CONOSCERE SAN PAOLO (41)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO I.

La fede principio di giustificazione.

I. LA FEDE GIUSTIFICANTE.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. FEDE PROTESTANTE E FEDE CATTOLICA. — 2. NATURA DELLAFEDE. — 3. OGGETTO DELLA FEDE. — 4. VALORE DELLA FEDE.

1. È assai difficile sapere che cosa intendessero per la fede che giustifica i riformatori del secolo XVI, perché in loro non si trovanoné definizioni precise né nozioni uniformi. I loro testi messi a confronto lasciano una forte impressione di oscurità e d’incoerenza. I corifei del protestantesimo erano bensì concordi nel negare che la fede informe sia una vera fede; ma siccome volevano eliminare dall’atto di fede l’elemento intellettuale, pure lasciando gli la certezza, il loro imbarazzo nel definire la loro fede speciale era grandissimo. Se essi dicevano con Calvino, che la fede è « una conoscenza fermae certa della benevolenza divina verso di noi », avevano bisogno dilunghi commenti per spiegare che tale atto partiva dal cuore e nondall’intelletto, e non sapevano dove basare la realtà di una tale fedeil cui oggetto, nel momento in cui veniva percepito come esistente,non esisteva ancora. Se preferivano la definizione di Lutero: « unafiducia certa e profonda nella bontà divina e nella grazia manifestatae conosciuta per mezzo della parola di Dio », era loro impossibile ildire in che modo questa fiducia fosse certa, eccetto che si ammettesseche essa medesima fosse preceduta da un atto di fede intellettuale.Non abbiamo il diritto di aspettarci maggiore precisione e chiarezzadai protestanti moderni. La maggior parte, anche di coloroche si potrebbero credere disposti a emanciparsi dall’ortodossia luterana,considerano sempre la fiducia come l’elemento unico o principale della fede. In molti di loro si nota però la cura di evitare ciòche la nozione protestante ha di troppo urtante o di apertamentecontrario alla Scrittura. Così B. Weiss unisce la fiducia all’adesione intellettuale e intende soprattutto per fiducia quella che si dimostraa Dio col credere alla sua parola; è il pius ædulitatis affectus dei teologi cattolici. Al contrario, certi razionalisti mantengono senza riguardi le concezioni radicali dei primi riformatori e con questo appunto ne mettono a nudo l’assurdità fondamentale. Agli occhi diBaur, per esempio, « la fede, come principio di giustificazione, è la persuasione fondata sopra Gesù Cristo, che ciò che non è, tuttavia è »: e si domanda con stupore che cosa possa giovare un tale attoper la nostra salute. Vi è infatti proprio da sbalordire, perché è la negazione pura e semplice del principio di contraddizione. Ma la confusione va ancora più avanti: « La fede, secondo Fricke, è una presadi possesso ricevente, la quale tuttavia è prima resa possibile dalla recezione della grazia preparata in Dio prima di ogni recezione ».Quale sfinge sarebbe capace d’indovinare tale enigma? Non bisogna meravigliarsi se la nozione della fede protestante manca di chiarezza; poiché, secondo l’autore della definizione citata or ora, il pensiero di Paolo è così profondo, che pochissimi uomini sono riusciti a penetrarlo, e prima di Lutero era interamente sconosciuto da più dimille anni. Il primo che lo abbia compreso, al dire di Harnack, è l’eretico Marcione, che però lo comprese molto male. Di fronte a tali incertezze, mettiamo la dottrina costante dellaChiesa Cattolica, così formulata dal Concilio Vaticano: « La fede è una virtù soprannaturale con la quale, sotto l’influsso e con l’aiuto della grazia, noi crediamo come vere le cose rivelate, non per motivo della loro verità intrinseca accessibile ai lumi naturali della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che le rivela e che non può né ingannarsi né ingannare ». Il Concilio di Trento dichiara che « noi siamo giustificati dalla fede, perché la fede è l’origine, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » e che « noi siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione, né la fede né le opere, può meritare la grazia della giustificazione (Conc. Vatic. Sess. III, cap. 2; Conc. Trid. Sess.VI, cap. 8) ». La fede è l’origine della nostra salvezza perché è la prima disposizione salutare, e senza di essa il peccatore non può né sperare né pentirsi veracemente, né amare Dio di un sincero amore. Essa ne è il fondamento, perché tutto il resto si appoggia sopra la fede; se questa cade, cade con lei tutto l’edificio, mentre essa si può reggere anche se cadono le altre virtù. Essa ne è la radice, non già perché essa sia il germe spontaneo e infallibile delle altre disposizioni soprannaturali, ma perché essa concorre, con l’aiuto divino, a produrle e a mantenerle. – Prima di esaminare in che modo la fede giustifica, studiamo in san Paolo la natura, l’oggetto e il valore della fede giustificante.

2. In questa analisi bisogna evitare tre vizi di metodo. Il primo sarebbe quello di spiegare l’uso biblico con l’uso profano: la fede cristiana e la fede pagana differiscono in tutto e per tutto; esse non hanno nessuna misura comune; i classici hanno bensì fornito agli scrittori sacri la parola « fede », ma nulla più. Un secondo sbaglio sarebbe quello di prendere come punto di partenza l’etimologia della parola greca. Quando gli Apostoli — e prima di loro i Settanta — adottarono questa parola, la nozione di fede aveva dietro di sé una lunga storia: prodotto di una razza e di una civiltà diversa, è ben poco rischiarata dall’etimologia greca (= cercar di persuadere). Finalmente. l’ultimo scoglio sarebbe quello di procedere dalla nozione di « fede » alla nozione di « credere ». Bisogna fare la strada a rovescio; poiché in ebraico, dove cominciò a elaborarsi il concetto della fede cristiana, la derivazione grammaticale, conforme all’evoluzione logica dell’idea, va dal verbo « credere » al sostantivo « fede »; e quest’ultima parola non ha ancora quasi mai il significato religioso che il verbo « credere » ha ordinariamente. Ogni attento lettore rimane colpito dal fatto che san Paolo, come pure il redattore dell’Epistola agli Ebrei, suole collegare la fede cristiana con la fede dell’Antico Testamento e non sembra fare nessuna differenza tra queste due fedi; fatto questo tanto più curioso perché nell’Antico Testamento il compito della fede pare a tutta prima assai ridotto: si spera in Dio, gli si obbedisce, lo si teme, si ama; ma non si pensa a farsi un merito col credere in Lui, poiché il rifiutarsi di credere è l’errore del solo « insensato ». La fede è quasi soltanto menzionata nei casi eccezionali in cui essa ha ostacoli da superare, dubbi da vincere o gravi obblighi da compiere; allora, è vero, è la virtù capitale, come il suo contrario, l’incredulità, è il vizio più odioso. La salute o la rovina del popolo dipendeva dalla sua fede: « Se non credete, voi non sussisterete (Is. VII, 9. Cfr. XLIII, 10) ». — « Credete in Jehovah vostro Dio e voi sarete salvi  (II Paral. XX, 20) ». Tale fu la fede di Abramo, la fede dei Niniviti, la fede di cui parla Abacuc, la fede d’Israele al suo uscire dall’Egitto: « Essi credettero a Jehovah ed a Mosè suo servo (Es. XIV, 31) ». Dappertutto la fede si afferma come un assenso alla parola di Dio o del suo profeta, ma l’elemento intellettuale raramente è isolato; quasi sempre gli va unito un sentimento di sicurezza, di fiducia, di abbandono, di obbedienza, di amore filiale: l’adesione della mente produce la vibrazione del cuore. – Passando dall’Antico al Nuovo stamento. noi possiamo misurare con uno sguardo tutta la via percorsa. La fede non è più indicata come un fatto eccezionale, ma è oramai l’atteggiamento normale del Cristiano; le due parole « fede » e « credere » si presentano ad ogni pagina in proporzioni quasi uguali; l’accezione profana, completamente eliminata dal sostantivo, tende a scomparire anche nel verbo; finalmente i due termini hanno acquistato un significato tecnico il quale permette di adoperarli in modo assoluto: la, fede è l’accettazione del Vangelo, e credere vuol dire professare il Cristianesimo. Questa pienezza di significato rende malagevole l’analisi della fede cristiana; tuttavia un confronto attento dei testi ci suggerisce le seguenti osservazioni: La fede non è una pura intuizione, una tendenza mistica verso un oggetto piuttosto sospettato che non conosciuto; essa « suppone la predicazione: Fides ex auditu; essa è l’adesione della mente a una testimonianza divina (Rom. X, 17; Gal. III, 2-5; I Tess. II, 13). — La fede è opposta alla visione, e quanto all’oggetto conosciuto e quanto alla maniera di conoscere; l’una è immediata e intuitiva, l’altra ha luogo mediante un intermediario (II Cor. V, 7). — Tuttavia la fede non è cieca; essa è pronta a dare ragione di sé medesima e aspira sempre a una maggiore chiarezza (II Cor. IV, 4-6). — Essa è intimamente unita, da una parte alla speranza e alla carità, con le quali forma una terna inseparabile, e dall’altra all’obbedienza e alla conversione del cuore. — La fede, per quanto ferma e incrollabile nella sua adesione, ha tuttavia dei gradi e può crescere d’intensità e di perfezione (I Cor. III, 1-2; II Cor. X, 15; Col. II, 7; II Tess. I, 3, etc.). — Finalmente, derivando dalla grazia, essa possiede un valore intrinseco che la rende gradita a Dio (Ephes. II, 8).  Prima di esaminare donde le venga il suo valore, diciamo qual è il suo oggetto.

3. Nell’atto di fede bisogna distinguere l’oggetto formale — il motivo di credere — e l’oggetto materiale sul quale la fede si dirige. Quello che provoca l’adesione della mente è sempre la testimonianza di Dio, sia che si produca direttamente, sia che arrivi per mezzo degli araldi autorizzati della rivelazione. Dio stesso parlò ad Abramo, a Mosè; a noi parla per mezzo dei Profeti e degli Apostoli; ma questa differenza nel modo di trasmissione non cambia nulla alla testimonianza divina: « Avendo ricevuto la parola di Dio che noi vi abbiamo fatto intendere, voi l’avete ricevuta non come parola degli uomini, ma, quale è veramente, come parola di Dio (I Tess. II, 13) ». Il Vangelo non è una invenzione degli Apostoli, perché essi non l’hanno « né ricevuto né appreso da un uomo, ma per rivelazione di Gesù Cristo (Gal. I, 12) » che è la Sapienza incarnata. Quindi la parola evangelica è la parola di Dio, o semplicemente la Parola, e credere ai messaggeri di Dio è credere a Dio medesimo. – Mentre l’oggetto formale non cambia mai, l’oggetto materiale varia all’infinito. Esso può riguardare il complesso della rivelazione o un gruppo di verità o un dogma particolare: « Se noi siamo morti con Gesù Cristo, noi crediamo che vivremo anche con Lui. — Se confessi con la bocca, che Gesù è il Signore, e se credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. VI, 8; X, 9). — Se crediamo che Gesù morì e risuscitò, così pure Dio per mezzo di Gesù ricondurrà con sé quelli che sono morti (I Tess. IV, 14) ». Qui la fede è un’adesione intellettuale a una verità di ordine storico, senza nessuna idea accessoria di fiducia o di abbandono; tuttavia è la fede verace, la fede cristiana, poiché ad essa è legata la salvezza. Infatti, per quanto sia ristretto l’oggetto materiale, l’oggetto formale rimane sempre il medesimo, ed è questo che specifica la fede. Quando non è espresso, l’oggetto materiale è più che mai comprensivo. San Paolo suole chiamare i fedeli col nome di « credenti », perché la fede è il sentimento vasto e universale che riassume meglio il carattere del Cristiano. La « fede » è la professione di tutto il Vangelo ed è anche, oggettivamente, il Vangelo in tutta la sua ampiezza. In una parola, « credere » è essere discepolo del Cristo; poiché oltre all’adesione intellettuale, la fede sincera implica anche una sommissione tacita e virtuale ai doveri che il Cristianesimo impone. Quando l’oggetto della fede è indicato — se lasciamo da parte certe locuzioni eccezionali, come « fede nel Vangelo, fede nella verità » — esso è sempre Dio o il Cristo. E allora, coincidendo l’oggetto materiale con l’oggetto formale, la nozione della fede è abbastanza complessa.- Se il credere a Dio (Θεῷ = teo) può non essere altro che il prestar fede alla sua testimonianza, il credere in Dio aggiunge a questo concetto certe delicate sfumature di cui rendono bene il significato le particelle greche. Credere in Dio non è soltanto credere alla sua esistenza, ma riposare su Lui (ἐπὶ Θεῷ = epi teo) come sopra un appoggio incrollabile, è rifugiarsi in Lui (ἐπὶΘεόν = epi teon) come in un asilo sicuro, è tendere a Lui (εἰς Θεόν = eis teon) come al proprio ultimo fine. In questi ultimi anni si è negato che la « fede del Cristo » sia la fede al Cristo; si vorrebbe invece che sia la fede che Gesù stesso avrebbe avuto durante la sua vita mortale. Fortunatamente i teologi e gli esegeti, così protestanti come cattolici, resistendo a quel certo fascino che esercita sempre un’opinione nuova, per quanto possa essere arbitraria, continuano a vedere nella « fede del Cristo » la fede di cui il Cristo è oggetto da parte dei fedeli. Non vi è espressione più adeguata della fede giustificante di Paolo (Gal. II, 16). Gesù Cristo non è soltanto il plenipotenziario di Dio e il mediatore unico della nuova Alleanza; egli è ancora il compendio del Vangelo, poiché è il centro dell’economia della salute, e tutte le promesse di Dio si compiono in Lui. Perciò predicare il Cristo è predicare il Vangelo, confessare il Cristo è professare la Religione che Egli venne a fondare, credere al Cristo è accettarlo come Salvatore, confidare nella sua mediazione, sottomettersi alla sua legge. Noi siamo giustificati dalla fede di Gesù Cristo e viviamo nella fede del Figlio di Dio (Gal. II, 20), perché questa fede, ben lungi dall’essere confinata nel dominio dell’intelligenza, è una fede pratica, attiva, obbediente, che dalla carità riceve la sua forma e il suo merito.

4. Anche spogliato delle sue modalità accidentali, come la fiducia e la sommissione al volere divino, l’atto di fede possiede un valore morale intrinseco. Infatti esso non può esistere, neppure allo stato più semplice, senza il pius credulitatis affectus col quale l’uomo liberamente si inchina sotto l’autorità di Dio e confessa implicitamente la veracità della sua testimonianza. « Senza la fede è impossibile piacere (a Dio); poiché chiunque si avvicina a Dio deve credere che Egli esiste e che diventa rimuneratore per coloro che lo cercano (Ebr. XI, 6) ». Noi abbiamo qui la fede più intellettuale, la più sciolta dalle condizioni morali, quella in cui ha meno parte la volontà; eppure l’autore ispirato afferma che senza questa fede è impossibile piacere a Dio, e che con essa è possibile piacergli. Ne è testimonio Enoc: la Scrittura non dice nulla della sua fede, ma gli rende la testimonianza di essere stato gradito a Dio; e il nostro autore ne conchiude che egli piacque a Dio per la fede, poiché senza la fede non è possibile piacergli (Ebr. XI, 5). – Da ciò si conchiude necessariamente che la fede possiede per se stessa un valore morale capace di attirare sopra l’uomo il favore divino … Non è altrimenti della fede di cui parla Abacuc. Dio ha detto al suo profeta: « Se la visione ritarda, tu aspettala; poiché certamente verrà e non mancherà ». Poi soggiunge: « Ecco che soccombe colui la cui anima non è retta, mentre il giusto, per la sua fede, vivrà (Abac. II, 4) ». – Il senso del primo membro non si può fissare con certezza; ma sono fuori di dubbio tre cose: vi è contrasto tra la sorte dell’incredulo, del superbo, che si rifiuta di credere alla visione profetica, e la sorte dell’uomo giusto e pio che vi crede. La fede consiste appunto nel credere che la profezia fatta in nome di Dio si compirà; dunque è proprio la fede quale l’abbiamo descritta una ferma adesione alla parola divina. Il frutto della fede è che per essa il giusto vivrà, cioè sarà oggetto di una preservazione provvidenziale. Per i contemporanei di san Paolo, come per lo stesso san Paolo, la fede di Abramo è la fede tipica. Essa infatti esclude tre difetti chele toglierebbero il merito e il valore: l’incredulità, il dubbio e l’esitazione. Il suo oggetto era arduo, incredibile, umanamente impossibile: eppure il Patriarca non si abbandonò all’incredulità, ma credette anzi contro ogni verosimiglianza, e, se si può dire, contro ogni ragione: qui contra spem in spem credidit. Egli non si fermò punto alle considerazioni che potevano far nascere il dubbio — la sua vecchiaia, il suo corpo debole, l’età avanzata di Sara — ma credette con fede robusta, incrollabile: confortatus est fide. Fece anzi assai più: volgendo subito i suoi pensieri verso Colui la cui veracità è pari alla potenza, non ebbe neppure un momento d’incertezza: non hæsitavit diffidentia. La sua fede fu pronta, ferma, intera, perfetta; perciò fu premiata: « Dio, dice la Scrittura, gl’imputò questo a giustizia ». Benché non vi sia né eguaglianza nè equivalenza tra la fede e la giustizia, bisogna tuttavia assolutamente che vi sia una certa proporzione tra la fede e la giustizia; infatti ciò che è nulla non può essere imputato a nulla. San Paolo poi ci dice come la fede di Abramo fu gradita a Dio e perché ebbe la ricompensa: perché il Patriarca, con la fermezza del suo assenso, con l’implicita confessione della veracità divina, col suo atteggiamento fiducioso verso promesse che parevano irrealizzabili, con la prontezza della sua obbedienza, aveva dato gloria all’Autore di ogni bene: dans gloriam Deo (Rom. IV, 16-22). Tale è il valore proprio, il valore morale della fede. Non già che la fede abbia per se stessa questo valore, o che l’uomo se ne possa vantare. Se essa è in noi e se non è senza di noi — poiché è un atto umano — l’Apostolo c’insegna che, in ultima analisi, essa non viene da noi, ma da Dio: « Voi siete stati salvati dalla grazia per mezzo della fede; e questo non da voi stessi — è un dono di Dio — non per ragione delle opere, affinché nessuno si vanti (Ephes. II, 8-9 ) ». Essere salvati nel tempo stesso dalla fede e dalla grazia sembrerebbe una contraddizione, e tale veramente sarebbe, se la fede venisse da noi; ma non è così, risponde l’Apostolo, tutto questo è un dono di Dio; voi non potete attribuirlo né a voi né alle vostre opere. Perciò la fede è un’operazione, un prodotto dello Spirito Santo o, come dice ancora lo stesso Apostolo, un frutto dello Spirito (Gal. V, 22): alla sua origine soprannaturale essa va debitrice del suo valore. Ora noi siamo in possesso dei tre elementi della fede cristiana quale ci è descritta da san Paolo: l’elemento intellettuale non manca mai: nel caso in cui il doppio oggetto, materiale e formale, fosse pienamente evidente, si potrebbe concepire la fede senza il concorso della volontà, ma non mai senza il concorso dell’intelligenza. La fede in cui non intervenisse affatto la volontà, non sarebbe la fede libera, la fede meritoria, la fede teologica; tuttavia le si potrebbe dare, per estensione, il nome di fede, come fa san Giacomo; la fede in cui l’intelligenza non avesse nessuna parte, non è neppure concepibile, perché ogni fede è una convinzione, e ogni convinzione suppone un assenso della mente. — Un secondo elemento della fede è l a fiducia, e si può intendere in due maniere: fiducia in colui che parla, e fiducia in colui che promette. La prima è inerente all’atto di fede; è, presso a poco, il pius credulitatis affeetus dei teologi. L’altra, accidentale, non è che una modalità dell’oggetto materiale, quando questo consiste in un aiuto presente o in un benefizio promesso: Contra spem in spem credidit — Il terzo elemento della fede viva è una doppia obbedienza: obbedienza della mente alla parola di Dio con l’accettazione pronta e ferma della testimonianza divina, obbedienza del cuore pronto a conformarsi in tutto al volere divino nella misura in cui si manifesta.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – AMANTISSIMI REDEMPTORIS

….. [i Sacerdoti] rivolgano con convinzione la mente al culto, alle cose divine e alla salvezza delle anime; mostrando se stessi come ostia viva e santa donata al Signore, e testimoni viventi della Passione di Gesù, offrano a Dio, come si conviene, con mani pure e cuore mondo, la Vittima di espiazione per la propria salvezza e per quella di tutto il mondo … Sono queste le espressioni che si addicono ad un Sacerdote di Cristo che opera nella sua “vera” Chiesa, la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana … ad un Sacerdote che offre a Dio Padre il Sacrificio incruento del Figlio Unigenito, Sacrificio perenne che si perpetuerà fino al giorno del secondo Avvento di Cristo, secondo la profezia di Malachia, per la salvezza dell’umanità redenta sulla Croce, dal Corpo e dal Sangue di GESÙ-CRISTO. Sul nostro pianeta, non c’è un ufficio di questo più importante, ufficio che non è stato accordato né agli Angeli, né ai Serafini, e neppure alla Madre di Dio, la Vergine Maria. – In questa breve Enciclica il Santo Padre ribadisce le norme dei suoi predecessori, circa l’offerta del Sacrificio della Messa per le anime loro affidate, obbligando i Parroci ad applicarla al popolo da essi guidato, non solo nel giorno della Domenica, ma in tutte le feste di precetto pur successivamente soppresse, quindi non più di precetto. L’elogio del Sacerdozio è qui veramente significativo e bello, specie se confrontato con i falsi preti eretici, apostati, della setta modernista del novus ordo o dei falsi tradizionalisti, gli eretici sedevancantisti papi-faidate, o i “fraternitari” partoriti dalle logge massoniche di Sion o dei cavalieri kadosh. Questi falsi preti, li riconosciamo dai frutti: sono falsi perché o mai validamente ordinati secondo le regole, le intenzioni, o le disposizioni liturgiche della Chiesa Cattolica da prelati massoni dediti al culto di lucifero, o dai riti dell’antipapa satanista kazaro-illuminato, nei quali non c’è tonsura, non ci sono ordini minori, ma c’è la non-consacrazione di un non-vescovo a sua volta mai-ordinato con rito cattolico secondo le intenzione e le formule della Chiesa Cattolica. E lo squallore è evidente, la scristianizzazione è palese, l’inganno smascherato … l’abominio della desolazione… dai frutti li riconoscerete: sodomia, pedofilia, avidità, lussuria, impudicizia, libertinaggio, seminari-gay village … Ma “sursum corda”, leggiamoci l’Enciclica … che è meglio!


