UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MYSTICI CORPORIS CHRISTI (1)

Iniziamo oggi a leggere una delle Lettere Encicliche più importanti della storia della Chiesa, la Mystici Corporis Christi di Pio XII, con la quale viene descritto in modo dottrinalmente perfetto la Costituzione del Corpo Mistico di Cristo, cioè la Chiesa Cattolica, l’unica vera Chiesa che è stata divinamente fondata da Gesù-Cristo; viene trattata compiutamente “… la dottrina del Corpo mistico di Cristo e della unione dei fedeli con il divino Redentore nello stesso Corpo, ricavando al tempo stesso dalla medesima dottrina alcuni ammaestramenti, per cui una più alta investigazione di questo mistero produca frutti sempre più abbondanti di perfezione”. – La lettera, quasi una catechesi ottimamente strutturata è organizzata, secondo una progressione montante, in capitoli e paragrafi che sapientemente si succedono in stretta concatenazione: 1. La chiesa è un «corpo»: unico, indiviso, visibile; composto organicamente e gerarchicamente; dotato di organi vitali, ossia di Sacramenti; formato da membri determinati, non esclusi i peccatori. – 2. La Chiesa è il corpo «di Cristo»; a) Cristo fu il «fondatore» di questo corpo; con la predicazione evangelica, con le sofferenze della croce, con la promulgazione della Chiesa nel giorno di Pentecoste; b) Cristo è il «capo» di questo Corpo; c) Cristo è il «sostentatore» di questo Corpo; d) Cristo è il «conservatore» di questo Corpo. – 3. La Chiesa è il Corpo di Cristo mistico» (corpo mistico e corpo fisico; corpo mistico e corpo solo morale). – 4. La Chiesa giuridica e la Chiesa della carità. – Parte II: L’unione dei fedeli con Cristo: Vincoli giuridici e sociali. – 2. Virtù teologiche. – 3. L’inabitazione dello Spirito Santo. – 4. L’Eucaristia, segno di unità. – Parte III: Esortazione pastorale: 1. Errori della vita ascetica: falso misticismo, falso quietismo, errori circa la Confessione sacramentale e l’orazione. – 2. Esortazione ad amare la Chiesa: d’un Amore forte, vedendo Cristo nella Chiesa, imitando l’amore di Cristo verso la Chiesa. – Epilogo: La Beata Vergine Maria.

Leggiamola e meditiamola con estrema attenzione, dal momento che far parte della “vera” Chiesa Cattolica, seguirne tutti gli insegnamenti pedissequamente, è “condicio sine qua non” per accedere all’eterna salvezza.

PIO PP. XII

LETTERA ENCICLICA

MYSTICI CORPORIS CHRISTI

AI PATRIARCHI, PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E ALTRI ORDINARI AVENTI PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA:
DEL CORPO MISTICO DI GESÙ CRISTO
E DELLA NOSTRA UNIONE IN ESSO CON CRISTO

[Parte I]

VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

Introduzione.

La dottrina sul Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa (cfr. Col. I, 24), dottrina attinta originariamente al labbro stesso del Redentore e che pone nella vera luce il gran bene (mai abbastanza esaltato) della nostra strettissima unione con sì eccelso Capo, è tale senza dubbio che, per la sua eccellenza e dignità, invita tutti gli uomini che son mossi dal divino Spirito a studiarla e, illuminandone la mente, fortemente li spinge a quelle opere salutari che corrispondono ai suoi precetti. Reputiamo perciò Nostro compito il trattenerCi con voi su questo argomento, svolgendo e dichiarandone quei punti specialmente che riguardano la Chiesa militante. Al che Ci muove non solo l’insigne grandezza di questa dottrina, ma anche lo stato presente dell’umanità. – Intendiamo infatti di parlare delle ricchezze riposte nel seno di quella Chiesa che fu acquistata da Cristo con il proprio sangue (Act. XX, 28) e le cui membra si gloriano di un Capo redimito di spine. Circostanza, questa, che è una prova evidente di come le cose più gloriose ed esimie nascano soltanto dal dolore; dobbiamo quindi godere per la nostra partecipazione alla passione di Cristo, affinché possiamo poi rallegrarci ed esultare quando si manifesterà la sua gloria (cfr. I Petr. IV, 13). Rileviamo sin dall’inizio che, come il Redentore del genere umano ricevette persecuzioni, calunnie c tormenti da quei medesimi la cui salvezza s’era addossata, così la società da lui costituita si assomiglia anche in questo al suo divin Fondatore. Non neghiamo, è vero, che anche in questa nostra età turbolenta non pochi, benché separati dal gregge di Cristo, guardano alla Chiesa come all’unico porto di salvezza (e lo riconosciamo con gratitudine verso Dio); ma sappiamo pure che la Chiesa di Dio è dispregiata e con superba ostilità calunniata da coloro che, abbandonata la luce della cristiana sapienza, ritornano miseramente alle dottrine, ai costumi, alle istituzioni dell’antichità pagana; spesso anzi è ignorata, trascurata e tenuta in fastidio da molti Cristiani, o allettati da errori di finta bellezza, o adescati dalle attrattive e depravazioni del mondo. Per dovere quindi di coscienza, o Venerabili Fratelli, e per assecondare il desiderio di molti, porremo sotto gli occhi di tutti ed esalteremo la bellezza, le lodi e la gloria della Madre Chiesa alla quale, dopo Dio, tutto dobbiamo. – C’è da sperare che questi Nostri precetti ed esortazioni, nelle presenti circostanze, produrranno nei fedeli frutti molto abbondanti, poiché sappiamo che tante sventure e dolori del nostro procelloso tempo dai quali sono acerbamente tormentati innumerevoli uomini, se vengono accettati dalle mani di Dio con serena rassegnazione, convertono per un certo impulso naturale gli animi dalle cose terrene e instabili alle celesti ed eterne, suscitando in essi un’arcana sete e un intenso desiderio delle realtà spirituali: stimolati così dal divino Spirito, vengono eccitati e quasi sospinti a cercare con maggiore diligenza il Regno di Dio. Infatti, a misura che gli uomini si distolgono dalle vanità di questo mondo e dall’affetto disordinato delle cose presenti, si rendono più atti a percepire la luce dei misteri soprannaturali. E forse oggi più chiaramente che mai si vede la instabilità e inanità delle cose terrene, mentre i regni e le nazioni vanno in rovina, ingenti beni e ricchezze d’ogni genere vengono sommersi nelle profondità degli oceani, città, villaggi e fertili terre son coperti di rovine e insanguinate di stragi fraterne. Confidiamo inoltre che neppure a coloro che sono fuori del grembo della Chiesa Cattolica saranno ingrate né inutili le verità che stiamo per esporre intorno al Corpo mistico di Cristo. E ciò non solo perché la loro benevolenza verso la Chiesa sembra aumentare di giorno in giorno, ma anche perché essi stessi, mentre osservano le nazioni insorgere contro le nazioni, i regni insorgere contro i regni, e crescere smisuratamente le discordie, le invidie e i motivi di odio, se poi rivolgono gli occhi alla Chiesa e considerano la sua unità d’origine divina (in virtù della quale tutti gli uomini d’ogni stirpe vengono congiunti da fraterno vincolo con Cristo), allora certamente son costretti ad ammirare questa grande famiglia fomentata dall’amore, e con l’ispirazione e il soccorso della Grazia divina vengono attirati a partecipare della stessa unità e carità. Vi è anche una ragione particolare, tanto cara e dolce, per cui questo punto di dottrina si presenta con sommo diletto alla Nostra mente. Durante il passato venticinquesimo anno del Nostro Episcopato, con grandissimo compiacimento osservammo una cosa che fece luminosamente risplendere in tutte le parti della terra l’immagine del Corpo mistico di Gesù Cristo: mentre cioè una micidiale e diuturna guerra aveva miseramente infranto la fraterna comunanza delle genti, dovunque Noi abbiamo dei figli in Cristo, tutti, con una sola volontà ed affetto, hanno elevato il pensiero verso il Padre comune che governa in così avversa tempesta la nave della Chiesa Cattolica, portando nel cuore le sollecitudini e le ansietà di tutti. In questa circostanza notammo non soltanto la mirabile unione della famiglia cristiana, ma anche questo fatto innegabile: che come Noi stringiamo al Nostro cuore paterno i popoli di qualsiasi nazione, così da ogni parte i cattolici, benché appartenenti a popoli fra loro belligeranti, guardano al Vicario di Cristo come all’amantissimo Padre di tutti, il quale, ispirato da assoluta imparzialità e da incorrotto giudizio per ambo le parti ed elevandosi al di sopra delle procelle delle umane passioni, prende con tutte le forze la difesa della verità, della giustizia, della carità. Né Ci ha apportato minore consolazione l’aver appreso ch’è stata raccolta spontaneamente e volonterosamente una somma per innalzare in Roma un sacro tempio dedicato al Nostro santissimo Predecessore e Patrono onomastico, il Papa Eugenio I. Pertanto, come questo tempio, da erigersi per volere ed elargizioni di tutti i fedeli, farà perenne ricordo di questo faustissimo evento, così desideriamo che questa Lettera Enciclica renda testimonianza del Nostro animo grato; poiché in essa si tratta appunto di quelle vive pietre umane, le quali, edificate sulla pietra angolare che è Cristo, vengono a formare quel sacro tempio di gran lunga più eccelso d’ogni altro tempio costruito dalle mani, l’abitazione cioè di Dio nello Spirito (cfr. Eph. II, 21-22; I Petr. II, 5). – La Nostra sollecitudine pastorale poi è il principale motivo che Ci fa trattare con una certa ampiezza di questa eccelsa dottrina. Molti punti sono stati messi in luce su questo argomento, né ignoriamo che parecchi si applicano oggi con grande attività al suo studio, donde viene anche fomentata ed alimentata la pietà cristiana. Il che sembra attribuirsi specialmente al fatto che il rinato studio della sacra liturgia, l’uso invalso di accostarsi con maggior frequenza alla Mensa eucaristica e il culto del Cuore sacratissimo di Gesù, che godiamo di veder più diffuso, hanno indotto gli animi di molti ad una più accurata indagine delle investigabili ricchezze di Cristo che si trovano nella Chiesa. A collocare poi questo argomento nella sua luce, molto influirono gli insegnamenti che in questi ultimi tempi furono pubblicati intorno all’Azione Cattolica, i quali resero più stretti i vincoli dei cristiani tra loro e con la Gerarchia ecclesiastica, particolarmente con il Romano Pontefice. Tuttavia, se a buon diritto possiamo godere di quanto abbiamo accennato, pure non si deve negare che circa questa dottrina non solo si spargono gravi errori da coloro che sono separati dalla vera Chiesa, ma si diffondono anche tra i fedeli teorie inesatte o addirittura false, che deviano le menti dal retto sentiero della verità. – Infatti, da una parte perdura il falso razionalismo il quale ritiene completamente assurdo ciò che trascende le forze dell’ingegno umano, e gli associa un altro errore affine (il cosiddetto naturalismo volgare), il quale non vede né vuol riconoscere altro nella Chiesa di Cristo all’infuori dei vincoli puramente giuridici e sociali; dall’altra parte si va introducendo un falso misticismo il quale falsifica la Sacra Scrittura, sforzandosi di rimuovere gli invariabili confini fra le cose create e il Creatore. – Intanto questi falsi ritrovati, opposti tra loro, conducono a questo effetto: alcuni, atterriti da un certo infondato timore, considerano una così elevata dottrina come cosa pericolosa e perciò indietreggiano davanti ad essa, come dal pomo del Paradiso, bello sì, ma proibito. Niente affatto: i misteri rivelati da Dio non possono essere nocivi agli uomini, ne devono restare infruttuosi come un tesoro nascosto nel campo; ma sono stati rivelati appunto pur il vantaggio spirituale di chi piamente li medita. Infatti, come insegna il Concilio Vaticano, “quando la ragione, illuminata dalla fede, indaga con pia e sobria diligenza, può raggiungere, concedendolo Iddio, sufficiente ed utilissima intelligenza dei misteri: sia per analogia con ciò che conosce naturalmente, sia per il nesso dei misteri stessi tra di loro e con il fine ultimo dell’uomo”; quantunque l’umana ragione, come lo stesso sacro Sinodo ammonisce, “non si rende mai atta a penetrarli con la stessa chiarezza di quelle verità che costituiscono il suo naturale oggetto” (Sessio III, Const. de Fide Catholica, c. 4). – Avendo pertanto maturamente considerato queste cose al cospetto di Dio: affinché la bellezza della Chiesa rifulga di nuova gloria, affinché la conoscenza della singolare e soprannaturale nobiltà dei fedeli congiunti nel Corpo di Cristo col proprio Capo, si diffonda, e inoltre affinché sia precluso l’adito ai molteplici errori su questo argomento, abbiamo creduto Nostro dovere pastorale esporre a tutto il popolo cristiano, con questa Lettera Enciclica, la dottrina del Corpo mistico di Cristo e della unione dei fedeli con il divino Redentore nello stesso Corpo, ricavando al tempo stesso dalla medesima dottrina alcuni ammaestramenti, per cui una più alta investigazione di questo mistero produca frutti sempre più abbondanti di perfezione.

PARTE PRIMA

LA CHIESA È IL CORPO MISTICO DI CRISTO

Considerando l’origine di questa dottrina Ci sovvengono sin dall’inizio le parole dell’Apostolo: “Dove abbondò il peccato, sovrabbonda la grazia” (Rom. V, 20). Risulta infatti che il padre di tutto il genere umano fu costituito da Dio in sì eccelsa condizione da tramandare ai posteri, insieme con la vita terrena, anche quella superna della grazia celeste. Sennonché, dopo la misera caduta di Adamo, tutta la stirpe umana, infetta dalla macchia ereditaria del peccato, perdette la partecipazione alla natura di Dio (cfr. II Petr. 1, 4), e tutti diventammo figli dell’ira divina (Eph. II, 5). Ma il misericordiosissimo Iddio “amò talmente il mondo, da dare il Suo unigenito Figlio” (Jo. III, 16), e il Verbo dell’eterno Padre con identico divino amore si assunse dalla progenie di Adamo l’umana natura, innocente però e senza macchia di colpa, affinché dal nuovo Adamo celeste scorresse la grazia dello Spirito Santo in tutti i figli del progenitore. I quali, dopo essere stati privati della figliolanza adottiva di Dio a causa del primo peccato, diventati per l’incarnazione del Verbo fratelli secondo la carne del Figlio unigenito di Dio, hanno ricevuto anch’essi il potere di essere figli di Dio (cfr. Jo. I, 12). E così Gesù pendente dalla Croce non solo risarcì la violata giustizia dell’eterno Padre, ma meritò per noi suoi consanguinei un’ineffabile abbondanza di grazie. Egli avrebbe potuto elargirla da sé a tutto il genere umano; ma volle farlo per mezzo di una Chiesa visibile, nella quale gli uomini si riunissero allo scopo di cooperare tutti con Lui e per mezzo di essa a comunicare vicendevolmente i divini frutti della Redenzione. Come infatti il Verbo di Dio, per redimere gli uomini con i suoi dolori e tormenti, volle servirsi della nostra natura, quasi allo stesso modo, nel decorso dei secoli, si serve della Sua Chiesa per continuare perennemente l’opera incominciata (cfr. Conc. Vat., Const. de Eccl., prol.). – Pertanto, a definire e descrivere questa verace Chiesa di Cristo (che è la Chiesa Santa, Cattolica, Apostolica Romana) (cfr. ibidem, Const. de Fide cath., cap. l), nulla si trova di più nobile, di più grande, di più divino che quella espressione con la quale essa vien chiamata “il Corpo mistico di Gesù Cristo”; espressione che scaturisce e quasi germoglia da ciò che viene frequentemente esposto nella Sacra Scrittura e nei Santi Padri.

LA CHIESA È UN «CORPO»


unico, indiviso, visibile

Che la Chiesa sia un corpo, lo bandiscono spesso i Sacri Testi. “Cristo — dice l’Apostolo — è il Capo del Corpo della Chiesa” (Col. I, 18) orbene, se la Chiesa è un corpo, è necessario che esso sia uno ed indiviso, conforme al detto di Paolo: “Molti siamo un solo corpo in Cristo” (Rom. XII, 5). Né dev’essere soltanto uno e indiviso, ma anche concreto e percepibile, come afferma il Nostro Antecessore Leone XIII di f. m. nella sua Lettera Enciclica “Satis cognitum“: “Per il fatto stesso che è corpo, la Chiesa si discerne con gli occhi” (cfr. A. S. S., XXVIII, pag. 170). Perciò si allontanano dalla verità divina coloro che si immaginano la Chiesa come se non potesse né raggiungersi ne vedersi, quasi che fosse una cosa “pneumatica” (come dicono) per la quale molte comunità di Cristiani, sebbene vicendevolmente separate per fede, tuttavia sarebbero congiunte tra loro da un vincolo invisibile. – Ma il corpo richiede anche moltitudine di membri, i quali siano talmente tra loro connessi da aiutarsi a vicenda. E come nel nostro mortale organismo, quando un membro soffre, gli altri si risentono del suo dolore e vengono in suo aiuto, così nella Chiesa i singoli membri non vivono ciascuno per sé, ma porgono anche aiuto agli altri, offrendosi scambievolmente collaborazione, sia per mutuo conforto sia per un sempre maggiore sviluppo di tutto il Corpo.

composto «organicamente» e «gerarchicamente»

Inoltre, come nella natura delle cose il corpo non è costituito da una qualsiasi congerie di membra, ma deve essere fornito di organi, ossia di membra che non abbiano tutte il medesimo compito, ma siano debitamente coordinate; così la Chiesa, per questo specialmente deve chiamarsi corpo, perché risulta da una retta disposizione e coerente unione di membra fra loro diverse. Né altrimenti l’Apostolo descrive la Chiesa, quando dice: “Come in un sol corpo abbiamo molte membra, e non tutte le membra hanno la stessa azione, così siamo molti un sol corpo in Cristo, e membra gli uni degli altri” (Rom. XII, 4). – Non bisogna però credere che questa organica struttura della Chiesa sia costituita dai soli gradi della Gerarchia e, ad essi limitata, consti unicamente di persone carismatiche (benché Cristiani forniti di doni prodigiosi non mancheranno mai alla Chiesa). Bisogna, sì, ritenere in ogni modo che quanti usufruiscono della Sacra Potestà, sono in un tal Corpo membri primari e principali, poiché per loro mezzo, in virtù del mandato stesso del Redentore i doni di dottore, di re, di sacerdote, diventano perenni. Ma giustamente i Padri della Chiesa, quando lodano i ministeri, i gradi, le professioni, gli stati, gli ordini, gli uffici di questo Corpo, hanno presenti sia coloro che furono iniziati ai sacri Ordini, sia coloro che, abbracciati i consigli evangelici, conducono o una vita operosa tra gli uomini o una vita nascosta nel silenzio o una vita che l’una e l’altra congiunge secondo il proprio istituto; sia coloro che nel secolo si dedicano con volontà fattiva alle opere di misericordia per venire in aiuto alle anime e ai corpi; e infine coloro che son congiunti in casto matrimonio. Anzi, specialmente nelle attuali condizioni, i padri e le madri di famiglia, i padrini e le madrine di Battesimo, e in particolare quei laici che collaborano con la Gerarchia ecclesiastica nel dilatare il regno del divin Redentore, tengono nella società cristiana un posto d’onore, per quanto spesso nascosto, e anch’essi, ispirati ed aiutati da Dio, possono ascendere al vertice della più alta santità, la quale, secondo le promesse di Gesù Cristo, non mancherà mai nella Chiesa.

dotato di mezzi vitali di santificazione
ossia di Sacramenti

Come poi vediamo il corpo umano adorno di mezzi propri con cui provvedere alla vita, alla sanità e all’incremento dei suoi singoli membri, così il Salvatore del genere umano, per sua infinita bontà, provvide in modo mirabile il suo Corpo mistico di Sacramenti, con i quali le membra, quasi attraverso gradi non interrotti di grazie, fossero sostentate dalla culla all’estremo anelito e si sovvenisse con ogni abbondanza alle necessità sociali di tutto il Corpo. Giacché, per il lavacro dell’acqua battesimale, coloro che sono nati a questa vita mortale non solo rinascono dalla morte del peccato e divengono membra della Chiesa, ma sono altresì insigniti di un carattere spirituale, e sono resi capaci di ricevere gli altri Sacramenti. Con il crisma della Confermazione, viene infusa nei credenti una nuova forza, per difendere la Madre Chiesa e custodire quella Fede che da lei ricevettero. Con il Sacramento della Penitenza, si offre una salutare medicina ai membri della Chiesa caduti in peccato, non soltanto per provvedere alla loro salute, ma anche por rimuovere il pericolo di contagio degli altri membri del corpo mistico, ai quali si offrirà anzi un esempio incitante a virtù. Non basta: poiché con la Sacra Eucaristia i fedeli vengono nutriti e corroborati ad uno stesso convito e vengono uniti da un vincolo ineffabile divino fra di loro e col Capo di tutto il Corpo. Infine, agli uomini che si trovano nel languore della morte, la pia Madre Chiesa viene daccanto, e con la sacra Unzione degli infermi, se non sempre, perché così il Signore dispone, ridona al corpo la sanità, offre tuttavia una suprema medicina all’animo ferito, trasmettendo al cielo nuovi cittadini e procurando alla terra nuovi protettori, che per tutti i secoli godranno della divina bontà. – Alle necessità sociali della Chiesa, Cristo provvide in modo particolare con l’istituzione di altri due Sacramenti. Con il Matrimonio infatti, in cui i coniugi sono a vicenda ministri della grazia, si provvede ordinatamente all’accrescimento esterno del consorzio cristiano; e ciò che più importa, alla retta e religiosa educazione della prole, senza la quale un tal Corpo mistico andrebbe incontro a gravissimi pericoli. Con il sacro Ordine poi si consacrano per sempre al servizio di Dio coloro che son destinati a offrire l’Ostia eucaristica, a nutrire il gregge dei fedeli col Pane degli angeli e col pascolo della dottrina, a dirigerli con i precetti e i consigli divini, e a confermarlo nella fede con altri uffici superni. – A questo proposito, si deve aver presente che siccome Dio fin dall’inizio dei tempi formò l’uomo con un corpo fornito dei mezzi necessari a sottomettere le cose create, affinché moltiplicandosi, riempisse la terra, così fin dall’inizio dell’età cristiana provvide la Chiesa dei mezzi opportuni affinché superati innumerevoli pericoli riempisse non solo tutto l’orbe terrestre, ma anche i regni celesti.

formato da membri determinati

In realtà, tra i membri della Chiesa bisogna annoverare esclusivamente quelli che ricevettero il lavacro della rigenerazione, e professando la vera Fede, né da se stessi disgraziatamente si separarono dalla compagine di questo Corpo, né per gravissime colpe commesse ne furono separati dalla legittima autorità. “Poiché — dice l’Apostolo — in un solo spirito tutti noi siamo stati battezzati per essere un solo corpo, o giudei o gentili, o servi, o liberi” (I Cor. XII, 13). Come dunque nel vero ceto dei fedeli si ha un sol Corpo, un solo Spirito, un solo Signore e un solo Battesimo, così non si può avere che una sola Fede (cfr. Eph. IV, 5), sicché chi abbia ricusato di ascoltare la Chiesa, deve, secondo l’ordine di Dio, ritenersi come etnico e pubblicano (cfr. Matth. XVIII, 17). Perciò quelli che son tra loro divisi per ragioni di fede o di governo, non possono vivere nell’unita di tale Corpo e per conseguenza neppure nel suo divino Spirito.

senza esclusione dei peccatori

Neppure deve ritenersi che il Corpo della Chiesa, appunto perché e fregiato del nome di Cristo, anche nel tempo del terreno pellegrinaggio sia composto soltanto di membri che si distinguono nella santità, o di coloro che son predestinati da Dio alla felicità eterna. Infatti si deve attribuire all’infinita misericordia del nostro Salvatore che non neghi ora un posto nel suo mistico Corpo a coloro cui una volta non negò un posto nel convito (cfr. Matth. IX, 11; Marc. 11, 16; Luc. XV, 2). Poiché non ogni delitto commesso, per quanto grave (come lo scisma, l’eresia, l’apostasia) è tale che di sua natura separi l’uomo dal Corpo della Chiesa. Né si estingue ogni vita in coloro che, pur avendo perduto con il peccato la carità e la grazia divina sì da non essere più capaci del premio soprannaturale, conservano tuttavia la Fede e la speranza cristiana, e, illuminati da luce celeste, da interni consigli e impulsi dello Spirito Santo, sono spinti a concepire un salutare timore e vengono eccitati a pregare e a pentirsi dei propri peccati. – Aborriscano quindi tutti il peccato, con il quale vengono macchiate le mistiche membra del Redentore; ma chi dopo aver miseramente mancato, non si rende con la propria ostinatezza indegno della comunione dei fedeli, sia ricevuto con sommo amore, e in lui si ravvisi con carità fattiva un membro infermo di Gesù Cristo. È infatti preferibile, come avverte il Vescovo d’Ippona, “essere risanati nella compagine della Chiesa, anziché esser tagliati dal suo corpo a guisa di membra inguaribili” (August. Epist., CLVII, 3, 22; Migne, P. L., XXIII, 686). “Finché una parte aderisce al corpo, la sua guarigione non è disperata; ciò che invece fu reciso, non può né curarsi né guarirsi” (August. Serm., CXXXVII, 1; Migne, P. L., XXXVIII, 754).

[I – Continua …]

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA (2019)

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA [2019]

Incipit 

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. – [In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus. Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII: 1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.”

Omelia I

ECCELLENZA DELLA CARITÀ 

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

S. PAOLO

“Fratelli: Se parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutto lo scibile, e se avessi tutta la fede così da trasportare i monti, e non ho la carità, non sono nulla. E se distribuissi tutte le mie sostanze in nutrimento ai poveri ed offrissi il mio corpo a esser arso, e non ho la carità, nulla migiova. La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, non si gonfia, non è burbanzosa, non cerca il proprio interesse, non s’irrita, non pensa al male; non si compiace dell’ingiustizia, ma gode della verità: tutto crede, tutto spera, tutta sopporta. La carità non verrà mai meno. Saranno, invece, abolite le profezie, anche le lingue cesseranno, e la scienza pure avrà fine. Perché la nostra conoscenza è imperfetta, e imperfettamente profetiamo; quando, poi, sarà venuto ciò che è perfetto, finirà ciò che è imperfetto. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, giudicavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma diventato uomo, ho smesso ciò che era da bambino. Adesso noi vediamo attraverso uno specchio, in modo oscuro; ma allora, a faccia a faccia. Ora conosco in parte; allora, invece, conoscerò così, come anch’io sono conosciuto. Adesso queste tre cose rimangono: la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di esse è la carità”. (1. Cor. XIII, 1-13).

I diversi doni spirituali, di cui erano stati abbondantemente arricchiti i fedeli di Corinto, dovevano essere tenuti tutti nel medesimo pregio. Se alcuni avevano doni più appariscenti degli altri, li avevano avuti da Dio, che distribuisce le grazie come a lui piace. Questi doni poi, come le membra di un sol corpo, dovevano concorrere a vicenda nel promuovere il bene comune, della Chiesa. Nessuno, dunque, deve invidiare i doni degli altri. Del resto c’è un bene molto più desiderabile di tutti questi doni: la carità. Di questa l’Apostolo dimostra l’eccellenza nell’epistola di quest’oggi. Essa, infatti.

1. È necessaria più di tutti i doni,

2. È l’anima di tutte le virtù,

3. Dura nella vita eterna.

1.

Se parlassi le lingue degli. uomini e degli Angeli e non ho carità, sono come un bronzo sonante o un cembalo squillante.

I doni che qui enumera S. Paolo sono di grandeimportanza. Parlar lingue sconosciute; parlar come parlano tra loro gli Angeli in cielo; predire il futuro;intendere i misteri, spiegarli e persuaderli agli altri; avere il dono d’una fede, che all’occorrenza operi prodigi strepitosi, come il trasporto delle montagne; aver l’eroismo di distribuire tutte le proprie sostanze, di gettarsi nel fuoco o di sacrificare, comunque, la propria vita persalvare quella degli altri, non è certamente da tutti. Ilpossedere uno solo di questi doni, il compiere una soladi queste azioni, basterebbe a formare la grandezza diun uomo.S. Paolo, che doveva conoscer bene tutti questi doni, da quello di parlar lingue straniere a quello di voler sacrificarsi per il prossimo, afferma che. son superati daun altro bene: la carità. È tanto grande la carità, che senza di essa tutti gli altri doni mancano di pregio. È vero che questi doni non sono inutili per coloro, in cui il favore di Dio li concede; ma sono inutili, senza la carità,per il bene spirituale di chi li possiede. Sono come il danaroche uno distribuisce agli altri, non serbando nulla persé. Arricchisce gli altri, ed egli si trova in miseria. Che giova a Balaam predire, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, la grandezza d’Israele, quando egli si fa ispiratore di prevaricazioni abominevoli, perché sopra Israele cadano i tremendi castighi di Dio? (Num. XXIV, 2 ss.) Che giova a Giuda aver avuto il mandato di predicare il regno di Dio e di risanare gli infermi? Anche coi doni più eccellenti, anche con le azioni più eroiche non cessiamo di essere iniqui agli occhi di Dio, se ci manca la carità. Gesù Cristo ci fa sapere che molti nel giorno del giudizio diranno: «Signore, non abbiamo noi profetato nel nome tuo, e non abbiamo nel tuo nome cacciato i demoni, e nel nome tuo non abbiam fatto molti prodigi?» Ma Gesù dirà loro: «Non v’ho mai conosciuti: ritiratevi da me, operatori d’iniquità» (Matt. VII, 22-23). Come possono essere operatori d’iniquità, coloro che compiono tali prodigi nel nome di Dio? Intanto uno è iniquo, in quanto non possiede la carità. «Chi non possiede la carità è senza Dio» (S. Pier Grisol. Serm. 53). E lontani da Dio non si può esser che suoi nemici, meritevoli della sua maledizione. Anche senza doni straordinari, anche senza l’opportunità di compiere atti eroici, a tutto basta, a tutto supplisce la carità. «Io credo — dice S. Agostino — che questa sia quella margherita preziosa, della quale sta scritto nel Santo Vangelo che, un mercante, trovatola dopo una lunga ricerca, vendette tutte le cose che aveva per poterla comperare. Questa preziosa margherita è la carità, senza la quale nulla ti giova di quanto possiedi: questa sola, se l’hai, ti può bastare. ((2) In Ep. Ioa. Tract. 5, n. 7).

2.

