SALMI BIBLICI: “MISERERE MEI, DEUS, MISERERE MEI (LVI)

SALMO 56: Miserere mei, Deus, miserere mei

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 56

In finem, ne disperdas. David in tituli inscriptionem, cum fugeret a facie Saul in speluncam.

[1] Miserere mei, Deus, miserere mei,

quoniam in te confidit anima mea. Et in umbra alarum tuarum sperabo, donec transeat iniquitas.

[2] Clamabo ad Deum altissimum, Deum qui benefecit mihi.

[3] Misit de caelo, et liberavit me; dedit in opprobrium conculcantes me. Misit Deus misericordiam suam et veritatem suam,

[4] et eripuit animam meam de medio catulorum leonum; dormivi conturbatus. Filii hominum dentes eorum arma et sagittæ, et lingua eorum gladius acutus.

[5] Exaltare super cœlos, Deus, et in omnem terram gloria tua.

[6] Laqueum paraverunt pedibus meis, et incurvaverunt animam meam. Foderunt ante faciem meam foveam, et inciderunt in eam.

[7] Paratum cor meum, Deus, paratum cor meum; cantabo, et psalmum dicam.

[8] Exsurge, gloria mea; exsurge, psalterium et cithara; exsurgam diluculo.

[9] Confitebor tibi in populis, Domine, et psalmum dicam tibi in gentibus;

[10] quoniam magnificata est usque ad caelos misericordia tua, et usque ad nubes veritas tua.

[11] Exaltare super cælos, Deus, et super omnem terram gloria tua.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LVI

La storia, occasione di questo Salmo, è nel libro 1 dei Re, c. 24; dove si racconta di Saulle, che entrò nella spelonca di Engaddi, in cui si trovavano Davide co’ suoi.

Per la fine: non mandare in perdizione; iscrizione da mettersi sopra una colonna; a

David quando, fuggendo Saul, si ritirò in una spelonca.

1. Abbi misericordia di me, o Dio, abbi misericordia di me, perché in te confida l’anima mia. E all’ombra dell’ali tue spererò, sino a tanto che passi l’iniquità.

2. Alzerò le mie grida a Dio altissimo, a Dio mio benefattore.

3. Mandò dal cielo a liberarmi; svergognò coloro che mi conculcavano.

4. Mandò Dio la sua misericordia e la sua verità, e liberò l’anima mia di mezzo ai giovani leoni; conturbato mi addormentai. Dei figliuoli degli uomini sono i denti lance e saette, e affilato coltello la loro lingua.

5. Innalza te stesso, o Dio, sopra de’ cieli, e la tua gloria per tutta la terra.

6. Tesero un laccio a’ miei piedi, e vi fecero piegare l’anima mia. Scavarono dinanzi a me una fossa, e in essa sono caduti.

7. Il mio cuore, o Dio, egli è preparato: egli è preparato il cuor mio; canterò e salmeggerò.

8. Sorgi, o mia gloria, sorgi tu, salterio, e tu, cedra; io sorgerò coll’aurora.

9. A te darò laude, o Signore, tra popoli; e inni a te canterò tra le genti;

10. Imperocché si innalzata fino ai cieli la tua misericordia, e fino alle nubi la tua verità.

11. Innalza te stesso, o Dio, sopra dei cieli, e la tua gloria per tutta quanta la terra.

Sommario analitico

Davide, rinchiuso nella oscura caverna di Engaddi (II Re, XXII e XXIII, 4), implora il soccorso di Dio.

I. – Egli ci insegna i mezzi per evitare, o almeno superare la calunnia e le persecuzioni dei nostri nemici:

– 1° l’umile preghiera che indica la vivacità del desiderio e la grandezza dell’afflizione: – 2° una piena fiducia in Dio, fiducia che riposa nel fondo dell’anima; – 3° la perseveranza; – 4° il fervore (1); – 5° la riconoscenza per i benefici ricevuti (3).

II. – Espone la bontà di Dio nei suoi riguardi:

– 1° lo ha liberato da ogni pericolo con la sua misericordia (3): – 2° ha distrutto i suoi nemici con la sua giustizia e la sua verità: – 3° Egli descrive i suoi sforzi comparando i denti mostrati a mo’ di lance e frecce, e la lingua come una spada, e la loro caduta nella fossa che essi stessi hanno scavato (4-6).

III. – In riconoscenza di questi benefici:

1° egli dichiara la disposizione in cui si trova, di conformità alla volontà di Dio (7);

2° esprime le virtù prodotte da questa perfetta conformità della sua intelligenza e della sua volontà alla volontà di Dio: – a) la gioia spirituale stessa in mezzo alle prove (8); – b) una santa attività nel culto di lode che rende a Dio (9); – c) un sentimento profondo di riconoscenza per le testimonianze di bontà, di misericordia e di giustizia di cui Dio lo ha colmato (10), – d) il desiderio della gloria di Dio (11).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — I, 2.

ff. 1, 2. – La fiducia in Dio da dunque diritto alla sua misericordia e non c’è se non per coloro la cui fede è viva che hanno soggetto di sperare. – Niente di più toccante di questa comparazione, spesso ripetuta nella Scrittura, e della quale Gesù-Cristo si è servito, Egli stesso, per farci conoscere tutta la tenerezza del suo amore: « Gerusalemme. Gerusalemme, quante volte ho già dovuto raccogliere i tuoi figli, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali! E tu non lo hai voluto » (Luca XII, 21). – Le ali di Dio sono la sua misericordia e la sua verità. – Rifugiarsi sotto le ali del Signore fin quando passi l’iniquità, è implorare il suo soccorso in tutte le circostanze della vita fino alla morte; fin tanto che questo mondo sussisterà, e che noi saremo nel mondo, l’iniquità non cesserà di accrescersi in misura diretta al raffreddamento della carità, e per questo le nostre prove e le nostre miserie non finiranno che al momento in cui lasceremo la terra, per passare ad una vita migliore.

II. — 3 – 11.

ff. 3. – Questo grido significa due cose: 1° la violenza dell’afflizione; 2° la vivacità, l’ardore a la devozione. – Questo grido parte piuttosto dal cuore che dalla lingua. È quello che Dio ascolta meglio, e benché sia l’Altissimo, ed infinitamente elevato sopra di noi, questo grido non lascia di giungere fino alle sue orecchie.

ff. 4. – Quando non speriamo più alcun soccorso da parte della terra, Dio si compiace di soccorrerci dall’alto del cielo. – La misericordia di Dio, è effetto della tenerezza che Dio ha per gli uomini, la verità è fondata sulle promesse. Con queste due inviate, non è possibile che l’uomo sia maledetto. La misericordia fa che si detestino i propri peccati senza perdere la pace dell’anima; e la verità fa che si attenda con fiducia una vita migliore, con le grazie necessarie per pervenire ad essa. La misericordia e la verità sono state inviate con Gesù-Cristo; esse hanno camminato davanti a Lui, non vi perdono di vista, ci ricevono sempre nel loro seno, come questo santo Profeta dice ancora nei suoi sacri Cantici (Berthier). – La bontà di Dio non deve ispirarci un riposo lasso e una mollezza oziosa, come se noi fossimo in piena sicurezza; noi non dobbiamo dormire se non pieni di turbamenti. È già soccombere alla tentazione il dormire invece che il pregare. (Dug.). – « I figli degli uomini hanno i loro denti come armi e frecce, e la loro lingua come spada affilata ». Non dite che le loro mani sono disarmate, fate attenzione perché la loro bocca è amara (S. Agost.).

ff. 5. – Dio è sempre grande nel cielo e sulla terra, ma non dispiega sempre in modo sensibile, eclatante e particolare, i tratti della sua grandezza. Egli lascia gli uomini nelle vie della pura fede; ma talvolta opera meraviglie, là dove batte dei colpi che fanno dire che il dito di Dio è là (Berthier).

ff. 6. – Chiunque prepari una fossa per farvi cadere suo fratello, vi finisce inevitabilmente egli stesso. Riflettete, osservate tutte queste cose con gli occhi cristiani e non lasciatevi ingannare dalle cose visibili. Forse, in effetti, qualcuno di voi, ascoltando le mie parole, si ricorderà di aver visto un uomo cercare di ingannare suo fratello, tendergli delle imboscate, e riuscendovi: suo fratello è caduto nell’insidie ed è stato spogliato od oppresso, o gettato in prigione o accusato da un falsa testimonianza, o coinvolto in una occasione calunniosa; questo disgraziato sembrava oppresso e l’altro oppressore; il primo sembra vinto e l’altro vincitore. Voi vedete i vostri nemici trasportati dalla gioia, la loro stessa gioia è la fossa nella quale essi cadono; perché vale più la tristezza di colui che soffre l’ingiustizia, che la gioia di colui che la commette. La gioia di colui che commette l’ingiustizia, … ecco la fossa, e chiunque vi cade, perde la vista. Voi vi lamentare perché avete perso un vestito, e non vi lamentate di quest’uomo che ha perso la fede? Chi di voi due ha sofferto il danno più rude? (S. Agost.). – Di tre tipi sono di danni che corre la nostra anima: quello della seduzione, dello scoraggiamento, dello scandalo. Il demonio ci seduce, le passioni ci indeboliscono, il mondo ci trascina con i suoi cattivi esempi. Ci vuole vigilanza per non cadere nel laccio dell’inferno, forza per resistere alle passioni, solitudine per non essere coinvolti negli scandali del mondo (Berthier).

ff. 7. – La pazienza dei buoni, prepara i loro cuori a sottomettersi alla volontà di Dio; essi si glorificano nelle afflizioni, e come il profeta essi dicono: « il mio cuore è pronto, o mio Dio, il mio cuore è pronto; io canterò e salmeggerò ». – Cosa mi ha fatto il mio nemico? Egli ha preparato una fossa per ingannarmi ed io non preparerò il mio cuore per soffrire i suoi oltraggi? Egli ha preparato una fossa per opprimermi ed io non preparerò il mio cuore per sopprimere l’oppressione? Ecco perché egli cadrà in questa fossa, io canterò e vi celebrerò nei miei cantici. Ascoltate l’Apostolo: il suo cuore è pronto, perché ha imitato il Signore: « Noi ci glorifichiamo – egli dice – delle afflizioni perché l’afflizione produce pazienza, la pazienza la virtù provata, la virtù provata la speranza, e la speranza non sarà confusa, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori dallo Spirito-Santo, che ci è stato dato » (Rom. V, 3 e segg.), (S. Agost.). – Per poco che si ricerchi il senso nascosto di questa parola « preparazione », vi si scopre facilmente un mistero al quale si può ridurre tutta l’economia della santificazione delle anime. Nessun dubbio, in effetti, che colui che può dire con il Salmista: « il mio cuore è pronto, o mio Dio, il mio cuore è pronto », non sia nella disposizione propria ad onorare Dio. In questo grido del cuore c’è tutta una religione: la fede, la speranza, l’amore, l’adorazione, l’abbandono, il sacrificio, dopo questa prima parola, è da aggiungere con il Profeta reale: « si, io canterò le vostre lodi, o Signore, in mezzo alla mia gloria; io le farò sentire sugli strumenti che manifesteranno a tutti i sentimenti del mio cuore! » La preparazione del cuore è la disposizione dell’anima che non si apparta più, ma è tutta del suo benamato e che, nei languori dell’amore, si consuma per Lui aspettando la sua venuta. Così è specialmente raccomandato di preparare il proprio cuore prima della preghiera, perché è per mezzo della preghiera che si compie questo divino commercio dello Sposo e della Sposa; è con la preghiera che il cuore, chiudendo la porta a tutte le affezioni della terra e ritirato in se stesso, chiama a sé il benamato, ed entra nella ineffabile relazione con Lui. Prima quindi di dedicarsi a questo sublime atto, bisogna che l’anima si prepari, cioè si purifichi, si adorni, si offra a Dio suo sposo e si ecciti, con santi desideri, a riceverlo in essa e ad abbandonarsi in Lui (Mgr. BAUDRY, Le Coeur de Jésus, p, 485).

ff. 8. – Talvolta l’anima del giusto sonnecchia e riposa; essa dorme in mezzo ai flutti agitati del mare, resta inattiva in mezzo ai nemici che la combattono. In questo stato, essa non vuole il bene che a metà; essa agisce mollemente in tutto ciò che riguarda la salvezza, senza attrattiva per la preghiera, senza gusto per le altre opere di pietà. In questo stato pericoloso occorre risvegliarla, bisogna eccitare la sua arpa e la sua lira, vale a dire il suo fervore, i santi desideri e le affezioni del suo cuore, e svegliarsi sul far del giorno, senza cedere all’abulia ed al languore (Dug.). – Nella disposizione in cui è il Salmista di testimoniare la sua riconoscenza al Signore, egli mette in azione tutte le sue potenze e tutti gli strumenti del culto divino. Egli risveglia la sua gloria, ciò che esprime tutta l’estensione del suo spirito profetico, risveglia la sua arpa, la sua lira, cioè tutti gli strumenti che accompagnano i santi cantici; si svegli egli stesso per celebrare il Signore fin dall’alba del giorno. Che impressione, zelo, amore in tutte queste espressioni! È così che noi eccitiamo la lode e la benedizione dell’Altissimo? (Berthier). – Fate come i viaggiatori che cantano, e che cantano anche di notte. Mille brusii paurosi si fanno intendere intorno ad essi, o piuttosto non si fanno intendere, tutto tace intorno ad essi, ma più il silenzio è profondo, più è pauroso. I viaggiatori cantano comunque, anche quelli che temono i ladri. Con quanta maggiore sicurezza non si debba cantare per il Cristo? (S. AUG., PS. LXVI).

ff. 9, 11. – La Gloria degli uomini si trova raramente nelle lodi che essi danno ad altri uomini; essi esaltano delle virtù equivoche, preconizzano talenti mediocri, e quante volte non accade loro di vantarsi di passioni vergognose! Non è lo stesso per le lodi che si rendono a Dio: più si è eloquenti nel celebrare le sue perfezioni, più si onora se stessi, perché così si testimonia che si ha una grande idea dell’eccellenza del suo Essere. Le lodi che si danno agli uomini umiliano per il tono stesso di grandezza che ci si affetta di prendere, mentre quelle che si danno a Dio, elevano per l’umiltà stessa che le accompagna (Berthier). Non c’è differenza tra l’attività, la vigilanza, la solerzia del Profeta, e l’attività, la vigilanza, la solerzia dell’uomo di mondo che pensa alla sua fortuna; ma l’oggetto è molto differente. Si è scritto a ragione che l’ambizione era la scimmia della carità; che essa tutto soffre, tutto crede; che essa è paziente, attiva, compiacente; che non si irrita, che non fa passi falsi. Ma le sue vedute sono differenti da quelle che animano la carità! Anche lo schiavo del mondo al mattino dice: svegliatevi, interessi della mia gloria, strumenti della mia fortuna, molle pubbliche e segrete che potete condurmi all’obiettivo al quale aspiro; io rinuncio alle dolcezze del riposo, mi metto al lavoro; che l’intero giorno sia impiegato nel progresso del successo dei miei disegni. Si dirà forse che questo uomo abbia preso in prestito i sentimenti ed il linguaggio del nostro Profeta? Ma non è che la scimmia della virtù: tutto il suo ardore si concentra sopra oggetti frivoli in se stessi, e soggetti quindi a disingannare le sue speranze; egli insegue dei fantasmi che svaniscono prima che possa raggiungerli! Il profeta mette in movimento tutte le risorse della sua anima per piacere a Colui che non gli verrà meno, né nel tempo, né nell’eternità; egli corre dietro una carriera al cui termine c’è una corona; persegue con ardore il Bene unico, il vero essenziale, il Bene per eccellenza. Diciamo con lui: O anima mia, o cuore mio! Svegliatevi, uscite dall’assopimento letargico dove vi ha confinato il frivolo spettacolo del mondo (Berthier). – Lodare Dio in mezzo ai popoli e cantare la sua gloria tra le nazioni, non è arrossire di Dio e delle sue parole, ma è dichiarare altamente che si è di Dio e non del mondo. È anche cantare le lodi di Dio nella Chiesa, Maestra sovrana dei popoli e delle nazioni, nell’unione di uno stesso spirito e di uno stesso cuore. – La misericordia e la verità, o la giustizia di Dio, sono pure elevate al di sopra della terra. Noi non abbiamo ordinariamente che delle false idee, delle idee troppo imperfette della misericordia e della giustizia di Dio. Dio è infinitamente buono, così come è infinitamente giusto; Egli non perde né la sua giustizia, esercitando la sua bontà, né la sua bontà facendo mostra della sua giustizia. – La misericordia e la verità sono elevate fino alle nubi, è dunque giusto che le sue lodi e la sua gloria risplendano in cielo e su tutta la terra (Duguet).

SALMI BIBLICI: “MISERERE MEI, DEUS, QUONIAM CONCULCAVIT” (LV)

SALMO 55: “Miserere mei, Deus, quoniam conculcavit”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 55

In finem, pro populo qui a sanctis longe factus est. David in tituli inscriptionem, cum tenuerunt eum Allophyli in Geth.

[1] Miserere mei, Deus, quoniam conculcavit

me homo; tota die impugnans, tribulavit me.

[2] Conculcaverunt me inimici mei tota die; quoniam multi bellantes adversum me. [3] Ab altitudine diei timebo: ego vero in te sperabo.

[4] In Deo laudabo sermones meos; in Deo speravi; non timebo quid faciat mihi caro.

[5] Tota die verba mea execrabantur; adversum me omnes cogitationes eorum in malum.

[6] Inhabitabunt, et abscondent; ipsi calcaneum meum observabunt. Sicut sustinuerunt animam meam,

[7] pro nihilo salvos facies illos; in ira populos confringes.

[8] Deus, vitam meam annuntiavi tibi; posuisti lacrimas meas in conspectu tuo, sicut et in promissione tua;

[9] tunc convertentur inimici mei retrorsum: in quacumque die invocavero te, ecce cognovi quoniam Deus meus es.

[10] In Deo laudabo verbum; in Domino laudabo sermonem. In Deo speravi: non timebo quid faciat mihi homo.

[11] In me sunt, Deus, vota tua, quae reddam, laudationes tibi:

[12] quoniam eripuisti animam meam de morte, et pedes meos de lapsu, ut placeam coram Deo in lumine viventium.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LV

Davide, cercato a morte da Saulle (1 dei Re, c. 21, va ad Achis re dei Filistei: conosciuto e trattato ostilmente, si finge pazzo, e cosi può rifugiarsi in una spelonca; dov’è raggiunto da 400 de’ suoi pur esulanti, e perciò impediti di partecipare alle cose sante del popolo di Dio. Anche questo Salmo è di facile e viva applicazione a Cristo.

Per la fine: per la gente allontanata dalle cose sante; iscrizione da mettersi sopra una colonna, per David, quando gli stranieri lo ebbero in Geth.

1. Abbi misericordia di me, o Dio, perocché l’uomo mi ha conculcato; tutto giorno assalendomi, mi ha afflitto.

2. Tutto giorno mi han conculcato i miei nemici; perocché sono molti quei che combattono contro di me.

3. Nel pieno giorno sarò in timore: ma io spererò in te.

4. In Dio loderò la parola detta a me, in Dio ho posta la mia speranza; non temerò quel che possa farmi la carne.

5. Tutto giorno ebbero in abbominazione le mie parole, tutti i loro pensieri son rivolti contro di me ad offendermi.

6. Si uniranno insieme, e si terranno nascosi; noteranno però i miei passi.

7. Siccome essi sono stati attendendo al varco l’anima mia, tu per nissun modo li salverai; nell’ira tua dispergerai questi popoli.

8. A te, o Dio ho esposto qual sia la mia vita; le mie lacrime ti se’ tu poste dinanzi agli occhi tuoi.

9. Come sta nelle tue promesse; e allora saran messi in fuga i miei nemici. In qualunque giorno io t’invochi, ecco che io riconosco che tu se’ il mio Dio.

10. In Dio loderò la parola, nel Signore loderò la promessa; ho sperato in Dio, non temerò quel che possa farmi un uomo.

11. Son presso di me, o Dio, i voti di laude, che ho a te fatti, i quali io scioglierò.

12. Perocché liberasti l’anima mia dalla morte e i miei piedi dalle cadute, ond’io sia accetto dinanzi a Dio nella luce dei vivi.

Sommario analitico

Davide, inseguito dai suoi nemici e arrestato dai Filistei nella città di Geth,

I. – Espone la loro crudeltà nei suoi confronti:

1° Essi lo calpestano; 2° lo attaccano senza tregua giorno e notte, ed in gran numero (1, 2).

II. – Egli esprime tutta la sua fiducia in Dio, e forte di questa fiducia:

1° supera il timore che gli ispira la felicità e la potenza dei suoi nemici (3);

2° trionfa di gioia a causa delle promesse che gli sono state fatte (4).

3° si beffa degli sforzi dei suoi nemici: – a) che hanno in esecrazione le sue parola; – b) i cui pensieri non tendono che alla sua rovina (5); – c) che non si applicano se non a tendergli insidie (6).

III. – Egli predice:

1° la rovina dei suoi nemici: a) Dio li perderà e li distruggerà (7); b) li metterà in fuga a causa della sua umile preghiera e delle sue lacrime (8, 9).

2° la sua liberazione, nella quale – a) riconosce la potenza di Dio che lo esaudisce nel giorno in cui Lo invoca e – b) la sua fedeltà nel compiere le sue promesse (10); – c) egli concepisce in Dio una sì grande fiducia che non ha più paura di quello che un uomo possa fare contro di lui; – d) loda il suo liberatore e promette di renderGli solenni azioni di grazie, perché: – 1° Egli ha salvato la sua vita dalla morte, – 2) ha preservato i suoi piedi da ogni caduta; – 3) lo ha reso capace di giungere nella terra dei viventi (11, 12).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-2.

ff. 1. –  Opporre Dio all’uomo: « Abbiate pietà di me, Signore, perché un uomo mi affligge ». Io levo gli occhi al cielo, poiché non attendo alcun soccorso dalla terra. Io ho fatto ricorso al sovrano Padrone, perché il servo mi riempie di afflizioni (Dug.). – Un grappolo d’uva attaccato alla vigna, resta intero con tutta la sua beltà, ma non vi cola nulla; finché non lo si metta sotto pressione, lo si ammassi e lo si schiacci, sembrando che gli si faccia oltraggio; ma un tale oltraggio non è senza frutto; al contrario, se non viene oltraggiato in tal modo, esso sarebbe sterile, e non produrrebbe nulla di buono. (S. Agost.).

II. — 3-6.

ff. 3. –  Nel senso spirituale non c’è nulla da temere di più che l’altezza del giorno, sia che la si intenda come l’ardore dell’età, sia che la si prenda come l’elevazione della fortuna, sia che si intenda come assemblea del mondo. Si deve temere in giovinezza il fuoco delle passioni o la mancanza di esperienza; nell’elevazione della fortuna, l’orgoglio e la durezza verso i poveri; nelle società del mondo, la perdita del tempo, il cattivo esempio, la maldicenza e l’oblio di Dio (Berth.).

ff. 4. – «Io loderò Dio con i miei discorsi, io ho messo in Dio le mie speranze; io non temerò nulla di tutto ciò che la carne potrà fare contro di me ». Perché? Perché metterò in Dio la mia speranza. Perché? Perché io loderò Dio con i miei discorsi. Se voi con i vostri discorsi lodate voi stessi, io non vi dico di non temere, io dico che è impossibile che non temiate. In effetti o voi terrete i vostri discorsi come menzogneri, e saranno certamente vostri, perché sono menzogneri; oppure, se essi sono veri, da dove pensate che essi vengano: non da Dio ma dal vostro fondo, allora essi saranno veri, ma voi sarete mendaci. Se al contrario voi riconoscerete che non potete dire nulla di vero sulla saggezza divina e sulla vera fede, non lo avrete ricevuto se non da Colui di cui è detto: « cosa possedete che non abbiate ricevuto? » (I Cor. IV, 7), allora voi lodate Dio con i vostri discorsi e voi stessi sarete lodati in Dio dai discorsi di Dio … ma se io lodo Dio nei miei discorsi, perché essi sono miei? Se lodassi Dio, essi sarebbero miei: in Dio, perché vengono da Lui; miei perché io li ho ricevuti. Colui che me li ha dati, ha voluto che fossero i miei, per l’amore che ho per Colui dal quale essi sono; e venendo da Lui a me, essi sono divenuti miei (S. Agost.).

ff. 5, 6. – Le parole delle persone che fanno professione di pietà e di virtù in esecrazione agli empi ed agli uomini del mondo perché condannano le loro massime:  queste persone devono molto vegliare sulle loro parole e sulle loro azioni, perché il mondo dal canto suo, li sorveglia da vicino, ed osserva tutti i loro passi, per trovare come riprenderli, ed indirizzar loro delle insidie. (Dug.).

ff. 7. – Non è un desiderio questo che il Profeta esprime, egli espone semplicemente ciò che capita in realtà ai persecutori delle persone dabbene: Dio li tratta come essi hanno trattato i suoi servi. Come essi hanno atteso il momento per toglier loro la vita, Dio la toglie loro effettivamente. Sembra a volte differire, ma è solo per rendere la sua vendetta più eclatante e distruggere infine – nella sua collera – questi popoli ingiusti (Dug.).

ff. 8. – Dio conosce perfettamente la vita di ciascun uomo, senza che sia necessario esporgliela, e la conosce molto meglio di quanto noi stessi possiamo conoscerla. È bene tuttavia esporgliela, per poterla esporre a noi stessi, e trarne occasione di piangerne. (Dug.). – « Mio Dio, io ho raccontato la mia vita davanti a voi. Voi avete posto le mie lacrime davanti ai vostri occhi ». Voi avete ascoltato le mie suppliche, « come avete promesso ». Voi avete detto che avreste esaudito colui che piangesse: io ho creduto, io ho pianto, io sono stato esaudito; io vi ho trovato misericordioso nelle vostre promesse, e fedele nel loro compiersi « come avete promesso » (S. Agost.). – Colui che fa penitenza, che si affligge, non deve enumerare le sue buone opere, ma piuttosto i suoi peccati. È quanto ci insegna il Re-Profeta con queste parole. « Signore, io vi ho esposto la mia vita, Voi avete posto le mie lacrime alla vostra presenza ». E non è come un uomo innocente che egli espone la sua vita perché lo fa versando lacrime che sono come le mediatrici dell’uomo che vuole ottenere da Dio il perdono dei suoi peccati. (S. Ambr.). – Quando versiamo delle lacrime, Dio le raccoglie nel suo seno, vale a dire che la sua misericordia condiscende alla nostra afflizione; ma bisogna che queste lacrime abbiano come oggetto la nostra miseria ed i nostri peccati. Se noi piangiamo la perdita dei nostri beni, dei nostri amici, della nostra reputazione, della nostra salute, noi piangiamo da uomini; e questo termine è consacrato nella scrittura per esprimere la natura corrotta, le inclinazioni terrene. Dio non ascolta affatto questi gemiti, ma piangiamo, come i Santi, per essere ancora così deboli per l’amore di Dio, sì rampanti nei nostri desideri, così poco toccati dalle sofferenze di Gesù-Cristo (Bethier).

ff. 9. – In qualunque giorno io Vi invocherò, io so che siete il mio Dio. È la grande scienza. Egli non dice: io so che Voi siete Dio; ma « che Voi siete il mio Dio ». Ed in effetti è il vostro Dio, quando viene in vostro soccorso: Egli è il vostro Dio quando non vi rendete estraneo e Lui. Ecco perché è detto: « felice il popolo del quale il Signore è Dio! (Ps. CXLIII, 15) ». Perché: di chi Egli è Dio? Egli è in effetti il Dio di coloro che Lo amano, di coloro che Lo temono, di coloro che Lo posseggono, di coloro che Lo onorano, di coloro che sono come nella sua casa, che formano la sua grande famiglia, e che sono stati riscattati dal sangue divino del suo Figlio unico. Quanto Dio ci ha dato, perché noi facessimo a Lui quel che Egli ha fatto per noi! (S. Agost.).

ff. 10. – Per quanto un uomo sia furioso contro di me, possa dare libero corso al suo furore, o abbia pieno potere di compiere tutto il male che si sforza di farmi, cosa potrà togliermi? … Dell’oro, dell’argento, delle truppe, dei servi, degli schiavi, delle terre, delle case? Che mi tolga tutte queste cose, ma potrà forse togliere i voti che sono in me ed i sacrifici di lode che io offro a Dio? Tutti gli altri beni, il nemico non può togliermeli, malgrado lui; questi, il nemico non può prenderli se voi non acconsentite. Questi beni terreni, l’uomo li perderà suo malgrado, egli vorrà conservare la sua casa, ma … perderà la sua casa; però nessuno perderà la fede se non la disprezza volontariamente (S. Agost.).

ff. 11. – Quali voti farete? Quali promesse compirete? Gli offrirete per caso, qualcuno degli animali che venivano altre volte presentati davanti ai suoi altari? No, non Gli offrite niente di questo: è in voi ciò che dovete versargli e rendergli. Dal segreto del vostro cuore, estraete un incenso di lode; dalla cella della vostra buona coscienza, traetene un sacrificio di fede. Quanto Gli offrite consumatelo con la carità (S. Agost.).- Che abbiate in apparenza i più bei sentimenti; che esprimiate la lode, la più sublime, la più elevata, o la più viva e la più toccante, anche se non vedrete nessun effetto, non contate né su quel che direte, né su ciò che voi penserete, o che voi crederete di pensare. Voi avete in voi stessi tutto ciò che può contribuire alla vostra santificazione, e potrete dire a Davide: « i miei auspici sono nel mio cuore ». Si Signore, io riconosco che tutto ciò che Voi desiderate da me è in me, ed è per questo che sono assolutamente inescusabile se io non ve lo do (BOURD. Pour la fête de Ste Mad.).

ff. 12. – Il compendio, e come il resoconto dei benefici di Dio, è che Egli ci libera dalla morte dell’anima, ed i nostri piedi dalla caduta, in mezzo alle tentazioni causate da una lunga e violenta persecuzione, per rendersi gradito a Dio nella luce dei viventi, nella luce della fede e della grazia, di cui sono privi gli infedeli ed i peccatori, o meglio ancora, nella luce della gloria, che possiedono coloro che, a propriamente parlare, sono i soli viventi (Dug.).

