12 MARZO: FESTA DI S. GREGORIO MAGNO

SAN GREGORIO MAGNO

[Prefazione di G. Barra a: “Quaranta Omelie”, UTET, Torino, 1947]

Una mattina d’ottobre dell’anno 589 una voce si diffuse colla rapidità di un baleno, per Roma: Il Tevere straripa, il Tevere straripa! Era di/atti successo che, dopo parecchi giorni di piogge torrenziali, il Tevere era salito così alto da superare le mura di Roma. Con impeto travolgente le acque sradicavano piante, svellevano ponti, distruggevano case e ville, annegavano uomini e animali. I magazzini stessi ove si conservava il grano necessario al nutrimento dei poveri erano stati allagati. Il terrore regnava dovunque. Quando, dopo molti giorni di inondazione, le acque finalmente diedero giù, lasciarono sul loro passaggio carogne di bestie morte e poveri resti umani insepolti. Immaginare la rudimentalità e la disfunzione che avevano gli uffici di igiene pubblica a quei tempi. Così fu che ad un primo disastro ne successe un secondo. Dopo l’inondazione, la peste. La miseria, la fame, la paura, l’agglomeramento straordinario di popolazione, determinatosi a Roma dalla circostanza che, per  sfuggire alle incursioni dei Longobardi, gran numero dei fuggitivi dalle diverse province d’Italia si era rifugiato in città, avevano preparata la strada al terribile morbo. Il quale ora dominava nella capitale, mietendo ogni giorno centinaia e migliaia di vittime. Secondo Paolo Diacono, contrade intere della città rimasero prive di abitanti, e la strage fu sensibile anche nei dintorni di essa, specialmente a Porto. Una delle prime vittime fu il Papa Pelagio II, che morì il 5 febbraio del 590. All’abbattimento e all’angoscia che attanagliavano il cuore di tutti, ai pericoli gravissimi che incalzavano da ogni parte, si aggiungeva ora la perdita del Padre comune. Si pensò subito all’elezione del successore. Su chi sarebbe caduta la scelta? Senato, clero, popolo, tutti unanimemente fecero un nome: Gregorio. Gregorio aveva allora cinquant’anni. Segaligno, scarno, il volto limato dalle penitenze, dalle veglie e dai cilici, e scalpellinato dalle malattie. Le infermità non gli davano tregua. Forse non è senza disposizione della Divina Provvidenza che il povero Giobbe così malconcio, abbia preso ad esporlo io che sono pure molto malandato » scrive nel prologo dei Morali; e all’amico Leandro di Siviglia: « Son tormentato da frequenti attacchi intestinali: una febbre non forte, ma noiosa mi brucia di continuo ». – Il suo aspetto è pallido, cadaverico, ombrato da un velo di tristezza: la tristezza di non essere santo, di cui parla Bloy. Di vivo, di fresco in quel volto c’è l’occhio e il sorriso. Due occhi di fiamma che sembrano due finestre aperte su di un mondo interiore bellissimo. Ed un sorriso continuamente errante sulle labbra, sorriso che, appunto perché sboccia da un corpo piagato e da un cuore esacerbato, ha qualcosa di celestiale, di divino che ti incanta. – Uomini siffatti fioriscono solo all’ombra del chiostro. Che cosa non sa dare il chiostro a chi lo ama? O beata solitudo, o sola beatitudo! Per questo Gregorio non vuole lasciarsi strappare al suo convento di S. Andrea al Celio. Il pensiero di dover lasciare la sua diletta solitudine lo riempie di sgomento. Sgomento che è accresciuto dalla persuasione che egli ha profondamente radicata, di non aver forze bastanti per reggere la navicella di Pietro, in mezzo a sì spaventoso incalzar di marosi. Decide quindi di tentar ogni mezzo per sottrarsi al peso della nuova dignità. – Era invalsa la consuetudine che l’imperatore d’Oriente dovesse dare il suo consenso prima che un nuovo Pontefice salisse al soglio papale: Gregorio allora scrive in fretta in fretta a Maurizio, pregandolo di non voler concedere la richiesta approvazione alla sua nomina. E mentre attende la risposta, non potendo resistere alla pena che gli lacera il cuore, alla vista di tanti fratelli invocanti soccorso, esce dal suo convento e si mette all’opera per organizzare i soccorsi. I flagelli di Dio riversatisi su di noi — dice al popolo in un discorso — vi insegnino la via della penitenza e la pena sciolga la durezza dei nostri cuori. Ecco che tutta la plebe è percossa dalla spada dell’ira celeste, e cade improvvisamente colpita; né la malattia precorre la morte, ma la morte stessa previene ogni indugio…. Ciascuno dunque faccia penitenza, finché ne ha la possibilità. Richiamiamo innanzi agli occhi della mente tutti i nostri errori… e nessuno disperi per l’immanità delle proprie colpe: Dio infatti disse per bocca del profeta che egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva [Ezech., XXXIII, n ]. Mutiamo i nostri cuori, e pensiamo poi di aver già ricevuto quel che chiediamo ». – Frattanto indice una processione di penitenza. Il popolo risponde compatto all’appello. All’ora fissata, da sette chiese diverse partono i diversi gruppi — clero, monaci, ragazzi, spose, vedove, laici — tutti diretti verso la grande basilica liberiana dell’Esquilino. Che triste quadro quella fitta schiera di penitenti! Macilenti, scalzi, nudi, cosparsi di cenere. Per l’aria echeggia, rotto dai singhiozzi, il grido: Miserere nostri Domine, miserere nostri. Il tutto nello sfondo della città devastata, silenziosa, lugubre. Quando quel nastro di gente litaniante, si fu snodato per le vie della capitale e giunse davanti alla Mole Adriana, avvenne un fenomeno sorprendente. D’improvviso sfrecciò per l’aria un Angelo, il quale si posò sulla sommità di quel monumento in atto di ringuainare la spada. L’ira di Dio era dunque cessata. – Miracolo o leggenda? Sembra piuttosto leggenda. Certo è che la pestilenza di lì a poco cessò. Gregorio avrebbe avuto motivo di rallegrarsi se non gli fosse giunta una brutta notizia da Costantinopoli. L’imperatore Maurizio aveva confermata la sua elezione. Com’era dunque andata la cosa? Il prefetto di Roma Germano aveva sequestrata l’epistola di Gregorio, e aveva inviato a Costantinopoli solo la supplica degli elettori. Pure Gregorio è fisso nell’idea di sfuggire alla nuova dignità. Si fa chiudere in un paniere di vimini, e con l’aiuto di alcuni mercanti, di notte riesce ad eludere la vigilanza delle guardie, che erano di picchetto alle porte della città, e così fugge. Ma purtroppo dopo tre giorni è rintracciato, ricondotto in città e consacrato Papa il 3 settembre del 590. La Chiesa pareva « una nave sconquassata e scricchiolante ». « Ubique mors, ubique luctus, ubique desolatio ». Tale la situazione che si presentava al neo-pontefice. Pareva fosse giunta la fine del mondo. Non per nulla, la sua prima omelia che tiene al popolo la seconda domenica di Avvento, nella Basilica di S. Pietro, stipata di popolo in tutte le cinque navate, e risplendente di luci, lungi dall’avere un accento di giubilo o di compiacenza per l’onore ricevuto, è tutta venata da una cupa tristezza di morte. Commenta il passo di Luca [XX, 1, 25, 32] in cui è riferito il discorso di Gesù ai discepoli sulla fine del mondo, e insiste sul concetto della decrepitezza del mondo, di cui egli vedeva i segni evidenti nelle calamità riversatesi di recente su di esso. – Gregorio subito si mette all’opera. Per richiamare il popolo all’osservanza delle pratiche religiose e riaccendere in esso il sentimento della fede, il Papa ripristina un uso proprio di Roma nei tempi anteriori al suo, quello cioè delle Stazioni. In occasione delle maggiori solennità dell’anno, il popolo soleva riunirsi in una determinata chiesa, e di là muoveva in processione, con il vescovo in testa, verso un’altra basilica, dove si celebrava la Messa, e il Papa pronunciava l’omelia. Durante il tragitto si cantavano quelle che furono dette più tardi le Litanie dei santi. La consuetudine interrotta e sospesa per il susseguirsi di tante guerre e invasioni, forse perché era talora pericoloso, in mezzo alle scorrerie dei barbari, uscire di città per raggiungere le chiese cimiteriali nei giorni natalizi dei santi, fu dunque ripresa da Gregorio con rinnovato fervore. L’esercito del Signore si stendeva in lungo ordine avanti e dietro il Pontefice, e innumerevoli coorti di ogni sesso, età e professione, volontariamente affluivano, per ricevere da lui, maestro della celeste milizia, le armi dello spirito. [Jo. Diac. Vita Greg., XI, 19]. – Entriamo anche noi coi fedeli di Roma e assistiamo alla celebrazione dei sacri Misteri. Che solennità di riti, che maestosità di paramenti, che profondità di comprensione nei ministri e nei fedeli. Come si sente che si sta celebrando qualcosa di divino! E quel canto gregoriano che dovrà per tanti secoli incantare e rapire milioni di anime, è modulato per le prime volte in quelle basiliche ove ridono nella loro semplicità e rozzezza i primi abbozzi della pittura cristiana. Ora la messa è giunta al Vangelo e la parola divina ha echeggiato per le navate del tempio. Il momento è solenne. Gli occhi di tutti sono puntati verso l’ambone. Ecco: la ieratica figura del Papa Gregorio spunta. Un silenzio religioso si diffonde su quella marea umana. I cuori battono di affetto, di aspettazione. Gli spiriti già pregustano la gioia di quell’ora che hanno atteso e sognato. Ora il Papa parla e la sua parola avvince, incatena, commuove tutti. Nulla di roboante, di oratorio, di demagogico. Dimesso, facile, piano, senza larghi gesti, senza periodare altisonante, senza sfoggio di astruserie dommatiche. La sua voce è tutta intrisa di soavità, intessuta di dolcezza, impastata di bontà. Una voce sottile, affievolita, quale solo poteva dare quel corpo bulinato dalla malattia, emaciato dalle penitenze. Una voce che pare un pianto, e che, appunto perché tale, si inquadra meravigliosamente in quell’ambiente di fame, di dolore, di decadimento generale. È un padre che parla, un maestro che insegna. Un padre col cuore in mano. Un maestro, scaltrito nell’arte sua. T’accorgi sùbito che sa sfruttare a meraviglia tutti i mezzi per essere capito e seguito dal popolo. – Comincia ad esporre il senso letterale, base e fondamento di tutti gli altri. Poi passa a sviluppare le considerazioni e le conclusioni morali, e con quel senso di praticità, proprio della sua indole di autentico romano, dice la parola appropriata ai bisogni spirituali delle varie classi dei suoi uditori. Un argomento su cui ritorna spesso è quello della carità. Non può comprendere che in un mondo cristiano ci possano essere dei ricchi che sguazzano nell’abbondanza e dei poveri che muoiono di fame. Mai la sua parola è così bruciata di amore, come quando rivolge il suo appello accorato ai ricchi. Se si potesse sapere quante lacrime ha asciugato, quante speranze ha acceso, quante borse ha vuotato, quante pietre ha cambiato in pane, la parola di Gregorio. La parola e l’esempio. Gregorio difatti teneva una matricola dei malati, dei poveri, dei profughi, per somministrare loro quotidianamente soccorsi. Ogni giorno convitava alla sua tavola dodici poveri: la riconoscenza popolare raccontò che un giorno prese posto tra i commensali Gesù Cristo. Nelle solennità e nel primo giorno di ciascun mese distribuiva grano, vino, legumi, carne, pesci e vestiti. Gregorio si credeva in dovere di provvedere a tutti, sicché, essendosi trovato in una via un poverello morto d’inedia, ne ebbe scrupolo di negligenza e si astenne per parecchi giorni dal celebrare. Un giorno ha davanti a sé tutta un’accolta di Vescovi radunati in concistoro nella basilica Lateranense. L’occasione è quanto mai propizia per muovere alcune rampogne, per riprovare parecchi abusi e per sbozzare la figura del Pastore ideale: E c’è ancora qualche altra cosa che mi affligge circa la vita dei pastori Cristiani. Ma, perché non accuso anche me con gli altri … Noi tutti ci occupiamo troppo degli affari del mondo;… lasciamo di predicare e ci chiamiamo Vescovi a nostro danno, perché manteniamo il nome della carica, ma non le virtù ad essa inerenti… Di quali colpi di spada è ferito il mondo ogni giorno, di quali percosse muore ogni giorno il nostro popolo! E per colpa di chi, se non dei nostri peccati? Ecco le città sono saccheggiate, i castelli rovinati, le chiese e i monasteri distrutti, e le campagne si sono mutate in deserti! E noi che dovevamo essere al popolo autori di vita, siamo invece, per lui che perisce, autori di morte [Om., XVII]. – Altro argomento particolarmente preferito e il Giudizio finale: Mettetevi dinnanzi agli occhi un giudice così temibile; e temetelo, finché ha da venire, per poterlo guardare, non timidi, ma a fronte alta, quando sarà venuto… Certo se alcuno di voi dovesse il giorno appresso discutere col suo avversario una causa dinnanzi al mio tribunale, forse passerebbe insonne la notte, pensando a quel che dovrà dire, a quel che dovrà rispondere alle obiezioni, e temerebbe di trovarmi troppo aspro o di apparirmi colpevole. E chi sono o che cosa sono io? Tra breve, dopo essere stato uomo, verme, e dopo essere stato verme, polvere. Se dunque con tanta ansietà si teme il giudizio della polvere, con quanta maggior attenzione noi dobbiamo pensare, con quanta paura noi dobbiamo prepararci al giudizio di una sì grande maestà [Om., XXVI]. – Altri temi che ritornano spessissimo sulle sue labbra sono l’avvicinarsi della fine del mondo, il dovere della penitenza, il disprezzo dei beni terreni, l’umiltà, la preghiera, la necessità delle opere buone, la retta intenzione, la fuga delle superstizioni, la missione salvatrice ed elevatrice del dolore, la fortezza ed il coraggio cristiano, la fedeltà e costanza al proprio dovere. Come si vede il nucleo delle idee non è neanche tanto vario. Ma ciò che conta è il modo. Non è dire che importa: saper dire. L’amore ha una parola sola: pur dicendola sempre non la ripete mai. Anche il pane lo mangi tutti i giorni: pure non ti viene mai a noia. Come è sempre una festa vedere ogni giorno spuntare l’aurora e tornare ogni anno la primavera. – Mentre il Pontefice parla, negli angoli gli stenografi scrivono. Perché ci sono molti che non possono venire in Chiesa a sentire la omelia. E questi in capo a pochi giorni potranno avere fra mano e godersi a piacimento la augusta parola del Papa. Talvolta succedeva che il Papa, pur partecipando alla Stazione, non avesse forze bastanti per fare l’omelia: talmente era stremato per la sua malattia. Allora un notaio la leggeva ai fedeli in sua presenza. Purtroppo però l’attenzione che prestavano a quella lettera era scarsa. « La voce di quello che parla direttamente scuote i cuori torpidi più che il discorso letto». Così nacquero le Quaranta Omelie sui Vangeli. Le prime venti lette, le altre dette. Più tardi il Papa stesso le raccolse in due libri che dedicò a Secondino Vescovo di Taormina. Ma già prima che il Papa componesse la sua silloge autentica, ne era stata fatta un’altra da alcuni troppo zelanti amici del santo, nella quale naturalmente vi erano incorsi parecchi errori e imperfezioni. Perché ne fosse possibile la correzione, Gregorio depositò un esemplare delle Omelie, da lui rivedute e rielaborate, nella biblioteca della Chiesa romana: è probabile che da questo Codice fossero tratte, mentre ancora viveva il Pontefice, numerose copie, e che anche la redazione derivi da esso. – Straordinario fu il favore incontrato lungo tutti i secoli da queste omelie. Anzi si può dire che nessuna altra raccolta di omelie dei Padri è stata letta e meditata come questa. Non per nulla la Chiesa le ha inserite più o meno nell’ufficiatura liturgica del Breviario tutte, ad eccezione di due. Il segreto di questa fortuna va ricercato non tanto nei pregi di forma. Quantunque Gregorio non sia sciatto o trascurato. Possiede profondità di frase, sempre densa di pensiero e di significati, semplicità di eloquio, colorito ammaliante di dolce malinconia, tanto rispondente al temperamento personale dello scrittore e all’andamento triste dei suoi tempi. – Però è giusto riconoscerlo: Gregorio non è uno stilista, né un classico. Non cura « le fronde delle parole », né « la leggiadria di una sterile eloquenza ». Non fuggo le trasposizioni, non evito i barbarismi, trascuro di conservare il posto delle proposizioni e dei casi, poiché ritengo esser cosa indegna il sottoporre la dottrina del cielo alle regole di Donato [Lettera dedicatoria dei Morali a Leandro di Siviglia]. – Anch’egli pensa come Agostino: Ci riprendano pure i grammatici, purché ci capiscano gli ignoranti ». I pregi di Gregorio oratore sono altri: la sua immediatezza, la sua praticità, la sua profonda intuizione dei bisogni che assillano il cuore umano. In poche parole ti dice molte cose: cose pratiche, cose che ti fanno del bene, che sembrano dette proprio per te. E non ti stanca col suo dire. S. Giovanni Crisostomo è più eloquente, S. Leone Magno è più solenne, S. Ambrogio è più profondo. Nessuno è così materno. Anche quando deve rimproverare: pugno di ferro in guanto dì velluto; forte come un diamante, tenero come una madre. Talvolta per curare il suo dire e riposare l’uditore inframmezza qualche esempio. Sono fatti edificanti da lui veduti o sentiti narrare, sono ricordi della sua famiglia, della zia Tersilla o del suo antenato, papa Felice, narrati colla ingenuità dei Fioretti. Sotto questo riguardo Gregorio forma come il ponte di passaggio dall’età antica a quella di mezzo. Gli oratori antichi più popolari, come Agostino e Cesario, parlavano amabilmente al popolo della loro città, ne correggevano i costumi, lo rampognavano, ma non infioravano le loro parole con quei racconti leggendari, che formeranno la letizia dei predicatori della prima rinascenza: baste ricordare Fra’ Domenico Cavalca. Gregorio, senza arrivare alle aberrazioni dei fantastici frati dei secoli posteriori, costituisce il primo anello di una catena che si svolgerà poi per lungo seguito di anni, ed annuncia il rivolgimento dell’arte oratoria. – Anche in questo si rivela la modernità, la attualità, la genialità di Gregorio. Il genio è di tutti i tempi. L’ala edace del tempo non ha mordente per la sua opera. Ha sempre qualcosa da dire. Così Gregorio dopo avere per tredici secoli nutrito, beato, plasmato generazioni di Cristiani, ha ancora una parola da dire agli uomini del novecento: un rimprovero per l’errore, un invito alla speranza, un appello all’amore.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (31)

C

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXX.

Storia contemporanea delle due Città.

satana, cacciato da Roma, sempre ha voluto rientrarvi — Suoi incessanti sforzi per formarsi un’altra città — Corrompe i cittadini della Città del bene: eresie, scandali, assalti della barbarie mussulmana. — L’Europa non se ne lascia scuotere — satana la seduce come sedusse già la prima donna; si trasforma in Dio del bello.— Il Risorgimento — Cinque fenomeni che gli tennero dietro: riprovazione del Medio Evo — Acclamazione dell’antichità pagana — Radical cambiamento nella vita dell’Europa — Lo Spirito Santo lasciato in oblio — Cambiamento delle quattro basi della Città del bene — Ristabilimento del regno di satana. — Suoi grandi contrassegni antichi e nuovi: il Razionalismo, il Sensualismo, il Cesarismo, l’odio del Cristianesimo — Attual movimento di unificazione e dissoluzione.

Cacciato di Roma, il re della Città del male non perdé mai la speranza di rientrarvi; ond’è che, dopo la toccata disfatta, sempre fu visto girare intorno ai ripari dell’eterna Città, affin di sorprenderla e ritornarla sua capitale, Egli sa che il suo nemico è là; il Verbo-Dio, il Verbo-Re, il Verbo incarnato nella persona del suo Vicario. Finché non ne l’avrà spodestato, il suo trionfo è imperfetto; ma come riuscirvi? Roma è per ampio tratto circondata dall’amore, dalla venerazione, dalla possanza della grande Città del bene; triplice baluardo che rende impossibile il semplice appressarmi. Non potendo fare suoi sperimenti nel centro, satana li fa alle frontiere. Fu solamente dopo lunghi secoli di lontane pugne ch’egli giunse una prima volta, a far di Roma la capitale della sua immensa città: sovvenutosene in buon punto, ei torna, spinto dal suo instancabile odio, alle lotte che già aveva provate così felici. Infatti ei si sforza d’intaccare la Città del bene, corrompere una parte dei cittadini e tirarli alla sua bandiera mediante le eresie, e scismi, e scandali, e i formidabili assalti della mussulmana barbarie. Il suo maneggiarsi indefesso non riesce altrimenti vano; e già parziali vittorie ottenute qui e colà gli preparano la via alla vittoria compiuta; cionondimeno, la Città del bene, fedele alle sue gloriose tradizioni, sorgeva tuttavia, salda sulle sue fondamenta. Come Adamo ed Èva, nei dì della beata innocenza, avevano vissuto, ignorando il male, cosi l’Europa, contenta della scienza del bene, di cui andava debitrice allo Spirito Santo, viveva estranea alla scienza del paganesimo, alla scienza cioè del male organizzato. Se pigliava qualche cognizione dell’antichità, punto noi faceva per ammirarla ilè per lodarla, e meno ancora per imitarla e faida rivivere. E se n’ha la prova in ciò che’ v’ha minor differenza tra il di e la notte, che tra la lingua, le arti e le istituzioni del Medio Evo, e la lingua, le arti e le istituzioni del paganesimo. È questo un fatto che perentoriamente risponde a tutte le ragioni di coloro che pretendono il Risorgimento, niente o quasi niente avere cambiato il sistema d’insegnamento della vecchia Europa. Intanto, il seduttore Serpente, non scordatosi punto che Èva restò sedotta dalla lusinghiera bellezza del frutto vietato, et aspectu delectàbile, ad un tratto trasformasi in angelo di luce, e si spaccia per il Dio del bello. Fa luccicare agli occhi dell’Europa le ingannevoli bellezze del suo regno; si dice calunniato dai re e dai sacerdoti, e invita l’Europa, qualora voglia uscire dalla schiavitù e dalla barbarie, a dar retta a lui. A queste parole, l’originale veleno, non mai spento, bolle e fermenta con istrana forza nelle vene dell’imprudente Europa. Nel medesimo tempo, Greci, cacciati d’Oriente, in pena dell’ostinata lor ribellione alla Chiesa, sbarcano in Italia: e, fuggiaschi dalla loro patria, s’arrogano la missione di risuscitare le pretese glorie dell’antichità pagana. La gioventù di Europa tutta s’accalca nelle loro scuole: e per dileggio del Cristianesimo, il dì della grande seduzione vien segnato nella storia col nome di Risorgimento. Quel di infatti, divise la vita d’ Europa in due; i secoli antecedenti ebbero nome di Medio Eco; i seguenti, si chiamarono i tempi moderni. D’allora in poi si videro fenomeni non mai più veduti. Primo fenomeno. Parte dall’Italia un generale grido di riprovazione contro il Medio Evo, e risuona in tutta Europa. Ingiurie, sarcasmi, calunnie, tutti i vituperi che l’odio e il disprezzo, sanno inventare, piovono sul tempo che, come abbiam veduto, lo Spirito Santo regnò con maggior signoria. Teologia, filosofia, arti, poesia, letteratura, istituzioni sociali, la lingua stessa, diventano zotichezza, ignoranza, superstizione, schiavitù, barbarie. I figliuoli si sono vergognati dei loro padri e ne rigettarono l’eredità. « Eppure che cos’erano infine le antiche credenze, le antiche creazioni, le antiche aristocrazie, le antiche istituzioni, con tutti i difetti che possono aver avuto, siccome avviene d’ogni cosa umana? Erano l’opera dei nostri antenati: era l’intelligenza, era il genio, era la gloria, l’anima, era la vita, era il cuore dei nostri padri.? Bisogna aggiungere: era il Cristianesimo nella vita dei nostri padri; e il regno dello Spirito Santo sul mondo.

Secondo fenomeno. Al grido frenetico di riprovazione contro il Medio Evo, succede l’acclamazione non meno frenetica e generale della pagana antichità; e il tempo che Satana fu ad un tempo Dio e re del mondo, diventò là più splendida età del genere umano. Nelle repubbliche di Grecia e d’Italia, vituperevolmente prostrate ai piedi di Giove e di Cesare, splendé in tutta la sua luce il sole della civiltà. Filosofia, arti, poesia, eloquenza, virtù pubbliche e private, caratteri d’uomini, istituzioni sociali, lumi, libertà: in esse tutto era grande, eroico, inimitabile. Ritornare alla loro Scuola e ricevere le loro .lezioni come oracoli, era per i popoli battezzati, l’unico mezzo d’uscire dalla barbarie, e mettersi nella via del progresso.

Terzo fenomeno. Non tarda a farsi vedere un radical mutamento nella vita dell’Europa. Ricollocato in onore, lo spirito dell’antichità, torna ad essere l’anima del mondo, ch’ei forma a sua immagine; è allora comincia un sozzo diluvio di filosofie pagane, di pitture e sculture pagane, di libri pagani, di teatri pagani, di teorie politiche pagane, di denominazioni pagane, di continui panegirici del paganesimo, dei suoi uomini e delle opere sue. Questo vasto insegnamento s’incarna nei fatti. Vedonsi le nazioni cristiane a un tratto rompere le grandi linee della nazionale lor civiltà, per ordinare la loro vita su altro disegno; e, gettando via, quasi cencio ignominioso, il reale manto, di cui la Chiesa lor madre le aveva vestite, azziniarsi dei fallaci e sozzi ornamenti del paganesimo greco romano. Quindi venne quella che si chiama civiltà moderna; civiltà fittizia, che non è altrimenti il frutto spontaneo né della nostra religione, né della nostra storia, né della nostra indole nazionale; civiltà a rovescio, la quale, invece di sempre meglio applicare il Cristianesimo, alle arti, alla letteratura, alle leggi, alle istituzioni, alla società, le informa dello spirito pagano e ci fa indietreggiare di ben venti secoli; civiltà corrotta e corrompitrice, che, tutto ordinando al materiale benessere, vale a dire in servigio della carne e di tutte le sue cupidigie, riconduce l’Europa, tra le rovine dell’ordine morale, al culto dell’oro ed agli indescrivibili costumi di quei tempi nefasti, in cui la vita del mondo, schiavo dello spirito infernale, era tutta in due parole; mangiare e divertirsi; panem et circenses.

