IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (1)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (1)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

COMBATTIMENTO

SPIRITUALE

DEL PADRE D.

LORENZO SCUPOLI

Chierico Regolare

TEATINO.

PARTE PRIMA.

VENEZIA,

Presso Gio. Antonio Pezzana.

MDCCLXXVI.

Con Licenza dei superiori

AL DEVOTO LETTORE,

Questa Operetta intitolata Combattimento Spirituale, fu composta dal nostro P. D. Lorenzo Scapoli, Religioso di singolar virtù, e mandata alle stampe più volte mentre egli viveva, però senza il suo nome; non comportando la grande umiltà sua ch’egli si chiamasse Autore di quell’Opera, ch’era tutta di Dio. E perché successivamente andava aggiungendo, secondo riceveva da Dio nuova cognizione, e nuovi lumi, quindi è, che in quella si veda varietà, secondo le diverse impressioni, e particolarmente nelle prime, che furono assai diminuite, e mancanti, ed anco nella disposizione, e Capitoli in qualche parte diverge. Che però stimando alcuni, che l’ultima impressione fatta vivente lui in Napoli nell’anno 1610, fosse la più compita, in conformità di quella l’hanno ristampata, e ristampano tuttavia, non solo nel proprio idioma, ma trasferita ancora nel Latino, Spagnuolo, Inglese, Tedesco, e più volte nel Francese per la stima grande in cui fu posta in tutta la Francia da S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra, il quale la proponeva per unica istruzione a quelli che aspiravano alla vita spirituale e devota, come si vedrà dall’onorevoli attestazioni ch’egli ne fa in molte sue lettere, e si metteranno qui aggiunte.  – Ma non si è avvertito finora, che l’ultima impressione fatta in vita dell’Autore non contiene, quanto egli ne aveva composto, essendone stati tralasciati da lui a bella posta molti Capitoli per farne una feconda Parte, con alcuni Trattati particolari, come chiaramente si raccoglie dall’impressione dell’anno 1609 in Venezia, che fu la penultima, vivente l’Autore, la quale è più copiosa dell’ultima suddetta, ed anco dalla Lettera al Lettore nell’Aggiunta al « Combattimento Spirituale » che va stampata colla suddetta ultima impressione, del 1610. Per la qual causa ne è seguito, che non avendo potuto egli perfezionare il suo disegno, sia rimasta l’ultima impressione senza molti Capitoli, e priva di tutto quello, che lasciò da parte. – Avendone avuta dunque io la commissione dal nostro M. R. P. Generale, ho riscontrate tutte le copie, e raccolto in uno tutto ciò, ch’egli compose in ordine al detto Combattimento Spirituale, e con ogni fatica, studio e diligenza possibile, perché nulla mancasse, ed in modo, che non venisse alterata, neppure in minima parte la dettatura candidissima dell’Autore, non avendoci posto del mio altro, che la sola diligenza nel raccogliere quel ch’era sparso in diversi Esemplari, con metterlo insieme secondo l’ordine datole dall’istesso Autore.Ho riconosciuti anco per suoi, alcuni altri Trattateli Spirituali, stampati, quando tutti, e quando in parte per aggiunta all’istesso Combattimento, e per non far troppo volume, non gli ho incorporati in quello. Ma ne ho formato un secondo tometto da stamparsi a parte acciò l’uno, e l’altro riescano più comodi, e più maneggiabili. Della qual fatica, che non è stata poca, non prendo altra mercede, che il profitto spirituale di chi leggerà, e quando Iddio nostro Signore comunicherà per mezzo di questa lettera le celesti grazie all’anima sua, si ricordi della mia per impetrarle il perdono, e preghi per questo miserabile peccatore.

D. Carlo di Palma

Chierico Regolare.

ELOGJ

Del Libro intitolato:

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE

Cavati dalle Lettere di S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra.

Lib. I . lett. 34. Esortando una Dama alla lettura de’ Libri spirituali, dopo aver parlato di alcuni altri, come di composizioni oscure, e difficili ad essere intese e praticate, egli aggiunge: Leggete, e rileggete il Combattimento Spirituale, quello deve essere il vostro Libro caro, egli è chiaro, e tutto praticabile.

Lettera 39. Raccomandando ad Una Dama l’aver cura particolare di acquistare le virtù, delle quali si trovava avere a questo proposito senza parlare altro di maggior bisogno, conclude: Rileggete il Combattimento Spirituale (perché senza dubbio l’aveva già letto per suo consiglio) e fate riflessione particolare ai documenti che vi sono, ve lo troverete molto a proposito.

Lib. 3, lett.13. Prescrivendo qualche esercizio di divozione ad una Signora maritata, dice verso il fine: Leggete assai il Combattimento Spirituale, io ve lo raccomando.

Lib. 4. lett. 8. Scrivendo ad una Vedova, ed esortandola alla Semplicità di cuore, ed a non desiderare tanto d’essere liberata dalle tentazioni: Figlia mia cara, dice egli, leggete il Capitolo 37 Del Combattimento Spirituale, ch’è il mio libro caro, e che io porto in saccoccia, sono bene diciottoanni, né lo rileggo mai senza profitto. La lett. è del 24. Luglio 1607.

Lib. 5. lett. 70. Scrivendo ad una Dama Vedova, e consolandola nella morte di suo figlio, dice queste parole: Bisogna, che noi facciamo una volta la Settimana un esercizio particolare di volere, ed amare la volontà di Dio più vigorosamente (dico più); più teneramente, e più amorosamente, che nessuna cosa del Mondo, e ciò non solo nelle occorrenze sopportabili, ma anco nelle più insopportabili. Voi ne troverete un non so che nel Libretto del Combattimento Spirituale, che vi ho raccomandato tante volte. Eh figlia mia, a dire il vero, quella è una lezione alta, ma dall’altro canto Iddio, per lo quale noi l’impariamo, è l’Altissimo.

Quello, che tradusse in Francese il Combattimento Spirituale, e dedicò la sua Traduzione a S. Francesco dì Sales nell’anno 1608, le dice nella dedicatoria. La considerazione e la stima, che le ho sempre visto fare dell’ utilità di quello Libro, etc.

Il Libro dello Spirito di S. Francesco di Sales: 3 p. sess. 12. che ha per titolo. Del libro del CombattimentoSpirituale, dice: Questo libro tutto d’oro (parla di quello dell’imitazione di Cristo) supera ogni lode. Non era con tutto ciò quello, che il nostro Prelato consigliava maggiormente, ma il Combattimento Spirituale. Questo era il  suo Libro diletto, ed il suo favorito. Egli più volte mi ha detto, che l’aveva portato in saccoccia diciotto anni, leggendone ogni giorno qualche capitolo, o almeno qualche pagina. E chi vi farà riflesso con attenzione, facilmente conoscerà, che tutto lo spirito della divozione del nostro Padre è cavato da questo Libretto: Chi vorrà vederne una mostra, conferisca il primo Capitolo della Filotea con il primo Capitolo del Combattimento Spirituale, e conoscerà, quanto è vero ciò, che io dico.

Seguita appresso. Il nostro Prelato consigliava la lettura del Combattimento Spirituale a tutti i suoi devoti, chiamandolo un libretto tutto amabile, e tutto praticabile. Quanto più io lo leggo, tanto più vi osservo lo spirito del nostro Prelato, come nella sua sentenza.

Dopo conchiude: Quelli che s’immaginano che quello libro sia oscuro (come ne ho conosciuto alcuni) si figurano dell’ombre a mezzogiorno, e si assomigliano a quelli Israeliti, che si infastidirono della manna, perché ella cadeva loro dal Cielo con soverchia facilità, ed abbondanza.

L’istesso par. 7. Sess. 7. che ha per titolo: Di tre Libri di divozione: Dice: Tre piccioli libri di devozione erano in alta stima appresso di lui: Il primo era quello del Combattimento Spirituale, del quale Sorelle mie io vi ho parlato tanto, quello, ch’egli vi ha tanto raccomandato, e che raccomandava con molto studio ai suoi Discepoli, confessando loro a bella posta, ma con verità, ch’egli l’aveva portato diciassette anni continui in saccoccia, leggendone quasi ogni giorno qualche Capitolo, e sempre con nuovi lumi del Cielo. Tralascio molte altre cose, ch’egli dice nell’istessa sessione della stima grande, che S. Francesco fece sempre di quest’opera. – L’istesso Libro dello Spirito di S. Francesco di Sales Vescovo di Ginevra, p. 14. sez. 1^ che ha per titolo: “Consiglio circa un Direttore Spirituale”, dice: Io li domandavo un giorno, chi era il suo Direttore, o il Maestro di spirito? Egli tirò dalla saccoccia il Combattimento Spirituale, e mi disse: Eccolo, quello è quello che col divino aiuto m’insegnò dalla mia gioventù: quello è il mio Maestro nelle cose dello spirito, e della vita interiore. Dopo che, essendo io scolaro in Padova, un Teatino me l’insegnò  e me lo consigliò, io ho seguitato il suo parere  e me ne sono trovato bene; egli fu composto da un santo Personaggio di quell’illustre Congregazione, che nascose il suo nome particolare, e lo lasciò correre sotto il nome della sua Religione, la quale sene ferve quasi nell’istessa maniera, che si fervono i Gesuiti del libro degli esercizi del loro S. Ignazio Lojola. E dopo qualche pagina, dice: Quelli » che hanno scritta la vita del nostro Prelato, osservano, ch’egli ha portato durante diciassette anni interi sopra di sé questo Libro del Combattimento Spirituale, ma è probabile, che quello tempo sia stato più lungo, già ch’egli cominciò così a buon’ora a metterli alla scuola di questo libro: allo spirito del quale si è talmente conformato, ed ha così tenacemente non solo subordinato, ma trasformato il suo, ch’io posso assicurare per l’attenzione, con la quale ho letto molti anni tanto questo Libro, quanto gli scritti del nostro Padre, che tutto è una medesima pennellata e che il nostro Prelato ha scritto poche cose delle quali io non trovi subito la semenza ed il nocciolo in qualche luogo del Combattimento. Egli lo consigliava a tutti quelli, che ricercavano il suo parere in materia di divozione, e principalmente a coloro, che si mettevano sotto la sua guida, nel che mostrava bene di amare il suo prossimo, comese stesso, giacché gli scopriva la stessa fonte, dalla quale aveva bevuto l’abbondanza della divozione che possedeva, comunicando senza invidia ciò che aveva appreso senza finzione, come dice il Savio c. 7. Ed appreso. – Lodandole io il libretto d’oro dell’Imitazione di Cristo, e preferendo di gran lunga il Combattimento Spirituale, egli mi rispose con galanteria, ch’erano le opere di due personaggi animati veramente dallo Spirito di Dio, che le loro facce erano differenti, e che si poteva dire di ciascheduno di loro ciò, che si canta dei Santi, Non est inventus similis illi. – Che le comparazioni in quelle materie avevano sempre qualche cosa di odioso: Che il Libro dell’Imitazione aveva in qualche senso gran vantaggio al Combattimento, ma che il Combattimento riportava ancora qualche vantaggio dell’Imitazione, fra i quali stimava molto l’ordine, l’andare più avanti e toccare il fondo delle materie: Conchiudendo poi con queste sante parole, che a far bene bisognava leggere l’uno, e non lasciare l’altro, sono tutti due così brevi, che la loro lettura non ci può mettere in grandi spese.Stimava molto il Libro dell’Imitazione,per l’orazione, e contemplazione, come pieno di sentenze, ma più il Combattimento Spirituale a riguardo della vita attiva, e della pratica.

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A questi elogi fatti da S. Francesco di Sales, potremmo aggiungere l’Encomio, che del medesimo Combattimento Spirituale lasciò registrato Jodocho Lorichio, celebre Scrittore, e professore primario di Sacra Teologia nell’Università Friburgense di Brosgia. Nella versione Latina, ch’egli fece del detto Libro, con una Lettera dedicatoria diretta all’Abate di Selvanegra, ove così dice:

In tractatu hoc per brevi ordinatissime, ac perspicacissime complexus Auctor est omnia ad spiritualis vita; optimam perfectionem parandam necessaria, quæ alìi multis, ac magnis libris vix assequuti sunt. Ed insegnando il modo di valersene, lo chiama: Prætiosum optimarum gemmarum thesaurum, & dignissimum spiritualium pharmacorum myropolium.

A D. FRANCESCO

CARAFFA.

Preposito Gen. de’ Chierici Regolari.

Essendo stata rivista d’ordine nostro l’Opera intitolata: Combattimento Spirituale, di cui sin ora sono state fatte molte Impressioni, però tutte varie, e manchevoli, acciò si ristampasse compiuta e con tutto quel che ne scrisse l’Autore, che fu il nostro P. D. Lorenzo Scupoli, si concede licenza, per quanto spetta a noi, che si possa mandare in luce, perché questo benefizio sia comune a tutti: Ordinando, che ciascheduno de’ nostri Religiosi l’abbia sempre pronta per valersene di guida spirituale per loro stessi, e per indirizzo di quell’anime che dovranno istruire per la perfezione, come con gran profitto si è praticato fino ad oggi nella nostra Religione.

Dato in Roma li 25 Dec. 1656,

D. Francesco Caraffa Prep.

Gen. de’ Chierici Reg.

D. Giacomo Sottani Chier.

Reg. Segr.

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Al Supremo Capitano, e Gloriosissimo Trionfatore:

GESÙ’ CRISTO

FIGLIUOLO DI

MARIA,

Perché sempre piacquero e piacciono tuttavia a V. Maestà i sacrifici, ed offerte di noi mortali, quando da puro cuore a gloria vostra le vengono offerte; perciò io le presento questo Trattatello del Combattimento Spirituale, dedicandolo alla Divina Vostra Maestà. Né mi tiro addietro, perché picciolo sia questo Trattato, che ben si sa, che Voi solo siete quell’alto Signore, che si diletta delle cose umili, e spregia i fumi, e pretendenze del Mondo. E come potevo io senza biasimo, e senza danno ad altra persona dedicarlo, che alla V. Maestà, Re del Cielo, e della Terra? Quanto insegna questo trattatello tutto è dottrina vostra, avendoci Voi insegnato, che:

“Sconfidati di noi stessi

Confidiamo in Voi,

Combattiamo, ed

Oriamo.”

Inoltre se ogni Combattimento ha bisogno di esperto Capo, che guidi la battaglia, ed inanimi i Soldati, quali tanto più generosamente combattono, quanto, che militano sotto un invincibile Capitano, non ne avrà forse bisogno questo Combattimento Spirituale? Voi dunque eleggemmo Cristo Gesù (noi tutti, che già risoluti siamo di combattere, e vincere qualunque nemico) per nostro Capitano, il quale avete vinto il  Mondo, il Principe delle tenebre, e con le piaghe, e morte della vostra sacratissima carne avete vinto la carne di tutti quelli che hanno combattuto generosamente, e combatteranno. – Quando io Signore, ordinava questo Combattimento, avevo sempre nella mente quel detto: Non quod sufjicientes simus cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis: Se senza voi, e senza il vostro aiuto noi non possiamo avere pensieri, che buoni siano, come potremo da noi soli combattere contro tanti potentissimi nemici, ed evitare tanti innumerabili, e nascosti lacci? – Vostro è, Signore, da tutte le parti questo Combattimento, perché  (come ho detto) vostra è la dottrina, e vostri fono tutti i Soldati spirituali tra i quali siamo noi Chierici Regolari Teatini, onde tutti chini a’ piedi della vostra A. M. vi preghiamo, che accettiate questo Combattimento, movendoci sempre, ed inanimandoci colla grazia vostra attuale a vieppiù generosamente combattere, perché noi non dubitiamo punto, che combattendo Voi in noi, noi siamo per vincere a gloria vostra, e della vostra Santissima Madre Maria Vergine.

Un S. comprato col vostro Sangue

D. Lorenzo Scupoli Chier. Reg.

LA COMUNIONE SPIRITUALE

[G. B. Scaramelli: DIRETTORIO ASCETICO, Trattato Primo

NAPOLI, LlBRERIA E TIPOGRAFIA SIMONIANA. Strada Quercia nº. 17. 1839.]

– CAPO VII.

Si parla brevemente della comunione spirituale, con cui devono le persone spirituali industriarsi di supplire alla mancanza delle comunioni sacramentali.

441. Giacché pochi son quelli, come ho già detto, a cui possa giustamente concedersi di ricever ogni giorno il Corpo Santissimo di Gesù Cristo sacramentalmente sotto le specie del pane; devono almeno tutti industriarsi di riceverlo spiritualmente con la comunione che chiamasi spirituale. Questa, dice S. Tommaso, consiste in un vivo desiderio di prendere il Santissimo Sacramento. Dicuntur baptizari, et communicari spiritualiter, et non sacramentaliter illi, qui desiderant hæc Sacramenta jam instituta sumere. (3 p. qu. 21, alias 8o, art. 1, ad 3.). E nell’articolo seguente: (in corp. Contingit spiritualiter manducare Christum, prout est sub speciebus hujus Sacramenti inquantum scilicet aliquis credit in Christum, cum desiderio sumendi hoc Sacramentum. Allora accade, dice l’Angelico, che alcuno mangi Spiritualmente Gesù Cristo ricoperto dalle specie sacramentali, quando crede in Cristo con desiderio di riceverlo in questo sacramento. E questo non solo è un ricevere spiritualmente Gesù Cristo, ma è un ricevere spiritualmente lo stesso Sacramento. Se queste brame siano molto fervide, e molto accese, la comunione fatta in spirito sarà tal volta più fruttuosa e più cara a Dio, che molte altre Comunioni reali fatte con tiepidezza, non per difetto del Sacramento, ma di chi freddamente lo riceve. S. Caterina da Siena, come si legge nella sua vita, bramava sì ardentemente di unirsi al suo Sposo sacramentato, e per la vivezza dei suoi desideri cadeva in dolci deliqui, e sollecitava il Beato Raimondo suo confessore a comunicarla per tempo su i primi albori del giorno, temendo di rimanere estinta dall’impeto delle sue brame. Gradiva tanto Gesù Cristo queste ansie amorose della devota Verginella, che una mattina, mentre il detto Raimondo celebrava la santa Messa, nell’atto di frangere l’Ostia sacra, ſe’ sì che gliene volasse dalle mani una parte; e andasse a posarsi su la lingua della santa, che si trovava presente al sacrifizio, e in questo modo appagò il signore i ferventi desideri della sua sposa. (S. Anton. 3 par. Chron. tit. 23, c. 14, S. 8.). Un simile avvenimento accadde in Venezia ad una Monaca avida della santa comunione. (Ber. Just. in ejus vita c. 8.). Non potendo questa comunicarsi nella solennità del Corpus Domini, mandò a significare al gran Patriarca S. Lorenzo Giustiniano il suo desiderio, ed a pregarlo, che almeno in tempo del santo sacrifizio la raccomandasse al Signore. Or mentre il santo celebrava a tutto il popolo la santa Messa in pubblica Chiesa, la detta Monaca se lo vide entrare nella sua cella con la santissima Eucarestia, e presentarle di propria mano il corpo santissimo del Redentore. Se poi questo accadesse replicandosi il santo in due luoghi o comparendo in ispirito dentro il monastero, non si sa. Due cose sole si sanno di certo: la prima che celebrando il santo non partì dall’altare; ma solo dopo l’elevazione dell’Ostia sacra fu veduto starsene lungamente estatico, ed alieno affatto da sensi: la seconda che interrogato su questo fatto, non lo negò, ma solo impose a chi n’era consapevole un rigoroso silenzio. Ho voluto tutto ciò riferire, acciocchè si veda quanto piacciono a Gesù Cristo queste comunioni spirituali: mentre opera talvolta miracoli, per unirsi realmente allo spirito di chi ardentemente la brama. – 442. Or queste comunioni spirituali possono farsi più volte, anzi cento volte in ciascun giorno con gran profitto: perché può l’anima devota spesso slanciarsi con l’affetto in Gesù sacramentato, e desiderare di riceverlo nel suo cuore, e d’incorporarsi col suo corpo santissimo. S. Ignazio Martire, scrivendo ai romani, dice loro così: Non voluptates hujus mundi desiderio; sed panem Dei, panem cœlestem, panem vitæ, qui est caro Jesu Christi Filii Dei vivi, et potum volo sanguinem eius, qui est dilectio incorruptibilis, et vita æterna. Io non bramo, diceva il santo martire, i piaceri vani, e caduchi di questo mondo: solo bramo il pane celeste, il pane divino, il pane di vita, che è la carne di Gesù Cristo, figliuolo di Dio vivo. Solo bramo quel sangue, che è un distillato di amore, ed un estratto di eterna vita. Nello stesso modo può la persona spirituale andar dicendo tra giorno, mentre le si presentano alla vista gli oggetti frali di questa terra, all’apparenza preziosi, deliziosi, e vaghi: Non voluptates hujus mundi desidero, sed panem Dei, panem coelestem, panem vitæ. Io non curo le delizie, le ricchezze, le bellezze, che dona il mondo ai suoi seguaci. Solo desidero ricevere il mio Gesù, che è le delizie degli angeli, che è un tesoro di ricchezze inesausto, che è un fiore di ogni bellezza. Solo bramo partecipare di quel corpo glorioso, che con la gloria del suo volto beato rallegra il Paradiso; di quel sangue, che fu tutto sparso per me; di quell’anima che per me spirò sulla croce; e di quella divinità, che è scaturigine di ogni bene. Cibus meus Christus est, et ego eius: come dice S. Bernardo: (Serm. 61 in Cant.). il mio cibo sia Gesù, ed io il suo: perché egli brama incorporarsi con me, ed io con Lui in questo divinissimo Sacramento. Con questi desideri aderà la persona rinnovando ad ogni ora comunioni spirituali, le quali tanto saranno più perfette, e tanto più profittevoli, quanto sanno più fervidi i suoi affetti verso Gesù Sacramentato.

443. Bisogna però almeno una volta al giorno fare questa comunione spirituale posatamente, a bell’agio, e con speciale apparecchio, acciocchè riesca con maggior divozione, e profitto, e in qualche modo compensi gli effetti della comunione sacramentale. Né per far questo v’è tempo più opportuno di quello, in cui si assiste al santo Sacrifizio della Messa; mentre può allora la persona unirsi col sacerdote a ricevere con l’affetto quel cibo divino, ch’egli riceve in effetto. Faccia dunque ella prima un atto di contrizione, e con esso ripulisca la stanza del suo cuore, dentro cui brama che venga a riposarsi il suo Signore. Poi avvivi la fede circa la presenza reale di Cristo nel santissimo Sacramento. Consideri (come abbiamo detto di sopra, parlando della comunione sacramentale) la grandezza, e la maestà di quel Dio, che sta nascosto sotto il velo di quegli accidenti eucaristici: ponderi quel grande amore, e quella somma bontà, per cui non solo non disdegna, ma brama di unirsi Seco: rifletta alla propria piccolezza, ed alle proprie miserie. Quindi seguano affetti misti di umiliazione, e di desiderio: di umiliazione in riguardo alla propria indegnità, di desiderio in riguardo alla infinita amabilità del suo Signore. Poi vedendo, che in quella mattina non è a lei permesso di unirsi realmente con esso Lui, per mezzo della comunione sacramentale; si abbandoni con l’affetto, e con Lui si unisca col vincolo d’un amore quieto, posato, e tranquillo; finalmente prorompa in affetti di ringraziamenti, e di lodi poiché se Gesù Cristo non è venuto effettivamente nel suo seno, non è rimasto da lui, giacché egli era pronto, anzi quanto è dal canto suo bramava questa congiunzione di amore con grande ardore di carità. Gli chieda quelle grazie, di cui si conosce necessitoso, e faccia quegli altri atti, che è solito di fare dopo le sue comunioni. Oltre l’utile, che di presente gli risulterà da tali comunioni di spirito, gliene proverrà anche questo vantaggio: che si troverà dispostissimo ad accendersi in divozione, qualunque volta avrà da accostarsi alla mensa Eucaristica, per cibarsi realmente delle carni santissime del Redentore. Poiché siccome un legno, che si conservi sempre caldo, e sempre disposto ad infiammarsi alla presenza del fuoco: così un cuore, che si mantenga sempre caldo di amore verso Gesù Cristo sacramentato, è facile a concepire fiamme di carità, avvicinandosi a quella fornace di amore, che arde sempre nel santissimo Sacramento.

