli che servono. Ma riceve tutto il mondo; tutto il mondo riceve da ogni rinnovazione del Sacrificio della croce. Il mondo non si trova mai unito, mai; si mette insieme poco anche quando si riuniscono i quattro Grandi! Ma il mondo è unito sempre e continuamente in un punto solo: nell’offerta del S. Sacrificio. Ora io vi prego di guardare tutta questa architettura un po’ da lontano. Che cosa si scopre mettendo insieme quello che vi ho detto parlando della presenza reale dell’Eucaristia e quello che vi ho detto parlando del S. Sacrificio della Messa? Si scopre questo: un altro mondo, un mondo intero, intero! Perché si vede Iddio vicino agli uomini. Dio è vita, Dio è l’Atto eterno, e nell’Eucaristia « cum nominibus conversatus est ». Dio è l’Atto divino, è la divina vitalità accanto a questa nostra storia! Come se ci separasse soltanto un velo, e difatti ci separa soltanto un velo, e al di là del velo, che sono le apparenze, c’è questa divina vitalità, accanto a noi, per noi, accanto a questa nostra storia. È una cosa più grande del mondo, che oltrepassa i confini del tempo e dello spazio, i confini e i destini di tutti gli uomini. Accanto a noi, un altro mondo! Noi avremmo una singolare impressione se dovessimo dire che al di là delle mura di questa cappella, proprio fuori di queste mura c’è il Parlamento del mondo che sta trattando per decidere se si fa la guerra o se si fa la pace. Avremmo la sensazione di essere separati da un nonnulla, un muro, da un avvenimento di portata storica. Ne avremmo freddo nelle ossa, perché si potrebbe decidere la guerra. Ah! quello che sta al di là di un semplice velo, nell’Eucaristia, è immensamente più grande! E guardate ciò che si vede. Chiudete un momento gli occhi. Mentre si celebra la S. Messa, tutto il mondo riceve qualche cosa da questa celebrazione. Mi provo a seguirlo. Dove arriva? Ecco, in chissà quale continente, infinite anime in questo momento avranno in sé stesse una vibrazione che non avevano prima: avranno qualche cosa nel loro subcosciente che non c’era prima; e qualche cosa là dove potrebbe anche sembrare deserto assoluto si agiterà una vitalità nuova. Perché? Perché qui si è aperta una sorgente, qui si sta celebrando la Messa. Piccola cosa, forse, quello che potrà essere registrato, ma grande nella mano divina che l’opera. E dappertutto. Però, piccola o grande che sia, forse è l’inizio di tutto un diagramma che va all’eternità; l’inizio di una storia; principio, nucleo di una forgiatura di destini! Come se la terra ribollisse; come se fosse dato di costatare visivamente quello che, per essere stemperato nel tempo, noi non fissiamo altro che con la fotografia paziente: la terra che si apre e che lascia venir fuori il germe che si sviluppa, che tende verso l’alto, verso la luce, e poi sboccia. – Noi vediamo dell’altro: un altro mondo, oh, infinitamente più cosciente, infinitamente più saggio, infinitamente più ordinato e buono, completamente fatto di dono e di amore; un altro mondo che decide di tutto quello che di bene si fa in questo; un altro mondo che noi tocchiamo con le mani attraverso un velo. Perché noi possiamo prendere nelle mani il Corpo del Signore Nostro Gesù Cristo, e anche quelli che non lo possono prendere nelle mani lo accolgono sulla propria lingua, in sé stessi, e mangiano il suo Corpo e il suo Sangue. Si vede questo. Riflettete che sorta di spettacolo! – C’è stata una grande mistica del XIII secolo, S. Matilde, che ebbe una caratteristica nei doni carismatici dei quali venne favorita, e la Chiesa non ha mai trovato nulla da dire su quanto essa ha scritto. La santa, normalmente, almeno per un certo tempo, assistette durante la celebrazione dei Santi Misteri a ciò che accadeva nel mondo di Dio in ragione della celebrazione della S. Messa alla quale essa assisteva. È stupendo leggere le visioni di S. Matilde, perché — a parte i dettagli coi quali i concetti spirituali vengono rivestiti: i concetti spirituali nella visione debbono diventare visivi e pertanto rivestiti con pezze che abbiamo nel nostro mondo per renderli traducibili e intelligibili — si ha il concetto di tutto un altro mondo, ben più importante di questo, ben più decisivo di questo, perché le decisioni si fanno là! Là dove si perdona e là dove si purifica veramente; là dove Gesù Cristo paga per quelli che non sanno o non vogliono o non possono pagare. Là si decide della pace o della guerra; là si decide se la valanga di sangue ci dovrà investire o se invece il sole dovrà continuare a splendere glorioso sulle vicende umane. Là si vede tutto questo. Vedete che cos’è la conversatio nostra in cœlis? Ora siamo arrivati veramente a un punto conclusivo. – Cos’è questa conversatio? È l’avere sempre nella mente la visione di quello che sta al di là dei veli. Allora si sta in cielo, per quanto è concesso agli uomini. La visione di questa o di quest’altra storia, di quest’altro mondo, di quest’altra forza, di quest’altra vita è reale, reale al di là dei veli. Conversatio nostra in cœlis. Voi comprendete ora il significato che hanno questi Esercizi e che vogliono lasciar stampato nelle anime vostre!

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – GREGORIO XVI: CUM PRIMUM-

Questa breve enciclica di S. S. Gregorio XVI, venne scritta ai Prelati polacchi in seguito ai disordini all’epoca causati dalla rivoluzione in Polonia. Vengono brevemente ma fermamente (obbedendo alla esortazione del Cristo: il vostro parlare sia: si, si, no, no!) ricordati i principi della dottrina cristiana nei confronti dell’autorità civile, qualunque essa sia, e dei doveri che i Cristiani hanno nei loro confronti. Un invito speciale viene rivolto ai Vescovi locali perché si dispongano a « … vigilare con ogni mezzo, perché uomini sleali e propugnatori di novità non continuino a disseminare nel vostro gregge false teorie ed erronei principi e, accampando il solito pretesto del pubblico bene, non approfittino della credulità dei più ingenui e dei meno accorti, al punto da fare di essi, senza che ne abbiano l’intenzione, dei ciechi esecutori e fautori nel turbare la pace del regno e l’ordine della società. » – satana con i suoi adepti e servitori di ogni risma, soprattutto chierici infiltrati o apostati che siano, utilizza sempre la stessa tattica, che è quella di proporre novità sotto forma di necessità contingenti, sociali, materiali e finanche spirituali, in modo da minare alle fondamenta l’ordine sociale cristianamente costituito e ribaltare gli insegnamenti della Chiesa Cattolica per portare anime al suo regno infernale. È la stessa tattica che negli ultimi tempi, conniventi falsi o apostati chierici, uomini empi, sleali, malvagi e asserviti alle conventicole kazaro-massoniche, stanno portando avanti non in un’unica Nazione, ma in tutto l’orbe cristiano e praticamente su tutto il pianeta, utilizzando un mezzo banalissimo come la carta, quella dell’informazione e quella della finanza mondialista. È incredibile come interi popoli abbiano “abboccato” alle esche luciferine dell’economia, del lusso, del piacere carnale, del libertinismo sfrenato, infilando nella pattumiera tutte le esperienze millenarie che la storia “onesta” ci ricorda, ed i volumi più elementari della dottrina e della morale cristiana, con i risultati che tutti, anche gli ipovedenti, ormai possono agevolmente osservare raccapricciati. Tanti analisti, più o meno qualificati, sedicenti liberi (in realtà, loro malgrado, massonizzati fino alle midolla) o prezzolati dai soliti mandanti, si sforzano di trovare soluzioni, filosofiche, etiche, economiche, sociologiche o politiche, secondo loro più o meno sensate, che alla fine si rivelano sempre inconcludenti e mai risolutive, perché non sfiorano neppure lontanamente, anzi la evitano accuratamente, la questione fondamentale dell’uomo d’oggi: l’occultamento volontario della Legge divina e della sua unica “vera” Chiesa, la Cattolica Romana, ed il trionfo planetario dell’angelo ribelle, il “signore dell’universo” attuale: il baphomet lucifero adorato nelle logge e nelle conventicole varie, nonché nelle chiese un tempo cattoliche, ove si pratica il culto rosacrociano montiniano, del sacrificio rituale offerto appunto al signore dell’universo, lucifero. « … Predicate tutti ciò che è conforme alla retta dottrina; custodite il verbo incorrotto e irreprensibile; comportatevi unanimi in un solo spirito collaborando nella fedeltà al Vangelo … » Ecco finalmente un consiglio serio e verace, foriero di benessere sociale, materiale e spirituale, consiglio rigettato naturalmente dalla falsa chiesa dell’uomo, impegnata oggi nell’incrementare, incentivare e sponsorizzare la nuova tratta degli schiavi del “Novus Ordo” mondialista. – Ma leggiamo con profitto la lettera e cerchiamo di svegliarci, finché siamo in tempo, dal coma indotto dalla narcosi masso-modernista.


Gregorio XVI
Cum primum

Non appena è giunta al Nostro orecchio la notizia delle luttuosissime sventure che nell’anno testé trascorso hanno funestato codesto gloriosissimo Regno, Ci è subito parso evidente che la loro origine non dovesse essere ricercata altrove, ma in alcuni spacciatori di inganno e di falsità, i quali, con il pretesto della religione, ergendosi in questo Nostro miserando tempo contro il legittimo potere dei Principi, avevano riempito di immane lutto la loro patria, ormai sottratta ad ogni legame di debita sottomissione. – Noi, prostrati davanti a Dio Ottimo e Massimo, del quale, anche se indegnamente, teniamo le veci sulla terra, dopo aver effuso copiosissime lacrime, piangendo le crudelissime disgrazie da cui era stata straziata codesta parte del gregge del Signore affidata alla Nostra pur sollecita debolezza; dopo aver cercato con infinito amore, nell’umiltà del Nostro cuore, di piegare con preghiere, sospiri e gemiti il Padre delle misericordie, per poter vedere codeste vostre contrade, sconvolte da così numerose e crudeli discordie, alfine rappacificate e ricondotte alla soggezione del legittimo potere: immediatamente Ci siamo proposti di indirizzarvi, Venerabili Fratelli, una lettera enciclica, per mettervi al corrente che Noi pure siamo gravati dal peso delle vostre calamità e per apportare alla vostra sollecitudine pastorale un po’ di conforto e di forza che serva come incitamento a difendere i principi più giusti da trasfondere con sempre più ardente e rinnovato zelo nei vostri amatissimi clero e popolo. – Poiché Ci è stato riferito che le Nostre lettere, per le avverse circostanze della situazione, non vi erano mai giunte, ora che la situazione, con l’aiuto di Dio, è stata ricondotta ad una serena tranquillità, Noi apriamo nuovamente il cuore a voi, Venerabili Fratelli, per ravvivare sempre più, per quanto Ci è possibile nel Signore, il vostro zelo e la vostra sollecitudine, perché allontaniate dal vostro gregge, con tutta la forza e con tutta la diligenza, la vera causa dei mali passati. In questo compito dovete impegnare una puntigliosa cura e tutta l’accortezza, e vigilare con ogni mezzo, perché uomini sleali e propugnatori di novità non continuino a disseminare nel vostro gregge false teorie ed erronei principi e, accampando il solito pretesto del pubblico bene, non approfittino della credulità dei più ingenui e dei meno accorti, al punto da fare di essi, senza che ne abbiano l’intenzione, dei ciechi esecutori e fautori nel turbare la pace del regno e l’ordine della società. – Occorre dunque fare emergere, con un chiaro discorso, per l’utilità e 1’ammaestramento dei fedeli, la frode di questi falsi maestri. La fallacia dei loro pensieri deve essere ovunque combattuta con le decisive e inoppugnabili massime della Divina Scrittura e con gli inconfutabili documenti della sacra e venerabile tradizione della Chiesa. Da queste ineccepibili fonti (alle quali il clero cattolico deve attingere i principi del suo stile di vita e le parole da trasmettere nei discorsi al popolo) siamo informati a chiare lettere che l’obbedienza, dovuta dagli uomini ai poteri voluti da Dio, è un precetto a cui nessuno può sottrarsi, a meno che non si tratti di disposizioni contrarie alle leggi di Dio e della Chiesa.

Ogni persona (dice l’Apostolo) sia sottomessa alle superiori autorità. Non v’è infatti potere se non da Dio: se esiste, è perché è voluto da Dio. Pertanto chi si oppone ad esso, si erge contro l’ordine stabilito da Dio … Siate dunque sempre sottomessi, non solo per paura delle pene, ma anche per coerenza” (Rm XIII, 1-2). Allo stesso modo San Pietro (1Pt II, 13-14) ammaestra tutti i fedeli ad essere sottomessi ad ogni creatura nel nome di Dio, sia al re, come a colui che primeggia, sia ai comandanti, in quanto inviati da lui: perché (egli dice) questa è la volontà di Dio e, operando rettamente, ridurrete al silenzio 1’ignoranza degli sprovveduti.

È risaputo come gli antichi cristiani, attenendosi con scrupolo a questi precetti anche durante l’infierire delle persecuzioni, si siano resi benemeriti degli stessi Imperatori Romani e della sicurezza dell’Impero. Dice Sant’Agostino: “I soldati Cristiani servirono ad un imperatore miscredente, ma se si trattava dell’interesse di Cristo, non riconoscevano che il Signore che dimorava nei cieli. Distinguevano dunque il Signore eterno da quello temporale, e tuttavia, per il Signore eterno, stavano sottomessi al signore temporale“. Questa dottrina, come ben sapete, Venerabili Fratelli, fu costantemente trasmessa dai Santi Padri; sempre l’ha insegnata e l’insegna la Chiesa Cattolica. Imbevuti di questi principi, i primi Cristiani intrapresero una condotta di vita e di azione tali da preservare le legioni cristiane immuni dai crimini della viltà e del tradimento, anche quando l’esercito pagano ne era rimasto infetto. Al riguardo afferma Tertulliano: “Siamo accusati di attentare alla maestà dell’Imperatore, tuttavia mai i Cristiani poterono essere scoperti Albiniani, Nigriani, o Cassiani. Ma quegli stessi che fino al giorno prima avevano giurato sui Lari degl’Imperatori e per la loro salvezza avevano fatto solenni promesse e offerto sacrifici; quegli stessi che avevano spesso condannato i Cristiani, furono smascherati come nemici. Il Cristiano non è nemico di nessuno, e tanto meno dell’Imperatore: sa infatti che egli è stato costituito dal suo Dio e deve amarlo, rispettarlo, onorarlo e volerlo in salute“. – Mentre vi rendiamo note queste cose, Venerabili Fratelli, vogliamo che vi giungano, non come fossero a voi sconosciute o nutrissimo il timore che non attendete con sufficiente zelo alla difesa e alla propagazione dei principi della retta dottrina sulla obbedienza che i sudditi sono tenuti a fornire al loro sovrano legittimo. Queste Nostre parole intendono palesare apertamente il Nostro animo nei vostri confronti, e quanto forte sia il desiderio che tutti gli ecclesiastici di codesto Regno, per la purezza della dottrina, per l’ornamento della prudenza, per la santità della vita risplendano al punto da risultare irreprensibili agli occhi e all’opinione di tutti. In questo modo ogni cosa, come è negli auspici, risponderà felicemente alle attese. – Il vostro potentissimo sovrano si comporta benevolmente nei vostri confronti e non mancherà, in forza dei Nostri buoni uffici, che non cesseremo di interporre in vostro favore, di accogliere con animo sempre propizio le vostre richieste, per il bene della Religione Cattolica che codesto Regno professa, e alla cui difesa ha promesso di non venire mai meno. I veri saggi vi tributeranno meritate lodi; per contro, gli avversari si vergogneranno per non avere alcunché di male da dire contro di Noi. – Nel contempo, mentre leviamo al cielo le Nostre mani, supplichiamo per voi Dio, perché ogni giorno di più arricchisca e colmi ciascuno di voi con l’abbondanza delle celesti virtù. Tenendovi sempre nel Nostro cuore, vi esortiamo a completare la Nostra gioia coltivando con unità di intenti la stessa carità e nutrendo gli stessi sentimenti. Predicate tutti ciò che è conforme alla retta dottrina; custodite il verbo incorrotto e irreprensibile; comportatevi unanimi in un solo spirito collaborando nella fedeltà al Vangelo. – Infine, pregate Dio incessantemente per Noi che, in pegno di paterno affetto, impartiamo a voi e al gregge affidato alle vostre cure, con infinito amore, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 9 giugno 1832, anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO EPIFANIA (2019)

Incipit


In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI: 7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.
[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio


Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio


Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Saggio di omelie, vol. I, Om. XV, Torino, 1899]

“Non riputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia: procurate il bene non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. Non vi vendicate da voi, o carissimi, ma date luogo all’ira, perché sta scritto: “A me la vendetta; renderò io la retribuzione, dice il Signore. Se dunque il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare: se ha sete, dagli da bere; facendo così, radunerai carboni accesi sul suo capo. Non ti lasciar vincere dal male, ma col bene vinci il male „

Queste stupende sentenze dell’Apostolo Paolo sono la continuazione di quelle che udiste nella penultima Omelia, come quelle erano la continuazione dell’altra penultima. La Chiesa nella epistola di queste tre Domeniche dopo la Epifania ci ha messo sotto gli occhi da meditare l’intero capo XII della lettera ai Romani, vero e sublime compendio della dottrina morale del Vangelo. – Io penso che raccogliendo e ordinando insieme tutto ciò che di bello e perfetto dissero sparsamente nei loro volumi tutti i filosofi di Grecia e di Roma intorno ai doveri morali degli uomini, non avremmo la decima parte delle verità morali che S. Paolo ha condensate in questo solo capo. Quanta differenza tra l’insegnamento incerto, diffuso, manchevole, misto ad errori e senza autorità di quelli, e l’insegnamento preciso, breve, compiuto, scevro d’ogni ombra ed autorevole di S. Paolo! È questa dell’Apostolo una pagina che, anche sola, meditata a dovere, ci fa sentire e conoscere quale abisso corra tra la dottrina morale dei sommi sapienti del paganesimo e quella di Gesù Cristo. Ma veniamo al commento. – “Non reputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia. „ Una delle cause più frequenti e più gravi delle nostre colpe e, dirò anche, dei nostri malanni domestici e pubblici, è la soverchia fiducia che riponiamo nella nostra abilità e nelle nostre forze: essa ingenera la presunzione, l’avventatezza nel parlare e nell’operare e l’imprudenza con tutti i suoi effetti. Perciò S. Paolo grida ai suoi figli spirituali: “Non reputate voi stessi sapienti; „ non appoggiatevi soverchiamente a voi stessi, ma rivolgetevi per lumi ad altri più savi di voi e soprattutto appoggiatevi a Dio, da cui viene ogni lume. “Non rendete male per male a chicchessia: „ è una sentenza, che l’Apostolo, nella foga del dire, ha cacciata qui, ma, che tosto ritorna sotto la sua penna e che svolge più ampiamente, onde è bene rimetterla ai versetti seguenti. – “Curate il bene non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi a tutti gli uomini. „ Queste parole l’Apostolo le piglia dal libro dei Proverbi capo III, vers. 4, e qui si vogliono spiegare alquanto diffusamente. Noi dobbiamo sempre fare il bene: ma talvolta può avvenire che quello che è bene in sé e dinanzi a Dio, non lo sia egualmente dinanzi agli uomini che giudicano dalle apparenze, od anche secondo le loro passioni od inclinazioni; e noi allora adoperiamoci a raddrizzare i loro giudizi e mostriamo che ciò che facciamo è veramente bene e avremo tolto lo scandalo. Queste parole possono anche intendersi in altro modo e forse migliore: Dio vede la nostra mente, il nostro cuore e la nostra intenzione, e gli uomini vedono e conoscono soltanto le nostre opere e le nostre parole. Ebbene: vediamo di fare ogni cosa, internamente ed esternamente, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, in modo da piacere a Dio ed agli uomini stessi. Anzi tutto dobbiamo fare il bene dinanzi a Dio. Come? avendo sempre un fine retto, quello di adempire il nostro dovere, di ubbidire a Dio, di procurare la sua gloria, il bene dei prossimi, e scacciando qualsiasi altro fine men degno del Cristiano, come sarebbe la vanità, il capriccio, l’interesse e andate dicendo. Nel fine specialmente sta la bontà delle opere nostre e questo Dio solo lo vede. Dobbiamo fare il bene anche dinanzi agli uomini, cioè in guisa che non sia offesa la carità, che non sia male interpretato, che giovi, se è possibile, a tutti e tutti ne ricevano edificazione. – “Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. „ Vuole l’Apostolo che abbiamo pace con tutti, quella pace che Gesù Cristo portò sulla terra e tante volte raccomandò ai suoi Apostoli; ma vi mette due condizioni, che sono naturali. La pace è desiderabile e dobbiamo procurarla con ogni studio, ma salvi sempre i diritti della verità e della giustizia. Se gli uomini per accordarci la pace ci domandano il sacrificio della verità e della giustizia, noi dobbiamo rinunciare alla pace e rassegnarci alla lotta, sia quanto si vuole lunga e crudele. Era in questo senso che Gesù Cristo diceva d’essere venuto a portare, non la pace, ma la spada, ossia la guerra, e questa verità accenna l’Apostolo allorché dice: “Se è possibile, siate in pace con tutti. „ Vi è un’altra condizione ed anche questa non infrequente. Noi possiamo volere, desiderare e procurare, la pace, ma gli altri per animo malvagio, possono ricusarla: in tal caso la pace non è possibile. Allora che dobbiamo fare? Che si richiede da noi? Si richiede e basta, che noi dal canto nostro siamo sempre disposti a fare e mantenere la pace, il che S. Paolo ha espresso chiaramente in quelle parole: ” Quanto è da voi. „ Che altri non voglia la pace o la turbi, è male, ma tal sia di loro; ne risponderanno a Dio; ma voi vogliatela sempre e dal lato vostro non la turbate mai. Seguiamo l’Apostolo nelle magnifiche sue lezioni morali. “Non vi vendicate da voi, o carissimi. „ Gli altri, cosi in sentenza S. Paolo, potranno turbare la pace, offendervi, manomettere i vostri diritti, farvi ingiustamente ogni male. Che farete voi? Potrete voi da voi stessi rendervi giustizia e vendicarvi dei vostri nemici ed oppressori? No, no, grida il grande Apostolo: ciò non è lecito, non è da Cristiano, e nemmeno da uomo. “Date luogo all’ira, „ insegna S. Paolo. E che vuol dire dar luogo all’ira? Se altri vi odia e rompe in ira con voi e vi copre d’ingiurie, voi tacete pazientemente; lasciate che l’ira sua, a guisa di torrente o di nembo impetuoso passi e si dilegui: l’opporvi potrebbe accrescerne il danno, e bisogna ricordarci che una parola benigna e mansueta ammorza l’ira e che un vento procelloso atterra l’albero che sta ritto e resiste, ma non la molle erbetta che si piega e cede. Oh! quante discordie, quante querele, quante risse sarebbero impedite in casa, per le vie, dovunque, se noi dessimo luogo all’ira, frenassimo la lingua ed al fratello che sbuffa d’ira e getta fuoco dagli occhi opponessimo il silenzio tranquillo e senza fiele! Ricordate sempre le parole di S. Paolo: “Date luogo all’ira. „ “Non vi vendicate da voi. „ Se ciascuno volesse vendicarsi da sé per le offese ricevute, che ne avverrebbe? Manifestamente la società intera andrebbe sossopra, anzi sarebbe distrutta. – Se tu vuoi farti giustizia da te stesso, qualunque altro uomo avrebbe egual diritto, e perciò ogni uomo sarebbe giudice e vindice delle offese che ha ricevute, o crede di aver ricevute, e troppe volte il diritto soccomberebbe alla forza e si scambierebbe con la violenza. Dunque non spetta mai all’individuo fare la vendetta per le offese ricevute. A chi spetta? A Dio, solo a Dio, che rende giustizia quaggiù per mezzo della autorità costituita, che mantiene l’ordine e turbato lo ristora, che può e deve rendere a ciascuno secondo le opere sue. – Non occorre il dirlo: in queste parole di S. Paolo: “Non vi vendicate da voi, „ son vietate non solo tutte le vendette private, ma il duello, del quale sì spesso udite parlare e che in sostanza è una vendetta, che uno si prende da se stesso. Uno è offeso in un modo qualunque e sfida a duello l’offensore e scendono sul terreno per decidere con le armi alla mano le loro ragioni, accompagnati dai medici e da quelli che si dicono padrini o testimoni. Nulla di più irragionevole, o cari, di questi duelli, che si osa chiamare partite d’onore, necessità sociali. Tu sei stato offeso ingiustamente? Eccoti il tribunale, eccoti i giudici, e se meglio ti piace, gli arbitri. A loro esponi i tuoi diritti offesi ed essi ti faranno ragione. Ma tu esigi la riparazione con le armi in pugno. Ma così facendo tu rimetti alla forza il giudizio del diritto. Si può fare ingiuria maggiore al buon senso, alla ragione naturale quanto con l’appellare, non alla ragione stessa, alla legge, ma alla forza e talvolta al caso? Quante volte chi aveva ragione nel duello ebbe la peggio ed alla offesa ricevuta aggiunse il danno delle ferite ed anche della morte e la vergogna di soccombere! Qual differenza tra due villani o facchini,, che offesi a vicenda nell’impeto dell’ira si scagliano addosso, si pestano a pugni o danno di piglio ai coltelli, si feriscono od uccidono? Nessuna, anzi, se v’è differenza, essa sta tutta a danno dei duellanti, perché generalmente più istruiti; e perché si battono a sangue freddo ed in modi determinati e con armi scelte e perciò il loro delitto è più inescusabile. E mettono innanzi l’onore offeso! L’onore si ripara col giudizio di uomini competenti, con la sentenza dei giudici, non mai con l’uso delle armi e con l’offesa fatta alle leggi ed all’onore. Il duello, tenetelo ben fermo, o cari, è cosa indegna di uomini ragionevoli, di buoni cittadini, è un avanzo di barbarie, è il diritto della forza, è il giudizio del caso e tutti i sofismi del mondo non varranno mai a giustificarlo. È un delitto nel senso più volgare della parola. – Alla autorità, che è posta da Dio e lo rappresenta sulla terra, sottomettiamoci, come a Dio stesso. Che se ella non può o non vuole renderci giustizia, leviamo gli occhi in alto, a lui che è il Giudice infallibile, al quale nessuno può sfuggire e che ha detto: “A me la vendetta; io renderò la retribuzione. „ Rimettiamo la nostra causa a Dio; Egli, a suo tempo, punirà i nostri offensori e darà loro la mercede secondo le opere loro. Se noi volessimo fare la vendetta per conto nostro, usurperemmo il diritto, che spetta a Dio solo. Ponete che un padre abbia molti figliuoli e che questi vengano a litigio tra di loro e che l’uno se la pigli con l’altro, lo offenda e lo percuota malamente sotto gli occhi del padre suo. Voi che direste? Certamente voi lo condannereste anche nel caso che avesse ragione contro del fratello, e gli direste: “Tu hai il padre tuo, tuo giudice naturale: a lui devi rimettere ogni giudizio: la vendetta che ti prendi da te stesso è una offesa gravissima al diritto paterno, è una brutta usurpazione d’una autorità che non hai. ,, Noi tutti siamo figli del Padre nostro, che è nei cieli: siamo dunque fratelli: che l’uno dunque non si levi mai contro dell’altro, e ne lasci il giudizio a quelli che Iddio ha posto sulla terra a reggere gli uomini e, se questi vengono meno, ne lasci il giudizio a Dio stesso, a cui tutti dovranno rendere ragione delle opere loro. E tu che devi fare intanto col tuo offensore, col tuo nemico? Guardarlo di mal occhio? Serbargli odio in cuore? Fuggirlo come un nemico? Udite, udite, o cari, l’insegnamento di S. Paolo: “Se il tuo nemico ha fame, dagli a mangiare: se ha sete, dagli a bere. „ È l’insegnamento stesso di Cristo, in altre parole: ” Amate i vostri nemici, diceva Gesù Cristo nel Vangelo (Matth. V, 44), benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per quelli che vi fanno torto e vi perseguitano. „ La carità non può poggiare a maggiore altezza. “Così facendo, prosegue l’Apostolo, tu radunerai carboni accesi sul suo capo. „ Come ciò? Amando chi ti odia, beneficando chi ti perseguita e fa danno, tu lo costringerai a smettere il suo odio, lo forzerai ad amarti, vincendolo a forza di benefici. ” Radunerai, così commenta S. Girolamo, radunerai carboni accesi sul capo di lui, non già a sua maledizione e condanna, come pensano alcuni, ma a sua correzione ed a suo ravvedimento, sinché vinto dai benefici e conquistato dalla carità, cessi dall’esserti nemico. „ “Non ti lasciar vincere dal male, è la conclusione di S. Paolo, ma col bene vinci il male. „ Che vuol dire, fa bene a chi ti fa male, e sarà questa la più bella e la più gloriosa delle tue vittorie. – Sono piene le storie ecclesiastiche e le biografie dei Santi di esempi luminosi di tanta carità e non sono rari nemmeno al giorno d’oggi in quelle anime, nelle quali la dottrina di Gesù Cristo non è una semplice professione di fede, ma operosa realtà. Ho conosciuto un negoziante, sorto dal nulla, ottimo marito e padre eccellente di numerosa famiglia: era un cristiano modello. I suoi negozi prosperavano a meraviglia. Se ne rodeva d’invidia un suo vicino, pur esso negoziante: ne parlava male, gettava sospetti sulla sua onestà e spargeva voci sinistre sul suo conto in modo da cagionargli non solo grave dispiacere, ma non lieve danno, scemandogli il credito. Il pio cristiano soffriva e taceva, né mai rifiutava il saluto al suo vicino invidioso e maledico. Gli affari di questo precipitarono: impotente a pagare certe grosse cambiali, il disastro era imminente ed inevitabile. Lo seppe la vittima innocente della sua invidia e della sua maldicenza: senza farne motto a persona corse dai creditori, pagò i debiti dell’emulo suo e suo nemico e lo salvò dalla catastrofe, limitandosi a fargli tenere in bel modo le cambiali soddisfatte. – L’infelice salvato stupì a tanta generosità, pianse, corse dal suo benefattore, gli gettò le braccia al collo, gli chiese perdono e narrò a tutti l’eroica virtù di lui. Ecco, o dilettissimi, un uomo che raduna sul capo del suo nemico carboni accesi e col bene vince il male.