Quarto fenomeno. La prima conseguenza dei fatti surriferiti doveva essere, e fu, il sempre maggiore oblio dello Spirito Santo. La notte e i di non possono stare insieme; quando vien l’ima, l’altro sen va. Quanto più Satana avanza, tanto più lo Spirito Santo ritirasi. Dal Cenacolo al Concilio di Firenze l’insegnamento dello Spirito Santo scorreva, qual pieno fiume, sull’Europa da lui vivificata; spuntato il Risorgimento, veggonsi le onde del fiume ritirarsi, e il grande insegnamento dello Spirito Santo farsi sempre meno esteso. Chiediamolo alla storia ed a nostri occhi medesimi. Viene il Risorgimento ; e la guerra contro il Cristianesimo, che da parecchi. secoli, Vera ridotta a parziali combattimenti, ricomincia, con forza, su tutta la linea. Vent’anni prima di Lutero, le stesse basi della Religione erano battute in breccia .dalle macchine greco-romane. Mille volte la lotta dà occasione a speciali trattati, ordinati a difendere, gli uni dopo gli altri, tutti i domini cristiani: dimostrazioni, conferenze, prediche, dissertazioni, apologie di’ ogni forma, compaiono d’anno in anno, quasi direi di mese in mese. L’esistenza di Dio; la divinità di N. S. Gesù Cristo; l’autenticità, l’integrità, l’ispirazione, la verità storica delle Scritture, l’infallibilità della Chiesa; l’immortalità, la libertà, la spiritualità dell’anima; ogni Sacramento, ogni istituzione, ogni pratica religiosa; in una parola, ogni verità cristiana venne dimostrata ben venti volte code lucenti sue prove e splendide attinenze colla natura dell’uomo ed i bisogni della società. E per lo Spirito Santo, niente. Eppure era lui che si negava, negando le varie manifestazioni del ministero della grazia, di cui Egli è principio; era lui che s’impugnava, oppugnando ogni parte della Città del bene, della quale .Egli è difensore e re. Infatti, chi mi può nominare una qualche opera grande, composta dopo il Risorgimento, da grande autore, per far conoscere e ricordare alle adorazioni del mondo la terza persona della SS. Trinità? Noi non abbiamo potuto trovarne pur una né in Italia, né in Allemagna, né in Inghilterra, né nel Belgio, né in Francia. Bisogna confessarlo con nostro dolore: rispetto allo Spirito Santo, l’insegnamento pubblico s’è  visibilmente immiserito. E n’è prova il mondo attuale: talora almeno si parla di quello che si conosce, di ciò che, in qualunque grado, occupa la nostra mente: la lingua batte dove il dente duole, e spesso s’invoca colui del quale altri si. crede aver bisogno. Ma il nome dello Spirito Santo, che posto tiene nel moderno linguaggio ? Nel naufragio delle credenze, restarono salvi parecchi nomi;’ Dio, Cristo, la Provvidenza, odonsi di quando in quando suonar sulle labbra dell’oratore, o veggonsi cadere dalla penna dello scrittore. Avviene egli lo stesso dello Spirito Santo? Quando avete voi sentito pronunziare il suo nome? Chi l’invoca da senno? Avete voi memoria di averlo letto nei libri di storia, di scienza, di letteratura, di legislazione, o nei discorsi ufficiali, da cento e più anni in qua? Or quando il nome sen va, l’idea sparisce ancor essa. Pur troppo, nel mondo presente lo Spirito Santo non conta più. I palazzi, i saloni, le accademie, la politica, l’industria, la filosofia, l’istruzione pubblica, sono vuoti di lui; e’ par ridotto alla condizione di elemento sociale ignoto o vièto. Fra gli stessi cattolici, è egli bene spesso altro che mero oggetto di credenza metafisica? Dov’è il culto speciale, fervente, costante in suo onore? Si davvero; la terza persona della SS. Trinità nell’ordine nominale, è l’ultima nella nostra memoria e nei nostri omaggi. Due volte sole, l’umano genere giacque in questa profonda ignoranza, in questa generale indifferenza. La prima, nel mondo pagano, innanzi la predicazione del Vangelo; la seconda, ai tempi nostri, diciotto secoli dopo lo stabilimento del Cristianesimo. Per gli antichi pagani lo Spirito Santo era come se non fosse: il suo nome non si trova in alcuna delle loro lingue. La ragione ne è chiara; nel mondo antico lo Spirito Santo non contava nulla, perché lo Spirito maligno era tutto. Or di che cosa é segno quest’ ignoranza e indifferenza del mondo presente rispetto allo Spirito Santo, se non che Satana ricupera il campo perduto e torna a formare la sua Città? Ecco così è: e chi noi vede né intende, è uomo che non vede né intende il mondo -in cui vive. Quinto fenomeno. satana rientrato nella Città del bene, comincia dallo scuoterne la base. L’unità di fede, la sociale potenza della Chiesa, il diritto cristiano, la cristiana costituzione della famiglia, erano, siccome abbiamo veduto, le quattro pietre angolari dell’edifizio religioso e sociale dei padri nostri: che diventarono esse? Dov’è, ai tempi nostri, l’unità di fede? Il simbolo cattolico è fatto in pezzi qual vetro. Metà d’Europa non è più cattolica; l’altra metà l’è a mala pena a mezzo. Dove la sociale potenza della Chiesa? dove la sua proprietà? Il suo scettro è una canna, e la madre dei popoli non ha più dove posare il capo, Dov’è il diritto cristiano? Vituperato, calpestato; è detronizzato dal diritto nuovo, o, a dir meglio, dal diritto antico, dal diritto di Cesare, dal diritto della forza, del capriccio e del tornaconto. Dov’é la cristiana costituzione della famiglia? Il divorzio è tornato ad infettare i codici di Europa; ed altrove regna il concubinato legale sotto il nome di matrimonio civile. La patria potestà scade dovunque; e la famiglia, destituita della sua perpetuità, s’ è fatta istituzione passeggiera. Or chi è l’autore di queste grandi rovine, che ne suppongono e cagionarono tante altre? È chiaro che, essendo lo spirito del bene, lo è lo spirito del male. Eppure, affascinare e distruggere non è che la prima parte della satanica opera; l’usurpatore s’affretta a piantare il suo trono sulle fatte rovine. Chi non resterebbe sgomento al vedere, nel decimonono secolo dell’Era cristiana, il regno del demonio manifestarsi nel centro medesimo della Città del bene, con tutti i contrassegni che aveva nella pagana antichità ? Quei contrassegni furono, non s’è punto dimenticato, il razionalismo, il sensualismo, il cesarismo, l’odio del cristianesimo. Or quale di questi contrassegni ci manca? Il Razionalismo, ossia l’emancipazione della ragione da ogni autorità divina in materia di credenze, può ella essere più completa? L’autorità divina insegna per organo della Chiesa; qual si è adesso il governò che l’ascolti? Sotto il nome di libertà di coscienza, le religioni tutte non sono esse forse, politicamente e a parere di molti, egualmente vere, egualmente buone e degne d’egual protezione? Che cos’è questo, se non lo spirito di menzogna che dà, come nell’antica Roma, il diritto di cittadinanza a tutti i culti, e ammette tutti gli dei nel medesimo Pantheon? E fra i privati stessi, son essi molti che regolino la loro fede secondo la parola della Chiesa? Gli uomini, i libri, i libercoli, i giornali ‘anticristiani, non son essi gli oracoli della moltitudine? E poi la fede si conosce dalle opere come l’albero dai frutti. Or, interrogate i sacerdoti: chiedetelo ai ragguagli del mulinale ; guardate intorno a voi. E se tanto ancora non basta per dirvi in quale stato si trovi la potenza della fede sul mondo presente e mostrarvi fin dove domina, pigliate in mano un mappamondo, e giudicatene coi vostri occhi! Il Sensualismo, ossia l’emancipazione della carne da ogni autorità divina in materia di costumi, non cammina egli forse di pari passo col Razionalismo? Eli! che in questa parte il mondo presente corre difilato agli antipodi del Cristianesimo! La vita cristiana venne già definita dal Concilio di Trento, una continua penitenza, perpetua poenitentia; e i nostri tempi che sono? un continuo godere il più largo e con tutti i mezzi che si possa, L’uomo diventa carne. E su questo contrassegno del regno satanico non occorre dir altro; attesoché è cosa che impaurisce tutti gli animi assennati. Il Cesarismo, ossia l’emancipazione della società dall’autorità divina in materia governativa, per mezzo del concentramento di tutti i poteri spirituali e temporali nella mano d’un uomo, imperatore e pontefice, dipendente da niun’altro che da sé stesso. Che cosa si ved’egli di questo nuovo contrassegno? mirate; meta dei re d’Europa si sono fatti papi; l’altra metà aspira a farsi. Calpestare le immunità della Chiesa, usurpare i diritti della Chiesa, insultare, spogliare, incatenare la Chiesa, non è forse stata la bell’ impresa, direttamente o indirettamente, di tutti governi europei, dal Risorgimento in poi? Nonio è forse tuttavia? Se questo non è il Cesarismo, più non intendiamo il senso delle parole. L’odio del Cristianesimo. L’antico paganesimo odiava il cristianesimo d’odio implacabile, universale; di guisa ché di ogni e qualunque mezzo si valeva per insultare, distruggere il suo avversario. L’odiava in Dio, nei suoi ministri, nei suoi discepoli, nei suoi dommi, nella sua morale, nelle sue pubbliche manifestazioni. Il suo nome era diventato sinonimo di tutti i delitti. A lui si dava la colpa delle pubbliche calamità: il carcere, l’esilio, la morte fra le torture, erano meritato castigo d’una sètta; dica Tacito, rea dell’odio del genere umano. Satana è sempre Satana: il suo odio del cristianesimo è cosi fresco, universale, implacabile adesso come in antico. Egli odia Dio nei Cristiani; da un secolo in qua specialmente, quali bestemmie restano ancora a proferirsi contro il Verbo incarnato? citatemi un solo dei suoi misteri che non sia stato mille volte impugnato, un solo de’ suoi diritti mille volte negato e calpestato. L’odia nei suoi ministri. Nel furore della sua rabbia non ha egli detto, che vorrebbe strangolare l’ultimo prete con le budella dell’ultimo rei E in quanto il poté, non l’ha egli fatto? Havvi egli pur un paese in Europa, dove, dopò il Risorgimento, i vescovi, i preti, i religiosi non siano stati spogliati, cacciati via, inseguiti come belve, oltraggiati, massacrati? Lo stesso Vicario del Figliuolo di Dio, il padre del mondo cristiano, Pietro, almeno Pietro, sarà stato rispettato. Sii guardate come l’hanno trattato nella persona di Pio VI e di Pio VII; guardate come ancora lo trattano nella persona di Pio IX. E che è la moderna Europa se non una famiglia ribellata contro al suo Padre? Non sentesi egli, ogni dì, da nove anni, il grido deicida di milioni di- voci: Non vogliamo più ch’egli regni su noi? Assediato da cento scomunicati, il pontificato non è egli diventato un Calvario? Giuda che vende; Caifasso che compra; Erode che schernisce; Pilato codardo, il soldato spogliatore e carnefice, non ricompariscono essi li sulla scena? L’odia nei suoi discepoli. I veri Cattolici sono trattati come i loro Sacerdoti. Tutte le ingiurie fatte dai pagani antichi ai loro padri, son fatte ad essi dai pagani moderni.1[Si può vederne la nomenclatura nel Mamacìti, Antiquitates et Origines christianae, ecc. Questo fatto mostra meglio d’ogni ragionamento, la medesimezza dello Spirito dominatore delle due epoche. Ma questa non è semplice storia, né pura filosofia della storia : è piuttosto, ci si passi la frase, una esatta fotografia del nostro secolo. E si noti ché quando  l’autore scriveva queste pagine, molti di questi fatti non erano che cominciati: non ancora satana, rappresentato dalla massoneria trionfante, aveva posto le sue tende presso al Vaticano, non ancora nella Città stessa del bene si eran potuti innalzare templi eretici, non ancora era stato pronunziato il grido famoso « Il clericalismo (ossia il Cristianesimo): ecco il nemico! » Però come satana ispirando Lutero, promosse contro sua volontà, la riforma effettuata dal Concilio di Trento, così ora, in tal modo disponendo Iddio, con l’abuso della vittoria ha attirato gli sguardi di tutto il mondo al Vaticano; i buoni crescono in fervore, la zizzania si separa dal buon grano, e i soldati della Città del bene crescono di animo e di valore. Le vittorie dello Spirito malo non riescono finalmente che a render più gloriosi i trionfi dello Spirito Santo! (V. d. Ed.)].

– Sono tenuti per inetti o per sospetti: vengono esclusi, il più che si può, dalle pubbliche cariche; son detti retrogradi, nemici del progresso, della libertà, delle istituzioni moderne, gente d’un’altra età, che vorrebbe ricondurre il mondo alla schiavitù ed alla barbarie. Sono oppressi nella loro libertà, coll’annullare le donazioni da loro fatte alla Chiesa lor madre, od ai poveri loro fratelli; col sopprimere le associazioni di carità, cui non si ha onta di mettere al disotto delle società scomunicate. Sono oppressi nel loro diritto di proprietà; si pigliano i loro conventi per farne caserme; le loro chiese, per farne stalle; le loro campane, per farne cannoni; i loro vasi sacri, per farne denaro od oggetti di lusso, in servigio dei loro nemici. Sono oppressi nella coscienza, con imporre ad essi lavori vietati: insultando, tuttodì, sotto i loro ocelli tutto quanto e ad essi più caro, più venerando, più adorabile. E acciocché nulla manchi, né al loro martirio, né all’odio, a cui sono fatti segno, in tutta Europa, dopo il Risorgimento, vennero appesi per la gola, arsi vivi, decollati. Ed anche adesso, in Italia, son fucilati; in Polonia, impiccati; in Irlanda, fatti morire di fame. Se Dio non sorge, se ne faranno macelli ; e migliaia di voci grideranno: Loro ben sta! Reus est mortisi L’odia nei suoi domini. Da quattro secoli in qua, nella battezzata Europa, si è sciupato, per demolire l’edificio della verità’» cristiana, più inchiostro, più carta, più denaro, che forse non ci vorrebbe per convertire il mondo: l’empia guerra non cessò mai*. Per non dire dei libri, dei teatri, dei discorsi anticristiani; che fanno quelli avvelenati fogli che, ogni sera, partono da tutte le capitali d’Europa, per piovere poi, il dì appresso, a guisa di velenose locuste, sulle città e le campagne, e sparger dovunque il disprezzo e l’odio della religione, lo scetticismo e l’incredulità? L’odia nella sua morale. Ridiventato quel ch’era al dì della satanica signoria, il mondo presente sembra organizzato per la corruzion dei costumi: Totus in maligno positus. Se non ve ne son chiaro indizio il dolore e lo sgomento di quanti serbano ancora in petto cuore cristiano, considerate voi stessi. La febbre degli affari; la sete dell’oro e del piacere; l’industria che mette milioni d’anime nella morale impossibilità di adempiere gli essenziali doveri del Cristianesimo; il babilonico lussò, che dà in stranezze sempre peggiori; le mode disoneste; le danze oscene; cinque- centomila caffè o ridotti,1 spalancate voragini in cui vanno a perdersi l’amor del lavoro, il pudore, la sanità, Lo spirito di famiglia, il rispetto a sé stesso e ad ogni autorità; in tutte le classi della società, effeminate abitudini, snervatrici degli animi: scandali clamorosi che addomesticano col male e spengono la coscienza; il disprezzo delle leggi ordinate a domare la carne; la profanazione della domenica; la santificazione del lunedì; l’abbandono della preghiera e de’ Sacramenti; che cos’è, dico, che cos’è tutto questo, se non odio della morale cristiana, odio infernale, tendente a soffocare il Cristianesimo nel fango? L’odia nelle sue manifestazioni pubbliche e private. Là, proibisce il suono delle campane e condanna il sacerdote che porti, in pubblico, il suo abito ecclesiastico; costà, abbatte tutte le croci. Qui vieta al Figliuolo di Dio d’uscir da’ suoi templi per ricevere gli omaggi dei suoi figli; e, sotto pena di venir oltraggiato, gli tocca celarsi ben bene quando va a visitarli sul letto del dolore. Tutte cose che avvengono in società che si chiamano cristiane! E avviene ben altro. In segno di vittoria, satana ha ricollocato le sue statue ne’ giardini, su passeggi, sulle piazze delle grandi città, per tutta Europa: e, ficcatosi fin ne’ domestici penetrali delle famiglie, ne ha bandite le immagini del Verbo incarnato e sostituite le sue.

– « Non V’è Cristo in casa, esclamava testé un eloquente predicatore; non v’è più Cristo pendente dalla parete; non v’è più Cristo manifestantesi nei costumi. E che! voi avete sott’occhio i ritratti de’ vostri grandi uomini; le vostre case s’adornano di statue e quadri profani! Che dico? voi tenete esposti alla vista dei vostri figliuoli ed all’ammirazione della gente di casa gli Amori del paganesimo, le Veneri, gli Apollini dei paganesimo; si, tutti i vituperi del paganesimo trovano posto nella casa dei Cristiani; e, sotto quel tetto che accoglie tanti umani eroi e pagane divinità, non v’ha più un cantuccio per l’immagine di Gesù Cristo, che lo stesso Tiberio non ricusava d’ammettere coi suoi dei nel Pantheon di Roma. » – Si, è vero, è vero non solo in Francia, dove insegna l’Università, ma vero in Europa dove insegnano gli ordini religiosi, vero molto prima dell’Università e della Rivoluzione francese; nelle case dei moderni cristiani letterati, Cristo non ha più luogo. Ma ve l’aveva ai tempi degli ignoranti nostri padri del Medio Evo. Or come ne venne cacciato ? Come ha dovuto cedere il posto agli dei del paganesimo, vale a dire a satana stesso sotto le molteplici sue forme; omnes dii gentium daemonia? In che tempo s’è ella fatta questa sacrilega sostituzione? Chi ha formate le generazioni che se ne fanno colpevoli? in quali luoghi, e in quali libri hanno esse imparato ad appassionarsi per le cose, per gli uomini, per le idee e le arti del paganesimo? qual fu lo Spirito che ha dettata la dottrina che produce tal frutti? Lo Spirito del Cenacolo, o quel dell’Olimpo? O l’uno, o l’altro. Havvi infine un ultimo fenomeno che va ogni di più manifestandosi; ed. è il doppio movimento, che mena il mondo presente; movimento d’unificazione materiale, e movimento di dissoluzione morale. Lo Spirito del secolo diciannovesimo spinge con tutte le sue forze alla materiale unificazione de’ popoli; battelli a vapore, strade ferrate, telegrafi elettrici, leghe doganali, trattati di commercio, libero scambio, moltiplicazione delle poste, ribasso di tassa sugli stampati e sulle lettere; non vi è mezzo di comunicazione che non venga accelerato o inventato. Assorbisce intanto le piccole nazionalità, sopprime la famiglia, il comune, la provincia, la corporazione, ogni specie di franchigia ed autonomia; risuscita gli eserciti permanenti del mondo antico, riedifica le sue grandi capitali, e sul collo dei popoli, fatti liberi dal cristianesimo, ribadisce le catene della cesarea, cosi detta, centralizzazione. A questo movimento di unificazione materiale corrisponde, fuori del Cattolicismo, un movimento non meno rapido di dissoluzione morale. In materia di dottrine religiose, sociali, politiche, che resta egli più in piedi? Il gran dissolvente d’ogni specie di fede, il Razionalismo, non è egli forse il dio della moltitudine? Love son esse le convinzioni profonde, le professioni chiare ed aperte, tanto da resistere alle seduzioni dell’interesse, per sfidare le minacce, o, peggio, la dimenticanza in che vi lascia il governo, per mantenersi immobilmente saldo fra i sofismi dell’empietà e la forza dei cattivi esempi? Qual può essere Punita morale d’un mondo che ha fatto in pezzi il simbolo cattolico, che sta lì a sentire, e sopporta, e lascia passare tutte le negazioni, compresa quella di Dio stesso? Somigliante spettacolo, solo una volta già ebbe a vedersi; e fu al tempo che il romano impero declinava alla sua rovina. Formata dal continuo assorbimento del debole dal forte, del popolo per via del popolo, l’unità materiale giunse fino al dispotismo d’un solo uomo. satana aveva raggiunto il suo scopo. Roma era il mondo, e Cesare era Roma; e Cesare era imperatore e sommo sacerdote di Satana. Allora fu che l’uman genere, privo di forza di resistenza perché senza fede, e senz’ altro desiderio che di materiali piaceri, panem et circenses, altro più non era che un gregge, bastonato, venduto, sgozzato, a volontà del padrone. Eserciti permanenti, grandi capitali, celerità di comunicazioni, centralizzazione universale, unificazione materiale dei popoli, spinta con febbrile ardore; dissoluzione morale, giunta fino allo spezzamento indefinito d’ogni simbolo e d’ogni fede : chi oserebbe sostenere che tale doppio fenomeno non sia precursore della più immane tirannia? Sia forse l’addentellato, dirò cosi, del regno anticristiano, predetto, degli ultimi tempi ? A parer nostro, è Cesare a cavallo, con lucifero in groppa.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MYSTICI CORPORIS CHRISTI (2)

Continuiamo nella lettura di questa lettera enciclica straordinaria di Papa Pio XII. Di passaggio, segnaliamo il fatto che essa, scritta dall’ultimo Papa dei tempi moderni libero di esprimersi e non impedito, praticamente riassume in modo dettagliato e preciso, tutto il pensiero della Tradizione apostolica, delle sacre Scritture e del Magistero della “vera” Chiesa Cattolica dei millenni precedenti, ed è una pietra tombale, essendo documento infallibile ed irreformabile, per ogni eresia e scisma, per ogni “chiesetta”, monastero virtuale, fraternità e conventicola pseudo-tradizionalista varia, indebitamente eretta senza legittimità apostolica, vere cattedre di pestilenza, ove si proclama, a cominciare dal satanico “novus ordo” dei marrani adoranti il “signore dell’universo”, con sofismi vari fanta-teologici, la perdizione dell’anima ed ogni congerie di blasfemie ed errori. Ma non perdiamoci in ovvie ed inutili considerazioni, leggiamo con somma attenzione.

LA CHIESA È IL CORPO «DI CRISTO»

Fin qui, Venerabili Fratelli, abbiamo visto con particolareggiata trattazione come la Chiesa è talmente costituita da potersi paragonare ad un corpo; rimane ora da esporre chiaramente ed accuratamente per quali motivi essa deve essere dichiarata non un corpo qualsiasi, ma il Corpo di Gesù Cristo. Questo si deduce dall’essere Nostro Signore il Fondatore, il Capo, il Sostentatore e il Conservatore di questo mistico Corpo.

Cristo fu il «Fondatore» di questo Corpo

Cominciando a esporre brevemente in che modo Cristo fondò il suo Corpo sociale, Ci sovviene questa sentenza del Nostro Predecessore Leone XIII di f. m.: “La Chiesa, che già concepita, era nata dallo stesso costato del secondo Adamo dormente in Croce, si presentò per la prima volta agli uomini in maniera luminosa quel giorno solennissimo della Pentecoste” (Enc. “Divinum illud“). Infatti il divin Redentore iniziò la costruzione del mistico tempio della Chiesa, quando predicando espose i suoi precetti; lo ultimò, quando crocefisso, fu glorificato; lo manifestò e promulgò, quando mandò in modo visibile lo Spirito Paraclito sui discepoli.

a) Predicando il Vangelo

Mentre infatti sosteneva l’ufficio di predicatore, eleggeva gli Apostoli e li mandava come Egli stesso era stato mandato dal Padre (Jo. XVII, 18), cioè come dottori, rettori, creatori della santità nel ceto dei credenti, indicava il loro Principe e suo Vicario in terra (cfr. Matth. XVI, 18-19); manifestava loro tutte quelle cose che aveva ascoltato dal Padre (Jo. XV, 15, coll. XVII, 8 et 14); designava anche il Battesimo (cfr. Jo. III, 5), con il quale coloro che avrebbero creduto sarebbero stati inseriti nel Corpo della Chiesa; e finalmente, giunto al termine della vita, istituiva durante l’ultima cena il mirabile sacrificio e mirabile sacramento dell’Eucaristia.

b) Soffrendo sulla croce

Che poi Egli avesse completato la Sua opera sul patibolo della Croce, lo attesta una serie ininterrotta di testimonianze dei Santi Padri, i quali osservano che la Chiesa nacque sulla Croce dal fianco del Salvatore a guisa di una nuova Eva, madre di tutti i viventi (cfr. Gen. III, 20). Dice il grande Ambrogio trattando del costato trafitto di Cristo: ” Ed ora è edificato, ed ora è formato, ed ora… è figurato, ed ora è creato… Ora la casa spirituale si erge in sacerdozio santo” (Ambros. In Luc., 11, 87; Migne, P. L., XV, 1585). Chi religiosamente approfondirà questa veneranda dottrina, senza difficoltà potrà vedere le ragioni sulle quali essa si fonda. – Anzitutto, con la morte del Redentore, successe il Nuovo Testamento alla Vecchia Legge; allora la Legge di Cristo, insieme con i suoi misteri, leggi, istituzioni e sacri riti, fu sancita per tutto il mondo nel sangue di Gesù Cristo. Infatti, mentre il divin Salvatore predicava in un piccolo territorio, non essendo stato inviato se non alle pecorelle della casa d’Israele ch’erano perite (cfr. Matth. XV, 24), avevano contemporaneamente valore la Legge e il Vangelo (cfr. S. Thom., I-II, q. 103, a. 3 ad 2); sul patibolo della Sua morte poi Gesù pose fine alla Legge (cfr. Eph. II, 15) e con i suoi decreti, affisse alla Croce il chirografo del Vecchio Testamento (cfr. Col. II, 14), costituendo nel sangue, sparso per tutto il genere umano, il Nuovo Testamento (cfr. Matth. XXVI, 28; I Cor. XI, 25). ” Allora — dice San Leone Magno, parlando della Croce del Signore — avvenne un passaggio così evidente dalla Legge al Vangelo, dalla Sinagoga alla Chiesa, dalla molteplicità dei sacrifici ad una sola ostia, che, quando il Signore rese lo spirito, quel mistico velo che con la sua interposizione nascondeva i penetrali del tempio e il santo segreto, si scisse con improvvisa violenza da capo a fondo” (Leo M., Serm., LXVIII, 3; Migne, P. L., LIV, 374).  – Nella Croce dunque la Vecchia Legge morì, in modo da dover tra breve esser seppellita e divenir mortifera (cfr. Hier. et August. Epist., CXII, 14 et CXVI, 16; Migne, P. L.,XXII, 924 et 943; S. Thom. I-II, p. 103, a. 3 ad 2; ad. 4 ad 1; Concil. Flor., pro Jacob.: Mansi, XXX.7, 1738), per cedere il posto al Nuovo Testamento, di cui Cristo aveva eletto gli Apostoli come idonei ministri (cfr. II Cor. III, 6): e il nostro Salvatore, pur essendo stato già costituito Capo universale dell’umana famiglia fin dal seno della Vergine, esercita pienissimamente nella sua Chiesa l’ufficio di Capo appunto per la virtù della Croce. “Infatti — secondo la sentenza dell’angelico e comune Dottore — Egli meritò la potestà e il dominio sopra le genti per la vittoria della Croce” (cfr. S. Thom. III, q. 42, a. 1); per la medesima, aumentò immensamente per noi quel tesoro di grazia che ora, regnando nel cielo, elargisce senza alcuna interruzione alle Sue membra mortali; per il Sangue sparso sulla Croce fece sì che, rimosso l’ostacolo dell’ira divina, potessero scorrere dalle fonti del Salvatore per la salvezza degli uomini, e specialmente per i fedeli, tutti i doni celesti, soprattutto quelli spirituali, del Nuovo ed eterno Testamento; sull’albero della Croce finalmente si conquistò la Chiesa, cioè tutte le membra del suo mistico Corpo, poiché non si sarebbero unite a questo mistico Corpo col lavacro del Battesimo, se non per la virtù salutifera della Croce, nella quale già sarebbero appartenute alla pienissima giurisdizione di Cristo. – Che se con la Sua morte il nostro Salvatore, secondo il pieno ed integrale significato della parola, è diventato Capo della Chiesa, non altrimenti la Chiesa, per il Suo Sangue, si è arricchita di quella abbondantissima comunicazione dello Spirito, con la quale, in seguito all’elevazione e glorificazione del Figlio dell’uomo sul Suo patibolo del dolore, viene essa stessa divinamente illustrata. Allora infatti, come avverte Agostino (cfr. De pecc. orig., XXV, 29; Migne, P. L., XLIV, 400), squarciatosi il velo del tempio, avvenne che la rugiada dei carismi del Paraclito (discesa fino allora soltanto sul vello di Gedeone, cioè sul popolo d’Israele), essiccato ed abbandonato il vello, irrigasse tutta la terra, cioè la Chiesa Cattolica, la quale non sarebbe circoscritta da nessun termine di stirpe o di territorio. Come dunque, nel primo momento della incarnazione, il Figlio dell’Eterno Padre ornò con la pienezza dello Spirito Santo la natura umana che s’era sostanzialmente unita affinché fosse un adatto strumento della divinità nell’opera cruenta della Redenzione, così nell’ora della Sua morte preziosa volle la Sua Chiesa arricchita dei più abbondanti doni del Paraclito, affinché, nella distribuzione dei divini frutti della Redenzione, divenisse valido e perenne strumento del Verbo incarnato. Infatti, sia la missione giuridica della Chiesa, sia la potestà d’insegnare, di governare e di amministrare i Sacramenti, in tanto hanno forza e vigore soprannaturale per edificare il Corpo di Cristo, in quanto Gesù Cristo pendente dalla Croce aprì alla Sua Chiesa la fonte di quei doni divini, grazie ai quali essa non avrebbe mai potuto errare nell’insegnare agli uomini la sua dottrina, li avrebbe guidati salutarmente per mezzo di Pastori illuminati da Dio e li avrebbe colmati in abbondanza di grazie celesti. – Se poi consideriamo attentamente tutti questi misteri della Croce, non ci sono più oscure le parole con le quali l’Apostolo insegna agli Efesini che Cristo con il Suo Sangue fuse insieme i giudei e i gentili “annullando… nella Sua carne… la parete intermedia” con la quale i due popoli eran divisi; e che abolì l’Antica Legge “per formare in se stesso di due un solo uomo nuovo”, cioè la Chiesa, ed entrambi li riconciliasse a Dio in un Corpo per mezzo della Croce (cfr. Eph. II,14-16).

c) Promulgando la Chiesa nel giorno della Pentecoste

E quella Chiesa che fondò col suo sangue, la fortificò nel giorno della Pentecoste con una peculiare virtù scesa dall’alto. Era asceso al cielo, dopo aver solennemente costituito nel suo ufficio colui che già aveva designato quale Suo Vicario: e sedendo alla destra del Padre, volle manifestare e promulgare la Sua Sposa, nella discesa visibile dello Spirito Santo, con il rumore di un vento veemente e con lingue di fuoco (cfr. Act. II,1-4). Infatti, come Egli stesso, nell’iniziare la Sua missione apostolica, fu manifestato dal Padre Suo per mezzo dello Spirito Santo che discese e rimase su di Lui in forma di colomba (cfr. Luc. 111, 22; Marc. 1, l0) così ugualmente quando gli Apostoli stanno per iniziare il sacro ministero della predicazione, Cristo Signore mandò dal cielo il Suo Spirito, il quale, toccandoli con lingue di fuoco, indicasse loro come un dito divino, la missione e il compito soprannaturale della Chiesa.

Cristo è il «Capo» del Corpo

In secondo luogo, che il Corpo mistico della Chiesa si fregi del nome di Cristo, lo si rivendica dal fatto che in realtà egli da tutti debba essere per speciali ragioni ritenuto Capo della medesima. “Egli stesso — dice l’Apostolo — è il Capo del Corpo della Chiesa” (Col. I, 18). Egli è il Capo dal quale tutto il Corpo, convenientemente organizzato, cresce ed aumenta nella propria edificazione (cfr. Eph. IV, 16 coll.; Col. II, 19).  – Sapete certamente, Venerabili Fratelli, con quali belli e luminosi pensieri abbiano trattato questo argomento i Maestri della teologia scolastica, e specialmente l’angelico e comune Dottore; vi è senza dubbio noto che gli argomenti da lui apportati corrispondono fedelmente al principi dei Santi, i quali d’altronde non riportavano altro nei loro commenti e dissertazioni, se non il divino linguaggio della Scrittura.

a) Per motivo di eccellenza

Ci piace quindi trattarne brevemente per comune profitto. E dapprima, è evidente che il Figlio di Dio e della Beata Vergine deve chiamarsi Capo della Chiesa per uno specialissimo motivo di preminenza. Chi infatti è posto in luogo più alto di Cristo Dio, il quale, essendo Verbo dell’Eterno Padre, deve ritenersi “primogenito di ogni creatura”? (Col. 1, 15). Chi mai e situato in un vertice più alto di Cristo Dio, il quale, nato da una Vergine senza macchia, è vero e naturale Figlio di Dio e, per la prodigiosa e gloriosa resurrezione, è il “primogenito dei morti” (Col. I, 18; Apoc. I, 5), avendo trionfato della morte? Chi mai infine e stato collocato in sommità più eccelsa di colui che, come “unico mediatore di Dio e degli uomini”, (I Tim. II, 5), congiunge in modo davvero ammirevole la terra col cielo; che, esaltato sulla Croce come su di un soglio di misericordia, attirò a Sé tutte le cose (cfr. Jo. XII, 32); e che, eletto a figlio dell’uomo tra miriadi, e amato da Dio più di tutti gli uomini, di tutti gli angeli, di tutte le cose create? (cfr. Cyr. Alex. Comm. in Joh.: Migne, P. G., LXXIII, 69; S. Thom. I, q 20, a. 4 ad 1).

b) Per motivo di governo

Poiché Cristo occupa un posto tanto sublime, a buon diritto Egli solo regge e governa la Chiesa; e perciò anche per questo motivo deve essere assomigliato al capo. E infatti, come il capo (per servirCi delle parole di Ambrogio) è il “regale baluardo” del corpo (Hexæm., VI, 55; Migne, P. L., XIV, 265), e da esso, perché fornito delle doti migliori, vengono naturalmente dirette tutte le membra, alle quali è sovrapposto appunto affinché abbia cura di loro (cfr. August. De Agon. Christ., XX, 22, Migne P. L., XL, 301); così il divin Redentore tiene il supremo governo del Cristianesimo. E poiché il reggere una società di uomini non vuol dire altro che dirigerli al loro fine con provvidenza, con mezzi adeguati e con retti principi (cfr. S. Thom., I, q. 22, a. 14), è facile discernere come il nostro Salvatore, che si presenta come forma ed esemplare dei buoni Pastori (cfr. Jo. X, 1-13; I Petr. V, 1-5), eserciti in maniera davvero mirabile tutte queste funzioni. – Egli, infatti, mentre dimorava sulla terra, con leggi, consigli, ammonimenti, c’insegnò quella dottrina che mai non tramonterà e che sarà per gli uomini d’ogni tempo spirito e vita (cfr. Jo. VI, 63). Inoltre partecipò agli Apostoli e ai loro successori una triplice potestà: di insegnare, di governare e di condurre gli uomini alla santità, costituendo tale potestà, ben definita da precetti, diritti e doveri, come legge primaria della Chiesa universale.