444. Voglio aggiungere un fatto, in cui non solo vedrassi quanto siano accette al Redentore queste comunioni spirituali: ma an che il modo, con cui bisogna ad esse apparecchiarsi, acciocché gli riescano più gradite. Riferisce il padre maestro Giovanni Nider del l’ordine venerabile dei Predicatori, (in Formic. lib. 1, cap. 1) che nella città di Nuremberga v’era un uomo plebeo di nascita, ma di costumi illibato, di natura semplice, proclive alla pietà, dedito alla meditazione della passione del Redentore, alle opere di carità, ed alla macerazione del proprio corpo. Bramava questo ardentemente comunicarsi; ma non essendo nella sua patria in uso tra gli uomini la frequenza dei Sacramenti, non si arrischiava ad accostarsi alla sacra mensa, per non parer singolare, e per non essere dalla gente mostrato a dito.  Con tutto ciò sapendo, che Iddio gradisce non solo le opere buone, ma anche la buona volontà, procurava di supplire alle comunioni sacramentali con le comunioni fatte spiritualmente coi santi desideri. Avvicinandosi pertanto quei giorni, in cui avrebbe voluto comunicarsi, si preparava precedentemente con l’astinenza del cibo. La mattina poi se la passava in sante meditazioni, e in esse tutto s’infiammava in desideri del sacro cibo: ripuliva la coscienza con un’esatta confessione d’ogni suo mancamento, assistendo finalmente alla santa Messa si univa col sacerdote con tanto affetto, che nell’atto della comunione quasi che si avesse a comunicare anch’esso, si chinava profondamente, si percuoteva il petto, e apriva la bocca per ricevere la sacrosanta particola. Cosa veramente ammirabile! Nell’atto di aprire la bocca sentiva portarsi su le labbra l’Ostia sacra, e ad un tempo stesso diffondersi per tutto lo spirito una ineffabile soavità. Così Iddio premiava la viva fede: così saziava la santa fame di questo suo fedelissimo servo. Una mattina però quasi non credendo a se stesso, ed alle proprie esperienze, pose un dito nella bocca, per far prova col tatto della mano, s’era vero ciò, che pure esperimentava col tatto della lingua, e col sapore dello spirito; e in quel toccamento rimase al dito attaccata la sacra particola. Onde sempre più certificato del vero, la prese nuovamente con le labbra, e devotamente l’ingoiò.  – Non piacque però a Dio quell’atto non decente a persona secolare, e la poca fede, che in quell’atto aveva dimostrato: e perciò non tornò più il Signore a visitarlo, come aveva fatto per il passato con un sì prodigioso favore, quantunque per altro mantenesse sempre verso il santissimo Sacramento lo stesso sentimento di divozione, e di culto, e perseverasse sempre costante nello stesso tenore di vita santa. Apprenda dunque il lettore dagli altrui esempi ad affezionarsi a queste comunioni spirituali, ed a premetter loro, almeno una volta il giorno, qualche decente apparecchio, acciocchè riescano a Gesù Cristo più gradite, e ad esso più giovevoli. E apprendano i direttori ad insinuarle ai loro penitenti, e a consolare con essa la fame di queste anime buone, che vorrebbero accostarsi alla sacra mensa più spesso di quello che loro conviene.

IL PAPA (sec. San TOMMASO)

Il Papa.

[G. Bertetti: I tesori di S. Tommaso d’Aquino; S. E. I. Torino, 1918]

1. Il Papa è il capo di tutta la Chiesa (Contra Gent., 4, 76). — 2. A lui tutti i fedeli, anche i re, debbono ubbidienza (De Regim. Princ, 1, 14). — 3. In che cosa il Papa può dispensare (Quol., 4, 13).

1. Il Papa è il capo di tutta la Chiesa. — L’unità della Chiesa richiede che tutti i fedeli vadano d’accordo nella fede. Accade che intorno alle cose di fede si sollevino dello questioni? La Chiesa allora si dividerebbe per causa delle diverse opinioni, se non si conservasse nell’unità per la sentenza d’un solo. Dunque, perché si conservi l’unità della Chiesa, ci vuol uno che presieda a tutta la Chiesa. È poi manifesto che nelle cose necessarie Gesù Cristo non vien meno alla sua Chiesa ch’egli amò, spargendo per essa il suo sangue; se anche della sinagoga fu detto dal Signore: « Che cos’altro avrei dovuto fare alla mia vigna, e non ho fatto? » (ISA., V, 4). Nessun dubbio quindi che per ordinazione di Gesù Cristo, ci sia uno che presieda a tutta la Chiesa. Nessun dubbio ci dev’essere che il regime della Chiesa sia ottimamente ordinato, essendo stato costituito da Quello per cui « regnano i re e fan giusti decreti i legislatori» (Prov., VIII, 15). Ora, il miglior governo d’un popolo è quel che risiede in un solo: perché un solo, meglio che molti, è causa di quella pace e di quell’unità ch’è il fine d’ogni governo. Dunque il regime della Chiesa è disposto in modo che uno solo presieda a tutta la Chiesa. – La Chiesa militante trae somiglianza dalla Chiesa trionfante: onde San Giovanni nell’Apocalisse vide la Gerusalemme discendente dal Cielo, e a Mosè fu detto che facesse tutto secondo l’esemplare dimostratogli sul monte. Ebbene, nella Chiesa trionfante presiede un solo, quel solo che presiede pure in tutto l’universo, Dio: « essi saran suo popolo, e lo Stesso Dio sarà con essi Dio loro » (Apoc, XXI, 3). Dunque anche nella Chiesa militante ci sarà uno che presiede a tutti: « saran congregati i figli di Giuda e i figli d’Israele parimenti, e porranno a sé un solo capo » (OSEA, 1, 11); e dice il Signore: « Sarà un solo ovile e un solo pastore » (JOAN., X, 16). Non basterà asserire che il solo capo e il solo pastore è Gesù Cristo, che è l’unico sposo della Chiesa una. Tutti sappiamo che ogni sacramento della Chiesa è compiuto da Gesù Cristo: è Lui che battezza, è Lui che rimette i peccati, è Lui il vero sacerdote che si offrì sull’altare della croce e che dà la virtù di consacrare il suo corpo ogni giorno sui nostri altari: tuttavia, poiché non sarebbe rimasto con la sua presenza corporale in mezzo ai fedeli, s’elesse dei ministri che dispensassero ai fedeli i sacramenti. Per la ragione medesima di sottrarre la sua presenza corporale alla Chiesa, lasciò in sua vece chi avesse cura della Chiesa universale. Quind’è che prima della sua ascensione disse a Pietro: « Pasci le mie pecore » (JOAN., XXI, 17); e prima della passione: « Tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli » ( Luc. XXII, 32); e a lui solo promise: « A te darò le chiavi del regno dei cieli » ( MATTH., XVI, 19), per dimostrare che la potestà delle chiavi sarebbe da lui derivata ad altri per la conservazione dell’unità della Chiesa. Né si può dire che questa dignità data a Pietro non sia da lui derivata ad altri. È chiaro che Gesù Cristo istituì la Chiesa in modo da durare sino alla fine del mondo: « sederà sul soglio di Davide e sul suo regno, per confermarlo e corroborarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora fino in sempiterno » (ISA., IX, 7). È chiaro dunque che Gesù Cristo costituì nel ministero quei che c’erano allora, sicché la lor potestà derivasse ai posteri, per l’utilità della Chiesa, sino alla fine del mondo; principalmente perché Egli stesso lo dice: « Ecco che io sono con voi per tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli » (MATTH., XXVIII, 20).

2. Tutti i fedeli, anche i re, debbono ubbidienza al Papa. — Vivere secondo la virtù non è l’ultimo fine del popolo: ma il pervenire con una vita virtuosa all’ultima beatitudine che s’aspetta dopo la morte nel godimento di Dio: beatitudine acquistataci dal sangue di Gesù Cristo, beatitudine per il cui possesso ricevemmo l’arra dello Spirito Santo. Se a quest’ultimo fine noi potessimo arrivare per virtù dell’umana natura, dovrebbe condurvici chi ha in sua mano il supremo potere. Ma poiché il fine del godimento divino non si raggiunge per virtù umana, ma per virtù divina, non all’umano ma al divino regime spetterà il condurci a un tal fine. A capo di questo regime sta un Re, che non solo è uomo ma anche Dio, ossia il Signor nostro Gesù Cristo, che, facendo gli uomini figli di Dio, gl’introduce nella gloria celeste. A lui è stato affidato questo regime che non si corrompe, a Lui che dalla Scrittura è chiamato non solo Sacerdote ma anche Re (JER., XXIII, 5). Da Lui è derivato il regale sacerdozio: e, ciò ch’è più, tutti i fedeli di Cristo, in quanto sono suoi membri, son chiamati re e sacerdoti. Il ministero di questo regno, affinché le cose spirituali rimanessero distinte dalle cose corporali, non fu affidato ai re terreni, ma ai sacerdoti e precipuamente al Sommo Sacerdote successore di Pietro, vicario di Gesù Cristo e Romano Pontefice. A lui appartiene la cura dell’ultimo fine, e a lui devono sottomettersi e lasciarsi dirigere dal suo impero quei che hanno la cura dei fini antecedenti. Era giusto che i sacerdoti dei gentili fossero soggetti ai re: perché il loro sacerdozio e tutto il loro culto era per l’acquisto dei beni temporali. Anche nella legge antica i sacerdoti erano soggetti ai re: perché la legge antica prometteva beni terreni, che non il demonio ma il Dio vero avrebbe dato al popolo religioso. Ma nella nuova legge v’è un più sublime sacerdozio, per cui gli uomini sono condotti ai beni celesti.

3. In che cosa il Papa può dispensare. — Avendo il Papa la pienezza della potestà sulla Chiesa, può dispensare su tutto ciò che fu istituito dalla Chiesa o dai prelati della Chiesa. Son le cose che si dicono di diritto umano o di diritto positivo. Non può dispensare intorno a ciò ch’è di diritto divino o di diritto naturale: perché queste cose traggono efficacia da divina istituzione. – Diritto divino è quel che si riferisce alla legge nuova o alla legge antica. Ma fra l’una e l’altra legge v’è questa differenza: che la legge antica determinava molte cose, tanto nei precetti cerimoniali appartenenti al culto di Dio, quanto nei precetti giudiziali appartenenti alla conservazione della giustizia fra gli uomini; ma la legge nuova, ch’è legge di libertà, non ha più siffatte determinazioni, contentandosi dei precetti morali della legge naturale, e degli articoli della fede, e dei sacramenti della grazia: perciò si dice anche legge di fede e legge di grazia. Le altre cose che appartengono alla determinazione degli umani giudizi o alla determinazione del culto divino, Gesù Cristo, latore della nuova legge, le lasciò liberamente da determinare ai prelati della Chiesa e ai principi del popolo cristiano: perciò queste determinazioni appartengono al diritto umano, in cui il Papa può dispensare. Ma nelle, cose che son della legge di natura, e negli articoli della fede, e nei Sacramenti della nuova legge, il Papa non può dispensare: ciò non potrebbe essere in favore della verità, ma sarebbe contro la verità.

A queste note dell’Angelico aggiungiamo qualche riga di un sermone celebre (… non per i sedevacantisti sembra), di S. Leone Magno che si legge nel Breviario [quello Romano, forse i sedevacantisti ed i fallibilisti ne hanno uno … modificato …] :

Omelia di san Leone Papa

Sermone 2 nell’anniversario della sua elezione, prima della metà


Allorché, come abbiamo inteso dalla lettura del Vangelo, il Signore domandò ai discepoli, chi essi in mezzo alle diverse opinioni degli altri credessero ch’egli fosse, e gli rispose il beato Pietro con dire: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. XVI, 16; il Signore gli disse: « Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l’ha rivelato la natura e l’istinto, ma il Padre mio ch’è nei cieli Matth. XVI, 17-19: e io ti dico, che tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei: e darò a te le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli». Rimane dunque quanto ha stabilito la verità, e il beato Pietro conservando la solidità della pietra ricevuta, non cessa di tenere il governo della Chiesa affidatagli.

Infatti in tutta la Chiesa ogni giorno Pietro ripete: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»; ed ogni lingua, che confessa il Signore, è istruita dal magistero di questa voce. Questa fede vince il diavolo e spezza le catene di coloro ch’esso aveva fatti schiavi. Questa, riscattatili dal mondo, li introduce nel cielo, e le porte dell’inferno non possono prevalere contro di lei. Perché essa ha ricevuto da Dio fermezza sì grande, che né la perversità della eresia poté mai corromperla, né la perfidia del paganesimo vincerla. Così dunque, con questi sentimenti, dilettissimi, la festa odierna viene celebrata con un culto ragionevole; così che nella umile mia persona si consideri ed onori colui nel quale si perpetua la sollecitudine di tutti i pastori e la custodia di tutte le pecore a lui affidate, e la cui dignità non vien meno neppure in un erede.

Ai “distratti” sedevacantisti si potrebbe chiedere, cosa intendano essi per: “OGNI GIORNO fino alla fine dei tempi”, parole che Nostro Signore Gesù Cristo, ed i suoi Vicari poi, avrebbe pronunciato con inganno (bestemmia atroce e totalmente  inverosimile in chi è la VERITÁ e SAPIENZA); ma noi pensiamo che l’inganno sia sempre del solito serpente menzognero che si serve di sempre nuovi adepti! Occorre quindi vegliare su qualsiasi “fur et latro” (Joan. X), … oggi con le vesti sedevacantiste … che voglia intrufolarsi nell’ovile della Chiesa come “pecora matta”, per sbranare gli agnelli.

E a proposito sulle amene idiozie che si dicono sul Papa nascosto da imbecilli vari, coloro che ignorano il Vangelo [… forse ce ne sarà uno “adattato” dagli apostati scismatici sedevacantisti! … cani sciolti e papi di se stessi …] ed i Padri della Chiesa, aggiungiamo:

Léctio sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt X: 23-28
In illo témpore: Dixit Jesus discipulis suis: Cum persequentur vos in civitate ista, fugite in aliam. Et réliqua.

Homilia sancti Athanasii Epíscopi.
In Apologia de fuga sua, ante med.

La legge ordinava di stabilire delle città di rifugio, in cui, coloro che in qualsiasi modo fossero cercati a morte, potessero rimanervi sicuri. Inoltre, venuto nella pienezza dei tempi quello stesso Verbo del Padre, che antecedentemente aveva parlato a Mosè, diede di nuovo quest’ordine, dicendo: « Quando vi perseguiteranno in una città, fuggite in un’altra ». E poco dopo aggiunge: « Quando vedrete l’orrore della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge, comprenda), allora quelli che dimorano nella Giudea, fuggano ai monti; e chi starà sulla terrazza, non discenda per prender nulla di casa sua ; e chi è al campo, non ritorni per pigliar la sua veste ». Istruiti da queste cose, i Santi ne fecero sempre la regola della loro condotta. Infatti il Signore, prima ancora della sua venuta nella carne, aveva già detto ai suoi ministri quanto ora qui comanda ; e questo precetto conduce gli uomini alla perfezione. Perché bisogna assolutamente osservare quanto Dio comanda. Ond’è che lo stesso Verbo fattosi uomo per noi, non ha stimato indegno di nascondersi, come noi, allorché era cercato; e di fuggire altresì e d’evitare le insidie, allorché veniva perseguitato: ma quando venne il tempo da se stesso stabilito, in cui voleva soffrire nel corpo per tutti, si diede spontaneamente da sé nelle mani degl’insidiatori.

CHE LA VERGINE MARIA CI LIBERI DAGLI ERETICI, APOSTATI, SCISMATICI PSEUDO-TRADIZIONALISTI DEI NOSTRI TEMPI!! …

et Ipsa conteret

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: APRILE 2019

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA:

APRILE 2019

Aprile è il mese che la Chiesa dedica alla Santa Pasqua ed alle litanie maggiori.

Surrexit, non est hic. [Marc. XVI]

Asciugate le vostre lagrime, fratelli miei, e date un libero corso alla vostra allegrezza; Colui che è stato dato alla morte per i vostri peccati, è risuscitato per vostra giustificazione; Colui che faceva pochi giorni orsono il soggetto della vostra tristezza, deve in quest’oggi essere l’oggetto del vostro gaudio; non cercate Gesù Cristo tra i morti; non è più nel sepolcro, Egli è risuscitato. Questa fu la felice e gradita nuova che l’Angelo del Signore annunziò a quelle pie donne che vennero al sepolcro di Gesù Cristo tre giorni dopo la sua morte, per imbalsamare il suo corpo. Voi venite a cercare, disse loro quell’Angelo, Gesù nazareno che è stato crocefisso; ma non lo troverete, non è più qui. Affrettatevi solamente di andare ad annunziare la risurrezione del vostro Maestro ai suoi discepoli, e dite loro che lo ritroveranno in Galilea, dove va a precederli.

Ibi eum videbitis, sicut dixit vobis [Marc. XVI).

[Mons. Billot: Discorsi parrocchiali, presso S. Cioffi, Napoli, 1840]

 LITANIE O ROGAZIONI.

[Dom Guéranger: “Istituzioni liturgiche”, vol. I]

ISTRUZIONE.

Litania, che vuol dire Preghiera, è parola greca derivata dal verbo lìtanevo, che significa: “prego”. Le Litanie Maggiori cadono nel giorno 25 Aprile, e si dicono maggiori, o perché ebbero origine dalla maggiore delle Chiese, quale si è Roma, o perché comandate in tutta la Cristianità da S. Gregorio, detto “Magno”, il quale, se non ne fu l’istitutore, dacché egli stesso ne parla come di cosa già in uso, fu però quel Papa che le universalizzò dopo di averle celebrate con una solennità tutta particolare, allorquando nel 598, per impetrare la cessazione della peste che desolava tutta Roma, chiamò tutto il Clero e, tutto il Popolo ad una Processione di penitenza che fece capo alla chiesa di Santa Maria Maggiore e durante la quale si serenò il cielo, cessò la mortalità, e si vide sulla mole Adriana un Angelo che rimetteva nel fodero la propria spada, per significare che il flagello era cessato. Fu in quella circostanza che all’antica mole Adriana si mutò il nome in quello di Castel sant’Angelo, e vi fu eretta la grande statua di S. Michele.

Queste sono le feste che la Chiesa Cattolica celebra in questo mese di Aprile:

2 Aprile S. Francisci de Paula Confessoris    Duplex

4 Aprile S. Isidori Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

5 Aprile S. Vincentii Ferrerii Confessoris    Duplex

1° Venerdì

6 Aprile 1° Sabato

7 Aprile Dominica I Passionis    Semiduplex I. classis *I*

11 Aprile S. Leonis I Papæ Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Feria

13 Aprile S. Hermenegildi Martyris    Feria

14 Aprile Dominica II Passionis seu in Palmis    Semiduplex I. classis

17 Aprile S. Aniceti Papæ et Martyris    Simplex

18 Aprile Feria Quinta in Cena Domini    Duplex I. classis *I*

19 Aprile Feria Sexta in Passione et Morte Domini    Duplex I. classis

20 Aprile Sabbato Sancto    Duplex I. classis

21 Aprile Dominica Resurrectionis    Duplex I. classis

22 Aprile Die II infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

23 Aprile Die III infra octavam Paschæ    Duplex I. classis

                             S. Georgii Martyris

24 Aprile Die IV infra octavam Paschæ    Semiduplex

                      S. Fidelis de Sigmaringa Martyris   

25 Aprile Die V infra octavam Paschæ   

                     S. Marci Evangelistæ    Duplex II. classis

26 Aprile Die VI infra octavam Paschæ    Semiduplex

                      SS. Cleti et Marcellini Summorum Pontificum et Mártyrum   

27 Aprile Sabbato in Albis    Semiduplex

                       S. Petri Canisii Confessóris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

28 Aprile Dominica in Albis in Octava Paschæ    Duplex I. classis

29 Aprile S. Petri Martyris    Duplex

30 Aprile S. Catharinæ Senensis Virginis    Duplex

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI-APOSTATI DI TORNO: S. S. Pio XII – MYSTICI CORPORIS (5)

Siamo giunti al termine di questa stupenda catechesi di S. S. Pio XII, contenuta nella Mystici corporis, a sigillo dell’insegnamento del Magistero pontificio infallibile ed irreformabile, giusto prima che nella Chiesa di Cristo si verificasse l’introduzione dei ladri e dei briganti a perdizione eterna delle anime. È vero che tutto era già profetizzato da millenni circa l’apostasia degli occupanti apparenti (… o meglio usurpanti) di cattedre ed uffici ecclesiastici vari, e delle abominevoli inversioni dottrinali dei modernisti novatori – basta rileggere i Vangeli, le Lettere di s. Paolo, S. Pietro (… Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una pronta rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di impropèri. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina è in agguato .. 2 S. Pietro, cap. II) e san Giovanni, l’Apocalisse dell’Apostolo che Gesù amava, nonché alcuni profeti del vecchio testamento (Daniele, Zaccaria etc.) – ma starci dentro, magari in modo inconsapevole, da ciechi o ipovedenti non conoscitori o indifferenti alla dottrina, ai luoghi teologici cattolici di sempre, ed aprire gli occhi guidati da documenti infallibili, perché garantiti dal Vicario di Cristo, scritti a disposizione di chiunque abbia un minimo di interesse nel salvare la propria anima, fa un certo effetto sempre pensando al rischio che si corre nell’eterna salvezza. Ecco che a noi derelitti Cattolici, oggi perseguitati non con gli aculei, le grate roventi, le belve nei circhi, le mannaie, i roghi o le spade, ma ancor peggio con le eresie sottili e gli scismi, i falsi e sacrileghi sacramenti di lupi rapaci dal ghigno cortese che ci spingono “misericordiosi” con sorrisi bonari all’eterno supplizio, non resta altra difesa che la preghiera e l’approfondimento minuzioso della dottrina Cattolica, vera fonte di vita anche per riconoscere, oggi più che mai, il “fur et latro”, il ladro e brigante che ci inganna e ci porge sacramenti e riti sacrileghi a nostra perdizione. Allora inforchiamo gli occhiali, se necessario, e non perdiamo una sola parola di questo documento preziosissimo per la nostra eterna salvezza.   