Graduale


Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua
[V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]


Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium


Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt VIII: 1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre. Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis. Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Om. XVI]

“Quando Gesù fu sceso dal monte, lo seguitarono molte turbe. Ed ecco, un lebbroso venne, l’adorò, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. E distesa la mano, Gesù lo toccò, dicendo: “Lo voglio: sii mondato”. E in quell’istante fu mondato dalla lebbra. E Gesù gli disse: Guarda che tu non lo dica a persona: ma va, mostrati al sacerdote e fa l’offerta, che Mosè prescrisse, in testimonianza a loro. Quando poi fu entrato in Cafarnao, un centurione venne a Lui, pregandolo e dicendo: Signore, il mio famiglio giace in casa paralitico, gravemente tormentato. E Gesù gli disse: Io verrò e lo guarirò. E il centurione, rispondendo gli disse: Signore, io non sono degno, che tu entri sotto il mio tetto: ma dillo solo con una parola, e il mio famiglio sarà guarito. Perché quantunque io sia uomo costituito sotto potestà, puro avendo sotto di me dei soldati, dico ad uno: Va, e quegli va; e ad un altro: Vieni, e quegli viene; ed al mio servo:  Fa’ questo, ed egli lo fa. Udito questo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: In verità vi dico, non ho trovata tanta fede nemmeno in Israele. Perciò vi dico, che molti verranno da Oriente e da Occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei  cieli. E i figli del regno saranno gettati fuori nelle tenebre: ivi sarà pianto e stridore di denti. Poi Gesù disse al centurione: “Va, e come hai creduto, sia fatto; e il famiglio in quell’istante guarì „ (Matt. c. VIII, vers. 1-13).

Il tratto evangelico, che avete udito e che si legge nella Messa odierna, contiene due fatti distinti, dirò meglio, due miracoli: la guarigione d’un lebbroso e quella del famiglio d’un centurione. Fra questi due fatti poi abbiamo lo splendido esempio della fede d’un centurione, che meritò un elogio magnifico del Salvatore. Lasciamo da banda qualunque esordio e meditiamo il Vangelo in ciascuna delle sue tre parti. – “Quando Gesù fu sceso dal monte, lo seguirono molte turbe. „ Il monte, dal quale Gesù discese, come qui si dice, deve essere quel monte istesso, sul quale tenne il discorso delle beatitudini, che si vuol chiamare anche discorso del monte e si trova a sinistra di chi da Cana va a Tiberiade. Le turbe, che l’avevano seguito lassù, discesero con Lui, ma si erano di certo già sbandate allorché operò il miracolo, che l’Evangelista ci narra. “Ed ecco un lebbroso venne e l’adorò, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. „ La lebbra era un morbo che si manifestava con chiazze biancastre e puzzolenti in tutta la persona, specialmente sul volto e sulle mani. La lebbra ora incurabile o quasi incurabile e finiva col far cadere le carni e le membra a brani a brani con dolori orrendi. Era un morbo, che gli Ebrei portarono seco dall’Egitto, contagioso in sommo grado, e perciò la legge mosaica prescriveva la separazione, come unico rimedio. I Crociati lo contrassero e lo diffusero in Europa, massime in Francia, dove ebbe a mietere innumerevoli vittime. Da noi rarissimi sono i casi, più frequenti in Norvegia, al Madagascar e in alcune isole del mare Pacifico. Il povero lebbroso del Vangelo doveva essere stato cacciato fuori dell’abitato e andava forse errando ai piedi di quel monte. Per fama conosceva certamente Gesù e sapeva almeno confusamente dei miracoli per Lui operati, e perciò, mosso da viva fede, corse a Lui, gli si gettò ai piedi, l’adorò e gli disse queste sole parole, che non possono essere più eloquenti nella loro semplicità: “Signore, se vuoi, tu puoi mondarmi. „ Professa di credere in Lui, nella sua virtù divina: gli mostra la schifosa lebbra, che lo copre tutto, e si abbandona interamente nella sua bontà: “Signore, se vuoi, tu puoi mondarmi. „ Per te il volerlo è un farlo: mondami da questa bruttura. Giova notare una cosa poco avvertita. Quasi tutti i miracoli di Gesù Cristo furono operati dietro preghiera di quelli che ne avevano bisogno. Forseché Gesù Cristo non vedeva la loro infermità, i loro bisogni? Certo vedeva e conosceva tutto. Perché dunque voleva esserne richiesto? Perché riconoscessero i loro bisogni, si umiliassero, mostrassero la loro fede e la loro speranza e in qualche senso concorressero all’azione divina, che imploravano. La economia che Gesù tenne in vita continua e continuerà fino alla fine dei secoli. – Il lebbroso aveva appellato al cuore di Gesù, dicendo: Se vuoi: e Gesù, mosso a pietà, stendendo la mano e toccandolo, quasi per incoraggiarlo, risponde tosto e gli dice: “Lo voglio: sii mondato; e in quell’istante fu mondato dalla lebbra. „ L’evidenza del miracolo non poteva essere maggiore: si trattava d’un morbo, per sé, insanabile, che cadeva sotto gli occhi di tutti: la guarigione avviene in un istante, senza applicazione di rimedi, i quali, anche applicati debitamente, operano sempre a poco a poco. Questa guarigione istantanea del corpo può dirsi figura della guarigione dell’anima, che avviene in un lampo, allorché, pentita dei suoi falli, si presenta al ministro di Gesù Cristo e gli dice: “Monda il mio cuore dal peccato”; e con la parola della santa Assoluzione la monda e la riconcilia con Dio. Gran che, o fratelli miei! Se noi per grande sventura fossimo colti dall’orribile morbo della lebbra o da altro qualsiasi grave malanno e Gesù fosse ancora sulla terra od altri operasse miracoli come Gesù li operava, correremmo a Lui, ci butteremmo ai suoi piedi, né ci alzeremmo senza aver prima ottenuta la guarigione. Siamo coperti dalla lebbra del peccato, abbominevoli agli occhi degli Angeli e di Dio e forse di noi stessi: Gesù è qui nel suo ministro, pronto, bramoso di mondarci: per ottenere la guarigione pronta e perfetta non si domanda la spesa benché minima; basta confessare la nostra infermità, dolerci del male commesso e dirgli: Ho peccato: perdonami, lavami dalle mie brutture; e noi non ce ne diamo intesi e portiamo con noi dovunque la schifosa lebbra del peccato! Quale cecità! “E Gesù gli disse: Guarda che tu non lo dica a persona: ma va, mostrati al sacerdote e fa l’offerta, che Mosè prescrisse, in testimonianza a loro. „ – È da sapere, come diceva, che il lebbroso era separato dal consorzio umano, come prescriveva la legge di Mose: se guariva (come accadeva nei casi leggeri), doveva presentarsi al sacerdote, che era come il medico; questi, accertata la guarigione del lebbroso, dichiarava che senza pericolo poteva rientrare nella convivenza comune, e riceveva l’offerta di due passeri, l’uno dei quali si lasciava libero, quasi simbolo della libertà riacquistata, l’altro si offriva in sacrificio. – Gesù comandò al lebbroso di non dire il miracolo a chicchessia, insegnandoci ad occultare i doni del cielo ed a non menarne vanto ed a compire verso dei sacerdoti ciò che la legge di Mosè imponeva. In tal modo Gesù mostrò come dobbiamo rispettare i diritti altrui ed osservare tutte le prescrizioni fatte dalle autorità: credo anche che ciò facesse per togliere ai sacerdoti, che già cominciavano ad accusarlo di violare la legge, l’occasione e il pretesto di lagnarsi di Lui e di combatterlo. Il lebbroso fu mondato non lungi da Cafarnao, piccola cittadella posta sulla riva occidentale del lago di Genesaret, nella parte superiore, ora un cumulo di rovine, ricetto di alcuni poveri pescatori. – S. Matteo, narrato il miracolo del lebbroso, prosegue e dice: ” Quando poi fu entrato in Cafarnao, un centurione venne a Lui, pregandolo e dicendo: Signore, il mio famiglio giace in casa paralitico, gravemente tormentato. „ Questo fatto è narrato anche da S. Luca al capo settimo, con una differenza, che facilmente si spiega. S. Luca dice che questo centurione, ossia capo di cento soldati e quindi come un nostro capitano, era uomo religioso ed aveva fabbricata una sinagoga: dice che si presentarono a Gesù Cristo prima i Giudei, pregandolo di guarire il servo del centurione. Gesù dovette rivolgersi alla sua casa, ed allora il centurione dovette mandare a Gesù alcuni amici, pregandolo a non darsi disagio; e Gesù continuando pure ad andare alla casa del centurione, il centurione istesso uscì ad incontrare il divino Maestro e gli fece la preghiera perché volesse guarire il suo servo o garzone percosso da paralisi. Questo centurione non era certamente ebreo, ma romano, fermo di guarnigione in Cafarnao, credente in Dio, e ve ne dovevano essere parecchi tra i soldati romani, che avevano la fede ebraica. Gesù rispose al centurione: “Io verrò e lo guarirò. „ Il centurione non aveva pregato Gesù Cristo di recarsi in casa sua, né aveva punto intenzione di pregarlo a recarvisi, come apparirà tosto; ma Gesù per mostrare l’animo suo e per offrir modo al centurione di fare quella magnifica professione di umile fede, che udremo, gli disse: “Io verrò e lo guarirò.„ Quando si pensa, che Gesù, Figlio di Dio, Signore d’ogni cosa, si mostra sì condiscendente con chi lo prega, anzi fa più di ciò che gli è chiesto ed è pronto a recarsi al letto d’un povero servo, noi tutti, fedeli e sacerdoti, dovremmo sentirci salire sul volto la fiamma della vergogna, vedendoci sì facili al rifiuto, sì delicati, sì esigenti e sì pieni di pretensioni, noi povere creature! Il buon centurione, stupito di tanta bontà, dolente d’avergli dato disagio e conoscendosi indegno di accogliere in casa tanto ospite, chinandosi dinanzi a Lui, esclamò: “Signore, io non son degno, che tu entri sotto il mio tetto: ma dillo solo con una tua parola e il mio famiglio sarà guarito.„ Quanta fede! quanta umiltà! quanta schiettezza e quanta abbondanza di cuore in questo pagano, in questo soldato straniero! Questi sentimenti sì nobili, pubblicamente manifestati, non erano possibili negli scribi e ne’ farisei, sì orgogliosi. Essi con la loro scienza, con i loro profeti, con la osservanza sì scrupolosa della lettera della legge, perché superbi e maligni, rimanevano lontani da Gesù Cristo, e il centurione, gentile e soldato, perché umile e sincero, credeva in Lui e meritava che le sue parole, attraverso ai secoli, ogni giorno, in tutte le regioni della terra, fossero solennemente ripetute dalla bocca dei sacerdoti! Tanta gloria era riserbata a quel buon centurione gentile! Se non che egli non fu pago di quella sua dichiarazione umilissima, che gli sgorgava dal cuore: volle darne una ragione, e la tolse dalla stessa professione di soldato. Vedi, diceva a Gesù, vedi: io pure sono costituito in potestà e comando ai miei cento soldati, e dico ad uno: Va, ed egli va; all’altro: Vieni, e viene; ho un servo: se gli dico: Fa’ questo, e tosto egli lo fa: ora voleva dire, se a me basta dire una parola per essere ubbidito, quanto maggiormente basterà a te con una sola parola guarire il mio famiglio? A che muoverti? A che venire in casa mia? Dillo con una sola parola, e il mio famiglio sarà guarito. – Per fermo Gesù non era capace di meraviglia, perché la meraviglia è possibile solamente in chi vede o sente cosa ignota e nuova, e nulla poteva essere ignoto e nuovo a Gesù Cristo; tuttavia, scrive S. Matteo, che Gesù, anche in ciò acconciandosi alle nostre debolezze, alle condizioni della nostra natura, “si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: “In verità vi dico, non ho trovato tanta fede in Israele. „ Il centurione, come dicemmo, era. gentile; eppure nella fede superava i figli di Israele. Questa fede ammirabile d’un gentile diede occasione a Gesù Cristo di fare due splendide profezie, l’una riguardante i gentili, l’altra gli Ebrei. “Io vi dico, che molti verranno da Oriente e da Occidente e sederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli. „ Voleva dire: Questo centurione è gentile: egli è la primizie dei gentili, che verranno nel regno dei cieli, entreranno nella mia Chiesa e saranno veri figli di Abramo e dei Patriarchi. È una profezia chiarissima, nella quale Gesù Cristo annunzia la conversione dei gentili. E che sarà degli Ebrei? Con volto turbato e con un gemito che gli usciva dal fondo dell’anima, Gesù Cristo aggiunse: “E i figli del regno, cioè gli Ebrei, quelli che per primi erano chiamati alla mia fede, saranno gettati fuori nelle tenebre, fuori della casa, dal convito, dove splende la luce: e là, fuori della casa e del convito, non vi è che dolore, dolore sommo, acerbissimo, espresso colla parola: stridore di denti. „ Ogni qualvolta leggo questi due vaticini, che volete, o cari? Un pensiero terribile mi si affaccia alla mente. I figli d’Israele, che erano già nella casa del Signore, ne furono cacciati per la loro superbia ed incredulità: ad essi sottentrarono i gentili, i padri nostri. Figliuoli carissimi! siamo sinceri: non è egli vero che molti in mezzo a noi hanno vòlte le spalle a Gesù Cristo ed alla sua Chiesa e rigettano e bestemmiano la sua fede? Non è egli vero che molti de’ nostri fratelli vivono come se non fossero Cristiani? Non parola di Dio, non Sacramenti, non precetti della Chiesa. – In mezzo alla nostra società cristiana e cattolica, non so come, si manifesta un disgusto, una noia (e dico poco) della Religione e delle sue pratiche, che fa pena e cagiona timore grande: si direbbe che un gran numero, appartenente alla parte della società più colta e più ricca, più non intende curarsi di Religione. Sono simili ai Sadducei della sinagoga, che non credevano più nulla, né a Mosè, né ai Profeti. D’altra parte, leggendo gli Annali di Propaganda, apprendiamo che molti popoli che giacevano nelle ombre del paganesimo, entrano nella Chiesa e danno prove d’una fede emula della fede dei tempi apostolici. Essi fanno centinaia di miglia per confessarsi, per comunicarsi, per ascoltare una Messa, per udire il missionario; e noi che abbiamo tutto questo a pochi passi, troppo spesso non ce ne curiamo! E Dio, stanco della nostra ingratitudine, non potrebbe abbandonarci e chiamare al nostro luogo popoli più fedeli e più grati del benefìcio ricevuto? Dio disperda il funesto pensiero; ma, non illudiamoci; abbiam motivo di temere e tremare. – “Gesù disse al centurione: Va’, e come hai creduto, sia fatto; e il famiglio in quell’istante fu guarito. „ La fede del centurione ebbe il suo premio: Gesù, senza entrare nella casa dell’infermo con un solo atto della sua volontà, come aveva domandato il centurione, ebbe guarito il suo servo. Miei cari! la fede è la radice della giustificazione, la radice della vita cristiana: tutto viene da essa, e senza di essa è impossibile di piacere a Dio. Conserviamola, ravviviamola con la parola di Dio, con la preghiera, coi Sacramenti e con le opere della carità.

 Credo …

Offertorium


Orémus
Ps CXVII: 16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta


Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio


Luc IV: 22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio


Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XLVII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927]

XLVII

RISURREZIONE E GIUDIZIO.

Quando avverrà la fine del mondo. — L’anticristo ed altri segni forieri di essa. — Come avverrà. — La risurrezione di tutti gli uomini. — Luogo e modo dell’universale giudizio. — Perché  vi debba essere il giudizio universale oltre al particolare.

— Vorrei ancora domandarle alcune cose intorno alla vita dell’al di là. Ed anzitutto è veramente certo che questo mondo e l’umanità, che lo abita, dovranno un dì finire?

E chi può dubitarne? Quando la stessa ragione non ci dicesse che tutto in natura comincia, cresce, vigoreggia, invecchia e si scioglie, le Sacre Scritture ce ne parlano nel modo più esplicito.

— E quando avverrà la fine del mondo?

Gesù Cristo ha detto al riguardo che nessuno lo sa, se non Iddio.

— Ma a me sembra di aver veduto in qualche libro determinato un tal tempo.

⁕ Se anche lo avessi veduto stampato chiaramente,  non ci devi credere, tanto più perché la Chiesa ha giustamente ed espressamente proibito di fare una tale determinazione, contraria alla parola di Gesù Cristo.

— Ad ogni modo si può supporre che la fine del mondo sia vicina?

Delle ipotesi ne puoi fare benissimo, ma penso che al riguardo sia più giusto supporre che la fine del mondo sia ancora lontana assai. Se, come appare dalla scienza, ci vollero tanti secoli alla formazione del mondo attuale, e secondo c’insegna la Scrittura sono appena seimila anni incirca che in esso si trova l’uomo, vuoi che questi per la fine del mondo vicina abbia così presto a scomparirne?

— È vero che prima della fine del mondo vi sarà un Anticristo, che farà di tutto per combattere Gesù Cristo e trarre in inganno gli uomini?

Tale è la dottrina di tutti i Santi Padri, e il sentimento di tutti i fedeli in tutti i secoli. Anche la divine Scritture ne parlano chiaramente in più luoghi.

— Chi sarà questo Anticristo?

Sarà un uomo scelleratissimo, che avrà commercio col demonio, opererà falsi prodigi, vorrà farsi adorare come Dio, perseguiterà i Cristiani più di quello che saranno mai stati perseguitati, e riuscirà a sedurre molti e a farsi un gran numero di seguaci.

— Ma non vi saranno a predicargli contro Enoc ed Elia?