Pio IX
Amantissimi Redemptoris

Sono state tanto grandi la bontà e la benevolenza dell’amantissimo Redentore Nostro Gesù Cristo, Unigenito Figlio di Dio, verso gli uomini che, come ben sapete, Venerabili Fratelli, assunta la natura umana, non solo accettò di subire i più aspri tormenti e di soffrire la più crudele delle morti sulla croce per la nostra salvezza, ma volle mantenere eterna la sua presenza fra noi nel Santissimo Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue per esserci, con infinito amore, guida e nutrimento e per garantirci, al suo ritorno in cielo alla destra di Dio Padre, la sua divina presenza e un sicuro sostegno della vita spirituale. – Non contento di averci amato con una tale sublime carità, propria di Dio, profondendo doni su doni, volle spargere ulteriormente le ricchezze del suo amore verso di noi perché comprendessimo appieno che, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Proclamando infatti se stesso eterno Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, istituì nella Chiesa Cattolica un Sacerdozio perpetuo, e quello stesso Sacrificio che Egli stesso offrì una volta per sempre, spargendo sull’altare della croce il suo preziosissimo Sangue per riscattare e redimere l’intero genere umano dal giogo del peccato e dalla schiavitù del demonio, pacificando le cose del cielo e quelle della terra, ordinò si mantenesse operante fino alla fine dei secoli, e ingiunse che ciò avvenisse ogni giorno, diverso solo per il modo dell’offerta, per mezzo del ministero dei Sacerdoti, perché i salutari e sovrabbondanti frutti della sua Passione continuassero a riversarsi sugli uomini. – In questo incruento Sacrificio della Messa, che si compie per mezzo del mirabile ministero dei Sacerdoti, viene dunque offerta quella stessa Vittima che ci ha riconciliati con Dio Padre e che, racchiudendo in sé il potere legittimo di placare, di impetrare e di soddisfare, “ripropone misteriosamente la morte dell’Unigenito che una volta risorto dai morti non muore più, e la morte non avrà più potere su di Lui; Egli vive dunque in se stesso immortale e incorruttibile, ma viene nuovamente immolato per noi in questa misteriosa sacra offerta” . È un Sacrificio così puro che nessuna indegnità e malvagità degli offerenti può in alcun modo sminuire. – Il Signore stesso, per mezzo di Malachia, divinamente ispirato, predisse che questo sacrificio sarebbe stato grande fra le genti e avrebbe dovuto essere offerto puro in ogni parte del mondo, dal sorgere al tramontare del sole (Mal. I,11). È un sacrificio talmente ricolmo di frutti da abbracciare la vita presente e quella futura. – Dio, riconciliato da questo Sacrificio, elargendo la sua grazia e il dono del perdono, cancella anche le colpe più gravi e, pur gravemente offeso dai nostri peccati, trascorre dall’ira alla misericordia e dalla severità della giusta punizione alla clemenza. Tramite questo dono vengono annullati il reato e la soddisfazione delle pene temporali; per mezzo suo può essere portato sollievo alle anime dei morti in Cristo non pienamente purificate, e possono essere conseguiti anche beni temporali purché non in contrasto con quelli spirituali. Sempre per suo tramite vengono debitamente esaltati l’onore e il culto resi ai Santi e, in primo luogo, alla santissima Madre di Dio, la Vergine Maria. – Secondo la tradizione ricevuta dagli Apostoli, offriamo il divino Sacrificio della Messa “per la pace di tutte le Chiese, per la doverosa armonia del mondo; per i regnanti, per i soldati, per gli alleati, per gli ammalati, per gli afflitti, per tutti coloro che versano nell’indigenza, per i defunti ancora trattenuti in purgatorio, sorretti dalla ferma speranza che potrà tornare di grande giovamento la preghiera elevata in loro favore mentre è presente la Vittima santa e tremenda” . – Non esistendo dunque niente di più grande, di più salutare, di più santo, di più divino dell’incruento Sacrificio della Messa, per mezzo del quale, attraverso le mani dei Sacerdoti, viene offerto e immolato a Dio, per la salvezza di tutti, lo stesso Corpo, lo stesso Sangue, lo stesso Dio e Signore Nostro Gesù Cristo, la Santa Madre Chiesa, dotata dell’inesauribile tesoro del suo divino Sposo, mai tralasciò di circondarlo di cura e di attenzioni, perché un così grande Mistero fosse compiuto da Sacerdoti con cuore grandemente puro e mondo, e venisse celebrato con un apparato esteriore di cerimonie e di riti tale da rendere il culto espressione della grandezza e della magnificenza del Mistero, in modo che i fedeli potessero essere stimolati alla contemplazione delle realtà divine racchiuse in un così ammirevole e venerando Sacrificio. – Con pari cura e sollecitudine la stessa pietosissima Madre mai cessò di ammonire, di esortare e di convincere i suoi fedeli figli perché intervenissero il più frequentemente possibile a questo divino Sacrificio, con le dovute predisposizioni di pietà, di amore e di devozione, ricordando loro il preciso dovere di presenziarvi tutte le feste di precetto, con l’animo e lo sguardo devotamente intenti a quel mistero da cui potevano attingere con facilità la divina misericordia e l’abbondanza di tutti i beni. – E poiché ogni Sacerdote, scelto tra gli uomini, è deputato per gli uomini a tutto ciò che riguarda Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati, in forza delle vostre approfondite conoscenze, Venerabili Fratelli, Voi sapete bene che i pastori di anime sono tenuti ad offrire il sacrosanto Sacrificio della Messa per le anime loro affidate. Si tratta di un obbligo che, secondo gli insegnamenti del Concilio Tridentino, nasce dalla stessa legge Divina. Il Concilio fa ricorso a parole assai autorevoli ed eloquenti per affermare “che a tutti coloro a cui è stata affidata cura di anime è fatto obbligo, per divina disposizione, di riconoscere le proprie pecore e di offrire per esse il Sacrificio” . – È pure nota a tutti Voi l’Enciclica di Benedetto XIV, Nostro Predecessore di felice memoria, del 19 agosto 1744 . Parlando diffusamente e in modo approfondito di questo obbligo e procedendo ulteriormente nel precisare e confermare il pensiero dei Padri Tridentini, al fine di eliminare controversie, dubbi e disquisizioni, stabilì in modo chiaro ed inequivocabile che i parroci e tutti coloro che si trovano in cura d’anime debbono offrire il Sacrificio della Messa per il popolo loro affidato, tutte le domeniche e le feste di precetto, anche in quelle che per sua disposizione, in molte Diocesi, erano state tolte dal novero delle feste di precetto per permettere a quelle popolazioni di dedicarsi alle opere servili, fermo restando l’obbligo di ascoltare la Messa. – Il Nostro cuore non è certo pervaso da mediocre soddisfazione, Venerabili Fratelli, mentre leggiamo le relazioni inviate a Noi e a questa Sede Apostolica in adempimento ad un preciso compito del vostro ufficio pastorale, sulla situazione delle vostre Diocesi. Sono notizie che tornano a vostro onore e Ci riempiono di gioia. Veniamo infatti a sapere che tutti coloro che hanno cura d’anime adempiono al loro dovere nei giorni di domenica e negli altri tuttora di precetto, e non tralasciano di celebrare la Messa per il popolo loro affidato. Ma siamo anche a conoscenza che in molti luoghi è invalsa tra i parroci la consuetudine di non assolvere questo impegno in quei giorni di festa che un tempo, sulla scorta della Costituzione di Urbano VIII, Nostro Predecessore di felice memoria, dovevano essere ritenuti di precetto. È accertato che questa Sede Apostolica, accogliendo le motivate richieste di molti sacri Pastori e valutando le motivazioni presentate, non solo diminuì per quei luoghi il numero dei giorni festivi di precetto per permettere a quelle popolazioni di dedicarsi alle opere servili, ma le esentò anche dall’obbligo di ascoltare la Messa. Ma non appena queste benevole concessioni della Santa Sede diventarono di pubblico dominio, subito i parroci di molte località, ritenendo di essere stati sollevati dall’obbligo di applicare la Messa per il popolo, lo lasciarono cadere del tutto. Ne derivò dunque, per i parroci di quelle regioni, la consuetudine di tralasciare in quei giorni l’applicazione del santissimo Sacrificio della Messa per il popolo, e non mancarono coloro che si ersero a difensori di una simile consuetudine. – Noi pertanto, mossi da profonda sollecitudine per il bene spirituale dell’intero gregge del Signore a Noi affidato per volere divino, profondamente addolorati perché per tale omissione i fedeli di quelle regioni vengono defraudati dei maggiori frutti spirituali, abbiamo deciso di intervenire in una questione di sì rilevante importanza, ben sapendo che questa Sede Apostolica ha sempre insegnato che i parroci hanno l’obbligo di celebrare la Messa per il popolo anche nei giorni festivi non più di precetto. – Sebbene dunque i Romani Pontefici Nostri Predecessori, indotti dalle insistenti petizioni dei Sacri Pastori, dalle molteplici e difformi necessità delle comunità dei fedeli e dalle gravi difficoltà legate ai tempi e alle situazioni locali abbiano deciso di ridimensionare il numero dei giorni di festa e, nello stesso tempo, abbiano benignamente concesso ai fedeli di dedicarsi liberamente alle opere servili, senza l’obbligo di ascoltare la Messa, tuttavia gli stessi Nostri Predecessori, nel concedere simili indulti, intendevano mantenere integre le disposizioni che vietavano, nei summenzionati giorni, qualsiasi innovazione nel consueto svolgimento dei divini Uffici e dei riti liturgici: tutto doveva essere compiuto nello stesso modo in cui si era soliti operare quando era ancora in vigore la menzionata Costituzione di Urbano VIII con cui si decidevano i giorni festivi di precetto. – Da tutto questo i parroci potevano facilmente dedurre che in quei giorni non potevano in alcun modo essere sollevati dall’obbligo di applicare la Messa per il popolo, perché è questa la componente essenziale dei riti, soprattutto prestando mente al fatto che i Rescritti Pontifici devono essere accolti e interpretati con assoluta fedeltà al loro significato. – A ciò si aggiunga che questa Santa Sede più volte interpellata per casi specifici inerenti questo dovere dei parroci, mai tralasciò di rispondere per il tramite delle sue Congregazioni, sia del Concilio, sia di Propaganda Fide, sia dei Sacri Riti, sia anche della Sacra Penitenzieria, e di precisare che i parroci erano soggetti all’obbligo di applicare la Messa per i fedeli anche in quei giorni che erano stati depennati da quelli festivi di precetto. – Avendo dunque soppesato con somma attenzione tutte le circostanze, e sentito il parere di molti Nostri Venerabili Fratelli Cardinali di Santa Romana Chiesa della Nostra Congregazione incaricata di difendere e di interpretare i Decreti Tridentini, abbiamo deciso, Venerabili Fratelli, di scrivervi questa Lettera Enciclica per stabilire una sicura e definitiva normativa da osservare con scrupolosa diligenza da tutti i parroci. A questo fine, con la presente Lettera dichiariamo, stabiliamo e decretiamo che i parroci e i sacerdoti in cura d’anime debbono celebrare e applicare il sacrosanto Sacrificio della Messa per il popolo loro affidato, non solo in tutte le domeniche e negli altri giorni tuttora annoverati come feste di precetto, ma anche in quelli che per indulto di questa Sede Apostolica sono stati eliminati dal novero delle feste di precetto o trasferiti, allo stesso modo al quale tutti i curatori d’anime erano obbligati quando la menzionata Costituzione di Urbano VIII manteneva piena la sua validità, e le feste di precetto non erano ancora state ridotte e trasferite. – Per quanto concerne le feste trasferite, è ammessa una sola eccezione, quando cioè la solennità e il rispettivo ufficio vengono traslati in giorno di domenica. In questo caso deve essere applicata dai parroci una sola Messa per il popolo, dal momento che si può ritenere che la Messa, parte essenziale dell’Ufficio divino, sia stata trasferita unitamente allo stesso ufficio. – Ora, spinti dal sentimento di paterno amore del Nostro animo, volendo restituire la tranquillità a quei parroci che per l’invalsa consuetudine tralasciarono, nei giorni menzionati, di applicare la Messa per il popolo, concediamo ampia assoluzione, in forza del Nostro Apostolico Potere, per tutte le trascorse omissioni. Non mancando inoltre Sacerdoti in cura d’anime che hanno ottenuto da questa Sede Apostolica uno specifico indulto di riduzione, così viene chiamato, concediamo loro di poterne fruire nei limiti definiti dall’indulto stesso e finché eserciteranno l’ufficio di parroco nelle parrocchie rette e amministrate al presente. – Mentre dunque decretiamo e concediamo, siamo sorretti dalla ferma speranza, Venerabili Fratelli, che i parroci, accesi da ancor maggiori impegno e amore per le anime, sentano l’orgoglio di soddisfare, con somma diligenza e piena devozione, quest’obbligo di applicare la Messa per il popolo, prendendo in seria considerazione la sovrabbondante messe di favori e di doni celesti che, dall’applicazione di questo incruento e divino Sacrificio, si riversa sul popolo cristiano affidato alla loro cura. – Essendo peraltro pienamente consapevoli che potranno presentarsi dei casi specifici in cui, per particolari difficoltà del momento, dovrà essere concesso ai parroci un alleggerimento di quest’obbligo, intendiamo informarvi che per ottenere i relativi indulti occorre rivolgersi esclusivamente alla Nostra Congregazione del Concilio, eccetto i casi riservati alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, avendo delegato ad ambedue le Congregazioni le opportune facoltà. – Non nutriamo alcun dubbio, Venerabili Fratelli, che in forza della vostra ammirevole sollecitudine episcopale e senza interporre alcun indugio, vorrete scrupolosamente rendere noto a tutti e singoli i parroci delle vostre Diocesi quanto in questa Nostra Lettera, con il Nostro supremo potere, confermiamo, nuovamente decretiamo, vogliamo, comandiamo e disponiamo sull’obbligo di applicare il sacrosanto Sacrificio della Messa per il popolo loro affidato. Siamo anche del tutto certi che attiverete in pieno la vostra vigilanza, perché anche chi si trova in cura d’anime adempia diligentemente a questa parte del proprio dovere e si attenga scrupolosamente a quanto abbiamo decretato in questa Nostra Lettera. – È Nostro desiderio che copia di questa Lettera sia conservata in perpetuo nell’Archivio episcopale di tutte le vostre Curie. – Poiché ben sapete, Venerabili Fratelli, che nel sacrosanto Sacrificio della Messa è racchiusa una grande possibilità di insegnamento per il popolo cristiano, non tralasciate mai di rivolgere pressanti esortazioni, in primo luogo ai parroci, a chi si dedica alla predicazione della parola divina e a coloro ai quali è affidato il compito di istruire il popolo cristiano perché, in modo attento e accurato, espongano e illustrino ai fedeli l’importanza, la maestà, la grandezza, il fine e il frutto di un così grande e mirabile Sacrificio, e nello stesso tempo sollecitino e infiammino i fedeli ad assistere ad esso il più frequentemente possibile con la fede, con la devozione è con la pietà degne di questo Sacrificio, al fine di procurarsi la divina misericordia e ogni grazia di cui hanno bisogno. – Non tralasciate di operare con viva sollecitudine perché i Sacerdoti delle vostre Diocesi eccellano per l’integrità dei costumi, per la serietà, per la rettitudine e per la santità, come si addice a chi ha ricevuto il potere di consacrare l’Ostia divina e di compiere un così santo e tremendo Sacrificio. Rivolgetevi inoltre, con pressanti ammonizioni e sollecitazioni, a tutti coloro che muovono i primi passi nel divino Sacerdozio affinché, meditando seriamente sul Ministero che hanno ricevuto nel Signore, possano adempierlo e, sempre memori della dignità e del celeste potere di cui sono investiti, si ammantino dello splendore di tutte le virtù e del pregio della sacra dottrina; rivolgano con convinzione la mente al culto, alle cose divine e alla salvezza delle anime; mostrando se stessi come ostia viva e santa donata al Signore, e testimoni viventi della Passione di Gesù, offrano a Dio, come si conviene, con mani pure e cuore mondo, la Vittima di espiazione per la propria salvezza e per quella di tutto il mondo. – Niente, infine, Ci torna più gradito, Venerabili Fratelli, dell’approfittare di questa occasione per assicurarVi nuovamente e confermarVi tutto l’affetto con cui abbracciamo Voi tutti nel Signore e, nel contempo, Vi incoraggiamo perché possiate tutti affrontate con ancor maggiore ardore il vostro gravissimo compito pastorale senza tentennamenti e cadute di zelo, e provvedere con la più viva passione alla salvezza e alla sicurezza delle amatissime pecore. – Siate certi che Noi siamo pienamente disposti a compiere, con viva gioia, tutto ciò che si rivelerà utile a procurare il maggior bene a Voi e alle vostre Diocesi. Intanto ricevete, auspice di tutti i favori celesti e testimone della Nostra più viva benevolenza, l’Apostolica Benedizione che con il più profondo affetto impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, a tutti i Chierici e ai Fedeli affidati alla cura di ciascuno di Voi.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 maggio 1858, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV DOPO L’EPIFANIA (2019)

  DOMENICA IV DOPO EPIFANIA 2019

Incipit


In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI:7-8 Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus.

Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’ànima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

Omelia I.

[Mons. G. BONOMELLI, Nuovo saggio di Omelie, vol. I, Marietti Ed. – Torino, 1899 – imprim.]

“Non vogliate avere altro debito, che quello d’amarvi l’un l’altro; perché chi ama il prossimo, ha adempiuta la legge. Di fatto, il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male e se vi è alcuna altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non opera alcun male: il compimento dunque della legge è l’amore „ (Rom. XIII, 8-10).

Il tratto della epistola, letta or ora, è tolto dal capo decimoterzo della lettera di S. Paolo ai fedeli di Roma. È brevissimo, perché si contiene tutto in soli tre versetti: ma se poche sono le parole e le sentenze, vasto quanto mai si può dire è il loro significato. Bastici il dire che l’Apostolo in queste poche righe ha compendiata tutta la legge, come in termini dichiara egli stesso in quelle parole che avete udito: Il compimento della legge è l’amore. Il soggetto, che siamo chiamati a considerare è caro e giocondo ad ogni anima bennata e per se stesso si raccomanda alla vostra attenzione. “Non vogliate avere altro debito, che quello di amarvi l’un l’altro. „ Queste parole si possono mutare in queste altre: Ogni vostro dovere si riduce all’amore scambievole. Se noi percorriamo tutti gli scritti del nuovo Testamento non troviamo un precetto più spesso e più vivamente raccomandato e inculcato quanto il precetto della carità fraterna. Gesù Cristo lo chiama “precetto nuovo“, perché prima di Lui non fu mai sì chiaramente imposto, né mai a tanta altezza di perfezione portato: lo chiama precetto suo, perché è quello che più gli sta a cuore e meglio d’ogni altro esprime la natura e l’indole della legge evangelica, tantoché afferma, che all’osservanza di questo precetto si conosceranno i suoi discepoli. Nessuna meraviglia pertanto che S. Paolo qui riduca tutti i doveri del Cristiano all’amore reciproco. Ma qui si affaccia naturalmente una difficoltà: come è mai possibile che tutti i doveri del Cristiano si riducano all’amore fraterno, che dobbiamo avere gli uni con gli altri? – Narra S. Girolamo, che l’apostolo Giovanni, più che nonagenario, dimorava in Efeso: ogni volta che i fedeli si raccoglievano nella chiesuola, vi veniva portato a braccia dai discepoli, che lo pregavano di far loro udire la sua parola. Il santo vegliardo non faceva che ripetere: “Figliuolini miei, amatevi a vicenda. „ Annoiati i discepoli di udir sempre quelle parole, gli dissero: “Maestro, perché ci dici sempre questo? „ Egli rispose, scrive S. Girolamo, in modo degno di lui: “Perché è il precetto del Signore, e se anche solo si adempie, basta ,, (Degli Scrittori eccles.). La risposta d’un tanto Apostolo, commentata da tanto dottore, mi dispenserebbe da qualunque spiegazione; ma è prezzo dell’opera svolgerla più largamente. E per pigliare le cose un po’ dall’alto, vediamo anzi tutto che cosa sia questo amore del prossimo. E forse quel sentimento comune, che più o meno ci porta tutti ad amare il nostro prossimo, quella cotal tenerezza, che sentiamo verso i nostri simili, che fa spuntare negli animi nostri la compassione verso i sofferenti? Certamente questo sentimento è buono, fa onore alla nostra natura; questa tenerezza, questa compassione verso i sofferenti è il carattere delle anime nobili ed è dono del cielo. Ma non è questo l’amore del prossimo, che il Vangelo comanda. Questo sentimento, questa tenerezza, questa compassione può aversi anche senza le opere. Quanti mostrano di sentire al vivo i mali altrui e son larghi di parole e scarsissimi ai fatti! Silla fu uno de’ più mostruosi tiranni dei quali parli la storia. Eppure, assistendo in teatro, piangeva come un fanciullo udendo rappresentare alcune scene commoventi. S’inteneriva alle scene d’un immaginario dolore e faceva versare torrenti di sangue e di lagrime. – Ho visto avari commuoversi dinanzi alle miserie dei tapini e rifiutare un soldo di limosina! – L’amore del prossimo comandato da Gesù Cristo è forse quel sentimento che ci muove ad amarlo per le sue buone e belle doti, per i benefici ricevuti, per i vantaggi che ne speriamo, per il piacere che proviamo in beneficarlo? Non io condannerò siffatto amore, che può essere naturalmente buono; ma in tal caso l’amor nostro non abbraccerà tutti, perché non tutti sono forniti di belle e buone qualità, ne da tutti abbiamo ricevuti benefici, o possiamo sperarne, e il piacere che si prova in amarli e beneficarli non è continuo e bastevole, e lo fosse anche, sarebbe un motivo affatto umano, e perciò troppo debole e incerto. Qual è dunque l’amor del prossimo che compendia in sé l’adempimento di tutti i nostri doveri? È quello che si accende nel nostro cuore, che esce dalle fibre più riposte dell’anima nostra, che ci fa sentire il bene e il male altrui come se fosse bene e male nostro: è quello che si manifesta nelle opere, che ci muove efficacemente al soccorso di quanti ne abbisognano, secondo le nostre forze: è quello infine che ha la sua radice e il suo alimento nella ragione non solo, ma nella fede e in Dio stesso. È questo l’amore del prossimo, che regge ad ogni prova e che compendia l’adempimento di tutti i nostri doveri. – Io devo amare il mio prossimo; e perché? Perché Dio lo ha creato, quel Dio che ha creato me pure; perché Dio lo conserva; perché Dio ha scolpita in lui la sua immagine e lo ama come un padre ama il figliuol suo. Io devo amare il mio prossimo, perché il Figliuol di Dio si è fatto uomo per lui, come per me; perché ha patito ed è morto per lui, come per me; perché Gesù Cristo gli offre le sue grazie, ha stampato od è pronto a stampare nell’anima sua il carattere d i figlio di Dio, e lo chiama al possesso eterno di se stesso. Io devo amare il mio prossimo, in una parola, perché lo vuole Iddio, perché Gesù Cristo me lo comanda, perché è mio fratello per natura. e per grazia, e come è operoso l’amore di Dio  verso il prossimo, così a somiglianza del suo dev’essere operoso il mio. Ecco l’amore del prossimo secondo il Vangelo. – L’amore del prossimo, che scaturisce da sì alta e pura fonte, racchiude in sé tutte le qualità e doti, che lo rendono perfetto. Esso è universale, perché si estende a tutti ed a ciascun uomo, perché non vi è pure un uomo solo, pel quale non valgano i motivi sopra accennati. Siano cattolici, siano eretici, siano scismatici, siano ebrei, siano pagani, tutti sono opera delle mani di Dio, per tutti è morto Gesù Cristo. — Questo carattere di universale nel senso più ampio della parola è proprio soltanto dell’insegnamento evangelico. Fuori del Cristianesimo l’amore del prossimo è l’amore di famiglia, della tribù, della nazione, ma non dell’uman genere: si estende ad alcuni, ma non a tutti e per lo più. è figlio delle simpatie, della gratitudine, o della speranza. È un amore continuo, perpetuo, perché i motivi, che lo accendono e lo alimentano, come ciascun vede, sono continui e non cessano, né possono cessare un solo istante. I motivi non sono propriamente negli uomini, nei loro meriti, ma in Dio Creatore e Redentore, nel suo volere, e perciò non soggetti a mutamento di sorta e quindi anche l’amore, che ne è l’effetto, non solo è universale e continuo, ma eguale nel senso or ora spiegato. – È un amore eguale, perché quantunque possa e debba variare d’intensità in ragione dei vincoli diversi che ci legano al prossimo, nondimeno a tutti si estende senza eccezione, come a tutti si estendono la creazione e la redenzione. – Che importa che questi sia povero, rozzo, ignorante? Che importa che quello sia ingrato, vizioso, scellerato? Che importa che mi odi, mi insulti, mi perseguiti ferocemente? Io deplorerò, condannerò le opere sue, ma amerò lui, perché non cessa d’essere l’opera di Dio, la conquista di Gesù Cristo. Il mio amore si appunta in Dio e in Gesù Cristo, e Dio e Gesù Cristo non si muta mai. Ecco il segreto che spiega la carità cristiana; ecco il perché questi missionari e queste suore abbandonano la famiglia e la patria, si seppelliscono in un ospitale, in un ricovero, valicano i mari, si gettano in mezzo ai barbari, ai selvaggi, ai cannibali per istruirli, incivilirli, per morire per loro e con loro. Ora, l’amore del prossimo, quale l’abbiamo tratteggiato, deve necessariamente manifestarsi in due modi: col non dire, né far cosa che spiaccia o rechi danno al prossimo e col dire e fare tutto ciò che gli piace o gli rechi vantaggio, come meglio è dato a noi. E per questo che l’Apostolo, volendo mostrare che tutti i doveri verso il prossimo si recapitolano nella carità, scrive: “Di fatto il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male, e se vi è altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. „ Chi ama di vero amore il prossimo, come ama se stesso, adempie la legge perfettamente, non fa male a chicchessia e fa bene a tutti quelli, ai quali può farlo. E dunque vero ciò che l’Apostolo soggiunge in forma di sentenza assoluta: “Compimento della legge è l’amore” — Plenitudo legis est dilectio. Forse mi direte: Ma non abbiamo noi doveri verso noi stessi e verso Dio? Ora questi non sono compresi nell’amore verso del prossimo. Come dunque poté dire l’Apostolo: “L’amor e del prossimo è il compimento della legge? „ Veramente può intendersi i n questo senso: A quel modo che l’amore di Dio ci porta all’adempimento dei doveri, che riguardano Dio, così l’amore del prossimo ci porta ad adempire tutti i doveri, che abbiamo col prossimo; ma parmi che possa intendersi assai bene in quest’altro modo: Certamente chi ama Dio, dee volere ciò che vuole Iddio e, per conseguenza, deve amare il prossimo, come lo ama Dio e come Dio comanda. Nell’amore di Dio è chiaramente compreso l’amore del prossimo, come nella causa si contiene l’effetto. Ma nell’amore del prossimo si contiene anche l’amore di Dio? In qualche senso, sì, o carissimi. Perché è impossibile amare il prossimo stabilmente, senza eccezione, affettuosamente, con sacrificio di se stessi, anche quando esso è ingrato e ci odia, senza l’aiuto di Dio, senza l’amore di lui e se nel prossimo non vediamo e non amiamo Dio stesso. “Niuno, dice S. Giovanni, vide giammai Iddio: se noi ci amiamo gli uni gli altri, Dio dimora in noi e la sua carità in noi è compiuta „ (Epist. I. IV, 12). Che è come dire: Iddio si ama nell’uomo: chi ama l’immagine di Dio, ama Dio, e l’uomo è veramente l’immagine viva di Dio sulla terra. Amiamo adunque Dio e ameremo il prossimo: amiamo il prossimo, come si dee, ed ameremo Dio, perché questi due amori non si possono separare.

Graduale

Ps CI: 16-17

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

ALLELUJA

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja. [Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia] Alleluja

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matth. VIII: 23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare obædiunt ei?”

OMELIA II

Omelia della Domenica IV dopo l’Epifania

[Mons. Bonomelli, ut supra – Omelia XVIII]

“Gesù essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un grande movimento del mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. E Gesù dormiva. I suoi discepoli, accostatisi a lui, lo svegliarono, dicendo : Signore  salvaci, noi ci perdiamo. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? E alzatosi, comandò al vento ed al mare e si fece grande bonaccia. E gli uomini ne stupivano, dicendo: E chi è costui, che i venti ed il mare gli ubbidiscono? „ (Matt. VIII, 23-28). Gesù Cristo dopo aver guarito il lebbroso presso Cafarnao e in Cafarnao il famiglio del centurione e liberata dalla febbre la suocera di Pietro, lungo la riva del lago di Tiberiade o di Genesaret, che gli Ebrei chiamavano mare, montò sopra una barchetta e di là, come narra S. Marco (IV, 1, 2), ammaestrava le turbe schierate sulla riva. E poiché ebbe finito, licenziata la moltitudine, volle tragittarsi sulla riva opposta del lago. Nella traversata avvenne il fatto che vi ho narrato, che sarà il soggetto delle nostre considerazioni comuni, sì, ma pur sempre belle ed utili. “Gesù, essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un gran movimento nel mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. „ Questo il fatto, che non ha bisogno di spiegazione di sorta; piuttosto qui è da ricordare una dottrina comune dei Padri, che ha il suo fondamento nei Libri santi, ed è questa: vi sono nei Libri divini fatti che dobbiamo tenere con tutta certezza, essere avvenuti, come si narrano e che sono ordinati a significare altri fatti e ad insegnarci altre verità. Così noi dobbiamo tenere che Isacco saliva veramente il monte, carico delle legna, come narra la Scrittura; ma dobbiamo anche tenere che Isacco, in quell’atto, raffigurava Gesù Cristo che saliva il Calvario, portando il legno della croce. Possiamo applicare questo principio al fatto evangelico, che veniamo considerando. Eccovi la barchetta, sulla quale montò Gesù Cristo coi discepoli: eccovi il mare e la tempesta, che sorge. Che simboleggia essa quella barchetta? Simboleggia la Chiesa, nella quale sta sempre Gesù Cristo con i suoi discepoli. Che cosa adombra il mare? La vita presente, che si alterna tra le burrasche e la calma. E la burrasca che sorse, che significa? Le lotte, i travagli, le prove, le persecuzioni che la Chiesa deve sostenere attraverso ai secoli. Ora quello che si può dire della Chiesa, in qualche senso e ragguagliata ogni cosa, si può dire d’ogni anima, nella quale Gesù Cristo abita per la fede e per la grazia, che  viaggia su questo mare del mondo, ora tranquillo ed ora tempestoso. La storia della Chiesa e d’ogni anima cristiana è dipinta al vivo nella navicella, che solca il lago di Tiberiade. La Chiesa sferra dalle spiagge della terra, e spiega le vele verso le sponde del cielo: sopra di essa sta sempre Gesù Cristo con gli Apostoli, nella persona del suo Vicario e de’ suoi Vescovi e lo seguono i suoi fedeli. Essa, è vero, non può naufragare, ma non va immune da tempeste: tempeste suscitate dalle passioni, da nemici interni ed esterni, più o meno violente secondo i tempi ed i luoghi. Ricordatevelo bene, o figliuoli dilettissimi: Gesù Cristo non promise mai alla sua Chiesa la pace stabile; anzi le predisse persecuzioni d’ogni fatta: annunziò che le porte, cioè le potenze d’inferno, l’avrebbero sempre combattuta e ch’essa ne sarebbe uscita vincitrice. Dunque non facciamo le meraviglie se la vediamo sì spesso or qua, or là, ora nel capo, ora nelle membra fieramente assalita. È la sua condizione. Può avere periodi di pace; ma pace continua, stabile, non mai; essa naviga sul mare, troppo spesso campo e giuoco dei venti e delle procelle; la pace vera e perfetta l’avrà solo in quel dì, che si chiuderanno i tempi e getterà l’àncora sul porto tranquillo e sicuro della eternità. Ciò che dico della Chiesa, l’applichi ciascuno a se stesso, e si ricordi che la vita è una milizia, cioè un periodo, in cui la pace e le battaglie necessariamente si avvicendano. E perché Dio vuole che la sua Chiesa, come una nave, che veleggia sul mare, sia a sì frequenti intervalli flagellata dalle procelle? Perché il somigliante vuole o permette per ogni anima, che naviga in questo pelago fortunoso della vita? Perché, se la guerra mostra il valore del soldato, la lotta mette in luce la forza divina della Chiesa: perché le prove impongono la vigilanza continua, affinano la virtù, obbligano a ricorrere a Dio, esercitano la pazienza, avvivano la fede, accrescono la, speranza e danno occasione al merito. L’acqua che ristagna, impaluda e si corrompe; un’aria immobile si altera e soffoca; la pace troppo lunga snerva il soldato: il movimento preserva l’acqua dalla corruzione, la bufera muta e rinfresca l’aria, la guerra addestra il soldato, e le lotte ringagliardiscono e purificano la Chiesa non meno che i singoli fedeli (S. Cipr.: De Mortalitate). – Ritorniamo alla navicella, che sul lago di Tiberiade era fieramente sbattuta dai venti per guisa, dice il Vangelo, che a quando a quando era coperta dalle ondate e minacciata d’essere sommersa. Che faceva Gesù? “Egli  intanto dormiva, „ col capo adagiato, come dice S. Marco, sopra un guanciale. Egli dormiva e, credo, veramente, non in apparenza. Egli era perfetto uomo, e come uomo aveva bisogno di cibo, di bevanda, di riposo e di sonno come noi, e perciò nulla di più naturale, che dopo le fatiche della predicazione e dell’intera giornata secondasse il bisogno della natura e si addormentasse. Egli certo vedeva il pericolo ed il terrore degli Apostoli, eppure dormiva e mostrava di non veder nulla e di nulla curarsi. Similmente talvolta accade che la Chiesa soffra grandi pressure e corra gravi pericoli, e che Gesù Cristo lasci fare e quasi dorma: accade talvolta che la navicella dell’anima nostra sia qua e là trabalzata dalle onde frequenti delle tribolazioni e delle tentazioni, e che l’aiuto dall’alto venga meno: Gesù dorme. Egli vuole che ricorriamo a Lui, e così con la preghiera in parte meritiamo l’onore della vittoria. — E’ ciò che fecero gli Apostoli là sul lago di Tiberiade. Essi, vedendo Gesù che riposava tranquillamente, in sulle prime non volevano turbare il suo sonno; ma, crescendo l’impeto della procella, e levandosi più minacciose le onde, e non potendo più oltre reggere al timone ed ai remi, vistasi la morte alla gola, corsero a Gesù, e destatolo, sclamarono: “Signore, salvaci, noi ci perdiamo. ,, E’ questo, o cari, uno dei frutti più preziosi delle tribolazioni e dei grandi pericoli: vedendoci impotenti a superare la prova, conosciamo meglio noi stessi, sentiamo la necessità del soccorso divino e mossi dalla fede e dalla speranza, ci prostriamo innanzi a Dio e preghiamo. — Ah! sono le tribolazioni, sono i dolori, sono le tentazioni quelle che ci sollevano da questa terra e ci conducono a Dio. – Gli Apostoli ricorsero a Gesù e lo pregarono perché li stringeva davvicino il pericolo della morte. Imitiamoli ogni qualvolta i venti delle tentazioni e delle tribolazioni agitano e minacciano la navicella dell’anima nostra: il nostro grido, la nostra preghiera sia quella stessa degli apostoli: “Signore, salvaci, . noi ci perdiamo — Domine, salva nos, perimus. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? „ E come ciò? Gli Apostoli si gettano ai piedi di Gesù e lo pregano con tutto l’ardore dell’anima di salvarli dalla morte, ed Egli li rimprovera, come soverchiamente timidi e uomini di poca fede? Dovevano dunque astenersi dal pregarlo ed aspettare quando tutti fossero stati gettati in mare? Perché dunque il rimprovero? Senza dubbio Gesù li rimprovera pel soverchio timore, onde erano sopraffatti, timore, che non dovevano avere, trovandosi con Lui, che non poteva perire: è il manco di conoscimento della sua divina persona, l’angoscia smodata, la poca fede che Gesù riprende negli Apostoli. Allorché preghiamo d’essere liberati dai mali del corpo, non ci facciano mai difetto la calma, la rassegnazione ai divini voleri e la figliale fiducia in Dio. “E alzatosi, Gesù comandò ai venti ed al mare e si fece grande bonaccia. „ Sembra evidente che Gesù volgesse la parola al vento ed al mare, anzi S. Luca dice che li rimproverò, e ciò in forma di comando assoluto, come Signore d’ogni cosa, e incontanente si quietò il vento, e il lago tornò tranquillo in guisa che apparve chiaramente tutto ciò essere stato effetto del volere di Gesù Cristo. Come allora pregato fece cessare la tempesta del lago, così anche al presente, pregato da noi, sperderà i venti e le burrasche, che travagliano la sua Chiesa e turbano le anime nostre, se ciò tornerà a bene di quella e di queste. Purtroppo, o fratelli, per molti si pecca in varie maniere per ciò che spetta il ricorrere a Dio nei bisogni. – Vi sono molti, che non si curano di ricorrere a Dio allorché i nemici spirituali li stringono e le passioni rompono a rivolta, o ricorrono fiaccamente. Questi cadranno, perché senza l’aiuto di Dio non possono far nulla, e l’aiuto Iddio ordinariamente non l’accorda a chi non lo prega. Allorché adunque la tentazione ci preme e ci incalza, leviamo la mente a Dio, imploriamo con fede viva il soccorso, ed il soccorso, non ne dubitate, verrà. Vi sono altri, che nelle pene della vita, nei travagli temporali, nelle infermità, nelle calamità pubbliche o private, corrono ai piedi degli altari, pregano, fanno pellegrinaggi, digiuni e pretendono in modo assoluto che Dio li esaudisca. Costoro confondono malamente le cose: allorché si tratta della salvezza dell’anima nostra, dei beni spirituali assolutamente necessari, anche la preghiera può e deve essere assoluta, perché Dio si è obbligato ad esaudirci. Non sia mai per altro che vogliamo imporre a Dio il tempo e il modo. Che se si tratta di beni temporali, la nostra preghiera vuol essere condizionata, perché potrebb’essere che ciò che per noi si domanda non piacesse a Dio e tornasse anche di danno al conseguimento della salvezza nostra. Stiamo in guardia contro tutti questi difetti, nei quali frequentemente si cade anche dai buoni. “Gli uomini poi ne stupivano, dicendo: Chi è costui, che il vento e il mare gli ubbidiscono? „ Questi uomini, che rimasero colmi di stupore alla vista di tanto miracolo, erano gli Apostoli e forse anche alcuni altri, che sopra altre piccole barche l’avevano seguito. Ed è bene a credere, che non solo stupissero del miracolo, ma vivamente ringraziassero Gesù d’averli scampati dalla morte e lo riconoscessero per l’aspettato Messia, per Salvatore del mondo e l’adorassero. Figliuoli carissimi! la gratitudine è un sacro dovere con gli uomini, allorché ci beneficano: quanto è più sacro con Dio ogni qualvolta ci benefica, e ci benefica sempre, ad ogni istante! La gratitudine dei benefici ricevuti è il miglior mezzo per ottenerne altri anche maggiori.

