L’INABITAZIONE DELO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (1)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (I)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) -P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

Al nostro caro figlio, Barthélemy Froget, dell’Ordine di San Domenici, a Poitiers.

LEONE XIII, PAPA.

Caro figlio, salute e benedizione Apostolica.

La pietà dei Cattolici, si compiace di offrirCi frequentemente i frutti del loro talento e della loro scienza. Di questi lavori, i più graditi sono per Noi quelli che mettono in luce i Nostri stessi insegnamenti. Così il libro di cui Ci avete recentemente fatto omaggio, merita un favore particolare.

   Voi vi esponete, secondo le dottrine del Dottore Angelico, in un trattato ricco e luminoso, l’ammirevole inabitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste. Questo punto della fede cattolica sì capitale e sì consolante, lo abbiamo Noi stesso costantemente raccomandato nella nostra Enciclica Divinum illud munus, allo zelo di coloro che, seguendo il dovere della loro carica, si dedicano alla cura ed alla salute eterna delle anime. Interessa sovranamente in effetti, dissipare nel popolo cristiano l’ignoranza di queste alte verità, e di conseguenza occorre che tutti si applichino a conoscere, ad amare ed a implorare il dono di Dio Altissimo, dal quale provengono tanti preziosi benefici. Il vostro libro ha già largamente contribuito a raggiungere questo scopo, Noi ve ne felicitiamo e ci compiacciamo nello sperare che questo bene continuerà sempre di più, cosa che vivamente Noi desideriamo. E lodando la vostra perfetta sottomissione alla nostra Autorità, ed i vostri sentimenti di figlio devotissimo verso la Nostra Persona, vi accordiamo con tutta l’affetto del Nostro cuore, la benedizione apostolica, in segno della Nostra paterna benevolenza e come pegno di grazie divine.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 febbraio dell’anno 1901, ventiquattresimo del nostro Pontificato.

LEONE XIII, PAPA.

PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE

Se c’è una verità preziosa da conoscere  e dolce da contemplare, una verità che offre un interesse più che straordinario, contenente in qualche modo il midollo del Cristianesimo, una verità frequentemente ricordata nei libri santi e nondimeno lasciata per così dire completamente nell’ombra dal pulpito contemporaneo, anche quando l’oratore si rivolge a questa élite di anime che chiede se non di penetrare sempre più nel mistero del regno di Cristo, è sicuramente il dogma sì pio, sì consolante, sì confortante della presenza e dell’inabitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste. Questa bella dottrina tanto amata dai Padri, sì spesso trattata da essi, sia nelle loro esortazioni ai fedeli sotto forma di omelie, sia nelle loro controversie con gli eretici avversari della divinità del Verbo o dello Spirito Santo, fu piamente raccolta dalla teologia del Medio Evo, in particolare dal più grande tra essi, il principe della scolastica, l’angelico Dottore San Tommaso d’Aquino, che se ne è, per così dire, appropriato e l’ha come marcato del suo sigillo, formulandola con tutta la precisione del linguaggio teologico. – La si ritrova più tardi esposta con amore ed una emozione che si avverte sotto le freddezze della lettera, dai principali rappresentanti della scienza sacra, i Gonet, i Giovanni di San Tommaso, i Suarez, i teologi di Salamanca; essa forma, nelle loro opere, come un’oasi piena di freschezza che interrompe piacevolmente l’aridità e la secchezza delle discussioni teologiche. Petau e Thomassin l’ornarono dei tesori della loro erudizione, riproducendone qualcuno dei più bei passaggi dei santi Padri, e lungi dall’essere invecchiata ai giorni nostri, è stata al contrario rimessa in onore da qualche celebrità contemporanea; gli eminentissimi Cardinali Franzelin e Mazzella nei loro sapienti trattati, mgr. Gay nelle sue conferenze notevoli su « La Vita e le virtù cristiane », ed altri ancora l’hanno affrontata con incontestabile talento e diverse fortune. – Da dove viene che essa è ancora così poco conosciuta, e quindi poco apprezzata, anche dagli uomini del santuario? Si sa bene, senza dubbio, almeno vagamente, per avere inteso dire senza altre spiegazioni, o aver letto nel santo Vangelo che lo Spirito Santo, o piuttosto la Santa Trinità intera, abita nelle anime che hanno la felicità di essere nello stato di grazia e di possedere la carità; ma in cosa consiste questa inabitazione? Come si distingue dall’onnipresenza divina? Cosa apporta di speciale a colui che ne è gratificato? Quali ne sono i risultati e gli effetti? Ecco ciò che si ignora e ciò che importa estremamente conoscere; perché senza questo, simile ad un astro perduto ai confini del mondo e che non invia a noi che una luce debole ed indistinta, la nozione che si possiede di questo punto della Dottrina Cattolica è troppo vaga, troppo confusa, per colpire ed impressionare fortemente le anime, producendovi questi frutti salutari di gioia e di consolazione che è chiamata a portare. – Sarebbe dunque una questione inabbordabile per le intelligenze ordinarie? È un libro sigillato, di cui qualche raro privilegiato possiede il segreto di rompere i sigilli e decifrare i caratteri? Ma no; noi speriamo bene, con la grazia di Dio, di mettere questa dottrina alla portata di tutti i nostri lettori; si dirà che si tratti di una teoria molto bella, è vero, ma senza influenza pratica nella condotta della vita? Non è così; questo studio, in apparenza speculativo, è fecondo di pratici insegnamenti, ed offre a coloro che non temono di intraprenderlo, non solo delle gioie vive e pure, ma ancora dei motivi potenti di santificazione. – Il nostro disegno, scrivendo queste pagine, è quello di mettere alla portata delle anime di buona volontà e degli spiriti anche poco abituati alle speculazioni teologiche, ma avidi di verità e gelosi di lasciare il terra-terra delle discussioni quotidiane, una dottrina contenente il nostro più alto titolo di gloria e di nobiltà. Ma i nostri sforzi di portare, in questo studio, tutta la chiarezza che comportano delle materie sì elevate, prendono come guida il maestro incomparabile di cui l’illustre Pontefice Leone XIII non cessa di raccomandare gli insegnamenti, e di cui noi siamo fieri di dirci un umile discepolo: San Tommaso d’Aquino, che ha proiettato su questa questione, come su tante altre, le luci del suo genio. Non è che egli abbia trattato con questa abbondanza di dettagli e questa ampiezza di sviluppi che si poteva desiderare; egli si è piuttosto contentato di porre i principi e di condensare il suo pensiero in una di queste formule brevi ma ricche di sostanza che si incontrano in ogni pagina della Summa teologica. Da questo stile fermo, limpido, elevato, che lo caratterizza, egli ha espresso in poche parole tutto ciò che occorreva dire per essere compreso dagli spiriti iniziati alla terminologia scolastica, lasciando ad altri che ne hanno l’agio, il gusto e la facilità, la cura di sminuzzare la sua dottrina e di metterla, per mezzo di sviluppi appropriati, alla portata di tutte le intelligenze. È lo scopo che noi ci siamo proposto. – Il nostro compito consisterà dunque nel mettere in rilievo il pensiero del santo Dottore, e nel tradurre in un linguaggio intellegibile per tutti, queste formule sapienti sì chiare per gli iniziati, ma che non offrono al comune lettore che un enigma spesso indecifrabile. Noi trarremo ugualmente dalla santa Scrittura e dai Padri della Chiesa un certo numero di testimonianze che avranno il doppio vantaggio di chiarire i nostri insegnamenti corroborandoli, e mostrare su quali fondamenti solidi essi poggiano.

PRIMA PARTE

DELLA PRESENZA COMUNE ED ORDINARIA DI DIO IN OGNI CREATURA.

CAPITOLO PRIMO

Della presenza di Dio in tutte le cose

IN QUALITÀ DI AGENTE O DI CAUSA EFFICIENTE

Prima di affrontare il problema interessante ma arduo dell’abitazione dello Spirito Santo nelle anime giuste, e dell’unione misteriosa che ne è la conseguenza, prima di stabilire il fatto di una presenza nello stesso tempo sostanziale e speciale delle Persone divine nelle anime santificate dalla grazia e trasformate da essa in un tempio vivente, ove dimora e si compiace l’augusta e adorabile Trinità, ci sembra utile, finanche necessario, in una certa misura, esporre preliminarmente il modo ordinario e comune secondo il quale Dio è in tutte le cose. Come in effetti avventurarsi ragionevolmente a parlare di una presenza della Divinità speciale ai giusti, se non si comincia con l’esporre chiaramente in cosa consista una presenza ordinaria in ognuna delle creature? – Per essere nello stato di stabilire solidamente un giudizio serio su questi due modi di presenza e di ben discernere l’uno dall’altro, importa conoscere i loro rispettivi caratteri, sapere ciò che essi abbiano in comune e ciò che li differenzi, e per questo occorre analizzarli, compararli, determinare la loro natura. Procedendo differentemente, dissertando in maniera più o meno sapiente dell’inabitazione di Dio mediante la grazia senza avere innanzitutto ben stabilito e convenientemente spiegato la sua inesistenza nel mondo della natura, ci si esporrebbe al grave inconveniente di non dare che delle nozioni incomplete, e lasciare nello spirito del lettore delle deplorevoli oscurità. Noi non ci attarderemo tuttavia a provare lungamente il fatto dell’onnipresenza divina, sulla quale tutti i Cattolici sono d’accordo, riservandoci di studiare più da vicino la maniera di intenderla alfine di ricavarne il vero concetto dell’immensità divina e di preparare le vie all’intelligenza della presenza speciale di Dio nei giusti.

I.