… arcano e straordinario

Ma il nostro divin Salvatore dirige e governa anche direttamente da Sé la società da Lui fondata. Egli infatti regna nelle menti degli uomini, e al suo volere piega e costringe anche le volontà ribelli. “Il cuore del re è in mano a Dio, ed Egli lo piega a tutto ciò che vuole” (Prov. XXI, 1). E con questo governo interno Egli “pastore e vescovo delle anime nostre” (cfr. I Petr. 11, 25), non soltanto ha cura dei singoli, ma provvede anche alla Chiesa universale, sia quando illumina e corrobora i suoi governanti a sostenere fedelmente e fruttuosamente le mansioni proprie di ciascuno; sia quando (specialmente nelle circostanze più difficili) suscita dal grembo della Madre Chiesa uomini e donne che, spiccando col fulgore della santità, siano di esempio agli altri cristiani e di incremento al suo Corpo mistico. Inoltre, dal cielo Cristo guarda con amore peculiare alla sua Sposa intemerata, che s’affatica in questa terra d’esilio; e quando la vede in pericolo, la salva dai flutti della tempesta o per sé direttamente, o per mezzo dei suoi angeli (cfr. Act. VIII, 26; IX, 1-19; X, 1-7; XII, 3-10), o per opera di Colei che invochiamo Aiuto dei Cristiani ed anche degli altri celesti protettori; e, una volta sedatosi il mare, la colma di quella pace “che supera ogni senso” (Phil. IV, 7).

… in modo visibile e ordinario attraverso il Romano Pontefice

Non bisogna tuttavia credere che il Suo governo venga assolto soltanto in maniera invisibile (cfr. Leone XIII, Lettera Enciclica “Satis cognitum“) e straordinaria; mentre al contrario il divin Redentore governa il suo Corpo mistico anche in modo visibile e ordinario mediante il suo Vicario in terra. Sapete infatti, Venerabili Fratelli, come Cristo Dio, dopo aver governato in persona il “piccolo gregge” (Luc. XII, 32) durante il suo viaggio mortale, dovendo poi lasciare presto il mondo e ritornare al Padre, affidò al Principe degli Apostoli il governo visibile di tutta la società da Lui fondata . Da sapientissimo quale Egli era, non poteva mai lasciare senza un capo visibile il Corpo sociale della Chiesa che aveva fondata. Né ad intaccare una tale verità si può asserire che, per un primato di giurisdizione costituito nella Chiesa, un tale Corpo mistico sia stato provveduto di un duplice capo. Pietro infatti, in forza del primato, non è altro che un Vicario di Cristo: e in tal guisa si ha di questo Corpo un solo capo principale, cioè Cristo, il quale, pur continuando a governare arcanamente la Chiesa direttamente da Sé, visibilmente però, la dirige attraverso colui che rappresenta la Sua Persona, poiché, dopo la Sua gloriosa ascensione in cielo, non la lasciò edificata soltanto in Sé, ma anche in Pietro, quale fondamento visibile. Che Cristo e il Suo Vicario costituiscano un solo Capo, lo spiegò solennemente il Nostro Predecessore Bonifazio VIII d’immortale memoria con la sua Lettera Apostolica “Unam Sanctam” (cfr. Corp. Jur. Can., Extr. comm. I, 8, 1), e la medesima dottrina non cessarono mai di ribadire i suoi Successori. – Si trovano quindi in un pericoloso errore quelli che ritengono di poter aderire a Cristo, Capo della Chiesa, pur non aderendo fedelmente al suo Vicario in terra. Sottratto infatti questo visibile Capo e spezzati i visibili vincoli dell’unità, essi oscurano e deformano talmente il Corpo mistico del Redentore, da non potersi più ne vedere né rinvenire il porto della salute eterna.

… nelle singole Chiese attraverso i Vescovi

Ciò che qui abbiamo detto della Chiesa universale deve asserirsi anche delle comunità particolari dei cristiani, sia orientali, sia latine, le quali costituiscono una sola Chiesa cattolica. Poiché anch’esse sono governate da Gesù Cristo con la voce e l’autorità del Vescovo di ciascuna. Perciò i Vescovi non soltanto devono esser tenuti quali membra più eminenti della Chiesa universale, perché sono uniti al divin Capo di tutto il Corpo con un vincolo veramente singolare (onde con diritto son chiamati “le principali parti delle Membra del Signore” (Greg. Magn., Moral., XIV, 35, 43; Migne P. L., LXXV, 1062), ma anche in quanto riguarda la propria Diocesi, son veri pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge assegnato a ciascuno (cfr. Conc. Vat., Const. de Eccl., cap. 3). Ma mentre fanno ciò, non son del tutto indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del Romano Pontefice, pur fruendo dell’ordinaria potestà di giurisdizione comunicata loro direttamente dallo stesso Sommo Pontefice. Perciò essi, come successori degli Apostoli per divina istituzione (cfr. Cod. Jur. Can., can. 329,1), devono essere venerati dal popolo; e ai Vescovi, ornati del carisma dello Spirito Santo, più che ai governanti anche più elevati di questo mondo, si addice il detto: “Non toccate i miei unti” (I Paral. XVI, 22; Psal. CIV, 1.5).  – Sicché Ci addolora sommamente, quando Ci viene riferito che non pochi Nostri Fratelli nell’Episcopato, sol perché son veri modelli del gregge e custodiscono (cfr. I Petr. V, 3), con strenua fedeltà il sacro “deposito della fede” (cfr. I Tim. VI, 20) loro affidato, sol perché sostengono con zelo le santissime leggi scolpite da Dio negli animi umani e conforme all’esempio del supremo Pastore difendono dai lupi rapaci il gregge loro affidato, subiscono persecuzioni e vessazioni scagliate non soltanto contro di loro, ma (quel che è per essi più crudele e più grave) anche contro le pecorelle affidate alle loro cure, contro i loro compagni di apostolato e financo contro le vergini consacrate a Dio. Pertanto, reputando diretto contro di Noi stessi un tale affronto, ripetiamo la grande sentenza del Nostro Predecessore Gregorio Magno d’immortale memoria: “Il Nostro onore e l’onore della Chiesa universale; il Nostro onore e il solido vigore dei Nostri Fratelli; e allora Noi ci sentiamo veramente onorati, quando il debito onore non viene negato a ciascuno d’essi” (cfr. Ep. ad Eulog., 30; Migne, P. L., LXXVI, 993).

c) Per motivo di bisogni scambievoli

Né tuttavia bisogna credere che Cristo Capo, essendo posto in luogo così sublime, non voglia l’aiuto del Corpo. Si deve infatti asserire di questo Corpo mistico ciò che Paolo afferma del composto umano: “Il capo non può dire… ai piedi: voi non mi siete necessari” (1 Cor. XII, 21). Appare chiaramente che i cristiani hanno assolutamente bisogno dell’aiuto del divin Redentore, poiché Egli stessero ha detto: “Senza di me non potete far nulla” (Jo. XV, 5), e, secondo la dottrina dell’Apostolo, ogni incremento di questo Corpo mistico per la propria edificazione, dipende dal Capo Cristo (cfr. Eph. IV, 16; Col. II, 19). Tuttavia bisogna anche ritenere, benché a prima vista possa destar meraviglia, che anche Cristo ha bisogno delle Sue membra. Anzitutto perché la Persona di Gesù Cristo è rappresentata dal Sommo Pontefice, il quale per non essere aggravato dal peso dell’ufficio pastorale, deve rendere anche altri in molte cose partecipi della sua sollecitudine, e deve essere ogni giorno alleggerito dall’aiuto di tutta la Chiesa supplicante. Inoltre il nostro Salvatore, governando da Se stesso la Chiesa in modo invisibile, vuol essere aiutato dalle membra del Suo Corpo mistico nell’esecuzione dell’opera della Redenzione. Ciò veramente non accade per Sua indigenza e debolezza, ma piuttosto perché Egli stesso così dispose per maggiore onore dell’intemerata sua Sposa. Mentre infatti moriva sulla Croce, donò alla Sua Chiesa, senza nessuna cooperazione di essa, l’immenso tesoro della Redenzione; quando invece si tratta di distribuire tale tesoro, Egli non solo comunica con la Sua Sposa incontaminata l’opera dell’altrui santificazione, ma vuole che tale santificazione scaturisca in qualche modo anche dall’azione di lei. Mistero certamente tremendo, né mai sufficientemente meditato: che cioè la salvezza di molti dipenda dalle preghiere e dalle volontarie mortificazioni, a questo scopo intraprese dalle membra del mistico Corpo di Gesù Cristo, e dalla cooperazione dei Pastori e dei fedeli, specialmente dei padri e delle madri di famiglia, in collaborazione col divin Salvatore. – Ai motivi esposti, dai quali risulta che Gesù Cristo deve essere chiamato Capo del suo Corpo sociale, bisogna aggiungerne altri tre, i quali si connettono tra loro con intimi vincoli.

d) Per motivo di similitudine

Incominciamo dalla conformità che osserviamo tra il Corpo e il Capo, essendo essi della medesima natura. A questo proposito bisogna avvertire che la nostra natura, benché inferiore all’angelica, tuttavia per bontà di Dio vince la natura degli angeli. “Cristo infatti — come osserva l’Aquinate — è Capo degli angeli. Poiché Cristo è al di sopra degli angeli, anche secondo l’umanità… E anche in quanto uomo illumina gli angeli e influisce in essi. Riguardo poi alla conformità della natura, Cristo non è Capo degli angeli, perché non assunse la natura degli Angeli, ma (secondo l’Apostolo) assunse il seme di Abramo” (Comm. in ep. ad Eph., cap. I, lect. 8; Hebr. II, 16-17). E non solo assunse la nostra natura, ma Cristo si fece anche nostro consanguineo in un corpo fragile e capace di soffrire e morire. Ora se il Verbo “si esinanì prendendo la forma di servo” (Phil. II, 7), ciò fece anche per rendere partecipi della divina natura (cfr. II Petr. I, 4) i suoi fratelli secondo la carne, sia nell’esilio terreno con la grazia santificante, sia nella patria celeste col possesso della beatitudine eterna Perciò l‘Unigenito dell’eterno Padre volle essere figlio dell’uomo affinché noi divenissimo conformi all’immagine del Figliuolo di Dio (cfr. Rom. VIII, 29) e ci rinnovassimo secondo l’immagine di Colui che Ci ha creati (cfr. Col. III, 10). Sicché tutti coloro che si gloriano del nome di Cristiani, non solo considerino il nostro divin Salvatore come il più alto e più perfetto esemplare di tutte le virtù, ma ne riproducano la vita e la dottrina nei propri costumi mediante una diligente fuga dal peccato e un diligentissimo esercizio della virtù, affinché quando apparirà il Signore, divengano simili a Lui nella gloria, vedendolo com’Egli è (cfr. I Jo. III, 2). – Gesù Cristo, come vuole che le singole membra siano simili a Lui, così anche il Corpo della Chiesa. Ciò certamente avviene quando essa, seguendo le vestigia del Suo Fondatore, insegna governa e immola il divin sacrificio. Essa inoltre, quando abbraccia i consigli evangelici, riproduce in sé la povertà, l’ubbidienza, la verginità del Redentore. Essa, per molteplici e varie istituzioni di cui si orna come di gemme, fa vedere in certo modo Cristo che contempla sul monte, che predica ai popoli, che guarisce gli ammalati e i feriti, che richiama sulla buona via i peccatori, che fa del bene a tutti. Nessuna meraviglia dunque se la Chiesa, finché rimane su questa terra, debba subire ad imitazione di Cristo persecuzioni, sofferenze e dolori.

e) Per motivo di pienezza

Inoltre Cristo deve ritenersi Capo della Chiesa, perché, eccellendo nella pienezza e nella perfezione dei doni soprannaturali, il Suo Corpo mistico attinge dalla Sua pienezza. Infatti (osservano molti Padri), come il capo del nostro corpo mortale gode di tutti i sensi, mentre le altre parti del nostro composto usufruiscono soltanto del tatto, così le virtù, i doni, i carismi, che sono nella società cristiana, risplendono tutti in modo perfettissimo nel suo Capo Cristo. “In Lui piacque (al Padre) che abitasse ogni pienezza” (Col. I, 19). Lo adornano quei doni soprannaturali che accompagnano l’unione ipostatica, giacché lo Spirito Santo abita in Lui con tale pienezza di grazia da non potersene concepire maggiore. A lui è stato conferito “ogni potere sopra ogni carne” (cfr. Jo. XVII, 2); copiosissimi sono in Lui “tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col. II, 3). E anche la visione beatifica vige in Lui talmente, che sia per ambito sia per chiarezza supera del tutto la conoscenza beatifica di tutti i Santi del cielo. E infine Egli è talmente ripieno di grazia e di verità, che della sua inesausta pienezza noi tutti riceviamo (cfr. Jo. I, 14-16).

f) Per motivo di influsso

Queste parole poi del discepolo prediletto di Gesù Ci muovono a trattare dell’ultima ragione per cui siamo in modo particolare costretti ad asserire che Gesù Cristo è il Capo del suo Corpo mistico. Come i nervi si diffondono dal capo in tutte le membra del nostro corpo, e danno loro facoltà di sentire e di muoversi, così il nostro Salvatore infonde nella Sua Chiesa la Sua forza e virtù, onde avviene che le cose divine siano dai fedeli più chiaramente conosciute e più avidamente desiderate. Da Lui scaturisce nel Corpo della Chiesa tutta la luce con cui i credenti sono illuminati da Dio, e tutta la grazia con cui divengono santi come è santo Egli stesso.

… illuminando

Cristo illumina tutta la sua Chiesa, come dimostrano quasi innumerevoli luoghi della Sacra Scrittura e dei Santi Padri. “Nessuno ha veduto mai Dio: il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, ce l’ha fatto conoscere” (cfr. Jo. I, 18). Venendo da Dio in qualità di Maestro (cfr. Jo. III, 2) per rendere testimonianza alla verità (cfr. Jo. XVIII, 37), illuminò talmente con la Sua luce la primitiva Chiesa degli Apostoli, che il Principe degli Apostoli esclamò: “Signore, da chi andremo? tal hai parole di vita eterna” (cfr. Jo. VI, 68), dal cielo assistette gli Evangelisti in modo che essi scrissero, come membra di Cristo, quasi sotto la dettatura del Capo (cfr. August. De cons. evang., I, 35, 54; Migne, P. L., XXXIV, 1070). Egli tuttora è l’Autore della nostra Fede in questa terra d’esilio, come ne sarà il consumatore nella patria celeste (cfr. Hebr. XII, 2). Egli infonde nei fedeli il lume della Fede; Egli arricchisce divinamente i Pastori e i Dottori, e specialmente il suo Vicario in terra, dei doni soprannaturali della scienza, dell’intelletto e della sapienza affinché custodiscano fedelmente il tesoro della Fede, lo difendano strenuamente, e pienamente lo spieghino e diligentemente lo ravvivino; Egli infine, sebbene non visto, presiede e guida i Concili della Chiesa (cfr. Cyr. Alex., Ep. 55 de Symb; Migne, P. G., LXXVII, 293).

… donando la santità

Cristo è causa prima ed efficiente della santità, giacché non vi può essere nessun atto salutare se non promani da Lui come da fonte suprema: “Senza di Me, Egli ha detto, voi non potete far nulla” (cfr. Jo. XV, 5). Se, per i peccati commessi, il nostro animo è mosso dal dolore e dalla penitenza, se con timore e speranza filiale ci rivolgiamo a Dio, è sempre la Sua forza che ci spinge. La grazia e la gloria nascono dalla inesausta pienezza. Il nostro Salvatore arricchisce di continuo tutte le membra del Suo Corpo mistico e specialmente le più eminenti, con i doni del consiglio, della fortezza, del timore e della pietà, affinché tutto il Corpo aumenti sempre di più nella santità e nella integrità della vita. E quando dalla Chiesa vengono amministrati con rito esteriore i Sacramenti, è Lui che produce l’effetto interiore (cfr. S. Thom. III, q. 64, a. 3). È Lui che nutrendo i redenti con la propria Carne e con il proprio Sangue, seda i moti concitati e turbolenti dell’animo. È Lui che aumenta la grazia e prepara alle anime e ai corpi il conseguimento della gloria. – Siffatti tesori della divina bontà, li partecipa alle membra del Suo Corpo mistico, non solo perché li impetra dall’eterno Padre quale Vittima eucaristica sulla terra e quale Vittima glorificata nel cielo, col pregare per noi e mostrare le Sue piaghe, ma ancora perché Egli stesso sceglie, determina e distribuisce a ciascuno le grazie “secondo la misura del dono di Cristo” (Eph. VI, 7). Ne segue che dal divin Redentore come da fonte principale “tutto il corpo ben composto e connesso per l’utile concatenazione delle articolazioni efficacemente, nella misura di ciascuna delle sue parti, compie il suo sviluppo per la edificazione di se stesso” (Eph. IV, 16; Col. II, 19).

DOMENICA I DI QUARESIMA (2019)

DOMENICA I DI QUARESIMA (2019)

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XC: 15; XC: 16

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Ps XC:1 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorábitur. [Chi àbita sotto l’égida dell’Altissimo dimorerà sotto la protezione del cielo].

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui Ecclésiam tuam ánnua quadragesimáli observatióne puríficas: præsta famíliæ tuæ; ut, quod a te obtinére abstinéndo nítitur, hoc bonis opéribus exsequátur. [O Dio, che purífichi la tua Chiesa con l’ànnua osservanza della quaresima, concedi alla tua famiglia che quanto si sforza di ottenere da Te con l’astinenza, lo compia con le opere buone.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios. 2 Cor VI:1-10.

“Fratres: Exhortámur vos, ne in vácuum grátiam Dei recipiátis. Ait enim: Témpore accépto exaudívi te, et in die salútis adjúvi te. Ecce, nunc tempus acceptábile, ecce, nunc dies salútis. Némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium nostrum: sed in ómnibus exhibeámus nosmetípsos sicut Dei minístros, in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in jejúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in caritáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei, per arma justítiæ a dextris et a sinístris: per glóriam et ignobilitátem: per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces: sicut qui ignóti et cógniti: quasi moriéntes et ecce, vívimus: ut castigáti et non mortificáti: quasi tristes, semper autem gaudéntes: sicut egéntes, multos autem locupletántes: tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes.” –  Deo gratias.

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

CORRISPONDENZA ALLA GRAZIA

Fratelli: “Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Egli dice infatti: «Nel tempo favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salute ti ho recato aiuto». Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salute. Noi non diamo alcun motivo di scandalo a nessuno, affinché il nostro ministero non sia screditato; ma ci diportiamo in tutto come ministri di Dio, mediante una grande pazienza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angustie, nelle battiture, nelle prigioni, nelle sommosse, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con la purità, con la scienza, con la mansuetudine, con la bontà, con lo Spirito Santo, con la carità sincera, con la parola di verità, con la potenza di Dio, con le armi della giustizia di destra e di sinistra; nella gloria e nell’ignominia, nella cattiva e nella buona riputazione; come impostori, e siam veritieri; come ignoti, e siam conosciuti; come moribondi, ed ecco viviamo; come puniti, e non messi a morte; come tristi, e siam sempre allegri; come poveri, e pure arricchiamo molti; come privi di ogni cosa, e possediamo tutto”. (2 Cor VI, 1-10).

L’Epistola di quest’oggi è tolta dal cap. VI della II lettera ai Corinti. Sulla fine del capo precedente l’Apostolo aveva annunciato due grandi verità : a) Gesù Cristo sulla croce era stato personalmente sostituito al peccatore, perché venisse la riconciliazione tra questo e Dio; b) Dio incarica gli Apostoli, quali ambasciatori di Cristo, di promuovere tra gli uomini questa riconciliazione. E ricorda come egli nella sua qualità di ambasciatore abbia veramente imitato Gesù Cristo, compiendo l’opera sua tra numerose privazioni e difficoltà. Così rispondeva anche, in modo indiretto ma efficace, a quei che denigravano il suo ministero. Da questo passo prendiamo occasione per parlare della corrispondenza alla grazia, che dobbiamo:

1 Accogliere a tempo,

2 Rendere fruttuosa,

3 Invocare da Dio.

1.

Nel tempo favorevole ti ho esaudito, e nel giorno della salute ti ho recato aiuto. Sono parole tolte da Isaia che ilSignore rivolge al Messia, il quale prega e soffre per laredenzione degli uomini. Esse contengono l’assicurazione, che la preghiera del Messia è stata esaudita, e che iltempo messianico è il tempo dell’abbondanza delle grazie. S. Paolo, richiamate ai Corinti le parole d’Isaia, soggiunge: Ecco ora il tempo favorevole, ecco ora il giorno della salute. E la Chiesa richiama queste parole dell’Apostolo a tutti i fedeli, indicando loro, come tempo specialmente accetto a Dio, il tempo quaresimale nel quale le sue grazie abbondano. «Che cosa — commenta S. Leone M. — è più accetto di questo tempo, che cosa è più salutare di questi giorni, in cui si intima la guerra ai vizi e aumenta il progresso di tutte le virtù?» (Serm. 40, 2). L’invito, però, ad abbandonare i vizi e a progredire nella virtù, se nel tempo quaresimale è più insistente da parte della Chiesa, non manca mai negli altri tempi dell’anno. Fin che l’uomo vive è sempre visitato dalla grazia di Dio. E se la grazia di Dio non sempre opera, è perché l’uomo non l’accoglie. La divina grazia illumina la mente dell’uomo, ora facendogli conoscere la bruttezza del peccato, perché si decida a lasciarlo; ora facendogli vedere la bellezza della virtù, col richiamargli alla mente gli esempi di coloro che sprezzano i piaceri mondani, per servir da vicino gli insegnamenti del Vangelo. Altre volte lo scuote mettendogli innanzi la speranza deibeni futuri, o lo atterrisce col pensiero delle pene eterne. Più spesso lo turba con l’ammonizione del Battista: «Non ti è lecito» (Matt. XIV, 4). Non ti è lecito mantenere quella pratica, non ti è lecito covare nel cuore quell’odio; non ti è lecito ritenere quella roba; non ti è lecito una vita dimentica di Dio e del prossimo; non ti è lecito il cattivo esempio che dài. Ora cerca di attirarlo con i benefici; ora con le tribolazioni o con le croci. Il Crisologo, parlando della vocazione di S. Matteo, dice: « Dio lo vide, affinché egli vedesse Dio» (Serm. 30). Matteo non ebbe paura della vista di Dio, di guardare Gesù che veniva a lui. E quando Gesù gli disse: «Seguimi», Matteo si alzò e lo seguì» (Matt. IX, 9). Alcuni son pronti come S. Matteo ad accogliere l’invito di Dio, a uscire dalla via delpeccato, a lasciare le occasioni, a darsi al servizio delSignore. Ma la maggior parte si merita il rimprovero che leggiamo nei libri santi: «Invitai e vi siete rifiutati, stesi la mano e nessuno si diede per inteso» (Prov. I, 24). Paurosi di sorgere dallo stato in cui si trovano, non accettano l’invito che Dio loro offre. Approviamo pienamente l’atteggiamento di Santo Stefano, che rinfaccia agli Ebrei la loro continua resistenza allo Spirito Santo; e noi continuiamo a resistere agli inviti della grazia. Con quale conseguenza? Quella di attirar su noi l’ira del Signore nel giorno del giudizio, se continueremo a disprezzare le ricchezze della sua benignità. «Poiché coloro che disprezzano la volontà di Dio che invita, sentiranno la volontà di Dio che vendica» (S. Prospero d’Aquit., Resp. ad cap. obiect. vinc. 16).

2.

L’Apostolo a render più efficace l’esortazione, fatta ai Corinti, di non lasciar infruttuosa la grazia, mostra come egli si è diportato nell’adempimento del suo dovere. Noi non diamo alcun motivo di scandalo a nessuno, affinché il nostro ministero non sia screditato; ma ci diportiamo in tutto come ministri di Dio, mediante una grande pazienza nelle tribolazioni. E passa a narrare quanto ha sofferto e operato nel suo ufficio di collaboratore di Dio nell’opera della salvezza. La grazia aveva chiamato Paolo all’apostolato. Come si vede, egli non considera la grazia come un tesoro da nascondere sotto terra. Nessuno potrebbe rimproverargli d’aver ricevuto la grazia di Dio invano. – La grazia di Dio invita gli uomini a operare nello stato, cui ciascuno è chiamato. Non tutti, però, si sentono di operare secondo la volontà di Dio. Ci sono i pusillanimi che hanno paura di sbagliare in tutto, come se fossero abbandonati alle sole proprie forze; come se Dio, che vuole la loro cooperazione, non prestasse la sua assistenza. Costoro non corrispondono a una data vocazione, ricusano di entrare in quello stato, non accettano il tal posto, nel quale potrebbero far tanto bene, avendo avuto da Dio i doni necessari. Ci sono, e questi formano il maggior numero, gli infingardi i quali non fanno il bene che dovrebbero e potrebbero fare, per paura della fatica. Per essi Dio, che domanda la loro cooperazione, è un padrone duro, esigente, che richiede troppo, che vuole ciò che essi non potrebbero dare; e finiscono col non dar niente. E finiranno anche col perdere quello che da Dio han ricevuto. La sorte di costoro è quella del servo della parabola. Egli ha ricevuto dal padrone, che doveva partire, un talento. Scava la terra, e ve lo nasconde. Quando, dopo lungo tempo, il padrone ritorna e fa i conti col servo, questo gli dice: «Signore, sapevo che sei un uomo duro e mieti dove non hai seminato, e raccogli dove non hai sparso: ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento sotto terra: eccolo qui». E il padrone risponde, chiamandolo: «servo iniquo e infingardo»; e dice ai suoi: «Toglietegli il talento che ha, e datelo a colui che ha dieci talenti » (Matth. XXV, 14 segg.). Quelli che non fanno profitto delle grazie che Dio accorda loro, se ne vedranno un giorno privati, e riceveranno il meritato castigo. Al contrario, chi si serve delle grazie prime, cooperandovi diligentemente, ne riceverà delle maggiori. Nessuno confida danaro da trafficare a chi lo rinchiude in un forziere o lo seppellisce sotto terra. Lo si affida a chi sa farlo rendere, di più. È naturale che chi sa far fruttare la grazia ricevuta, ne riceva di sempre maggiori. E così egli va accumulando i meriti che porta con sé la docilità all’azione della grazia; va moltiplicando le azioni virtuose nel rinunciare alle proprie inclinazioni per seguire le ispirazioni della grazia; e nel giorno del rendiconto si vedrà arricchito oltre ogni aspettativa.

3.

La grazia, da alcuni, viene respinta quando Dio l’offre; da altri non si prende in considerazione; altri la perdono dopo averla ricevuta. E allora, avessero pure per il passato imitato San Paolo nello zelo per le opere buone, non possono ripetere con lui, siamo stimati come privi d’ogni cosa e possediamo tutto. Quando si è perduta la grazia si è perduto tutto, in merito alla vita eterna. Ma fin che siamo su questa terra siam sempre in tempo a trar profitto dalla grazia, di Dio. Opera della grazia di Dio è il risorgere dal peccato; opera della grazia di Dio è il non cadervi: opera della grazia di Dio è il progredire generosamente nella via della perfezione. Se abbiamo perduta la grazia, dobbiamo implorarla da Colui che ne è la fonte. «Tutti. — dice S. Arrostino — con piena fede e certa fiducia, si accostino all’Autore della vita, affinché quelli che hanno la vita vivano d’una vita più piena e perfetta, e quelli che sono morti tornino a vivere» (Serm. 98, 7). Durante questa vita mortale Dio non abbandona mai il peccatore del tutto. Egli torna sovente a invitarlo alla conversione. Preghiamolo ardentemente che ci faccia sentire la sua voce; che ci scuota; che ci dia la forza di accoglierla. Diciamogli con grande fiducia: «Seconda col tuo aiuto i nostri voti, che tu pel primo c’inspiri » (Oremus nella Messa di Pasqua). Se, per nostra fortuna, serviamo fedelmente il Signore, ricordiamoci che « dipende dalla sua misericordia, se noi possiamo perseverare a prestargli servizio » (S. Ilario, Tract. in Ps CXVIII, 10). Rallegrati della grazia del Signore, se la possiedi, « non devi stimare, però, di possedere un dono di Dio, come per diritto ereditario, così da essere sicuro come se non lo potessi mai perdere» (S. Bernardo, In Cant. cantic. Serm. 21,5). Anche qui c’è bisogno dunque della preghiera. Dobbiamo rivolgerci a Dio e supplicarlo che ci tenga sempre lontani da ciò che è nocivo, e che ci diriga con la sua grazia. Anche coloro che s’adoperano sul serio a render fruttifera la grazia di Dio, vanno soggetti a momenti di stanchezza e di sfiducia. Sarà sempre quella che è chiamata l’arma dei deboli, che bisogna usare in quei momenti. « Quando adunque ti senti abbattere dalla tiepidezza, dall’accidia e dalla noia, non devi sfiduciarti o desistere dall’esercizio spirituale, ma chiedi la mano di Colui che aiuta» ( S. Bern. 1. c.). Se la voce di Dio non l’abbiamo ascoltata per il passato, ascoltiamola ora. Essa verrà ancora a scuoterci. Camillo de Lellis sente a 18 anni la voce della grazia che lo invita a lasciare il mondo, quando, rimasto orfano di padre, con una piaga al piede che lo rende inabile a1 servizio militare, edificato dal contegno di due cappuccini, fa voto di entrare nel loro ordine. Ben presto, però, dimentica il proposito. Scacciato dall’ospedale degli incurabili a Roma pel suo carattere rissoso e insubordinato, si dà alle armi. Guarito per virtù dei sacramenti da un’infermità che lo riduce in fin di vita, si getta a nuove avventure, mettendosi al servizio della Spagna. Giunto a Napoli, dopo esser stato liberato da una terribile tempesta per la protezione della Vergine, si dà così pazzamente al giuoco, da perdervi armi e abiti. Costretto dalla necessità a condur calce nella costruzione di un convento in Manfredonia tra gli insulti e gli scherni, egli il discendente di nobile prosapia, che era andato in cerca di celebrità e gloria nella professione delle armi, non si decide ancora a ritornare a Dio. Un giorno, lungo una via deserta che conduce al convento di Manfredonia, ripensa alle gravi parole udite la sera innanzi da uno zelante padre cappuccino. Dio gli manda un raggio splendente della sua grazia, e Camillo, novello Saulo, sceso dal giumento, si getta a terra ed esclama : « O me infelice! Perché non ho conosciuto prima il mio Dio e non l’ho servito?… Perché ho sempre resistito ostinatamente alla sua grazia?…» (Der heil. Kamillus T. Lellis und sein Orden. Freiburg, 1914, p. 11). Se, come Camillo De Lellis, per il passato abbiam sempre resistito ostinatamente alla grazia del Signore, pieghiamoci finalmente come lui e diamoci vinti. Meglio tardi che mai. Rinunciamo oggi stesso, in questo momento, al peccato. Cominciamo oggi stesso, in questo momento, nelle circostanze in cui ci ha posti la Provvidenza, a servir Dio. Mettiamoci subito a fare quanto avremmo voluto aver fatto in punto di morte. Con la Chiesa preghiamo Dio che ci faccia docili. «La tua grazia, te ne preghiamo o Signore, ci preceda sempre e ci segua: e ci conceda di esser sempre occupati in opere buone» (Oremus della messa della Dom. XVI di Pentecoste).