CATECHISMO CRISTIANO PER LA VITA INTERIORE DI J. J. OLIER (1)

J. J. OLIER

CATECHISMO CRISTIANO PER LA VITA INTERIORE (1)

A cura del Sacerdote Maurilio Andreolotti

III edizione

EDITRICE ÀNCORA

MILANO

Visto: nulla osta per la ristampa

Genova, 21 maggio 1945.

On. MARIO CARPANETO, Revis. Eccles.

IMPRIMATUR

Genuæ, die 25 V 1945.

STEPHANUS FULLE, P. V

Proprietà Riservata – Editrice Ancora – Milano

E. A. (Ge) R. n. 29 – 1 – 1944

Approvazione del Vescovo di Pamiers.

(per la prima edizione).

In questo libro l’eminenza e la purezza dello spirito cristiano si trovano espresse in un modo così breve e così chiaro, da non potersi dubitare che non sia stato ispirato da Dio al suo Autore e che questi non abbia ricevuto dal Padre dei lumi i pensieri sublimi e le espressioni di grazia di cui si serve per far conoscere e, in pari tempo, gustare le divine verità, che debbono dirigere e animare la vita dei veri figlioli di Dio. – Occorre soltanto che il lettore abbia cura di leggere santamente istruzioni così sante, apportando a questa lettura un cuore distaccato dall’affetto al peccato, perché l’affetto al peccato genera nell’anima certe tenebre, le quali le nascondono le verità della nostra santa fede. Occorre inoltre che legga con uno spirito ben risoluto di condurre una vita conforme alla santità della vocazione cristiana. – L’idea e le massime di tale vocazione vengono in questo libro proposte con tanta luce e tanta unzione, che il lettore si sentirà illuminato, e in pari tempo animato, a seguire Gesù Cristo per mezzo di vie così belle, così brevi e così sicure, purché si abbandoni allo Spirito di verità onde ne sia commosso, e le mediti davanti a Dio a suo bell’agio e con umiltà.

Dato a Parigi il 1 Aprile 1658.

f FRANCESCO – STEFANO DE CÀULET

Vescovo di Pamiers.

INTRODUZIONE

In questo libro il Servo di Dio Giovanni Olier espone, in forma di dialogo, i fondamenti della vita soprannaturale; lo compose nel 1656 per le anime che tendono alla perfezione e l’opera fu accolta con tanto favore che in pochi anni ne vennero pubblicate molte edizioni. L’opera è divisa in due parti e in brevi capitoli; nei primi diciannove capitoli che formano la prima parte, l’Autore insegna che il Cristiano, se vuole essere veramente tale, deve praticare l’abnegazione perfetta, ossia tenere il cuore distaccato dagli onori, dai piaceri e dai beni materiali, con le virtù di umiltà, di mortificazione e di povertà, contro le tre tendenze perverse della nostra carne corrotta dal peccato originale; anzi questa necessità dell’abnegazione, egli la deduce dalla corruzione medesima della carne, per la quale meritiamo ogni umiliazione, ogni sofferenza e ogni privazione. – Ci sembra opportuno premettere qualche schiarimento, affinché la dottrina del Servo di Dio non venga fraintesa. Cos’è questa carne di cui l’Olier dice tanto male? Non è precisamente il nostro corpo; ma il complesso, ossia la personificazione, per così dire, di tutte le nostre inclinazioni al male; è l’uomo in quanto non è rigenerato o è contrario alla grazia del Battesimo (San Paolo chiamò pure queste inclinazioni con l’espressione uomo vecchio, perché, avendole noi ricevute da Adamo peccatore, precedono l’uomo nuovo o spirituale formato in noi dalla grazia del Battesimo. (Rom., VI, 6 – Eph., II, 15; IV, 24; – Gal., VI, 15). Questa espressione non si riferisce dunque soltanto al corpo e alla parte infima dell’uomo, ma anche all’anima quando essa si abbandoni a pensieri e atti di volontà conformi alle nostre cattive inclinazioni. La parola carne viene sovente usata nel senso predetto da san Paolo, e si trova più di trenta volte nelle sue Epistole, specialmente in quella ai Romani; così pure, la usano nel medesimo senso san Pietro e san Giovanni, e anche, almeno tre volte, Nostro Signore stesso (Math. XXVI, 41 – Joan. III, 6; XI, 64; XIII, 15). Certuni, che non si sentono troppo molestati dalla concupiscenza, diranno forse che le espressioni dell’Olier sono eccessive; ma la Scrittura non parla diversamente (Per esserne convinti, basta leggere il cap. VIII dell’Epistola ai Romani). Gli Apostoli, e soprattutto san Paolo, condannano la carne come il principio e la sorgente delle concupiscenze, ossia di quelle inclinazioni disordinate che ci portano al peccato (Gal., V, 16, 17, 24, Spiritu ambulate et desideria carnis non perficietis. Caro enim concupiscit adversus spiritum; spiritus autem adversus carnem; hæc enim sibi invicem adversantur… Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et concupiscentiis. – I Joan., II. Ormne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, et concupiscentia oculorum et superbia vitæ. – S. Pietro parla dei desideri della carne come della fonte di ogni perversità. (II Petr., II, 10, 18).

 Dio, prima del diluvio, diceva: II mio spirito non rimarrà nell’uomo perché egli è carne. (Gen, VI, 3, VIII, 21). – I figli della carne, dice san Paolo, non sono figli di Dio. (Rom. IX, 8). – Sono carnali e venduti come schiavi al peccato (Rom. VII, 14); camminano secondo la carne e ne eseguiscono i desideri; hanno la prudenza della carne che è una morte (Rom. VIII, 6). – La carne è nemica di Dio e non può essergli soggetta (Rom. VIII, 8). – Le opere della carne sono la fornicazione, i malefizi, gli odi, gli omicidi ecc. – Gal. V, 19, seg. -La carne dall’Apostolo viene chiamata peccato (Rom. VII, 17).Prima del battesimo l’uomo viveva nei desideri della carne, e ne adempiva le opere: le passioni del peccato operavano nelle sue membra (Rom. VIII, 5). – Coloro che sono di Cristo hanno crocifisso la loro carne, i suoi vizi e le sue concupiscenze. La carne concupiscit adversus spiritum. La carne combatte contro lo spirito e lo spirito contro la carne (Gal. V, 17, 24).Pertanto l’uomo è sollecitato da una parte dallo spirito e dall’altra dalla carne; se aderisce allo spirito è spirito; se invece segue le inclinazioni disordinate della sua natura, diventa carne. Donde una lotta intestina, di cui san Paolo, nel capo VII dell’Epistola ai Romani, ci dà una descrizione drammatica, concludendo con questo grido straziante: « Infelix ego homo! Oh me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte?» E risponde: La grazia di Dio, per Gesù Cristo. – Con tutta ragione quindi il Servo di Dio dichiara con grande insistenza che dobbiamo odiare la nostra carne, ossia reprimere tutte le nostre perverse inclinazioni al peccato; e chi non odia il peccato non può essere discepolo di Gesù; perciò Nostro Signore diceva: Chi ama l’anima sua (ossia l’anima sua in quanto segue l’inclinazione della carne) la perderà; chi odia l’anima sua in questo mondo la custodisce per la vita eterna (Joan. XII, 25).Per portare un giudizio esatto su la dottrina dell’Olier rispetto agli effetti del peccato originale, sarà bene ricordare che su questa questione esistono nella Chiesa due opinioni libere.Vari teologi insegnano che il peccato originale ci ha semplicemente privati del dono soprannaturale della grazia santificante e dei doni che chiameremo preternaturali, i quali costituivano l’uomo nello stato d’integrità, ossia di immortalità e di rettitudine. Pertanto, secondo questi teologi, l’uomo dopo il peccato si trova nello stato di natura pura, vale a dire nello stato in cui sarebbe stato creato se Dio non l’avesse elevato all’ordine soprannaturale; ma la privazione dell’ordine soprannaturale nell’uomo è effetto del peccato di Adamo, quindi contrario alla volontà di Dio; perciò l’uomo nello stato attuale non è nello stato voluto da Dio, ma in una condizione peccaminosa, ciò che in noi costituisce il peccato originale.Altri teologi invece sostengono che il peccato originale ha avuto anche effetti peggiori, avendo causato in noi uno stato di debolezza, di inclinazione al male, di concupiscenza, che san Paolo chiama peccato e legge di peccato (Rom. VII, 23).Secondo i primi, la concupiscenza, anche nel grado in cui si trova in noi adesso, sarebbe naturale all’uomo; mentre gli altri sostengono invece che in se stessa la concupiscenza sarebbe bensì naturale all’uomo, ma non nel grado in cui la sentiamo dopo il peccato di Adamo, per cui gli antichi teologi dicevano che l’uomo è stato dal peccato di Adamo ferito anche nella sua natura, vulneratum in naturalibus. I teologi moderni sono più inclinati ad ammettere la prima opinione; tuttavia le due opinioni sono libere nella Chiesa. Il Concilio di Trento non volle sciogliere la questione e si contentò di usare espressioni che si possono adottare tanto nell’una come nell’altra opinione.Il Servo di Dio si appigliò alla seconda Opinione (Questa venne pure seguita, prima dell’Olier, dal Cardinale de Bèrulle e in generale dalla scuola che a lui fa capo. L’espressione: Non siamo altro che niente e peccato, che venne usata dal Condren, dall’Olier e da San Vincenzo de’ Paoli, è del Bérulle; e il dotto e santo Cardinale insegna espressamente che l’uomo. nello stato attuale, trovasi in condizioni peggiori dello stato di natura pura.) e la spinse – dice Padre Faber -sino al punto in cui era possibile senza oltrepassare i limiti dell’ortodossia; e soggiunge: « Ho creduto bene di disapprovare certe espressioni di cui si è servito l’Olier, senza la minima intenzione di mancare di deferenza verso un uomo del quale ho detto altrove, che fra tutti i Servi di Dio non ancora canonizzati, di cui ho letto la vita, egli è quello che rassomiglia di più ad un Santo canonizzato » (Progresso dell’anima, cap. XX, in nota). – Il pessimismo dell’Olier, in questa questione si spiega facilmente. Egli, infatti aveva concepito un orrore profondo verso ciò che san Paolo chiama la carne, un po’ in seguito alla lettura abituale delle Epistole del grande Apostolo e delle opere di sant’Agostino, ma principalmente a motivo di una terribile crisi alla quale era stato sottoposto all’inizio della sua vita sacerdotale. Durante questa prova, che durò due anni, « Dio sembrava avergli tolto la virtù naturale che sorregge il corpo; la sua anima era come incapace di governare i sensi; egli era ridotto ad uno stato di stupidità per cui non si ricordava di nulla, non poteva imparar nulla, non trovava parola per esprimere qualsiasi concetto. Peggio ancora, era privo anche di ogni dono soprannaturale sensibile, e inoltre oppresso da ogni sorta di tentazioni, a segno che si considerava come riprovato da Dio » (Faillon, Vie de M. Olier, Tom. I, lib. VII). Uno stato così triste e desolante all’eccesso, era ben adatto a ispirargli l’idea dell’impotenza della natura per operare il bene e della corruzione dell’uomo decaduto. – Per altro è da notare che la dottrina del Servo di Dio, è essenzialmente opposta alle aberrazioni di Baio e del Giansenismo, di cui egli fu uno dei primi e più temuti avversari. Benché abbia espressioni fortissime contro la carne e la corruzione nativa dell’uomo, tuttavia sempre insegna che l’uomo può fare il bene con l’aiuto della grazia, e possiede il libero arbitrio (v. cap. XVI e XVII). – Inoltre, l’Olier parla il linguaggio non solo di san Paolo, ma della maggior parte degli autori mistici del suo tempo e dei tempi anteriori. San Vincenzo de’ Paoli diceva: « Che cosa abbiamo noi, da noi medesimi, fuorché il niente e il peccato? – Teniamo dunque per certo che in tutto e dappertutto siamo meritevoli di ogni disprezzo, per l’opposizione che da noi medesimi abbiamo contro la santità e le perfezioni di Dio, come contro la vita di Gesù Cristo e le operazioni della grazia; la propensione naturale e continua che abbiamo al male e la nostra impotenza per il bene ci devono maggiormente ancora persuadere di tale verità » (Abelly, Vita del Santo; Lib. III, cap. XXX). San Giovanni Eudes scriveva: « Da noi medesimi non siamo che tenebre e peccato, morte e inferno… Il peccato ha tutto pervertito in noi, nel corpo e nell’anima; ha riempito di oscurità e di malizia la parte superiore dell’anima nostra… Abbiamo in noi la sorgente di ogni male e siamo noi medesimi un abisso di perdizione e un vero inferno » (Memoriale della vita ecclesiastica. Su l’abnegazione di noi medesimi). Così parlano i Beati Grignon de Montfort (Lettera circolare agli amici della Croce, n. 6 e 9), e de la Colombière (Ritiro spirituale, 3a settimana). – Ricordiamo pure ciò che cantiamo noi nel giorno della Pentecoste, rivolgendoci allo Spirito Santo: Sine tuo numine, nihil est in homine, nihil est innoxium. – Da ultimo, notiamo che il Concilio Arausicano (di Orange) definì contro i semipelagiani che Nemo habet de suo, nisi mendacium et peccatum, ossia che l’avere dell’uomo, se egli fosse abbandonato a se stesso, senza la grazia di Dio, non sarebbe altro che errore e peccato.

***

Negli altri sei capitoli della prima parte, il Servo di Dio spiega come dobbiamo partecipare ai misteri di Gesù Cristo. Ogni azione del Divin Redentore può chiamarsi un mistero in senso mistico e spirituale, perché contiene per noi una lezione e una grazia e quindi è un simbolo efficace della vita cristiana; in ciascuna Gesù Cristo ci presentò un modello per la nostra vita e insieme ci meritò una grazia speciale per imitarlo (Mistero, in senso spirituale e secondo l’etimologia della parola, significa una cosa nascosta. Tutte le azioni della vita di Gesù, anche le più ordinarie, contenevano sensi nascosti che i discepoli medesimi non erano capaci di penetrare. Tuttavia il Servo di Dio considera soltanto i sei misteri principali: l’Incarnazione, la Crocifissione, la Morte, la Sepoltura, la Risurrezione, e l’Ascensione, i quali costituiscono il sacrificio completo del Salvatore. «Nell’Incarnazione, Gesù si offre al Padre suo; si immola nei misteri della Passione, della Morte e della Sepoltura; nella Risurrezione riceve nel sepolcro una vita nuova e nella sua gloriosa Ascensione viene consumato in Dio. L’anima che vuole giungere alla perfezione segue questa via; prima si offre a Dio; poi crocifigge le sue cattive inclinazioni… così progredisce nella perfezione e infine giunge ad operare abitualmente per motivo di carità, imitando Gesù Cristo risorto e salito al Cielo » (Introduzione scritta da un prete di san Sulpizio). In tal modo l’anima percorre le tre vie: purgativa, illuminativa e unitiva.

***

Nella seconda parte, il Servo di Dio ci indica i mezzi per stabilirci nella vita soprannaturale, i quali sono la preghiera, le sante Comunioni e l’invocazione della Santissima Vergine e dei Santi. Prima tratta della preghiera che è il mezzo principale per acquistare e conservare la vita cristiana. Dopo aver spiegato le condizioni perché la preghiera sia fatta bene, insiste particolarmente su la necessità di pregare in unione con Gesù Cristo ossia in comunione spirituale con le sue disposizioni; nell’ultimo capitolo termina con belle considerazioni su la santa Comunione e su la divozione alla Madre di Dio. – Ci sembra opportuno riportare qui un brano dell’Introduzione scritta da un sacerdote di San Sulpizio. « La perfezione cristiana consiste essenzialmente nell’esercizio abituale della carità. Orbene, da una parte non si può giungere a questo abituale esercizio se non mortificando in noi l’uomo vecchio, ossia la carne; dall’altra, chi mortifica la propria carne per la virtù dello spirito, esercita necessariamente la carità: ne consegue che i maestri della vita spirituale si dividono, per così dire, in due scuole. Gli uni, san Francesco di Sales, per esempio, con l’Apostolo dell’amore san Giovanni sembrano non parlare se non di carità; gli altri come san Carlo Borromeo, seguendo san Paolo, parlano soprattutto di crocifissione e di morte. Non già che i primi perdano di vista la necessità della mortificazione; sono troppo convinti che mai potrà operare abitualmente per Dio, chi non abbia rinunciato alla sua vecchia natura: ma conducono le anime dal distacco delle creature per la via del divino amore. Perciò, diceva una delle figlie spirituali di san Francesco di Sales, che questo gran Santo tagliava il collo all’uomo vecchio con un coltello di zucchero, ma effettivamente lo tagliava. « I secondi non dimenticano che la carità costituisce l’essenza della perfezione, perciò suppongono sempre che il loro discepolo possegga lo Spirito Santo nell’anima sua e cercano pertanto i mezzi di dilatare l’impero di questo Spirito di amore col distruggerne i nemici. Tale è il compito dell’Olier in questo opuscolo, il quale può chiamarsi un commento di questa massima del Maestro: Chi vuol venire dietro a me, rinunci a se stesso ecc. (Matth. XVI, 24).« I due metodi hanno i loro vantaggi, secondo il tempo e secondo le persone. Un carattere generoso preferirà la scuola della Croce; un animo dal cuor tenero preferirà quella della carità. In un tempo come il nostro, certuni sono scoraggiati dalla severità della scuola della Croce… altri invecene sono edificati, perché comprendono che la mortificazione è indispensabile. « I Santi non separano mai la mortificazione dall’amore. Quanto alle anime pusillanimi che si spaventano della mortificazione, sono incapaci di fare grandi progressi nella carità. Tuttavia se desiderano sinceramente andare a Dio e togliere gli ostacoli che finora le hanno trattenute, speriamo che dalla lettura attenta e dalla meditazione di questo libro, con la grazia di Dio otterranno luce e generosità secondo i loro voti. Questo libro infatti produsse grandi frutti quando venne pubblicato, e sembra che sia ancora destinato a rendere grandi servizi alle anime cristiane, richiamando loro le forti dottrine in esso contenute, in questi tempi in cui l’egoismo e la sensualità tendono a invadere ogni cosa e in cui sono così numerosi i nemici della Croce di Nostro Signore per i quali San Paolo versava amare lagrime » (Phil. III, 18).

A. M.

CATECHISMO CRISTIANO PER LA VITA INTERIORE

PRIMA PARTE

LO SPIRITO CRISTIANO

LEZIONE I.

Dello Spirito e delle due vite di Nostro Signore Gesù Cristo.

D. – Chi merita veramente di essere chiamato cristiano?

R. – Colui che ha in sé lo Spirito di Gesù Cristo (Si quis Spiritium Christi non habet, hic non est ejus. – Rom., VIII, 9).– (Lo stato del Cristiano non è una semplice professione esterna, ma consiste in una vita nuova interiore: non implica soltanto quella trasformazione, diremo, fisica che viene operata dal Battesimo per la grazia santificante; perché il Cristiano sia veramente degno di tal nome, si richiede anche quella trasformazione morale operata in noi dallo Spirito Santo).

D. – Che intendete voi per spirito di Gesù Cristo?

R. – Non intendo la sua anima, ma lo Spirito Santo che abita in Lui. San Paolo – (Rom. VIII, 9) chiama lo Spirito Santo (Spiritus Dei) Spirito di Gesù Cristo (Spiritum Christi), e con tutta ragione, 1° perché lo Spirito Santo procede da Gesù Cristo, seconda Persona della SS. Trinità, come procede dal Padre; 2° perché lo Spirito Santo venne infuso in tutta la sua pienezza nell’anima di Gesù, come in un oceano donde si diffonde in tutti i fedeli nel Battesimo; perciò san Giovanni dice che dalla pienezza di Gesù tutto abbiamo ricevuto (Ioan., I , 16); 3° perché Gesù ci ha meritato lo Spirito Santo, lo inviò alla Chiesa nel giorno della Pentecoste, e ce lo invia nel Battesimo. Notiamo poi che tutte le grazie vengono attribuite allo Spirito Santo, perché sono effetto dell’amore di Dio per noi e lo Spirito Santo è l’Amore personale nella SS. Trinità.

D. – Come potrà conoscere il Cristiano se ha in sè lo Spirito di Gesù Cristo?

R. – Lo saprà se riconoscerà di avere inclinazioni simili a quelle di Gesù Cristo, per le quali si vive come Egli viveva.

D. – Qual è questa vita di Gesù Cristo della quale parlate?

R. – È quella vita santissima che ci viene descritta nella Scrittura, soprattutto nel Nuovo Testamento.

D. – Quante sono le vite in Gesù Cristo?

R. – Ve ne sono due, la vita interiore e la vita esterna.

D. – In che consiste la vita interiore di Gesù Cristo?

R. – Consiste nelle sue disposizioni, nei suoi sentimenti rispetto a tutte le cose: per esempio, nella sua religione verso Dio, nel suo amore verso il prossimo, nel suo annientamento rispetto a se medesimo, nel suo orrore per il peccato, nella condanna del mondo e delle massime del mondo.

D. – E la sua vita esterna, in che consiste?

R. – Consiste nelle sue azioni sensibili e nella pratica visibile delle virtù che abbiamo accennate, emanate dal fondo del suo divino interiore.

D. – Per essere vero Cristiano, bisogna dunque aver in noi lo Spirito Santo, il quale ci faccia vivere interiormente ed esternamente come Gesù Cristo?

R. – Sì! (Lo Spirito Santo in noi è principio di una vita nuova, che è la vita medesima di Gesù Cristo; ci comunica i sentimenti e le disposizioni di Gesù Cristo onde si verifichi il precetto di san Paolo: Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu: Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo. (Philip., II, 5). Per essere veramente Cristiani dobbiamo, sotto l’azione dello Spirito Santo, imitare Gesù nella sua vita esterna, ma più ancora nella sua vita interiore, ossia nei suoi sentimenti).

D. – Ma questo è assai difficile!

R. – Certo, ma soltanto per chi non ha ricevuto il santo Battesimo, nel quale ci viene dato il Santo Spirito di Gesù Cristo affinché viviamo come Gesù.

LEZIONE II

Della perdita della grazia dopo il Battesimo, e del lavoro della penitenza per ricuperarla.

D. – Chi ha perduto la grazia dello Spirito Santo dopo il Battesimo, può forse riacquistarla?

R. – Sì; mediante la penitenza, ma con grande fatica e pena.

D. – Forse per questo il Sacramento della penitenza viene chiamato battesimo laborioso?

R. – Senza dubbio; nel Battesimo in cui siamo generati in Gesù Cristo, Dio nostro Padre ci dà, Egli stesso, la vita del Figlio suo, senza che la sua divina giustizia esiga da noi alcuna pena; ma così non avviene nella penitenza.

D. – Perché una tale differenza?

R. – Per ricuperare le virtù che Iddio solo ci aveva date da sé medesimo, e, con la sua mano onnipotente, aveva piantate nel nostro cuore, occorre affaticarci e penare; ci vuole il sudore della nostra fronte, affinché lo Spirito Santo renda di nuovo feconda la terra sterile e ingrata del nostro cuore, dove prima la grazia faceva germinare le virtù senza fatica e senza pena.

D. – E’ dunque un grave danno perdere la grazia del Battesimo?

R. – Certo; né si saprebbe esprimerlo a parole; e come mai si potrebbe riparare un tal capolavoro di grazia e di misericordia?

D. – Questa perdita non è forse riparata dalla penitenza?

R. – No, non è riparata in modo perfetto; possiamo paragonare l’anima penitente, a un novizio nell’arte della pittura, il quale voglia rinfrescare un quadro insigne molto sbiadito; l’opera nuova sarà ben lontana dal raggiungere la perfezione dell’originale.

D. – Ma perché mai ci vuole tanta fatica per ricuperare la grazia?

R. – Perché chi la perde si rende colpevole di una estrema ed incredibile ingratitudine, calpestando il Sangue di Gesù Cristo e soffocando lo Spirito Santo ch’esso aveva ricevuto nel Battesimo.

D. – Ma come mai? In che modo colui che offende Dio con un peccato mortale,  dopo il Battesimo, calpesta il Sangue di Gesù Cristo? –

R. – Dapprima, perché disprezza i meriti e il Sangue di Gesù Cristo, il quale ha acquistato per noi lo Spirito Santo e tutte le sue grazie. Inoltre, perché chi commette peccato mortale diventa un medesimo spirito col demonio, il quale in tal modo calpesta Gesù-Cristo nell’anima del peccatore e trionfa di Lui, persino nel suo proprio trono.

D. – E’ dunque per questo che il peccatore, secondo la parola di S. Paolo, crocifigge in se stesso Gesù Cristo?

R. – Sì. Come i Giudei, spinti dalla rabbia dei demoni, legarono e inchiodarono Gesù Cristo sulla Croce, di modo che non aveva più l’uso delle sue membra, né alcuna libertà per agire; così, per il peccato, Nostro Signore viene legato e ridotto all’impossibilità di agire in noi; l’avarizia rende inutile la sua carità; l’impazienza, la sua pazienza; la superbia la sua umiltà. In tal modo il peccatore, coi suoi vizi, lega, attanaglia e, per così dire, fa a brani Gesù Cristo che abita in lui.

LEZIONE III.

Dignità del Cristiano, in cui abita Gesù Cristo per animarlo dei suoi sentimenti e della sua indole, in una parola, della sua vita.

D. – Gesù Cristo abita in noi?

R. – Sì, Gesù Cristo per la fede abita nei nostri cuori, come c’insegna espressamente San Paolo dopo Nostro Signore stesso. (Ego in vobis – Joan., XIV, 29. — Christum habitare per fidem in cordibus vestris. – Ephes., III, 17).

D. – Non mi avete voi detto che anche lo Spirito Santo si trova in noi?

R. – Sì, lo Spirito Santo è in noi insieme col Padre e col Figlio, e diffonde in noi, come abbiamo detto, i medesimi sentimenti, le medesime inclinazioni, la medesima indole, le medesime virtù di Gesù Cristo.

D. – Il Cristiano è dunque qualche cosa di grande?

R. – Non v’è nulla di più grande, di più augusto, né di più magnifico; il Cristiano è un altro Gesù Cristo vivente sulla terra ». (Christianus alter Christus).

D. – E’ dunque ben disgraziato il Cristiano che perde tali tesori, col peccato mortale. Ma spieghiamoci meglio: Voi dite che Gesù Cristo abita in noi e che siamo noi pure unti della medesima unzione della quale venne unto Egli stesso (*), vale a dire dell’unzione dello Spirito Santo , e che diffonde in noi le sue inclinazioni e i suoi sentimenti; ma come sapete voi questo?
(*) (La Chiesa, nel Veni Creator, chiama lo Spirito Santo unzione spirituale = spiritalis unctio)

R. – Lo sappiamo da san Paolo, poiché ei vuole che abbiamo in noi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo, il quale si annientò e si umiliò sulla Croce, sebbene fosse eguale al Padre suo (Hoc sentite in vobis quod et in Christo Jesu. Qui cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se æqualem Deo, semetipsum exinanivit … humiliavit semetipsum, factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. (Philipp., II, 5-8).

D. – Che significa avere in sé i medesimi sentimenti di Gesù Cristo?

R. – Questo vuol dire avere nel nostro cuore e nell’anima nostra i medesimi desideri, per esempio, di essere umiliati e crocifissi come Lui.

D. – Dovremo noi avere tali desideri in un modo così perfetto come Gesù Cristo?

R. – Non dico questo; dico soltanto che dobbiamo avere desideri simili, sebbene non uguali, a quelli di Gesù Cristo.

D. – Possiamo noi davvero avere desideri simili a quelli di Gesù?

R. – Certamente, per la virtù dello Spirito Santo, il quale può darci inclinazioni affatto contrarie e opposte a quelle che abbiamo nella nostra carne in forza della nostra nascita da Adamo.

[1 – Continua …] https://www.exsurgatdeus.org/2019/11/07/catechismo-cristiano-per-la-vita-interiore-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (84)

L[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO VII.

COMI SI DEBBANO IMPORTARE QUELLI CHE SONO TENTATI DAI PROTESTANTI COL DANARO.