 Credo in unum Deum…

Offertorium

Ps CXVII: 16; 17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini. [La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat. [O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

Communio

Luc IV: 22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei. [Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus.

Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis. [I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]

FESTA DELLA PURIFICAZIONE DELLA VERGINE (2019)

PURIFICAZIONE DELLA VERGINE MARIA

 [P. Vincenzo STOCCHI: Discordi Sacri – DISCORSO XVIII. Tipogr. Befani; Roma, 1884 – imprim.]

PURIFICAZIONE DI MARIA

“Et postquam impleti sunt dies purgationiseius, tulerunt illum in Ierusalemut sisterent eum Domino”.

Luc. XI, 22.

La vista di questa pompa solenne, la frequenza vostra in questo tempio, quella cara immagine di Maria svelata al popolo bolognese che le si prostra dinanzi, mentre mi commuovono il cuore, e mi inteneriscono fino alle lacrime, mi sollevano il pensiero alla considerazione della onnipotenza di Dio, la quale non dà mai più splendida vista di sé, che quando con arte di sapienza infinita trae il bene dal male. Gran cosa è infatti cavare dall’abisso del nulla il cielo e la terra, chiamare dalle tenebre la luce perché risplenda, seminare di stelle le volte azzurre del firmamento, accendere nel cielo il fuoco vivificatore del sole; ma dall’abisso smisurato del male e del male di colpa cavare il bene, e tal bene che Dio ne sia glorificato più assai che non fu vilipeso dal male; o questo è tal opera, nella quale l’onnipotenza supera per cosi dire se stessa: e certo la più grande fra le opere di Dio, la redenzione del mondo, si è compiuta ordinando al bene il massimo di tutti i delitti, il deicidio. Ora una di queste dimostrazioni di onnipotenza pare a me che ci si porga nella presente pompa di annuale solennità, e certo o signori a chi ci domanda perché questi otto giorni di celebrità dedicati a Maria, noi ne alleghiamo per cagione un orribile sacrilegio. Fu involata sacrilegamente questa immagine che veneriamo, fu ricuperata mirabilmente, questa solennità espia il sacrilegio e commemora il ritorno di Maria alla sua sede. Ecco dunque un furto sacrilego rivolto da Dio a gloria della sua Madre, ecco l’onore della Regina del Cielo germogliato dall’oltraggio e dall’onta che le inflisse una mano nefanda, e se il sacrilegio non precedeva, né io direi oggi da questo luogo, né voi udireste le lodi della Vergine Madre e del Figlio che porta fra le sue braccia. Alle quali lodi darà il tema la solennità che oggi corre della Purificazione di Maria, e io dentro la cerchia del mistero di questo giorno circoscriverò il panegirico. – La rivoluzione per rabbia di fare onta a Maria ha raso questa solennità dall’albo dei giorni sacri, io spiegandovi i misteri che in questo dì si commemorano, mi sforzerò di rivendicarlo a Gesù Cristo e a Maria.

1. Ciò che si avvera nei misteri tutti della vita mortale del Salvatore e Signor nostro Cristo Gesù, che in essi si diano la mano e cospirino con armonia mirabile, l’umiltà e la grandezza, la abbiezione e la sublimità, l’umiliazione e la gloria; apparisce in modo anche più stupendo nel mistero che oggi la santa Chiesa commemora della presentazione di Gesù al tempio e della purificazione di Maria. E vaglia la verità. Nel codice di Mosè esiste una doppia legge promulgata a nome di Dio: comanda la prima che tutti i primogeniti maschi del popolo ebreo siano portati al tempio, presentati al Signore e riscattati con un’offerta di argento. Comanda la seconda che la donna che ha concepito e partorito un figliuolo maschio sia immonda per quaranta giorni e poi vada al tempio, offra in sacrificio un agnello di un anno se può: se è poverella e non può, invece dell’agnello offra due tortore o due colombe. Questa è la legge. Ora chi in questo giorno si fosse trovato nel tempio di Gerusalemme quando Maria e Giuseppe entrarono portando Gesù pargoletto di quaranta giorni, nulla avrebbe veduto di singolare, nulla che degno gli paresse di richiamare la sua attenzione. È una sposa di primo parto che fornito il puerperio viene al tempio a purificarsi, l’accompagna il suo sposo e portano al tempio stesso il primo frutto del loro connubio per offrirlo secondo la legge al Signore. Quel pargoletto leggiadro che Maria introduce nel tempio portandolo tra le sue braccia è una Persona che sostenta due nature e secondo le due nature vanta una doppia generazione e una doppia natività. Secondo la generazione eterna è il Verbo figliuolo del Padre, secondo la generazione temporale il medesimo Verbo è figliuolo di Maria. Dal Padre che eternalmente lo genera, eternalmente riceve la natura divina, dalla Madre che lo ha generato nel tempo ha temporalmente ricevuto la natura umana, ma queste due nature non moltiplicano il soggetto, e la medesima persona del Verbo fatto carne che sostenta le due nature è Gesù. In principio erat Verbum, dice l’evangelista S. Giovanni, rimovendo il velame del gran mistero. In principio il Verbo era. Non basta. Et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum. (Io. I , 1) Questo Verbo che era a principio e non ha per conseguenza principio ed è eterno, era presso Dio ed era Dio. Era Dio perché Dio è uno solo, e il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo sono un sol Dio. Era presso Dio perché il Verbo che secondo la natura è un solo Dio col Padre, secondo la persona è dal Padre distinto ed è col Padre, e il Padre è con Lui. Hoc erat in principio apud Deum. E col Padre che lo genera questo Verbo era a principio perché la generazione non importa anteriorità e posteriorità di tempo fra il generato e il generante, ma ordine solo di origine, principio e generante il Padre, generato e Figliuolo il Verbo, ma entrambi eterni, anzi un solo eterno perché un solo Dio. Creatore per conseguenza di tutte le cose il Padre e creatore il Verbo. Omnia per ipsum facta sunt. Nessuna cosa si trova tra le cose create che non sia stata creata dal Padre e nessuna cosa che non sia stata creata dal Verbo, et sine ipso factum est niliil quod factum est. (Io. I, 3). Il Verbo era vita per essenza, il Verbo luce, il Verbo creatore del mondo. In ipso vita erat. Erat lux vera. Mundus per ipsum factus est. (Io. I,10) E questo medesimo Verbo, questo generato dal Padre, questo Creatore, questa luce, questa vita, questo Verbo si è fatto carne, ed ha abitato fra noi, e non ha cessato però di esser Figliuolo del Padre. Et Verbum caro factum est et habitavit in nobis, et vidimus gloriam eius, gloriam quasi unigeniti a Patre. (Io. I, 14.) Eccovi dunque un miracolo che ogni estimazione sorpassa, eccovi un bambinello di quaranta giorni che è eterno, eccovi una creatura che è il Creatore, eccovi un Dio che è uomo, eccovi un uomo che è Dio, eccovi un debole che è onnipotente, eccovi un Onnipotente che è debole, eccovi, che è dire tutto in uno, eccovi il Verbo di Dio fatto carne e venuto ad abitare fra noi, et Verbum caro factum est et habitavit in nobis. – Tale e tanto è il pargoletto che in questo giorno si presenta nel Tempio. Un Dio esinanito fino a sostentare personalmente una individua natura umana, un uomo esaltato fino a sussistere in una Persona divina. Ma non meno del Figliuolo portato al tempio è mirabile la Madre che il porta. Essa è Maria, vergine della regia stirpe di Dio. Θεοτόκος (= Teotokos)Genitrice di Dio, ecco il vocabolo unico che esprime adequatamente la eccellenza e la dignità di Maria. E perché? Perché quest’uomo Gesù che è il Verbo di Dio sussistente nella natura umana, non secondo la sua natura divina, ma secondo la natura umana egualmente sua, è stato da Lei generato con vitale somministrazione materna e da Lei prodotto in similitudine di natura e consustanziale alla Madre: mediatamente e remotamente seme di Adamo, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di David: immediatamente e prossimamente per verace e propriamente detta generazione materna, seme della donna per eccellenza, della Vergine benedetta, semen mulieris. Non ha quindi Maria generato un uomo in cui il Verbo pigliasse l’abitazione come bestemmiava Nestorio, non è stata un mero canale per cui il Verbo con la carne assunta sia trapassato, come altri eretici farneticarono, no no: se così fosse Maria non sarebbe Madre di Dio, avrebbe generato al più l’umanità del Verbo non il Verbo secondo la umanità: Maria in modo materno della sua sostanza, operando soprannaturalmente lo Spirito Santo, comunicò la natura umana alla divina Ipostasi del Verbo di Dio; onde il Verbo di Dio è vero figliuolo naturale di Dio e della Vergine. E dico della Vergine, perché senza offesa del verginale suo giglio concepì Maria il Verbo, che come concepito adornò, profumò, sublimò la virginità della Madre; così partorito lasciò intatto il claustro per cui passò quasi raggio di sole per un cristallo tersissimo. Ecco dunque l’obbietto della solennità di questo gran giorno. Il tempio di Gerusalemme che riceve secondo la profezia di Malachia l’Angelo destinato del testamento, e lo riceve partorito sulle braccia della più sublime creatura che fosse mai, la figlia di David, la Vergine benedetta, che ha concepito e partorito un figliuolo che porta il principato sugli omeri, perché Uomo Dio.

2. Ma se è così, succede naturalissima la domanda: perché, perché mai questa Vergine e questo pargolo vengono al tempio in questo quarantesimo giorno dal parto e dal nascimento? Esiste, come accennai, una doppia legge mosaica che impone al dì quarantesimo l’oblazione del primogenito al tempio, e la purificazione della Madre, ma questa legge non lega né Gesù che è Dio, né Maria che unica e sola è, per inaudito portento, Vergine e Madre. Qui i santi Padri entrano per cosi dire in arringo e ragioni arrecano validissime, perentorie, irrefragabili, affine di provare convenientissima questa presentazione del Figlio al tempio e questa purificazione della Madre. Il Figlio volle dare in sé un esempio di obbedienza perfetta alla legge, la Madre non volle respingere la umiliazione di essere tenuta madre comune, ambedue vollero porgere questo ossequio alla maestà del Signore ripagando, con obbedienza in cosa non debita, la fellonia delle umane prevaricazioni. E queste sono ragioni che non ammettono replica perché verissime. Ma a me è sempre piaciuta di preferenza un’altra ragione, la quale prova che fu convenientissimo. e starei per dire necessario che Gesù e la Vergine ciascuno dal canto suo alla legge doppia si soggettassero, e la ragione è questa: Gesù è il Verbo di Dio fatto carne, che nato della Vergine Maria portò dal seno della Madre l’ufficio di Redentore e però di sacerdote e di vittima del genere umano. Ponete mente. Il Verbo di Dio avanti la incarnazione, quando aveva solo come propria la natura divina non fu, né poteva essere, sacerdote né vittima, questo è evidente: perché al Verbo secondo la natura divina conviene ricevere non offrire il sacrificio e la vittima. Ma non appena il Verbo fu fatto carne fu incontanente vittima e sacerdote, perché dalla volontà divina fu destinato, ed Egli offerse da se medesimo ad immolarsi sull’altare della croce vittima umano-divina in sostituzione del genere umano. Mirabil cosa! Dio era stato offeso da tutto il genere umano e per placarlo era mestieri un mediatore adeguato che sostituito all’uomo soddisfacesse alla giustizia di Dio, ma questo mediatore non poteva essere solamente creatura e non poteva essere solamente Dio; non poteva essere solamente creatura perché nessuna creatura si adegua alla divina altezza per modo da potersi interporre, se cosi è lecito dire, per ufficio tra l’uomo e Dio; non poteva essere solamente Dio, perché, dice S. Paolo, mediator unius non est. (Gal. III, 20) Nessuno può essere mediatore presso se stesso. Ed ecco mirabile invenzione della divina Sapienza. La seconda Persona della Trinità sacrosanta assume la natura umana, ed avete un mediatore che non è solamente creatura né solamente Dio. Non è solamente creatura perché anche secondo la umanità Gesù è il Verbo di Dio; non è solamente uomo perché la natura assunta non ha personalità propria e sussiste nella Persona del Verbo; così Gesù mediante la persona comunica con la divinità, mediante la natura assunta comunica con gli uomini e tramezzando fra l’offensore e l’Offeso è verissimo mediatore naturale, per l’incarnazione costituito Gesù cioè vittima sostituita per tutto il genere affinché porti le iniquità di tutti sopra di sé, e placando l’ira divina riconcili con Dio l’uman genere. – A questo signori miei a questo era nato, a questo cresceva Gesù, ad esser vittima che pagasse per noi. Ma della vittima è proprio che venga presentata al tempio e collocata sull’altare che deve innaffiare col proprio sangue, e così Gesù fino dal primo albore della sua vita al tempio viene presentato e fa la solenne oblazione di sé per la salute del mondo al Padre, e il Padre accetta il cambio del nuovo Adamo capo della rigenerata umanità, e da allora in poi ogni respiro di Gesù, ogni palpito del suo cuore, ogni vagito, ogni pensiero, ogni affetto, tutto insomma anima corpo, vita, morte, sangue, pene, fatiche, tutto è sangue, vita, morte, pene, fatiche di vittima, perché tutte le opere di Gesù Cristo sono prezzo della redenzione, la quale se si attribuisce alla morte è solo per questo che la morte pose il colmo e il suggello e consumò coll’opera principale il riscatto del mondo che le opere teandriche antecedenti avevano iniziato. Ecco un degno perché della presentazione al tempio del pargoletto Gesù. Era vittima già designata alla redenzione del mondo, doveva dunque essere offerta fin dagli esordì della vita acciocché tutto, tutto fosse in Lui operazione di vittima dalla culla alla croce.

3. Ma se è così: se Gesù doveva, come vittima designata a pagare i non suoi peccati, essere offerto al tempio, vedete subito quanto era conveniente che al tempio, come fosse una madre comune, lo presentasse Maria. Si ripete tutti i giorni nella santa Chiesa la dottrina sublimissima invero che insegna, come Gesù è il nuovo Adamo capo del genere umano rigenerato. Ma con questa dottrina va intimamente connessa 1’altra che compagna del nuovo Adamo nella nostra ristorazione sia un’Eva novella migliore della antica, e questa Eva novella è Maria. Questa dottrina è rivelata da Dio; e nel famoso proto Evangelio si parla di una donna per eccellenza nella quale sempre si è riconosciuta Maria, e S. Ireneo, S. Epifanio, S. Agostino e tutto in una parola il coro dei SS. Padri tessono un parallelo tra la prima madre del genere umano che partorì i figliuoli alla morte e la seconda che li partorisce alla vita, e quando Maria rispose all’Angelo, che le chiedeva il consenso, quell’ineffabile, ecce ancilla Domini: fìat mihi secundum verbum tuam. (Luc. I , 38) nel profferirsi alla divina maternità, si profferse ad essere sacerdotessa e vittima del genere umano. Gesù dunque fino dai primi albori della sua vita mortale viene offerto vittima al tempio perché cresca in istato di vittima fino alla croce, e al tempio col pargoletto in braccio si presenta Maria, e offre se medesima col Figliuolo al grande olocausto col quale deve essere ristorato il mondo e pacificato nel sangue della croce di Gesù Cristo il cielo con la terra. Quindi Maria che oggi col Pargoletto in braccio ci si mostra nel tempio intraprende una carriera che finirà sul calvario appiè della croce. E la sacerdotessa dell’uman genere che oggi presenta al tempio la vittima, la dovrà poi con alto strazio del cuore offrire in opera quando Madre dolorosissima starà spettatrice e parte delle pene che all’età di trenta anni uccideranno di viva forza questo unico e innocentissimo frutto delle sue viscere, vittima sostituita per tutto il genere umano, Cristo Gesù. Eccovi dunque perché non astretta dal vincolo della legge pure viene al tempio Maria. Viene per motivo più alto senza misura che non è l’osservanza di una cerimonia mosaica. Ma perché dunque si purifica al pari delle altre donne dalla immondizia di un concepimento immacolato e di un parto verginale? Perché vuole imitare il frutto delle sue viscere, che essendo santo e impolluto si fece peccato per noi, e la infinita purità apparve un lebbroso, un percosso, un umiliato da Dio. Vedete guest bambino! Omnes nos quasi oves erravimus, vi posso dire con Isaia, unusquisque in viam suam declinami, et posuit Dominus in eo iniquitates omnium nostrum. (Is. LIII, 6) Tutti noi siamo andati errando come pecore stolte, indisciplinate, ciascuno ha declinato per la sua via, e Dio ha posto sopra di esso tutte le nostre iniquità, e oggi le riceve sopra le spalle e le porterà sulla croce. E dal bambino posso rivolgere la parola e il guardo alla madre, e vedete, posso dirvi, vedete voi questa donna? Questa donna immacolata, innocentissima, piena di grazia è una vittima destinata al dolore, e partoriti naturalmente al peccato ci partorirà fra le pene alla grazia. – Questi affetti, o cuori magnanimi della Madre e del Figlio, in questo memorando giorno vi tempestarono, e il Padre nella duplice oblazione ricevette per dir così una primizia dell’olocausto e una caparra del prezzo, odorò in odore di soavità la duplice vittima e diede ad entrambi dell’accettazione il pegno, e quasi dissi col suo suggello lo suggellò.

4 Sì o signori, eterno Padre in questo giorno suggellò la duplice vittima, e fu Simeone vecchio, dice Agostino, annoso, provato, famoso, che pronunziando i destini del Figlio appressò il rovente suggello al cuore della Madre. Era in Simeone lo Spirito Santo, e lo Spirito Santo lo aveva fatto certo che non avrebbe veduto la morte se prima con gli occhi suoi veduto non avesse il Messia, e si trovava in questo giorno nel tempio e lo Spirito Santo gli aveva ispirato di andarvi. Ed ecco entrano Maria e Giuseppe nel tempio e la madre porta tra le braccia il suo bambinello. Li vede Simeone, sente una voce che gli dice al cuore quel Bambinello egli è desso, con le braccia prostese, con gli occhi ardenti, con la fiamma del desiderio nel volto corre con tremulo piede al Bambino, e senza più lo si reca tra le sue braccia. O Signore, Signore, ora, ora è il tempo, raccogliete pure in pace l’anima mia poiché questi occhi hanno veduto il mio Salvatore. Così giubilando gridò Simeone, ma poi annuvolossi ad un tratto e scurato il sembiante, corrugata la fronte, con occhio addolorato si rivolse alla Madre. E questo pargolo, disse, è posto in ruina e in risurrezione di molti in Israele e in bersaglio di contraddizione. – E tu, donna, preparati perché una spada ti trapasserà l’anima da parte a parte. Positus est hic in ruinam et resurrectionem multorum in Israel et in signum cui contradìcetur, et tuam ipsius animam pertransibit gladìus. (Luc. II, 34.) Eccovi con questopresagio, quasi con un suggello medesimo suggellato il Figlioe la Madre e costituiti entrambi in grado di vittime. Povera Madre!Non appena suonò sul labbro di Simeone quella profezia formidabile,intese subito che spada fosse quella che la aspettava,tutto, tutto vide e comprese. Vide come allora accadesse la carneficinadel frutto delle sue viscere, e allora fu per mio credereche il Cuore di Gesù impresse se medesimo come suggello sulcuore di Maria per tal modo che il cuore del Figlio non battessed’un palpito, non fosse commosso di un affetto al quale non consentissee corrispondesse il cuore della Madre. Ora il cuore diGesù fu sempre un cuore di vittima, e dal presepio di Betlemfino al Calvario mai non cessò di prepararsi e quasi corroborarsialla croce. Cresceva Gesù e di bambino si faceva pargoletto, e questemembra che crescono, diceva giorno e notte, crescono al martirioe alla croce. Procedeva l’un di più che l’altro, e di pargolettosi faceva adolescente, di adolescente garzone, ma semprela croce col duro peso gli gravitava sul cuore e garzonetto pienodi grazia e di sapienza, una cara mestizia gli annuvolava la frontesu cui si diffondeva l’amore, e quella mestizia era il pensierodella croce. Alla croce si preparò nella officina di Nazaret, quandotrattò con la divina mano arnesi fabrili, e quando giovane uscidalla tenda alla pugna, e predicò alle turbe il regno di Dio, ognipasso che stampò sul terreno l’offerse al Padre come un passoalla croce. O cuore di Gesù cuore di vittima, un palpito un palpitosolo non ti commosse, senza che urtassi nella durezza terribiledella croce. E che cuore fu il tuo in questo tempo medesimoo immacolata Figlia di David se non un cuore di vittima? Se Gesùcresceva e di bambino si faceva pargoletto, di pargoletto adolescente,di adolescente garzone, di garzone giovane adulto, cresceva sempresotto i tuoi occhi e tu lo vedevi, lo vedevi e vederlo e sentirtisuonare all’orecchio le parole di Simeone era un punto solo.Stringeva Maria al cuore il suo pargoletto e si deliziava in quellamembra cui illeggiadriva la grazia, e sentiva dirsi, questo pargoletto è posto in ruina e risurrezione di molti. Nutricava allaviva fontana del petto verginale quel caro pegno cui vaporava ilprofumo della inabitante divinità, e il cuore le ripeteva. Questoamore è posto a bersaglio di contraddizione. Vedeva crescere ilsuo diletto, dolcissimo garzoncello dagli occhi di colomba, dallaguancia di rosa sulle cui labbra si diffondevano le soavità celestiali,e prepàrati, udiva replicarsi, o Madre, perché una spadati deve trapassare l’anima da parte a parte. Vedeva farsi giovaneil suo Gesù e con Gesù che veniva in età, vedeva avvicinarsi ilmartirio, vittima insomma e madre di vittima, nel cui cuore lacarità di Dio mesceva la fiamma col naturale amore di madre,ebbe sempre sul cuore e davanti agli occhi la croce nella qualecon l’olocausto del Figlio sarebbe salito al Cielo in odore di soavitàl’olocausto altresì della Madre. O Anna profetessa figliuolaottuagenaria di Fanuele che coi digiuni e colle orazioni servendoDio ti sei meritata la gran ventura di vedere l’incarnato Verbodi Dio, parla pure di Lui a quanti aspettano la redenzione d’Israele,ma parla al tempo medesimo di Maria e non disgiungere la Madredal Figlio, e dì a tutti che due vittime si suggellano in questogiorno per essere una sola oblazione per la nostra salute.