 Graduale

Ps XC,11-12

Angelis suis Deus mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

[Dio ha mandato gli Ángeli presso di te, affinché ti custodíscano in tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra.]

Tractus.

Ps XC: 1-7; XC: 11-16

Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorántur.

V. Dicet Dómino: Suscéptor meus es tu et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum.

V. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium et a verbo áspero.

V. Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis ejus sperábis.

V. Scuto circúmdabit te véritas ejus: non timébis a timóre noctúrno.

V. A sagitta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína et dæmónio meridiáno.

V. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit.

V. Quóniam Angelis suis mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

V. In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum,

V. Super áspidem et basilíscum ambulábis, et conculcábis leónem et dracónem.

V. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum,

V. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne,

V. Erípiam eum et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum, et osténdam illi salutáre meum.

[Chi abita sotto l’égida dell’Altissimo, e si ricovera sotto la protezione di Dio.

Dica al Signore: Tu sei il mio difensore e il mio asilo: il mio Dio nel quale ho fiducia.

Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori e da un caso funesto.

Con le sue penne ti farà schermo, e sotto le sue ali sarai tranquillo.

La sua fedeltà ti sarà di scudo: non dovrai temere i pericoli notturni.

Né saetta spiccata di giorno, né peste che serpeggia nelle tenebre, né morbo che fa strage al meriggio.

Mille cadranno al tuo fianco e dieci mila alla tua destra: ma nessun male ti raggiungerà.

V. Poiché ha mandato gli Angeli presso di te, perché ti custodiscano in tutti i tuoi passi.

Ti porteranno in palma di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra.

Camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il dragone.

«Poiché sperò in me, lo libererò: lo proteggerò, perché riconosce il mio nome.

Appena mi invocherà, lo esaudirò: sarò con lui nella tribolazione.

Lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni, e lo farò partécipe della mia salvezza».]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Matt IV: 1-11

“In illo témpore: Ductus est Jesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum jejunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, postea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic, ut lápides isti panes fiant. Qui respóndens, dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Angelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Jesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum, Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et ostendit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dixit ei: Hæc ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Jesus: Vade, Sátana; scriptum est enim: Dóminum, Deum tuum, adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce, Angeli accessérunt et ministrábant ei.”

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XV.

“Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. E avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente gli venne fame. E accostatoglisi il tentatore, disse: Se tu sei Figliuol di Dio, di’ che queste pietre diventino pani. Ma egli rispondendo, disse: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di qualunque cosa che Dio comanda. Allora il diavolo lo menò nella città santa, e poselo sulla sommità del tempio, e gli disse: Se tu sei Figliuolo di Dio, gettati giù; imperocché sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di qualunque cosa che Dio comanda. Allora il diavolo lo menò nella città santa, e poselo sulla sommità del tempio, e gli disse: Se tu sei Figliuolo di Dio, gettati giù; imperocché sta scritto: che ha commesso ai suoi angeli la cura di te, ed essi ti porteranno sulle mani, affinché non inciampi talvolta col tuo piede nella pietra. Gesù disse: Sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo menò sopra un monte molto elevato; e fecegli vedere tutti i regni del mondo, e la loro magnificenza; e gli disse: Tutto questo io ti darò, se prostrato mi adorerai. Allora Gesù gli disse: Vattene, Satana, imperocché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo, e servi lui solo. Allora il diavolo lo lasciò; ed ecco che gli si accostarono gli Angeli, e lo servivano” (Matth. IV, 1- 11).

Quanto più si studia il Santo Vangelo, tanto più si viene a riconoscere l’immensa bontà, che Gesù Cristo ebbe per gli uomini. Volendo egli essere il loro perfettissimo modello in tutte le circostanze della vita, dopo di avere con una umiltà ammirabile ricevuto il battesimo, che amministrava S. Giovanni Battista, per seguire l’impulso dello spirito di Dio, disceso sopra di Lui, si recò nel deserto a subire le tentazioni del demonio. E ciò Egli fece appunto, sia per avvertir noi delle prove, a cui ci sottopone la nostra condizione, sia per mostrarci col suo esempio i mezzi, che abbiamo per scampare dal pericolo, sia ancora per meritarci la grazia di trar profitto dagli stessi assalti del demonio. Epperò ben a ragione diceva S. Agostino, che Gesù Cristo ha permesso al demonio di assalire Lui, perché pur troppo avrebbe pure assalito noi. Ecco adunque il Vangelo di questa prima domenica di quaresima: la tentazione di Gesù nel deserto. Ricordiamolo pertanto e facciamovi sopra qualche salutare considerazione.

1. In quel tempo, dice il Vangelo, vale a dire dopo il battesimo, Gesù fu condotto dallo spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, finalmente gli venne fame. Con queste prime parole il Vangelo di oggi mettendoci innanzi l’esempio della penitenza di Gesù Cristo, ci mostra senz’altro l’obbligo, che noi abbiamo della medesima, se vogliamo essere a Lui conformi. Imperocché se Gesù Cristo che era l’innocenza in persona volle tuttavia darsi alla penitenza, che cosa non dovremo fare noi, che non siamo più innocenti? Ecco adunque perché la Chiesa, massime in questo tempo, a nome di Dio e di Gesù Cristo tanto ci raccomanda la penitenza. Che se la poca salute, la giovane età, il lavoro e lo studio, in cui dobbiamo occuparci, ci impediscono le vere penitenze, facciamo quel tanto che per noi si può. Non mancano modi di supplire a tale impotenza, mentre sotto il nome di penitenza si comprendono tutte le opere afflittive, che riescono di mortificazione o al corpo o allo spirito. Tali sono l’astenersi da certe ricreazione e passatempi, non solo pericolosi, come sarebbero gli spettacoli del mondo, ma anche da certi altri per sé leciti ed onesti. Mortificar la curiosità, che ci tira a voler sapere molte cose inutili; mortificar gli occhi tenendoli modesti e ben custoditi; mortificare la lingua, evitando tante ciarle oziose, tanti discorsi vani, e amando il silenzio e il raccoglimento; mortificar la gola, privandoci di certi cibi più ghiotti, di certe bevande geniali; mortificare la vanità del vestire e la smania di comparire, vestendo con tutta semplicità senza seguire le pazze mode del mondo, e lasciando le pompe e le gale: sopportar pazientemente le intemperie delle varie stagioni senza lamentarci; fuggir la delicatezza e la mollezza, che ci fanno cercare in tutto ogni nostra comodità e contentamento, sono tanti bei modi di far penitenza.Buona materia di penitenza ci daranno anche i doveri del proprio stato, sopportando con rassegnazione i pesi, le noie, gli imbarazzi e le fatiche, che arrecano con sé, facendo tutto con esattezza e con buon ordine, senza stancarci, e offrendo tutto a Dio per soddisfazione dei peccati commessi. Così anche la violenza che dobbiamofare a noi stessi per vincere le passionie i rispetti umani, per mortificare la nostra cattiva volontà, per superare le tentazioni, che ci combattono, per praticare con fedeltà e costanza i mezzi necessari per conservarci e crescere sempre più nella grazia di Dio, per tenerci lontani dalle occasioni e pericoli di peccare. Ottima penitenzaè pure la pazienza nel sopportare le tribolazionie le croci, che in tante maniere ci affliggono, prendendo tutto con rassegnazione dalle mani di Dio, senza brontolare, confessandoci meritevoli di molto peggio, e unendo i nostri patimenti a quelli di Gesù Cristo in espiazione delle nostre colpe.Tuttavia, sebbene in tutti questi modi noi possiamo fare penitenza, resta sempre doveroso il digiuno per chi ne ha la possibilità ed ha compiuto il ventunesimo anno. Il digiuno viene indicato dallo stesso Redentore come un’arma potente nelle mani del Cristiano per vincere le tentazionidel demonio. Affinché l’anima sia forte, è d’uopo che sia affievolito il corpo. Allorché io son debole, dice l’Apostolo, allora è ch’io son forte! Imperocché la virtù si perfeziona nella debolezza. Il Cristiano ò forte nella debolezza, dice S. Ambrogio, quando la sua carne è mortificata dai digiuni, e l’anima sua impinguata dalla purità, giacché quanto alimento si sottrae al corpo, altrettanta santità e grazia si aggiunge all’anima. E tale appunto è stato lo spirito della Chiesa nella istituzione del digiuno e della quaresimale penitenza; e quanti Cristiani non vogliono intendere questo spirito della Chiesa e trattano il digiuno con una leggerezza inconcepibile, cercando di accomodare alla loro debolezza le sante prescrizioni della quaresima, sono Cristiani che non pensano punto a conformarsi all’esempio di nostro Signor Gesù Cristo, e che di Cristiano hanno il nome, ma non le opere. Abbiamo adunque coraggio e buona volontà, certi che quanto più con la penitenza pagheremo di qua, tanto di meno ci resterà a pagare di là; e così accumuleremo un bel capitale di meriti da contrapporre ai debiti contratti coi peccati commessi. Mentre siamo in vita Iddio si contenta di poco; ma dopo morte usa una giustizia più rigorosa. Un sol giorno di purgatorio arreca più pena e tormento che non tutti insieme i patimenti di questo mondo. Il far penitenza ci costa, è vero, qualche disagio e travaglio; ma animiamoci ancora col riflettere alla gloria e beatitudine eterna, che ci procura. Felici noi, se, come ebbe a dire S. Giovanni della Croce comparso dopo morte, potessimo ripetere: Benedette penitenze, che mi avete fruttato tanta contentezza e tanta gloria in cielo per tutta la beata eternità!

2. Prosegue il santo Vangelo dicendo: « E accostatosegli il tentatore, disse: Se tu sei Figliuol di Dio, di’ che queste pietre diventino pani. Ma Egli rispondendo, disse: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma di qualunque cosa che Dio comanda. Allora il diavolo lo menò nella città santa, e poselo sulla sommità del tempio, e gli disse: Se tu sei Figliuolo di Dio, gettati giti; imperocché sta scritto, che ha commesso ai suoi angeli la cura di te, ed essi ti porteranno sulle mani, affinché non inciampi talvolta col tuo piede nella pietra. Gesù disse: Sta anche scritto: Non tenterai il Signore Dio tuo. Di nuovo il diavolo lo menò sopra un monte molto elevato; e fecegli vedere tutti i regni del mondo, e la loro magnificenza; e gli disse: Tutto questo io ti darò, se prostrato mi adorerai. Allora Gesù gli disse: Vattene, satana, imperocché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo, e servi Lui solo. Allora il diavolo lo lasciò; ed ecco che se gli accostarono gli Angeli e lo servirono ».

Ora da tutte le diverse tentazioni che Gesù Cristo permise al demonio di rivolgergli contro, e da tutti i diversi modi, con cui gliele rivolse, si rende chiaro come Gesù voglia anzitutto che noi per guardarcene fissiamo bene la nostra attenzione sulla malizia del demonio, poiché quanto meglio conosceremo la malignità d’un nostro nemico, tanto maggior impegno noi metteremo ad evitarla. Or bene quale e quanta è la malizia del demonio! – Il demonio, nota S. Cipriano, è chiamato serpente, perché a mo’ del serpe striscia e insensibilmente s’insinua, nascondendo il suo avanzarsi, affine d’ingannare. Così grande è la sua astuzia, così fine e scaltre sono le sue arti, che, per così dire, fa scambiar il giorno con la notte, il veleno col rimedio. Di questo modo, sostituendo la menzogna alla verità, giunge a togliere di mezzo la verità medesima. Epperciò S. Paolo ammoniva i Corinti che satana si trasforma in angelo di luce affine di sedurre. La malizia, la scaltrezza, gli artifizi di satana in ciò principalmente si manifestano: che osserva e guarda i luoghi meno muniti e difesi, secondochè dice S. Gerolamo; e che non presenta mai all’uomo, come notava già S. Giovanni Crisostomo, il peccato allo scoperto, ma sempre travestito e camuffato. Egli ne cela la bruttezza e gli dà l’apparenza ed il nome di dolcezza, di felicità, e ben anche di virtù. Audacissimo come è, vorrebbe pure, dove l’osasse e il potesse, farci di primo getto cattivi al pari di lui, ma scaltro di troppo, ei prevede che sconcerebbe l’opera sua; vorrebbe pure assalirci a forza aperta, ma, maligno al sommo, teme che la preda gli scappi; quindi egli procede per gradi, come appunto cercò di fare con lo stesso Gesù Cristo, tentandolo prima di sensualità, poi di vanità e di orgoglio, e da ultimo di ambizione e di amore alle ricchezze. Anzi egli studia le particolari inclinazioni e vi si adatta: quindi non solleticherà di lussuria l’avaro, né tenterà d’avarizia l’impudico: trasporterà invece l’ambizioso a vagheggiare grandi onori; spianerà l’orgoglioso ad adorare se medesimo; stuzzicherà la fame nell’uomo dato alla gola. In un modo seduce il libertino, in un altro il savio, differentemente ancora lo scrupoloso. Assale il fanciullo, il giovane, l’uomo maturo, il vecchio, ciascuno secondo l’età, la complessione, l’inclinazione propria. Di questo attacca il corpo, di quello lo spirito: talora ferisce all’esterno, tal’altra all’interno; tasta il lato debole e per questo monta all’assalto; presenta il fiore e nasconde la spina; indora il calice e vi mesce il veleno. Osservate, ei va gridando, com’è bello questo fiore! che soave olezzo tramanda! Vedete com’è elegante questa coppa! Ah, se assaggiaste che soave e delizioso liquore essa contiene! bevete, tracannate. Alla fin fine non è che un pensiero, dice lo spirito maligno, un semplice sguardo, una piccola compiacenza. Provate; poi ve ne asterrete a vostro talento: ecchè? voi cercate il piacere e non l’assaporerete? Così agisce il demonio. E se tale è la sua malizia, non importa adunque di usare la massima attenzione per guardarsene e riportarne vittoria? Ed ecco perciò come nostro Signor Gesù Cristo dopo d’averci fatto riflettere sulla malizia del demonio vuole altresì, che noi consideriamo attentamente in che modo Egli la combatté e la vinse, affine di far noi il somigliante.

3. Ed in qual modo Gesù combatté e vinse il demonio? Col non fermarsi punto a ragionare e discutere con lui, col metterlo in imbarazzo con la sua profonda umiltà. Così appunto riconoscono e S. Girolamo, e S. Agostino, e S. Ambrogio. Ed in vero alla prima tentazione di fare un miracolo col convertire le pietre in pane, Gesù rispose: Non di solo liane vive l’uomo, ma di qualunque cosa che Dio comanda. Alla seconda tentazione di gettarsi giù dal pinnacolo del tempio, confidato nell’assistenza degli Angeli, Gesti rispose: Sta scritto: non tenterai il Signore Dio tuo. Ed alla terza tentazione di guadagnare tuttii regni del mondo con l’adorazione del demonio,rispose anche più arditamente di prima: Vattene satana, imperocché sta scritto: Adora il Signore Dio tuo, e servi lui solo. Or ecco i mezzi, che dobbiamo ad operar anche noi per riportar vittoria nelle tentazioni. Anzi tutto non discutere col demonio, ma romperla tosto non appena siamo tentati, ed anche prima di essere tentati, col fuggire risolutamente le occasioni. Chi non è risoluto di fuggire le occasioni ed i pericoli, e non li fugge davvero, farà ridere il demonio, quand’anche andasse a confessarsi sovente e facesse i più santi propositi. Bisogna fuggire, bisogna star lontani, aver paura, e non fidarsi della buona volontà risoluta, che sembra di avere. Chi ama il pericolo, dice il Signore, in esso perirà. E ciò vale in genere per ogni peccato; ma in modo particolare per il maledetto peccato della disonestà, che porta tante anime in perdizione. Il peccatore disonesto non si libera certo dal suo vizio abbominevole, se non fugge a tutto potere le cattive compagnie, i discorsi osceni, gli sguardi immodesti, le famigliarità e le confidenze peccaminose, la libertà di trattare, le letture cattive, i trattenimenti pericolosi e tutti quegli oggetti, quelle persone, quei luoghi, che gli sono di incentivo e di stimolo al peccato. Ricadrà di continuo nei suoi peccati, e fino a tanto che continua volontariamente nelle occasioni prossime, non gli giovano i Sacramenti, non gli servono le orazioni, le pratiche di pietà e tutti gli altri mezzi. Egli è abbandonato da Dio, mentre col mettersi nell’occasione si getta volontariamente fra le braccia del demonio. Bisogna adunque fuggire ad ogni costo, per quanto si può, pronti a qualunque sacrificio, perché  si tratta dell’anima. « Se il tuo occhio, dice Gesù Cristo, ti è occasione di peccato, cavalo e gettalo via. Sarà meglio andar in Paradiso con un occhio solo, che con due precipitar nell’inferno (Matth. XVIII, 9) ». Non basta chiudere l’occhio, ma bisogna cavarlo e gettarlo via, e ciò significa che, per quanto è possibile, bisogna ad ogni costo lasciare e fuggire quei luoghi, quelle persone, quegli oggetti, quei trattenimenti, che ci sono occasione di peccato, ci fossero anche cari ed utili quanto gli occhi. Le mezze misure non bastano: e tutte le ragioni che arrecano certi infelici per non troncare le occasioni prossime volontarie, in cui stanno avviluppati, non sono di solito, che pretesti e scuse vanissime loro suggerite dalla passione e dal demonio per tradirli e trascinarli in perdizione. Oh Dio! quanti vi son precipitati per questa strada fatale delle cattive occasioni! Quanti per non aver fuggito le occasioni pericolose, anche nel punto di morte sono ricaduti nei loro peccati e sono passati all’eternità nella disperazione! Eppure per alcuni non valgono nemmeno queste gravissime considerazioni per tenerli lontani dall’occasione del peccato. A costoro converrebbe almeno che capitasse quel che S. Agostino racconta essere capitato ad un Cristiano di tal fatta. Racconta questo santo, che un certo uomo per quanto fosse avvisato, pregato, scongiurato da persone zelanti di abbandonare una casa che frequentava con grande scandalo, e con grave danno dell’anima propria, perché gli era occasione di peccato, mai volle indursi a lasciarla, dicendo che non poteva farlo, mettendo in campo mille ragioni e pretesti. Un giorno avvenne che in quella stessa casa gli fu regalato un carico di bastonate veramente solenni. Credereste? Subito abbandonò la casa; tutta l’impossibilità sparì, e di lì innanzi non si vedeva neppur passare per quella contrada. Quello che non poterono il timore di Dio, e l’amor dell’anima, come diceva poi S. Agostino, giunse ad ottenerlo il bastone. Che bel rimedio sarebbe questo per togliere a tanti l’impossibilità, che pretendono avere di abbandonare le male pratiche, una cattiva compagnia e tante altre occasioni di peccato! Che predica efficace sarebbe quella del bastone!Ma il fuggire le occasioni non basta ancora per vincere le tentazioni: ci vuole inoltre una grande umiltà, vale a dire una tale diffidenza di noi medesimi che ci induca a mettere ogni confidenza in Dio, ed a ricorrere a Lui prontamente per aiuto. Deboli come siamo, la minima tentazione può farci cadere: perciò, ogni nostro aiuto essendo posto nella grazia del Signore, bisogna  a Lui ricorrere, confessargli la nostra impotenza, domandargli che ci risparmi quelle grandi tentazioni in cui soccomberemmo, e che in quelle altre, con le quali ci vuole sperimentare, si degni sostenerci, e darci forza d’uscirne vittoriosi.Soccorsi e protetti da Dio, non abbiamo nulla a temere; essendo Egli assai potente da farci vincere qualunque tentazione e da rendercele anche utili. E Dio ci proteggerà, quando non ci esporremo temerariamente al pericolo, e se gli chiederemo aiuto nelle tentazioni che non possiamo evitare. Allora non saremo soli a combattere, ma Dio combatterà con noi, e perciò sicura sarà la vittoria. S. Benedetto mentre se ne stava nella sua grotta di Subiaco, intento notte e giorno nella preghiera, venne assalito da una forte tentazione contro la purità. Di cuore pregò Dio che ne lo liberasse. Ma vedendo che continuava, comprese che il Signore lo voleva mettere alla prova, voleva cioè che combattesse. Perciò spogliatosi delle sue vesti, si gettò fra le spine e le ortiche, e vi si ravvoltolò di modo, che ne uscì tutto grondarne sangue per le ferite che aveva fatte al suo corpo. In questo modo trionfò di quel terribile assalto che il demonio gli aveva dato. Seguiamo ancor noi questi ammirabili esempi dei Santi. Piuttosto di cedere alle tentazioni, sottomettiamoci anche noi, se ciò è necessario, a qualche grave mortificazione, ed allora, dopo di aver sempre vinto il demonio nel corso di nostra vita, ci sarà dato certamente di poterlo vincere, anche al punto di morte. E gli Angeli, come dopo le tentazioni di Gesù Cristo si presentarono a Lui per servirlo, in quell’estremo punto, dopo d’averci protetti in vita, verranno a prendere l’anima nostra per portarla in seno a Dio.

 Credo …

Offertorium

Orémus Ps XC: 4-5:

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus. [Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Secreta

Sacrifícium quadragesimális inítii sollémniter immolámus, te, Dómine, deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a noxiis quoque voluptátibus temperémus.

[Ti offriamo solennemente questo sacrificio all’inizio della quarésima, pregandoti, o Signore, perché non soltanto ci asteniamo dai cibi di carne, ma anche dai cattivi piaceri.]

Communio

Ps XC: 4-5

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Postcommunio

Orémus.

Qui nos, Dómine, sacraménti libátio sancta restáuret: et a vetustáte purgátos, in mystérii salutáris fáciat transíre consórtium. [Ci ristori, o Signore, la libazione del tuo Sacramento, e, dopo averci liberati dall’uomo vecchio, ci conduca alla partecipazione del mistero della salvezza.]

LO SCUDO DELLA FEDE (52)

LO SCUDO DELLA FEDE (52)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murte, FIRENZE, 1858]

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO II.

SI CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO DALLE PERSONE CHE LO PROPAGANO.

Direte forse che se erano cattivi quei primi Maestri, non sono cattivi quelli che vi parlano adesso del Protestantismo. Miei cari, se anche fossero buoni, non dovreste ascoltarli, perché non vi ripetono altro che quello che hanno detto quei primi Protestanti malvagi. Ma il vero si è che anche questi sono tali da vergognarsene a seguitarli. State attenti che hanno la pelle di pecora che li ricopre, ma dentro sono lupi. – Io voglio farveli conoscere un poco. Prima sono ignorantissimi, poi sono superbi, poi sono avari, poi sono torbidi ed inquieti. – Chi sono costoro che vi vogliono ammaestrare?? se fossero anche Dottori, Letterati, Avvocati, Medici, non sarebbero per ciò maestri di Religione. L’avere studiata una Scienza, non dà il diritto d’insegnarne un’altra non studiata. Ditemi: potrebbe un calzolaio, perché sa fare le scarpe, fare anche il sarto e cucire gli abiti? Un avvocato saprebbe condurre l’aratro come Io conducete voi? Eh certo no. Ciascuno la sua professione. Ora come dunque potrebbe un Medico, un Dottore, perchè hanno studiato il modo di curare le febbri o di trattare le cause, parlare con scienza e profondità della Religione? Bisogna aver fatto gli studi necessari. Questi studii necessarii sono difficili, sono ardui, sono scabrosi, richiedono molto tempo, molta fatica: epperò è che neppure a loro dovreste dar retta, quando vi venissero ad inzuffolare alle orecchie certe proposizioni contro la S. Fede: perché quando voi sapete il Catechismo, di queste cose ne sapete quanto loro. Ma se dunque neppure un uomo di lettere qualunque, perché non ha fatti gli studi necessari, non potrebbe insegnarvi queste cose, dite, non sono ridicoli quelli che vi si danno per maestri in questa grande scienza e non sono mai stati scolari? Imperocché parliamo chiaro: chi sono quelli che si presentano a voi per farvi da maestri? Sono calzolai, sono sarti, sono barbieri, sono scarpellini, sono maestri da muro, sono contadini pari vostri. Oh non è questa la più ridevole cosa del mondo? Domandate adunque un poco a questi Maestroni, quando hanno imparata la Teologia, se al bischetto quando tiravano lo spago, o quando affilavano il rasoio, o quando cucivano le cappe, o portavano il vassoio della calcina. Domandate loro, quando hanno studiato i gran libri di S. Agostino, di S. Girolamo, di S. Gregorio, di S. Ambrogio, di S. Gio. Grisostomo, di S. Tommaso e di tanti altri gran Santi della Chiesa. Credono essi che disputare della Religione sia lo stesso che fare la saponata per la barba, o murare una finestra, o rimettere i tacchi ad una scarpa? Arroganti e superbi! Sapete dove hanno fatti i loro studii? Hanno letto qualche pezzo di una Bibbia guasta e corrotta, senza saperla leggere, senza intenderla, ed hanno appreso di viva voce da qualche mariuolo pari loro quattro spropositi, e adesso vi fanno i maestri addosso, e condannano il Papa, i Teologi e tutti quei grandi uomini che fiorirono nella S. Chiesa per tanti secoli, che riempirono le biblioteche dei loro dotti volumi, che propagarono la Fede con le loro s. predicazioni, che l’autenticarono coi miracoli loro, che la confermarono anche col loro sangue. Oh temerità veramente diabolica! E di qui voi potrete vedere quale sia anche la loro superbia. L’anteporsi che fanno a tutti quei gran Santi, basta a darvene un’idea. L’osare di contraddire tutti i sapienti che sono ora nella Chiesa, tutti i legittimi Pastori, tutti i Sacerdoti. ve lo potrà far comprendere anche meglio. Né vale a scusarli quella ragione sciocca che adducono, che essi seguono il puro Vangelo, che seguitano Gesù Cristo, e che però non sono superbi se fanno cosi. No, non vale questa ragione, perché sarà sempre vero che essi hanno la pretensione di conoscere da sé soli il puro Vangelo meglio che i sacerdoti che l’hanno studiato, meglio che tutta la S. Chiesa, la quale non l’intende a loro modo. Se non è questa una superbia infernale, al mondo non vi è più superbia. Del resto per convincervene affatto, fate così: mirateli un pochino questi nuovi dottori, mirateli all’importanza che si danno, al modo con cui insegnano, come sputano tondo sopra tutte le questioni anche più sublimi e più difficili, come pretendono di capir tutto, di poter fare i maestri a tutti, come si vantano del loro sapere, come vanno tronfi e pettoruti, allorquando hanno da fare con quelli che non hanno fatti studi su quelle materie di cui discorrono: pare che abbiano il tripode della sapienza in corpo, tanto sono vani ed orgogliosi. Son proprio quei maestri di errore che Gesù Cristo ci avvertì di fuggire. Ma vi è altro ancora sul loro conto. Volete che io ve lo confidi? Ci è anche una buona dose d’interesse in questi Apostoli dell’errore. Vengono da voi col collo torto e fingendo di volervi insegnare la verità, e tutto per amor delle vostre anime: ma non ci credete; più che delle vostre anime, preme loro dei propri corpi e più che del vostro vantaggio, s’interessano della propria borsa. Avete da sapere che i Protestanti hanno nei loro paesi fondate delle società per propagare gli errori delle loro sette, e contribuiscono perciò di molto denaro. Ora con questo danaro si stipendiano poi questi maestrucoli che vanno girando per le campagne e si comprano le anime a tanto il giorno. Se voi direte loro questo, faranno le viste di andare in collera, ma state pur certi che vanno in collera appunto perché sono toccati sul vivo. Le prove si hanno a migliaia, in Genova, in Savoia, nell’Irlanda, in Firenze stessa, dove parecchi che si erano lasciati miseramente ingannare, dopo di essersi convertiti hanno poi pubblicamente manifestato che ricevevano i tre, i quattro, i cinque paoli il giorno come prezzo di loro apostasia, e come salario per tirare anche altri nello stesso laccio di dannazione. Anime vili che trafficano il sangue prezioso di Gesù Cristo per un infame danaro come già fece Giuda! Ma e che interesse possono avere nei paesi Protestanti a spendere tanto per rovinare le nostre anime? Giacché volete sapere anche questo, ed io ve lo dirò e con tanto maggiore certezza, quanto che alcuni di loro un po’ imprudenti se lo sono lasciato fuggire dai denti, chiaro e spiattellato. Veggono quei galantuomini i nostri bei paesi; le nostre belle campagne ricche di ogni bene del Signore, veggono tanti bei pascoli pel bestiame, veggono tanti bei campi pieni di frumenti e di ogni maniera di legumi, veggono le nostre belle vigne cariche di ogni sorta d’uve, veggono i nostri oliveti produrre tanta copia d’olio, veggono i nostri gelsi che bastano ad allevare tanto numero di filugelli, veggono tante sorta di frutta che ci spuntano in ogni stagione, e come essi nei loro freddi paesi non hanno tutti questi beni, fanno all’amore con le nostre campagne e città. Vorrebbero mettervi sopra una zampetta, per goderli essi rubandoli a noi. Per arrivare a questo intento, la prima cosa è affratellarsi con noi, stringersi a noi: ma perciò come veggono che è di grande ostacolo la diversità della Religione, cercano in primo luogo di farci Protestanti come loro. Quando avranno fatto questo primo passo e vedranno di avere buon numero di seguaci, sperano di potere fare qualche altra cosa. Stringono quell’amicizia che il lupo stringe con le pecore, si cacciano in casa nostra col pretesto del commercio e vanno spillandoci tutto il bello e tutto il buono, come hanno fatto già in altri paesi: e se non basta rubar tutto ciò con buona grazia, e se l’occasione si presenta di fare qualche  cosa di più; per esempio un po’ di rivoluzione … mandare a spasso qualcuno … e chiamare in casa qualche altro … non lasciano poi di farlo. Avete osservato come fanno certe buone donne quando in Chiesa vi domandano un cantoncino di banco? Sulle prime basta loro ogni poco, poi a mano a mano si accomodano tanto bene, che tocca a voi lasciar loro tutto il posto. Per concludere adunque siate sicuri che tutto questo affare del Protestantismo altro non è che un vilissimo interesse che muove quei che vi predicano e quelli che li mandano, e perciò gettano sulle prime un poco di danaro come voi gettate la sementa, sperando di raccogliere a suo tempo molto di più. – Un’altra cosa vogliono da voi certi altri. E che vorrebbero? Fare un po’ di rivoluzione e levare la castagna dal fuoco con la vostra zampa, per non bruciarsi la loro. Vi ricordate di tutte belle teorie che pubblicavano nel quarantotto? L’unione d’Italia, l’indipendenza d’Italia, e tanti bei paroloni vi promettevano l’oro a sacca da godersi tuttodì con le mani in panciolle? Essi vorrebbero rimettere in piedi tutte quelle baldorie perché riescono di profitto a loro, se non a voi. Ma come fare? I governi tengono aperti gli occhi, ed anche i popoli si sono disingannati di tanti sogni dorati e non si lasciano più accalappiare. Non si possono più fare i conventicoli ed i capannelli, dove si parli della politica. Si fa dunque così, si lasciano stare le cose del governo e si finge che si tratti soltanto di religione. Cercano di arrotarvi come Protestanti sotto le loro bandiere, per scoprirsi al giorno della rivolta e farvi diventare rivoluzionari e ribelli; con che fanno un tradimento nerissimo a voi, alle vostre famiglie e vi espongono a tutti i pericoli a cui sono esposti i nemici della società. In una parola si fingono maestri di religione, e sono ministri di rivoluzione. Nè queste sono cose nuove. Han fatto così nella Germania, così nella Francia i Protestanti, or sotto nome di Anabattisti. or sotto nome di Ugonotti, ed hanno scompigliati altamente tutti quei regni. Macchinano lo stesso a dì nostri, e variato solo il paese in cui operano, ed il pretesto sotto cui lavorano, lo scopo è sempre lo stesso, abbattere ogni governo e giungere ad una sfrenatissima libertà. – Avrei ancora qualche altra cosetta sul conto di questi maestri e fabbricatori d’ eresie da confidarvi, ma ve la dirò in segreto più sotto.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (30)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXIX.