Quando tutte le astuzie precedenti non bastano a pervertire un’anima Cattolica, sapete a che ricorrono specialmente coi poverelli? Depongono ogni vergogna dal volto, fanno luccicare qualche moneta e cercano di corrompere col danaro. S’ introducono però a poco a poco, s’informano del vostro stato, Fingono di compatirvi nelle vostre necessità, lamentano che la vostra Religione ed i vostri Sacerdoti non si prendono cura di voi, perché non vi è carità. Dopo tutte queste doglianze e queste compassioni soggiungono che essi diranno, che essi faranno per voi ogni cosa, e poi vi porgono qualche denaro pel presente e vi promettono molto più per l’avvenire se volete farvi dei loro. Questa è l’arte che hanno impiegata molte volte e che impiegano tuttodì. – Ora che cosa debba fare un Cattolico che si senta fare una tal proposta? Ve lo dirò io, ma fate di comprenderlo bene. La prima cosa che dovrebbe fare chi fosse tentato così, sarebbe andare sulle furie contro un mostro che ha coraggio di fargli tale proposizione. – Imperocché chi parla così ad un Cattolico, gli fa il più grande insulto che gli possa fare. Un uomo che si offre ad un altro per comperarlo mostra che non ha veruna stima di lui: ma chi si esibisce a comprarne la fede e l’anima mostra di averlo in conto d’un infedele e di un sacrilego. Fa con lui quel che fecero già con Giuda gli anziani ed i seniori del popolo Ebreo. Vi daremo tanti danari e voi ci venderete Gesù. Ora se non si risente un cuore cattolico ad essere stimato capace di un tal delitto, quando si risentirà? – Il S. Martire Policarpo era venerando per la sua canizie e per la sua santità. Trascinato dinanzi al Giudice per confessare la S. Fede di Gesù Cristo, gli venne posto dinanzi un monte d’oro e d’argento perché dovesse rinnegare la S. Fede. Ma quel S. vecchio andò sulle furie alla sola proposta e tutto inorridito non sofferse neppure di rimirare quei beni con una occhiata. Ora questo orrore, questo disprezzo è quello che debba avere un Cattolico che riceve l’esibizione di danaro per vendere la sua fede. Né basta solo l’orrore e l’indignazione, bisogna levarsi arditamente d’intorno chi ha potuto farci tal proposizione. Bisogna non accettare la loro compassione, non lasciar dinanzi a noi maltrattare la nostra Madre la Chiesa, come di poco amorevole, bisogna ricordare loro che noi siamo figliuoli di quei gran Padri che piuttosto che offendere Gesù, abbandonando la sua Fede, si sono lasciati pestare, lacerare, sbranare con tutte le più orride carneficine, bisogna protestare che siamo disposti a morire mille volte, piuttosto che portare alla bocca un tozzo di pane che ci costi l’anima, la Fede, l’eternità, l’amore di Gesù Cristo: e con questi sentimenti generosi levarceli risolutamente d’intorno. Ecco quello che bisogna fare. Se non che ripigliano alcuni: Io non ho abbandonata la S. Fede, la conservo tuttavia nel cuore, solo fingo di essere Protestante per ricevere quell’aiuto. Ah sì fingete solamente? E credete questa una scusa che vi possa salvare? E non sapete voi che vi è l’obbligo di professare all’esterno quel che si crede nel cuore? Non sapete voi che S. Paolo dice che col cuore si crede per essere giustificati, con la bocca se ne fa la confessione per giungere alla salute? (Rom. X, 40). Peccato che non conoscessero questa bella ragione i santi Martiri di Gesù Cristo! A loro nessuno domandava che rigettassero dal cuore la S. Fede, sì chiedeva solo che facessero qualche segno esterno di non credere: ed erano gli stessi persecutori che spesse volte consigliavano loro di fingere per un momento e così salvarsi la vita da tanti strazi. Ma essi udivano con orrore queste proposizioni, negavano di arrendervisi e protestavano che avrebbero incontrato prima mille morti che consentire ad una finzione così sacrilega. Eppure quella finzione poteva sembrare più tollerabile, perché essi non l’avrebbero fatta per guadagnare denaro, ma solamente per iscampare da una morte crudelissima e non meritata. – E tuttavia non furono mai ammesse per buone queste inique ragioni. Che cosa dunque dovrassi dire di quelli che non per timore di perdere la vita, ma per guadagnare due paoli al giorno vendessero la Fede? Che cosa potranno rispondere queste anime vili a Gesù Cristo che ci ha assicurati che non riconoscerà davanti ai suo Padre celeste quelli che non hanno riconosciuto Lui davanti agli uomini, quando verrà a giudicarli? Che cosa diranno quando li metta in confronto di una S. Agnese per esempio, di una S. Cecilia, di S. Agata e di tante altre S. Verginelle, le quali vinta la debolezza dell’età e del sesso, si presentavano ai tiranni con tanto ardore e si lasciavano tormentare con tanti strazi piuttosto che rinnegare la S. Fede? Che diranno in faccia a S. Ignazio, a S. Policarpo e ad altri vecchi venerandi, che si consolavano tutti di poter mostrare a Gesù la loro fedeltà a costo anche della vita? Che diranno in faccia a S. Felicita ed ai suoi sette figliuoli, giovani nel fior dell’età, che tripudiavano di gioia perché potevano morire in compagnia della santa loro madre, per testimoniare così la S. Fede? Ah io credo che correranno da sé medesimi a nascondersi negli abissi prima che Gesù Cristo getti loro sul volto quei quattro denari fecciosi che furono il prezzo dell’infame loro apostasia. – Imperocché quale sarà la loro sentenza? Quella che toccò a Simone il mago, che per danaro aveva voluto sacrilegamente comperare lo Spirito Santo. L’Apostolo S. Pietro disse a costui: «Il tuo denaro sia teco in perdizione. Or questa condanna sarà pur quella che da Gesù verrà pronunziata contro chi avrà venduta la propria fede. Giuda venduto che ebbe il suo Maestro divino, non ebbe più pace dai suoi rimorsi, finché disperato non s’impiccò da sé stesso e se n’andò con l’anima in fondo all’inferno; cosi ancor questi apostati straziati dai rimorsi, non godranno mai tranquillamente il frutto del loro peccato, e poi tosto o tardi presentandosi al giudice divino, la cui fede hanno venduta, saranno gettati nel baratro dell’eterna perdizione.

SALMI BIBLICI: “EXAUDI, DEUS, ORATIONEM MEAM, ET NE DESPEXERIS” (LIV)

Salmo 54: “EXAUDI, DEUS, orationem meam, et ne despexeris”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME PREMIER.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 54

In finem, in carminibus. Intellectus David.

[1] Exaudi, Deus, orationem meam, et ne despexeris

deprecationem meam;

[2] intende mihi, et exaudi me. Contristatus sum in exercitatione mea; et conturbatus sum

[3] a voce inimici, et a tribulatione peccatoris. Quoniam declinaverunt in me iniquitates, et in ira molesti erant mihi.

[4] Cor meum conturbatum est in me, et formido mortis cecidit super me.

[5] Timor et tremor venerunt super me, et contexerunt me tenebræ.

[6] Et dixi: Quis dabit mihi pennas sicut columbæ, et volabo, et requiescam?

[7] Ecce elongavi fugiens; et mansi in solitudine.

[8] Exspectabam eum qui salvum me fecit a pusillanimitate spiritus, et tempestate. [9] Præcipita, Domine, divide linguas eorum; quoniam vidi iniquitatem et contradictionem in civitate.

[10] Die ac nocte circumdabit eam super muros ejus iniquitas; et labor in medio ejus,

[11] et injustitia: et non defecit de plateis ejus usura et dolus.

[12] Quoniam si inimicus meus maledixisset mihi, sustinuissem utique. Et si is qui oderat me super me magna locutus fuisset, abscondissem me forsitan ab eo.

[13] Tu vero homo unanimis, dux meus, et notus meus;

[14] qui simul mecum dulces capiebas cibos, in domo Dei ambulavimus cum consensu.

[15] Veniat mors super illos, et descendant in infernum viventes: quoniam nequitiæ in habitaculis eorum, in medio eorum.

[16] Ego autem ad Deum clamavi, et Dominus salvabit me.

[17] Vespere, et mane, et meridie, narrabo, et annuntiabo; et exaudiet vocem meam.

[18] Redimet in pace animam meam ab his qui appropinquant mihi; quoniam inter multos erant mecum.

[19] Exaudiet Deus, et humiliabit illos, qui est ante saecula. Non enim est illis commutatio, et non timuerunt Deum.

[20] Extendit manum suam in retribuendo; contaminaverunt testamentum ejus;

[21] divisi sunt ab ira vultus ejus; et appropinquavit cor illius. Molliti sunt sermones ejus super oleum; et ipsi sunt jacula.

[22] Jacta super Dominum curam tuam, et ipse te enutriet; non dabit in æternum fluctuationem justo.

[23] Tu vero, Deus, deduces eos in puteum interitus. Viri sanguinum et dolosi non dimidiabunt dies suos; ego autem sperabo in te, Domine.

[ Vecchio Testamento Secondo la Volgata –Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LIV

Salmo composto da Davide in occasione di una persecuzione o di Saulle o di Assalonne. Si può applicare ad ogni giusto che è perseguitato, ed anche a Dio sofferente nella passione; mentre Davide era figura di Cristo.

Per la fine: sopra i cantici, salmo d’intelligenza,

di David.

1. Esaudisci, o Dio, la mia orazione, e non disprezzare le mie suppliche; volgi a me il tuo sguardo, ed esaudiscimi.

2. Mi son rattristato nella mia meditazione, e son rimasto conturbato alle voci dell’inimico, e per la persecuzione del peccatore.

3. Imperocché mi hanno gettate addosso delle iniquità, e mi contrariano con isdegno.

4. Il mio cuore mi trema nel petto, e un terrore di morte è caduto sopra di me.

5. Il timore e il tremore mi han sorpreso, e nelle tenebre sono involto;

6. E ho detto: Chi mi darà ali come di colomba, e volerò, e avrò riposo?

7. Ecco, che io fuggirei lontano, e mi terrei nella solitudine.

8. Aspetto lui, che mi salvò dall’abbattimento di spirito e dalle procelle.

9. Disperdigli, o Signore, confondi le loro lingue, perché io ho veduto l’ingiustizia e la contraddizione nella città .

10. Dì e notte va attorno, sopra le mura di lei, l’iniquità, e nel mezzo di essa la vessazione e l’ingiustizia.

11 E non si parte dalle piazze di lei l’usura e la frode.

12. Che se un mio nemico avesse parlato male di me, certamente avrei pazientato.

E se uno’ di quei che mi odiavano avesse detto improperii contro di me, avrei forse potuto guardarmi da lui.

13. Ma tu, o uomo di un solo spirito con me, mio soprintendente e mio famigliare,

14. Tu che insieme meco prendevi il dolce cibo, camminammo d’accordo nella casa di Dio.

15. Venga sopra costoro la morte, e vivi scendano nell’inferno, Perocché ogni malvagità è nei loro ridotti  e nei cuori loro.

16. Ma io alzai a Dio le mie grida, e il Signore mi salverà.

17. Alla sera e al mattino e al mezzodì parlerò, e gemerò; ed egli esaudirà la mia voce.

18. Renderà la pace all’anima mia, liberandola da coloro che mi assaliscono: perocché sono in compagnia di molti contro di me.

19. Dio mi esaudirà, e umilierà costoro quegli che è prima dei secoli; perocché eglino non si cangiano, e non hanno timore di Dio: egli ha stesa la mano per dare ad essi la retribuzione.

20. Han profanato il testamento di lui: saran dispersi dall’ira della sua faccia, e il cuore di lui già prende la pugna.

21. Le parole di lui sono più molli dell’olio e pur sono saette.

22. Getta nel seno del Signore la tua ansietà, ed egli ti sostenterà; ei non farà che il giusto ondeggi per sempre.

23. Ma tu, o Dio, condurrai coloro nella fossa di perdizione. I sanguinari e i fraudolenti non avran la metà dei loro giorni, ma io in te spererò o Signore.

Sommario analitico

Davide, è obbligato a fuggire davanti a suo figlio Assalonne, ed è indegnamente tradito da Achitophel, suo amico, suo confidente; Gesù-Cristo è perseguitato dai prîncipi dei sacerdoti, tradito da uno dei suoi Apostoli, ed abbandonato da tutti; ogni fedele è esposto ad ogni sorta di cattivo trattamento e di perfidie. Tale è il triplo soggetto che tratta il Re-Profeta.

I. – Egli invoca il soccorso di Dio e deplora il triste stato in cui si è ridotto:

– 1° dispera di ogni soccorso umano e si rivolge interamente a Dio, al Quale chiede che presti ascolto alla sua preghiera, che gli mostri un volto favorevole e lo esaudisca (1, 2);

– 2° la ragione della sua condotta è la violenta afflizione in cui è piombato (3), e di cui descrive gli effetti: – a) il turbamento della volontà, – b) il timore della morte che lo assale (4); – c) le tenebre che coprono il suo spirito;

– 3° desidera sottrarsi con la fuga ai pericoli che lo circondano, e sembra aver dato inizio all’esecuzione di questo disegno (6. 7);

4° è nell’attesa del potente soccorso di Dio che lo salverà dall’abbattimento dello spirito e dalla tempesta (8).

II. – Egli espone tutta la malvagità, la perversità dei suoi nemici.

1° della città di Gerusalemme e dei suoi nemici: a) essa è piena di iniquità e contraddizione (9); b) di iniquità in coloro che osservano i suoi bastioni (10); c) nelle sue abitazioni, c’è tumulto ed ingiustizia; d) sulle sue piazze, l’usura e la frode (11).

2° Di Achitophel soprattutto, – a) che non è un nemico dichiarato, di cui si può sopportare più facilmente la calunnia ed evitare gli attacchi; – b) ma un amico ingannevole, considerato un amico sicuro e fedele e ammesso alla più grande intimità (13, 14).

III. – Egli predice:

– 1° il loro castigo: a) la morte in questa vita; b) la dannazione eterna nell’altra (15).

– 2° la sua liberazione: – a) egli non cesserà dal chiederla, la sera, il mattino, nel mezzo della giornata (16, 17); – b) Dio lo libererò dai suoi nemici, per quanto numerosi siano; li umilierà, perché non c’è cambiamento in essi; perché essi hanno profanato la sua alleanza; perché le loro parole, più dolci dell’olio sono come frecce appuntite (18-21); – c) Dio accorderà al giusto che mette la sua fiducia in Lui, la conservazione e la stabilità, mentre gli uomini sanguinari ed ingannatori saranno precipitati nel pozzo della morte e non giungeranno a metà della loro carriera (22).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-11.

ff. 1, 3. – Queste parole sono quelle di un uomo turbato, inquieto, immerso nelle tribolazioni …. Perché la sua tristezza, perché il suo turbamento? « Oppresso come sono – egli dice – dalla persecuzione dei miei nemici ». Egli parla dei malvagi che deve sopportare, e dichiara che le loro persecuzioni sono per lui una prova che lo esercita. Non crediate che i malvagi siano inutili in questo mondo, e che Dio non tragga da loro alcunché di buono: ogni malvagio vive per correggersi, per provare il buono ed esercitarlo. Piaccia a Dio che coloro che ora ci provano si convertano e si esercitino a loro volta con noi! Per questo, nel mentre che essi ci esercitano, noi non li odieremo, perché ignoriamo se ciascuno di essi persevererà fino alla fine nel vizio. Spesso, in effetti, vi sembrerà di odiare un nemico mentre odiate un fratello a vostra insaputa (S. Agost.). – La tristezza secondo la fede, non è una tristezza oziosa, languente, dormiente, ma una tristezza applicata a Dio, e che non impedisce l’esercizio della meditazione; una tristezza che sa interrogare Dio nella preghiera, per chiederGli la luce sul suo stato presente e la grazia di ben usarne (Dug.). – I discepoli di Gesù-Cristo non sono più che il loro Maestro; così essi non devono stupirsi dei turbamenti che potrebbero sentire quando a loro si imputano i crimini di cui sono innocenti, o che li si affligge con le persecuzioni (id.).

ff. 4, 5. – Turbe salutari, timore della morte utile e vantaggiosa. Non c’è che la fede che ce lo dà come utilità per la nostra salvezza. L’uomo non dimentica nulla così facilmente come l’inevitabile necessità di morire; anche i giusti spesso non vi pensano come dovrebbero; ed invece non c’è nulla di più potente di questo timore per farci rinunciare a tutte le occasioni di peccato (Dug.). – Non c’è alcun timore più ragionevole né meglio fondato che quello di essere circondato dalle tenebre senza saperlo. Nulla è più capace nell’umiliare un’anima giusta, che questa incertezza nella quale essa si trova sempre in questa vita. Se dopo esser passati dalle tenebre alla luce, essa non ricadrà più per sua colpa dalla luce nelle tenebre; ma questo è un gran soggetto per diffidare sempre di se stessa, ed è ciò che assicura maggiormente la nostra salvezza (Dug.).

ff. 6, 7. – Il salmista si augura la morte o desidera la solitudine … io vorrei, ma sono senza forze, vorrei fuggire, ho paura di accumulare, restando qui, peccati su peccati, o almeno vorrei essere un po’ separato dal genere umano per evitare che nuovi e frequenti colpi non allarghino le mie ferite, e per non presentarmi interamente guarito a nuove persecuzioni. Queste voci non sono rare, e spesso questo desiderio della solitudine si impossessa dello spirito di un servo di Dio, a motivo del gran numero di tribolazioni e di scandali di cui soffre, e dice: « Chi mi darà le ali? ». Se egli vuole delle ali, o piuttosto sente che le sue ali siano legate, se esse gli mancano, che gli siano date; se esse sono legate, che gli siano slegate. Ma colui che lega le ali di un uccello gli dà veramente o gli rende le sue ali. In effetti esse erano come se non gli appartassero più, perché non poteva volare. Delle ali incatenate non sono che un peso. « Chi mi darà – egli dice – delle ali come alla colomba »? (S. Agost.). – Chi mi darà delle ali? Come alla colomba e non come al corvo. La colomba volando cerca di fuggire a ciò che la turba, ma non cessa di amare. In effetti la colomba è vista come il simbolo dell’amore, ed essa ama fino a gemere. Nessuno, oltre alla colomba, ama gemere; notte e giorno essa geme, come se non abitasse che in una terra di gemiti. E che dice il Profeta fedele all’amore: io non posso sopportare le ingiurie degli uomini … Io non posso essere loro utile in niente; piaccia a Dio che io trovi allora riposo, che sia separato da essi con il corpo, ma non per l’amore, per paura che l’amore stesso non sia in me turbato; io non posso essere loro utile con la mia parola, né con la mia conversazione; forse pregando posso servire loro a qualcosa (Id.). – Nella pratica dell’amore sacro, c’è una sorta di ferita che Dio stesso fa all’anima che Egli vuole grandemente perfezionare; perché Egli gli dà dei sentimenti ammirevoli e delle attrattive senza pari per la sua sovrana bontà, come pressandola e sollecitandola ad amarlo; ed allora essa si slancia con forza, come per volare più in alto verso il suo oggetto divino; ma restando in basso, perché non può amare come desidera, o Dio!..  essa sente un dolore che non ha eguali. Nella stesso tempo che è attirata potentemente a volare verso il suo caro diletto, essa è pure trattenuta potentemente, e non può volare, come fosse attaccata alle basse miserie di questa vita mortale ed alla propria impotenza; essa desidera delle ali di colomba per volare al suo riposo e … non ne trova. Eccola dunque acerbamente tormentata tra la violenza dei suoi slanci e quella della sua impotenza. « O miserabile che sono! » Diceva uno di coloro che hanno sperimentato questo travaglio, … chi mi libererà dal corpo di questa mortalità (Rom. VII, 24) (S. Franc. De Sales, T. de l’am. de Dieu, L. VII, ch. XIII). – chi dunque, a meno che non sia completamente depravato dal vizio o appesantito dall’età e dalla cupidigia, non ha provato almeno una volta prima di morire, l’attrazione verso la solitudine? Chi non ha sentito il desiderio ardente di un riposo durevole e regolare, ove la saggezza e la virtù possano fornire un alimento continuo alla vita dello spirito e del cuore, alla scienza e all’amore? Dov’è l’anima cristiana, benché incatenata dai legami del peccato, benché lordata dal contatto con le bassezze terrestri, e che non abbia talvolta sospirato da lungi il profumo che esala uno di questi soavi e segreti asili abitati dalla virtù e dalla devozione e consacrati alla meditazione dell’eternità? Chi non ha sognato un avvenire in cui potrebbe, almeno per un giorno, dire come il profeta: « … io mi sono allontanato con la fuga ed ho dimorato nella solitudine? » (Montalembert, Les Moines d’Occid., introd. ). – Colui che vuole essere sollevato dalla mani di Gesù-Cristo, deve avere delle ali; colui che vuol fuggire il secolo, deve avere ugualmente delle ali, e se non ne ha di proprie, le riceva da colui che può dargliele. Colui che fugge da questo mondo, deve necessariamente prendere il suo volo … Se non può volare come l’aquila, voli almeno come il passero; se non può elevarsi fino al cielo, voli sulle montagne, fugga le vallate, ove l’aria è corrotta dai vapori malsani che vi esalano, e passi sulle montagne. (S. Ambr., De fug. sec.). – È nella solitudine che l’anima, svincolata dagli oggetti sensibili che la tiranneggiano, liberata dal tumulto degli affari che la schiacciano, può cominciare a gustare, in un dolce riposo, le gioie solide e i piaceri capaci di contentarla. Là, occupata a purificarsi dalle sozzure che ha potuto contrarre dal commercio del mondo, più essa diviene pura e distaccata, più è nello stato di attingere alla fonte di queste voluttà celesti che la elevano, la trasportano, la mobilizzano portandola all’Autore di ogni bene. Tutti gli altri divertimenti non sono altro che il fascino per il nostro dolore, il divertimento di un cuore ubriaco. Voi vi sentite in questo tumulto, in questo brusio, in questa dissipazione, in questa uscita da voi stessi? Con quale gioia, dice Davide, « … il vostro servo ha trovato il suo cuore per indirizzarvi la sua preghiera » (Bossuet, Panegyr. de S. Sulpice) – Cosa cercate nel mondo? La felicità? Non c’è! Ascoltate questo grido di afflizione, questo pianto di lamento che si leva da tutti i punti della terra, e si protrae da secolo in secolo. È la voce del mondo. Cosa cercate ancora? Delle luci, dei soccorsi, delle consolazioni per compiere in pace il vostro pellegrinaggio? Il mondo è dedito allo spirito delle tenebre, a tutti i piaceri che esso ispira, a tutti i crimini ed a tutti i mali di cui egli è principe; ecco perché il Profeta gridava: « Io mi sono allontanato, io sono fuggito, ho dimorato nella solitudine ». Là, nel silenzio delle creature, Dio parla al cuore, e la sua parola è così meravigliosa, così dolce e amabile che l’anima non vuole più intendere se non Lui fino al giorno in cui tutti i veli siano lacerati e Lo potrà contemplare faccia a faccia. Il Cristianesimo ha popolato il deserto di queste anime scelte che, sottraendosi al mondo e calpestando i suoi piaceri, i suoi onori, i suoi tesori, la carne e il sangue, ci offrono, nella purezza della loro vita, una immagine della vita dei Santi (Lam., Imit. L. I, ch. XX.). – Ma, per praticare questo ritiro, bisogna necessariamente allontanarsi dall’ambiente in cui si vive, delle relazioni stabilite, dai doveri che la provvidenza impone? No, tutte le guide delle anime sono d’accordo nel rispondere che il Cristiano deve saper costruirsi una solitudine ed un ritiro in se stesso. Sant’Ambrogio insegna che la mortificazione ed il digiuno trasformano i cuori stessi dei Cristiani in una sorta di deserto. [Serm. fer. II Apost. Dom. II. Quadr.]. È allora – egli aggiunge – il Signore ama venire in noi, indirizzandoci queste parole del salmista: « … in una terra deserta, arida e senz’acqua, sono apparso davanti a Voi in un luogo santo ». E meglio ancora, Sant’Agostino ci avverte che la solitudine del Cristiano è la sua coscienza, e che l’anima attenta si fa essa stessa solitudine: « [De divers, quæst. ad Simpl. lib. II, quaest. IV]. – Bisogna sapersi dare delle ore di effettiva solitudine se si vuole conservare la forza dell’anima. « Ovunque Gignit enim sibi ipsa mentis intentio solitudinem ». Bisogna sapersi concedere delle ore di effettiva solitudine, se si vuole conservare la forza dell’anima. « Ovunque voi andrete – continua Sant’Agostino – gli uomini vi raggiungeranno, invaderanno il vostro deserto; perfino i malvagi si mischieranno a voi. Finché sarete sulla terra voi tenterete invano di isolarvi dal genere umano. Il vostro deserto, è la vostra coscienza, ove nessun estraneo penetra, ove siete solo con voi stessi e con Dio ». – È in questo ritiro, in questa solitudine interiore che si trova questo riposo dove si impara a conoscere Dio, ove si studiano le vie di Dio e ci si riempie del timore dei giudizi di Dio, è là che in presenza della maestà di Dio, si esamina il passato, si regola il presente, si prevede l’avvenire, si approfondiscono i propri obblighi, si scoprono i propri errori, si deplora la propria miseria, ci si confonde circa la propria lassità, ci si rimprovera delle proprie infedeltà (Bourd.: Eloig. et fuite du monde.)

II — 8 – 14.

ff. 8. – Dio difende bene allo stesso modo, sia l’abbattimento che l’elevazione dello spirito, sia la pusillanimità che la presunzione. La pusillanimità è essa stessa una presunzione poiché con essa l’uomo non vuole obbedire a Dio, che si abbassa quando Egli lo vuole elevare, e sceglie il riposo quando vuole impegnarlo nel lavoro: disposizione tanto più pericolosa perché persuade l’uomo che è umile, quando invece egli è superbo (Dug.). – « Io attendo colui che deve salvarmi dalla mia pusillanimità e dalla tempesta ». Voi siete sul mare, voi siete in mezzo alla tempesta, e non vi resta che esclamare: « Signore, io muoio! » (Matt. XIV, 30). – Colui che vi tende la mano, che cammina senza paura sul mare; che vi solleva tutto tremante, che appoggia sulla propria forza la vostra sicurezza, che parla in voi, vi dice: Pensate a ciò che ho sofferto … il vostro cuore è turbato, perché Colui nel quale dovete riporre la vostra fiducia è uscito dai vostri pensieri; voi soffrite senza pazienza, perché le sofferenze del Cristo per voi non vi vengono allo spirito. Se il Cristo non si presenta al vostro spirito, è perché Egli dorme; svegliate il Cristo ricordate la vostra fede. (S. Agost.).

ff. 9. – Perché egli dice: « sommergeteli »? Perché essi si sono orgogliosamente levati. Perché dice: « dividete le loro lingue »? perché essi hanno cospirato per fare il male. Ricordatevi di quella volta che un popolo orgoglioso si era elevato dopo il diluvio: cosa si erano detti questi uomini nel loro orgoglio? Per non perire in un nuovo diluvio, costruiamoci una torre alta (Gen. XI, 4). Nel loro orgoglio, essi credevano di essersi fortificati contro i pericoli con la torre che essi elevavano, ma il Signore divise le loro lingue. Essi allora iniziarono a non comprendersi più e tale fu l’origine della molteplicità delle lingue. In precedenza, in effetti, gli uomini parlavano una stessa lingua, ma una sola lingua era buona per uomini dai sentimenti simili, una stessa lingua era buona per uomini senza orgoglio. Al contrario, dato che la loro unione non serviva che a precipitarli in un’orgogliosa cospirazione, Dio, con un pensiero di misericordia divise le loro lingue, così che non comprendendosi, essi non stabilissero tra tutti una perniciosa unità. Uomini orgogliosi causarono la divisione delle lingue; umili Apostoli riunirono tutte le lingue. Lo spirito d’orgoglio disperse le lingue, lo Spirito Santo le ricondusse all’unità (S. Agost.).

ff. 10, 11. – Condotta veramente formidabile della giustizia di Dio, è il punire i crimini con altri crimini. – Iniquità, ingiustizia, violenza, usure, inganni pubblici, è quanto riempie ordinariamente l’esterno e l’interno delle grandi città. – Oppressione, afflizione, lavoro, persecuzione, spoliazione dei loro beni, ciò che soffrono ordinariamente le persone deboli (Dug.).

ff. 12-14. – Gli uomini fanno una grande differenza tra la perfidia di un amico e le violenze di un nemico manifesto e dichiarato; essi sono molto più colpiti dall’ingratitudine del primo, che dai colpi del secondo. Allo stesso modo, Dio è più irritato dalle cadute di coloro che Egli aveva favorito con grazie particolari, che dagli altri peccatori che Egli aveva, in qualche modo, abbandonati al loro senso riprovato. Grande istruzione è questa per tutte le persone chiamate ad uno stato di santità, alla professione religiosa o alle funzioni del santuario (Berthier). – Come un prete infedele, colmato da Dio di tutti questi benefici che gli Angeli gli invidiano, osa parlare di riconoscenza, ed elevare il vizio dell’ingratitudine all’infamia ed all’obbrobrio degli uomini? Essere tradito da un amico che si è riempito di beni di cui si è servito per attentare alla fortuna ed alla vita del suo benefattore: è questo, per il cuore dell’uomo, una ferita profonda, insanabile; egli non cessa di parlarne nelle effusioni dell’amicizia, ed il Re-Profeta mette nella bocca di Gesù tradito dal perfido discepolo, questi rimpianti che non sono ignorati da nessuno. « … ah, se un empio, nemico del mio cuore, un infedele, un estraneo alla mia Chiesa mi avesse fatto una tale ingiuria, ma questo prete che io chiamavo col nome di amico, a cui amavo confidare tutti i miei segreti, che Io ammettevo alla mia tavola, che Io nutrivo, come tutti i miei eletti, col pane della verità, della giustizia; un prete … tradirmi, abbandonarmi, Io non posso soffrilo; Io devo con la mia giustizia infliggere una vendetta esemplare » (Boyer, Retr., eccl. sur le péché ).