(5)

ESORTAZIONE PER AMARE LA CHIESA

Ora che, Venerabili Fratelli, nell’accurata spiegazione di questo mistero che riassume l’arcana unione di tutti noi con Cristo, nella nostra qualità di Maestro della Chiesa universale, abbiamo irradiate le menti con la luce della verità, riteniamo conforme al Nostro pastorale ufficio aggiungere anche uno sprone agli animi, affinché un tale Corpo mistico venga amato con quell’ardore di carità che non si limita ai pensieri e alle parole, ma che prorompe in attività di opere. Poiché, se i seguaci dell’antica legge poterono così cantare della loro Città terrestre: “Se mi dovessi dimenticare di te, o Gerusalemme, cada in oblio la mia destra; resti attaccata al palato la mia lingua se non mi ricordo di te, se non colloco Gerusalemme al disopra di ogni mia gioia” (Psal. CXXXVI, 5-6), con quanta maggior gloria e più ampio gaudio, abbiamo noi il dovere di esultare appunto per questo che siamo cittadini di una Città costruita sul monte santo con vive e scelte pietre e della quale è “pietra angolare Gesù Cristo” (Eph. II, 20; I Petr. II, 4-5). Giacché niente si può immaginare di più glorioso, niente di più nobile, niente senza dubbio di più onorifico, che appartenere alla santa, cattolica, apostolica e romana Chiesa, per la quale diventiamo membra di un unico e così venerando Corpo, siamo guidati da un unico e così eccelso Capo, siamo ripieni di un unico e divino Spirito, siam nutriti in questo terrestre esilio da una sola dottrina e da uno stesso Pane angelico, finché ci ritroveremo a godere di un’unica sempiterna beatitudine nei cieli.

Sia un amore solido

Ma, per non essere ingannati dall’angelo delle tenebre che suol trasfigurarsi in angelo di luce (cfr. II Cor. XI, 14), sia norma suprema del nostro amore l’amare la Sposa di Cristo quale Cristo stesso la volle, conquistandola con il sangue. Quindi non solo ci devono stare sommamente a cuore i Sacramenti con i quali la Madre nostra Chiesa amorosamente ci nutre; non solo devono esserci carissime le grandi feste che celebra a nostra consolazione e gioia, e i sacri cantici e i riti liturgici, con i quali innalza le nostre menti alle cose celesti; ma dobbiamo anche avere in gran conto quelli che si chiamano sacramentali, come pure tutte le pratiche di pietà con le quali la Chiesa stessa mira a pervadere soavemente dello Spirito di Cristo gli animi dei fedeli, per loro consolazione. Né soltanto è nostro dovere il ricambiare come conviene a figli la materna pietà della Chiesa verso di noi, ma dobbiamo anche professarle riverenza per l’autorità conferitale da Cristo, in modo tale da sottometterle pienamente il nostro giudizio, in ossequio a Cristo stesso (cfr. II Cor. X, 5). Onde siamo tenuti ad obbedire alle sue leggi e ai suoi precetti in fatto di costumi, anche se talvolta ciò riesca abbastanza duro alla nostra natura, decaduta qual è dallo stato dell’innocenza originale. Così pure dobbiamo reprimere con volontarie penitenze la nostra carne ribelle, ci viene anzi inculcato di saper talvolta rinunziare a cose piacevoli, anche se non siano nocive. Né dobbiamo limitarci ad amare questo Corpo mistico perché insigne per la divinità del suo Capo e per le sue doti celesti, ma dobbiamo amarlo con amore operoso anche quale si manifesta in questa nostra carne mortale, composta talvolta di membra che hanno tutte le debolezze dell’umana natura, anche se esse siano meno degne del posto che occupano in quel venerando Corpo.

Col quale vediamo Cristo nella Chiesa

Ad ottenere poi che un tal pienissimo amore regni negli animi nostri e di giorno in giorno aumenti, è necessario assuefarsi a riconoscere nella Chiesa lo stesso Cristo. È infatti Cristo che nella sua Chiesa vive, che per mezzo di lei insegna, governa, comunica la santità; è Cristo che in molteplici forme si manifesta nelle varie membra della Sua società. Se tutti i Cristiani si daranno con impegno a vivere di un così vigoroso spirito di Fede, allora non solo essi tributeranno il debito ossequio d’onore alle più eccelse membra di questo mistico Corpo e specialmente a quelle che per mandato del divin Capo un giorno dovranno render conto delle anime nostre (cfr. Hebr. XIII, 17); ma avranno a cuore anche quelle membra verso le quali il Salvator nostro dimostrò un amore di preferenza: i deboli, i feriti e i malati bisognosi o di medicina materiale o di medicina soprannaturale, i fanciulli la cui innocenza si trova oggi esposta a tanti pericoli e la cui tenera anima è plasmabile come cera, i poveri infine, nei quali, mentre li soccorriamo, dobbiamo ravvisare la persona stessa di Gesù Cristo. – Ben a ragione l’Apostolo ci avverte: “Le membra del corpo che paiono più deboli sono molto più necessarie, e quelle che stimiamo di minor pregio, noi le circondiamo di onore maggiore” (I Cor. XII, 22-23). Tale gravissima sentenza Noi, consapevoli della altissima responsabilità che Ci vincola, riteniamo doveroso ripetere al giorno d’oggi, mentre con profonda afflizione vediamo che ai deformi di corpo, ai deficienti ed agli affetti di malattie ereditarie vien talora tolta la vita, come se costituissero un molesto peso per la società. Peggio ancora, tale espediente da certuni si esalta come una trovata dell’umano progresso, quanto mai giovevole al comune benessere. Ma chi mai, se abbia senno, non vede che ciò ripugna non soltanto alla legge naturale e divina (cfr. Decr. S. Offic., 2 Dec. 1940: A. A. S. 1940, p. 553), impressa nell’animo di ciascuno, ma è violenta offesa contro i nobili sensi di umanità? Il sangue di tali sventurati, al nostro Redentore tanto più cari quanto più degni di commiserazione, “grida a Dio dalla terra” (cfr. Gen. IV, 10).

Imitiamo l’amore di Cristo verso la Chiesa

Affinché poi quella sincera carità, per la quale nella Chiesa e nelle sue membra dobbiamo riguardare il nostro Salvatore, non vada a poco a poco illanguidendosi, è di somma opportunità che teniamo di mira lo stesso Gesù come insuperabile modello di amore verso la Chiesa.

a) Con larghezza di amore

Anzitutto, cerchiamo d’imitare l’estensione di tale amore. Unica è la Sposa di Cristo, e questa è la Chiesa: eppure l’amore dello Sposo divino ha tale ampiezza che, senza escludere alcuno, nella sua Sposa abbraccia tutto il genere umano. La causa infatti per cui il Salvator nostro sparse il Suo sangue, fu appunto per riconciliare con Dio nella Croce tutti gli uomini, per quanto diversi di nazione e di stirpe, e farli congiungere in un unico Capo. Il vero amore della Chiesa esige quindi non solo che siamo vicendevolmente solleciti l’uno dell’altro (cfr. Rom. XII, 5; I Cor. XII, 25), come membri dello stesso Corpo, che godono della gloria degli altri membri e soffrono dell’altrui dolore (cfr. I Cor. XII, 26), ma che altresì negli altri uomini, sebbene non ancora a noi congiunti nel Corpo della Chiesa, riconosciamo fratelli di Cristo secondo la carne, chiamati insieme con noi alla medesima eterna salvezza.

Purtroppo, specialmente oggigiorno, non mancano coloro che nella loro superbia esaltano l’avversione, l’odio, il livore come qualcosa che elevi e nobiliti la dignità e il valore umano. Noi però, mentre vediamo con dolore i funesti frutti di tale dottrina, seguiamo il nostro pacifico Re, che ci insegnò ad amare non solo quelli che non sono della nostra nazione e della nostra stirpe (cfr. Luc. X 33-37), ma persino i nemici (cfr. Luc. VI, 27-35; Matth. V, 44-48). Noi, con l’animo penetrato del soavissimo sentimento dell’Apostolo delle genti, con lui esaltiamo quale e quanta sia la lunghezza, la larghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo (cfr. Eph. III, 18); quell’amore, cioè, che nessuna diversità d’origine e di costumi può fiaccare, che neppure l’immensa distesa dell’oceano può attenuare; e che finalmente neppure le guerre, siano esse intraprese per causa giusta o ingiusta, potranno mai distruggere.  – In quest’ora così grave, Venerabili Fratelli, mentre tanti corpi sono dolorosamente straziati e tante anime oppresse di tristezza, è necessario richiamar tutti a questi sensi di suprema carità, affinché nello sforzo collettivo di tutti i buoni si sovvenga a così immani necessità spirituali e materiali, in una meravigliosa gara d’amore e di commiserazione: il Nostro pensiero va particolarmente agli appartenenti a qualsiasi di quelle organizzazioni che esplicano opere di soccorso. Per tal modo, la generosità piena di zelo del Corpo mistico di Gesù Cristo e la sua inesausta fecondità diffonderanno i loro splendori in tutto il mondo.

b) Con assidua operosità

Dato poi che all’ampiezza della carità onde Cristo amò la sua Chiesa corrisponde la Sua amorosa costanza di opere, di questa stessa carità noi tutti, con assidua e zelante volontà, dobbiamo amare il Corpo mistico di Cristo. Ed invero non è possibile trovare nella vita del nostro Redentore un’ora sola in cui non abbia lavorato fino a spossarsi di fatica, benché fosse Figlio di Dio, per fondare la sua Chiesa o per renderla stabile: dalla Sua Incarnazione, allorché gettò la prima base della Chiesa, fino al termine del Suo corso mortale, con gli esempi della più fulgida santità, con la predicazione, con la conversazione, col radunar le turbe, con l’insegnare. È Nostro desiderio adunque che tutti, quanti riconoscono la Chiesa per madre, ponderino con diligenza che non solo ai sacri Ministri od a coloro soltanto che han fatto oblazione di sé a Dio nella vita religiosa, ma anche agli altri membri del mistico Corpo di Cristo, per ciascuno in ragione della propria possibilità, incombe il dovere di affaticarsi con ogni impegno e diligenza alla costruzione ed all’incremento del medesimo Corpo. In modo speciale desideriamo che a ciò pongano mente (come del resto già lodevolmente fanno) coloro che, arruolati nelle schiere dell’Azione Cattolica, cooperano all’apostolato dei Vescovi e dei Sacerdoti nella loro attività apostolica; come pure coloro che, riuniti in pii sodalizi, collaborano allo stesso fine. Non c’è chi non veda come la solerte attività di tutti costoro sia di somma importanza e di massima gravità nelle attuali circostanze. – Né possiamo astenerci dal dire una parola ai padri e alle madri di famiglia, cui il Redentore nostro affidò le membra più delicate del suo mistico Corpo. Li scongiuriamo quindi ardentemente che, per amore di Cristo e della Chiesa, provvedano con tutta sollecitudine alla prole data loro in consegna, affinché si guardi da ogni sorta di insidie con le quali oggi viene con tanta facilità adescata.

c) Senza tralasciare le preghiere

In particolar modo il Redentore nostro manifestò il suo ardentissimo amore per la Chiesa con le supplici preghiere innalzate per essa al suo celeste Padre. Giacché (per citar solo qualche esempio) è noto a tutti, Venerabili Fratelli, come Egli mentr’era per salire sul patibolo della Croce, elevò accesissime preghiere per Pietro (cfr. Luc. XXII, 32), per gli altri Apostoli (cfr. Jo. XVII, 9-19), e finalmente per tutti coloro che, alla predicazione della divina parola, avrebbero creduto in Lui (cfr. Jo. XVII, 20-23).

Per i membri della Chiesa

Ad esempio di Cristo, anche noi dobbiamo chiedere ogni giorno che il Signore voglia inviare operai alla sua messe (cfr. Matth. IX, 38; Luc.X,2); ogni giorno la comune preghiera deve salire al cielo per raccomandare tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo. In primo luogo i sacri Presuli, alla cui particolare sollecitudine è affidata la propria Diocesi; poi i Sacerdoti e infine i Religiosi e le Religiose che, seguendo la chiamata di Dio, sia in patria che in paesi infedeli difendono, accrescono, promuovono il Regno del Redentore divino. Nessuno dei membri di questo venerando Corpo dev’essere dimenticato nella comune preghiera; ma specialmente si abbiano presenti quelli che o sono oppressi dalle sofferenze o dalle angosce di questa terra o, compiuto il corso mortale, vengono purificati nelle fiamme espiatrici. E neppure debbono essere trascurati coloro che si stanno istruendo nella dottrina cristiana, affinché si possano al più presto mondare nel lavacro delle acque battesimali. – Bramiamo altresì fortemente che le comuni preghiere abbraccino nella stessa ardente carità sia coloro che non ancora illuminati dalla verità evangelica, non sono al sicuro nell’ovile della Chiesa, sia coloro che, a causa di una miserevole scissione dell’unità della Fede, si sono separati da Noi che, pur immeritevoli, rappresentiamo in terra la Persona di Gesù Cristo. Per questo ripetiamo l’orazione divina del nostro Salvatore al Padre Celeste: “Che tutti siano una cosa sola, come tu, Padre, sei in me ed io in te, così anch’essi siano in noi una cosa sola; affinché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Jo. XVII, 21).

Per coloro che ancora non sono membri

Anche questi che non appartengono al visibile organismo della Chiesa, come voi ben sapete, Venerabili Fratelli, fin dal principio del Nostro Pontificato, li affidammo alla celeste tutela ed alla celeste direzione, protestando solennemente che dietro l’esempio del buon Pastore, nulla Ci stava più a cuore che essi abbiano la vita e l’abbiano in sovrabbondanza (cfr. Lett. Enc. “Summi Pontificatus“). E quella solenne Nostra affermazione, dopo aver implorate le preghiere di tutta la Chiesa, intendiamo ripetere in questa Lettera Enciclica, con la quale abbiamo celebrato le lodi “del grande e glorioso Corpo di Cristo” (Iren. Adv. Hær., IV, 33, 7; Migne, P. G., VII, 1076): con animo straripante di amore, invitiamo tutti e singoli ad assecondare spontaneamente gli interni impulsi della divina grazia e a far di tutto per sottrarsi al loro stato in cui non possono sentirsi sicuri della propria salvezza (Pio IX “Jam nos omnes“, 13 Sett. 1868: Act. Conc. Vat. C. L., VII, 10), perché, sebbene da un certo inconsapevole desiderio e anelito siano ordinati al mistico Corpo del Redentore, tuttavia sono privi di quei tanti doni ed aiuti celesti che solo nella Chiesa Cattolica è dato di godere. Rientrino perciò nella cattolica unità e tutti uniti a Noi nell’unica compagine del Corpo di Gesù Cristo, vengano con Noi all’unico Capo nella società di un gloriosissimo amore (cfr. Gelas. I, Epist. XIV: Migne, P. L., LIX, 89). Senza mai interrompere di pregare lo Spirito dell’amore e della verità, Noi li aspettiamo con le braccia aperte, non come estranei, ma quali figli che entrino nella loro stessa casa paterna.  – Però, mentre desideriamo che una tale preghiera salga ininterrotta a Dio da parte di tutto il Corpo mistico affinché tutti gli sviati entrino al più presto nell’unico ovile di Gesù Cristo, dichiariamo che è assolutamente necessario che ciò sia fatto di libera e spontanea volontà, non potendo credere se non chi lo vuole (cfr. August., In Jo. Ev. tract., XXVI, 2: Migne, P. L., XXX, 1607). Se alcuni, non credenti, vengono di fatto spinti ad entrare nell’edificio della Chiesa, ad appressarsi all’altare, a ricevere i Sacramenti, costoro, senza alcun dubbio, non diventano veri cristiani, (cfr. August., ibidem), poiché la Fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio (Hebr. XI, 6), deve esser libero “ossequio dell’intelletto e della volontà” (Conc. Vat., De Fide cath., cap. 3). Se dunque dovesse talvolta accadere che, in contrasto con la costante dottrina di questa Sede Apostolica (cfr. Leo XIII: “Immortale Dei“), taluno venga spinto suo malgrado ad abbracciare la Fede cattolica, Noi non possiamo esimerCi, per coscienza del Nostro dovere, dall’esprimere la Nostra riprovazione. E poiché gli uomini godono di libera volontà e possono anche, sotto l’impulso di perturbazioni d’animo e di perverse passioni, abusare della propria libertà, è perciò necessario che vengano attratti con efficacia alla verità dal Padre dei lumi per opera dello Spirito del Suo diletto Figlio. – Che ancora molti, purtroppo, errano lontani dalla cattolica verità e non piegano l’animo all’afflato della grazia divina, ciò avviene perché né essi (cfr. August., ibidem), né i fedeli Cristiani innalzano a Dio più ferventi preghiere a tal fine. Noi quindi vivamente e insistentemente esortiamo tutti coloro che sentono amore per la Chiesa, affinché, seguendo l’esempio del divin Redentore, non cessino mai di elevare tali suppliche.

Per i Governanti

E del pari, soprattutto nel momento attuale, Ci sembra non solo opportuno ma necessario che vengano innalzate ardenti suppliche per i re, per i principi e per tutti coloro che, attendendo al governo dei popoli, possono con la loro tutela esterna recar aiuto alla Chiesa, affinché, riordinata rettamente la società, “la pace, opera di giustizia” (Is. XXXII, 17), al soffio della divina carità arrida al genere umano tormentato dai terrificanti flutti di questa tempesta, e la Santa Madre Chiesa possa condurre vita quieta e tranquilla nella pietà e nella castità (cfr. I Tim. II, 2). Dobbiamo chiedere con insistenza a Dio che tutti coloro che sono al governo dei popoli amino la sapienza (cfr. Sap. VI, 23) in modo che questa gravissima sentenza dello Spirito Santo non ricada mai su di essi: “L’Altissimo esaminerà le vostre opere e scruterà i pensieri; perché, ministri del suo regno, non avete governato rettamente, né avete osservato la legge di giustizia, né secondo il volere di Dio aver te camminato. Terribile e veloce piomberà su voi, ché rigorosissimo giudizio sarà fatto di quei che stanno in alto. Al misero invero si usa misericordia, ma i potenti saranno potentemente puniti! Non indietreggerà dinanzi a persona il Signore di tutti, né avrà soggezione della grandezza di nessuno; ché il grande e il piccolo Egli ha creato, ed ha cura ugualmente di tutti. Ma ai potenti sovrasta più rigoroso giudizio; a voi pertanto o re, son rivolte le mie parole perché impariate la sapienza e non cadiate” (Ibidem, VI, 4-10).

d) Compiendo ciò che manca nella passione di Cristo

Inoltre, non solo faticando senza posa e pregando ininterrottamente Cristo Signore palesò il Suo amore verso la Sua Sposa incontaminata, ma anche per mezzo dei dolori e delle angosce sopportate volentieri e con amore per essa: “Avendo egli amato i suoi… li amò sino alla fine” (Jo. XIII, 1). Anzi non acquistò la Chiesa che per mezzo del proprio sangue (cfr. Act. XX, 28). Adunque, su queste orme cruente del nostro Re, come esige la nostra salvezza da mettere al sicuro, intraprendiamo volonterosi il nostro cammino: “Poiché se siamo stati innestati alla somiglianza della Sua morte, lo saremo anche a quella della Resurrezione” (Rom. VI, 5), e “se siamo insieme morti, con lui anche vivremo” (II Tim. II, 11). Ciò è richiesto anche dalla vera ed operosa carità sia verso la Chiesa, sia verso quelle anime che la medesima Chiesa genera allo stesso Cristo. Sebbene infatti il Salvator nostro con le sue durissime pene e la sua acerba morte abbia meritato alla sua Chiesa un tesoro addirittura infinito di grazie, per disposizione però della provvidenza di Dio esse solo partitamente ci vengono distribuite, e la loro minore o maggior dovizia non poco dipende anche dalle nostre buone opere, dalle quali una tale pioggia di celesti doni volontariamente largita da Dio, viene attirata sulle anime umane. Tale pioggia di grazie celesti sarà certamente sovrabbondante, se non solo faremo uso di fervorose preghiere a Dio, specialmente col prendere parte anche ogni giorno, se si può e con pietà, al Sacrificio eucaristico; se non solo faremo del nostro meglio per alleggerire la sofferenza di tanti bisognosi con servizi di cristiana carità, ma se ameremo i beni imperituri a preferenza di quelli caduchi di questa vita; se con volontarie mortificazioni terremo a freno questo corpo mortale, negandogli ciò che è illecito e imponendogli invece ciò che gli è sgradito e arduo; e se finalmente accetteremo con sottomissione come dalla mano di Dio le fatiche e i travagli della presente vita. In tal modo, secondo l’Apostolo “diamo compimento nella nostra carne, a quello che rimane dei patimenti di Cristo, a pro del Corpo di Lui che è la Chiesa” (cfr. Col. I, 24). – Mentre così scriviamo Ci si svolge, purtroppo, dinanzi allo sguardo una moltitudine sterminata di miseri, che con dolore compiangiamo: infermi, poveri, mutilati, vedove e orfani, e moltissimi che per le proprie sventure o per quelle dei loro cari giacciono talvolta in un vero languore mortale. Tutti coloro dunque che per qualsiasi motivo giacciono nella tristezza e nell’angoscia con cuore paterno vivamente esortiamo affinché, pieni di fiducia, levino gli occhi al cielo, offrano le loro pene a quel Dio che un giorno renderà loro una copiosa mercede. Ed abbian tutti presente che il loro dolore non è vano, ma è oltremodo fecondo di bene per essi e per la Chiesa, se mirando a tal fine sapranno sopportarlo con pazienza. A meglio conseguire tal proposito, giova moltissimo la quotidiana e devota oblazione di se stesso a Dio, quale usano fare i membri di quella associazione che prende il nome dell’Apostolato della preghiera: associazione che in questa occasione, come a Dio gratissima, Ci sta a cuore di raccomandare nel modo più vivo. – Se ci fu mai un tempo in cui, per conseguire la salvezza delle anime, dobbiamo unire i nostri dolori agli strazi del divin Redentore, oggi specialmente, Venerabili Fratelli, tale è il dovere di tutti, mentre una guerra immane avvolge nelle sue fiamme quasi tutto l’orbe terrestre, generando tante morti, tante miserie, tante sventure. E particolarmente oggi è doveroso per tutti l’astenersi dai vizi, dagli allettamenti del mondo, dagli sregolati piaceri del senso, come pure da quelle cose terrene, futili e vane che non hanno alcuna relazione né con la cristiana formazione dell’animo, né con il conseguimento del cielo. Dobbiamo, piuttosto, ribadire nelle nostre menti la gravissima sentenza del Nostro Predecessore Leone Magno, il quale afferma che noi, col Battesimo, siam fatti carne del Crocifisso (cfr. Serm. LXIII, 6; LXVI, 3; Migne, P. L., LIV, 357 et 366) e quella bellissima preghiera di S. Ambrogio: “Portami, o Cristo, sulla Croce, che è salvezza agli erranti, nella quale soltanto è riposo agli affaticati, nella quale soltanto avranno la vita coloro che muoiono” (In Psal. 118, XXII, 30: Migne, P. L., XV, 15, 1). – Prima di por fine a questo scritto, non possiamo trattenerCi dal tornare ad insistere nell’esortare vivamente tutti ad amare la santa Madre Chiesa con un amore zelante e operoso. Per la sua incolumità, per il suo più fecondo ed ubertoso incremento, dobbiamo ogni giorno offrire all’eterno Padre le nostre preghiere, le fatiche, le angosce nostre, se davvero ci sta a cuore la salvezza della universale famiglia umana, redenta col suo sangue divino. E mentre nubi minacciose offuscano il cielo, e pericoli e minacce incombono in questo consorzio umano e sulla stessa Chiesa, affidiamo le nostre persone e tutto ciò che ci appartiene al Padre delle misericordie, supplicandolo: “Volgi, ti preghiamo, o Signore, uno sguardo su questa Tua famiglia, per la quale il Signore nostro Gesù Cristo non esitò a consegnarsi ai suoi carnefici ed a subire il tormento della Croce” (Off. Major. Hebd.).