(Seguito del precedente)

satana s’incarna nella sua politica — Egli è lo spirito di tenebre, di impurità, d’orgoglio, di menzogna, il grande Omicida — Tutto questo fa il trionfo della sua politica — Lotta dello Spirito Santo contro il regno di satana — San Pietro assedia Roma — Ei la prende — Roma diventa la capitale della Città del bene — Riconoscenza universale per lo Spirito Santo — Benefici della sua politica — Quattro grandi fatti: costituzione della vera Religione — Costituzione della Chiesa — Costituzione della società — Costituzione della famiglia — Quadro.

Frattanto dalla vetta del Campidoglio, dove egli aveva il suo tempio privilegiato, satana, sotto il nome terribile di Giove Capitolino, regnava sul mondo e come Dio e come Re. Per testimoniare questo potere sovrano, i padroni della terra, i comandanti degli eserciti romani, venivano a domandargli il successo delle loro armi, a render grazie della vittoria, ad immolare i re vinti e consacrare le spoglie dei nemici. Ora il regno di satana era la sua incarnazione vivente. Tutte le qualità che la rendevano distinta si riproducevano nelle leggi della sua vasta Città, nella vita pubblica e privata dei suoi innumerevoli sudditi. Egli è lo spirito delle tenebre, potestas tenebrarum ed il suo regno fu quello delle tenebre le più folte che abbiano oscurato l’intelligenza dell’umanità. Come fare a immaginarsi quei milioni d’uomini, immensi greggi di ciechi, camminanti tastone, non sapendo né donde vengono, né donde sono, né donde vanno? Sotto il nome di Razionalismo o di emancipazione della ragione, tutte le verità erano combattute, scosse, negate, gettate al vento della derisione. Per i savi, tutta la filosofia consisteva in eterni tentennamenti, in contraddizioni senza fine; per il volgare, in una stupida indifferenza. Egli è lo Spirito immondo, spiritus immundus; ed il suo regno, fu quello di tutte le infamie. Sotto il nome di sensualismo o di emancipazione della carne, tutte le cupidigie divorano l’umanità. Le ricchezze, gli schiavi, la potenza, .il lusso, sotto tutti i nomi e sotto tutte le forme, i banchetti, le terme, i teatri, gli stessi templi servono alle dissolutezze del giorno, alle orge della notte, e formano della vita una eterna lussuria. Egli è lo Spirito d’orgoglio, spiritus superbia, ed il suo regno fu quello del dispotismo più mostruoso che il mondo abbia mai tollerato. Sotto il nome di Cesarismo, tutti i poteri sono concentrati nelle mani di un mostro con faccia umana, chiamato ora Nerone, ora Caligola, ora Tiberio, ora Eliogabalo, Imperatore e pontefice. Cesare è “dio”, la sua volontà è la regola del. giusto: Quidqutd placuit regni, vim habet legis. [La confusione delle idee, per cui tutto ciò che è legale si ritiene per legittimo; la statolatria, per cui lo Stato si reputa la fonte unica della giustizia e del diritto; per cui l’ordine spirituale si sottomette al temporale, la Chiesa si fa suddita allo Stato; la famiglia stessa spogliata dei suoi naturali diritti in servigio del “dio Stato”, non è che il naturale svolgimento, diverso secondo la diversità dei tempi, di questo impero di satana, del quale qui parla l’autore. – N. d. Ed.) Maestro assoluto dei corpi è delle anime, tutto appartiene a lui, tutto vive pel mezzo suo e a favor suo. Il suo regno è la negazione della coscienza e della libertà umana. Egli chiede all’uomo la sua fortuna, ed egli la dà; la sua donna, ed egli la dà; il suo capo, ed egli lo dà. Gli dice di adorare una pietra, un cane, un caprone, un toro, un coccodrillo, un serpente, ed egli gli adora. I popoli anche i più lontani, sentono il peso della sua potenza. Mai resistenza possibile: una capitale gigantesca, eserciti permanenti, la rapidità delle comunicazioni, una centralizzazione universale, hanno organizzato il mondo per il dispotismo. – Egli è lo spirito della menzogna, spiritus mendacii, ed il suo regno fu un lungo inganno. La letteratura, la poesia, le arti, la civiltà di quell’epoca, civiltà vuota di verità e di virtù, non sono che un lenzuolo di porpora gettato sopra un cadavere. La politica è l’ipocrisia a profitto dell’egoismo. Il preteso ben essere, un’odiosa menzogna che nasconde il barbaro esaurimento di tre quarti del genere umano, a profitto di pochi sibariti. L’incessante rumore delle battaglie, i canti della vittoria, le pompe trionfali, i giochi del circo, i combattimenti dell’anfiteatro, il perpetuo tormento dell’oro, dell’argento, del bronzo, del marmo, di tutti i metalli e di tutte le produzioni della terra, resi soggetti a tutti i capricci del lussò e delle passioni; quell’agitazione febbrile, quella vita fittizia, non è che un’esca per ingannare l’uomo, corromperlo, e distoglierlo dal suo fine e trascinarlo negli abissi. Egli è omicida, homicida, ed il suo regno fu l’assassinio organizzato. Assassinio del bambino, ucciso legalmente avanti di nascere e dopo la sua nascita; immolato agli dei o allevato per l’anfiteatro; assassinio dello schiavo, che si uccide impunemente per tedio, per capriccio, per piacere; assassinio dei prigionieri di guerra, che si scannano o si forzano a scannarsi sulla tomba dei vincitori; assassinio dei poveri, dei giovani e delle giovinette che si offrono in ecatombe a divinità sitibonde di sangue; assassinio dell’uomo per mezzo del suicidio, il quale per la prima volta apparisce sopra una larga scala negli annali della trista umanità; assassinio o piuttosto eterni macelli di milioni d’uomini, di donne, di fanciulli per guerre sterminatrici, per i combattimenti dei gladiatori, per le lotte di guardiani di belve. E come se tanti fiumi di sangue non fossero bastati per spegnere la sete del grande omicida, fu udito un giorno esclamare per bocca di un suo luogotenente: Vorrei che il genere umano non avesse che un sol capo a fine di abbatterlo con un sol colpo! Tale fu e più orribile ancora, il regno di satana, nei giorni della sua potenza. – Oramai il genere umano sapeva quel che costa il disertare la Città del bene, per vivere nella Città del male: Iddio n’ebbe compassione. Il giorno eternamente memorabile della Pentecoste, risplendette sul mondo. Come un potente monarca che entra in campagna, così lo Spirito Santo personificato negli Apostoli, esce dal Cenacolo e cammina all’espulsione dell’usurpatore. Roma diventa la posta del combattimento; prenderla o custodirla, è l’ultima parola della lotta. É necessario che Roma diventi la capitale della Città del bene; necessario; perché infedele alla sua missione. Gerusalemme ha cessato d’esserlo: e bisogna perché una città universale non può aver per capitale che la Regina del mondo; bisogna, perché Roma, tanto tempo Babilonia, deve espiare le sue mostruose prostituzioni, divenendo la città santa. Bisogna infine perché il Verbo incarnato deve manifestare la sua onnipotenza, cacciando il tiranno dalla sua inespugnabile fortezza, e di capitale della Città del male, farne la Capitale della Città del bene. Pietro, condotto dallo stesso Spirito Santo, giunge alle porte di Roma per farne la sede. satana lo ha inteso; ed è allora che egli dispiega in tutto il suo lusso l’odio implacabile che lo divora contro il Verbo incarnato. Dopo trecento anni di una lotta senza esempio nella storia, sia per l’accanimento e l’estensione della mischia, ossia per la natura delle armi, ovvero per il carattere e il numero dei combattimenti, lo spirito del male è vinto, vinto in casa sua, vinto nel cuore stesso della sua cittadella. I suoi oracoli tacciono, i suoi templi crollano, i suoi adoratori lo abbandonano, la sua civiltà corrotta e corrompitrice sparisce sotto le rovine del suo impero. Roma ha cambiato padrone. Divenuta capitale della Città del bene, essa fa sentire al mondo intero la sua potente e salutare influenza. Il regno dello Spirito Santo comincia nell’ordine religioso e nell’ordine sociale. Dall’Oriente all’Occidente il suo nome benedetto diviene popolare. Nell’antichità pagana tutto parlava dello spirito delle tenebre, tutto parla adesso dello Spirito della luce. Da San Paolo sino a Sant’Antonino, i Padri della Chiesa greca e della Chiesa latina, i grandi teologi del medio evo, gli ascetici, i predicatori non hanno che una voce per farlo conoscere in se medesimo e nelle sue opere. All’ardente amore dei particolari per lo Spirito rigeneratore, si unisce per lunghi secoli la docilità filiale nelle nazioni alle sue inspirazioni salutari. Checché ne possa. dire un cieco odio, questi secoli furono l’epoca del vero progresso, della vera libertà. Il fatto seguente preso tra mille negli annali dell’Europa, sarà un eterno lucchetto che chiuda la bocca ai contradittori. – Da quei blocchi di granito che chiamansi i Barbari e che furono i nostri avi, il mondo ha veduto uscire dei figli d’Abraham. Il nome dell’epoca, testimone di un simile miracolo, è oggi una ingiuria: noi non l’ignoriamo. Quanto chiunque altro, noi sappiamo ciò che si è in diritto di rimproverare al medio evo. Resta però sempre che lo spirito da cui fu animato realizzò i quattro progressi, soli degni di questo nome che l’umanità abbia mai compiuti.

Costituì la Religione: e fu un giorno in cui l’Europa già prostrata ai piedi di mille idoli mostruosi, e divisa in mille credenze contradittorie, adorò lo stesso Dio, cantò lo stesso simbolo. Dall’oriente all’occaso, dal sud al settentrione, non una voce discordante turbò questo vasto concerto. Unità di fede: magnifico trionfo della verità sull’errore.

Costituì la Chiesa: e vi fu un dì in cui sulle rovine del dispotismo intellettuale dell’antico mondo, sorse la società, custode infallibile della fede. Divenuta la potenza più amata, quella, società abbarbicò profondamente le sue radici nel suolo dell’Europa: il clero divenne il primo corpo dello Stato. Autorità della Chiesa; magnifico trionfo dell’intelligenza sulla forza. Costituì la società, e venne un giorno in cui i codici dell’Europa per sì lungo tempo macchiati d’iniquità legali non contennero più una sola legge anti-cristiana, per conseguenza antisociale. Per assicurare i diritti di tutti e di ciascuno, mantenendo l’armonia sulla terra, come il sole la mantiene nel firmamento, il Re dei re, rappresentato dal suo Vicario, dominava su tutti i re. La decisione di un padre, oracolo incorruttibile della legge eterna di giustizia, era l’ultima ragione del diritto e il termine dei conflitti. La parola in luogo della sciabola; i canoni del Vaticano in luogo del cannone, delle barricate o del pugnale degli assassini: magnifico trionfo della libertà sul dispotismo e l’anarchia.

Costituì la famiglia. Fu un giorno in cui nell’Europa rigenerata, la famiglia riposò sulle quattro basi che formano la sua forza, la sua felicità e la sua gloria: l’unità, l’indissolubilità, la santità, la perpetuità per il rispetto dell’autorità paterna, durante la vita e dopo la morte. Lo spirito invece della carne: magnifico trionfo dell’uomo nuovo sull’uomo vecchio; guarigione radicale della poligamia, del divorzio e dell’egoismo, piaghe inveterate della famiglia pagana. La Città del bene posta ‘su queste ampie basi, svolgeva tranquillamente le sue maestose proporzioni, e di giorno in giorno sorgeva risplendente di nuove bellezze, a quella perfezione che le è data di raggiungere quaggiù. La grande politica, cristiana, inaugurata da Carlo Magno costituiva la potenza unita, contro la quale venne a cadere la barbarie mussulmana. Intanto che al di fuori gli ordini militari vegliavano intorno all’ovile; quali nobili lavori non si compievano nell’interno! La regina delle scienze, la teologia, rivelava con una incomparabile lucentezza, le magnifiche realtà del mondo soprannaturale. Innalzato a queste alte speculazioni lo spirito generale, disprezzava la materia e i suoi grossolani godimenti. La società s’incamminava senza dubbio verso il termine supremo della vita dell’uomo e dei popoli. La filosofia, umile serva della teologia, lavorava per conto della madre sua. Delle verità che essa aveva ricevute, mostrava la connessione, la ragione, l’universale armonia, e illuminava di una dolce e viva luce tutto il sistema della creazione. Seria come la verità, casta come la virtù, la letteratura scrutinava le Scritture. Invece di nutrirsi di favole e di puerilità, cercava nel Libro dei libri, le norme del pensiero, il tipo del bello e la forma del linguaggio. Con uno splendore di forma e un ordine di concetto, che non aveva mai raggiunti, l’arte realizzava sotto gli occhi d’ognuno l’ispirazioni della fede. Come di un mantello di gloria copriva l’Europa di monumenti inimitabili ancor meno per l’immensità delle proporzioni e la finitura dei dettagli, che per il simbolismo eloquente che faceva pregare la pietra, il legno, i metalli e tutte le creature inanimate. Sotto le volte stellate di quegli splendidi templi, una poesia sola degna di questo nome, cantava con la voce delle moltitudini, le credenze, le speranze, gli amori, le gioie, i dolori, i combattimenti, le vittorie della Città del bene. Mercé dello spirito di carità che animava tutto il corpo, le opere di devozione eguagliavano le umane miserie. Dalla cuna sino alla tomba e al di là, mai un bisogno intellettuale, morale o fisico sul quale non si trovi che vigili, come una sentinella al suo posto, un ordine religioso od una confraternita. Mentre che nell’antichità i poveri ed d piccoli, isolati gli uni dagli altri, non formavano che una moltitudine di atomi senza forma, né resistenza, contro un potere brutale; nella Città del bene la libertà, figlia della carità, si propagava sotto tutte le forme. Carte, associazioni, privilegi di tutti gli stati anche i più umili, mille confraternite formavano altrettanti corpi rispettabili, l’oppressione dei quali costituiva un delitto condannato dall’opinione, prima d’essere colpito dalla duplice potenza della Chiesa e dello Stato. Le libertà pubbliche non etano per questo meno assicurate. Sopprimendo le grandi capitali, gli eserciti permanenti, la centralizzazione, il Cristianesimo aveva spezzato i tre istrumenti necessari al dispotismo. Così aveva cessato il lungo divorzio dell’uomo e di Dio, della terra e del cielo. Ristabilita dallo Spirito Santo la primitiva alleanza, diventava di giorno in giorno più feconda. Alla grande unità materiale della Città del male si sostituiva nel mondo .rigenerato, una grande unità morale, sorgente di gloria e di felicità. Di tutti questi elementi benedetti, germi potenti di una civiltà che doveva fare della terra il vestibolo del cielo e del genere umano, il vero fratello del Verbo incarnato, l’Europa andava debitrice alla grande vittoria dello Spirito del bene, sullo spirito del male. Fosse piaciuto a Dio che essa non l’avesse dimenticato mai!

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (29)

Mons. J. J. GAUME

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXVIII

Storia politica delle due Città.

Due religioni, due società e per conseguenza due politiche. — Scopo dell’una e dell’altra — Necessità di conoscerlo per intender l’istoria — In virtù di un Consiglio divino, Gerusalemme è la capitale della Città del bene — In virtù d’un Concilio satanico, Babilonia e Roma sono a vicenda la capitale della Città del male — Luminosa dottrina del celebre Cardinal Polo al concilio di Trento — Perché i regni del mondo sono mostrati a Daniele sotto figure di Bestie — Roma in particolare, fondata dalla Bestia, porta i caratteri della Bestia, e fa le opere della Bestia: testimonianze della storia e di Minuzio Felice — Durante tutta l’antichità, satana ebbe per unico scopo della sua politica d’innalzare Roma, di farne la sua capitale e una fortezza impenetrabile al Cristianesimo — Quadro della sua politica e della politica divina: passo di sant’Agostino — In che senso satana ha potuto dire che tutti i regni del mondo gli appartenevano — Dottrina di Sant’Agostino — Osservazioni.

Il parallelismo religioso e sociale del quale abbiamo ora accennato i tratti principali, si manifesta nell’ordine politico, e non poteva essere altrimenti. La politica è la scienza del governo. Governare, vuol dire condurre i popoli a un fine determinato. Questo fine non può essere conosciuto che mediante la religione, atteso che la religione sola può dire all’uomo per qual motivo egli è sulla terra. Due religioni opposte si dividono il mondo: la Religione del Verbo incarnato, e la religione di satana, suo implacabile nemico. Vi sono dunque necessariamente due politiche opposte nel loro punto di partenza, e nel loro punto d’arrivo; e non ve ne sono che Due: o Gesù Cristo, re: o satana, re. Gesù Cristo, re dei re e dei popoli; o satana, re dei re e dei popoli. Gesù Cristo re nell’ordine temporale, come pure nell’ordine spirituale; o satana, re parimente nell0ordine temporale come nello spirituale. La Cristocrazia o la Demonocrazia: ecco lo scopo supremo delle due politiche che governano il mondo, e che lo conducono a una duplice eternità. [La Cristocrazia o la Demonocrazia sono i soli governi del mondo. Nostro Signor Gesù Cristo regnando sugli imperi mediante il Papa, suo vicario; un imperatore, quasi diacono del Papa, e i re come suddiaconi dell’imperatore: tale è la vera idea del potere. Alla fine dei tempi, il mondo colpevole di lesa Cristocrazia sarà soggetto alla Demonocrazia. satana avrà il suo imperatore che sarà l’Anticristo; e l’Anticristo avrà i suoi diaconi che saranno i re. II male giunto alla sua ultima formula, chiamerà il castigo finale]. Resulta quindi, che la vita del genere umano non è che una oscillazione perpetua tra questi due poli opposti. Questo fatto non domina soltanto la storia, è la storia stessa, tutta la storia nel passato, nel presente e nel futuro. Tale è il punto di vista, nel quale bisogna porsi, per giudicare gli avvenimenti compiuti o preparati, bilanciare i timori e le speranze, dar il loro carattere alle rivoluzioni, e rendersi conto della caduta, o dell’innalzamento degli imperi. Senza di questo, nessuno può, oggi meno che mai, in mezzo all’urto delle idee ed allo scompiglio degli avvenimenti, situar bene il suo concetto, ed evitare lo scoglio dello scetticismo, o l’abisso della disperazione. Se vogliamo che, il gran fatto di cui noi parliamo, divenga un faro abbastanza luminoso, per illuminarci in mezzo alle tenebre ognora più fitte in cui si addentra l’Europa attuale, è necessario dimostrarlo nel suo complesso, cosa che imprenderemo ora a fare. Avanti che l’uomo e il tempo fosse, un Consiglio divino decreta la fondazione della Città del bene. Lo spirito d’Amore ne sarà il Re, l’anima e la vita. Dapprima come famiglia, essa vivrà per lungo tempo della vita ristretta dei Patriarchi sotto la mobile tenda del deserto. Mediante il ministero degli Angeli e di Mosè, lo Spirito Santo la costituisce allo stato di nazione. Ad ogni impero ci vuole una capitale; quella della Città del bene si chiamerà Gerusalemme, o Visione di pace. Ivi infatti, e ivi solamente regnerà la pace, perché ivi soltanto sarà il tempio del vero Dio. Ma Gerusalemme appartiene alla Città del male; bisogna conquistarla. Sion, sua cittadella, cade finalmente in potere di David, e l’impero è fondato. Sino da questo momento, Gerusalemme diventa la città santa, oggetto delle predilezioni dello Spirito Santo. Da essa parte la vita che irraggia la luce. [De Sion exibit lex, et Verbum Domini de Jerusalem. – Isay XI, 3]. – È verso di lei che tutti i figli di Dio, sparsi ai quattro angoli del mondo, innalzano le loro mani ed i loro cuori. Gerusalemme è alla Città del bene ciò che il cuore è al corpo, i centri ai raggi, la sorgente al fiume. satana guarda ciò che fa Dio, e tiene, consiglio. Radunando tutti i suoi sudditi in Concilio ecumenico ei decreta la fondazione materiale del suo impero e della sua capitale. Ecco in qual magnifico linguaggio un Padre di un altro concilio ecumenico descrive quello di satana: « Una parola è udita nelle pianure di Sennaar, che convoca tutti i figli degli uomini in assemblea generale. Il fratello la ripete al suo fratello, il vicino al suo vicino. Questa parola diceva: Venite, facciamoci una città ed una torre la cui cima tocchi il cielo, prima di disperdersi sulla terra. Tale fu il decreto del concilio satanico. È vero che Iddio ne arrestò l’esecuzione, confondendo il linguaggio e spingendo i figli degli uomini ai quattro venti; ma l’opera fu arrestata prima che il concilio fosse disciolto. [Iddio medesimo sapeva che il suo intervento non impedirebbe né a satana, né ai suoi sudditi di edificare la Città del male. Nel confondere il linguaggio degli uomini egli pronunzia quella profonda parola: Cœperuntque hoc facere, nec desistent a cogitationiòns suis, donec eas opere compleant Gen., XI, 6]. Infatti, sino alla diffusione dello Spirito Santo, il decreto di questo concilio non fu mai abrogato nella mente degli uomini. Ciò che il giorno della convocazione ognuno diceva al suo prossimo: Venite, edifichiamoci una città e rendiamoci illustri, chiunque non è diventato figlio dello Spirito Santo continua a dirselo a sé medesimo ed agli altri. Ecco il soggetto di tutte le loro assemblee pubbliche ed occulte: e se l’occasione si presenta di eseguire il gran decreto, subito l’afferrano. « È dunque in virtù di questo decreto del concilio ecumenico di satana che, tutti i regni del mondo sono stati formati: ex quo nata sunt omnia mundi regna. E per combattere vittoriosamente questa immensa Città del male, fu fondata dal Verbo eterno, la Città del bene; ed i Concilii generali della Chiesa furono stabiliti appunto, in opposizione al concilio generale di satana. E allo stesso modo che lo spirito del male, ispirava il primo, cosi i secondi trassero tutta la loro forza dalla convocazione, dalla presidenza, dalla ispirazione e dai lumi dello Spirito del bene. Parimente se il primo ebbe per iscopo di organizzare l’odio, cosi i secondi ebbero quello di organizzare l’amore. [Card. Polo, De Concilio, quæst. x.Oral. ad Padres Trid., apud Labbet t. XIV, p. 1676].Tutti i regni della gentilità sono nati dal concilio satanico, tenuto ai piè della torre di Babele, ex quo nata sunt omnia mundi regna. Tutti sono fondati in opposizione al regno di Cristo, quibus regnum Christi se opposuit eaque delevit Questa parola dà luce a tutta la storia; e come eco fedele di una rivelazione profetica, essa è indiscutibile. »Il convocatore e il presidente del concilio di Babele fu quegli che la Scrittura appella la Bestia, per eccellenza. Mille anni più. tardi,. Daniele è rapito in ispirito. Nelle quattro grandi monarchie degli Assiri, dei Persi, dei Greci e dei Romani, Iddio gli mostra tutti i regni del mondo. Sotto quali figure? di uomini? no: di Angeli? no. Sotto figure di bestie. E quali bestie? di bestie immonde e malefiche. Perché queste figure e non altre? Perché tutti questi imperi sono opera della Bestia; essi ne hanno i caratteri e ne producono le opere. Nell’ultima, vedete in chi si personificano tutte le altre: « La quarta bestia, dice il Profeta, è il quarto regno che sarà sulla terra; sarà più grande di tutti, i regni; divorerà tutta la terra, la stritolerà e la ridurrà in polvere » [Dan., VII, 23]. Abbiamo visto che Roma fu fondata da satana medesimo; Roma pagana non ha cessato di eseguire l’opera di satana. Proprio alla lettera, essa ha divorato, calpestato, stritolato tutta la terra: essa ha rapito agli uomini tutti i beni di città, di famiglia, di proprietà, di religione; non come tanti conquistatori per caso, e in un momento di furore; ma per disegno premeditato, per un seguito non interrotto di saccheggi e di conquiste, durante mille duecento anni. Le sue istituzioni portavano il segnale della sua origine; e il suo diritto non era che la legislazione dei suoi delitti. Dopo il risorgimento, Roma pagana non è stata scorta, che attraverso le finzioni dei poeti, degli storici e dei legisti del paganesimo. Quando la gran bestia era ancora vivente, e che la civiltà di cui essa fu l’anima, era in atto e non in rimembranza; l’una e l’altra sono state giudicate da giudici, testimoni incorruttibili della verità. Udiamo questo giudizio che data dal terzo secolo: « I Romani, dite voi, si sono acquistati minor gloria pel loro valore, che per la loro religione e la loro pietà. Ah! certamente, essi ci hanno lasciato grandi segni della loro religione e pietà, dopo il principio del loro impero. Non fu il delitto che gli fece radunare, che gli rese terribili ai popoli circonvicini, che servi loro di difesa per stabilire la loro dominazione. Imperocché da principio era un asilo di ladri, di traditori, di assassini e di sacrileghi; e affinché colui che era il maggiore, fosse altresì il più delinquente, per questo uccise suo fratello, e questi sono i primi auspicii di questa città santa. « Subito, contro il diritto delle genti, essi rapiscono delle ragazze di già promesse, delle fidanzate, talune anche già maritate; essi le disonorano, e di poi fanno la guerra ai loro padri, a quelli dei quali avevano sposate le figlie, spargendo così il sangue dei loro parenti. Quale empietà e audacia! Infine, cacciare i suoi vicini, saccheggiare i loro templi ed altari, distruggere le loro città, condurli schiavi, ingrandirsi con le rapine e con la rovina degli uomini, era la dottrina di Romolo e dei suoi successori; cosicché tutto ciò che tengono, e tutto ciò che posseggono, non è altro che brigantaggio. « I loro templi non sono edificati altro che con le spoglie dei popoli, col sacco delle città, con gli avanzi degli altari, col saccheggio degli dèi, e con l’uccisione dei sacerdoti. Quale empietà e quale profanazione l’inginocchiarsi dinanzi a dèi che essi trascinano schiavi in trionfo! Adorare ciò che si è preso, non è lo stesso che consacrare il suo latrocinio? Quante vittorie, tanti delitti; quanti trofei, altrettanti sacrilegii! E non è con la religione, ma con la loro empietà che essi sono saliti a quest’eminente fasto di grandezza; non per essere stati pii, ma per essere stati impunemente malvagi. »  [Minuzio Felice, Octav., c. XXIV].  Ecco dunque l’ultima parola della storia politica del mondo, e la strepitosa rivoluzione di quel terribile antagonismo che Bossuet non intravvide abbastanza. Gli nomini salvati miracolosamente dalle acque del diluvio, ritornano alle loro sregolate inclinazioni. Iddio si scelse un popolo per custodire la sua verità, e lascia il demonio scegliersi un altro popolo che sarà il nemico della verità, lo sterminatore dei santi, il propagatore del panteismo e dell’idolatria. È il popolo romano raccolto nell’asilo di Romolo, e che fu per lo meno sì fedele alla sua missione, quanto il popolo ebreo alla sua. Educare Roma, fu per tutta l’antichità il pensiero di satana e il fine invariabile della sua politica. Pur tuttavia Roma e Gerusalemme non divennero che lentamente e dopo molte battaglie le capitali delle due Città opposte. Queste battaglie riassumono la storia. Essa ci mostra i regni dell’Oriente che cadono gli uni dopo gli altri sotto l’impero del demonio. Per riunirli in un sol corpo è fondata la grande, la voluttuosa, la terribile Babilonia. Con le sue leggi, col suo lusso, con le sue ricchezze, con la sua crudeltà, con la sua mostruosa idolatria, la Gerusalemme di satana diventa la rivale implacabile e la sanguinosa parodia della Gerusalemme del vero Dio. Così il mondo cammina su due linee parallele. – « Ai fondatori della Città di Dio, dice sant’ Agostino, Abraham, Isaac, Jacob, Joseph, Mosè, Sansone, David, Salomone, corrispondono Nino, Semiramide, Faraone, Cecrope, Romolo, Nabuccodonosor e gli altri principi degli Assiri, dei Persi, dei Greci e dei Romani. I Fondatori della Città del bene, notificano le leggi di Jehovah, le cerimonie che prescrivono i sacrifici che esige, la difesa dell’idolatria. Conservare ed estendere la Città del bene, tale è l’uso ch’essi fanno della loro potenza. Parallelamente i fondatori della Città del male, pubblicano gli oracoli di satana, ordinano i suoi sacrifici, rendono popolari le sue favole, parodiano le verità divine, e tanno cosi servire la loro potenza allo sviluppo della Città del male. » [De civ. Dei, lib. XVIII, c, II e seg., quoad sensum]. – Con i secoli essa estendo i suoi limiti fino ai confini più remoti dell’Occidente. Quest’immenso impero chiede una nuova capitale: Roma succede a Babilonia, Roma padrona del mondo, diventa la metropoli dell’idolatria, e la cittadella di satana. « Cosi, continua sant’Agostino, due regni hanno assorbito tutti i regni: quello degli Assiri e quello dei Romani. Tutti gli altri non sono stati che provincie, o annessi di questi imperi giganteschi. Quando l’uno finisce, l’altro incomincia. Babilonia fu la Roma dell’Oriente, e Roma divenne la Babilonia dell’Occidente e del mondo. » [Ibid., n. 1 e 2].Gerusalemme, Babilonia e Roma, questi tre nomi riassumono tutta la storia delle due Città nel mondo antico: preambolo obbligato della loro storia nel mondo moderno. Roma vincitrice di tutte le nazioni, giunge all’apogèo della potenza. satana alza il suo orgoglio fino alle nuvole; ed è allora che incontra senza conoscerlo, il Verbo incarnato sceso dal cielo, per rovesciare il suo impero. Per uno di quei prestigi il cui segreto gli è familiare, lo trasporta in cima d’un monte; di là gli mostra tutti i regni della terra e gli fa la strana proposta riferita dal Vangelo: « Io ti do, gli dice, questa sovranità universale e la gloria di tutti questi imperi; imperocché tutto ciò è stato dato in mia balia e lo dono a chi voglio. Se dunque tu ti prostri a me dinanzi, ogni cosa è tuo. » [Luc., IV, 5, 6, 7]. – Per credere ad una simile potenza, se noi non avessimo che l’affermazione del Principe della menzogna, certo il dubbio sarebbe permesso e più che permesso. Cessa d’esserlo, almeno completamente, quando si vede il Vangelo stesso, chiamare satana, il Dio e il Principe di questo mondo. [Deus hujus sæculi. II Cor., IV, 4. — Princeps hujus mundi. Joan., XVI, 11]. Dal canto suo la storia studiata altrimenti che superficialmente, ci ha mostrato nell’orgogliosa parola del tentatore, un fondo di verità bene altrimenti considerevole di quello che non si creda. Sotto i suoi due grandi aspetti, quello religioso e quello .sociale, l’umanità si è presentata al nostro studio. Abbiamo visto che satana nell’antichità pagana era veramente il Dio del mondo: Omnes Dii gentium dæmonia. Tutti i culti, eccetto un solo, venivano da lui e a lui ritornavano. La sua sovranità non era meno reale della sua pretesa divinità. Ispiratore permanente degli oracoli, per mezzo di essi egli dominava gli atti della vita, sociale. Di tutti i regni dell’antico mondo con la loro potenza colossale e con le loro favolose ricchezze di quelle Repubbliche della Grecia e dell’Italia, che per una educazione. mentitrice destano meraviglia ai giovani Cristiani, è, come un Padre del Concilio di Trento ci afferma, lo stesso satana che ne aveva decretata la fondazione: Decretum ex quo nata sunt omnia mundi regna; e la loro esistenza fu una opposizione armata contro la Città del bene, quibus regnum Christi se opposuit eaque Delevit. – Ma che! aveva dunque Iddio abdicato? Non è Lui e Lui solo il fondatore degli imperi, come è il Creatore dell’uomo e del mondo? Sant’Agostino risponde.  [De civ. Dei: lib. V] «Sicuramente che appartiene al solo vero Dio il potere di dare i regni e gli imperi. È dunque il solo vero Dio che ha dato quando ha voluto, e finché ha voluto, l’impero ai Romani, come lo aveva dato agli Assiri ed ai Persi. » Per provarlo aggiunge: « Affinché si sappia che tutti i beni temporali dei quali gli uomini si mostrano cosi avidi, sono un benefizio del vero Dio e non l’opera dei demoni, basti il considerare il popolo ebreo. Senza invocare la dea Lucina, le donne ebree mettevano felicemente al mondo fanciulli in gran numero. Questi si attaccavano al petto senza la dea Rumina; dormivano nella loro culla senza la dea Cunina: bevevano e mangiavano senza le dee Educa e Patina; crescevano senza adorare nessuno degli dii dei bambini. I connubii erano fecondi senza il culto di Priapo. Senza invocare Nettuno il mare si apriva dinanzi ad essi, e inghiottiva i loro nemici. Quando la manna cadde loro dal cielo, essi non consacrarono punto statue alla dea Mannia; e quando il masso li dissetò essi non adorarono né le ninfe né  le linfe. – « Senza i crudeli sacrifici di Marte e di Bellona essi fecero la guerra. Certo essi non vinsero senza la vittoria; ma non riguardarono la vittoria come una dea, bensì come un benefìcio di Dio. Essi ebbero le messi s’enza Segeta, e senza Bubona, buovi; senza Mellona ebbero miele; e frutta senza Pomona. Cosi tutte le cose che i pagani attribuivano alle loro divinità, gli Ebrei le ricevettero più felicemente dal vero Dio. Se trascinati da una curiosità colpevole non lo avessero offeso, dandosi al culto degli idoli, e facendo morire il Cristo, essi sarebbero certo rimasti nel regno dei loro padri, meno esteso senza dubbio, ma più felice degli altri. » [De civ. Dei, lib. IV, c. XXXIV]. Tuttavia l’illustre dottore appella Caino il primo fondatore della Città del male; e Romolo il primo fondatore di Roma sua futura capitale. [Id., lib. XV, c. V]. Che è questo mistero? e come conciliare coi fatti della storia le parole in apparenza contrarie, dei dottori della Chiesa, del demonio, e del Vangelo? Eccolo. Iddio ha creato tutti i fondatori della Città satanica, ma non gli ha creati per questo fine; egli ha dato a Nabuccodonosor l’Assiria; a Romolo l’impero romano; ed all’impero romano il dominio della terra; ma non ha dato loro a facoltà di rendere questi imperi cattivi. Che cosa dunque è avvenuto ? Del pari che il Padre del genere umano, cosi questi uomini si sono lasciati dominare da satana, che gli ha fatti i fondatori del suo impero e delle sue capitali. Sapendolo o no, tutti hanno lavorato, per lui: ed è in questo senso che il tentatore ha potuto dire: Tutti i regni della terra mi sono stati dati, ed io ho il diritto di disporne, come l’operaio della sua opera, il padrone dei suoi schiavi. Ecco quel che c’è di vero nelle parole di satana e nel nome di “dio” e di Principe di questo mondo, che il Vangelo non esita a dargli. – Pur tuttavia Iddio non aveva abdicato. La Città del male, con le sue grandi monarchie degli Assiri, dei Persi, dei Greci e dei Romani, divenne suo malgrado l’istrumento della Provvidenza, per l’adempimento dei suoi salutari disegni. A questo modo il Re della Città del bene si servì degli Assiri, a fine di tenere il suo popolo a dovere: dei Persi per ricondurlo nella Giudea e conservare la necessaria distinzione delle tribù; dei Greci per preparare le vie del Vangelo; dei Romani per compiere luminosamente le profezie relative alla nascita del Redentore. Ma tutto ciò si faceva contro l’intenzione del fondatore, præter intenzionem fundatorìs, e per effetto dell’onnipotente sapienza che cangia l’ostacolo in mezzo, senza mutare la natura dellecose. – Rimane però sempre che satana, grazie alla complicità dell’uomo, suo balordo e suo schiavo, aveva raggiunto il fine della sua politica. Dopo il concilio dove la sua fondazione fu decretata, noi vediamo la Città del male andare sviluppandosi. Alla venuta del Messia essa era al suo apogèo: tutti gli imperi sono suoi tributari. Noi vediamo ancora che l’ultima parola di satana era di fare di Roma la sua capitale. L’assorbimento successivo dei regni dell’Oriente e dell’Occidente, gli uni per mezzo degli altri, l’assorbimento finale di tutti questi regni, fatto da Roma medesima, testificano questo disegno e affermano questo supremo trionfo. Non è dunque, come si é detto, per mescolare i popoli e prepararli alla propagazione del Vangelo, che satana gli agglomerò sotto la mano di Roma. Formando il suo gigantesco impero egli voleva dominare solo sul mondo, annientare la Città del bene, o almeno opporre al suo sviluppo un ostacolo invincibile. Iddio gli ha lasciato fare l’impero romano, per rendere umanamente impossibile lo stabilimento della Chiesa. Per conquistare la fede del genere umano, gli faceva d’uopo che la giovane Città, in lotta sin dalla sua cuna con tutte le forze dell’inferno, elevate alla loro più alta potenza, grandeggiasse contro ogni verosimiglianza, e divenisse agli occhi dell’intero universo, il miracolo vivente di una sapienza, che si burlava del Forte armato, e che trionfava per ciò che doveva condurre la sua rovina, la morte ed i supplizi. [Un momento di riflessione basta per comprendere questa verità. Se all’epoca della predicazione del Vangelo il mondo fosse stato diviso in parecchi regni indipendenti, le persecuzioni generali, vale a dire, quei massacri in massa che erano di tal fatta da uccidere la Chiesa nella sua culla, sarebbero stati impossibili. Gli Apostoli perseguitati in un luogo avrebbero potuto, seguendo il consiglio del divino Maestro, passare in un altro, e con essi salvare una parte del gregge. Al contrario riunite il mondo sotto un sol capo e basta il maligno volere di un Nerone o di un Diocleziano per organizzare la carneficina su tutta la faccia della terra, e mettere la Chiesa nell’impossibilità di sottrarvisi.