Così comunemente si crede basati sulle Scritture dell’antico e del nuovo Testamento e sulla Tradizione. S. Agostino nel suo libro Della Città dì Dio (xx, 29) dice che « non immeritamente si spera che prima della venuta di Gesù Cristo giudice, Elia debba venire quaggiù, perché non immeritamente si crede ch’egli sia vivo tuttora ». E tu sai perché si creda ch’egli sia vivo tuttora. La Sacra Scrittura dice di questo gran profeta che anziché morire fu miracolosamente trasportato al cielo sopra un carro di fuoco. Anche di Enoc, che fu padre del celebre Matusalem e uomo santissimo, asserisce che senza morire disparve, perché Iddio lo rapì. Quindi può essere che l’uno e l’altro di questi due santi uomini vivano ancora miracolosamente, godendo una specie di paradiso terrestre, in un luogo da Dio stabilito e a Lui solo conosciuto, dal quale poi prima della fine del mondo verranno fuori a predicare contro l’Anticristo, a preservare molti Cristiani dall’errore ed a convertire altresì molti infedeli e particolarmente gli Ebrei, che allora detesteranno la loro perfida ostinazione e crederanno a Gesù Cristo.

— Ho inteso a dire tante volte nelle spiegazioni del Vangelo che la fine del mondo sarà preceduta da guerre spaventose, da terremoti, da rovesciamenti del mare, da scompigli e cadute degli astri del cielo eccetera. Tutte queste cose avverranno davvero come sono indicate?

E perché no? Per quanto l’insieme di questi segni forieri della fine del mondo sembrino strani, oltreché sono parola di Vangelo, vanno pure pienamente d’accordo colla scienza, la quale già conosce nella robusta struttura del mondo i sintomi dello sfacelo, che deve subire, e che presenta quale Gesù Cristo l’ha indicato.

— Ed è vero che la fine del mondo avverrà per opera di un fuoco distruggitore?

Così c’insegna la divina rivelazione per mezzo di S. Pietro. Di qual maniera poi si formi questo fuoco, o di dove abbia ad erompere, e come avvenga questa enorme e spaventevole combustione sono cose che Iddio solo le sa.

— E per questo fuoco, il mondo sarà annientato ?

La Sacra Scrittura non dice questo, ma dice solo « che la terra e le opere che sono in essa saranno arse; » e poi soggiunge che « secondo la promessa di Dio noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra; » il che, come spiega san Gregorio Magno (nei Morali, v, 27), vorrebbe dire che i cieli e la terra passeranno quanto all’immagine che hanno adesso, ma sussisteranno senza fine quanto alla loro sostanza.

— Ma a che cosa serviranno questi nuovi cieli e questa nuova terra, se gli uomini tutti saranno o in paradiso od all’inferno?

Le Divine Scritture non dicono nulla, e niente si può immaginare che sia probabile. Quello che è certo si è che anche in ciò si rivelerà l’infinita sapienza di Dio.

— E alla fine del mondo avverrà dunque la risurrezione di tutti gli uomini?

Sì, è questa una delle verità di fede più chiaramente e ripetutamente insegnate nei santi libri.

— Ma io non capisco come mai i nostri corpi, che dopo migliaia di anni si saranno decomposti, abbiano e possano ancora risorgere.

Certo che ciò non avverrà per alcuna forza creata, ma unicamente per miracolo di Dio, al quale, onnipotente com’è, non tornerà per nulla difficile operare questa universale risurrezione, facendo sì che l’anima di ciascuno ripigli il corpo identico, che aveva nella sua mortal vita.

— Ma che necessità vi è che i corpi risuscitino? Non basta forse che viva immortale l’anima?

L’anima, caro mio, non è tutto l’uomo, il quale consta di anima e di corpo; perciò se un dì non risorgesse il corpo per unirsi all’anima ne avverrebbe che per tutta l’eternità l’uomo non sarebbe uomo vero e perfetto secondo la sua natura, ciò che ripugna alla ragione. E poi siccome il corpo è stato compagno all’anima o nell’operare il bene o nell’operare il male, non ti par giusto che un dì esso risusciti per ricevere anch’esso insieme con l’anima il premio od il castigo meritato?

— Sì, ciò è vero. E come saranno i corpi dei risuscitati?

S. Paolo dice che « tutti risorgeremo, ma non tutti saremo mutati ». E con ciò, secondo che spiega lo stesso Apostolo nella sua la lettera ai Corinti (capo xv), vuol dire che i corpi dei malvagi nel risorgere saranno brutti, deformi, schifosi, pesanti, soggetti a dolori, mentre invece i corpi dei buoni saranno modellati sul corpo di Gesù Cristo risorto, epperò incorruttibili, immortali, leggeri, senza alcuno di quei difetti che potevano avere in questo mondo, fulgenti di luce e di bellezza, pieni di vita e di forza, impassibili, fatti quasi spirituali, tanto da potersi recare in un attimo in ogni luogo senza trovare ostacolo od inciampo alcuno.

— Dunque il corpo dei giusti nella risurrezione non sarà più corpo, ma spirito o fantasma ?

No, caro mio: il corpo resterà corpo e non cesserà di essere palpabile, come restò vero corpo palpabile quello di Gesù Cristo dopo la. risurrezione sua, ma pur restando tale avrà tuttavia per volere e potere divino quelle perfezioni che t’ho indicate.

— E dopo la risurrezione vi sarà l’universale giudizio nella valle di Giosafat. Questa valle dovrà essere ben grande per poter contenere tutti quanti gli uomini del mondo!

A questo riguardo devi sapere che la valle di Giosafat, di cui nella Scrittura parla soltanto il profeta Gioiele, è una valle poco lontana da Gerusalemme ed abbastanza ristretta. Siccome in essa vi erano molti sepolcri, così può essere che a poco a poco prevalesse presso alcuni l’idea che il giudizio universale dovesse aver luogo in detta valle. Del resto la parola Iosafat vuol dire del giudizio, o meglio ancora in cui il Signore giudicherà, così che Valle di Giosafat potrebbe anche indicare nient’altro che luogo dove avverrà l’universale giudizio, che perciò tu puoi immaginare largo e lungo quanto ti piace. D’altronde potresti tu credere, che trattandosi proprio di quella valle presso Gerusalemme, Iddio sarebbe impacciato ad allargarla, per modo che contenesse tutta l’umanità?

— Oh! no, certamente. E nel giudizio vi sarà davvero quell’esteriore apparato, di cui tante volte si parla, e cioè i suoni di tromba degli Angeli, la separazione dei buoni dai cattivi, la comparsa di Gesù Cristo sulle nubi, la sua seduta in tribunale, l’apertura dei libri, eccetera, eccetera?

Vedi: tutte queste cose ed altre ancora sono così indicate nella Santa Scrittura e dallo stesso Gesù Cristo. Per altro S. Paolo ci dice che tutto ciò si effettuerà in un batter d’occhio, in un lampo, in un istante solo. Quindi è che tutto avverrà in modo miracoloso, e se nelle prediche si descrive talora il giudizio come uno svolgimento regolare di una causa, ciò non si fa altrimenti che per produrre nella nostra mente un’immaginazione del medesimo in conformità alla debolezza della nostra intelligenza.

— Dunque nel giudizio universale non vi saranno quelle scene di terrore e di disperazione che alle volte si dipingono?

Anzi vi saranno assai più terribili che non si dica. Perciocché l’istantaneità, con cui il giudizio sarà compiuto, non impedirà per nulla che avvenga il totale conoscimento del bene e del male operato da tutti e da ciascuno degli uomini con la conseguente glorificazione e soddisfazione, oppure vergogna e disperazione.

— E di qual maniera avverrà questa totale rivelazione del bene e del male fatto da tutti e ciascuno degli uomini?

Le Sacre Scritture ci dicono che ciò avverrà per la luce che partirà da Dio stesso, e che illuminerà la coscienza di ciascuno per siffatta guisa da far conoscere a tutti lo stato preciso dell’anima di ciascuno; sicché nel giudizio sarà manifesto tutto ciò che di bene e di male avremo fatto nella nostra mortal vita, sia in pensieri, sia in affetti e sentimenti, sia in parole ed in opere, in tutto e per tutto, e sarà manifesto quale realmente si è voluto e fatto, non quale apparve al di fuori, per modo che non sarà possibile negare o difendere, scemare o ingrandire il nostro passato.

— Dunque tutto quello che io penso, sento, dico, faccio, eccetera, anche da me solo, tutto resta per essere poi tutto manifestato nel dì del giudizio?

Sì, caro mio.

— È una verità terribile!

Si, Ma anche consolante se facciamo il bene e lo facciamo per amor di Dio

— Non capisco però quale necessità vi sia di questo universale giudizio, se vi è già stato il giudizio particolare.

È certo che nel giudizio universale non sarà data da Dio per nessuno una sentenza diversa da quella che già fu profferita nel giudizio particolare. Con tutto ciò è necessario l’universale giudizio:

1° per giustificare il governo di Dio lungo il corso dei secoli, e così al cospetto di tutti si manifesti il perché alle volte ha permesso che i buoni fossero tribolati e i malvagi trionfassero nella loro iniquità.

2° per vendicare pubblicamente gli affronti orribili, che da tanti vennero fatti all’adorabile Persona di Gesù Cristo, sia col negarlo, sia col bestemmiarlo, sia col disprezzare la sua fede, la sua legge, la sua Chiesa, i suoi Sacramenti, eccetera; giacché tutti gli empi saranno allora costretti di riconoscere che Gesù Cristo è Dio.

3° per convincere tutto intero l’uomo, in corpo ed in anima, del suo bene o del suo male, per confondere i vili, per smascherare gli ipocriti, per manifestare le conseguenze del peccato, gli effetti dello scandalo eccetera, eccetera.

— Ho compreso. E come andrà a finire il giudizio?

Colla sentenza di eterno godere in paradiso per i buoni, e di eterno patire nell’inferno per i malvagi. Ma di ciò discorreremo altra volta.

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi spirituali (10)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (10)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

10. La SS. Eucaristia

Incominciamo a parlare della SS. Eucaristia. Perché? Perché la SS. Eucaristia è il segno, il mezzo, il divino strumento per cui noi siamo autorizzati a porre la nostra conversatio in cœlis. Se Dio si fa cibo nostro, vuol dire che noi siamo autorizzati a porre la nostra conversatio in cœlis. E pertanto della SS. Eucaristia parliamo e meditiamo obbedendo al solito criterio che presiede a questi Esercizi: abituarci a vivere con la nostra mente e con l’altezza del nostro costume in cœlis e non in terra. – Parliamo dunque della presenza reale di N. S. Gesù Cristo nell’Eucaristia. La realizzazione di questa divina presenza — a parte il fatto stesso della morte del Salvatore, della quale però è memoriale, segno e rinnovazione — è il fatto più grande dell’Evangelo. Tra l’incarnazione e la morte del Signore, noi non troviamo una cosa più grande. Il fatto di questa divina presenza trascende tutto: la prova l’abbiamo nello stesso Evangelo. I primi tre evangelisti hanno narrato il fatto della istituzione; non hanno scritto del discorso tenuto da Gesù nella Sinagoga di Cafarnao. Probabilmente essi hanno ritenuto opportuno, nella primissima età, di dare a voce il contenuto di quel discorso: ci potevano essere delle plausibili ragioni di metodo e di prudenza; ma hanno tutti narrato la istituzione della Eucaristia. La Chiesa primitiva è vissuta di quello. La testimonianza di S. Paolo nei capp. X e XI della Prima Lettera ai Corinti ci rende bene edotti della celebrazione della S. Messa e del suo significato, e pertanto della verità accettata e vissuta della divina reale presenza. S. Giovanni sulla fine del primo secolo ha ritenuto evidentemente che le ragioni di metodo e di prudenza per affidare solo alla tradizione orale il discorso eucaristico di Cafarnao fossero cessate. Egli sopravviveva già di alcuni decenni agli ultimi degli Apostoli scomparsi; aveva già veduto evolversi molte cose; ha potuto giudicare che quelle ragioni fossero cessate. E allora nel suo Evangelo, non ripetendo l’istituzione dell’Eucaristia, perché già a sufficienza ne avevano parlato gli altri, egli, guidato da un criterio completivo, trasmise il discorso di Cafarnao. – Ho detto che 1’Evangelo stesso ci dice di questa priorità della presenza reale di Gesù Cristo nella Eucaristia. Perché non dimentichiamo che Gesù Cristo, a quanto ci narrano gli evangelisti, pone una volta sola la questione di fiducia ai suoi stessi apostoli: l’ha posta a Cafarnao. Perché, dopo avere nel discorso eucaristico di Cafarnao affermato quattro volte la reale manducazione e nove volte la reale presenza, quasi incalzando di fronte agli evidenti dinieghi di quanti gli stavano innanzi, prima contenuti nel gesto, poi sussurrati, poi scoppiati in aperta rivolta, Gesù Cristo solo allora e solo per questo ha posto la questione di fiducia ai suoi Apostoli. Si è rivolto agli Apostoli, quando gli altri se ne andavano e con scherno dicevano: « Ma chi può capire queste cose? », e ha detto agli Apostoli: « Volete andarvene anche voi? Andatevene! ». Fu allora che Pietro, con una di quelle sue caratteristiche esplosioni così piene di fede, di ardore e di generosità indomita, disse: « Signore, da chi ce ne andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna ». E qui si potrebbe aggiungere — nel Vangelo non c’ è, ma deve averlo pensato Pietro — : Noi non abbiamo capito niente…. E continua il testo : « Però sappiamo e riconosciamo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio ». La vera ragione l’ha data; Pietro non ha preteso di capire; sapeva che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, e Dio può fare tutto. È stato di una logica immediata, anche se l’essere andato al motivo della fede direttamente, non parlando della comprensione dell’oggetto di fede, testimoniava ampiamente che anche lui non aveva capito niente. Ma aveva capito Chi era Colui che parlava, del quale si poteva fidare. L’unica volta che Gesù Cristo ha messo la questione di fiducia. Un’altra cosa ha fatto Gesù Cristo, una cosa che non ha mai fatto in altre occasioni, a quanto noi sappiamo dagli Evangeli. Appena prima di fare il discorso sulla verità della reale presenza nell’Eucaristia, ha tenuto il discorso sulla fede, dicendo della fede alcune cose che sono di estremo interesse. Come a dire: Badate che qui la ci vuol tutta, la fede. Non l’ha fatto per altri argomenti; l’ha fatto per l’Eucaristia. E notate bene che, unica volta nell’Evangelo, Gesù Cristo ha fatto un prologo che, come prologo tipico, specifico, omogeneo al discorso, a quanto ricordo, è l’unico. – Cioè prima ha fatto un miracolo unicamente per introdurre all’oggetto tipico del discorso che stava per fare, cioè ha moltiplicato il pane e il companatico. Come a dire: Già, avete tutti mangiato e vi siete saziati, ma ricordate che non è questo il pane che interessa. Vedete il raccordo? Quando si pensa a questi rilievi che sembrano quelle martellate date da Michelangelo o quelle pennellate date nell’affresco della Cappella Sistina, che vanno da cima in fondo a un arto, a una figura; pennellate che Michelangelo deve averle date coi pugni; quando si vedono questi elementi di demarcazione, si capisce una cosa: che l’Eucaristia sta al centro; che il fatto della reale presenza, della reale permanente presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia, insieme alla sua Chiesa e al mondo, sta al centro di tutto. Io ho recitato il Te Deum quando il 1° luglio 1957 è uscito un celebre ma non abbastanza letto Decreto della S. Congregazione dei Riti, autorizzato personalmente dal Papa Pio XII e da lui direttamente sancito con la sua altissima autorità, il quale si occupava dei Tabernacoli. Ho recitato il Te Deum, perché a me piangeva il cuore nel costatare certe manie moderne che hanno il « pudore » di mettere il Tabernacolo sull’altare. Da qualche parte ho persino trovato che l’hanno nascosto, con la scusa di fare l’altare liturgico. Come se a fare l’altare liturgico non bastasse esclusivamente la legge della Chiesa anziché i pallini degli uomini. L’altare è liturgico quando è fatto come la Chiesa lo vuole. Il 3 settembre 1958 è uscito un altro Decreto della Congregazione dei Riti, personalmente approvato da Pio XII, in cui si dà la definizione di ciò che è liturgico. È liturgico quello che la Chiesa stabilisce; non è liturgico quello che la Chiesa non ammette. – Ora in quel Decreto del 1957 si parla del Tabernacolo; stabilisce che gli altari maggiori, in tutte le chiese del mondo — eccettuato nelle cattedrali o nelle collegiate, o chiese conventuali, in cui in ragione del coro si deve fare una cappella del SS. Sacramento a parte, ma degna e sontuosa — tutti gli altari maggiori debbono avere il Tabernacolo. Così è finita coi pallini degli altari liturgici. Un altare maggiore, se non ha il Tabernacolo, non è liturgico. Ma quel Decreto ribadisce quanto era già stabilito dal Codice di Diritto Canonico, che il Tabernacolo deve essere « in altare positum » e non piantato, appeso, come una gabbia d’uccelli, e « affabre exstructum », ed « eminente ». Da anni nella mia Diocesi, dove debbo fare 75 chiese nuove, mi sono riservato personalmente i disegni degli altari. Non li mando alla Commissione se prima non li ho visti io, e il visto della Commissione non vale se non li rivedo io. Per un motivo solo: perché non ammetto altari che non abbiano il Tabernacolo monumentale. Il Tabernacolo deve essere tale che chi entra in chiesa debba per forza guardare e per forza capire che il centro è là, esattamente come nel Vangelo. – Bisogna che noi capiamo che al centro della nostra vita ci deve stare l’Eucaristia, perché questa è la volontà del Signore. È proprio questa verità: è l’esser Lui venuto lì che autorizza noi a sentirci rivestiti, per elargizione sua, del diritto di vivere in cielo anche se siamo in terra. Ma è vera anche la proposizione che comincia dalla parte opposta: che questa verità e questa vita e questo sentire e questa adorazione dobbiamo metterla al centro della nostra vita. – Ora continuiamo a guardare. Reale presenza di Nostro Signore nell’Eucaristia. Quelli che dicono che nell’Eucaristia ci sono molti miracoli evidentemente non hanno studiato la teologia. Nell’Eucaristia, per rendere possibile la presenza a quel modo, ne basta uno. Uno solo; non ne occorrono di più, nemmeno due. Per mille anni si è studiato intorno a questo divino mistero: hanno cominciato nel sec. II a studiare, mentre si apriva la prima scuola alessandrina, la prima università cattolica in erba, quella degli Apologeti. Da allora l’intelligenza umana non si è più quietata; mille anni han lavorato su questo mistero, con questo obiettivo di arrivare a capire ciò che si poteva capire e, quanto meno, a togliere quelle apparenti contraddizioni che per gli spiriti abituati al modus grossus si possono presentare. E ci si è arrivati solo — però con un distacco enorme tra il penultimo e l’ultimo gradino — verso il 1260, nell’epoca in cui cominciavano a uscire le dispense della Summa Theologica di S. Tommaso d’Aquino. Ho detto che l’ultimo gradino è stato molto alto, perché prima di S. Tommaso d’Aquino c’erano stati Alberto Magno e i Vittorini: Riccardo da S. Vittore, Ugo da S. Vittore, ecc. Poi vi è un gradino molto alto: S. Tommaso, forse la mente più vasta che abbia avuto il genere umano. E dopo di lui nessuno è andato più oltre, dico nessuno. Bisognerà aspettare che nasca un altro S. Tommaso per andare oltre. Però, con tanto lavoro, a noi è dato di guardare un pochino questa questione dall’alto. Perché fosse possibile che Gesù Cristo, Lui vivo e vero, senza aggiunte, senza modificazioni, senza trasposizioni; Lui, il cui corpo, la cui umanità santissima è nell’eterna vita; lui stesso fosse presente in terra veramente, fisicamente, realmente, sia pure sacramentalmente; e perché potesse essere in posti diversissimi, distanti fra di loro, lo stesso identico Cristo, senza patire divisioni, senza alcuna menomazione; e perché potesse essere presente ed essere maneggiato dagli uomini, ma che non rimanesse in alcun modo intaccata la impassibilità che ha un corpo risuscitato ed entrato nella eterna gloria, impassibile perfettamente rispetto ad altri agenti, specialmente di altro ordine, come sarebbe per noi masticare, per dire quello a cui ci ha autorizzato Lui stesso; per fare tutto questo, che cosa ha fatto Gesù Cristo? Ha separato, per l’Eucaristia, l’ordine della sostanza dall’ ordine della quantità. – Sostanza e quantità sono due cose diverse; la prova è che una può variare e l’altra non varia: dunque vuol dire che sono diverse. Se sono diverse, concettualmente sono separabili. Nell’ordine cosmico nostro nessuno mai, che si sappia, neppure per miracolo, ha separato la sostanza dalla quantità, l’ordine della sostanza dall’ordine della quantità. Ciò che si converte nel Corpo e nel Sangue di N. S. Gesù Cristo è soltanto la sostanza del pane e del vino e non gli accidenti, non la quantità del pane e del vino. Sta tutto qui; si converte una sostanza in un’altra sostanza. Ed è per questo che Gesù Cristo è presente secondo il modo proprio della sostanza e non secondo il modo proprio della quantità. È tutto qui il fatto della possibilità della sua presenza. Al di là, l’infinita realtà di Dio presente, e questa non la possiamo catalogare in nessuna categoria. All’ordine della sostanza appartiene quella presenza, non all’ordine della quantità. Ora tutto ciò che è divisione, che è complicazione, che è pertanto estensione, distanza, che è azione passiva, che è recezione di stimolo dall’esterno, che essendo sempre quantitativa è legata all’accidens quantitatis, è legata all’ordine della quantità, rimane fuori, e non ha ragione di essere nell’ordine delle sostanze nel quale non esistono più né distanze né passività rispetto a tutte quelle azioni che hanno come elemento di contatto e di trasmissione esclusivamente l’accidens quantitatis. È stata operata questa divisione, questa distinzione. Gli accidenti del pane e del vino rimangono. Perché rimangono? Per rendere un servizio. Che cos’è che rende presente questa tavola qui? Non è la sostanza della tavola: sarebbe indifferente allo spazio; è semplicemente l’accidente di quantità, l’estensione che lo rende presente qui, per cui, avendo una quantità, una estensione commensurabile, ha l’estensione del corpo ambiente. Se Gesù Cristo fosse presente qui mediante gli accidenti della sua Persona, potrebbe essere presente in un posto solo perché li esaurirebbe; invece anche quelli sono presenti secondo il modo proprio delle sostanze e non secondo il modo proprio della quantità. – Gli accidenti del pane e del vino, sostenuti direttamente da Dio e non più sostenuti dalla propria rispettiva sostanza, che non è rimasta perché è trasmutata, è transustanziata, fanno a Gesù Cristo il servizio che rendevano alla rispettiva sostanza del pane e del vino. Perché noi siamo presenti in ragione dei mezzi di congiunzione. Se moltiplichiamo i mezzi di congiunzione, noi moltiplichiamo le presenze. Con ogni consacrazione, con questa transustanziazione si offre a Gesù Cristo un altro complesso di accidenti che lo rendono presente, senza moltiplicare Lui. Ed è per questo che si può spezzare l’Ostia, ma non si spezza Gesù Cristo; si spezzano le apparenze, gli accidenti, la quantità sopravvissuta del pane e del vino. – Anticamente per far passare indenne, nella prima Pasqua, il popolo dall’Egitto alla penisola del Sinai, di fronte alla persecuzione del Faraone, Dio aveva separato il mare. Non si tratta di marea alta o bassa, no, no; ha separato il mare! Ma nell’Eucaristia Dio ha fatto una cosa immensamente più grande e stupenda, unica nel mondo: ha separato l’ordine della sostanza dall’ordine degli accidenti. E ogni contraddizione cade; rimane sempre il mistero positivo in sé stesso, ma ogni ombra che poteva essere negativa cade. Ora quello su cui io attiro la vostra attenzione non è il fatto della spiegazione in sé stessa; è farvi ammirare questa specie di « passaggio del Mar Rosso », questa separazione, che è una rivelazione simbolica di una potenza epica, a considerarla bene. Pensate che, tra l’altro, a questo modo è mantenuto l’equilibrio cosmico. Noi oggi siamo in grado di porre questo problema, allora no. Perché se ci fosse una diminuzione di quantità nel nostro cosmo, avremmo necessariamente, per azione e reazione, un contraccolpo che non si sarebbe mai più esaurito, e il mondo sarebbe diverso da quello che è per il principio fisico dell’azione e della reazione. Invece, rimanendo immutato l’ordine della quantità, per quante consacrazioni si facciano, ed essendo libera la reale presenza di Gesù Cristo per la appartenenza di tale presenza all’ordine della sostanza, non è affatto violato nulla dell’ordine cosmico nostro che è essenzialmente quantitativo. È grande. Guardate quali indicazioni divine arrivano per porre quella reale presenza al centro della vita degli uomini. – Però bisogna domandarsi dell’altro, sempre dinanzi a questa reale presenza. Perché Gesù Cristo ha voluto la presenza reale, cioè fisica, in modo da esserci Lui qui? Lui non lo vediamo, certo, ma è qui in mezzo a noi. A pensarci bene, mancherebbe il coraggio di continuare a parlare. Perché ha voluto questa presenza, identica nella sostanza a quella che fu nel suo pellegrinaggio terreno? Ci deve essere una ragione; vuol dire che tutto l’ordine fisico, tutto l’ordine materiale, tutto l’ordine esterno deve ruotare intorno a Lui. Perché, se è rimasto qui anche realmente, che vuol dire fisicamente, in tale stupendo e portentoso modo, vuol dire che Egli domanda che tutta questa vita materiale, tutta questa esuberanza di forze materiali, tutto questo ordine materiale lo si deve portare intorno a lui. Per darci quello che Egli ci dà attraverso l’Eucaristia non sarebbe stato assolutamente necessario che usasse dell’Eucaristia. Dire che ha fatto questo per darci una prova d’amore non è tutto, non appare ragione ancora completamente adeguata, tale da escluderne altre. Certo che l’ha fatto per amore, tutto ha fatto per amore. Quale altro motivo c’è stato da parte di Dio nel crearci, nel redimerci, nel santificarci, nel farci partecipare un giorno della sua stessa eterna e increata felicità? Ma l’amore non appare motivo adeguato per spiegare quel determinato modo. Allora vuol dire che Lui rimane per essere coi fedeli come era con gli Apostoli. Vuol dire che Lui rimane perché continui « l a famiglia dei fedeli », esattamente come nel suo pellegrinaggio terreno era continuata la comunità di vita tra Lui e i suoi Apostoli e, fino a un certo punto, anche coi discepoli. Voi capite allora come abbiamo ben motivo di riservare alle manifestazioni eucaristiche lo splendore del fasto, della socialità, della folla, della maestà, dell’arte, di tutto. È Lui che lo vuole. E allora voi capite come il fatto della presenza continuata sua è un richiamo continuo alla realizzazione della famiglia cristiana, cioè della carità tra i fedeli, dell’unità fra di loro, di quella unità fra di loro per cui si debbono voler bene, per cui gli uni debbono pensare agli altri, per cui i mali di ognuno debbono essere i mali di tutti, per cui i bisogni di uno debbono essere sentiti come i bisogni di tutti, per cui ci deve essere intima comunione nella vita e nel servizio. – Questa è la ragione per cui se le nostre parrocchie, le nostre comunità non diventano accese di carità, fondate nella carità, impastate di carità, non sono né comunità né parrocchie; sono simulacri giuridici, accozzaglie economiche, ma non sono cellule della famiglia di N. S. Gesù Cristo. Per questo motivo Gesù ha detto : « Se stai per venire a fare la tua offerta davanti all’altare e ti ricordi che il fratello tuo ha qualche cosa contro di te, pianta lì la tua offerta… piantala!, va’ prima a riconciliarti col tuo fratello e poi, ritornando, farai la tua offerta ». Ci ha detto chiaro che delle nostre funzioni, fino a un certo punto, non sa che farsene, se andiamo in chiesa con l’anima ingombrata dalla malizia, dalla complicazione, dall’ acredine, dal dispetto verso i fratelli, dall’invidia, dalla gelosia, dall’ipocrisia malevola verso di loro. Questo dice la reale presenza. Miei cari, ora voi capite che l’invito a fare della divina Eucaristia il centro della vita è chiaro, è patente, con indicazioni anche pratiche, estremamente precise, che arrivano anche al dettaglio. Vi prego di riflettere molto a questo. E cercate di farlo sentire quanto potete a coloro che potrete avvicinare. Perché molti di noi stanno commettendo verso N. S. Gesù Cristo un grande oltraggio, dimenticandosi che vi è Lui. Si ha proprio l’impressione che molta gente non se ne accorga neppure che c’è Lui. Voi ve ne accorgerete sempre.