5. Ma perciò stesso che era Gesù il nuovo Adamo vittima universale del genere umano, ottimamente profetizzò di Lui Simeone che Egli era posto in ruina e in risurrezione di molti in Israele e in bersagliò di contraddizione. La seconda parte di questa terribile profezia esplica e dà ragione della prima, e vale come se dicesse così: Siccome questo fanciullo sarà bersaglio di contraddizione; così è anche posto in ruina e in risurrezione di molti. Mirabil cosa signori miei! Correva il quarantesimo secolo da che il genere umano era strazio e ludibrio di satanasso, da che gli uomini a maniera di turbolenta fiumana precipitavano, una generazione dopo l’altra, all’inferno, da che la terra gemeva sotto il peso della vetusta maledizione: per tutto il mondo era una viva espettazione di cose nuove e di un nuovo ordine di secoli, in Israele si aspettava il Redentore promesso, si consultavano i Profeti, si stancava il Cielo con suppliche moltiplicate. Pareva che comparso appena fra gli uomini questo desiderato, i popoli, le genti, le tribù, le lingue dovessero correre a calca per adorarlo e collocarlo colle proprie mani sui loro altari. Ma invece, o Dio! Non appena questo desiderato comparve, cominciò subito la contraddizione per conto di Lui: e un gran numero di uomini, o perfidia forsennata ed immane! si rivolsero il Figlio di Dio venuto a salvarli in causa e strumento di perdizione e di rovina. La cosa era predetta, e Isaia a nome di Dio aveva profetizzato così. Io porrò in Sionne una pietra viva, provata, angolare, preziosa fondata nel fondamento. Questa pietra è Gesù Cristo, e sopra di essa è scolpita questa iscrizione. Qui ceciderit super lapidem ìstum confringetur, super quem vero ceciderit conterei eum. (Matth. XXI, 44.) Chi urterà contro questa pietra si sfracellerà, e coloro sopra i quali essa cadrà ne saranno schiacciati. Però, grida S. Pietro principe degli Apostoli, questa pietra viva, eletta, provata, angolare, preziosa, collocata nel fondamento dalla mano stessa di Dio, è inevitabile: tutti gli uomini che vivono sulla terra la trovano intraversata sulla loro via e conviene che scelgano o lasciarsi edificare sopra di lei o essere da lei stritolati. Ciò vuol dire che per conto di Gesù Cristo non si può essere indifferenti: qualunque ne ascolta la menzione ed il Nome è strette subito da una ineluttabile necessità di pigliare un partito : o con Lui o contro di Lui: via di mezzo non ci è. Egli è posto in bersaglio di contraddizione. Positus est in signum cui contradicetur. (Luc. II, 34.) Tutta la storia dei diciannove secoli che sono corsi dalla nascita di Gesù in Betlemme fino ai di nostri confermano questo vero e ci mostra il Figlio di Dio e di Maria posto in bersaglio di contraddizione e in rovina e in resurrezione di molti. Vi piace vederlo signori miei? Attendete e lo vedrete dopo che mi avrete concesso un breve respiro.

6. Gesù è posto bersaglio di contraddizione in ruina e in resurrezione di molti. Bene sta: ecco che nato appena Gesù, Erode lo trova sulla strada: posto al bivio conviene che scelga: sceglie di cozzare contro la pietra: cozza e ne è sfracellato. I Giudei vedono questa pietra nel mezzo a loro: osservano questa pietra, non piace loro, la disconoscono, la ripudiano la riprovano: la pietra cade sopra i riprovatori, li schiaccia tutti, e per propria virtù colloca se medesima nella testa dell’angolo Onesta pietra viene di poi consegnata agli Apostoli che la portano in faccia ai regi e alle genti: ed ecco non appena se ne ascolta la menzione ed il nome, il tumulto della contraddizione incomincia. Popoli e monarchi, nobili e popolani, dotti e ignoranti, nazioni civili e barbare si dividono in due schiere, altri aderiscono a questa pietra e ad essa si stringono, altri la osteggiano con contraddizione mortale. Si combatte accanitamente, il furore ministra le armi, cadono sfracellati i nemici e la pietra sta. E chi ha lingua e penna per descrivere le lotte e i trionfi di questa pietra? O pietra benedetta: tu lottasti in Roma contro la spada degli imperatori e vincesti: lottasti in Grecia contro la superbia dei filosofi e vincesti: lottasti contro tutte le passioni e le corruttele umane congiurate ai tuoi danni nel rimanente del mondo e vincesti. Vincesti e sottomettesti e l’indiano corrotto e l’ebreo feroce e l’arabo molle e l’africano indomito e l’adusto egiziano e il barbaro scita. Anche di trionfo in trionfo contraddetta sempre e sempre posta in rovina e in resurrezione di molti, verificasti la profezia di Daniele e diventata un gran monte empiesti di te medesima tutta la terra. Ma dopo tante vittorie non cessasti di essere bersaglio di contraddizioni, e alle mannaie, ai roghi, agli eculei, alle fiere dei Cesari, dei proconsoli, dei prefetti successero le perfidie e i cavilli degli eretici: ai cavilli e alle perfidie degli eretici, le nequizie teologiche dei Cesari bizantini; alle nequizie teologiche dei Cesari bizantini, le scimitarre e la ferocia dei barbari; alla ferocia e alle scimitarre dei barbari, la truculenta bestialità degli imperatori tedeschi, e poi di nuovo gli eretici, e dopo gli eretici i regalisti, e dopo i regalisti i politici, e dopo i politici quei mentecatti che il secolo passato chiamò filosofi. Al secolo dei filosofi successe il secolo della rivoluzione: contraddizione successe a contraddizione, assalto ad assalto, impeto ad impeto, furore a furore; Gesù Cristo fu a molti in resurrezione a molti in rovina, caddero urtando nella pietra uno dopo l’altro i nemici e la pietra sta. Ma che fremito è questo che mi percote le orecchie? Che si medita nei consigli dei monarchi e nelle assemblee dei popoli? Ecco che genti sorgono contro genti, regni contro regni, ecco che la terra rende più che mai somiglianza di un mare dove ed Euro e Noto, ed Affrico ed Aquilone ed Austro si avventano con tutto l’impeto della loro rabbia e mescolano le onde dall’imo fondo e levano i flutti alle stelle. Che pretendono, che vogliono gli uomini arrovellati e stravolti da sì furibonda vertigine? È la tempesta, il fremito, il tumulto, il furore dell’antica contraddizione intorno l’antico bersaglio Gesù Cristo, Figliuolo di Dio e pietra angolare del mondo. Stupenda cosa, signori miei, meraviglioso spettacolo! Noi assistiamo ad una lotta tra Gesù Cristo e la rivoluzione quale non fu vista forse mai per lo addietro. La rivoluzione fa sforzi eroici per togliersi davanti Gesù Cristo che le fa paura, ma più dà opera di evitare questa pietra e più se la trova dinanzi intraversata ai suoi passi. Vede la oscena questa pietra e freme e ringhia e spuma e latra e si arrovella ma invano. Affronta direttamente il terribile bersaglio. Ci urta con la insana testa e sente crosciarne al colpo le ossa. Fa opera di scansarla dissimulando il dispetto sotto la maschera di cinica indifferenza? E questa pietra le fa da se medesima inciampo ai piedi. Proclama la separazione dello stato da Gesù Cristo e dalla sua Chiesa? E Gesù Cristo si presenta ad ogni passo in mezzo alla via e la costringe ad occuparsi di esso dicendo, son qua. Protestate di non credere, protestate di non curarvi, deridete, bestemmiate, rubate, calpestate, insultate, ma vi trovate sempre alle mani con Gesù Cristo e il sarcasmo medesimo, la bestemmia, e le opere da ladroni che vi nobilitano, dicono in loro favella che una catena fatale a Gesù Cristo vi tira per sfracellarvi contro di Lui e verificare il vaticinio di Simeone che come esso è posto in  bersaglio di contraddizione cosi è anche posto in ruina e in risurrezione di molti. Ma noi o Gesù Cristo crediamo: crediamo e la nostra fede è la nostra gloria: noi nella contraddizione che vi bersaglia ci schieriamo dalla parte vostra. Quanto abbiamo di bene di forza, di spiriti, di coraggio, di vita, vogliamo tutto spendere per Voi. Voi accoglieteci sotto il vostro stendardo. Passa il mondo e gli uomini passano con esso. Tra pochi giorni il corpo di questi vermini che vi fanno guerra sarà un pugno di fango e l’anima verrà ai vostri piedi. Dio santo, Dio eterno, Dio immortale, Gesù Cristo figliuolo di Dio, viva a Voi l’anima nostra e ci sostenti intanto quella fede la quale è la vittoria che vince il mondo.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (13): tre prime promesse del Sacro Cuore di Gesù.

DISCORSO XII.

[A. Carmagnola: Il Sacro Cuore di Gesù – S. E. I. Ed., Torino, 1920 – imprim.]

Tre prime promesse del Sacro Cuore di Gesù.

Uno dei più validi mezzi, di cui si servono gli uomini per eccitarsi gli uni gli altri a compiere opere di vicendevole gradimento, è senza dubbio quello delle promesse. Il padre ad ottenere dal figlio, che sia virtuoso, che si applichi seriamente allo studio, al lavoro, gli promette un qualche regalo. Il  maestro ad ottenere dal discepolo, che compia esattamente i suoi doveri, che gli presti la dovuta attenzione, che lo segua con diligenza nelle sue lezioni, gli promette la promozione negli esami e il premio. Il capitano ad ottenere dai soldati il coraggio e ben anche l’eroismo nella battaglia, promette loro i vantaggi e gli onori della vittoria. E persino l’uomo perverso, ad ottenere, che alcun altro compia in suo pro una scellerata azione gli promette qualche gran somma di denaro o qualche altra ricompensa. È bensì vero, che la maggior parte degli uomini dopo aver fatto altrui delle magnifiche promesse, in seguito non vi attende, ma quando le promesse partono da un cuore reputato sincero, chi sa dire di quanta efficacia riescano? Allora il figlio non risparmia sacrifici per domare le male inclinazioni, il discepolo non la perdona a fatiche per profittare nello studio, il soldato diventa leone contro i nemici della patria, e financo l’assassino va a tingere la sua mano di un sangue innocente. – Se pertanto le promesse riescono al cuore umano di tanta virtù e gli infondono tanto coraggio sia per praticare il bene, come pur troppo anche per compiere il male, il Sacratissimo Cuore di Gesù, desiderando di avere il maggior numero possibile di devoti, perché nel mondo si abbia a compiere per mezzo della sua divozione il maggior bene, non volle lasciare di valersi di un tanto mezzo per ottenerlo. E perciò parlando a Santa Margherita, le diceva un giorno: « Io ti prometto, che il mio «Cuore si dilaterà per diffondere in copia le fiamme del divino amore sopra coloro, che gli renderanno o procureranno che gli sia reso dagli altri onore e gloria. Io ho manifestato agli uomini il mio Cuore, dando ad essi in questi ultimi tempi tale estremo sforzo del mio amore, per aprir loro con tal mezzo tutti i tesori di amore, di grazia, di misericordia, di salute e di santificazione. » Ma non contento il Sacro Cuore di Gesù di queste promesse generali, con la stessa Santa Margherita discese a far promesse al tutto speciali, siccome quelle che avrebbero maggiormente toccato i nostri cuori. Ed è appunto intorno a queste speciali promesse che desidero prendere oggi ad intrattenervi. Già abbiamo riconosciuto la saldezza e l’eccellenza della divozione al Sacro Cuore di Gesù, l’oggetto, i fini e le pratiche di questa stessa divozione. Ora per animarci sempre più ad esercitarla dobbiamo considerarne i vantaggi. E questi noi li conosceremo appunto con lo svolgere le grandi promesse del Sacratissimo Cuore. Cominciamo oggi da quelle per cui furono assicurate ai devoti del Sacro Cuore: tutte le grazie spirituali e temporali di cui avranno bisogno nel loro stato; la pace nel seno delle loro famiglie; la consolazione nei loro patimenti.

I. — L’Apostolo S. Paolo ha scritto, che ciascuno ha il suo dono da Dio: unusquisque proprium donum habet ex Deo; (I Cor. VII, 7) vale a dire, come spiegano i sacri dottori, a ciascuno Iddio elegge quaggiù uno stato, in cui deve passar la sua vita. E così chiama taluni a seguirlo più davvicino nello stato religioso, chiama altri a dedicarsi al ministero del sacerdozio e dell’apostolato, chiama altri a vivere in mezzo al mondo nella vita pubblica per giovare ai loro fratelli nell’esercizio delle diverse arti e professioni, chiama altri a mantenersi nello stato di verginità, ed altri ad abbracciare lo stato coniugale per moltiplicare i figliuoli della Chiesa e i Santi del paradiso. Sì, ognuno ha da Dio la sua speciale vocazione. Ma qualunque sia lo stato, a cui Iddio chiami nei disegni della sua Provvidenza, sempre vuole che gli uomini in qualsiasi stato si facciano santi: Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra. (I Tess. IV, 3) No, non è soltanto a qualche ceto particolare di persone, che Iddio imponga la santità, ma a tutti indistintamente. Egli la impone ai religiosi ed ai sacerdoti, e più a loro che agli altri, perché essi hanno da essere il sale della terra, la luce del mondo; ma la impone parimente ai secolari, ai coniugati, agli uomini della vita pubblica, a quelli che esercitano nobilissime arti e a chi lavora nell’officina o bagna dei suoi sudori la terra: a tutti Egli disse: Siate santi: Estote perfecti (Matth. V, 48) Né crediate perciò che Iddio imponga a taluni l’impossibile. Certamente se la santità, come taluni si danno facilmente a credere, consistesse soltanto in digiuni, in austerità, in flagellazioni, in portar vesti di sacco e cilici al fianco, in far miracoli, in aver contemplazioni ed estasi, allora non a tutti, in qualsiasi stato, sarebbe né facile, né possibile. Ma se tutto ciò può far parte e può essere dono della santità, non è propriamente ciò, in cui la santità consista; anzi, ciò potrebbe essere ben anche vanità ed ipocrisia, quando mancasse la santità vera e sostanziale, che consiste nell’amare Iddio con tutte le forze, e nell’osservare perciò la sua legge. Il che, o miei cari, è forse impossibile, od anche difficile? Lo stesso divino Maestro Gesù ci ha appreso che se l’osservanza de’ suoi santi precetti è un peso, non è tuttavia che un peso molto soave e leggiero: Iugum enim meum meum est, onus meum leve. (Matth.. XI, 30) E l’apostolo ed evangelista S. Giovanni ha detto chiaramente, che i comandi del Signore non sono gravi: Mandata eius gravia non sunt. (I Io., V, 3). Ed in vero qual cosa più conforme a giustizia poteva imporci Iddio che di amarlo e servirlo? E nel tempo stesso cosa più dolce e più cara? Non è questo amore e questa servitù che apporta la pace più gioconda alle anime nostre, secondo la bella osservazione del reale salmista: Pax multa diligentibus legem tuam? (Ps. CXVIII, 165) E non è al contrario cosa, che importa fatiche, affanni e tormenti il non amare Iddio e l’offenderlo? Ah! checché si pensi dal mondo, la verità è questa, che gli uomini che vivono lontani da Dio sono sempre costretti ad esclamare: Ci stancammo nelle vie di iniquità e di perdizione, e camminammo per vie difficili: Lassati sumus in via iniquitatis et perditionis, et ambulamus vias difficiles! (Sap. V, 7) Sì, il dannarsi importa penosissimi aggravi, mentre invece il santificarsi è cosa facile e soave. Ma sebbene la santificazione nostra sia soave e facile, è certo tuttavia, che noi con le sole, nostre forze naturali non possiamo operarla. È dottrina di fede, insegnataci dalla Chiesa e ripetutamente scritta nei Santi libri che noi, da noi medesimi,non possiamo far nulla in ordine alla nostra eterna salute, neppure concepire nell’anima un buon pensiero. Ma sia ringraziato Iddio! Egli che vuole la nostra santificazione, pieno di amore e di bontà, non lascia di darci i mezzi necessari ad operarla, ed il mezzo che tutti gli altri comprende, è quello della sua grazia. Sì certamente, Iddio dà a tutti gli uomini quella grazia, per mezzo della quale, in qualsiasi stato Dio li abbia chiamati, se essi risolutamente il vogliono, possono salvarsi ed essere un giorno nel novero dei Santi. E sevi hanno pur troppo di quelli, i quali si dannano, ciò non avviene perché sia loro mancato l’aiuto della grazia di Dio, ma bensì perché a questo aiuto della grazia essi non hanno corrisposto; sicché se le anime dannate dal fondo dell’inferno, ove si trovano, osassero muovere lamento contro la divina giustizia,il Signore potrebbe bene rispondere a ciascuna di esse:Taci là, che la tua perdizione è opera tua: Perditio tua ex te.(Os. XIII, 9) Ma come mai la grazia di Dio rende non solo possibile, ma facile eziandio la santità in qualsiasi stato? Ah! egli è perché la grazia è dotata di un prodigioso carattere, diun’ammirabile proprietà, di quella cioè di adattarsi e contemperarsialla condizione ed ai bisogni particolari di ciascuno. Nelle Sacre Scritture tante volte è chiamata col nome di rugiadae di pioggia, e tale essa è veramente, dice S. Agostino: Gratia pluvia est. La pioggia cadendo e penetrando nel terrenoassume poi il colore di ciascun fiore, e il sapore di ciascun frutto, in cui segretissimamente e per sottilissime vie si spandee s’insinua, e così nei prati si tinge di bellissimo verde, nei campi biancheggia con le spighe, nei giardini si smalta di nevenei gigli, fiammeggia di porpora nella rosa, si veste di azzurro nel giacinto, e nei frutteti si fa or agra or dolce, secondo ladiversità dei frutti. Or ecco il lavorio misterioso e molteplice che va facendo la grazia nei cuori umani. Essa si adatta a tutti gli stati, si accomoda a tutti i temperamenti, si congiunge a tutte leetà. Gettate lo sguardo sopra i fasti gloriosi della Chiesa, considerate la varietà dei Santi, che l’adornano, e toccherete con mano sì bella verità. Voi vedrete la grazia aver fatto dei Santi fra i Pontefici e fra i semplici sacerdoti, aver fatto dei Santi fra i religiosi del chiostro e fra i secolari del mondo, aver fatto dei Santi fra i vergini, fra i coniugati edi vedovi, aver fatto dei Santi fra i re e fra i sudditi, averfatto Santi fra i capitani e fra i soldati, averne fatto frai letterati e fra gli idioti, fra i ricchi e fra i poveri, fra i geni e tra i meschini, fra i vecchi e fra i giovani, fra tutti di qualsiasi stato, di qualsiasi età e condizione, senza eccezioni. Ma quei mirabili effetti, che la grazia ha operato nei Santi, sono sempre gli stessi che va operando in noi, sicchéin alcuno fra di noi, in qualsiasi stato si trovi, che per opera della grazia e per la fedele corrispondenza alla stessa non possa farsi Santo e gran Santo.Che se questa consolantissima verità è in pro di tutti gliuomini in generale, la è tuttavia in modo specialissimo per devoti al Sacro Cuore di Gesù. Giacche è ai suoi devoti che il Sacratissimo Cuore promise peculiarmente di dare tutte le grazie necessarie al loro stato. Oh bella felicità adunque che è questa! Sia pure che nell’adempimento delle loro obbligazioni idevoti del Sacro Cuore di Gesù incontrino ancor essi delle difficoltà, questo Cuore Sacratissimo con la sua grazia si farà loro a spianarle; sia pure che la loro volontà si infiacchisca nell’operare il bene, il Cuore di Gesù con la sua grazia si farà loro a fortificarla; sia pure che il demonio, le passioni, gli uomini del mondo si travaglino per indurli a tradire i loro doveri, il Cuore di Gesù con la sua grazia si farà a renderli vittoriosi. Pertanto volete voi, o giovani, che il Signore vi difenda dagli agguati del mondo, dalle lusinghe della carne e dagli assalti del demonio, sicché possiate mantenere intatta l’innocenza fra i pericoli, che ad ogni passo incontrate? Siate devoti al Sacro Cuore di Gesù. E voi, o coniugati, desideratevivere in santo amore, in incessante fedeltà fra di voi, allevare cristianamente la vostra prole, eseguire, esattamente i vostri obblighi che non sono né sì pochi né sì lievi? Siate devoti del Sacro Cuore di Gesù. O padri e madri, voi siete in trepidazioneed affanno sulla riuscita dei vostri figliuoli, e ben a ragione, perché innumerevoli seduttori si aggirano intorno agl’incauti, e con infiniti artifizi si adoprano a trascinarli lontani dall’amoredi Dio e vostro. Ma voi non cessate dal raccomandarlial Sacro Cuore di Gesù, e benedetti da Lui, essi formeranno conla lor buona condotta la vostra maggior consolazione in terra,la vostra più bella corona in cielo. E voi, o maestri, che nellascuola attendete ad erudire le menti ed a formare i cuori dei fanciulli e dei giovanetti, volete degnamente corrispondere allasublimità della vostra missione, ed ottenere efficacemente che la scuola sia chiesa e non tana? Siate devoti anche voi del Sacro Cuore di Gesù. E voi, padroni, voi elevati in dignitàe potere, voi amministratori delle cose pubbliche, voi magistrati, voi principi e sovrani, che desiderate esercitare con giustiziae con vero vantaggio dei vostri sudditi gli uffici vostri, amateanche voi quel Cuore, per cui: Reges regnant et legum conditores insta decernunt. (Prov. VIII, 15) E così voi operai, voi sudditi, voi servitori, nella divozione al Sacro Cuore di Gesù, troverete il mezzo per tollerare la condizione vostra ed esercitarecon amore i vostri doveri. Finalmente se voi siete persone viventi in Religione, ricordate che il Sacro Cuore di Gesù:ha detto a Santa Margherita: « Le persone religiose dalla devozione al Cuor mio caveranno tanti aiuti che non abbisogneranno più di altro mezzo per ristabilire il primitivo fervore e la più esatta osservanza nelle comunità meno regolate. E per condurre le altre alla più grande perfezione. » E se siete Sacerdoti, intenti a lavorare non solo per la salvezza vostra,ma ancora per la salvezza altrui, non dimenticate che lo stesso Sacro Cuore di Gesù ha pur detto: « I sacerdoti e gli uomini apostolici avranno l’arte di commuovere i cuori più indurati enelle loro fatiche avranno un esito ammirabile. » Dunque in qualsiasi stato, di qualsiasi condizione di vita, per quanto difficile, accostiamoci tutti con la massima confidenza a questo Cuore, fonte inesauribile di grazie, domandiamogli quelle cheabbiamo bisogno, per santificarci nel nostro stato; Egli ha promesso di darcele e la sua parola non verrà meno giammai. –  Ma sebbene l’affare più importante, il primo a cui dobbiamo attendere sia l’acquisto della nostra eterna salute mediante la nostra santificazione in qualsiasi stato ci troviamo, è certo tuttavia, che dobbiamo pure, per ragione della condizione cui Iddio ci ha posti quaggiù, mettere mano ad intraprese ed affari temporali, sia per acquistarci col lavoro il nutrimento per la vita, sia per procurarci un’onesta agiatezza, sia per arricchire la nostra mente di utili cognizioni, sia per esercitare le arti e compiere opere di comune vantaggio alla società, sia per non pochi altri giusti motivi. Ora a questo riguardo disse già assai bene un nostro poeta: A compir le belle imprese| L’arte giova, il senno ha parte,| ma vaneggia il senno e l’arte,| Quando amico il ciel non è. Il che non è altro se non la libera versione di quel pensiero delle Sante Scritture, che « se il Signore non edifica egli la casa, lavorano invano quelli, che la edificano, e se non custodisce la città, indarno veglia il soldato, che la custodisce. » Si, senza la benedizione del cielo amico, fallisce anche il meschino dei nostri affari. Ma non falliranno certamente neppure i più gravi ed importanti, se noi saremo devoti del Sacro Cuore di Gesù. Perciocché non si contentò di promettere ai suoi devoti le grazie necessarie a santificarsi e a raggiungere così il buon esito dell’affare supremo, dell’eterna salute, ma promise ancora, che li avrebbe benedetti negli altri affari. E così essendo, o carissimi, cerchiamo pure anzitutto il regno di Dio, come Gesù Cristo ci ha appreso, ma ponendo pur mano a quegli interessi, che sono richiesti dal nostro stato, e per nulla contrari all’acquisto del regno di Dio, ricordiamoci che, secondo la parola data da Dio medesimo, nella divozione al Sacro Cuore abbiamo l’assicurazione di essere da questo Cuore Santissimo benedetti e prosperati.

II. — Ma se già così grandi sono questi vantaggi promessi dal Cuore di Gesù ai suoi devoti, non lo è meno quello, di cui entro ora a parlarvi: la pace cioè nelle loro famiglie. Famiglia! E chi è mai, che a questo nome non si senta intenerire il cuore? Dopo la Religione la famiglia è quanto vi è di più bello, di più caro, di più. dolce, di più attraente sulla terra. Iddio, che sebbene uno nella essenza, per essere trino nelle Persone costituisce in cielo la Famiglia più perfetta, ha voluto nel suo amore per noi riprodurla quaggiù sulla terra. E per questo, dopo aver creato il cielo e la terra con tutte le meraviglie che l’adornano, dopo aver compiuto il capolavoro della creazione, l’uomo, volle coronare l’opera sua, creando la famiglia. Egli mandava un dolce sonno ad Adamo, e mentre questi dormiva gli traeva dal fianco la donna facendogliene un aiuto simile a lui, e dopo d’avergliela condotta innanzi, benediceva all’uno e all’altra, dicendo: Crescete e moltiplicatevi, e riempite la terra: Crescite et multiplicamini, et replete terram. (Gen. I, 28) Ed è lì, nella famiglia creata e benedetta da Dio, che due cuori vivono dolcemente incatenati fra di loro, dividendo le gioie e le sofferenze, le fatiche ed i riposi, gli abbattimenti ed i conforti, le pene e le consolazioni. È lì, che lo sposo pur essendo superiore alla sposa, non fa altro tuttavia che riguardarla come dolce consorte; ed è dove la donna forte, saggia, operosa, prudente, sottomessa affettuosa riempie di gioia il cuore del marito e raddoppia numero dei suoi anni. È lì ancora dove un padre ed una madre vedendo i loro figliuoli, come novelli virgulti di olivi circondare la loro mensa, posano sopra di essi le più belle speranze, e in essi si allietano delle più pure consolazioni; ed è lì alla loro volta, dove i figliuoli vivono beati nell’amore così intenso e così sicuro dei loro genitori! No, non vi ha felicità più bella, più pura, più grande di quella, che si gode  in seno della famiglia; essa è l’immagine più viva della felicità che si gode per sempre in cielo nella famiglia dei Santi. Se non che è egli vero, che in tutte le famiglie regni tal felicità? Ahimè! tutt’altro. In molte famiglie regna invece l’infelicità, e così grande da rendere immagine dell’infelicità dell’inferno. E qual è mai la ragione di ciò? Se a rendere felice una famiglia fossero necessarie le ricchezze, ben si comprenderebbe, come non mai lo possano essere le famiglie dei poveri. Se la felicità andasse compagna ai titoli ed agli onori, neppur vi sarebbe a stupire, che manchi nelle case degli umili e dei meschini. Così se ad essere felici bastasse esser sani e robusti, si vedrebbe il perché non lo siano le famiglie in cui vi hanno dei deboli e degli infermi. Ma come mai vi hanno pure infelici nelle famiglie di sani, di ricchi, di gente colma di titoli e di onori? La ragione si è, che la base della felicità domestica non è altro se non la pace, quella pace, che Gesù Cristo, nascendo faceva cantare dagli Angeli agli uomini di buona volontà, quella pace, che Egli stesso annunziava agli Apostoli non appena risuscitato da morte, quella pace, che agli stessi lasciava prima di salire al cielo, quella pace infine, che Egli loro ordinava di portar nelle famiglie, ogni volta che vi mettessero piede. Ed è la pace appunto, che in molte famiglie manca. Qua, distruggitori della pace domestica sono mariti inumani, che violando le più sante promesse fatte appiè degli altari, mentre per la compagna avuta da Dio non hanno che odio, disprezzo, fastidio ed abbandono, gettano negli amori più infami sanità, sostanze, onore ed anima. Là, distruggitrici della pace sono mogli implacabili, le quali tengono sempre le loro lingue armate di finissima punta per ribattere le osservazioni dei loro mariti e per ferire al vivo chi alla fin fine è il capo della casa e può e deve comandare. Altrove sono padri crudeli, che senza alcun giusto motivo trattano spietatamente i loro figliuoli o li lasciano nel più barbaro abbandono; ed altrove sono figliuoli, che appena arrivati ai primi anni dell’adolescenza più non piegano la fronte ad alcun comando di padre e di madre, insorgono anzi riottosi contro di loro e fanno a dispetto quel che ad essi è proibito. Insomma qua per un membro, altrove per un altro, in non poche famiglie invece della pace regnano sovrani il disamore, la gelosia, l’odio, la lite, la discordia, e per conseguenza l’infelicità. – Or bene, o carissimi, vogliamo noi tenere lontani dalle nostre famiglie questi mali, che distruggono la pace e la felicità? Siamo sinceramente devoti del Sacratissimo Cuore di Gesù. Questo è il secondo vantaggio, che egli promise ai cultori della sua devozione. Ed Egli senza dubbio farà onore alla sua parola. Se la pace non è mancata mai, Egli continuerà tenerla; se è venuta meno Egli non tarderà a ristabilirla. Questo Cuore Santissimo da noi amato, risarcito, imitato, invocato, non lascerà di toccare il cuore di chi è la causa dell’infelicità di nostra famiglia; egli arresterà quel marito sulle vie delle sue infedeltà e de’ suoi disordini, ammansirà quella moglie così superba ed iraconda, ammollirà quel padre sì duro e spietato, infrenerà quel figlio così caparbio e ribelle, richiamerà alla virtù ed alla fede chi se n’è allontanato, e cessata ogni burrasca, ricomparirà in ognuna delle nostre famiglie l’iride della serenità e della pace. Non dubitiamone punto; Gesù lo ha detto: « Io metterò la pace nelle famiglie dei miei devoti. »