MERCOLEDì DELLE CENERI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco, Ivrea 1844 – Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Per la G. Cancell.]

NEL MERCOLEDI’ DELLE CENERI

“Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris”

Un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o miei riveriti uditori; e vi confesso, che non senza una estrema difficoltà mi ci sono addotto, troppo pesandomi di avervi a contristar sì altamente fin dalla prima mattina ch’io vegga voi, o che voi conosciate me. Solo in pensare a quello che dir vi devo, sento agghiacciarmisi per grande orror le vene. Ma che gioverebbe il tacere? il dissimular che varrebbe? ve lo dirò. Tutti, quanti qui siamo, o giovani o vecchi, o padroni o servi, o nobili o popolari; tutti dobbiamo finalmente morire: statutum est hominibus semel mori (ad Heb. IX, 27) . Ohimè! che veggo? non è tra voi chi si riscuota ad avviso sì formidabile? Nessuno cambiasi di colore? nessun si muta di volto? Anzi già mi accorgo benissimo che in cuor vostro voi cominciate alquanto a ridere di me, come di colui, che qui vengo a spacciar per nuovo un avviso sì ricantato. E chi è, mi dite, il quale oggimai non sappia che tutti abbiamo a morire? Quis est homo, qui vivet, et non videbit mortem? (Ps. LXXXVIII, 49 ) Questo sempre ascoltiamo da tanti pergami, questo sempre leggiamo su tante tombe, questo sempre ci gridano, benché muti, tanti cadaveri: lo sappiamo. Voi lo sapete? Com’è possibile? Dite: e non siete voi quelli, che jeri appunto scorrevate per la città così festeggiante, quali in sembianza di amante, qual di frenetico, e quale di parassito? Non siete voi che ballavate con tanta alacrità nei festini? Non siete voi che v’immergevate con tanta profondità nelle crapule? Non siete voi che vi abbandonavate con tanta rilassatezza à dietro ai costumi della folle Gentilità? Siete pur voi che alle commedie sedevate sì lieti. Siete pur voi che parlavate da’ palchi sì arditamente. Rispondete: e non siete voi che tutti allegri in questa notte medesima, precedente allo sacre Ceneri, ve la siete passata in giuochi, in trebbj, in bagordi, in chiacchiere, in canti, in serenate, in amori, e piaccia a Dio che non fors’anche in trastulli più sconvenevoli? E voi, mentre operate simili cose, sapete certo di avere ancora a morire? Oh cecità! oh stupidezza! oh delirio! oh perversità! Io mi pensava di aver meco recato un motivo invincibilissimo da indurvi tutti a penitenza ed a pianto con annunziarvi la morte: e però mi era, qual banditore divino, fin qui condotto per nebbie, per piogge, per venti, per pantani, per nevi, per torrenti, per ghiacci, alleggerendomi ogni travaglio con dire: non può fare che qualche anima io non guadagni, con ricordare ai peccatori la loro mortalità. Ma, povero me! troppo son rimaste deluse le mie speranze, mentre voi, non ostante sì gran motivo di ravvedervi, avete atteso piuttosto a prevaricare; non vergognandovi, quasi dissi, di far come tante pecore ingorde, indisciplinate, le quali allora si ajutano più che possono a darsi bel tempo, crapulando per ogni piaggia, carolando per ogni prato, quando antiveggono che già sovrasta procella. Che dovrò far io dunque dall’altro lato? dovrò cedere? dovrò ritirarmi? dovrò abbandonarvi in seno al peccato? Anzi così assista Dio favorevole a’ miei pensieri, come io tanto più mi confido di guadagnarvi. Ditemi dunque: mi concedete voi pure d’esser composti di fragilissima polvere; non è vero? lo conoscete? il capite? lo confessate, senza che altri stanchisi a replicarvi: Memento„ homo, memento quia pulvis es? Questo appunto è ciò ch’io voleva. Toccherà ora a me di provarvi quanto sia grande la presunzione di coloro che, ciò supposto, vivono un sol momento in colpa mortale. Benché presunzione diss’io? audacia, audacia, così doveva nominarla, se non anzi insensata temerità; che per tale appunto io prometto di dimostrarvela. Angeli, che sedete custodi a lato di questi a me sì onorevoli ascoltatori: Santi, che giacete sepolti sotto gli altari di questa a voi sì maestosa Basilica; voi da quest’ora io supplichevole invoco per ogni volta ch’io monterà in questo pergamo, affinché vogliate alle mie parole impetrare quel peso, e quella possanza, che non possono avere dalla mia lingua. E tu principalmente, o gran Vergine, che della divina parola puoi nominarti con verità Genitrice! tu che, di lei sitibonda, la concepisti per gran ventura nel seno; tu che, xli lei feconda, la partoristi per comun benefizio alla luce; tu che, di nascosta ch’ella era ed impercettibile, la rendesti nota e trattabile ancora a’ sensi; tu fa che io sappia maneggiarla ogni dì con tal riverenza, ch’io non la contamini con la profanità di formule vane, ch’io non l’adulteri con la ignominia di facezie giocose, ch’io non la perverta con la falsità di stravolte interpretazioni; ma che sì schietta io la trasfonda nel cuore dei miei uditori, qual ella uscì dai segreti delle tue viscere. Sprovveduto vengo io di ogni altro sostegno, fuor che d’una vivissima confidanza nel favor tuo. Però tu illustra la mente, tu guida la lingua, tu reggi il gesto, tu pesa tutto il mio dire di tal maniera, che riesca di lode e di gloria a Dio; sia di edificazione e di utile al prossimo; ed a me serva per acquisto di merito, non si converta in materia di dannazione.

II.  È l’uomo comunemente di sua natura più inclinato a temere nei gran pericoli, che disposto ad assicurarsi. Però voi vedete, che nella nave di Giona, profeta indocile, uno solo era quegli, che al fracasso de’ tuoni, e al furor de’ turbini dormiva tranquillamente. Gli altri tutti o gridavano, o gemevano, o consultavano, o si affaticavano, affine di liberarsi dall’imminente naufragio. Homo enim (così trovo io presupporsi da san Tommaso) magis inclinata» est ad timorem, quo mala fugit, quam ad audaciatn, qua mala invadit (Abulen. In Matt. cap. XVIII, q. 27 ex 2. 2. q. 16!, art. 29 ad 3 ). Ma questo principio è verissimo, quando si tratti de’ pericoli temporali, i quali sono meno terribili, e meno atroci; non però quando trattisi dell’eterno, che è tanto più irrimediabile e più tremendo. In questo solo (chi’1 crederebbe?) i mortali sono inclinati comunemente a fidarsi; né solamente nol temono, ma lo sprezzano; nol solamente nol fuggono, ma l’incontrano. E che vi pare, amatissimi peccatori, del vostro stato? Già voi sapete che in quell’istante medesimo nel qual voi, o col pensiero, o con la parola, o con l’opera, consumaste il vostro delitto, fu tosto contro a voi fulminata sentenza orribile di eterna condannazione. Né si deve durar gran fatica ad effettuarla. Ardon già inestinguibili quelle fiamme, che debbon essere il vostro letto per tutta l’eternità. Ignis succensus est in furore meo ( Jer. XV, 14); sì dice Dio, super ros ardebit. Già son preparati i tormenti, già stan pronti i tormentatori. Però, che manca? Manca che strappisi solamente quel filo che vi tien come pendenti sopra la bocca di un baratro sì profondo: Super putum abyssi (Apoc. IX. 2). E voi con tutto ciò non provate timore alcuno, ma potete la sera cenar con gusto, potete cicalare, potete conversare, potete andare a pigliar poi placidissimi i vostri sonni? se non è questa temerità intollerabile, rispondetemi, qual sarà? È vero che quel filo di vita che or vi sostiene potrebb’essere ancora forte e durevole; ma potrebbe anch’essere logoro e consumato. E perché dunque in una egual incertezza più volete attenervi a quella opinione che vi animi a confidare con tanto rischio, che non a quella che vi esorta a temere con tanto prò?

III. Benché troppo ho errato dicendo, in una egual incertezza. Qual cosa v’è che mai vi possa promettere di sicuro un sol momento di vita. Non i bezzuarri orientali, non le perle macinate, non gli ori potabili, non i gislebbi gemmati, che son piuttosto rimedi tutti inventati dall’ambizione, perché neppure il morire sia senza lusso. Dall’altra parte quante son quelle cose, le quali possono levarvela ogni momento! Si lusingavano comunemente gli antichi con darsi a credere, che le loro Parche non fossero più che tre. Ma non così si lusingava anche Seneca, il quale diceva, che a lui piuttosto parevano innumerabili: Eripere vitam nemo non homini potest (In Theb. act. 1). Mirate pur quante creature mai sono nell’universo, tutte, per dir così, tutte son tante Parche col ferro in mano, ch’è quanto dire, tutte applicate, tutte abili a darci morte. So non che, chi non sa che a fin di morire non ci fa nemmen di mestiere aspettarlo altronde? Dentro di noi sta quanto basta ad ucciderci. Come il ferro si genera la sua ruggine, come il legno il suo tarlo, come il panno la sua tignuola; così l’uomo si genera pur da sé la sua morte in seno, e non se ne accorge: a segno tale, che un celebre capitano del secolo precedente, detto il Caldoro (Poter. Detti memor. 1. 1), mentre arrivato, con sorte rara tra le battaglie, all’età di settantacinque anni, passeggiava lieto pel campo, e si gloriava di essere tuttavia sì disposto della persona, sì vivace, sì vegeto, qual ora di venticinque, finì in un punto e di vantarsi e di vivere; perché repentinamente percosso fu d’un accidente di furiosissima gocciola, la quale allora allora era in atto di sopraffarlo; e così, morendosi in poco d’ora, mostrò quanto ciascun uomo sia sempre mal informato di ciò che passi nell’intimo di se stesso. Ma se così è, come dunque in uno stato d’incertezza sì orribile, qual è questo, avete ardire, o ascoltatori, di vivere un sol momento in colpa mortale? Questa dunque è la cura che voi tenete della vostra anima? questa è la stima del vostro fine? questa è la sollecitudine della vostra felicità? saper di stare in mezzo a rischi sì gravi, e non vi riscuotere! Alcuni si stupiscono molto come un Elia, perseguitato da una potente Reina, potesse mettersi in una aperta campagna a dormir sì posatamente:projecitque se, et obdormivit (3 Reg. XIX, 5). Ma io non me no stupisco. Non è certissimo ch’egli finalmente era un Santo? Poteva dormire. II mio stupore è veder dormire un Saule, dormire un Oloferne, dormire un Sisara, quantunque dormano sotto de’ padiglioni. E che sia di loro, se restino quivi còlti da chi gli insidia? Eppure piacesse al Cielo, che i loro esempi non si vedessero tuttodì rinnovati tra i Cristiani. Sono innumerabili quelli che vanno a letto in peccato mortale, senza por mente a tanti orrendi pericoli, che del continuo lor possono sovrastare da una corrente impetuosa di sangue, da un soffocamento di catarro, da una soppressione di cuore, da un solo animaletto pestifero che li morda. E questi possono giungere a chiuder occhio, tuttoché per breve momento? Oh stupidezza infinita! oh stoltizia immensa! Si trovano là nell’Africa certi animali fierissimi detti orìgi, somiglianti ai tori selvatici, i quali tanto si fidano di sè stessi, che si addormentano dentro le medesime reti dei cacciatori; e benché già d’ogni intorno non altro sentasi che annitrire cavalli, che abbaiar cani, non però si scuotono punto per procurare di scappare in tempo da’ lacci. Or non è questa veramente un’audacia meravigliosa? Ma tale appunto pare amo che sia quella de’ peccatori. Che dissi, pare? È certo, è certo. Sentitelo da Isaia: dormierunt in capite omnium viarum, sicut oryx illa queatus, pleni indignatione Domini (Is. LI, 20). Poteva dirsi più eccelsamente?. Coloro i quali, già colmi d’iniquità, pieni indignatione Domini, si tengono sempre a Lato le male pratiche; coloro che non restituiscono quella roba; coloro che non rendono quella riputazione; coloro che covano quell’odio occulto nel cuore, sanno molto bene di star conseguentemente negli alti lacci infernali. Eppur che vi fanno? Si scuoton forse, si affannano, si affaticano, per poterne uscir prontamente? Pensate voi. Vi dormono spesso a guisa di tanti orìgi: dormierunt sicut oryx illaqueatus. Oh cosa orribile! Dormierunt sicut oryx illaqueatus. Ed è possibile che mai giungasi a tanto di sicurtà? Chi vi fa certi, o meschini, che a danno vostro non sia già bandita una caccia universalissima di tutte le creature? che non siano lasciati i cavalli? lasciati i cani? E voi dormite, e dormite in qualunque luogo senza sospetto, in capite omnium viarum e dormite (può dirsi più?), o dormite talvolta, come un Sansone, anche in  seno alle meretrici? dormitis in lectis eburntis, et lascivitis! ( Amos. VI, 4).

IV. E qui dovete considerare, uditori, che se nessuno di noi non può mai promettersi un sol momento di vita (tanta è la gelosia con lo qual Dio fra tutti gli altri domin ha voluto a sé riserbare quello del tempo, molto meno promettere se lo può chi vive in peccato. Il peccato ha introdotta al mondo la morte; chi non lo sa? per peccatium mors ( ad Rom. V, 12): e però il peccato ha sempre ancor ritenuta questa possanza, veramente terribilissima, di affrettarla, di accelerarla, di far che giunga assai prima del suo dovere. Sono infiniti nelle Scritture que’ luoghi, in cui questa verità ci vien confermata. Ne impie agas multum: (Eccl. VII, 18); così appunto si dice nell’Ecclesiaste: non ti voler dare in preda all’iniquità: non vivere come vivi con tanta libertà, con tanta licenza: non fare, come suol dirsi di ogni erba fascio: Ne impie agas multum. E per qual cagione? ne moriaris in tempore non tuo (Ibid); per non aver a morire innanzi al tuo tempo. Imputi, antequam dies ejus impleantur, peribit ( Job. XV, 32); così pure in Giob si ragiona. Iniqui sublati sunt ante tempus suum ( Job 22 ,16); così pure in Giobbe si replica. Qui odit correptionem, minuetur vita (Eccli. XIX,5); così pur viene affermato dall’Ecclesiastico. E Salomone nei suoi Proverbi si protestò apertamente, che gli anni dei malvagi verrebbono dimezzati: anni impiorum breviabuntur (Prov. X, 27 ): cadendo i più di loro quasi lambrusche, prima fracide, che mature; o quasi loglio, prima inaridito, che adulto. Udite ciò che accedette allo scellerato imperatore Anastasio. Dormiva egli una notte agitato dalle solite faci delle sue furie, le quali più importune nel sonno, lo molestavano or con ombre orribili, or con pensieri ferali: quando apparendogli un personaggio di aspetto terribilissimo, con la penna nella destra, con un libro nella sinistra: mira, gli disse, come io per la tua empietà quattordici anni cancello della tua vita: En oh perversitatem fìdei tua quatuordecim tibi vita: annos deleo ( Baron. in Annal. t. 6, an. 518). Si destò a queste voci il misero Principe attonito ed angoscioso, né sapeva s’egli ciò dovesse temere come visione, o deridere come sogno. Quando indi a pochi giorni cominciò il cielo, di sereno ch’egli era, a rannuvolarsi, indi a lampeggiare ed a fremere, e a fulminare. Si colmò Anastasio di profondissimo orrore; e, quasi presagisse nell’animo esser lui quello, per cui concitavasi in cielo sì gran tempesta, si diede a correre, qual novello Caino, pel suo palazzo ora fuggendo d’una in un’altra sala, or d’una in un’altra stanza; ma tutto indarno. Scoppiò all’improvviso una rovinosa saetta, che a dirittura l’andò a trovare in un gabinetto segreto, dov’egli stava qual coniglio appiattato nella sua buca, ed ivi l’uccise: dando così chiaro a vedere che non v’è lauro, non dirò regio, ma neppure imperiale, che salvar possa da’ fulmini un capo iniquo. Ma voi frattanto che dite? Non vi par vero che gli anni de’ malvagi hanno ad essere dimezzati? anni impiorum breviabuntur. Eh non vi fidate, uditori, non vi fidate; perché quantunque voi vediate la morte sopra un cavallo spossato, squallido, scarno, qual era quello, su cui comparve là ne’ deserti di Patmos; contutto ciò vi so dire, che quando ella ha seco lo sprone, lo sa far correre. Ma non sapete qual è lo sprone? il peccato: Stimulus autem mortis peccatum est, così grida Paolo, Stimulus autem morti peccatum est (1 ad Cor. XV, 56). Alcuni, ahi quanto ingannati! si danno a credere che questo sprone siano anzi le penitenze; e però non prima essi mirano un lor compagno ritirarsi, raccogliersi, darsi alquanto alla vita spirituale, che subito fanno mostra dì compatirlo. Ed oh semplicetto! gli dicono: non vedete che voi vi volete ammazzare? Che semplicetto, che semplicetto? scusatemi s’io vi sgrido: semplicissimi siete voi, i quali non avete ancora imparato a conoscere bene lo stimolo della morte. Non è il digiuno quello che fa venir la morte sì rapida. Piuttosto io trovo promesso dall’Ecclesiastico, che qui abstinens est, adjiciet vitam (Eccli. XXXVII, 34). Non sono le discipline, non sono i silenzii, non sono i salmeggiamenti, non sono i letti assai duri. Se dicessimo questo, si leverebbe tosto su dalla tomba il gran Romualdo, penitente austerissimo di cento anni, e irato ci smentirebbe; ci smentirebbe un Girolamo, ci smentirebbe un Antonio, ci smentirebbe un Arsenio, ci smentirebbe un’infinità di mortificatissimi anacoreti, vissuti più d’ogni effeminato Lucullo. Ah! che lo stimolo della morte è il peccato: conviene intenderla: Stimulus autem mortis peccatum est. Sono quelle atroci bestemmie, che si lasciano alcuni con somma audacia scappar tutt’ora di bocca, sono i furti, sono le fraudi, sono le oppressioni dei poveri angariati, sono le confessioni sacrileghe, sono le comunioni sacrileghe, sono le tante ingratitudini orrende, che da noi si usano a chi ci ha donata la vita: essendo conformissimo a tutte le buone leggi spogliar del feudo, spogliar del fìtto, chi neghi l’ossequio debito al suo Sovrano (De feudis 1. 3, c. 1).

V. Ed oh così le angustie del tempo me lo permettessero, come io vi mostrerei volentieri con l’induzione perpetua di tutti i secoli, quanto sia negli empj frequente il perir di morti, non solo anticipate, come or dicevasi, ma parimente le più improvvise, le più impensate, che possano mai trovarsi. Ma per restringerci alle divine Scritture, pigliatele quante sono, ed esaminatele, vedrete, che di quei giusti, la cui salute non può rivocarsi in dubbio, niuno s’io non erro, si sa che mancato mai sia di caso fortuito, fuorché i figliuoli del pazientissimo Giobbe, rimasti oppressi dalle impetuose rovine di quel palazzo, che si cambiò loro subito in sepoltura. Eppure a questi medesimi quando accadde una tal disgrazia? Quando sedevano ad un allegro banchetto, ch’era l’ora appunto, in cui sempre il lor savio padre aveva in essi temuto di alcuna macchia, ben intendendo che a’ giovani tra i conviti nessuna cosa è più facile, che lordarsi. Nel resto, se riguardate a quei personaggi, che furono di giustizia più segnalata, a un Abramo, a un Aronne, a un Isacco, a un Giacobbe, a un Giuseppe, a un Giosuè, a un Samuele, a un Mosè, a un Matatìa, a un Tobia, e ad altri lor simili, vedrete, ch’essi morirono agiatamente nei lor letti, lasciando salutevoli documenti, quali alle loro proli, e quali ai loro popoli. Ma se per contrario vorrete dare agli empj una sola occhiata, almen di passaggio, oh come voi li vedrete miseramente rapiti, chi dall’acque, chi dalle fiamme, chi dalle fiere, e chi da cent’altre stranie guise di morti, tanto più orribili, quanto meno aspettate! Qunmodo facti sunt in desolationem! (gridò il Salmista atterritosi in contemplarli) subito defecerunt; perierunt propter iniquitatem suam (Ps. LXXII, 19). All’improvviso morì Faraone il superbo con tutte le sue milizie, assorbito dai gorghi dell’Eritreo. All’improvviso morirono quegl’ingordi, che sospirarono i carnaggi di Egitto. All’improvviso morirono quegli audaci, che biasimarono la terra di promissione; e all’improvviso morirono altri oltre numero nelle divine Scritture, i quali tutti, se fecero un egual fine, subito defecerunt, tutti parimente vedrete, che furon rei di qualche somigliante delitto: perierunt propter iniquitatem suam. Or che vi voglio, uditori, inferir di ciò? che gli empj sieno soli a mancar di morte sì orribile, qual è questa che chiamasi subitanea? Non già, non già. Sarebbe questo un errore manifestissimo, volendo Dio che alle pene proprie degli empi soggiacciano qui talvolta gli stessi Santi, o sia per purificarli, o sia per provarli, o sia per non dare a credere che finalmente sulla terra si termini ogni mercede. Dico bensì che, se dobbiamo dar fede all’induzione evidente delle Scritture, assai più frequente è nei peccatori un tal esito repentino, che non nei giusti. Udite da Salomone parole orribili: Viro, qui corripientem dura cervice contemnit, repentinus ei superveniet interitus (Prov. XXIX,1). Nè mancanoragioni ancor naturali da confermarcelo. Perocché spesso i peccatori procacciansìuna tal morte con la voracità delle crapule,di cui si gravano il ventre; con lasfrenatezza delle disonestà, in cui diffondonogli spiriti; con la libertà delle maldicenzeper le quali si acquistano de’ nemici; conle risse de’ giuochi, con la rivalità degliamori, con le facilità degl’impegni, conle malinconie delle invidie, con gli affannidelle ambizioni, e con altri tali disordini,da cui vive assai più lontano ogni giusto,a cui ben si può dir con l’Apostolo, cheogni cosa si volga in bene: omnia cooperantur in bonum (ad Rom. VIII, 28): mentrel’istessa mortificazione gli vale più di unavolta a tener lontana la morte. Comunquesiasi, sapete voi come Dio proceda congli uomini in questo affare? come appunto sifa co’ legni del bosco. Quando si va per reciderequalche legno da porre in opera, dafabbricarne uno scrigno, da formarne unostudiolo, da farne una bella statua, si vacon cento riguardi, e mirasi che sia saldo,sia stagionato, sia soprattutto reciso al suotempo proprio, qual è quello di luna scema.Ma non così quando si va per troncar legna solamente da ardere: allor si va d’ogni tempo. Peccatori indurati che legna sono? Legna da gettar sul fuoco. Chi non sa? Excidentur, et in ignem mittentur (Luc. III, 9). Però si tagliano ad ogni ora senza rispetto. Che tante cautele? Che tante circospezioni? non est respectus morti corum (Ps. LXXII, 4); non ci si guarda.