Che Dio sia dappertutto, in cielo, sulla terra, in tutte le cose ed in tutti i luoghi; che sia intimamente presente a ciascuna delle sue creature, è dogma di fede, nel contempo una verità razionale conosciuta da tutti, non solo da pensatori, filosofi o teologi, ma persino dal bambino la cui intelligenza cominci appena a schiarirsi; è una delle prima lezioni che riceve sulle ginocchia della madre, uno dei primi insegnamenti che cadono dalle labbra di un educatore credente. – Questa dottrina che il più umile dei Cristiani conosce fin dall’aurora della sua vita mortale e che ripete senza comprenderne la portata, né sospettarne la profondità, l’Apostolo San Paolo l’insegnò già davanti al più illustre uditorio che fosse al mondo. In effetti, non era ad una folla di ignoranti, ma ai rappresentanti in qualche modo ufficiali della scienza umana, ai membri dell’Aeropago, a cui si indirizzava, quando, a proposito dell’esistenza di Dio in seno agli esseri creati, egli diceva: « Dio non è lontano da voi, perché noi viviamo, ci muoviamo, esistiamo in Lui: quanvis non longe sit ab unoquoque nostrum: in ipso enim vivimus, et movemur et sumus (Act. XVII, 27-28) ». – Il Salmista aveva insegnato – egli pure – o piuttosto cantato da molti secoli questa onnipresenza divina:  « Signore – aveva detto – Voi conoscete tutto, l’avvenire più lontano come il passato più profondo; Voi mi avete formato ed avete posto la vostra mano su di me. La scienza che avete di me è ammirabile ed io sono incapace di apprenderla. Come sottrarmi al vostro sguardo? Se salgo il cielo, Voi là siete; se scendo negli inferi anche là vi trovo. Se apro la mie ali, fin dal mattino, per fuggire verso le estremità del mare, la vostra mano mi conduce, la vostra destra mi sostiene. Io ho detto: forse le tenebre mi nasconderanno e la notte avvolgerà i miei piaceri. Ma le tenebre non hanno oscurità davanti a Voi, e la notte ha il chiarore del giorno per Voi (Ps CXXXVIII, 5-12) ». E per meglio convincerci dell’impossibilità in cui ci troviamo di sottrarci al suo sguardo, Dio, riproducendo l’infermità del nostro linguaggio alfine di mettersi più completamente alla nostra portata, ci dice per bocca del Profeta: « Colui che si nasconde, spera di sottrarsi ai miei occhi? Non riempio forse il cielo e la terra ? Numquid non cælumet terram ego impleo? (Ger. XXIII, 24) ». – Sarebbe superfluo mostrare altre testimonianze  per stabilire una verità che è universalmente ammessa da chiunque riconosca l’esistenza di un Essere infinito, Autore di tutte le cose. Si vorrà bene, tuttavia, permetterci di riprodurre qui, a causa della sua importanza, la prova filosofica dell’onnipresenza divina, data da San Tommaso.  Dio – egli dice – è in ogni cosa, non come parte della loro essenza o come un elemento accidentale, ma come l’agente è presente al soggetto sul quale opera. Egli è in effetti, di tutta necessità, che la causa efficiente sia unita al soggetto sulla quale essa esercita un’azione immediata, e che entra in contatto con esso se non con la sua sostanza, almeno con la sua virtù attiva e le sue energie, « Deus est in omnibus rebus … sicut agens adest ei in quod agit. Oportet enim omne agens conjungi ei in quod immediate agit, et sua virtute illud contingere (Summ theol. I, q. VIII, a, I) ». Così è che il sole, benché situato ad una distanza enorme dal nostro pianeta, lo raggiunga non di meno con la sua virtù; come in effetti, sarebbe in grado di illuminare e riscaldare se i suoi raggi non pervenissero ad essa? Ora, Dio opera in ogni creatura, non solo con l’intermediario delle cause seconde, ma ancora in maniera diretta ed immediata, producendovi da se stesso, e conservandovi parimenti, ciò che vi è di più intimo e profondo, l’essere. Perché, come l’effetto proprio del fuoco è di bruciare, così l’effetto proprio di Dio, che è l’Essere per essenza, è produrre l’essere delle creature. Dunque Dio è in tutte le cose, intimamente presente in qualità di causa efficiente. « Unde oportet quod Deus sit in omnibus rebus et intime (Ibid. a. 1) ». Dio non è quindi come un volgare operaio, un pittore, ad esempio, o uno scultore, che rimane fuori dalla sua opera e non la tocca spesso in maniera immediate, ma con l’intermediazione di uno strumento e che, presente alla sua opera nel momento in cui la produce, può in seguito ritirarsi senza comprometterne l’esistenza. Dio è nel più intimo delle sue opere e se, dopo aver dato l’essere ad una creatura, ritirasse la sua mano e cessasse di sostenerla, ricadrebbe immediatamente nel niente da cui essa è uscita. – Se ora domandaste all’angelico Dottore come Dio, sostanza immateriale, inestesa ed indivisibile, possa trovarsi in tutti i luoghi, in fondo a ciascuno degli esseri che occupano i nostri spazi materiali, egli vi risponderà, riportando dalle cose di quaggiù un paragone già impiegato dai Padri, che vi sono tre maniere: per potenza, per presenza e per essenza. Egli è dappertutto con la sua potenza, perché tutto è sottomesso al suo sovrano impero, non meno di un re della terra che, benché confinato in fondo ad un palazzo, è reputato presente in tutte le parti del suo Stato, ove si fa sentire la sua autorità. Egli è dappertutto con la sua presenza perché Egli conosce tutto, vede tutto e nulla, per quanto possa essere nascosta, sfugge al suo sguardo; allo stesso modo degli oggetti che sono sotto i nostri occhi, benché leggermente distanti dalla nostra persona, sono detti essere in nostra presenza. Egli è dappertutto con la sua essenza, cioè realmente e sostanzialmente presente a ciascuna delle cose create, come un monarca è presente con la sua sostanza al trono sul quale è assiso. (S. Theol. I, q. VIII, a. 3). E la ragione di questa presenza sostanziale, è che non c’è alcuna creatura che possa sfuggire all’azione divina che la conserva all’esistenza e la muove alle sue operazioni; e siccome in Dio la sostanza e l’azione non sono realmente distinte, ne risulta che Egli è presente dappertutto ove operi, cioè in tutte le cose ed in tutti i luoghi. « Deus dicitur esse in omnibus per essentiam … quia substantia sua adest omnibus ut causa essendi  (S. Th. I, q. VIII, ad. 1) » – Nel suo Commentario sul primo libro delle Sentenze di Pietro Lombardo, San Tommaso spiega questo triplice modo di presenza in una materia un po’ differente che, nell’escludere queella che stiamo per dare, ha il vantaggio di fare meglio mostrare il pensiero del santo Dottore relativamente alla presenza sostanziale di Dio in qualità di causa efficiente. Ecco le sue parole: « Dio è nelle cose create con la sua presenza, in tanto che vi operi, perché bisogna che l’operario sia presente in qualche modo alla sua opera; e perché l’operazione divina non si separi dalla virtù attiva da dove essa emana, bisogna dire che Dio è in tutte le cose per potenza; infine, come la virtù o la potenza di Dio è identica alla sua essenza, ne risulta che Dio è nelle cose con la sua essenza (S. Thomas, I, I, Sent. Dist. XXXVII, q. I a. 2). Queste parole di San Tommaso sono significative, e meritano che vi ci soffermiamo.

II.

Quando certi teologi, estranei alla scuola tomistica, vogliono spiegare l’onnipresenza divina, essi dicono che Dio è dappertutto con la sua essenza, perché la sostanza divina, essendo infinita, riempie il cielo e la terra. Per essi l’immensità è una proprietà in virtù della quale l’essenza divina è, per così dire, espansa all’infinito in tutte le specie esistenti o possibili; l’onnipresenza è la diffusione attuale dell’Essere divino compenetrante, senza mescolarsi ad essi, in tutti gli esseri e tutti i luoghi reali (Hurter, S. J., Theol. Dogm. Comp., de Deo uno.). – Si potrebbe dunque, secondo questa opinione, comparare l’immensità divina ad un mare senza rive e senza limiti, capace di contenere moltitudini innumerevoli di esseri di ogni natura e di ogni dimensione, in mezzo al quale si troverebbe immersa, nel tempo, una spugna che le acque penetrano debordanti da ogni parte: immagine di questo mondo che l’immensità di Dio penetra e deborda da ogni parte; con questa differenza, tuttavia, che Dio è tutto intero nel mondo e tutto intero in ciascuna delle sue parti, mentre ogni porzione dell’elemento liquido occupa uno spazio distinto. – Sant’Agostino si era formato nella sua giovinezza un concetto simile  dell’immensità divina. « O mio Dio, o vita dell’anima mia – dice nelle Confessioni – io vi credevo grande di una grandezza espansa in spazi infiniti, e penetrante la massa intera del mondo in modo tale che vi estendiate ancora da tutte le parti al di là di questo universo, senza avere né limiti né argini; e che la terra, il cielo, ogni cosa creata, essendo piena di Voi, terminasse in Voi, che non abbiate termine da alcuna parte. Perché come questa aria grossolana che circonda il mondo che noi abitiamo non saprebbe impedire alla luce del sole di aprirsi un passaggio attraverso la sua sostanza, non distruggendola o dividendola, ma penetrandola dolcemente e riempendola tutta intera delle sue luminosità; così io mi figuravo che Voi passaste non solo attraverso le sostanze dell’aria e dell’acqua, ma ancora che, penetrando la terra nella sua massa e fin nelle parti più piccole, dappertutto invisibile e presente, Voi governaste, mediante questa unione segreta e questa influenza tanto interiore che esteriore, tutte le cose che avete creato. – Essendo tali le mie congetture, perché non mi era possibile immaginare altra cosa; ma ero in un errore completo, nam falsum erat; perché se fosse così, una parte più grande della terra, conterrebbe una più grande parte del vostro Essere, una più piccola, ne conterrebbe una minore, e tutte le cose riempite di Voi, in modo tale che il corpo di un elefante conterrebbe una parte più grande della vostra sostanza rispetto al corpo di un passerotto, perché esso è più grande ed occupa uno spazio più esteso; ed anche in proporzione in tutte le parti del mondo, le une ne avrebbero di più e le altre meno, secondo le loro dimensioni diverse. Ora, non è affatto così: ma Signore, Voi non avete ancora illuminato le mie tenebre. » (S. Aug. Conf. L. VII, c. 1). Tornando più avanti sullo stesso soggetto, il santo Dottore aggiunge: « Il mio spirito si rappresentava l’universo e tutto ciò che è visibile nella sua estensione: la terra, il mare, l’aria, gli astri, le piante, gli animali; nello stesso tempo tutto ciò che sfugge ai nostri sguardi: il firmamento, gli Angeli, tutte le sostanze spirituali, che la mia immaginazione poneva in certi spazi, come se fossero stati dei corpi. Da questa universalità degli esseri che avete creato, io me ne facevo una gran massa … ma finita e limitata da ogni parte. E Voi, Signore, io vi consideravo come avvolgente ogni parte e penetrante questa massa, ma Voi siete infinito in ogni senso: come si potrebbe rappresentare un mare infinito nella sua estensione, e racchiudente in se stesso una spugna di prodigiosa grandezza, ma che finita nondimeno nelle sue dimensioni, sarebbe tutta penetrata dalle acque di questo mare immenso. È così che io vi consideravo nella vostra essenza infinita, che riempie da ogni parte questa massa finita, assemblaggio di tutte le vostre creature » (S. Aug. Conf. l. VII, c. V). – Più tardi, divenuto Vescovo di Ippona, e meglio istruito in queste cose, Agostino si esprimeva in altro modo: « Quando si dice che Dio è dappertutto, bisogna allontanare dal nostro spirito ogni pensiero grossolano, e liberarci dall’impressione dei sensi per non figurarci Dio sparso dappertutto a mo’ di una grandezza dislocata nello spazio, come è quella della terra, dell’acqua, dell’aria e della luce; perché tutte le cose di questa specie sono meno in una delle loro parti che nel tutto. Bisogna piuttosto concepire la grandezza di Dio come si rappresenta una grande saggezza in un uomo, fosse anche di piccola taglia. » (S. Aug. Lib. De Præsen. Dei, 187, c. IV, n. 11). Questo tipo di diffusione ed espansione dell’Essere divino, così disapprovata da Sant’Agostino, e segnalata come una concezione grossolana e carnale che bisogna evitare, carnali resistendum est cogitationi, ne quasi spatiosa magnitudine opinetur Deum per cuncta diffundi, rassomiglia singolarmente all’idea che ci danno dell’immensità divina coloro che ci rappresentano Dio presente dappertutto, perché la sua sostanza, essendo infinita ed illimitata, ed occupando attualmente tutti i luoghi reali o immaginari, si trova per se stessa in una relazione di presenza, o piuttosto di intima penetrazione con tutto ciò che esiste nello spazio. – Essi non cadono – è vero – nell’errore del figlio di S. Monica, immaginandosi che uno spazio più esteso dovesse contenere una parte è più grande della sostanza divina; perché essi sanno ed insegnano che uno spirito, essendo invisibile ed esente da parti non è più localizzato a mo’ dei corpi dei quali una parte è a destra e l’altra a sinistra, ma che possa occupare uno spazio determinato ad essere per intero nel tutto, e tutto intero in ciascuna parte; nondimeno sul fondo della questione e sulla maniera di concepire l’ubiquità divina ci sembrano parteggiare le idee della giovinezza che Agostino doveva riformare più tardi in seguito a meditazioni più approfondite. – Ben più spirituale, e pertanto più conforme alla natura di Dio, ci appare la visione dell’immensità data da San Tommaso. Invece di ammettere, con coloro che condividono l’opinione che qui combattiamo, una sorta di diffusione della sostanza divina, a tal segno che Dio sarebbe ancora sostanzialmente presente alle creature seminate nello spazio, quando anche, per assurdo, Egli non esercitasse su di esse alcuna azione (Suarez, Metaph., disput. XXX, sect. VIII, n. 52), il Dottore angelico insegna al contrario che la ragione formale della presenza di Dio nelle cose create non è altro che la sua operazione, di modo tale che il fondamento dell’immensità, è l’onnipotenza. –  Per essa stessa la sostanza divina non è determinata ad occupare alcun luogo, né grande né piccolo; essa non richiede per esplicarsi di alcuno spazio; essa non implica nessuna relazione di prossimità o di allontanamento con gli esseri viventi nello spazio; se di fatto essa entra in rapporto ed in contatto con esse, è per la sua virtù e la sua operazione; se essa è intimamente presente a tutto ciò che esiste, è perché essa produce e mantiene l’essere di tutte le cose. Non determinatur (Deus) ad locum, vel magnum vel parvum, EX NECESSITATE SUÆ ESSENTIÆ, quasi oportet cum esse in aliquo loco, quum ipse fuerit ab æterno anteomnem locum; sed IMMENSITATE SUÆ VIRTUTIS ATTINGIT OMNIA QUÆ SUNT IN LOCO, QUAM SIT UNIVERSALIS CAUSA ESSENDI. Sic igitur ipse totus est ubicumque est, quia per simplicem suam virtutem universa attingit  (S. Thom. l, III, Contra gent. C. LXVIII). Se dunque Dio, può essere in tutti i luoghi, o in altri termini, se è immenso, è a giudizio dell’Angelo della Scuola, perché, possedendo una potenza infinita, è capace di operare, e pertanto di rendersi presente, in uno spazio senza termini né limiti, anche in uno spazio infinito, se una tale estensione fosse possibile. Si sit antiqua res incorporea habens virtutem infinitam, oportet quod sit ubique (S. Thom. L. III, Contra Gent. C. LXVIII, n. 2) – Et hoc proprie convenit Deo; quia quotcumque locu ponentur, etiamsi ponerentur infinita …, oportet in omnibus esse Deum, quia nihil potest esse nisi per ipsum (S. Theol. I, q. VIII, a. 4). Se Esso è di fatto in ogni luogo ed in tutte le creature, non esiste alcun spazio reale, alcun essere creato sul quale Egli non eserciti una azione diretta ed immediata, e col quale non sia in contatto con la sua virtù, e conseguentemente con la sua sostanza. Dei proprium est ubique esse; quia cum sit universale agens, ejus virtus attingit omnia entia, unde est in omnibus rebus (Summa Theol. I, q. CXII, a. 1).