EPILOGO

LA BEATA VERGINE MARIA

Compia, Venerabili Fratelli, questi Nostri paterni voti, che sono certamente anche i vostri, e ottenga a tutti noi un verace amore per la Chiesa, la Vergine Madre di Dio, la cui anima santissima fu ripiena del divino Spirito di Gesù Cristo più che tutte le altre anime insieme: Ella che, “in rappresentanza di tutta l’umana natura”, diede il consenso affinché avesse luogo “una specie di sposalizio spirituale tra il Figlio di Dio e l’umana natura” (S. Thom., III, q. 80, a. 1). Fu Lei che con parto ammirabile dette alla luce il fonte di ogni vita celeste, Cristo Signore, fin dal suo seno verginale ornato della dignità di Capo della Chiesa; fu Lei che poté porgerlo, appena nato, come Profeta, Re e Sacerdote a coloro fra i giudei e fra i gentili che per primi accorsero ad adorarlo. Inoltre il suo Unigenito, accondiscendendo alla sua materna preghiera, in Cana di Galilea, operò quel mirabile prodigio per il quale i suoi discepoli credettero in Lui (Jo. II, 11). Ella fu che, immune da ogni macchia, sia personale sia ereditata, e sempre strettissimamente unita col Figlio suo, Lo offerse all’eterno Padre sul Golgota, facendo olocausto di ogni diritto materno e del suo materno amore, come novella Eva, per tutti i figli di Adamo contaminati dalla sua miseranda prevaricazione. Per tal modo, Colei che quanto al corpo era la madre del nostro Capo, poté divenire, quanto allo spirito, madre di tutte le sue membra, con nuovo titolo di dolore e di gloria. Ella fu che, con le sue efficacissime preghiere, impetrò che lo Spirito del divin Redentore, già dato sulla Croce, venisse infuso nel giorno di Pentecoste con doni prodigiosi alla Chiesa, da poco nata. Ella finalmente, sopportando con animo forte e fiducioso i suoi immensi dolori, più che tutti i fedeli cristiani, da vera Regina dei martiri, “compì ciò che manca dei patimenti di Cristo… a pro del Corpo di lui, che è la Chiesa” (Col. I, 24). Ella, per il mistico Corpo di Cristo nato dal Cuore squarciato del nostro Salvatore (cfr. Off. SS. mi Cordis in hymno ad Vesp.),, ebbe quella stessa materna sollecitudine e premurosa carità con la quale nella culla ristorò e nutrì del suo latte il Bambino Gesù. La stessa santissima Genitrice di tutte le membra di Cristo (cfr. Pio X: Ad diem illum), al cui Cuore Immacolato abbiamo con fiducia consacrato tutti gli uomini e che ora in cielo, regnando insieme col suo Figlio, risplende nella gloria del corpo e dell’anima, si adoperi con insistenza ad ottenere da Lui che, dall’eccelso Capo, scendano senza interruzione su tutte le membra del mistico Corpo rivoli di abbondantissime grazie. Ella stessa, col suo sempre presente patrocinio, come per il passato, così oggi, protegga la Chiesa, e ad essa e a tutta la umana famiglia impetri finalmente da Dio un’era di maggiore tranquillità. – Noi, fidenti in questa superna speranza, auspice delle celesti grazie e quale attestato della Nostra particolare benevolenza, a voi tutti e singoli, Venerabili Fratelli, ed al gregge a ciascuno di voi affidato, impartiamo con effusione di cuore l’Apostolica Benedizione.

Dato in Roma, presso San Pietro, il giorno 29 del mese di Giugno, nella festa dei SS. Apostoli Pietro e Paolo, nell’anno 1943, V del Nostro Pontificato.

PIO PP. XII

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2019)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2019)

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Is LXVI: 10 et 11.I

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI: 1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV: 22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

 [A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

“Fratelli: Sta scritto che Àbramo ebbe due figli, uno dalla schiava, e uno dalla libera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, quello della libera, invece, in virtù della promessa. Le quali cose hanno un senso allegorico; poiché queste donne sono le due alleanze. L’una del monte Sina, che genera schiavi, e questa è Agar. Il Sina, infatti, è un monte dell’Ambia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è schiava coi suoi figli. Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera, ed è la nostra madre. In vero sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorisci; prorompi in grida di gioia, tu che sei ignara di doglie, poiché i figli della derelitta son più numerosi che quelli di colei che ha marito. Quanto a noi, fratelli, siamo, come Isacco, figli della promessa. E come allora chi era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. Ma che dice la Scrittura? Scaccia la schiava e il suo figlio, perché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della libera. Perciò, noi, o fratelli, non siamo figli della schiava, ma della libera, in virtù di quella libertà con cui Cristo ci ha affrancati”. (Gal. IV, 22-31) .

S. Paolo a dimostrare ai Galati come la legge di Mosè non possa continuare ad esistere daccanto al Cristianesimo, che l’ha sostituita, ricorre a un fatto del vecchio testamento, il quale oltre il valore storico, ha un significato allegorico. Abramo ha un figlio, Ismaele, da Agar, schiava, e ha un figlio, Isacco, da Sara, libera. Agar significa la legge che tiene schiavi i suoi figli; legge promulgata sul monte Sina in Arabia, terra abitata dagli schiavi, discendenti di Agar, e che ha per suo centro la Gerusalemme terrena. Sara significa la Gerusalemme celeste, la Chiesa, libera, sposa di Gesù Cristo. Ismaele nato secondo le leggi ordinarie significa la discendenza naturale di Abramo; Isacco, nato non secondo le leggi naturali ma in forza d’una promessa fatta da Dio ad Abramo, significa la discendenza spirituale, noi Cristiani, nati spiritualmente nel Battesimo, uniti con la grazia a Gesù Cristo, termine della promessa. E come allora Ismaele perseguitava Isacco così adesso i Giudei perseguitano i Cristiani, cercando di ridurli sotto il giogo della legge. Ma, come Agar fu cacciata dalla casa con suo figlio, senza diritto all’eredità; così, l’antica legge è stata bandita dalla Chiesa, che resta l’erede delle promesse divine. Parliamo un po’ della Chiesa, nostra madre. Essa:

1. È di origine divina;

2. È universale,

3. Trionfa dei suoi oppositori.

1.

Ma l’altra, la Gerusalemme di lassù, è libera. La Gerusalemme di lassù, cioè la Gerusalemme celeste, è la Chiesa a cui noi apparteniamo, la Chiesa di Gesù Cristo. La sua condizione è ben differente dalla condizione della Sinagoga, centro del culto giudaici. La Sinagoga era schiava della legge: la Chiesa, invece, è libera. È chiamata giustamente Gerusalemme di lassù, Gerusalemme celeste, perché celeste è !a sua origine. Dio stesso l’ha istituita, per mezzo del suo Figlio, Gesù Cristo. Gesù espresse in termini chiarissimi la volontà di fondare la Chiesa. A Pietro, che lo confessa « Figlio del Dio vivente», egli dice: « Tu sei Pietro, e sopra questa pietra fonderò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei ». (Matth. XVI, 18). Non un uomo, non un Angelo, ma Egli stesso ne sarà il fondatore. E quanto aveva promesso si avvererà dopo la sua risurrezione gloriosa. Vicino al lago di Tiberiade Gesù dice a S. Pietro: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore ». (Giov. XXI, 16)). Il Redentore salirà al cielo, ma a pascere visibilmente il suo gregge è posto un altro, al quale è dato il potere e l’autorità necessaria. – Agli Apostoli, da Lui scelti, affida un ben determinato corpo di dottrina, che essi apprendono, o direttamente dalla sua bocca, o dall’ispirazione dello Spirito Santo, da Lui mandato. A loro dà la missione ben specificata di insegnare, di battezzare, di rimettere i peccati, di sciogliere e di legare: e questi poteri li dà come continuazione dei poteri suoi. La loro azione non avrà limiti né di luogo né di tempo; Egli, poi, sarà sempre tra loro con la sua assistenza. «E’ stato dato a me ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque a istruire tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quanto v’ho comandato. Ed ecco Io sono con voi tutti i giorni sino alla consumazione dei secoli». (Matth. XXVIII, 18-20) «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno loro rimessi; e saranno ritenuti, a chi li riterrete». (Giov. XX, 22-23). « In verità vi dico: quanto legherete sulla terra, sarà legato nel cielo: e quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo». (Matth. XVIII, 18)). Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me» (Luc. X, 16). La Chiesa è veramente la Gerusalemme di lassù. Di lassù venne il suo fondatore; lassù guidano la sua dottrina e i suoi Sacramenti: lassù sta il suo Capo invisibile, la pietra angolare che la sostiene, Gesù Cristo, Nostro Signore.

2.

Questa Gerusalemme di lassù è la nostra madre. « Questa è la madre di tutti, la quale ci raduna da ogni stirpe e da ogni nazione, e ne forma poi un corpo solo » (S. Zenone Tract. 33). Gesù Cristo ha costituito la Chiesa come una famiglia. Chi entrerà a farvi parte? Tutti quelli che parlano una data lingua? che abitano una determinata regione? Chi è fornito di un certo grado di coltura o di un certo censo? chi vi trova un adattamento ai propri gusti? Gesù Cristo non fa distinzione di luoghi e di persone. Se la legge mosaica si estendeva al solo popolo eletto,la legge cristiana si estenderà a tutti i popoli della terra. «Andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo. a ogni creatura, dice agli Apostoli (Marc. XVI, 15). È dunque la Chiesa di tutti gli uomini e di tutte le nazioni. Nei primissimi anni l’attività della Chiesa si svolge in Gerusalemme e in Palestina. Poi, in adempimento alla missione ricevuta, gli Apostoli allargano il campo della loro azione. Ancor viventi essi, la buona novella è già conosciuta in buon numero delle province dell’impero romano. Roma, che si assoggetta il popolo ebreo, ne distrugge la capitale e ne conduce prigionieri gli abitanti, non ha la forza di soggiogare i dodici ebrei che Gesù Cristo ha mandato a dilatare la sua Chiesa, la quale stabilisce subito il suo centro in Roma stessa. Ben presto si estende a tutto l’impero romano, e a tutto il mondo conosciuto. Man mano che si scoprono nuove regioni, la Chiesa vi pone le sue tende. È una società unica in condizioni e in luoghi disparatissimi. Ovunque si ubbidisce allo stesso capo, si amministrano gli stessi sacramenti,si insegna la stessa dottrina, «che si conserva unica e identica a traverso il succedersi delle età » (S. Vincenzo Lirin. Comm., 24). Non può essere altrimenti, poiché «la Chiesa è la bocca di Cristo » (S. Ilario, Tract. Ps. XXXVIII, 29). A questa universalità della Chiesa non possono nuocere le defezioni, provocate nel corso dei secoli dalle eresie e dalle persecuzioni. Quando un albero è in pieno vigore non fa che una perdita temporanea, se la tempesta o il ciclone gli stroncano qualche ramo. Al posto di un ramo troncato, sorgono, pieni di rigoglio, parecchi altri rami. Se qualche popolo, o parte di qualche popolo, fa talora apostasia dalla Chiesa Cattolica, ben presto altri popoli ne prendono il posto. L’assistenza di Gesù Cristo le infonde un vigore continuo, che la porta a nuove e sempre più ampie conquiste. E come allora, chi era nato secondo la carne perseguitava colui che era nato secondo lo spirito, così avviene anche adesso. E così avverrà sempre.. Ismaele, figlio della schiava perseguita Isacco; i Giudei, schiavi della legge. perseguitavano la Chiesa nascente; gli schiavi della passione e dell’errore perseguiteranno la Chiesa nel corso dei secoli, pur soccombendo sempre.Il giorno della Pentecoste è il giorno natalizio della Chiesa. In quel giorno parecchie migliaia formano la prima comunità, che il giorno seguente aumenta di altre. migliaia, I membri della Chiesa crescono sempre più di numero, e il fatto non può sfuggire ai suoi nemici. Il Sinedrio che aveva visto sigillata la pietra che chiudeva il sepolcro di Gesù, credeva di aver seppellito per sempre anche il suo nome. Si accorge di essersi ingannato. Il nome di Gesù risuona più di prima, e in questo nome si compiono grandi miracoli. Ed ecco che fa in carcerare e battere gli Apostoli. Presto seguirà il martirio di chi professa la divinità di Gesù Cristo. Verrà S. Stefano, verrà S. Giacomo, verranno altri martiri, in Palestina e fuori; ma non per questo la Chiesa s’arresta nel suo cammino.Il Redentore, dopo l’omaggio e l’adorazione dei Magi, è portato in Egitto per essere sottratto alla persecuzione di Erode. Un bel giorno, l’Angelo del Signore appare in sogno a Giuseppe, e gli dice: «Levati, prendi il fanciullo e la Madre di Lui, e va nella terra d’Israele; perché son già morti coloro che volevano la vita del bambino » (Matth. II, 20).Ecco la storia di tutti i persecutori della Chiesa. La Chiesa è ancor salda sul fondamento posto da Gesù Cristo e i suoi persecutori dove sono? Essi sono scomparsi, uno dopo l’altro, non lasciando di sé alcun nomea, o lasciando un nome esecrato. Quello che Dio guarda, è ben guardato. Eliodoro era stato mandato a Gerusalemme dal re Seleuco con l’ordine di spogliare il Tempio dei suoi tesori. Atterrato all’entrata del luogo santo dal cavallo d’un misterioso cavaliere, e flagellato con violenza da due giovani fulgenti di gloria, è salvato per l’intervento del Sommo Sacerdote Orda. Egli ritorna a Seleuco, a man vuote, ad annunciargli la potenza del Dio d’Israele. E quando il re gli chiede chi altro potrebbe essere mandato un’altra volta a Gerusalemme, risponde francamente: «Se tu hai qualche nemico o traditore del regno da punire, mandalo là, e ti ritornerà flagellato, se riuscirà a scampare la morte… Poiché colui che ha stanza nei cieli visita e protegge quel luogo, e percuote e stermina chi va a farvi del male» (2 Macc. III, 38-39).Brama di perdere, chi contro Dio combatte. Brama di fare una fine triste, dopo opera inutile, chi contrasta e combatte la Chiesa. Lo dimostra l’esperienza di 19 secoli. Abbiamo, dunque, la più grande fiducia nel continuo trionfo della Chiesa. Tutte le forze che si possono mobilitare contro di essa, non varranno a scuoterla. È sopra un fondamento troppo saldo. Lo scoglio avanzato o l’isolotto su cui s’innalza il faro ha ben poco da temere dall’insidia o dal furore delle acque. Il lavorio nascosto delle correnti non riesce a intaccare la salda roccia, e le onde impetuose non la possono abbattere. A ogni assalto c’è un po’ di rumore per l’urto: spruzzi d’acqua s’innalzano per un momento, poi tutto è quiete. Le onde si riversano infrante, lo scoglio sta, e il faro continua a brillare. La Chiesa continuerà la sua missione di illuminare il mondo, e intorno ad essa s’infrangerà qualunque forza.« Poiché è proprio della Chiesa il vincere quando è colpita, esser compresa quando è biasimata, riuscire quando è abbandonata » (S. Ilario, De Trin. L. 7, 4).Gesù Cristo rimprovera gli Apostoli di poca fede, quando temono di andar sommersi nelle onde del lago, nonostante la presenza del divin Maestro nella barca: non li rimprovera però, perché da parte loro fanno il possibile, lavorando di remi, per condurre la barca a riva. Saremmo certamente Cristiani di poca fede, se dubitassimo un momento del progresso continuo e del continuo trionfo della Chiesa; non saremmo certamente Cristiani modello, se non procurassimo, da parte nostra, aggiungere i fatti alla domanda che rivolgiamo tutti i giorni a Dio: «Venga il tuo regno ».

Graduale

Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus

Ps. CXXIV:1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

[A. Carmagnola: Spiegazione dei Vangeli domenicali – S. E. I. Torino 1921: Spieg. XVIII]

 “In quel tempo Gesù se ne andò di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Salì pertanto Gesù sopra un monte, e ivi si pose a sedere co’ suoi discepoli. Ed era vicina la Pasqua, solennità de’ Giudei. Avendo adunque Gesù alzati gli occhi e veduto come una gran turba veniva da lui, disse a Filippo: dove compreremo pane per cibar questa gente? Lo che Egli diceva per far prova di lui; imperocché egli sapeva quello che era per fare. Risposegli Filippo: Duecento denari di pane non bastano per costoro, a darne un piccolo pezzo per uno. Dissegli uno de’ suoi discepoli, Andrea, fratello di Simone Pietro: Evvi un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che è questo per tanta gente? Ma Gesù disse: Fate che costoro si mettano a sedere. Era quivi molta l’erba. Si misero pertanto a sedere in numero di circa cinquemila. Prese adunque Gesù i pani, e rese lo grazie, li distribuì a coloro che sedevano; e il simile dei pesci, nuche ne vollero. E saziati che furono, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. Ed essi li raccolsero, ed empirono dodici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che erano avanzati a coloro che avevano mangiato. Coloro pertanto, veduto il miracolo fatto da Gesù, dissero: Questo è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che erano per venire a prenderlo per forza per farlo loro re, si fuggì di bel nuovo da sé solo sul monte” (Io. VI, 1-15).

La volontà di Dio a nostro riguardo è che ci facciamo santi. Hæc est voluntas Dei, dice l’Apostolo Paolo, sanctificatio vestra. E lo stesso nostro Signore in più luoghi delle Sacre Scritture così insiste: Siate santi, perché Io sono Sauto: Sancti estote, quia ego Sanctus sum (Lev. Pass.). Ma forseché  Iddio, che vuole la nostra santificazione, tralascia di darci i mezzi per operarla? Tutt’altro! Egli ce li dona in tanta quantità e di tale efficacia da superare infinitamente qualsiasi aspettazione ed immaginazione. E tra questi tanti e così efficaci mezzi tengono principalissimo posto i Sacramenti, quei Sacramenti, che nostro Signor Gesù Cristo, venuto in su la terra a compiere l’opera di redenzione, nell’amor suo infinito per noi, affine di perpetuarla ha istituito, onde comunicarci in modo specialissimo la sua grazia, renderci capaci della santità e meritevoli della vita eterna. Che se ciò è proprio di ciascuno dei sette Sacramenti, lo è senza dubbio massimamente del Sacramento dell’Eucaristia, in cui per la S. Comunione, si riceve dall’uomo non solamente la grazia, ma lo stesso Autore della grazia, Gesù Cristo. Or bene, il Vangelo di questa domenica ci presenta propriamente la bella occasione di parlare di questo gran mezzo di santificazione.

1. Gesù, ci dice questo Vangelo, era andato di là dal mare di Galilea, cioè di Tiberiade; e seguivalo una gran turba, perché vedeva i miracoli fatti da lui a pro dei malati. Et reliqua … Ecco il Vangelo di oggi. Or bene, la più parte dei Sacri Dottori sono d’accordo nel riconoscere come questa moltiplicazione dei pani, operata da Gesù Cristo a pro di quelle turbe fameliche, sia una chiara e stupenda figura della moltiplicazione che il Salvatore avrebbe fatto del suo corpo e del suo sangue in cibo ed a pro delle anime nostre. E di fatti, che cosa accade nel mistero della Eucaristia? Anzi tutto il pane ed il vino sono tramutati nel corpo e nel sangue di Nostro Signor Gesù Cristo. Il Sacerdote, che nella sacra ordinazione ne ha ricevuto la possanza, a nome di Gesù Cristo pronunzia sopra del pane queste singolari parole: Hoc est corpus meum; questo è il mio corpo, e sopra del vino queste altre: Hic est calix sanguinis mei, questo è il calice del mio sangue, ed a queste semplici parole per la potenza che Gesù Cristo ha loro comunicato, il pane cessa di essere pane: il vino lascia di essere vino: e diventano il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo: quel vero Corpo nato da Maria Vergine, quel vero Sangue sparso sulla croce per la nostra salute. Rimangono, è vero, le specie ossia le apparenze di pane e di vino, la loro figura, il loro colore, odore, sapore, ma il pane ed il vino più non vi sono, perciocché, notatelo bene, dopo le parole consacratorie non è già che il Corpo ed il Sangue di Cristo si trovino nel pane e nel vino che allora non avverrebbe più quella conversione meravigliosa che la Chiesa chiama transustanziazione, ma bensì, come volle credere quel grande eresiarca che fu Martin Lutero, una semplice impanazione; non è dunque che il corpo e il sangue di Gesù Cristo si trovino nel pane e nel vino, ma il pane e il vino sono diventati realmente il Corpo ed il Sangue di Lui. Ma ciò non è tutto. Per l’onnipotenza di Dio, al quale niente è impossibile, la presenza reale di Gesù Cristo resta come moltiplicata su tutta la faccia della terra, perciocché per le parole della consacrazione proferite da ogni Sacerdote, che celebra la Messa, Gesù Cristo viene a trovarsi realmente presente in tutte le ostie consacrate del mondo. Percorrete pure tutta la terra, entrate pure in tutte le Chiese, aprite pure tutti i tabernacoli: scoprite pure tutte le pissidi, Gesù Cristo è sempre tutto intero in quelle sacre ostie, sia che rimangano unite, sia che voi le separiate. Anzi se si spezza pure un’ostia consacrata in minutissime parti, in ciascuna di esse vi sarà sempre ancora tutto intero Gesù Cristo col suo Corpo, col suo Sangue, con la sua Anima e con la sua divinità. Più ancora; fino a che non siano corrotte o consumate le specie del pane e del vino Gesù, rimane sempre in tutte tali ostie ancorché non siano distribuite ai fedeli, ma si conservino solo nei tabernacoli, e cioè indipendentemente dall’uso del Sacramento. Il Battesimo, ad esempio, acquista la natura di Sacramento nell’atto stesso che si compie l’abluzione sull’uomo: la Cresima quando si fa la sacra unzione: ma l’Eucaristia è invece Sacramento prima ancora di essere distribuito nella Santa Comunione; è Sacramento anche dopo d’essere stato distribuito, e vuol essere conservato sui nostri altari, perché il popolo cristiano venga ad adorarvi la reale presenza di Dio e poi essere portato in viatico a quegli infermi, che per la gravezza del male più non possono recarsi nelle Chiese a riceverlo.Ora, non apparisce chiaro da tutto ciò come il miracolo della moltiplicazione dei pani raffigura magnificamente il mistero eucaristico? Ed ecco perché Gesù Cristo nella moltiplicazione dei pani osserva le stesse cerimonie della istituzione dell’Eucaristia, vale a dire prende il pane, rende le grazie, lo distribuisce finché ne vogliono e poi ordina di raccogliere i frammenti, affinché non vadano a male; ecco perché l’Evangelista S. Giovanni dopo un tal miracolo fa subito seguire il racconto della promessa, che Gesù fece dell’Eucarestia. Ed ecco ancora il perché nei primordi della Chiesa in più di trenta luoghi nelle catacombe il mistero dell’Eucaristia fu rappresentato sotto la figura della moltiplicazione dei pani. Tuttavia questo miracolo non raffigura soltanto il gran dono di Gesù Cristo nella sua essenza, ma lo raffigura altresì nei suoi effetti.