VI. Or se tanto è ancor più probabile a tutti voi, dilettissimi peccatori, il perir di una fine sì miserabile, la quale allora che voi meno il pensate vi soppraggiunga, o nel più profondo del sonno, o nel più bello del giuoco, o nel più lieto di alcun altro vostro piacevole passatempo; deh! vi prego, tornatemi a confessare: non è un’insensata temerità vivere un sol momento in colpa mortale? Che pegno avete, che fermezza, che fedi, sicché non succeda ancor a voi, come a tanti, i quali ducunt in bonis dies suos, aggravando il peccato col disprezzarlo, et in puncto ad inferna, descendunt? (Job. XXI, 13) tanto poi li fa rovinar presto il gran poso che giù li tira Ha forse Dio con qualche privilegio speziale rivelata a voi l’ora di vostra morte? o vi ha promesso almen di mandarvela, non come ladro che muova tacito il passo per non destarvi, ma qual corriere che suoni lontano il corno, perché gli apriate? Che c’è, che c’è, che vi rende sì baldanzosi? Cur quasi de certo extollitur, io vi dirò sbigottito con san Gregorio, cujus vita sub pœna incertitudinis tenetur? I Niniviti non prima udirono che la loro città fra quaranta giorni avevasi a subissare, che incontanente plenum terroribus pœnitentiam egerunt (Conc. Tr. sess. 14, c. 4): subito si vestirono di cilicio, subito si sparser di cenere; né si curarono di aspettar sopra ciò gli editti del loro Principe, il quale, come accade, fu l’ultimo a saper nuove così funeste, o fosse perché dava poco ardire, o fosse perché dava poco adito, o fosse perché ognuno, già quasi stolido, non badava se non che alla propria salvezza. Or donde mai così gran fretta, uditori? Non sapevano costoro di certo che ancor avevano una quadragesima tutta intiera di tempo? adhuc quadraginta dies (Jon. III, 4). Perchè non dissero dunque: aspettiamo un poco? A placar Dio non si richieggono molte ore, basta un momento. Un atto di contrizione presso l’aurora del quarantesimo giorno ci salverà. Così potevano certamente dir essi; e seguitare a mangiare, se erano a tavola; e finire il giuoco, se stavano a solazzarsi. Ma fingete che avessero proceduto così: qual giudizio voi ne fareste? Non vi par che sarebbero stati audaci, presuntuosi, protervi, e indegni di quel perdono, che riceverono mercé la loro prontezza? Ma quanto peggio, uditori, è nel caso nostro? I Niniviti potevano almeno universalmente promettersi una quarantina di giorni, concessi loro per termine perentorio alla penitenza; e però, dov’era maggiore la sicurezza, sarebbe stata minore la temerità, se persistevano ancor qualche ora di più nei loro peccati. Ma voi nemmeno siete sicuri di tanto; no. Dice Cristo: nescitis, quando tempus sit (Marc. XIII, 33). L’eccidio del vostro corpo non sol potrebbe esser prossimo, ma imminente. Potrebbe avvenire in questa settimana medesima che ora corre, in questa mattina, in questo momento, perché la morte se ne va sempre armata di spada e d’arco: Gladium suum vibrabit, arcum suum tetendit (Ps. VII, 13). Con la spada colpisce i vecchi, che più non si possono riparare; colpisce i delicati; colpisce i deboli: con l’arco i giovani, che superbi confidano nella fuga. E come dunque potrete giustificare la vostra temerità, se lascerete inutilmente trascorrere tempo alcuno, per minimo ch’egli sia? Che dite? che rispondete? come scusate in così gran pericolo il vostro ardire? Il cacciatore mai non potrebbe tenere in pugno il falcone con tanta facilità e con tanta franchezza, se non gli avesse ben prima serrati gli occhi. E così ha fatto il demonio con esso voi: vi ha chiusi gli occhi, uditori, vi ha chiusi gli occhi; però ne fa ciò che vuole.

VII. Un solo scampo veggo io pertanto che a voi rimaner potrebbe; e sarebbe il dire: che veramente voi non potete sapore di avere a vivere ancora più lungamente, ma che potete nondimeno sperarlo; che non ostanti tanti pericoli, quanti n’abbiamo contati, molti anche deI peccatori e campano, e ingrassano, e invecchiano, e muojono pacificamente CoI loro sensi; e che però voi volete anzi sperare una simil sorte, che temer di contraria infelicità. Ma piano di grazia; perché, se parlaste così, mi dareste a credere d’esservi già dimenticati affatto del punto di cui trattiamo. Sapete pure che trattiamo dell’anima: non è vero? e di un’anima, la quale è vostra, anzi è voi; e di un’anima, la quale è unica; e di un’anima, la quale è immortale; e di un anima, la quale è irrecuperabile? E di quest’anima Ah! memento, memento, io vi dirò con san Giovanni Crisostomo, memento quod de anima loqueris. E vi par questa così poco apprezzabile, che si debba commettere in mano al caso? Vi potrebbe sortire felicemente, su, si conceda: ma se non sortisse, ditemi un poco, uditori, se non sortisse? Che non vogliate mettervi sempre al sicuro in altri interessi umani, io me ne contento. Vi perdono che arrischiate la roba, che avventuriate la riputazione, che cimentiate anche spesso la sanità, perché tutte questo sono a guisa di merci, che finalmente, per troppo precipitosa risoluzione gittate in acqua, si possono ripescare dopo il naufragio. Ma l’anima? Ahimè! non è questa da premere così poco; perché dove la perdita, che si faccia, non ha riparo, chi non vede essere una somma temerità il non procedere con una somma cautela?

VIII. Eppure, oh stupidità! qual è quell’interesse, nel quale la cautela non usisi assai maggiore, che nell’eterno? L’imperadore Adriano ( Eutrop. 1. 8 ), perché seppe esservi oracolo, che ai dominatori di Roma sarebbe stato esiziale passar l’Eufrate, rendé spontaneamente ai Persiani tutta l’Armenia, tutta l’Assiria, tutta la Mesopotamia, conquistate già da Trajano, sol per assicurarsi di non avere, per qualunque evento, a varcare quell’acque infauste; e alle ripe d’esse costituì i termini dell’Imperio. Ma che star qui a mendicare successi illustri? Non sapete voi di voi stessi con quanto sicure regole vi guidiate in tutti gli affarucci privati di casa vostra? Se voi cadete in letto, non dite: lasciam di chiamare il medico, perch’io forse me ne rileverò senza medicina. Se voi andate alla guerra, non dite: lasciam di far testamento, perch’io forse me ne ritornerò con salute. Quando voi prestate buona quantità di danaro ad un vostro amico, non vi fidate sì subito; ma che fate? Fate come Tobia, il qual, quantunque conoscesse Gabelo per uomo retto, timorato, fedele, non però lasciò di richiedere da lui pure scrittura autentica: argenti pondus dedit sub chirographo ( Tob. 1 , 17 ). A seminare scegliete i giorni più atti; a litigare cercate gli avvocati più pratici; a trafficare eleggete i corrispondenti più accreditali; e, in una parola, non v’è negozio, nel qual vogliate, come suol dirsi, commettervi alla ventura, mentre voi potete procedere con certezza.E perché dunque in mano al caso verrete a porre un negozio il maggior di tutti, qual è quel della eternità? e potendo ora pentirvi, direte: no perché forse ancora avrò tempo a farlo di poi? Ah, Cristiani, credetemi ch’io non posso capire come ciò avvenga; e sono costretto con san Giovanni Crisostomo ad esclamare, estatico e forsennato per lo stupore : Incertis ergo eventibus te ipsum committis? Incertis ergo eventibus te ipsum committis? (Homil. 23 in ep. 2 ad Cor.) Voi non fidereste all’incertezza del caso una vostra lite, un vostro deposito, un vostro quantunque minimo interessuccio; e poi gli confidate l’anima vostra? Stupite, o cieli, sbalordite, o celesti, all’udir che fate di tanta temerità, perch’io sono certo non potere al mondo trovarsene la maggiore. Quis audivit talia horribilia, qum fecit nimis virgo Israel? (Jer. XVIII, 13).

IX. E tuttavia chi non vede che questa temerità stessa sarebbe più comportabile, se per qualche notabile emolumento si commettesse? Fu principio ricevutissimo in tutti gli affari umani quello di Appiano, che summm dementim est ob res leves discrimen ingens subire (De bello Hispan.). Un pericolo grande mai non deve eleggersi per un guadagno leggiero, perché ciò sarebbe come appunto pescar con un amo d’oro, il qual, perduto, reca tanto discapito, che non è compensabile con la preda che ci promette. Però se un agricoltore arrischia molte moggia di grano nella sementa; e se un banchiere avventura qualche numero di danaro nei cambj; e se un litigante consuma buona parte di rendite nelle mance; ciascuno il fa, perché molto più è quello che spera, che non è quello che arrischia: né, per quanto si volgano antichi annali, si troverà mai pilota si temerario, il qual sia scorso sino all’Indie remote a lottare con gli austri, a pugnare con gli aquiloni, per riportare di colà sul suo legno, in vece di un vello d’oro, sabbione o stabbio. Ma voi, Cristiani, che fate? Per qual emolumento vivete in così gran risico di perdervi eternamente? Per qual guadagno? Pare a voi che, messo in bilancia, preponderi il bene che vivendo in peccato voi ritraete, al mal che vi verrebbe, se moriste in peccato? Se nello stato presente di peccatori voi non morite, vi riesce, il concedo, di goder quel trastullo libidinoso, di accumular quel danaro, di acquistar quelle dignità, di arrivare a quella vendetta. Ma se morite? Se morite, si tratta di andar giù subito nel profondo a scontar così breve riso con un lutto infinito di tutti i secoli. E parvi comparabile il bene, che vivendo godete, al male che morendovi incorrereste? Ah uomini ingiusti? ah uomini irragionevoli! Omendaces filii hominum in stateris (Ps.LXI, 10). Com’esser può che del continuo preponderi presso voi un bene temporale, fugace, frivolo, vano, ad un male eterno? Non si troveranno in casa a verun falsario stadere tali, che possano giammai dire bugìe sì grosse, se non si fa sì che le dicano a viva forza. Però non sono mendaces stateræ in filiis hominum, ma mendaces filli hominum in stateris, perché voi siete, che date agli intelletti vostri il tracollo, come a voi piace, con ribellarvi a qualunque lume chiarissimo di ragione. Ipsi fucrunt rebelles lumini (Job. XXIV, 13).

X. Per le viscere di Gesù, non vi vogliate più lungamente ingannare da voi medesimi: Nolite decipere animas vestras (Jer. XXXVII, 8): riscuotetevi, ravvedetevi; e, cominciando da quest’ora stessa a rientrare dentro il cuor vostro, considerate un poco qual frutto voi ritraete dal vostro stato. E, s’è maggior l’emolumento che i1 rischio’, abbiate pure per nullo quanto io vi ho detto: ma s’egli è senza paragone inferiore, pietà, vi prego, pietà dell’anime vostre. Volete dunque avere a piangere un giorno, e a dir voi pure con Geremia tutto afflitto: Venatione ceperunt me quasi avem inimici mei gratis! (Thr. III, 52). Oh che amarezza sarebbe questa! oh che cruccio! oh che crepacuore! Parla qui il Profeta divinamente in persona di un peccatore, e si confonde di essersi appunto portato come un uccello, il quale si lascia bruttamente adescar dagli uccellatori: perché? per nulla, per nulla, gratis, per un vil grano di miglio. Venatione ceperunt me quasi avem inimici mei gratis. E voi volete pur essere di costoro? Ah Cristiani! e che mai sono tutti i beni terreni, paragonati non solamente al minore, ma ancora al minimo de’ mali eterni, a cui vi esponete peccando? Un grano di miglio? No, neppur tanto. E per sì poco vi contentate di andarvene mai sempre trescando intorno a tanti vostri terribili insidiatori, con gravissimo rischio di restar presi per tutti i secoli, di perdervi, di perire? O præsumptio nequissima, unde creata es? (Eccli. XXXVII, 3). dirò dunque con l’Ecclesiastico. Io non ho sensi che bastino a detestare così strana temerità. Convien che a forza rimanga qui come stupido ad ammirarla.

SECONDA PARTE.

XI. Se in un uomo, il qual, come polvere, può facilmente disperdersi ad ogni soffio, è somma temerità, come abbiam veduto, vivere un sol momento in colpa mortale; che mi potrete questa mattina rispondere a favor vostro, voi, che in simil colpa vivete non i momenti, ma i giorni, ma le settimane, ma i mesi, ma gli anni interi, diebus innumeris? (Jer. II, 32) Operate voi con prudenza? procedete voi con saviezza? Qual probabilità vi rimane di non dannarvi? Nemo se tuto diu periculis offerre tam crebris potest, diceva Seneca (Herc. fur. act. 2, se. 2). E perchè? Quem sape transit casus, aliquando invenit. Passare una volta sul trabocchetto, e non rovinare; dare una volta nelle panie, e non invischiarsi; succhiare una volta il tossico, e non perire non è gran fatto. O sia protezione del Cielo, o sia condizione della sorte, talora accade. Ma che non perisca chi vuol saziarsi di tossico, come d’acqua; che non s’invischi chi si vuol abbandonar su le panie, come su’ fiori; che non rovini chi vuol andare a ballare su i trabocchetti, come sopra saldissimi pavimenti, dove mei troverete? Se dunque è tanto insensata temerità l’esporsi una volta sola a pericolo di dannarsi, e l’esporvisi un sol momento; che sarà il dimorarvi sì lungo tempo, che siano molto più nell’anno quei giorni, ne’ quali siete evidentemente soggetti a un simil pericolo, che non quegli altri, in cui ne siete probabilmente sicuri?

XII. È curiosità cognissima fra’ Cristiani il domandare se nella Chiesa più siano quei che morendo vadano a salvamento, o più quei che trabocchino in perdizione. A me non tocca ora entrare arbitro in sì gran lite; e quando toccasse a me, inclinerei più volentieri alla parte più favorevole, e direi maggior essere fra i Cattolici il numero degli eletti che dei dannati. Ma benché molti concorrano ancor essi in questa opinione, non so però, se pur uno ne rinverrete, o fra’ moderni Teologi o fra gli antichi, il quale vi dica, che la maggior parte dei peccatori abituali si salvi. Oh questo no. San Gregorio (L. 25 in Job., c. 2), sant’Agostino (De ver. et fal. pæn. c. 17), sant’Ambrogio (Adhort. ad pœn.), san Girolamo (Relat. ab Euseh. in Epist. ad Damas.), che sono i quattro principali Dottori di Santa Chiesa, senton tutti concordemente l’opposto, e le parole precise di san Girolamo, le quali a me son parute le più espressive, son le seguenti; Vix de centum millibus hominum , quorum mala fuit semper vita, meretur a Deo habere indulgentiam Unus. Né sia chi se ne stupisca; perché così l’uomo muore generalmente com’è vissuto. Quando si sega un albero, da qual parte viene a cadere? da quella dalla qual pende. Se pende a destra, cade a destra; se pende a sinistra, cade a sinistra. Quei malviventi pendono sempre a sinistra; e poi, segati, pretendono di cadere ancor essi a destra, com’è de’ buoni? Bisognerebbe che si levasse su quel punto a pro loro una grazia tale, che qual furiosissimo vento li rispingesse con impeto prodigioso alla parte opposta.  Ma chi è fatto mai meritevole di tal grazia? Vix de centum millibus unus; di cento mila, a gran fatica, uno solo. Come dunque, sapendo voi di trovarvi in un tale stato, da cui con molto maggior verissimilitudine può inferirsi che voi dobbiate appartenere ai dannati più che agli eletti, non commettete un’insana temerità, persistendovi ancora più lungamente? Quando anche dei peccatori simili a voi avessero i più a salvarsi, e i meno a perire, dovreste nondimeno temere senza intermissione di non essere a sorte fra questi miseri. Or che sarà, mentre i più avranno a perire, e i meno a salvarsi? Arnolfo conte di Fiandra era travagliato una volta da’ dolori acutissimi della pietra. Trattarono i suoi medici e i suoi cerusici di procedere al taglio: ma egli volle vederne prima la prova in qualche altro corpo. Furono però ricercati tutti coloro, i quali nel suo stato pativano del suo male, e ne furon trovati venti. Furono aperti dagli stessi cerusici, furon curati da’ medesimi medici, e tanto felicemente, che di venti morì non altri che un solo. Tornarono però tutti festosi al Conte rincorandolo al taglio: ma egli, quando udì che pur era fallito in uno, in cambio di animarsi, s’impallidì. E chi di voi mi assicura, rispose loro, che a me non tocchi la sorte di questo misero? E così più timido per la morte di uno, che speranzoso per la salute di diciannove, non sofferse mai di commettersi a tal cimento. Ora fingete voi che dei venti infermi tagliati, non dicianove fossero stati i guariti, ed un solo il morto, ma diciannove i morti, e un solo il guarito: che avrebbe allora risposto il prudente Principe? Come avrebbe scacciati lungi da sé quei cerusici arditi, quei medici temerarj? Avrebbe mai sopportato di esporsi al taglio, con la speranza di dover essere egli quell’uno sì fortunato? Ah! Cristiani miei cari, quella temerità, che nella cura del corpo parrebbe sì intollerabile, è quella appunto la quale voi commettete, ma nel governo dell’anima. San Girolamo afferma, che non di venti o di trenta, ma di centomila peccatori abituali appena uno è quel che si salvi: Vix de centum millibus unus. Ed è possibile che voi più siate animosi per la sorte di uno, che timorosi per l’infortunio di novantanovemila novecento novantanove? Dieci erano quei fratelli, i quali andarono a Giuseppe in Egitto per gli alimenti: eppure, quando udirono ch’uno d’essi doveva restare ivi in prigione, fu nei lor cuori universale l’affanno. Dodici quei discepoli, i quali furono convitati da Cristo in Gerusalemme innanzi al morire: eppure, quando ascoltarono ch’uno d’essi doveva convertirsegli in traditore, fu ne’ lor volti comune la pallidezza. Ed il sapere che i tanti più di quegli, che vivono come voi, dovranno dannarsi, non recavi alcun timore? Ecco dunque avverato del peccatore quello che leggesi in Giobbe: Dedit ei Deus locum pœnitentiæ, et ille abutitur eo in superbiam (Job XXIV, 23). Oh che superbia! oh che superbia! sperare di dover esser quell’uno fortunatissimo che si salvi fra tanta strage! quel sì privilegiato! quel sì protetto! quel che un dì possa da tutto il Paradiso venire mostrato a dito come un prodigio! Tamquam qui evaserit, e sono appunto parole dell’Ecclesiastico, tumquam qui evaserit in die belli (Eccli. XL, 7); da che? da un’alta rolla campale universalissima. Lasciate eh’ io corra a’ piedi di questo Cristo, e che qui mi sfoghi.

XIII. Gesù mio caro, e donde mai tanta audacia nei cuori umani? Chi gli ha resi sì stupidi? Chi gli ha fatti sì sconsigliati? Forse è così grande il diletto che hanno in offendervi, che niente ad essi rilevi ogni loro danno, purché disgustino voi? Oh s’io sapessi qual via dovessi almeno io qui praticare in questa Quaresima per umiliarli, per umanarli, per renderli tutti vostri! Volete ch’io li preghi in omni patientia? (2 ad Timoth. IV, 2) li pregherò. Volete ch’io gli ammonisca? gli ammonirò. Volete che io gli atterrisca? gli atterrirò. Volete ch’io severo ancor gli sgridi, et increpem illos dure? (ad Tit. 1,13) gli sgriderò. Son qui per voi. Comandate, ch’io farò tutto: Omnia, quæ præcipies mihi, ego loquar, omnia, omnia (Jer. 1, 17). Non chiedo acclamazioni, non chiedo applausi: chiedo di piacer solo a Voi. Chi sa che questa non abbia ad esser per me la Quaresima ultima di mia vita? Ecco però che con lo ceneri in capo voglio andare altamente per Voi gridando: penitenza, o mio popolo, penitenza. Non più si tardi a smorbar tante oscenità; non più si tardi a sradicare tanti odi; non più si tardi a piangerò amaramente ogni reo costume. Non vuoi tu farlo? A quelli ceneri adunque, a

quelle ceneri appello, che abbiamo in capo. Eccole qua, discopriamole, dimostriamole. Non lo veggio io questa mano egualmente sparse e su le chiome canute, e su i crini biondi? Adesso dunque io mi riporto, esse dicano, esse sentenzino, se vi può essere temerità pari a questa: confessarsi mortale in ogni momento, e pur fidarsi di vivere alcun momento in colpa mortale.

CONOSCERE SAN PAOLO (51)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

IV. — LA PERFEZIONE CRISTIANA.

1. LA VIA DEI CONSIGLI. — 2. L’IMITAZIONE DI GESÙ CRISTO.  — 3.    L’ASCESI CRISTIANA. — 4. L’EUCARISTIA SIGILLO DELLA PERFEZIONE.

1 . Si è potuto constatare che la parenesi di san Paolo, oltrepassando di molto lo stretto obbligo, è molte volte un ideale più che una norma imperativa. E come potrebbe essere diversamente? Quando si dice ai fedeli: « Abbiate i sentimenti che furono nel Cristo Gesù », si spalanca loro la porta dei consigli evangelici. Dopo che si fece sentire quel si vis perfectus esse del divin Maestro, una moltitudine di anime generose si sono messe spontaneamente per quella via, e gli Apostoli ve le esortano senza farne loro un dovere rigoroso. Quando san Paolo colma di elogi la verginità e raccomanda la continenza di cui egli stesso fa professione, ha cura d i avvertire che essa è un dono di Dio e che richiede una chiamata speciale della grazia; ma questa grazia è largamente offerta, e spetta all’uomo il corrispondervi. Se l’anima nostra è la tela su cui si deve ricamare l’immagine vivente di Gesù Cristo, vi saranno certamente dei tratti proposti alla nostra imitazione senza essere imposti alla nostra coscienza: pagare i debiti è giustizia; rendere più del dovuto è generosità o riconoscenza; dare tutto senza contare, è amore. Bisogna pure che i protestanti qui si pronunzino; e qualcuno era lo fa con bel garbo. Uno di essi scrive, riguardo al consiglio di verginità del quale si è  parlato: « Il celibato cristiano nonmerita punto il nostro disprezzo; esso è — o può essere — degno di ammirazione; sotto il suo migliore aspetto, è di certo preferibile al matrimonio… Iprotestanti possono non sentire volentieri quest’asserzione; ma bisogna inchinarsi dinanzi ai fatti, ed è un fatto che san Paolo incoraggia la continenza. E il protestante stesso può, se lo desidera, scoprire delle ragioni per simpatizzare con la dottrina di Paolo (R.Mackintosh, Marriage probl. In Corinth. P. 350) ». Il Cattolico invece trova affatto naturale la dottrina di Paolo, perché in essa trova un’eco diretta dell’insegnamento di Gesù (Matth. XIX, 12; XIX, 21). La perfezione è una carriera che non ha limiti: a qualunque grado sia arrivato, il Cristiano può sempre aspirare a salire più alto, ed è compito del predicatore lo stimolarlo in questo nobile sforzo: « Noi predichiamo il Cristo, esortando e istruendo ciascuno con ogni sapienza, per presentare (a Dio) ogni uomo perfetto nel Cristo (Col. I, 28) ». Ma passerà tutta la vita prima che lo scopo sia pienamente raggiunto, perché la misura proposta al Cristiano, come membro del Corpo mistico, è la perfezione del Capo, cioè di Gesù Cristo, ed è evidente che non vi arriverà mai.

2. A torto si è preteso che san Paolo, a differenza degli evangelisti, non proponga alla nostra imitazione il Cristo storico, ossia la Persona di Gesù Cristo considerata nella sua vita mortale. Senza dubbio nella vita terrena di Gesù vi sono molti tratti, come i miracoli e le manifestazioni della divinità, che sfuggono all’imitazione. È però imitabile, ed espressamente ci esorta ad imitarlo, quando si abbassa e si annienta, quando si mette in ginocchio dinanzi ai suoi discepoli per lavare loro i piedi, quando si lascia colmare d’ingiurie e di oltraggi, quando si carica della croce per nostro amore (Giov. XIII; Matth. XVI, 24). Questo pure è il modello che san Paolo ci presenta. Per indurci a piacere agli altri « in tutto ciò che è bene, per l’edificazione », invoca l’esempio del Cristo « il quale non si compiacque in se stesso (Rom. XV, 3) ». Per farci conoscere il merito e il valore della limosina, dell’abnegazione, dell’obbedienza, ci ricorda che il Cristo spontaneamente cambiò le ricchezze del cielo con l’indigenza della terra, che si annientò prendendo un corpo simile al nostro e spinse l’eroismo dell’obbedienza fino alla morte di croce (II Cor. VIII, 9; Fil. II, 5-11; I Piet. II, 21). Se tutta via la vita mortale di Gesù ha una parte abbastanza limitata nella morale di san Paolo, come anche nella sua teologia, bisogna ricordare che l’Apostolo preferisce considerare Gesù Cristo quale è presentemente nella sua vita gloriosa; ed egli non ci esorta soltanto a imitarlo, a modellarci su Lui, ma a trasformarci in Lui. Egli c’invita arivestire il Cristo, a riempirci dei sentimenti del Cristo, a vivere della vita del Cristo: « Io vivo, non più io, ma è Gesù Cristo che vive in me (Gal. II, 20) ». A che serve parlare d’imitazione, dal momento che l’Apostolo mira all’identità mistica? – È anche vero che nel darci Gesù Cristo come modello, Paolo suole interporre se stesso tra il Cristo e noi, come un’immagine vivente del Maestro: otto o nove volte nelle sue Epistole si trova questa formola in una forma poco diversa: « imitate me, come io imito il Cristo (I Cor. XI, 1) ». L’esempio è il più breve ed il più efficace degli insegnamenti: ora tutta la vita di san Paolo fu una continua morale in azione. Quello che vi è di curioso in questa predicazione muta, è che essa era un procedimento studiato e un complemento voluto della predicazione orale. Non vi era né ostentazione né vanagloria, ma quella condiscendenza paterna che sa adattarsi alla debolezza e che, per istruire meglio, si rivolge ora agli occhi, ora alla mente e ora al cuore. Egli diceva ai Tessalonicesi: « Voi stessi sapete come bisogna imitarci; poiché non siamo vissuti in mezzo a voi nel disordine, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno, ma nel lavoro e nella pena, faticando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi. Non già che non ne avessimo il diritto, ma volevamo darvi in noi medesimi un modello da imitare (II Tess. III, 7-10) ». La parola degli araldi della fede è davvero eloquente, quando la loro condotta dà un tale appoggio al loro insegnamento. – L’imitazione del Cristo apre alla perfezione orizzonti infiniti: è la morte dell’egoismo e della ricerca personale di sé. Ecco alcune delle massime che ispira a san Paolo: « Non guardare al proprio interesse, ma a quello degli altri. — Rallegrarsi con quelli che sono nella gioia, piangere con quelli che piangono. — Sopportare le debolezze altrui e sforzarsi di piacere a tutti per il bene, per dare edificazione. — Ricordarsi… che vi è maggiore felicità nel dare che nel ricevere (10) ». Nell’Epistola ai Romani san Paolo fa la teoria di questa rinunzia volontaria a vantaggio della carità. A Roma vi erano degli scrupolosi che si astenevano da certi cibi o da certe bevande, e che stabilivano delle differenze tra i diversi giorni dell’anno, del mese o della settimana. Quelle anime piccine non formavano un gruppo distinto e non avevano un sistema preciso, ma, come tutti gli scrupolosi, obbedivano a vane apprensioni o a ripugnanze irragionevoli. Essi non cercavano d’imporsi agli altri in nome di una dottrina. « Deboli nella fede », essi erano soprattutto deboli di carattere e per conseguenza esposti ad essere trascinati dall’esempio, anche in cose che avrebbero ferito la loro scienza male formata. Subivano forse, senza saperlo, l’influenza del giudaismo? Anche questo non è impossibile, benché sembri piuttosto che fossero stati sedotti da un ideale Ascetico inconsiderato, per quanto rispettabilissimo in se stesso (Rom. XIV, 1; XV, 4). Ad ogni modo non erano affatto giudaizzanti aggressivi, come quelli di Antiochia, di Gerusalemme e della Galazia, né dualisti dogmatizzatori come quelli di Colossi. L’Apostolo, così pronto a fulminare l’anatema contro tutti i campioni delle false dottrine, non li tratterebbe con tanta dolcezza e con tanto riguardo. Egli vuole che i forti, cioè iCristiani illuminati, sopportino i deboli, soggetti agli scrupoli, senza neppure importunarli con discussioni sterili; che si astengano dal giudicarli e dal condannarli; anzi evitino di urtarli e di contristarli con un modo di fare contrario al loro. Il mantenimento della pace e dell’unione vale pure questi sacrifici: « È bene (per te) il non mangiare carne, il non bere vino e il rinunziare a tutto ciò che potrebbe essere per tuo fratello un’occasione di caduta, di scandalo o di debolezza (Rom. XIV, 21)… Se mio fratello è scandalizzato per un alimento, io non mangerò mai più carne per non scandalizzare mio fratello (I Cor. VIII, 13) ».