III.

Questa onnipresenza di Dio, frequentemente chiamata dai teologi presenza di immensità, è stata designata da San Tommaso sotto altro vocabolo: egli l’ha chiamata presenza per modo di causa efficiente, per modum causæ agentis (Summa Theol., I, q. VIII, a. 3): espressione caratteristica e profonda che ha il doppio vantaggio di eliminare ogni idea di diffusione ed espansione della natura divina, e di indicare nel contempo che l’operazione divina è il vero fondamento dei rapporti esistenti tra Dio e la creatura. Del resto, servendosi di questa locuzione, San Tommaso non ha innovato né espresso una opinione puramente personale, ma si è mostrato qui, come sempre, l’eco fedele della Tradizione. – In effetti, dopo essersi ripreso dal suo errore relativo all’immensità divina, Sant’Agostino spiegava all’illustre corrispondente al quale indirizzava il suo libro “Sulla presenza di Dio”, che Dio è dappertutto non a modo di un corpo che si estende nello spazio, ma come sostanza creatrice, governante senza pena e conservando senza fatica questo mondo che ha creato (S. Aug. lib. De præsentia Dei, seu Epist. ad Dardan. 187, c. IV, n. 14). Egli diceva ancora che Dio è nel mondo come la causa efficiente del mondo, erat in mundo, quomodo per quem mundus factus est: come l’operaio è presente alla sua opera per reggerla, quomodo artifex regens quod fecit (S. Aug. in Evang. Joan. Tract. 2 n. 10). Se riempie il cielo e la terra, è per la presenza e l’esercizio della sua potenza, e non per la necessità della sua natura: impies cœlum et terram præsente potentia, non indigente natura (S. Aug. De civit. Dei, l. I, VII, c. XXX). San Tommaso sembra manifestamente essersi ispirato a questi diversi passaggi, quando dice: « Non bisogna credere che Dio sia dappertutto dividendosi nello spazio, di tal sorta che una parte della sostanza sia qui, ed un’altra altrove, ma Egli è tutto intero dappertutto, perché essendo assolutamente semplice, non ha parti. Non è tuttavia semplice a mo’ di un punto che termina una linea e che per questo occupi una situazione determinata e non possa essere che in un luogo indivisibile come stante assolutamente all’esterno da ogni genere di continuo: così non è affatto determinato, dalla necessità della propria natura, ad occupare un luogo qualunque, grande o piccolo, come se dovesse necessariamente essere localizzato in qualche parte, Egli che esisteva dall’eternità, quando non c’era ancora alcun luogo; ma grazie all’infinità della sua potenza, raggiunge tutto ciò che è nel luogo, essendo la causa universale dell’essere. Dunque, Egli è tutto intero dappertutto ove si trovi, perché tutto raggiunge con la sua virtù, che è molto semplice. Egli pertanto non è mischiato alle cose … ma è in tutte le sue opere a modo di causa efficiente. » (S. Tom.: Contra Gent., l, III, c. LXVIII). – San Fulgenzio, discepolo di Sant’Agostino, non parla altrimenti dal suo maestro. « Con la sua sostanza e la sua potenza – egli dice – è dappertutto, tutto intero dappertutto, riempie tutto non della sua massa, ma  della sua potenza: totus totum complens virtute, non mole …» (S. Fulg. Ad Trasim., c. XI). San Gregorio di Nissa giunge al punto di dire che è per una sorta di abuso che diciamo di una sostanza spirituale che essa è in un luogo, a causa dell’operazione che esercita sulle cose localizzate, prendendo così il luogo dell’operazione e della relazione che ne risulta. Quando dovremmo dire: essa opera qui o là, noi diciamo invece: essa è là. (S. Greg. Nyss., De Anima). Che la presenza sostanziale di Dio  nelle cose create sia fondata sulla sua operazione, è ciò che risulta manifestamente, ci sembra, da tutte queste testimonianze e da una moltitudine di altre simili che sarebbe facile riportare. Si è cercato nondimeno di confermare queste autorità e si è detto: senza dubbio l’operazione immediata di Dio in tutte le cose prova che Egli sia dappertutto, così come le parole di una persona che si sente conversare in un appartamento vicino, è la prova della sua presenza, non essendone però la ragione. Questo si potrebbe tradurre così: Questa persona è qui, poiché io la sento; essa non è qui perché io la sento; infatti potrebbe essere qui anche senza che io l’ascoltassi, se restasse in silenzio. Così è di Dio. Egli è dappertutto, poiché Egli opera in tutte le cose, ma non vi è perché vi opera; quand’anche Egli, per assurdo non agisse nelle creature, Egli nondimeno sarebbe interamente presente, essendo la sua sostanza infinita necessariamente non distante da tutto ciò che esiste nello spazio. – Questo ragionamento sarebbe esaustivo se Dio fosse nello spazio a modo di corpo. Un corpo è presente nel luogo e lo occupa, non con la sua azione, neanche direttamente con la sua sostanza, ma per le sue dimensioni, per il contatto delle sue parti del corpo che lo circonda e lo contiene; e come ciò che dà ad un corpo delle parti e delle dimensioni, che permette loro di mettersi in contatto con un altro corpo e di occupare uno spazio più o meno considerevole, è la quantità, è, propriamente parlando, nel luogo per la sua quantità: per quantitatem dimensivam, come si esprime la Scuola. – Tutt’altra è la ragione della presenza di uno spirito nel luogo; sostanza semplice ed esente da parti, non occupa di per se stesso alcun luogo, né grande né piccolo, e non richiede di alcuno spazio per estendersi. Tuttavia, se si vuole mettere in relazione con il luogo o le cose che vi sono contenute, esso lo può, esercitandovi la sua attività, applicandovi la sua energia; da qui questa proposizione che ha, per così dire, il valore di un assioma tra gli scolastici: gli spiriti sono nel luogo per contactum virtutis S. Tho.,Contra Gent., l. III, c. LXVIII). – E come l’attività di un essere è proporzionato alla natura che ne è il principio, la sfera d’azione degli spiriti è più o meno vasta, seconda che essi occupino un grado più o meno elevato nella scala degli esseri. Così un Arcangelo può occupare uno spazio corporeo più considerevole rispetto ad un Angelo, perché la sua virtù, la sua potenza attiva, essendo più grande, è nel contempo nello stato di esercitarsi su di una più larga scala, come un fuoco più intenso irradia più lontano. Ma siccome questo spirito creato e finito e limitato nella perfezione della sua potenza, non può che occupare un luogo determinato, finito, limitato; Colui solo è capace di essere dappertutto, di occupare tutti i dati spazi, per quanto estesi li si supponga, di cui la potenza infinita non avendo né limiti né argini, può esercitarsi in ogni luogo e su tutti gli esseri che li occupano qualunque sia la moltitudine e la grandezza (S. Th., Summa Theol., q. LII, a. 2). Di conseguenza, ciò che la qualità è ai corpi, cioè una proprietà distinta dalla loro sostanza estesa nello spazio, la potenza attiva lo è agli spiriti, che essa mette in contatto con il luogo e le cose che vi sono localizzate. Di là queste parole di San Tommaso. Incorporatia non sunt in loco per contactum quantitatis dimensivæ, sicut corpora, sed per contactum virtutis (Summa Theol., I, q. VIII, a. 2 ad. 1). Se Dio non agisse in noi, non sarebbe in noi. – Così, quando si chiede se l’ubiquità è una proprietà che conviene a Dio da tutta l’eternità, utrum esse ubique conveniat Deo ab æterno, in luogo di rispondere come certi teologi che Dio non è – è vero – presente da tutta l’eternità nelle cose che non esistevano ancora, ma che la sua sostanza si trova pertanto realmente ed eternamente negli spazi che devono occupare, nel susseguirsi dei tempi, tutti gli esseri creati, San Tommaso risponde: « la presenza della Divinità in tutti i luoghi comporta una relazione di Dio con le creature fondata su di un’operazione che è il principio della sua inesistenza nelle cose. Ora, ogni relazione fondata su di un’operazione che passi negli esseri creati, non può essere attribuita a Dio che temporalmente, perché questo tipo di relazioni, essendo attuali, suppongono l’esistenza di due termini. Allo stesso modo dunque che non si possa dire che Dio operi da tutta l’eternità nelle creature, così non si può a maggior ragione affermare la sua eterna presenza in esse, perché questo suppone la sua operazione. » (S. Th. Sent. L. I. dist. XXXVII, q. II, a. 3). – E se interrogate i santi Padri per domandar loro ove fosse Dio prima della creazione del mondo, in luogo di rispondere che Egli era negli spazi incommensurabili che occupa attualmente l’universo e che avrebbe potuto occupare migliaia di mondi più vasti del nostro, essi vi diranno per organo di San Bernardo: « Non è il caso di cercare ancora dove Egli fosse: nulla c’era all’infuori di Lui, Egli era dunque in Se stesso ». (S. Bern. De consider., l. V, cap. VI). Così, secondo il giudizio di San Tommaso e dei Padri della Chiesa, l’operazione divina formalmente immanente, poiché non esce e non è neanche distinta dal principio da cui emana, ma producente al di fuori degli effetti creati, e chiamato per questo virtualmente transitivo virtualiter transiens, ecco la ragione formale, il vero fondamento, il perché definitivo della presenza di Dio nelle creature.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/30/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-2/

SALMI BIBLICI: “BONUM EST CONFITERI DOMINO” (XCI)

SALMO 91: Bonum est confiteri Domino

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 91

Psalmus cantici, in die sabbati.