2. Quel pane miracoloso fu da Gesù moltiplicato per saziare la fame della turba, che lo seguiva; e così l’Eucarestia viene miracolosamente moltiplicata per saziare la fame delle anime nostre. Ed in vero il Signore, il quale ha creato tutte le cose dal nulla, volle che le medesime avessero incremento e vita mediante la nutrizione. Però « tutte le creature, come dice Davide, aspettano dal Signore il cibo nel tempo opportuno ed Egli apre la mano e tutte le sazia con la sua benedizione: Omnia a te expectant ut des illis escam in tempore; aperis tu manum tuain et imples omne animal benedizione». E la creazione può paragonarsi ad un immenso banchetto, dove seggono incessantemente milioni di convitati pascendosi dal mattino alla sera dei doni della Divina Provvidenza. La pianta va cercando nella terra, e fin sull’arida roccia i succhi, che essa aspira; nell’atmosfera va cercando la luce, i gas, la rugiada ch’essa avidamente beve. L’animale più esigente ancora, a mano a mano che la sua vita si svolge, va cercando il suo cibo nei prodotti delle piante e non di rado nelle carni stesse di un altro animale. L’uomo poi alla sua volta avendo anch’egli bisogno dì mangiare per vivere si serve anch’egli del cibo, che gli somministrano le piante e gli animali. Se non che all’uomo non basta questo cibo terreno, perché egli sia pienamente sazio in tutto il suo essere. Egli ha un’anima creata nel soffio di Dio, da Dio costituita in un ordine soprannaturale, destinata ad avere per suo fine Dio medesimo, a contemplarlo, a possederlo eternamente. Quest’anima nel Cristiano è santificata da Gesù Cristo nel Santo Battesimo, arricchita dei doni dello Spirito Santo nella Cresima e per vari titoli è fatta partecipe della divina natura. Ora quest’anima anch’essa ha fame e per quell’impulso che Iddio le ha dato, per quell’ordine, in cui Iddio l’ha costituita, per quella santificazione, che in lei ha operato, ha fame e sete di un cibo soprannaturale, di un cibo celeste, di un cibo divino, in una parola, ha fame e sete di Dio. E poteva essere che Iddio, sempre infinitamente buono con gli uomini, lasciasse insoddisfatto questo bisogno della loro anima? No, senza dubbio. Onnipotente, sapiente, buono come Egli è, lo ha soddisfatto in un modo che, come osserva S. Agostino, esaurisce la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà. Egli lo ha soddisfatto appunto nel Sacramento della Eucarestia, Sacramento in cui sotto le specie del pane e del vino Egli, Iddio, realmente Iddio, si fa cibo alle anime nostre. Gesù Cristo lo ha detto: « Io sono il pane della vita: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me ed Io in lui: chi mangia di me, vivrà di me. » E siccome il pane, ed ogni altro cibo materiale che noi prendiamo per saziare la nostra fame, si va trasformando nella nostra carne e nel nostro sangue, così questo pane e questo cibo delle nostre anime, che è la SS. Eucarestia, opera pure su noi una trasformazione anche più, anzi infinitamente più meravigliosa. Perciocché nella Comunione valendo la legge che nel concorso di duranze, la più attiva trasforma in se stessa quella che lo è meno, non siamo noi che trasformiamo il pane vivo di Gesù Cristo nel nostro essere, ma è lo stesso Gesù che ci trasforma in Lui. Cibus sum grandium, diceva Gesù dal tabernacolo a San Agostino, cresce et manducabis me: Io sono il cibo delle anime grandi, cresci e potrai mangiarmi: Nec tu mutabis me in te, sicut cibus carnis meæ, sed tu mutaberis in me: ma tu non cambierai me in te, come il nutrimento della tua carne, tu bensì sarai cangiato in me. Intendetelo bene, o miei cari, Gesù Cristo ci fa passare in Lui! Nel momento della comunione, Egli ci piglia, ci penetra, si impadronisce della nostra vita, ne volge il corso verso la vita sua, conforma le nostre tendenze, i nostri costumi alle tendenze ed ai costumi divini, dimodoché dopo la Comunione ciascuno di noi può esclamare con l’Apostolo: Sembra che io viva, ma no, non son più io che vivo, è Cristo che vive in me: Vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus. È vero, l’atto della Comunione è passeggiero: la presenza reale non dura che pochi istanti: le specie sacramentali, dalla cui sorte essa dipende, scompariscono ben presto nel cieco lavoro dei nostri organi, ma l’effetto della divina assimilazione è durevole: perché Gesù Cristo lo ha detto: Qui manducat me, vivet propter me; e la sua parola non può fallire. E come quando il fiore è passato per le vostre stanze e l’incenso è stato arso presso l’altare, han lasciato il loro profumo, e come quando il sole è scomparso dall’orizzonte, la terra rimane ancor penetrata dal suo vivifico calore, cosi Gesù Cristo, allora che noi ci siamo nutriti della sua carne, lascia nell’anima nostra la sua fragranza ed il suo calore, sicché noi possiamo sempre ripetere: Mihi vivere Christus est: Gesù Cristo è la mia vita. – Come bene adunque il miracolo della moltiplicazione dei pani, operato da Gesù Cristo per saziare la fame di quella turba che lo seguiva, come bene raffigura il mistero dell’Eucarestia, che Gesù Cristo ha istituito per saziare la fame dell’anima nostra! Ma come quel pane miracoloso saziando la fame di quella turba riparò in essa la perdita delle sue forze, e la sostentò, le accrebbe anzi vigoria e le procacciò pure un grande diletto, così ancora è da dirsi del pane Eucaristico. E così appunto dice S. Tommaso.

3. Ogni effetto che l’alimento materiale produce nella nostra vita corporale, dice egli, lo produce l’Eucaristia nella vita spirituale, vale a dire ripara, sostiene, aumenta e diletta. Ed anzi tutto ripara. Come il nostro corpo va soggetto a perdite per le forze deleterie, che agiscono in lui, così l’anima nostra. Il peccato opera in essa delle alterazioni analoghe a quelle, che le malattie producono nel nostro corpo; e sebbene se ne sia guariti per mezzo di una santa Confessione, rimangono tuttavia le sue conseguenze, una debolezza, una prostrazione di forze, una facilità a ricadervi, come chi si trova nello stato di convalescenza. Or bene per mezzo della Comunione la grazia si rinvigorisce, le forze ritornano, il pericolo di ricadere si fa più lontano e si è più facilmente preservati dal peccato mortale. E siccome non è la colpa grave soltanto, che cagioni in noi delle perdite, ma anche le quotidiane imperfezioni, a cui andiamo soggetti, senza distruggere, scemano tuttavia in noi il fervore della carità, così l’Eucarestia anche qui compie la sua opera di riparazione, perciocché come afferma S. Ambrogio, questo pane divino è il rimedio alle quotidiane infermità: Iste panis quotidianus sumitur in remedium quotidianæ infirmitatis. In secondo luogo la SS. Eucaristia ci sostiene nella lotta, che dobbiamo avere continuamente coi nostri nemici. Il demonio nostro implacabile avversario sempre si aggira dintorno a noi, cercando di divorarci. Il mondo con le sue vanità, con le sue massime e persino con le sue minacce porge, ahi! troppo valido aiuto all’opera di satana. E sventura vuole che a questi nemici esterni si aggiungano dei nemici interni, vale a dire le nostre passioni, che a guisa di furie si scagliano continuamente contro di noi per cooperare con satana e col mondo a far la nostra rovina. Ora, contro di queste tre sorta di nemici, sempre congiurati ai nostri danni, dove troveremo noi la forza per resistere e vincere? Nella SS. Eucaristia. La carne ed il sangue di Gesù Cristo, dice S. Giov. Crisostomo, mette in fuga ed allontana da noi il demonio, poiché al solo vedere nelle anime nostre Colui che atterrò il suo impero, si sente ripieno di sgomento. La Comunione ci tramuta in leoni spiranti fiamme d’un coraggio divino, sicché non è più il demonio che sia terribile a noi, ma noi siamo terribili al demonio. E così venga pure il mondo contro di noi con le sue vanità, con le fragili bellezze delle creature, con le lusinghe de’ suoi amori caduchi! Se l’Eucaristia ciba sì spesso le anime nostre, il nostro cuore non pena e non tarda a dissipare le illusioni, e a togliere anzi argomento da questi assalti mondani a stringersi sempre più fortemente al suo unico vero bene. Venga pure il mondo contro di noi con le sue massime e con le sue derisioni, ma l’Eucaristia metterà nell’anima nostra tale una forza, che ci farà respingere sdegnosamente quelle sue perverse massime e ci indurrà ben anche a sfidare il mondo tutto, se con le sue dicerie verrà a distoglierci dall’operare il bene. Venga in fine contro di noi con le stesse minacce e con le persecuzioni e con le violenze. Non temeremo certamente di ciò, e a somiglianza dei primi Cristiani, fortificati da questo pane celeste, saremo pronti a morire, ma non a cedere. Infine siccome oltreché da questi nemici esterni siamo ancora travagliati dalle nostre prepotenti passioni, dal nostro orgoglio, dalla nostra cupidigia, dalla nostra carne, così Gesù Cristo venendo dentro di noi per la Santa Comunione, come dice S. Cirillo Alessandrino, raffrenerà il loro ardore corroborando contro di esse la nostra pietà. Difatti come non fiaccare la nostra superbia davanti ai prodigiosi abbassamenti di Gesù nella SS. Eucaristia? Come non distaccare il cuore dai beni terreni nel possesso vero ed unico bene? Come non castigare e mondare la nostra carne nel mangiare il frumento degli eletti e nel bere il vino che germina i vergini? In terzo luogo questo cibo delle anime nostre accresce ancora in noi la vita spirituale, spronandoci efficacemente a far passi da gigante nella via della giustizia e della santità; imperciocché coloro, che si cibano sovente e bene della SS. Eucaristia, sono essi, a ciascun dei quali si possono applicare le parole del Salmista: Beatus vir, cuius est auxilium abs te; ascensiones in corde suo disposuit; beato l’uomo che da te, o Signore, riceve l’aiuto, anzi il generatore dell’aiuto, perciocché è desso che ha stabilito di salir sempre più in alto. Sì, sono essi, che se ne vanno di virtù in virtù: Ibunt de virtute in virtúte (Ps. LXXXIII, 6), che si fanno sempre più umili, sempre più pazienti, sempre più mortificati, sempre più casti, sempre più caritatevoli, sempre più ardenti nell’amor di Dio, sempre più santi. È la forza arcana dell’Eucaristia che li spinge, che dice a ciascun di loro con tutta l’efficacia: Ascende superius: pia in alto, più in alto sempre. E finalmente il cibo della SS. Comunione arreca alle anime nostre un ineffabile spirituale diletto. Ah! io so bene che l’uomo animalesco, che non vive che in mezzo alle cose del mondo e ai piaceri del senso, del tutto ignaro e dimentico delle cose di Dio, no, non capisce che vi possa essere uno spirituale diletto nel ricevere la Santa Comunione. Ma se noi ne domandassimo qualche cosa ai Santi, che con tanta frequenza e con tanto fervore vi si accostavano, ben ci risponderebbero che non vi ha sulla terra maggior diletto di questo, e che qui nella Santa Comunione si prova davvero il paradiso anticipato. Ma anche senza rivolgerci ai Santi, è certo che so nel corso della nostra passata vita abbiamo fatto delle buone Comunioni, noi medesimi potremo rendere testimonianza di questa certissima verità, che il cibarci delle carni di Gesù Cristo, arreca veramente il massimo fra gli spirituali diletti. Ecco adunque gli effetti ammirabili, che opera il pane della SS. Eucaristia in chi bene e frequentemente lo riceve. Se ancor noi desideriamo di goderne, imitiamo le turbe del deserto. Aneliamo di star vicini a Gesù, stiamogli vicini davvero col tenerci sempre lontani dal peccato, ed allora con la bella e necessaria disposizione della grazia potremo ancor noi cibarci bene e spesso del pane Eucaristico, e questo pane sazierà la fame dell’anima nostra e ne opererà la santificazione.

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV: 3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Communio

Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

LO SCUDO DELLA FEDE (55)

S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Mure, FIRENZE, 1858]

FALSITA’ DEL PROTESTANTESIMO

CAPITOLO V.

IL PROTESTANTISMO È FALSO PERCHÉ È NUOVO.

Dalle persone che abbiamo considerate passiamo alle cose, e vediamo fin dove vi vogliano trascinare. Vi conducono se non istate attenti nell’abisso di ogni errore. Eccovene alcune prove bell’e chiare. La vera Religione è quella che ebbe origine da Gesù Cristo e che mantenutasi in ogni secolo pervenne fino a noi, che perciò si chiama Religione Cristiana, perché proviene da Gesù Cristo. È dunque manifesto che la vera Chiesa deve essere antica quanto è il suo divin Fondatore. Ma il Protestantismo è nuovo, dunque non è la vera Chiesa. Ora che le sette Protestanti non siano antiche e che per conseguenza non provengano da Gesù Cristo, gli è chiaro poiché noi sappiamo l’anno, il mese, il giorno in cui sono comparse al mondo. Le une hanno avuto per padre Lutero, le altre Calvino, la Zuingliana viene da Zuinglin, l’Anglicana da Arrigo VIII e da Elisabetta, i Quaqueri da Giorgio Fox, i Mormoni da Giuseppe Smith, c così andate dicendo. Tutti questi capi settarii non hanno nessun legame con le persone precedenti, non ne hanno principalmente la dottrina, perché se l’avessero avuta non si sarebbero separati da loro: dunque non possono vantarsi di provenire da Gesù; dunque non sono veri pastori, dunque sono lupi voraci. Con questa ragione sola un vecchio contadino fece ammutolire la perfida Regina d’Inghilterra Elisabetta. – Questa Signora andando una volta alla caccia nei suoi poderi s’incontrò in un buon vecchio e prese ad esortarlo che si facesse protestante. Egli stava zitto a sentirla, ed intanto con una mano si lisciava la sua candida barba. Quando la trista Regina ebbe finito, orsù, gli disse, siete risoluto a farvi dei nostri? Come posso, ripigliò allora quel vecchio savio, abbracciare una Religione che è nata dopo la mia barba? Con questa bella risposta le volle far capire che la Religione Cristiana non può esser vera se non è antica, se non rimonta fino a Gesù Cristo che ne è il divin fondatore. E questa è appunto la bella proprietà della Religione Cattolica, la quale sale di età in età, di secolo in secolo, come un bel fiume maestoso sino alla sua sorgente che è Gesù Cristo. Noi in questo secolo teniamo le stesse dottrineche hanno tenuto nel secolo precedente, quelli del secolo precedente hanno conservate quelle dei loro antenati, ed andate dicendo. Quest’oggi siede Pio IX Pontefice e Vicario di Gesù Cristo sul trono Apostolico, egli insegnò quello che insegnò Gregorio XVI. Questi quello che insegnò Pio VIII, Leone XII, Pio VII, Pio VI, e tutti gli altri Romani Pontefici fino a S. Pietro e fino a Gesù Cristo. Direte: e come si sa che hanno sempre insegnato lo stesso? Si sa con tutta certezza in molte maniere. Si sa da questo che si vede che ogni volta che venne fuori qualcuno che insegnasse una dottrina nuova, come hanno fatto finodai primi tempi gli eretici, fu subito reciso dal corpo di S. Chiesa. Questo sono obbligati a confessarlo anche i Protestanti, parlando delle prime Eresie, clic anch’essi rigettano: sebbene poi non lo vogliano più concedere delle ultime e delle loro, perché non vogliono confessare d’aver torto. Si sa per testimonianza degli stessi Protestanti, i quali provocati tante volte a dire in qual secolo la Chiesa abbia cambiate le sue dottrine, sono costretti a dire mille spropositi ed a contraddirsi fra di sé, volendo alcuni che fosse nel terzo secolo, altri nel quarto, altri nel sesto, altri nel duodecimo. Con che fanno vedere molto chiaro, che non sanno quel che si dicono. Lo dimostrano anche con ciò, che postisi talora all’opera d’indicare quelle dottrine in che si è fatto cambiamento, mai non convennero fra di sé, e qualunque punto traessero fuori come novità introdotta dalla Chiesa, fu subito dimostrato che non era altrimenti nuova dottrina introdotta, ma antica sentenza mantenuta. – Si dimostra finalmente da ciò, che sarebbe stato impossibile fare un cambiamento nella Fede senza che tutti i Cattolici reclamassero subito. Nei primi secoli per testimonianza di tutti i Protestanti, Ja Fede era pura, i Sommi Pontefici che reggevano la Chiesa erano sulla strada di verità. Quando fa dunque, li interroga S. Francesco di Sales, che Roma perdette questa Fede pura e celeste? Quando cessò di essere quello che era? » In qual tempo, sotto qual Papa? Per qual mezzo e per forza di chi? Qual Religione straniera invase la città eterna, e con lei il mondo intero? Questo divorzio fatto dalla verità non destò neppure una voce fedele, non un grido, non una lagnanza? Oh dormivano dunque tutti quelli che pure voi tutti quelli che pure voi stessi concedete che erano fedeli, mentre Roma formava nuovi sacramenti, nuovo sacrificio, nova dottrina? Come non vi ha o né greco, né latino, né domestico, né  straniero che ne abbia lasciato un cenno, una memoria, una sillaba? Oh certo questa è la più portentosa novità del mondo, che mentre essi si perdono in cento inezie che riguardano i paesi ed i popoli, abbiano tutti d’accordo passato senza un’osservazione l’affare della Religione. Se venisse adesso un fedele qualunque e volesse mutare qualche verità della S. Fede, starebbero zitti tutti i Sacerdoti, tutti i Vescovi, tutti i Patriarchi della Chiesa Cattolica? Tutto l’opposta Sorgerebbero subito a gridare, a strepitare e condannare, appunto come fanno quando alcuno toglie ad insinuare una novità: ma lo stesso facevano in passato: tanto che non sarebbe mai stato un cambiamento senza di molto strepito. Vedeteadunque che la Chiesa Cattolica, mai non mutò dottrina. – I Protestanti però a dimostrarvi che la Chiesa ha cambiato dottrina, vi portano sempre dinanzi la definizione che il Santo Padre Pio IX ha fatta dell’Immacolata Concezione di Maria Vergine. Ebbene io voglio che osserviate la ignoranza e la malizia di quelli che fanno questa difficoltà. Ecco come andò la cosa. Si dubitava da alcuni se la SS. Vergine fosse stata concepita in peccato o no. Notate bene, non si faceva questione, come sognano alcuni sciocchi, se la Madonna SS. fosse stata Vergine o no, perché mai nessuno ha dubitato che la Madonna godesse questo gran privilegio: quello di che si dubitava, era se la Madonna avesse contratto il peccato originale o no. Allora che cosa fece la S. Chiesa, la quale non vuole che s’introduca nessuna dottrina nuova, ma che ritiene sempre la dottrina tal quale fu rivelata da Gesù Cristo? Fece ricerche diligenti nelle tradizioni di tutte le Chiese e specialmente nelle Chiese fondate dai Santi Apostoli, per scoprire quale fosse la vera dottrina di Gesù Cristo lasciata alla sua Chiesa; ed avendo trovato per quella assistenza che lo Spirito Santo secondo le promesse di Gesù Cristo mai non le lascia mancare, che in tutte anche le più antiche Chiese era comune e costante la dottrina dell’immacolato concepimento di Maria, pronunziò autenticamente per mezzo del Sommo Pontefice che la vera, l’antica dottrina era che la gran Madre di Dio fosse stata esente da ogni macchia di peccato originale. – Vedete adunque che non solo la Chiesa non inventò una nuova dottrina, ma insegnò l’antica levandola da ogni dubbietà. Sono adunque o molto ignoranti quelli che non comprendono queste cose, ed allora farebbero bene a tacere, oppure sono molto maligni ed allora non meritano alcuna fede. – Del resto i Protestanti istruiti sanno che questo mezzo di definizione fu adoperato sempre nella Chiesa, ogni qual volta sorse un dubbio od un errore, ed essi sono costretti ad ammetterlo come legittimo, trattandosi degli errori definiti contro Nestorio, Eutiche etc. che anche essi riconoscono come errori. Qual è dunque il motivo per cui lo stimano inopportuno trattandosi della Madonna SS.? E sempre la mala fede che si mostra a mille miglia lontano. Negano e concedono ad arbitrio, come fanno quelli che avendo detto la bugia, per sostenerne una, sono costretti a dirne cento altre.

QUARESIMALE XXI

[Padre Paolo SEGNERI S. J.:

Quaresimale

– Stamperia Eredi Franco,
Ivrea 1844 –

Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843,
Ferraris prof. Rev. Pe]

PREDICA VIGESIMA PRIMA

NEL VENERDI DOPO LA TERZA DOMENICA

Jesus ergo
fàtígatus ex itinere sedebat sic supra fontem hora est quasi sexta.
Venit mulier Samaria haurire aquam etc. [Jo. IV.6];

DUE contrarissimi affetti genera nel mio cuore questo successo della odierna Samaritana, ch’io già presuppongo notissimo ad ognun di voi, e sono appunto una fervente speranza, e un freddo timore. Perocché mentre profondamente io considero, da quanto poco dipende la salute di sì rea femmina, subito mi si sveglia nell’animo un ardito pensiero, il quale mi dice: Se cosi è poco dunque ci vuole afin di salvarsi. Ma, oimè, che si leva tosto in contrario un pensiero palpitante, il quale mi replica: Se così è, basterà dunque ancora poco a perire. E’ vero, che questa misera peccatrice non per altra ragione diventò santa, se non perché s’imbatte casualmente a quel pozzo, dov’era Cristo affaticato ed ansante, ed ivi interrogata da Lui, si contentò di reprimere quella voglia, la quale aveva, di cavare allora dell’acqua per udirlo alquanto discorrere di materie a lei salutari. Ma fate voi ragion, che vedutolo non gli avesse in verun modo voluto prestare orecchie, ma avesse detto: Adesso ho altro che fare, sono assetata, sono arsa, e poi l’ora è tarda: “ora est quasi sexta”; convien ch’io torni alle mie faccende domestiche; quanto è probabile che mai più non dovesse incontrare nell’avvenire una congiuntura sì comoda, quale ella ebbe, da rientrare in se stessa, e da ravvedersi! Da questa considerazione io sollevo sbigottito il mio spirito a domandarvi: Chi è tra noi, Signori miei cari, il quale faccia gran caso di un piccolo movimento interiore, il quale talor ci stimoli alquanto a mortificarci: di un piccolo impulso, di una piccola ispirazione, o di una azione minutissima di virtù? E pure, quell’azion di virtù sì minuta era forse il principio da cui doveva derivare la nostra beatitudine, e siccome trascurato il principio. Né meno. si ottiene il fine; così trascurata quella minuzia, né meno avviene, che ottengasi il Paradiso. Oh Padre (voi mi direte) com’è possibile? Volete dunque che da una minuzia dipenda la salute eterna di un uomo? Mentre parlate così, voi volete atterrirci. non istruire! Voglio atterrirvi? Ah sì. ch’io voglio atterrirvi (ve lo confesso) ma perch’io sono atterrito: Territus terreo, dirò tremante col Padre Santo Agostino. Non però voglio atterrirvi con vane esagerazioni, voglio atterrirvi con sodissime verità. Io vi prometto di non dirvi se non quello che mi fa riscuotere tutto da capo a piedi, quand’io vi penso, e che se ancora non è bastevole a rendermi meno iniquo, mi fa non essere almanco più incorreggibile. E che cosa è questa? Quella proposizione appunto che a voi pareva così strana, cioè, che da una minuzia talor dipenda la salute eterna di un uomo. Questa proposizione è quella che fa tremarmi, questa è quella ch’io qui mi accingo a mostrare, perché ognun veda una volta quanto sia vero che la buona opportunità vuole essere presa a tempo per li capelli, che son le piccole cose.