III. — 15 – 22.

ff. 15. – È questa unapredizione funesta, la cui esperienza non fa che compiersi ogni giorno. Senza parlare delle morti subitanee, che sono così frequenti, e delle quali si tiene conto sì poco, e per cui quasi nessuno si prende cura nel fare, per la salvezza della propria anima, quanto bisogna nel morire. – È utile scendere spesso ancora viventi nell’inferno, per la viva considerazione degli orribili supplizi che vi si trovano. (Dug.) – Una degli auguri di San Bernardo, e che egli chiedeva con più ardore spiegando queste parole, è che i peccatoti discendessero in spirito e pensiero nell’inferno, non dubitando che la vista di questo spaventoso soggiorno e dei tormenti che vi si patiscono, dovesse fare la più viva impressione sui loro cuori, e convinto che essi non avessero mezzo più sicuro per non cadere, dopo la morte, in questo luogo di miseria, se non con il discendervi con la riflessione durante la vita. Ma per il completo compiersi del proposito di San Bernardo, occorrerebbe che noi potessimo discendere con le stesse conoscenze, e se possibile, con la stessa esperienza dei dannati, alfine di poter giudicare come loro e poterne così trarne, nello stesso tempo, le conseguenze che per loro oramai sono inutili, ma che ci possono essere ancora più salutari. (Bourdiol, Sur l’enfer).

ff. 16, 18. – Dopo la pena dei suoi nemici viene la salvezza del Profeta. La salvezza è l’effetto della preghiera e del grido verso Dio, sebbene queste stessa preghiera e questo grido siano già un effetto dell’assistenza di Dio. Nessuno prega o grida come si debba per essere esaudito, se non sia ispirato da Colui che è nel cuore dell’uomo, il principe di tutti i santi gemiti che Dio ascolta ed esaudisce (Dug.). – Dopo il grido della preghiera, che ne segna l’ardore, segue la perseveranza nella stessa preghiera, espressa da questi tre tempi che comprendono tutti gli spazi della giornata. – Eccellente soggetto della preghiera, è esporre le proprie miserie a Dio ed annunziare le sue misericordie. (Idem). – Noi dobbiamo pregare la sera, al mattino e a mezzogiorno, in onore della SS. Trinità; – per onorare la passione di Gesù-Cristo, che ha sofferto in questi tre tempi: la sera nell’orto degli ulivi; al mattino davanti a Pilato che Lo condanna; a mezzogiorno sulla croce, sulla quale fu inchiodato; – in memoria della Passione, della resurrezione e dell’ascensione di Gesù-Cristo; – all’inizio, nel mezzo ed al termine della vita. – La pace dell’anima è il frutto della redenzione di Gesù-Cristo; è la riconciliazione avvenuta tra Dio e gli uomini con la sua resurrezione.

ff. 19, 20. – Colui che sussiste prima di tutti i secoli, riscatterà la sua Chiesa e il Corpo di Gesù-Cristo, liberandolo dalla corruzione di tanti cattivi Cristiani, e li umilierà con eterna umiliazione, esaudendo la preghiera onnipotente di Colui che intercede per le sue membra. – Quando non c’è cambiamento nel peccatore, non c’è a suo riguardo il cambiamento di Dio. – La mano di Dio tesa per punire, è fonte di tutte le maledizioni da cui una creatura possa essere colpita (Duguet). – Profanare il testamento di Dio è non vivere secondo la sua santa legge. Questa profanazione è talvolta punita in questa vita con la perdita del dono della fede: è la disgrazia più grande che possa colpire un uomo, perché perdendo la fede, egli viene privato di tutte le risorse della salvezza. Coloro che ancora conservano la fede senza praticare le opere, sono pure quasi maledetti, perché la loro fede non impedisce che essi non si induriscano nel peccato, e perché i mezzi di salvezza divengono per loro inutili. Coloro che sono chiamati ad un santo stato, e che vivono senza fervore, profanano anche, in un certo senso, il testamento di Dio; essi abusano delle sue grazie e pervengono al termine della vita non soltanto senza merito, ma anche con peccati senza numero, e quasi mai si convertono interamente alla morte. Infine, le anime che Dio tocca molto nell’orazione e a cui chiede grandi sacrifici, devono vegliare estremamente su se stessi, per riempire tutto ciò che porta il testamento di Dio, senza che si espongano ad essere dissipati come i peccatori (Berthier).

ff. 21. – È questo il carattere degli calunniatori abili, ma pieni di malignità, che tessono dapprima le lodi di colui che « vogliono distruggere, nascondono più sottilmente il colpo che vogliono portare e fanno bere dolcemente il veleno in una bevanda ben preparata. Niente di più dolce c’è di un discorso lusinghiero di un falso amico, e nello stesso tempo niente di più mortale e di più penetrante ». È una dolcezza artificiosa che sotto una falsa sembianza di dolcezza, lusinga per sorprendere, e carezza per colpire con più sicurezza.

ff. 22. – Quanto amabili e facili sono le relazioni tra Dio ed i suoi fedeli servitori! Dolce e comodo è il commercio con questo gran Dio! Il Cristiano porta spesso con pena i fardelli che impone la vita; la sua anima ha sostenuto una lotta lunga e difficile, un peso enorme di dolore e di angosce sta quasi per sopraffarlo. Che ascolti il santo Re che, pure Egli, ha conosciuto delle prove rudi; che ascolti il divin Salvatore che, anche Lui, ha conosciuto che cosa sia il soffrire: con supremo sforzo, come si esprime Bossuet, e come parla il salmista, rigetti su Jehowah questo pesante fardello: egli sarà sostenuto, sarà fortificato. Questo pensiero, Dio lo voglia, rianimerà il suo coraggio, raddoppierà le sue forze. (Rendu). – Egli ritrova durante la vita dei giorni di piombo, in cui il cuore soffoca: aprite le finestre dal lato del cielo, là soltanto troverete un po’ di frescura. Prendete allora il vostro cuore con le sue pene e le sue angosce, sollevatelo con fiducia e gettate questo povero infermo, con tutti i suoi dolori, nel seno di Dio, e Dio sarà come obbligato a soccorrerlo ed a rendergli una vita che non si estingue (Mgr. Landriot, Prière II, p. 41) . – « Dio non lascerà il giusto in eterna agitazione ». Questo si verifica in tre modi: – 1° succede spesso che dopo varie traversie temporali, i giusti respirino infine e gioiscano di uno stato più tranquillo; – 2° succede sempre che l’uomo giusto, ben rassegnato alla volontà di Dio, gusti nella sua anima la pace che, secondo l’Apostolo, sorpassa ogni sentimento, quantunque sia esposto alle persecuzioni esterne, o alle prove interiori; – 3° non succede mai che il giusto sia eternamente esposto ai turbamenti: questa è la sorte dei riprovati (Berthier). – Vi sembrerà fluttuare a caso su questo mare, e già il porto vi riceve; ma prima di entrare nel porto, badate di non lasciar distruggere l’ancora, la nave con l’ancora fluttua certamente, ma non si allontana molto dalla terra: così il giusto è lasciato ai flutti per un tempo, ma non per l’eternità (S. Agost.).

ff. 23. – Il pozzo della corruzione non è altro che tenebre; dalla immersione, Dio li conduce nel pozzo della corruzione, non perché sia l’autore della loro colpa, ma perché li giudica della loro iniquità (S. Agost.). – « Gli uomini sanguinari ed ingannatori non giungeranno a metà della loro carriera ». Queste sentenze che si riproducevano frequentemente nell’antica Legge, non ricevono spesso la loro applicazione nella nuova: Gesù-Cristo leva più in alto i pensieri dei Cristiani. Succede spesso che Dio, nei suoi impenetrabili disegni, lasci prolungare delle esistenze che ci sembrano inutili o anche perniciose, e che abbrevi al contrario, delle vite che ci sembrano infinitamente preziose, come consacrate al suo servizio, ornamento del mondo, ed edificanti la Chiesa. In generale le benedizioni temporali e le minacce dello stesso ordine sono state fatte per i tempi che hanno preceduto la morte dell’Uomo-Dio sulla croce, piuttosto che per i secoli che hanno seguito quella morte. (Rendu). – « Gli uomini di sangue e di menzogna non arriveranno alla metà dei loro giorni; ma io, Signore, porrò in Voi la mia speranza ». Quanto ad essi, sarà giusto che non arrivino a metà dei loro giorni, perché hanno riposto le loro speranze negli uomini. Ma io, passerò dai miei giorni temporali al giorno dell’eternità … e perché? Perché io ho messo in Voi la mia speranza, o Dio mio (S. Agost.).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. CLEMENTE XIII – “A QUO DIE”

Con questa lettera enciclica, ci immergiamo in un mondo cattolico oggi completamente sconosciuto, o dimenticato più o mano volutamente dai più. Il Santo Padre dell’epoca S. S. Clemente XIII, indirizzava delle salutari raccomandazioni, ammonimenti e direttive ai Vescovi della Chiesa Cattolica, ai quali è affidata la custodia del gregge del Signore. Ma già all’epoca egli deprecava quanto è accaduto in seguito a prelati e gerarchi cattolici « … Non lasciamo, a somiglianza di “cani muti incapaci di latrare” (Is LVI,10), che “i nostri Greggi diventino una preda e le nostre pecore il pasto d’ogni bestia selvatica” (Ez XXXIV,8) »; ed ancora « … Dobbiamo essere convinti che nessuno fa tanto male alla Chiesa quanto i Chierici viziosi, che trasmettono i loro vizi al popolo e lo corrompono al punto che il loro esempio si rivela più dannoso del peccato stesso. » Questa se vogliamo è stata la chiave di volta del successo dei modernisti e dei marrani infiltrati fino all’implosione del satanico c. d. Vaticano II, pseudo-concilio della contro-Chiesa, pastrocchio massonico ordito ai danni di una infinità di anime che sono andate perse ed ancor oggi vanno dannate credendosi magari anche degne di premio perché frequentano sacrileghe e false funzioni inneggianti al lucifero-baphomet “signore dell’universo”, templi maledetti con insegne esoterico-massoniche, gestiti da marrani, apostati traditori allegri del Cristo, o nemici di Dio e dell’uomo travestiti con maschere variopinte, tonache e talari sacrileghe che ricoprono corpi avidi di piaceri, prebende ed onori. Qui, altro che cani muti di Isaia, che lasciano divorare il gregge dai lupi scappando: qui si tratta di veri sciacalli, lupi famelici con aspetto di agnelli, di aquile voraci che predano, a nome del loro padre – il diavolo – anime ignare, anche se colpevolmente ignoranti. La figura del Vescovo, tratteggiata magistralmente dal Sommo Pontefice, è oggi veramente un reperto da museo, un ricordo ben racchiuso in libri polverosi o in cronache di un tempo che fu. Noi chiediamo a questi sventurati adepti di satana, che hanno preso possesso dei sacri palazzi e dei  templi santi:ma non sentono l’odore dello zolfo intorno a loro, la marea montante del fuoco dell’inferno che li inghiottirà senza un loro repentino pentimento ed una improbabile inversione di rotta … bene li ha descritti San Paolo ai fedeli dell’epoca, anticipando la loro condotta attuale: « Questi tali sono falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia, perché anche satana si maschera da angelo di luce. Non è perciò gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia; ma la loro fine sarà secondo le loro opere. … quorum finis erit secundum opera ipsorum. » (2 Cor. XI, 13-15). … Stolti, chi vi ha convinto di impunità?


Clemente XIII
“A quo die”

1. Dal giorno in cui, al di là di ogni Nostra previsione, è accaduto quell’incredibile fatto che la Nostra umiltà fosse elevata per intervento divino alla Sacra Sede del Beato Pietro, vertice di tutte le Chiese, entrati nella profonda convinzione e nella costante preoccupazione che Ci fosse stato imposto un peso superiore alle nostre forze, ci saremmo abbandonati alla tristezza e alle lacrime, se non ci avesse distolto da un eccessivo abbattimento il fatto che qualcosa di simile è accaduto al Santissimo Profeta e solerte Condottiero del popolo di Israele. – Infatti, gridando verso il Signore, Mosè disse: “Perché hai trattato così male il tuo servo? E perché gli hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? Non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo: è un peso troppo grave per me” (Nm XI,11.14). Perché non si perdesse d’animo e potesse portare bene il peso che aveva accettato, Dio gli comandò di convocare settanta uomini, scelti tra gli anziani, nei quali infuse lo spirito di Mosè, affinché fossero maestri del popolo e condividessero con lui il peso, e Mosè non lo dovesse portare da solo. In questo momento, Venerabili Fratelli, l’unica consolazione Ci proviene dal fatto che Dio già da tempo vi ha scelti dalla moltitudine dei Fedeli per affidarvi la cura delle anime: vi ha assegnati a Noi come nostro aiuto, e vi ha riempito del suo stesso spirito, quando siete stati iniziati ai Misteri Episcopali, al punto che, confidando prima di tutto nell’aiuto di Dio e nella sua forza, e poi nel singolare zelo di cui ardete nell’adempimento del vostro ministero, e contando sulla vostra sapienza, riteniamo che la nostra tristezza e preoccupazione possano in gran parte essere superate. Vi abbiamo dunque scritto questa lettera sia “per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io” (Rm 1,12), sia per “ridestare con ammonimenti la vostra sana intelligenza” (2Pt 3,1), ma soprattutto per esortarvi a compiere fedelmente il ministero, sollecitando voi, che già sappiamo essere zelanti, pronti alla battaglia e vigilanti contro il terribile nemico del genere umano, ad opporvi ad esso con maggiore prontezza e coraggio e, “saliti sulle brecce“, ergervi “come baluardo in difesa degli Israeliti” (Ez XIII,5).

2. In questa guerra scatenata su tanti fronti e tanto pericolosa, la speranza della vittoria sarà tanto più grande e sicura quanto più “conserveremo l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef IV,3). – Perciò, Venerabili Fratelli, con tutte le forze la vostra Carità si adoperi perché dall’animo dei Fedeli vengano sradicati perfino i germi di una qualsiasi lotta interna. È vostro pressante compito fare sì che tutti “cerchino la pace” (1Pt 3,11), tutti “si diano alle opere della pace” (Rm XIV,19). Lo stesso Signore Gesù, poco prima di consegnarsi alla Passione, “Vi lascio la pace – disse agli Apostoli – vi do la mia pace” (Gv 14,27). E non solo agli Apostoli, ma anche a noi lasciò in eredità la pace: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola” (Gv 17,20-21). – Vi prego, Venerabili Fratelli: cerchiamo di conservare sempre con costanza questa eredità così grande e così magnifica, affidata a noi da Cristo Signore, per estinguere i dissensi nell’animo dei fedeli. Il pegno di questa eredità, afferma l’apostolo, è lo Spirito Santo. – Pertanto quando noi ci poniamo al cospetto di Dio e gli chiediamo che mandi dal cielo lo Spirito Santo a santificare il sacrificio della Chiesa, è chiaro che noi questo in realtà chiediamo: che per mezzo della sua grazia spirituale sia conservata integra nella chiesa l’unità della carità. Questo però tutti dobbiamo avere presente: alla domanda del Signore chi dicesse la gente chi era il Figlio dell’uomo, e chi essi, credessero che fosse, mentre alcuni riferirono un’opinione, altri un’altra, il Beato Pietro, interpretando il pensiero di tutti, per una rivelazione proveniente non dalla carne né dal sangue, ma dal Padre, dichiarò che egli era il Figlio del Dio vivo (Mt XVI,14ss).

3. Da questo risultò chiaro che anche allora c’era questa differenza tra i figli della luce e i figli del secolo: questi avevano opinioni diverse e quindi erano divisi tra di loro; quelli invece, iniziati al Mistero dell’unità, per bocca del loro Capo e quindi per bocca di uno solo, professarono l’unica fede comune a tutti. Impegnate quindi tutte le vostre forze, Venerabili Fratelli, per consolidare la pace tra i fedeli. Disordini, “contese, invidie, animosità, dissensi” (2Cor XII,20) scompaiono del tutto, affinché coloro che si fregiano del nome Cattolico “siano in perfetta unione di pensiero e di intenti“, “tutti unanimi nel parlare” (1Cor 1,10), “abbiano gli stessi sentimenti” (2Cor XIII,11) e comprendano bene e si fissino nell’animo che coloro che vogliono essere membra di Cristo non possono essere in accordo con il capo se poi sono in discordia con le membra, e che il Padre non può riconoscere come suoi figli quei Fratelli che non sono uniti mediante la carità ai loro fratelli.

4. Perché nessuno potesse deviare da quella via da cui dipende la salvezza del genere umano, l’apostolo ci indica le note caratteristiche e i tratti più salienti della carità. “La carità è paziente, – afferma – è benigna la carità. Non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira“(1Cor 13,4-5).Dal che si deve dedurre che dove manca la carità, là massimamente prende piede quella malignità che dalla nostra stessa origine è entrata nel mondo. Di lì si infiammano in fondo al cuore, come fiaccole, l’arroganza, l’atteggiamento orgoglioso, l’alterigia, l’avarizia, l’intolleranza, l’ambizione, l’invidia, la vanagloria e tutti gli altri vizi dell’animo che nascono dalla “corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza” (1Pt 1,4).

5. Siano esclusi quindi dal governo episcopale l’orgoglio dell’animo e gli atteggiamenti altezzosi. Noi che diciamo di dimorare in Cristo, dobbiamo comportarci come Lui si è comportato (1GvII,6); e dal Signore Gesù, non da altri, dobbiamo ricavare l’esempio da imitare. Essendo sorta una discussione tra i suoi discepoli chi di loro fosse il più grande, egli dichiarò: “I Re delle nazioni le governano (…). Per voi però non sia così; ma chi è il più grande fra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve (…): Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc XXII, 25-27). Pertanto, essendoci stato proibito da Cristo Gesù di dominare, dobbiamo ritenere nostro dovere non il dominio ma il servizio della Chiesa e a questo indirizzare tutti i nostri pensieri, fatiche e decisioni, affinché possiamo conservare integre e salve le pecore affidate dal Signore alla nostra cura, e appaia chiaro che di null’altro siamo tanto preoccupati quanto della loro incolumità.

6. Perciò mi rivolgo a voi con le parole del Principe degli Apostoli: “Esorto gli Anziani, quale Anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe, della gloria (…): pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza – come il mercenario che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge (Gv 10,12) – ma volentieri, secondo Dio – come il Pastore che dà la propria vita per le pecore (Gv X,11) – e non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1Pt V,1-3). Non c’è veleno più terribile e dannoso della voglia di dominare; se un Vescovo se ne lascia prendere, è inevitabile che la Chiesa a lui affidata, se non muore, certamente decada in modo disastroso. Il Vescovo pertanto non ambisca tanto essere a capo quanto essere di esempio; e, fattosi modello del gregge, tenga alta come fiaccola l’innocenza della vita, l’integrità dei costumi, la pietà, la religiosità; e il popolo, fissando in esse lo sguardo, con gioia e con prontezza cammini nella via del Signore, nella certezza di avere non un padrone, ma una guida.

7. È anche prerogativa caratteristica della carità essere invasi da una particolare letizia, o meglio essere trasportati dalla gioia quando qualcuno nella Chiesa di Dio si distingue per pietà e dottrina, e, sommamente desideroso della salvezza delle anime, adempie i doveri del ministero sacerdotale con assiduità, con impegno, con diligenza. Abbastanza spesso ci accorgiamo che una persona di questo taglio va soggetta alla invidia degli altri (Qo 4,4); ma chi ha senno comprende che non lo si deve lasciare rovinare o distruggere dalle calunnie degli invidiosi. Quando Eldad e Medad “si misero a profetizzare nell’accampamento, a Giosuè figlio di Nun che suggeriva di impedirli, Mosè rispose che era suo desiderio che tutto il popolo fosse profeta: “Sei tu geloso per me? – disse – Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore dare loro il mio spirito!” (Nm XI,27-29). La carità non permette che il Vescovo si irriti o si lasci prendere dall’ira: se uno viene sedotto da cattive passioni, non lo tratta come un nemico, ma lo corregge come un fratello (2Ts III,13) e con parole benevole, con opportune esortazioni e ammonizioni lo richiama dalla strada sbagliata e lo rimette sulla strada buona. Se poi accade che debba ricorrere ad una punizione più forte delle parole, si guarda dal proferire anche una sola espressione aspra e, pur dimostrando severità, evita qualsiasi offesa.

8. Ma non si può non parlare del desiderio della vanagloria, che qualcuno giustamente potrebbe chiamare la rovina dei Vescovi. Effettivamente non c’è forse niente di più contrario alla carità: se quella terribile peste si attacca ad un Vescovo e lo contagia, nei suoi riguardi si insinua l’adulazione e assale la parte più nobile di lui, cioè l’anima; lo conquista con velenose piaggerie; e gonfiando a dismisura quella eccessiva e malvagia stima di se stesso, dalla quale ognuno di noi così spesso è tratto in errore, riduce quel misero al punto che non cerca più la gloria di Dio, ma la propria gloria; quella gloria che lo stesso Cristo dichiarò di non cercare (Gv 8,50). L’adulazione poi è seguita dalla maldicenza e dalla falsità, come da perniciosissimi satelliti e servi; e siccome vengono allontanate le persone oneste e valide, si arriva al punto che al seguito del Vescovo non rimane più nulla di sano, nulla di integro. Per questo il sapientissimo Salomone ammonisce: “Meglio essere rimproverato dal sapiente che ingannato dall’adulazione degli stolti” (Qo VII,5). E ancora: “Tieni lungi da te la bocca perversa e allontana da te le labbra fallaci” (Pr 4,24). E quel detto che il Vescovo sempre deve avere presente: “Se un principe dà ascolto alle menzogne, tutti i suoi ministri sono malvagi” (Pr XXIX,12).

Perciò “non cerchiamo la vanagloria” (Gal V, 26); per coloro che la cercano “la perdizione sia la loro fine, intenti come sono alle cose della terra” (Fil III,19). Quanto a Noi, guardiamo in alto, teniamo fisso lo sguardo sulla dimora dell’eterna gloria, e convinciamoci che non dalla bocca degli uomini deriva la vera, stabile e autentica gloria. Tutti abbiamo peccato e siamo privi della gloria di Dio (Rm III,23), tutti dobbiamo, morti al peccato (1Pt II,24), cercare non la nostra gloria, ma che “il Padre sia glorificato nel Figlio” (Gv XIV,16), per essere “ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria di Dio“;a Lui solo gloria, maestà e potenza (Gd 23).

9. Tra i frutti della giustizia anzitutto bisogna mettere la carità verso i poveri: parlo della giustizia “che deriva dalla fede in Cristo” (Fil 3,9). Ma “se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi!”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova la nostra fede?” (Gc II,15-16). Così l’Apostolo Giacomo interpella tutti i Cristiani. La carità di ogni fedele, specialmente di colui che ha maggiori ricchezze, deve venire in aiuto ai poveri; essi però quasi per un loro particolare diritto esigono generosità da parte di noi che abbiamo i beni della Chiesa, cioè i voti dei fedeli, le offerte per i peccati e il patrimonio dei poveri, non come beni personali, ma come beni a noi affidati; e non è giusto appropriarcene per usi personali al punto che non resti nulla per loro: “È nostro quello che spendete“, potrebbero gridarci. Infatti di dove deriva così grande ricchezza e abbondanza, di cui la maggior parte di noi gode, se non dai doni della Chiesa? Dai beni della sposa quindi si deve prelevare solo quello di cui abbiamo bisogno per avere “di che mangiare e di che coprirci, e contentiamoci di questo” (1Tm VI, 8), ritenendo “un grande guadagno la pietà congiunta però a moderazione” (1Tm VI, 6). Guadagno certamente apprezzabile è quando abbiamo in abbondanza di che custodire, nutrire, ornare la Sposa; ma guadagno più vantaggioso di tutti è quando, mediante le elemosine, otteniamo da Dio la grazia, che illumina la nostra mente cieca e che ci solleva e ci sostiene nei momenti in cui siamo prostrati e abbattuti per la nostra naturale miseria. Infatti se apriamo il nostro cuore all’affamato e consoliamo l’anima afflitta, “la nostra luce brillerà fra le tenebre e la nostra tenebra sarà come il meriggio e il Signore riempirà le nostre anime del suo splendore” (Is LVIII, 10-11/Volgata).

10. Certamente l’elemosina ha una grande forza per ottenere da Dio luce all’intelligenza e grazia di devozione, senza la quale l’ufficio pastorale perde sicuramente la sua efficacia; ma nulla è più efficace della preghiera e del Santo Sacrificio della Messa. L’Apostolo ci prescrive di “pregare senza interruzione e rendere grazie in ogni cosa” (1Ts V,17-18), perché è volontà di Dio che non estinguiamo lo spirito di fede e di carità, spirito che sostiene la nostra debolezza e “intercede per noi con gemiti inesprimibili” (Rm VIII,26). Pertanto se qualche Vescovo ha bisogno di sapienza, “la domandi a Dio“che gliela darà; “la domandi però con fede, senza esitare” (Gc 1,5-6). È desiderabile che egli, per quanto possibile, nutra nel suo cuore una fede grande come quella di Mosè, il quale stette incrollabile “come se vedesse il Dio invisibile” (Eb XI,27). Alla fede deve andare unita l’umiltà: “Io sono povero e infelice: – gridava Davide – vieni in mio aiuto, o Dio” (Sal LXIX,6). Il valore della preghiera perseverante e continua è messo in luce dalle parole di Gesù Cristo nostro Signore, che ci insegnò: “Bisogna pregare sempre senza stancarsi“(Lc 18,1). È in questa attitudine di perseveranza e di pazienza che dobbiamo attendere Dio: “Se indugia, attendiamolo; apparirà e non si smentirà, perché certo verrà e non tarderà” (Ab III,3/Volgata). Noi non dobbiamo però guarire soltanto le nostre infermità, ma essere convinti che anche i mali degli altri ci riguardano, come se fossero nostri; di conseguenza la nostra preghiera deve essere rivolta al Signore con maggiore ardore e maggiore perseveranza. Con la preghiera noi ci facciamo interpreti in qualche modo dei fedeli della Chiesa, presentando al cospetto di Dio la fede, la speranza e la carità di tutti, e dobbiamo ottenere per tutti quello di cui tutti, e ciascuno in particolare, hanno bisogno. L’augustissimo Sacrificio Eucaristico ci aprirà la strada alla preghiera e ci otterrà tutto quello che chiediamo. Perciò, anche se siamo assorbiti dalle molteplici occupazioni del nostro ministero, non mancheremo di offrire molto spesso a Dio il Corpo e il Sangue Sacratissimi di Gesù Cristo; e convinciamoci che nessun altro impegno per noi è più importante di quello di immolare a Dio Padre l’ostia di propiziazione per i nostri peccati e per i peccati del popolo.

11. Poiché siamo in qualche modo mediatori fra Dio e gli uomini, come portiamo a Dio i voti degli uomini, così è nostro compito portare al popolo la volontà di Dio. E “questa è la volontà di Dio: la nostra santificazione” (1Ts IV, 3). Tocca a noi pertanto, Venerabili Fratelli, “aprire le porte della predicazione per annunciare il mistero di Cristo” (Col IV, 3), al fine di manifestarlo in modo autentico. Questo soprattutto dobbiamo insegnare al popolo: che Cristo offrì alla giustizia divina la sua carne; una carne simile alla nostra, eccetto il peccato; una carne non solo santa, ma anche santificante e tuttavia capace di soffrire e soggetta alla morte; una carne che in qualche modo rappresentasse tutti noi; e con la sua carne offrì anche noi (1Pt III,18); la sua carne e noi nello stesso tempo espose alle sofferenze che meritavano le nostre colpe. Dobbiamo insegnare che quella carne fu condannata ai dolori della morte; che ha subito la maledizione pronunciata contro i trasgressori della legge; che morì fra acerbissimi dolori; che è stata resa soddisfazione alla legge; che tutto ciò che sa di peccato è stato cancellato dalla morte e dalla sepoltura di Gesù Cristo; che il Signore Gesù è risorto dalla tomba con quella stessa carne, ma spogliata dell’involucro della mortalità e rivestita degli onori della immortalità; e che pertanto i peccatori per essere giustificati devono morire con Cristo, che per loro e a loro nome è morto; che con Cristo debbono entrare nel sepolcro, per deporvi la carne macchiata dalla colpa; che il vecchio uomo deve essere consegnato e abbandonato all’ira di Dio e alla maledizione della morte, affinché in noi possa rivivere l’uomo nuovo, divenuto nuova creatura e nuovo impasto, e tendere con Cristo all’immortalità e alla gloria eterna. Perciò i Cristiani debbono avere il loro pensiero rivolto a quella vita, la vita eterna, non alla presente così breve; e debbono sradicare dall’animo i piaceri e il desiderio della ricchezza che porta ai piaceri; e soprattutto debbono liberarsi della superbia, da cui derivano tutti i malvagi istinti; ricordandosi che “il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno” (1Gv II,17).