3. Chi vuole camminare s u le orme di Gesù dev’essere pronto a qualunque sacrificio. Osserviamo Paolo suo imitatore fedele. Come araldo del Vangelo, potrebbe vivere del Vangelo; come Apostolo dei Corinzi, dovrebbe essere mantenuto da loro. Il soldato è mantenuto dal suo capitano, e l’operaio da colui che lo impiega; e per farci intendere questa verità di senso comune, Mosè proibisce di mettere la musoliera al bue che trebbia le messi nell’aia (I Cor. IX, 1-15). Eppure Paolo non si è mai valso di tale diritto: egli si affatica come un operaio nel lavoro manuale per non essere di peso a nessuno; si fa un vanto e un dovere di predicare gratuitamente la parola di Dio « per non mettere ostacolo al (la diffusione del) Vangelo (I Cor. IX, 12) ». Con questo scopo accetta in anticipo tutte le rinunzie: « Libero verso tutti, mi sono fatto servo di tutti, per guadagnarne un maggior numero… Mi sono fatto tutto a tutti per guadagnarne almeno alcuni (I Cor. IX, 20-22) ». Non è soltanto lo zelo che lo spinge: egli obbedisce a una considerazione più nobile: « I corridori dello stadio — non lo sapete? — corrono tutti, ma uno solo riporta il premio. Voi correte in modo da riportare il premio. Ora, chiunque prende parte alla lotta si astiene da tutto: essi per una corona peritura; noi per una imperitura. Per me, io corro, non già come alla ventura; io batto, non come se battessi l’aria. Ma io castigo il mio corpo e lo tratto da schiavo, per timore che, dopo di essere stato per gli altri araldo, non sia io stesso escluso (dalla palma) (I Cor., 24-27). -Si sa quanto fosse lunga e rigorosa presso gli antichi la preparazionealle gare atletiche. Per dieci mesi e più, un regolamento minuziosoe tirannico fissava al candidato le ore e la durata dei suoiesercizi, dei suoi pasti, del suo sonno che doveva prendere sopra ungiaciglio tanto duro da non conservare l’impronta del corpo. Dovevaagguerrirsi contro la fame e la sete, il freddo e il caldo, il sole e la polvere, la fatica e le intemperie. Non soltanto gli erano severamente vietati i piaceri della tavola e dell’amore, ma non doveva bere vino perché riscalda, né bevande fresche, col pretesto che indeboliscono. E tutto questo per la prospettiva di una corona di foglie, che doveva ornare la fronte del fortunato vincitore.San Paolo, paragonando la vita presente ad un’arena, paragona se stesso al lottatore che disputa il premio della corsa e del pugilato. Come il corridore dello stadio, egli ha continuamente gli occhi fissialla mèta e non la perde di vista un momento; come il pugilatore,mena colpi terribili al suo avversario il quale non è altri che lui medesimo.Per capire il realismo raccapricciante delle sue parole, bisognaessersi fermati a osservare quelle antiche statue in cui il pugilatore è rappresentato con le orecchie tumefatte, gli occhi gonfi, il labbro cascante, i denti spezzati, con tutta la faccia pesta e insanguinata. Quando uno degli avversari, ansante e mezzo morto, giaceva a terra, il suo rivale gli metteva il ginocchio sul petto per far constatare la sua sconfitta. Ecco il trattamento che l’Apostolo infligge al suo corpo: egli lo colpisce senza pietà come un nemico mortale e lo tiene sotto i suoi piedi come uno schiavo ed un vinto. Quanto il suo ministero gli dovette costare di fatiche, di pericoli, di privazioni e di patimenti, lo potremmo indovinare facilmente, ancorché non avessimo le sue confidenze discrete (II Cor. XI, 23-30). Egli sopportòtutto con rassegnazione, con allegrezza; egli infatti sa che l’apostolo, ad esempio del suo Maestro, è salvatore soltanto per mezzo della croce: « Mi rallegro nelle mie tribolazioni e compio nella mia carne quello che manca ai patimenti del Cristo per il suo corpo che è laChiesa (Col. I, 24) ». Alle prove suscitate dagli uomini o mandate da Dio,egli aggiunge le rinunzie volontarie. Tutta la sua ambizione è di« portare dovunque nel suo corpo la crocifissione di Gesù (II Cor. IV, 10) » e di« portare nella sua carne le stimmate (Gal. VI, 17) » sanguinose del Crocifisso. Questo atteggiamento verso le creature e verso se stesso, per quantosia generoso, non presenta ancora altro che il lato negativo della perfezione. Esso produce l’effetto di rompere tutti i vincoli che legavano l’anima alla terra, e di allontanare gli ostacoli che impedivano il suo slancio verso il cielo. Tale fu la disposizione di san Paolofin dal primo momento della sua conversione. « Le cose che erano per me vantaggi, io ho considerate come danno per causa del Cristo. Anzi io considero tutte le cose come una perdita, per causa dell’eccellenza della conoscenza del Cristo Gesù mio Signore, per il qualeho rinunziato a tutto, e le considero come fango, a fine di avere non già la mia giustizia che viene dalla legge, ma quella che è per mezzodella fede del Cristo, la giustizia che viene da Dio (fondata) sopra la fede (Fil. III, 7-9) ». Non contento di purificare l’anima sua dagli affetti terreni, si volge verso il modello inimitabile e si sforza di riprodurlo. Non che io abbia già raggiunto (la mèta) o che sia già perfetto; ma io corro per cercare di prendere quello per cui io stesso fui preso dal Cristo Gesù.No, fratelli, io non mi credo ancora arrivato. (Io miro soltanto a) una cosa: dimenticando quello che è dietro di me e tendendo tutti i miei nervi verso quello che mi sta davanti, io corro diritto alla mèta, verso la palma lassù dove Dio mi chiama nel Cristo Gesù (Fil. III, 12-14). L’allegoria della corsa qui è trasparente. Il guardarsi dietro le spalle, per il corridore dello stadio, è un atto altrettanto inutile che pericoloso: egli deve tenere lo sguardo costantemente fisso davanti a sé, per non deviare dalla linea retta e anche per prevenire le sorprese, gli accidenti e gli ostacoli che potrebbero ritardare la sua corsa o farlo cadere. Il desiderio di vincere gli dà le ali, ed egli tende verso la mèta tutti i suoi nervi ed i suoi pensieri, sapendo benissimo che un momento di tregua può fargli perdere la vittoria. Possiamo osservare nelle immagini antiche quei corridori agili che toccano appena col piede la terra, col busto proteso in avanti e le braccia tese verso la mèta che divorano con gli occhi. Nella via della perfezione non vi è né tregua né riposo: ecco perché san Paolo dimentica volontariamente quello che ha già fatto; lo cancella dalla sua memoria e ne distrugge il ricordo. La sua unica preoccupazione è di avanzarsi sempre, di avvicinarsi sempre più alla mèta, di diminuire gradatamente la distanza che lo separa dal suo modello sublime. Questo sforzo incessante verso il meglio, questa continua tensione della sua anima, Paolo la esprime con una forza intraducibile quando dice: ad ea quæ priora sunt extendens meipsum. – Però san Paolo prevede che non tutti i fedeli sono maturi per questa dottrina. Parecchi non l’intenderanno o la intenderanno a rovescio. Con tali spiriti, piuttosto lenti che indocili, egli sa temporeggiare e condiscende alla loro debolezza: « Noi tutti che siamoperfetti, egli dice loro, abbiamo questi sentimenti; e se voi in qualchepunto siete di parere diverso, Dio stesso vi illuminerà, al riguardo (Fil. III, 15-16) ».

4. È possibile, senza l’Eucaristia, arrivare a questo ideale di perfezione? « Se non mangiate la carne del Figliuolo dell’uomo, disse Gesù, e se non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi … Perché la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda ». Intese nel senso naturale, queste parole c’insegnano che il pane e il vino eucaristico sono tanto necessari al mantenimento ed al progresso della vita dell’anima, quanto è necessario il nutrimento materiale alla vita del corpo. Noi possiamo nascere alla vita della grazia senza l’Eucaristia, ed ecco perché il Battesimo, di fatto o di desiderio, è esso solo di necessità di mezzo; ma non possiamo conservare a lungo questa vita, fortificarla ed accrescerla, senza l’alimento eucaristico, eccetto un miracolo paragonabile a quello di un corpo umano che crescesse di statura e di vigore, benché privo di ogni nutrimento. L’Eucaristia è dunque necessaria, non soltanto come l’osservanza dei precetti di Dio e della Chiesa, per evitare la morte del peccato, ma come condizione normalmente richiesta per perfezionare in noi la vita del Cristo. San Paolo arriva al medesimo risultato per una via affatto diversa. Mentre san Giovanni considera il compito dell’Eucaristia nella vita dell’anima individuale, egli lo considera nei suoi rapporti col corpo mistico: « Il calice di benedizione che noi benediciamo non è la comunione al sangue del Cristo? e il pane che spezziamo non è forse la comunione al corpo del Cristo? Perché non vi è che un solo pane, noi formiamo tutti un solo corpo poiché tutti noi partecipiamo a questo medesimo pane (I Cor. X, 16-17) ». Il commento di san Giovanni Crisostomo è assai profondo: « Paolo non dice già partecipazione, ma comunione perché vuole esprimere una più intima unione. Infatti nel comunicarci noi non partecipiamo soltanto al Cristo, ma ci uniamo con Lui. E siccome questo corpo è unito col Cristo, così per mezzo di questo pane noi siamo uniti al Cristo… Ma che dico io di comunione? Paolo dice: Noi siamo identicamente questo corpo. Infatti che cosa è questo pane? È il corpo del Cristo. E Che cosa diventiamo noi ricevendo questo pane? Il corpo del Cristo: non parecchi corpi, ma un corpo solo ». – Sembra dunque che senza l’Eucaristia che è «il sacramento della pietà, il segno (efficace) dell’unità, il vincolo della carità », secondo la celebre frase di sant’Agostino, il corpo mistico non avrebbe tutta la perfezione che gli spetta. I cristiani non sarebbero uniti al Cristo né uniti tra loro con quella unione ineffabile che produce la comunione e che il Signore volle per la sua Chiesa nell’istituire l’eucaristia. Se la nostra incorporazione col Cristo, per mezzo della fede e del Battesimo, è sufficiente per la salvezza, la Comunione col Cristo è indispensabile per la perfezione sociale del corpo mistico ed anche, normalmente, per la perfezione individuale del Cristiano. La conseguenza è evidente per chiunque si ricordi che l’alimento eucaristico, a differenza del nutrimento ordinario, ha la proprietà di trasformare noi in Lui.

CONOSCERE SAN PAOLO (50)

LIBRO SESTO

I frutti della redenzione.

CAPO I.

La vita cristiana.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. PRECETTI DI MORALE INDIVIDUALE.

1. LE TRE VIRTÙ TEOLOGALI. — 2. PREMINENZA DELLA CARITÀ. — 3. VIRTÙ E VIZI. — 4. LA PREGHIERA. — 5. VIRTÙ MINORI.

1. La fede, la speranza e la carità sono la base, il corpo e il culmine della vita cristiana: la fede comincia, la carità consuma, la speranza è l’anello di congiunzione. San Paolo vuole classificarle a parte e fa notare la distanza che le separa dalle altre virtù. Egli esorta i Tessalonicesi a rivestire « la corazza della fede e della carità, e l’elmo della speranza (I Tess. V, 8)», perché la fede congiunta con la carità rende il Cristiano invulnerabile, e la speranza gl’insegna a non temere nulla e ad osare tutto. Egli loda in essi « l’opera della fede, il lavoro della carità e l’appoggio della speranza (I Tes. I, 3)», perché la fede sincera è attiva, la vera carità è infaticabile, e la speranza soprannaturale è capace di soffrire tutto. Al contrario dei carismi che passano e il cui compito è transitorio, « la fede, la speranza e la carità rimangono ( I Cor. III, 13) ». Il numero dei casi in cui le tre virtù sfilano insieme è significativo e apparirà ancora più sorprendente se alla speranza si sostituisce uno dei suoi sinonimi o se si riflette che essa è virtualmente compresa nel binomio fede e carità che tante volte ritorna sotto la penna dell’Apostolo (Gal. V, 6). Quando viene associata alla carità e alla speranza, la fede non è più il primo movimento di accesso dell’anima verso Dio e la presa di possesso della giustizia: essa è allora un abito soprannaturale che dà alle diverse manifestazioni della vita cristiana il loro impulso, la loro orientazione e la loro tonalità. Questo carattere della fede stabile è molto più accentuato nelle Pastorali, dove la formula « nella fede » si trova stereotipata; non manca però neppure nelle altre Lettere. L’Apostolo raccomanda ai Corinzi di restare fermi nella fede, di provarsi per vedere se sono nella fede; ai Colossesi raccomanda di perseverare nella fede, di fortificarsi nella fede; si rallegra di vedere i Tessalonicesi fermi nella fede; egli stesso vive nella fede del Figlio di Dio. Evidentemente in tutti questi esempi la fede non è un atto che passa, ma una virtù. Per i classici greci, la speranza era l’attesa vana oppure motivata di un avvenimento o lieto o disgraziato. Tale significato è estraneo alla Bibbia: qui la speranza è sempre l’attesa sicura di un bene futuro:il male si teme, non si spera. La speranza ha sempre per oggetto le promesse divine: la salvezza, la vita eterna, la risurrezione; essa abbraccia tutto l’oggetto della fede in quanto ci riguarda ed è futuro (Ebr. XI, 1). Siccome essa dev’essere fondata nella ragione, appartiene soltanto ai Cristiani. I Gentili non hanno speranza (Ephes. II, 12; I Tess. IV, 13); la speranza degli empi, non essendo altro che un’illusione menzognera, perirà; invece quella dei Cristiani è certa, « essa non confonde (Rom. V, 5) » perché si appoggia sopra la fede; essa è dunque per loro una fonte inesauribile di coraggio, di gioia e di felicità intima. La speranza e la fede si aiutano a vicenda; se la fede agisce sulla speranza, la speranza reagisce sulla fede; l’una e l’altra trae dalla carità il suo valore e il suo prezzo, ma l’una e l’altra infiamma la carità e la stimola all’azione (Col. I, 4-5). Soprattutto la speranza che ha per simbolo l’elmo e il cui carattere distintivo è l’ardore, l’intrepidezza e l’audacia, non si lascia fermare da nessun ostacolo, né smuovere da nessun pericolo né stancare da nessun ritardo. La prova, invece di abbatterla, la rende più stabile: «  La tribolazione produce la costanza; la costanza, una virtù provata; la virtù provata, la speranza (Rom. V, 4) ». La speranza è ad un tempo il principio e il termine di questa evoluzione verso il meglio, poiché vi è compenetrazione parziale e causalità reciproca tra le virtù cristiane.

2. La fede, la speranza e la carità camminano volentieri insieme, ma la carità precede sempre le due sorelle. Bisogna leggere tutta di seguito la pagina meravigliosa che san Paolo consacra al suo elogio e che giustamente fu chiamata l’inno della carità: « Cercate i carismi migliori; ma io vi indicherò ancora una via più eccellente. Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli, se non ho la carità, non sono che un bronzo rumoroso o un cembalo squillante. E quando avessi il dono della profezia ed una fede capace di trasportare le montagne, se non ho la carità non sono nulla. Se io distribuissi (ai poveri) tutti i miei beni e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità tutto questo non mi serve a nulla. La carità è paziente, è benevola; la carità non invidia; la carità non si vanta, non si gonfia, non fa nulla di sconveniente, non cerca il suo interesse, non si adira, non imputa il male; non si rallegra dell’ingiustizia, ma simpatizza invece con la verità; essa scusa tutto, spera tutto, crede tutto, sopporta tutto. – La carità non perirà mai. Se (mi nominate) le profezie, queste svaniranno; le lingue cesseranno; la scienza avrà termine. Poiché noi sappiamo parzialmente e profetiamo parzialmente; ma quando verrà quello che è perfetto, svanirà quello che è parziale. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; quando sono diventato uomo, mi sono spogliato di ciò che era da bambino. Ora vediamo attraverso uno specchio, in immagine; allora (vedremo) a faccia a faccia. Ora conosco parzialmente; allora invece conoscerò come io medesimo sono stato conosciuto. Ora rimangono la fede, la speranza, la carità, queste tre (virtù capitali); ma la più grande di esse è la carità » (I Cor. XII, 31; XIII, 13). – Questo brano lirico è  la stessa chiarezza, e qualunque commento lo guasterebbe. Cerchiamo soltanto di raccoglierne le idee dominanti e di raggrupparle sotto tre capi.

La carità è la regina delle virtù. I carismi sono doni preziosi; bisogna stimarli al loro giusto valore, preferendo ai più vistosi i più utili. Ma vi è una via incomparabilmente più sicura e più alta, vi è la via regia dell’amore. Senza la carità, i carismi più eccellenti non sono nulla e non servono a nulla. Il dono delle lingue, vano rumore di parole; la profezia, bagliore passeggero che si eclisserà alla luce della visione beatifica. Soltanto « la carità non vien meno ». La fede e la speranza che dividono con essa il privilegio di avere Dio come oggetto diretto, svaniranno in Paradiso dove gli eletti vedono invece di credere e non possono più sperare quello che posseggono per sempre; mentre la carità è immortale e non cambia essenzialmente natura quando si trasforma in gloria.

La carità è il compendio dei comandamenti, perché comprende la sommissione implicita al volere divino in tutta la sua ampiezza. Il Maestro aveva detto: « A questi due precetti (l’amore di Dio e del prossimo) sta appesa tutta la Legge come pure i Profeti ». Il discepolo alla sua volta dice: Tutti i precetti « sono riassunti in una frase: Amerai il tuo prossimo come te stesso… La pienezza della Legge (cioè il suo perfetto compimento) è dunque la carità (Matth. XXI, 40 e Rom. XIII, 9-10) ». E ancora: « Tutta la Legge è racchiusa in queste parole: Ama il tuo prossimo come te stesso (Gal. V, 14) ». Oppure, con una concisione enigmatica: « Fine del precetto è la carità (I Tess. I, 5) ».

La carità è il vincolo della perfezione (Col. III, 14).È essa che tiene strettamente legate, come in un mazzo di fiori olezzanti, le virtù il cui complesso costituisce la perfezione cristiana. Oppure, per dare alla metafora un’altra forma, essa è la chiave di volta che deve tenere insieme tutte le pietre e le nervature del nostro edificio spirituale che senza dilei si sfascerebbe. – San Francesco di Sales ci dice, nel suo grazioso linguaggio, che « la carità non entra mai in un cuore senza condurvi con sé tutto il seguito delle altre virtù ». Il pio Vescovo di Ginevra sembra che si ispiri da san Paolo quando così descrive la scorta delle virtù minori che fanno corteo alla loro regina: « La carità è paziente », essa ha quella tollerante longanimità che la Scrittura attribuisce, come suo carattere proprio, alla paternità divina. — « Essa è piena di benignità » e pratica, nelle relazioni fraterne, quella dolcezza amabile di cui l’Apostolo ci dirà l’incanto. — « La carità non è invidiosa », perché è senza pretese, e la felicità o la fortuna degli altri non può offuscarla.

— « La carità non è millantatrice », non imita i farisei che vanno strombazzando i loro servizi o i loro benefizi. — « Essa non si gonfia di superbia », perché bada meno al bene che fa, che non a quello che non può fare. — « Essa non ha nulla di sconveniente » nel suo linguaggio e nel suo atteggiamento, evitando con cura tutto ciò che potrebbe ferire o urtare il prossimo. — « Non cerca il suo vantaggio », poiché ha bisogno di dimenticare se stessa per vivere, e l’egoismo la ucciderebbe. — « Non si adira », ancorché venga misconosciuta e calunniata, tanto è superiore alle preoccupazioni terrene. — « Non imputa a male » le indelicatezze. — « Non si rallegra dell’ingiustizia », neppure quando essa riesce bene e ne ha vantaggio. — « Mette invece la sua gioia nella verità » e applaude al suo trionfo. — « Scusa tutto », lasciando a Dio che scruta i cuori, la cura di giudicare le intenzioni segrete. — « Crede tutto » ciò che le dicono, con buona fede e con semplicità. — « Spera tutto » ciò che le viene promesso, senza sospetti e senza diffidenza. — « Sopporta tutto », anche l’indifferenza e l’ingratitudine (I Cor. XIII, 4-7). – Non tenteremo di classificare queste quindici virtù compagne della carità: per volervi cercare un ordine rigoroso, si sacrificherebbe l’esegesi al sistema. Paolo poteva benissimo allungare o abbreviare a suo talento la lista, e l’enumerazione è fatta piuttosto a titolo di esempio, che non per esaurire la materia.

3. Il posto sovreminente assegnato alla carità ha l’effetto naturale di mettere un po’ nell’ombra il gruppo delle virtù morali. Il loro scarso rilievo dipende anche da un’altra causa. Siccome esse entravano nella catechesi apostolica, e per conseguenza appartenevano ai rudimenti della fede, gli scrittori sacri non avevano quasi più occasione di tornarvi sopra. Quando Paolo crede opportuno il ricordarle, le sue liste di virtù e di vizi non sono né complete né metodiche, e ben poco è quello che c’insegnano. Rileviamo soltanto i tratti caratteristici del vocabolario paolino; l’umiltà e la bontà tra le virtù, la cupidigia e la discordia tra i vizi.

L’umiltà è una virtù specificamente cristiana che sembra non sia stata sospettata dai pagani. Per questi, « umile » (ταπεικός = tapeikos)ha per sinonimi « basso, vile, abbietto, servile e ignobile (Trench.)». Presso gli Ebrei non era affatto così. L’uomo oppresso che, conscio del suo nulla e della sua miseria, accettava la prova con pazienza, come un mezzo di espiazione, metteva la sua speranza in Dio e non aveva né odio né rancore contro i suoi persecutori, passava come l’ideale del giusto, ed era designato con una parola che vien tradotta ora con « povero, mite », ora con « umile ». Quando Gesù Cristo diceva di se stesso: « Io sono mite e umile di cuore », gli Ebrei che lo udivano non stentavano a capirlo (Matt. XI, 29).L’umiltà e la dolcezza sono i due aspetti di una medesima virtù: umiltà dinanzi a Dio, dolcezza verso gli uomini. San Paolo le unisce volentieri: egli vuole che « ciascuno, in tutta umiltà, consideri gli altri come superiori a sé » e raccomanda vivamente ai suoi neofiti di essere « pieni di dolcezza verso tutti gli uomini (Ephes. IV, 2) ». Così queste due virtù gemelle, delle quali l‘una era profondamente disprezzata e l’altra appena conosciuta dal mondo antico, diventano la pietra di paragone del vero Cristiano. – La bontà è pure caratteristica della morale di san Paolo. Essa è espressa con due parole che appartengono a lui solo, delle quali l’una (ἀγαθωσύνη = agatosune) è propriamente la « bontà », l’altra  (χρηστότης = krestotes) la « benignità » o la « mansuetudine (Rom. XV, 14; Gal. V, 22; Rom. II, 4, etc.) ». San Gerolamo ne comprese bene la differenza: « La benignità, egli dice, è una virtù soave, amabile, tranquilla, dal parlare dolce, dai modi affabili, fusione felice di tutte le buone qualità. La bontà le è assai vicina, perché anch’essa cerca di far piacere; ma ne differisce in questo, che è meno avvenente e di aspetto più severo; essa pure è pronta a fare il bene ed a rendere servizi, ma senza quella giocondità, quella soavità che guadagna i cuori (Comm. in Galat. V, 22) ». La bontà riguarda più la sostanza, la benignità più la forma della dedizione. La benignità comprende la bontà, ma le unisce qualche cosa che ne raddoppia il valore. Si può dire senza pleonasmo «la benignità della bontà »; ma non si direbbe « la bontà della benignità ». La benignità è specialità di Dio; perciò essa è l’impronta più riconoscibile del Creatore sopra la sua creatura. Però né la bontà né labenignità cristiana non degenerano mai in bonomia e in debolezza, come spesso avviene negli autori profani. – Fra tutti i vizi, il più odioso per san Paolo è lo spirito di discordia. Egli lo trova sui suoi passi quasi fin dal principio della sua carriera, che minaccia di intralciare il suo ministero e di distruggere l’opera sua. Lo ritroverà al termine della sua corsa, sempre turbolento, sempre inquieto, sempre invidioso. Egli lo flagella con una moltitudine di nomi, alcuni dei quali sono esclusivamente suoi: le dispute, idissensi, le combriccole, l’animosità, l’invidia, l’amore degli scismi e delle sètte. Egli ordina espressamente a Tito di fuggire l’eretico, cioè il fautore di discordie e di divisioni. Si direbbe talora che tutta la sua morale consista nel far regnare tra i suoi cristiani l’unione, il buon accordo, la concordia e la pace. Un altro vizio che ha molta parte negli scritti di san Paolo (πλεονέκτης = pleonectes) e che è caratteristico del suo vocabolario, è difficile a definirsi (II Cor. II, 11 etc.; I Tess. IV, 6). La Volgata lo traduce sempre per avaritia, ma è piuttosto la cupidigia che l’avidità. Infatti questo vizio è quasi sempre associato ai peccati d’impurità, e non si vede ben chiaro che cosa abbia da fare l’avarizia in tale compagnia. Inoltre esso viene presentato come la nota dominante del paganesimo ed è anzi una volta identificato con l’idolatria; ora non sembra che l’avarizia sia stato il vizio particolare dei pagani, mentre l’idolatria e la fornicazione o l’impudicizia erano sinonimi. Finalmente la proibizione fatta agli Efesini di parlarne: Fornicatio et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, s’intende assai meglio della cupidigia carnale. Non dobbiamo dimenticare che nella morale primitiva, prima che venissero differenziate le specie dei cattivi desideri, la stessa parola significava al tempo stesso cupidigia o appetito impuro, e avidità o avarizia. L’uso speciale di san Paolo ci riporta a quelle lontane origini: tale è la soluzione più naturale di un problema di linguistica il quale preoccupa gli esegeti.

4. Quello che precede basta a far vedere quale abisso separi la morale di Paolo dalla morale stoica. Come fu detto molto bene,« lo stoicismo è il frutto della disperazione »: disperazione in religione, al vedere mitologie caduche e assurde; disperazione in politica, quando la conquista macedonica ebbe dissipati tutti i sogni d’indipendenza; disperazione in filosofia, allo spettacolo di sistemi impotenti e contradittori(Lightfoot: Ep. Philip.). Ora il Cristianesimo è la Religione della speranza, e la morale di Paolo è la morale dell’amore. Tra queste grandezze non vi è misura comune. Siccome quasi tutti gli stoici erano di origine orientale, e molti di loro si erano stabiliti a Tarso o nella Cilicia, sipoté sospettare che il Dottore dei Gentili ne avesse subita l’influenza;e difatti compulsando faticosamente Epitteto e Seneca, si trova uncerto numero di massime molto simili, nel tono e nell’espressione,a quelle di Paolo. Ma queste somiglianze non devono farci illusione,perché sono soltanto esteriori e superficiali. Noi constatiamo anzituttol’assenza completa del vocabolario stoico; ma quello che piùdi tutto differenzia le dottrine, è lo spirito. Gli stoici consideravanocome sommamente ridicolo il domandare a Dio la virtù e il farglieneonore; ora nella morale di Paolo non vi è nulla di più caratteristicoche la preghiera e il ringraziamento.Le sue ingiunzioni a questo riguardo sembrano iperboliche: « Pregatesenza interruzione; ringraziate in tutto. — In ogni circostanza, esponete a Dio ivostri bisogni con preghiere esuppliche, con ringraziamenti. — Qualunque cosa diciate, qualunque cosa facciate, fate tutto nel nome del Signore Gesù, ringraziando per mezzo di lui Dio Padre. — Fate in ogni tempo per mezzo dello spirito ogni sorta di preghiere e di suppliche (1 Tess. V, 17; Fil. IV, 6; Ephes. VI, 18 ) ». Egli stesso ne dà l’esempio: ai nuovi cristiani scrive: « Noi preghiamo sempre per voi, con ringraziamenti… Non cessiamo di pregare per voi (i Tess. I, 2; Col. I, 9; etc. ) ». Gli Atti ce lo presentano che prega in tutte le circostanze più gravi della sua vita: quando sta per andare da Anania per essere battezzato (Act. IX, 11), nel Tempio, dopo la sua conversione (Act. XXII, 17), prima di ricevere l’imposizione delle mani (Act. XIII, 3), quando ordina degli anziani per le nuove cristianità (Act. XIV, 23), nella prigione di Filippi (Act. XVI, 25), a Mileto dinanzi agli anziani riuniti (Act. XX, 36), nel dare l’addio ai fedeli di Tiro (Act. XXI, 5), dopo il suo miracolo di Mitilene (Act. XXVIII, 8), alle Tre Taverne su la via di Roma (Act. XXVIII, 15). Egli prega per i suoi discepoli (Rom. I, 9-10; etc.) e per gli Ebrei (Rom. X, 1); egli prega anche per sé (II Cor. XII, 8); esorta i fedeli apregare sovente (Rom. XII, 13, passim) specialmente per lui (Rom. XV, 30-32; passim), efa assegnamento sule loro preghiere (Phil. I, 19). Noi sappiamo che, come tutti gli Ebrei pii, soleva pregare prima dei pasti (Act. XXVII, 35). Le sue lettere, interrotte da dossologie, cominciano generalmente con un atto di ringraziamento che talora continua per tutta l’Epistola e ne fa come la cornice. L’augurio finale ripete quasi sempre una formula di preghiera. – Se non insistiamo di più, è perché in questo non vi è nulla di singolare, essendo la pratica della preghiera frequente un’abitudine contratta da san Paolo in seno al fariseismo. Tutti i farisei devoti si compiacevano di seminare i loro scritti e i loro discorsi di preghiere e di dossologie. San Paolo non ne differisce se non per la serietà delle sue suppliche e per il fatto, già notato altrove, che egli, nelle sue invocazioni, associa il Figlio col Padre e fa dello Spirito Santo il maestro e l’agente principale della preghiera cristiana.

5. Ricordiamo, terminando, tre virtù modeste assai care all’Apostolo: il lavoro, l’ordine e il decoro. Appena arrivato in una nuova missione, s’installava in una di quelle bottegucce che fiancheggiavano l’agora e quivi riprendeva il suo mestiere di tessitore per bastare da sé ai suoi bisogni, per dare a tutti buon esempio e per salvaguardare la sua indipendenza. Agli anziani di Efeso venuti a Mileto per ricevere il suo addio, mostrava fieramente le sue mani callose, avvezze alle dure fatiche di giorno e di notte (Act. XX, 34). Ai Tessalonicesi, ossessionati dalla prospettiva della prossima fine del mondo, ricordava con insistenza la legge del lavoro: « Noi non stavamo in ozio presso di voi e non abbiamo mangiato gratuitamente il pane di nessuno (II Tess. III, 5) ». Era sua massima che « chi non vuole lavorare non deve mangiare (II Tess. II, 10) ». L’agiatezza che mette al sicuro dal bisogno, non è una scusa per l’ozio. Paolo vuole che si lavori per fuggire l’ozio e — se si vuole un motivo più cristiano — per poter fare più larghe limosine (Ephes. IV, 28-29). E lavoro per se stesso è un’opera buona, ma la carità ne accresce dieci volte il valore. L’ordine stava pure molto a cuore all’Apostolo che ne era un modello vivente. Egli prescriveva che nelle assemblee religiose tutto sicompisse con ordine (I Cor. XIV, 40); nessuna cosa gli piaceva tanto, quanto il contemplare in ispirito il bell’ordine di una comunità nascente (Col. II, 5). Egli esigeva che si riprendessero fraternamente gli scioperati che disturbavano e scandalizzavano gli altri, e che si sottoponessero anche, in caso di recidiva, ad una specie di scomunica benigna, capace di ricondurli al dovere (I Tess. V, 14). Il decoro era ai suoi occhi la, risultante dell’ordine e del lavoro: « Tutto si faccia con decenza, ripeteva spesso. Diportatevi convenientemente come nel pieno giorno della luce evangelica. Agite in modo conveniente con le persone estranee » alle nostre credenze (I Cor. XIV, 40). E convertito non deve esiliarsi dal mondo; egli può accettare gl’inviti degli infedeli; ma bisogna che lasci sempre un profumo di edificazione (I Cor. 27-28). È troppo poco non essere « una pietra d’inciampo per gli Ebrei e per i Greci (I Cor. X, 32) »; il Cristiano, nel suo contegno e in tutta la sua condotta, deve dare un alto concetto della sua fede e fare onore al Vangelo (Tit. II, 10). Elevate da tali motivi, anche le piccole virtù diventano grandi; esse si chiameranno devozione e apostolato. La morale di san Paolo è tutta piena di contrasti: con una facilità incomparabile, l’Apostolo associa la mistica più sublime con l’ascetismo più pratico; mentre il suo occhio penetra i cieli, il suo piede non perde mai il contatto con la terra. Nulla è sopra né sotto di lui. Nel momento in cui si dichiara crocifisso al mondo e vivente della stessa vita del Cristo, sa trovare per i suoi figliuoli delle parole che rapiscono per la giocondità e la grazia, e discendere alle prescrizioni più minuziose sul velo delle donne, sul buon ordine delle assemblee, sul dovere del lavoro manuale, su la cura di uno stomaco debole. Perciò la sua spiritualità offre ai cuori più umili un alimento sempre saporito, e alle anime più elette una miniera inesauribile di profonde meditazioni.