III. — Adunque grazie spirituali e benedizioni temporali secondo le diversità dello stato in cui si vive, pace nel seno delle famiglie, ecco i bei vantaggi, che già abbiamo riconosciuto trovarsi nella divozione al Sacro Cuore. Ci rimane oggi a riconoscerne un altro ancora, così espresso da Gesù Cristo: « Io consolerò i devoti del mio Cuore nei loro patimenti. » Nessuno ignora, perché tutti tardi o tosto vengono a conoscerlo per esperienza, che sono senza numero le pene e le afflizioni che travagliano la nostra misera esistenza sia nel corpo che nell’anima; e queste pene accumulandosi le une sopra le altre finiscono talora per opprimere il nostro cuore. Allora noi con istinto irrefrenabile andiamo cercando un altro cuore per versarvi entro la piena del nostro; ma lo troviamo noi? Noi troviamo dei cuori chiusi ed insensibili; noi troviamo dei cuori, o già ricolmi delle afflizioni loro, o sì deboli da restar soffocati all’apprendimento delle afflizioni nostre; noi troviamo dei cuori ipocriti, che sembrano commuoversi per noi, ma che in fondo non sentono per noi compassione di sorta; noi troviamo dei cuori egoisti, che dopo aver ricevuto una volta le nostre confidenze ci fanno subire il martirio delle loro incessanti lamentele; noi troviamo dei cuori traditori, che delle nostre confidenze si valgono per mettere in piazza le nostre miserie; ecco ciò che noi troviamo. Eppure abbiam bisogno di effonderci, di sfogarci! Allora, andremo noi, come certe anime sventurate, ad affidar le nostre pene alle creature irragionevoli, alle stelle del cielo, alle onde del mare, alle piante della foresta, alle rocce d’un monte? Ma quale conforto ne trarremmo noi?… Miei cari! Vi è un cuore sempre aperto, sempre potente, sempre amico, sempre infinito, che sempre senza stanchezza, senza noia, anzi con piacere, con amore è disposto ad accogliere le espansioni del cuor nostro, le nostre lagrime, le nostre afflizioni, e questo cuore è il Cuore Sacratissimo di Gesù. –  Uno dei motivi, per cui Gesù Cristo volle assumere la nostra povera natura e assoggettarsi alle nostre miserie, come osserva San Paolo, è stato questo appunto di farsi a sentire più vivamente le afflizioni nostre per compatirle e recarcene consolazione! Non enim habemus Pontificem, qui non possit compati infirmitatibus nostris, tentatum autem per omnia prò similitudine, absque peccato. (Hebr. IV, 15) Sì, all’infuori del peccato, egli volle provare tutte le pene interiori ed esteriori, che possono squarciare un corpo o straziare un’anima, ed assomigliarsi ai suoifratelli per essere misericordioso: Unde debuit per omnia fratribus assimilari, ut misericors fieret. (Hebr. II, 17). Egli conosceva bene come il suo Cuore meglio si sarebbe impietosito dei patimenti nostri e più prontamente ci avrebbe confortati nei medesimi, sopportandoli Egli stesso; e per ciò Eglipiange appena nato nella capanna di Betlemme, piange nel prendere la via dell’esilio, soffre e piangenel ritiro misterioso della casa di Nazaret, soffre e piange nelle veglie solitarie della sua vita pubblica, soffre e piange sulla tomba di un amico, soffre e piange sull’ostinazione ed ingratitudine di Gerusalemme, soffre e piange nell’agonia del Getsemani, soffre e piange sulla Croce. Ah! Egli è veramente l’uomo dei patimenti: vir dolorum (Is. LIII, 3) E che altro mai lo ha fatto soffrire e piangere, se non l’amore per noi, ela brama di essere con noi pietoso? Unde debuit fratribus assimilari ut misericors fieret. Né solamente volle provare tutte le pene, ma ciò che è più volle sottostare alla massima desolazione. Con le parole del profeta ei poté dire: Il mio Cuore andò incontro agli obbrobri ad alle miserie, ed io cercando chi entrasse a parte della mia tristezza e mi consolassenon lotrovai: Improperium expectavit cor meum et miseriam, et sostinuit qui simul contristaretur, et non fuit, et qui consolati non inveni. (Ps. LXVIII, 21) Or dunque avendo Gesùsperimentato tutte le pene, e fra le altre anche quella desolazione, conosce per contrario quanto balsamo arrechi alle piaghe di un’anima afflitta la consolazione, e ciò conoscendo con un Cuore così ricco di amore e di compassione, tuttici invita, quando siamo afflitti, ad appressarci a Lui, per essere consolati: Venite ad me omnes, qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos. (Matth. XI, 28) Oh sì! il Cuore di Gesù si commuove ad ogni nostra lagrima, ed essendone in pieno potere, è pronto sempre a consolare efficacemente gli afflitti, a lenire le loro pene, a versare nel loro cuore ulcerato, siccome pietoso Samaritano, il balsamo di ogni migliore conforto.E non faceva così durante la sua mortal vita? Alla preghiera ed alle lagrime di Giairo si mette tosto in cammino per sanare la sua figlia, e trovatala già morta, a consolazione di quel padre, la risuscita. Portandosi alla sepoltura il figliuolo unico della vedova di Naim, questa sventurata madre gli teneva dietro con tale profluvio di lagrime, che avrebbe intenerito le pietre. E Gesù alla vista di quella madre piangente,tocco nel più intimo del suo Cuore, comanda ai portatori della bara di fermarsi, e consola lei pure col miracolo della risurrezionedel suo figlio. La Cananea ha una figlia invasata dal demonioe non reggendole il cuore di vederla in sì misero stato ricorre a Gesù. E Gesù, sebbene dapprima sembri non far conto della sua afflizione per far meglio spiccar la sua fede,lascia alfine libero corso alla piena del suo tenero afflitto e la consola concedendole quel che chiedeva, cioè la guarigione della figlia sua. Infelici ed infermi d’ogni maniera travagliati dai loro dolori si presentavano od erano presentati a Lui, ed Egli, eccolo qui a ridonare l’uso delle membra ai paralitici; là ristagnare il sangue della povera emorroissa, ove rendere la sanità al servo del centurione, ove guarir dalla febbre la suoceradi Pietro, ove raddrizzare gli storpi, illuminare i ciechi, dar l’udito ai sordi, la loquela ai muti, insomma segnare ogni suo passo con un nuovo tratto di sua bontà, con una novella consolazione ai miseri afflitti. Ma quanto Egli faceva nel corso di sua vita mortale, è quello che è pronto a fate, che fa tuttora dall’altezza dei cieli, ove si trova ammantato di gloria, e dall’umiltà del tabernacolo, ove trovasi nascosto sotto le specie dell’Eucaristico Sacramento. E per ciò se tanti e tanti, chemenano al mondo una vita misera e travagliosa e, come il feritodi Gerico, si vedono passar vicino più d’uno che non li cura, che non li mira, si facessero a raccontare a Lui le loro pene, a Lui mettessero innanzi le piaghe, che si vergognano di far conoscere a chicchessia, oh quale consolazione sentirebberospargersi sul cuore afflitto! Ma intanto, perché non si curanodi cercare la consolazione, dov’è di fatti, vivono i giornipiù desolati, e quando non si abbandonano alla più orribile disperazione, consumano di crepacuore, vengono meno di malinconia. Altri poi vivendo nella massima cecità, per essere sollevati dalle loro miserie, invece di accostarsi a questa consolazione, vanno in cerca di conversazioni mondane, di passatempi e piaceri terreni. Infelici! respirino pure un’aria libera in amena campagna, ricreino pure l’orecchio con la soavità delle musiche più scelte, pascan pure l’occhio con la varietà dei teatri, passinopure le ore tra le allegrie dei convitti, o tra gli scherzi di compagnie geniali; per un’ora, per un giorno entrerà loro in cuore una pace apparente; ma tosto vi ricomincerà la guerra, vi rinascerà il tormento, ed in mezzo alle feste del mondo si troveranno soli! No, la consolazione nei patimenti non può trovarsi che nel cuore di quel Gesù, che è: Deus totius consolationis, Dio di ogni consolazione, e che ciconsola realmente in ogni nostra tribolazione, qui consolatur nos in omni tribulatione nostra. (II Cor. I, 3-4)Ma se ciò è verissimo di tutti gli uomini, che sono nell’afflizione, lo è massimamente per i suoi devoti. Questa è pur una delle promesse da Lui fatte: « I miei devoti, li consolerò nei loro patimenti. » Epperò come una madre vedendo afflitto tra i suoi figliuoli chi maggiormente l’ama, si getta al suocollo, lo stringe al petto, lo copre di baci, lo inonda di lagrime, e solamente allora che è sicura d’averlo tornato in pace, respira e riposa, così il Cuore Sacratissimo di Gesù, quando vede travagliato un suo devoto, non tarda un istante a consolarlo con le finezze del suo amore e con la soavità delle sue grazie. E non faceva così durante la sua vita mortale? Amato di un amore singolare da taluni fra molti che lo conoscevano e lo seguivano, alla sua volta senza lasciare di consolare gli altri afflitti, si affrettava tuttavia a consolare questi suoi amici, e alle lagrime di Marta e di Maddalena piangeEglistesso e restituisce la vita al suo caro Lazzaro, ed a Giovanni oppresso dal dolore appiè della sua croce dà la consolazione dell’amor materno di Maria, ed agli Apostoli afflitti per la sua morte, appena risorto dà. con prestezza il confortodelle sue apparizioni. Ora quel costume che Egli ebbe quaggiù, non solo possiamo sperare, ma dobbiamo credere, checontinuerà a mantenerlo, avendocene datala sua indefettibileparola. Animo adunque, continuiamo in questa così utile devozione,accresciamone anzi ogni giorno il fervore, ed allora avremo con certezza tutte le grazie necessarie al nostrostato, godremo sempre la bella pace nel seno delle nostre famiglie, e potremo sempre ripetere col santo re Davide: Ad Dominum, cum tribularer, clamavi, et exaudivit me; (Ps. CXIX, 1), essendo tribolato sono ricorso al Cuore di Gesù, ed esso miha esaudito e consolato.Sì, o liberalissimo Gesù, è questo il santo proposito, che facciamo in questo giorno genuflessi ai piedi vostri, di volere praticare ed accrescere sempre più in noi la divozione al vostroSacratissimo Cuore. E Voi, nella infinita bontà e generosità vostra, degnatevi di spargere pur sempre sopra di noiquei grandi beni, che ne avete promesso. Dateci la grazia diadempiere esattamente le obbligazioni del nostro stato; donatealle nostre famiglie quella pace, che il mondo non può dare; e nelle nostre afflizioni consolateci e dateci la forza per soffrirle con piena rassegnazione alla vostra divina volontà; e così ci sia dato altresì di benedire mai sempre la divozione vostra, che è stata per noi fonte copiosa dei più salutevoli vantaggi”.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: FEBBRAIO (2019)

FEBBRAIO è il mese che la CHIESA DEDICA alla SANTISSIMA TRINITA’

All’inizio del mese è bene rinnovare l’atto di fede Cattolico – autentico e solo – recitando il Credo Atanasiano, le cui affermazioni, tenute e tenacemente professate contro tutte le insidie della gnosi modernista, protestante, massonica, pagana, lucifero-satanica, comunisto-liberista, noachide-mondialista, della falsa chiesa dell’uomo vaticano-secondista, permettono la salvezza dell’anima per l’eterna felicità. [cfr. Calendario liturgico Febbraio 2018 – exsurgatdeus.org.]

« Che cosa domandate da noi, o divino Maestro, esclama sant’Agostino, se non che siamo perfettamente uniti di cuore e di volontà? Voi volete che diveniamo per grazia e per imitazione ciò che le tre Persone divine sono per la necessità dell’esser loro, e che come tutto è comune tra esse, così la carità del Cristianesimo ci spogli di ogni interesse personale ». – Come esprimere l’efficacia onnipotente di questo mistero? In virtù di esso, in mezzo alla società pagana, società di odio e di egoismo, si videro i primi Cristiani con gli occhi fissi sopra questo divino esemplare non formare che un cuore ed un’anima, e si udirono i pagani stupefatti esclamare: « Vedete come i Cristiani si amano, come son pronti a morire gli uni per gli altri! » Se scorre tuttavia qualche goccia di sangue cristiano per le nostre vene, imitiamo gli avi nostri, siamo uniti per mezzo della carità, abbiamo una medesima fede, uno stesso Battesimo, un medesimo Padre. I nostri cuori, le nostre sostanze siano comuni per la carità: e in tal guisa la santa società, che abbiamo con Dio e in Dio con i nostri fratelli, si perfezionerà su la terra fino a che venga a consumarsi in cielo. – Noi troviamo nella santa Trinità anche il modello dei nostri doveri verso noi stessi. Tutti questi doveri hanno per scopo di ristabilire fra noi l’ordine distrutto dal peccato con sottomettere la carne allo spirito e lo spirito a Dio; in altri termini, di far rivivere in noi l’armonia e la santità che caratterizzano le tre auguste Persone, e ciascuno di noi deve dire a sé  stesso: Io sono l’immagine di un Dio tre volte santo! Chi dunque sarà più nobile di me! Qual rispetto debbo io aver per me stesso! Qual timore di sfigurare in me o in altri questa immagine augusta! Qual premura a ripararla, a perfezionarla ognor più! Sì, questa sola parola, io sono l’immagine di Dio, ha inspirato maggiori virtù, impedito maggiori delitti, che non tutte le pompose massime dei filosofi.

3

Te Deum Patrem ingenitum, te Filium unigenitum, te Spiritum Sanctum Paraclitum, sanctam et individuam Trinitatem, toto corde et ore confitemur, laudamus atque benedicimus. (ex Missali Rom.).

Indulgentia quingentorum dierum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotìdie per integrum mensem precatiuncula devote reperita fuerit

(S. C. Ind., 2 iul. 1816; S. Pæn. Ap., 28 sept. 1936).

12

a) O sanctissima Trinitas, adoro te habitantem per gratiam tuam in anima mea.

b) Osanctissima Trinitas, habitans per gratiam tuam in anima mea, facut magis ac magis amem te.

c) O sanctissima Trinitas, habitans per gratiam tuam in anima mea, magis magisque sanctifica me.

d) Mane mecum, Domine, sis verum meum gaudium.

Indulgentia trecentorum dierum prò singulis iaculatoriis precibus etiam separatim (S. Pæn. Ap., 26 apr. 1921 et 23 oct. 1928).

16

a) Sanctus Deus, Sanctus fortis, Sanctus immortalis, miserere nobis.

b) Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio in sæcula sempiterna, o beata Trinitas (ex Missali Rom.).

Indulgentia quingentorum dierum prò singulis invocationibus etiam separatim.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotìdie per integrum mensem alterutra prex iaculatoria devote recitata fuerit (Breve Ap., 13 febr. 1924; S. Pæn. Ap., 9 dec. 1932).

40

In te credo, in te spero, te amo, te adoro,

beata Trinitas unus Deus, miserere mei nunc et

in hora mortis meæ et salva me.

Indulgentia trecentorum dierum (S. Pæn. Ap., 2 iun.)

43

CREDO IN DEUM,

Patrem omnipotentem, Creatorem cœli et terræ. Et in Iesum Christum, Filium eius unicum, Dominum nostrum: qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus ex Maria Virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus et sepultus; descendit ad inferos; tertia die resurrexit a mortuis ; ascendit ad cœlos; sedet ad dexteram Dei Patris omnipotentis; inde venturus est iudicare vivos et mortuos. Credo in Spiritum Sanctum, sanctam Ecclesiam catholicam, Sanctorum communionem, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem, vitam æternam, Amen.

Indulgentia quinque annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotìdie per integrum mensem praefatum Apostolorum Symbolum pia mente recitatum fuerit (S. Pæn. Ap., 12 apr. 1940).

ACTUS ADORATIONIS ET GRATIARUM ACTIO PROPTER BENEFICIA, QUÆ HUMANO GENERI EX DIVINI VERBI INCARNATIONE ORIUNTUR.

45

Santissima Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, eccoci prostrati alla vostra divina presenza. Noi ci umiliamo profondamente e vi domandiamo perdono delle nostre colpe.

I . Vi adoriamo, o Padre onnipotente, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di averci dato il vostro divin Figliuolo Gesù per nostro Redentore, che si è lasciato con noi nell’augustissima Eucaristia sino alla consumazione dei secoli, rivelandoci le meraviglie della carità del suo Cuore in questo mistero di fede e di amore.

Gloria Patri.

II. O divin Verbo, amabile Gesù Redentore nostro, noi vi adoriamo, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di aver preso umana carne e di esservi fatto, per la nostra redenzione, sacerdote e vittima del sacrificio della Croce: sacrificio che, per eccesso di carità del vostro Cuore adorabile, Voi rinnovate sui nostri altari ad ogni istante. 0 sommo Sacerdote, o divina Vittima, concedeteci di onorare il vostro santo sacrificio nell’augustissima Eucaristia con gli omaggi di Maria santissima e di tutta la vostra Chiesa trionfante, purgante e militante. Noi ci offriamo tutti a voi; e nella vostra infinita bontà e misericordia accettate la nostra offerta, unitela alla vostra e benediteci.

Gloria Patri.

III. O divino Spirito Paraclito, noi vi adoriamo, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di avere con tanto amore per noi operato l’ineffabile beneficio dell’Incarnazione del divin Verbo, beneficio che nell’augustissima Eucaristia  si estende e amplifica continuamente. Deh! per questo adorabile mistero della carità del sacro Cuore di Gesù, concedete a noi ed a tutti i peccatori la vostra santa grazia. Diffondete i vostri santi doni sopra di noi e sopra tutte le anime redente, ma in modo speciale sopra il Capo visibile della Chiesa, il Sommo Pontefice Romano [Gregorio XVIII], sopra tutti i Cardinali, i Vescovi e Pastori delle anime, sopra i sacerdoti e tutti gli altri ministri del santuario. Così sia.

Gloria Patri.

Indulgentia trium annorum (S. C. Indulg. 22 mart.

1905; S. Pæn. Ap., 9 dee. 1932).

Queste sono le feste del mese di FEBBRAIO

1 Febbraio S. Ignatii Episcopi et Martyris    Duplex

                    I Venerdì del mese

2  Febbraio In Purificatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

I Sabato.

3 Febbraio Dominica IV Post Epiphaniam    Semiduplex Dominica minor *I*

                                    S. Blasii Episcopi et Martyris   

4 Febbraio S. Andreæ Corsini Episcopi et Confessoris    Duplex

5 Febbraio S. Agathæ Virginis et Martyris    Duplex *L1*

6 Febbraio S. Titi Episcopi et Confessoris    Duplex

7 Febbraio S. Romualdi Abbatis    Duplex

8 Febbraio S. Joannis de Matha Confessoris    Duplex

9 Febbraio S. Cyrilli Episc. Alexandrini Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

10 Febbraio Dominica V Post Epiphaniam    Semiduplex Dominica minor *I*

                     S. Scholasticæ Virginis   

                     Festa dell’Arciconfraternita del Cuore Immacolato di Maria

11 Febbraio In Apparitione Beatæ Mariæ Virginis Immaculatæ    Duplex majus

12 Febbraio Ss. Septem Fundatorum Ordinis Servorum B. M. V.    Duplex

14 Febbraio S. Valentini Martyris   

15 Febbraio SS. Faustini et Jovitæ    Feria

16 Febbraio Sanctae Mariae Sabbato    Simplex *I*

17 Febbraio Dominica in Septuagesima    Semiduplex II. classis *I*

18 Febbraio S. Simeonis Episcopi et Martyris   

22 Febbraio In Cathedra S. Petri Apostoli    Duplex II. classis *L1*

23 Febbraio S. Petri Damiani Confessoris    Duplex

24 Febbraio Dominica in Sexagesima    Semiduplex II. Classis

                         S. Matthiæ Apostoli   

27 S. Gabrielis a Virgine Perdolente Confessoris    Duplex

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 2° Corso di Esercizi Spirituali (15)