12. Quanto importante sia poi insegnare queste verità e tutta l’altra dottrina circa i misteri di Dio, voi stessi, Venerabili Fratelli, nella vostra sapienza, facilmente lo intuirete. Soprattutto si deve attentamente considerare quante disposizioni si richiedono da coloro che sceglierete per il ministero Sacerdotale e per istruire il popolo nella dottrina Cristiana, quale innocenza di vita, quale integrità di costumi, quale castità, giustizia, pietà, religiosità: quanto sia importante che, se qualcosa di cattivo, qualcosa di vizioso, qualcosa di malvagio per cattiva abitudine si è introdotto nei costumi, i Parroci lo tolgano con delicatezza e con prudenza; che aiutino e istruiscano qualunque fedele con salutari ammonimenti e consigli; che alle anime fedeli diano le ali, mediante le quali da terra si elevino alla contemplazione delle realtà divine; e una volta strappate al mondo, donarle a Dio e cercare di riprodurre in loro l’immagine di Dio. Al contrario non si deve tollerare che i Parroci richiedano dai fedeli loro affidati un tenore di vita che essi non sono in grado di realizzare nella propria; e che rimproverino negli altri il loro modo di vivere, rifiutandosi poi di essere a loro volta corretti. A puri e santi costumi si deve aggiungere una dottrina bene assimilata, degna di un ecclesiastico. Abbiano una buona conoscenza della Scrittura: “Tutta la Scrittura infatti è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm III,16). Attingano, come a sorgente, al sacro libro di ambedue i Testamenti, alle tradizioni della Chiesa, agli scritti dei Santi Padri, dai quali scaturisce una dottrina pura e solida circa la fede e i costumi; consultino assiduamente e imparino il Catechismo Romano, somma di tutta la Dottrina Cattolica, da cui dedurre le prediche da tenere al popolo.

13. Riterrete dunque fedele ministro a cui affidare una porzione del gregge del Signore non colui che può vantare studi privati o una qualche raccomandazione, ma colui che è ottimo sotto ogni punto di vista; particolarmente colui la cui virtù e discrezione tenderebbero a rifiutare il ministero. Come regola generale, “non abbiate fretta di imporre le mani ad alcuno” (1Tm V,22), cosa che, a Nostro parere, inevitabilmente avviene quando le persone non vengono esaminate e provate che una o due volte; mentre il candidato dovrebbe essere accuratamente e attentamente interrogato e severamente giudicato, perché non accada che, “fatti complici dei peccati altrui” (1Tm V,22), meritiamo da Dio il castigo della nostra inconsulta temerità. Non vi infastidite, Venerabili Fratelli, se un po’ più a lungo ci soffermiamo su un argomento che richiede grande precauzione. Quali sono i sacerdoti, di solito tale generalmente è anche il popolo. In essi, soprattutto se sono Parroci, come in uno specchio, tutti fissano lo sguardo. Dobbiamo essere convinti che nessuno fa tanto male alla Chiesa quanto i Chierici viziosi, che trasmettono i loro vizi al popolo e lo corrompono al punto che il loro esempio si rivela più dannoso del peccato stesso.

14. Anche se fossero eccellenti coloro che abbiamo scelto per il sacro ministero, non per questo dobbiamo ritenere di avere adempiuto il dovere di evangelizzare; in questo modo noi daremmo l’impressione di avere ceduto ad altre mani le reti che il Signore ha affidato a noi perché fossimo “pescatori di uomini” (Mt IV,19). Principale dovere dei Vescovi è annunciare la Parola di Dio. “Guai a me se non predicassi il Vangelo, – gridava l’Apostolo – è un dovere per me” (1Cor IX,16); e dichiarava di avere ricevuto l’incarico da Cristo Signore non tanto di battezzare – ministero certamente santo – ma principalmente di evangelizzare (1Cor 1,17). A giudizio degli stessi Apostoli, il ministero della Parola occupa il primo posto; e quei santissimi uomini giudicarono che “non era giusto trascurarlo” (At VI,2); e per questo stabilirono di affidare ai Diaconi le altre opere che riguardavano il servizio della carità al prossimo (At VI,4). – E il beatissimo Paolo scrive a Timoteo; “Dedicati alla lettura, all’esortazione e all’insegnamento” (1Tm IV,13). Se un Vescovo si ritiene non idoneo alla predicazione e dichiara che questo ministero non entra nelle sue capacità, non lasci mancare però il suo servizio nelle altre attività che in qualche modo riguardano la Parola di Dio. Pertanto, se ai Chierici ha ordinato di insegnare i primi elementi della Dottrina Cristiana ai fanciulli, non lasci mancare in questo settore la sua opera. Si affianchi ai parroci nell’insegnare al popolo, affinché il suo dovere di annunciare la Parola almeno in parte sia salvaguardato: cosa che sarà di grandissima utilità, perché stimolerà tutti a compiere ciascuno il proprio dovere. – Perciò non gli sia gravoso amministrare qualche volta i Sacramenti ai fedeli insieme ai Confratelli sacerdoti; andare ogni tanto in Coro a cantare i Salmi con i Canonici; presiedere personalmente gli incontri che ha messo in programma: in forza di questa presenza i sacri Ministri riceveranno una non piccola parte del suo spirito, come i settanta uomini dello spirito di Mosè. A questo si aggiunga il fatto che il popolo, che osserva questi comportamenti, si farà un’altissima opinione della santità del culto divino; e coloro che ne sono indegni, scoraggiati da questo sublime spettacolo, si guarderanno bene dall’aspirare al sacro Ministero.

15. Ma poiché il Vescovo non può governare la Chiesa e aver cura del suo gregge se è assente, bisogna che nessuno di voi si allontani dalla propria Chiesa per un certo tempo. Questo, che è richiesto dalla legge naturale, è stato sancito anche dai sacri canoni e specialmente dai Decreti Tridentini. E tutti i paesi della Diocesi debbono essere visitati affinché, se in qualcuno di essi la forza delle leggi ha incominciato a indebolirsi, voi li salviate dalla negligenza dei ministri o dalla disobbedienza dei sudditi. Se poi qualche volta ci sarà un motivo piuttosto grave e inderogabile per cui vi dovete allontanare dalla Chiesa e rimanere assenti per un certo periodo di tempo, in nome di Dio vi prego: fate in modo che la Chiesa non debba desiderare troppo a lungo il proprio Pastore; pensate che la vostra assenza rappresenta sempre per lei un pericolo.

16. Inoltre alle parole si aggiunga sempre l’esempio: “Offriamo noi stessi come esempio in tutto di buona condotta” (Tt II,7), perché “il nostro avversario resti confuso, non avendo nulla di male da dire sul conto nostro” (Tt II,8). Le opere non siano mute, perché non illuminate dalla parola: e le parole non debbono vergognarsi, perché non confermate dai fatti; teniamo ben fisso nell’animo che il perfetto Principe della Chiesa deve possedere come sua dote particolare le più grandi virtù, perché la sua vita sia resa splendente dalla parola, e la dottrina dalla vita. La casa di ognuno di noi sia cattedra di pudore e di moderazione, modello di Disciplina Ecclesiastica; in essa regnino sempre dignità e concordia: ciò conseguiremo se non ci lasceremo condizionare dalla volontà e dal favore di alcuno, se in nulla cederemo alla debolezza dell’animo e alla mollezza, se a nessuno concederemo privilegi, perché questo molto spesso genera confusione nel governo della Chiesa, e può portare anche ad offese gravi, e procurare al Vescovo invidia e disprezzo.

17. Quanto a noi, i nostri occhi “hanno anticipato le veglie” (Sal LXXVI,5) per arrivare a costituire nelle diverse Città Vescovi che all’Episcopato portino una dottrina sana, una vita irreprensibile, un animo pronto a tutto per Cristo; Vescovi che abbiano una concezione esatta del ministero loro conferito: un ministero in cui colui che è a capo non si esalti per la grandezza della dignità ma si abbassi con la forza dell’umiltà. E nel cercare e chiedere informazioni circa le persone che vogliamo preporre ad un così grande ministero, ci serviremo della vostra testimonianza e autorità, confidando nel senso religioso e nella fedeltà della vostra testimonianza, intimamente certi che voi non terrete conto né della carne né del sangue, ma solo di colui che vi ha chiamato “a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo” (Ef IV,12).

18. Ancora un ammonimento, Venerabili Fratelli, circa la forza e il coraggio, di cui c’è estremamente bisogno contro tutto ciò che attenta all’ortodossia della fede, ferisce la pietà, rovina l’integrità dei costumi. Vi prego: “Siamo pieni di forza con lo Spirito del Signore, di giustizia e di coraggio” (Mi III,8). Non lasciamo, a somiglianza di “cani muti incapaci di latrare” (Is LVI,10), che “i nostri Greggi diventino una preda e le nostre pecore il pasto d’ogni bestia selvatica” (Ez XXXIV,8); niente ci trattenga dall’esporci ad ogni genere di combattimento per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Pensiamo attentamente “a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori” (Eb XII,3). Se ci arrestiamo davanti all’audacia dei malvagi, sono già crollate la forza morale dell’Episcopato e la divina e sublime potestà di governare la Chiesa; e non possiamo più continuare a considerarci, anzi non possiamo neanche più essere Cristiani, se temiamo le minacce e le insidie degli uomini perversi. Riponendo fiducia “non in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti” (2Cor 1,9), elevati e come protesi verso il cielo, disprezzando le realtà caduche della terra, invochiamo il Signore: “Mio solo rifugio nel giorno della sventura” (Ger XVII,17), e non ci lasciamo abbattere né nello spirito né nel corpo: “Siamo infatti collaboratori di Dio” (1Cor III, 9), e il Signore è con noi “sino alla fine del mondo” (Mt XXVIII,20). Nessuno scandalo, nessuna persecuzione scuota la nostra fermezza, per non dimostrarci ingrati a Dio che ci ha eletti e il cui aiuto è sicuro quanto le sue promesse.

19. Infine, poiché nel giudizio eterno dovremo rendere conto prima di tutti e davanti a tutti quelli che portano il nome di Cristo, vi preghiamo, Venerabili Fratelli, e vi supplichiamo: qualora sorgano scandali o dissensi che non siete in grado di dominare, rivolgetevi a questa Sede del Beatissimo Principe degli Apostoli, Capo e vertice dell’Episcopato, da cui lo stesso Episcopato e ogni potere legato a questo nome è derivato. Di qui, come dalla sua sorgente nativa, tutte le acque scaturiscono e, limpide perché derivate da un capo puro, scorrono nelle diverse regioni di tutto il mondo; di qui tutte le Chiese attingano quello che si deve prescrivere in questi casi e come purificare coloro che un’acqua degna solo di corpi mondi vorrebbe evitare, perché immersi in un fango da cui è difficile liberarsi. Confidando prima di tutto nella potenza di Dio, poi nella protezione del Beato Pietro, Noi vi verremo incontro con il consiglio, con l’aiuto, con l’autorità. Siamo pronti per voi a “prodigarci volentieri, anzi a consumarci” (1Cor XII,15), per difendere l’incolumità della Chiesa e quella dei Fratelli. Del resto anche sotto il peso dell’incarico che ci è stato imposto “abbiamo avuto fiducia in Dio” (2Ts II,2): da Lui è venuto il peso, da Lui verrà anche l’aiuto; Egli che ci ha conferito la dignità ci darà anche la forza, perché la debolezza non soccomba sotto la grandezza della grazia. Frattanto invocate nella preghiera la misericordia e la clemenza del nostro Dio, affinché nei nostri giorni ci salvi da quelli che ci combattono; irrobustisca la vostra fede; moltiplichi la devozione; faccia fiorire la pace; e poiché ha voluto affidare a me, suo piccolo servo, il governo della Chiesa, si degni di rendermi capace di così grande missione e pronto alla vostra difesa; e per questo allunghi i tempi del nostro servizio, affinché giovi alla crescita spirituale ciò che avrà concesso all’età. La grazia del Signore Nostro Gesù Cristo sia con voi; vi benediciamo e vi salutiamo con il bacio santo; e a tutti i Confratelli sacerdoti e a tutti gli altri Fedeli delle vostre Chiese con tanto amore impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 14 settembre 1758, nell’anno primo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es. [Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Oratio

Orémus.
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.
[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Lectio

Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17
Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus.
Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiæ, in cœléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LE PASSIONI.

Fratelli: Cercate la forza nel Signore e nella sua potente virtù. Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. Poiché non abbiamo da lottare contro la carne e il sangue; ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male delle regioni celesti. Perciò prendete l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo, e, superando tutto, star saldi. State, dunque, saldi, cinti i lombi con la verità, e vestiti con la corazza della giustizia, calzati i piedi di prontezza per il vangelo di pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno: e prendete l’elmo della salvezza e la spada dello spirito, cioè parola di Dio”. (Ef. VI, 10-17).

L’Apostolo, riepilogando la sua lettera agli Efesini, viene a parlare della lotta spirituale che devono sostenere contro il demonio. Non è un nemico comune; è un nemico invisibile, e che attacca con insidie. Un motivo di più per armarsi fortemente e star in guardia chi non vuol essere sorpreso e vinto. Le armi non mancano. Come il soldato ha le sue armi per difendersi contro i nemici corporali; così il Cristiano ha le sue armi per difendersi contro i nemici spirituali. Son soprattutto le armi che ci porge la fede. Tutti dobbiamo combattere la nostra battaglia spirituale fin che siamo su questa terra. La lotta contro le passioni, delle quali il demonio si serve per trarci al suo servaggio, è una lotta continua che noi potremo superare,

1. Fortificandoci nel Signore,

2. Stando sempre preparati,

3. Usando le armi che ci porge la fede.

1.

Cercate la forza nel Signore e nella sua potente virtù.

Noi possiamo essere eccellentemente istruiti nella legge del Signore, e con tutto questo non conseguire la vita eterna, data la nostra incapacità a praticare da soli, senza l’aiuto di Dio, quanto dalla legge del Signore è prescritto. Il demonio, che cerca di impedirci il conseguimento della nostra beatitudine eterna, è un nemico che conosce tutte le arti, tutte le astuzie, tutte le insidie. Bisogna che ci affidiamo a chi può rendere vane tutte le arti del demonio, bisogna che ci affidiamo al Signore, cercando la forza in Lui. – Se noi potessimo resistere al demonio con le sole nostre forze, sarebbe inutile rivolgerci ogni giorno al Signore con la preghiera che egli stesso ci ha insegnato: «Non c’indurre nella tentazione», cioè, come spiega Sant’Agostino, «non permettete che, sottraendoci voi il vostro aiuto, noi cadiamo in essa» (Lett. 157, 5).Noi possiamo fare tutti i proponimenti immaginabili, ma, senza l’aiuto che vien dall’alto, non riusciremo a metterne in pratica alcuno. S. Pietro protesta a Gesù: «Quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò». E lo stesso dicevan tutti gli altri. Qualche ora dopo, al momento della cattura di Gesù «tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e fuggirono». S. Pietro, poi, arriva «a imprecare e a giurare di non conoscere Gesù » (Marc. XIV, 31, 50, 71). Poveri proponimenti degli uomini, se non sono avvalorati da Dio. Una nave senza timone e senza timoniere tra cavalloni che s’innalzano, e nulla più, è l’uomo che conta sulle sole proprie forze. Ma se di fianco a noi c’è Dio, tutto il potere dei nemici dell’anima nostra si infrange contro la volontà di Lui. «Alla tua volontà — dice Mardocheo rivolto al Signore — tutte le cose sono sottomesse, e non c’è chi possa resistere alla tua volontà» (Est. XIII, 9). Anche il demonio è sottomesso alla volontà di Dio, e le sue astuzie e le sue insidie non possono passare oltre il confine da Lui segnato. – Se tu sei posto sotto la tutela di Dio, sfuggirai i lacci che il nemico tende per farti cadere, sarai liberato dalle insidie che il demonio prepara attorno a te per uccidere l’anima tua. «Procederai sopra aspidi e basilischi, e calpesterai leoni e draghi» (Ps. XC, 13), come dice il salmista. Egli, che può renderti innocui gli animali più feroci e velenosi, al punto che tu potresti passare incolume sul loro capo, può liberarti anche dagli assalti delle passioni, che cercano farti loro preda, può rendere innocuo il serpente infernale che non cessa un momento dal tentativo di avvelenare, con il suo alito pestifero, le anime redente. «Quegli che un giorno ha vinto la morte per noi, vince sempre in noi» (S. Cipriano: Epist. 8, 3. ad Mart. et Conf.).

2.

L’Apostolo, dopo averci indicato il primo mezzo, mezzo assolutamente indispensabile, per vincere gli assalti del demonio e delle passioni- il ricorso a Dio – passa a parlare degli altri mezzi spirituali, che egli paragona alle parti dell’armatura del soldato romano. Rivestitevi dell’armatura di Dio. Armatevi da capo a piedi delle armi spirituali, affinché non siate presi all’improvviso dagli assalti del nemico. – I colpi improvvisi, se ben preparati, sono quelli che riescono meglio. I posti militari, presi all’improvviso dagli assalti di schiere ben guidate, finiscono quasi sempre col venire abbandonati dai difensori. Se non vogliamo venir travolti da qualche assalto, che le passioni ci facciano di sorpresa, bisogna stare continuamente all’erta, essere sempre pronti a respingere il primo attacco. In guerra si contrappone arma ad arma, sistema a sistema. Sistema del demonio è non dormire mai per poter cogliere il momento più propizio di muovere all’assalto. Sistema di difesa è quello di non lasciarsi cogliere nel sonno. Perciò S. Pietro, parlando appunto del demonio, che non si prende un momento solo di requie, esorta: «State raccolti, vigilate» (I Piet.: V, 8). Se ci dimentichiamo che le tentazioni possono svegliarsi quando meno lo pensiamo, verremo colti certamente di sorpresa; ci troveremo come disorientati, e difficilmente resisteremo. Non bisogna meravigliarsi di nessun assalto. Furono tentati santi e sante di ogni età e condizione; non vorremo aver la pretesa d’esser solamente noi a sfuggire agli assalti delle passioni. Se ci meravigliamo, e, conseguentemente, ci turbiamo, le passioni non tarderanno a scuoterci, e a farci perdere terreno. Forti e sereni nella fiducia in Dio non titubiamo un momento, non cediamo in nulla. Se tu non rintuzzi con energia i primi attacchi, la passione diventerà più gagliarda, e a te verran meno a poco a poco le forze per resistere. In breve ti troverai lontano da Dio e assoggettato a satana, del quale prima avevi tanto orrore. Guardati dal primo errore. E primo errore, seguito da altri più gravi, è appunto il non combattere con energia e risolutezza la tentazione ai primi assalti. – Non bisogna neppur meravigliarsi se si risvegliano passioni che si credevano assopite. «Credetemi — dice S. Bernardo — tagliate, rigermogliano; scacciate, ritornano; estinte, si riaccendono; sopite si risvegliano… In tale cimento si può consigliar una cosa sola: osservare attentamente, e con pronta severità tagliare il capo delle rinascenti passioni appena spuntano» (In Cant. Cant. Serm. 58, 10). Stiam sempre preparati anche nei momenti di tregua, «poiché — osserva il Crisostomo — chi non si preoccupa di combattimento durante la pace, in tempo di combattimento sarà terribile » (In Ep. 1 ad Tess. Hom. 3, 4).

3.

Soprattutto prendete lo scudo della fede.

Lo scudo della fede, con cui S. Paolo vuole che ci armiamo nel combattimento spirituale, è difesa efficacissima contro gli assalti delle passioni di qualunque genere. La fede p. e. insegna che i Cristiani sono «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ephes. II, 19). La loro vita deve, necessariamente, essere una vita di santità, che ha nulla a che fare con la vita di coloro che vivono lontani dal Signore. Il Cristiano, entrando con il Battesimo a far parte della famiglia di Dio, «l’ha fatta finita con il peccato per non servire alle umane passioni, ma alla volontà di Dio quel tempo che gli resta a vivere nella carne. (I Piet. IV, 2). Se nel momento della tentazione il Cristiano si ricordasse della sua dignità, degli obblighi che essa importa, della rinuncia fatta al peccato, non resterebbe facilmente vittima delle arti dello spirito maligno. – Il Beato Giuseppe Chang, martire cinese, viene esortato dai suoi nipoti a rinnegare la fede cattolica. Per smuoverlo dalla sua fermezza gli offrono una rilevante somma di danaro. «Ti offriamo mille taels d’argento — gli dicono — affinché possa vivere onestamente gli anni che ti restano». — «Perché, rispose il martire, accetterò io questo danaro? Che vantaggio me ne viene?» (C. Salotti: “I nuovi martiri annamiti e cinesi”. Roma, 1909). È la domanda che dovrebbe farsi ciascuno, quando si sente lusingare dalle passioni: Che vantaggio me ne viene? Il piacere che se ne spera è più immaginario che reale. Nulla è più certo delle pene che i piaceri ci fanno soffrire, e nulla è più incostante e misero del godimento che ci fanno sperare. Così potrebbe rispondere l’esperienza. La fede aggiunge un’altra risposta: Il vantaggio che ne avrai sono gli eterni tormenti. E «Chi di voi potrà abitare con un fuoco divoratore? Chi di voi abiterà tra gli ardori sempiterni?» (Isa. XXXIII, 14). – La fede c’insegna che Dio è dappertutto. Nessuno può dire: Mi nasconderò all’occhio di Dio, ed egli non conoscerà le mie opere. «Gli occhi di Dio sono molto più luminosi del sole; sorvegliano d’intorno tutte le vie degli uomini e la profondità degli abissi e penetrano nel cuor dell’uomo fino nei luoghi più riposti» (Eccli. XXIII, 28). Gli occhi di Dio vedono e contemplano il tuo contegno nella lotta contro le passioni, e intanto le sue mani intessono per te una corona… se sarai costante. In parecchi monumenti che si innalzano in memoria dei caduti in guerra è rappresentata la vittoria in atto di porgere la corona, o altro simbolo di gloria, a coloro che hanno lottato fino al trionfo. La corona che Dio prepara a quei che vincono nelle lotte spirituali val ben di più che un semplice simbolo. Dio, con la sua presenza, incoraggia chi lotta additandogli la corona del paradiso: «Al vincitore io darò la manna nascosta», (Apoc. II, 17) cioè il cibo dell’eterna beatitudine. Non dimentichiamo mai che Dio è sempre presente. «Solo così persevereremo senza cadere, se terremo sempre in mente che ci è vicino Dio».

Graduale

Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut formarétur terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

ALLELUJA

Allelúja, allelúja Ps CXIII: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro. Allelúja.
[Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes.
Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLIX.

“In quel tempo Gesù propose ai suoi discepoli la seguente parabola: Il regno de’ cieli si assomiglia ad un re il quale volle fare i conti co’ suoi servi. E avendo principiato a rivedere la ragione, gli fu presentato uno che gli andava debitore di diecimila talenti. E non avendo costui il modo di pagare, comandò il padrone che fosse venduto lui e sua moglie, e i figliuoli e quanto aveva, e si saldasse il debito. Ma il servo prostrato lo supplicava, con dire: Abbi meco pazienza, e ti soddisferò interamente. Mosso il padrone a pietà di quel servo, lo liberò condonandogli il debito. Ma partito di lì il servo, trovò uno dei suoi conservi, che gli doveva cento denari: e presolo per la gola, lo strozzava, dicendo: Pagami quello che devi. E il conservo, prostrato a’ suoi piedi, lo supplicava, dicendo: Abbi meco pazienza, e io ti soddisferò interamente. Ma quegli non volle, e andò a farlo mettere in prigione fino a tanto che l’avesse soddisfatto. Ma avendo gli altri conservi veduto tal fatto, grandemente se ne attristarono: e andarono e riferirono al padrone tutto quello che era avvenuto. Allora il padrone lo chiamò a sé, e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché ti sei a me raccomandato: non dovevi adunque anche tu aver pietà di un tuo conservo, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato il padrone, lo diede in mano de’ carnefici, per fino a tanto che avesse pagato tutto il debito. Nella stessa guisa farà con voi il mio Padre celeste, se di cuore non perdonerete ciascheduno al proprio fratello” (Mutth. XVIII, 23-35).

Un atto precipuo della carità del prossimo è il perdono delle offese ricevute e l’amore verso quelli che ci hanno fatto del male. Senza dubbio questo atto riesce assai arduo, ma è pure il più degno del Cristiano, perché lo rende similissimo a Dio. Nessuna cosa è più propria della divina Bontà quanto il perdonare gli oltraggi che le si fanno ed usare pietà ai suoi oltraggiatori. Né contento Iddio di rimirare con occhio di misericordia i suoi offensori, esercita inverso loro tutta la sua beneficenza al pari dei giusti. Fa che nasca il sole a benefizio dei buoni e dei cattivi e agli uni e agli altri dispensi i suoi benefici influssi. Fa che cadano piogge salubri e sopra gl’innocenti e sopra i rei, e che tanto per questi quanto per quelli sia feconda la terra di messi, di biade, di uva, di frutta, di erbe, di animali e di ogni bene. Ora questa bontà immensa di Dio nel perdonare e far del bene a’ suoi offensori, e l’obbligo gravissimo, che noi abbiamo di imitarlo anche in questo, è ciò che ci mette innanzi il Vangelo di questa domenica con una bellissima parabola di nostro Signor Gesù Cristo.