 La carità è paziente, è benigna. La carità non è invidiosa, non è avventata, ecc.  – L’Apostolo, dopo aver dettoche la carità è più eccellente di qualsiasi dono, passaa mostrarne i caratteri. S. Gerolamo, riportata questadescrizione, conchiude : «La carità è la madre di tuttele virtù » (Ep. 82, 11 ad Theoph.). Per la carità noi amiamo Dio per se stesso e il prossimo per amor di Dio. Questo amore dev’essere necessariamente l’anima di tutte le nostre azioni, sia che riguardino Dio, sia che riguardino il prossimo. Così, la città spinse gli Apostoli alla conquista del mondo, e li rese forti e costanti a traverso tutte le difficoltà. La carità sostenne fino all’ultimo i martiri, rendendoli trionfatori dei più raffinati tormenti. La carità rese prudenti i confessori contro tutte le insidie, e li fece perseverare nella via retta dei comandamenti. La carità fa vivere sulla terra angeli in carne, e adorna questa misera valle di lagrime dei fiori d’ogni virtù. Essa stacca da questa terra il cuor dell’uomo e lo accende del desiderio di unirsi a Dio così da poter dire con l’Apostolo: «Bramo di sciogliermi dal corpo per essere con Cristo» (Filipp. 1, 23). Nelle relazioni col prossimo la carità ci fa esercitare la mansuetudine, la pazienza, la mortificazione dell’amor proprio, l’umiltà, il disinteresse. Essa ci spinge a toglier disordini, ad allontanare scandali, a sopprimere abusi, a evitar liti, a estinguere odi. Se tutti gli uomini nelle loro relazioni fossero guidati nella carità, non ci sarebbero più tribunali. La carità, insomma, indirizza, perfeziona, innalza, avvalora, santifica tutte le nostre azioni. Ecco perché i Santi cercavano di progredire sempre più nella carità, anteponendola, nella stima, a tutte le grande azioni. Un giorno si vollero fare congratulazioni al Beato Bellarmino per tutto quello che aveva fatto in servizio della Chiesa. Ma il Beato respinge prontamente la lode con queste belle parole: «Una piccola dramma di carità val più di quanto io possa aver fatto» (Raitz. von Frentz. Der ehrw. Kardinal Rob. Bellarm. Freiburg, 1923, p. 141).

3.

L’eccellenza della carità risalta ancor più dal fatto che durerà eternamente. La carità non verrà mai meno. In cielo non ci saranno più profezie, non ci sarà più il dono delle lingue, non essendovi alcuno che abbia bisogno di essere istruito. Ci sarà ancora, invece, la carità. Su questa terra abbiam bisogno della fede, della speranza e della carità, che sono come i tre organi essenziali della vita cristiana, e sono, quindi, indispensabili per la nostra santificazione. Ma la fede e la speranza cesseranno nell’altra vita, L’Angelo sveglia S. Pietro nell’oscurità del carcere, lo guida a traverso le tenebre e le guardie, e scompare. L’Angelo Raffaele fa da guida a Tobia nel viaggio a Rages, lo libera nei pericoli, lo sostiene nella sua opera, ma un giorno dice: « Ora è tempo che io torni a Colui che mi ha mandato » (Tob. XII, 20). – La fede ci fa da guida in questa vita, mostrandoci la via che conduce al cielo. La speranza ci preserva dallo scoraggiamento, e, mostrandoci i beni della patria celeste, accende la nostra carità, la quale, a traverso a qualunque ostacolo, ci fa pervenire alla meta sperata. Qui, il compito della fede e della speranza è finito. Quando vediamo ciò che la fede insegna, essa cessa di sussistere: quando possediamo ciò che si sperava cessa la speranza. Solamente la carità non si ferma alla soglia della seconda vita. Essa vi entra con noi, ed entra nel regno suo proprio. Alla fede sottentrerà la visione di Dio; alla speranza sottentrerà la beatitudine: ma nulla sottentrerà alla carità, la quale, anzi, vi avvamperà maggiormente. Se quaggiù, non conoscendo Dio che per la fede, lo amiamo; quanto più deve crescere il nostro amore quando lo vedremo svelatamente? Quando contempleremo la sua bellezza che supera la bellezza delle anime più giuste e più sante; che supera la bellezza di tutti gli spiriti celesti più eccelsi; che supera tutto ciò che di bello e di buono si può immaginare, la nostra carità non avrà più limiti. Tutti gli ostacoli che quaggiù si oppongono alla carità, lassù saranno tolti. Tutto, invece, servirà ad accenderla. Se Dio non ci ha dato doni straordinari; se non abbiamo un forte ingegno, un’istruzione profonda: se non possediamo beni di fortuna: se la salute non è di ferro; se il nostro aspetto non è gradevole: non siamo inferiori, davanti a Dio, a tutti quelli che posseggono questi doni, qualora abbiamo la carità. Anzi siamo a essi immensamente superiori, se tutti questi loro doni non sono accompagnati dalla carità. Noi dobbiam curare di essere accetti agli occhi di Dio. In fondo, è un niente tutto quel che non è Dio. « Dio è Carità » (1 Giov. IV, 8). In questa fornace ardente accendiamo i nostri cuori qui in terra, se vogliamo andare un giorno a inebriarci in Dio su nel Cielo.

 Graduale:

Ps LXXVI:15; LXXVI:16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam. . [Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto: Ps XCIX:1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII:31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921] SPIEGAZIONE XIV

In quel tempo prese seco Gesù i dodici Apostoli, e disse loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto da1 profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperocché sarà dato nelle mani de’ Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia, e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. Ed essi nulla compresero di tutto questo, e un tal parlare era oscuro per essi, e non intendevano quel che loro si diceva. Ed avvicinandosi Egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. E sclamò, e disse: Gesù figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano perché si chetasse. Ma egli sempre più esclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che gliel menassero dinnanzi: E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: “Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio. (Luc. XVIII, 31-43).

Il divin Redentore era ormai giunto al termine della sua vita privata e pubblica. Quanti sublimi esempi aveva egli dato agli uomini! Quante verità aveva loro insegnato! E quanti benefizi aveva loro compartiti! Eppure molti lo odiavano e lo cercavano a morte. Anzi in Gerusalemme i pontefici ed i farisei avevano mandato un ordine che chi sapesse dove si fosse, ne desse avviso, affine di averlo nelle mani. Tuttavia Gesù, sapendo che l’ora sua non era ancor venuta, si teneva nascosto in luogo appartato, dedicandosi interamente alla coltura de’ suoi discepoli. Ma avvicinandosi la festa di Pasqua, vedendo Gesù come pure avvicinavasi il tempo del suo sacrificio, con ferma risoluzione e con magnanima intrepidezza si mise in via per recarsi a Gerusalemme. E fu appunto in questo viaggio che il divin Redentore pronunziò le parole ed operò il miracolo, che si riferiscono nel Vangelo di questa mattina, e che noi considereremo alquanto per nostro ammaestramento.

1. Camminava adunque Gesù verso di Gerusalemme, e lungo la via sembrava più pensieroso del solito. Spesso camminava solo, davanti ai suoi discepoli; e questi lo seguivano spaventati senza osare di avvicinarlo ed interrogarlo. – Ma Gesù ad un tratto appressati a sé i dodici Apostoli, prese a dir loro: Ecco che noi andiamo a Gerusalemme, e si adempirà tutto quello che è stato scritto dai profeti intorno al Figliuolo dell’uomo. Imperciocché sarà dato nelle mani dei Gentili, e sarà schernito e flagellato, e gli sarà sputato in faccia: e dopo che l’avran flagellato, lo uccideranno, ed ei risorgerà il terzo giorno. –Così parlava Gesù durante il suo cammino. Non era certamente quella la prima volta che Gesù annunziava ai suoi discepoli i suoi patimenti e la crudeltà degli uomini che lo avrebbero fatto morire. Ma poiché il tempo della sua morte si avvicinava, Egli volle ancor un’altra volta entrare nei particolari, ridire le circostanze della sua passione, e fermare il pensiero sopra della morte che avrebbe incontrata. Egli per tal modo dava una importante lezione anche a noi. Egli ci insegnava ad occuparci anche noi della morte nostra, affinché con questo pensiero nella mente attendiamo a prepararvici in modo da assicurarci la beata eternità. Che se questo pensiero è salutarissimo in ogni tempo, quanto più lo è in questi giorni, in cui il mondo cerca di trascinare gli uomini nelle più pazze e nei più rei disordini! Ed è appunto perciò che la Chiesa, come a far cessare simili traviamenti, di questa settimana prendendo tra le sue mani le ceneri benedette e ponendocele sulla fronte ci invita a considerare la morte. E noi entrando nelle sue mire consideriamola un istante fin d’adesso. E per ben considerare che cosa sia la morte, andiamo col pensiero intorno al letto di un moribondo e in presenza di lui leggiamo il decreto, che Dio fa sentire a tutti gli uomini per bocca dell’Apostolo S. Paolo: È stabilito che tutti gli uomini debbano una volta morire. Tutti quelli che vissero dal principio del mondo fino adesso, tutti dovettero sottoporsi a questo decreto. Non vi è né scienza, né potenza, né sanità, né robustezza che possa resistere alla morte. Dice S. Agostino che si resiste al ferro, al fuoco, all’acqua, ma chi può resistere alla morte? Andiamo a cercare chi esista ancora di tanti re, monarchi, imperatori, che vissero ne’ tempi passati; tutti mutarono paese e se ne andarono all’eternità. Di essi più non rimane se non qualche iscrizione sopra la loro tomba, e se apriamo gli stessi loro sepolcri altro più non vediamo che un pugno di cenere, che in breve sarà dispersa coll’altra polvere della terra. Dice S. Bernardo: Dimmi, dove sono gli amatori del mondo? Ed egli medesimo risponde: Niente rimase di loro se non vermi e polvere. Almeno sapessimo il luogo e l’ora di nostra morte: ma no, dice il Salvatore, essa verrà quando meno ve lo pensate. Può essere che la morte ci sorprenda nel nostro letto, sul lavoro, per istrada od altrove. Una malattia, una febbre, un accidente, qualche cosa che cada addosso, un colpo di assassino, un fulmine, sono tutte cose che tolsero a tanti la vita e possono torla egualmente a noi. Ciò può essere da qui ad un anno, da qui ad un mese, ad una settimana, ad un giorno, ad un’ora, ad un’istante. Miei cari, se la morte ci colpisse in questo momento che sarebbe dell’anima nostra? Guai a noi, se non ci teniamo preparati; chi oggi non è preparato a morir bene, corre grave pericolo di morir male. Forse potremo lusingarci, che la morte non venga per noi? Niuno fu mai così stolto da credersi esente dalla morte. Il decreto di morte è per tutti. L’ora della nostra morte verrà, essa è certa. Verrà quel giorno, quella sera, in cui ci troveremo anche noi stesi su di un letto. Se Dio ci concederà un tal favore, avremo un sacerdote a noi vicino, il quale col santo Crocifisso in mano verrà raccomandandoci l’anima al Signore. I parenti e gli amici ne faranno corona piangendo. Oh se noi potessimo presentemente riflettere sui pensieri, che correranno alla nostra mente in quell’ultimo istante di vita! Ora il demonio per indurci a peccare copre e scusa le colpe, ma in morte ne scoprirà la gravezza e ce le metterà innanzi. Ma che fare in quel terribile momento, in cui dobbiamo incamminarci per la eternità? Terribile momento, da cui dipende la nostra eterna salute, o la nostra eterna dannazione. Vicini a quell’ultimo chiuder di bocca ci sarà accesa una candela quasi per far lume all’anima nostra ad intraprendere il cammino dell’eternità. Due volte ci si tiene accesa innanzi una candela: quando siamo battezzati e al punto di morte. La prima volta vediamo i precetti della legge di Dio; la seconda volta conosceremo se furono da noi osservati. Perciò, o miei cari, alla luce di questa candela vedrete se avete amato il vostro Dio, oppure se l’avete disprezzato; se avete avuto in onore il suo santo nome, o lo avete bestemmiato; vedrete lo scandalo dato, la roba non restituita, l’onore del prossimo non riparato; vedrete le confessioni fatte senza dolore, o senza proponimento… Ma oh Dio! tutto vedrete in un momento, nel quale agli occhi vostri si aprirà la vita dell’eternità. O punto, o momento, da cui dipende un’eternità di gloria o di pena! Capite, o miei cari? D a quel momento dipende l’andar per sempre in Paradiso, o per sempre all’Inferno; o sempre contenti o sempre afflitti; o sempre figli di Dio o sempre schiavi del demonio; o sempre godere con gli Angioli e coi Santi in cielo, o gemere ed ardere per sempre coi dannati all’inferno.

2. Ma ritornando ora al Santo Vangelo, vi troviamo scritto che gli Apostoli nulla compresero di quanto Gesù Cristo aveva detto riguardo alla sua passione, morte e risurrezione; che un tal parlare era oscuro per essi e non intendevano quel che loro

si diceva. Ora, come mai, si domanda S. Giovanni Crisostomo, gli Apostoli non intendevano quel cheloro diceva il Divin Maestro? Ecco, risponde lo stesso santo Padre: gli Apostoli vedevano bene, perché il Figliuol di Dio diceva loro che doveva morire; ma non vedevano ancora né il mistero di questa morte, né il bene che doveva derivarne a tutto l’universo; ben sapevano che dei morti potevano essere risuscitati da viventi, ma non capivano che un morto potesse risuscitare se stesso, e risuscitarsi per non più morire. Non sapevano quale doveva essere il genere della sua morte: ed oltreché questo parlare di morte li turbava in generale, le particolari circostanze di scherni, oltraggi e sferzate vieppiù li sorprendevano; è perciò che si trovavano in una grande angustia di spirito, ed ora credevano, ora non credevano, e non potevano ben capire ciò chelor si dicesse. Ma sapete, o miei cari, la gran difficoltà che arrestava gli Apostoli ed impediva lorol’intelligenza delle parole del Divin Maestro e lidava in balla ad una profonda tristezza? Era l’avversione che avevano al patire. Volentieri domandavano un trono al lato di Gesù nella gloria: ma il suo calice d’amarezza, ma le umiliazionie i suoi patimenti non si sentivano il coraggio di incontrarli.Or ecco la ragione per cui tanti giovani e tanti Cristiani rifuggono dall’intendere e riconoscere l’importanza della pietà cristiana; perché la sua pratica va incontro agli insulti, agli oltraggi, alle persecuzioni del mondo. Sì, certo, il disprezzo, l’insulto, la persecuzione è cosa che come a veri Cristiani non ci può mancare. Gesù Cristo, come predisse la sua passione, così predisse ancora quella, che sarebbe toccata ai suoi seguaci. Egli lo ha detto chiaro agli Apostoli, e nella persona degli Apostoli a tutti : « Vos in mundo pressuram habébitis: voi nel mondo patirete pressure (Joan. XVI, 33). Vi malediranno,vi perseguiteranno, vi metteranno le mani addosso, ve ne faranno d’ogni sorta: non est discipulus super magistrum (Matt. X, 24); il discepolo non sarà trattato diversamente dal maestro; e come ora i maligni si scagliano contro di me, così un giorno si scaglieranno contro di voi ».Così ha parlato Gesù Cristo, epperò l’Apostolo S. Paolo non è altro che l’eco fedele di Lui, quando dice « che tutti quelli che vogliono vivere piamente in Gesù Cristo soffriranno persecuzioni: Omnes qui pie volunt vivere in Christo Iesu persecutionem patìentur (2 Tim. III, 12). » E difatti che non si dice contro quel giovane, quel Cristiano, perché frequentano la Chiesa e i Sacramenti, non bestemmiano e non partecipano a cattivi discorsi ed a male azioni? Che sono gente devota, imbecille, ignorante e mille altre cose. Ma intanto che accade in ciò? che molti giovani e molti Cristiani abborrendo da simili disprezzi, lasciano eziandio, non ostante la voce della coscienza, la pratica della cristiana pietà. Che ciò non avvenga mai di alcuno di noi. Riflettiamo bene: Gesù Cristo, che fu in su la terra il primo disprezzato, è ora in cielo il primo esaltato. E dopo Gesù sono pur anche per questa ragione esaltati i Santi, i quali, credetelo, se in cielo potessero ancora desiderare qualche cosa, desidererebbero certamente di poter venire ancora in terra per patire ed essere disprezzati di più di quel che lo siano stati. Or bene quella sarà pure la nostra sorte, se soffriremo ora volentieri le ingiurie, i disprezzi, le persecuzioni dei cattivi. Gesù Cristo lo ha detto, ed Egli non falla: « Beati qui persecutionem patiuntur propter iustitiam, quoniam ipsornm est regnum cœlorum (Matt. V, 10). Beati quelli che soffriranno persecuzioni per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli ». Ora noi siamo i derisi, i disprezzati, i perseguitati, e i nostri avversari ridono, sghignazzano, trionfano. Ma verrà un giorno, nel quale le sorti saranno ben mutate. E sarà il giorno dell’universale giudizio, in cui i malvagi trovandosi alla sinistra e vedendo noi alla destra diranno: Ecco là coloro, che noi insensati chiamavamo stolti; le loro opere ci sembravano una vergogna; la vita, che essi menavano ci metteva orrore, tanto appariva miserabile agli occhi nostri; tenevamo per vili le loro persone e credevamo disonorarci coll’entrare in loro compagnia. Ma ora il fatto prova, che i saggi erano essi, e gli stolti noi, caduti adesso nella disperazione e nella infelicità. Disgraziati che siamo! Oh se fossimo stati virtuosi anche noi! Se anche noi avessimo fatto il bene come quei fortunati! Ma noi li abbiamo beffati in mezzo alle nostre passate delizie, ed ora eccoli essi circondati di fiori e coronati di gloria in mezzo ai Santi: « Nos insensati, vitam illorum æstimabamus insaniam et finem illorum sine honore: ecce quomodo computati sunt inter fllios Dei et inter Sanctos sors illorum est (Sap. V , 4) ». E mentre noi, se avremo patito volentieri le persecuzionie le maledizioni del mondo, ci sentiremo a benedire da Dio ed a invitare da Lui al possessodel regno dei cieli: « Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi (Matt. XXV, 34): i malvagi si sentiranno invece da Dio medesimo a maledire per sempre: Discedite a me, maledicti, in ignem æternum. (Ibid.41) ». In quel giorno adunque, in cui noi siamo insultati e perseguitati per la nostra fede, a somiglianza dei Santi « rallegriamoci, pensando che in Paradiso ci sta preparata una gran mercede per i nostri patimenti: Gaudete et erultate in illa die, quoniam merces vestra copiosa est in coelis (Matt. V, 12)».

3. Passa quindi il Vangelo a narrarci un bel miracolo operato da nostro Signore nelle vicinanze di Gerico. Ed avvicinandosi egli a Gerico, un cieco se ne stava presso della strada, accattando. E udendo la turba che passava, domandava quel che si fosse. E gli dissero che passava Gesù Nazareno. Esclamò, e disse: Gesù Figliuolo di David, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi, lo sgridavano, perché si chetasse. Ma egli sempre più sclamava: Figliuolo di David, abbi pietà di me. E Gesù soffermatosi, comandò che glielo menassero dinanzi. E quando gli fu vicino lo interrogò, dicendo: Che vuoi tu ch’Io ti faccia? E quegli disse: Signore, ch’io vegga. E Gesù dissegli: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E subito quegli vide, e gli andava dietro glorificando Dio. E tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio. – In questo fatto del santo Vangelo è certamente ammirabile il desiderio grande, che quel cieco di Gerico aveva di guarire dalla sua cecità, tanto che saputo che presso a lui passava Gesù, e credendo con vivissima fede che poteva guarirlo, si pose a gridare forte: Figliuolo di David, abbi pietà di me; e non lasciò di gridare mai, benché i circostanti gli dicessero di tacere, finché Gesù lo fece condurre a sé e lo guarì con la sua onnipotente parola. Ora questa brama così viva in questo cieco di guarire dalla sua cecità è uno strano contrasto con tanti altri ciechi, che si trovano in una cecità molto più deplorevole e dalla quale pensano poco o nulla a guarire. Questa cecità è quella cagionata in un’anima che si abbandona abitualmente al peccato. S. Giovanni Crisostomo arreca a questo proposito l’esempio scritturale di Giona. Egli riceve l’ordine da Dio di recarsi a Ninive; ma egli rifiuta di obbedire e quindi pecca. Il misero allora che risolve? S’imbarca a Ioppe per farsi trasportare a Tarso e fuggire dalla taccia del Signore. Possibile?! un profeta può cadere in errore sì grossolano? Doveva pur sapere che era cosa impossibile sottrarsi dalla vista e dalle mani dell’Onnipotente. Non aveva mai considerate quelle parole del Salmista: « Ove andrò io per nascondermi al vostro spirito, ed ove fuggirò per togliermi dalla vostra vista? .Nelle viscere della terra? Ma essa è tutta sotto il dominio del Signore. Mi sprofonderò negli abissi dell’inferno? Ma anche colà voi siete presente, o mio Dio. M’ingolferò nei gorghi del mare? Ma voi dappertutto tenete estesa la vostra mano sopra di me ». Tutto questo non poteva ignorare Giona; eppure fugge e calcola di sottrarsi dalla vista e dalla potenza di Dio sdegnato. Perché un’ignoranza tanto incredibile? Il misero è in uno stato di cecità prodotta dal suo peccato. Chi fa il male, dice Gesù Cristo, odia la luce. Come in una profonda oscurità non si distinguono gli oggetti, così nel peccato non si vede più nulla; tutto è tenebre e confusione; il peccatore si trova come in uno stato di ebbrezza. Non vede il pericolo di dannazione eterna che gli sovrasta, l’inferno che sta spalancato ai suoi piedi, la spada ultrice della divina giustizia, che pende sopra il suo capo e che da un istante all’altro può scaricare l’ultimo colpo. La fede è languida e fiacca, e va sempre più indebolendosi, finché a lungo andare si perde totalmente. Pur troppo questo è lo stato di cecità, a cui giungono certi peccatori, che si abusano della divina bontà. E quel che è peggio si è che giunti a questo stato non pensano punto a guarirne. Così vanno innanzi talora i mesi e gli anni senza darsi alcun pensiero della loro miserabile condizione. È bensì vero che Gesù si degna ancora di passar loro vicino con qualche ispirazione, con qualche buon suggerimento e persino alle volte con le turbe dei buoni Cristiani che, partecipando alle grandi manifestazioni religiose, fanno sentire la presenza di Gesù in mezzo agli uomini, contuttociò essi non si commuovono punto e non si risolvono di ricorrere a chi può ridonar loro la vista. Oh se caso mai vi fosse qui tra noi chi si trovasse in sì deplorevole stato di cecità, non tardi più a sollevare con viva fede e con umiltà profonda la sua voce sino a Gesù Cristo e a chiedergli che ne lo liberi e lo faccia vedere. E se vorrà davvero guarire dalla sua infermità, Gesù infinitamente buono non mancherà d’aiutarlo, di aprirgli la intelligenza per conoscere il suo stato, pentirsene e riacquistare la luce della grazia. Tutti poi domandiamo spesso al Signore che ci faccia vedere i doveri che abbiamo da eseguire, le virtù che abbiamo da praticare, i pericoli che dobbiamo temere, affinché tra gli splendori della sua luce, possiamo camminare diritti a quella meta, cui siamo destinati.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui. [Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio Ps LXXVII: 29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo. [Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem … [Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

LO SCUDO DELLA FEDE (51)

LO SCUDO DELLA FEDE (51)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PREFAZIONE .

Gesù Cristo Signor nostro ci avvertì che vegliassimo di continuo e pregassimo per non essere sedotti dalle tentazioni: ci fece sapere che queste sarebbero state di più specie. e che non sarebbero mancate tra esse neppure le eresie. Bisogna, dice Egli, che vi siano eresie, affinché quelli che sono approvati, siano da voi riconosciuti (1 Cor. XI, 19.). Difatti, fino dai primi tempi non mancarono Simone il mago, Ebione, Cerinto, gli Gnostici ed altri di spargere il loro veleno; ed i SS. Apostoli ed i loro successori premunirono i fedeli a non lasciarsi corrompere da loro. Più tardi sorsero Ario, Nestorio, Eutiche, Macedonio ed altri, i quali lacerarono anch’essi il seno di Santa Chiesa e fecero sì che si scoprissero quali fossero i veri fedeli. Nei secoli ultimi sorsero Lutero, Calvino, Zuinglio, Arrigo VIII con altri senza numero i quali giungono infino a noi, e son quelli che chiamiamo Protestanti. Ora questi sono coloro con cui abbiamo da combattere noi, se vogliamo serbarci fedeli a Dio. – Vi meraviglierete forse che il Signore abbia permesso che nella sua Chiesa sempre vi fossero di questi mostri che pericolassero la nostra Fede e con la Fede la nostra eterna

salvezza: eppure è questo un consiglio profondissimo e savissimo dì Provvidenza. – Gesù non vuol dare il S. Paradiso agli oziosi, ai negligenti, a quelli che non combattono per suo onore e che non vincono con la sua grazia, e però permette che vi siano questi combattimenti, perché si vegga fin dove si stende la nostra fedeltà ed il nostro amore per Lui. Fintantoché tutto è in pace, non è gran merito mantenersi fedele alla Santa Chiesa: il merito è allora che vi sono delle turbazioni, che vi sono degli eretici che seminano l’errore e che fanno brighe con arti e seduzioni e libri perversi ed altre macchinazioni per indurci ad abbracciarlo. Allora si vede se noi siamo ben fondati sopra la pietra immobile che è la S. Chiesa, se noi ci fidiamo di lei, se noi resistiamo contro tutti questi nemici con gran coraggio e se li allontaniamo da noi con tutto l’orrore. Quando è che si vedeil valore del soldato? Quando tutto è in pace no, ma bensì nel tempo della guerra. Quando è che si vede la destrezza del pilota che guida la nave? Quando il vento è quieto ed il mare tranquillo no, ma bensì quando il mare è agitato ed infuria la tempesta. Quando è che il contadino mostra tutta la sua perizia della campagna? Nell’inverno quando non si può lavorare no, ma bensì quando viene la stagione in cui gli si moltiplicano le fatiche. – Il simile dite voi nel nostro caso; quando è che il Cristiano dimostra la sua virtù, la sua fedeltà a Dio e l’amore che gli porta? Quando tutto va in pace no, ma bensì quando insorgono gli eretici, quando da loro è tentato, è assalito, e messo al cimento di abbandonare la sua Fede. – Provata così la nostra fede, il nostro amore, che cosa fa Gesù? Quello che fate voi col grano che avete ventilato. Tutto quello che il vento ha portato via, perché non aveva peso né sodezza, come è la pula, come è la paglia, si getta al fuoco: quello che è rimasto sull’aia, come è il frumento eletto, si ripone nei granai per farne tesoro. Così Gesù condanna gl’infedeli al fuoco dell’inferno, mentre trapianta gli altri nel suo eterno giardino. Perché dunque non v’incolga la disgrazia di perdervi che sarebbe poi irreparabile per tutta l’eternità, io intendo prevenirvi degli errori a cui vi vorrebbero trascinare, mostrandovi la falsità del Protestantismo che essi vi propongono, le male arti con cui ve lo rendono credibile, ed i beni che verrebbero a rapirvi, ed i mali in cui vi precipiterebbero se riuscissero presso di voi nell’iniquo divisamento. Dopo di che vi suggerirò il modo con cui dovete difendervi da loro: perché dove essi speravano di vincervi si trovino vinti da voi, e voi mostrando a Dio la vostra fedeltà, gli diventiate più cari per quella via medesima, per cui essi vi volevano far diventare suoi  nemici. – Vero è che in questa trattazione io non posso valermi di molte ragioni con cui si può difendere la causa nobilissima della Chiesa e della verità: perché altre di esse richiederebbero ingegni avvezzi alla speculazione, o menti non digiune di erudizione, o almeno maggior copia di tempo per meditarle; tuttavia quelle che addurrò congiungeranno colla facilità e semplicità tal forza e tal saldezza, che con l’aiuto divino saranno bastevoli ad illuminare le vostre menti con sana dottrina, e ad infiammare i vostri cuori nell’amore di essa. – Mi sono studiato eziandio per quanto ho potuto di esporvele con ogni chiarezza aggiustando il modo di dire alla vostra capacità, imitando colui che mai non parlava senza parabole (Matt. XXIV, 34) per fare a tutti discendere la verità. Gesù che è la luce che illumina ogni uomo che vien sulla terra (Joan. I. 9.), si compiaccia di farsi luce nostra, e ci guidi per modo che declinando tutti gli errori e seguitando la verità scampiamo dalle tenebre sempiterne, e perveniamo a regnare un giorno nella luce pienissima della beata eternità.

PARTE PRIMA:

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO PRIMO.

SI CONVINCE  FALSO IL P OTESTANTISMO DALLA PERSONA DE’ SUOI FONDATORI.