     [1] Bonum est confiteri Domino,

et psallere nomini tuo, Altissime.

[2] Ad annuntiandum mane misericordiam tuam, et veritatem tuam per noctem;

[3] in decachordo, psalterio, cum cantico, in cithara.

[4] Quia delectasti me, Domine, in factura tua; et in operibus manuum tuarum exsultabo.

[5] Quam magnificata sunt opera tua, Domine! nimis profundae factae sunt cogitationes tuae.

[6] Vir insipiens non cognoscet, et stultus non intelliget haec.

[7] Cum exorti fuerint peccatores sicut fœnum, et apparuerint omnes qui operantur iniquitatem, ut intereant in sæculum sæculi;

[8] tu autem Altissimus in æternum, Domine.

[9] Quoniam ecce inimici tui, Domine, quoniam ecce inimici tui peribunt; et dispergentur omnes qui operantur iniquitatem.

[10] Et exaltabitur sicut unicornis cornu meum, et senectus mea in misericordia uberi.

[11] Et despexit oculus meus inimicos meos, et in insurgentibus in me malignantibus audiet auris mea.

[12] Justus ut palma florebit; sicut cedrus Libani multiplicabitur.

[13] Plantati in domo Domini, in atriis domus Dei nostri florebunt.

[14] Adhuc multiplicabuntur in senecta uberi, et bene patientes erunt:

[15] ut annuntient quoniam rectus Dominus Deus noster, et non est iniquitas in eo.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XCI.

Salmo da cantare in sabbato (in festa), ad ammaestramento del popolo nelle opere di Dio, la creazione ed il governo del mondo.

Salmo, ovver cantico pel giorno di sabbato.

1. Buona cosa ell’è il dar gloria al Signore, e cantar inni al tuo nome, o Altissimo.

2. Per celebrare al mattino la tua misericordia e la tua verità nella notte;

3. Cantando sopra il saltero a dieci corde e sopra la cetra.

4. Perocché tu mi hai letificato, o Signore, colle cose fatte da te, e nelle opere delle tue mani io esulto.

5. Quanto sono magnifiche, o Signore, le opere tue! grandemente profondi sono i tuoi consigli.

6. L’uomo insensato non gl’intenderà, e lo stolto non capirà tali cose.

7. Allorché i peccatori saran venuti su come l’erba, ed avran fatta la loro comparsa tutti quelli che operano l’iniquità,

8. Essi periranno per tutti i secoli; ma tu, o Signore, tu sei eternamente l’Altissimo.

9. Imperocché ecco che i nemici tuoi, o Signore, ecco che i nemici tuoi periranno, e saranno spersi tutti quelli che operano l’iniquità.

10. E la mia forza sarà esaltata, come quella dell’unicorno; e la mia vecchiezza per la copiosa misericordia.

11. E il mio occhio guarderà con disprezzo i miei nemici, e le mie orecchie udiranno novella intorno a coloro che si levan su e malignano contro di me.

12. Fiorirà il giusto come la palma; s’innalzerà qual cedro del Libano.

13. Allorché son piantati nella casa del Signore, fioriranno nell’atrio della casa del nostro Dio.

14. Ringioveniranno di nuovo in pingue vecchiezza, e saranno ben forti per annunziare,

15. Come il Signore Dio nostro ègiusto, e non è in lui la minima iniquità.

Sommario analitico

In questo salmo, composto per essere cantato nel giorno del sabbat, Davide è in contemplazione davanti all’opera della Creazione, del governo della provvidenza divina (1).

I.- Dichiara che è giusto e buono lodare Dio:

1° con il cuore,

2° con la bocca, – a) per annunciare al mattino la misericordia di Dio, – b) o la sua verità nella notte (1, 2);

3° con il concorso degli strumenti (3).

II. – Egli motiva la dichiarazione che sta per fare, è a causa:

1° dell’opera della creazione; – a) è uno spettacolo meraviglioso e che riempie di gioia l’anima di coloro che  lo considerano con attenzione (4); – b) resta impenetrabile invece per coloro che lo considerano senza intelligenza (5, 6);

2° del governo dell’universo e della Provvidenza divina, che si manifesta – a) nella sorte riservata ai malvagi dopo la loro prosperità passeggera; – b) nel regno eterno di Dio e del suo Cristo, e nel suo trionfo sui suoi nemici (9); – c) nella protezione segnalata che Dio accorda a coloro che Gli sono fedeli: 1) Dio li solleva durante la loro vita, 2) li ricolma di beni fino alla loro estrema vecchiaia (10); 3) alla morte essi disprezzano i loro nemici (11); 4) essi fioriscono come palma e si moltiplicano come il cedro(12); 5) la ragione di questo splendore, di questa fecondità, è che essi sono piantati nella casa del Signore, e si moltiplicheranno in una vecchiaia feconda, per annunziare la giustizia e la sanità di Dio (13, 15). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. 1-3.

ff- 1-3. – Prendete consiglio dagli uomini ed essi vi diranno come sia bene fare la corte ai grandi della terra, il lusingarli, cantare le loro lodi, elevare monumenti alla gloria del loro nome. Consigli frivoli e quasi sempre perniciosi. Il Profeta vede come un’unica occupazione sia veramente lodevole e necessaria, se non quella di rendere omaggio al Signore, celebrare il suo santo Nome; e non abbiamo la temerarietà – dice S. Agostino – di mescolare il nostro amor proprio, la nostra vanità, nel culto che rendiamo a Dio. Ci è stato detto che i nostri nomi sarebbero scritti nel cielo e nel libro della vita, ma a condizioni che non cerchiamo se non la gloria del Nome di Dio. Che sia santificato il vostro Nome, è la preghiera che ci viene raccomandata, e quale Nome può essere paragonato al Nome di Dio? (Berthier). – È molto giusto, utile, piacevole e glorioso lodare il Signore: questo è giustissimo perché questa lode gli è dovuta; è cosa molto utile perché per noi è la fonte di gran merito e mediante essa, di gran ricompensa; piacevolissima, perché nulla è più dolce che lodare ciò che si ama; molto gloriosa perché è le medesima funzione degli Angeli (Bellarm.). – « È buono confessare al Signore. » Ma cosa confessare al Signore? Nell’uno o nell’altro caso, confessate al Signore: se avete peccato, ché siete voi che l’avete fatto; se avete compiuto qualche bene, è Lui che lo ha fatto. Allora canterete sul salterio, in Nome del Dio Altissimo, cercando la sua gloria e non la vostra, il suo Nome e non il vostro. Se cercate il Nome di Dio, Egli cercherà il vostro; ma se voi cancellate il Nome di Dio, Egli cancellerà il vostro. (S. Agost.). – Il giorno e la notte sono egualmente capaci di far risuonare le lodi di Dio, le lodi della sua bontà e le lodi della sua verità. Anche Davide ci dice in un altro salmo, il XXXIII, che egli benedice il Signore in ogni tempo, che la sua lode è sempre sulla sua bocca. Tuttavia sembra che la luce che al mattino viene a rivelare all’uomo le innumerevoli meraviglie della creazione, ovvero il giorno, sia per eccellenza il tempo favorevole all’espressione dei sentimenti di ammirazione e di riconoscenza che eccita la vista di tanti benefici, dovuti unicamente alla bontà divina; mentre la notte, anch’essa sì ricca di tante meravigliose opere del Creatore, ne vela una gran parte, e che avvolge in un vasto silenzio le città e le campagne, le montagne ed i mari, sia maggiormente destinata ai gravi pensieri, alle meditazioni seriose, ai sentimenti di venerazione e di timore, a tutto ciò che ispira, in una parola, l’idea della verità, che nello stesso tempo è l’idea della giustizia. (Rendu). – Cosa significa ancora che bisogna annunziare la misericordia di Dio al mattino e la verità di Dio durante la notte? Il mattino rappresenta la felicità di cui possiamo gioire; la notte rappresenta la tristezza che ci causa il dolore. Cosa dunque ha espresso il Profeta in queste poche parole? Quando siete nella felicità, rallegratevi in Dio, perché questo stato felice è opera della sua misericordia. Ma – direte – se io mi rallegro in Dio quando sono nella felicità, perché questo stato felice è opera della sua misericordia, cosa farò quando sarò nella tristezza e nell’afflizione? La felicità mi viene dalla sua misericordia, l’infelicità mi verrebbe dal suo rigore? No: ma nella felicità, lodate la sua misericordia, e nell’infelicità, lodate la sua verità; se Egli punisce i vostri peccati, non per questo è ingiusto. Daniele era di notte che pregava, perché Gerusalemme era prigioniera, in potere dei nemici. Allora i Santi erano caricati di mille mali; allora Daniele stesso fu gettato nella fossa dei leoni; allora i tre giovani furono precipitati nella fornace. Era notte, e durante questa notte, Daniele glorificava il Signore: diceva nella sua preghiera: « noi abbiamo peccato, abbiamo agito da empi, abbiamo commesso l’iniquità; a Voi la gloria Signore, a noi la confusione. » (Dan. VI, 5-7). Egli annunciava la verità durante la notte. Che significa annunziare la verità durante la notte? Non accusare Dio del male che si soffre, ma attribuirlo ai vostri peccati ed all’emenda che Egli vuol promuovere in voi. Se voi annunciate la sua misericordia al mattino e la sua verità durante la notte, voi lodate Dio in ogni tempo, confessate Dio in tutti i tempi e celebrate il suo Nome sul salterio (S. Agost.). – Questi strumenti musicali che si toccavano con le mani, ed il canto che vi si univa, ci insegnano che bisogna lodare Dio con la bocca e con le opere. Se pronunciate soltanto le parole, cantate un cantico senza l’accompagnamento sulla cetra; se agite solo senza aggiungere le buone parole, non fate che suonare la sola arpa. Bisogna dunque ben fare e ben dire, se volete canta sull’arpa.    