II. E primieramente io non credo, che vi parrà per altro strano di udire che da cose piccole possano derivare cose grandissime. Non ci predicano quasi altro i Naturali nelle loro considerazioni, i Politici nelle loro avvertenze, i Morali nelle loro massime. Basta dare un’occhiata d’intorno al Mondo per chiarirsene in un momento. Non è già solo il granellino di senape quello che nella Palestina si vanta di giungere a tanta altezza che agguagli gli alberi, non che avanzi le biade? Tutte quelle selve, le quali coi loro tronchi somministrano tante aste agli eserciti, tante navi all’Oceano, tanti sostegni alle case, tanti materiali alle macchine, tanti ricetti alle fiere, tanto nutrimento alle fiamme; ſe ci volessero fedelmente scoprire la l’oro origine, mostrerebbero alla fin altroche minutissimi semi stati talora, o spazzatura dei piedi, o scherzo degli uccelletti? Non accade, che scagliandosi un fulmine dalle nuvole faccia fracasso sì grande per ostentare la sua meravigliosa potenza… Abbatta pure le torri, percuota i gioghi, incenerisca i boschi, sgomenti i popoli: ben si sa da qual piccolo vaporetto egli ebbe i natali. E quei gran fiumi, che del continuo pellegrinando pel mondo ne vanno tanto orgogliosi, che vogliono porre i termini alle provincie, e togliere il nome al mare, e però anch’essi or portano sopra il dosso armati navigli, or contribuiscono dal seno grossissime pescagioni, ed ora infuriati uscendo dagli argini recano strage agli armenti, inondazione a campi, e sterminio alle biade, assedio alle case, solitudine alle Città, questi gran fiumi medesimi, se si potessero rivoltare talora indietro a mirare i loro principi, quanta cagione avrebbero di umiliarsi. mentre vedrebbero o che semplici villanelle vi guizzano entro per giuoco, o che stanchi pellegrini gli saltano per insulto! Tanto è comune alle cose ancora maggiori derivar dalle minime! Così son famosi gli incendi sorti da una favilla, così i contagi sparsi da un fiato, così i tremoti originati da un alito. Ma senza ciò, se si considera il corso degli avvenimenti morali, chi non sa come da cagione leggerissima può accadere che uno o da altissima dignità cada in un vilissimo stato, o da un vilissimo stato sia sollevato ad altissima dignità? Abigaille, di cittadina privata, arrivò ad essere tolta da un Davide per consorte, e così a cingere ancora un giorno la fronte di corona Reale; Ma ciò donde avvenne? Da una tal buona creanza, la qual ella usò coi servi di Davide, nel portar loro un rinfresco. Rebecca, di semplice garzoncella, arrivò ad esser data ad un Isacco per sposa; e così a divenire anche un tempo procreatrice del promesso Messia. Ma ciò donde accadde? Da una tal facile cortesia, ch’ella mostrò col messo di Isacco nell’offrirgli dell’acqua (Gen. XXIV). Laddove Aman, quel sì celebre favorito del Re Assuero, donde venne alla fine a cader di :grazia, a perder le dignità, a perdere le ricchezze, a perder la prole, ed a morir anche appeso qual pubblico malfattore sopra un patibolo? Non da altro venne, che dall’aver lui preso a piccarsi che un Mardocheo, uomo popolare, uomo povero non lo salutasse a suo modo: Non flecteret sibi genu (Esth. III, 5)? Che dirò della milizia? che del traffico? che delle lettere? Non fu per certo un accidente lievissimo, che Protagora divenisse in Grecia filosofo sì ammirato? Guardate donde accadde e meravigliatevi! Era già Protagora un vile contadinello, quando portando egli un dì sulle sue tenere spalle un fastello di legna al vecchio suo padre, si imbatté casualmente in Democrito, filosofo di gran nome, il quale vedendo quelle legne legate insieme con grandissima aggiustatezza, domandò al fanciullo, s’aveva fatte egli quel fascio. E rispondendo quegli di sì: Provati un poco, gli soggiunse Democrito, a scioglierlo, ed a ricomporlo all’istesso modo. Ubbidì Protagora prontamente, e con egual arte ed industria rilegando insieme le legne, se le recò di bel nuovo sopra le spalle. Dal che congetturando Democrito in quel figliuolo ingegno ed indole opportuna agli studi, l’invitò a vivere sotto la sua disciplina, lo educò, lo sostenne, lo addottrinò, e lo rendé filosofo non minore di tal maestro. Fate ora voi ragion che Protagora, o non avesse composto con tale aggiustatezza quel fascio, o non avesse incontrato in tali congiunture quel Savio; quanto è probabile ch’ei si fosse sempre rimasto a guidar l’aratro, in cambio di esercitare la penna? … e a solcar le campagne, in cambio di vergare le carte? E di somiglianti successi io potrei raccontarne quasi infiniti in qualunque genere, se non mi premesse di accostarmi più da vicino ad esemplificare nelle opere della grazia, senza vagar tanto per quelle della Natura.

III. Presupponete adunque che Dio, conforme allo stile, ch’Ei tiene nell’ordine della natura, proceda ancora nell’ordine della grazia; altrimenti da quello, che noi vediamo, non ci potremmo sollevare ad intendere quello, che non vediamo, come pur pretendeva S. Paolo ai Romani, quand’egli disse, che Invisibilia Dei, per ea quæ facta sunt, intellecta conspiciuntur (ad Rom. I, 20). Ha dunque Iddio, quanto alla sua volontà antecedente, non pur disegno (per favellar coi Teologi) ma ancora di beneplacito, destinata a tutti la gloria del Paradiso; e però veramente vorrebbe che la conseguissero tutti, che non la perdesse veruno: Deus vult omnes homines salvos fieri (I Tim. II 4). Ma essendo lo stesso il fine a cui tutti dobbiamo giungere, non son pero l’ istesse le strade da giungere ad un tal fine. Anzi nella vita di ciascun uomo Iddio vede, come le scuole c’insegnano, in numerabili connessioni, concatenazioni, o serie di avvenimenti, le quali, come tante strade maestre conducono, altre dirittamente alla gloria, altre dirittamente alla perdizione: Vias vitæ. Et vias mortis (Jer. XXI, 8). Ora, che l’uomo s’incammini piuttosto per una di queste strade che per un’altra, dipenderà talora da opere piccolissime. L’udire o il non udire una predica: il leggere, o il non leggere un libro; il parlare, o il non parlare con una persona: l’andare o il non andare a una veglia, può esser quello che, o c’incammini al Cielo, o c’incammini all’Inferno. Dissi “c’incammini”, vedete, perché non dipenderà la nostra salute immediatamente da tali azioni, ma dipenderanno remotamente in quella maniera medesima, onde abbiam detto, potere azioni anche minime incamminare naturalmente un mondano a gran perdite, o a grandi acquisti: In tantum ut, si priora tua fuerint parva, (come diceva quell’amico di Giobbe), novissima tua multiplicentrur nimis. Non si sgomenti, se a qualcuno non paja di avere ancor bene appresa una tal dottrina, perché io la renderò con gli esempi manifestissima a chicchessìa, benché digiuno d’ogni perizia scolastica. Pigliamo dunque per maggior’ intelligenza di ciò un nobile avvenimento, che vien descritto dal Padre Santo Agostino. Racconta il Santo. come dimorando l’Imperatore Teodosio nella città di Treviri a rimirare i famosi giuochi del Circo, due cortigiani si vollero appartar da quello spettacolo; ma non sapendo frattanto ciò ch’essi fare, si avviarono unitamente fuor delle mura, per goder la vista innocente della campagna. Passarono d’una in altra strada, d’uno in altro ragionamento, finché s’incontrarono in una solitaria boscaglia, dove abitavano sotto una rozza casuccia alcuni penitenti romiti. Entrarono per curiosità in quel tugurio, e mentre, come accade, ammiravano le angustie dell’abitazione, e la penuria dei mobili, videro un libro assai logoro, che giaceva sopra un tavolino . Uno di loro il piglia, l’apre, e s’avvede contenersi in esso le azioni del grand’Antonio. Comincia a leggerle, prima per curiosità, di poi per diletto, indi sente anche a poco a poco infiammarsi all’imitazione. Quando all’improvviso, avvampando tutto nel cuore di un amor santo, e nel volto di un vergognoso rossore, prorompe in un sospiro, e dice al compagno: Poveri noi, che seguitiamo una strada tanto diversa! Dic, quæso te, omnibus isti laboribus nostris, quo ambimus pervenire? quid quærimus? (S. Agost. Confess. Lib. VI). Ditemi un poco per vita vostra, o Signore, che pretendiamo noi con tante fatiche, con tanti servizi, con tanti corteggi, con tante umiliazioni; che pretendiamo? Possiamo mai sperar più, che di conseguir la grazia del Principe? Major ne esse poterit spes nostra, quam ut amici Imperatirissimus? Ma chi ne assicura che vi arriviamo? La vita è breve, la gioventù fallace, le forze manchevoli, i concorrenti molti, i carichi; pochi. E poi, quando ancor vi arrivassimo quid ibi non fragile, plerumque periculis? Che avremo noi fatto alla fine che cambiare fatica con fatica, servitù con servitù, pericolo con pericolo? Quante invidie ci assedieranno, quanti odi, quante persecuzioni quante calunnie! Non ci converrà vivere sempre in timore, e star sempre in guardia! All’incontro. per diventare amico di Dio, basta il volerlo niuno ce lo potrà mai contendere, e nessun levare: Amicus autem Dei, si voluero, esse non fio. Indi tornò a fissare gli occhi sul libro; e quasi assorto per la gran mutazione che lo agitava nell’animo, leggeva insieme, e gemeva, or nella faccia pallido, ed or acceso; ora pensieroso, ed or lagrimante. Finalmente richiude ad un tratto il libro, e battendo la mano sopra la tavola, dice risolutamente al compagno: Or quanto a me, io del tutto ho già stabilito di non mi partir più di qui. Da quest’ora ed in questo luogo io mi voglio consacrare tutto a Dio; però se voi non mi volete im itare, rimanetevi di sturbarmi: Ego jam Deo servire statui, et hoc ex hora hat, in hoc loco aggredior; te si piget imitari, noli adversari. Come? ripigliò l’altro, commosso da tal esempio, non piaccia a Dio, ch’io a me ritenga la terra, a voi lasci il Cielo. O ambedue ci ricondurremo alla Regia, o chiuderacci questo tugurio ambedue. E così risolutisi di nemmen prima tornare all’Imperatore, gli mandarono dentro un foglio l’avviso della lor concorde risoluzione; e deposti di subito gli ori, e gli ostri , si copersero di un sacco, si cinsero d’una fune, si chiusero in una cella; ed ivi in somma mendicità, sempre squallidi, sempre scalzi, menarono tutto il resto dei loro di, non mai però più famosi al Mondo che quando lo disprezzarono. Ora ditemi un poco, Signori miei; tante opere buone, che questi due novelli romiti dovettero di poi fare, tante vigilie notturne, tanti salmeggiamenti scambievoli, tante contemplazioni profonde, tanti digiuni severi, tante flagellazioni sanguinolenti con cui dovettero sicuramente acquistarsi la gloria del Paradiso, tutte queste cose, donde ebbero principio, chiamato già nei Proverbi (XVI, 5) Initium viæ bonæ? Mirate donde: dall’essersi ritirati da uno spettacolo. Quindi Iddio dispose che uscissero a camminare; dall’uscire a camminare, che incontrassero il romitaggio; dall’incontrare il romitaggio, che leggessero il libro; dal leggere il libro, che s’infiammassero di sentimenti devoti; quindi che aborrissero la Corte, che abbandonassero la Casa, che abbracciassero il chiostro, che camminassero sulla regia via della Croce. Laddove fingete voi, che si fossero trattenuti a quei giuochi, a cui forse potevano intervenire senza grave rimordimento: farebbe accaduto veruno di questi casi? E’ moralmente certo, che no: mercecché tutte le cose, se noi vogliamo dar credito all’Ecclesiaste, hanno una tal propria opportunità, a cui sono affisse Omnia negotia tempus est, et opportunitas (Eccl. VIII, 6). E però piuttosto saria seguita una serie di avvenimenti molto diversa, la qual Dio sa dove gli avrebbe condotti; perocché avrebbero probabilmente perseverato nel servizio del Principe, nella vanità delle signorie, ne’ vizi del secolo, e per conseguente ancor nei pericoli dell’Inferno. Debbono dunque riconoscere essi la loro eterna salute (non già come da cagione prossima, ma come da cagione remota) dall’aver lasciata una ricreazione non sì lodevole; Questa ſu a guisa di quella piccolissima fonte, veduta poi da Mardocheo convertirsi in fiume sì vasto (Esth. XI, 10). Questo fu a guisa di quel piccolissimo sasso veduto poi da Daniele cambiarsi in montagna sì smisurata. (Dan. II. 35).

IV. Ora figuratevi, che da sì lievi cagioni incominciassero quasi tutti coloro che noi sappiamo essere di presente arrivati ad eccelsissimi gradi di perfezione, di santità, di miracoli. Certamente pochissimi furono quei Santi, che nacquero Santi: nella Legge vecchia un Geremia, nella nuova un Giovanni. La maggior parte degli altri non nacquero Santi, ma diventarono. E che diventassero, qual ne fu la cagione? Ad uno fu l’aver gittate le cetere e le chitarre, per correre un poco dietro ad un uomo pio, che con grandissimo accompagnamento di gente passava per la via pubblica. come accadde a San Ranieri il Pisano; ad altri ſu l’aver contemplato attentamente un cadavere, come a San Francesco Borgia; ad altri fu l’aver perdonata Pietosamente un’ingiuria, come a San Giovanni Guarlberto; ad altri l’aver sovvenuto l’avvenuto cortesemente un mendico, come a San Francesco d’Assisi, ad altri l’aver tollerata innocentemente una prigionia, come a Santo Efrem Siro; ad altri l’aver udito casualmente una predica, come a San Niccolò di Tolentino; ad altri l’esser caduto vergognosamente nel loto come al Beato Consalvo Domenicano; ad altri l’aver ricevuto opportunamente un rimprovero dalla madre, come a Santo Andrea Corsini; e ad altri non più che l’aver servito caritatevolmente una Messa, come a Marcello Mastrilli, quel gran campione della mia fiera milizia, il quale giunto al sepolcro di San Francesco Saverio ricevé un chiarissimo lume di essere stato colà chiamato all’onore di combattere per Cristo, e di trionfare con tanta novità di stupori; perché una volta in Napoli ricercato, mentre egli ancora era studente, da un padre vecchio, in congiunture importune, ed in ora tarda, di ministrargli all’altare, egli con sembiante sereno, e con prontezza amorevole nel compiacque. Ma qual maggior santità si può figurare di quella alla quale giunsero, benché per diversissime strade, un Antonio Abate, ed un Ignazio Loyola?- Udite di grazia, se pure il parallelo in mia bocca non sia ambizioso. Furono ambedue patriarchi di numerosissima figliolanza, quantunque l’uno di gente solinga, e contemplativa, l’altro di persone trattabili ed attuose. Ambedue nei principi della loro conversione ebbero da’ demoni contrasti travagliosissimi. Perocché, se ad Antonio apparivano spesso in forma. di animali feroci, ad Ignazio comparivano ancor col volto di femmina lusinghevole. Ma esercitarono all’incontro ambedue sopra i demoni grandissima padronanza, perocché dove Antonio fugavali con la voce; spesso ancora Ignazio scacciavali col bastone. Ambedue arsero d’una voglia accesissima del martirio, per cui sfogare ne andarono, Antonio in Alessandria, Ignazio in Gerusalemme. Ma ambedue volle Dio, che fossero preservati per dare la vita a molti. Popolò pertanto l’uno le selve di santissimi solitari, l’altro riempie le città di zelanti predicatori, eletti ambedue da Dio per ristorare nella Chiesa le perdite ch’ella cominciava a patire, ne’ tempi di Antonio per l’eresia di Ario, nei tempi d’Ignazio per l’eresia di Lutero; opporsi al furore dei quali, lasciò l’uno per qualche tempo i deserti della Tebaide, l’altro per sempre la solitudine di Manresa. E siccome Antonio ancor vivo vide i suoi seguaci distesi; non solo nell’Oriente, ma ancora nell’Occidente; così vide Ignazio ancor vivo distesi suoi, non solo nell’Occidente, ma ancora nell’Oriente. Somigliante verso ambedue, fu la stima, e la venerazione che portarono loro i Principi, perocché e ad Antonio ricorreva per consiglio l’Imperator Costantino, e ad Ignazio l’Imperatore Ferdinando, il quale in confermazione di ciò aveva dato anche ordine al suo ambasciatore residente in Roma, che niun negozio trattasse mai col Pontefice senza averlo conferito prima col Santo. E finalmente è stata somigliante ancor la difesa, che ha Dio pigliata dell’onore di ambedue questi celebri personaggi, perché col fuoco ei represse i dispregiatori d’Antonio, col fuoco i detrattori d’Ignazio, facendo miracolosamente arder vivo uno, che aveva osato di dileggiarlo. Ora ditemi, la santità di ambedue questi grand’uomini donde ebbe il cominciamento, Initium vitæ bonæ, non pare che dovesse essere qualche gran seme quello, il qual produsse due piante sì generose, che molto più di quell’albero già veduto dall’addormentato monarca di Babilonia, hanno dilatata la pompa dei loo rami da un mare all’altro,, e dall’uno all’altro emisfero? (Dan. IV, 7 e 8). Eppure udite che fu. Nell’uno Initium vitæ bonæ fu l’ascoltare attentamente una Messa; nell’altro Initium vitæ bonæ, fu pure attentamente leggere un libro. Entra Antonio ancor giovinetto in una chiesa per udir Messa, e s’incontra in quel Vangelo, nel qual si dice: Se tu vuoi esser perfetto a va’, vendi ciò che possiedi, e poi seguimi. Lo reputa detto a sé, ed indi si risolve a far vita simile a Cristo. Domanda Ignazio convalescente alcun libro per passatempo, e gli è recato il Leggendario dei Santi in cambio dei volumi di cavalleria, ch’avrebbe voluti. Comincia a leggerlo, e quinci ſi determina di far vita simile alla loro. Ora, se non avessero l’uno udita quella Messa con attenzione, e l’altro letto quel libro; che vogliamo credere, che sarebbe stato di essi? Sarebbero ambedue divenuti quei sì gran Santi, che ora noi veneriamo? Io non lo so, perché tutto ciò si appartiene a’ giudizi occulti di Dio. che sono le acque di quel profondo torrente, in cui neppure un Ezechiele si attentò d’inoltrarsi troppo, per non vi restare annegato: Aqua profundi torrentis, qui non potest transvadari (Ezech. XLVII, 5). Ma potrebbe esser ancora molto probabile. che non fossero divenuti; Perché assai spesso Dio suole usare con gli uomini, come fece con Naman Siro lebbroso, non so dir più se di corpo, o d’anima, ogni cui bene, come sapete, egli affisse, a che operazione? ad una sommamente tenue, ad una sommamente triviale: al bagnarsi sette volte in un piccolo fiumicello a lui forestiero: Lavare septies in Jordane, et mundaberis (IV Reg. V, 10). Ma chi mai l’avrebbe creduto? Come? (diceva Naman) Perché non piuttosto venirmi incontro il profeta, e mettermi le sue mani sopra la testa? No: Dio vuol, che ti lavi. Ma s’ho a lavarmi, perché non anzi nell’acque del mio Damasco, che son sì elette? No: nel Giordano! Ma non è meglio nell’Abana? No: nel Giordano! Ma non è meglio nel Farfar? No: nel Giordano! Vuoi per forse tu mettere legge a Dio? Quis ei dicere potest: cur ita facis? (Job. IX, 12). Fa pure ciò che a te piace, che sei padrone del tuo libero arbitrio: nel resto è certo che qualunque tuo bene, non solo corporale, ma ancor spirituale, dovrà dipendere dal mortificare con quest’atto, il quale a te sembra men proporzionato, men proprio, la tua altezza. Lavare septies in Jordane, et mundaberis. – Ora in una forma medesima Iddio suole assai spesso determinare la santità, anzi la salvezza degli uomini, ad una tale opera buona molto ordinaria, la quale s’essi eseguiscono, egli poi comunica loro una grazia tanto soprabbondante, e una protezione tanto speciale, che infallibilmente giungono al cielo, come appunto fu di Naman; ma se non l’eseguiscono, gli priva di tali aiuti più liberali, i quali, come i Teologi sanno, non sono dovuti, né per legge di Provvidenza, né per legge di redenzione; e prove dandogli degli aiuti solamente consueti, lascia, che seguano i lor fallaci consigli, e così si perdano; come sarebbe parimente avvenuto a Naman medesimo, se contumace non s’induceva ad attuffarsi in quell’acque, da lui riputate sì vili.