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi spirituali (9)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (9)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

9. Il Regno di Dio

Alla “conversatio in cœlis” certo deve concorrere la nostra fede, la nostra convinzione, la nostra preghiera e, soprattutto, la grazia divina; ma anche la considerazione delle cose grandi. Perciò vi invito a fare alcune considerazioni sul Regno di Dio. Voi sapete che N. S. Gesù Cristo ha fatto del Regno l’argomento fondamentale delle sue parabole, argomento al quale si è richiamato sempre. Nel solo Vangelo di Matteo 42 volte si parla del Regno. Ora questo dice che l’argomento del Regno ricapitola tutto il pensiero di N. S. Gesù Cristo. Voi sapete bene che cos’è il Regno di Dio. Il Regno di Dio è quella grande famiglia della quale Gesù Cristo è il capo. Egli sta all’insieme del Regno come la vite sta ai suoi tralci. C’è un qualche cosa di profondo, di intimo, di fecondo, di vitale, di soprannaturale che compagina questo Regno; è la linfa che corre dalla vite ai tralci, sicché i tralci vivono della vite, e la vite è Gesù Cristo. Questo Regno, questa coadunazione di uomini, questa famiglia che chiama Iddio Padre e che è chiamata oggi a partecipare e a vivere della stessa vita divina e domani a entrare nella stessa gloria del Padre; questa famiglia, questa realtà si articola in tre momenti: il primo momento è quello terreno; il secondo è quello escatologico; il terzo è quello eterno. Si tratta sempre della stessa cosa che percorre la sua scalata verso il cielo. Nel primo momento, il Regno di Dio combacia esattamente con la Chiesa: qui in terra il Regno di Dio è la Chiesa. Il secondo momento è quello escatologico: è di breve durata. È il momento in cui si dipana definitivamente, si chiarisce, si consolida per sempre la storia umana in quello che ha dato, nei suoi risultati. Il terzo momento è quello eterno, ed è il cielo, la Gerusalemme trionfante, fatta di tutti i giusti che con Dio Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, regnano pertutti i secoli dei secoli. È soltanto la Chiesa, famiglia, unità, istituzione che, senza rompersi, senza sgualcirsi, passa dalle cose umane nelle eterne. Nessun’altra comunità entra in Cielo, come tale. Le città, i popoli, le nazioni, le coordinazioni di uomini non entrano in Cielo, come tali; là, perennandosi nella famiglia di Dio, entra solamente la Chiesa di Dio: Una, Santa, Cattolica e Apostolica; sicché, se guardiamo al momento terreno del Regno di Dio, il Regno di Dio è la Chiesa. Questa precisazione fatta, possiamo continuare a chiamarla Regno di Dio: è più solenne, è più comprensivo, è più fortemente indicativo, e soprattutto risponde meglio all’ appello di grandezza. – Voi sapete che Dio per la salvezza degli uomini ha disposto un binario di scambio di estrema importanza. Non è una linea a un binario solo; è a doppio binario. E pertanto l’appartenenza al Regno può avvenire in due modi: l’appartenenza al corpo della Chiesa e l’appartenenza all’anima della Chiesa. Molti appartengono al corpo della Chiesa, visibilmente, perché sono battezzati e battezzati nella vera Chiesa. Altri non appartengono affatto al corpo della Chiesa, ma possono avere stabilito direttamente tali rapporti di fede e di grazia con Gesù Cristo, per misteriose vie che sono per lo più a noi sconosciute, che, pur senza figurare nei registri delle parrocchie, pur senza essere computabili nelle ordinarie statistiche, appartengono all’anima della Chiesa; sono anche questi sudditi del Romano Pontefice. Sono famiglia di Dio anche questi, ed è per tale modo che, mentre noi possiamo dire che un certo numero di Cristiani battezzati e Cattolici all’anima della Chiesa debbono appartenere piuttosto poco, se pure vi appartengono, possiamo credere che un numero infinito di altri, che non sono nei registri e non figurano nelle statistiche, di fatto, per l’appartenenza all’anima della Chiesa, sono membri della Chiesa e pertanto entrano nel numero dei redenti. È per questo che il Regno spirituale del Romano Pontefice non è grande soltanto quanto dicono le statistiche: la sua larghezza è molto maggiore. Il Regno di Dio in terra è la Chiesa. La Chiesa ha avuto da Gesù Cristo, come è detto nel Vangelo, una costituzione sociale, perché Gesù Cristo le ha dato tutti gli elementi della società, le ha dato una coadunazione di uomini, che è il primo elemento di una società; le ha dato la comunità dei mezzi, e i mezzi sono quelli che ben conoscete, dalla S. Messa ai Sacramenti, al Magistero, alla Parola di Dio, ecc.; ha dato un fine comune a questa coadunazione di uomini, ed è la vita eterna; le ha dato un’autorità comune che è costituita dal collegio apostolico con a capo Pietro. Pertanto ha costituito una società vera, perfetta, perché ha in sé stessa tutte le capacità di rispondere al proprio fine senza mutuarlo da nessun altro e ha in sé stessa la ragione giuridica, essendo anche corpo vivente in terra e pertanto bisognoso di cose materiali, per esigere dal mondo, dalla terra, quello che occorre alla sua strada e all’ espletamento della sua missione. È società gerarchica, perché in questa società c’è chi guida e chi deve essere guidato; c’è una Chiesa docente e c’è una Chiesa discente. Non si trovano tutti, quanto alla costituzione giuridica, sullo stesso piano, per quanto nella costituzione morale, dovuta alla paternità di Dio, nella costituzione che rappresenta la possibilità di avanzamento nella santità e pertanto al Regno eterno, tutti gli uomini, pur con diverse responsabilità, si trovano uguali dinanzi a Dio. Guardiamo un po’ a questo Regno di Dio. Ho dovuto ora riassumere queste diverse schematiche note teologiche perché l’argomento ci fosse ben chiaro nei suoi termini. Ora dobbiamo considerarlo un po’ dall’alto. Anzitutto vediamo questo Regno di Dio in terra; per il momento ci fermiamo alla terra e non parliamo né del momento escatologico né del momento trionfante. Esso ha due elementi: umano e divino. Si trova in perfetta simmetria con Gesù Cristo che ha la natura umana e la natura divina; mantiene il ritmo del binomio. Ma è proprio la contemplazione di questo umano e divino che è ragione di profondo stupore. Lasciamo ora di studiare taluni rapporti fra l’umano e il divino nella Chiesa, perché questo studio potrebbe portarci lontano, se li volessimo esaurire tutti. Ne prendo uno solo: sono reciprocamente uniti e reciprocamente indipendenti. L’elemento divino, nel Regno di Dio, non ha mai schiacciato e annichilito nulla dell’elemento umano. Non ha obbligato uno a essere santo se non lo voleva; neppure i Papi, anzi, se l’hanno voluto, hanno potuto peccare anch’essi. L’elemento divino non ha schiacciato mai nulla, non ha chiesto mai che fosse annullata una prerogativa dell’uomo, mai. Ha chiesto obbedienza, ma non ha mai limitato, ontologicamente e moralmente parlando, l’uomo. – L’elemento umano c’è, ci può essere in tutte le sue forme, in tutta la sua svariata gamma, ma non ha mai violentato o diminuito e non potrà mai violentare o diminuire l’elemento divino. Non sarà mai, per esempio, che questo elemento umano faccia cadere l’efficacia della S. Messa. Voi sapete che è di fede che i sacramenti sono indipendenti dalla fede e dalla probità del ministro. La Messa è valida anche se è un eretico che la celebra. Ci possono essere tutte le colpe che si vuole; ma l’infallibità e l’indefettibilità della Chiesa rimangono ugualmente. Essa continua a essere una, santa, cattolica e apostolica. Questa è la cosa strana: che l’elemento umano e l’elemento divino, pur essendo uniti nella stessa persona, nella stessa istituzione, nella stessa vicenda, non sono reciprocamente obbliganti, non si elidono mai a vicenda. A vicenda mai si costringono a rinunciare a qualche cosa. Rimangono. È proprio questo fatto parallelo che si verifica nella vita del Regno di Dio che ci fa scoprire una stupenda verità: l’elemento umano può andare come vuole, può andare male, malissimo, arcimale. Può andare male perché molti preti possono diventare dei farabutti; può andare male perché molti Vescovi possono diventare degli sciocchi; può andare male come volete. Ma l’elemento divino rimane: la divina fecondità rimane; i Sacramenti continuano a operare; il S. Sacrifìcio continua a operare; il deposito della fede non si tocca; la indefettibilità della Chiesa e le sue strutture organiche sono perenni: rimangono come Cristo le ha costituite divinamente, le ha garantite, le ha volute e le ha assicurate. Così il Regno di Dio si può prendere la libertà di correre dei pericoli mortali proprio per questo: perché le disavventure dell’elemento umano non peseranno mai sull’elemento divino. È l’unica istituzione in terra che si può permettere delle avventure mortali. Quante ne ha passate la Chiesa! Se qualunque altra umana istituzione avesse passato le avventure che ha passato la Chiesa Cattolica, sarebbe già stritolata, avrebbe avuto vita breve. Se noi pensiamo, per es., a quello che è stato incombente sulla Chiesa nei primi due secoli, cioè il pericolo della Gnosi: era una cosa da impazzire. Il pericolo della Gnosi è stato un pericolo che forse sfugge a molti che non lo considerano; ma se lo si va a studiare bene nella sua essenza, nella sua caratura e nei suoi limiti, veramente fa venir freddo. Bene, la Chiesa se l’è portata tranquillamente, mentre pigliava botte da orbi con le persecuzioni. Le cose umane possono andare malissimo anche sotto un altro punto di vista: come fortuna umana. Si può vedere crollare tutto, come fortuna umana. Può crollare anche tutto. Ma la Chiesa non si tocca, il Regno di Dio rimane. Osservate. Quando si sta consumando lo Scisma d’Oriente, si sta aprendo la via ai popoli barbari che s’addensano al nord dell’Europa e che proprio in questo momento entrano nella Chiesa: dai Sassoni ai Frisoni. In questo momento si stacca il ramo secco, proprio per mantenere l’indefettibilità, e un altro ramo fiorisce. Quando Dio permette, proprio per la libertà di agire che lascia alla storia degli uomini, l’eresia di Lutero, si scopre l’America e si converte l’America. È un continente che entra nella Chiesa. Dio ha creato sempre questi divini compensi. Ma quello che è certo è che l’elemento umano — non dico che faccia bene — può permettersi il lusso di andare male quanto vuole. Per quella reciproca indipendenza tra l’elemento umano e l’elemento divino, l’elemento umano non scalfisce quello divino, l’elemento divino non scalfisce quello umano. La presenza della divina natura nella Persona divina di Gesù Cristo non ha tolto alla natura umana le cosiddette passioni comuni. Cristo ha avuto le cosiddette passioni comuni: lo sdegno, l’impressione, il sentimento. Non ha avuto quelle morali, è chiaro! Non ha avuto il fomite della concupiscenza, la tentazione interna verso qualunque colpa: sarebbe stato incongruente con la sua natura di Figlio di Dio, di Dio. Ma le passioni comuni, quelle legate con lo stato della natura umana e che in se stesse non sono peccato, Gesù le ha avute. Questo lo si studia nella Cristologia. L’elemento divino in Gesù Cristo non ha coartato la integrità completa della sua umanità. Sicché Gesù Cristo, salvo quello che è del peccato, antecedente e conseguente al peccato, ha avuto la psicologia degli uomini. E viceversa nell’elemento divino: l’elemento umano in Lui, così come è congegnata l’unione ipostatica, non ha mai gettato nulla sulla divinità. Il rapporto tra causa ed effetto, tra l’ordine potenziale e l’ordine dell’Atto puro non è stato mai violato, ma si è sempre mantenuto in quella orbita di causalità propria di quando agisce l’Atto puro, la divina Persona. E questo è pure un aspetto mirabile della vita della Chiesa. – Ora ne vediamo un altro. Il Regno di Dio appare anche storicamente ormai; e duemila anni sono sufficienti per trarre delle conclusioni anche sul terreno puramente storico. È logico che sia così. Perché non è a credersi che il Verbo si sia incarnato e sia venuto in questo mondo per fare una passeggiatina rimanendo in incognito. No, no. Egli è sempre il Padrone. È venuto in terra sotto le spoglie del povero servo; ha fatto l’operaio, ha fatto lavoro manuale per la maggior parte della sua vita; è stato nascosto; si è accomunato alla grande massa di tutti gli uomini. È uscito dall’ombra soltanto per pochissimo tempo, per rimanere la quasi totalità della sua vita insieme coi più che sono ignorati e sperduti nella grande massa, nel pellegrinaggio terreno. Ma Gesù Cristo, che si è diportato così, ha scandito la storia. Doveva essere così. Alla distanza di duemila anni vediamo che è così. C’è un fatto che risalta immediatamente, ed è la grande sintesi della storia. Fino a Gesù Cristo tutte le civiltà rimangono chiuse in cerchi; sono a un certo momento statiche e impenetrabili. Statiche: arrivano a un certo punto e non si muovono più. Sedute lì, pacificamente. Tra la Costituzione Cinese anteriore alla guerra dei Boxers alla fine dell’800, e cioè tra la vita cinese della fine dell’800 e quella dei tempi di Confucio — bisogna riandare a quasi 3000 anni prima — non c’è diversità. La Cina ha fatto il suo balzo; poi si è seduta ed è rimasta lì. Così gli altri: staticità e impermeabilità. Le culture non hanno avuto passaggio, l’una con le altre, un passaggio apprezzabile che abbia cambiato, sommato i valori di civiltà. Sono passate le nozioni religiose, sì; ma non si sono sommati dei valori di civiltà. Così il buddismo dall’India, sua patria, è passato nella Cina, assumendovi però fisionomia completamente diversa. Ma la civiltà indiana non si è mai sommata con quella cinese.  Nell’India stessa noi abbiamo i resti ancora apprezzabili di quello che è rimasto di sette civiltà, una dopo l’altra, che si sono distrutte l’una con l’altra. Staticità e impermeabilità. Questo fenomeno, badate bene, è comune prima di Gesù Cristo, e rimane tale fino al ‘900, al nostro secolo, al di fuori dell’area cristiana. – Molti popoli sono rimasti fuori della Chiesa. Perché? Non lo so. Ma badate che questi duemila anni hanno dato tempo, nell’area cristiana, di aprire dei cerchi chiusi: civiltà greca e civiltà romana si sono sommate. Tutt’e due hanno fallito, civilmente. La Chiesa le ha ereditate, ed è per questo che non sono state condannate alla staticità e neppure alla impermeabilità. Allora le culture sono passate l’una nell’altra, si sono sommate. Questi duemila anni hanno dato tempo a questa area cristiana, dove non c’è stata né staticità né impermeabilità, di arrivare a una tale quota da poter comunicare, per dinamismo e osmosi, con le altre culture. Tanto perché nella storia fosse chiaro che, a cambiare i destini sui quali si era arenata e ormai ben distribuita l’umanità, è stato Gesù Cristo. I duemila anni fatti attendere agli altri hanno probabilmente questo significato: di mettere bene in chiaro che da soli non si sarebbero mai smossi, che da sé si è mossa soltanto 1’area cristiana, bene o male unita che fosse, che hanno avuto lo stimolo a uscire dalla staticità e dalla impermeabilità da Gesù Cristo. Ci sono voluti duemila anni. E perché questa non potrebbe essere la ragione per cui Dio li ha aspettati? Molte anime, per via della dottrina dell’anima della Chiesa, possono essere andate in Paradiso lo stesso. È così questo Regno che appare per prendere le redini della storia. Ricordatevi che il vecchio Simeone, quando ebbe dallo Spirito Santo, nel Tempio, la rivelazione che là c’era il Messia che era venuto, che era il Bambino in braccio a quella Donna, l’ha preso, l’ha stretto nelle sue braccia e ha cantato il suo « Nunc dimittis servum tuum, Domine ». Ha visto. Del resto, lo Spirito Santo gli aveva già fatto intendere che non sarebbe morto « nisi videret Christum Dominum ». Ma allora ha detto chiaramente : « Questo è posto in rovina e in risurrezione di molti ». La pietra — discorso che Gesù avrebbe ripreso più tardi per S. Pietro —, la pietra d’angolo sulla quale o si edifica o ci si spacca la testa, è la discriminante della storia. Questo vuol dire che lo stato maggiore è presieduto da Dio. L’analisi storica lo rivela. Osservate bene. Prendiamo un avvenimento soltanto, qualche fatto a titolo di esempio. Viene Lutero. Lutero viene in pieno Rinascimento, in un periodo nel quale la stessa Curia Romana si era preoccupata forse più delle arti e delle lettere, del teatro e della commedia, che non del Regno di Dio, dell’evangelizzazione e della riforma di quelle parti della Chiesa che si rivelavano bacate. Pertanto quando salta fuori Lutero e provoca la immane catastrofe, l’anemia di quest’aspetto umano della Chiesa aveva raggiunto una situazione preoccupante. Bene. Che cosa accade in quel momento? Negli anni in cui sta maturando questo evento, nasce — in modo che sono già quasi tutti a questo mondo quando Lutero comincia —, nasce un manipolo di uomini, in Italia e in Spagna soprattutto, qualcuno ma pochi in Germania, un manipolo di uomini che nel XVI secolo avrebbero lavorato come se da alcuni secoli fossero stati a tavolino a fare un piano preciso, distribuendosi le parti con perfetta efficacia. Nessuno in Curia Romana ha fatto il piano di tutto questo: lo rileviamo dopo secoli; il piano l’ha fatto Iddio. Tutta una serie di uomini, straordinari, cesellati, di una imponenza e di una capacità della quale i secoli anteriori, i vari secoli anteriori, non avevano mai avuto l’idea; e di alcuni si può dire che mai si era avuto nella storia antecedente della Chiesa un campione del genere. Tutti hanno la loro parte. Alcuni tra questi si conoscono, ma non hanno la minima idea di quel che siano le rispettive azioni complementari. Un piccolo uomo, che ha parlato molto senza essere loquace mai, viene dalla Spagna. Dio lo ferma mentre sta facendo il soldato e sta menando con la spada a destra e a sinistra. Sotto le mura di Pamplona gli rompono una gamba, e da quest’uomo Dio cava fuori S. Ignazio, uno dei più grandi strateghi che abbia avuto il genere umano. C è da fare il Concilio di Trento. Era già preparato l’uomo del Concilio di Trento. Quest’uomo in gioventù era stato un libertino. Era un Farnese. Era diventato, per circostanze chissà come, un prelato della Curia Romana e anche Cardinale. Prima di arrivare a quel punto aveva messo giudizio e molto giudizio, mantenendo sempre la figura morale dell’uomo erculeo (basta vedere i ritratti!) che era stato da giovane. Quest’uomo, che da giovane era stato un mezzo libertino, e forse più che mezzo, quando si tratta di aprire il Concilio di Trento ecco, salta fuori: è stato l’uomo della Riforma Tridentina. Nessuno l’avrebbe mai pensato: Paolo III. Quando c’è bisogno di completare il Concilio di Trento — perché l’opera si inserisse in quella di tutti gli altri — ecco che salta fuori un uomo. Egli ha solo 23 anni; per ragioni di famiglia (nipote di un papa) a 22 anni è stato fatto cardinale diacono dei Santi Vito e Modesto. Si chiama Carlo Borromeo. Questo giovanotto di 23 anni prende per il collo il Concilio di Trento e lo fa andare avanti, lo fa concludere. E stabilisce su tutta la linea la Controriforma Cattolica. L’Europa sarebbe crollata tutta, se non ci fosse stata quella Controriforma. Vi sono dei particolari in questo secolo che sono ignoti a molti. Io non so quanti in Italia sappiano che la Costituzione degli studi moderni dipende tutta dalla « Ratio studiorum » fatta da S. Ignazio per il Collegio Romano. Il punto in cui si è passati da una disorganizzazione degli studi per cui, diremmo noi, dal livello elementare si andava alla cosiddetta Università; il punto in cui si è passati da quello alla costituzione organica, metodica, graduale degli studi, compaginati nelle loro linee essenziali, è la Ratio studiorum di S. Ignazio. E tutto il mondo ancora oggi cammina sulla Ratio studiorum. Non lo sanno, oppure non lo dicono, per rispetto umano. Ma è stato uno dei fatti più grandi che si siano verificati nella storia della cultura. Umanamente parlando, la Chiesa si presenta alla catastrofe di Lutero in stato di gravissima anemia. Immaginate la Spagna dilapidata dalla guerra contro i Mori e la Spagna sotto il regno di Ferdinando di Aragona e di Isabella di Castiglia. Non parliamo poi della loro figlia che è diventata matta e del genero Filippo che matto non lo è stato, ma…. E non parliamo del resto. La Francia. La Francia di quel momento, che ha ancora i brividi seguenti al regno di Luigi XI e al regno troppo avventuroso e troppo breve e inconcludente di Carlo VIII, e poi ancora sotto gli effetti della Prammatica Sanzione. Non parliamo dell’Inghilterra che si trova in uno stato tale che basta il vaneggiamento di un Enrico VIII per farla crollare. La Chiesa si presenta alla catastrofe in questo stato; e improvvisamente la terra dà fuori questi atleti che si distribuiscono i compiti secondo un piano che oggi balza evidente nella chiarezza storica, e appare perfettamente complementare e perfettamente completo. Si blocca, si ferma, si riprende; il mondo va avanti. La Controriforma Cattolica, si dice, ha lasciato meno sviluppo tecnico di qua, più sviluppo tecnico di là. Non è stata la Controriforma Cattolica; è stato il fatto che, con la scoperta dell’America, la testa di ponte dei commerci, e pertanto delle industrie, si è spostata nei Paesi Bassi, mentre il turco ha chiuso sempre più il commercio con l’Oriente e l’Italia è diventata una povera regione e non più un ponte di passaggio come in passato. E così la storia cammina. Sempre così. Pensate. Se si fa la storia comparata dei Santuari Mariani, si vede questo: una buona parte di essi — lasciamo da parte Lourdes; è un altro ciclo — appartengono al ‘500, sono di poco anteriori alla Riforma protestante o di poco posteriori. Tutti i grandi santuari. E se si guardano bene, seguono una linea, una linea di difesa. Un generale ha detto: il nemico si muoverà qui; allora bisogna chiudergli il varco qui. Chi guarda sulla carta geografica la disposizione dei Santuari italiani, svizzeri e austriaci, per arrivare fino a Czestochowa in Polonia, ha l’impressione di una linea fatta da un generale: l’ha fatta la Beata Vergine Maria apparendo e facendo tutte quelle altre cose che è solita fare quando si interessa degli affari di questo mondo. Non l’ha fatta mica la Congregazione dei Vescovi o dei Religiosi, no; e nemmeno la Segreteria di Stato: l’ha fatta la Beata Vergine Maria. Noi, a distanza di secoli, diciamo: guarda un po’ eh!, non ci si sarebbe pensato, ma è così. Con le apparizioni di Francia nel secolo scorso, certe, documentate, accolte dalla Chiesa: Lourdes, La Salette, ecc. è cominciato un altro ciclo, che ha un’altra logica di cui forse si comincia a vedere quale sia il filone considerando bene l’apparizione di Fatima; non sappiamo ancora bene dove vada a finire, ma ci sarà un altro piano strategico che non è stato fatto, neppure questo, in Curia Romana. Il piano strategico del suo Regno, lo fa Iddio. È stupenda la storia! Vediamo ancora un punto. In questo Regno, le epoche della maggiore fecondità sono sempre collegate con le epoche delle più grandi persecuzioni. È sempre così. Io sono dovuto andare alcuni anni fa in Spagna come Legato Pontificio. Appena arrivato, ho avuto subito una sensazione strana, profonda, mai avuta, che mi si andava ingigantendo, che non riuscivo a decifrare e mi ha accompagnato durante tutto il periodo della mia Legazione in Spagna. Ho visto tanta gente, dal più grande al più piccolo, e non riuscivo a capire che cosa fosse quella sensazione stranissima, singolare, potente che mi piegava. L’ho capita il penultimo giorno in cui mi sono fermato. Per ragioni del mio ufficio venni portato al Santuario di Montserrat, e mi hanno condotto giù nella cripta dove sono sepolti i monaci della Abbazia di Montserrat trucidati dai russi nell’ultima rivoluzione, guerra e persecuzione. Mi sono commosso in quella cripta, mentre non mi ero commosso su, nella Basilica. E allora ho capito: quella terra aveva la fragranza dei Martiri. Si sentiva. Ho visto delle cose che non potevo paragonare con quello che sapevo della Spagna di prima della rivoluzione. Ho avuto modo di vedere quasi tutti i Vescovi di Spagna, di sentire, di rimanere stupito dell’altezza dell’episcopato spagnolo, e facevo i confronti con la storia di prima. Ho visto, una notte, tra le montagne dei paesi Baschi, una notte del tardo luglio fredda come una nostra notte di febbraio, 6000 persone stare inginocchiate tutta la notte al freddo, senza muoversi, davanti alla Basilica di Loyola, in adorazione del SS. Sacramento. Dico senza muoversi. Io non avevo voluto scendere, perché se fossi sceso avrei costretto i Vescovi a scendere: ce n’erano dei vecchi e allora, per non obbligarli, non ero andato neppure io; ma sono stato da una finestra a fare l’adorazione, almeno quella! Io ero dietro la finestra; ma loro non si sono mossi, erano laggiù, all’algido, non so come abbiano fatto. Io ero stralunato al mattino. Un’altra notte, mentre il treno che portava il Legato Pontificio attraversava i paesi Baschi, venendo giù verso la Navarra, poi verso l’Aragona, ho veduto gente che si muoveva, villaggi interi che venivano per inginocchiarsi dove passava il treno del Legato del Papa. C’era tutta Pamplona ad attendere quel treno. – Quello che ho visto, che ho sentito, raccolto, mi ha fatto capire che c’era un’enorme vitalità: il frutto della persecuzione. Pensate che soltanto a Madrid, quelli là ne hanno ammazzati 57 mila. Il martirologio della sola Diocesi di Barcellona! Però si sente una freschezza nuova, perché oggi la produzione cattolica di Spagna, non dico del tutto come qualità — su questo non potrei e non vorrei pronunciare un giudizio — ma come quantità, oggi probabilmente raggiunge quella di Francia. Pochi mesi fa a me sono arrivati 360 nuovi volumi. Il penultimo giorno io ho capito quella cosa che non ero riuscito a decifrare prima. La Chiesa del Messico oggi va avanti trionfalmente, marcia trionfalmente! Quando ero studente alla Gregoriana, avevo dei compagni messicani, sugli stessi banchi. Me li ricordo: alcuni ebbero i loro parenti perseguitati, uccisi, sgozzati dalla persecuzione di Calles. Quanti martiri anche là. Ma oggi il Messico non trema. Cammina. Potrebbe anche darsi che entro pochi anni si possa arrivare al Concordato. Sanguis martyrum, semen christianorum: questo è sempre vero, potentemente vero. Osservate: la Chiesa ha avuto una fioritura tale di Congregazioni religiose protese verso l’apostolato, al di fuori delle mura claustrali, proprio come un’ondata: è stata una valanga, nel secolo scorso. In grande parte sono fondazioni che stanno tra il 1825 e il 1900. Una vera valanga. Si tratta sempre di fondatori che hanno cominciato ad agire o sono nati al tempo della Rivoluzione francese. Mentre in Francia i rivoluzionari uccidevano senza pietà; mentre certi pavidi e stupidi preti, tipo l’abate Grégoire (e che Dio li perdoni!) stavano a cercare tanti compromessi per tenere un piede di qua e un piede di là, Dio ha fatto spuntare qua un fantolino, là una fantolina. Chi erano? Dopo un po’ di decenni, ti hanno riempito il mondo. Una valanga, capite? Oggi le congregazioni religiose femminili nella Chiesa sono qualcosa come 2300, soltanto quelle di diritto pontificio; la maggior parte di queste sono nate e cresciute nel secolo scorso, sotto la Rivoluzione francese, oppure i loro fondatori sono nati al tempo della Rivoluzione francese. Ed è sempre così. – Ora concludiamo. Perché vi ho detto tutto questo? Potrebbe sembrare che stasera io non abbia fatto una predica da Esercizi ma una divagazione storica. E forse che la storia non ha diritto di entrare negli Esercizi? Il Regno di Dio, cari, porta con sé il tesoro in mano, ma esso stesso porta i lineamenti del suggello di Dio. Questo dominio sulla storia, sul male, sul fallimento umano! Questo Regno di Dio può prendersi la divina avventura, la divina audacia di fare come Gesù Cristo, che ha vinto mentre falliva, perché condannato, in Croce, abbandonato da tutti. Gli è rimasta sua Madre, Giovanni e qualche donnetta, un po’ più a longe! Tutti spariti. Il fallimento umano, vero? Il mondo è stato salvato in quel momento. Il ritmo si ripete. Quando arriva un venerdì santo, è il momento in cui si ha qualche nuova ondata, incredibile ondata della vitalità della Chiesa. Perché ho fatto questa meditazione? Perché questa meditazione è il fondamento dell’apostolato. Perché l’anima deve essere rinfrancata. Non si può entrare nell’apostolato con l’aria del mendicante che chiede a questo mondo, così ammalato e così stupido, di tollerarlo. No, no. Si entra come l’Araldo del Gran Re. Si entra sapendo che, anche se non ci sono i picchetti armati a fare la scorta, ci sono i destini degli uomini. La storia è ormai abbastanza provveduta per saper dimostrare che, se si scontra col Regno di Dio, qualcosa muore. Anche l’Impero di Bisanzio si è scontrato col Regno di Dio, ed è finito, e si è lasciato insaccare da una mandria di gente ignorante e molle. Perché i turchi non erano gli arabi, i turchi di allora! Si è messo contro il Regno di Dio: è scomparso. Alcuni salvataggi fatti in extremis, ed è scomparso. È vero che i grandi politici della storia sbagliano, se non sanno la teologia. Perché, se nelle loro linee direttive mettono qualche cosa che andrà a finire contro il Regno di Dio, è certo che sbaglieranno. Ricordatevi: Bismarck ha perseguitato la Chiesa, ha fatto la Kulturkampf. Ha messo in prigione Clemente Augusto von Galen, l’Arcivescovo di Mùnster, e ha messo in prigione Ledokowski, l’Arcivescovo Primate della Polonia tedesca di Gnesna e Poznan, colui che fu poi il Card. Ledokowski, il famoso Prefetto di Propaganda Fide. Ha perseguitato perché ha voluto fare del prussianesimo protestante l’anima della Germania; e su questo concetto ha creato l’Impero e ha fatto di Guglielmo I l’Imperatore. Quel concetto protestantico si è evoluto, ed è da quella manovra che dipendono tutti i fatti che stanno tra Bismarck e noi. Ora qui non devo parlare di tanti elementi di dettaglio; mi bastano le sintesi. La finale è questa: che la Germania è divisa in due parti. E non si vede, sul piano dei fatti, come e quando la Germania potrà riunirsi. Bismarck fu un grande politico? Già; ma ha commesso lo sbaglio di voler edificare una Germania su un principio anticattolico. Dio è sovrano anche della storia. Il suo Regno è diventato l’anima del mondo. Non dimenticatelo mai, mai! Non è la persecuzione che può tirar giù, non è la povertà, non è la miseria, non è l’apparente fallimento, perché tutte queste cose serviranno, se mai, a farci rassomigliare a Gesù Cristo in croce. E quando si va in croce, le cose si salvano: è l’ondata della Redenzione, la nuova grande ondata della Redenzione. E per questo mai timore, mai senso di inferiorità, mai paura, mai esitazione, ma il coraggio di chi sa di essere con Dio e per Iddio e in Dio, sempre.