II. — 4-15.

ff. 4, 5. – Davide non dice: la vista delle vostre creature mi ha riempito di gioia; ma Voi mi avete riempio di gioia alla vista delle vostre creature, perché non bisogna fermarsi alla gioia che danno le creature; è il Creatore che bisogna vedere in esse, è Lui che ci fa gioire: 1° perché è nascosto sotto le creature come sotto un velo; 2° perché non cessa di agire in tutte le creature; 3° perché è infinitamente più bello, più perfetto di tutti gli esseri che Egli ha creato. – Si ama nell’intendere Davide darsi a queste crisi di gioia alla vista delle bellezze della natura, e possiamo giustamente concluderne che lo studio delle scienze naturali sia ben lungi dall’essere contrario alla Religione. Queste scienze sono belle, quando se ne sa penetrare lo spirito; esse sono nocive quando le si prendono alla leggera. Un po’ di scienza allontana dallo spirito di Dio, molta scienza ve lo riconduce. Bisogna lavorare molto per stimare la materia, per comprendere ciò che essa abbia di bello, di regolarità matematiche, di obbedienza assoluta alle leggi; e poi bisogna lavorare ancora per comprendere quanto essa sia comunque poca cosa. –  Davide si eleva dalla contemplazione delle creature, fino al Creatore stesso, e in esse ama il Creatore. Innamorato di questa bellezza immortale, egli prende ad amarlo e a rallegrarsi in Dio. – È Dio stesso che deve riempirci di gioia manifestandoci le opere delle sua mani. Se le bellezze sensibili sparse nelle opere del Creatore fissano i nostri pensieri, se è in esse che noi concentriamo i nostri sentimenti, esse ci incantano, ci seducono e diventano per noi una rete in cui i piedi degli insensati sono presi. (Sap. XIV, 11). – Sant’Agostino ammirava le opera di Dio, ma aggiungeva: « Che cosa sono al vostro confronto, Signore? Alla vostra presenza, ogni bellezza, ogni bontà si eclissa. – E a cosa devono condurre le alte scienze. O filosofi dei giorni nostri, di qualunque livello voi siate, o osservatori degli astri, contemplatori della natura inferiore ed attaccati a ciò che si chiama fisica, o occupati nelle scienze astratte che si chiamano matematiche, in cui la verità sembra presiedere più che nelle altre, io non voglio dire che non abbiate oggetti degni dei vostri pensieri; perché di verità in verità, voi potete giungere fino a Dio, che è Verità delle verità, sorgente di verità, la Verità stessa, in cui sussistono le verità che voi definite eterne, verità eterne ed immutabili, che non possono non essere verità, e che tutti coloro che aprono gli occhi in esse, e non di meno al di sopra di esse, poiché esse regolano i loro ragionamenti come quelli degli altri e presiedono alle conoscenze di tutto ciò che vede ed intende, sia uomini, sia Angeli. È questa verità che dovete cercare nelle vostre scienze. Coltivate dunque queste scienze, ma non lasciatevene assorbire; non presumete e non crediate di essere qualcosa più degli altri, perché conoscete le proprietà e le ragioni delle grandezze e delle infimità, il vostro cibo di spiriti curiosi e deboli che dopo tutto non porta a nulla, che esiste ma non ha nulla di solido che, per quanto si abbia l’amore della verità e l’abitudine di conoscerla negli oggetti certi, fa cercare la vera ed utile certezza in Dio solo (Bossuet, Elév. XVII, S. m., E.). – Quanto magnifiche sono le vostre opere, Signore! I vostri pensieri sono di una profondità infinita. In verità non c’è un mare sì profondo che non sia questo pensiero di Dio, di lasciare i malvagi nella prosperità ed i buoni nella sofferenza; non c’è acqua sì profonda, così alta; è in questa altezza, in questa profondità che ogni incredulo fa naufragio. Volete uscire da questo abisso? Non lasciate la Croce del Cristo e non sarete sommerso; tenetevi attaccati al Cristo. Cosa significa ciò che dico: tenetevi attaccati al Cristo? È tale lo scopo della sofferenza che ha voluto sopportare sulla terra. Soffrite dunque e sopportate le afflizioni del mondo, per meritare questo fino che avete visto realizzato nel Cristo, e non lasciatevi scuotere dall’esempio di coloro che fanno il male e sono floridi in questo mondo. « I vostri pensieri sono di una profondità infinita. » Qual è il pensiero di Dio? Al presente, lascia cadere le redini, ma le serrerà più tardi. Non condividete la gioia del pesce che trionfa della preda che ha afferrato: il pescatore non ha ancora tirato l’amo, ma l’amo è già nella gola del pesce. Il tempo che vi sembra lungo, in realtà è breve; ogni cosa passa presto, che cos’è la più lunga vita dell’uomo in confronto all’eternità di Dio? Volete avere longanimità? Considerate l’eternità di Dio; altrimenti voi considerate i pochi giorni che vi rimangono, e voi vorreste che in questi pochi giorni si compiano tutte le cose. Ma quali cose dunque? Che tutti gli empi siano condannati e tutti i buoni coronati. Voi volete dunque vederli tutti compiuti nel breve spazio della vostra vita? Dio li compie alla loro ora. Perché risentirvene o annoiarvene? Dio è eterno; Egli differisce, mostra longanimità. Ma voi dite: è perché io non duro che un momento, perché io manco di longanimità. È in vostro potere l’essere come Dio: unite il vostro cuore all’eternità di Dio e sarete eterno come Lui. (S. Agost.).

ff. 6-9. – Chi sono questi insensati? Coloro dei quali san Paolo ha detto: « Avendo conosciuto Dio, essi non l’hanno glorificato come Dio, non gli hanno reso grazie, ma sono svaniti nei loro pensieri ed il loro cuore insensato è stato oscurato. Questi uomini, che si dicono saggi, son divenuti folli; » (Rom. I, 21, 22); ed ancora: « l’uomo animale non comprende le cose che sono dello Spirito di Dio: esse gli sembrano una follia, non può comprenderle, perché se ne giudica bene solo con lo Spirito. » (1 Cor. II, 14). – Quali sono le cose che lo stolto non comprenderà e che l’insensato non conoscerà? « Quando i peccatori si saranno elevati come il fieno … » Che vuol dire: « come il fieno? » Esso è verde fino all’estate, ma venuto l’inverno, si secca. Vedete il fiore del fieno. C’è cosa che passa più in fretta? C’è nulla di più fresco? Nulla di più verde, non vi compiacete della sua freschezza, ma temete la maniera in cui dissecca. (S. Agost.). – La saggezza divina appare soprattutto in ciò che si lascia elevare ed apparire un momento come malvagio per perderlo per sempre, mentre essa lascia disseccare un momento il giusto alla radice per farlo rifiorire nell’eternità. – I peccatori non periscono allo stesso modo in cui sono fioriti: essi fioriscono in mezzo ai falsi beni, periscono in mezzo ai veri tormenti. (S. Agost.., sul Ps. LIII). – Voi avete visto degli imperatori, avete visto dei prefetti, delle armate, avete visto vittorie, trionfi, tutto questo è passato ieri e non esiste oggi (S. Girol. Su questo Ps.). – Il salmista non vuol dire che Dio li fa nascere e li colma di beni perché  siano riprovati, egli espone solo il fatto, mostra qual sia il termine della loro grandezza passeggera… – « Ma Voi, Signore, Voi siete l’Altissimo per l’eternità. » Voi attendete dall’alto, nella calma della vostra eternità che il tempo degli ingiusti passi e venga il tempo dei giusti … Dio è pieno di longanimità e di pazienza; Egli soffre tutte le iniquità che vede commettere dai malvagi. Perché? Perché Egli è eterno e vede ciò che è a loro riservato. Volete ancor voi avere pazienza e longanimità? Unitevi all’eternità di Dio, attendete con Lui ciò che è sotto di voi. – L’accecamento e la stupidità della maggior parte degli uomini, in rapporto a Dio ed alle sue opere temporali o spirituali, non impedisce affatto che essi riescano in questo mondo. Essi crescono con la rapidità dell’erba, si coprono di fiori, producono frutti abbondanti, prosperano, si elevano, salgono sui pinnacoli; poi, tutto ad un colpo, cadono e periscono per l’eternità. (Rendu). – In opposizione ai malvagi, che gioiscono per qualche istante di prosperità e che sono poi precipitati in un abisso di miserie senza fine e senza limiti, il salmista fa apparire Dio con i suoi attributi più incomunicabili, Potenza al di sopra di ogni altra potenza, una esistenza eterna. Ora si spiega perfettamente sia l’intera sconfitta dei suoi nemici sia il trionfo dei giusti. Nel numero di questi giusti coronati di gloria, figurano coloro ai quali Dio ha fatto la grazia di servirli dai loro più giovani anni, e che Egli ricompensa in questo mondo, accordando loro una verde e florida vecchiaia. Favore, del resto, che è un bene minore per essi, di cui ritarda il ritorno nella patria celeste, che per la loro famiglia di cui sono il modello, per la società di cui sono l’ornamento e l’edificazione (Rendu).