V. E questo è quello che c’inculcano i Santi, qualora ci dicono, che da un momento dipende l’eternità: Momentum unde pendet eternitas. Alcuni pensano che questo momento sia solamente quel della morte, e però n’usano male tanti altri, quasi che basti impiegar bene quel solo. Eh non è così. Questo momento ad alcuni è nella fanciullezza; ad altri è nella gioventù, ad altri è nella virilità. ad altri è nella vecchiaia. Ed è quel momento al quale Iddio, terribilissimo nei consigli ch’Egli ha sopra i figliuoli degli uomini: Terribilis in consiliis super filios hominum, ci attende per così dire, come ad un varco, affin di provare la nostra cordialità, e la nostra corrispondenza, ch’è quello appunto che Mosè scoperse al suo popolo, quando disse: tenta vos Dominus, ut palam fiat, utrum diligatis eum an non, in tota anima vestra (Deuter. XIII, 3): non perché passato quel momento, non ci sia sempre egualmente possibile la salute o la dannazione (questo non si può dire) ma perché da quello dipenderà, che incontriamo nell’avvenire maggiori o minori difficoltà per ben operare, che abbiamo maggiori o minori forze, ed in una parola, che: Gratiam inveniamus, o non inveniamus, per usare la formula dell’Apostolo, in auxilio opportuno (ad Hebr. IV, 16). Vediamo di grazia questo in un singolarissimo esempio delle divine Scritture, il quale a meraviglia conferma l’intento nostro: e siccome reca seco grandissima autorità, così ancora merita d’essere da tutti ascoltato con gran tremore. Avendo le Tribù Ebree richiesto a Dio qualche Re , che le governasse invece de’ Giudici, condiscese Dio finalmente, quantunque di mala voglia, alle loro istanze, e destinò loro Saule. Era questi vilissimo di lignaggio. ma sceltissimo di virtù. Perciocchè il sacro testo afferma di lui, che nessuno di tutto quel popolo lo vantaggiava per merito di bontà: Non erat vir melior illo. E pure per tacer gli altri, fiorivano seco a quel medesimo tempo un Samuele, ed un Davide, personaggi sì segnalati. Ebbe la cura di eleggerlo il medesimo Samuele. L’unse, lo pubblicò. Indi perchè nel principio del suo governo doveva il novello Re offrire a Dio sacrificio, Samuele il chiama, e gli dice: va’ in Galgala, dove arrivato, mi aspetterai sette giorni, nel termine dei quali io verrò per sacrificare: Septem diebus expectabis, donec veniam ad te. Va Saule, lo aspetta: ma già scorre il settimo giorno, ed il buon Samuele ancor non appare. Or che deve fare Saule? Si vede accampato d’incontro un poderosissimo esercito di nemici che lo sfidano alla battaglia: ha le milizie in ordine per combattere: ha le vittime pronte per immolare; si risolve però, giacché è vicina la sera del dì prefisso, di offrire ei medesimo il sacrificio, come venivagli dalla legge permesso in assenza di sacerdote. Appena egli ha immolato le vittime, ed ecco vien Samuele. Saule l’incontra, e Samuele in vederlo: Ahi sfortunato (gli dice) di’, che hai tu fatto? Quid fecistis? Risponde Saule: io ti ho aspettato conforme all’appuntamento più, che ho potuto, ma frattanto i soldati nostri chiedevano la battaglia, i nemici la minacciavano: stimai scelleratezza l’uscir in campo senza aver prima placato il volto divino con sacrifici pacifici. Ho precorsa nell’offrirli la tua venuta. Avvisandomi che tu per qualche nuovo accidente non potessi giungere in ora. Sì eh (ripigliò allor Samuele) or sappi, che tu hai usato da stolto: Stulte egisti! Però ti denunzio, che siccome, se tu mi avessi aspettato pazientemente, Iddio avrebbe perpetuato il tuo scettro sopra il suo popolo, così ora non ti sporgerà successore dal tuo lignaggio … Si non fecisses, (ponderate bene quest’orrenda condizionale) jam nunc præparasset Dominus regnum tuum super Israel in sempiternum; sed nequam regnum tuum ultra consurget (I Reg, XIII, 13 e 14). – Ma poco fu per questa azione a Saule perdere il regno. Fu peggio perdere le virtù, fu peggio perder la grazia, fu peggio perder l’anima, ſu peggio perder il paradiso. Udite in qual modo. Non si dannò già egli precisamente per quest’azione: Signori no. Perocché molti autori insigni hanno infino voluto credere, ch’ei non peccasse in ciò gravemente, o perché egli stimasse d’esser tenuto ad aspettare solamente il principio del settimo giorno, o perché ei reputasse d’esser costretto a secondare finalmente il volere degli impazienti soldati, come par ch’egli volesse anzi accennare dicendo per sua discolpa: Necessitate compulsus obtuli holocaustum (Ibid. XIII, 12). Come si dannò nondimeno per quest’azione? Si dannò per questa, come per azione, che lo dispose alla perdizione. non come per azione, che ve lo determinò. Mi dichiaro. Per quest’azione di Saule Dio volle togliere il regno da tutta la sua prole e da tutta la sua prosapia, ch’era privarlo d’un benefizio temporale gratuito. Gli prepara però successore d’altro lignaggio, qual fu Davide. E perché Dio, secondo il nobile detto della Sapienza, soavemente dispone intorno di noi ciò che efficacemente risolve: cum magna reverentia disponit nos (Sap. XII, 18); fa cadere una congiuntura opportuna di trasferire Davide allor pastorello dalla greggia alla Corte. Saule stesso è il primo ad accoglierlo per lo bisogno ch’ei n’ha contro il ſier gigante; ma dalle vittorie, che vede lui riportare de’ Filistei, dagli applausi ch’ode a lui farsi dalle milizie, si accorge questo essere il successore a sé minacciato. Però d’innanzi il comincia a guardar con quell’occhio livido, con cui è proprio dei governanti mirare i loro successori. Si accende d’odio, si gonfia di veleno, cerca in mille modi d’ucciderlo, or con lanciargli l’asta sul viso, or con mandargli le birrerie sino in camera, or con tendergli agguati per le foreste, quindi comincia a prezzare assai gl’interessi del suo Reame, poco i comandamenti del suo Signore. E perché sa, che alcuni sacerdoti di Nobe hanno ricettato il suo emulo, ordina, che siano tutti scannati alla sua presenza. Onde si vede cader ai piedi, per mano di un vile servo Idumeo, ottantacinque Sacerdoti vestiti in abito sacro: né contento di questo ordina parimente che Nobe, loro città, sia mandata a ferro ed a fuoco, facendo in essa una confusissima strage di uomini, di donne, di giovani, di bambini, di vecchi, senza nè meno perdonare alle bestie, né meno ai sassi. E quinci passando d’una in altra barbarie, d’una in altra scelleratezza; vede finalmente morirsi insieme in battaglia ſu gli aspri monti di Gelboe tutti e tre quei figliuoli, sui quali ambiva di stabilire lo scettro: chiede disperato allora la morte: non trova chi gliela dia: egli però rivoltando il suo ferro contro il suo petto, l’apre, lo squarcia, s’uccide da sé medesimo: e così finalmente: Dum Samueli non obtemperavit, Paullatim, atque paullatim habens, non stetit, quousque ad ipsùm perditionìs barathrum seipsum, immisit, come poi scrisse San Giovanni Crisostomo ponderando sì fiero caso. (Hom. 87 in Matth.). Ora considero io, chi avesse detto a Saule, quand’egli stava in procinto di trasgredire il comandamento di Samuele: Sire, guardate bene ciò, che voi fate, perché da codesta azione dipende come in radice la vostra salute e temporale, ed eterna; crediamo noi, che a Saule sarebbe ciò parso possibile? Come? da un’azione sì minima? non può essere, non può essere; questi sono spaventacchi di scrupolosi, son timori di vecchierelle. E pur così fu: non perché egli (notate bene) … non perché egli poi non avesse potuto assolutamente ritrarsi da tutte le susseguenti scelleratezze; ma perché il farlo gli fu tanto difficile, ch’ei non lo fece: laddove sarebbe stato a lui facilissimo (come ad uomo di tanta bontà, che: Non erat vir melior illo) se senza contrasto con emulo, e senza sospetto di successore, goduto avesse tranquillamente il suo Regno, com’è di fede, ch’ei se l’avrebbe goduto. – Ora deduciamo da questo illustre racconto quel ch’è di nostro particolare interesse, ed esclamiamo tremanti con San Gregorio: En quam magna… perdidit qui, ut putabat, nulla contemsit. Per così poco perduto tanto? E che cosa è questa? Ah, che quel poco era, per così dire, quel passo augusto, al quale Iddio: Magnus consilio, incomprehensibilis cogitatu, come lo chiamò Geremia, voleva mettersi a provar l’obbedienza, l’ossequio, la fedeltà di Saule per veder s’egli riusciva ancora del numero di coloro di cui sta scritto, che: Deus tentavit eos, et invenit illos dignos se (Sap. III, 5). Saule a questo passo non tennesi, ma cadde: e Dio privandolo di quegli aiuti maggiori, che secundum propositum voluntatis suæ, avevagli apparecchiati, lasciò che a poco a poco andasse in rovina. Or non credete, Signori miei, che con ciascuno di noi Dio faccia molte volte ancora così? E quanto spesso accadrà, ch’Egli dica dentro il cuor suo: io voglio ispirare a quell’ammogliato. che vada ad ascoltar quella predica. S’egli v’andrà, lo verrò di modo a commuovere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quella pratica. Abbandonata quella pratica, non gli sarà più difficile accostarsi frequentemente alla confessione e alla Comunione. Con questa frequenza egli a poco a poco si svezzerà di molti abiti licenziosi, contratti nel giuocare, nel parlare, nel trafficare: quindi applicatosi a maneggiar la sua casa cristianamente, vivrà ritirato, si morrà salvo. Ma se non udirà quella predica seguirà a conversare con la sua pratica, entrerà in altri amori, s’allaccerà in altri impegni, s’abbatterà in altri rivali che gli toglieranno miseramente la vita. Ed a quel giovane io voglio parimente ispirare, ch’ei vada a confessarsi per la tale solennità. S’ei v’andrà, lo verrò di modo a compungere in auxilio opportuno, che finalmente abbandonerà quei compagni. Ritirato da quei compagni, non gli sarà più molesto di attendere applica talmente allo studio ed alla pietà . Con questa applicazione egli a poco a poco accenderà di molti desideri ferventi di mortificarsi, di orare, di ritirarsi. – Quindi risoluto di assicurare la sua anima interamente, entrerà in Religione, volerà al Cielo. Ma s’ei non farà la tal confessione, seguirà a praticare coi suoi compagni, piglierà peggior piega, passerà in peggiori tresche, cadrà in peggiori disordini, che il condurranno drittamente all’inferno. Signori miei cari, queste sono verità certissime, irreparabili, indubitate. le quali noi quì non possiamo capire, perché troppo folto è quel velo ch’abbiamo agli occhi: Contenebrati sunt oculi nostri; ma le capiremo il dì del Giudizio, quando cadutoci, per così dire, un tal velo, noi vedremo subito per quali strade, o Dio si sarà compiaciuto salvarci, o noi ci saremo voluti dannare vias vitæ et via mortis (Ger. XXI, 8). E allora ogni Giusto, impaurito, qual pellegrino ramingo, ch’abbia camminato di notte, senza avvedersene, su l’orlo sempre d’un orrido precipizio: Oh Dio buono, dirà, da che è dipesa la mia salute! Quanto poco mancò, che in vece di mettermi per la strada del Cielo, non inoltrassi per la via dell’Inferno! Nisi quia Dominus adjuvit me, Paulo minus habitasset in inferno anima mea (Ps. XCIII, 17). Quell’operetta buona ſu che salvommi; il tal giorno, nella tale occasione: e s’io lasciava di farla, oh che via diversa prendea da quella ch’io presi! All’incontro quanto fremeranno i dannati, quanto urleranno, in veder donde avvenne, ch’essi smarrissero la via dritta al cielo! Viam civitatis habitaculi non invenererunt (Ps. CVI, 4). Ah s’io udiva la tal predica, ah s’io lasciava il tal compagno, ah s’io non andava al tal giuoco, ah s’io mi rimaneva la tal sera d’intervenire a quella veglia, a quel ‘bagordo, a quel ballo, a quella commedia! Ora non c’è più rimedio in eterno, misero me! non c’è più rimedio in eterno: Quam magna perdidi, quam magnaperdidi, qui, ut putabam, nulla contempsi!

SECONDA PARTE.

VI. Veggo che non vi potete più contenere da una gagliarda opposizione, la quale vorreste addurmi. Parlate dunque animosamente, sfogatevi. Oh Padre (voi mi direte) se fosse vera la dottrina da voi predicata finora, poveri noi! ne seguirebbe che noi dovessimo vivere in un assiduo sgomento ed in una angosciosa sollecitudine. Perocché (sentiteci bene) se noi sapessimo per appunto qual fosse questa piccola azione da cui dovesse come in radice dipendere o la nostra miseria, o la nostra felicità, chi può dubitare che noi saremmo molto ben circospetti nell’eseguirla? Ma non sapendo di qual dobbiamo temere, converrà temere di tutte: e per tanto dovremo sempre far grandissimo conto d’ogni minuzia: non dovremo sprezzar mai nessun difetto, come leggero, mai nessuna ispirazione come non importante; anzi in ogni luogo, in ogni occasione, in ogni ora, in ogni momento, dovremo studiarci di assicurare con qualunque minima sorte d’opere buone il nostro incamminamento alla Gloria. Signori miei, troppo mi volete voi stringere i panni addosso con coteste vostre obbiezioni. Ma che volete voi, ch’io risponda? Io non posso finalmente trovar gran difficoltà in concedere certe proposizioni, le quali ha concesse prima dirne la Sapienza eterna. Però vi do per convinto che quanto avete opposto, tutto è verissimo: Concedo, sì torno a dire, concedo totum. E che altro volle intender San Pietro, quand’ egli, dopo lungo discorso, cavò quella formidabile conclusione: quapropter fratres, magis satagite, ut per bona opera certam vestram vocationem et electionem faciatis; hæc enim facientes, non peccabitis aliquando (2 Petr. I, 10). Quasi voless’egli dire in brevi parole: Dilettissimi miei, voi vi credete che il negozio della vostra eterna salute sia negozio da trattarsi per passatempo, quando non riman altro che fare in tutta la giornata, o di che pensare. Eh non è così? Egli è un negozio gravissimo, un negozio geloso, un negozio tremendo, il quale dovrebbe tener sempre occupato il vostro pensiero: Satagite … satagite …; diligenza ci vuole, industria, fatica, finché arriviate a non peccare giammai né molto, né poco, se tanto vi sia possibile: Magis satagite, magis; quanto più fate, tanto stimatevi obbligati a far più. Ma la maggior parte non fa così. Concedo. E però larga è la strada che conduce alla perdizione: Spaziosa via est quæ ducit ad perditionem. (Matth. VII, 13). Ma sono pochissimi quei che faccian così. Concedo. E però angusta è la porta che introduce alla gloria! Angusta porta est quæ ducit ad vitam. (Ib. VII, 14). Che poss’io dirvi? Poss’io predicarvi diversamente da quello, che ha pronunciato l’infallibile Verità? Numquid aliud judex nunciat, aliud præco clamat? (S. Greg. Rom. 17 in Evang.) Poss’io cancellar gli Evangeli, per darvi soddisfazione? poss’io cambiarli? che posso io fare?

VII. E a dire il vero, se non fosse così troppo forsennati sarebbero sempre stati tutti coloro i quali sentitosi dire dall’Ecclesiaste che: Qui timet Deum nihil negligìt, (Eccl. VII, 19) facevano tanto caso di non commettere né pur piccole imperfezioni. Appena si sollevava un leggero dileticamento di senso negli animi d’un Bernardo, d’un Francesco , d’un Benedetto, che incontanente tutti ignudi correvano, chi a tuffarsi nei ghiacci, chi a seppellirsi tra le nevi, chi a ravvolgersi tra le spine. Un solo fantasma impuro, che passò in sogno come di volo per la mente d’un Francesco Saverio, l’atterrì, l’agitò; lo riscosse in modo che gli fece scoppiar dalle fauci una corrente impetuosa di sangue, poco men che bastevole a soffocarlo per l’alto orrore. Un passo poco misurato, un riso poco composto, una parola poco considerata recava tal crepacuore alle Agnesi Auguste, ed alle Marie d’Ognes, che non potevano pe’ singhiozzi parlare, qualora se ne accusavano; come della prima testifica il Cardinal Pietro Damiano, e della seconda il Cardinal Jacopo da Vitriaco, ambedue loro santissimi confessori. Che più? Leggeva un Eusebio Monaco il libro degli Evangeli, quando dal libro gli trascorsero gli occhi con qualche straordinaria curiosità, a rimirare dall’aperta finestra della sua cella alcuni lavoratori che faticavano nella vicina campagna. Non ebbero quegli occhi più pace, finché la morte medesima per pietà non venne a serrarli. Perocché da Eusebio, accortosi del suo fallo, furono tosto puniti con questa legge, che non mirassero mai più né selve, né prati, né montagne, né Cielo. Si legò pertanto al collo una catena di ferro d’immenso peso, che sempre lo costringeva a mirare al basso, e così curvo e cadente, finché egli visse, che furono ancor vent’anni, non schiodò le palpebre più dal terreno. Signori miei, dove siete? Pensate voi che per sì piccoli mancamenti questi sfortunati credessero di aver subito meritato l’Inferno, onde se ne volessero ricattare con supplizi sì atroci, con asprezze sì intollerabili? Eh che non erano i miseri sì ignoranti, che non sapessero ancor essi assai bene, quanto si richieda a dannarsi. Sapevano, che a dannarsi richiedesi colpa grave, e colpa ancora commessa ad occhi veggenti, con animo risoluto, con voglia piena. Ma nondimeno temevano d’ogni minuzia, perché intendevano quanto sia facile in materia di peccato il passare dal poco al molto! Qui spernit modica, paullatim decídet. E così appunto lo confessò di propria bocca. l’istesso Eusebio a coloro. che quasi si scandalizzavano di veder punita un’imperfezioncella sì piccola con una penitenza sì rigorosa. Non vi meravigliate, diss’egli loro, di questo, perch’io lo fo: Ne malignus dæmon de magnis bellum gerat, conans aufèrre temperamtiam, atque justitiam. Temeva egli, che l’avere guardato curiosamente un oggetto indifferente non lo dovesse a poco a poco condurre a guardarne un peccaminoso: e non si fidava, ammesso questo una volta, di non dover passar dal guardo al compiacimento, dal compiacimento al desiderio, dal desiderio al consenso, dal consenso all’operazione, e quindi all’ultimo sterminio totale di quello spirituale edificio, ch’egli aveva innalzato con tanta pena; conforme a quel bellissimo detto dell’Ecclesiastico: Si non in timore Domini tenuerí, te instanter, cito subvertetur domus tua (Eccl. XXVII, 4). Direte, che a voi dà l’animo di astenervi dal molto, dopo avere commesso il poco; e che però tal timore non è per voi. Ma come, se non dava l’animo ad uomini sì perfetti. È possibile adunque, che per loro soli fosse la natura tanto ribelle, la grazia tanto scarsa, il cielo tanto spietato, la virtù tanto faticosa, la salute tanto difficile? Essi vestiti di cilizio, sparsi di cenere, ricoperti di lividure, temevano d’ogni principio di colpa, come d’un principio di dannazione; e non ne temerete voi, che pure vivete ammantati di bisso, aspersi di odori, e sagginati nel lusso? Crudelissimo Dio (vorrei allor io gridare, se questo fosse) Dio crudelissimo! E che amore di padre è cotesto vostro, ch’egualità di Signore? Porgete aiuti tanto soprabbondanti a quei che ingolfati nei piaceri del secolo, concedono ogni sfogo ai loro capricci; e non li porgete a quei, che per cagione vostra son iti a confinarsi nelle boscaglie, dove non hanno altra compagnia, che le fiere; altri testimoni che le ombre; al tre stanze, che le caverne; altro refrigerio che i pianti; altro trastullo che la mortificazione. Debbono stare ognora questi sì timorosi di sé medesimi; e quelli ne potranno vivere sicuri? Meglio sia dunque, se così è, gettar via cilizi, incenerire flagelli, sbandir digiuni, dimenticar penitenze, mentre maggior pericolo corrono di perire quei ch’ogni leggiera colpa castigano con tanta severità, di quei che l’ammettono con tanta scioperatezza. Ma bene stolto io sarei se mai mi lasciassi in questo modo trascorrere a lamentarmi di Dio, mentre pur troppo verrà giorno, verrà, nel quale si vedrà chiaro, quanto ad ognuno o religioso, o mondano, sarà costato comunemente il salvarsi. Ahimè, che il Regno dei Cieli non è da tutti. Chi vuol entrarvi, si ha da rompere il passo, anche a viva forza, con la negazione di quegli appetiti scorretti, che glielo ritardano: Contendite intrare per angustam portam, sì, dice Cristo, contendite, contendite. E che vuol dire questo contendite? Vuol dire: affannatevi, vuol dire: affaticatevi. Queste è poco. Vuol dir ciò che San Luca espresse più orribilmente col suo Greco vocabolo: Agonizate; vuol sprezzare roba, sprezzare riparazione, sprezzare all’ultimo sin la medesima vita.

VIII. Io so, che queste cose non si ascoltano da ciascuno sì volentieri, e che più volentieri si corre comunemente ad udire quei predicatori i quali diano sicurezza, che non quegli altri i quali arrechino timore. Ma non vi diss’io da principio, ch’io non poteva darvi in questa. materia, se non timore? Non vi dovete però meco sdegnare, ma compatirmi .Forse che non ho ancor io comune la causa con tutti voi? Non solleticherei anch’io, quanto ogni altro, volentieri le vostre orecchie, non lusingherei il vostro genio, non mi cattiverei la vostra benevolenza, s’io non vedessi che ciò facendo vi tratterei da servitore infedele; mentre per darvi un breve contento, forse vi arrecherei un’eterna rovina? Però vi conchiuderò con Santo Agostino: Fratres, nimis timendum esse volo . Eh convien temere pur troppo, convien temere; perché di certo è molto più profittevole un timore santo, che una sicurtà baldanzosa: Melius est enim non vobis dare securítatem malam. Io quanto a me: Non dabo, quod non accipiam. Come posso a voi dare ciò ch’io non ho? S’io fossi sicuro, farei sicuro anche voi: Securo vos facerem, si securus ego essem. Ma io pavento, ma io palpito, ma io tutto mi raccapriccio, pensando all’anima mia. E come dunque poss’io farvi sicuri? Benché, sapete voi, qual è il modo da ritrovar nel negozio della salute qualche considerabile sicurezza? Trattarlo sempre con un immenso timore, sempre ricorrere a Dio, sempre raccomandarsi a Dio: Chi fa così, vada lieto: Beatus homo, qui semper est pavidus (Prov. XXVIII, 14).