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi spirituali (8)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (8)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

8. Il tesoro nascosto

Vi invito a meditare con me una parabola: la parabola del tesoro nascosto nel campo. La narra S. Matteo, cap. XIII, 44. È brevissima: « Il regno di Dio è simile a un tesoro nascosto in un campo che un uomo, trovatolo, nascose, andò e vendette quanto aveva, venne e comprò il campo ». È tutta qui. È interessante il particolare che l’uomo, per comprare il tesoro, andò e vendette quanto aveva, cioè vi impegnò tutto. Che cos’è nell’ordine dello spirito il tesoro nascosto nel campo? È tutto l’insieme dei beni portatida Nostro Signore Gesù Cristo agli uomini. Questi beni sono così facilmente occultabili dalla foschia umana che hanno ragione di essere continuamente chiamati tesoro nascosto. Così facilmente occultabili perché rispondono al concetto di libertà che Dio vuole assolutamente rispettare negli uomini e rispondono al concetto di lasciare integra a loro la dignità e il valore della prova. Ci domandiamo: quali sono i beni che ha portato Nostro Signore e che costituiscono il tesoro, il tesoro del regno, il tesoro facilmente occultabile, troppo facilmente occultabile, il tesoro per acquistare il quale vale la pena di dare tutto, lasciare tutto? Non esistono esagerazioni, credetelo, quando si tratta di mettere le mani su questo tesoro. Non ha esagerato S. Antonio Abate quando se ne è andato nel deserto, cominciando così una tradizione anacoretica che avrebbe dato tanto splendore di virtù e tanta capacità di meriti alla Chiesa. Non ha esagerato neppure S. Simone Stilita rimanendo quaranta anni su una colonna, immaginate voi? Non esagerano quei missionari che vanno lontani, che vanno a chiudersi in certi lebbrosari, con la prospettiva fondatissima di finire lebbrosi, di campare lunghi anni lebbrosi, vedendo il proprio corpo cadere lembo a lembo e assistendo in vita al disfacimento di sé stessi. Non esagera nessuno, perché vale la pena di vendere tutto per acquistare il tesoro. Il tesoro è tutto quello che è stato portato con la Redenzione da N. S. Gesù Cristo; quindi anzitutto Lui stesso, il primo grande bene, Lui stesso che, essendo Dio, si è fatto uomo. « Il Verbo si è fatto uomo e abitò fra noi…; noi lo abbiamo veduto come l’Unigenito di Dio, pieno di grazia e di verità ». Questo è il grande tesoro del regno: che l’umanità non sia sola; che abbia acquistato una compagnia divina; che non abbia più a camminare sola fra le sue vie irte di triboli e di spine; vie sassose, vie aride, vie deserte, vie apparentemente senza cielo e senza verzura, ma insieme col Figlio di Dio; che abbia acquistato il Figlio di Dio come suo proprio, perché è diventato uomo. Che sia diventato uomo vuol dire che è divenuto suo proprio. È per questo che due Evangelisti hanno voluto dare la linea genealogica di Gesù Cristo, quasi ad affermare che era figlio dell’uomo, uomo vero anche Lui, nato dalla carne di Adamo, appartenente alla carne di Adamo, membro della famiglia umana, legato dal suo essere umano a tutti i fratelli che prima di Lui e con Lui e dopo di Lui sarebbero comparsi a vivere sulla terra. Il primo tesoro è Gesù Cristo. Ed è, si direbbe, inconcepibile, impensabile, proprio per il fatto che lo possiamo pensare molto meccanicamente tutti i giorni: che l’umanità non sia sola e che abbia come cosa sua propria Dio, come suo membro Dio, come suo compagno di viaggio, in tutto e per tutto, e molto più di tutte le altre cose che sono nel mondo, Iddio stesso. Questo è il principale bene, è il principale tesoro portato da N. S. Gesù Cristo nel mondo. E con questo tutti gli altri. Il sacrificio suo, Sacrificio reso perenne nella S. Messa, tutti i Sacramenti; la capacità data agli uomini di realizzarli e di amministrarli col Sacramento dell’Ordine; la grazia sua, la grazia abituale, la grazia attuale, i doni dello Spirito Santo, le stesse virtù infuse, tutto! E poi il complesso della verità, la parola sua, ciò che Egli ci ha detto aggiungendo una divina certezza e compiendo con questo una liberazione dell’intelletto umano dall’oppressione di quello che così monco poteva cavare dall’esperienza propria e dal mondo che lo circonda, dandogli la liberazione dal dubbio, dalla paura, dalla incombente vendetta degli atti che lo seguono. Voi sapete che tutta l’impostazione spirituale del mondo, prima di Gesù Cristo, là dove ha raggiunto una certa espressione, soprattutto letteraria, ha espresso il concetto della nemesi, della vendetta, vendetta impossibile a sfuggirsi, non possibile a ridursi, vendetta che non si può perdere tra la confusione degli avvenimenti umani, ma che implacabilmente segue tutti gli uomini, addebitando sempre a loro, senza remissione né perdono, il carico del loro peccato. E invece questa divina Parola rivela un mondo nuovo, un ordine nuovo, tutto nuovo. Questo è, così sommariamente, il contenuto della parabola. Ho detto che il contenuto della parabola ora lo dobbiamo guardare sommariamente, perché di talune sue parti avremo da discorrere dopo, particolarmente, proprio perché, per avere una conversatio in cœlis, noi dobbiamo crearci una compagnia di cose grandi nella mente e nella vita. L’insieme della parabola del tesoro che cosa indica? Indica una sua essenza. E l’essenza gloriosa, letificante, rasserenante è questa, che Dio ama gli uomini, che li ama come figli suoi e che per loro è Padre, non limitandosi al concetto di una paternità terrena, ma in modo tale che il concetto della paternità terrena sia soltanto una lontanissima immagine della reale Paternità divina, e che pertanto tutto è concepito nell’amore e per amore. Questa è l’essenza del contenuto della parabola. – E allora, come la parabola indica che Iddio ama gli uomini, indica anche che Dio li vuole sovranamente, supernamente attivi; indica che Iddio, attraverso il tesoro, ha dato a loro infinite possibilità di acquistare un merito soprannaturale, di raggiungere un valore, di venire in possesso di una dignità e di spandere intorno a sé, si direbbe, coi caratteri dell’infinito, una fecondità. Sicché l’uomo trova il tesoro già nel campo, e il tesoro è suo ed è di tutti gli uomini, perché il fatto di trovarlo, di andare, di comperare il campo, lo possono compiere tutti gli uomini. Questo non è un tesoro che sia divisibile, un tesoro che debba essere necessariamente ripartito, talché per il facile computo matematico le parti debbano risultare minori quanto maggiore si fa il numero dei concorrenti. No, questo tesoro rimane integro per tutti gli uomini, perché per tutti gli uomini è morto Gesù Cristo, per tutti e singoli gli uomini si è incarnato tutto Gesù Cristo, per tutti e singoli gli uomini c’è tutta la parola di Dio, c’è tutta la grazia di Dio, ci sono tutti gli strumenti della parola di Dio; ci sono tutti gli strumenti della grazia di Dio; c’è tutta la Provvidenza di Dio: come se ciascun uomo si trovasse solo di fronte a questa infinita donazione; come se gli uomini non fossero folla. Il numero non diminuisce la forza di quello che Egli ha dato, perché Dio è infinito. Ecco l’essenza della parabola del tesoro nascosto nel campo: che gli uomini hanno infinite possibilità e infinite fecondità. C’è da rimanere impressionati di quanto accade da un certo tempo in qua in qualche ordine religioso, per es. nell’Ordine dei Cappuccini. La maggior parte dei santi cappuccini sono fratelli laici. Di quelli che non siano laici ve ne sono due o tre, santi di quest’Ordine, Ordine venerando, Ordine meritevolissimo. I Cappuccini non hanno che 430 anni di vita, in sostanza, perché rappresentano l’ultima delle numerose riforme dell’Ordine Francescano. Ma la maggior parte dei loro santi sono fratelli laici. E ne hanno anche uno, ora, è un genovese, già beato, che sta per arrivare alla canonizzazione. È qui dove noi vediamo la realtà ultima della parabola: che non ci sono limiti, posti dalle umane condizioni, che possano coartare a un uomo, a una donna, di essere grandi davanti a Dio. Se noi crediamo che il concetto della grandezza davanti al Signore, e proprio per questa parola del tesoro nascosto, esiga qualche cosa dell’aggeggio umano, sbagliamo; qualche cosa della proporzione umana, del palcoscenico umano, delle quinte dipinte, dei fuochi artificiali, delle risonanze di gloria, di plauso, di nomea, di storia, noi sbagliamo assolutamente, qualunque possa essere la condizione nostra, qualunque possa essere la sorta di fallimento della nostra vita terrena. Perché ci sono molte esistenze nelle quali il discorso valutativo può essere fatto così: Ma se mi avessero capito; ma se mi avessero fatto; ma se io avessi trovato; ma se io avessi incontrato; ma se io… ! Tutto questo non ha importanza, nessuna importanza. Qualunque cosa possa essere andata fallita, umanamente parlando, nella valutazione, nel raggiungimento, nella esplicazione, tutto è valevole, e tutto davanti a Dio può diventare grande. – Noi vediamo che Iddio si compiace, nella storia dei suoi Santi, di far vedere che spesso lega fatti enormi a povera gente che il mondo quasi non ha veduto. E generalmente il mondo cammina nel senso del bene impiegando i meriti di anime che sono vittime, che sono bruciate dall’amore di Dio, senza che gli altri se ne siano neppure accorti. Non c’è nessuna condizione umana che ci possa impedire, nel senso che, se non si verifica, noi non possiamo essere grandi davanti a Dio, per cui noi non possiamo acquistare una valenza e una fecondità. Non c’è nessuna ragione, badate bene, neppure l’apostolato esterno, perché un muto che non parla, che non ha mai parlato, può finire per annunciare il Vangelo come un Apostolo. Non esistono ragioni coartanti. Ma non capite che è questa la liberazione? Uno di voi ha delle difficoltà? Non cominci a dire: Ma io non posso essere buono perché il tale ha il naso lungo; io non posso essere santo perché il banco sul quale seggo dovrebbe essere alto cinque centimetri di più. Con tutta questa sorta di ipocrisia, si scaricano le colpe della nostra debolezza, le ragioni del nostro insuccesso su tutto, su tutte le cose, su tutti gli uomini, su tutte le circostanze, sul tempo perché è brutto, sul tempo perché è bello, sulle nuvole perché passano, sulle nuvole perché non sono arrivate a farci ombrello contro il sole. E avanti. No, cari. Tutti possiamo essere grandi. Ecco ciò che la parabola dice per quanto riguarda noi. – E per quanto riguarda gli altri? Bisogna parlare anche di questo. Voi siete in una linea apostolica; siete di quella gente che può dire: io ormai non sono qui per me e non sono qui da me; sono qui per gli altri. E allora è necessario che voi abbiate una grande apertura su tutti gli altri. Guai se vi mancasse! In sostanza che sto facendo? Sto facendo il discorso dell’ottimismo cristiano, non ve ne siete accorti? Credete di poter avere conversatio in cœlis coi musi lunghi e i musi duri? No. Con la tristezza, con la malinconia, con l’abbandono, con la disperazione, con l’esistenzialismo, cercando di pigliare l’aria da Giobbe carico di scaglie? o l’aria da Diogene, coi buchi nel mantello? Che si possa camminare in modo da potersi dire: « Beati pedes evangelizantium pacem, evangelizantium bonum », quando si credesse che tutti gli uomini sono come quei mattoni, come queste pietre, che non c’è niente da fare, che sono irrimediabilmente cattivi, che sono assolutamente testardi, che non capiranno niente, che è inutile? Convinti che andremo a fare dell’apostolato per meritare noi, per fare degli sforzi inutili, per convincere il cielo che ha combinato un mondo cosi malfatto che non c’è niente da fare e che tuttavia noi continuiamo a fare, tanto per meritarci il paradiso? Andare a fare una specie di comizio davanti al cielo, una specie di grande adunanza di protesta davanti a Dio, che ha fatto un mondo nel quale le anime sono simili alle pietre e non hanno la vitalità che hanno le piante che sanno produrre delle fronde, delle foglie e dei frutti? Vi credete voi che si possa stare nella casa di Dio con quest’aria, rinfacciando sempre a Domeneddio che il mondo, in fondo, l’ha fatto male, mentre noi lo faremmo bene; che, se non ci riusciamo, è colpa sua, che per parte nostra andrebbe tutto benissimo? Gli altri. Noi dobbiamo ricordarci che negli altri la grazia di Dio lavora come lavora in noi. Dobbiamo ricordarci che quando arriviamo noi a parlare, c’è un altro che pure parla così. Quando la nostra lingua si muove, le onde sonore sono percosse dal nostro dire, dalla nostra recitazione; ma un altro ha già segnato e scandito ritmi, chissà, forse da un’infanzia lontana. E quando arriviamo noi coi nostri appostamenti — i nostri appostamenti, è vero! — un altro stava già ordendo la sua trama da tempi immemorabili. Quando noi arriviamo, troviamo delle scorze; e tutto il male degli uomini se ne va sempre nella scorza, ma generalmente gli uomini sono migliori di quello che sembrano. È questo che noi dobbiamo credere: c’è un divino lavorìo in loro, del quale non hanno generalmente coscienza, perché Iddio è così delicato da entrare senza far rumore nell’aprire la porta; ma essi generalmente, proprio per questo tesoro nascosto nel campo, sono molto migliori di quanto noi li crediamo. Deboli, disgraziati e peccatori; ma al di sotto, se voi avrete la pazienza d’aspettare, l’umiltà di attendere e di scavare, troverete che non esiste un uomo che al fondo di sé stesso non abbia qualche cosa di sinceramente bello e di sinceramente grande. Non avete mai osservato che anche gli assassini hanno chi li ama? Che cosa significa questo? Significa che fra le tante facce che possono mettere sopra sé stessi, ne hanno almeno una che è amabile e che qualcheduno ha visto. E alle volte ne hanno più d’una di amabile. Noi siamo sempre pronti a condannare. E invece di condannare faremmo meglio a dire che, nelle condizioni in cui si sono trovati tanti nostri fratelli, saremmo stati probabilmente molto peggiori di loro. Questo, non per decurtare l’orrore del peccato: il peccato è peccato, è quello che è. Ma gli uomini si distinguono dal loro peccato; ne saranno macchiati, ma sono un’altra cosa. Il peccato loro può essere grande, ma la capacità loro di risorgere può essere ancora più grande. Ed è con questo sguardo che si debbono vedere gli altri. – Sentite. Non sono il solo qui dentro che può portare una testimonianza; ci sono qui delle testimonianze più lontane, più antiche della mia; tuttavia la mia è una testimonianza di trent’anni. Io credo che quasi nessuno, quando si agisce come Dio vuole, dica di no alla sua grazia. Forse nessuno. Sono convinto che non è questione di orecchie che si chiudono; è questione di bocche che non parlano. Intendetemi. Si parla di gioventù bruciata. Badate: io ho insegnato 16 anni nelle scuole pubbliche, ho avuto migliaia di alunni. Posso dire di averne trovato soltanto due o tre che mi hanno lasciato il dubbio di aver avuto qualche magagna I veramente cattiva nell’anima. Il dubbio, non la certezza. Ma di tutti gli altri posso dire che nessuno era cattivo. E tutti recuperabili, in grandissima parte recuperati. Ricordo che dei due o tre dei quali avevo detto: di questo forse non ci sarà niente da fare, di uno avevo detto: qui è terra sorda. Ebbene mi è accaduto che, diventato Vescovo, me lo sono visto capitare il giorno in cui era morta sua madre a rifugiarsi da me e a chiedermi che lo confessassi, perché temeva che sua madre, arrivata di là, fosse troppo scontenta del suo ateismo. Ricordo di avergli detto: « Beh, almeno aspettiamo dopo il funerale di tua madre perché, se ti confessi oggi, avrei l’impressione di prenderti per il collo. Pensaci un po’ meglio. Ora facciamo il funerale di tua madre; poi tornerai, se veramente sarai della stessa idea ». Credevo che non sarebbe tornato. Tornò e si confessò. Vedete? Le esperienze, che si possono condurre in diverse direzioni, quando naturalmente sono condotte con lo spirito che ci ha dato Nostro Signore, generalmente non rimangono negative. Io sono convinto che oggi si possa concludere così: Che gli uomini, tutti gli uomini, sono talmente stufi di questo mondo, di questo mondo che sta diventando così ferreo, così meccanico, così stancante, così monotono, così fastidioso, così litigioso; e poi soprattutto perché questo mondo inventa tutto per bruciarli immediatamente, sicché non rimane loro più nessun gusto in bocca e tutti hanno fame e sete di verità, tutti. È questione di fare dei prolegomeni adatti, di gettare il ponte al momento opportuno, con lo spirito opportuno; ma tutti sono lì che stanno aspettando la parola di Dio. Questa è la verità. Se non l’ascoltano, è perché mancano le bocche, gli esempi, le anime che credono ancora nella loro possibilità di recupero. – Concludiamo. Per poter avere conversatio in cœlis, noi dobbiamo farci accompagnare da un modo di ragionare che sia in cielo. Di là, donde si vede l’infinito valore del Sangue di Gesù Cristo, si vede l’infinita possibilità che esso può avere nell’anima nostra e nelle anime degli altri. Di là, dove questo si vede con tale chiarezza da capire che non esistono scuse, che non esistono limiti e non esiste alcun condizionamento valido limitante la nostra capacità di essere perfetti Cristiani, di essere grandi e di rendere a Dio quello che Iddio ha il diritto di aspettarsi da noi.