1. In quel tempo Gesù propose a’ suoi discepoli la seguente parabola: Il regno dei cieli si assomiglia ad un re, il quale volle fare i conti co’ suoi servi. E avendo principiato a riveder la ragione, gli fu presentato uno che gli andava debitore di diecimila talenti. E non avendo costui il modo di pagare, comandò il padrone che fosse venduto lui, e sua moglie e i figliuoli, e quanto aveva, e si saldasse il debito. Ed anzitutto chi è questo re, di cui qui si tratta? Il re è Gesù Cristo. Di Lui fu scritto, che è stato costituito re di Sionne (Ps. II, VI) e che Egli è il Re dei re ed il Signore dei dominanti (Apo. XIX, 16). Ed i servitori chi sono? Tutti gli uomini. Essi appartengono a Gesù per il diritto di creazione, e per quello di redenzione. Tutti gli uomini adunque sono posti sopra di questa terra per servire l’universale padrone, Gesù Cristo, il quale un giorno, come il re del Vangelo, ci farà render conto di tutto al tremendo suo tribunale. Quel formidabile conto, sarà d’uopo renderlo due volte. Primieramente nel giudizio particolare. Da sola con Dio l’anima vien esaminata nel modo più preciso, più particolareggiato. Le grazie che ha ricevuto, le colpe che ha commesso, il bene che ha fatto, le negligenze a cui ha potuto abbandonarsi, i peccati che ha fatto commettere, tutto ciò verrà ricordato al tribunale del Signore. Ed infine sui fumanti avanzi dell’universo ridotto in cenere, quel giudizio particolare di ciascun’anima si riprodurrà alla presenza di tutte le generazioni riunite e di tutto il cielo, col più formidabile apparato. Or bene, o miei cari, a queste verità ci pensiamo noi? Oh! come dovremmo ricordar sovente i severi giudizi di un Dio terribile ed imprimere nell’anima questo salutare terrore ch’è il principio della sapienza.Questo timore salutare ci farebbe rientrare in noi stessi; con maggior cura esamineremmo il nostro cuore, cercheremmo con più di coraggio di vincerci, riformarci, correggere laide miserie, tante imperfezioni che ci allontanano dal Signore, fors’anche tanti gravi peccati che compromettono la nostra eterna salute. Ah! il peccato mortale, ecco ciò che bisogna evitare ad ogni costo, perciocché è il peccato mortale quello che ci rende debitori! Volete voi conoscere l’immensità del debito contratto dal peccatore? -Rammentate per poco la grandezza e la bontà dell’offeso, la viltà del reo, le indegne ragioni che hanno inspirato la colpa, le circostanze aggravanti che l’hanno accompagnata, e ne capirete qualche cosa. E primieramente chi è l’offeso? Dio, il quale è anzi tutto il più grande, il più perfetto, il più potente di tutti gli esseri e poi per riguardo al peccato medesimo il più insigne dei benefattori. Imperocché allorquando un Cristiano col peccare tratta sì iniquamente con Dio, ha ricevuto da Lui qualche torto, qualche mala grazia, per cui ritengasi offeso, ed abbia motivo di vendicarsi? Tutt’altro. Egli è anzi una creatura piena, colma di benefizi, di favori segnalatissimi ricevuti da Dio. Tutto quello che è, tutto quello che ha e che può avere, tutto è dono di Dio. Iddio l’ha cavato dal nulla, Iddio gli ha data la vita, Iddio lo conserva, lo provvede, lo mantiene di continuo. La terra che lo sostiene, l’aria che respira, il sole che lo illumina, la casa che lo alloggia, le campagne che gli fruttano, le bestie che lo servono, sono tutto dono di Dio. Sono infinite, si può dire, le grazie ed i favori che questo miserabile ha ricevuto, e riceve continuamente da questo benefattore sovrano, tanto nell’ordine naturale che nel soprannaturale, tanto per il corpo quanto per l’anima. Iddio per amore e salvezza di lui ha sacrificato perfino il suo unico benedetto Figliuolo, l’ha con privilegio specialissimo chiamato alla sua fede, ammesso nel grembo della sua Chiesa, fatto partecipe dei suoi Sacramenti, provveduto di innumerabili mezzi per conseguire quel bel Paradiso, dove ha preparata per lui una gloria influita, una beatitudine eterna. Ed è contro questo Dio così grande e così benefico che se la prende il peccatore. E questo peccatore chi è mai? Una miserabile creatura, che non può niente, un cieco che nulla vede, un povero che non ha nulla, un po’ di polvere, un verme della terra. Sì, è questo nulla che ha l’ardire di irritare col peccato quel Dio, alla cui presenza trema il cielo, la terra, e l’inferno. E per quale motivo ardisce di irritarlo? Chi commette un peccato mortale lo commette per lo cose più vili ed infami, che preferisce a Dio. Egli stima, ama e mette innanzi Dio un qualche bene vilissimo nel suo essere, brevissimo nel suo durare, meschinissimo nella contentezza che arreca. Il profeta Osea rappresenta il peccatore con una bilancia iniquissima in mano. In questa pone da una parte Iddio e la sua santa grazia, e dall’altra un piacere da nulla, una miserabile soddisfazione, e dopo aver pesato giudica e decide che quello sfogo della sua rea passione vale più che Iddio, e a questo sfogo si appiglia rigettando la grazia di Dio. E dov’è ch’egli commette una tale enormità? Tale colpa è commessa al cospetto di Dio medesimo, poiché il Signore riempie tutto l’universo con la sua immensità. Diceva il profeta David: « Se io ascendo in cielo, ivi siete Voi, o mio Dio; se io discendo nell’inferno, colà io vi trovo; se io mettessi l’ali a guisa di uccello e volassi al di là dei mari più remoti, anche là la vostra mano mi fermerebbe. No, niuna cosa può sottrarmi da Voi. Forse le tenebre mi terranno nascosto dalla vostra faccia! Forse l’oscurità della notte potrà nascondermi dal vostro cospetto, sicché io possa darmi ai piaceri? Ma no, perciocché le tenebre d’innanzi a Voi non hanno oscurità: e la notte risplende come il mezzogiorno. » Cosicché in qualunque luogo ci troviamo, qualunque sia il paese che noi abitiamo, nella profondità della terra, come sulla sommità de’ monti, insieme alle più dense tenebre del pari che nella chiarezza del giorno più luminoso, sempre e dovunque, l’uomo sta a faccia a faccia con Dio; e quando l’uomo si abbandona al peccato, sforza in certo modo il Signore ad esser testimonio delle sue iniquità e de’ suoi delitti. Finalmente di quali strumenti si serve l’uomo per offendere Iddio? Egli si serve dei doni stessi e dei benefici da Lui ricevuti con tanta generosità, convertendoli come in tante acutissime frecce con cui trafiggere il suo medesimo benefattore. Questo è proprio il colmo e l’ultimo estremo dell’ingratitudine e della perfidia. A tale inaudito eccesso arriva il peccatore con Dio. Adopera la sanità, la bellezza, la roba, il talento, gli occhi, la lingua, le mani, le forze, o qualsiasi altro bene creato, doni tutti e benefizi di Dio! Ecco il debito enorme che il peccatore contrae con Dio! E non solo contrae questo debito, ma cade ancora nella più spaventosa miseria, imperciocché come l’assassino non si contenta di ammazzare sulla strada il viandante, ma lo spoglia ancora e lo svaligia, togliendogli quanto di bello e di buono trova in dosso a quell’infelice, così fa pure il peccato, che rapisce all’anima tutti i tesori e tutte le ricchezze che ella possiede, vale a dire i meriti preziosissimi che con tanto stento si aveva guadagnati con le buone opere e con l’esercizio delle virtù. Così che è con tutta ragione che del peccatore si può dire come del servo del Vangelo: Cum autem non haberet unde redderet: non ha il modo di pagare. Ed è perciò ancora che esso merita di essere venduto ed abbandonato al demonio, esecutore terribile della giustizia di Dio.

2. Tuttavia, o miei cari, per quanto grande ed insolvibile sia il nostro debito, è infinitamente maggiore la misericordia di Dio, purché noi imitiamo la condotta del servo evangelico. Difatti… Questo servo, dice Gesù Cristo, prostrato supplicava il padrone con dire: Abbi pazienza e ti soddisferò interamente. Ed il padrone mosso a pietà di lui, lo liberò condonandogli il debito. Dal che si vede, dice S. Giovanni Grisostomo, che non era stato per sentimento di crudeltà, che quel re dapprima aveva dato ordine che il suo servo debitore fosse castigato, ma era stato invece per sentimento d’una grande carità e d’una eccessiva tenerezza; imperciocché voleva che quel servo fosse colpito dal terrore di quella minaccia, e che indi avesse ricorso alla preghiera per arrestare quella rigorosa sentenza ed impedirne l’esecuzione. Or ecco appunto la condotta di un Dio, pieno di misericordia e di amore per noi. Prima di colpire, fa intendere le sue terribili minacce, e sveglia nel cuore del peccatore la voce del timore e del rimorso, lo avverte dei castighi che lo aspettano, e così gli ispira il pensiero di far di tutto affine di evitarli. E se il peccatore, assecondando le divine ispirazioni, si getta pentito ai piedi di Gesù Cristo nel Sacramento della penitenza, e sinceramente lo supplica di perdonargli, Iddio si muove subito a misericordia, e gli accorda il perdono richiesto per quanto grandi e numerosi siano i peccati commessi; poiché egli protesta che non può rigettare un cuore umiliato e contrito. Questo apparisce da molti esempi della sacra Scrittura. Il profeta Giona da parte di Dio intima ai Niniviti, che in pena delle loro iniquità essi quanto prima saranno sterminati, e la loro città distrutta. Ma che? I Niniviti, spaventati a tali minacce, si umiliano, piangono i loro peccati, si pentono di vero cuore e fan penitenza; e Iddio placato li risparmia, concede loro il perdono, ed usa misericordia. La Maddalena è una pubblica peccatrice scandalosissima. Umiliata e pentita si getta ai piedi di Gesù, e piange amaramente. Gesù legge nel cuore di lei, conosce che le sue lagrime sono sincere, e subito le accorda il perdono. Uno dei due ladroni crocifissi sul Calvario, tutto umiliato e compunto, si raccomanda a Gesù Cristo; ed Egli che lo vede pentito di vero cuore de’ suoi misfatti, gli garantisce che ancora quel giorno sarebbe con Lui in paradiso. Ecco la infinita misericordia di Dio e la gran potenza ed efficacia del pentimento! Beati noi se giungiamo a concepirlo nel nostro cuore! Fossimo stati anche i più grandi peccatori del mondo, potremo con gran fiducia attendere il perdono. Mescolando noi le nostre preghiere e le lagrime del nostro cuore al Sangue adorabile di Gesù Cristo, questo divin Sangue ci viene applicato e ci purifica da ogni peccato, restiamo insomma perdonati di ogni debito. – Ecco adunque perché i Santi, riconoscendo a fondo la condiziono imposta da Dio alla sua misericordia, non cessavano in tutta la vita di piangere le loro colpe e di supplicare Iddio a volerle loro perdonare. S. Pietro, dopo aver negato con falso giuramento di conoscere Gesù Cristo, pianse amaramente, e continuò poi a piangere tutta la vita per modo, che le lagrime copiose, che’ scorrevano sulle sue guance, vi avevano formati due solchi. San Girolamo dice di se stesso: Sempre pianti! sempre sospiri e singhiozzi! E dopo che ho a lungo sospirato e pianto, il mio cuore sembra elevarsi alle regioni degli spiriti beati. Sant’Agostino scrisse un libro intitolato Confessioni, dal quale apparisce con quanta amarezza e perseveranza piangesse i peccati della sua gioventù, e pregasse Iddio. Quando fu presso a morire recitò ancora i sette salmi penitenziali, ed esortò alla penitenza quelli che lo circondavano. La penitente Taide si chiuse in una angusta cella, vivendo scarsamente a pane ed acqua; e per tre anni continui umiliatæ lagrimosa, con grande compunzione di cuore ripeteva queste parole: O Tu, che m’hai creata, abbi pietà di me; riputandosi indegna di far altra orazione dopo i gravi peccati che aveva commessi. S. Luigi Gonzaga, ancor fanciullino, prese un giorno di nascosto ai soldati di suo padre un po’ di polvere da cannone, e altra volta ascoltò dalla loro bocca alcune parolacce inconvenienti, e le ripeté senza capirne neppure il significato. Divenuto un po’ grandicello, e riconosciuti questi suoi falli, ne concepì sì vivo dolore, che quando la prima volta si presentò al sacerdote per confessarsi, cadde tramortito ai piedi di lui per l’intensità del pentimento. Quei due sì leggeri mancamenti poi gli furono oggetto di gravissimo rammarico per tutta la vita, e non finiva mai di chiederne a Dio perdono con dirottissime lagrime, e di espiarli con le più aspre penitenze. Così facevano i Santi, e con grande vantaggio delle loro anime, e così procuriamo di fare ancor noi, affinché il Signore mosso a nostra compassione perdoni anche a noi ogni nostro debito.

3. Se non che, se Iddio è così facile ad usare misericordia con noi, Egli vuole altresì che noi siamo facili ad usarla verso gli altri. Di questo Egli ci fa una legge assoluta, con la minaccia di non perdonare a noi se noi non perdoniamo agli altri. Ce lo fa intendere chiaramente col resto della parabola: Ma quel servo uscito appena dal suo padrone, trovò uno de1 suoi conservi, che gli doveva cento danari; e presolo per la gola, lo strozzava, dicendo: Pagami quello che devi. E il conservo prostrato a’ suoi piedi, lo supplicava, dicendo: Abbi meco pazienza, e io ti soddisferò interamente. Ma quegli non volle, e andò a farlo mettere in prigione fino a tanto che l’avesse soddisfatto. Ma avendo gli altri conservi veduto tal fatto, grandemente se ne attristarono; e andarono e riferirono al padrone tutto quello che era avvenuto. Allora il padrone lo chiamò a sé, e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché ti sei a me raccomandato: non dovevi adunque anche tu aver pietà d’un tuo conservo, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato, lo diede in mano dei carnefici, per fino a tanto che avesse pagato tutto il debito. Terminava poi il Salvatore dicendo: Nella stessa guisa farà con voi il mio Padre celeste, se di cuore non perdonerete ciascheduno al proprio fratello. – Ecco adunque la condizione indispensabile ad essere perdonati da Dio dei nostri peccati: dobbiamo ancor noi perdonare agli altri. Procuriamo pertanto di essere esatti nel praticarla. Non sia mai che conserviamo astio nel cuore verso alcuno che ci abbia offesi, ma generosamente perdoniamo qualsiasi ingiuria ci sia stata fatta, pensando che per quanto grave essa sia, non sarà tuttavia mai così grave come quelle che noi abbiamo fatte a Dio. Ma più ancora che il timore di non essere perdonati noi, ci muova a perdonare agli altri l’amore e l’esempio ammirabile del divin Redentore. Gesù Cristo vivendo sopra di questa terra si fece una gloria di perdonare sempre tutte le ingiurie che gli vennero fatte da’ suoi nemici. Osservate infatti. Egli è attorniato da ogni parte di nemici invidiosi delle sue glorie: alcuni screditano i suoi miracoli come prestigi infernali, altri tacciano le sue dottrine come arti maliziose per sedurre la plebe incauta, altri lo calunniano come uomo ambizioso, avido di farsi re, altri lo perseguitano con le pietre alla mano, altri tentano di precipitarlo dall’erta cima di un monte: e con tutto ciò Gesù Cristo soffre e perdona. Tratta con un affetto ineffabile Giuda nell’atto stesso che lo tradisce, riattacca l’orecchio a Malco che si è fatto incontro per catturarlo; dà un’occhiata di compassione a Pietro, che lo ha negato, ed infine sopra della croce prega il suo Divin Padre a perdonare i suoi crocifissori e li scusa del loro esecrando eccesso. Oh se siamo Cristiani, vale a dire veri seguaci di Gesù Cristo, ci deve colpire un sì ammirabile esempio e ci deve animare a praticare esattamente ancor noi la legge del perdono. Animo adunque, esaminiamo la nostra coscienza, e se vi troviamo qualche risentimento, qualche rancore, qualche odio facciamone tosto sacrifizio ai piedi della croce di Gesù Cristo. Disponiamoci a stendere amichevole la mano ed a rivolgere affettuose parole a chi ci avesse offesi. Allora non dovremo avere più alcun timore quando recitiamo nel Pater Noster quelle parole: Rimetti a noi i nostri debiti, siccome noi li rimettiamo ai nostri debitori; anzi noi le ripeteremo con grande confidenza e certezza, che avendo noi perdonato agli altri, Iddio pietoso perdonerà anche a noi.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit. [Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta

Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui. [Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericodia restituire a noi la salvezza.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus. [L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.
[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro].

Preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Per l’ordinario:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

MESSE PER I DEFUNTI (2019)

MESSA PER I DEFUNTI (2019)

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:
[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.
[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
 [Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii. [In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

OMELIA

v.https://www.exsurgatdeus.org/2019/11/01/i-sermoni-del-curato-dars-2-novembre-commemorazione-dei-fedeli-defunti/

CREDO ….

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium. [Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Comunione spirituale https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

Preghiere leonine

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

Orinario della Messa.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus


4 Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.
[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.
[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam. Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.
[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

Credo…

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: 2 Novembre, COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI

2 Novembre.

COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI.

(PRIMO SERMONE).

Venit nox, quando nemo potest operati.

Vien la notte, in cui niuno può lavorare.

(S. GIOVANNI IX, 4).

Tal’è, miei fratelli, la crudele e terribile condizione, in cui si trovano adesso i nostri padri e le nostre madri, i nostri parenti e i nostri amici, che sono usciti da questo mondo senza aver interamente soddisfatto alla giustizia di Dio. Li ha condannati a passare lunghi anni nel carcere tenebroso del purgatorio, ove la sua giustizia rigorosamente s’aggrava su loro, finché le abbiano interamente pagato il loro debito. «Oh! com’è terribile, dice San Paolo, cader nelle mani di Dio vivente! » (Hebr., X, 31) Ma perché, fratelli miei, sono oggi salito in pulpito? Che cosa vi dirò? Ah! vengo da parte di Dio medesimo; vengo da parte de’ vostri poveri parenti, per risvegliare in voi quell’amore di riconoscenza, di cui siete ad essi debitori: vengo a rimettervi sott’occhio tutti i tratti di bontà e tutto l’amore ch’ebbero per voi, quand’erano sulla terra: vengo a dirvi che bruciano tra le fiamme, che piangono, che chiedono ad alte grida il soccorso delle vostre preghiere e delle vostre opere buone. Mi par d’udirli gridare dal fondo di quel mare di fuoco che li tormenta: « Ah! dite ai nostri padri, alle nostre madri, ai nostri figliuoli e a tutti i nostri parenti, quanto sono atroci i mali che soffriamo. Noi ci gettiamo a’ loro piedi per implorare l’aiuto delle loro preghiere. Ah! dite ad essi che da quando ci separammo da loro, siamo qui a bruciar tra le fiamme! Oh ! chi potrà rimaner insensibile al pensiero di tante pene che soffriamo? » Vedete voi, miei fratelli, e udite quella tenera madre, quel buon padre, e tutti quei vostri congiunti che vi tendono le mani? « Amici miei, gridano gemendo, strappateci a questi tormenti, poiché lo potete ». Vediamo dunque, fratelli miei:

1° la grandezza de’ tormenti che soffrono le anime nel purgatorio;

2° quali mezzi abbiamo di sollevarli, cioè le nostre preghiere, le nostre opere buone, e soprattutto il santo Sacrificio della Messa.

I. — Non voglio trattenermi a dimostrarvi l’esistenza del Purgatorio: sarebbe tempo perduto. Niuno di voi ha su questo punto alcun dubbio. La Chiesa, a cui Gesù Cristo ha promesso l’assistenza del suo Santo Spirito, e che non può quindi né ingannarsi né ingannare, ce l’insegna in modo ben chiaro ed evidente. È certo e certissimo che v’è un luogo ove le anime dei giusti finiscono d’espiare i loro peccati prima d’essere ammesse alla gloria del paradiso per esse sicura. Sì, miei fratelli, ed è articolo di fede: se non abbiam fatto penitenza proporzionata alla gravezza e all’enormità de’ nostri peccati, sebben perdonati nel santo tribunale della penitenza, saremo condannati ad espiarli nelle fiamme del purgatorio. Se Dio, essenziale giustizia, non lascia senza premio un buon pensiero, un buon desiderio e la minima buona azione, neppur lascerà impunita una colpa, per quanto leggera; e noi dovremo andare a patire in Purgatorio, onde finir di purificarci, per tutto il tempo che esigerà la divina giustizia. Gran numero di passi della santa Scrittura ci mostrano che, quantunque i nostri peccati ci siano stati perdonati, pure Iddio c’impone anche l’obbligo di patire in questo mondo per mezzo di pene temporali, o nell’altro tra le fiamme del Purgatorio. Vedete che cosa accadde ad Adamo: essendosi pentito dopo il suo peccato. Dio l’assicurò che gli aveva perdonato, e tuttavia lo condannò a far penitenza per oltre 900 anni (Gen. III, 17-19); penitenza che sorpassa quanto può immaginarsi. Osservate ancora (II Re, XXIV): David, contro il beneplacito di Dio, ordina il novero de’ suoi sudditi; ma, spinto dai rimorsi della sua coscienza, riconosce il suo peccato, si getta con la faccia per terra e prega il Signore a perdonargli. E Dio, impietosito pel suo pentimento, gli perdona di fatto; ma tuttavia gli manda Gad che gli dica: « Principe, scegli uno de’ tre flagelli, che Dio ti ha apparecchiato in pena del tuo peccato: la peste, la guerra e la fame ». David risponde: «Meglio è cadere nelle mani del Signore, di cui tante volte ho sperimentato la misericordia, che in quelle degli uomini ». Scegli quindi la peste che durò tre giorni e gli tolse 70000 sudditi: e se il Signore non avesse fermato la mano dell’Angelo, già stesa sulla città, tutta Gerusalemme sarebbe rimasta Spopolata. David, vedendo tanti mali cagionati dal suo peccato, chiese in grazia a Dio che punisse lui solo, e risparmiasse il suo popolo ch’era innocente. Ohimè! miei fratelli, per quanti anni dovremo soffrire nel purgatorio noi che abbiam commesso tanti peccati: e che, col pretesto d’averli confessati non facciamo penitenza alcuna e non li piangiamo? Quanti anni di patimenti ci aspettano nell’altra vita! Ma come potrò io farvi il quadro straziante delle pene che soffrono quelle povere anime, poiché i SS. Padri ci dicono che i mali cui esse son condannate in quel carcere, sembrano pari ai dolori che Gesù Cristo ha sofferto nel tempo della sua passione? E tuttavia è certo che se il minimo dei dolori che ha patito Gesù Cristo fosse stato diviso tra tutti gli uomini, sarebbero tutti morti per la violenza del dolore. Il fuoco del Purgatorio è il fuoco medesimo dell’inferno, con la sola differenza che non è eterno. Oh! bisognerebbe che Dio. nella sua misericordia permettesse ad una di quelle povere anime, che ardono tra quelle fiamme, di comparir qui a luogo mio, circondata dal fuoco che la divora, e farvi essa il racconto delle pene che soffre. Bisognerebbe, fratelli miei, ch’essa facesse risuonar questa chiesa delle sue grida e de’ suoi singhiozzi; forse ciò riuscirebbe alfine ad intenerire i vostri cuori. « Oh! quanto soffriamo, ci gridano quelle anime; o nostri fratelli, liberateci da questi tormenti: voi lo potete! Ah! se sentiste il dolore d’essere separate da Dio! » Crudele separazione! Ardere in un fuoco acceso dalla giustizia d’un Dio! Soffrir dolori che uomo mortale non può comprendere! Esser divorato dal rammarico, sapendo che potevamo si agevolmente sfuggirli! «Oh! miei figliuoli, gridan quei padri e quelle madri, potete abbandonarci? Abbandonar noi che vi abbiam tanto amato? Potete coricarvi su un soffice letto e lasciar noi stesi sopra un letto di fuoco? Avrete il coraggio di darvi in braccio ai piaceri e alla gioia, mentre noi notte e giorno siam qui a patire ed a piangere? Possedete pure i nostri beni e le nostre case, godete il frutto delle nostre fatiche, e ci abbandonate in questo luogo di tormenti, ove da tanti anni soffriamo pene si atroci?… E non un’elemosina, non una Messa che ci aiuti a liberarci!… Potete alleviar le nostre pene, aprir la nostra prigione e ci abbandonate! Oh! son pur crudeli i nostri patimenti! » Si, miei fratelli, in mezzo alle fiamme si giudica ben altrimenti di tutte codeste colpe leggere, seppure si può chiamar leggero ciò che fa tollerare sì rigorosi dolori. « O mio Dio, esclamava il Pe-profeta, guai all’uomo, anche più giusto, se lo giudicate senza misericordia! » (Ps. CXLII, 2). « Se avete trovato macchie nel sole e malizia negli Angeli, che sarà dell’uomo peccatore? » (I Piet. IV, 18). E per noi che abbiam commesso tanti peccati mortali, e non abbiamo ancor fatto quasi nulla per soddisfare alla giustizia divina, quanti anni di purgatorio!… – « Mio Dio, diceva S. Teresa, qual anima sarà tanto pura da entrare in cielo senza passare per le fiamme vendicatrici? » Nella sua ultima malattia essa ad un tratto esclamò: «O giustizia e potenza del mio Dio, siete pur terribile! » Durante la sua agonia Dio le fece vedere la sua santità, quale la vedono in cielo gli Angeli e i Santi, il che le cagionò sì vivo terrore, che le sue suore, vedendola tutta tremante e in preda ad una straordinaria agitazione, gridarono piangendo: « Ah! madre nostra, che cosa mai vi è accaduto? Temete; ancora la morte dopo tante penitenze, e lacrime sì copiose ed amare? » — « No, mie figliuole, rispose S. Teresa, non temo la morte; anzi la desidero per unirmi eternamente al mio Dio ». — « Vi spaventano dunque i vostri peccati dopo tante macerazioni? » — « Sì, mie figliuole, rispose, temo i miei peccati, ma temo più ancora qualche altra cosa ». — « Forse il giudizio? » — « Sì, rabbrividisco alla vista del conto che dovrò rendere a Dio, il quale in quel momento sarà senza misericordia; ma vi è oltre a questo una cosa il cui solo pensiero mi fa morire di spavento ». Quelle povere suore grandemente si angustiavano. « Ohimè! Sarebbe mai l’inferno? » — « No, disse la santa, l’inferno, per grazia di Dio, non è per me: Oh! sorelle mie, è la santità di Dio! Mio Dio. abbiate pietà di me! La mia vita dev’essere confrontata con quella di Gesù Cristo medesimo! Guai a me, se ho la minima macchia, il minimo neo! Guai a me, se ho pur l’ombra del peccato! ». — « Ohimè! esclamarono quelle povere religiose, qual sarà dunque la nostra sorte?…  E di noi che sarà, fratelli miei, di noi che forse con tutte le nostre penitenze ed opere buone non abbiamo ancor soddisfatto per un solo peccato perdonatoci nel tribunale della penitenza? Ah! quanti anni e quanti secoli di tormenti per punirci!… Pagheremo pur cari tutti quei falli che riguardiamo come un nulla, come quelle bugie dette per divertimento, le piccole maldicenze, la non curanza delle grazie che Dio ci fa ad ogni momento, quelle piccole mormorazioni nelle tribolazioni ch’Egli ci manda! No, miei fratelli, non avremmo il coraggio di commettere il minimo peccato, se potessimo intendere quale offesa fa a Dio, e come merita d’esser punito rigorosamente anche in questo mondo. – Leggiamo nella santa Scrittura (III Re, XII) che il Signore disse un giorno ad uno de’ suoi profeti: « Va’ a mio nome da Geroboamo per rimproverargli l’orribilità della sua idolatria: ma ti proibisco di prendere alcun nutrimento né in casa sua, né per via ». Il profeta obbedì tosto, e s’espose anche a sicuro pericolo di morte. Si presentò dinanzi al re, e gli rimproverò il suo delitto, come gli aveva detto il Signore. Il re, montato in furore perché il profeta aveva avuto ardire di riprenderlo, stende la mano e comanda che sia arrestato. La mano del re rimase tosto disseccata. Geroboamo, vedendosi punito, rientrò in se stesso; e Dio, mosso dal suo pentimento, gli perdonò il suo peccato e gli restituì sana la mano. Questo benefizio mutò il cuore del re, che invitò il profeta a mangiare con lui. « No, rispose il profeta, il Signore me l’ha proibito: quando pure mi donaste metà del vostro regno, non lo farò ». Mentre tornava indietro, trovò un falso profeta, che si diceva mandato da Dio, il quale l’invitò a mangiar seco. Si lasciò ingannare da quel discorso, e prese un poco di nutrimento. Ma, uscendo dalla casa del falso profeta, incontrò un leone d’enorme grossezza, che si gettò su lui e lo sbranò. Or se chiedete allo Spirito Santo, quale sia stata la cagione di quella morte, vi risponderà che la disobbedienza del profeta gli meritò tal castigo. Vedete pure Mosè, che era sì caro a Dio: per aver dubitato un momento della sua potenza, battendo due volte una rupe per farne zampillar l’acqua, il Signore gli disse: « Aveva promesso di farti entrare nella terra promessa, ove latte e miele scorrono a rivi; ma per punirti d’aver battuto due volte la rupe, come se una sola non fosse stata bastante, andrai fino in vista di quella terra di benedizione, e morrai prima d’entrarvi » (Num. XX, 11, 12). Se Dio, miei fratelli, punì così rigorosamente peccati così leggeri, che cosa sarà d’una distrazione nella preghiera, del girare il capo in chiesa, ecc.?.. Oh! siam pur ciechi! Quanti anni e quanti secoli di Purgatorio ci prepariamo per tutte queste colpe che riguardiam come cose da nulla! … Come muteremo linguaggio, quando saremo tra quelle fiamme ove la giustizia di Dio si fa sentire così rigorosamente!… Dio è giusto, fratelli miei, giusto in tutto quello che fa. Quando ci ricompensa della minima buona azione, lo fa oltre i confini di ciò che possiamo desiderare; un buon pensiero, un buon desiderio, cioè il desiderar di fare qualche opera buona, quand’anche non si potesse fare, Ei non lascia senza ricompensa; ma anche quando si tratta di punirci, lo fa con rigore, e quando pur fossimo rei d’una sola colpa leggera, saremmo gettati nel Purgatorio. Quest’è verissimo, perché leggiamo nelle vite de’ Santi che parecchi sono giunti al cielo sol dopo esser passati per le fiamme del Purgatorio. S. Pier Damiani racconta che sua sorella stette parecchi anni nel purgatorio per avere ascoltato una canzone cattiva con qualche po’ di piacere. – Si narra che due religiosi si promisero l’un l’altro che, chi morisse pel primo, verrebbe a dire al superstite in quale stato si trovasse; infatti Dio permise al primo che morì di comparire all’amico, egli disse ch’era stato quindici giorni al purgatorio per aver amato troppo di far la propria volontà. E siccome l’amico si rallegrava con lui perché vi fosse stato sì poco : « Avrei voluto piuttosto, gli disse il defunto, esser scorticato vivo per diecimila anni continui; perché un simile tormento non avrebbe potuto ancora paragonarsi a ciò che ho patito tra quelle fiamme ». Un prete disse ad uno de’ suoi amici che Dio l’aveva condannato a più mesi di purgatorio per aver tardato ad eseguire un testamento in cui si disponeva per opere buone. Ohimè! miei fratelli, quanti tra quei che mi ascoltano debbono rimproverarsi un simile fatto! Quanti forse da otto o dieci anni ebbero da’ loro parenti od amici l’incarico di far celebrar Messe, distribuir limosine, e han trascurato tutto! Quanti, per timore di trovar l’incarico di far qualche opera buona, non si vogliono dar la briga neppur di guardare il testamento fatto a favor loro da parenti o da amici! Ohimè! quelle povere anime son prigioniere tra quelle fiamme, perché non si vogliono compiere le loro ultime volontà! Poveri padri e povere madri, vi siete sacrificati per mettere in miglior condizione i vostri figli o i vostri eredi; avete forse trascurato la vostra salute per accrescere la loro fortuna: vi siete fidati sulle opere buone, che avreste lasciate per testamento! Poveri parenti! Foste pur ciechi a dimenticare voi stessi! – Forse mi direte: « I nostri parenti son vissuti bene, erano molto buoni ». Ah! quanto poco ci vuole per cader tra quelle fiamme! Udite ciò che disse su questo proposito Alberto Magno, le cui virtù splendettero in modo straordinario: rivelò un giorno ad un amico che Dio l’aveva fatto andare al purgatorio, perché aveva avuto un lieve pensiero di compiacenza pel suo sapere. Aggiungete (cosa che desta anche maggior meraviglia) che vi son Santi canonizzati, i quali dovettero passare pel purgatorio. S. Severino, Arcivescovo di Colonia, apparve ad uno de’ suoi amici molto tempo dopo la sua morte, e gli disse ch’era stato al Purgatorio per aver rimandato alla sera certe preghiere che doveva dire al mattino. Oh! quanti anni di purgatorio per quei Cristiani, che senza difficoltà differiscono ad altro tempo le loro preghiere, perché han lavoro pressante! Se desiderassimo sinceramente la felicità di possedere Iddio, eviteremmo le piccole colpe, come le grandi, poiché la separazione da Dio è tormento sì orribile a quelle povere anime! – I santi Padri ci dicono che il Purgatorio è un luogo vicino all’inferno; il che si capisce agevolmente, perché il peccato veniale è vicino al peccato mortale; ma credono che non tutte le anime per soddisfare alla giustizia divina sian chiuse in quel carcere, e che molte patiscano sul luogo stesso ove hanno peccato. Infatti S. Gregorio Papa ce ne dà una prova manifesta. Riferisce che un santo prete infermo andava ogni giorno, per ordine del medico, a prender bagni in un luogo appartato; e ogni giorno vi trovava un personaggio sconosciuto, che l’aiutava a scalzarsi e, fatto il bagno, gli presentava un panno per asciugarsi. Il santo prete mosso da riconoscenza, tornando un giorno da celebrare la santa Messa, presentò allo sconosciuto un pezzo di pane benedetto. « Padre mio, gli rispose egli, voi m’offrite cosa di cui non posso far uso, quantunque mi vediate rivestito d’un corpo. Sono il Signore di questo luogo, che faccio qui il mio purgatorio». E scomparve dicendo: «Ministro del Signore, abbiate pietà di me! Oh! quanto soffro! Voi potete liberarmi; offrite, ve ne prego, per me il santo Sacrifizio della Messa, offrite le vostre preghiere e le vostre infermità. Il Signore mi libererà ». Se fossimo ben convinti di questo, potremmo sì facilmente dimenticare i nostri parenti, che ci stanno forse continuamente d’intorno? Se Dio permettesse loro di mostrarsi visibilmente, li vedremmo gettarsi a’ nostri piedi. « Ah! figli miei, direbbero quelle povere anime, abbiate pietà di noi! Deh! non ci abbandonate! ». Sì, miei fratelli, la sera andando al riposo, vedremmo i nostri padri e le madri nostre richiedere il soccorso delle nostre preghiere; li vedremmo nelle nostre case, nei nostri campi. Quelle povere anime ci seguono dappertutto; ma, ohimè! son poveri mendicanti dietro a cattivi ricchi. Han bell’esporre ad essi le loro necessità e i loro tormenti; quei cattivi ricchi sgraziatamente non se ne commuovono punto. « Amici miei, ci gridano, un Patere un Ave! una Messa! » Ecché? Saremo ingrati a segno da negare ad un padre, ad una madre una parte sì piccola dei beni che ci hanno acquistato o conservato con tanti stenti? Ditemi, se vostro padre, vostra madre o uno de’ vostri figliuoli fossero caduti nel fuoco, e vi tendessero le mani per pregarvi a liberarli, avreste coraggio di mostrarvi insensibili, e lasciarli ardere sotto i vostri occhi? Or la fede c’insegna che quelle povere anime soffrono tali pene cui nessun uomo mortale sarà mai capace di intendere Se vogliamo assicurarci il cielo, fratelli miei, abbiamo gran divozione a pregar per le anime del Purgatorio. Può ben dirsi che questa divozione è segno quasi certo di predestinazione, ed efficace motivo di salute. La santa Scrittura nella storia di Gionata ci mette sott’occhio un mirabile paragone (1 Re XIV). Saul, padre di Gionata, aveva proibito a tutti i soldati, sotto pena di morte, di prendere alcun nutrimento prima che i Filistei fossero stati interamente disfatti. Gionata, che non aveva udito quella proibizione, sfinito com’era dalla fatica, intinse in un favo di miele la punta del suo bastone e ne gustò. Saul consultò il Signore per sapere, se alcuno aveva violato la proibizione. Saputo che l’aveva violata suo figlio, comandò che mettessero le mani su Gionata, dicendo: « Mi punisca il Signore, se oggi non morrai ». Gionata. vedendosi dal padre condannato a morte, per aver violato una proibizione che non aveva udita, volse lo sguardo al popolo, e, piangendo, pareva rammentare tutti i servigi che gli aveva reso, tutta la benevolenza che aveva loro usata, il popolo si gettò subito ai piedi di Saul: « Ecché? Farai morir Gionata, che ha poc’anzi salvato Israele?Gionata che ci ha liberati dalle inani de’ nostri nemici? No, no: non cadrà dal suo capo un capello: troppo ci sta a cuore conservarlo: troppo bene ci ha fatto, e non è possibile dimenticarlo sì presto ». Ecco l’immagine sensibile di ciò che avviene all’ora della morte. Se, per nostra buona ventura, avremo pregato per le anime del purgatorio, quando compariremo d’innanzi al tribunale di Gesù Cristo per rendergli conto di tutte le nostre azioni, quelle anime si getteranno ai piedi del Salvatore dicendo: «Signore, grazia per questa anima! Grazia, misericordia per essa! Abbiate pietà, mio Dio, di quest’anima così caritatevole, che ci ha liberate dalle flamine, e h a soddisfatto per noi alla vostra giustizia! Mio Dio, mio Dio, dimenticate, ve ne preghiamo le sue colpe, com’essa vi ha fatto dimenticare le nostre! » Oh! quanto efficaci son questi motivi per ispirarvi una tenera compassione verso quelle povere anime sofferenti! Ohimè! esse ben presto sono dimenticate! Si ha pur ragione di dire che il ricordo de’ morti svanisce insieme col suono delle campane. Soffrite, povere anime, piangete in quel fuoco acceso dalla giustizia divina; ciò non giova a nulla; nessuno vi ascolta; nessuno vi porge sollievo!… Ecco dunque, fratelli miei, la ricompensa di tanta bontà e di tanta carità ch’ebbero per noi mentre ancora vivevano. No, non siamo nel numero di questi ingrati; poiché lavorando alla loro liberazione, lavoreremo alla nostra salute.