 

CONOSCERE SAN PAOLO (55)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

IV. LA CONSUMAZIONE DELLE COSE.

1. IL REGNO DI DIO E DEL CRISTO. — IL TERMINE FINALE.

1. Il regno di Dio, questo punto così saliente della predicazione sinottica, prende nel resto del Nuovo Testamento, e particolarmente in san Paolo, un altro carattere: è una differenza di orientamento che facilmente si spiega. Al principio della nostra èra, si sapeva di essere alla vigilia del giorno in cui si dovevano compiere le profezie che annunziavano la venuta del re discendente di Davide, il quale avrebbe fatto rifiorire con un maggiore splendore la teocrazia d’Israele ed avrebbe fondato su la terra il regno della pace, della giustizia e della santità. Bisognava dunque che Gesù, se voleva farsi riconoscere per Messia, rivendicasse a sé la dignità regale, spiegando la natura spirituale del regno che veniva a stabilire. So benissimo che, quasi senza eccezione, gli scritti del rabbinismo, tutti posteriori al Vangelo, non mettono « il regno di Dio » in connessione diretta con le speranze messianiche; con questa espressione essi indicano il governo divino nel mondo e non tanto l’impresa di Dio su le anime, quanto la libera accettazione del « giogo della Legge » mediante la professione di fede ebraica (Lagrange: Le messianisme chez les Juifs, Paris, 1909). Ma di queste due cose l’una è la vera: o la disgiunzione del regno di Dio e del regno del Messia era generale nel fariseismo contemporaneo, e importava sommamente che Gesù Cristo correggesse quella falsa idea tanto pregiudizievole alla riuscita della sua missione; oppure essa fu suggerita più tardi ai rabbini dal loro spirito di ostilità contro il Cristianesimo, e allora si capisce meglio perché la dottrina evangelica del regno di Dio non sollevò, nei primi tempi, nessuna obbiezione di principio. In qualunque ipotesi, l’annunzio del regno doveva essere un articolo fondamentale della predicazione di Gesù, durante quella fase del ministero pubblico che è caratterizzata dall’insegnamento delle parabole e che i Sinottici espongono con cura speciale. – Ma questa dottrina passa in secondo ordine quando l’idea cristiana del regno di Dio si trova realizzata nella Chiesa. Se ancora si dice per abitudine « predicare il regno (Act. I, 3; VIII, 12, etc.) », come si direbbe « predicare il Vangelo », si bada ad evitare i malintesi e a non urtare le suscettibilità dell’autorità romana, trasportando il regno fuori della sfera in cui si agitano gl’interessi di questo mondo. Per questo san Paolo, pure facendo un uso frequente di tale espressione, le dà quasi sempre un senso escatologico. « Gli ingiusti, i ladri, non erediteranno il regno di Dio »; gl’impuri, gl’idolatri « non hanno parte nel regno del Cristo e di Dio »; la persecuzione ci « rende degni del regno di Dio », che « la carne e il sangue non possono ereditare ». Sotto questo aspetto, il regno di Dio comincia al ritorno trionfale del Cristo e s’identifica con la vita eterna. Ma non sempre è così: il regno di Dio esiste già per noi; noi lo possediamo anticipatamente, come possediamo la vita, la redenzione, la salvezza e la gloria, in uno stato d’imperfezione che non esclude la realtà. Si può prendere nel senso escatologico la vocazione con cui Dio ci chiama « al suo regno ed alla sua gloria », ma non l’atto con cui ci ha « trasferiti nel regno del suo Figlio prediletto ». Qualche volta il senso è più oscuro: « Il regno di Dio, dice l’Apostolo, non è il mangiare e il bere, ma è giustizia e pace e gioia nello Spirito Santo (Rom. XIV, 17) ». Qui evidentemente non è la società dei fedeli, né molto meno la società dei santi del cielo, quello che Paolo vuole indicare; ma è piuttosto il regno di Dio come si presenta negli scritti dei rabbini: appena appena si modificherebbe il senso, se si sostituisse al regno il Vangelo o il Cristianesimo. Così pure « il regno di Dio non è in parole ma in (opere di) forza (I Cor. IV, 20) »; esso non consiste nel parlare molto, come facevano gli agitatori di Corinto, ma nell’agire con vigore, come Paolo si propone di fare al suo ritorno. Insomma, il regno di Dio indica ordinariamente la vita eterna dove i giusti regneranno con Gesù Cristo; più raramente, la Chiesa militante dove essi lottano per lui; qualche volta, l’essenza ed i princìpi direttivi del Vangelo. Per san Paolo, come per gli Evangelisti, il regno di Dio è anche il regno del Cristo. La fondazione del regno è lo scopo della missione redentrice; e raggiunto tale scopo, il mandato del Salvatore cessa: « Poi la fine, quando rimetterà il regno al Dio e Padre, dopo di aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e (ogni) virtù. Poiché bisogna che Egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici. L’ultimo dei nemici resi impotenti sarà la morte… Ma quando tutto gli sarà stato assoggettato, allora il Figlio stesso si assoggetterà a suo Padre, affinché Dio sia tutto in tutti (I Cor. XV, 24-26) ». La fine di cui qui si parla non è lo scopo della risurrezione, senso che non è ammesso né dalla parola greca né dal contesto; non è neppure la fine della risurrezione, come pretendono molti esegeti; è invece il compimento dell’opera del Cristo e la consumazione di tutte le cose. Si può tenere questo punto come acquisito, anche senza fare appello ai passi paralleli, poiché san Paolo indica chiaramente e in due maniere l’istante preciso che segna questa fine: da una parte la consegna del regno al Padre, dall’altra il trionfo completo sopra tutti i suoi nemici. Finché durava la lotta, finché gli avversari erano in piedi, la missione del Figlio di Dio era incompleta; ora che tutti i suoi nemici sono caduti ai suoi piedi, non eccettuata neppure la morte che era restata l’ultima sul campo di battaglia, la sua dittatura finisce, ed Egli restituisce al Padre il mandato che da Lui aveva ricevuto, con il frutto delle sue vittorie, come un vassallo fa al suo sovrano l’omaggio dei regni conquistati. – Tale è il pensiero di Paolo, espresso abbastanza chiaramente; ma il timore che san Paolo sembri voler limitare il regno del Cristo, suggerì agli esegeti le soluzioni più sottili. Rimettere il regno al Padre sarebbe far contemplare Dio dagli eletti che formano questo regno; oppure condurli a sottomettersi a Dio; oppure organizzare il regno, estirparne gli abusi, bandirne i ribelli: tutte sottigliezze che non hanno consistenza. Il Cristo, come Dio, come creatore, regna eternamente col Padre. Come uomo, conserva il primato di onore e la dominazione universale conferitagli dall’unione ipostatica. Se la Chiesa è un corpo, Egli ne è sempre il capo; se la Chiesa è una società religiosa, Egli ne è sempre il pontefice; se la Chiesa è un regno, Egli ne è sempre il re. Sotto questo aspetto, il suo regno non può finire: Egli regnerà sempre, e sempre « noi regneremo con lui ». Ma Egli è inoltre capo della Chiesa militante, incaricato di vendicare l’onore di Dio, di condurre alla vittoria quelli che marciano sotto la sua bandiera, di punire i ribelli o di sottometterli. Questo vice-reame temporaneo cessa con le funzioni che lo costituiscono; il mandato di dittatore o di generalissimo spira nel momento in cui non vi sono più combattimenti né forze nemiche. Dio, nell’affidare a suo Figlio questo potere straordinario, aveva pensato ad assegnarne il termine: « Bisogna che egli regni finché abbia messo sotto i suoi piedi tutti i suoi nemici ». Come capo della Chiesa militante, il Cristo godeva di una specie di autonomia ed aveva effettivamente un’autorità propria. Terminata la sua missione, altro non gli rimane che prendere il suo posto, posto alto assai sopra i suoi soggetti, ma basso molto in relazione con Dio. L’abbandono del suo mandato è spontaneo, come era pure l’atto con cui lo aveva preso: l’uno e l’altro sono regolati secondo l’ordine del volere divino. San Paolo parla così evidentemente del Cristo come uomo, che si stenta a capire perché mai tanti Padri — e dei più illustri — abbiano pensato o al Cristo sussistente nella natura divina, o al corpo mistico del Cristo. Il corpo mistico del Cristo non è mai chiamato « il Figlio di Dio » né molto meno « lo stesso « Figlio »; ed è fare violenza al testo il passare bruscamente dall’opera della redenzione, che è l’argomento di tutto questo passo, alle relazioni della vita intima del Verbo.

2. Il sentimentalismo teologico dei nostri giorni, rinnovando i sogni di Origene, prolunga l’azione redentrice del Cristo molto di là dal suo ritorno trionfale. La parusia porterebbe soltanto la risurrezione e la glorificazione dei giusti; per gli altri non ci sarebbe ancora nulla di definitivo. La fine verrà più tardi, quando il Cristo avrà compiuta la sua vittoria sottomettendo con la persuasione tutti i suoi avversari; quando Dio, effettuando i suoi disegni di amore, avrà fatto misericordia, a tutti gli uomini. Ma san Paolo non si può fare responsabile di un sistema che contraddice molte delle sue più precise affermazioni. Secondo lui, la volontà salvifica di Dio, per quanto sia universale, rispetta la libertà umana; la redenzione offerta a tutti non è imposta a nessuno, ed il Cristo, mediatore unico, associa alla sua vittoria soltanto quelli che accettano la sua mediazione e che gli sono uniti con la carità. Perciò i partigiani della restaurazione universale si trovano costretti ad abbandonare il terreno della teologia e dell’esegesi per stabilirsi sul terreno, secondo loro, più stabile, della filosofia razionale, dove noi non possiamo seguirli. – Quando l’uomo sarà giunto al termine dei suoi destini, che cosa diventerà la sua antica dimora? Un solo testo dell’Apostolo permette a questo riguardo, qualche induzione abbastanza incerta (7). Egli ci rappresenta la creazione che attende, con ansiosa impazienza, la glorificazione degli eletti, alla quale Dio le ha promesso di farla partecipe. Senza sforzare troppo questa poetica ipotiposi, è evidente che la creazione materiale — poiché qui si tratta di questa, in opposizione agli esseri ragionevoli — fu associata in qualche maniera alla caduta dell’uomo ed avrà parte, in qualche misura, alla sua glorificazione. Difatti essa geme per la sua condizione attuale, come di uno stato violento e contrario alle sue legittime aspirazioni; essa non accettò di essere sottomessa alla vanità se non per ottemperare agli ordini del Creatore e dietro assicurazione che questo giogo odioso le verrebbe tolto al momento della perfetta liberazione dell’uomo. Tutto sta nel sapere se si tratta di una decadenza fisica o di una decadenza morale, di una riabilitazione fisica o di una riabilitazione morale. Questo testo isolato non permette di rispondere con certezza. La maledizione pronunziata da Dio contro la terra colpiva direttamente l’uomo e toccava la terra soltanto di rimbalzo: ora perdette la terra la sua fertilità naturale, oppure perdette l’uomo l’aiuto provvidenziale che lo sottraeva alla dura legge del lavoro! E la terra ricupererà un giorno quella meravigliosa fecondità che le promettono gli Oracoli Sibillini e altri apocrifi, senza parlare dei redattori del Talmud! Non ne sappiamo assolutamente nulla: « Dio solo può dire quali saranno i nuovi cieli e la nuova terra. Sarà quello che vi è di più conveniente per manifestare la bontà divina e la gloria dei beati. È dunque superfluo il perdersi in vane congetture dove la ragione è impotente e la rivelazione è muta ». Queste sagge parole di Scoto avrebbero potuto risparmiare ai teologi molti sogni, ed agli esegeti molte divagazioni. A Paolo, meno che a qualunque altro, non bisogna domandare che ci descriva i destini della creazione materiale. Tutto il suo interesse si concentra su la storia dell’umanità; e anche questa storia, di mano in mano che progredisce, si va racchiudendo in un orizzonte sempre più stretto: prima il genere umano, poi la Chiesa militante, poi gli eletti associati al trionfo del Cristo, finalmente Dio, tutto in tutti.

CONOSCERE SAN PAOLO (54)

CONOSCERE SAN PAOLO (54)

CAPO II

I Novissimi.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. IL GIORNO DEL SIGNORE.

1 . LA PARUSIA. — 2. IL GIUDIZIO FINALE. — 3. LA SEPARAZIONE DEI BUONI E DEI CATTIVI.

1. Parusia, letteralmente « presenza » e per estensione « venuta », è un termine tecnico usato nel Nuovo Testamento per indicare la seconda venuta di Gesù Cristo, la quale è anche chiamata « la rivelazione » oppure « l’apparizione » o « il giorno del Signore ». Quando san Paolo scriveva le sue lettere, si chiamava « parusia » la visita solenne di un sovrano o di qualche gran personaggio, particolarmente dello stesso imperatore. Polibio ricorda in questo senso la parusia del re Antioco, ed un’iscrizione del terzo secolo prima di Gesù Cristo, ci dice che la parusia di Saitapharnes a Olbia costò agli abitanti novecento pezze d’oro (Polibio, Hist. XVIII, 31). Questa circostanza straordinaria celebrata con feste, giochi, sacrifici, perpetuata da statue, da fondazioni, da medaglie commemorative e talora dall’inaugurazione di un’era nuova, era tale da colpire la fantasia della gente e lasciava un ricordo duraturo nella memoria degli uomini. Nessuna espressione conveniva dunque meglio di questa per indicare il ritorno trionfale del Cristo che viene a inaugurare il suo regno. – La parusia attinge largamente dalle descrizioni profetiche del giorno di Jehovah, del quale essa è la realizzazione tipica. Da entrambe le parti, il Giorno del Signore chiude la storia dell’umanità e segna la fine dei tempi; da entrambe le parti appare vicino, senza che si possa dire se tale sia effettivamente oppure se l’illusione dipenda dallo stile profetico che, sopprimendo la prospettiva, proietta sul medesimo piano avvenimenti lontani tra loro; da entrambe le parti arriva circondato da un apparato terribile, si annunzia con convulsioni cosmiche e lascia l’intera natura purificata e rinnovata; da entrambe le parti finalmente il Signore si presenta come Giudice, Salvatore e Vindice: Giudice universale, Salvatore dei suoi e Vindice degli oppressi. Ma, diversamente dal Giorno di Jehovah, la parusia è sempre intimamente collegata con la risurrezione dei morti; il suo carattere è più spirituale; è il Cristo, piuttosto che Dio, che pronunzia il giudizio. – In ogni profezia ed in ogni apocalisse, la parte del tipo, del simbolo e dell’allusione a profezie anteriori è sempre difficile da definire nettamente. Né  la profezia si dovrebbe spiegare come un racconto storico, né l’apocalisse come una profezia ordinaria: questo genere letterario comporta simboli tradizionali che sarebbe pericoloso prendere alla lettera, e il cui senso, condizionato da una serie di predizioni più antiche, rimane sempre misterioso e indeciso. Come tutte le composizioni della stessa specie, l’apocalisse di Paolo si fa eco di altre apocalissi; vi si trovano in copia reminiscenze di Daniele, d’Isaia, di Ezechiele, dei Salmi, con diversi tratti presi dal discorso escatologico di Gesù. Una difficoltà poi tutta speciale è questa: essa si riferisce ad un insegnamento orale del quale noi ignoriamo il tenore. L’apparato esteriore della parusia è presso a poco il medesimo dei Sinottici. Lo squillo della tromba chiama i morti ed i vivi alle grandi assise dell’umanità; il Figlio dell’uomo si avanza con la scorta degli Angeli, avendo per cocchio le nubi; in un batter d’occhio si muta la faccia del mondo, e gli spettatori sono colpiti da sorpresa, da costernazione, da spavento. Lo sconvolgimento fisico dell’universo, sul quale insiste l’escatologia dei profeti, da Paolo è accennato appena, e non troviamo in lui nessuna traccia sicura del fuoco della conflagrazione, del quale ci è data una drammatica descrizione nella prima Epistola di san Pietro. Dei tre segni precursori della parusia — oltre ai fenomeni fisici — la conversione finale degli Ebrei è speciale di Paolo, l’apostasia generale è comune a tutti, e così pure, probabilmente, l’apparizione dell’Anticristo, benché i Sinottici parlino di una molteplicità di falsi Cristi, e san Giovanni sembri dividere tra più personaggi la parte assegnata da san Paolo all’Uomo dell’iniquità, al Figlio della perdizione. Siccome san Giovanni ci fa sapere che la venuta di un Anticristo unico faceva parte dell’insegnamento degli Apostoli, si può ammettere che gli anticristi molteplici fossero considerati come i ministri o i precursori del grande avversario.

2. Avendo già parlato dei due punti che sono particolari dell’apocalisse di Paolo — l’ostacolo misterioso che si oppone alla manifestazione immediata dell’Anticristo ed il privilegio dei giusti testimoni della parusia — non aggiungeremo che poche parole sul giudizio finale, dove del resto la teologia paolina non offre nulla di veramente originale. Il giudizio è così intimamente collegato con la parusia, che è impossibile separare queste due scene di un medesimo dramma, riunite dalla Chiesa in un medesimo articolo del simbolo. Gesù Cristo  viene, e viene per giudicare i vivi ed i morti. Gli apostoli non mancavano mai di far entrare questo dogma nei loro primi discorsi ai pagani, e san Paolo con maggiore insistenza che gli altri, perché, almeno da principio, dava alla parusia un grandissimo rilievo. Il giudizio sarà universale e fondato sopra le opere: « Noi tutti dobbiamo comparire dinanzi al tribunale del Cristo, affinché ciascuno vi riceva la retribuzione di ciò che ha fatto mentre era nel corpo, sia in bene, sia in male (II Cor. V, 10) ». Qui si tratta soltanto degli adulti, i soli capaci di azioni morali; e nonostante l’autorità di sant’Agostino che dietro di sé trascinò, come al solito, tanti altri interpreti, non vi si possono includere, senza fare violenza, i bambini; ma l’universalità assoluta del giudizio è espressa con una formula che non ammette equivoco: « Verrà a giudicare i vivi ed i morti (II Tim. IV, 1) », i morti risuscitati ed i vivi testimoni della parusia. In qualunque maniera s’intendano i vivi ed i morti, non vi è nulla di mezzo tra questi due termini che comprendono necessariamente tutti gli uomini senza eccezione. Ne segue che i santi, assessori del sommo Giudice, saranno giudicati anch’essi; anzi, « noi giudicheremo gli Angeli (I Cor. VI, 3) »; e non soltanto gli angeli decaduti, ma gli Angeli rimasti fedeli: gli angeli cattivi non ricevono mai il solo nome di angeli senza il qualificativo. Insomma, il giudizio avrà la stessa estensione del merito e del demerito: Angeli o uomini, tutti quelli che sono stati sottoposti alla prova, ne siano o no riusciti vincitori, tutti dovranno comparire al tribunale di Dio. – Ai catecumeni s’insegnava che il giudizio sarà « eterno (Ebr. VI, 2) », nei suoi effetti e nelle sue conseguenze, cioè definitivo e irrevocabile. Per i giusti, san Paolo non potrebbe essere più esplicito: essi saranno « sempre col Signore (I Tess. IV, 17) »; la vita eterna che essi si sono guadagnata li mette al sicuro da una seconda morte. La sentenza pronunziata contro i cattivi non è meno immutabile; essi sono votati « alla perdizione eterna (II Tess. I, 9) ». Coloro i quali pretendono che san Paolo, dopo le Lettere ai Tessalonicesi, avrebbe mutato parere, non hanno dato la prova di tale ritrattazione immaginaria. In tutti gli scritti apostolici la morte è presentata come il termine dei timori e delle speranze: la sorte degli eletti e dei riprovati non è dunque più soggetta a incertezze ed a vicende.

3. Un passo di san Paolo ricorda la drammatica separazione dei buoni e dei cattivi, descritta da san Matteo e dall’Apocalisse di san Giovanni. È un brano ritmico e lirico, una specie di inno o di salmo, che raccoglie come in un mazzo tutti i principali tratti dell’escatologia cristiana. L’Apostolo dice ai neofiti, per consolarli delle persecuzioni che subiscono: È una prova del giusto giudizio di Dio che vuol rendervi degni del suoregno per il quale voi soffrite; poiché è giusto agli occhi di Dio il rimandare l’afflizione a coloro che vi affliggono ed il dare a voi, afflitti, il riposo con noi; quando si rivelerà dall’alto dei cieli il Signore Gesù, con gli Angeli della sua potenza, in un fuoco fiammeggiante; per punire quelli che non conoscono Dio e quelli che non obbediscono al Vangelo di Nostro Signor Gesù Cristo: essi subiranno per castigo la rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore e dalla gloria della sua potenza; quando verrà per essere glorificato nei suoi santi e ammirato in tutti i credenti ( II Tess. I, 5-10). Paolo dimostra la necessità del giudizio con lo spettacolo del mondo attuale, dove così spesso gli innocenti sono vittime: questo momentaneo sconvolgimento dell’ordine deve cessare. Il mondo futuro sarà il contrappeso del mondo presente: ai persecutori, il dolore e la vergogna; ai perseguitati, il riposo e la gloria. Dio ci manda la prova per renderci degni della corona; nel darci la corona Egli fa un atto di giustizia; Egli fa un giudizio altrettanto giusto, quanto nel rifiutarla agli empi; da entrambe le parti vi è retribuzione (II Tess. I, 6-7). Non si potrebbe dire più chiaramente di così, che il regno di Dio si conquista, si guadagna, si merita. Certamente si traviserebbe il pensiero di Paolo se si supponesse che il merito, per quanto sia reale e personale, possa essere frutto dei soli nostri sforzi. È Dio che, dopo di averci messo in mano il potere di meritare, ci eccita e ci aiuta a farne uso, fa trionfare in noi la sua grazia e ci rende degni del regno. Non è però meno vero che il merito è nostro e ci dà un vero diritto presso Dio. « Nonmi resta altro, scrive l’Apostolo a Timoteo, che ricevere la corona di giustizia che mi assegnerà in quel giorno il Signore, il giusto Giudice; e non soltanto a me ma a tutti quelli che hanno amato il suo ritorno glorioso (II Tim. IV, 8) ». La corona di « giustizia » è un premio legittimamente guadagnato; e il « giudice », se è « giusto », è tenuto ad assegnarlo senza nessun arbitrio o sopruso. « Dio non fa accettazione di persone; perciò chi ha peccato senza la Legge, perirà senza la Legge; chi ha peccato nella Legge sarà giudicato dalla Legge; poiché non sono gli uditori della Legge che sono giusti presso Dio; ma sono gli osservatori della Legge che saranno giustificati (Rom. II, 11-13) ». Il giudizio si farà secondo i lumi degli uomini e secondo le loro opere; perciò il giorno della retribuzione, si chiama, relativamente ai cattivi, « il giorno dell’ira » e, in relazione a tutti, « la manifestazione del giusto giudizio di Dio ». Non occorre aggiungere che le « opere » che saranno la misura del giudizio, non sono le sole azioni esteriori, poiché l’occhio del sommo Giudice penetra fino nelle più intime pieghe della coscienza umana (I Cor. IV, 5). – Il supplizio dei cattivi consiste in due cose: essi sono banditi lontano dal Signore e privi della sua gloria — e questa si chiama oggi la pena del danno — e provano nei loro sensi l’afflizione e l’angoscia; la loro sorte è la rovina, la morte eterna (II Tess. I, 9). La ricompensa degli eletti è tutto l’opposto: è la quiete, il riposo e la calma derivanti dalla soddisfazione di tutti i desideri legittimi, ed è soprattutto il regno di Dio, l’unione con Gesù loro capo, nella pace e nella felicità senza fine (II Tess. I, 7). Del resto la parola umana è impotente a tradurre quelle meraviglie, perché « l’occhio dell’uomo mai non vide e il suo orecchio mai non udì e il suo cuore mai non provò le cose che Dio ha preparate a coloro che lo amano (I Cor. II. 9) ». Tutto quello che si può dire, è che la visione di Dio senza velo e senza intermediario di sorta, succederà per noi ai misteriosi bagliori della fede; noi vedremo Dio a faccia a faccia e lo conosceremo come noi stessi ne siamo conosciuti (I Cor. XIII, 12).