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi spirituali (7)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (7)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

7. L’Inferno

Meditazione sull’inferno. Anche questa è fondamentale: « Initium sapientiæ timor Domini ». Non illudiamoci mai di non aver bisogno del timor di Dio, per carità! Che questa storta idea non abbia mai a entrare nella nostra testa. C’è una forma di irenismo che non è stata contemplata nella enciclica Humani generis di Pio XII, ed è un irenismo che riguarda l’inferno. È un irenismo per cui qualcuno ha osato dire che l’inferno non è eterno, mentre è di fede che è eterno. – Qualcuno, più recentemente, ha osato dire che c’è per spauracchio, ma che Iddio non ci manda nessuno. Questa non è formalmente un’eresia, ma è una stupidaggine, e comunque è una falsità. Stiamo bene attenti! « Initium sapientiæ timor Domini ». Noi siamo cavallini così bizzarri, tutti, che abbiamo bisogno qualche volta della frusta. E se eliminiamo il timor di Dio da tutte le faccende spirituali e di impostazione della vita nostra riguardo a Dio, noi commettiamo un falso. Tutte le volte che si dà la S. Cresima, il Vescovo continua a chiedere allo Spirito Santo per il cresimando: Spiritum timoris. « Adimple eum Spiritu timoris tui ». Riempilo; non dice : toccalo, sfioralo, ungilo un po’. No, no; riempilo del tuo timore! – Se credessimo di poter fare a meno di volgere lo sguardo a queste verità fondamentali che sono come i confini dell’umana esperienza, anche se soltanto possibili e, Dio ci guardi, non siano mai reali per noi; se si fa a meno di guardare a questi confini, noi veniamo a trovarci nella nostra vita spirituale in una posizione profondamente falsa. Dunque bisogna parlare anche dell’inferno. Naturalmente ne parliamo dal punto di vista proprio di questi Esercizi Spirituali, e cioè: nostra conversatio in cœlis est; ci sforziamo di metterci a guardare le cose di lassù. Però dobbiamo cominciare da un punto. Di lassù che cosa si vede? Ricordatevi bene che i beati non piangono perché c’è l’inferno. La cosa è terribile per noi, perché questo significa che nessuno in cielo piange se uno è andato all’inferno. Se una madre va in cielo e il figlio va all’inferno, la mamma non piangerà ma loderà in eterno Dio perché ha mandato suo figlio all’inferno. È così. Vi ricordate che cosa ho detto, che bisogna rovesciare il punto di vista per capire? Si tratta di uno di quei disegni che lo si vede soltanto da rovescio e che è giusto da rovescio. Di lassù si loda Iddio per la sua giustizia come lo si loda per la sua maestà. Come si loda per la sua eterna sapienza, così si loda in eterno Iddio per la sua giustizia. È terribile pensarlo. Per fortuna che è terribile solo di qua; passati di là, non è più terribile niente. Ma per noi che siamo ancora qui a guardare negli occhi tanti nostri amici e dover dire: questi qui sono sulla strada dell’inferno, è probabile che ci vadano! Se io mi salvo, come spero e voglio, costi quello che costi, anche a farmi strappare un arto dopo l’altro senza anestesia per tutta la vita, questi non saranno mai più con me! Questa è la prima considerazione da farsi. Ditemi voi se non mette ali ai piedi degli Apostoli! Si comprende perché talvolta è dato incontrare delle anime che si offrono vittime perché altri si salvino. Io ricordo di averne incontrate. E quando sono stato ben sicuro della serietà, non ho mai osato dire di no. Purché altri si salvino! Questa dunque è la prima considerazione sull’inferno visto di lassù. E di lassù si vede la giustizia e, nella giustizia, le perfezioni di Dio, perché nell’inferno si vede il corrispettivo della libertà umana. La libertà umana in una creatura non sarebbe possibile senza di quello, dico in una forma ontologicamente e giuridicamente completa. Una delle ragioni per cui Iddio ha creato l’inferno è perché fosse pienamente completo l’atto libero delle creature razionali da lui create. La giustizia, la perfetta giustizia. Perché l’inferno non è altro che la conseguenza di premesse chiare. Che cos’è il peccato? Il peccato è la trasgressione della legge di Dio. Formalmente ogni peccato che cosa contiene? Qualunque esso sia, contiene questa dichiarazione fatta a Dio: tra Dio e non Dio, scelgo non Dio. Perché il ripudio della legge del Signore significa ripudiare il Signore: Fra te e quello che non è te, io scelgo quello che non è te. Ora se questa è la posizione dell’uomo liberamente scelta e liberamente non più scossa, nel momento in cui cessa per lui la mutevolezza e la capacità di porre atti meritori coi quali cambiare la sua sorte, la quale pertanto naturalmente si consolida eterna, Dio rispetta l’atto libero dell’uomo. L’inferno non è altro che il rispetto che Iddio ha per la libertà umana. C’è un punto: che quando si muore si passa dallo straordinario all’ordinario. Ve l’ho già detto che si rovescia tutto: non è qui l’ordinario, è là; qui è lo straordinario; là è il comune, là è l’ordinario. È ordinario che l’uomo, creato in una situazione, in quella permanga. La mutevolezza, quella propria del nostro cosmo, è un difetto. Là non si muta più, perché si è in uno stato perfetto, certo nel modo congruo alla nostra natura. Noi che siamo abituati a vivere nella mutevolezza, a concepire tutte le cose secondo mutazione, troviamo difficoltà a metterci così, con la testa in giù e le gambe in su; cioè troviamo difficoltà a concepire che quello è l’ordinario, quello è il comune. D’altra parte gli uomini hanno tutta la vita per sapere che quello è l’ordinario e questo è lo straordinario, e per prepararvisi. Di lassù si vede questo: la giustizia di Dio. Giustizia che, per eterne ragioni, si vede come sia la prima documentazione della misericordia. Perché, ve l’ho detto, tutto questo è un atto di rispetto da parte di Dio verso la sua creatura. Hai scelto un’altra cosa: ti rispetto. Difatti che cos’è l’inferno, la cosiddetta pena del danno che è l’essenza dell’inferno? È questo: non essere con Dio, cioè quello che l’uomo ha scelto, nient’altro. Essere senza Dio, l’eterna ragione del vero, dell’essere, del bello, di qualunque realtà. Se noi pensassimo che cosa vuol dire non essere con Dio! Di qua, dato lo stato crepuscolare, data la ragione con la quale noi conosciamo, poiché siamo coartati, siamo in una cantina, non vediamo bene cosa voglia dire non essere con Dio. Ma quando tutte queste cose cadranno, quando noi saremo nell’infinita solitudine, soli, davanti alla divina Realtà, vista non con occhi carnei ma con penetrazione acutissima dell’intelligenza, allora vedremo che l’unica realtà è quella: e che ogni realtà vi partecipa in quanto riceve da quella. E se quella ci viene a mancare? Allora vedremo che ogni cosa è buona in quanto partecipa della divina bontà; e pertanto il criterio per cui ogni cosa è buona è la partecipazione della divina bontà. Allora vedremo che la ragione suprema d’ogni verità e della sua luce e del suo gaudio e della sua vitalità e di quello che da essa segue è la partecipazione della divina ed eterna Verità. E se questo supremo criterio, che è Dio stesso, ci viene a mancare, che cosa rimane? Poi c’è anche la pena del senso, che è il corrispettivo di penalità dato da creature dolorifiche, corrispettivo all’uso mal fatto di qualche creatura di questo mondo. Perché chi ha usato male sulla terra dei beni suoi, in qualunque rapporto, a qualunque livello, è giusto che abbia contro di sé la rivolta di qualche cosa di creato e di dolorifero, questo elemento creato e dolorifero che noi chiamiamo fuoco, tanto perché è creato, è materiale, è dolorifico; che chiamiamo fuoco tanto per prendere un’immagine, un termine della realtà più spaventevole che abbiamo nella nostra umana esperienza. – La teologia, nel trattato De Deo uno, tocca il suo vertice massimo, per la prova alla quale sottopone l’umana intelligenza quando tratta la questione della prescienza di Dio a proposito dei dannati. Ma è una questione solubile, perfettamente; quanto a togliere la apparente contraddizione, che spesso viene prospettata, essa non è neppuretrattata nella maggior parte dei testi di teologia. Raramente si trova questa questione trattata. È solubile, ma è difficilissima. E la ragione è questa: che noi siamo a rovescio. Ma di lassù si vede diritto, si vede chiaro. Anche a rovescio però, messi a rovescio come siamo, con un po’ di sforzo ci si arriva a vedere e si vede molto più di quel che non si creda. Si vede tanto da tacitare le insorgenze logiche del nostro intelletto. Ma mi basta aver detto questo: di lassù si vede la giustizia, l’eterna giustizia; la si canta, e si vede che l’eterna giustizia è tutta in funzione della misericordia. Certo, ve ne ho dato soltanto qualche accenno; il trattato dell’inferno non viene capito affatto se manca in filosofia il trattato De Deo uno fatto mirabilmente. – Qualcuno ha scritto un libro in cui ha detto una grande sciocchezza a proposito dell’inferno. Ma l’inferno c’è ed è eterno. Gesù Cristo si è impegnato nel Vangelo: « Ite, maledicti, in ignem æternum ». Guardate che c’è chi va all’inferno. Non crediate che Iddio faccia come i contadini, quando piantano qualche ramo vestito di stracci nei campi per far paura alle galline o agli uccelli. Non crediate che l’inferno non sia altro che una formido in cocumerario, uno spaventapasseri messo lì, nel solaio dei cocomeri. No, all’inferno ci si va. Perché non sarebbe ammissibile che Cristo l’avesse annunziato con tanta solennità e l’avesse annunziato come qualche cosa che verrà detta all’ultimo giudizio, se non ci fosse. Leggete il cap. XXV di San Matteo: Gesù ha già detto che dirà questo: ite, maledicti, in ignem æternum; dunque se dirà questo, vuol dire che della gente vi andrà. Beh, sentite, mettetevi un po’ al posto di Dio: ora, senza dire una bestemmia, non ce li mandereste voi? Io sarò cattivo, ma quante volte mi viene la tentazione di mandarceli, tanto si diportano male! Ma Dio è infinitamente più buono di noi, ed è per questo che ha messo tre vie per andare in paradiso: la prima è quella della pazzia, e ci passano i più; la seconda è quella dell’ignoranza, e ci passano in buon numero; la terza è quella della santità, e ci passano i meno. E le ha create apposta per poterne salvare in numero maggiore. Perché certa gente, se non si potesse dire che sono matti, come farebbero a salvarsi? Invece, per grazia di Dio, si può dire: Ma, dovevano esser matti! E quindi, forse, c’è ancora da sperare per loro. Son passati per quella strada lì. Dio è infinitamente buono e infinitamente misericordioso; ma noi non possiamo giocare a rimpiattino con la divina misericordia. Certo, se Dio facesse giudicare il genere umano da qualche uomo, povero genere umano! Dove se ne andrebbe? È meglio che lo giudichi Iddio. Ma all’inferno qualcheduno ci va. Ecco, per dire questo, mi riferisco solo al Vangelo, S. Matteo cap. XXV. Naturalmente se volessi andare a prendere, e accettassi tutte per buone le visioni di santi che hanno visto, che sono andati un po’ di là e sono tornati di qua, e hanno avuto visioni e rivelazioni, ci sarebbe da sentirsi accapponare la pelle. Se è vero quel che dice S. Teresa, sarebbe il caso di non dormire più per dieci giorni dai brividi. Se si vanno a leggere le rivelazioni di S. Gertrude, di S. Brigida di Svezia… Queste non sono verità di fede; ma l’inferno c’è, e ci si va. C’è questo anche: che mentre per andare in Paradiso bisogna crederci, per andare all’inferno non occorre affatto crederci. Anzi, se non ci si crede, ci si va meglio. Ma non basta. Di lassù si vedono alcune altre cose. Accade come andando in aeroplano. Dall’aereo si capisce l’importanza, per esempio, delle grandi valli, dei sistemi oro-idrografici. La vista dall’aeroplano è una cosa magnifica: si vede la terra come una carta geografica. Non c’è nessuna cosa che dia la visione della conformazione terrestre, di colpo, come la vista dall’aeroplano. Ebbene, di lassù si vede allora come la grande valle di questa carta topografica che si chiama inferno che sta sotto di noi, è la capacità decisoria della volontà umana. Perché chi è che deciderà di andare all’inferno? L’uomo; lo deciderà con un sì o con un no. L’enorme sovrana capacità decisoria di questa volontà! Gli atti coi quali noi diciamo sì o no si rincorrono frettolosamente e spesso leggermente. Non è detto che su tutte le cose si possano fare delle considerazioni profonde, d’accordo. Ma bisognerebbe pure avere la serietà e la robustezza spirituale di rendersi conto di che cosa valga, in certe questioni, dire di sì e dire di no. – Di lassù si vede un’altra cosa, esattamente ancora come a guardare dall’aeroplano: le proporzioni, le distanze dei paesi, la loro confluenza, la loro organicità geografica, la loro frammentarietà, la possibilità delle comunicazioni: come si vedono bene dall’alto! Come si capiscono, dall’alto, le grandi linee strategiche attraverso le quali sono sempre passati gli eserciti; come si vedono altre linee sulle quali non sono mai passati e mai passeranno gli eserciti! Come si vede la logica che talvolta non si riesce a capire nemmeno dalla storia! La stessa cosa la si vede guardando l’inferno di là, dalla nostra conversatio in caelis. Perché di là si vede come viene a organizzarsi tutta la vita in rapporto all’eterno destino. Voglio dire questo: molti Cristiani si credono che la questione della salvezza eterna sia una questione meccanica e che comunque è questione di riuscire a salvarsi un quarto d’ora prima di morire, per sistemare in quel quarto d’ora tutto, con tutte le assoluzioni, indulgenze plenarie, benedizioni papali ed episcopali, e andarsene così al Creatore indenni, dopo avere buggerato il Creatore per tutta la vita e ridendogli ancora sulla faccia quando gli si arriva davanti. Ma non è così. In teologia, nel trattato De gratia actuali c’è questa proposizione che vi prego di tenere ben presente: « La grazia della perseveranza finale è un dono particolare di Dio ». Che cosa vuol dire? Che non fa parte della grazia ordinaria. Sapete che la perseveranza finale consiste nella coincidenza dello stato di grazia santificante col momento della morte; vuol dire la salvezza eterna. E questa è non una grazia ordinaria, ma un dono speciale di Dio. E in tutti i libri di teologia ci si vede aggiunto: « La perseveranza finale è una grazia che bisogna chiedere e procurarsi per tutta la vita ». Il Concilio Tridentino nella sessione VI ha detto: « Si quis dixerit se esse certe et infallibiliter securus, absque divina revelatione, de propria æterna salute, anathema sit ». Se uno osasse dire e credere di essere infallibilmente certo della propria eterna salute, a meno che non abbia avuto una rivelazione divina, sia anatema. E questa verità che impegna, questa verità la si capisce di lassù. È una cosa molto importante: noi non possiamo lasciar correre e fare per tutta la vita quello che ci piace, perché la grazia della perseveranza finale Dio la dà, ordinariamente, tenendo conto di quello che si è fatto nella vita. Perciò hanno detto gli antichi molto giustamente: « Talis vita, finis ita ». Di lassù, a proposito dell’inferno, si vede questo: che per prepararci l’ultimo buon quarto d’ora bisogna in qualche modo pensarci più o meno tutta la vita; e se ci se ne accorge un po’ tardi, raddoppiare la velocità per redimere il tempo perduto: « ut tempus instanter operando redimentes », come prega la Chiesa genovese nel giorno del suo grande Vescovo, S. Siro, affinché, redimendo il tempo perduto con l’istanza del nuovo lavoro e della nuova azione, « ad æternam gloriam pervenire mereamur », possiamo arrivare all’eterna gloria. E finalmente cerchiamo un po’ al fondo di questo dramma, visto di lassù. Qual è stato il dramma di Adamo? Il dramma di Adamo, come è narrato al cap. III del Genesi, è tutto qui: Dio dice ad Adamo (io parafraso ma la parafrasi è esplicativa): « Adamo, tu devi accettare che Io sono Dio; lo devi accettare e devi respingere ciò che non è Dio. Siccome sei fatto anche di corpo e non solo d’anima, e poi sei ai primi passi della tua esperienza umana, ti ci vuole qualche cosa di oggettivo, di concreto, di ridotto, di piccolo, come punto di riferimento. Vedi, il punto di riferimento per te, che non hai fomite di passioni, il punto di riferimento per far vedere che accetti o eventualmente rifiuti, guarda, è questo: rispetta questo albero, questo magnifico albero chiamato della scienza del bene e del male. Questo è il segno: se tu rispetti questo, è segno che accetti; se tu non lo rispetti, o se tu non accetti, violerai questo albero ». L’albero in sé stesso contava poco. Era forse un albero più bello degli altri? Forse più attraente degli altri? Forse con frutti più gustosi degli altri? Era un albero in una cornice splendida, forse unica; ma era un albero. Eva ha preso il frutto e l’ha dato al marito: e tutt’e due ne hanno mangiato. Che cosa hanno fatto? Voi avete inteso: hanno scelto « non Dio ». Ecco, èil peccato formale della disobbedienza, che però era in funzione di una indicazione: noi scegliamo non Dio. Perché? Avevano udito dal tentatore la insufflazione maligna: « Se voi non osservate la sua legge e vi sottraete alla sua legge, diventate simili a lui ». L’errore nella testa di Adamo ha causato la sua caduta. L’errore ha causato la illusione; la illusione ha causato la falsità, la falsità è stata la ragione, la orpellatura per cui Adamo è caduto. Poi sarebbe stato sempre così. L’origine del peccato è sempre un’idea sbagliata, un’ipotesi sbagliata: in questo momento io godo di più; scelgo il godimento di questo momento e lascio da parte Iddio. Disobbedienza. È la disobbedienza che ha lastricato l’inferno. Se noi l’inferno lo guarderemo dall’alto, sapremo che alla radice di tutto quello che ha determinato la dannazione eterna delle anime è sempre stato il fatto che hanno disobbedito a Dio. La meditazione sull’inferno arriva a mettere in chiaro il carattere fondamentale della virtù dell’obbedienza. Ogni peccato si riduce sempre, pur avendo una sua definizione teologica e morale specifica, alla disobbedienza, perché è di natura sua trasgressione, quindi non obbedienza alla legge di Dio. La sostanza dell’inferno è fatta di disobbedienza. E allora, per la virtù dei contrapposti, ecco che cosa si vede di lassù: a guardare panoramicamente l’inferno, si vede che il contrapposto dell’inferno è l’obbedienza e che la virtù che assicura tutte le altre è l’obbedienza: l’obbedienza a Dio e l’obbedienza a tutte le cose che hanno diritto di darci una norma, trasmetterci una regola, una volontà, una indicazione, un consiglio in nome e per un’autorità che viene, anche indirettamente, da Dio. – Il concetto dell’inferno che, portato al midollo, si riduce a questo, è un monumento, dalla parte del timore bene inteso, alla virtù dell’obbedienza. Bisogna piegare la testa a Dio. Ma a Dio la testa non la si piega se non la si piega a tutto ciò che Dio ha costituito portatore della sua volontà. Concludiamo: all’inferno non ci vogliamo andare, vero? Bene, siccome la cosa che al fondo di tutto porta all’inferno è la disobbedienza, ricordiamoci che la cosa che al fondo di tutto ci porterà in Paradiso sarà l’obbedienza. Nostro Signore nel discorso della montagna ci ha avvertito che non si ama Iddio se non facendo ciò che vuole lui: « Non qui dicit Domine, Domine, sed qui facit voluntatem Patris qui in cœlis est ». Ci ha avvertito che l’amore di Dio, concreto, sta nell’accettare lui e tutto quello che lui porta con sé e tutto quello che impone, detta, istilla, indica alla nostra vita. Accettazione intellettuale della verità, anzitutto. E credete che l’intelligenza non debba obbedire? Vorreste lasciar fuori la più importante? Ma è quella che deve obbedire per la prima. È l’obbedienza intellettuale, la prima; l’altra viene dopo. L’obbedienza intellettuale a Dio, alla verità; la ricerca della verità. Credetemi: ciò che sa di satanico, di diabolico, di demoniaco, ciò che fa tremare in tutti i momenti sulla sorte delle anime a noi affidate è questo: che per loro la verità non vale più. Dire bianco, dire nero, sgualcire qualche cosa della verità, della rivelazione divina, dell’Evangelo; interpretare a modo proprio instaurando un’altra volta la eresia protestante del libero esame. È tutto questo peccato contro la verità che fa capire la mancanza assoluta della prima e sostanziale obbedienza a Dio, che è quella dell’intelligenza. – La disobbedienza di Adamo ci ha resi tutti miseri; l’obbedienza di Gesù Cristo, che è andato in Croce, ci ha fatti salvi. E S. Paolo ha scritto di Gesù Cristo, nella Lettera agli Ebrei: « In capite libri scriptum est de me ut facerem, Deus, voluntatem tuam ». In testa alla mia vita sta scritto : Che io faccia, Padre, la tua volontà. E un giorno, agli Apostoli che tornavano dal cercar cibo — e per conto loro si erano già messi al sicuro — e si meravigliavano che Gesù non mangiasse, perché aveva da curare un’anima, rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato ». Sicché, concluderà S. Paolo, « sicut per inobœdientiam unius hominis peccatores constituti sunt multi… », come per la disobbedienza di uno si sono perduti molti peccatori, così per la obbedienza di uno solo « per unius obœditionem iusti constituentur multi… », molti sono ridiventati giusti. La meditazione dell’inferno arriva a questo punto. Perché non basta dire: l’inferno c’è; l’inferno è questo, è quest’altro, è eterno. Vediamo dove si riduce; vediamo il filone della strada che vi conduce, e per vedere il filone della strada ricominciamo dal primo uomo che si è esposto all’ipotesi dell’inferno, Adamo, che ha disobbedito. Cristo, come si è qualificato? Un obbediente. L’obbedienza è l’accettazione di Dio. La disobbedienza finisce sempre con l’essere, se non formalmente almeno virtualmente, il rinnegamento di Dio. L’armonia è completa. I ritmi si ripetono; pare che scandiscano in una forma drammatica la nostra vita, i nostri destini, il domani, il mistero che sta al di là delle cose che noi vediamo e tocchiamo. Questi ritmi sono però costitutivi nella robustezza che nel timor di Dio pongono la prima base della saggezza e dell’amore.