Il Protestantismo, ad abbracciare il quale vi invitano certi iniqui, è una religione che ha due parti, l’una è quella che mostra al di fuori, l’altra che serba al di dentro. L’esteriore è una maschera con cui inganna, l’interiore è un coltello con cui uccide; appunto come certe serpi che hanno una pelle tutta lucente d’oro e di argento, ma che hanno poi al di dentro un veleno micidialissimo. Nell’esterno finge un grande amore alla divina parola, una gran brama di onorare Iddio in ispirito e verità, un grande orrore ad ogni superstizione, una grande carità verso del prossimo etc. etc. Nell’interno è un grande atto di ribellione a sua Divina Maestà ed alla S. Chiesa, un gran dispregio di quello che appartiene al divin culto, una sorgente di libertinaggio e di mal costume, un atto di orgoglio più che diabolico. – Siccome però io non mi contento di affermare tutto ciò, così ne addurrò le prove cominciando dalle persone che gli diedero origine. I Protestanti affermano che essi sono stati suscitati da Dio nel secolo decimo sesto a riformare la Chiesa, poiché era tutta caduta in errore. Ora vogliamo noi credere che Iddio a riformare la S. Chiesa voglia adoperare gli uomini più iniqui che siano stati al mondo? Quelli che Iddio ebbe costume di mandare quando volle non riformare la Chiesa, ma riformare i Fedeli, furono sempre uomini della più segnalata bontà. Nell’antico Testamento mandava i suoi Profeti, nel nuovo mandava i suoi Apostoli, i suoi Santi, e fino a questi ultimi tempi furono celebri i grandi e veri riformatori del popolo Cristiano, S. Antonio da Padova, S. Bernardino da Siena, S. Vincenzo Ferreri, S. Francesco Saverio, S. Carlo, il B. Leonardo, S. Alfonso dei Liguori ed altri imitatori delle loro virtù. Imperocché per insegnare la virtù, la perfezione, la santità, per ritrarre dall’errore i popoli, bisogna prima esser Santi, illuminati, di vita incolpabile. Ora chi sono stati questi grandi riformatori Protestanti? Volete conoscerli? – Il primo e principale fu Lutero, uomo pieno di superbia in guisa che maltrattava tutti i Grandi della terra e che con diabolico orgoglio giunse ad anteporsi anche ai più gran Santi della Chiesa: uomo ripieno di ogni lascivia e bruttura, che rubò ad un monastero una sposa di Gesù Cristo per farla sua moglie: scostumato e bevitore sì che passava tutto il giorno crapulando e sbevazzando alla taverna dell’Aquila nera di Vittemberga sua patria: bestemmiatore fino al punto di chiamare il demonio nostro principe e dio: scandaloso a segno di allontanare tutti i Cristiani dal far opere buone. Neghino, se possono i Protestanti che questo sia stato il loro maestro ed il loro capo. – Emulo di Lutero fa Zuinglio superbo al pari di lui, corrompitore e falsificatore delle Sante Scritture così solenne che glielo rinfacciarono infino i suoi seguaci Protestanti. Dedito in tutta sua vita ad affari mondani e secolareschi, giungendo sino a propagare la sua dottrina con le armi, ancor egli sebbene sacerdote, sacrilegamente sposò una ricca vedova e menò una vita tanto libera, che gli stessi suoi ammiratori lo dissero morto in peccato e figlio dell’inferno. – Un altro gran corifeo dei Protestanti fu Calvino, uomo così superbo ed intrattabile, che gli stessi suoi seguaci dicevano che era meglio andare dannati con Teodoro Beza, che andare in Paradiso con Calvino: tanto era insopportabile per la sua arroganza e malignità. Con la superbia congiunse ancora la lascivia. Fin da giovane commise una colpa così nefanda, che dai pubblici tribunali fu stimmatizzato sopra una spalla con un ferro rovente, poi più tardi tuttoché fosse diacono, menò a moglie una tale Ideletta: fu tanto crudele che in Ginevra cacciò in esilio e fece bruciare vivi vivi tutti quelli che non la pensavano come lui, e finalmente fece una morte così disperata che mette orrore: perocché sentendosi marcire le carni indosso con tanto fetore che più niuno poteva sopportarlo, disperato e tra orrende bestemmie spirò l’anima. – Un altro gran Maestro dei Protestanti fu il Re d’Inghilterra Arrigo ottavo. Questi finché fu buono fu anche Cattolico. Quando poi diventò scostumato, ripudiò la Religione Cattolica: ma i suoi delitti mostrano qual sia la sua religione. Egli vivente ancora la sua legittima moglie, sposò un’altra donna Anna Bolena, poi fattala ammazzare, ne sposò una seconda di nome Seymour, poi fatta morire anche questa sposò Anna di Cleves, che sei mesi dopo ripudiò per surrogarle Caterina Howard, e finalmente uccisa anche questa sposò Caterina Parr che non fu più a tempo ad uccidere come ne aveva voglia, perché morì egli prima: uomo di tanta rapacità, che si usurpò tutti i beni della Chiesa per sostenere le sue passioni, di tanta crudeltà che faceva ammazzare tutti quelli che si opponevano ai suoi capricci. E come questi, così sono tutti gli altri Capi del Protestantismo, Giusto Giona, Amsdorf, Melantone, Carlostadio, Ecolampadio, etc. uomini ambiziosi, crudeli, disonesti, violenti e ripieni di tutti i vizi, siccome essi stessi si danno a conoscere nelle scambievoli ed interminabili questioni che hanno fra di sé. Chiedete ora ai Protestanti se sia vero o no che questi sono i principali loro Capi? Prima che sorgessero questi mostri non vi era il Protestantismo nel mondo, sono essi che lo hanno introdotto. È possibile che uomini così perversi fossero illuminati da Dio a conoscere la verità? Che questi fossero gli strumenti di Dio, gli organi dello Spirito Santo per riformare la S. Chiesa? E se non è possibile ciò, che cosa diremo noi del Protestantismo da loro introdotto, se non che esso è un’invenzione diabolica?

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (14): Le altre promesse del Sacro Cuore

DISCORSO XIV.

Le altre promesse del Sacro Cuore di Gesù.

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Ed. Torino,1920Imprim. Can. F. Duvina, Torino, 19 giugno, 1920]

La fecondità meravigliosa della parola divina, che trovasi nei Santi Libri, è tale che anche i racconti in apparenza insignificanti racchiudono in sé dei grandi misteri, e delle importantissime figure. Tale ad esempio è il fatto, che si legge nel libro dell’Esodo. Avviandosi il popolo ebreo per il deserto alla terra promessa, non trovava acqua per estinguere l’ardente sua sete. Ma Iddio mosso a compassione di quel popolo, non ostante i suoi grandi demeriti, disse a Mosè: « Accostati alla pietra di Horeb e percuotila con la verga, con cui un giorno percuotesti il fiume Nilo, cangiandone l’acqua in sangue, ed io sarò con te con la mia virtù e l’acqua scaturirà dalla pietra perché il popolo possa bere. » Mosè fece come il Signore gli aveva detto, e da quella pietra sgorgò una fonte di acqua così abbondante, che tutto il popolo ebreo poté dissetarsi. Ora in questo fatto bensì sommamente miracoloso, ma in apparenza di ben poco significato, l’apostolo S. Paolo ha invece ravvisato il più grande di tutti i misteri, il mistero di Gesù Cristo, Redentore del mondo, il quale siccome pietra collocata in mezzo a tutti i secoli, per sua propria virtù ha fatto da sé scaturire l’acqua di grazia per gli uomini di tutti i tempi. Perciocché è alla grazia che scaturisce da una tal pietra, che tutti dovettero e devono bere per non perire miseramente nel viaggio, che da tutti si compie alla terra promessa del Paradiso; gli uomini dell’antica legge con la fede, con la speranza e con l’amore in Lui che doveva venire, quelli della legge nuova con la fede, con la speranza e con l’amore in Lui già venuto. – Or bene, in sulla scorta di S. Paolo, noi possiamo altresì in questa pietra miracolosa riconoscere una figura particolare del Sacratissimo Cuore di Gesù. Ed invero non è forse toccando questo Cuore con la verga della sua divozione, che noi possiamo farne scaturire le grazie più abbondanti e quelle specialmente che ci abbisognano nel faticoso cammino verso la nostra patria? Sì, o miei cari, lo stesso Gesù Cristo ci ha ammaestrati di questa consolantissima verità. Con le promesse da Lui fatte ai devoti del suo Cuore, egli in certo modo ha detto loro quel che un giorno il Signore disse a Mosè: Percuotete col vostro amore, con le vostre preghiere, con le vostre pratiche di pietà la pietra tenerissima del mio Cuore, ed uscirà da essa la grazia di ogni più eletta benedizione. Ed in vero, oltre ai vantaggi già così grandi, che in questa divozione abbiamo riconosciuto ieri, dobbiamo oggi riconoscerne altri più grandi ancora, espressi in queste altre magnifiche promesse di Gesù Cristo ai devoti del suo Cuore:

Darò grazie convenienti ai peccatori, ai tiepidi, ed ai fervorosi.

Sarò loro rifugio in vita e specialmente nell’ora della morte.

Scriverò i loro nomi nel mio Cuore, onde non saran mai più cancellati.

I. — Anima della vita umana è la speranza. Se la bella luce del sole cessasse di illuminare la terra, che abitiamo, ei sembra che in questo mondo non potremmo più vivere. Eppure noi vivremmo più facilmente senza la luce del sole, che non senza quella della speranza. Di tutti i bisogni nostri speranza è il più profondo, il più forte, il più costante, il più universale. Se la speranza non risplendesse sopra la culla del neonato, si maledirebbe alla sua venuta al mondo; se la speranza non ci sorreggesse negli anni giovanili, rifuggiremmo con orrore dall’entrare nella virilità: se la speranza non ci confortasse nelle sventure e sul declinar degli anni, si spezzerebbe senz’altro la catena insopportabile della vita. Insomma, tale è il bisogno della speranza che, piuttosto che non averne accettiamo persino il suo fantasma, quello che ci viene messo innanzi dall’illusione; e tanto la speranza fa parte essenziale della nostra vita terrena, che il luogo dove essa è irrevocabilmente sbandita, non è più terra, ma inferno. Ma se il bisogno della speranza provasi così grave in ogni circostanza della vita, vi ha un caso poi, nel quale provasi più grande che mai, quando cioè l’uomo ebbe la sventura di commettere un delitto. Allora questo solo può recargli conforto, la speranza di essere perdonato se non del tutto, almeno in parte, perché quando questa speranza non anima più un colpevole, egli allora abbandonandosi alla disperazione si sente il più infelice degli uomini. Eppure, o miei cari, è questa una terribile verità, che con l’esperienza della vita si apprende, che tra gli uomini cioè, per quanto vi siano delle tanto più nobili, tanto più rare eccezioni, pochi assai perdonano e perdonano assai poco. Ti si ha un bel dire, che sei stato perdonato di tutto, tu hai un bell’adoperarti a riparare la tua colpa, nell’agire dell’offeso o del rappresentante della legge offesa, ahi! Troppo facilmente tu tocchi con mano, che il tuo delitto non fudimenticato, ciò che ti costringe ad abbassare umiliata la fronte. Ma viva Dio! se tale è il cuor degli uomini, tale non è il Cuore di Gesù Cristo. Hai tu peccato? E chi è che non abbia peccato? Se noi, dice l’apostolo S. Giovanni, se noi dicessimo di non aver peccato, faremmo bugiardo Iddio stesso, il quale ha asserito, che perfino il giusto cade nella colpa: Si dixerimus quoniam non peccavimus, mendacem facimus eum. (I Jo. I, 10) E se tu hai peccato, certamente devi paventare la divina giustizia, come la paventarono i Santi dopo una lunghissima vita passata nelle più aspre penitenze. Ma per quanto tu abbia peccato, avessi pure commesse tutte le colpe del genere umano da che esso esiste e fino a quando esisterà, pentendoti sinceramente delle tue colpe, più ancora che paventare la divina giustizia, tu devi confidare nella divina misericordia, e ritenere che Iddio è pronto a perdonarti di tutto ed a cancellare interamente ogni tua iniquità. Sì, non solo tu puoi avere una tale speranza, ma la devi avere, perciocché Iddio nella sua infinita bontà è arrivato a tal punto da comandartela espressamente. Ma quanto più viva ancora, o povero peccatore, deve farsi in cuor tuo la speranza, se prendi ad essere devoto del Sacro Cuore di Gesù. A tutti gli altri motivi che valgono a vivificartela, questo si aggiunge della parola da Lui data: « I peccatori troveranno nel mio Cuore l’inesauribile sorgente delle misericordie. » Or dite, o miei cari, non è questo uno dei più consolanti vantaggi della divozione al Sacro Cuore di Gesù? Animo adunque, o poveri peccatori, oppressi dal pensiero delle vostre passate e numerose colpe, datevi alla devozione del Cuore di Gesù Cristo, e per essa aprite il vostro cuore alla più dolce speranza del perdono. L’Apostolo S. Pietro, vinto dal timore, rinnegò tre volte il suo divino Maestro nella notte della sua passione. Ma Gesù Cristo, passando vicino a lui, non fece altro che volgergli un’occhiata amorosa e compassionevole. E quell’occhiata bastò a cangiare gli occhi di Pietro in due fonti perenni di lagrime, sì che il pianto gli venne formando come due solchi sopra le guance. Ora, se anche voi avete rinnegato Gesù Cristo e invece di tre volte, ben anche tre milioni di volte, con la divozione al Sacro Cuore di Gesù mettetevi vicini a Lui, sì che Egli possa guardare ancor voi, e non dubitatene, lo sguardo di Gesù misericordioso opererà anche in voi lo stesso effetto che in S. Pietro, ed anche voi vi darete volentieri a versare lagrime per i vostri peccati, anche voi li andrete espiando e rendendovi sempre più sicuri di essere stati perdonati. – Ma supponiamo ora, che dopo d’avere pur troppo commessi dei gravi peccati, abbiamo vinta ogni difficoltà, ci siamo gettati con fiducia nel Cuore Santissimo di Gesù Cristo, e con una santa Confessione ne abbiamo ottenuto il perdono. Non potrebbe essere tuttavia, che ci fossimo intiepiditi assai dal primo fervore, che accompagnò la nostra conversione? E questo non sarebbe per noi un grave pericolo? Lo stato di tiepidezza è quello, in cui un’anima per tranquillizzarsi sulle colpe che commette, dice a sé medesima, che se non fa tutto il bene che dovrebbe fare, non fa neppure tanto male; che se trasgredisce certi suoi particolari doveri, non giunge però sino a violare i precetti di Dio, e che se non ha grandi virtù, non ha neppure alcun vizio. In altri termini la tiepidezza è un stato di determinazione nella condotta a trascorrere leggermente sulle colpe comuni ed ordinarie, a commetterle senza pena, a moltiplicarle senza rimorsi, a parlare senza circospezione, a mormorare senza scrupolo, a confessarsi senza emendazione, e comunicarsi senza fervore ed a non darsene pena, non si vede altro male che di non ricavarne alcun frutto. Or chi sa dire quanto dispiaccia a Dio? Lo ha dichiarato Egli medesimo nella maniera più formale. L’anima tiepida, Egli disse, gli diviene così insopportabile, che lo provoca ad una specie di vomito. Quia tepidus es… incipiam te evomere ex ore meo. (Ap. III, 16) Egli non la rigetta ancora, ma comincia a rigettarla, allontanandosi da essa. Dal che si vede che la tiepidezza è un principio di riprovazione, che è uno stato infinitamente pericoloso, dal quale perciò importa sommamente uscir fuori. Or bene, ecco un altro vantaggio della divozione al Sacro Cuore di Gesù: per questa divozione, come promise il divin Cuore, « le anime tiepide diventeranno ferventi. » Coraggio adunque, o povere anime, che vi siete intiepidite nella via del bene. Cominciate da parte vostra a pigliare i mezzi necessari per liberarvi dallo stato di tiepidezza, in cui siete cadute; e cioè considerate il vostro pericolo, ricercate le cause del vostro male, datevi una santa scossa e risolvete di combatterle col primiero fervore; e poi affidatevi al Cuore Santissimo di Gesù e ditegli ripetutamente con tutta fiducia: « O Cuore Santissimo, voi che siete onnipotente, ben potete mutarmi. Mutatemi adunque, e da trascurato e tiepido, quale io mi sono nel vostro divino servizio, rendetemi secondo la vostra promessa tutto sollecito e ardente. Questa è ora la grazia, che vi domando; fatemi tutto vostro, perché  non pensi più ad altro che a vivere per voi. » Ed il Cuore di Gesù non lascerà certamente di esaudire la vostra preghiera. Se non tutto ad un tratto, a poco a poco vi darà la forza di vincere i vostri mancamenti, a poco a poco rinnoverà il vostro cuore ed il vostro spirito, sicché possiate di nuovo riprendere slancio nella via della virtù e camminarvi a passi di gigante. Ma supponiamo in fine di essere per la grazia di Dio nel numero di quelle anime fortunate, che si chiamano giuste. Crediamo perciò di avere già sicura nelle mani la palma dell’eterno trionfo? Per tal guisa noi ci inganneremmo a partito. Fino a che ci rimane un fiato di vita noi corriamo pericolo di venir meno anche nella più elevata santità e perdere ad un tratto i meriti più abbondanti. Ci è indispensabile la perseveranza, perché solamente colui che avrà perseverato sino alla fine sarà salvo. Anzi non solo ci è necessaria la perseveranza nel bene, ma ci è d’uopo crescere in essa ogni giorno più. Il nostro morale perfezionamento è una legge espressa chiaramente nelle Sante Scritture: Chi è giusto, si faccia più giusto; chi è santo si faccia ancor più santo: Qui iustus est, iustificetur adhuc, et sanctus sanctificetur adhuc. (Ap. XX, 11) E la pratica di questa legge è necessaria al punto, che la sua inosservanza può condurre alla più fatale rovina, perciocché chi non attende a rendersi più virtuoso, non resta nello stesso grado di virtù, ma indietreggia spaventosamente nella via del vizio. Lo diceva già Salomone: Iustorum semita quasi lux erescit usque ad perfectum diem; via impiorum tenebrosa, nesciunt ubi corruant. Il cammino dei buoni si avanza sempre, come si avanza la luce dell’aurora sino al giorno perfetto; all’incontro la via dei tristi sempre più diventa ingombrata da tenebre, sino a che i miseri si riducono a camminare senza sapere dove vanno a precipitarsi. (Prov. IV, 18) Anche S. Agostino disse chiaro, che il non andare avanti nel cammino della virtù è la stessa cosa che tornare indietro. E S. Gregorio spiegò questa verità col dire che come chi stando nel fiume dentro d’una barchetta, e non curando di spingerla contro la corrente, necessariamente va indietro, dalla stessa corrente trascinato, così l’uomo dopo il peccato di Adamo, rimasta naturalmente fin dal suo nascere inclinato al male, se egli non si spinge avanti, e non si fa forza per rendersi migliore di quello che è, dalla stessa corrente delle sue concupiscenze sarà portato sempre indietro. Ed ecco perché si videro alle volte dei giusti, i quali arrivati quasi all’apice della santità, rallentatisi poscia nella via del bene, a poco a poco divennero pessimi sino ad essere lo scandalo altrui. – Or dunque come potremo facilmente perseverare e perfezionarci nel bene? Con la divozione al Sacro Cuore di Gesù! Questo Cuore, così ricco di bontà, dopo aver promessa la misericordia ai peccatori, che si vogliono convertire, dopo aver promesso il fervore alle anime tiepide, promise ancora il progresso alle anime ferventi: « Queste anime, Egli disse, faranno rapidi progressi nelle vie della perfezione. » Ecco adunque, anime giuste, dove voi pure dovete riporre ogni vostra fiducia. Gettatevi nel Cuore Santissimo di Gesù Cristo e racchiuse in questa arca benedetta non solo non patirete alcun danno per la vostra giustizia, ma la renderete ogni giorno più grande.

II. — Se non che, domanderete voi, in quale maniera il Sacratissimo Cuore di Gesù darà compimento a queste sue promesse, fatte a vantaggio dei giusti, dei tiepidi e dei peccatori, suoi devoti? Con l’adempierne un’altra, vi rispondo io, espressa in queste dolcissime parole: « Sarò loro rifugio in vita e specialmente nell’ora della morte. » – Pur troppo, ben giustamente la nostra vita fu chiamata una milizia: Militia est vita hominis. (Iob. VII, 1) Non appena noi siamo giunti all’età, in cui si può discernere il bene dal male, sentiamo farsi viva dentro di noi una lotta. La parte superiore di noi medesimi ci dice essere nostro dovere praticare esattamente quella santa legge, che Dio stesso ha inserito nel nostro cuore e ci ha manifestata con la sua rivelazione. La parte inferiore invece, la nostra carne, i nostri sensi fanno di tutto per ribellarci alla legge divina e trascinarci al peccato, sì che fin d’allora ciascuno di noi deve esclamare con l’Apostolo Paolo: Video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ et captivantem me in lege peccati, quæ est in membris meis. (Rom. VII, 23) Veggo un’altra legge nelle mie membra che si oppone alla legge della mia mente, e mi fa schiavo della legge del peccato, la quale è nelle mie membra. Ma per più a questa guerra interiore un’altra esteriore si aggiungeda parte del demonio. Vedendo che noi siamo destinati a possedere quella gloria, di dove egli fu precipitato con tutti i suoi seguaci, invidioso della nostra sorte, s’adopera con ogni tensione a trascinar ancor noi nella sua rovina; e a guisa di leone ruggente sempre ne circonda, cercando di divorarci. E non basta ancora! quasi fossero poco gagliardi i suoi assalti,per meglio riuscire nel suo intento, ei si serve dell’opera del suo più fidato ministro, il mondo, che mettendoci innanzi la sua gloria, i suoi onori, le sue ricchezze, i suoi piaceri, tenta ancor esso di indurci al peccato. Oh noi infelici! E potremo noi, con le sole nostre forze, superare tutti questi nemici e riportare vittoria? No certamente; non ostante tutte le brame più gagliarde della nostra santificazione, da cui possiamo essere animati, il certo si è, che la nostra vita per se stessa è da capo a fondo un intreccio ed un abisso spaventoso di debolezze, di miserie, di infedeltà e di incostanza; e se nell’ora del pericolo non abbiamo un rifugio sicuro, ove ripararci, miseramente cadremo. Or ecco dove specialmente i devoti del Cuore di Gesù troveranno non solo il rifugio nei pericoli, mail rinforzo efficace alla loro debolezza, onde poterli superare: nella divozione a questo Cuore Sacratissimo. Esso, come dice S. Bernardo, è il tempio della divinità, l’arca della nuova alleanza, il Santuario delle grazie, dove noi troveremo il riparo ad ogni nostra infermità, lo scampo da tutti i rischi, la forza e la sicurezza del vincere tutti gli assalti nemici. Esso può ben paragonarsi a quella torre di David, edificata coi baluardi, e dalla quale pendevano mille scudi, possente armatura dei forti: Sicut turris David… quæ aedificata est cum propugnaculis, mille clypei pendent ex ea: omnis armatura fortium. (Cant. VI, 4). – Ed invero, ecco quello, che Santa Margherita, così addentro al Cuore di Gesù Cristo, ebbe a scrivere in proposito:« Il cuore di Gesù Cristo è un abisso, dove troverete tutto: è un abisso singolarmente di amore in cui dobbiamo oseppellire ogni amor nostro e in ispecie il nostro amore proprio con i suoi mali affetti, che sono il rispetto umano e il desiderio di innalzarci e contentarci. Se voi siete un abisso di privamento e di desolazione, il divin Cuore è un abisso di ogni consolazione, entro al quale fa d’uopo, che noi ci perdiamo. — Se voi siete un abisso di aridità e di impotenza, andate ad internarvi nel Cuore di Gesù, abisso di potenza e di amore. — Se siete in un abisso di povertà spirituale e spogliati di ogni bene, gettatevi nel Cuore di Gesù: Egli è pieno di tesori, se lo lasciate fare vi arricchirà. — Se siete in un abisso di debolezza, di ricadute, di miserie, andate spesso al Cuore di Gesù, Egli è un abisso di misericordia e di fortezza, Egli vi rialzerà e fortificherà. — Se provate in voi un abisso di superbia e di vana stima di voi stessi, affondatela subitamente nelle umiliazioni profonde del Cuore di Gesù, quel Cuore è l’abisso dell’umiltà. — Se vi trovate in un abisso di ignoranza e dite tenebre, il Cuor di Gesù è un abisso di sapienza e di luce; imparerete singolarmente ad amarlo e far quel solo, che da voi Egli brama. — Se siete un abisso di infedeltà e di incostanza, Gesù lo è di costanza e di fedeltà; inabissatevi in Lui. — Se vi trovate in un abisso di ingratitudine, di agitazione, d’impazienza, di collera, di dissipazione, di malinconia, di turbamento, di timore, di pene. Sempre rifugiatevi nel Cuore di Gesù, e per ogni cosa sprofondatevi in quell’oceano di carità, e non ne uscirete più senza essere stati compenetrati dal fuoco, di cui esso è acceso, come il ferro nella fornace o la spugna caduta in mare è inzuppata dalle sue acque. » Così Santa Margherita. Epperò animati da queste confortanti parole, di che avremo ancora a temere anche nei più furiosi assalti del demonio, del mondo, delle passioni, se noi saremo sinceramente devoti del Sacro Cuore di Gesù? Ah! dobbiamo ben confidare, che Egli sarà sempre il nostro rifugio e la nostra virtù: refugium et virtus; (Ps. XLV, 2) né solamente in vita, ma specialmente al punto di morte. – Allora, dice la sacra Scrittura, sapendo il demonio, che gli rimane poco tempo per fare contro di noi le sue prove estreme, dispiega contro di noi tutto quanto il suo furore. Ci mette innanzi la vista dei peccati commessi nella passata vita, ci presenta il rigore dell’imminente giudizio, e tutto tentando ed ingrossando, cerca di trascinarci nell’abisso della disperazionee dell’impenitenza finale. Ma allora che temeremo noi se siamo stati veri devoti del Sacro Cuore di Gesù? Ah! inq quel pericoloso momento, Egli non solo si farà a soccorrere i suoi devoti moribondi, ma verrà loro spontaneamente dappresso ad essere il loro scudo e ad assicurar loro la vittoria. Perciocché avendoci Gesù lasciato il Sacramento di amore, mentre per noi già si incamminava alla morte, ha pur voluto che questo cibo di fortezza, di gioia e di vita eterna, ci fosse apprestano, quando noi pure fossimo giunti al gran passaggio dell’eternità. Ed allora penetrato ancor una volta nel nostro cuore o non permetterà, che abbiamo ad essere tentati, facendoci godere la calma e la tranquillità più perfetta, o se permetterà a nostro maggior merito la tentazione, ci darà forza as superarla gloriosamente. Consoliamoci adunque, che per quanto sia formidabile il demonio e terribile il suo assalto in quell’ultimo istante della nostra vita, il Cuore di Gesù, terribilis ut castrorum acies ordinata, più terribile di un esercito schierato a battaglia, sarà dentro al nostro petto, e la potenza del solo suo Nome varrà a far fuggire il demonio e a renderci vittoriosi.Ma consoliamoci anche di più, perché non contento di ciò, il Cuore di Gesù in quegli angosciosi momenti allevierà i nostri dolori e renderà meno grave il nostro passo all’eternità. E chi ha letto lo vita di un S. Bernardo, di un S. Luigi Gonzaga, di un S. Filippo Neri, di un S. Stanislao Kostka, di un S. Francesco di Sales, di un S. Alfonso de’ Liguori e di tanti altri Santi, chi ha assistito alla morte di qualche amante di Gesù, non ha bisogno di prove; allora si è toccato con mano, che al devoto del Cuore di Gesù Cristo è veramente dolce il morire. Or dunque è possibile ancora che non si studi ognuno di professare verso il cuore di Gesù la più tenera devozione?Chi trovi grave il fare quegli ossequi che gli tornano tanto graditi: come ascriversi alle sue associazioni, frequentare i Sacramenti, visitarlo ne’ suoi altari, ripararlo degli oltraggiche riceve, portare indosso la sua medaglia o il suo abitino;mettere in onore la sua immagine, consacrargli il venerdìe simili? Ah! fosse pure, ciònon è, che ci riuscissero gravosi tali ossequi, pur tuttavia noi dovremmo compierli conslancio perché riusciamo così ad assicurarci la sua protezionein quel punto, da cui dipende l’eternità!

III. — Ma siano grazie infinite al Sacro Cuore di Gesù! Mediante la sua divozione non riusciremo soltanto ad ottener il suo rifugio in vita e in morte, ma, ciò che è il massimo di tutti i vantaggi, una caparra sicura dell’eterna felicità. Se vi ha cosa, della quale noi siamo nella massima incertezza, senza dubbio quello, che riguarda la nostra eterna destinazione. I giusti ed i saggi, ha detto l’Ecclesiaste, sono sotto l’ombra di Dio e riposano con le opere loro sotto le protezione della sua mano. Ma sebbene sia vero, certo e notissimo, che Egli ama i giusti, è pur sempre dubbioso ed incerto, se un uomo sia veramente giusto dinnanzi a Dio, e per conseguenza, egli sia degno del suo amore o del suo odio, essendo troppo imperscrutabile a se medesimo il cuor dell’uomo; tutto rimane all’oscuro sino al tempo avvenire, cioè sino alla morte, quando Iddio illuminerà le tenebre e manifesterà i consigli del cuore: Nescit homo utrum amore an odio dignus sit, sed omnia in futurum servantur incerta. (Eccl. IX, 1-2). Epperò i Santi medesimi vivono su questa terra, anche con tutte le loro orazioni con tutte le loro penitenze, con tutto i loro digiuni e con tutte loro sante opere, devono sempre ripetere coll’Apostolo Paolo: Nihil mihi conteius sum, sed non in hoc iustificatus sum: qui autem iudicat me Dominus est; (I Cor. IV, 4) quantunque la coscienza non mi riprenda di alcuna cosa, non per questo ho un’infallibile certezza di essere giusto, molte cose potendo esservi nascoste alla mia ignoranza, per le quali, anzi che giusto, io sia peccatore innanzi a Dio. Non quindi è da meravigliarsi, se S. Bernardo, che pure al punto di morte chiese perdono al suo corpo d’averlo troppo maltrattato, così di spesso col capo chino, con la fronte abbattuta, con gli occhi lacrimosi, si andasse interrogando: Che sarà di me? mi salverò io, o mi dannerò? Sarò io cittadino del cielo, o tizzone dell’inferno? – È bensì vero che la Chiesa, affidata al Vangelo di Gesù Cristo ed ai meriti suoi infiniti, ha giustamente condannati quegli eretici crudeli, i quali negando che Gesù Cristo sia morto per tutti, ed asserendo, che una parte degli uomini sono positivamente da Dio destinati a perire per sfoggio della sua giustizia, gettavano l’animo del Cristiano nella più terribile costernazione. È vero ancora, che lo spirito della Chiesa è affatto contrario a quelle esagerate declamazioni, con cui dalle stesse cattedre di verità, interpretando assai poco esattamente le sentenze del Vangelo, sembrano taluni compiacersi di spaventare le anime, riducendo al numero più scarso possibile coloro che si salveranno. Perciocché la Chiesa in una sua bellissima orazione così prega il Signore: « O Dio, al quale solo è conosciuto il numero degli eletti da porre nella superna felicità, ne concedi di grazia, che per intercessione di tutti i tuoi Santi, il libro della beata predestinazione ritenga ascritti i nomi di tutti coloro che prendemmo a raccomandare nella preghiera, e quelli altresì di tutti i fedeli. » Ma sebbene sia verissimo tutto ciò, non lascerà mai di essere della somma importanza la raccomandazione dell’apostolo Paolo: Operate la vostra salute con timore e tremore: Cum metu et tremore salutem vestram operamini; (Philipp, II, 12) e quell’altra del Principe degli Apostoli: Applicatevi con la maggior sollecitudine a rendere certa con le buone opere la vostra vocazione ed elezione: Magis satagite ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis. (II Petr. I, 10). Or bene, desideriamo noi pure, praticando queste raccomandazioni, di vivere con la minore ansietà e con la maggior certezza possibile intorno al nostro supremo destino? Siam devoti del Sacro Cuore di Gesù, e quanto possiamo, con le parole e con l’esempio, animiamo altri ancora a questa divozione, ed allora sarà anche per noi questa rassicurantissima parola di Gesù Cristo: «Di tutti coloro, che si adopereranno a propagare questa divozione, scriverò i nomi nel mio Cuore, donde non saranno giammai cancellati. » Oh promessa la più bella, la più magnifica, la più consolante di tutte! Avere il nome scritto nel Cuore di Gesù per modo che non si cancelli più mai, non vuol dire forse essere già così sicuro del paradiso, come se già si fosse in paradiso? Non vuol dire anzi per di più essere per tutta l’eternità i figliuoli prediletti del nostro celeste Padre? goderne le dolcissime preferenze? Ah! perché non mi è dato di scrivere queste dolcissime parole del Sacro Cuore di Gesù sulle mura di tutte le case, negli angoli di tutte le vie, sui frontoni di tutte le chiese, e più ancora nel cuore di tutti gli uomini? Deh! stampiamole almeno in tutte le anime nostre, e con queste parole in cuore, se finora non fummo devoti del Cuore di Gesù, facciamo di esserlo per l’avvenire; se già lo amavamo ed onoravamo, continuiamo a farlo con un fervore ognor più crescente. Imperciocché il Cuore Gesù è veramente il cuore più generoso e più fedele, e tutte quelle grazie temporali e spirituali, ch’Egli ha promesso ai suoi devoti, le riverserà copiose sopra di noi. Infelice pertanto chi non conosce un Cuore così ricco e così buono, o conoscendolo non gli professa tuttavia quella devozione che esso brama! Ma felicissimo invece colui, che conosce questo Cuore e lo ama, lo risarcisce, lo imita, lo consola! Nella sua divozione avrà trovato la pace e la gioia, qui in terra, ma più ancora la pace e la gioia, che non verran meno giammai lassù in cielo.