II. — Ma, direte forse, come possiamo sollevarle e condurle al cielo! Se desiderate prestar loro soccorso, fratelli miei, vi farò vedere che è cosa facile il farlo; 1° per mezzo della preghiera e dell’elemosina; 2° per mezzo delle indulgenze; 3° soprattutto col santo sacrificio della Messa.

Dico primieramente per mezzo della preghiera.

Quando facciamo una preghiera per le anime del purgatorio, cediamo loro ciò che Dio ci concederebbe se la facessimo per noi; ma ohimè! quanto poca cosa sono le nostre preghiere, poiché è pur sempre un peccatore che prega per un colpevole! Mio Dio. Deve esser pur grande la vostra misericordia! … Possiamo ogni mattina offrire tutte le azioni della nostra giornata e tutte le nostre preghiere pel sollievo di quelle povere anime sofferenti. È ben poca cosa, certamente; ma ecco: facciamo ad esse come ad una persona, che abbia le mani legate e sia carica d’ un pesante fardello, a cui si venga di tratto in tratto a togliere qualche po’ di quel peso; a poco a poco si troverà libera del tutto. L’istesso accade alle povere anime del purgatorio, quando facciamo per esse qualche cosa: una volta abbrevieremo le loro pene di un’ora, un’altra volta d’un quarto d’ora, sicché ogni giorno avviciniamo al cielo.

Diciamo in secondo luogo che possiamo liberare le anime del purgatorio con le indulgenze, le quali a gran passi le conducono verso il paradiso. Il bene che loro comunichiamo è di prezzo infinito perché applichiamo ad essi i meriti del Sangue adorabile di Gesù Cristo, delle virtù della SS. Vergine e dei Santi, i quali han fatto maggiori penitenze che non richiedessero i loro peccati. Ah! se volessimo, quanto presto avremmo vuotato il purgatorio, applicando a queste anime sofferenti tutte le indulgenze che possiamo guadagnare!… Vedete, fratelli miei, facendo la Via Crucis, si possono guadagnare quattordici indulgenze plenarie (Congr. d. Indul. 1742). E si fa in più modi … (Nota del Santo andata persa – nota degli edit. francesi). Oh! siete pur colpevoli per aver lasciato tra quelle fiamme i vostri parenti, mentre potevate così bene e facilmente liberarli!

Il mezzo più efficace per affrettare la loro felicità è la santa Messa, poiché in essa non è più un peccatore che prega per un peccatore, ma un Dio eguale al Padre, che non saprà mai negargli nulla. Gesù Cristo ce ne assicura nel Vangelo; dicendo; « Padre, ti rendo grazie perché mi ascolti sempre ! » (Joan. XI, 41-42). Per meglio persuadercene, vi citerò un esempio dei più commoventi, da cui intenderete quanto grande efficacia abbia la santa Messa. È riferito nella storia ecclesiastica che, poco dopo la morte dell’imperator Carlo (Carlo il Calvo), un sant’uomo della diocesi di Reims, per nome Bernold, essendo caduto infermo e avendo ricevuto gli ultimi Sacramenti stette quasi un giorno senza parlare, e appena appena si poteva riconoscere che ancor vivesse; finalmente aprì gli occhi, e comandò a chi lo assisteva di far venir al più presto il suo confessore. Il prete venne tosto, e trovò il malato tutto in lacrime, il quale gli disse: «Sono stato trasportato all’altro mondo, e mi son trovato in un luogo ove ho veduto il Vescovo Pardula di Laon, che pareva vestito di cenci sudici e neri, e pativa orribilmente tra le fiamme; ei m’ha parlato così: « Poiché avete la buona sorte di tornare in terra, vi prego d’aiutarmi e darmi sollievo; potete anzi liberarmi, e assicurarmi la grande felicità di vedere Iddio ». — « Ma, gli ho risposto, come potrò procurarvi tale felicità? ». — « Andate da quelli che nel corso della mia vita ho beneficato, e dite loro che in ricambio preghino per me, e Dio mi userà misericordia ». Dopo fatto ciò che mi aveva comandato l’ho riveduto bello come un sole: non pareva più che soffrisse, e, nella sua gioia mi ringraziò dicendo: « Vedete quanti beni e quante felicità mi han procurato le preghiere e la santa Messa » . Poco più in là ho veduto re Carlo, che mi parlò così: « Amico mio, quanto soffro! Va dal Vescovo Iucmaro, e digli che son nei tormenti per non aver seguito i suoi consigli; ma faccio assegnamento su lui perché m’aiuti ad uscire da questo luogo di patimenti; raccomanda pure a tutti quelli i quali ho beneficato nel corso della mia vita che preghino per me, ed offrano il santo Sacrificio della Messa, e sarò liberato » . Andai dal Vescovo che si apparecchiava a dir Messa, e che, con tutto il suo popolo, si mise a pregare con tale intenzione. Rividi poi il re, rivestito dei suoi abiti regali, e tutto splendente di gloria: « Vedi, mi disse, qual gloria m’hai procurata: ormai eccomi felice per sempre » . In quell’istante sentii la fragranza d’uno squisito profumo, che veniva dal soggiorno de’ beati. « Mi ci accostai, dice il P. Bernold, e vidi bellezze e delizie, che lingua umana non è capace di esprimere » (V. Fleury T. VII, anno 877). Ciò dimostra quanto siano efficaci le nostre preghiere e le nostre opere buone, e specialmente la S. Messa, per liberar dai loro tormenti quelle povere anime. Ma eccone un altro esempio tratto anche questo dalla storia della Chiesa: è anche più meraviglioso. Un prete, informato della morte d’un suo amico, che amava solo per Iddio, non trovò mezzo più potente per liberarlo che andar tosto ad offrire il santo Sacrificio della Messa. Lo cominciò con tutto il possibile fervore e col dolore più vivo. Dopo aver consacrato il Corpo adorabile di Gesù Cristo, lo prese tra mano, e levando al cielo le mani e gli occhi, disse: « Eterno Padre, io vi offro il Corpo e l’Anima del vostro carissimo Figliuolo. Eterno Padre! Rendetemi l’anima dell’amico mio, che soffre tra le fiamme del Purgatorio! Sì, mio Dio, io son libero d’offrirvi o no il vostro Figliuolo, voi potete accordarmi ciò che vi domando! Mio Dio facciamo il cambio; liberate l’amico mio e vi darò il vostro Figliuolo: ciò che vi offro val molto più di ciò che vi domando ». Questa preghiera fu fatta con fede sì viva, che nel punto stesso vide l’anima dell’amico uscir dal purgatorio e salire al cielo. Si narra pure che, mentre un prete diceva la S. Messa per un’anima del Purgatorio, si vide venire in forma di colomba e volare al cielo. S. Perpetua raccomanda assai vivamente di pregare le anime del purgatorio. Dio le fece vedere in visione suo fratello che ardeva tra le fiamme, e che pure era morto di soli sette anni, dopo aver sofferto per quasi tutta la vita d’un cancro che lo faceva gridar giorno e notte. Essa fece molte preghiere e molte penitenze per la sua liberazione e lo vide salire al cielo splendente come un angelo. Oh! son pur beati, fratelli miei, quelli che hanno di tali amici! A mano a mano che quelle povere anime s’avvicinano al cielo, par che soffrano anche di più. Sono come Assalonne: dopo essere stato qualche tempo in esilio torna a Gerusalemme, ma col divieto di veder suo padre che l’amava teneramente. Quando gli si annunziò che rimarrebbe vicino a suo padre, ma non potrebbe vederlo, esclamò: « Ah! vedrò dunque le finestre e i giardini di mio padre e non lui? Ditegli che voglio piuttosto morire, anziché rimaner qui, e non aver la consolazione di vederlo. Ditegli che non mi basta aver ottenuto il suo perdono. ma è ancor necessario che mi conceda la sorte felice di rivederlo » [II Re, XIV — Veramente le parole qui citate furon dette da Assalonne, non quando udì la sentenza del Re, ma due anni dopo. (Nota del Traduttore)]. Così quelle povere anime, vedendosi tanto vicine a uscire dal loro esilio, sentono accendersi così vivamente il loro amor verso Dio, e il desiderio di possederlo, che pare non possano più resistervi. « Signore, gridano esse, rimirateci con gli occhi della vostra misericordia: eccoci al fine delle nostre pene ». — « Oh! siete pur felici, gridano a noi di mezzo alle fiamme che le tormentano, voi che potete ancora sfuggire questi patimenti! … ». Mi pare anche d’udir quelle povere anime, che non han né parenti, né amici: Ah! se vi resta ancora un poco di carità, abbiate pietà di noi, che da tanti anni siamo abbandonate in queste fiamme accese dalla giustizia divina! Oh! se poteste comprendere la grandezza de’ nostri patimenti, non ci abbandonereste come fate! Mio Dio! nessuno dunque avrà pietà di noi? È certo, miei fratelli, che quelle povere anime non possono nulla per sé; possono però molto per noi. E prova di questa verità è che nessuno ha invocate le anime del purgatorio senza aver ottenuta la grazia che domandava. E ciò s’intende agevolmente: se i Santi, che sono in cielo e non han bisogno di noi, si danno pensiero della nostra salute, quanto più le anime del purgatorio che ricevono i nostri benefìci spirituali a proporzione della nostra santità. « Non ricusate, o Signore, (dicono) questa grazia a quei Cristiani che si adoperano con ogni cura a trarci da queste fiamme! » Una madre potrà forse far a meno di chiedere a Dio qualche grazia per figli, che ha tanto amato e che pregano per la sua liberazione? Un pastore, che in tutto il corso della sua vita ebbe tanto zelo per la salute de’ suoi parrocchiani, potrà non chieder per essi, anche dal purgatorio, le grazie, di cui hanno bisogno per salvarsi? Sì, miei fratelli, quando avremo da domandar qualche grazia, rivolgiamoci con fiducia a quelle anime sante e saremo sicuri d’ottenerla. Qual buona ventura per noi avere, nella divozione alle anime del purgatorio, un mezzo così eccellente per assicurarci il cielo! Vogliamo chiedere a Dio il perdono de’ nostri peccati? Rivolgiamoci a quelle anime che da tanti anni piangono tra le fiamme le colpe da loro commesse. Vogliamo domandare a Dio il dono della perseveranza? Invochiamole, fratelli miei, che esse ne sentono tutto il pregio; poiché solo quei che perseverano vedranno Iddio. Nelle nostre malattie, nei nostri dolori volgiamo le nostre preghiere verso il Purgatorio, ed otterranno il loro frutto. Che cosa concluder, miei fratelli, da tutto questo? Eccolo. È certo molto scarso il numero degli eletti, che sfuggono interamente le pene del purgatorio; e i patimenti a cui quelle anime sono condannate, son molto superiori a quanto potremo intenderne. È certo pure che sta in nostra mano quanto può dar sollievo alle anime del Purgatorio, cioè le nostre preghiere, le nostre penitenze, le nostre elemosine e soprattutto la santa Messa. Finalmente siam certi che quelle anime, così piene di carità, ci otterranno mille volte più di quello che loro daremo. Se un giorno saremo nel Purgatorio, quelle anime non lasceranno di chiedere a Dio l’istessa grazia che avremo ad esse ottenuto; poiché han pur sentito quanto si soffre in quel luogo di dolori e quanto è crudele la separazione da Dio. Nel corso di quest’ottava consacriamo qualche momento ad opera sì bene spesa. Quante anime andranno in paradiso pel merito della santa Messa e delle nostre preghiere!… Ognun di noi pensi a’ suoi parenti, e a tutte le povere anime da lunghi anni abbandonate! Sì, fratelli miei, offriamo in loro sollievo tutte le nostre azioni. Cosi piaceremo a Dio che ne desidera tanto la liberazione, e ad esse procureremo la felicità del godimento di Dio. Il che io vi desidero.

SACRO CUORE DI GESÙ (24): Il Sacro Cuore di Gesù, e l’Eucaristia

(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXIV

Il Sacro Cuore di Gesù e l’Eucaristia

Quando Iddio ebbe creato il cielo e la terra con tutte le loro meraviglie, gettando uno sguardo complessivo sopra di esse le riconobbe tutte buone assai : Viditque Deus cuncta quæ fecerat, et erant valde bona. (Gen. I, 31) Sì, tutte le opere della creazione erano belle, erano grandi, erano perfette, e non solamente i cieli dovevano farsi a narrare la gloria di Dio, e il firmamento ad annunziare il lavoro delle sue mani, ma il giorno ancora doveva imprendere a dire questa parola all’altro giorno, e la notte a darne cognizione all’altra notte, affine di far conoscere a tutti i secoli, che le opere di Dio sono perfette: Dei perfecta sunt opera. (Deut. XXXII, 4). Ora, quello che Dio Creatore poté vedere di tutte le opere della creazione, è quello che Gesù Cristo Redentore poté vedere di tutte le opere della redenzione; perciocché tra le opere di Gesù Cristo ve ne ha forse qualcuna che non sia buona, che non sia bella, che non sia grande, che non sia perfetta?! Ma pure, o miei cari, come i grandi geni hanno dato quasi sempre una piena manifestazione della loro forza creativa In un’opera speciale, che però si eleva al di sopra di tutte le altre, così ha fatto il Genio di tutti i geni, nostro Signor Gesù Cristo. E l’opera che costituisce per eccellenza il suo capolavoroè la SS. Eucaristia. Già lo cantava migliaia di anni innanzi il santo Profeta: Memoriam fecit mirabilium suorum misericors et miserator Dominus, escam dedit timentibus se (P«. CX, 4), il Signore pieno di bontà e di misericordia ha fatto il memoriale delle sue meraviglie, apprestando il cibo divino a coloro che lo temono. Sì, fra tutti i Sacramenti, che Gesù Cristo nella sua infinita carità per gli uomini ha fatto uscire dalla ferita del suo Sacratissimo Cuore, questo tiene il primo posto, perché in esso non vi ha soltanto un segno della grazia, ma si trova l’Autore stesso della grazia, perché è la perfezione, il centro, il fine a cui tutti gli altri Sacramenti sotto ordinati, perché in sé solo raccoglie le virtù, le prerogative e le grazie di tutti gli altri. Quale prova adunque dell’amore di Gesù Cristo per noi in questo Sacramento! Senza dubbio, ad imitazione della Chiesa, è sopra di questa specialissima prova, che nella divozione al Sacro Cuore di Gesù Cristo dobbiamo fermare l’attenzione nostra. Pertanto cominciamo oggi a riconoscere come per la SS. Eucaristia Gesù Cristo ci abbia dato veramente una prova suprema di amore.

I . — Uno fra i più prepotenti bisogni del cuor dell’uomo è quello, senza dubbio, d’avere a sé vicino Iddio. Perciocché l’uomo creato da Dio non può non tendere a Lui e farne a meno. Epoiché egli nel suo essere è anima e corpo, perciò non è coll’anima soltanto che egli tende ad avere a sé dappresso Iddio, ma ancora col corpo. No, l’uomo non è, non può essere del tutto contento di possedere Iddio nella sua intelligenza per la fede e nel suo cuore per la grazia; egli vuole altresì vederlo coi suoi occhi, toccarlo con le sue mani, stringerlo nelle sue braccia, badarlocolle sue labbra, trovarsi insomma anche in relazioni sensibili con Lui, vivere anche corporalmente in unione e in compagnia di Lui. E la verità e realtà di queste tendenze dell’uomo riguardo a Dio sono comprovate dalla stessa idolatria, che per quasi quattromila anni trionfò in pressoché tutte le parti del mondo. Poiché sebbene colpevolmente gli uomini siano giunti a tale stravaganza da fabbricarsi con le loro mani degli idoli di metallo, di legno e di pietra e poi curvarsi davanti agli stessi esclamando: Ecco i nostri Dei; tuttavia questa inescusabile insensatezza non era altro maggiormente che la manifestazione di questo prepotente bisogno dell’uomo, d’aver Iddio a sé realmente presente, non era altro di più che il grido lanciato in alto dall’umanità follemente ingannata: « O Dio, discendi in mezzo a noi, sii marmo, sii legno, sii metallo, piuttosto di star lontano da noi. » Imperciocché sebbene l’orgoglio dei regnanti, l’interesse dei falsi sacerdoti, l’ignoranza dei popoli e il fascino delle passioni, l’astuzia e la potenza di satana, siano cause reali del culto degli idoli, tuttavia questa immensa aberrazione dello spirito umano non sarebbesi resa così universale, né sarebbe durata così a lungo so non era di questo bisogno, così intimo, così violento e indistruttibile per l’uomo di avere a sé presente Iddio. Se pertanto questo è un bisogno del cuore umano, è senza dubbio Iddio stesso che lo ha creato, ed egli non crea nel cuor nostro alcun bisogno senza soddisfarlo. Soddisfece adunque anche a questo. Lo soddisfece sul principio del mondo con Adamo ancor innocente, scendendo nel Paradiso terrestre a passeggiare con lui all’aura meridiana e facendosi a parlargli come ad amico. Lo soddisfece in seguito, anche dopo la caduta del nostro progenitore, apparendo di tanto in tanto ai Patriarchi, ai Profeti, ai Condottieri del suo popolo. Lo soddisfece discendendo in una nube misteriosa sopra del tabernacolo a riempierlo della sua gloria, a far sentire la sua voce e ad operare i più strepitosi prodigi, tanto che gli Ebrei esclamavano con alterezza: Non v’ha certo altra nazione, per grande che ella sia, la quale abbia tanto vicini a sé i suoi dei, come il Dio nostro è presente a tutte le nostre preghiere: Non est alia natio tam grandis, quæ habeat deos appropinquantes sibi, sicut Deus noster adest cunctis obsecrationibus nostris. (Deut. IV, 7). Con tutto ciò quella sublime tendenza, di cui parliamo, non era ancora pienamente soddisfatta: Iddio non aveva ancora adempiuta del tutto quella promessa da Lui fatta agli uomini, quando disse: Camminerò tra di voi: Ambulabo inter vos. (Levit. XXVI). Ma ecco che alla fine, per tutta quanta la “terra e sino agli estremi suoi confini, esce il suono di una voce che grida: È apparsa la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Iddio: Apparuit benignitàs et hunanitas Salvatoris nostri Dei,” (Tit. III) e questo grido; non è altro che l’eco del più grande, del più sublime, del più inenarrabile degli avvenimenti, l’incarnazione di Dio: Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis. (Io. I) Allora gli uomini, come dice S. Giovanni, l’ebbero udito, l’ebbero veduto, l’ebbero toccato con le stesse loro mani: Quod audivimus, quod vidimus, quod manus nostræ contrectaverunt de verbo vitæ. Se non che, trentatrè anni di vita passati nella piccola terra di Palestina, che cosa sono mai se non un fuggevole lampo attraverso lo spazio di tanti secoli e di tutto il mondo? E dopo che Iddio incarnato, Gesù Cristo, con la sua gloriosa umanità è salito al cielo, la terra ricadrà in una oscurità più profonda di quell’antica, che pure di tanto in tanto era diradata dalle luminose apparizioni di Dio? E questa nuova era, cui sospiravano i Patriarchi, che vagheggiavano i Profeti, che Dio stesso inaugurava scendendo dal cielo ed incarnandosi, sarebbe stata perciò inferiore alla prima? Ah no! o miei cari. Iddio in tutte quante le sue opere esteriori si è dimostrato mai sempre eminentemente progressista, e tale eziandio si dimostrò nelle sue comunicazioni con gli uomini. Dapprima, nei tempi antichi, comunicò per mezzo del Divin Verbo incarnato e fatto uomo, che abitò tra gli uomini di un paese privilegiato; ed ora nei nuovi tempi con un prodigio inaudito e perenne, che al dire di S. Agostino, esaurisce la sua potenza, la sua sapienza, la sua bontà, pur non privando il cielo della sua umanità sacrosanta e gloriosa, rimane e rimarrà sempre realmente presente con il suo corpo, con il suo sangue, con la sua anima e con la sua divinità in mezzo a pressoché tutti gli uomini sino alla consumazione dei secoli. Ma qual è questo prodigio? Dov’è la reale presenza del nostro Dio? Dov’è? Udite. Vi sono due piante di assai meschino aspetto, ma l’una e l’altra di preziosa virtù. La prima di esse, erba sottile e fragile, non spicca né per ragion delle foglie, né del suo fiore, né della sua fragranza; l’altra è un legno inutile, non atto neppure a farne una caviglia. E non pertanto queste due piante senza vigore e senza vaghezza, il grano e la vite mantengono la forza dell’uomo e gli spargono in cuore la gioia. Chi oserà ancora sprezzare la loro umiltà? Fortunato colui che abbonda dei frutti di queste umili piante! Con tale abbondanza suole Iddio non di rado benedire colui che lo ama e lo teme e fedelmente osserva la sua santa legge. Maledetto invece colui che disprezza od abusa del pane e del vino. Il volgo stesso capisce il motivo di questa maledizione, quando di chi sciupa il pane ed il vino dice nel suo energico linguaggio che disprezza la grazia di Dio. Eppure che il pane ed il vino formino la base del nostro alimento non è ancora il tutto. Essi hanno una destinazione ben più sublime, e quale? O ammirabile procedere del Signore, chi può intendere le sue vie? Il pane ed il vino sono destinati ad essere tramutati nel Sacramento dell’Eucarestia nel Corpo e nel Sangue di Nostro Signor Gesù Cristo! Il Sacerdote, che nella sacra ordinazione ne ha ricevuto la possanza, a nome di Gesù Cristo pronunzia sopra del pane queste singolari parole: Hoc est Corpus meum: questo è il mio corpo; e sopra del vino queste altre: Hic est calix Sanguinis mei, questo è il calice del mio Sangue: ed a queste semplici parole per la potenza che Gesù Cristo ha loro comunicato, il pane cessa di essere pane: il vino lascia di essere vino: e diventano il Corpo ed il Sangue di Gesù Cristo: quel vero Corpo nato da Maria Vergine, quel vero Sangue sparso sulla croce per la nostra salute. Rimangono è vero le specie ossia le apparenze di pane e di vino, la loro figura, il loro colore, odore, sapore, ma il pane ed il vino più non vi sono; essi diventano tanto l’uno quanto l’altro, tutto intero il Corpo Sacratissimo e tutto quanto il Preziosissimo Sangue del divin Redentore congiunti alla sua Anima ed alla sua Divinità. – Ah! io so bene che dinanzi ad un tanto mistero la ragione si arresta esterrefatta ed esclama: Possibile? Ma pure o negare addirittura la veracità del Vangelo e la Divinità di Gesù Cristo, od ammettere senz’altro quello che è, ancorché con la ragione non si comprenda. Perciocché tanto le parole con cui Gesù Cristo promise, quanto quelle con cui istituì l’Eucaristia sono di una chiarezza insuperabile. Ed in vero in quel dì in cui Gesù Cristo prese a promettere questo grandissimo dono che cosa disse alle turbe dei Giudei? « Io sono il Pane vivo disceso dal cielo, epperò chi mangerà di questo pane vivrà in eterno. E questo pane che Io darò a mangiare è la mia carne, questo corpo istesso che Io esporrò alla morte per la salute del mondo. » E siccome a queste parole i Giudei si posero tra di loro a litigare dicendo: Come potrà costui darci a mangiare la sua carne? Gesù Cristo ribadendo ciò che già aveva detto, soggiunse: « In verità, in verità vi dico, che se non mangerete la mia carne e non berrete il mio Sangue, non avrete in voi la vita: chi mangerà la mia carne ha la vita eterna ed Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. » – Ora poteva Gesù Cristo adoperare parole più. chiare per farci capire che realmente Egli avrebbe lasciato tra di noi, affine di essere cibo dell’anima nostra e restare in nostra compagnia, il suo Corpo e il suo Sangue? Per certo gli stessi Giudei credettero così, ma essendo essi troppo carnali e non potendo capire come Gesù Cristo avrebbe effettuato la sua promessa in un modo miracoloso, essi si spaventarono al pensiero di una scena d’antropofagia; epperò credendo che Gesù Cristo non potesse altrimenti compiere ciò che prometteva che con lo squartare il suo corpo e col darne a mangiare la sua carne sanguinante, perciò appunto presero a litigare fra di loro domandandosi vicendevolmente come mai fosse possibile una tal cosa. Anzi continuando Gesù a riaffermare la stessa asserzione molti di essi, dicendo che quel discorso era troppo duro e che non lo si poteva capire, gli voltarono le spalle e da quel dì cessarono di essere suoi seguaci. Ma non perciò Gesù Cristo corresse o modificò quanto aveva detto; anzi lasciando andare quei Giudei, si volse ancora agli Apostoli dicendo loro: Volete andarvene anche voi? E cioè: Non volete credere neppur voi che Io darò veramente in cibo la mia Carne e in bevanda il mio Sangue? Se non volete credere, Io non intendo di sforzarvi, epperò potete seguire l’esempio di coloro che mi hanno lasciato; ma se volete restarvi presso di me, se volete continuare ad essere miei discepoli è assolutamente necessario che crediate quanto Io ho asserito. Or dite, se Gesù Cristo che era via, verità e vita, se Egli che era tanto zelante nell’istruire i Giudei affine di salvarli, se Egli che era così voglioso di salvare le animo per modo da non perdonarla né a fatiche, né a disagi di sorta, se anzi per la salvezza delle anime egli sarebbe morto sopra una croce, dite, al vedersi abbandonato da molti, che pure avevano già incominciato ed essere suoi seguaci, propriamente perché prendevano le sue parole nel senso più ovvio e naturale, qualora Egli nel promettere l’Eucarestia non avesse inteso di dare realmente il suo Corpo e il suo Sangue, ma soltanto un’immagine od una figura del medesimo, non avrebbe Egli rattenuti quei Giudei, non avrebbe egli detto loro: « Fermatevi e calmatevi; voi non mi avete inteso? Nel dirvi che Io vi darò in cibo il mio Corpo e in bevanda il mio Sangue non ho già inteso di dirvi che ve li darò in modo reale; oh no per certo! Ma ho inteso unicamente di dirvi che vi darò una figura, un’immagine del mio Corpo e del mio Sangue. Continuate adunque ad essere miei discepoli, e non abbandonatemi per un malinteso. Questo mio discorso, poiché è questo propriamente che intendo di dire, non è alla fin fine troppo duro, troppo difficile a capirsi. » Non vi pare che così veramente si sarebbe regolato Gesù Cristo in tale circostanza? Ma no, Egli tenne una condotta del tutto contraria; epperò la condotta da Lui tenuta non è una prova evidentissima della sua reale presenza nella SS. Eucaristia? – Ma non meno evidente è la prova che ne risulta dalle parole, con cui Gesù Cristo istituiva l’Eucaristia. Ed in vero ci riferiscono gli evangelisti che Gesù Cristo nell’ultima cena prese del pane, lo benedisse e lo spezzò e dandolo ai suoi discepoli disse: Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, che per voi sarà dato: Accipite et comedite, hoc est corpus meum quod prò vobis tradetur; e che avendo preso un calice, resegrazie e lo diede agli stessi Apostoli dicendo: Bevete tutti diquesto: Bibite ex hoc omnes; perciocché questo è il Sangue miodel nuovo testamento, che sarà versato per molti in remissionedei peccati: hic est enim sanguis meus novi testamenti, qui prò multis effundetur in remissionem peccatorum. Or vi sono parolepiù chiare di queste? Non insegna apertamente Gesù Cristoper mezzo di esse che nell’Eucaristia vi ha quello stesso Corpo,che doveva essere per noi offerto in croce e quello stesso Sangue, che ivi pure doveva essere sparso? E se sulla croce offerseil suo Corpo e versò il suo Sangue non già in figura o sottoqualche immagine, ma il suo Corpo vero e reale, il suo vero ereale Sangue, come si potrà credere ed asserire che Gesù Cristonel dire agli Apostoli: Prendete e mangiate, questo è il mioCorpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue, abbia intesodi dire: Prendete e mangiate, questo pane è una figura delmio Corpo; prendete e bevete, questo vino è una figura delmio Sangue?Per certo gli Apostoli come non avevano esitato a prenderenel loro vero significato le parole di Gesù Cristo quando promisel’Eucaristia, così non esitarono punto a prendere nel lorovero senso queste altre, con cui Gesù Cristo la istituì, epperòsenza dubbio cibandosi di quel pane e bevendo di quel vinoche Gesù Cristo loro diede, credettero fermamente, che sebbenedi pane e di vino conservassero l’apparenza, non eranopiù tali, ma in quella vece erano stati realmente tramutati nelvero Corpo e nel vero Sangue del loro adorabile Maestro. Secosì non fosse, l’apostolo Paolo che aveva appreso tutto ciòdagli altri Apostoli, dopo di avere egli stesso brevemente narratola istituzione di questo divin Sacramento, toccando lacommovente circostanza che Gesù Cristo lo istituì in quellanotte medesima, in cui veniva tradito per cominciar la suapassione, in qua nocte tradebatur, dopo di aver notato che Gesùnon si contentò di dare il Suo Corpo e il suo Sangue agliApostoli, ina volle ancora farne dono a tutti i suoi credenticomunicando a’ suoi Apostoli ed ai loro successori nel sacerdoziola facoltà di fare la stessa cosa che Egli aveva fatto fino aquel dì, in cui Egli visibilmente ritorni su questa terra, se cosìnon fosse, dico, questo Apostolo avrebbe in proposito in dirizzatoai Cristiani questa raccomandazione e questa sentenza: Probet autem se ipsum homo et sic de pane illo edat et de calice bibat: Si esamini adunque l’uomo, e solo dopo essersi esaminatoed aver riconosciuto di essere in grazia di Dio, solo allora siaccosti a mangiare di questo pane e a bere di questo vino.Perciocché chiunque mangerà di questo pane o berrà di questocalice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue di GesùCristo, e si mangia e si beve la sua condanna: quicumque enim manducaverit panem hunc vel biberit calicem Domini indigne, reus erit Corporis et Sanguinis Domini ? ( I Cor. XI). Oh no, certamente S. Paolo non sarebbe arrivato al punto dadir parole sì terribili, da dichiarare nientemeno che reo deldisprezzo del Corpo e del Sangue di Cristo chi prende indegnamentel’Eucaristia, e da sentenziare che costui si mangiae si beve la sua stessa condanna. Perciocché avrebbe avutoin animo di ingenerare nei Cristiani tanto orrore al prendere