Nostra conversatio in cœlis est

15. La Madonna

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

Parliamo della Madonna. Un corso di Esercizi senza parlare della Madonna, come si potrebbe fare? Voglio dirvi perché ne parlo. Non è semplicemente perché è argomento direi d’obbligo e argomento così insito alla pietà cristiana che non se ne può fare a meno, ma perché c’è un altro motivo, e anche un motivo per averlo tenuto in finale. Il motivo è questo. Ho cercato attraverso questi SS. Esercizi di richiamarvi ad avere niente più di quel che si deve di stima al mondo e senza abbandonarlo — perché non lo possiamo abbandonare; è qui che abbiamo il campo della nostra prova —. Ho cercato di invitarvi a collocare conversatio nostra  in cœlis. Vi ho indicato alcuni elementi, e abbiamo fatto anche una specie di esercizio di considerare taluni argomenti dall’ alto, proprio per abituarci a collocare il più alto possibile la nostra vita, la nostra abitudine mentale e il criterio direttivo della nostra esistenza. – Ma tutto questo bisogna che avvenga “humano modo”, perché siamo uomini. Ecco l’ultimo argomento: humano modo. Noi non siamo esseri astratti; non siamo spiriti, ombre, Angeli; siamo uomini, fatti di umanità, circondati di umanità, sospinti, tirati e sommersi dall’ umanità. E pertanto il discorso sulla Vergine Madre del Signore equivale a queste due parole: tutta la conversatio in cœlis, ma humano modo. La S. Vergine è, per via della sua caratteristica di Madre, quella che nella nostra vita permette a tutte le cose umane di diventare divine e fa sì che tutte le cose che sono divine si umanizzino e arrivino al nostro livello. Non dimenticatelo mai. Questa è l’ultima parola che vi lascio a chiusura degli Esercizi: la Vergine santa è il gradino per arrivare alla conversatio in cœlis. Perché, per quanto noi vogliamo realizzare questa conversatio in caelis, la ragione dell’umanità che ci circonda, che ci compone, che ci sommerge, crea certamente una serie di problemi, di difficoltà, di carenze, di ombre che hanno una soluzione messa da Dio e si chiama: la Madre del Signore, la VergineMadre di Dio. La caratteristica fondamentale della SS. Vergine è questa: che essa è la Madre di Dio. Qui c’è tutto. Tutto il rimanente è per questo e in ragione di questo. Noi dobbiamo credere e ritenere per certo che nello scegliere una creatura a tale ufficio, Dio, nella sua eterna scienza dei futuri e dei futuribili, ha visto i motivi per scegliere Maria piuttosto di qualunque altra creatura. Perché Iddio fa le cose bene, e tutte le cose hanno sempre una ragione eterna, e questa è la grande antifona del merito personale della Vergine. Se è stata scelta Lei, la scienza dei futuri e dei futuribili ha indicato a Dio che il merito di questa Vergine la poneva dinanzi a tutto e a tutti perché fosse la prescelta. Ma tutto è in Lei perché è stata la Madre di Dio. Perché è Madre di Dio? Perché ha dato a Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, quello che danno tutte le altre madri: il corpo, e l’ha dato in modo superiore a tutte le altre madri, perché in ragione della sua verginità, per miracolo unico nel genere umano, nella storia degli uomini, Maria SS. è stata la causa unica della divina maternità; per cui la verginità della Vergine fa la Madonna più Madre di tutte le altre madri: cosa che non bisogna dimenticare. Essa è la Madre per eccellenza, e questo vuol dire che è Madre in un ordine che ha tutto quello che hanno tutte le altre madri più qualche cosa di molto grande, proprio perché è Vergine. Perché è Madre di Dio? Perché il concetto di maternità è una relazione, è un rapporto, e il concetto di maternità lo si rivela sempre dal termine del rapporto. Tutte le altre madri che cosa danno ai loro figli? Danno solamente il corpo; non danno né l’anima né la personalità; eppure le chiamiamo solo madri del corpo del figlio o madri del figlio? Sono madri del figlio e non semplicemente madri del corpo del figlio. E dandogli il corpo, il rapporto, la relazione con chi è instaurata? Col termine a cui è dato il corpo, cioè con la persona del figlio, che è creata da Dio. E allora si qualificano dal termine della relazione di cui le madri pongono l’obiettivo fondamento dando il corpo: siccome lo danno alla persona del figlio, si dice che sono madri del figlio. È la stessa cosa per la Madre di Dio: essa ha dato il corpo umano al Figlio di Dio, ma a chi l’ha dato? Lo ha dato alla Persona eterna del Verbo, perché il soggetto terminale di questa relazione, di questo rapporto, è il Verbo stesso, non la creatura, e pertanto la relazione è contratta con Lui, col Verbo. Ecco perché essa è la Madre di Dio: Theotocos. Voi sapete che cosa è successo quando Nestorio ha cercato di attaccare questa verità: la Chiesa si è alzata in piedi, col Concilio che ha lasciato nell’antichità l’impressione più commovente nell’anima del popolo cristiano, il Concilio Efesino. È successo questo: che quando hanno proclamato la divina Maternità della Madonna contro l’eresia di Nestorio, il popolo, che sente sempre la Madre, sempre, ha fatto ciò che non ha fatto per nessun altro Concilio, il popolo di Efeso si è armato di torce — la sera del giorno in cui è stata fatta la definizione finale e la condanna di Nestorio — ed è andata a prendere i Padri del Concilio e li ha portati in trionfo al chiarore delle torce. Tutto quello che fa grande la Vergine è che è Madre di Dio: tutti gli altri privilegi sono stati dati ad essa perché è Madre di Dio; Vergine perché è Madre di Dio; Immacolata perché è Madre di Dio. Ma io vi ho detto che essa è il gradino; è quell’elemento che porta la humanitas nella conversatio nostra in cœlis e permette che, ad onta della nostra umanità, noi possiam vivere in modo tale da dire che la vita nostra est conversatio in cœlis. Debbo dire la ragione. Guardate dov’è laragione. Maria è stata il gradino di tutto. Perquale motivo S. Luca e S. Matteo hanno datola genealogia di Gesù Cristo? Per quale motivoS. Paolo ha fatto un così vivo riferimento a quellagenealogia dicendo chiaro che Gesù Cristo è « fatto» da Adamo, è fatto dalla carne, è fatto da unadonna (Gal. IV. 4)? Perché Gesù Cristo è stato ingrado di riversare capacità divine nel genere umano e togliere il peccato che gli uomini non potevano togliere perché li superava? Perché Gesù Cristo ha preso sopra di sé il peccato di tutti gli uomini? Ma credete che sia una cosa semplice? Per quale motivo Gesù Cristo ha potuto prendere sopra di sé il peccato di tutti gli uomini e quindi, come dice S. Paolo, ha potuto ricapitolare il genere umano in sé stesso e fare la sostituzione vicaria, che è l’aspetto più commovente della Passione del Signore? La ragione è che Gesù Cristo poteva rappresentare tutti gli uomini. Ma per quale motivo Gesù Cristo poteva rappresentare tutti gli uomini e pertanto ricapitolarli in sé stesso? Li poteva rappresentare tutti, gli uomini, perché Lui apparteneva alla famiglia umana, il che vuol dire che non era soltanto della specie umana, corpo e anima come noi; no, non sarebbe stato sufficiente questo; sarebbe mancato il collegamento; sarebbe stato collegato al genere umano come poteva essere collegato, se ci fossero, ai marziani. Era necessario questo collegamento fisico: bisognava che Egli fosse fisicamente, per la generazione, collegato con Adamo, capo del genere umano e primo peccatore e responsabile, e collegato con tutti gli altri uomini, ma collegato fisicamente: perché è la colleganza fisica che rende gli uomini fratelli. E allora Gesù Cristo ha potuto rappresentare tutto il genere umano perché Lui ha appartenuto, non solo alla specie umana, ma alla famiglia umana, e vi ha appartenuto in modo da essere collegato fisicamente con tutti gli uomini. È per questo che S. Paolo insiste: « factum ex muliere ». Factum; badate bene che è persino, si direbbe, grossolana la parola, ma necessaria: « fatto da una donna ». È stato inserito nella famiglia umana, collegato fisicamente con tutti gli uomini da redimere perché ha avuto il corpo umano per generazione naturale, salva la verginità della Madre. E così, per via della Madre, ecco l’anello, ecco il punto senza il quale si romperebbe tutta la catena; e per via della Madre, e soltanto per via della Madre, è stato collegato a tutti gli uomini ed è collegato a noi. – Io vi prego di osservare questa catena. La Vergine Madre di Dio è l’anello che lega tutto, tutto. Se si spezzasse questo anello, io non potrei essere redento, non potrei essere Cristiano, non potrei avere la grazia, non potrei salvarmi. Tutto passa di là. C’è qualcuno che ha da obbiettare qualche cosa? Ma se Dio ha voluto così! Ve l’avevo detto che quello è il gradino, perché è Madre: tutto è lì. Ecco come e perché la Vergine entra, ed entra in quell’ordine di cose, di elementi che io ho prospettato fin dall’inizio di questa nostra conversazione. La Madre. Bisogna vederla così: Mater Dei. Mi piace che quest’immagine della Madonna abbia il Bambino in braccio. Dobbiamo ricordarci che nella iconografia la Vergine, finché i tempi sono stati profondamente cristiani, non è stata mai separata dal Figlio, perché è la Madre. Sulla fine del ‘300 e nel ‘400 soprattutto, per opera dell’Umanesimo, si è cominciato a rappresentare la Vergine Madre senza il Figlio. Non dico che sia un errore teologico, no; si può rappresentare, è chiaro. Ma non è mai l’immagine più completa della Madonna, perché Ella è tutto quello che è perché è la Madre. E tutto ciò che essa rappresenta per noi, lo rappresenta perché è la Madre. Voi sapete che la interpretazione data da tutta la Tradizione Cattolica, e pertanto accettabile, al brano che ci viene riportato al cap. XIX dell’Evangelo di Giovanni, ci indica che Gesù Cristo l’ha data per madre a noi, e quindi è nostra Madre. Gesù dalla croce dice alla Madre, accennando con la testa a Giovanni: « Donna, ecco tuo figlio », e a Giovanni, accennando con la testa alla madre: « Ecco tua madre ». Egli allora agì umanissimamente, come se non fosse stato Figlio di Dio, come se non avesse avuto nessuna risorsa in mano, perché Gesù Cristo, per quel che lo riguardava, si è sempre diportato così: non ha mai voluto fare miracoli per accomodarsi le cose, mai, nemmeno per cambiare prima del tempo la testa ai discepoli, i quali il giorno in cui è andato in cielo gli han dato, alcuni di loro almeno, uno spettacolo che avrebbe fatto perdere la pazienza a chiunque. Ha sempre voluto mantenere le cose che lo riguardavano direttamente nell’ambito delle umane possibilità. Non ha mai cambiato, Lui, le pietre in pane per sveltire una questione economica. No. Mai. Ha cambiato l’acqua in vino per gli altri, per tenere una comitiva di buona gente onestamente allegra a un pranzo di nozze. Ma per sé no. E allora Gesù Cristo, che anche sulla croce è rimasto coerente a essere perfettamente uomo, ha provveduto a sua Madre come se non avesse nulla in mano. E l’ha raccomandata al discepolo, all’unico presente. Chi c’era d’altri? Pietro? Se l’era data a gambe dopo uno spettacolo che non gli ha fatto onore. Quanto agli altri, eh! hanno camminato ancora più di Pietro; perché Pietro almeno ha avuto il coraggio di seguirlo fino all’atrio. E allora Gesù, come un qualunque condannato a morte — come sono commoventi questi limiti piccoli, questo ridursi a una umanità — come un qualunque condannato a morte, senza prospettive qui in terra, con una Madre che rimaneva sola, l’ha lasciata a Giovanni. Quelli che dicono: gli altri figli! Ma se c’erano degli altri figli, l’avrebbe lasciata a loro! – Ma tutto questo, in una interpretazione cattolica che ha tale fondamento da poter essere accettata, significa, e del resto la storia di poi lo dimostra, che l’ha data a noi come Madre. Ce l’ha data Gesù Cristo, il che è coerente con tutta la dottrina della comunione dei Santi, con tutto il ritmo divino che si mantiene inalterato in tutti i diversi piani della redenzione. Maria è la Madre. Badate che come Madre nella nostra vita ce l’ha messa Iddio. E noi che cosa dobbiamo fare? Ritenerla così; è nostra Madre, quella che permetterà che noi arriviamo alla conversatio in cœlis in tanti momenti e in tante aridità; e quando le cose divine saranno difficili, e quando le cose umane saranno difficili e forse ripugnanti; e quando le cose divine saranno sul margine dell’ aridità; e quando le cose umane saranno in pieno deserto. È lei la Madre! Lasciatela entrare così nella vostra vita, ma pienamente, sempre, ogni giorno. Noi dobbiamo ricordarci di essere figli, cioè piccoli. Guardiamoci un po’. Passano gli anni, sì, ma abbiamo sempre bisogno di una maternità sopra di noi. In fin dei conti i ricordi più belli della vita di ogni uomo sono quelli di sua madre. Egli cresce, potrà diventare grande, dotto, pieno di arie, ma è sempre bambino, sempre, e ha sempre bisogno di una madre. Quando eravamo piccoli, avevamo paura a star soli. E allora si chiamava: mamma! Quando eravamo piccoli, il buio ci intimoriva e ci faceva strillare; probabilmente abbiamo obbligato nostra madre a vegliarci finché non avevamo chiuso gli occhi perché avevamo paura del buio. Oggi ci sono altre solitudini; oggi non piangiamo più se andiamo in una camera la sera o siamo soli; ma ci sono ben altre solitudini, ben altre solitudini che si chiamano aridità. Ci sono ben altre ombre, ben altri problemi, che possono essere tutti quanti simboleggiati dalla notte e dalle ombre della notte. E allora abbiamo bisogno di una madre. Questo bisogno non finisce mai, mai. A certi termini propri dell’infanzia se ne sostituiscono altri ai quali forse una madre terrena non può bastare, per quanto rimanga sempre incredibilmente grande. Quando eravamo piccoli e venivano i temporali e c’erano i tuoni e i fulmini, scappavamo terrorizzati; ma quando si trovava nostra madre, era finita la paura. Oggi probabilmente non abbiamo più paura dei temporali e dei fulmini. Ma ci sono altri temporali, altri fulmini. E noi rimaniamo sempre eternamente piccoli, siamo impenitentemente piccoli. Quando eravamo bambini, non avvertivamo mai alcun pericolo, se eravamo in braccio a nostra madre. Qualunque cosa succedesse, bastava che ci prendesse in braccio. Basta! finiva tutto. – Ho letto una volta su un giornale che un operaio americano, dovendo riparare non so che aggeggio sulla cima più alta di un grattacielo di New York, che doveva essere di 360 metri o giù di lì, si è portato lassù il suo bambino di 2-3 anni, si è attaccato all’asta che doveva riparare e c’è andato col bambino. E a un certo punto, mentre si teneva all’asta con una mano, tenendo il bambino con l’altra, l’ha sporto fuori, nel vuoto. E il bambino rideva. Ci si accappona la pelle a pensarci. I giornalisti, quando i due sono scesi, sono corsi a interrogare il bambino di 2-3 anni: « Di’, non hai avuto paura? » Il bambino rispose: « No, ero con papà! ». È perfettamente logico. Quando un bambino è con sua madre, con suo padre, non ha più paura di nulla. Gli altri continueranno ad aver paura, lui no. Abbiamo avuto bisogno anche noi, mille volte, di poter saltare in braccio a qualcuno che ci stringesse; e una volta che siamo stati in braccio … l’abbiamo tanto anche adesso questo bisogno, molto di più di quando eravamo piccoli, molto di più, credete! Vi sono tante cose umane che a un certo punto si fanno aride, sabbiose, si fanno senza umore, senza luce, si fanno pesanti e ci tolgono la forza, e tremano le gambe, vacillano, non sappiamo più dove appoggiarci. E quante volte ci sono delle cose divine che abbagliano, acciecano, impauriscono. Volontà di Dio: sono cose divine; ma come si fa a far questo? È tremendo! Come si fa a portare sto peso? Eh! bisogna trovare un braccio che ci pigli su, non c’è niente da fare! Tutta la vita. Guai al Cristiano che non capisce questi termini umani della sua esperienza, questi termini reali delle sue proporzioni. Potrebbe essere paragonato a uno che debba mangiare e gli manchino tutti i denti. – La verità è questa: l’anello, ve l’ho fatto vedere teologicamente, l’anello, aperto il quale si rompe tutta la catena, chiuso il quale tutta la catena sta, è la Madre. E rimane così. Il ritmo divino è che quello che fu « ab initio » sempre debba essere così. Quello che è stato nel Vangelo si protrae come un piano che faccia la sua proiezione all’infinito. Guai se noi dimentichiamo che siamo sempre dei bambini! Diventiamo grandi, ci danno delle responsabilità, qualche volta ci siedono in trono. Io dico a me stesso: se avessi solo la paura che avevo da bambino! Beh! di paura non ne provo tanta, ma di casi da aver paura, ne avessi solo tanti quanti ne avevo da bambino, sì che salterei, canterei, folleggerei! Come ci si sente piccoli! Sempre più piccoli. Quando crescono le cose intorno a noi, noi si diventa sempre più piccoli. Siamo dei bimbi! non c’è niente da fare. E abbiamo bisogno di una mamma. Ricordatevi che questa Madre c’è, e interviene sempre. Io vi invito a leggere, quando potrete, la vita postuma della Madre di Dio. La vita della Beata Vergine Maria ha un capitolo, e quello sta in cielo, e di quello cantiamo lode “sine fine” e va bene; a vedere non ci andiamo, perché per adesso non si può. Ma vi sono altri due capitoli quaggiù. Uno è la sua vita, della quale sappiamo poco, ma tanto quanto basta per entrare in una venerazione immensa per Lei. E poi c’è un’altra vita sua, un altro capitolo, la parte postuma, dal momento in cui è andata in cielo fino a noi, fino a oggi, fino alla fine dei tempi, quaggiù in terra. Ella viene a passeggiare sulla terra. Viene sul serio. Tutte le apparizioni della Madonna! A fare questa storia e a vederla nell’insieme, è commovente. Ho già avuto occasione di accennarvi, parlandovi del Regno di Dio, di quel tale dispositivo strategico che è stato fatto al tempo della Riforma protestante, che ha protetto l’Italia e gli altri paesi cattolici; quei santuari sorti poco prima o poco dopo, messi proprio ai valichi. Per esempio, chi legge la storia della Svizzera del XVI e XVII secolo, fino alla metà, capisce perché c’è stato il santuario di Tirano, messo lì, allo sbocco, dove scendevano abitualmente. Piantato lì, e li ha fermati. C’è stato un momento che la Valtellina era già in mano dei protestanti, ed è stato quel santuario che ha salvato la Valtellina. E dappertutto così. È commovente. Un giorno, nel Messico, e fosse stato un giorno solo!, tutti i giorni nel Messico i signori spagnoli d’allora, al seguito di Cortes e di Pizarro, facevano discriminazione tra americani e messicani, indigeni del paese e spagnoli di razza bianca. Li volevano convertire, ma non avevano superato le barriere razziali. Pensate che nell’America del Sud il motivo per cui ancora oggi mancano sacerdoti è dovuto al fatto che non accettavano al Sacerdozio gli indigeni del paese. Guardate che cosa succede: arriva la Madre. Appare nel ‘500, pochi anni dopo, a Guadalupe, e appare a un indiano al quale dà ordine di trasmettere la sua volontà a chi comanda. Non credono che la Madonna abbia parlato a un indiano; lo guardano con l’occhio del cànone. Ma arriva Lei. E sorge così il primo santuario mariano di tutto il nuovo mondo, quasi a indicare che bianchi e neri sono uguali. A ricordare tutti gli altri avvenimenti c’è da commuoversi. C’è insita una poesia, un disegno da cui esce fuori un palpito da lasciare estasiati. Le finezze di questo intervento sono di una grazia inarrivabile. Ci sono tanti momenti dell’anima, che noi conosciamo, in cui il gradino per poter salire è soltanto Lei. Ricordatevi di lei, lasciatela entrare come le si conviene, da Madre. In una Udienza di S. S. Papa Giovanni XXIII [l’antipapa massone 33:. A. Roncalli – ndr. – ], a un tratto il S. Padre mi disse: « La vede quella Madonna? Vicino a Sotto il Monte c’è quella immagine della Madonna. La Vergine in piedi, e il Bambino a cui dà la mano. Il Bambino è grande e la Madonna gli porge la mano ». Dare sempre la mano alla Madonna: ricordatelo! Il gesto che vi permetterà di superare, di rischiare, di completare, di addolcire, di vincere, di convincere, di fortificare, di sostenere, di rimanere diritti, di non perdere l’equilibrio; il gesto, ricordatevelo, ricordatevelo sempre, che vi permetterà di mantenere quella conversatio in cœlis che è stata l’oggetto di questi Esercizi Spirituali sarà sempre questa: tenete la vostra mano nella mano della Madre di Dio.

[Fine del 2° corso]

Indice del II Corso.

« NOSTRA CONVERSATIO IN CÆLIS EST »

1. Nostra conversatio in cœlis est . . . »

2. Il fine della vita »

3. Le cariche »

4. Il peccato »

5. La morte »

6. Il metodo »

7. L’Inferno »

8. Il tesoro nascosto »

9. Il Regno di Dio »

10. La SS. Eucaristia »

11. La S. Messa »

12. La preghiera »

13. La divina Liturgia »

14. Sapienza e fortezza »

15. La Madonna »

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 2° Corso di Esercizi Spirituali (14)

Nostra conversatio in cœlis est

14. Sapienza e fortezza

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

Per reggere tutto l’edifìcio e perché veramente e praticamente si arrivi a far sì che la nostra vita sia conversatio in cœlis, bisogna che in noi vi siano due cose: la sapienza e la fortezza. Quando il Vescovo dà la Cresima, stendendo le mani sul capo del cresimando, invoca solennemente che Dio gli conceda i sette doni dello Spirito Santo. Ora io non posso parlarvi di tutti e sette i doni, perché bisognerebbe cominciare un altro Corso di Esercizi. E allora parlo dei due che sono i più importanti, ossia: la sapienza e la fortezza. Cominciamo a parlare della sapienza. – A proposito della nostra sapienza, vi sono due parti: una la fa Iddio, e di questa non abbiamo da parlare perché Dio sa benissimo quello che deve fare; l’altra l’abbiamo da fare noi, e di questa invece dobbiamo parlare con una certa accuratezza. Che cos’è la sapienza? La sapienza è quella dote dell’anima per cui essa sa vedere, capire, coordinare le cose perché tutte siano atte al loro fine e all’ultimo fine: questa è la leggera parafrasi della grande definizione della sapienza data dalla Scolastica. In linguaggio povero, la sapienza è il buon senso. È ciò che si chiama il giudizio, per cui si dice: uno non ha giudizio, uno ha poco giudizio, uno sta perdendo il giudizio. E tutti, anche se non sanno dare definizioni scolastiche « per genus et differentiam specificam », quindi perfette, capiscono bene di che cosa si tratta. Noi intendiamo quindi parlare di sapienza tutte le volte che parliamo di giudizio o di buon senso. Dalla definizione essenziale bisogna passare un po’ a quella descrittiva. Il buon senso, ossia la sapienza, è un insieme di cose e risulta da tante cose: da meditazione, considerazione, ponderazione, riflessione. Però questa sapienza ha la sua innervatura nella umiltà profonda; è la umiltà che permette di vedere il vero coni è, senza veli, senza alterazioni e senza comode riduzioni. Senza umiltà non si vede mai una cosa giusta a questo mondo. Perché senza l’umiltà, una colonna rotonda la vedrete quadrata, se vi comoderà. Senza umiltà, una torre, se vi comoderà, la vedrete come se fosse un mercato, e così via. Se vi comoderà, un uomo giusto vi sembrerà un furfante e, se vi comoderà, un furfante vi sembrerà un santo. Talvolta si riesce a misurare di colpo il grado di umiltà, o viceversa, di una persona, sentendo i giudizi che dà sugli altri. E pertanto nella sapienza la virtù dell’umiltà ha un posto predominante, a tal punto che, mancando l’umiltà, generalmente crolla la sapienza. Rimarrà la furbizia, ma è una cosa diversa; rimarrà l’intuizione: l’intuizione può portare il suo contributo alla sapienza, ma non è la sapienza; rimarrà l’abilità, la diplomazia, l’intelligenza; ma tutte queste cose non sono la sapienza. Il fatto di capire profondamente le cose nella verità e assumerle per adattarle e coordinarle al loro proprio fine e al fine ultimo, il che è tutta una visione simultanea e multipla di proporzioni, richiede che noi, per vederle, siamo nel punto giusto. E questo lo dà soltanto l’umiltà quando è alimentata dalla esperienza. Notate bene che l’esperienza è un frutto d’umiltà, perché il superbo non fa esperienza. Il superbo raccoglie motivi consentanei al proprio istinto, che è una cosa diversa dall’esperienza. Per fare una esperienza che sia valevole, bisogna avere la mente così sgombra da pregiudizi, da preconcetti, da ragioni precostituite, da interessi precostituiti, da mire d’orgoglio, di vanità o d’altro, che l’esperienza, cioè il fatto conosciuto e analizzato, entri nella sua verità senza essere deformato come fanno gli specchi concavi che deformano tutto. Voi vedete dunque che bisogna avere la preoccupazione di arrivare nella vita a questo buon senso che poi calibra tutto: il buon senso calibra, proporziona, ordina, trattiene i furori e anche gli zeli smodati, fa sempre prendere la giusta via, concilia, non spinge al compromesso ma fa trovare la strada per cui si concilia senza il compromesso; il buon senso dà quella patina umana alle cose per cui si sente, si ravvisa, e se ne gode, la maturità. Noi diciamo che una persona è matura quando abbiamo motivi per credere che ormai sia veramente una persona di buon senso. E il buon senso è il condimento di tutti i cibi; è come il sale. Il buon senso è il condimento di tutti gli uffici, di tutti i doveri, di tutte le imprese e, ricordatevelo bene, di tutto l’apostolato. Non è possibile avere nostra conversatio in cœlis se non c’è il buon senso. Perché senza il buon senso, cioè senza la sapienza, la gente si crede di avere conversatio in cælis quando stravede, quando è isterica o giù. di lì, e non è affatto in cielo. Si crede di vedere, di sentire, di sapere, di avere divine comunicazioni, ma non è vero. La ragione è che manca la sapienza, manca il buon senso, e pertanto si prendono lucciole per lanterne. Si scambia l’oriente con l’occidente; uno si sente male e si crede di avere dei rapimenti; ha appetito e crede di svenire per l’amore di Dio. Un fornitore della sapienza è anche la scienza; e bisogna parlare un pochino dello studio. Ricordatevi una cosa: che non si vive di reddito, cioè non basta aver studiato una volta. Non basta assolutamente. Nella vita bisogna continuare a studiare e a mantenersi aggiornati. E ciò vale, credo, per tutti coloro che hanno determinati compiti e che a un certo momento della loro vita hanno dovuto studiare. Se non si studia, le rotelle si arrugginiscono, e dopo essersi arrugginite, si sclerotizzano e finiscono col diventare statiche. E la sclerotizzazione nel campo puramente intellettuale porta anche a una forte sclerotizzazione nel campo morale. Persino le cose più elementari si vedono male, non si capisce ilproprio tempo, si va avanti con sistemi che potevano essere validi cinque, dieci anni avanti. Oggi il mondo cammina, galoppa. Il ritmo della vita è tale che oggi, in dieci anni, noi viviamo un secolo. Quelle trasformazioni che nella storia abbiamo veduto verificarsi in cento anni, noi oggi le vediamo realizzarsi in 25 anni, in 20 anni, qualche volta si direbbe in 10 anni. Ora questo induce a una misura precauzionale, perché si può rimanere indietro; si possono perdere tutti gli autobus, se non ci si tiene in contatto. E il contatto lo si fa certamente con l’esperienza; ma 1′ esperienza la si legge bene quando c’è lo studio. Lo studio deve esserci sempre nella vostra vita, perché se non lo avrete, avrete sì un contatto con la realtà nell’apostolato, ma non lo saprete leggere. Noi dobbiamo acquistare questa sensibilità, credetelo. Voi siete su una navicella di avanguardia, unica nel suo genere e nella sua complessità, in Italia; siete su una navicella essenzialmente d’apostolato. Ma badate bene che il giorno in cui vi si arrugginisse la testa e vi venisse un pochino di sclerosi nella mente, voi rimarreste indietro. Perché le cose di questo mondo cambiano. È  notorio che ogni cinque anni gli impianti industriali di meccanica piuttosto fine debbono rinnovarsi completamente, tanto che nel calcolo economico dei bilanci bisogna considerare l’ammortamento nel giro di cinque anni. Perché, se non si mette da parte quello che occorre, a un bel momento si chiudono tutti gli impianti e si resta lì, e si mangerà aria. Ora la velocità che noi vediamo nel mondo industriale è la stessa nel mondo morale. Se non si studia, non ci si fa; se non si tengono sempre tutte le rotelle ben oleate e ben pronte, con i comandi precisi, con le inibizioni immediate, noi rimaniamo indietro. Vi prego di ascoltare questa testimonianza che vi dà un Vescovo: la mia più grave fatica è tirare: tirare gli altri perché si accorgano per tempo di ciò che accade. E quante volte si ha da fare con teste meravigliose, ma già belle e sclerotizzate. Non si capisce! Quando poi succede che l’andare avanti ha l’apparenza di andare un momento indietro! Avete mai visto i tornanti delle strade? Avete visto che, alle volte, dove inizia il tornante c’è una scaletta. Con quattro salti, anche dopo essersi riposati un momento, si arriva in cima. Chi ha preso la grande strada dice: Io vado avanti. Io vado avanti: ecco è ancora là. E invece, dopo essersi riposati e aver avuto l’aria di rimanere indietro, quattro salti, si è presa la scorciatoia e si è arrivati prima. – E questa, sapete, è veramente la grande tattica della Chiesa. Alle volte pare che rimanga un pochino indietro, la Chiesa come tale, non parlo dei suoi umili e qualche volta anche inutili servitori, ma parlo della Chiesa; pare alle volte che arrivi dopo. Non è vero: lascia al mondo di andare a fare tutto il tornante, un tornante lungo che gira tutto il monte, e finalmente, chissà quando, arriverà cinque metri più in su. Quella invece sta lì tranquilla: lascia andare e si mette a ridere; questa vecchia madre, giovane madre, annosa ma giovane madre, si mette a ridere; sta a guardare. Andate, andate, vedete poi delle vostre gambe cosa ne farete! Quando, dopo tanto girare, arrivano, la trovano già lì, c’era già. Succede sempre così. Ma bisogna che noi, servitori della Chiesa, l’aiutiamo a far questo, a seguire questa sua grande tattica per cui, con l’aria di arrivare dopo, è sempre arrivata prima degli altri. Nella sostanza della sua storia non contano certi episodi perché, avendo un criterio eterno, ha sempre il migliore dei criteri e la più grande delle furbizie. Sempre. Perché ha un punto di riferimento che è talmente al di sopra, ed è talmente perfetto che tutte le altre umane furberie non possono uguagliarla. Però noi, noi singoli, dobbiamo studiare. Permettete che vi dia, anzi che vi ricordi alcune norme. Nello studio la prima regola è sempre quella di delimitare il campo. Chi tiene davanti dei campi troppo vasti non farà altro che camminare su e giù e non combinerà niente. Farà come coloro che in una biblioteca si arrampicano su per una scala e vanno all’ultimo piano, perché l’ultimo piano permette di fare più ginnastica. Quando sono lassù e stanno cercando qualche cosa, supponiamo di storia, vien loro in mente che probabilmente sarà utile sapere una certa nozione di fisica. Scendono giù dalla scala, attraversano tutta la biblioteca, portano la scala di là. Insomma studiano a questo modo. Nello studio la delimitazione del campo è poi sempre una questione di metodo. Ciascuno il campo se lo deve delimitare secondo il dovere che ha, secondo i consigli buoni che ha ricevuto, secondo le indicazioni autorevoli che può ricevere. Campo delimitato: prima regola. Ve ne ricordo una seconda: sceverare ciò che nel campo proprio, delimitato, serve da ciò che non serve. Oggi c’è una tale colluvie di pubblicazioni che sono una delle ragioni più gravi della superficialità della nostra cultura. Perché troppe cose vengono stampate, e non è possibile che siano né pensate né meditate. E succede che tutte queste pubblicazioni servono per fare grandi bibliografie, e c’è la elefantiasi delle bibliografie. Ci sono dei libri che non sono altro che bibliografia. E di fare una bibliografia sono capaci tutti, anche i ragazzini delle scuole elementari. Pochi libri sono veramente afferenti. Ma c’è un altro grave pericolo, quello di perdere il tempo senza concludere niente: leggi di qui, leggi di là, leggi di lì, anche stando nel proprio campo, e non approfondire nulla. E soprattutto il pericolo di non arrivare mai a fare, delle cose che si studiano, una struttura logica. L’arte della lettura dei libri è un’arte che non è di tutti. Io sono convinto che molta gente non impari un bel niente tappezzando i muri di libri che poi non hanno in sé stessi la ragione di essere letti una seconda volta, perché sono stati scelti male. E pertanto vi prego di non dimenticare questa seconda regola dello studio. Guardate di sceverare, di saper sceverare e di sapervi rivolgere a chi può dare consigli per poter sceverare. Perché bisogna tendere quanto è possibile a leggere molto e profondamente i libri che poi si potranno rileggere, i libri ai quali si potrà ricorrere ancora. E vedete bene che la maggior parte dei libri si guardano, si sfogliano un po’, così, si leggicchia un po’ in qua e in là e poi si mettono lì. Riempiono gli scaffali e non servono ad altro. Perché si segue la stupida moda: uno, più nomi sa e più gli pare di essere scienziato: più libri sa citare, e più gli pare di essere un grand’uomo, tanto più se sa infarcirsi dei nomi un po’ esotici, tanto da far strabiliare la gente, in modo da dire delle grosse frasi. Ma con questo bel sistema si finisce che si perde il tempo. Attenti: saper sceverare, saper sceverare. Perché bisogna sempre impiegare il minimo mezzo per ottenere il massimo effetto. La terza regola che mi permetto ricordarvi per il vostro studio è questa: abbiate sempre il criterio di cercare delle strutture logiche. Quando studiate, vedete un po’ se avete già un albero in testa, o un attaccapanni. Perché ciò che trovate di nuovo vi converrà sempre attaccarlo a quest’albero, in modo che sia organizzato in una struttura logica che vi salverà anche dagli sgarri della memoria e vi renderà della gente che pensa. Perché uno pensa tanto quanto ha in testa delle strutture logiche, non quando ha la testa piena di francobolli, attaccati così. – Quindi, come primo lavoro, vediamo un po’ questo o quello che io ho già. L’ho già la struttura? Ce l’ho? Bene. Io vedo dove attaccarmi, in modo che quanto arriva nella mia testa vada al suo casellario, come una partita di libri che arriva, che non rimanga là nel fondo, poi nessuno ritrova più niente, ma se ne vada al suo scaffale, se ne vada nel suo debito schedario, anzi ai due schedari quando si possono fare, per lo meno al primo. Nel caso in cui una struttura non c’è, oh, allora vedete che lo stesso studio richiama e mette in campo le carenze che si hanno. Se non c’è una preparazione filosofica, è difficile affrontare bene le questioni, tutte le questioni di questo mondo. Dico una preparazione filosofica basilare, cioè uno studio della Logica maggiore, della Logica minore e della Metafisica. Badate che lo studio della Logica fa gli uomini infrangibili e li rende tetragoni e buoni argomentatori, capaci veramente di difendere una causa, e poi in sé stessi ben certi e ben sicuri. Molti dubbi o esitazioni che possono venire su una cosa o sull’altra, alle volte sono esaurimento nervoso, alle volte sono osmosi del mondo che non fa altro che vendere la sua merce; ma a volte sono la mancanza di una struttura logica in testa. Studio della teologia. Voi dedicate parte del vostro tempo allo studio della teologia, e questo non sarà mai abbastanza raccomandato perché, in fin dei conti, è dalla sacra dottrina che voi prenderete l’ispirazione. L’apostolato non consiste nell’andare a fare dei salti con delle bandiere sugli spalti né sulle trincee né sulle barricate, e gridare evviva di qui, evviva di là, o abbasso di qui, abbasso di là. L’apostolato consiste nel portare la divina parola, e tutto ciò che è anche scienza umana serve come cuscino sul quale presentare la divina parola. Serve a fare la presentazione perché questa, chiamiamola divina merce, se è presentata bene, è accolta bene. Voi sapete che oggi l’arte di presentare ha degli specialisti. Vi sono specialisti che fanno le vetrine, e i grandi negozianti chiamano gli specialisti a fare le vetrine e li pagano profumatissimamente. Nelle grandi città, almeno, succede così, perché è la vetrina che fa; è la presentazione del prodotto. Ora, ricordatevi che tutta la umana sapienza e l’umana saggezza servono proprio da appoggio per fare la presentazione giusta della parola di Dio; però è la parola di Dio che sta al centro. E per questo voi fate bene a studiare la teologia. Ma nello studiare la teologia ricordatevi che è la storia che la illumina, perché la rivelazione è essenzialmente un fatto storico. Infatti la teologia la si fa tutta con documenti positivi che sono o della Rivelazione o sono garantiti nella esplicazione e deduzione dalla Rivelazione divina e da affermazioni del Magistero ecclesiastico infallibile. E pertanto direi che la teologia ha in sé stessa un procedimento storico. Ed è qui dove si afferma, perché c’è una autorità di Dio rivelante che dà la base logica per fare affermazioni di una sicurezza inconcussa. Ma a un certo punto comincia il lavoro di spiegazione. E bisogna ricordare la distinzione che c’è fra la teologia positiva, che è la prima, che è la vera teologia, e la seconda, che è esplicativa. Nella parte esplicativa fino a un certo punto si può essere assistiti dai documenti della parte positiva, per cui quella spiegazione riveste la stessa autorità che ha la parte affermativa della teologia. A un certo punto, quando si tratta di cose in cui di camminare ce ne sarà per tutti i secoli dei secoli, può cominciare il lavoro che il teologo fa con le sue gambe e va avanti. E allora bisogna essere discreti e cauti, e stare sempre attenti ad avere ben netto il criterio teologico. Perché, ed ecco la seconda cosa che devo dirvi a proposito della teologia, la seconda cosa è il criterio teologico. – I n teologia bisogna avere in un modo quadrato questo criterio teologico, che è la logica della teologia. La teologia si afferma per documento: « credo Deo revelanti et non theologo opinanti ». Il documento è quello che decide: documento della Rivelazione, documento del Magistero della Chiesa, la cui logica si ricostruisce tutta nel trattato De locis theologicis e nel trattato De Ecclesia, che poi ci rimanda al trattato De divina Revelatione e De Christo divino legato. Ma il criterio teologico è questo: che c’è il mezzo per giudicare il documento. Questo che io vi dico è coerente al documento? Sì o no? Ma le mie poesie! Poesie ne posso fare quante ne voglio, ma credo « Deo revelanti et non theologo opinanti ». E ancora, a proposito dello studio della teologia, un altro consiglio. Guardate sempre di mirare all’approfondimento delle grandi linee, mettendo in secondo piano le cose che sono accessorie, secondarie, che non sono le più necessarie. L’errore più tragico che si possa fare è di dare la stessa importanza al tronco dell’albero come a un piccolo filamento che si distacca dall’albero, al tronco della vite come a un piccolo pampino che se ne va vagolando qua e là per l’aria. Questo criterio di distribuzione, di rilevanza delle grandi linee, e queste approfondite fino in fondo, ecco ciò che veramente fa delle impostazioni teologiche quadrate, inconcusse, che servono meravigliosamente alla certezza della fede, a dare la certezza agli altri, a chiarificare tutto. Poiché alle volte certi particolari secondari possono anche essere obliterati dalla