O Cuore Sacratissimo di Gesù, quale balsamo soave sono mai all’agitato nostro spirito questi cari riflessi! Noi siamo miseri e deboli, ma voi siete ricco e forte e lo siete per soccorrere alla miseria e alla debolezza dei vostri devoti. Noi siamo circondati da mille pericoli nel corso di nostra vita, ma voi siete infinitamente sollecito nello scamparcene. Noi tremiamo di spavento alla vista della nostra morte, ma voi ci ingenerate nell’animo la più viva fiducia di essere da Voi in quel terribile punto visitati e difesi. Noi raccapricciamo al pensiero dell’eterna nostra sorte, ma Voi ci assicurate, che, essendo veri vostri devoti, ci porterete scritti dentro di Voi stesso e non ne saremo mai più cancellati! Chi di noi adunque non vi onorerà, non vi amerà, non v i servirà, con tutte le sue forze? Ah Cuore dolcissimo, noi ci diamo interamente a Voi, noi siamo tutti vostri: lo siamo ora e vogliamo esserlo per sempre; noi vi onoreremo, vi ameremo, vi serviremo con tutte le nostre forze, e mercé questa sincera divozione confidiamo di essere veramente da Voi soccorsi nella nostra miseria, scampati dai tanti pericoli della nostra vita, confortati e difesi al punto della morte, assicurati di essere uniti a Voi in Cielo, a lodarvi e benedirvi per tutta l’eternità. Così sia.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: MARZO (2019)

CALENDARIO LITURGICO MARZO (2019)

MARZO È IL MESE CHE LA CHIESA  DEDICA A SAN GIUSEPPE, SUO PROTETTORE

La Chiesa pertanto …  che ha fatto ella? Dopo di essersi nel corso dei secoli affidata al patrocinio della Beatissima Vergine, e continuando tuttora ad affidarvisi, in questi ultimi tempi si è pure particolarmente affidata al patrocinio di S. Giuseppe, dichiarando questo gran Santo, Patrono della Chiesa Cattolica, cioè universale … « Ecco il servo fedele e prudente, che il Signore stabilì sopra la sua famiglia; doveva ancor essere costituito sulla universale famiglia di Dio; e poiché fu trovato così sufficiente all’opera tanto eccelsa del custodire la divina famiglia, così doveva essere più che mai sufficiente alla custodia e patrocinio di tutto il mondo; perciocché chi fu bastevole al più, molto meglio è da credersi bastevole al meno …

… Il Pontefice dell’Immacolata e del Sacro Cuore di Gesù, il Papa dal cuore vasto come il mare, assecondando le suppliche ed i voti dei Vescovi e dei fedeli di pressoché tutto il mondo, per organo della S. Congregazione dei Riti proclamava di fatto S. Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica altro non faceva che assegnare ed assicurare a S. Giuseppe la gloria di quel terzo titolo, che giustamente gli competeva insieme con gli altri due di Sposo purissimo di Maria e di Padre putativo di Gesù. Perciocché lo stesso grande Pontefice prima ancora di aver promulgato un tanto oracolo, già alcun tempo innanzi aveva detto con gioia: Mi consola, che i due sostegni della Chiesa nascente, Maria e Giuseppe, riprendano nei cuori cristiani quel posto, che non avrebbero dovuto perdere giammai ». [A. CARMAGNOLA, S. Giuseppe; Tipogr. e libr. salesiana, Torino, 1896]

Ench. Indulg. N. 469:

Ai fedeli che davanti ad un’immagine di San Giuseppe, reciteranno devotamente un Pater, Ave, e Gloria con l’invocazione: Sancte Joseph, ora pro nobis, si concede:

Indulgentia trecentorum dierum:

Indulgentia Plenaria s. c. a coloro che avranno piamente perseverato nella recita, ogni giorno per un intero mese (S. Pænit. Ap., 12 oct. 1936).

Ench. Indulg. N. 466:

ai fedeli che nel mese di MARZO, o per giusto impedimento in altro mese dell’anno, praticheranno devotamente in pubblico, un pio esercizio in onore di San Giuseppe, Sposo della B. V. M., si concede:

Indulgenza di sette anni per ogni giorno del mese;

Indulgentia Plenaria, se praticato per almeno 10 volte nel mese, a coloro che, confessati e comunicati, pregheranno per le intenzioni del Sommo Pontefice.

Se poi nel mese di marzo, sarà praticata privatamente una preghiera o altra opera di pietà in ossequio a San Giuseppe Sposo della B. M. V., si concede:

Indulgentia di 5 anni ogni volta in ogni giorno del mese;

Indulgentia Plenaria, s. c. se si pratica per un mese (S. C. Indulg. 27 Apr. 1865; S. Pæn. Ap., 21 Nov. 1933)

Ench. Indulg. N. 467

Ai fedeli che praticheranno pubblicamente il pio esercizio della novena in suo onore, prima della festa di San Giuseppe, Sposo di B. M. V. si concede:

Indulgenza sette anni per ogni giorno della novena;

Indulgenza Plenaria, se confessati sacramentalmente, comunicati e pregando per le intenzioni del Sommo Pontefice, sarà praticato per almeno cinque giorni durante la novena. Se praticato privatamente, si concede:

Indulgenza di cinque anni per ogni giorno della novena;

Indulgenza Plenaria, suet. cond. al termine della novena, a chi sia legittimamente impedito al pubblico esercizio.  (S. C. Ind. 26 nov. 1876; S. Pænit. Ap., 4 Mart. 1935).

Ecco le feste del mese di MARZO 2019

1 Marzo 1° Venerdì

2 Marzo Sanctae Mariae Sabbato    Simplex

3 Marzo Domenica in Quinquagesima Semiduplex II. classis

4 Marzo S. Casimiri Confessoris    Duplex *L1*

6 Marzo Feria IV Cinerum    Duplex I. classis

7 Marzo S. Thomæ de Aquino Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

8 Marzo S. Joannis de Deo Confessoris    Duplex

9 Marzo S. Franciscæ Romanæ Viduæ    Duplex

10 Marzo Dominica I in Quadr.    Semiduplex I classis

12 Marzo S. Gregorii Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

13 Marzo Feria Quarta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Semiduplex

15 Marzo Feria Sexta Quattuor Temporum Quadragesimæ    Semiduplex


16 Marzo Sabbato Quattuor Temporum Quadragesimæ    Semiduplex

17 Marzo Dominica II in Quadr.    Semiduplex I. classis

18 Marzo S. Cyrilli Episcopi Hierosolymitani Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

19 Marzo S. Joseph Sponsi B.M.V. Confessoris    Duplex I. classis *L1*

21 Marzo S. Benedicti Abbatis    Duplex majus *L1*

24 Marzo Dominica III in Quadr.    Semiduplex I. classis

25 Marzo In Annuntiatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis *L1*

27 Marzo S. Joannis Damasceni

28 Marzo S. Joannis a Capistrano Confessoris    Feria

31 Marzo Dominica IV in Quadr.    Semiduplex I. classis

CONOSCERE SAN PAOLO (49)

CONOSCERE SAN PAOLO (49)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

II. PRECETTI DI MORALE SOCIALE.

1. IL CRISTIANO E L’AUTORITÀ CIVILE. — 2. LA FAMIGLIA CRISTIANA. — 3. IL MATRIMONIO CRISTIANO.

1. La rigenerazione battesimale è una seconda nascita che rende i Cristiani uguali e Uberi: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo, avete rivestito il Cristo: non più Giudeo né Greco; non più schiavo né libero; poiché tutti siete uno nel Cristo Gesù (Gal. III, 27-28) ». Le differenze di nazionalità, di condizione, di sesso, non contano più; esse scompaiono dinanzi a questa unità superiore che le concilia; esse sono in qualche modo assorbite dalla nuova forma specifica che il neofito riveste, la quale altro non è che il Cristo: questo per l’uguaglianza. La libertà cristiana nasce dai medesimi principi. Liberato dal Cristo, il Cristiano non appartiene più ad altri che al Cristo; la libertà ricevuta nel Battesimo è inalienabile: « Il Cristo vi ha concessa la Libertà; dunque tenete fermo e non ricadete sotto il giogo della schiavitù (Gal. V, 1) ». Si tratta del giogo della Legge; ma il valore dei principio è generale: « Voi foste riscattati con un (gran) prezzo; non diventate schiavi degli uomini (I Cor. VII, 23)». Si può pensare quale abuso potessero fare di queste massime gli spiriti mal disposti; e san Paolo e san Pietro dovettero egualmente protestare contro. i falsi interpreti del loro pensiero: Voi siete liberi, dice l’uno, ma siete anche i servi di Dio; non fate della libertà una maschera per coprire l a vostra malizia (I Piet. II, 16). « Voi foste chiamati alla libertà, dice l’altro; però la libertà non sia una scusa alla carne (Gal. V, 13) ». Non dovete pensare di essere esenti dai vincoli di subordinazione e di dipendenza, da impegni e da contratti, da relazioni stabilite dalla natura o create da un fatto contingente. L’eguaglianza cristiana consiste in questo, che sotto l’aspetto religioso tutti hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri, dipendono dallo stesso giudice supremo, trattano direttamente col medesimo Dio. Se la libertà cristiana libera dalla schiavitù del peccato e della Legge antica, non sopprime affatto le relazioni gerarchiche della società e della famiglia. La stessa fraternità, la nota più caratteristica dei cristiani, la quale si direbbe che abbia soltanto da portare privilegi, impone anch’essa dei doveri: la tolleranza vicendevole, l’obbligo di evitare lo scandalo. Così i doveri sociali del Cristiano sono in ragione diretta con i suoi diritti. La parola di Gesù: « Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio » ha una forma così incisiva, che si era dovuta scolpire profondamente nella memoria di tutti. Era tuttavia opportuno inculcare questo dovere e farne vedere la ragione di essere, e questo fa san Paolo nel capo XIII dell’Epistola ai Romani. – “Ogni anima si sottometta alle autorità superiori; poiché non vi è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono ordinate da Dio, di modo che resistendo a loro si resiste all’ordine di Dio stesso e quelli che resistono si attireranno una (giusta) condanna. Poiché i magistrati non sono da temere per le buone azioni, ma per le cattive. Vuoi tu non temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode; perché il principe è per te il ministro di Dio per il bene. Ma se fai il male temi; perché non invano egli porta la spada, essendo ministro di Dio per punire nella sua collera colui che fa il male. Bisogna dunque obbedire non soltanto per causa della collera, ma anche per causa della coscienza. Per questo pure voi pagate i tributi; poiché i magistrati sono ministri di Dio che compiono con zelo questo uffizio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi è dovuta l’imposta, l’imposta;  a chi il tributo, il tributo; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore”. – Molto si è discusso sul motivo che poté provocare queste raccomandazioni. Siccome gli Ebrei di Roma erano famosi per la loro turbolenza, e la liceità dell’imposta pagata agli stranieri era una questione scottante nei centri ebrei, si è supposto che i neofiti si fossero lasciati guadagnare dalle idee rivoluzionarie dei palestinesi. Ma né Svetonio né Arriano non ci lasciano capire che la turbolenza degli Ebrei di Roma avesse di mira ipoteri stabiliti; anzi gli Ebrei della Diaspora, ben lungi dal rivendicare l’indipendenza in nome del principio teocratico, come gli Zeloti della Palestina, si vantavano invece della loro fedeltà e della loro legalità: l’impero non ebbe mai sudditi più sottomessi. E poi l’elemento ebreo entrava in piccola parte nella composizione della Chiesa romana. Non è dunque il caso di cercare un motivo speciale in questo insegnamento dell’Apostolo il quale sembra adoperare a bella posta i termini più generici « ogni anima, il potere, le autorità superiori, i magistrati », evitando qualunque allusione a circostanze locali. Noi ci troviamo dunque dinanzi ad un regolamento teorico su l’atteggiamento dei Cristiani verso il potere civile. Paolo formula queste tre proposizioni: Per diritto e per principio ogni potere viene da Dio. — In fatto e in pratica, il potere stabilito deriva da Dio. — Anzi, il potere si esercita in nome di Dio. Le due prime proposizioni erano quasi assiomi per gli Ebrei contemporanei; perciò l’Apostolo si limita a enunziarle, distinguendole come conviene, e aggiungendovi questa conseguenza evidente, che resistere al potere stabilito da Dio è resistere all’ordine di Dio medesimo (Rom. XIII, 1-2). Egli insiste di più sopra la terza. Il principe è il « ministro di Dio » (διάκονος = diakonos), il luogotenente di Dio » (λειτουργός = leiturgos) per promuovere il bene della società; particolarmente per lodare ericompensare ibuoni cittadini, per incutere timore ai cattivi eper punirli. Se cinge la spada, questo fa in nome di Dio; se vendica il male, questo fa in nome di Dio. « Bisogna dunque obbedirgli, non solo per il castigo » da evitare, « ma anche per ragione di coscienza »; perché la collera di cui minaccia il ribelle è giusta e sancita da Dio. Per motivo pure di coscienza si devono pagare le imposte: nell’esigerle, il sovrano è sempre il ministro di Dio, preposto a tale uffizio per la difesa ed il buon ordine della società di cui ha la custodia (Rom. XIII, 3-6). – La parola che riassume tutto: « Rendete a ciascuno quello che gli è dovuto », dimostra che non si tratta di un semplice consiglio, ma di un vero obbligo. Nel tempo in cui san Paolo scriveva queste parole, l’autorità imperiale si mostrava dovunque nella sua luce più favorevole; ancora durava il famoso quinquennio di Nerone; il mondo era governato da saggi e da filosofi; nonostante gli abusi, le vessazioni, le esazioni di alcuni dei suoi delegati, Roma simboleggiava, nelle province, l’ordine, la giustizia, la libertà, e Paolo aveva quasi sempre avuto da lodarsi dei magistrati incontrati sui suoi passi. Ma quando mutarono le disposizioni del potere verso la Chiesa, l’insegnamento della Chiesa non mutò affatto: appunto allora Paolo ordinava a Timoteo di far pregare « per i re e per tutti quelli che hanno il potere (I Tim. II, 1-2)», e prescriveva a Tito di predicare la sottomissione e l’obbedienza ai poteri costituiti (Tit. III, 1). Appunto allora Pietro scriveva: « Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per il Signore; sia al re come a chi ha l’autorità suprema, sia ai governatori che sono da Lui delegati per punire i cattivi e per lodare ibuoni. Poiché tale è la volontà di Dio (I Piet. II, 13-17) ». Un commentatore moderno ha scoperto tra idue Apostoli questo curioso contrasto: Pietro sarebbe repubblicano, e Paolo monarchico! Il cittadino romano sarebbe imperialista in politica come in teologia, l’Ebreo invece della Galilea avrebbe le tendenze rivoluzionarie dei suoi compatriotti (Bigg. The Epis. Of St. Peter, edimbur. 1901). Per un commentatore critico, qui vi è  troppa fantasia. Si potrebbe egualmente sostenere il paradosso contrario; san Pietro infatti parla del « re » (nome dell’imperatore romano in Oriente) e dei suoi delegati, propretori o proconsoli, mentre san Paolo, per rendere il suo insegnamento indipendente dai tempi e dai luoghi, si astiene dal fare designazioni speciali. Una differenza meno illusoria è questa, che san Paolo, con un’eccezione quasi unica, qui sta costantemente sul terreno del diritto naturale e traccia ai fedeli il loro dovere in quanto sono cittadini e uomini, mentre invece il suo collega, mettendosi sul terreno del diritto cristiano, fa appello alla volontà di Dio e all’ordine del Signore. L’obbedienza alla legge civile ha per limite la legge divina; ma non conveniva presentare l’ipotesi di un conflitto tra la legge di Dio e la legge dell’uomo. Presentandosene il caso, i fedeli avevano per guida il precetto evangelico (Matt. XXII21; marc. XII, 17; Luc. XX, 25); la ragione diceva loro che l’autorità superiore deve essere preferita; la condotta degli Apostoli dinanzi al sinedrio, dettava loro la risposta da fare. Ma lasciando da parte questa eccezione che del resto non deroga affatto al principio generale di obbedire all’autorità, i Cristiani dei primi secoli si segnalarono sempre per la loro sottomissione. La loro deferenza verso i pubblici poteri fu il trionfo degli apologisti e la confutazione perentoria delle calunnie popolari circa una pretesa ostilità dei Cristiani contro le istituzioni imperiali. San Clemente di Roma, san Policarpo, san Giustino, Tertulliano ed Origene, per non citarne altri, c’insegnano con quanto zelo la Chiesa nascente si conformasse alle istruzioni di san Paolo. Se, fin tanto che l’impero rimase pagano, essa non favorì la partecipazione dei suoi membri alle funzioni pubbliche e soprattutto non fu mai favorevole alla professione militare, era perché tali impieghi, che erano del resto facoltativi, esponevano quasi sempre il neofito ad atti d’idolatria e lo mettevano sovente nell’alternativa di scegliere tra l’apostasia ed il martirio. Non dobbiamo poi neppure dimenticare che la Chiesa, fino dalla sua origine, ebbe coscienza di essere una società distinta, investita dal suo divino Fondatore, del potere di governarsi e di perpetuarsi. Su tale principio san Paolo giudica e punisce iCristiani scandalosi e biasima con tanta energia il ricorso aitribunali profani (I Cor. VI, 1-6).

2. Dio è Autore della famiglia come è Autore della società; ma nella famiglia cristiana Egli è il prototipo del padrone, del padre, dello sposo, mentre il servo, il figlio e la sposa hanno la Chiesa come simbolo e come modello. Il Cristianesimo non scioglie i matrimoni, ma li consolida col santificarli; non rallenta i vincoli naturali tra padri e figli, ma li sancisce e li restringe; esso rispetta le relazioni legittime tra padroni e schiavi, ma le soprannaturalizza. Il gran principio inculcato da san Paolo ai suoi neofiti, è di non mutare le condizioni esterne della loro vita, purché si possano mettere d’accordo con i precetti del Vangelo. La sua parola d’ordine e la sua consegna è questa: svestirsi del vizio per rivestirsi di Gesù Cristo, ma restare al posto assegnato dalla Provvidenza (I Cor. VII, 20). Questa raccomandazione riguardava soprattutto gli schiavi che accorrevano in folla tra le braccia aperte della Chiesa. Voi non dovete più inquietarvi del vostro stato, dice loro l’Apostolo; nel Cristo, voi siete i fratelli degli uomini liberi, ed uguali a loro; serviteli per amore di Gesù Cristo, senza asservirvi moralmente a loro. Con mano ferma egli indica ai padroni e agli schiavi i loro doveri reciproci (Gal. III, 22-25). Gli schiavi devono « obbedire ai loro padroni secondo la carne, in tutto ciò che non è contrario alla legge di Dio; devono farlo con un sentimento di timore ispirato dal timore del Signore, e non per paura dei castighi; « nella semplicità del cuore », senza ipocrisia e senza finzione; « dal fondo dell’anima », con spirito di fede e per un motivo soprannaturale; per piacere a Dio e non per adulare il padrone spiegando uno zelo maggiore in loro presenza. Essi devono rianimare la loro obbedienza con la prospettiva della ricompensa futura, e pensare che si tratta di giustizia, che la loro coscienza ne è impegnata, e che essi dovranno rendere conto della loro condotta al tribunale del Giudice supremo. Alla loro volta i padroni cristiani devono « osservare verso i loro schiavi il diritto » scritto e naturale; oltre lo stretto diritto, devono applicare le regole dell’equità »; astenersi da « quelle minacce » orribili e avvilenti di cui i pagani erano così larghi; finalmente ricordarsi del comune Padrone e del comune Giudice che non fa accettazione di persone (Col. IV, 1). Ecco il codice che deve d’allora innanzi regolare le relazioni tra padroni e schiavi. Ma quando l’Apostolo dimenticando il suo compito di legislatore, parla da consigliere e da padre, il suo cuore gli detta, in favore dello schiavo Onesimo, parole sublimemente patetiche e d’incomparabile tenerezza: il mondo non aveva mai udito una simile lezione di fratellanza. La posizione degli schiavi Cristiani presso un padrone pagano poteva diventare quasi intollerabile. San Paolo non si limita, come san Pietro (I Piet. II, 18), a ricordare loro che ne avranno maggior merito presso Dio. Tito è incaricato di ingiungere a quei neofiti « di essere sottomessi ai loro padroni, di compiacerli in tutto, senza contraddirli, senza danneggiarli in nulla, ma mostrando loro una perfetta fedeltà, per onorare in tutte le cose la dottrina di Dio nostro Salvatore (Tit. II, 9-10) ». I poveri schiavi sono trasformati in Apostoli; con la loro pazienza e la loro sommissione a tutte le prove, diventano i predicatori muti della fede. Chi potrebbe dire quanti furono guadagnati alla Chiesa nascente dall’eroismo degli schiavi Cristiani? Tuttavia certi schiavi, meno imbevuti dello spirito cristiano, erano più solleciti dei loro diritti che non dei loro doveri; alcuni servivano i pagani con mal garbo, credendo di fare loro troppo onore, e davano così occasione di bestemmiare il nome del vero Dio e di calunniare il Vangelo. Altri erano negligenti nel servizio dei loro padroni Cristiani appunto perché erano Cristiani; ma questo, dice loro l’Apostolo, è pagare con l’ingratitudine la dolcezza e la benignità dei vostri benefattori (I Tim. VI, 1). Intorno ai doveri reciproci dei genitori e dei figli non v i era molto da insistere. Se gli Ebrei, con una casistica perversa, eludevano talora il quarto precetto del Decalogo (Matt. XV, 3-6), non potevano però ignorarlo; ed i Gentili, quando mancavano all’obbedienza ed al rispetto verso i genitori, non potevano sfuggire al rimprovero della loro coscienza (Rom. I, 30). Perciò san Paolo è brevissimo su questo punto: «Figliuoli, obbedite in tutto ai vostri genitori, perché questo è gradito a Dio. Genitori, non irritate i vostri figli, affinché non si scoraggino (Col. III, 20) ». Nel rivolgersi a i figli, fa astrazione dal caso eccezionale e quasi impossibile, che genitori Cristiani comandino qualche cosa di contrario alla legge di ina. Nel passo parallelo, è citato il precetto del Decalogo, ma non tanto per dare maggiore autorità alle sue parole, quanto piuttosto per la promessa con cui lo accompagna il legislatore ebreo. Non era necessario comandare ai genitori l’amore dei figli, essendo questo un sentimento che la natura imprime nel loro cuore; bastava ricordare loro l’obbligo di educarli come si conviene a Cristiani (Col. III, 21). Tuttavia la fortezza non deve degenerare in asprezza, né la fermezza in rigore: un’educazione alla spartana non piace a san Paolo. Egli non vuole che si rendano pusillanimi i figliuoli con la troppa esigenza: soffocando in loro la spontaneità, la confidenza e l’abbandono, con una severità intempestiva, vi si fa nascere la dissimulazione, il timore servile e la falsità. – Non è possibile offrire agli sposi un ideale più nobile di quello che loro propone san Paolo. Egli aveva scritto ai Colossesi: « Donne, obbedite ai vostri mariti come si conviene, nel Cristo. E voi, mariti, amate le vostre spose e non mostrate loro nessuna amarezza (Col. III, 18-19) ». Se si fosse limitato a questo laconico precetto, nessuno mai ne avrebbe indovinata la ragione profonda; ma per fortuna egli stesso si commenta nell’pistola agli Efesini: « Donne, state sottomesse ai vostri mariti come al Signore; poiché il marito è il capo della moglie come il Cristo è il capo della Chiesa, (che è) il suo corpo di cui Egli è il salvatore. Come la Chiesa è soggetta al Cristo, così devono le donne stare soggette ai loro mariti in ogni cosa. Mariti, amate le vostre mogli, come il Cristo amò la Chiesa e si diede per lei, per santificarla, avendola purificata con l’acqua battesimale, nella parola, per condurla dinanzi a sé, questa Chiesa, gloriosa, santa e immacolata, senza macchia né ruga né altro di simile (Ephes. V, 22-28)». I doveri della moglie si riassumono nella sommissione ispirata da un motivo soprannaturale. L’obbligo del marito comprende l’amore, la devozione e la sollecitudine continua di assicurare la felicità della sua compagna, a imitazione del Cristo che s’immola per la sua Chiesa. Modello sublime per entrambi gli sposi cristiani! L’Antico Testamento si serviva volentieri dell’allegoria del matrimonio per rendere sensibile l’unione intima, unica nel suo genere, che vi era tra Jehovah e il suo popolo eletto; san Paolo invece vuole che l’unione ancora più stretta del Cristo con la sua Chiesa serva di regola e di misura all’intimità del vincolo coniugale.

3. La rivelazione di giustizia e di perfezione che il Cristianesimo portava al mondo e che doveva metterlo in rivoluzione, non appare in nessun luogo con maggiore splendore, che nel nuovo concetto del matrimonio. La mostrano fin da principio quattro progressi i quali non mancheranno di influire sui mutui rapporti dei coniugi: l’unità, l’indissolubilità, l’uguaglianza dei diritti e la santità. Sotto l’influenza della legislazione romana che la proscriveva, la poligamia tendeva allora a scomparire; è però troppo il dire che in quei tempi non si faceva più questione di bigamia né di poligamia tra i veri Ebrei ». Né il Talmud né il Vangelo ci hanno conservato il ricordo di quei veri Ebrei che si sarebbero fatto scrupolo di valersi della tolleranza legale. Giuseppe riferisce minutamente le disposizioni mosaiche senza accennare che fossero cadute in disuso e senza sentire il bisogno di farne una difesa. Pare anche che non si sia fatto un rimprovero speciale ad Erode che aveva contemporaneamente nove mogli. In realtà, per gli Ebrei di allora, come per i musulmani dei nostri giorni, la pluralità delle mogli, pure essendo lecita, era un lusso che soltanto i ricchi si potevano permettere. Essa era invece opposta ai principi del Cristianesimo: Gesù l’aveva abolita ricordando che, nei disegni del Creatore, l’uomo e la donna erano destinati a diventare una sola carne (Marc. X, 8).Questa unione così intima escludeva ogni divisione; ed il significato simbolico del matrimonio cristiano che rappresenta l’unione della Chiesa e del Cristo, la escludeva ancora di più. – Pertanto la storia ecclesiastica non presenta neppure un esempio di bigamia ufficialmente tollerata; bisognò arrivare alla Riforma del secolo XVI per vedere sanzionato tale mostruoso abuso. Neppure la dottrina dell’indissolubilità non è una specialità di san Paolo, come non è la dottrina dell’unità del matrimonio: egli altro non fa che promulgarla nel nome del Signore (I Cor. VII, 10);ma forse egli la insegna più chiaramente che gli stessi evangelisti; infatti al coniuge separato dall’altro per qualsiasi ragione, egli lascia soltanto questa alternativa: o riconciliarsi, o rinunziare ad altre nozze (I Cor. VII, 11), il che suppone, in ogni ipotesi, che il primo matrimonio dura. L’eccezione che egli sembra fare nel caso detto « privilegio paolino » non è una vera eccezione, poiché non si tratta del matrimonio cristiano (I Cor. VII, 12-16). Più caratteristico è l’insegnamento che si riferisce all’uguaglianza dei diritti tra gli sposi. Non si tratta di una eguaglianza assoluta che distruggerebbe la subordinazione essenziale all’unione coniugale: il rapporto tra la testa e il corpo è un rapporto di disuguaglianza (I Cor. XI, XI, 3). La soggezione naturale della donna all’uomo, soggezione simboleggiata dal velo, appare in diverse maniere nel racconto della creazione (I Cor. XI, 5-10). Non fu tratto l’uomo dalla donna, ma la donna dall’uomo (I Cor. XI, 8); l’uomo non fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo (I Cor. VII, 9); la donna è il riflesso dell’uomo, come l’uomo è il riflesso di Dio (ivi, 7). Si può stabilire questa gradazione ascendente: la donna, l’uomo, il Cristo, Dio (ivi, 3). Aggiungiamo ancora, per seguire san Paolo fine alla fine, che l’uomo fu creato per il primo e che fu sedotto dopo la donna (I Tim. II, 13-14). Vi sono però dei compensi: se la donna ha bisogno dell’uomo, anche l’uomo ha bisogno della donna, e se la prima donna fu tratta dall’uomo, ora l’uomo nasce dalla donna (I Cor. XI, 11-12). Ma i diritti e i doveri coniugali sono i medesimi; il privilegio paolinoriguarda qualunque sposo convertito, così l’uomo come la donna (I Cor. ,VII, 12-13); e i due coniugi sono egualmente tenuti a conservare la stabilità della famiglia cristiana, benché la formola che enunzia questo dovere insinui con delicatezza la subordinazione della donna (I Cor. Ivi, 11). Il capolavoro morale del Cristianesimo sta nell’aver santificato il matrimonio. Il dovere coniugale è pienamente lecito — ed è questa la dottrina di san Paolo — ed il solo nome di dovere ne dimostrerebbe la liceità (ivi, 3). Se il matrimonio in sé è buono come istituzione divina, il matrimonio cristiano è santo come segno sensibile di una cosa santa. Certamente la verginità è migliore (ivi, 1); ma è una grazia che Paolo è lieto di aver ricevuta, che augura agli altri fedeli (ivi, 7), ma che non impone a nessuno. Non soltanto la verginità è migliore, ma è preferibile anche la vedovanza (ivi, 40): le seconde nozze fermano il candidato alle soglie del chiericato (I Tim. III, ; Tit. I, 6). Vi sono tuttavia dei casi in cui il matrimonio e le seconde nozze sono consigliabili: tutto dipende dalle circostanze e dalle persone; purché non vi sia, naturalmente, qualche impegno precedente, poiché è delitto mancare alla fede giurata (I Tim. V, 11-12). È tale la santità del vincolo coniugale, che nei matrimoni misti essa si riversa sul coniuge pagano e sui figli nati da questa unione (I Cor. VII, 14). Il matrimonio cristiano prepara reclute al Battesimo e candidati per il cielo. L’Apostolo incorona il suo insegnamento con queste consolanti parole: « La donna sarà salva diventando madre — per il fatto che diventa madre (διὰ τεκνογονίας = dia tecnokonias)— purché perseveri nella fede, nella carità e nella santità, congiunte con la modestia (I Tim. II, 15) ».

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

CONOSCERE SAN PAOLO (48)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

I. I PRINCIPI DELLA MORALE.

1  — FONDAMENTI DELLA MORALE CRISTIANA. — 2. L A VOLONTÀ DI DIO. — 3. LA RIGENERAZIONE BATTESIMALE. — 4. RELAZIONI NUOVE.