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO-2° Corso di Esercizi Spirituali (6)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (6)

Nostra conversatio in cœlis est

6. Il metodo

Le considerazioni sulla morte, che abbiamo fatto da un particolare punto di vista, ci portano logicamente in questa meditazione a trattare del metodo. Debbo dire anzitutto il perché. La considerazione della morte, fatta da quel punto di vista, ha rivelato che la vita è incredibilmente preziosa. Ogni attimo di questa esistenza può segnare un punto che rimane eterno; ogni attimo può dare un merito. Il merito, acquistato quando si è in grazia di Dio, ha un valore che rimane nell’eternità. Un attimo di vita, trasformato in merito con la grazia del Signore, significa un aumento per tutta l’eternità della capacità di godere Iddio, di amarlo, di entrare nel mare infinito della sua essenza; significa un grado di più nella pace e nella perfezione, per sempre. Ecco perché la considerazione della morte fatta a quel modo fa apprezzare la vita. E la vita più lunga è meglio è, proprio per questo. Non c’è nulla che nella vita sia inutile. Tutte le strade possono essere perfettamente punteggiate di meriti, tutte le situazioni possono portare al perfetto amore di Dio. Naturalmente talune strade sono più convenienti, talune lo sono meno. Talune si prestano di più al tipo particolare, alla missione particolare, alla vocazione particolare di un uomo o di una donna, altre si prestano meno. Ma a questo mondo non c’è nulla che rispetto al cielo possa essere gettato via, nemmeno quello che per il mondo non va, come il dolore, la disgrazia, la minorazione, la mancanza di luce, la mancanza di libertà, la mancanza di tutto. Per l’eternità tutto questo è un aggeggio magnifico, tutto diventa strumento. Tutto quello che non serve per gli uomini, si può dire che serve per Iddio. Perché quando non sappiamo fare niente, almeno possiamo rinunciare a una cosa dopo l’altra. Quando anche non sapessimo fare niente, ci rimarrebbe da fare questo, e siccome le cose del mondo sono innumerevoli, la rinuncia potrebbe avere una sequenza senza fine. E allora si sente veramente l’afflato di vivere, perché veramente si vive quando nulla si perde. Noi dobbiamo diventare economi del tempo, delle possibilità, della vita e di tutto; dobbiamo diventare tirchi nello spendere noi stessi. Allora si impongono subitodelle istanze. – Prima istanza: ciascuno deve capire e deve avere in mano se stesso perché, se non capisce se stesso, crederà di infilare una manica e invece infilerà un camino. Bisogna avere in mano se stessi, perché non si può credere di fare un impiego economico della propria vita, se non si conosce e non si ha in mano se stessi. – Seconda istanza: deriva dalla suprema esigenza d’impiego perfetto della vita: bisogna trovare la disposizione più economica che esista del nostro tempo e delle nostre doti. – Terza istanza: bisogna spingere al massimo la capacità e la potenzialità dell’intenzione, perché l’intenzione è il primo elemento del valore delle nostre azioni. – Quarta e ultima istanza: bisogna che la vita sia animata dalla brama della perfezione, perché la vita è messa su una gran scalinata: si può scendere e si può salire, in piano non si rimane. Sommate tutte queste istanze, cosa ci dicono? Nella vita ci vuole un metodo, ecco la risposta. Il metodo è semplicemente il principio dell’economia applicato alla vita. Ma prima di parlare del metodo, illustrerò brevemente le istanze che derivano da quella suprema esigenza che abbiamo vista nelle considerazioni sulla morte, quella d’impiegare pienamente la vita. Innanzi tutto bisogna conoscere sé stessi e aversi in mano: aversi in mano intellettualmente e volitivamente. E per conoscere sé stessi bisogna pensare, bisogna esaminarsi, bisogna stare a sentire tutto quello che dicono gli altri di noi; soprattutto, e questo con infinita benevolenza, quando dicono male di noi. Quando dicono bene, vi raccomando di non stare a sentire, perché nella maggior parte dei casi saranno complimenti, in una parte notevole saranno bugie, in una parte non disprezzabile saranno inganni, e in tutto, non in parte, sarà per voi un pericolo di gravi illusioni. Al più, se proprio vi sentite venir meno, a titolo di conforto e d’incoraggiamento, prendetele come una zolletta di zucchero energetico. Ma non più in là. Vi raccomando, vogliate bene a tutti quelli che dicono male di voi e a tutti coloro dei quali venite a sapere che hanno detto male di voi. Come poi questa gente si aggiusterà con il Padre eterno, sono cose che riguardano loro solamente. Perché se sbagliano, se si lasciano guidare dalla malignità, dalla cattiveria, dall’ingiustizia, dall’invidia, non va bene; comunque si aggiusterà tutto, non temete! Noi guardiamo soltanto il lato che c’interessa in tutta la faccenda. – Volete conoscere voi stessi? Confrontatevi coi vari tipi di temperamento, di carattere. Ora non posso farne una trattazione. Ma c’è uno strumento indispensabile per conoscere sé stessi e questo è uno strumento che si chiama esame di coscienza. Deve essere usato potentemente da noi. È il punto di partenza per poter organizzare economicamente la nostra vita. Voi sapete benissimo che l’esame di coscienza non può essere mai completamente lo stesso, se no diventa sclerotico e non rivela più che in parte. L’esame di coscienza, cioè, non può essere solamente sui peccati commessi, sia in pensieri, sia in parole, sia in atti esterni, ma deve essere sulle debolezze provate, anche se non acconsentite, sulle tentazioni subite, sulle impressioni incise, sul pencolare che fa l’anima verso una parte o verso l’altra, sui fenomeni complessi e ingarbugliati, su quelle sensazioni delle quali non si capisce bene quale sia la logica, specialmente nei confronti dei nostri fratelli. L’esame di coscienza deve fare la rilevazione delle distanze, cioè non essere fatto solo di giorno in giorno, ma quando è fatto seriamente, deve essere fatto di settimana in settimana, di mese in mese, di anno in anno, di Esercizi in Esercizi. Perché vi sono dei fatti, dei carreggiamenti sotterranei i quali non possono essere rilevati ordinariamente da un giorno all’altro, ma si rilevano soltanto facendo misurazioni che richiedono un certo periodo di tempo, talvolta un lungo periodo di tempo, talvolta un intero periodo della vita. L’esame di coscienza razionale va fatto così, perché soltanto così permette a noi di beneficiare della prospettiva necessaria a vedere le cose nell’insieme e da lontano. Solo da una certa distanza si vede l’insieme, e dall’insieme si ricava l’architettura, la legatura, le strutture portanti, quello che è sostanziale e quello che è accessorio. Guardate che noi non conosciamo noi stessi finché di noi non conosciamo gli aspetti carenti, gli aspetti passivi, cioè il modo di reagire di fronte a una quantità di agenti che stanno al di fuori di noi. Quindi la prima istanza che deriva dall’appello d’impiegare bene la vita diventa conoscenza di sé stessi e padronanza di sé stessi. Sul fatto della padronanza, può darsi che debba ritornare; ma unicamente per poter rendere completo l’argomento e presentarvene una sinossi, elencherò alcune cose che serviranno per le vostre personali riflessioni. Avere in mano sé stessi vuol dire avere in mano la propria testa e voler avere in mano la propria volontà. Non è facile avere in mano la propria testa quanto è facile dirlo. È una cosa molto difficile, perché la nostra testa è sbalestrata continuamente dalle passioni, soprattutto dall’orgoglio; è annebbiata poi da qualche altra passione, come la sensualità, l’accidia, l’avarizia. La nostra testa è preoccupata, cioè occupata prima da altri: da questo mondo. Il mondo entra dentro di noi, e se non stiamo bene attenti, troviamo in noi delle reliquie del suo passaggio. Il mondo ci infarcisce dalla mattina alla sera; gli uomini ormai sono talmente diventati accumulatori di queste balordaggini che, ad avvicinarne uno, si prende la scossa elettrica. Se riflettete, noi ci troviamo tanti pallini nella testa: ce li ha messi il mondo. Pallini sulla personalità, sulla indipendenza, sulla libertà, sulla democrazia: sono i pallini di oggi. Queste parole che ho detto per elencare i pallini hanno in sé un significato buono, ma nell’uso comune e normale della gente sono pallini. Pallini di modernità, di indipendenza dalle cose materiali, delle quali non dobbiamo aver bisogno perché siamo spiriti superiori; pallini di cerebralità, di socialità, di scienza, di squisitezza, di originalità; perché oggi si pensa che se non si è originali non si vale un bel niente. Se uno oggi dice quello che ha già detto ieri un altro, è perduto perché non è originale. Pertanto dalla paura che ha di essere perduto, cercherà di dire tutte le stupidaggini possibili e immaginabili, purché siano diverse da quelle di un altro. Pallini!. Se cominciamo a fare una lista dei pallini, ne vien fuori una lunga lista! Stiamo in guardia! Perché a causa di questo infarcimento, assistiamo a dei fenomeni che fanno paura. Difendiamo la nostra testa, perché se non si difende la propria testa, non si difende nemmeno la propria fede. Per difendere la fede bisogna difendere la testa, la propria capacità critica, il proprio retto giudizio, la propria indipendenza dai complessi d’inferiorità imbibiti dagli altri. Questa è dunque un’esigenza imposta dalla visione della morte, che fa apprezzare la vita. Quindi riassumendo: prima esigenza per impiegare economicamente la vita, cioè con il massimo di resa, è quella di avere il dominio di sé stessi, cioè della propria testa e della propria volontà. – Ancora una parola sulla volontà. Per essere i padroni della propria volontà, dopo la grazia di Dio, l’uso dei sacramenti e della preghiera, abbiamo un mezzo solo, serio ed efficace: è il sacrificio, cioè la penitenza, che significa fare il rovescio di quel che piace a noi. Non c’è assolutamente altra strada. O si abbraccia la via della croce o la volontà diventa un’armonica. Non resisterà, servirà per suonare, ma non sarà operativa e conclusiva. È questa la conclusione della prima istanza che discende dalla considerazione della morte come apprezzamento della vita. – La seconda istanza: bisogna fare della vita una disposizione economica, che renda il massimo impiegando il minimo. Bando ai pleonasmi. E in ciò consiste il discorso proprio sul metodo che riprenderò. La terza esigenza: per impiegare bene la vita, sfruttare pienamente la forza dell’intenzione. Fare in modo che l’intenzione sia presente il più possibile e sia pura il più possibile. Presente il più possibile significa che non bisogna agire dormendo, per abitudine, ma restringere quanto è possibile l’influenza della pura abitudine; significa invocare l’intervento della intenzione positiva, attuale, esplicita. E con la luminosità della coscienza, che sempre si scruta e pertanto è in grado di illuminare gli altri, salvaguardare sempre la purezza assoluta di questa intenzione. Finalmente ho detto che l’esigenza dell’impiego economico della vita è la brama della perfezione. Salire sempre: oggi meglio di ieri; domani meglio di oggi. Ma per fare tutto questo, per fare l’armatura in cemento armato che regga tutto questo, anche nelle sue forme apparentemente bizzarre, ci vuole il metodo. – E adesso parliamo brevemente del Metodo. Parlo del metodo con la iniziale maiuscola, non di uno dei metodi qualunque. Libertà di spirito! Tra i metodi, ognuno può scegliere quello che più gli piace, quello che si confà alla propria vocazione, attività ecc. Io vi parlo del metodo come ragione fondamentale di organizzare la propria vita. In che cosa consiste questo metodo? Consiste nell’arte — l’arte che nel senso scolastico e non estetico è un complesso di regole — di disporre razionalmente le cose in ordine al proprio fine. Perché la dottrina del metodo entri costruttivamente nella nostra vita, bisogna parlarne con una certa finitezza. Del metodo si può parlare dal punto di vista materiale e formale. Parliamo prima del metodo dal punto di vista puramente materiale. Il metodo consiste in questo: anzitutto prendere visione e conoscenza delle cose, poi soppesarle, poi distinguerle, poi distribuirle nel tempo, nello spazio, nelle persone e nelle cose. È sempre dalla visione, dalla ponderazione, dall’esame delle cose che è possibile arrivare alla distinzione, divisione, discriminazione e distribuzione delle cose. Distribuzione nel tempo, nello spazio, nella caratura, nell’importanza e perfino nelle persone, nei rapporti sociali, nella vita di relazione. Quando si è giunti alla distribuzione, bisogna fare il collegamento delle cose, perché essa sia razionale, quindi la sintesi. Questo è, a grandi linee, il metodo. E queste parole applicatele alla preghiera, al lavoro, al periodico che stampate, alla missione, alla vostra anima, alla vostra vita interiore, alla vostra vocazione, e capite subito che cosa vogliano dire. Avete capito che cosa vuol dire metodo? Vuol dire tenere l’intelligenza in mano e farla funzionare! Applicate questo principio a tutto e vedrete come cambieranno le cose! Oh! mica detto che la vita debba diventare un osso o un chiodo da succhiare. No, no! Perché posso anche decidere di divertirmi, bene naturalmente! Ma mi diverto sul serio. Posso decidere di darmi all’amena conversazione, senza dir male di nessuno, beninteso, senza scandalizzare nessuno. Ma l’ho deciso io, non è che sia accaduto così, per caso. La vita di molta gente può essere paragonata a quella di un individuo che esce di casa e non sa bene che cosa debba fare. Avrebbe tante cose da sbrigare, sì, ma non ha bene in testa quale, non ha pensato a quale debba sbrigare per prima. Intanto mi metto per strada. Si mette per strada, bighellona un po’ a destra e a sinistra e dimentica ogni cosa; trova uno e si mette a parlare e prende una strada laterale, perché quello prende una strada laterale. Poi si congeda. Bighellona ancora un po’, poi, prima di riprendere nuovamente il filo delle cose, ne trova un altro. E così passa la mattinata. A mezzogiorno: Ma guarda un po’ come sono stanco, sono stato in giro e non ho concluso niente! Ho tanto da fare! Oh che vitaccia! Pare impossibile: la gente che non combina niente è sempre a dire che muore dal lavoro. Ed è poi la gente che non studia, che non si tiene aggiornata, che non approfondisce le questioni, insomma che non combina niente. – Vengo ora alla considerazione che ho chiamato formale, e cioè sostanziale. Bisogna che il metodo abbia i suoi strumenti. Ed è qui dove s’arriva alla parte più delicata del metodo. Alcuni strumenti sono importantissimi, sono massimi, ma sono talmente noti a tutti per cui non occorre che io ne parli. Sono la direzione spirituale, il consiglio, l’uso del sacramento della penitenza, la lettura di libri buoni, l’osservanza degli statuti quando si vive in una vita che è regolata da statuti e da regolamenti. Sono tutti strumenti sostanziali del metodo. Però questi li conoscete. Io voglio parlare di quelli dei quali si parla un po’ meno o, meglio, di quelli ai quali si pone meno attenzione. Bisogna avere delle idee in testa. Ecco, gli strumenti del metodo: sono le idee in testa, cioè talune grandi convinzioni generali della fede che, ora l’una ora l’altra, diventano idee forza e idee vita. Qualcuno potrà trovare più adatta a sé stesso la spiritualità ignaziana, che è tutta impostata essenzialmente sulla obbedienza; un altro potrà avere una maggiore tendenza verso la spiritualità berulliana, perché è rimasto affascinato dal mistero dell’Incarnazione e, con quest’idea sempre in testa, ha il motore che lo manda avanti, un motore che provvede anche all’illuminazione, alla forza, al ricupero nei momenti di tedio, nei momenti di stanchezza, di opacità spirituale, di oscurità, magari di notte oscura. Un altro potrà piuttosto avere la tendenza verso una spiritualità benedettina, domenicana, francescana e via via. Faccia come crede! Ma bisogna avere in mente delle idee forza. E qui, siccome Iddio ci ha lasciati liberi., mentre si accetta tutto quello che è il deposito della fede, a uno potrà venir bene come motore un punto piuttosto di un altro. Purché lo applichi bene naturalmente. – Vedete, esiste un certo tipo, un certo angolo, una certa area in questo mondo, dove si ha molta simpatia per una certa spiritualità tutta quanta volta a considerazioni di cose alte, altissime, tre volte altissime! e poi si dimentica di mettere i piedi per terra. Nell’area alla quale io adesso mi riferisco concretamente, a percorrere tutta la letteratura spirituale, quasi mai si sente parlare di umiltà, quasi mai! Quindi, nello scegliere le cosiddette idee forza, andiamoci adagio. Stiamo attenti a tenere in mano la nostra testa, a non lasciarcela impallinare con cose astruse, cerebrali, fuori della naturalezza, della verità e della realtà. Per avere un metodo, bisogna pensare a crearsi quella serie di principi, di norme, che vengono bene per il proprio temperamento! Qui c’ è molta libertà; però attenti! Faccio un esempio, e questo fa parte del metodo sostanziale. Supponiamo che ci sia una persona che ha la dote incredibile di offendersi sempre. Uno cammina un po’ più svelto, e questa si offende. Perché? Quello ha camminato in fretta per sfuggirmi. Un altro incontra una persona che gli dà il buongiorno, ma non glielo dà col tono, con la modulazione giusta. Ci sta male, ha il mal di fegato tutto il giorno. Accade un po’ come diceva la Perpetua a don Abbondio : « Lei si offende anche se le si fa coraggio ! ». Penso che non vi siano tra voi campioni di tal genere, ma non si sa mai, potrebbe anche darsi che qualcuno abbia tendenza a offendersi di tutto. E allora bisogna che arrivi a capire che non fa bene. Ma poi a questo mondo bisogna arrivare al punto di non offendersi di niente, perché è molto più economico, si vive più a lungo e soprattutto si ama più Iddio, si ha maggiore disponibilità di noi, si evita un sacco di querele e di musi. Suppongo di avere da fare con un tipo del genere e gli ragiono. Lui mi interrompe: Ma la gente è cattiva… il tale ha detto questo e quello: non ho ragione di offendermi? Io gli rispondo: Mettiti in testa un principio, e ne illustro uno per esemplificare, ma possono esservene molti altri. Ecco il principio: gli uomini in media hanno cinque logiche al giorno. C’è chi ne ha due, pochi ne hanno una, e quelli sono tutti di un pezzo, sono diamanti, e diamanti che sul mercato si trovano raramente; c’è chi ne ha tre, quattro, fino a quelli che hanno ventiquattro, venticinque logiche al giorno. Allora, facendo una media e cercando di essere caritatevole verso il prossimo, sono arrivato alla conclusione che la media deve aggirarsi sulle cinque logiche al giorno. Quando mi dicono : « Sa, il tale ha detto la tale cosa », applico il principio: A che ora l’ha detta? Ah, ma l’ha detta prima di mangiare. È la logica di quando si ha fame, che è diversa, molto diversa da quella dopo il pranzo; la logica di quando si ha sonno, e quella è ben diversa di quando si è ben svegli; e così dopo una buona notizia o dopo una cattiva notizia. Sono tutte diverse. E allora non prendertela troppo sul serio. Col principio delle cinque logiche si arriva a capire che alla maggior parte di ciò che dicono gli uomini non è il caso di dare troppo peso. E così, aiutandosi con un po’ di logica, non ci si offende. Poi, con un po’ d’esercizio, non c’è neppur bisogno di questa logica: si tira dritto e tutto è finito. Se c’è qualche cosa da aggiustare, ci penserà il Signore. – Ma concludiamo. Il metodo sostanziale non soltanto esige le idee forza, ma richiede pure che ci si faccia quell’armamentario di idee, di principi, di formule che, considerato il nostro temperamento, i nostri difetti, le nostre carenze, ci permettono di campare alla meno peggio, di mantenere la pace della coscienza, i buoni rapporti con gli altri, senza crearci continuamente, a causa delle nostre debolezze, un sacco di imbrogli e di bastoni fra le ruote e perdere così il nostro tempo e sottrarre qualche cosa alla carità verso Dio e verso il prossimo. – Vita economica! È la considerazione della morte che fa apprezzare la vita, e l’apprezzamento della vita dice che bisogna vivere economicamente. Non si può disperdere niente. I ceri sull’altare è bene che brucino interamente e non colino, perché quel che cola si perde; che si trasformino tutti in fiamma, che la materia serva soltanto ad alimentare la fiamma. Niente di sprecato. È la grande cura che dobbiamo avere della nostra vita. Bisogna avere questo armamentario nella mente. Perché se non c’è, noi non facciamo frutto.