memoria; ma quando c’è questa grande struttura degli elementi fondamentali, tutto e sempre si risolleva, anche se la memoria serve poco. Vi prego di ricordare questo. – Ma ora vengo alla seconda parte, alla quale, purtroppo, per le malefatte del tempo che corre, non posso dare l’ampiezza che avrei voluto concederle. – Cominciamo a parlare della fortezza. La fortezza, lo sapete, è la qualità dell’anima, per cui l’anima sa portare egregiamente i pesi senza curvarsi, per cui l’anima sa resistere alle sollecitazioni, mozioni, istigazioni esterne contro la norma. È una dote dell’anima che non si piega, che rimane ferma, che sostiene la sua parte, che non ha paura. La fortezza ci vuole, perché noi non dobbiamo credere che le cose in noi resisteranno, se le appoggiamo sul sentimento, sugli impeti o sugli incanti dello stesso. No; se le cose si vanno ad appoggiare sul sentimento, non resistono molto. Se si diventa sensibili, ipersensibili, se si fa capo a quella facile devozione che vede una bella vetrata e si mette a piangere e adora Iddio; sente una bella musica e comincia a fare la faccia svanita… no, no; il sentimento è una cosa che viene molto bene, serve, perché è quello che rimpolpa tutto, che imbottisce tutto, dà una vibrazione a tutto; quello che fa sì che nella vita le cose non siano tutti chiodi da succhiare, e pertanto umanizza la vita e il mondo. Il sentimento è una parte rispettabilissima, e sia ringraziato Iddio che ce l’ha messo, perché se non ce l’avesse messo, noi saremmo proprio mal ridotti. Però non si può appoggiare sul sentimento la propria vita spirituale; la vita spirituale deve essere appoggiata sulla volontà. La fortezza è una dote della volontà, è una qualità della volontà. Ma a che serve aver detto che ci vuole la fortezza? Tanto più quando c’è l’opposto. Voi sapete che la virtù della fortezza è direttamente contraria al guaio della debolezza. E la debolezza umana è un capitolo troppo grave, troppo ingombrante, troppo presente dovunque, troppo clamoroso, troppo invadente, troppo pretenzioso, troppo filtrante: filtrante anche quando si dorme, per poterlo trascurare. E pertanto l’elogio della fortezza, che è una dote dell’anima, richiama l’antagonista che è la debolezza. Noi siamo carichi di debolezza, la nostra natura umana, per la sua stessa struttura, è esposta alle prove, perché è creata per essere quaggiù nella prova. E pertanto, di natura sua, è esposta ai terremoti. Ma la disposizione ai terremoti cresce perché il peccato di origine ha lasciato al genere umano un ampliamento di questa debolezza, ha acuito la debolezza naturale, ha portato una debolezza nuova: non ha tolto niente di sostanziale all’uomo: il peccato di origine non gli ha tolto la libertà, come ha detto Lutero, no, ma l’ha lasciata indebolita, e i peccati degli uomini si raccattano su dalla gran debolezza. Voi sapete quanto c’è di ereditario nella vita; lo studio sull’ereditarietà ha rivelato cose che hanno dato ragione alla Chiesa, hanno dato pienamente ragione a quanto la Chiesa, senza sapere delle leggi di Mendel, ha sempre insegnato; sapete che tutta la teoria del subcosciente dà pienamente ragione alla morale della Chiesa, alla virtù della modestia, ecc., predicate da duemila anni, quando sulla teoria del subcosciente non si sapeva un bel nulla. La scienza arriva a dar ragione alla fede; arriva in ritardo, perché sono i soliti tornanti, è vero? Arriva in ritardo, bene o male, ma poi arriva a darle sempre ragione. Come, in fondo, oggi le ultime scoperte nucleari danno pienamente ragione alla teoria ilemorfica di S. Tommaso. È sempre la storia dei tornanti. Ma attenti che noi, se non abbiamo un criterio esatto su questa debolezza che c’è nella nostra natura e non sappiamo fare i conti con questo dato reale, non resistiamo nella vita spirituale, assolutamente. Nel trattato De gratia actuali c’è una proposizione che è certa, non opinabile, la quale dice che senza la grazia di Dio nessun uomo può osservare per lungo tempo, con le sole forze naturali, tutta la legge. Se poi guardiamo all’esperienza, quel « per lungo tempo », lo accorciamo molto. E allora vedete che a questo punto, consci che occorre una fortezza spirituale, consapevoli della nostra debolezza, noi dobbiamo capire che ci occorre la grazia di Dio. Parlo della grazia di Dio attuale, cioè erogazione divina di mozioni, di energia divina data alla mente e alla volontà dell’uomo perché possa evitare il male, fare meglio il bene, tutto il bene e camminare verso l’ottimo. Erogazione di energia divinamente data in modo discretissimo e senza che la coscienza psicologica direttamente la possa avvertire. Dio è discreto: entra senza chiedere al portinaio le chiavi; ma senza questa grazia, non si fa niente. È inutile avere l’umano orgoglio o il cerebrale umanesimo di dire: io, coi miei principi filosofici, io col mio carattere da galantuomo, io con la mia forza di volontà! No. Io niente, proprio niente; senza grazia di Dio non si fa niente. E questo deve rimanere ben scolpito. – Ci vuole la sapienza; ma per avere la sapienza, ci vuole tanta grazia di Dio; e per questo cominciamo sempre col cantare il Veni Creator o il Veni Sancte Spiritus. Ci vuole la fortezza, ma la fortezza noi non la rimediamo se non c’è una grande grazia di Dio, grazia attuale. E allora capite dove si arriva. Ho lasciato questo argomento della grazia di Dio al termine degli Esercizi perché, siccome il dulcis in fundo rimane, ve ne ricordiate sempre. Tutta la nostra conversatio in cœlis è legata al

fatto della grazia di Dio in noi, e pertanto al fatto che noi abbiamo la metodologia per procurarcela sempre, coi mezzi che voi ben conoscete. Occorre la fede in quei mezzi, perché con quei mezzi si risolvono tutti i problemi, nessuno escluso; si superano tutte le difficoltà, tutte le tentazioni, tutti i dubbi, tutte le esitazioni. Messa, sacramenti fatti bene, sacramentali, preghiera, e nella preghiera soprattutto l’orazione mentale, penitenza. La penitenza è necessaria all’obbedienza perfetta, all’umiltà perfetta, alla carità perfetta. Noi dobbiamo procurarci la grazia di Dio coi mezzi che conosciamo e saperli maneggiare tutti, con la caratura, col volume, con la forza, con la lunghezza d’onda che occorre, secondo i rispettivi casi e la propria soggettiva situazione. Ma usciamo di qui con la coscienza che noi non avremo nessuna conversatio in cœlis se non ci sarà questa grazia di Dio, se non useremo la strumentalità e se non daremo a questa grazia del Signore la collaborazione che si dà con la docilità e con la stessa ricerca. Perché Dio ci ha lasciati liberi, ci ha lasciato l’onore di chiedere molte volte la sua grazia e, in ogni grazia, anche data senza nostra richiesta, e sono le più, l’onore di collaborare. Dio non ci vuole ricchi mendicanti; vuole che in tutte le cose anche noi abbiamo la nostra parte; Dio per primo intende salvare l’umana dignità che ci ha dato. È qui che deve operare il nostro convincimento. È qui che deve farsi sentire la profondità del medesimo e la costanza nel medesimo quale criterio che deve guidare la nostra vita.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 2° Corso di Esercizi Spirituali (13)

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

Nostra conversatio in cœlis est

13. La divina Liturgia

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

Vi invito a meditare sulla divina liturgia. Questo è l’argomento consequenziale a quello della preghiera, ed è anche consequenziale a quello del Regno di Dio, perché la divina liturgia ci fa veramente vivere all’unisono col Regno di Dio. La divina liturgia offre a noi lo spunto, il mezzo, l’aiuto, lo sfondo, l’accompagnamento per la forma più completa, elevata e fruttuosa di preghiera e dà a noi i mezzi maggiori della grazia. E pertanto è un argomento al quale noi non possiamo sfuggire, tanto più che la divina liturgia è il momento più solenne, più diretto della nostra conversatio in cœlis. È veramente in essa che si riesce adabbandonare, in qualche modo, spiritualmente laterra per vivere in un’altra atmosfera, per sentire un altro palpito di vita e per abbandonare le scorie delle quali si sta coprendo questo povero mondo. Dobbiamo anzitutto volgere uno sguardo a un concetto più generale, che è il culto di Dio, perché la divina liturgia è una specie del culto, è il culto ufficiale voluto e determinato dalla Chiesa, svolto nell’ambito della legge e della tradizione della Chiesa. Pertanto il genere di questa definizione è proprio il concetto di culto. Il culto di Dio è l’atto di riconoscimento della sua divina maestà in qualunque modo e con qualunque strumento tale culto venga praticato. – Ma dobbiamo riflettere in genere che cosa rappresenta il culto di Dio. Il culto di Dio rappresenta questo: anzitutto è la garanzia della morale. Io vi prego di osservare bene i Comandamenti. I Comandamenti sono dieci; ma guardate i primi tre: « Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me. Non nominare il nome di Dio invano. Ricordati di santificare le feste ». I primi tre che cosa riguardano? Il culto di Dio. E sono i primi tre quelli che garantiscono gli altri sette, perché è psicologicamente e storicamente vero questo: che se vanno via i primi tre, vanno giù gli altri sette, non reggono. E la ragione è molto semplice: gli altri sette hanno bisogno, per resistere, che si senta la obbligazione di coscienza. Se non si sente la obbligazione di coscienza, gli altri sette non resistono né alla tentazione, né agli allettamenti, né alle comodità, né all’ambiente generico del mondo. Occorrendo, con la massima facilità questi sette comandamenti vengono abbandonati; esigono che agisca fortissimamente la obbligazione di coscienza per resistere; ma l’obbligazione di coscienza ha un punto sostanziale: la presenza di Dio. In tanto esiste la obbligazione di coscienza, quella che è capace di sopravvivere a tutte le tentazioni e di imporsi contro tutti gli allettamenti, in quanto riposa sul concetto di Dio, e di Dio presente in noi e pertanto arbitro della nostra vita, giudice della nostra vita, ragione del bene della nostra vita, punitore del male che abbiamo operato nella nostra vita. – Vedete quindi che il culto di Dio è veramente il guardiano di tutto il resto, e vi prego di applicarlo anche alla vostra vita, perché quando vi sarà nella nostra vita il culto del Signore e la aderenza a quel culto, tanto ci sarà di energia, di forza, di resistenza in tutto il resto. Qualora si anemizzasse questa parte, voi dovreste aspettarvi che logicamente si renda anemico il resto. Naturalmente la grazia di Dio può sorpassare tutto, può fare a meno delle cause ordinarie per mantenere l’equilibrio della nostra anima, se crede di farlo; ma allora si comincia ad andare fuori dell’ordinario, e noi non dobbiamo rischiare di contare o di puntare troppo sullo straordinario. Ma il culto di Dio è quello che garantisce tutto il resto. Questa è la prima cosa che bisogna osservare del culto del Signore. – In secondo luogo il culto del Signore rappresenta veramente la evasione dal peso della vita, perché è un deporre le scorie, è un lasciare l’abitudinarietà delle cose di questo mondo, è un chiudere una porta su di una esperienza che finisce sempre col diventare monotona e banale. È una grande risorsa della nostra esistenza il culto di Dio. Noi osserviamo nella storia che le più grandi epoche di vita cristiana hanno combaciato sempre con lo splendore del culto del Signore. Se nel medioevo — quando si è forgiata la civiltà che non si è più arrestata, poiché ha portato al nostro tempo, al progresso della nostra età e della nostra esperienza —, se allora tutta l’Europa non fosse stata costellata di monasteri e questi monasteri non fossero stati il canto continuo della lode di Dio e del culto di Dio, la nostra civiltà non sarebbe cresciuta. Perché, a esaminare tutti gli elementi che l’hanno conservata, che l’hanno attivata, trasmessa e mantenuta, vediamo sempre che sono profondamente legati all’esercizio del culto divino. Vorrei dire che la nostra civiltà è nata in coro, perché soltanto attraverso questo cantico dell’Ufficio divino si è mantenuto l’equilibrio. Ma ora dobbiamo venire alla divina liturgia. – La divina liturgia è il culto reso a Dio in forma ufficiale, cioè il culto della Chiesa Cattolica, il culto i cui atti sostanziali sono stati posti e determinati da N. S. Gesù Cristo e poi regolati dalla legge della Chiesa. È per questo che diventano ufficiali. Voi sapete che questo culto di Dio contiene anzitutto la S. Messa e l’amministrazione dei Sacramenti, i Sacramentali e finalmente la preghiera pubblica e l’ufficiatura. In questa divina liturgia noi dobbiamo vedere, e ne troviamo qui l’aspetto caratteristico, due elementi: la liturgia non è soltanto l’atto degli uomini che, con una ordinata coreografia, rendono il culto al loro Signore e Redentore. Non è soltanto questo: questo è un aspetto, e può avere un punto di rassomiglianza e di contatto con qualunque culto reso a Dio. Ma ne ha un altro, che è assolutamente singolare e rappresenta uno dei punti di originalità della rivelazione cristiana, della rivelazione divina. E cioè: questi stessi atti, che costituiscono il portare la lode di Dio verso l’alto, sono lo strumento per cui dall’alto si dà la grazia agli uomini. Sicché noi abbiamo un incontro in direzioni opposte, con un movimento dal cielo verso la terra e un movimento dalla terra verso il cielo. È soprattutto questo movimento dal cielo verso la terra che rende ricchissima la liturgia, perché noi abbiamo, sotto questo aspetto, gli strumenti della grazia di Dio. – La S. Messa, certo, porta la voce degli uomini verso l’alto; ma porta verso gli uomini Gesù Cristo, l’Eucaristia e tutto ciò che di grazia è legato alla divina Eucaristia. I santi Sacramenti sono sempre, certo, anche dei riti esterni, i quali contengono e sollecitano la lode di Dio nella bocca degli uomini e costituiscono un atto di ossequio al loro Creatore e Redentore; ma nello stesso tempo tutti i Sacramenti sono gli artefici della grazia del Signore; portano qualche cosa di divino: divina realtà, divina dignità, divino aiuto alla debolezza umana. Ed ecco che abbiamo così uno scambio continuo, una reciprocità, un dualismo che si fonde nella unità del bene e della gloria del Signore sugli uomini. Sono questi i due aspetti della divina liturgia, per cui noi nella divina liturgia non siamo soltanto attivi: cantiamo, preghiamo, lodiamo Dio, meditiamo, espletiamo le parti sociali nelle quali si dipana questa divina liturgia; ma in quel momento siamo anche passivi: riceviamo e riceviamo continuamente qualche cosa che va a innervare la nostra vita, ad agire profondamente sulla nostra psicologia, a rettificare il cammino nostro, a eliminare tante difficoltà della nostra esistenza, a irrobustire la nostra volontà, a illuminare supernamente la nostra intelligenza. Insomma riceviamo continuamente qualche cosa che diventa ricchezza della nostra vita. – Questo dobbiamo tener presente, perché allora si comprende sempre meglio che la divina liturgia è per noi il momento massimo della conversatio nostra in cœlis. Allora noi siamo con Gesù Cristo, parliamo con Dio, parliamo con la Vergine, coi santi, con un ordine, un mondo che sta al di sopra di noi. Allora qualche cosa si ripete in noi dei cori angelici e di quella grande realtà nella quale noi attendiamo di consumare, dopo acquisito il merito, il pellegrinaggio della nostra esistenza. È entrare in un altro mondo. Voi sapete che la liturgia si svolge tutta socialmente; la liturgia non è la preghiera arida che ha lo stesso andamento, sia che sia detta da uno, sia che sia detta da molti. No, la preghiera liturgica è tutta distribuita: c’è una parte che deve fare soltanto il celebrante, presidente deli assemblea; ci sono parti che debbono fare i suoi ministri; c’è una parte che deve fare il popolo; c’è una parte che debbono fare quelli che cantano, e tra quelli che cantano ce ne sono alcuni che debbono fare i solisti; ci sono i canti antifonici, ci sono i canti responsoriali. È un variare continuamente. Non è mai il semplice unisono, non è mai il suono monocorde; è sempre la pluralità dell’azione. E mentre si snoda la preghiera, si snoda il canto, si attua il simbolo, si compie l’atto di ossequio, e tutte queste cose si intrecciano; è una divina regìa, e questa divina regìa viene componendo qualche cosa, sensibilizzando qualche cosa attraverso il cristallo del simbolo, ricostruendo una realtà che è vera, che è lontana dai nostri sensi, che è al di sopra di noi e che entra divinamente ed efficacemente nella nostra vita. È un altro mondo nel quale, è il caso di dire, molte volte noi troviamo l’unico rifugio dall’amara, arida, oscura esperienza di questo mondo: là dove tutto viene assunto, dalle arti, dalla letteratura, dal canto, dalla profezia, dalla patristica, dove entrano i sermoni e dove entrano gli slanci della poesia, tutto viene assunto e viene assunto in una luce altissima, in una aspirazione, come se la pesantezza del mondo si fosse allontanata per lasciare soltanto lo sfogo verso l’alto e l’anticipata esperienza di realtà eterne. Nella divina liturgia noi troviamo la famiglia di Dio. – Ma veniamo a una terza considerazione. La liturgia ha non soltanto lo scopo di renderci presente un mondo che sta al di là di noi e nel quale si decidono le nostre sorti, e farcelo gustare attraverso il simbolo e lo slancio dell’anima e la purificazione dell’anima; ma ha anche lo scopo di farci perennemente rivivere qualche cosa che è stato nella storia. Il passato ritorna tutto, nella liturgia, quasi a garantire che della storia degli uomini non cade nulla. Anche il loro male si trasformerà nella purificazione della penitenza. Quando noi pensiamo che è il tempo in cui si vive in terra che costituisce il merito di cui si vivrà in cielo, si capisce come tutta la storia sarà presente per tutta l’eternità, perché là io avrò quel grado di gloria per quel momento meritorio che ho vissuto quaggiù. E mentre alla nostra pochezza è dato soltanto di coprire la gran parte del passato con l’oblio e col silenzio, davanti a Dio tutto ritorna. Ed è per questo che, come sarà in cielo, così in una forma certo infinitamente lontana ma che già la echeggia, la storia ritorna tutta nella divina liturgia. Ed è per noi un anticipato invito a quello che sarà un giorno la vera ed eterna conversatio in cœlis, quando avremo raggiunto la pace e la gloria. – Voi sapete che la liturgia si svolge su tre cicli: 1° il ciclo ebdomadario; 2° il ciclo temporale; 3° il ciclo santorale. E tutti e tre hanno un grande significato. Il primo, il ciclo ebdomadario, si svolge dalla domenica, col quale si apre, al sabato di tutte le settimane. E l’anima del ciclo ebdomadario è il Salterio. In questo ciclo ebdomadario si recitano o si cantano tutti i 150 salmi del Salterio detto davidico. E cioè, attraverso questo ciclo ebdomadario, che cosa ritorna? Notate che è imperniato essenzialmente sui salmi, non sul rimanente. Che cosa ritorna? Ritorna la ispirazione profetica dell’attesa di Gesù Cristo, il mondo che l’aspetta. Lo aspettava allora, anche senza saperlo; lo aspetta oggi sempre senza saperlo. In fondo a ogni peccatore, a ogni distratto, a ogni miscredente c’è sempre un’anima che aspetta: l’aspettativa, la sete, che è portata dalla stessa condizione di deserto in cui molte volte deve svolgersi la nostra vita. – Il Salterio, ciclo ebdomadario, ci porta l’attesa; non solo l’attesa messianica, ma l’attesa di chi ancora non ha e attende. È sempre l’aspirazione alla vittoria sui propri nemici, alla pace nelle proprie disgrazie, alla presenza di Dio contro l’aridità della vita, all’aiuto del Signore contro la sperimentata debolezza della nostra esistenza. Il Salterio è tutto su questi motivi, i motivi che costituiscono l’incarnazione più propria del dramma umano, che fu potente prima di Gesù Cristo, perché Gesù Cristo non c’era, perché non c’era ancora la sua certezza, la sua pace e l’ampiezza della sua grazia; perché c’era soltanto la speranza di lui futuro. E questo, che fu anima della storia e che è rimasto, dopo Gesù Cristo, realtà di ogni distanza da Gesù Cristo, ritorna tutto e lo si rivive tutto. – Io penso che talvolta molti superficiali e distratti non capiscono perché si cantino i salmi. Ma questa è l’anima del mondo; è anche la tua. Non ti puoi distrarre da essa, non puoi dire: non è cosa che mi riguardi; afferra anche te; hai bisogno anche tu continuamente della stessa preghiera, della stessa aspirazione. La Chiesa non si stancherà mai di cantare i salmi. E la Chiesa da un estro melodico le cui origini si perdono nei secoli arriva a una sistemazione che è stata fatta definitiva da S. Gregorio Magno, che forse fu il più grande dei Papi e uno dei più grandi uomini. Ma quella dell’estro melodico non è il frutto di un uomo solo: è il frutto di una collettività le cui unità, i cui nomi si sono perduti ma rimane un respiro d’anime. Potete voi esprimere la nostalgia profonda, la originalità assoluta, l’incalzo mirabile degli otto toni gregoriani coi quali noi cantiamo i salmi? Talvolta la stessa modulazione dello stesso tono ritorna per una lunga serie di versetti; ma non ha mai stancato nessuno. E badate che quei toni non si cantano soltanto da pochi decenni; si cantano da 14-15 secoli per lo meno; gli stessi toni, e non hanno ancora stancato nessuno! E il ritmo dei salmi, e la melodia del coro è sempre qualche cosa di fascinoso!

– E poi viene il ciclo temporale. Temporale, da tempo. È la cosiddetta liturgia del tempo. Si chiama così, lo sapete, perché segue il calendario liturgico, ossia i grandi tempi liturgici. Incomincia col tempo natalizio, che si apre coi primi Vespri della prima domenica d’Avvento e dà inizio al nuovo anno ecclesiastico. Si apre il periodo della grande avventura dell’uomo con Dio. Il secondo tempo è intorno alla Pasqua, prima e dopo; il terzo è intorno alla Pentecoste. L’Incarnazione nel Natale, la Redenzione nella Pasqua, la Santificazione nella Pentecoste. Il primo ricostruisce tutta la venuta di Gesù Cristo, perché l’Incarnazione e Redenzione del Signore è l’unico fatto originale della storia umana. Il tempo natalizio ricostruisce questo e fa rivivere tutto nell’attesa, nel fatto della Incarnazione del Signore nostro Gesù Cristo, che non fu, ma è, perché l’unione ipostatica della natura umana con la Persona divina continua tuttora e continuerà per tutta l’eternità in Gesù Cristo. È per questo che il Natale e il suo tempo non sono una cosa lontana: sono una cosa che rimane sempre incredibilmente vicina. – Il secondo tempo ricostruisce il dramma della Passione del Salvatore nostro Gesù Cristo, e tutto ciò che l’ha preceduta e tutto ciò che l’accompagna, e tutta la storia del peccato nel mondo, che ne è la ragione accidentale; ragione per cui al principio del tempo pasquale, che comincia con la domenica di Settuagesima, si legge il libro del Genesi: la storia del peccato di origine. Incomincia col giorno delle Ceneri e arriva fino ai primi Vespri della domenica della SS. Trinità, toccando il vertice nella solennità della Pasqua, giorno che ha fatto il Signore, solennità delle solennità, Pasqua nostra, Risurrezione del Salvatore nostro Gesù Cristo. – Il terzo tempo s’incentra nella Pentecoste. Ricostruisce un fatto: la santificazione di allora. Ma la discesa dello Spirito Santo è eterna, perché la santificazione è un fatto continuo e durerà fino alla fine dei tempi. È questo il tempo della Pentecoste che, appena oltrepassata la Pentecoste e oltrepassata la festa della SS. Trinità, prende come suo colore negli apparati liturgici il verde. Ha un tono speciale. La liturgia delle domeniche che seguono la Pentecoste ha un tono pacato, un tono distaccato. Prende, specialmente nei tratti poetici salmodici, responsoriali, antifonici, un tono sereno e anche leggermente malinconico, ma di quella malinconia che è poesia, che serve, come i tratteggi neri, a far risaltare il campo del colore chiaro e della luce. E pare che riprendano tutta l’aspettativa della gloria eterna. E così si arriva a saldarsi con  l’anno nuovo, col quale ricomincerà il tempo natalizio. E si rivive tutta questa divina storia, questa divina avventura che è stata negli uomini, che è stata tra gli uomini, che rimane al di sopra degli uomini, che resta sempre la grande travatura della storia degli uomini e rimane per gli uomini l’unico cammino della loro speranza.