1. Invece di svolgersi in periodi lunghissimi, intralciati da incisi e da congiunzioni causali, ripieni di digressioni e di parentesi che non danno tregua alla mente e all’occhio, come sono le parti dommatiche, le sezioni morali delle lettere di Paolo, tagliate, sminuzzate in brevissimi incisi, trascorrono per lo più come una monotona litania senza nesso apparente, senza legami grammaticali, senza una relazione con l’idea principale. Non vi è nulla di più sconcertante che tale contrasto. Il lettore si sente talora respingere da quella parenesi scucita che si direbbe fuori proposito e che pare adatta a tutte le situazioni ed a qualunque destinatario. Se la morale delle due Epistole agli Efesini ed ai Colossesi forma un piccolo codice familiare abbastanza ordinato, se quella dell’Epistola ai Romani riassume i principali doveri dei cittadini verso l’autorità e verso i loro simili, non si vede perché l’Apostolo le metta in queste lettere piuttosto che nelle altre. Soltanto nell’Epistola ai Galati la morale scaturisce dal dogma; ma anche qui non vi è nulla che ricordi l’arte perfetta dell’Epistola agli Ebrei, dove il dogma e la morale si fondono armonicamente. Quasi sempre troviamo delle litanie di consigli e di precetti come questi:

Riprendete gl’indisciplinati;

incoraggiate i pusillanimi;

sostenete i deboli;

siate sempre tolleranti con tutti

Non estinguete lo spirito;

non disprezzate le profezie;

provate tutto, attaccatevi al bene;

evitate ogni apparenza di male

(I Tess. V, 14; 19-221).

Questo fenomeno non è affatto speciale delle lettere minori, e anche le maggiori ce ne danno molti esempi:

Dare l’elemosina con semplicità,

aiutare gli altri con sollecitudine,

fare misericordia con allegrezza.

Carità senza ipocrisia.

Abborrite il male, attaccatevi al bene…

Allegri per la speranza,

pazienti nella tribolazione,

perseveranti nella preghiera.,

provvedendo alle necessità dei santi,

praticando l’ospitalità.

Benedite i vostri persecutori;

benedite e non vogliate maledire.

Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia,

piangere con quelli che piangono

(Rom. XII, 8-15).

In questa lunga serie di frasi senza nesso grammaticale e senza unità logica, è difficile scorgere un principio direttivo d’insegnamento morale. Ecco precisamente il punto delicato — stavo per dire il punto debole — della morale di Paolo: dopo che ha fatto tabula rasa della Legge mosaica, non dice mai chiaramente con che cosa intenda sostituirla. La Legge di Mosè è abolita per sempre: il Cristo ne è il fine, lo scopo al quale essa certamente tende, ma ne è anche il limite dove essa spira (Rom. X, 4). Il codice del Sinai è stato lacerato, inchiodato sopra la croce (Ephes. II, 15; Col. II, 14). — I cristiani sono morti alla Legge, e la Legge per loro è morta (Rom. VII, 4, 6; Gal. II, 19; Col. II, 20). Figli della donna libera, e non della schiava, essi hanno il diritto e il dovere di perseverare nella libertà che Gesù Cristo ha loro acquistata (Gal. IV, 21, 31; V, 1). Nel vedere Paolo che si accanisce a distruggere tutto l’edificio della legge antica, senza che sembri darsi pensiero di ricostruirlo, si domanda con inquietudine dove mai si fermerà tale opera di demolizione e su quale base poggerà l’obbligazione della nuova economia. Poiché la distinzione immaginata da certi esegeti, tra la legge morale e la legge cerimoniale, delle quali l’una sopravviverebbe e continuerebbe a servire di norma, mentre l’altra sarebbe colpita di morte dal Cristo che essa per la prima avrebbe ucciso, tale distinzione sottile è sconosciuta all’Apostolo. Per lui il codice del Sinai è indivisibile, è un edificio che resta o che cade tutto di un pezzo. Non occorre neppure esaminare se il suo atteggiamento verso la Legge si sia venuto modificando con l’età, o nel senso dell’intransigenza, o nel senso della conciliazione: le sue idee già pienamente determinate fin dalla riunione apostolica dell’anno 50, prima che egli scrivesse una sola riga delle sue lettere (Gal. II, 3-7, 14-21), non si mutarono mai in seguito. In ogni tempo egli seppe mostrarsi condiscendente, tollerando pratiche indifferenti consacrate dall’uso e dai ricordi religiosi, imponendole anche a se stesso, quando occorreva (Act. XVI, 3); ma dal principio alla fine della sua carriera egli sostenne sempre come tesi fondamentale l’abolizione totale della Thora, così per gli Ebrei come per i Gentili. – Siccome la luce sempre più viva, proiettata su la legge naturale dalla rivelazione, è un fatto indiscutibile, si potrebbe tentare di ricostruire, sopra le rovine della Thora, un codice nuovo il quale altro non sarebbe che la legge naturale illuminata, nei suoi punti oscuri, dalla rivelazione divina. Questo sistema, per quanto possa essere ingegnoso, non è quello di Paolo. L’Apostolo riconosce benissimo l’esistenza della legge naturale; dichiara che sono inescusabili i pagani per averla violata (Rom. I, 32); descrive la coscienza che cita l’uomo al tribunale e, secondo i casi, lo assolve o lo condanna (Rom. II, 14-15); ma a questa norma interna non dà il nome di legge (la Legge di S. Paolo è sempre la legge positiva), perché la legge è per lui l’espressione di una volontà positiva. E poi egli non ammetterebbe mai che il Cristiano, liberato dal giogo della Legge, venga retrocesso allo stato di natura: la Legge mosaica segna necessariamente una tappa nell’ascesa dell’umanità e, se deve scomparire, bisogna che venga sostituita con qualche cosa di meglio. Perciò nel momento stesso in cui oppone il regime della Legge a quello della grazia, insinuando che questi due stati sono incompatibili tra loro, protesta energicamente di essere sciolto da ogni legge ed afferma di dipendere dalla legge del Cristo. Questo è il paradosso: il Cristiano è così essenzialmente libero, che non può essere sotto il giogo della Legge, ed è tuttavia soggetto a una legge. La ragione è che l’economia nuova è una vera legge, se si considera il suo carattere obbligatorio, e non è una legge, se si pensa alle imperfezioni della Legge mosaica: se la chiamiamo legge di grazia, siamo nello spirito dell’Apostolo; se la chiamiamo legge del Cristo, ci conformiamo al suo linguaggio. (Ga. VI, 2).

2. La libertà dei figli di Dio non è la licenza, e la liberazione dal giogo mosaico non è l’esenzione da qualunque freno (Gal. V, 13). Paolo dovette protestare mille volte contro la falsa interpretazione del suo pensiero (Rom. III, 8; VI, 1-15); lo capivano male: egli non disse mai che Dio abbia abolito l’economia antica senza sostituirne una più perfetta. Nel momento in cui Gesù aboliva il regime della Legge, poneva le basi del regime della grazia (Matt. V, 7).Non vi fu soluzione di continuità: il Nuovo Testamento prende per conto suo la legge morale dell’Antico che esso soppianta: non contento di sanzionarla, la perfeziona e la completa: « Tutto ciò che è vero, scrive san Paolo ai Filippesi, tutto ciò che è onorevole, tutto ciò che è giusto, tutto ciò che è puro, tutte ciò che è amabile, tutto ciò che è di buona fama, virtuoso e degna di elogio, formi l’oggetto delle vostre meditazioni ». Ecco tutta la legge naturale, sotto i suoi diversi aspetti, proposta ai fedeli; ma essa non obbliga più soltanto come legge naturale: « Tutto questo, soggiunge l’Apostolo, voi l’avete appreso e ricevuto (da noi); voi lo avete sentito dire da noi e l’avete visto fare da noi; praticatelo (Fil. IV, 8-9) ». In grazia della rivelazione evangelica, la legge naturale — coma pure il codice sinaitico nella sua parte morale — torna ad essere una legge positiva. La relazione però tra la legge e l’uomo non è più la medesima. Il difetto capitale della Legge antica era quello di essere esteriore all’uomo e poco proporzionata al nostro stato attuale di decadenza (Rom. VII, 14). Per ristabilire l’equilibrio, bisognava o abbassare la Legge fino al livello dell’uomo caduto, oppure innalzare l’uomo fino all’altezza della Legge divina. Essa era stata imposta agli Israeliti, col doppio intermediario di Mosè e degli Angeli, in mezzo ai terrori del Sinai (Gal. III, 19); nascendo soggetto alla Legge, come membro del popolo eletto, l’Ebreo fin dal primo destarsi della sua ragione, ne subiva, volere o no, il fardello reso più pesante dal sentimento della sua impotenza (Rom. VII, 5-11); nulla di spontaneo, di libero, di generoso, di filiale: lo schiavo della Legge non poteva nutrire altri sentimenti che quelli dello schiavo, timore, diffidenza e noia. Ben diversa è la condizione del cristiano: con l’atto di fede e col Battesimo che ne è il sigillo, egli si ò messo liberamente al servizio di Dio e si è fatto soldato del Cristo. Egli si libera dal giogo della Legge soltanto col rinunziare alla sua indipendenza: la volontà di Dio, accettata di cuore e nella misura in cui si manifesterà, diventa la sua regola di condotta: « Non sapete che dandovi a qualcuno come schiavi per obbedirgli, voi diventate schiavi di colui al quale obbedite! … Ora, liberati dal peccato ed asserviti a Dio, voi avete come frutto la santificazione e come fine la vita eterna. Poiché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna nel Cristo Gesù nostro Signore (Rom. VI, 13-23) ». Si può quasi essere sicuri che Paolo, nello scrivere queste parole, pensava allo schiavo ebreo ed al soldato romano. Presso gli Ebrei, la schiavitù era poco diversa dalla servitù ordinaria; per i compatrioti non poteva mai prolungarsi oltre i sei anni, senza l’espresso consenso dell’interessato; dato poi questo consenso, lo schiavo entrava di pieno diritto e per sempre nella casa del suo padrone, ma la sua condizione non aveva nulla di umiliante e di degradante; egli faceva parte della famiglia, godeva dei privilegi religiosi della nazione, era uomo e cittadino, e non già, come presso i Gentili, una bestia da soma. Perciò Paolo che con tanta energia respinge ogni sospetto di bassezza e di servilismo, non esita  a chiamarsi lo schiavo del Cristo e persino lo schiavo dei suoi fratelli, peramore del Cristo. Schiavo del Cristo, egli è pure soldato del Cristo. È noto che le legioni romane assoldavano soltanto uomini liberi: l’arruolamento dei servi, anche quando erano stati fatti liberi e nei casi di forza maggiore, era sempre considerato come un fatto da non imitarsi e cosa poco compatibile con la maestà delle aquile romane. Le reclute, nel prestare il giuramento, votavano la loro vita all’imperatore e si obbligavano ad un’obbedienza assoluta, molte volte più dura che quella della schiavitù, ma elevata e nobilitata dalla loro qualità di cittadini e dal sentimento di un dovere abbracciato spontaneamente. Per questo l’Apostolo adopera tanto volentieri il linguaggio militare che gli ricorda l’impegno contratto col Battesimo e lo stato di dipendenza in cui volontariamente si è messo con l’atto di fede che lo ha fatto Cristiano. Al suo discepolo prediletto dà il titolo di soldato del Cristo (II Tim. II, 3), il titolo più onorevole che egli conosca; scongiura i Tessalonicesi a rivestire l’armatura delle virtù teologali, la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V cfr. Is. LIX, e Sap. V, 17-20); in una famosa panoplia egli descrive agli Efesini tutta l’armatura del legionario, la corazza e l’elmo, la spada corta a due tagli e lo scudo lungo coperto di pelle, e non dimentica neppure la calzatura ed il cingolo di cuoio, ein tutto questo vede altrettanti simboli di virtù cristiane (Ephes. VI, 13-17). Se le metafore di armi, di combattimento, di stipendio, di milizia e altre simili ritornano continuamente sotto la penna dell’Apostolo, è perché egli ha sempre in mente il giuramento col quale si è votato al Cristo, giuramento che lo obbliga a « non impacciarsi nelle sollecitudini di questa vita, per pensare unicamente a piacere al suo capo (II Tim. II, 3-4) ». Soldato del Cristo e schiavo volontario, il Cristiano non appartiene dunque più a se stesso: la regola da cui dipende, poiché l’ha accettata liberamente, è la volontà di Dio, la volontà del Signore (Rom. XII,; Ephes. VI, 6). Tale è pure la norma esteriore che nessun Cristiano può ignorare. Uno dei fatti più certi dell’età apostolica, benché i critici abbiano impiegato assai tempo a constatarlo, è l’esistenza di una catechesi morale abbastanza uniforme nel suo contenuto. San Paolo vi allude chiaramente quando scrive ai Corinzi: « Timoteo vi ricorderà le mie vie nel Cristo, come io insegno dappertutto ed in ogni chiesa (I Cor. IV, 17) ». Le vie di Paolo non sono la sua condotta, ma come indica abbastanza la parola e come lo mette fuori di dubbio l’inciso esplicativo, la sua dottrina morale soprannaturale. Si facciano pure le meraviglie, se si vuole, perché un carattere così libero e di primo impeto si sia legato ad un metodo d’istruzione regolare e per così dire stereotipato; ma qui vi è la sua testimonianza formale: egli insegnava « dappertutto, in ogni Chiesa », le stesse cose e nella stessa maniera, tante che più tardi gli bastava mandare uno dei suoi discepoli per rinfrescarne la memoria. Ma vi èdi più: questa catechesi esiste anche nelle altre chiese, e san Paolo scrive ai Romani che non sono stati evangelizzati da lui: « Voi avete obbedito al tipo di dottrina che vi è stato trasmesso », o forse con maggior forza: « al tipo di dottrina al quale foste dati (Rom. VI, 17) ». Tutto il contesto fa vedere che questo tipo di dottrina è un insegnamento morale, e il nome stesso di tipo dice che la trasmissione non era abbandonata al capriccio o all’ispirazione individuale. Paolo interdice ai Tessalonicesi ogni relazione coi fratelli che si allontanassero dalla tradizione ricevuta da lui; la stessa ingiunzione fa ai Romani riguardo ai fedeli che trasgredissero la dottrina che loro fu insegnata (II Tess. III, 6 e Rom. XVI, 17). Via, tradizione, dottrina, tipo di dottrina, didascalia — e persino la parola con cui si è formata catechesi (Gal. VI, 6) — sono tutti termini che con sorpresa si trovano negli scritti dell’Apostolo, ed in un senso assai vicino a quello delle generazioni seguenti. Dunque la volontà di Dio, proclamata dal Cristo, promulgata dagli Apostoli (II Cor. V, 20), destava nei neofiti un’idea abbastanza concreta. Quando Paolo diceva laconicamente: « Non fate come i Gentili che non hanno Legge, né come gli Ebrei che hanno soltanto la Legge; la vostra condotta sia degna dei santi, degna della vostra vocazione, degna del Vangelo, degna del Cristo, degna di Dio (Rom. XVI, 2) »; queste brevi parole dicevano molto: esse riportavano il neofito al momento in cui, abbracciando la fede, l’aveva rotta col passato, si era abbandonato a Dio e sottomesso alla legge del Cristo; esse riassumevano con una frase la catechesi apostolica della quale certamente nulla ci può dare un’idea più approssimativa che le Vie, ossia il piccolo compendio morale inserito in due dei più antichi monumenti della letteratura cristiana, la Dottrina degli Apostoli e l’Epistola di Barnaba.

3. All’obbiezione che noi con un sotterfugio mettiamo il Cristiano sotto il giogo della Legge da cui il Cristo lo aveva liberato, e che la condizione del bambino battezzato che eredita degli obblighi prima di averli conosciuti, è identica a quella del bambino ebreo che nasce soggetto alla Legge, rispondiamo che ciò non è vero affatto. Certamente l’Apostolo, rivolgendosi a convertiti di data recente, parla della fede attuale degli adulti; ma la sua dottrina si può applicare anche alla fede abituale del bambino Cristiano. La fede, attuale o abituale, ha sempre la medesima tendenza; essa è per sua natura uno slancio spontaneo della mente e del cuore, col quale l’uomo rinunzia nelle mani di Dio la sua intelligenza e la sua volontà. Se vi è qualche differenza, questa è tutta a vantaggio della fede abituale, perché qui lo Spirito Santo opera da solo, e non vi è nulla che ne ostacoli l’azione. Ora l’impulso intimo dello Spirito Santo non si può paragonare ad una costrizione esteriore; essa solleva e non opprime l’uomo; essa toglie all’obbedienza il carattere servile. Col Battesimo il Cristiano diventa soggetto alla legge della grazia, come nasce soggetto alla legge di natura; ma parlando propriamente, egli non è sotto la legge perché non è, come Israele, sotto il giogo della Legge. Nessuno infatti vorrà sostenere che la legge naturale, inerente al nostro essere, sia per l’uomo un giogo estraneo: ora la legge del Cristo è per il Cristiano quello che è per l’uomo la legge naturale. La nostra incorporazione col Cristo mistico non è soltanto una trasformazione e una metamorfosi, ma è una vera creazione, la produzione di un nuovo essere (II Cor. V, 17), soggetto di nuovi diritti e perciò di nuovi doveri: « Non sapete dunque che tutti noi i quali fummo battezzati nel Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte? Noi fummo con Lui sepolti col Battesimo nella sua morte, affinché, come Egli è risuscitato da morte per la gloria del Padre, così noi camminiamo nella novità della vita. Poiché se fummo innestati su Lui dalla somiglianza della sua morte, lo siamo anche da quella della sua risurrezione; sapendo benissimo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso con Lui, affinché il corpo del peccato sia annientato, perché non serviamo più al peccato (Rom. VI, 3-6) ». Per chi è familiare col pensiero di Paolo, questo periodo intraducibile non ha nulla di oscuro. Il rito del Battesimo, operando quello che significa, ci genera alla vita divina; ci fa morire a noi medesimi immergendoci nella morte del Cristo; c’infonde il succo divino innestandoci su Lui; ci avvolge della sua grazia e del suo spirito immergendoci nel suo corpo mistico. E allora « non sono più io che vivo, ma è Gesù Cristo che vive in me ». È evidente che questo essere nuovo richiede operazioni nuove: Operatio sequitur esse. Per conoscere la natura e l’estensione dei nostri obblighi, ci basta che riflettiamo al mistero della nostra nascita soprannaturale. Che cosa vediamo nel Battesimo? Una morte, una risurrezione, una sepoltura, un ritorno alla luce: e queste quattro cose prodotte dal rito sacramentale che le simboleggia, sono destinate a durare sempre, e non solo a durare, ma a crescere ed a svilupparsi. – La morte al peccato è per se stessa consumata e definitiva; perché Gesù Cristo morendo spezza lo scettro del peccato e, facendoci morire con Lui, ci associa alla sua vittoria; ma a differenza della morte fisica, la morte al peccato è suscettibile di più e di meno: non basta mantenerla, ma bisogna condurla alla perfezione: « Voi siete morti e la vostra vita è nascosta col Cristo in Dio… mortificate dunque le membra terrestri: fornicazione, impurità, passione, desideri cattivi (Col. III, 5) ». L’ideale è questo: portare sempre più lontano lo stato di morte di Gesù. La vita della grazia, eterna di sua natura, vuole anch’essa essere continuamente fortificata e rinnovata: « Se voi siete risuscitati col Cristo, cercate le cose dell’alto… aspirate alle cose dell’alto, non alle cose della terra (Col. III, 1-2) ». La nostra sepoltura nel Cristo deve seguire un progresso analogo; perciò l’Apostolo, dopo di aver detto: « Voi tutti che foste battezzati nel Cristo avete rivestito il Cristo », soggiunge: « Rivestite il Signore Gesù Cristo (Gal. III, 27; Rom. XIII, 14)», perché taleatto ammette dei gradi indefiniti. Finalmente Paolo implora per i neofiti illuminati dal Battesimo, lumi sempre più vivi, e li invita a camminare di chiarezza in chiarezza (Ephes. I, 18; II Cor. III, 18).

4. La morale di Paolo, come si vede, sta su basi salde: essa si appoggia, da una parte, sopra la volontà positiva di Dio, proclamata da Gesù Cristo, promulgata dagli apostoli, liberamente accettata dai neofiti nel primo atto di fede; e dall’altra parte, sopra la rigenerazione battesimale e sopra le nuove relazioni che questa produce; poiché dall’essere soprannaturale ricevuto nel Battesimo, derivano speciali relazioni con ciascuna delle tre Persone divine:

Relazione di filiazione verso il Padre;

Relazione di consacrazione verso lo Spirito Santo;

Relazione d’identità mistica con Gesù Cristo.

Analizzare queste tre relazioni e dedurne i corollari equivarrebbe adesporre minutamente tutta la morale dell’Apostolo, enon è questo il nostro scopo: noi vogliamo soltanto tracciare la via; ma questo rapido sguardo ci farà vedere a quali altezze Paolo innalzi se stesso e innalzi anche noi con sé. Tra la filiazione adottiva del Nuovo Testamento e la filiazione teocratica dell’Antico corre un abisso. Quest’ultima era collettiva ed arrivava all’individuo soltanto mediante il popolo eletto; il figlio di Dio era propriamente Israele, e non l’Israelita. Se qualche personaggio dell’antica alleanza riceve eccezionalmente questo titolo, è perché porta su la sua fronte un riflesso profetico del Figlio per eccellenza. Il Cristiano invece è figlio di pieno diritto e personalmente; lo Spirito Santo gli mette su le labbra il nome di Padre che indica le sue nuove relazioni con Dio; ma con le prerogative di figlio egli ne riceve pure i doveri di gratitudine, di fiducia e di amore (Rom. VIII, 15-17). La presenza dello Spirito Santo che ci consacra come un santuario, crea tra lui e noi un nuovo vincolo che è difficile a definirsi, ma che è impossibile negare. Ora ogni nuova relazione è fonte di nuovi obblighi: di qui, per il Cristiano, il dovere di non contristare lo Spirito (Ephes. IV, 30), di non estinguere lo Spirito (I Tess. V, 19), e soprattutto di non distruggere o profanare il suo tempio (I Cor. 16-17; VI, 19; II Cor. VI, 16; Ephes. II, 21). Ma qui abbiamo anche la fonte di privilegi gloriosi: ospite dell’anima giusta, lo Spirito non vi rimane inoperoso, ma in essa produce i carismi, i doni, le grazie dello stato; versa in essa l’unzione e la luce; vi scolpisce la legge di Dio in caratteri indelebili. Così si spiega quella espressione che sembrerebbe enigmatica: « Se siete guidati dallo Spirito, voi non siete sotto la legge (Gal. V, 18) ». Il Cristiano può obbedire alla legge senza essere sotto la legge, perché la legge per lui non è più un giogo esterno che l’opprime, ma un principio interno che lo guida e lo spinge innanzi: ben lungi dall’asservirlo e dall’opprimerlo, « la legge dello Spirito di vita lo libera dalla legge del peccato e della morte (Rom. VIII, 2) ». La dottrina del corpo mistico, il capolavoro di Paolo, non è meno feconda per lamorale che per il dogma. La prima volta che la propone, egli stesso ne fa l’applicazione con una chiarezza che non lascia nulla adesiderare. Nel dimostrare che la diversità delle membra e l’unità di vita sono essenziali a questo corpo di cui Gesù Cristo è il capo e lo Spirito Santo è l’anima, egli ne deduce i doveri reciproci di carità, di giustizia, di solidarietà, con l’obbligo, per ciascun membro, dicollaborare al bene generale (I Cor. XII, 12-27). È tutto un programma di morale sociale compendiato, la cui originalità consiste nel conciliare le esigenze del bene comune non certamente con l’egoismo, ma con la ricerca istintiva dell’interesse personale. Non pare che si possa attribuire al caso ilfatto che le altre tre descrizioni del corpo mistico servano precisamente come di prefazione alla seconda parte delle lettere in cui la morale è nettamente separata dal dogma (Rom. 4,5; Ephes. IV, 12-16; Col. II, 19). L’intenzione appare manifesta nell’Epistola ai Romani, e allora non fanno più meraviglia le raccomandazioni eteroclite di cui abbiamo dato sopra un saggio. Precetti e consigli, in apparenza disparati, trovano la loro unità in questo principio: « Noi siamo un solo corpo nelCristo e, individualmente, le membra gli uni degli altri ». Non è allora evidente che questo principio ha come corollario il dovere « di amarsi con amore di fraternità » e di « prevenirsi a vicenda con l’onore (Rom. XII, 10) ». La dottrina del corpo mistico si presenta sotto un aspetto alquanto diverso nelle Epistole agli Efesini ed ai Colossesi. L’obbligo che ne deriva per ciascun membro è quello di aspirare alla perfezione del capo (Col. II, 19), perché ciascun fedele, affinché vi sia armonia e perfezione, deve sforzarsi di crescere secondo la misura del Cristo.

THE RESERVATION OF THE EUCHARIST – LA CONSERVAZIONE DELL’EUCARISTIA (Note liturgiche)

THE RESERVATION OF THE EUCHARIST

[LA CONSERVAZIONE DELL’EUCARISTIA (note liturgiche)]

1. The Ritual prescribes that the parish priest, or one who has the cure of souls, should take care that some consecrated particles, in sufficient number for the use of the sick and for the communion of the rest of the faithful, should be always reserved in a clean pyx of solid and decent material, well closed with its own lid, covered with a white veil, and as far as possible in an ornamented tabernacle kept locked with a key. This key should be in the keeping of the priest, not in that of the sacristan or other person. As a rule the pyx or ciborium is of silver, and gilded inside. There seems to be no strict law prescribing that it should be consecrated or even blessed, though there is a form for blessing it in the Ritual. The Blessed Sacrament, then, must be thus reserved for the use of the faithful in all cathedrals, parish churches, and chapels of ease attached to parochial churches. Religious Orders of men and women who take solemn vows have the privilege of reserving the Holy Eucharist in their churches. It can only be reserved in other churches or oratories by special indult from the bishop, or from the Holy See in the case of strictly private oratories.

Note. — Regarding the reservation of the Blessed Sacrament, the Second Plenary Council of Baltimore (n. 265) has the following : “Conservari debet in ecclesia Cathedrali, et in quavis ecclesia parochali ut ad infirmos, data occasione, deferri possit. In aliis vero pluribus vel ecclesiis vel sacellis conservari potest vel ex lege, vel ex Pontificis indulto. Qua in re Ordinarios hortamur ut curent, uti nonnisi debita praehabita licentia hoc maximo privilegio quaevis aedes sacra utatur.” Bishops are restricted in their powers to grant leave for reserving the Blessed Sacrament, as appears from a decree of the S. C. of Rites (March 8, 1879).“Potestne Episcopus jure proprio concedere facultatem asservandi SSmum Sacramentum: 1. In Ecclesiis seu Capellis publicis quae tamen titulo parochiali non gaudent, etsi utilitatibus Paraeciae inserviant; 2. In Capellis piarum Communitatum publicis, id est quarum porta pateat in via publica vel in area cum via publica communicante et quae habitantibus omnibus aperiuntur; 3. In Capellis seu Oratoriis interioribus piarum Communitatum, quando non habent Capellam seu Oratorium publicum in sensu exposito, ut evenit, e.g., in Seminariis?” The response to these questions was: “Implorandum est indultum a Sancta Sede quoad omnia postulate” See Decr. Auth., n. 3484. From an examination of the acts of various provincial councils in the United States it is clear that many provinces received an indult of this kind more or less extensively. Thus, on July 25, 1858, on the occasion of holding the Ninth Provincial Council of Baltimore, the faculty was granted to this ecclesiastical province in virtue of which the bishops could grant permission for the Blessed Sacrament to be kept in the chapels of Religious communities of women. See Coll. Lacensis, vol. 3, p. 180. In the same year (November 10), on the occasion of holding the Second Provincial Council of Cincinnati, the bishops of that province received the faculty of permitting the Blessed Sacrament to be kept in Religious communities without enclosure: “Potestatem tribuit Episcopis permittendi communitatibus Religiosis absque clausura viventibus conservationem SSmce Eucharistiae.” See Coll. Lacensis, vol. 3, p. 212. On April 17, 1859, the privilege was given to the archbishop of St. Louis and his suffragans that the Blessed Sacrament might be kept in Religious houses although they were not canonically erected. In the archdiocese of St. Louis it is permitted that in the oratories of Sisters having a Religious house the Blessed Sacrament may be kept, provided that four persons live in the house. See Diocesan Statutes of St. Louis, n. 68. As regards other dioceses of this country it may be safely said that there is hardly one that does not possess an indult with less or more limitation for reserving the Blessed Sacrament. — End of Note.

2. The Ritual further prescribes that the tabernacle should be decently covered with a veil, that nothing else besides the Blessed Sacrament should be put in it, and that it should be placed on the high altar, or on another if this would conduce to greater reverence toward the Holy Eucharist, so that it would be no obstacle to sacred functions or ecclesiastical offices. Several lamps or at least one should always be kept burning before it night and day. The lamps should be fed with olive oil, but if the church is very poor the bishop may allow vegetable or mineral oil to be used. Gas or electric lamps should not be tolerated. One lamp must be kept burning under pain of grievous sin. The veil of the tabernacle should be white or in keeping with the color of the day, but never black.

3. The particles taken for consecration should be fresh, not more than fifteen days or at most a month old, and they should be renewed every eight or at most fifteen days, though in this matter regard should be had to the dampness or dryness of the place and season.

Note. — It may be well to consider this question more in detail so far as the United States is concerned. The Roman Ritual requires the consecrated particles to be renewed frequently, “Sanctissimæ Eucharistiae particulas frequenter renovabit” (Tit. 4, cap. 1, n. 7). The Caeremoniale Episcoporum prescribes this renovation to be made once a week (Lib. 1, cap. 6, n. 2). Benedict XIV, in his constitution, “Etsi Pastoralis” (May 16, 1752), ordered for the Greeks in Italy that the sacred species should be renewed every eight, or at least every fifteen days. Gasparri in his treatise, De SS. Eucharistia (vol. 2, n. 1013), concludes that in the Western Church the species should be renewed “Singulis octo diebus juxta norma Caeremonialis: “Graecis autem aliisque Orientalibus permissum esse hanc renovationem protrahere ad singulos quindecim dies.” He then adds that many excuse from all sin, even in the Western Church, if the renewal takes place within fifteen days, provided that the condition of place and time exclude all danger of initial corruption. It was evidently the intention of the Fathers of the Second Plenary Council of Baltimore to urge the observance of the Caeremoniale Episcoporum regarding the weekly renewal of the sacred species, for they say (n. 268): “Rituale Romanum jubet particulas Sanctissimae Eucharistiae frequenter renovari: et Caeremoniale Episcoporum id semel saltern in hebdomada faciendum praecipit. Hanc regulam, quam S. Rituum Congregatio nedum saepius confirmavit, verum stricte et rigorose obligare declaravit, sacerdotibus omnibus fideliter servandum serio inculcamus.”  The decrees of the Second Plenary Council of Baltimore were declared by the Fathers of the Third Plenary Council in 1884 to be still in force, except those which were changed or abrogated in the latter council. (Cf. p. 3, Decr. Conc. Balt. Tertii.)