(6 – Continua ...)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – Leone XIII: “CONSTANTI HUNGARORUM”

Il Santo Padre, S. S. Leone XIII, nella sua costante vigilanza sulle vicende dei popoli Cattolici e della Chiesa di Cristo, rivolge la sua attenzione al popolo ungherese, popolo benemerito, dalle solide radici cristiane e patria di Santi grandi e valorosi. Le vicende minacciose del secolo già coinvolgevano questo popolo coraggioso e fermo nel difendere i valori cattolici e fedele alla Sede Apostolica pur nelle sue turbinose vicende storiche. Il Sommo Pontefice scorge approssimarsi però pericoli per la fede, la Religione, il Clero, i Regnanti ed il popolo tutto. A tutti rivolge la sua esortazione e gli ammonimenti onde rimettere in sesto una situazione che andava facendosi sempre più problematica. Tra gli ammonimenti, S. S. sottolinea la linea Cattolica per quanto riguarda i matrimoni di mista Religione, unioni piene di pericoli per le fede e per la salvezza eterna, laddove cioè viene mescolata la divina verità con la falsa dottrina a-cattolica o con abominevoli culti non cristiani, con evidenti negativi risvolti in particolare per i fondamenti dottrinali dei giovani, dei figli nati da tale unioni, che hanno indubbiamente un piede trattenuto da una palla di ferro della miscredenza e dall’infedeltà a Cristo Nostro-Signore. – Fondamentale poi, con ogni evidenza, per il Santo Padre, è la proclamazione e le diffusione della vera Dottrina Cristiana, sia direttamente, che attraverso pubblicazioni a stampa, nei riguardi particolari della gioventù scolastica e ancor più dei Seminari diocesani per la formazione di Sacerdoti esemplari per pietà, dottrina e continenza. Poi ci sono naturalmente le direttive impartite ai Vescovi ed al Clero tutto. A giudicare dai fatti storici succedutosi in quella terra di grande fede cattolica, tali moniti non furono ascoltati e sufficientemente messi in pratica; sappiamo infatti, come profeticamente ipotizzato pure in questa lettera, che pochi anni dopo, sarebbe ivi penetrata la peste e la melma social-comunista che avrebbe apportato nocumento alla Chiesa con persecuzioni di ogni genere, con oppressione del popolo tutto invaso infine da orde militari e carri armati dei “fratelli-comunisti” sovietici, sedicenti portatori di libertà e benessere, in realtà forieri di morte dei corpi e soprattutto delle anime. Se al popolo ungherese, avvertito dai Pontefici Romani e sordo ad essi, ha dovuto “pagare” con il sangue anche innocente la disobbedienza, cosa accadrà a noi altri, cittadini di popoli ancor più beneficati spiritualmente e apostati ribelli e pertinaci della Religione Cattolica? La risposta ognuno la può facilmente immaginare, e non ingannino i tempi storici dilazionati che il Signore Iddio impiega per punire, nell’attesa sempre di un pentimento e di un ritorno a Lui. Più tardi arriveranno peggio saranno. Rifugiamoci allora, noi soprattutto del “pusillus grex”, nell’Arca di salvezza che è la “VERA” Chiesa Cattolica, mettiamoci sotto la protezione della nostra Madre, la Vergine Santissima, stringiamoci intorno al Santo Padre con la preghiera e l’offerta dei nostri sacrifici di lode e, nell’attesa di una non più dilazionabile conversione, leggiamo la lettera Enciclica rivolta agli ungheresi dell’epoca e a tutti noi, Cristiani di oggi.      

Leone XIII
Constanti Hungarorum

Lettera Enciclica

La chiesa cattolica nel regno di Ungheria.-

2 settembre 1893

Alla costante pietà e al rispetto degli ungheresi verso questa Sede Apostolica, sempre mutuamente e abbondantemente corrispose la paterna benevolenza dei Romani Pontefici; e Noi stessi non abbiamo mai patito che da voi, dal vostro popolo, mancassero testimonianze di particolare carità e accortezza. – Invero manifestammo il Nostro animo con una certa singolare attenzione di tal fatta sette anni fa allorché l’Ungheria celebrò la memoria di un grandissimo e faustissimo evento. Approfittando infatti di questa occasione, scrivemmo a voi, venerabili fratelli, una lettera e in essa sia richiamammo alla memoria l’avita fede, le virtù e i fatti gloriosi degli ungheresi, sia pure comunicammo a voi suggerimenti circa quanto sembrava riguardare la salute e la prosperità di codesto popolo in questi tempi tanto avversi al Nome Cattolico. In verità il medesimo motivo e la stessa intenzione Ci spingono ora a scrivervi di nuovo.Certo in quel genere di cose che agitarono costì in questo ultimo tempo gli animi di tutti, la natura del Nostro Ufficio Apostolico richiede che esortiamo con più vigore voi e il vostro clero alla costanza degli animi, alla concordia, alla prontezza nell’istruire e ammonire opportunamente i popoli affidati alla vostra cura. – Ma ci sono presso di voi, oltre a ciò, altre cose che Ci procurano nuovo motivo di sollecitudine: intendiamo i pericoli che ogni giorno più gravi minacciano la Religione. – Di fatto queste cose, come rivolgono a sé le Nostre particolari preoccupazioni e pensieri, così sollecitano in massimo grado e con più ardore la vostra opera, venerabili fratelli, e confidiamo grandemente che essa sarà del tutto pari ai Nostri suggerimenti e alla Nostra aspettativa. – Ciò che concerne in generale i doveri dei Cattolici, in vista di così particolarmente aspro e insidioso attacco degli Istituti Cristiani, è ancor più necessario che tutti seriamente e zelantemente esaminino quanto importante sia che in ogni mutamento di tempi e di circostanze resti salva e incolume nello Stato la Religione, e parimenti quanto grandemente interessi che in ciò venga mantenuto perfetto e stabile consenso degli animi. Indubbiamente è in gioco la causa circa il sommo e il massimo di tutti i beni che è la salvezza eterna degli uomini, né di meno [è in gioco la causa] circa la conservazione e la difesa nella società Civile di ciò stesso che è intensamente richiesto sia per la pace sia per la felicità di vero nome. – Così chiaramente sentirono quegli uomini eccelsi e degni dell’oltremodo grata memoria di ogni posterità che mirabilmente risplendettero quale esimio esempio di fortezza d’animo in tutti i popoli in qualsiasi tempo e offrirono se stessi come muro per la casa di Dio; essi per la causa della Religione e della Chiesa prodigarono con decisione non solo le loro cose, ma anche la loro stessa vita. – In ciò la vostra Ungheria ha pure esempi domestici, ed essi, nel lungo decorso dei tempi, [sono] molti e insigni. Anzi, il fatto che ciò stesso [che] dal re Stefano e dal suo apostolo [fu] accolto nella Fede Cattolica sia mantenuto fedelmente e con costanza, in questo veramente, oltre al singolare beneficio di Dio, si deve riconoscere un frutto della fermissima e costante intenzione di codesto popolo; che, cioè, abbia con maturità compreso che essendo in gioco la Religione, è in gioco la causa circa la gloria del [proprio] nome, circa la stessa incolumità della propria stirpe. È sorprendente, poi, quante virtù generose e insigni abbia alimentato l’affetto di tal genere degli animi: in forza di esse gli Ungheresi opposero anche in tempi sommamente difficili all’ingerenza dei pericoli una non dissimile grandezza di fortezza e di costanza. Con il sostegno infatti di quelle virtù respinsero invitti non solo le iterate incursioni dei tartari, ma anche i lunghi e immani assalti dei maomettani: degni, certo, che in questa lotta così pericolosa venissero aiutati con ogni mezzo anche da popoli esteri, da sommi principi, massimamente dai Romani Pontefici; infatti si combatteva non solo per la fede e il dominio degli ungheresi, ma per la stessa Religione Cattolica, per la salvezza dell’Occidente. – In modo simile le bufere dei secoli recenti che produssero tanto gravi rovine presso i popoli vicini, sebbene la stessa Ungheria ne abbia sentito la violenza e abbia avuto perdite non affatto lievi, essa, tuttavia, ne sfuggì illesa, e ne sfuggirà in futuro, se solo rimanga alla Religione l’onore dovuto e tutti riconoscano quali siano i doveri quotidiani di ognuno e li osservino diligentissimamente. – E per venire a quanto riguarda più da vicino la Nostra intenzione, osservammo con dolore d’animo non affatto insignificante, che, oltre quanto nelle leggi d’Ungheria, come abbiamo altra volta deplorato, “è in discrepanza con i diritti della Chiesa e diminuisce la sua facoltà d’agire e mette impedimento alla professione del Nome Cattolico”, anche altro in questi ultimi anni è stato o decretato o operato dalla pubblica autorità non per nulla meno dannoso alla Chiesa stessa e alla realtà cattolica: per il corso, poi, che ora hanno le vostre cose comuni, è fortemente da temere che non risultino molto più gravi danni alla Religione, – Ora, poi, per ciò che concerne espressamente i punti capitali di quanto presso di voi è stato dibattuto con maggiore passione in questo tempo molto vicino, è vostro compito, venerabili fratelli, adoperarvi con zelo e concordia che tutti, sia Sacerdoti sia laici, sappiano prima di tutto che cosa a loro sia lecito e da che cosa debbano mettersi in guardia per non incorrere contro le prescrizioni della legge naturale e divina. E giacché tra di voi numerosi curatori d’anime ordinarono circa ciò stesso il giudizio della Sede Apostolica, richiesto da voi stessi, sarà vostro compito, venerabili fratelli, attendere ad esortare assiduamente i medesimi sacri Ministri che per la Religione non debbono minimamente discostarsi da quanto la Sede Apostolica avrà o stabilito o comandato: ciò che poi non è lecito ai Sacerdoti, è chiaro che non è lecito neppure ai laici. – Del resto, per impedire la forza di numerosi mali, è di grandissima importanza che i curatori d’anime non desistano mai dall’esortare la moltitudine, per quanto può essere fatto, che ci si astenga dal contrarre matrimoni con persone aliene dal nome cattolico. I fedeli comprendano giustamente e abbiano fisso negli animi, che a matrimoni di tal fatta, che la Chiesa sempre ha detestato, si deve essere contrari soprattutto, come Noi stessi in altro scritto esprimemmo, per il motivo “che essi offrono occasione ad associazione e comunicazione proibite delle realtà sacre, creano un pericolo per la Religione del coniuge Cattolico, sono d’impedimento alla buona educazione dei figli e molto spesso inducono gli animi ad assuefarsi ad avere pari considerazione delle Religioni congiunte, sottratta la discrepanza del vero e del falso”. – Ma all’avita Religione degli ungheresi, come avvisammo, sovrastano danni maggiori. Quanti costì sono nemici del Nome Cattolico non dissimulano affatto ciò che vogliono: senz’altro raggiungere con tutte le armi più adatte a nuocere che la Chiesa e la realtà cattolica vengano ogni giorno ridotte in una condizione peggiore. Perciò, venerabili fratelli, vi esortiamo con più veemenza di altre volte mai, che non risparmiate nessuna fatica per allontanare così grande pericolo dal gregge a voi affidato, dalla vostra patria. Innanzitutto prendete a cuore ed effettuate che tutti, confermati dal vostro esempio ed autorità, accolgano forti e coraggiosi la causa della Religione, fermamente la difendano. Certamente non di rado avviene – né infatti taceremo ciò che è – che alcuni tra i Cattolici, nel momento in cui dovrebbero massimamente sforzarsi con virtù e somma costanza di difendere e rivendicare i diritti della Chiesa, guidati da una certa specie di prudenza umana, o si sviano nella parte opposta o si presentano nell’agire troppo timidi e remissivi. E facilmente si vede che un tal modo d’agire apre l’adito a pericoli chiaramente gravissimi, in particolare se sono in gioco coloro che o hanno credito di autorità o che possono molto nell’opinione della moltitudine. Oltre, infatti, a venir tralasciato un compito giusto e dovuto, viene offerta causa per lo più di non lieve offesa e preclusa la strada per ottenerla e per conseguire la concordia, che fa che tutti sentano la medesima cosa, la medesima cosa approvino col loro agire. Di questa cosa, poi, cioè o dell’inoperosità o della discordia dei Cattolici, nulla ai nemici del Nome Cattolico può giungere di più desiderato: queste cose, infatti, il più delle volte finiscono là verso dove tendono a precipitare: lasciare ai nemici stessi il campo libero e aperto per osare le cose peggiori. È proprio necessario che in tutto si abbia compagne la prudenza del consiglio e la temperanza; la chiesa stessa vuole far uso nella difesa della verità di un modo riflettuto di agire: nulla è tuttavia tanto alieno dalle leggi della sicura prudenza quanto permettere che la Religione venga impunemente vessata, che la salvezza del popolo venga messa in pericolo. Avendo poi al fine della conferma della concordia dei Cattolici ed egualmente per incitarli all’attiva solerzia, forza efficace e salutare, come si mostra dall’esperienza, gli annuali convegni dei medesimi, in cui con la guida e l’autorità dei Vescovi vengono raccolti comuni suggerimenti circa la realtà cattolica, l’incremento delle opere pie di ogni genere, per questo motivo desideriamo ardentemente che venga con diligenza realizzato ciò che voi stessi non molto tempo fa sappiamo che avete opportunamente provveduto a proposito. Non dubitiamo, infatti, che convegni del genere, dei quali Noi con forza fummo promotori che si tenessero anche in altri luoghi, gioveranno grandemente alle vostre cause, – Conviene anche che voi attentamente stiate in vedetta circa il fatto che nelle assemblee dei legislatori vengano eletti uomini di provata religiosità e di dimostrata virtù che abbiano un temperamento tenace in quanto si propongono, cioè sempre disposto e vivace nel rivendicare i diritti della Chiesa e della realtà cattolica. – Voi vedete, inoltre, venerabili fratelli, come con l’aiuto sia di giornali sia di libri coloro che discordano dalla Chiesa si adoperino con vigore a spargere in lungo e in largo nel volgo i veleni degli errori e delle opinioni perverse, a corrompere i buoni costumi e ad allontanare la moltitudine dalle opere della vita cristiana. Comprendano, perciò, i vostri uomini che è già tempo di tentare qualcosa di più grande in questo campo e far sì con ogni metodo che agli scritti vengano opposti scritti che siano pari all’ingenza della battaglia e forniscano idonei rimedi ai mali. – In massima misura, poi, venerabili fratelli, vogliamo che le vostre propensioni siano fisse e poste nell’educazione dei fanciulli e degli adolescenti. Non è Nostra intenzione ripetere quanto già esponemmo nella medesima lettera a voi ricordata all’inizio: non possiamo tuttavia fare a meno di accennare brevemente ad alcune cose che sono di maggiore importanza. – Circa le scuole elementari si deve insistere e sollecitare, venerabili fratelli, che i parroci e gli altri curatori d’anime vigilino continuamente con somma applicazione su di esse e pongano l’interesse massimo del loro ufficio nell’insegnare agli alunni la Sacra Dottrina. Tale compito, poi, nobile e grave, non lo cedano alla gestione di altri, ma l’assumano essi stessi e l’abbiano carissimo, essendo certo che dalla sana e pia educazione dell’età puerile dipende per gran parte l’incolumità non solo delle famiglie, ma dello stesso stato. Ne’ crediate che alcuna operosità o solerzia sarà così grande che non ce ne sia da impiegare di più grande al fine che scuole di tal genere abbiano ogni giorno incrementi fruttuosi. Sarà assai opportuno il fatto che in ciascuna diocesi siano istituiti “ispettori” delle scuole, sia un “diocesano” sia dei “decanali”, con i quali ogni anno i Vescovi tengano consiglio circa lo stato e la condizione delle scuole e anche circa le rimanenti cose riguardanti la fede, i costumi e la cura delle anime. Che se sia necessario che o vengano, secondo il bisogno dei luoghi, istituite nuove scuole o ampliate quelle già fondate, non dubitiamo affatto che la liberalità vostra, venerabili fratelli, già messa alla prova da molti soggetti, e parimenti quella dei Cattolici di ogni ordine sia pronta e si mostrerà generosa. – Circa le scuole medie – come si dice – e quelle delle scienze maggiori, si deve con molta assiduità star in guardia che quanto di bene è stato infuso come seme negli animi dei fanciulli, non vada miseramente perduto negli adolescenti. Per quanto, perciò, potete o con le opere o con le parole, tanto adoperatevi, venerabili fratelli, che pericoli di tal fatta o vengano rimossi o vengano ridotti: e innanzitutto la vostra solerzia pastorale ottenga che alle lezioni d’insegnamento della religione vengano delegati uomini probi e dotti e che vengano rimosse quelle cause che troppo spesso impediscono il frutto salutare e copioso delle medesime. – Del resto, sebbene Ci siano ben conosciute e apprezzate le cure rivolte da voi stessi che codeste sedi di ottimi studi, che secondo l’intenzione dei promotori debbono essere in potere della Chiesa e dei Vescovi, rimangano tali quali [furono] dagli stessi istituite, vi esortiamo, tuttavia, ancor più che, tolta ogni opportunità, proseguiate ad adoperarvi in ciò stesso con comune consultazione, come è vostro diritto e dovere. Ciò che infatti è concesso a quanti sono dissenzienti dal Nome Cattolico, ripugna sia all’equità sia alla giustizia negarlo ai Cattolici: pubblicamente poi importa che quanto è stato così piamente e sapientemente istituito dagli antenati, venga impiegato perpetuamente non a detrimento della Chiesa e della Fede Cattolica, ma a difesa e a sostegno dell’una e dell’altra e in tal modo per il bene dello Stato stesso. – Infine la natura del Nostro compito richiede che vi affidiamo con grande vigore quanto in quella medesima lettera vi abbiamo affidato circa i chierici adolescenti, i presbiteri. – Certamente se è vostro compito, venerabili fratelli, di porre l’attenzione e l’opera maggiore nell’educare rettamente ogni gioventù, è necessario che vi diate molto di più da fare per coloro che crescono per la speranza della Chiesa, affinché appunto essi e siano degni dell’onore del Sacerdozio e mostrino una virtù adatta secondo i tempi ad adempierne giustamente i compiti. In questo rivendicando i sacri seminari di diritto la precipua funzione della vostra vigilanza, sforzatevi ogni giorno con più alacre applicazione, che essi fioriscano di ottimi indirizzi e abbondino di tutti quegli aiuti che sono necessari; chiaramente così che mediante l’ammaestramento di scelti superiori, gli alunni delle sacre realtà vengano con maturità e pienezza guadagnati ai costumi, alle virtù proprie del loro ordine e a tutto il decoro della dottrina sia divina sia umana. – Per ciò poi che concerne un operare fruttuoso del vostro Clero, è richiesto in grado massimo da questo tempo che la vostra fermezza di fedeltà al dovere, venerabili fratelli, risplenda singolare sia nella concordia nel dirigerlo, sia nella solerzia e carità nell’esortare e ammonire, sia nel difendere la disciplina ecclesiastica. – D’altra parte quanti appartengono all’ordine del Clero è necessario che rimangano aggrappati ai loro Vescovi con somma fede, accolgano i loro moniti, ne favoriscano i suggerimenti e le iniziative; nell’esercizio, poi, dei compiti sacri, nell’accogliere le fatiche per la salvezza eterna degli uomini si offrano sempre pronti e zelanti con la carità quale guida. – Giacché poi in tutti gli ambiti gli esempi dei Sacerdoti possono molto, essi si adoperino innanzitutto per costantemente mostrare se stessi forma viva di virtù e continenza agli occhi del popolo cristiano. Prudentemente, poi, si guardino dal darsi troppo agli interessi per le realtà civili o politiche; e ricordino spesso il detto dell’apostolo Paolo: “Nessuno, militando per Dio, intralcia se stesso con faccende secolari: per piacere a colui da cui ricevette l’approvazione” (2Tm II, 4), Certo, come ammonisce San Gregorio Magno, è giusto non abbandonare di provvedere per le cose esterne per via della sollecitudine di quelle interne: e specificatamente, trattandosi di difendere la Religione o di favorire il bene comune, non si devono, certo, trascurare quei sostegni e aiuti che il tempo o il luogo apporti.
È’ necessaria, tuttavia, somma prudenza e vigilanza affinché, appunto, gli uomini sacri dell’ordine non ne oltrepassino l’importanza e la giusta misura ed essi sembrino curare meno le cose celesti che le umane. In modo molto appropriato [dice] il medesimo Gregorio Magno: “Le faccende secolari quindi devono talora per solidarietà essere sopportate, giammai però essere ricercate per amore; affinché esse con il loro peso, aggravando la mente dell’amante, non sommergano questa, avendola vinta, dalle cose celesti in quelle terrene”. – Vogliamo anche che coloro che presiedono le curie vengano da voi sollecitati a custodire il “peculio” delle loro chiese religiosamente e lo amministrino con somma diligenza: se poi anche in questo ambito si fossero insediate cose meno rette, voi parimenti mettete in moto l’adatta gestione secondo il compito. – Inoltre riteniamo molto opportuno che dal Clero venga prestata premurosa cura che i sodalizi o le confraternite laiche che sono costì, rifioriscano nel primitivo decoro. Di fatto è in gioco una realtà che riguarda non meno il bene dei medesimi sodalizi che quello pubblico della Religione. Infatti, per omettere le altre cose, tali sodalizi possono, certo, essere di grande aiuto a voi e al vostro clero sia nel guadagnare il popolo alla pietà, alla vita cristiana, sia anche nel confermare quella salutare concordia degli animi e delle volontà che quanto mai vivamente desideriamo. Infine circa tutto quanto riguarda la difesa della Religione e dell’avita fede o l’incremento delle istituzioni di Nome Cattolico o anche la disciplina di ambo il Clero, pensiamo che sarà chiaramente ottimo e saluberrimo, venerabili fratelli, se vi abituerete a consultarvi ripetutamente tra di voi per decretare di comune giudizio quelle cose che riconoscerete o necessario o più opportune. – Confidiamo che tutti i Cattolici d’Ungheria, vista la china così pericolosa delle loro cose, e riconoscendo in tutto ciò che abbiamo detto una testimonianza della Nostra paterna sollecitudine e della Nostra amantissima volontà verso di loro, prenderanno coraggio e forza e con ogni religiosità, come si conviene, obbediranno ai nostri suggerimenti e moniti. A voi poi, venerabili fratelli, e parimenti al Clero e al popolo cattolico, che strenuamente vi affaticate con una sola mente e con un solo animo per la Religione, sarà d’aiuto propizio Dio ed Egli soprattutto donerà felice risolutezza alle vostre iniziative. Né mancherà senz’altro in causa santissima e giustissima l’amore benevolo e generoso del sommo Principe, diciamo dell’apostolico vostro Re, del quale anche dagli inizi del suo principato sono state largamente scorte le benemerenze verso il vostro popolo. – Affinché tutto vada secondo i desideri e in modo prospero, anche voi con Noi, venerabili fratelli, presentate forti preci a Dio: in modo tutto particolare interponete il patrocinio dell’augusta Genitrice di Dio; implorate poi anche la fede di santo Stefano vostro apostolo, affinché dal cielo guardi benigno la sua Ungheria e conservi in essa santamente e inviolatamente i benefici della divina Religione. – Come augurio, poi, dei doni celesti e come testimonianza della Nostra paterna benevolenza impartiamo, venerabili fratelli, a voi, al Clero e a tutto il vostro popolo amantissimamente la Benedizione Apostolica.

Roma, presso San Pietro, 2 settembre 1893, anno XVI del Nostro pontificato.