– E c’è il terzo ciclo: è il santorale, il ciclo che ricorda i Santi. Mentre il temporale ricorda la Redenzione, Dio, Gesù Cristo, Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo, ed è la grande travatura della liturgia, il santorale ha un altro andamento. Comincia anche quello con la prima domenica d’Avvento e normalmente, quando il calendario non lo lascia fuori, con la festa di S. Andrea Apostolo. E ricorda i santi; la Vergine soprattutto, perché questo ciclo è punteggiato tutto delle feste della Vergine SS. La principale è la festa della Assunta; l’altra, molto solenne, è la festa della Immacolata. Sono queste due le massime. Voi sapete che le altre feste della Vergine hanno avuto un’origine: momenti di disdetta, momenti di disgrazia, rifugio del popolo cristiano nelle pieghe del manto della Madonna per salvarsi e poi per ricordarsene e dirle grazie. – Il santorale comprende poi le feste dei Santi. Il gruppo degli Apostoli rimane imperterrito, « fundamentum veritatis », e nessuno lo toccherà mai. Il gruppo dei martiri della Chiesa Romana credo che nessuno oserà mai toccarlo, perché sono della Chiesa Romana, che è il fondamento di tutte le altre Chiese: « Ad hanc enim Ecclesiam omnem oportet convenire Ecclesiam », scriveva S. Ireneo nel sec. II, riassumendo la tradizione dell’Oriente e dell’Occidente. È il gruppo dei martiri più illustri della Chiesa primitiva, perché sono sempre il ricordo della nascita e dell’infanzia della Chiesa, il ricordo della sua prima e vera conquista del mondo, di cui essi sono stati gli alfieri e alla quale essi hanno intessuto un manto di porpora. E poi tutti gli altri santi, quelli più rilevati che sono venuti dopo. Ogni Chiesa particolare ricorda i suoi, perché non si possono mettere tutti, in 365 giorni, nel calendario della Chiesa universale. – Ogni ordine monastico e religioso ricorda i suoi; ogni abbazia ricorda i suoi, in modo che non si dimentichi nessuno; ma nella Chiesa universale è soltanto un gruppo: scelti. Questo gruppo potrà variare, perché man mano che si infittisce la schiera dei santi canonizzati, bisognerà pure far loro posto, e allora ci potranno essere delle riforme. E perciò non tutti rimarranno. Tornano i santi. Lasciateli tornare! Sono i nostri fratelli. Fratelli al sicuro, mentre noi al sicuro non ci siamo ancora. Fratelli vicini, fratelli che sanno, fratelli che hanno per noi una tenerezza di cui noi non abbiamo l’idea; fratelli che con la permissione divina entrano ancora, con la intercessione loro, nella nostra vita e ne diventano sostegno, corroboramento, conforto. Lasciateli entrare: la loro storia è la storia più bella, l’unica storia pulita che abbia il mondo. Osservate che cosa si vive in tutto questo: il dramma che è nel ciclo della settimana un giorno lo rivivremo in cielo; guardando nell’eterna realtà di Dio che l’ha accolto, vedremo quello che fu. E tutto il ciclo del temporale lo canteremo in eterno, perché è il fatto della nostra salvezza, e pertanto sostanza del nostro amore. Il santorale sarà la « communio sanctorum » della gaudiosa famiglia nell’eterna pace, alla quale aspettiamo di ricongiungerci per trovare coloro che abbiamo amato. Voi capite perché la liturgia è conversatio nostra in cœlis. Che essa vi aiuti sempre, che possa essere sempre mirabile e ineguagliabile strumento di questa conversatio in cælis.

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di Esercizi Spirituali (12)

12. La preghiera

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

Vi invito a riflettere sulla preghiera, meglio sull’orazione. Noi siamo arrivati naturalmente al tema perché, quando si è parlato dell’Eucaristia e si è visto che l’Eucaristia è indissolubilmente legata alla croce, ossia alla passione e alla morte di N. S. Gesù Cristo, viene logico che, rimanendo permanente la presenza del Signore nell’Eucaristia, si parli con lui. E viene logico che la mente si volga molte volte, il numero di volte maggiore possibile, alla passione e alla morte del Signore, causa della nostra salute, fondamento della nostra certezza, rimedio dei nostri mali, motivo della nostra speranza. Viene logico, conosciute queste realtà, che l’anima si intrattenga con esse; conosciuto questo mondo molto più grande, che noi possiamo palpare attraverso semplici veli, noi entriamo il più possibile in contatto con esso, e questo mondo facciamo intervenire nel nostro piccolo mondo, sovrastare al nostro piccolo mondo, illuminare la crepuscolarità del nostro povero mondo. Non è detto che l’orazione debba essere sempre una visita al SS. Sacramento o una meditazione sulla Passione del Signore, no; si dice però che a questi punti il riferimento deve essere costante, profondo e cosciente. Ma comunque noi siamo arrivati naturalmente a parlare dell’orazione per il fatto che ci si è parato innanzi un mondo reale, più reale di quello che noi tocchiamo con le mani; vicinissimo, nel quale noi facciamo bene a stare perché, restando là, trattiamo bene le cose di qua; vivendo là, diventiamo imbattibili di qua; contraendoci là, ci dilatiamo di qua; arroccandoci là, non siamo smossi dalle umane difficoltà; considerando le cose di là, diventiamo pratici, positivi, aderenti alle realtà terrene con una incredibile lucidità e una maggiore saggezza.. Conversatio nostra., nondimenticatelo, mai! in cœlis est. Si premette che cos’è l’orazione. L’orazione è l’elevazione dell’anima a Dio. E pertanto è anzitutto ed essenzialmente un atto dell’intelligenza, accompagnato però sempre dalla mozione del cuore, perché se fosse puramente un atto d’intelligenza, sarebbe atto cerebrale e non sarebbe orazione. Qualora venga a mancare l’intervento della volontà, e cioè il moto dell’anima verso Iddio o verso le cose che anche solo indirettamente ci portano a Dio, verrebbe a mancare un elemento sostanziale della preghiera: noi allora faremmo non della preghiera ma dello studio, della divagazione, della distrazione, distrazione pia ma distrazione. La preghiera è dunque una elevazione dell’anima a Dio, di tutta l’anima, con la sua intelligenza e col moto della sua volontà. Basta dire questo per capire che la preghiera è anzitutto ed essenzialmente un fatto interiore e che non può mai abbandonare questa sua interiorità, anche se è conveniente, anzi necessario, che molte volte sia accompagnata da emissione di voce, da ritmo, dalla espressione della collettività regolata secondo una formula, guidata secondo una regìa, un cerimoniale, delle rubriche. – Anzitutto l’orazione si deve dipanare secondo i nostri precisi doveri. Quali sono i fondamentali doveri nostri nei rapporti ufficiali con Dio, non solo nei rapporti morali, cioè nella soggezione alla legge sua e alla sua volontà, ma nei rapporti diremmo di carattere ufficiale con Dio? Sono quattro. Noi abbiamo quattro grandi doveri: il primo  è quello dell’adorazione, il secondo è quello dell’azione di grazie, il terzo è quello di chiedere perdono dei nostri peccati, il quarto è quello della domanda. Questi quattro atti sono tutti necessari, per quanto in modo diverso e con diversa gerarchia. Infatti il più importante di tutti è quello dell’adorazione. Questo è il primo e dal quale non ci si può mai esimere. Gli altri, in certi momenti ci potranno essere, in certi momenti ci potranno non essere; ma il primo dovere dev’essere compiuto sempre: l’atto dell’adorazione di Dio. In che cosa consiste l’adorazione? L’adorazione consiste nel riconoscimento della sua suprema Essenza e Maestà e negli atti conseguenti: accettazione, ossequio, lode. Sono questi tutti atti conseguenti. Ma l’atto essenziale dell’adorazione è il riconoscimento della divina eccellenza. Siccome non c’è una eccellenza pari a quella di Dio, è chiaro che l’adorazione non può essere data altro che a Dio. Agli altri si darà venerazione, ammirazione; ma l’adorazione è propria di Dio. È chiaro che è un dovere, perché se è stata creata una intelligenza, la nostra per esempio, è ovvio che è stata creata per intendere. Per intendere che cosa? Anzitutto la prima cosa che esiste, cioè Dio, e accettarla, Pertanto è dovere naturale questo: è dovere al quale tutte le cose debbono confluire. Osservate bene che cosa accade se voi componete questo primo aspetto di un dovere ufficiale nei rapporti con Dio con gli altri doveri. Vedrete che cosa ne salta fuori! – Il secondo dovere è quello di rendere grazie a Dio, il dovere del ringraziamento. Il ringraziamento è una cosa onorevole anche fra gli uomini, perché è una forma di giustizia, cioè è quella forma di restituzione e di riportare le cose al pareggio quando non si danno i termini della necessità o delle possibilità di riduzione a parità. Se uno fa un atto di bontà verso di me, io questo non lo posso computare in danaro e dire: costerà 50 lire, 5000 lire, 50 milioni. Nel caso in cui non può darsi o non è conveniente l’azione di pareggio propria della giustizia commutativa, io gli devo dare la gratitudine dell’anima. La gratitudine è proprio quella che permette che si compiano, si completino, si colmino le lacune che rimarrebbero nell’ordine là dove noi non possiamo ridurre i termini a espressioni di pura giustizia, e cioè a espressioni di pura restitutio ad æqualitatem, che è il carattere della giustizia. Possiamo noi pretendere di dare ad æqualitatem a Dio? Ma che dite? Cosa volete che andiamo a prendere per rendere ad æqualitatem a Dio quello che Dio ha dato a noi? È chiaro che occorre un’altra cosa; non basta la giustizia. La giustizia potrà qualche volta, e molto poche volte, bastare tra gli uomini, ma la giustizia non può bastare verso Dio. È chiaro che ci vuole un altro atto che è succedaneo alla giustizia, che colma un vuoto là dove la giustizia non può essere applicata; e questo atto si chiama gratitudine, ringraziamento, ossia il riconoscimento del bene ricevuto e il movimento dell’anima che trasporta l’onda del proprio affetto in ritorno alla persona dalla quale essa riconosce di aver ricevuto un beneficio. – Ora, se questa logica del ringraziamento e della gratitudine ha tale valore e tale funzione di completamento sovrano nei rapporti tra gli uomini, e quando c’è splende veramente la gratitudine, e tanto più splende quanto meno si ricordano gli uomini della gratitudine, immaginate che cosa sia il dovere della gratitudine verso Dio. Ho detto che la gratitudine è anzitutto un atto di riconoscimento, un prendere atto che si è ricevuto. Chi non si ricorda mai di prendere atto di aver ricevuto da Dio sarà difficile che lo ringrazi, che adempia a questo splendido dovere di gratitudine verso il Creatore, perché non si sofferma mai a considerare che ha e non aveva; che ha e non avrebbe; che non ha avuto in sé stesso e non troverebbe neppure negli altri la ragione di ciò che ha. Se non si ferma mai a considerare questo, è difficile che trovi la ragione per poter fare quell’atto di affettuoso rimando verso Dio con l’atto di volontà nel quale consiste la gratitudine. – Ma c’è un terzo dovere che dobbiamo compiere. È quello di chiedere perdono. La Sacra Scrittura dice che anche il giusto manca sette volte al giorno, tanto per dare una espressione simbolica. Dunque non vi è uomo che non abbia da chiedere perdono a Dio; o perché ha fatto il male o perché non ha fatto il bene. Quand’anche non avesse fatto il male, gli si pareranno dinanzi i casi nei quali poteva fare il bene e non l’ha fatto; oppure poteva fare il meglio e non l’ha fatto; oppure avrebbe potuto arrivare all’ottimo e non l’ha fatto. E allora il caso di domandare perdono a Dio si presenta ogni giorno, per ogni uomo, entra nella normale metodologia della vita. Questo terzo dovere non è più come quello della gratitudine che sta in completivo della giustizia, ma è un dovere che rientra nel canone della stretta giustizia. Perché là dove abbiamo eletto il male, bisogna fare un atto contrario della volontà ed eleggere il bene respingendo il male stesso. Finalmente abbiamo un quarto dovere che è quello di domandare. Non si dica: io non domando niente. Questa è superbia, non è affatto educazione. Perché sarà difficile che uno possa dire, in riguardo degli uomini: io non chiedo assolutamente niente a nessuno. Potrà dire: io non chiedo niente in una determinata forma, cioè non faccio lo scroccone; non mi faccio comperare; non mi faccio vendere. Potrà dire: io non mi prostro indebitamente a scapito della dignità, a scapito del mio ufficio. Ma in questo mondo, quand’è che uno può dire: non chiedo niente a nessuno? Come, non ha chiesto qualcosa a suo padre e a sua madre? È sempre stato capace di avere tutto in sé stesso e per sé stesso? No. Ce ne ha messo prima di arrivare a camminare con le proprie gambe! Quindi a questo mondo qualche

cosa ha dovuto chiedere. Tuttavia è anche concepibile che a un certo momento, sotto certi profili, uno possa dire: io al mondo non chiedo niente a nessuno. Ma guardate che rispetto a Dio non lo si può dire. Perché? Perché ciascuno ha bisogno sempre di superare la propria debolezza. Non ci fosse altro titolo, c’è questo. Anche se rinunciasse al titolo del proprio godimento e dicesse: io non godo e basta; rinunciasse al proprio divertimento, al proprio agio e dicesse: io non voglio nessun divertimento, non voglio nessun agio nella vita. Amen! Ma, cari miei, almeno questo titolo non lo potrà smuovere mai: rimane debole. E pertanto deve appoggiarsi. Deve: ecco la necessità, ecco il dovere; e deve appoggiarsi a Dio. Non dico che sia questo l’unico titolo per cui si deve domandare; dico che almeno di questo nessuno potrà discutere. Pertanto è vero che ogni giorno si presenta agli uomini saggi il dovere di chiedere qualche cosa a Dio. – E, in secondo luogo, noi sappiamo che la grazia del Signore è data a tutti gli uomini in modo sufficiente, ma questa grazia del Signore, della quale noi abbiamo bisogno sempre, è aumentabile secondo il grado della nostra cooperazione e secondo il grado della nostra orazione, cioè secondo il grado in cui noi la chiediamo. E sono talmente infinite le cose da chiedere, talmente infiniti i bisogni per cui bisogna chiedere a Dio, che il dovere incide su ogni giornata della nostra vita, solca ogni caso della nostra esperienza terrena. Ora provatevi un po’ a venirmi a dire che non si sa cosa dire quando si prega. Io penso che non si potrebbe finire più. Quanta gente ho trovato: lei mi dice di pregare! Già, ma come faccio? Dico un po’ di Ave Maria, poi alla fine mi stufo. Dico un po’ di Pater noster, poi alla fine mi stufo; non so neppure più che cosa dica, e dico sempre la medesima cosa. Beh, rispondo io, intanto comincia a non disprezzare le Ave Maria, perché prima che tu abbia capito bene cosa dici, cos’è un’Ave Maria, tutta la vita passerà, e non avrai capito bene ancora, tanto è grande. E questo vale ancor di più per il Pater noster. Sta’ attento: sarai tu che sarai svanito! Perché, se ci metti un po’ di cuore, un po’ di testa, vedrai che potrai dire anche molte Ave Maria e molti Pater noster! Ma a ogni modo e chi ti ha detto che devi dire soltanto delle Ave Maria e dei Pater noster per pregare? Nella preghiera si può mettere tutto. Se io andassi a fare certi discorsi come mi verrebbero, così, di colpo; se li andassi a fare agli uomini, se li venissi a fare anche a voi, vi mettereste a ridere; invece con Dio lo posso fare, perché Dio è Padre. Non ho bisogno di studiare letteratura, di seguire troppo la logica, non ho bisogno neppure di esser preciso nelle mie parole, neppure di parlare. Dio capisce anche i silenzi. Col Signore si può dire tutto, ed è l’unico col quale possiamo dire tutto, essendo capiti in tutto. Non mi verrete a dire dunque che pregare sia una cosa difficile! Quando si hanno davanti questi quattro doveri, si capisce che raggio abbiano, che sorta di superficie totale costituiscano per l’esperienza degli uomini. Ma, messo a posto questo, ora passiamo a un altro punto, a un’altra considerazione. Ci sono degli elementi, degli strumenti che entrano in questi quattro doveri: adorazione, ringraziamento, dolore, domanda. Entrano e li sollevano, li fanno fermentare incredibilmente, li fanno elevare dalla terra al cielo. Lasciate che adesso ve ne dia un’idea. Innanzi tutto le verità della fede. Tutte. Quanto più se ne sa, tanto più lo strumento si ingrandisce. La riflessione alle verità della fede, la riflessione a tutte le parole di Dio, a tutta la parola di Dio, a ogni e singolo contenuto della divina Rivelazione, tutto questo, chiamato in causa, guardate come fa lievitare l’anima; guardate che volute dà alla nostra intelligenza! Che fascini strappa a noi, che elevazioni del sentimento, che slanci, che contemplazioni, che cammini lunghissimi nella ricerca, nella comparazione, nel soffermarci a guardare, nel sintetizzare, nel ritornare, nell’approfondire. Tutto il patrimonio delle idee viene qui e può entrare a far lievitare l’adorazione, il ringraziamento, la propiziazione, l’impetrazione. E non è tutto. C’entra non solo tutto il patrimonio ideale della teologia e della sana filosofia, ma c’entra tutta la storia del mondo. Ogni fatto è capace di fiorire ubertosissimamente e di far lievitare almeno uno di questi doveri, o tutti e quattro. Con Dio si può discorrere anche di quello che succede al Parlamento: non con l’intenzione di far ridere il cielo, eh? no, ma si può discorrere di quello. Pensate: quando nella preghiera si possono convogliare tutti i nostri casi personali, tutte le anfrattuosità della nostra complessa e illeggibile psicologia, talvolta così complessa e così illeggibile da necessitare che entri qualcheduno, un terzo a leggere e a mettere le cose in ordine con carità, con saggezza e con affetto…; pensate: quando ci mettiamo tutto questo, tutto allora diventa oggetto dell’orazione. Quando nella orazione entrano tutti i casi passati, i casi in corso, i casi che debbono ancora avvenire, cioè la vita nostra e degli altri, vi rendete conto che non è davvero difficile trovare di che pregare e di che meditare.   Sarà sempre vero che per avere una meditazione ben fatta, in generale, occorre o la voce di un altro o un libro. Quello, per es. di fare orazione nella sua forma più alta, che è la meditazione, l’orazione mentale, sempre e unicamente affidandosi alla propria testa, è una cosa molto difficile, una cosa alla quale, a lungo andare, riescono pochi. Vi potrà riuscire gente che vive pensando, eternamente pensando, sempre pensando e sempre con la mente irreggimentata in un determinato dovere che davanti a Dio deve compiere. Quelli ci potranno riuscire; ma non credo che siano molti che si trovino in questa situazione. Noi dobbiamo attenerci alla media della brava gente.E allora badate che senza la voce di un altro che parla o senza lo scritto davanti che sorregge, non ci si fa molto, perché a un certo punto, pur essendo davanti a questo prato con tutte le erbe possibili e immaginabili, con tutti i fiori, con tutti i colori che non c’è altro che da mettere la mano per portarsene via una bracciata, voi capite bene che se uno in questo prato entra dondolandosi dal sonno, dormendo in piedi, oh, non vedrà né le erbe né i fiori e dirà: non c’è niente; non c’è, non c’è, non c’è. Ma c’è che lui dorme in piedi! Ecco. Bisogna pure svegliarsi! Quando uno comincia a dormire ancora in piedi, ecco allora è il momento di ricorrere al libro. E allora, se non si vedono più e i fiori nel prato e le erbe che stanno intorno, si guardano i dipinti del libro, e si comincia di lì; poi di lì si prende la spinta e forse, riaprendo del tutto gli occhi, si vede il resto, cioè si vede il vero prato, non quello dipinto nel libro di orazione. – Vedete dunque che l’orazione è una cosa possibile. E capite che nell’orazione veramente si consuma, si completa la nostra conversatio in cœlis. – In fondo si può dire che la conversatio nostra in cœlis si riassuma tutta nell’orazione. Perché quando si vive pregando, quando l’orazione circonda talmente la nostra azione da presidiarla, prepararla, munirla, sostenerla, completarla, sorreggerla se decade, rifarla se si è disfatta, allora veramente la nostra conversatio è in cœlis. Tutto il rimanente lo si vede, lo si rende presente, lo si rende attivo per noi, e rendiamo noi attivi in esso tanto quanto c’è la orazione. Perché la vera sostanziale conversatio nostra in cœlis è l’orazione. – Io vi ho parlato per tre giorni per portarvi a questo punto. Gli elementi detti prima sono tuttielementi che rinverdiranno davanti a voi, se ci saràla orazione. E tutto diventerà facile, e tutto rivivràcon colori stupendi, con attrazioni fascinose, se cisarà la orazione. E la vostra vita leviterà all’infinito,se ci sarà la orazione. E il vostro contatto conl’Eucaristia sarà una Pasqua perenne, un gaudio pasquale perenne, se ci sarà la orazione. E la S. Messa sarà per voi il fatto del mondo, il fatto dellastoria, il fatto di tutto, la grande, la prima, lasuprema risorsa alla quale tutto deve convergeree dalla quale tutto deve fluire. Voi dipingerete ilmondo diverso da quello che vi pare; e sarà piùreale, se avrete la orazione, se lo vedrete attraversola orazione. Il cielo si aprirà sulle vostre teste, sevoi lo guarderete attraverso la orazione.E qui ci scappa fuori l’ultimo elemento delquale io so dire poco; ma so benissimo che c’è,perché lo si sente con la mano: è che nell’orazionec’entra sempre Iddio e agisce Lui. Discretissimamente,non in forme note, non in forme in cuil’orecchio senta, la fantasia interna e i sensi internipercepiscano. No, no. Dio rispetta abitualmentela nostra umana condizione: da gran Signore,fa tutto, entra in tutto, sorregge tutto, ciprepara qualche cosa da tutte le parti camminandoin punta di piedi e non facendosi sentire per nondisturbare l’umana libertà. Ma c’entra, Iddio. Eallora voi ve ne accorgerete! Quante volte potreteavere la impressione di dialogare! Quante volteavrete problemi nella mente; pregherete, e a uncerto punto vi troverete scritta la risposta intesta, così, naturalmente. Quante volte accadràquesto: che avrete dubbi; pregherete, e a un certomomento vedrete che s’è fatto chiaro, è sorto ilgiorno, la notte non c’è più, il dubbio se ne èandato. Che cosa è successo? Non avete notatoniente, non udirete niente, non avrete la minimasensazione che sia passato qualcuno, sarà naturalissimo.È questa la signorilità di Dio: di agirenaturalissimamente con noi, che Egli ha creato inuna natura, pur elevandoci in una soprannatura.Ma sarà così. La conversatio nostra in cœlis èsempre legata al grado di orazione.Leggete le vite dei Santi, e leggetene molte;non subite la moda del nostro tempo, di ridernee di farne la critica. E scoprirete che i Santi si trovanopienamente nell’orazione. Qualunque cosa facciano:miracoli di carità, miracoli di governo, miracolidi conversioni, tenere a posto popoli, aggiustarela storia, rabberciarla di qui, rabberciarladi là. Tutto questo è una quinta; lo sfondo troveretesempre che è stata l’orazione, cioè la loro conversatio in cœlis.Ora che abbiamo ragionato sulla orazione, sullasostanza vera dell’orazione, dobbiamo preoccuparcidi difendere la orazione, la vita di orazione, didifendere questa nostra conversatio in cœlis.Prima di tutto la dobbiamo difendere dal mondoche ci sta intorno. Il mondo che ci sta intorno èfrastornante, inebriante e avvelenante. Frastorna,inebria, avvelena. E tutto questo fa senza che noice ne accorgiamo. Quando siamo ben pieni diquesto gas che abbiamo aspirato, noi non preghiamopiù o preghiamo male, preghiamo poco,preghiamo tirando le gambe, preghiamo dormendo.Bisogna difendersi dal mondo, se vogliamo difenderela nostra orazione.Ma bisogna che io mi spieghi un po’ di più.Non so se vi ho raccontato una esperienza che è stata fatta in America, esperienza che ha provocato proibizioni da parte della legge. Hanno messo un fotogramma in mezzo agli altri nella pellicola dei film, facendo un esperimento. Questo fotogramma, unico, rappresentava in modo vivacissimo la réclame di una nota bibita: la Coca-Cola. Hanno inserito questo fotogramma in una pellicola, in 10, in 100 pellicole e hanno cominciato a proiettare la pellicola d’estate. Risultato: nessuno ha visto il fotogramma, perché voi sapete che un fotogramma solo non lo si vede; la frazione di tempo in cui passa non si commensura alla nostra sensibilità e pertanto noi non lo vediamo. Tutt’al più abbiamo la visione di una leggera striscia bianca che balena. Quindi nessuno ha visto il fotogramma. Tutti però hanno avuto sete, ed è aumentata di colpo, fino al 300 % e anche al 400%, la vendita della Coca-Cola. Risolvete il rebus. Si è avuta così una rivelazione, che è terribile, che comincia a entrare nella scienza, là dove se ne sono accorti, e che avrà delle incredibili applicazioni. Si è scoperto che le cose che i nostri sensi esterni trasmettono senza che ve ne sia coscienza, vengono registrate ugualmente. Di quel fotogramma, non essendosene accorto nessuno, nessuno ha avuto coscienza, vero? Bene. Nonostante questo, il fotogramma è stato colto dai sensi esterni, è stato mandato ai sensi interni, è stato registrato e ha agito stimolando quei diversi centri della salivazione, tutti i centri per cui a un certo momento uno dice: io ho sete. Non solo, ma ha indirizzato quei centri in armonia con preesistenti, chiamiamoli così, fotogrammi incisi in questa discoteca che è la testa, e ha indirizzato gli spettatori, che non avevano affatto visto, a comprare la Coca-Cola. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che, anche se io vado in una piazza dove fanno sciocchezze, scempiaggini, oscenità, e io non mi accorgo di niente in fondo, ma sto lì e leggo il giornale con molta attenzione, arrivano a me le onde sonore dei discorsi. E si direbbe che io non li capisca e non abbia coscienza di quel che dicono, ma arrivano e il mio apparecchio le registra e le trattiene. Io do solo qualche sguardo superficiale, non guardo niente; vedo, ma non guardo. Lo spettacolo non è eccessivamente secondo i canoni della cristiana modestia; quindi io vedo così, ma non guardo, ho quella visione generale che si ha dall’aereo. Ma, mentre io non guardo, le onde luminose arrivano a me, il mio apparato sensorio registra, mette in archivio: là ci stanno e chissà che diavolo ti combinano dopo, nel subcosciente! Vi ho voluto richiamare il fenomeno per dirvi: badate che non ci sono muri che ci proteggano dal mondo, dal suo vaniloquio, dalla sua artificialità, dalla sua pazzia. Bisognerebbe vivere chiusi, murati, nella certosa di Grenoble; non vedere mai nessuno, non sentire mai niente. Però io credo che qualche cosa penetrerebbe anche dentro la certosa di Grenoble! Noi dobbiamo prendere coscienza di questo fatto, perché ci possiamo trovare intrisi di questioni che sono artificiose. Mi spiego meglio. Noi ci possiamo trovare inzuppati, come i biscotti nel latte, in un mare di dubbi. Uh! va a vedere da dove arrivano! In genere è così: sono onde raccolte, entrate dentro; hanno fatto come l’acqua sotto la terra dopo che è piovuto: a forza di andare avanti scava canali, apre caverne, fa grandi laghi! È di lì che vengono fuori le sorgenti, ma è anche lì che qualche volta si aprono dei baratri, e va tutto giù. Guardate che tutto questo mondo continuamente ci usura, perché noi riceviamo troppe impressioni; noi diventiamo deboli senza saperlo. Difendetevi! E difendendo la vostra orazione, difenderete la vostra vita. Mi sono soffermato su questo aspetto perché certi stati psicologici che sono il frutto di una invasione dell’esterno, che diventano per le anime che si dedicano alla devozione e a una vita più alta entro limiti più stretti degli ordinari fedeli, e cioè con impegni più gravi degli ordinari fedeli, la causa più comune, più frequente che disturba la loro psicologia e crea dei drammi, viene a portar loro dei dolori che talvolta sono inutili, non sempre, ma molte volte sono dolori inutili.Entrate invece in quel concetto chiaro, che diquesto mondo dà il giudizio che deve dare dall’altezzadella conversatio in cœlis, che è l’unicopunto dove non si è né distratti, né astratti, nécerebrali, né fuori della realtà; è l’unico punto

dal quale si vedono le cose come sono. La maggior parte degli uomini sono invaniti, sono annebbiati dal mondo e non capiscono più dove sono e che cosa ne ricevono. Fuori da questo! Rompiamo questo bozzolo: che l’angelica farfalla esca fuori, alla luce, prenda coscienza, guardi il mondo per quello che è, non per odiare, ma per amare i fratelli di più, per capirli di più, per essere per loro, col cuore, dei padri e delle madri. Ma non si riuscirà ad amarli, i fratelli, se non si capisce il mondo, se la stima, se il giudizio che noi dobbiamo dare del mondo non è di una assoluta franchezza, di una limpidissima e dura chiarezza, senza mezze misure, senza riduzioni, senza letti di Procuste, senza commedie di alto inganno. Difendendo la vostra orazione, difendete la vostra vita, difendete la vostra fede e il vostro merito!