But regarding the law of renewing the species the Third Plenary Council made no change or abrogation; nor since that time in this country has there been any sign of alteration in the Church’s discipline on the question. Hence it does not appear that in the United States we are at liberty to follow the opinion of those theologians who hold that the renewal of the sacred species may be deferred for two weeks. (Cf. Lehmkuhl, vol. 2, n. 132.) Still less is it permissible in this country to follow the opinion of those who allow a month to elapse before it becomes necessary to renew the sacred species. (Noldin, De Sacramentis, n. 129.) Whether some provincial councils elsewhere were content to require that the renewal should not be deferred beyond two weeks or a month, or whether the Holy See directly granted for a particular locality permission to defer the renewal for two weeks, neither of these ordinances would seem to be applicable to the United States, where the regulation of the Caeremoniale Episcoporum is required to be observed. The Second Plenary Council of Baltimore (n. 268) says that the S. Cong. Of Rites has not only confirmed the rule of the Caeremoniale Episcoporum, and for this purpose it refers to three decrees of that Congregation, but also declares that another decree of this Congregation pronounces the rule to be strictly obligatory, “stricle et rigorose obligare” Nothing then remains, it would seem, but to admit the obligation so clearly set forth by this council. Even since its celebration the S. Cong. of Rites has repeated the decision.

A question was proposed whether the custom existing of renewing the species once or twice in the month could be continued : “In ecclesiis hujus dueceseos servari ne potest consuetudo renovandi SSmam Eucharistiam semel vel bis in mense; licet qualibet hebdomada juxta Caeremoniale Episcoporum eadem SSma Eucharistia foret renovanda?” The answer was (September 12, 1884), “Servetur dispositio Cæremonialis Episcoporum (lib. 1, cap. 6, n. 2).”

Assuming, therefore, that there is in the United States a precept which requires the weekly renewal of the sacred species, the question arises, what sin is committed if a priest defer this duty. It is certain that while this precept of renewing the species binds sub gravi, it admits of parvitas materiae, so that a short delay beyond a week would not constitute a mortal sin, unless some serious danger of the corruption of the species would arise. Prescinding from this danger, it may be held that the delay of a week would not be a mortal sin, and probably even the delay of a month. Gasparri (n. 1013) says that the particles to be consecrated should be fresh, i.e., recently made, and that the time for necessary renewal depends to some extent upon the degree of freshness, so that if the hosts at the time of consecration had been made twenty five days the renewal could not be protracted for eight days. (See also Wernz, Jus Decretalium, vol. 3, n. 551 in nota 219.) It seems safe to hold that a reasonable cause of deferring the renewal for a day or even for a few days would excuse from venial sin. Thus during a novena the host for Benediction might be kept for nine days; and a number of small hosts which would be distributed to the faithful within a few days might be kept before the purification of the ciborium. (See O’Kane, n. 620.) — End of Note.

A MANUAL OF MORAL THEOLOGY
FOR ENGLISH-SPEAKING COUNTRIES
BY REV. THOMAS SLATER, S.J. ST. BEUNO’S COLLEGE, ST. ASAPH
WITH NOTES ON AMERICAN LEGISLATION BY REV. MICHAEL MARTIN, S.J.
PROFESSOR OF MORAL THEOLOGY, ST. LOUIS UNIVERSITY
VOLUME II. THIRD EDITION
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO, BENZIGER BROTHERS
PRINTERS TO THE HOLY APOSTOLIC SEE
PUBLISHERS OF BENZIGER’s MAGAZINE
Permissu Superiorium. R. SYKES, S.J., Praep. Prov. Anglicae.
Permissu Superiorium. R. J. MEYER, S.J., Praep. Prov. Missourianae.
Nihil Obstat REMY LAFORT, Censor Librorum.
Imprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York.
New York, September 19, 1908. p. 94-99

fr. UK.

LA CONSERVAZIONE DELL’ EUCARISTIA

1. Il Rituale prescrive che il parroco, o colui che ha cura delle anime, abbia cura che alcune particole consacrate, in numero sufficiente affinché i malati possano usufruirne e per la comunione del resto dei fedeli, siano sempre riservate in una pisside pulita di materiale solido e decente, ben chiuso con il suo stesso coperchio, coperto da un velo bianco, e per quanto possibile in un tabernacolo ornato tenuto chiuso a chiave. Questa chiave dovrebbe essere custodita dal sacerdote, non dal sacrestano o da nessun’altra persona. Di regola la pisside o il ciborio sono d’argento e dorati all’interno. Non sembra esserci alcuna legge rigida che prescriva che debba essere consacrata o addirittura benedetta, sebbene ci sia una forma per benedirla nel Rituale. Il Santissimo Sacramento, quindi, deve essere così riservato all’uso dei fedeli in tutte le cattedrali, le chiese parrocchiali e le cappelle territoriali parrocchiali. Gli ordini religiosi maschili e femminili che emettono voti solenni, hanno il privilegio di conservare la Santa Eucaristia nelle loro chiese. Può essere conservata in altre chiese o oratori, solo con indulto speciale del Vescovo o dalla Santa Sede nel caso di oratori strettamente privati.

Nota. – Per quanto riguarda la prenotazione del Santissimo Sacramento, il Concilio Plenario di Baltimora (n. 265)  afferma:  “Conservari debet in ecclesia Cathedrali, et in quavis ecclesia parochali ut ad infirmos, data occasione, deferri possit. In aliis vero pluribus vel ecclesiis vel sacellis conservari potest vel ex lege, vel ex Pontificis indulto. Qua in re Ordinarios hortamur ut curent, uti nonnisi debita praehabita licentia hoc maximo privilegio quaevis aedes sacra utatur.” I Vescovi sono limitati nei loro poteri, nelle conservazione del Santo Sacramento, da un decreto della S. C.  dei Riti (8 Marzo 1879) « Potestne Episcopus jure proprio concedere facultatem asservandi SSmum Sacramentum: 1. In Ecclesiis seu Capellis publicis quae tamen titulo parochiali non gaudent, etsi utilitatibus Paraeciae inserviant; 2. In Capellis piarum Communitatum publicis, id est quarum porta pateat in via publica vel in area cum via publica communicante et quae habitantibus omnibus aperiuntur; 3. In Capellis seu Oratoriis interioribus piarum Communitatum, quando non habent Capellam seu Oratorium publicum in sensu exposito, ut evenit, e.g., in Seminariis?” La risposta a questa domanda era: “Implorandum est indultum a Sancta Sede quoad omnia postulate” Vedi Decr. Auth., n. 3484. Da un esame degli atti dei vari consigli provinciali negli Stati Uniti è chiaro che molte province hanno ricevuto un indulto di questo tipo più o meno estensivamente. Così, il 25 luglio 1858, in occasione della celebrazione del Nono Consiglio provinciale di Baltimora, fu concessa facoltà a questa provincia ecclesiastica in virtù della quale i Vescovi potevano concedere il permesso per il Santissimo Sacramento da custodire nelle cappelle delle comunità religiose femminili. Vedi Coll. Lacensis, vol. 3, p. 180. Nello stesso anno (10 novembre), in occasione della celebrazione del secondo Concilio provinciale di Cincinnati, i Vescovi di quella provincia hanno ricevuto la facoltà di permettere che il Santissimo Sacramento venga custodito nelle comunità religiose senza clausura: “Potestatem tribuit Episcopis permittendi communitatibus Religiosi absque clausura viventibus conservationem SS.mae Eucharistiae. ” Vedi Coll. Lacensis, vol. 3, p. 212. Il 17 aprile 1859 fu concesso il privilegio all’Arcivescovo di St. Louis e ai suoi suffraganei che il Santissimo Sacramento potesse essere custodito nelle case religiose anche se non fossero erette canonicamente. Nell’Arcidiocesi di St. Louis è permesso che negli oratori delle suore che hanno una casa religiosa sia conservato il Santissimo Sacramento, a condizione che almeno quattro persone vivano nella casa. Vedi gli statuti diocesani di St. Louis, n. 68. Per quanto riguarda le altre diocesi di questo paese, si può tranquillamente affermare che ce n’è a malapena una che non possieda un indulto con più o meno limiti per la conservazione del Santissimo Sacramento. – Fine della nota.

2. Il Rituale prescrive inoltre che il tabernacolo debba essere convenientemente coperto con un velo, che non si debba mettere altro al di fuori del Santissimo Sacramento e che esso sia posto sull’altare maggiore o su altro se ciò comportasse una maggiore riverenza verso la Santa Eucaristia, in modo che non sia di ostacolo alle funzioni sacre o agli uffici ecclesiastici. Diverse lampade o almeno una dovrebbero essere sempre tenute accese con fiammella notte e giorno. Le lampade dovrebbero essere alimentate con olio d’oliva, ma se la chiesa fosse molto povera il Vescovo può consentire l’uso di olio vegetale o minerale. Le lampade a gas o elettriche non devono essere tollerate. Una lampada almeno deve sempre restare accesa sotto pena di peccato grave. Il velo del tabernacolo dovrebbe essere bianco o in armonia con il colore del giorno, mai nero.

3. Le particole prelevate per la consacrazione dovrebbero essere fresche, non più di quindici giorni o al massimo un mese di vita, e dovrebbero essere rinnovate ogni otto o al massimo quindici giorni, anche se a questo proposito si dovrebbe tener conto dell’umidità o secchezza del luogo e della stagione.

Nota. – Potrebbe essere utile considerare questa domanda più in dettaglio per quanto riguarda gli Stati Uniti. Il Rituale Romano richiede che le particole consacrate vengano rinnovate frequentemente, “Sanctissimæ Eucharistiae particulas frequenter renovabit” (Tit. 4, cap. 1, n.7). Il Cæremoniale Episcoporum prescrive che questo rinnovamento venga effettuato una volta alla settimana (1, capitolo 6, numero 2). Benedetto XIV, nella sua costituzione, “Etsi Pastoralis” (16 maggio 1752), ordinò ai greci in Italia che fossero rinnovate ogni otto o almeno ogni quindici giorni. Gasparri nel suo trattato, De SS. Eucaristia (vol.2, p. 1013), conclude che nella Chiesa occidentale la specie dovrebbe essere rinnovata “Singulis octo diebus juxta norma Caeremonialis:” Graecis autem aliisque Orientalibus permissum esse hanc renovationem protrahere ad singulos quindecim dies “. Aggiunge poi che si è esenti da peccato, anche nella Chiesa Occidentale, se il rinnovo avviene entro quindici giorni, a condizione che le condizioni del luogo e del tempo escludano ogni pericolo di incipiente corruzione. Evidentemente era intenzione dei Padri del Secondo Concilio Plenario di Baltimora sollecitare l’osservanza del Cæremoniale Episcoporum riguardo al rinnovamento settimanale delle particole sacre, poiché si dice (n.268): “Rituale Romanum jubet particulas Sanctissimæ Eucharistiæ frequenter renovari : et Caeremoniale Episcoporum id semel saltern in hebdomada faciendum præcipit Hanc regulam, quam S. Rituum Congregatio nedum sæpius confirmavit, verum stricte et rigorose obligare dichiaravit, sacerdotibus omnibus fideliter servandum serio inculcamus. ” I decreti del Secondo Concilio Plenario di Baltimora furono dichiarati ancora in vigore dai Padri del Terzo Concilio Plenario nel 1884, ad eccezione di quelli che furono modificati o abrogati in quest’ultimo concilio. (Cfr. Pagina 3, Decr. Conc. Balt. Tertii.)

Ma riguardo alla legge del rinnovo delle particole, il Terzo Concilio Plenario non ha apportato alcun cambiamento o abrogazione; né da quel tempo in questo Paese c’è stato alcun segno di alterazione nella disciplina della Chiesa sulla questione. Quindi non sembra che negli Stati Uniti si sia liberi di seguire l’opinione di quei teologi che ritengono che il rinnovo delle particole sacre possa essere rinviato per due settimane. (Cfr Lehmkuhl, vol.2, n.132). Ancora meno è lecito in questo Paese seguire l’opinione di coloro che lasciano trascorrere un mese prima che sia necessario rinnovare la specie sacra. (Noldin, De Sacramentis, 129). Se alcuni consigli provinciali altrove si accontentassero di richiedere che il rinnovo non venisse differito oltre due settimane o un mese, o se la Santa Sede concedesse direttamente per una determinata località il permesso di differire il rinnovo per due settimane, nessuna di queste ordinanze sembrerebbe essere applicabile agli Stati Uniti, dove è richiesto il rispetto del regolamento del Cæremoniale Episcoporum. Il Secondo Concilio Plenario di Baltimora (268) dice che il S. Cong. dei Riti non ha solo confermato la regola del Cæremoniale Episcoporum, e per questo scopo si riferisce a tre decreti di quella Congregazione, ma dichiara anche che un altro decreto di questa Congregazione enuncia che la regola sia strettamente obbligatoria, “stricle et rigorose obligare” Nulla quindi, sembrerebbe eliminare l’obbligo così chiaramente stabilito da questo consiglio. Anche dopo la sua celebrazione il S. Congr. dei Riti ha rinnovato la decisione.

Si chiedeva anche se fosse possibile continuare l’usanza di rinnovare la specie una o due volte nel mese: “In ecclesiis hujus dueceseos servari ne potest consuetudo renovandi SSmam Eucharistiam semel vel bis in mense; licet qualibet hebdomada juxta Cæremoniale Episcoporum eadem SSma Eucharistia foret renovanda?” La risposta fu (12 settembre 1884), “Servetur dispositio Cæremonialis Episcoporum (lib. 1, cap. 6, 2).” – Supponendo, quindi, che negli Stati Uniti ci sia un precetto che richieda il rinnovo settimanale delle specie sacre, sorge la domanda: quale peccato commette il Sacerdote che non ottemperi a questo dovere? È certo che mentre questo precetto di rinnovare le particole lega i sub gravi, ammette la parvitas materiæ, e che quindi questo, per un breve ritardo che non vada oltre una settimana, non costituisca un peccato mortale, a meno che non si presenti un serio pericolo di corruzione della specie delle particole. Prescindendo da questo pericolo, si può affermare che il ritardo di una settimana non sarebbe un peccato mortale, e probabilmente anche il ritardo di un mese. Gasparri (n.1013) dice che le particole da consacrare dovrebbero essere fresche, cioè preparate di recente, e che il tempo necessario per il rinnovamento dipende in una certa misura dal grado di freschezza, così che se le ostie al momento della consacrazione fossero state preparate da più di venticinque giorni, il rinnovo non può protrarsi oltre gli otto giorni. (Vedi anche Wernz, Jus Decretalium, volume 3, numero 551 in nota 219.). Sembra sicuro poter ritenere per giusta ragione che il rinviare il rinnovo di un giorno o anche di pochi giorni sia giustificazione per il peccato veniale. Così durante una novena l’ostia per la Benedizione potrebbe essere conservata per nove giorni; e un numero di piccole ostie da  distribuire ai fedeli nel giro di pochi giorni potrebbero essere conservate prima della purificazione del ciborio. (Vedi: O’Kane, 620.) – Fine della nota.

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Permissu Superiorium. R. SYKES, S.J., Præp. Prov. Anglicæ.
Permissu Superiorium. R. J. MEYER, S.J., Præp. Prov. Missourianae.
Nihil Obstat REMY LAFORT, Censor Librorum. Imprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York.New York, September 19, 1908. p. 94-99

fr. UK

Trad. G. d. G.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (28)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXVII.

 (FINE DEL PRECEDENTE)

Nuove prove che gli oracoli non erano una ciurmeria — Esempio dei Romani per tutta la durata del loro impero — Fatti curiosi, contemporanei a Cicerone — Pena di morte contro i disprezzatori degli oracoli — Esempi dei Greci — Processioni continue ai templi degli oracoli: testimonianze di Cicerone, di Strabono e di Marc’Aurelio — Oracoli mediante i sogni: nuovo passo di parallelismo: testimonianza d’Àrriano, di Cicerone e Tertulliano — Altro tratto di parallelismo: il tempio di Gerusalemme e il tempio di Delfo — Celebrità e ricchezze di quest’ultimo — Esistenza attuale degli oracoli presso tutti i popoli tuttora pagani: Madagascar, Cina, Cocincina — Riassunto del parallelismo tra le due Città — Belle parole di un Padre del Concilio di Trento.

L’obiezione epicureiana aggiunge che gli oracoli erano senza influenza sugli uomini illuminati, ì quali non vi credevano. Che gli uomini illuminati dall’antichitàpagana non vi credessero, abbiamo già letta laprova in contrario, né ora staremo a ripeterla. Ricordiamo solamente che in nome di tutte le generazioni, omnis ætas, Cicerone ha dato ai moderni pagani una smentita solenne. Che si accomodino col più gran numero delle lettere antiche, come essi lo chiamano, ciò tocca a loro. (Come in Platone, cosi in Cicerone, vi sono due uomini, quello della tradizione e quello del razionalismo. Il primo parla nel primo libro della Divinazione, e constata la fede universale agli oracoli. Nel secondo libro, il razionalista raccoglie le povere negazioni che la ragione individuale appone  alle affermazioni della ragione generale. É il sofista contro il filosofo, il pigmeo contro il gigante). – A noi sta l’esaminare se, conforme alla obiezione, gli oracoli non avevano nessuna influenza sulla condotta degli uomini e dei popoli illuminati dell’antico mondo. Ora, la verità è che gli oracoli esercitavano tale influenza sulla condotta pubblica e privata dei pagani più illuminati, senza distinzione di paese e di civiltà, che ottenevano da essi i sacrifici più onerosi alla natura; vale a dire l’immolazione dei loro figli e la spoliazione dei loro beni. È vero inoltre che gli uomini ed i popoli i più celebri non intraprendevano nulla d’importante, senza consultarli. Limitiamoci ad alcuni fatti. Si tratta per es. dell’ordine puramente religioso? Come infedeli a Jehovah, quante volte non si son visti gli Ebrei senza distinzione di posizione sociale, cadere in Moloch, e dietro la sua richiesta, immolare i loro figli e figlie a questa crudele divinità? In Fenicia, in Siria, in Persia, in Arabia, in Africa, in Creta, a Cartagine, i più illustri cittadini si rassegnano allo stesso sacrificio per ordine degli oracoli. Sulla stessa loro ingiunzione il re Erecteo in Grecia sacrifica la sua diletta figlia; Agamennone, la sua; Idomenèo, il suo figliuolo; gli Ateniesi, i loro figli e figlie scelti; i Messemi, una pura vergine; i Tebani, il figlio del loro re; gli Achei, la più bella giovine ed il più bel giovine della loro capitale. Sacrifici dello stesso genere, cioè solenni e richiesti dall’autorità pubblica si compiono presso tutti i popoli celebri dell’antichità! (V. fra altri, gli Annali di filosofia cristiana, aprile, giugno, luglio, dicembre 1861). – Quanto alla spoliazione dei loro beni, si conoscono le immense ricchezze nei templi di oracoli: ne parleremo ben tosto. Se poi si tratta dell’influenza degli oracoli sulla società e sulla famiglia, sulle faccende pubbliche e private, essa non era né meno potente, né meno universale, che nell’ordine religioso. Ancora qui ci limiteremo a qualche esempio preso dagli uomini e dai popoli modelli. Romolo vuol fabbricare Roma; ma innanzi di porre mano all’opera, consulta l’oracolo. « È una tradizione costante, dice Cicerone, che Romolo, padre e fondatore di Roma, non solamente non gettò le fondamenta di questa città, se non dopo aver preso gli auspici, ma era egli pure un augure eccellente, optimus Augur. Gli altri re suoi successori, adoprarono gli auguri, e quando i re furono cacciati, non si fece niente di poi, in Roma, per autorità pubblica, né in pace, né in guerra, senza l’intervento degli auspicii. » (De Divinat. lib. I, c. II.). E altrove: « La dignità augurale di Romolo non era una cosa inventata da lui dopo la fondazione di Roma per ingannare il volgo ignorante; ma era al contrario una cerimonia religiosa fondata sopra una certa scienza, e che lasciò alla posterità. Egli e suo fratello erano auguri avanti la fondazione della città; come lo vediamo in Ennio. » (Ivi, lib. I, cap. XLVIII). – Numa vuol dare delle leggi a Roma, ma consulta l’oracolo: è proclamato re dal popolo, ma prima di accettare la sovranità, consulta l’oracolo. Quest’ultima consultazione divenne una legge costantemente osservata dal successori di Numa per tutta la durata dell’impero. (Antiquit Rom., art. Romulus et Lituus). – Ecco dunque tutti questi re della Città del male consacrati da satana! Qual nuova parodia del vero Dio e della Città del bene! I primi Romani consultarono l’oracolo di Delfo intorno alla sovranità. Giunio Bruto comprese il responso Egli partì di là per cacciare i re e stabilire la repubblica, della quale fu il primo console. (Delphos ad maxime indytum in terris oraculum mittere Statuit, etc. Tit. Liv., lib. I, decad. I).Più tardi il senato manda ambasciatori a consultare lo stesso oracolo, circa l’esito della guerra contro i Vej; si fa ciò che ordina, ed i Romani, sono vincitori. 3 (Id., lib. Y, decad. I). I Romani nell’incivilirsi non perdono l’abitudine di ricorrere agli oracoli. I loro generali, innanzi di partire per la guerra e di dar battaglia, così i loro magistrati prima di entrare in ufficio, e i loro più celebri personaggi prima d’intraprendere un affare d’importanza, non mancano di consultarli. (Cicer,, De Divinat. lib. I, c. XLIII). Senza parlare degli altri, il gran Cicerone consulta l’oracolo di Delfo intorno al genere di vita che egli doveva abbracciare per diventare illustre, e la risposta del Nume determina la sua vocazione. (Plutarch. in Cicer.). Ottavio Rufo, padre di Augusto, consulta Bacco di Tracia circa i destini di suo figlio e ne riceve gli auguri i più favorevoli. (Sveton., in Oct. aug. c. XCIV). – Innanzi la battaglia di Farsalia, Cassio consulta l’oracolo di Delfo; Tiberio, più tardi, consulta quello di Gerione; Nerone quello di Delfo; Germanico, quello di Glaros; Caligola, quello di Anzio; Vespasiano, quello del dio Carmel; Tito, quello di Venere a Pafo; Traiano, quello di Eliopoli; Adriano, quello di Giove Niceforo; Severo, quello di Giove Belo; Caracalla consulta con avidità’ incredibile tutti quelli che può trovare. Cosi di quegli altri padroni del mondo, sino a Giuliano l’Apostata inclusive. (Baltus etc., p. 865 e seg., e seguito, p. 80, e in Bullet, Stor, dello stabilimento del Cristian p. 318 e seg., ove si leggono tutti i testi degli autori pagani). – Che dire di questa lunga processione di magistrati, di generali, d’imperatori romani che consultano il demonio? Che più? non è la splendida parodia di ciò che avveniva in Israele, ed un nuovo tratto di parallelismo tra la Città del male e la Città del bene? Ma non è tutto; l’oracolo divino diresse costantemente i capi della santa nazione. Parimente intorno ai responsi da essi ottenuti, quei principi del paganesimo, dei quali si ammirano i talenti, fecero una lunga sequela di splendide azioni, qualche volta lodevoli e il più di sovente delittuose; fabbricarono città, emanarono leggi, modificarono le istituzioni, intrapresero guerre, diedero battaglie, segnarono trattati, regolarono le faccende dello stato, e governarono l’impero romano, vale a dire la più gran parte del mondo conosciuto. E poi si ardisce sentenziare che gli oracoli erano senza influenza sulla condotta degli uomini illuminati, e che questi non vi credevano! Ma intorno alla sottomissione religiosa con cui onoravano gli oracoli, bisogna sentire lo stesso Cicerone, quel Cicerone che parla in mezzo ai lumi del gran secolo di Augusto, Cicerone, augure, o come noi diremmo oggi, medium, e medium officiale. Nel riportare le leggi religiose, di Roma, quelle leggi ricevute per cosi dire dalla mano stessa degli dei, a dìis quasi traditam relìgionem, egli cita le seguenti prescrizioni: « Che vi siano due classi di sacerdoti; gli uni che presiedono alle cerimonie ed ai sacrifici; gli altri la cui fondazione sia d’interpretare sulla domanda del senato e del popolo, le parole oscure degli indovini e degli oracoli: che gli interpreti dell’ottimo e massimo Giove, auguri pubblici, consultino, secondo i riti, i presagi e gli auspici: che i sacerdoti prendano gli auguri per vegliare alla conservazione delle vigne, dei giardini e della salute del popolo: che quelli che saranno incaricati della guerra e dei pubblici interessi, prendano gli auspici e si regolino intorno alle loro indicazioni: che si assicurino se gli dei non siano irritati, e che indichino con cura le parti del cielo, di dove scoppierà la folgore.1 » (De Legib., lib, II, c. VIII. Essi credevano dunque, come la stessa Chiesa, che i demoni non erano estranei alle tempeste). – La leggerezza moderna non mancherà di ridere di queste funzioni augurali, di queste consulte e di questi responsi: malgrado la parola del vecchio Catone, la gravità romana non ne rideva però meno. Seguitiamo ad ascoltare Cicerone: « Tutto ciò che l’augure avrà dichiarato ingiusto, nefasto, vizioso, malvagio, sarà reputato nullo e non avvenuto. Chiunque ricuserà di, sottomettersi a questa dichiarazione sarà punito di morte. » (Ibid.). – Così la morte, né più né meno, tale era, qualunque si fosse, la pena riserbata al dispregiatore degli oracoli: e si son visti dei generali messi a morte per aver riportata una vittoria contro la volontà degli dei. Qui ancora segnaliamo un nuovo tratto di parallelismo. Le pene più severe, e pubbliche calamità, sono nella legge di Mosè il castigo di coloro i quali non consultano l’oracolo del Signore, o che disprezzano i suoi responsi. Nella terribile sanzione data da satana a questi oracoli, come fare a non vedere una nuova parodia? Ma che questo rispetto religioso degli oracoli, buono per Romolo ed i suoi ignoranti banditi, scomparve forse dinanzi ai lumi della romana civiltà? Il gran secolo d’Augusto, per esempio, dovette burlarsene senza riguardi, e ridere di un riso inestinguibile della fede semplice ed ingenua degli antichi? Lasciamo ancora la parola a Cicerone, ed ascoltiamo questo testimonio certo, celebrare la potenza degli auguri, quale esisteva al suo tempo, « Uno dei più grandi e più importanti impieghi della repubblica, sia per il diritto, ossia per l’autorità che proclama è senza dubbio quello di augure. (Il collegio degli auguri si componeva di quindici membri, che si rinnovava da se stesso). Non dico questo perché io pure sono rivestito di questa dignità; ma infatti la cosa sta a questo modo. « Quanto al diritto che cosa di più importante del potere di cui gode, di disciogliere cioè i comizi e le assemblee, sino dal principio della loro durata, qualunque magistrato gli avesse convocati, o di annullarne gli atti da qualunque autorità fossero emanati? Che cosa di più interessante che il sospendere le imprese della più alta importanza con questa sola parola: a un altro giorno, alio die? Che cosa di più magnifico che il potere ordinare ai consoli di abdicare la loro magistratura: Quid magnificentius quam posse decernere, ut magistratu se abdicant consules? Ghe cosa di più rispettabile della facoltà di accordare o di rifiutare il permesso di trattare col popolo; che il cassare le leggi che non sono state giuridicamente proposte; talmente che non vi abbia niente di valevolmente fatto per parte dei magistrati, tanto internamente che esternamente, se non è approvato dal collegio degli auguri: Nihil domi, nihil foris per magistratus gestum, sine eorum auctoritate posse cuiquam probari? » (De Legib., lib. II, c. XII. — Il fatto è, c’insegna la medesima Sacra Scrittura, che i pagani nulla facevano, assolutamente nulla, senza consultare l’oracolo. Sap., XIII, 17-19. La prova è altresì negli Annali di filosofia cristiana, an. 1862). – Vediamo ora questa magnifica potenza all’opera. Sotto Pompeo, Cesare e i loro degni colleghi, l’anarchia la più completa regna in Roma. Una sola autorità è riconosciuta, quella degli auguri. Catone vuole essere pretore: Pompeo non lo vuole, e discioglie l’assemblea con questa sola parola: Io prendo gli auspici, cioè dire ho osservato il cielo, ed ho visto pericolosi presagi. (Plutarco in Pomp.). – Alla stess’epoca (53 anni avanti G. C.) Cicerone scriveva ad Attico: « Il tribuno Scevola ha impedito i comizi, per la nomina dei consoli, annunziando tutti i giorni ch’egli osservava il cielo fino a oggi trenta settembre, giorno nel quale io scrivo questo. » (Ad Attic., IV, 16; t. XVII, p. 440). In un altra lettera diretta a suo fratello il ventuno ottobre, mostra ancor meglio la terribile potenza degli auguri: «Tutti i giorni, dice, i comizi sono soppressi per l’annunzio delle osservazioni del cielo con gran soddisfazione della gente dabbene, tanto i consoli sono detestati. » (Ad Quintum, III, t. XX, p. 524). Così, l’osservazione del cielo teneva agitato tutto l’impero romano. In quell’anno stesso impedì la nomina dei consoli, dimodoché l’anno seguente (52 avanti G. C.) fu senza consoli per otto mesi. Questo appellavasi appunto l’interregno di Pompeo. La città cade nella confusione; le uccisioni e le violenze si succedono: « Ogni cosa è cambiato, tutto è rovinato e quasi distrutto, scrive ancora Cicerone ì Sunt omnia debilitate jam prope et extincta.  » (Ad Curion. famil., lib. II, epist. V). Ecco pertanto ciò che erano in pieno secolo d’Augusto questi superbi Romani, questi maggiorenti della libertà: tanti schiavi muti e tremanti sotto il giogo di ferro del demonio. Nel celebrare la potenza assoluta degli auguri, che cosa fa Cicerone, se non la proclamazione solenne della servitù la più vergognosa e la più dura che fosse mai, di quel popolo preteso libero, di quel popolo sovrano, come dicono nei collegi? Non era questa la demonocrazia pura, la demonocrazia alla sua più alta potenza? E ripetiamolo, ci danno i Romani, come il popolo più libero che sia mai esistito. O educazione mentitrice! Avevano essi torto di tremare così dinanzi alle difese di satana e degli auguri, suoi interpreti? Nient’affatto;

alla più piccola resistenza, spaventosi presagi, terribili calamità, annunziavano il corruccio del padrone. Cicerone freme ancora quando narra i presagi che si avverarono il giorno in cui nella sua qualità di console, ei celebrò le Feste latine sul monte Albino. « Nel momento in cui io faceva le libazioni di latte a Giove Lazio, una fulgida cometa annunziò una grande carneficina. Lo splendore della luna scomparve tutto ad un tratto in mèzzo ad un cielo stellato; quello del sole si ecclissò. Un uomo fu colpito dal fulmine con un tempo sereno; tremò la terra: terribili spettri apparvero durante la notte. Gl’indovini furibondi non annunziavano che calamità dappertutto. Da tutte le parti si leggevano gli scritti ed i monumenti che atterrivano gli Etruschi.1 » (Poema intorno al suo consolato. — De Divinitat., lib. I, c. XI). Quanto ai temerari che osavano disprezzare i funesti presagi, eccetto due o tre che confermano la légge, satana aveva la costumanza di colpirli con uno spietato rigore. Sulla certezza stessa del castigo era fondato il timore universale che egli inspirava. L’anno 52 avanti G. C., ne porge un memorabile esempio. In onta agli dei,  Grasso si ostina a far la guerra ai Parti. L’augure Ateio lo attende alla porta di Roma. Appena giunto Grasso, egli mette in terra un caldano pieno di fuoco, vi versa delle libazioni e dei profumi. Nello stesso