indegnamente l’Eucaristia, quando egli e gli altri Apostoli e tutti i Cristiani di quel tempo avessero creduto che nell’Eucaristia non vi è altro che una figura, un’immagine di Gesù? Ah senza dubbio è pur un mancar di rispetto a Gesù Cristo disprezzando la sua figura e la sua immagine, ma come mai  un tal mancamento si avrebbe a ritenere così grave da diventare nel commetterlo rei non solo della figura e dell’immagine ma del medesimo Corpo e Sangue di Gesù Cristo, e da meritare per ciò di essere dannati? Voi lo vedete adunque, le parole della promessa e dell’istituzione della SS. Eucaristia sono sì semplici, sì chiare, sì esplicite da non lasciarci il minimo dubbio sulla realtà della cosa. Epperò lo stesso Martin Lutero dopo di aver passata una notte intera con la febbre indosso su di queste parole, torturandole quanto più era possibile affine di cavarne fuori qualche cosa d’altro che non fosse la reale presenza di Gesù Cristo, non vi riuscì affatto. Ma Lutero, come tutti gli altri novatori, Carlostadio, Zuinglio, Ecolampadio, Bucero e Calvino, che anche più radicalmente di Lutero negarono la reale presenza, erano giunti troppo in ritardo per insegnare anche a questo riguardo una fede diversa da quella degli apostoli. La Chiesa in tutti i secoli a loro antecedenti aveva mai sempre con una costante ed universale tradizione ritenuto ed insegnato quanto avevano appreso da Gesù Cristo ed insegnato ai primitivi Cristiani gli Apostoli. Ma che dico la Chiesa? È l’umanità che ha creduto: l’umanità cristiana, la più grande, la più forte, la più sensata, la più libera, la più intelligente che sia esistita. No, non sono già orde barbare erranti in steppe sconosciute: non sono società degradate nelle vergogne del feticismo e dell’idolatria e che avrebbero trovato in questa credenza l’alimento e la scusa della loro corruzione, sono le anime più belle, più pure, più tenere e più forti, che siano venute al mondo. Sono i Padri, i Dottori della Chiesa, i Santi tutti; S. Ignazio, S. Girolamo, S. Agostino, S. Ambrogio, S. Giovanni Grisostomo, e via via sino a S. Bernardo, a S. Francesco di Sales, a S. Alfonso Maria de’ Liguori, e a quanti altri Santi vi saranno fino alla fine del mondo. Dunque: Tantum ergo Sacramentum veneremur cernui: Inchiniamoci venerabondi davanti all’augustissimo Sacramento dell’Eucarestia: Iddio realmente presente tra gli uomini Egli è là. Via le figure, i segni, le profezie dell’antico patto; il figurato, il significato, il profetato, Egli è là: Ut antiquum documentum novo cedat ritui: è vero, i miei occhi non vedono che pane, le mie mani non toccano che pane, i miei sensi tutti non sentono che pane; ma venga la fede a supplire al difetto dei miei occhi, delle mie mani e de’ miei sensi: Præstet fides supplementum sensuum defectui, e sotto di quelle specie io vedrò, toccherò, sentirò realmente Iddio. Sì, per l’Eucarestia e nell’Eucarestia Gesù Cristo, nostro divin Salvatore, Dio e uomo, si trova sopra dei nostri altari, nelle più superbe basiliche e nelle più povere chiese, nei più magnifici templi e nelle più umili cappelle, nelle città e nelle campagne, nelle contrade più incivilite ed anche in quelle più selvagge; e per l’Eucarestia e nell’Eucarestia Egli passeggia trionfalmente per le nostre vie e per le nostre piazze tra il profumo degli incensi e l’olezzo dei fiori, tra la soavità delle musiche e la letizia dei cantici, benedicendo agli uomini che distendono i bei drappi e si inchinano riverenti al suo passaggio; per ‘Eucarestia e nell’Eucarestia col seguito modesto di poche persone e di pochi lumi, tra il mormorio di devote preci va a trovare il Cristiano ammalato per consolarlo, il fedele moribondo per farsi ancora suo compagno nel viaggio dal tempo all’eternità, dalla terra al cielo; per l’Eucarestia e nell’Eucarestia collocato nelle crociere degli ospedali consola i poveri infermi, che a lui volgono lo sguardo dal letto dei loro dolori; per l’Eucarestia e nell’Eucarestia chiuso in una teca di argento conforta i Pontefici, (un Pio VI, un Pio VII, un Pio IX) allorché per la nequizia dei tempi sono costretti a fuggire dalla loro sede per una terra di esilio; per l’Eucaristia e nell’Eucarestia solleva dalla sua cupa mestizia il misero che geme nel carcere avvinto di catene, che come un Silvio Pellico vive più rassegnata la vita, se attraverso le sbarre della sua dimora può allungare lo sguardo sino all’umile chiesuola, ove sta il Carcerato d’amore; per l’Eucarestia, nell’Eucarestia insomma Dio è in mezzo a noi, vicino a noi e con noi, e noi abitiamo vicino a Dio e con Dio; noi troviamo dappertutto Iddio, ma sotto le specie sacramentali, nell’attitudine dell’umiltà e della dolcezza, la più acconcia a ingerirci la fiducia, a ispirarci l’amore a incoraggiarci a trattarlo con la medesima famigliarità con cui Egli stesso si degna di trattare con noi, sempre pronto a ricevere le nostre visite e a testimoniarci la sua bontà, a raccogliere i nostri omaggi e a spandere sopra di noi le sue misericordie, a udire le nostre suppliche e ad arricchircidelle sue grazie, ad ascoltare i nostri gemiti e a concederci le sue consolazioni, a gradire i trasporti della nostra divozione ed a largire a noi le sue tenerezze, le sue gioie, la sua vita! Oh bontà immensa di Gesù Cristo! Nel suo infinito amore per gli uomini cavando fuori dalla ferita del suo Cuore il SS. Sacramento dell’Eucaristia ha soddisfatto anzitutto ad uno dei più prepotenti bisogni dell’uomo, quello cioè d’avere a sé realmente presente Iddio.

II. — Ma v’ha di più ancora: col gran dono dell’Eucaristia Gesù Cristo ha appagato la fame che gli uomini sentivano di un cibo divino. Quel Signore, il quale ha creato tutte le cose dal nulla, volle che le medesime avessero incremento e vita mediante la nutrizione. Però, « tutte le creature, come dice Davide, aspettano dal Signore il cibo nel tempo opportuno ed Egli apre la mano e tutte le sazia con la sua benedizione. Omnes a te expectant ut des illis escam in tempore; aperis tu manum tuam et imples omne animal benedictione.( Ps. CXLIV).  Così la creazione può paragonarsi ad un immenso banchetto, dove seggono incessantementemilioni di convitati pascendosi dal mattino alla sera deidoni della Divina Provvidenza. La pianta va cercando nellaterra e persino sull’arida roccia i succhi che essa aspira; nell’atmosferava cercando la luce, i gaz, la rugiada ch’essa avidamentebeve. L’animale più esigente ancora, a mano a manoche la sua vita si svolge, va cercando il suo cibo nei prodottidelle piante e non di rado nelle carni stesse di un altro animale.E l’uomo sfuggirà egli a questa legge? No, certamente.Anzi egli sarà il re del convito, come è il re della creazione.Per questo Dio gli dié la possanza e l’assoluto impero su tuttele piante e su tutti gli animali: non solo perché usufruissedei loro prodotti e delle loro attitudini, ma ancora perché dei loro frutti e delle loro carni a suo talento si cibasse. Se non che, basterà forse all’uomo questo cibo terreno? No,miei cari. Se l’uomo, essere animale per ragion del corpo può sostenere e crescere la sua vita corporea col cibo materiale,essere immateriale ed immortale per ragione dell’anima ha bisogno di altro cibo, che risponda alla natura incorporea dell’animae che l’anima valga a nutrire, abbellire e corroborare,finché giunga alla sua perfezione. E questo cibo, che rispondealla natura dell’anima è costituito dal vero, dal bello, dal buono,dall’ordine, dalla virtù; e più l’uomo si nutre di tal ciboe più si fa grande e fecondo nella sua intelligenza, più si faelevato ne’ suoi pensieri, più si fa saldo e vigoroso nel suogiudizio, più si fa retto nella sua volontà, più si fa delicatonella sua coscienza, in una parola, più egli si fa uomo.Tuttavia, o miei cari, ciò non è ancor tutto per compierela grandezza dell’uomo. Per la sua costituzione soprannaturalel’uomo è un essere divino. Egli ha un’anima creata nel soffiodi Dio, destinata ad avere per suo fine Iddio medesimo, acontemplarlo, a possederlo, ad essere felice di Lui ed in Luiper sempre. E sebbene vi sia stato il peccato di Adamo e ne siano derivate le sue fatali conseguenze, tuttavia la vita divinaper l’uomo fu riconquistata dal Sangue di Gesù Cristo ed essarientra nella nostra natura scaduta per la virtù rigeneratricedel Battesimo, e si corrobora e si arricchisce pei doni delloSpirito Santo nella Confermazione. No, S. Pietro non è statopunto esagerato, quando ha detto che noi siamo divinæ contortes naturæ: (II PETR. I, 4) partecipi della divina natura; e S. Agostino quando ha sentenziato: Si filii Dei facti sumus, et dii facti sumus: se siamo divenuti figli di Dio, siamo divenutidei altresì; non ha fatto altro che trarre la conseguenzadi una bella e giusta asserzione di S. Paolo. Or bene, di chesi nutrirà questa vita divina, che vi ha nell’uomo? Non  sentiràegli il bisogno di sostentarla con un cibo che non solo nonsia materiale, ma con un cibo che sia soprannaturale, celestee divino, con un cibo che sia Iddio medesimo? Domanda strana,direte voi, o per lo meno assai ardita. Eppure, no! Perché larisposta affermativa è già data; e l’hanno data gli uomini ditutti i tempi e di tutti i luoghi. Davide non fa altro che parlare a nome di tutta l’umanità quando esclama: Come un cervositibondo sospira il fonte delle acque, così, o mio Dio, l’animamia sospira a te: Quæmadmodìim desiderat cervus ad fontes aquarum, ita desiderat anima mea ad te, Deus. Sitivit anima mea ad fontem vivum: l’anima mia arde di dissetarsi in te,fonte viva. (Ps. XLI) Ed in vero leggete la storia, non soloquella del popolo ebreo, ma quella altresì degli Egizi, dei Caldei,dei Persiani, dei Greci, dei Romani, dei Germani e deiGalli; investigate le tradizioni degli stessi popoli selvaggi;andate insomma a sorprendere i popoli di tutte le età e ditutti i luoghi nel momento solenne, in cui compiono dei sacrificiad onore della divinità, e voi li vedrete sempre dopod’aver offerto delle vittime, agnelli, vacche, buoi e talvoltapersino poveri bambini, o uomini sventurati, dividersi gli avanzidi quella vittima immolata in onor di Dio e mangiarne devotamente,pensando così che col mangiare della vittima consacrataa Dio, si mangiasse qualche cosa di soprannaturale, diceleste, di divino, qualche cosa come se fosse Dio medesimo,e che per conseguenza mangiando della divinità si diventassesimile a lei. Perciocché qual è mai in fondo in fondo la ragionedi questa fame e sete di Dio se non la brama di rendersia Lui somigliante più che sia possibile? E per operarel’assimilazione di un essere qual mezzo più atto, che il mangiarne,se ciò è possibile senza recargli del male? Guardatela madre, che tanto ama il suo bambino, non solo se lo stringeal seno, non solo lo accarezza in mille guise, non solo lo accostamille e mille volte alle sue labbra e lo bacia e lo ribaciasenza stancarsi mai, ma molte volte abbocconandogli ancora leguance o le mani, grida e rigrida: Ti mangio, ti mangio. Espressionevolgare, se volete, ma pur piena di senso e di filosofia:perché dimostra chiaramente che questo si vorrebbe fare,se fosse possibile, quando si brama di essere una cosa solacon alcun altro, o di essergli almeno simile. Or dunque, Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus:ciò che si è fatto da tutti gli uomini, in tutti i tempi, in tutti i luoghi, non dubitatenepunto, è una legge della umanità, una legge che sta nel fondo stesso della natura umana, un bisogno cioè che Iddiomedesimo ha creato nel cuor dell’uomo. Questo bisogno, è vero, noi non lo comprendiamo, ma tuttavia lo sentiamo. Anche rispettoa questo noi siamo come bambini appena nati; quasi modo geniti infantes. (I PETR. II). Il bambino appena nato noncomprende che cosa sia la fame, il bisogno del cibo, ma purlo prova e lo manifesta con le sue contorsioni, con le sue grida,con le sue lagrime; e buon per lui che la madre dalla divinaProvvidenza fornita di intelligenza e di attitudine acconcia albisogno del suo neonato, con tutti gli sforzi lo attacca al suoseno, e cibandolo del suo latte sazia in lui quella fame chesente. Così, noi nell’ordine spirituale, a guisa di bambini appenanati, non arriviamo a comprendere questa fame e questasete misteriosa, che abbiamo di Dio medesimo, ma pur la sentiamoe la manifestiamo eziandio in quel non essere mai paghidelle cose terrene, fossimo pur anco padroni di tutto il mondo.Or bene poiché l’uomo sente questo bisogno di mangiaredi Dio, ed è Dio stesso, che glielo fa sentire, non avrà poiegli pensato a soddisfarlo? Oh sì, senza alcun dubbio, giacché,come già vi diceva, se Iddio crea dei bisogni nel cuor dell’uomonon è che per soddisfarli. Certamente non lo ha soddisfattopienamente nei tempi antichi, perché sebbene dica l’ApostoloPaolo che tutti i giusti dell’antico Testamento bevevanodella pietra che li avrebbe seguiti, e che questa pietra eraCristo: Bibebant omnes de spiritali sequenti eos petra; petra autem erat Christus, tuttavia e per la manducazione dell’Agnello pasquale, e dei pani di Proposizione, e degli avanzi delle vittime immolate a Dio non partecipavano che per la fede e in una certa misura al banchetto della grazia di Dio. Ma poiché sono venuti i tempi nuovi, e Dio si è incarnato e fatto uomo per soddisfare pienamente a tutti i bisogni dell’uomo, ha pienamente soddisfatto anche a questo e vi ha soddisfatto con la istituzione del Sacramento dell’Eucaristia, per mezzo del quale Egli si dà veramente, realmente, sostanzialmente in cibo alle anime nostre. Poiché badate bene alle parole con cui Gesù Cristo promette l’Eucaristia, e a quelle con cui la istituisce, e che già vi ho recitate, e poi vedrete come a ragione la Chiesa nel distribuire la Eucaristia esclama e deve esclamare: O sacrum convivium in quo Christus sumitur: O sacro convito nel quale si prende per cibo Gesù Cristo istesso! Sì, Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo: Gesù Cristo seconda Persona della SS. Trinità; epperò, poiché una Persona divina non può stare senza le altre, insieme con Gesù Cristo il Divin Padre, che da tutta l’eternità e per tutta l’eternità lo genera nello splendore dei Santi, e il Divino Spirito, che da tutta l’eternità e per tutta l’eternità procede dal Padre e dal Figliuolo. Che cosa dobbiamo desiderare di più? Quando le antiche Sibille si mostravano invase dall’ispirazione, esclamavano: Deus, ecce Deus: Dio, ecco Dio. Ma quando noi ci appressiamo alla mensa eucaristica, gli Angeli ci gridano con verità: Attollite portas: aprite le porte del vostro cuore; et introibit rex gloriæe vi entrerà il Re della gloria; Deus, ecce Deus: Dio, ecco Dio fatto vero cibo delle anime nostre! Così adunque la bontà del Cuore Sacratissimo di Gesù per noi, nell’istituzione dell’Eucaristia si rivela veramente infinita, giacché per essa ha soddisfatto al bisogno che noi avevamo della reale presenza di Dio, ed ha appagato la fame e la sete che sentivamo di Dio stesso.

III. — Ma ciò non è tutto. Perché se Gesù Cristo con l’istituire l’Eucaristia per una parte ha soddisfatto agli aneliti del cuor nostro, per l’altra ha pur soddisfatto agli aneliti del Cuor suo. Bossuet ha detto bene che non vi sono due amori, ma uno solo, cioè che l’amore che vi ha nel cuor dell’uomo è quello che vi ha nel Cuor di Dio, con questo divario tuttavia che nel Cuor di Dio è infinito. Or bene l’amore, questa forza arcana e meravigliosa è di tal natura, che fa tendere colui che ne è preso all’unione più intima con l’oggetto amato. Aver sempre al fianco le persone più care, non doverne soffrir mai la separazione, abbracciarle, stringerle, possederle, formare con esse un cuor solo, un’anima sola, una sola vita, ecco quello che si vorrebbe da coloro che amano, ciò che vorrebbe una madre dal suo figlio diletto. Epperò quando le circostanze della vita crudelmente esigono che il figlio si abbia a separare ed allontanare da lei, chi potrà pienamente comprendere lo schianto del suo cuore? Allora, questa madre, che sta per cadere nella più profonda desolazione, non potendo seguire il figlio e pur volendo restare a lui vicino prende un suo ritratto, una ciocca de’ suoi capelli, un fiore da lei raccolto, una memoria qualsiasi e dandola al figlio: Prendi, gli dice, questa mia memoria, ponila sopra il tuo cuore, e quando la sentirai battere sopra di esso, ricordati, figliuol mio, che la tua madre col suo amore si trova mai sempre dappresso al tuo cuore. Ecco quello che allora dice e fa una madre. È tutto ciò che ella può fare e può dire. Ma se ella potesse fare di più, se ella potesse dire efficacemente; Figlio, tu vai: non importa: io raddoppio la mia presenza e mentre resto in questo luogo, ove mi è d’uopo restare, pure io vado con te, ti seguo dappertutto, ovunque sarò al tuo fianco; potete voi dubitare che una madre non direbbe e non farebbe questo? Anzi; se una madre, contemplando il suo figlio potesse dirgli: Sia che tu rimanga presso di me, sia che tu vada in capo al mondo, io non soffro alcun affanno, perché io potrò sempre e dappertutto unirmi a te nel modo più intimo, trasfondere in te la mia vita, alimentarti del mio sangue, farti vivere di me, credetelo, o miei cari, una madre lo direbbe e lo farebbe. E se vi ha chi dubita di questa mia asserzione, no, non ne dubitano punto le venerande madri che mi ascoltano. Ma perché ho detto io le madri?… Un padre non farebbe lo stesso? Non lo fa continuamente? Perciocché a che intisichisce egli in un officio, od a che si logora in un’officina o tra i solchi, se non per far vivere di sé, delle sue fatiche e de’ suoi sudori i figli amati? E quando a sostentare la vita dei figli non bastassero più le sue fatiche, i suoi sudori, ma ci volesse il suo sangue, lo dico fidamente, egli con una lama si aprirebbe tosto le vene, e le farebbe lor succiare. Ecco la natura e la forza dell’amore. – Quando si impossessa di u cuore, lo fa tendere con una prepotenza indicibile ad unirsi e a darsi all’oggetto amato nel modo più intimo che sia possibile. Ora il Cuore Santissimo di Gesù ci ha amati, ma ci ha amati sino alla fine: cum dilexisset suos, in finem dilexit eos. (Io. XIII, l) Non già sino alla fine della sua vita mortale soltanto, ma giusta l’interpretazione di S. Tommaso sino all’ultimo termine dell’amore, usque ad ultimum finem amoris; ed amandoci per siffatta guisa sentì ancor Egli il bisogno di unirsi, di darsi a noi, di alimentarci di sé, di farci vivere della sua vita. E a questo anelito del suo Cuore divino ei soddisfece appunto col dire : « Prendete e mangiate, questo è il mio Corpo; prendete e bevete, questo è il mio Sangue! » Ah! miei cari, si potranno ben chiamare strani, oscuri, impenetrabili i misteri di nostra fede, quando non si conoscono punto, ma se si studiano per poco vi si scorge tosto il lato luminoso, splendido, che ci invita, ci sforza anzi a ripetere umilmente: Credo e adoro! Qui tuttavia, o miei cari, non basta dire: Credo e adoro: ci vuole qualche cosa di più. Se Gesù Cristo con l’Eucaristia ebbe in mira di soddisfare le nostre e le sue brame, Eivuole altresì ottenere questo scopo. Ed è perciò che non solo ci esorta, ma ci impone di accostarci a riceverlo sotto pena di escluderci per sempre dall’eterna felicità. No, non è soltanto la Chiesa che ci comandi la Comunione, benché al vero Cristiano ciò dovrebbe bastare più che mai; la Chiesa non fa altro che applicarci praticamente il precetto di Gesù Cristo, il quale ha detto chiaramente, come attesta S. Giovanni: Nisi manducareritis carnem Filii hominis, non habebitis vitam in nobis: se non mangerete la mia Carne non avrete la vita in voi. Obbedite adunque al precetto di Gesù Cristo. Voi, o anime appassionate dei Santi tabernacoli, continuate a fare la vostra delizia nel venire a congiungere con le adorazioni degli Angeli le adorazioni vostre al SS. Sacramento; nell’accostarvi anche quotidianamente a ricevere questo pane di benedizione e di vita. E voi, o anime di buon volere, ma troppa indecise,soverchiamente timide, vincete coraggiosamente le vostre perplessità, seguite il consiglio dell’Angelo visibile che vi guida nelle vie della salute e frequentate ancor voi la mensa Eucaristica. Ma forse vi saranno anche qui di coloro che è da dieci, venti, trent’anni, che di questa mensa non fanno più conto. Ahimè! Benché essi si vantino forse di essere vivi, giacciono tuttavia in potere della morte! Che costoro massimamente ascoltino la voce amorevole e potente di Colui che è la resurrezione e la vita: che questi Lazzari più che quatriduani con una pronta e dolorosa confessione, susseguita da una santa Comunione, balzino fuori dal sepolcro ignominioso e fetente della loro indifferenza e della loro corruzione per ripigliare la vita, e più rigogliosa di prima: ut vitam habeant, et abundantius habeant. (Io. X, 10)

E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che nell’istituzione della SS. Eucaristia ci avete dato una prova così grande del vostro amore per noi, degnatevi ancora con la vostra grazia di illuminare sempre meglio le nostre menti, perché sempre meglio riconosciamo una tale carità, e di toccare sempre più i nostri cuori, perché sempre più con l’adempimento dei vostri voleri nella frequenza di un tanto Sacramento abbiamo a corrispondere ai vostri immensi benefizi.