ff. 10-15. – Ecco l’opposizione della sorte dell’uomo giusto nei confronti di quella degli empi. La forza del giusto non sarà simile a quella dell’erba disseccata che passerà rapidamente, ma a quella di questo corno elevato e potente che i liocorni portano sulla loro fronte, e la sua vecchiaia si rinnoverà con l’abbondante misericordia di Dio; questa forza, che nello stesso tempo è una potenza, una gloria ed una felicità, non sarà solamente grande, energica, ma ancora durevole e persevererà fino alla sua estrema vecchiaia, che sarà sempre attiva e feconda (Bellarm.). – Non bisogna credere che il Profeta, parlando della vecchiaia, supponga anche la morte, secondo il fatto che l’uomo non invecchia nella carne che per morire. La vecchiaia della Chiesa sarà bianca a causa della purezza delle sue azioni, ma non subirà la corruzione della morte. Tale è la testa di un vegliardo, tali saranno le nostre opere. Voi vedete come la sua testa diventi bianca e calva, man mano che la vecchiaia si avanzi. In un uomo vecchio nel suo tempo naturale, cercherete vanamente sulla sua testa un capello nero, non lo troverete; ugualmente, se la nostra vita è stata nel giusto, e cercando il nero del peccato, non lo si trova, la nostra vecchiaia sarà una vera giovinezza, una vecchiaia sempre verde. Il Profeta ci ha parlato del fieno dei peccatori, ecco ora la vecchiaia dei giusti: « la mia vecchiaia sarà colma di abbondante misericordia. » (S. Agost.). – Non c’è che colui che disprezza il suo nemico e che non ha nulla da temere nel guardarlo in viso, considerarlo; se lo teme fugge alla sua presenza (Bellarm.). – « Egli ha gettato un occhio di disprezzo sui miei nemici. » Chi sono coloro che egli chiama i suoi nemici? Tutti coloro che commettono l’iniquità. Non notate forse che il vostro amico è un uomo di iniquità? Che si prospetta un affare e voi lo disapprovate. Da come vi elevate contro la sua ingiustizia, voi vedrete che, nel lusingarvi, sarà vostro nemico; ma voi non avete ancora sondato il suo cuore, non per farlo divenire ciò che non era, ma per forzarlo a mostrare ciò che era. – « Ed io ho gettato un occhio di disprezzo sui miei nemici, e il mio orecchio ascolterà ciò che sarà detto al soggetto di coloro che vogliono nuocermi. » Quando questo? Nella mia vecchiaia. Cosa vuol dire: nella mia vecchiaia? Nell’ultimo giorno! E cosa ascolterà il nostro orecchio? Posti alla destra del Cristo, noi ascolteremo ciò che sarà detto a coloro che saranno posti alla sua sinistra: « Andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il demonio e per i suoi angeli. » (Matt. XXV, 11). Il giusto non ha da temere l’ascolto di queste terribili parole. È detto in un altro Salmo: « … la memoria del giusto sarà eterna; egli non temerà di dovere intendere la parola cattiva. » (Ps. CX, 7) – (S Agost.). – « Il giusto fiorirà come una palma, si moltiplicherà come i cedri del Libano. » Bisogna comprendere questa moltiplicazione del giusto, come una crescita; è il senso del testi. Si sa che il cedro si eleva a grande altezza, che la palma porta dei fiori molto belli e frutti in abbondanza. Il profeta sceglie questi alberi come termini di paragone, per dare l’idea più esatta dell’uomo giusto. Si è detto qui sopra che gli empi sono come l’erba dei campi, che appare e appassisce molto presto. Egli oppone qui la bellezza, la fecondità del giusto che compara ai due alberi più rinomati della Giudea: le palme ed i cedri cominciano ad emettere delle radici profonde nel seno della terra, ed i giusti entrano nell’abisso del loro niente prima di produrre dei frutti degni di immortalità. Le loro radici, dice San Agostino, sembrano come quella della palma e del cedro, aggrovigliate, irregolari, disseminate di nodi, perché nel procedere della virtù, le prime sono più difficili; ma l’umiltà e la pazienza superano tutti gli ostacoli, e da lì esce il tronco magnifico che si leva fino al cielo. L’ardore del sole fa appassire il fiore dei campi; ma i grandi alberi del Libano resistono ai fuochi voraci dell’estate, come al gelo dell’inverno, e quando la collera divina si infiammerà come una fornace, nel giorno delle vendette, il giusto non sarà raggiunto dall’incendio che consumerà gli empi; Questo avverrà al contrario nei riguardi del servitore fedele. Il giudizio di Dio verrà, conclude S. Agostino, per divorare i peccatori e per coprire i giusti di un nuovo splendore (Berthier) – I Padri rimarcano nel cedro delle eccellenti qualità: innanzitutto, la sua altezza maestosa che domina le montagne; poi il profumo che diffonde; infine questa proprietà che possiede di essere meno soggetto alla corruzione. Il giusto che, con la speranza, si porta incessantemente verso i beni eterni, somiglia al cedro che si eleva maestoso sulla montagna; come esso esala dei profumi, se con le sue pere e le sue virtù, spande in ogni luogo il buon odore di Gesù-Cristo; come lui, infine, sfugge alla corruzione perché, fermamente fissato in Dio da un solido amore, non si lascia corrompere da alcuna affezione terrena. (Mgr. DE LA Bouillerie, Symbolismo, 417). – La ragione per la quale i giusti saranno come le palme ed i cedri del Libano, è che non saranno piantati nelle foreste o nelle montagne deserte, ma nella casa di Dio, uniti a Dio con le radici della vera fede, portando i frutti dei buoni costumi, fondati sulla carità, ornati di fiori di purezza (Bellarm.). – Poiché il giusto è piantato nella casa di Dio, le sue foglie, i suoi fiori, e i suoi frutti vi crescono e sono dedicati al servizio di sua Maestà. « Esso è come l’albero piantato lungo corsi d’acqua, che produce il suo frutto a suo tempo; anche le sue foglie non cadranno; tutto ciò che fa, prospererà. » (Ps. I, 2). Non solo i frutti della carità ed i fiori delle opere che produce, ma pure le foglie delle virtù morali e naturali traggono una speciale prosperità dall’amore del cuore che le produce (S. Franc. De Sales, T. de l’am.de Dieu, I, XI, c, I). – L’uomo giusto che è invecchiato nei santi esercizi della pietà raccoglie, sul ritorno dell’età tutti i frutti della sua fedeltà. Egli è più istruito che mai circa le verità divine e sulle vie divine, dice S. Girolamo:  « Ætate fit doctior, usu tritior, processu lempore sapientior, et veterum studiorum dulcissimos fructus metit (Epist. 2 ad Nep.); egli ne parla con tutta l’autorità che dà una lunga esperienza. Più si avvicina al termine, più i suoi sentimenti si sviluppano, più i suoi meriti si moltiplicano … oh! Se la giovinezza andasse a riposare all’ombra di questa palma carica di fiori e frutti; se si mettesse al riparo dalle bufere del mondo sotto questo cedro magnifico che porta la sua testa verso il cielo e le cui radici si approfondano fin nelle viscere della terra; se essa ascoltasse gli insegnamenti di questa vecchiaia pieno di forza e di vigore per annunciare a tutti i popoli l’equità della condotta di Dio, con i suoi discorsi, la sua pazienza e con l’umile sottomissione ai decreti divini. Questa pazienza, necessaria soprattutto ai predicatori, ai dottori, ai superiori. « La dottrina di un uomo si riconosce dalla sua pazienza. » (Prov. XIX, 11). « … Annunziate la parola, insistete in ogni occasione, opportuna e non opportuna; ammonite, rimproverate, esortate, minacciate con ogni magnanimità e ogni sorta di istruzione. » (II Tim. IV, 2). « Essi saranno pieni di vigore e di pazienza per annunziare che il Signore nostro Dio è pieno di equità, e che in Lui non c’è ingiustizia. » Come non c’è ingiustizia in Lui? Ecco un uomo che non conosce che il male; ebbene, egli gode di una buona salute, ha figli, la sua casa è piena di ricchezze, è coperto di gloria, ricolmo di onori, progetta vendette per i suoi nemici e commette anche ogni sorta di cattive azioni. Ed eccone un altro che conduce onestamente i suoi affari, che non prende i beni altrui, che non fa del male a nessuno, e soffre nelle prigioni e nelle catene, sospira e muore nell’indigenza. Com’è allora in Dio non c’è ingiustizia? Conservate la pace e comprenderete perché vi turbate, e nella vostra camera segreta vi aprirete alla luce da voi stessi. Il Dio eterno vuole illuminarvi con i suoi raggi, non oscuratelo con le nubi del vostro agitarvi. Conservate la vostra pace dento di voi ed ascoltate cosa ho da dirvi: Dio è eterno, risparmia attualmente i malvagi per portarli al pentimento, punisce i buoni per insegnar loro la via del regno dei cieli; « … Non c’è ingiustizia in Lui, » non temete nulla. Ma fino a qual punto non ho sofferto? È evidente, io ho peccato, lo confesso, non pretendo d’essere giusto; ecco ciò che dice il maggior numero di gente. Se vedete un uomo nell’infelicità, nelle sofferenze, entrate da lui per consolarlo, ed egli vi dice: io ho peccato, lo confesso; io ho volpa, lo riconosco; ma io ho peccato come costui? Io so quale peccato ha commesso, io so quali colpe ha fatto: per quanto mi riguarda io ne ho senza dubbio, lo riconosco davanti a Dio, ma quanto esse sono minori delle sue? Ed io invece non ho da soffrire come lui! Non vi turbate conservate la vostra pace così da sapere che « il Signore è retto e che in Lui non c’è ingiustizia. » (S. Agost.).   

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO X – “UNE FOIS ENCORE”

« … L’illusione infatti non è più possibile: si è dichiarata la guerra a tutto ciò che è soprannaturale, perché dietro al soprannaturale si trova Dio, e ciò che si vuol cancellare dal cuore e dall’anima dell’uomo è appunto Dio…» Questo è uno dei passaggi chiave della nuova lettera enciclica che il Santo Padre Pio X, nel corso del suo difficile Pontificato, indirizza al popolo francese, scosso da eventi drammatici voluti dalle sette ivi operanti, come chiaramente indicato in un successivo passaggio: « … Le dichiarazioni, mille volte fatte e ripetute nella stampa, nei congressi, nelle conventicole massoniche, nel seno stesso del parlamento, lo provano tanto, quanto gli attacchi che vennero progressivamente e metodicamente rivolti contro di lei. » Per farsi ben intendere, il Sommo Pontefice utilizza addirittura la lingua d’oltralpe e difende con grande vigore i diritti della Chiesa francese vilmente calpestati da leggi inique emanate da governi “fantoccio” diretti dalle logge dei “figli della vedova”, tentacoli velenosi della piovra di “quelli che odiano Dio, la sua unica vera Chiesa, tutti gli uomini ed in particolare i Cristiani”. Questa oppressione poi doveva manifestarsi in tutta Europa, nell’America latina, ed ovunque vi fosse una società cristianamente organizzata. Oggi sembra che questa lotta sia attenuata, ma è una fallace impressione, poiché la setta infernale, la sinagoga di satana dei grembiulini, si è stabilmente infiltrata nei sacri palazzi dell’urbe e dell’orbe, ed indisturbata conduce singoli e popoli interi al fuoco eterno senza colpo (apparentemente) ferire, anzi – guidando pure tutta la stampa mondiale, ad essa totalmente asservita – finge ottimismo, buonismo e filantropia in cui c’è tolleranza per ogni genere di errore, laico, gnostico o pseudoreligioso che sia, ma preclude assolutamente al pensiero ed alla dottrina cristiana. Però, grazie a Dio, la Chiesa Cattolica (non quella a-Cattolica del Va’-t’inganno), resiste pur nelle moderne catacombe e negli spazi strettissimi, angusti ed asfissianti di un culto sotterraneo, in attesa della manifestazione improvvisa e potente del Re del mondo, il Creatore dei cieli e della terra, che con il soffio della sua bocca (v. II Tess.), brucerà il demonio anticristo insediato nel luogo santo della Sede Apostolica, e dei suoi dannati (anzitempo) adepti. E allora niente più illusioni, ci avverte S. Pio X, siamo in un combattimento tremendo, essenzialmente spirituale, in cui il vincitore sarà chi, sostenuto dal Creatore di tutte le cose visibili ed invisibili, con la sua grazia, resisterà alla “civile” barbarie ed alla feroce persecuzione ideologica e dottrinale, quella che forse non conduce alla gloriosa morte fisica del martirio dei primi secoli della Chiesa, patita sotto gli imperatori romani, ma peggio ancora, pur se invisibile all’occhio di carne, alla sicura morte eterna dell’anima. Facciamo nostro il grido accorato del Sommo Pontefice e preghiamo affinché il Signore, per intercessione della Beata Vergine nostra Madre e Madre di Dio, abbrevi questi giorni funesto e decisivi per la salvezza di miliardi di anime, e con una sovrabbondanza di grazia ci conduca alla vita eterna, nel Regno di cui ci ha costituito suoi coeredi. 