tempo egli pronunzia contro l’audace generale delle imprecazioni terribili, mediante le quali lo consacra a certi dèi strani e formidabili, invocandoli coi loro nomi. « I Romani, dice Plutarco, assicurano che queste imprecazioni misteriose, e la cui origine si perde nella notte dei tempi, hanno una tal forza che mai nessuno di quelli contro cui esse erano state fatte, ha potuto evitarne l’effetto. » (In Crass., c. XVI). Appiano aggiunge: « Crasso avendole disprezzate, perì nella Partia col figlio suo e con tutto il suo esercito, composto di undici legioni. Sopra centomila soldati, appena ne ritornarono diecimila in Stria.  » (De Bello Civili, lib. II, c. XVIII). Se non di più, almeno quanto i Romani, troviamo noi i Greci avidi di oracoli, rispettosi per i loro santuari e docili alla loro voce. Il suolo dell’Ellenia ne è letteralmente coperto: la maggior parte godono di una celebrità universale. Tebe, Pelo, Claros, Dodona e cento

altri luoghi fatidici vedono arrivare, non solamente da diverse parti della Grecia, ma dall’Oriente e dall’Occidente, continue processioni di pellegrini di ogni condizione che vanno ad interrogare gli dei, invocare il loro aiuto, od a ringraziarli dei loro benefizi. Una stessa fede confonde tutte le classi, unisce tutti i cuori, e la stessa preghiera esprime tutti i bisogni. I principi ed i capi delle repubbliche vi vanno per le lóro imprese, i cittadini per le loro faccende. Nella collezione degli oracoli, se ne trova un gran numero, resi a dei particolari intorno ai loro matrimoni, ai loro figli e intorno a mille minuzie della vita domestica. (Euséb Praep . evang. lib. V, c. XX-XXIII). « Qual popolo, esclama Cicerone, qual città che non si conduca, o per ispezionare le interiora delle vittime, o per l’interpretazione dei prodigi, o delle folgori, per gli auspici, per le sorti, per le predizioni degli osservatori degli astri, per i sogni e per gli oracoli? »  (De Divinat., lib. I, c. VI). Alla vista di questo immenso e incessante concorso; alla vista delle ricche offerte recate e dei favori ottenuti; un grande pagano esclamava: « Vedete i nostri innumerevoli templi? essi sono più augusti per gli dei che gli abitano, che per il culto che vi si esercita, o per le ricchezze delle quali rigurgitano. Là infatti dei sacerdoti, pieni di Dio, identificati a Dio, interpretano l’avvenire, pigliano precauzioni contro i pericoli, danno agli infermi il rimedio, agli afflitti la speranza, agli infelici il soccorso; consolano nelle calamità e sostengono nella fatica. Ivi altresì, durante il sonno noi vediamo gli dei, gli sentiamo e contempliamo i loro sembianti. » (Vedi intorno alle apparizioni degli dei sotto forme sensibili, le testimonianze degli autori pagani in Bullet, Storia dello stabilimento del CrIstian. p. 311 e seg-, ediz. in-8, 1825). A questo modo Cecilio presenta gli oracoli come una prova palpabile della sua religione. A questa obiezione ripetuta sovente, come rispondevano i Padri della Chiesa? Negandone i fatti? non mai. Essi provavano, e lo facevano senza fatica, che le cose meravigliose, compiute nei templi degli oracoli dovevano essere attribuite non al vero Dio ma ai demoni. (Vedi Àtenagora Legat.). – Se gli stranieri accorrevano in folla nella terra classica degli oracoli, si può giudicare da quel che facevano gli stessi Greci. Consultare gli dei su tutte le loro faccende pubbliche e private, era una tradizione inviolabile. Il fatto è così noto, che Cicerone domanda: « Qual colonia la Grecia ha ella mai inviata nell’Etolia, nell’Ionia, nell’Asia, nella Sicilia, nell’Italia senza aver consultato l’oracolo di Delfo, di Dodona o di Ammone? Qual guerra ha ella mai intrapreso senza il consiglio degli dei? » (De divinat., lib. I, c. I). Allo scopo di essere più vicini all’oracolo e più pronti a ricevere i di lui consigli, gli Anfizioni venivano a tenere le loro sedute a Delfo, allorché si trattava di deliberare sulle faccende generali della Grecia. (Strab., lib. IX). – Ora tutte queste questioni di pace e di guerra, d’intraprese importanti e di pubblica amministrazione, la cui soluzione era richiesta agli oracoli, è forse la moltitudine ignorante che le trattava? È forse essa che sulla stessa autorità, mandò per un lungo seguito di secoli, le colonie per cui tanti paesi, in Asia e in Europa, ricevettero i loro primi abitanti? Nella Grecia, come nel resto del mondo, la fede agli oracoli era dunque, per i grandi come per il popolo, il primo articolo di religione. Quanto agli oracoli mediante i sogni, dei quali parla il pagano Cecilio, erano comunissimi e molto stimati anche da personaggi di prima qualità. Abbiamo inteso Cicerone e Tertulliano nominarne un gran numero, ed aggiungere che si incontravano ad ogni passo. Strabono riferisce, come un fatto a tutti noto, che una quantità infinita di persone se ne andava a dormire nel tempio di Serapide, a Canopo, per conoscere i rimedi alle loro infermità o a quelle dei loro amici. 3 (Strab., 1. XVII). Si legge in Arriano, che i principali ufficiali dell’esercito di Alessandro andarono pure a passare la notte nel tempio dello stesso Dio, ad Alessandria, a fine di sapere se essi vi dovevano trasportar il loro padrone per essere guarito dalla malattia della quale morì. (De expedit. Alexand., lib. VII). – A testimonianza di Cicerone, gli efori e i loro magistrati di Lacedemone avevano usanza d’andare a cercare nel tempio di Pasifae vicino alla loro città, dei sogni profetici, che essi consideravano come certi, concernenti gli affari della repubblica. (De divinat., lib. I, c. XLIII). Per gli stessi fini la madre d’Augusto andava con le matrone romane, a dormire nel tempio di Apollo. (Svet. in Aug., c. XCIV). Infine, l’imperatore filosofo, Marco Aurelio, la più alta personificazione della sapienza, agli occhi dei pagani moderni, scrive egli medesimo: « Un grande segnale della cura degli dei per me, si è che nei sogni essi mi hanno insegnato dei rimedi per le mie malattie, particolarmente pel mio flusso sanguigno e per le mie vertigini, come mi avvenne a Gaeta. » (Marc’Aurel. Anton., De rebus suis, lib. I, n. 17, ad fìnem). La consultazione per via di sogni si faceva, ora dormendo sopra letti destinati a quest’uso, nei templi degli oracoli notturni, e durante il sonno i demoni davano i loro consigli; ora tenendo in mano un biglietto sigillato in cui stavano scritte le domande e sul quale, la mattina appena svegliati, si leggeva la risposta. Altre volte, si mandava all’oracolo una consultazione sigillata, ed egli vi rispondeva senza aprir la lettera. Questo fece un giorno l’imperatore Traiano, il quale essendosi proposto di fare la guerra ai Parti, i suoi ufficiali gli parlarono con elogio dell’oracolo di Eliopoli e lo spronarono vivamente a consultarlo. Traiano che non vi aveva molta fede, e che temeva qualche inganno, spedì all’oracolo una lettera sigillata alla quale chiedeva una risposta. Ora questa lettera non era che in bianco. Senza aprirla, i sacerdoti la presentano al Nume. Questi per rendere a Traiano il contraccambio, ordina che all’imperatore gli sia rimandato un pezzo di carta in bianco ben piegata e sigillata. Una tale ingiunzione spaventò i sacerdoti, poiché essi ignoravano lo stratagemma di Traiano. Egli rimase talmente colpito di meraviglia, che subito confidò nell’oracolo. Gli inviò dunque una seconda volta un biglietto sigillato col quale chiedeva al Nume se ritornerebbe a Roma dopo aver terminata la guerra che stava per intraprendere. Il Nume ordinò che si pigliasse una vite, che era una delle offerte del suo tempio; che la si facesse in pezzi e la si portasse a Traiano. L’avvenimento, aggiunge Macrobio, fu perfettamente conforme a quest’oracolo; imperocché Traiano morì in quella guerra, e si riportarono a Roma le sue ossa, che erano state rappresentate dalla vite spezzata. (Amm. Marcellin., lib. IX, c. XI.) Accadde la stessa cosa al governatore di Qilicia, del quale parla Plutarco. Questi era un epicureo il quale, in tale qualità, faceva professione di non credere agli oracoli. Per burlarsene, invia all’oracolo di Mopso uno dei suoi domestici con una lettera sigillata, chiedendo a questa una risposta che deve darsi in un sogno. Parte il domestico, ignorando il contenuto del biglietto; egli dorme nel tempio e. di poi ritorna dal suo padrone, al quale riferisce quel che ha veduto in sogno, e quel che gli fu detto. Sorpreso di ricevere la sua lettera sigillata tale quale l’aveva mandata e di vedere che le parole del suo domestico erano la risposta esatta di quel che aveva richiesto, ne parlò agli epicurei suoi amici, i quali non seppero che replicare. (Plutarch., De defectu oraculor. ; vedi pure Tacito, Annali, lib. II; Strab., lib. XVII, ecc., ecc.). Indipendentemente da queste incontrastabili testimonianze che abbiamo lette, due fatti bastano per dimostrare l’esistenza, l’antichità e l’universalità degli oracoli per via dei sogni. Il primo, è la proibizione fatta agli Ebrei di ricorrervi, e la condanna dei temerari che osano abbandonarsi a questa pratica demoniaca: « Che nessuno tra di voi, dice il Signore, osservi i sogni…. Ogni giorno ho teso le braccia ad una razza incredula e provocatrice, la quale si reca a dormire nei templi degli idoli per avere dei sogni. » (Deuter., XVIII, 10). Nello spiegare questo passo, san Girolamo aggiunge: « Ivi essi dormivano sulle pelli delle vittime, a fine di avere dei sogni rivelatori dell’avvenire. Cosa che ancora si fa tra i gentili, schiavi dello spirito d’errore, nel tempio d’Esculapio e in molti altri.3 » (Corn. a Lap., In hunc loc.; — e Tertull., De anima, c. LIV). La seconda testimonianza, non meno autentica, é l’usanza in cui era il Signore medesimo di adoperare i sogni per rivelare le sue volontà ai suoi servi: nuovo tratto di parallelismo che il re della Città del male non poteva mancare di aggiungere a tanti altri, e di contraffare a suo prò. Havvene uno non meno sorprendente e preso nello stesso ordine di fatti. Gerusalemme era il soggiorno di Jehovah, e da Sion partivano le voci direttrici della Città del bene. Da tutte le parti della Giudea e del mondo vi accorrevano i servi del vero Dio. (De Sion exibit lex, et Verbum Domini de Jerusalem. Is., XI, 3). – Delfo è l’insolente parodia di Gerusalemme. Il suo oracolo è il più famoso dell’universo; di là, da quell’antro del serpente Python, escono le voci direttrici della Città del male. Per ascoltarle si vedono accorrere a turbe innumerabili, da tutte le parti della terra, gli adoratori di satana. Sarebbe lunga la lista dei legislatori, dei re, degli imperatori, dei magistrati, dei capi di repubbliche, dei generali d’armata, dei filosofi, degli uomini celebri per diversi titoli dell’Europa e dell’Asia, dell’Oriente e dell’Occidente, i quali per migliaia d’anni hanno consultato in persona e per mezzo dei loro inviati il dio Pitone, intorno alle loro imprese, o invocata la sua assistenza. (Vedi Baltus, t. II, c. xiv, xvi xvi). Tale era la venerazione di cui godeva, che le città della Grecia ed anche i principi stranieri mandavano a Delfo ricchi doni, o vi mettevano i loro tesori in deposito sotto la protezione di quel nume. Nuova parodia satanica del tempio di Gerusalemme, nel quale i particolari depositavano le loro ricchezze, come ce lo insegna la storia di  Eliodoro. – Il tempio di Delfo, dicono gli autori pagani, era di una infinita ricchezza. Vi si vedeva una quantità prodigiosa di vasi, di tripodi, dì statue d’oro e d’argento, di bronzo e di marmo, che i re, i principi e le intere nazioni vi mandavano da tutte le parti. (Pausania in Phocoeis, impiega una gran parte del libro decimo nell’enumerare le ricchezze del tempio). Si può giudicare dei tesori che racchiudeva, da un fatto rimasto

celebre. I Focesi avendo saccheggiato quel tempio, Filippo di Macedonia, fece stimare da dei commissari il bottino che avevano rubato. L’affare fu giudicato dal consiglio degli Anfizioni, i quali condannarono i rei a restituire sei mila talenti, ovvero diciotto milioni della moneta nostra, rappresentante il valore di ciò che avevano sottratto, e non avevano preso tutto. (Dizionario delle antichità, etc., art. Tempio). Credere che queste splendide testimonianze di rispetto e di fiducia non fossero che passeggiere, sarebbe un errore. La fede dell’ universo al Serpente delfico si conservò viva e generale, anche dopo la predicazione del Vangelo: « Ai dì nostri, dice Plutarco, il tempio di Delfo è più magnifico che mai. Si è scoperto dagli antichi fondamenti che il tempio cominciava a rovinare, e ne sono stati aggiunti dei nuovi. La piccola città che ricava il suo nutrimento dall’oracolo, come un piccolo albero vicino ad uno grande, è oggi più considerevole che non fosse stata da mille anni in qua. » (De Pythiæ oraculo I, sub fine). – Noi domandiamo di nuovo, le immense ricchezze delle quali è pieno il tempio di Delfo, come pure tutti i templi di oracoli, non vengono esse altro che da ignoranti e da poveri, facili vittime della ciurmeria sacerdotale? Se è manifesto che la maggior parte fu l’omaggio dei ricchi, dei principi, dei governi; a chi farete voi ammettere una complicità universale, o una allucinazione di venti secoli, per parte di tutto quel che voi medesimi ci davate per il fiore dell’umanità, per il genio, l’indipendenza, e la virtù? Se Pascal ha detto con ragione: Io credo volentieri a dei testimoni che si lasciano scannare, con qual diritto ricuserete voi alla storia quello di ripetere: io credo volentieri a milioni di testimoni i quali per attestare la verità degli oracoli, hanno sacrificato per due mil’anni ciò che hanno avuto di più caro, i loro figli e le loro ricchezze? Aggiungasi pure: e che gli sacrificano ancora. La credenza agli oracoli satanici non ha cessato. Su tutta la faccia della terra non diretta dall’oracolo divino, essa regna nella pienezza della sua antica forza. Essa comanda come in antico, gli umani sacrifici, o altri atti contrari, sino ai più vivi sentimenti della natura; e come anticamente ancora essa resta comune, tanto presso i privati e presso i re, quanto presso ai dotti ed agli ignoranti. Il mondo è coperto di oracoli, oraculis stipatus orbis. Difatti, sono da diciotto secoli che in Egitto, in Grecia, in Italia, a Cartagine, nelle Gallie e nella Germania, la parola di Tertulliano continua ad essere la stessa: come l’è ancora in Cina, nel Thibet, nelle Indie, in Africa, nell’America e nell’Oceania. Fra migliaia di testimonianze che trovansi registrate nelle relazioni dei viaggiatori, o nelle lettere dei missionari, (Vedi gli Annali della propag. della fede: n. 55, p. 176; n. 95, p. 809; n. 197, p. 275-279, ecc., ecc.), e che stabiliscono la permanenza di questo fatto che voi siete liberi di chiamare strano, assurdo, incredibile, ma che pur tuttavia è un fatto, noi ne citeremo due solamente, presi da popoli di differenti costumi e separati da grandi distanze. Nel 1801, alcuni viaggiatori inglesi scrivevano da Madagascar: « Qui, specialmente alla Corte, vi è l’usanza di consultare l’oracolo Sikidy in, ogni occasione grande, o piccola. Ciò si fa nel modo seguente: Un certo numero di fave, o piccole pietre vengono mescolate insieme; e secondo le figure che esse formano, la gente istruita nell’arte della divinazione predicono un resultato favorevole o sfavorevole. Vi sono più di dodici oracoli interpreti addetti alla Corte e, nelle più futili circostanze la regina ha la premura di consultarli. Essa ha una tal fede in Sikidy, che la sua volontà piega sempre dinanzi all’oracolo, e che la sovrana dispotica è la prima schiava del suo impero. Se vuol fare un viaggio, la regina consulta Sikidy allo scopo di sapere qual giorno e in qual ora deve essa partire. Essa lo consulta a proposito della sua toelette e della sua tavola, e anche decide a qual fonte deve essa attingere l’acqua per rinfrescarsi. Alcuni anni fa, era in uso generalmente di consultare Sikidy nel nascimento dei figli, e di sapere se l’ora in cui eran venuti alla luce era un’ora fasta; se nefasta, il povero bambino era depositato lungo una di quelle strade, per le quali passano grandi mandre di buoi. Se gli animali passavano sopra al bambino senza fargli del male, la sorte infelice sembrava scongiurata, e l’infante era trionfalmente ricondotto alla casa di suo padre. Pochissimi uscivano sani e salvi da questa prova pericolosa, ma la maggior parte di questi soccombevano. La regina ha proibito questo modo d’interrogare la sorte, ed è forse la sola legge d’umanità che sia stata promulgata durante tutto il suo regno. (Viaggi nel Madagascar, 1861). – Questa regina, la celebre Ranavaio, possiede una superba reggia, poche leghe distante dalla sua capitale; di quando in quando ella va a passarvi alcune settimane secondo che gli oracoli glielo vogliono pur permettere … Allorquando gli stranieri giungono alla capitale, è costume che si fermino alcuni giorni a piè della città fino a che non si è consultato gli oracoli, e che non sia loro mandato l’autorizzazione di salire. (Annali della propag. della fede, n. 197, pag. 275-279. — Uno dei nostri missionari era alle Indie, allorché il fenomeno delle tavole giranti faceva gran fracasso in Europa. Tornato a Parigi ei diceva: « La notizia giunta appena nell’Indie, gettò gli Europei nella più gran meraviglia. Quanto agli indigeni una sola cosa li meravigliava, cioè la meraviglia degli Europei. » – Come presso tutti i popoli pagani d’una volta, Babilonesi, Egiziani, Greci, Romani, Galli, Scandinavi, gli atti della vita pubblica e privata delle nazioni idolatre d’oggidì, sono regolati sugli oracoli. Ad ogni pagina del suo recente viaggio alle sorgenti del Nilo, il capitano inglese Speache, testifica questo fatto, In tutte le tribù della costa orientale dell’Africa voi trovate dei medium o indovini, consultati di continuo e religiosamente obbediti, tanto dai principi che dal popolo. La stessa abitudine è nell’interno dell’Africa, e altrove dappertutto. Più di frequente si ricorre agli oracoli nelle malattie; sappiamo per bocca di due venerabili vescovi missionari i fatti seguenti, che datano da ieri: « Quando un Galla è malato, egli chiama subito lo stregone o la stregona (ed io sono stato testimone cento volte di quel che sto per raccontare): giunta presso l’infermo, la stregona comincia ad agitarsi; l’agitazione diventa ben presto convulsiva; dalla convulsione si passa a contorsioni spaventevoli. Ho veduta una di queste donne, battere il tamburo sulle sue reni con la sua anca. A questo segnale si riconosce la presenza dello Spirito; e allora la pitonessa descrive la malattia, e indica i rimedi. » (Racconto di Monsignore Massaia). – « Anche nella Cocincina si mostra la stessa sollecitudine di far venire gli interpreti dello Spirito, che d’ordinario sono due. Uno è munito di un tamburello col quale si serve per chiamare lo Spirito; quest’è l’incantesimo, o l’antico carme. L’altro ascolta: a poco a poco entra in crisi. Il parossismo non tarda a manifestarsi con contorsioni e movimenti disordinati che trasformano quell’essere umano, a guisa di un mezzo demonio, tanto egli diventa spaventoso a vedere. Per assicurarsi che egli è in pieno possesso dello Spirito, gli vien portato una gallina; la prende e la divora tutta intera con le zampe ed il capo, cosicché non resta niente. Dopo questa operazione egli dà le risposte richieste. » (Racconto di Monsignore Soyher). Questi popoli non sono già tanto creduli, poiché per credere vogliono dei segni: questi segni sono cose umanamente impossibili. Non è che dopo esserne stati testimoni che essi credono agli, oracoli, e fanno ciò che prescrivono. Aggiungasi che nel 1864 tutti gli indovini del regno, furono invitati all’incoronazione del re di Cambodge, e che in Cocincina ancor’oggi non prende mai il mare una nave, senza che prima non si sia consultato l’oracolo. Mentre a Madagascar la stessa regina, seguendo l’esempio degli imperatori romani e dei grandi personaggi dell’antichità, regola la sua condotta dietro il responso degli oracoli; nel celeste impero il semplice Cinese gli consulta intorno ai suoi affari domestici, come anticamente il popolo di Roma e di Atene. Imperocché il Cinese, la cui filosofia volterriana formava il tipo della civiltà, è fervente discepolo degli oracoli. Un Missionario scrive: « Noi reclutiamo una gran parte dei nostri neofiti in una certa classe di donne, delle quali pare che Dio abbia più compassione, perché sono esse incorse nell’anatema che i Cinesi appellano, la sorte dell’infelicità. Ed eccone la storia. All’epoca degli sponsali, è uso tra gli infedeli d’invitare un indovino per trarre l’oroscopo della giovine, e predire i suoi futuri destini. Il medium si reca all’invito dei parenti, appena giunto nella casa, egli fa delle evocazioni e adempie ad altre pratiche demoniache. Di poi egli presenta al fanciullo un’urna, nella quale sono rinchiuse le sorti, parte felici e parte funeste, con questa differenza, che le buone, sono incomparabilmente più numerose. « La povera giovine pone tremando la mano nell’urna fatale, ignorando se è un avvenire ridente, o una eredità di disgrazie che essa è per trar fuori. Se viene favorita, tutti se ne rallegrano, e gli sponsali si concludono senza indugio. Ma se la sorte la tradisce, la sua sentenza è pronunziata, la sua. gioventù appassita, la sua vita intera, maledetta. Essa deve curvare per sempre il capo sotto il peso dell’universale disprezzo. Per lei non vi è più pace, neppure la compassione di sua madre. Ella crescerà solitaria ed abominata sotto il tetto paterno, del quale è l’obbrobrio; imperocché i pagani hanno tanta fede in questi auguri che il più povero tra di loro non vorrebbe sposare la più ricca erede che avesse avuto questa trista sorte, convinti che quell’alleanza trae seco inevitabili calamità. » (Annali della propagaz. della fede, n. 95, p. 809). Questo fatto, del quale si avrebbe torto se si ponesse in ridicolo, avendo delle conseguenze così gravi, è la contraffazione satanica della profezia, per via delle sorti che noi vediamo impiegate nella Scrittura. (Sortes mittuntur in sinum, sed a Domino temperantur. Prov. XVI, 33). – II re della Città del male, vuol mostrare ai suoi sudditi che egli dispone, per rivelar loro l’avvenire, delle voci, dei sogni, delle sorti e di tutti i mezzi adoperati dal Re della Città del bene. Qui, come altrove, i suor responsi sono un miscuglio di falso e di vero, mediante il quale, con tutto ché resti sempre il padre della menzogna, pure egli riesce a sedurre gli uomini. Questa tattica è invariabile. Tale la vediamo noi oggi nello Spiritismo, come i nostri padri la conobbero. Dice Minuzio Felice : « I demoni rendono degli oracoli mescolati a molte menzogne; imperocché essi sono ingannati e ingannatori; non conoscono la pura verità, e quella che conoscono per loro perdizione, non la manifestano nella sua purità. » (In Octav.). – Sant’Agostino usa lo stesso linguaggio: « I demoni sono il più delle volte ingannati e ingannatori. Sono ingannati, perché nel momento in cui annunziano le loro previsioni, accade inopinatamente dall’alto qualche cosa che arrovescia tutti i loro consigli. Sono ingannatori, per lo stesso desiderio d’ingannare, e pel piacere di trascinare l’uomo nell’errore. – Però, a fine di non perdere il loro credito presso i loro adoratori, agiscono in modo che la colpa sia imputata ai loro interpreti, intanto che essi medesimi sono ingannati o ingannatori. » (De divinat. daem., c. V). – A meno che non si neghi l’istoria sacra e profana, i fatti che precedono, annullano l’obiezione degli epicurei antichi e moderni, contro l’esistenza universale degli oracoli, contro la fede del pari universale agli oracoli, e contro l’influenza suprema degli oracoli nel governo religioso e sociale del mondo pagano. A questo modo è data la prova perentoria delle verità fondamentali che volevamo stabilire. La prima, cioè la presenza permanente e perpetuamente attiva di satana in mezzo alla sua Città; la seconda, il costante parallelismo delle due Città, nell’ordine religioso e nell’ordine sociale. A fine di renderle più spiccate, riassumiamo in poche parole questi punti essenziali (Diciamo essenziali perché sono la luce della storia; perché l’epoca nostra più. di qualunque altra, si agita contro il soprannaturale; perché da parecchi secoli, rispetto al demonio e alla sua azione sul mondo, l’educazione stessa dei cattolici è volterriana. La più parte ignorano i fatti demoniaci, o gli trattano come racconti di buone donne. Per essi satana è un sovrano detronizzato, che sarebbe puerile il temere, e del quale è meglio non occuparsi) nella storia dello spirito del male e dello Spirito del bene. Come l’uomo medesimo, così il genere umano è un essere istruito. Tutto ciò che egli sa, gli viene dal di fuori. Ora egli sa il bene ed il male, lo sa fino dal momento della sua caduta. Da sei mil’anni in qua, due voci opposte e due solamente, hanno dunque risuonato nel suo orecchio; voci soprannaturali da lui sempre seguite, che segue tuttora e che sempre seguirà, anche quando nell’orgoglio della sua debolezza egli si proclama con più burbanza, indipendente. Dunque il mondo è stato sempre diretto da degli oracoli. Voce della verità e voce della menzogna: oracoli divini, o oracoli satanici; colui che vi nega non capisce sé medesimo. Sulle pagine cancellate della storia, lo. scrivere un certificato di follia universale, o riconoscere che a tutte le ore della sua esistenza, sotto tutti i climi, in tutti gli stati della civiltà, l’umanità è stata diretta da oracoli, e che i principii ispiratori degli oracoli sono inevitabilmente lo Spirito del bene o lo spirito del male, lo Spirito Santo o satana: questa alternativa crudele è uno degli assiomi della geometria morale: Quanto al parallelismo delle due Città, i raffronti seguenti che ne disegnano le grandi linee, sono oramai fuori di contrasto. – La Città del bene ha la sua religione, nella quale nulla è lasciato all’arbitrio dell’uomo. Essa ha le sue leggi sociali venute dal cielo, e delle quali lo stesso Dio, reso sensibile in mezzo al suo popolo, rimane l’interprete e il custode. Ora Egli parla per mezzo dei suoi Angeli, ora per mezzo dei suoi Profeti; un’altra volta mediante le sorti e per mezzo dei sogni. Sempre Egli autorizza la sua parola per mezzo di miracoli, con cui colpisce gli spregiatori di esemplari castighi. Ne risulta che nell’ordine sociale, non meno che nell’ordine religioso, lo Spirito Santo è veramente il principe e il Dio della Città del bene. Così la religione del male ha la sua religione, dove ogni cosa è regolato da una autorità superiore all’uomo. Essa ha le sue leggi sociali, delle quali lo stesso demonio, reso sensibile sotto la forma preferita del serpente, è l’ispiratore, l’interprete e il guardiano. I suoi angeli, i suoi indovini, i sogni e le sorti sono a vicenda gli organi della sua volontà. Sempre egli autorizza la sua parola con prestigi, e la fa rispettare per mezzo di punizioni. Ne resulta che nell’ordine sociale, non meno

che nell’ordine religioso, satana è veramente, secondo la parola del Vangelo, il principe ed il re della Città del male. – La Città del bene ha il suo gran sacerdote incaricato di dirigere i sacri ministri, di regolare le cerimonie del culto, di pronunziare in ultima analisi sopra una infinità di questioni religiose e civili. Questo gran sacerdote si chiama alternativamente Aaron, Samuele, Osia. La Città del male ha essa pure il suo gran sacerdote, investito del potere di iniziare i sacerdoti inferiori, di presiedere le loro assemblee, di ricevere le vestali e di giudicarle, di convalidare le adozioni, e di conoscere intorno a certe cause relative ai matrimoni. In Roma, capitale del vasto impero di satana, questo sovrano pontificato della Città del male, fu esercitato, ora dal gran sacerdote Giulio Cesare, ora dal gran Tiberio, ora dal gran sacerdote Caligola, dal gran sacerdote Nerone e da Eliogabalo: questa dignità era a vita. La Città del bene ha la sua incarnazione divina, i suoi sacrifici, i suoi digiuni, le sue penitenze, le sue preghiere del giorno e della notte. La Città del male ha tutto ciò sopra tutti i punti del pianeta. Si conoscono specialmente le incarnazioni antiche, e le incarnazioni indiane, le austerità dei bonzi e dei fakiri, le preghiere dei lama. « Alla scoperta del Messico restammo meravigliati dei dolorosi supplizi che si infliggevano i sacerdoti del sole. Quattro di essi erano designati ogni quattro anni per fare penitenza durante quel periodo, con austerità, il cui rigore fa fremere. Si abbigliavano come i più poveri. Il loro cibo di ogni giorno si riduceva ad una galletta di grano d’India che pesava due once, e la loro bevanda una piccola tazza di brodo fatto dello stesso grano. Due di loro vegliavano ogni notte cantando lodi agli dei, incensando idoli quattro volte, secondo le ore delle tenebre, e, bagnando col loro sangue

i bracieri del tempio. » (Acosta, Storia naturale, ecc., t. II, c. XXX). Oltre questa espiazione perpetua, vi era una penitenza particolare, chiamata la grande veglia alla quale tutti si assoggettavano, e durava un mese. – Siamo lieti di dirlo: questa dottrina, con la quale si rende conto di tutto, e senza la quale non si può render conto di nulla, non è nostra. Esponendola, non facciamo che riassumere la storia del genere umano, e tradurre uno dei più dotti Padri del Concilio di Trento. In seno a quella augusta assemblea il reverendo Padre maestro Cristoforo Santozio cosi si esprimeva: « satana

vide che Iddio voleva essere pacificato con dei sacrifici, egli pure ne ottenne per sé medesimo, accompagnati da orribili cerimonie. Vide che Iddio parlava agli uomini per mezzo dei suoi Angeli e suoi Profeti; egli stesso parlò per bocca degli idoli. Iddio ebbe il suo tempio, ove accorreva il popolo fedele. satana se ne fece erigere dei magnifici nelle varie parti della terra, ove migliaia d’uomini vennero a rendergli i loro omaggi. Dio ebbe i suoi Profeti ai quali il popolo portò gran rispetto; satana ebbe i suoi oracoli, i suoi indovini, oggetti della venerazione universale. A questi mediatori tra lui e gli uomini, affidò la cura di propagare la sua religione.1 » (Orat. R. P. M. Christoph. Sanctotii Burg. Ad Patr., Conc. Trid. apud Labbe Cotteci., t. XIV, 1601). Quando da tutti questi tratti sparsi, lo spirito forma un solo quadro, si domanda ciò che manca d’essenziale alla parodia satanica di Jehovah, dio, legislatore, oracolo e custode della religione e della società in Israele? Ci resta adesso da provare che la stessa parodia si trova nell’ordine politico.