S. S. PIO X

“UNE FOIS ENCORE”

I gravi avvenimenti che incalzano nel vostro nobile paese ci portano a rivolgere, ancora una volta, la parola alla Chiesa di Francia per sostenerla nelle sue prove e consolarla nel suo dolore. È infatti allorquando i figli sono in angoscia che il cuore del padre deve più che mai volgersi verso di loro. È per questo che, quando Noi vi vediamo soffrire, dal fondo del paterno animo l’effusione della tenerezza deve sgorgar più copiosa e venire a voi più feconda di conforto e più soave. – Queste afflizioni, venerabili fratelli e figli dilettissimi, hanno al presente un’eco dolorosa in tutta la Chiesa Cattolica: ma Noi le  sentiamo in una maniera ancora più viva e vi compatiamo con una tenerezza, che, aumentando con le vostre prove, sembra accrescersi di giorno in giorno. A queste crudeli amarezze il Signore ha unito, è vero, una consolazione che non potrebbe essere più preziosa per il Nostro cuore. Essa Ci venne dal vostro incrollabile attaccamento alla Chiesa, dalla vostra fedeltà indefettibile a questa Sede Apostolica e dall’unione forte e profonda che regna tramezzo a voi. Di questa fedeltà e di questa unione Noi già da prima eravamo sicuri, e poiché troppo bene conosciamo la nobiltà e generosità del cuore francese, per avere a concepire il timore che, nell’ardore della battaglia, potesse la disunione insinuarsi nelle vostre file. Non per questo però meno grande è la gioia che Noi proviamo, nel vedere lo spettacolo magnifico che voi date presentemente encomiandovene al cospetto di tutta la Chiesa, benediciamo dal fondo del cuore il Padre delle misericordie, Aurore  di ogni bene. Il far ricorso a questo Dio infinitamente buono è tanto più necessario in quanto la lotta, lungi dall’acquetarsi, si inasprisce ognora più e va senza tregua estendendosi. Non è più soltanto la fede cristiana che si vuole ad ogni costo sradicata dall’intimo dei cuori, è addirittura ogni credenza che, sollevando l’uomo ad disopra degli orizzonti di questo mondo, lo porta soprannaturalmente a fissare lo stanco suo guardo verso il cielo. L’illusione infatti non è più possibile. si è dichiarata la guerra a tutto ciò che è soprannaturale, perché dietro al soprannaturale si trova Dio, e ciò che si vuol cancellare dal cuore e dall’anima dell’uomo è appunto Dio. Questa lotta sarà accanita e senza tregua da parte di coloro che la muovono. A misura che essa si andrà svolgendo, è possibile ed anche probabile che vi aspettino prove più dure di quelle che avete conosciute finora. La saggezza dunque impone a ciascuno di voi di prepararvisi. Voi lo farete schiettamente, virilmente  e con fiducia, sicuri che, qualunque sia la violenza della battaglia, la vittoria rimarrà infine nelle vostre mani. Pegno di questa vittoria sarà la vostra unione: unione prima tra voi, unione poi con questa Sede Apostolica. Questa duplice unione vi renderà invincibili, e contro di essa tutti gli sforzi si infrangeranno. I vostri nemici del resto non si sono risparmiati a questo riguardo. Fin dal primo momento e con una grande sicurezza di vedute,  essi hanno scelto il loro obiettivo: in primo luogo, separarvi da Noi e dalla cattedra di Pietro, poi seminare la divisione in mezzo a voi – Da allora in poi non hanno affatto cambiato tattica; a questa sono ritornati costantemente e con tutti ì mezzi; gli uni con formule avviluppate e piene di destrezza, gli altri con brutalità e con cinismo. Promesse ingannatrici, premi ignominiosi offerti allo scisma, minacce e violenze, tutto è stato messo in gioco ed adoperato. Ma la vostra illuminata fedeltà ha  sventato tutti questi tentativi. Pensando allora che il miglior mezzo per separarvi da Noi, era il togliervi ogni fiducia nella Sede Apostolica, essi non hanno esitato a gettare dall’alto della tribuna e nella stampa il discredito sui Nostri atti, misconoscendo e talvolta calunniando perfino le Nostre intenzioni. La Chiesa, si è detto, cerca di suscitare in Francia la guerra religiosa e affretta con tutti i suoi voti la persecuzione violenta. – Strana davvero siffatta accusa. Fondata da Colui che venne al mondo per pacificarlo e per riconciliare l’uomo con Dio, messaggera di pace su questa terra, la Chiesa non potrebbe volere la guerra religiosa se non ripudiando la sua sublime missione e rinnegandola al cospetto di tutti. – Essa al contrario rimane e rimarrà sempre fedele a questa missione di paziente dolcezza e di amore. D’altra parte il mondo intero oggi sa, né può su ciò cadere in inganno, che, se la pace delle coscienza è in Francia spezzata, ciò non è per iniziativa della Chiesa, ma per quella dei suoi nemici. Gli spiriti imparziali, anche quando non condividono la nostra fede, riconoscono tuttavia che, se nella patria vostra diletta si combatte sul terreno religioso, non è già perché la Chiesa sia stata la prima ad ingaggiare la lotta, ma perché a lei stessa è stata dichiarata la guerra. Questa guerra, da venticinque anni in modo particolare, essa non fa che subirla. Ecco la verità. Le dichiarazioni, mille volte fatte e ripetute nella stampa, nei congressi, nei conventi massonici, nel seno stesso del parlamento, lo provano tanto, quanto gli attacchi che vennero progressivamente e metodicamente rivolti contro di lei. Questi sono fatti innegabili e contro i quali non potrà mai prevalere alcun argomento. La Chiesa dunque non vuole la guerra, la guerra religiosa meno ancora delle altre, e affermare il contrario significa lanciare contro di essa calunnia e un oltraggio. Né certo essa brama la persecuzione violenta. Questa persecuzione essa ben la conosce per averla sofferta in tutti i tempi e sotto tutti i cieli. Parecchi secoli per lei trascorsi nel sangue, le danno dunque il diritto di dire con una santa fierezza che essa non la teme punto, e che quante volte ciò sarà necessario, saprà bene affrontarla. Ma la persecuzione per se stessa è il male, perché è l’ingiustizia e impedisce all’uomo di adorare liberamente Dio. La Chiesa dunque non può desiderarla, in vista del bene che sempre, nella sua infinita sapienza, ne trae la Provvidenza. – Inoltre, la persecuzione non è soltanto il male, essa è altresì il dolore, ed è questa un’altra ragione per la quale non la desidererà giammai, per compassione verso i suoi figli, la Chiesa, che è la migliore delle madri. – Del resto, questa persecuzione, alla quale le si rimprovera di voler spingere altri e che si dichiara di essere fermamente decisi di rifiutarle, le viene poi inflitta realmente. Non vennero, forse, anche di recente, espulsi Vescovi dai loro vescovadi, e perfino i più venerandi fra essi e per età e per virtù; scacciati i seminaristi dai seminari maggiori e minori; non si è cominciato a bandirei curati dalle loro canoniche? Tutto il mondo cattolico ha veduto questo spettacolo con tristezza, e non ha esitato affatto nel dare a tali violenze il nome che ad esse si conveniva. – Per ciò che riguarda i beni ecclesiastici, che Ci si accusa di essere abbandonati, importa notare che questi beni erano per una parte il patrimonio dei poveri, e il patrimonio, più sacro ancora, dei defunti. Non era dunque lecito per la Chiesa né abbandonarli, né consegnarli; essa non poteva che lasciarseli strappare con la violenza. Nessuno del resto crederà che essa abbia abbandonato deliberatamente, se non sotto la pressione di ragioni più imperiose, ciò che le era stato così affidato, e che le era così necessario per l’esercizio del culto, per la conservazione degli edifici sacri, per la formazione dei suoi chierici e per il sostentamento dei suoi ministri. – È perché fu posta perfidamente di fronte alla scelta fra la rovina materiale e un’offesa consentita alla sua costituzione, la quale è di origine divina, che essa ha rifiutato, anche a costo della povertà, di lasciare attentare in lei all’opera di Dio. Le sono stati dunque tolti i suoi beni, non è essa che li ha abbandonati. Da ciò segue, che dichiarare i beni ecclesiastici vacanti ad un’epoca determinata, se a quest’epoca la Chiesa non ha creato nel suo grembo un organismo nuovo; sottoporre questa creazione a condizioni in manifesta opposizione con la divina costituzione di questa Chiesa, ponendola così nella necessità di respingerle; attribuire poi questi beni a terzi, come se fossero divenuti beni senza padrone, e infine affermare che con l’agire in siffatto modo non si spoglia la Chiesa, ma si dispone soltanto di beni da lei abbandonati, non è già soltanto un ragionare da sofisti, ma un aggiungere la derisione alla più crudele delle spogliazioni. – Spogliazione innegabile, del resto, e che si cercherebbe invano di inorpellare, affermando che non esisteva alcuna persona morale a cui questi beni potessero venire attribuiti; giacché lo stato è padrone di conferire la personalità civile a chiunque il pubblico bene esige sia conferita, agli Istituti Cattolici come agli altri, e, in ogni caso, gli sarebbe stato facile non sottoporre la formazione delle associazioni cultuali a condizioni che fossero in opposizione diretta con la divina costituzione della Chiesa, alla quale si riteneva dovessero servire. – Ora, è questo precisamente quel che si è fatto relativamente alla associazioni cultuali. La legge le ha organizzate in modo tale che le sue disposizioni a questo riguardo vanno direttamente ad opporsi ai diritti, che, derivando dalla sua costituzione, sono essenziali alla Chiesa, specialmente in ciò che tocca la gerarchia ecclesiastica, base inviolabile data all’opera sua dallo stesso divin Maestro. Di più, la legge conferisce a queste associazioni attribuzioni che sono di esclusiva competenza dell’Autorità Ecclesiastica, sia per ciò che concerne l’esercizio del culto, sia per quel che riguarda il possesso e l’amministrazione dei beni. Infine, non solamente queste associazioni cultuali vengono sottratte alla giurisdizione ecclesiastica, ma sono fatte giudicabili dall’autorità civile. Ecco perché Noi, nelle precedenti Nostre encicliche, siamo stati tratti a condannare queste associazioni cultuali, malgrado i sacrifici materiali che questa condanna implicava. – Siamo stati accusati altresì di partito preso e di incoerenza. Si è detto che Ci rifiutavamo di approvare in Francia ciò che era stato approvato in Germania. Ma questo rimprovero manca tanto di fondamento quanto di giustizia. Giacché, sebbene la legge germanica fosse condannabile in parecchi punti, ed essa non sia stata che tollerata per evitare mali maggiori, purtuttavia le situazioni sono del tutto differenti, e quella legge riconosce espressamente la Gerarchia Cattolica, ciò che non fa punto la legge francese. – Quanto alla dichiarazione annuale, richiesta per l’esercizio del culto, essa non offriva tutta la sicurezza legale che si aveva diritto di desiderare. Pur nullameno – sebbene come principio le riunioni dei fedeli nelle chiese non abbiano alcuno degli elementi costitutivi propri delle pubbliche riunioni, e, come fatto, sia odioso il volerle assimilare a queste, – per evitare mali maggiori, la Chiesa avrebbe potuto essere tratta a tollerare questa dichiarazione. Ma con lo stabilire che « il curato o l’officiante non sarebbe più nella sua chiesa «che un occupante senza titolo giuridico, che non avrebbe diritto per fare alcun atto d’amministrazione », si è imposta ai ministri del culto, nell’esercizio stesso del loro ministero, una situazione talmente umiliante e vaga, che con simili condizioni la dichiarazione non poteva più venire accettata. – Resta la legge recentemente votata dalle due camere. – Dal punto di vista dei beni ecclesiastici, questa legge è una legge dispogliazione, una legge di confisca, e per essa si è consumata la spogliazione della Chiesa. Sebbene il suo divin Fondatore sia nato povero in una mangiatoia e sia morto povero sopra una croce,sebbene essa stessa abbia conosciuto dalla sua culla la povertà, i beni che essa aveva in sua mano le appartenevano come una proprietà di cui nessuno aveva diritto di spogliarla. Questa proprietà, indiscutibile sotto tutti i punti di vista, era stata altresì ufficialmente sancita dallo stato, ed esso per conseguenza non poteva violarla. – Dal punto di vista dell’esercizio del culto,  questa legge ha organizzato l’anarchia: ciò che per essa infatti si instaura anzitutto, è l’incertezza e l’arbitrio. Incertezza se gli edifici del culto, sempre suscettibili di essere tolti alla loro destinazione, saranno o no, nel frattempo, a disposizione del clero e dei fedeli; incertezza se saranno o no conservati loro e per quale lasso di tempo; l’arbitrio amministrativo chiamato a regolare le condizioni del godimento, reso eminentemente precario; tante situazioni diverse per il culto in Francia, quanti sono in essa i comuni, in ciascuna parrocchia il prete posto a discrezione dell’autorità municipale, e, per conseguenza, il conflitto virtualmente organizzato da un capo all’altro del paese. Al contrario, obbligo di far fronte a tutti gli oneri, anche i più gravosi, e, al tempo stesso, limitazione draconiana per ciò che concerne le risorse destinate a provvedervi. – Così, nata da ieri, questa legge ha già sollevato innumerevoli e aspre critiche da parte di uomini appartenenti indistintamente a tutti i partiti politici e a tutte le opinioni religiose, e soltanto queste critiche basterebbero per giudicarla. – È facile riconoscere, per ciò che Noi vi abbiamo ricordato, venerabili fratelli e figli dilettissimi, come questa legge aggravi la legge di separazione, e perciò Noi non possiamo che riprovarla. – Il testo inesatto e ambiguo di alcuni fra gli articoli di questa legge pone in una nuova luce lo scopo voluto dai nostri nemici. Essi vogliono distruggere la Chiesa, scristianizzare la Francia, come Noi già vi dicemmo, ma senza che il popolo se avveda troppo e possa, per così dire, farvi attenzione. Se la lo impresa fosse veramente popolare, com’essi pretendono, non sarebbero perplessi a proseguirla a visiera alzata, e ad assumerne altamente tutta la responsabilità. Ma da questa responsabilità, lungi dall’assumerla, essi si schermiscono, la respingono, e, per meglio riuscirvi, la rigettano sulla Chiesa, vittima loro. È questa la più luminosa di tutte le prove, che la loro opera nefasta non risponde affatto ai voti del paese. – È vano, del resto, che dopo aver posto Noi nella crudele necessità di respingere le leggi fatte da loro – vedendo i mali che hanno attirato sopra la patria e sentendo l’universale riprovazione montare come una lenta marea verso di loro – cerchino di fuorviare la pubblica opinione e di far ricadere la responsabilità di questi mali sopra di Noi. Il loro tentativo non riuscirà. – Quanto a Noi, abbiamo adempiuto il Nostro dovere, come avrebbe fatto qualunque altro Vescovo di Roma. L’alto Ufficio, a cui è piaciuto al Cielo investirci, malgrado la Nostra indegnità, come del resto la stessa fede di Cristo, fede che voi professate con Noi, Ci dettava la Nostra condotta. Non avremmo potuto agire altrimenti, senza calpestare la Nostra coscienza, senza mancare al giuramento che Noi abbiamo prestato nel salire sulla Cattedra di Pietro, e senza violare la Gerarchia Cattolica, base data alla Chiesa da nostro Signore Gesù Cristo. Attendiamo, per conseguenza, senza timore il verdetto della storia. Essa dirà che, fissi immutabilmente gli occhi alla difesa dei diritti superiori di Dio, Noi non abbiamo affatto voluto umiliare il potere civile né combattere una forma di governo, ma tutelare l’opera intangibile del nostro Signore e Maestro, Gesù Cristo.  – Essa dirà che Noi vi abbiamo difeso, figli dilettissimi, con tutta la forza dell’immensa Nostra tenerezza; che ciò che Noi reclamato e reclamiamo per la Chiesa, di cui la Chiesa di Francia è la figlia primogenita e una parte integrante, è il rispetto della sua Gerarchia, l’inviolabilità dei suoi beni e la libertà che, se si fosse fatta ragione alla Nostra domanda, la pace religiosa non sarebbe stata turbata in Francia, e che il giorno in cui la si ascolterà, questa pace così desiderabile rinascerà. – Essa dirà infine che se, anticipatamente sicuri della vostra magnanima generosità, Noi non abbiamo esitato a dirvi che l’ora del sacrificio era suonata, è per ricordare al mondo, nel nome del Padrone di tutte le cose, che l’uomo deve nutrire quaggiù preoccupazioni più alte che quella per le contingenze caduche di questa vita, e che la gioia suprema, l’inviolabile gioia dell’anima  su questa terra, è il dovere soprannaturalmente compiuto a qualunque costo, e, per ciò stesso, Dio onorato, e amato malgrado tutto, – Confidando che la Vergine Immacolata, figlia del Padre, Madre del Verbo, sposa dello Spirito Santo, vi otterrà dalla santissima ed adorabile Trinità giorni migliori, come presagio della calma che seguirà la tempesta, ne abbiamo ferma speranza, Noi dal fondo dell’anima accordiamo la Nostra apostolica benedizione a voi, venerabili fratelli, come pure al vostro clero e a tuto intero il popolo francese.