[Continua …]

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (27)

Mons. J. J. GAUME

TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXVI.

(altra continuazione del precedente.)

Lo Spirito Santo, oracolo e direttore dell’ordine sociale nella Città, delbene — satana, oracolo e direttore sociale della Città del male —Esistenza universale degli oracoli satanici: testimonianza di Plutarcoe di Tertulliano — Credenza universale negli oracoli: passidi Cicerone, di Balto — Erano gli stessi demoni che rendevano glioracoli; parole di Tertulliano, di san Cipriano, di Minuzio Felice — Gli oracoli non erano una ciurmeria; prove.

Si disse che Jehovah, presente nel tabernacolo e nel tempio, non era solamente il Dio del suo popolo edil custode della religione; ma altresì l’oracolo e il direttore della società civile e politica, cioè dire, che dal fondo del suo santuario Egli dirigeva tutte le imprese della sua Città, i cui membri avevano cura di non far nulla senza consultarlo. Le sue volontà si manifestavano ora con sogni, ora con voci, o con oracoli. Tutti i tratti di questo parallelismo si rinvengono nella Città del male. Credere che la presenza del dio serpente in mezzo al mondo, non avesse che un motivo, uno scopo puramente religioso, sarebbe un errore. Essa ne aveva uno, che era principalmente quello sociale. In altri termini vuol dire che, dal fondo dei suoi santuari, satana dirigeva, non solamente la religione, ma la società pagana, con i suoi oracoli e co’suoi prestigi ( … oggi ugualmente lo fa nelle retrologge massoniche! –ndr. – ). Di questo nuovo fenomeno le prove sono numerose quasi quanto le pagine della storia. Il mondo pagano era pieno d’oracoli; ed abbracciava tutta quanta la terra eccetto la Giudea. Intorno a questo punto la storia cristiana e la1 storia profana sono unanimi. Tanto in nome dell’una che dell’altra ascoltiamo Plutarco e Tertulliano: il primo, sacerdote degl’idoli; il secondo, sacerdote del vero Dio. Plutarco così si esprime: « Il primo articolo dell’istituzione delle leggi e della polizia è la credenza e persuasione degli dei, mediante la quale Licurgo santificò anticamente i Lacedemoni, Numa i Romani, Io gli Ateniesi, e Deucalione tutti i Greci universalmente rendendoli devoti e affezionati verso gli dei, in preghiere, giuramenti, oracoli e profezie; di modo che andando per il mondo, voi troverete delle città senza mura, senza accademie, senza re, senza argento, senza moneta, senza teatri, e senza ginnasi; ma non troverete mai che siano senza Dio, senza preghiera, senza sacrifici per ottenere beni e scansar mali. Nessun uomo vive né vivrà mai senza di esso; sarebbe più facile fabbricare una città per aria, che fabbricarne o conservarne una senza religione. » (Contre Colotes, c. XVIII). – Formulando in una sola parola il pensiero di Plutarco, dice Tertulliano, che « il mondo è ingombro di oracoli, oraculìs stipatus est orbis. » (De Anima, c. XLVI).  Per citare solamente alcuni dei più noti: voi avete Beelzebub, presso i Filistei; Moloch, presso i Moabiti; Belo, a Babilonia; Giove Ammone, in Egitto. Nella Grecia, Delos, Claros, Pafo, Delfo, Dodona. In Italia voi trovate i celebri oracoli di Gerione a Padova; di Diana a Preneste; di Ercole a Tivoli; d’Apollo ad Aquileia, e a Baia; della Sibilla a Cuma: a Roma e nei contorni, quelli di Marte, di Esculapio, del Vaticano, di Clitumno, di Giano, di Giove Pistore; quelli d’Anzio, quello di Podalirio in Calabria e più di cento altri. (Vedi Baltus, Storia degli oracoli, ecc. – La stessa Giudea ne era circondata. Il consultarli era una delle più forti tentazioni del popolo di Dio; sino al punto che la pena di morte minacciata nella legge, non lo difendeva sempre. Dopo lo scisma delle dieci tribù, gli oracoli furono in permanenza nel mezzo d’Israele. (Vedi, tra gli altri, IV Reg. 1-2; e i luoghi in cui è parlato dei sacerdoti di Baal. Lo stesso Saul consulta la pitonessa di Endor, cioè una donna invasa da uno spirito chiamato Python, del quale si parla spesso nella Scrittura.33 (Dixitqué Saul servis suis: Quærite mihi mulierem habentem Pythonem, et vadam ed eam, et sciscitabor per illam. I Reg,, XXVIII, 7. — Notisi con Baltus che Python pare vengada una parola ebraica che significa serpente, « nome convenientea quello che ispirava tutti quei falsi profeti. Ivi, seguito della risposta, I parte, 142).E poi che cosa erano le risposte degli auguri e degliauruspici se non oracoli o l’intèrpretàzione degli oracoli?Ora gli auguri e gli auruspici s’incontravano su tutti ipunti del pianeta, nelle città e nelle campagne: e la loroscienza era l’oggetto di uno studio universale. « È unfatto costante, dice Cicerone, che presso gli antichi, icapi dei popoli erano re ed auguri nello stesso tempo.Governare e conoscere i segreti divini erano agli occhi loro due funzioni egualmente regie. Su di che Roma, i cui re furono altresì auguri, in qua et reges, augures, ci fornisce grandi esempi. Dopo di essi, le persone particolariche sono state rivestite dello stesso sacerdozio hanno governato la repubblica per mezzo dell’autorità della religione.« Questa specie di divinazione non è stata trascurata neppur presso i barbari. Vi sono nelle Gallie dei Druidi, tra i quali ho conosciuto Dividiaco d’Autun, che dicono conoscere l’avvenire, parte per scienza augurale, parte per congettura. Fra i Persi i maghi sono auguri e indovini…. e nessuno può essere re di Persia senza essere stato istruito prima nella scienza dei maghi. Vi sono pure famiglie e nazioni intere che’ si sono particolarmente date alla divinazione. Tutta la città di Telmesse nella Caria si distingue nella scienza degli auruspici. Nell’Elide, città del Peloponneso vi sono due famiglie,una dei Giamidi, l’altra dei Clytidi, molto celebri in questa scienza.« Soprattutto l’Etruria ha la reputazione di possedere una grande cognizione delle folgori, (Sapevano che mediante certe formule magiche si poteva chiamare o allontanare il fulmine. (Exstat annalium memoria sacris quibusdam ac precationibus vel cogi fulmina vel impetrare Ansaldi, Hist. lib. II, c. 54), e di sapere spiegare quel che ogni fenomeno può presagire. Per questo motivo i nostri antenati, allorquando fioriva l’impero, ordinarono molto saviamente che sei figli dei principali senatori fossero inviati presso ciascun popolo dell’Etruria, a fine di esservi istruiti nella scienza degli Etruschi; per tema che, a motivo della corruzione degli uomini, non accadesse in seguito, che una sì grande autorità nella religione non venisse ad essere esercitata sotto titolo di guadagno da persone mercenarie. Quanto ai Frigii, ai Pisidi, ai Cilicii e agli Arabi, essi si regolano d’ordinario con i segni ch’essi traggono dagli uccelli: il che si fa ugualmente nell’Umbria. » (De Divinat. lib. I, c. XII, ediz. in-8. Parigi, 1818). – II vero Dio, abbiamo detto che manifestava le sue volontà per via d’oracoli propriamente detti: e si vede di continuo i conduttori d’Israele consultare il Signore nel tabernacolo,, o nel tempio per mezzo di voci misteriose che si udivano senza vedere, o vedendo l’essere da cui uscivano: testimoni Agar, Gedeone, Samuele a Silo, Saulle sulla strada di Damasco, Per mezzo di sogni, testimone Giacobbe, Giuda Maccabeo e molti altri. satana ha contraffatto tutti questi generi di rivelazione. Quanto agli oracoli propriamente detti, abbiamo già visto che erano innumerevoli nella Città del male. Se poi si tratta di voci misteriose, più sotto ne citeremo un esempio dei più notevoli. Frattanto ecco ciò che dice Cicerone: « I Fauni hanno fatto udire le loro voci: sovente gli dei sono comparsi sotto forme talmente sensibili, da forzare chiunque non è stupido o empio a riconoscere la loro presenza. » (Sæpe faunorum voces exauditæ; sæpe visæ formæ deorum, quemvis non hebetem aut impium, deos præsentes esse confìteri coegerunt. De Natur. Deor., lib. II, c. III). E altrove: « Sovente ancora, secondo la tradizione, si sono uditi dei fauni in mezzo alle battaglie, come pure vere voci si son fatte udire nei tempi di agitazione, senza che si potesse sapere donde venissero. Fra molti esempi di questo genere due soprattutto sono degni d’esser notati. Poco innanzi la presa di Roma si udì una voce che veniva dal bosco consacrato a Vesta…. e questa voce avvertiva che si avessero a ricostruire le mura, perché diversamente la città sarebbe presa in breve…. L’oracolo non fu riconosciuto che troppo vero. » (Sæpe etiam et in præliis fauni auditi: et in rebus turbidis veridicae voces ex occulto missæ esse dicuntur; cuius generis duo sunt ex multis exempla, sed maxima, etc. De Divinai., lib. I, c. XLV). – Si conoscono le quercie dodoniche, la cui specie non è estinta. « A Joal, scrive uno dei nostri missionari d’Africa, vi sono degli alberi fatidici e dei riti misteriosi per 1’evocazione dei genii. » (Annali della Prop. della Fede, n. 209, p. 270, an. 1868. — Trovansi ancora degli usi antichi trasformati, è vero, ma riconoscibili nelle abitudini della Grecia moderna. « La divinazione mediante l’esame delle ossa, diceva la signora Dora d’Istria, e particolarmente mediante la spalla arrostita, è una trasformazione evidente della ispezione delle interiora delle vittime, della quale si parla spesso in Omero. » A Dodona e a Delfo, il lauro venerato rivelava l’avvenire per mezzo della combustione delle sue foglie-sacre. Ai dì nostri, le giovani greche interrogano lo stormir delle foglie di rosa. Le querce fatidiche della Dodona di Epiro in cui i Pelasgi avevano un oracolo tanto famoso quanto il Mantéion di Delfo, ricevevano ancora sotto la loro ombra dei dormienti che domandavano l’avvenire ai loro sogni. Vedi Escursione nella Rumelia ed in Morea della sig. Dora d’Istria. Parigi, 1868). – Quanto ai sogni, Cicerone consacra nove capitoli del primo libro della Divinazione, riferendone alcuni dei più famosi tra i Greci ed i Romani. (Dal cap. XX al c. XXIX). I templi nei quali si andava a domandare, si trovavano dappertutto. « Il mondo, dice Tertulliano, ne era ricoperto. Per citarne qualcuno: chi non conosce quelli di Amfiarao a Oropo; di Anfiloco a Mallo; di Sarpedone nella Troade; di Trofonio nella Beozia; di Mopso in Cilicia; di Ermione in Macedonia; di Pasifae in Laconia? È cosa certa che spessissimo i demoni mandano dei sogni qualche volta veri, graziosi e seducenti e sappiamo perché; ma il più del solito confusi, ingannatori, vergognosi, immondi. » (De Anim, c. XLVI E XLVII). – Come Cicerone, anche il grande apologista ne dà una lunga nomenclatura. La credenza negli oracoli, cioè negli dei parlanti, non era meno universale della esistenza stessa degli oracoli. Udiamo ancora la duplice voce dell’antichità: « L’Oriente e l’Occidente, continua Tertulliano, i Romani. ed i Greci, tutta la letteratura del mondo, crede agli oracoli, gli commenta e gli afferma. » (Ibid.). La nostra Repubblica, dice Cicerone, ed anche tutti i regni, tutti i popoli, tutte le nazioni sono piene di esempi della incredibile veracità degli oracoli. Giammai quelli di Polydes, di Melampodis, di Mopso, di Amfiarao, di Calcante, d’Eleno non sarebbero stati tanto celebri: mai tante nazioni, come 1’Arabia, la Frigia, la Lycaonia, la Cilicia e soprattutto la Pisidia non avrebbero conservato i loro, fino ai nostri di, se tutta l’antichità non ne avesse attestato la veracità. Il nostro Romolo non avrebbe consultato mai gli oracoli per fondare Roma: e la memoria di Azzio Navio non sarebbe stata per sì lungo tempo fiorente, se tutti non avessero detto cose ammirabili di verità.2 (De legib. Lib II, c. XIII). Questa fede del genere umano, Cicerone la fa riposare sul seguente ragionamento: « È certo che vi sono degli dei; dunque essi ci fanno conoscere l’avvenire. Che se ce lo fanno conoscere con dei segni, bisogna checi diano nel tempo stesso il mezzo d’intendere questi segni; questo mezzo non può essere altro che la divinazione, dunque è una divinazione…. Se dunque la ragione ed i fatti stanno a prò mio; se le nazioni, se i barbari, se gli stessi nostri maggiori convengono in tutto ciò che ho esposto: qual argomento vi è per porlo in dubbio? Che se inoltre havvi una cosa che sia stata sempre riconosciuta dai più grandi filosofi, dai poeti più celebri e dagli uomini di un eminente saggezza, i quali hanno fondato le repubbliche, e edificate delle città; aspetteremo noi che le bestie parlino, e che l’accordo unanime del genere umano non basti? La verità degli oracoli è una cosa della quale non si è mai dubitato nel mondo, avanti la filosofia che si è sviluppata in seguito (Era il razionalismo che divorava ciò che rimaneva di antiche tradizioni presso i pagani); ed altresì dopo i progressi di questa filosofia, nessun filosofo ha mai avuto altro sentimento. Epicuro solo è di contraria opinione. Ma devesi contare per qualche cosa il sentimento d’un uomo che sostiene non esservi nessuna virtù gratuita nel mondo ? » (De Divinat. lib. I, c, XXXIX). Parlando dell’oracolo di Delfo in particolare: « Io sostengo, aggiunge lo stesso testimone, che questo oracolo non sarebbe stato mai così celebre né così famoso, mai sarebbe stato arricchito di donativi da tutti i popoli e da tutti i re, se tutte le generazioni non avessero riconosciuto la verità dei suoi responsi. » (Ibid. De divinit. Lib. I, c. XXIX). Più sotto assicura di nuovo, che non è solamente il popolo che crede agli oracoli, ma tutto ciò che vi è di più illuminato nel mondo. « Eccetto, dice, Epicuro, il quale non sa altro che balbettare, parlando della natura degli dei, tutti i filosofi hanno creduto agli oracoli. » (Ibid.). Infatti le scuole di filosofia le più celebri dell’antichità, quali le pitagoriche, le platoniche, le stoiche, difendevano gli oracoli con tutte le loro forze; e trattavano di empi e di atei il piccolo numero di epicurei e di cinici, che non vi prestavano fede. Questa credenza non ha cessato col paganesimo. « Dalla nascita del Salvatore del mondo in qua, dice Baltus, tutti i filosofi ne sono stati incaponiti più che mai. Essi hanno sostenuto gli oracoli con ardore, a fine di sostenere la causa della loro religione che andava in decadimento. Gli stessi epicurei ed i cinici dimenticando in questa occasione i principi e gli interessi della loro setta, li facevano valere quanto era possibile, come lo vediamo dall’opera di Celso nella quale quest’epicureo (Apud. Origen., lib. VII) oppone ai profeti dell’antico testamento gli oracoli della Grecia, ch’egli esalta molto al disopra di quelli dei profeti; e dei quali parla come uomo persuaso della loro eccellenza, e dei grandi vantaggi che ne aveva ritratti. Cosi è lo stesso di Massimo di Tiro, cinico di professione e maestro di Giuliano l’apostata. » Apud. Origen., Risposta, III part. p. 344 e seg. e p. 276). Con la stessa certezza con cui si credeva agli oracoli, si credeva pure alla presenza degli dei che gli rendevano. (Oracula, dice Cicerone, ex eo ipso appellata sunt, quod inest his deorum oratio. Topic; e altrove: Deus, inclusus corpore humano, jam non Cassandra, loquitur. De Divinai., lib. I, c. XXXI). Quindi il nome di un dio dato ad ogni oracolo: Apollo a Delfo; Esculapio a Epidauro; Giove al santuario di Memnone; e così degli altri. Ora quelli che i pagani chiamavano dii, non erano che demoni. Cento volte i Padri della Chiesa, testimoni degli oracoli e dei prestigi, l’hanno provato e con le parole e con i fatti. « Fin qui, dice Tertulliano, ho arrecato delle ragioni; ma ecco dei fatti evidenti, che provano che i vostri dei non sono altro che demoni. Si conduca dinanzi ai vostri tribunali un vero indemoniato, se qualche Cristiano gli comanda di parlare, quello spirito confesserà allora pure veramente che non è che un demonio; e altrove dice falsamente ch’egli è Dio. Chiamate pure quelli che sono ispirati da una delle vostre divinità: o la vergine che promette la pioggia, o Esculapio che guarisce i malati. Se questi dei, non osando mentire al Cristiano che gli interroga, non confessano che sono tanti demoni, voi fate morire sull’atto quel Cristiano temerario. Che cosa vi è di più evidente di questo fatto, di più sicuro di questa prova? » (Apol. C. XXIII). – San Cipriano parla come Tertulliano: « Sono, dice egli, gli spiriti maligni nascosti dentro le statue e dentro le immagini consacrate che ispirano i loro profeti; che agitano le fibre delle viscere delle vittime; che governano il volo degli uccelli, che dispongono delle sorti e che rendono gli oracoli, mescolandovi sempre il falso col vero.  » (De idolor. vanitat.). Poi in prova di ciò che egli dimostra, l’illustre dotto aggiungeva: « Però questi spiriti scongiurati nel nome del vero Dio ci obbediscono nell’atto; essi si sottomettono a noi, tutto ci confessano, e sono costretti ad uscire dai corpi che essi invasano. Si vede che le nostre preghiera raddoppiano le loro pene, che gli agitano, che gli tormentano orribilmente. Si sentono urlare, gemere, supplicare e dichiarare alla stessa presenza di quelli che gli adorano, donde vengono e quando si ritrarranno. » (Ibid.). –  Minuzio Felice, Lattanzio, sant’Atanasio e tutti i Padri latini e greci, affermano lo stesso fatto, e lo affermano, in faccia agli stessi pagani (la forma più recente di oracoli, è quella delle false apparizioni di presunte “Madonne”; in pratica tutte le apparizioni (spuntate come funghi negli ultimi tempi), che la vera Chiesa Cattolica non ha riconosciuto, erano, e sono … tutte provocate da demoni! – Vedi ad es. le false apparizioni sataniche di Medjugorie, puntello fradicio della falsa chiesa del novus ordo!! – ndr. -). –  O tutti questi grandi uomini erano allucinati, oppure bisogna riconoscere che erano ben sicuri di quel che dicevano, allo scopo di fondare sopra una simile prova 1’apologia del Cristianesimo e sulle verità della Religione da essi difesa. (Baltus I parte, p. 90 a 109). Bisognava pure che fosse allucinato, o che la verità degli oracoli gli fosse ben dimostrata perché uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, il grave, l’illustre Keplero, non tema di scrivere in faccia alla scienza e alla mezza scienza: «Non si può negare che anticamente i demoni non abbiano parlato agli uomini per mezzo degli idoli, per mezzo delle querce, dei boschi, delle caverne, degli animali, per mezzo delle più mute parti del corpo, talmente che l’arte della divinazione non è nient’affatto una ciurmeria per ingannare i semplici.» (De Stella nova. — Comentarum physiologica, p. 107, in-4, Pragæ, 1606). Del resto tra i Cristiani ed i pagani, il punto in litigio non era la presenza degli spiriti negli oracoli, ma la natura di questi spiriti. I pagani asserivano che quegli spiriti erano tanti dei, e gli adoravano. Al contrario i Cristiani provavano che erano demoni ed avevano orrore del loro culto. Ma ripetiamolo, tutti erano d’accordo sulla presenza di agenti soprannaturali negli oracoli. Abbiamo detto che i Cristiani provavano che tutti questi dei, ispiratori d’oracoli, non erano altro che spiriti maligni, ed i loro argomenti erano senza replica. Da un lato essi forzavano quei pretesi dei a confessare essi medesimi che non erano che demoni. « Voi sapete bene, diceva Minuzio Felice ai suoi antichi correligionari, che i vostri dei, lo stesso Saturno, Serapide, Giove e tutti gli altri che adorate, confessano che non sono che demoni; ora non è credibile che mentiscano essi medesimi per disonorarsi soprattutto alla vostra presenza. Credeteli dunque e riconoscete che sono demoni poiché essi stessi ne fanno testimonianza. » (in Octav.)  Dall’altra parte, riassumendo secondo gli stessi autori pagani, gli oracoli degli dei, e gli atti che ne erano stata la conseguenza, mostravano con l’evidenza della luce che avevano costantemente comandato sacrifici umani e impudicizie che fanno arrossire: insegnata la magia, provocato guerre ed eccidi; lodato empi e scellerati, e annientato la libertà umana, sostenendo dappertutto il domma della fatalità e del destino. (Vedi le prove in Baltus, I parte, p. 118 a 180). – E voi considerate come tanti dei, diceva loro Lattanzio, quelli che oltraggiano a questo modo l’umanità e la verità! Sì, dii, ma dii maligni e perversi, vale a dire spiriti ribelli che vogliono usurpare il nome di Dio ed il culto che gli è dovuto. Non che essi desiderino onori, poiché non ve n’è per essi che si son perduti senza speranza di riabilitazione; né che abbiano la pretensione di nuocere a Dio, giacché nessuno lo può; ma agli uomini. Essi vogliono ad ogni costo stornarli dalla conoscenza e dal culto della maestà suprema, a fine di privarli della beata immortalità che essi medesimi hanno perduta a cagione della loro malizia. Essi offuscano la verità con tenebre e nubi, affinché l’uman genere non conosca né il suo Creatore, né il Padre suo. Per meglio riuscirvi essi si nascondono nei templi, si mescolano ai sacrifici, fanno dei prestigi che fanno stupire, e fanno rendere gli onori divini a dei simulacri di dei. » (Lact., lib. C. XVII). Di qui dunque resultano due fatti: il primo che il mondo pagano era pieno di oracoli; essi lo circondavano, come una linea di circonvallazione circonda una città assediata: oraculis stipatus. Tale è tra mille, la dichiarazione di Plutarco e di Tertulliano, due testimoni oculari, situati agli antipodi l’uno dall’altro è per ciò stranieri ad ogni connivenza.. Il secondo, che questi

oracoli erano resi da tanti spiriti. Su questo punto nuova unanimità dalla parte dei testimoni oculari. La moderna incredulità non osa negare il fatto: ma si ride della spiegazione. Secondo lei gli oracoli erano una pura ciurmeria, buona per divertire la moltitudine ignorante, ma senza influenza sugli uomini illuminati che non vi credevano. Una ciurmeria! ciò è presto detto: ma le vostre ragioni? Affermare, non è provare. Cosa è una ciurmeria che ha regnato su tutta l’estensione del globo per venti secoli, la quale ha costantemente gettato il genere umano nell’allucinazione, sino al punto di persuaderlo che egli vedeva ciò che non vedeva, che udiva ciò che non udiva? Una ciurmeria che regna ancora nella più gran parte della terra, dove essa continua a produrre lo stesso sconvolgimento dei sensi e della ragione? Una ciurmeria che non ha cessato presso le nazioni incivilite, se non che all’arrivo del Cristianesimo; che continua con lo stesso successo presso tutti i popoli che il Cristianesimo non ha illuminati, e che ritorna dove la sua luce sparisce? Singolare ciurmeria il cui segreto si perde quando il mondo diventa Cristiano, e che si rinviene quando cessa d’esserlo. (Ad. es. nelle conventicole massoniche!! – ndr. -) Dite il nome, il paese, la nascita dell’abile ciurmatore che l’ha inventata, e che rinunzia al suo mestiere secondo il grado di latitudine, dove si trova egli rapporto al Cristianesimo? Ammettere una ciurmeria universale e universalmente creduta, è ammettere la follia universale ; ma se il genere umano è folle, provate che voi siete savio? E poi di qual natura era questa ciurmeria? Essa era buona, dite voi, per divertire la moltitudine ignorante. Singolare divertimento per la moltitudine anche ignorante, come il sacrificio di ciò che aveva di più caro. Si son veduti mille volte, su mille punti del pianeta, migliaia di genitori portare agli altari di divinità mostruose i loro propri figli: e voi credete che essi obbedissero ad una semplice ciurmeria! Si sono vedute intere popolazioni, come i Pelasgi della Magna Grecia, abbandonare i loro beni e la loro patria, per sottrarsi agli ordini di questi oracoli sanguinari; e mai è venuto loro il pensiero di diffidare delle ciurmerie sacerdotali! Voi ammettete, senza inarcare le ciglia, che uomini abbiano potuto burlarsi così dei loro simili per tanti secoli, senza che nessuno abbia potuto mai scoprire la loro furberia! Se voi siete increduli in materia di religione, convenite però che non è la credulità che vi manca. Siate almeno d’accordo con voi stessi. Per voi l’antichità pagana è l’epoca della vera luce: e voi ne fate l’epoca la più facile ad ingannare! Sarebb’egli vero che le vostre convinzioni cambiano con i bisogni della polemica? Voi rispondete: non si tratta che della moltitudine ignorante; e la troviamo nell’istesse epoche più incivilite. Invero, moltitudine singolarmente ignorante, che secondo Tertulliano comprende tutti i letterati del mondo, omnis sæculi litteratura; e che, dietro la testimonianza dello stesso Cicerone, si compone di tutto ciò che i popoli pagani dell’Oriente e dell’Occidente hanno conosciuto per due mila anni, di più celebre per il genio e per la scienza. Re, legislatori, capitani, oratori, filosofi di tutti i nomi, pitagorici, platonici, stoici, tutti gli uomini infine, meno tre o quattro bruti epicurei, Epicuri de grege porci: ecco di che si compone la moltitudine ignorante che ha creduto agli oracoli. E voi non vi credete! Badate, che la negazione è pericolosa; ella potrebbe farvi applicare il proverbio: Chi si assomiglia, si piglia. – Innanzi di continuare l’esame dell’obiezione, fermiamoci un istante. Per separarsi in tal modo dalla fede comune, vi vogliono più pretesti, e più motivi. Fin qui non abbiamo visto che i primi, vediamo quali possono essere i secondi. Ve ne sono due: l’ignoranza e l’interesse. Un grave filosofo ce lo spiegherà. « L’ignoranza di noi medesimi, dice, ci fa dimenticare che gli uomini sono naturalmente increduli: Noi non vediamo cosi facilmente ciò che è al di là di quel che noi vediamo. Tutto ciò che è meraviglioso e straordinario, sembra loro sospetto. Essi vi sospettano sempre della frode e dell’impostura, e per poco che ve ne sia, non è possibile che sfugga loro. Avviene altresì troppo spesso, che con questa avversione naturale al credere tutto ciò che sembra straordinario, essi suppongano della furberia, dove non hanno la minima ragione di sospettarne. Che se la verità, e spesso una verità tutta divina, dura tanta fatica a farsi riconoscere, come mai una furberia puramente umana potrebb’ella sostenersi lungo tempo? Come potrebb’ella sussistere tanti secoli e ingannare non pochi ignoranti, ma gli uomini più dotti e le intere nazioni più illuminate e più abili? « Tali sono stati alla lettera quei famosi oracoli del paganesimo. Essi hanno sussistito più di due mila anni; durante questo tempo, sono stati consultati, ammirati e rispettati da tutto il paganesimo, dai popoli e dalle nazioni più illuminate. I Greci ed i Romani gli hanno considerati come ciò che vi fosse di più augusto e di più divino nella loro religione. Tutti i filosofi sono stati convinti come gli altri. Appena se ne trova un solo tra coloro, che simili alle bestie, non riconoscessero né divinità, né provvidenza, né immortalità dell’anima, osando balbettare che tutti questi oracoli, non sono stati che furberie dei sacerdoti degli idoli. » (Baltus, p. 231 e seg.). Da ciò si vede donde venga l’opposizione. Non è né  l’autorità, né la scienza che la motivano, ma l’interesse del cuore. Il soprannaturale importuna l’uomo animale ed ei lo nega. Ma la sua negazione lo conduce all’assurdo. « Gli antichi e moderni epicurei, continua Baltus, sono costretti ad ammettere il fatto degli oracoli; ma nel modo con cui essi lo spiegano, gli oracoli erano tante furberie così grossolane, che dovevano essere incapaci d’ingannare, anche per sei settimane, la gente della campagna la più stupida e la più ignorante. Secondo essi si parlava agli adoratori in tante statue vuote; gli si urlava nelle orecchie con delle trombette; e si addormentavano con un non so quale sorta di droghe; e si presentava dinanzi ai loro occhi delle marionette. E per più di due mila anni, tutti i popoli hanno creduto che tutto ciò fosse divino, soprannaturale, miracoloso, in una parola, opera degli dei, ed effetto della loro potenza! Tra i filosofi più abili, in seno a nazioni le più illuminate, non si è trovato alcuno che ne scoprisse la frode! Che forse gli uomini d’allora fossero incapaci di sospettare che si potesse o che si volesse ingannarli? Se i sacerdoti degli idoli avevano interesse a divertirli ed a sedurli, non ne avevano molto più nell’evitare d’esserlo? » (Baltus, part. 231 e seg.). Allo scopo di dare alla loro spiegazione naturale degli oracoli una vernice di scienza, altri epicurei gli hanno attribuiti a delle virtù nascoste, a delle proprietà ignote alla natura, a dei fluidi, od a certe esalazioni della terra. (Così parla Plinio, l’epicureo, lib. 2, natur. hist., c. XCIII). Ma se queste virtù sono nascoste, se queste proprietà sconosciute, come sanno eglino che possano pronunziare degli oracoli? Quali relazioni si sono verificate tra certe esalazioni della terra, e la facoltà di predire l’avvenire o di vedere a certa distanza? Essi non si accorgono che si rendono ridicoli agli occhi del senso comune, mettendo delle parole in luogo delle cose; ed agli occhi dei loro confratelli, cercando seriamente la causa di un effetto, che non è altro che una chimera, od una furberia grossolana di qualche impostore, e poi si dichiarano fermamente increduli! « La verità è, che per credere che tanti grandi uomini e tante nazioni differenti, sono stati in un accecamento così prodigioso durante un così lungo seguito di secoli, ci vuole una fede molto robusta. Egli è più facile credere, quel che vi è di più incredibile, e di più prodigioso nelle favole. Cionondimeno voi credete questo prodigio, quantunque siate nemici del meraviglioso. Da che cosa dipende ciò? Dipende che, molta gente non ama sentir parlare dei demoni né di tutto ciò che vi possa aver relazione. Questo risveglia certe idee dell’altra vita che non piacciono: credono essi abbastanza le verità della religione sopra ragionamenti speculativi; ma prove troppo sensibili di queste medesime verità, gli danno noia. » (Baltus, ubi supra).