Roma, presso San Pietro, il giorno dell’Epifania, 6 gennaio quarto del Nostro pontificato.

PIO PP. X

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA (2020)

DOMENICA III DOPO L’EPIFANIA

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le Domeniche III, IV, V, e VI dopo l’Epifania hanno il medesimo Introito, Graduale, Offertorio e Communio, che ci manifestano che Gesù è Dio, che opera prodigi, e che bisogna adorarlo. La Chiesa continua, infatti, in questo tempo dopo l’Epifania, a dichiarare la divinità di Cristo e quindi la sua regalità su tutti gli uomini. E il Re dei Giudei, è il Re dei Gentili. Così la Chiesa sceglie in San Matteo un Vangelo nel quale Gesù opera un doppio miracolo per provare agli uni e agli altri d’essere veramente il Figlio di Dio. – Il primo miracolo è per un lebbroso, il secondo per un centurione. Il lebbroso appartiene al popolo di Dio, e deve sottostare alla legge di Mosè. Il centurione, invece, non è della razza d’Israele, a testimonianza del Salvatore. Una parola di Gesù purifica il lebbroso, e la sua guarigione sarà constatata ufficialmente dal Sacerdote, perché sia loro testimonianza della divinità di Gesù (Vang.). Quanto al centurione, questi attesta con le sue parole umili e confidenti che la Chiesa mette ogni giorno sulle nostre labbra alla Messa, che Cristo è Dio. Lo dichiara anche con la sua argomentazione tratta dalla carica che egli ricopre: Gesù non ha che da dare un ordine, perché la malattia gli obbedisca. E la sua fede ottiene il grande miracolo che implora. Tutti i popoli prenderanno dunque parte al banchetto celeste nel quale la divinità sarà il cibo delle loro anime. E come nella sala di un festino tutto è luce e calore, le pene dell’inferno, castigo a quelli che avranno negato la divinità di Cristo, sono figurate con il freddo e la notte che regnano al di fuori, da queste « tenebre esteriori » che sono in contrasto con lo splendore della sala delle nozze. Alla fine del discorso sulla montagna « che riempi gli uomini d’ammirazione » S. Matteo pone i due miracoli dei quali ci parla il Vangelo. Essi stanno dunque a confermare che veramente « dalla bocca di un Dio viene questa dottrina che aveva già suscitato l’ammirazione » nella Sinagoga di Nazaret (Com.). –Facciamo atti di fede nella divinità di Gesù, e, per entrare nel suo regno, accumuliamo, con la nostra carità, sul capo di quelli die ci odiano dei carboni di fuoco (Ep.), cioè sentimenti di confusione che loro verranno dalla nostra magnanimità, che non daranno ad essi riposo finché non avranno espiato i loro torti. Cosi realizzeremo in noi il mistero dell’Epifania che è il mistero della regalità di Gesù su tutti gli uomini. Uniti dalla fede in Cristo, devono quindi tutti amarsi come fratelli. « La grazia della fede in Gesù opera la carità » dice S. Agostino (2° Notturno).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVI: 7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae.
[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII: 16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL BUON ESEMPIO

“Fratelli: Non vogliate essere sapienti ai vostri propri occhi: non rendete a nessuno male per male. Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini. Non fatevi giustizia da voi stessi, o carissimi, ma rimettetevi all’ira divina, poiché sta scritto: A me la vendetta; ripagherò io », dice il Signore. Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere; perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Non lasciarti vincere dal male; al contrario vinci il male con il bene”. (Romani XII, 16-21).

L’Epistola di quest’oggi è tolta dalla lettera ai Romani. L’Apostolo, premesso che non dobbiamo stimar tanto noi stessi da credere di non aver bisogno dell’insegnamento degli altri, ci invita a tenere una condotta tale che sia di edificazione al prossimo. Soprattutto dobbiamo avere lo spirito di mansuetudine e di tolleranza. Così facendo, dei nostri nemici ci faremo degli amici, guadagnandoli a Dio. Il brano riportato ci suggerisce di parlare del buon esempio che è una scuola:

1. A cui tutti possono apprendere,

2. Che tutti possono fare,

3. Che riesce molto efficace.

1.

Procurate di fare il bene non solo dinanzi a Dio, ma anche dinanzi a tutti gli uomini.

Con queste parole l’Apostolo ci insegna « ad aver davanti agli occhi i beni futuri, affinché si facciano quelle cose, le quali, compiute che siano, non possano venir riprese, ma, anzi, venir lodate e da Dio e dagli uomini», (Ambrosiaster, in h. 1). Le nostre opere devono essere lodate dagli uomini, non perché vi trovi pascolo la nostra vanagloria; ma perché il prossimo ne resti edificato, e ne renda gloria a Dio. Se le nostre opere saranno incensurabili presso Dio e presso gli uomini, noi compiremo un vero apostolato, tanto più sapiente, quanto più è spoglio d’ogni apparato della scienza e della coltura. – L’insegnamento che viene dal buon esempio può essere compreso da tutti. A questa scuola possono imparare grandi e piccoli, senza limiti di età, senza condizione di studi precedentemente fatti. Non attestati, non prove subite, non raccomandazioni. Nonostante l’istruzione obbligatoria, vediamo che i maestri non possono far entrare il loro ragionamento in teste di capacità limitata. Ci sono quelli, che ogni anno passano normalmente da una classe all’altra: ci sono quelli che avanzano un po’ zoppicando, un anno si, un anno no. Ci sono pure quelli che rimangono al medesimo posto per una buona fila d’anni. Tutte le cognizioni e tutta l’abilità del maestro non possono trovare la via per arrivare all’intelligenza di certi scolari. L’insegnamento del buon esempio è facilmente inteso anche da costoro. È  una scuola a cui possono apprendere qualche cosa anche coloro che tengono cattedra agli altri. Negli studi, ogni nuova cognizione che s’acquista ci persuade che siamo dei veri ignoranti; perché ci fa constatare che quello che abbiamo imparato è ben poco di fronte a quello, che ogni giorno ci rimane da imparare. Così, l’esempio buono che viene dagli altri ci insegna che qualche cosa manca sempre alla nostra perfezione. Oggi scopriamo nel prossimo una virtù che manca a noi, domani impariamo a far meglio ciò che credevamo di compiere con esattezza.

2.

Se è possibile, per quanto dipende da voi, siate in pace con tutti gli uomini.

S. Paolo viene a parlare dell’esercizio della carità tra i Cristiani, e inculca subito la pace. Noi non dobbiamo porre, da parte nostra, nessun ostacolo alla pace. Anzi, se c’è un ostacolo, dobbiamo mettere ogni impegno per toglierlo. Ma delle volte può darsi che, con tutto il nostro sforzo, non si possa avere la pace per colpa di chi non vuol assolutamente saperne di vivere in pace con noi. Delle volte, con tutta la nostra buona volontà di pace, ci sentiamo fermati da un dovere. Dovremmo acconsentire a delle ingiustizie, approvare una condotta riprovevole, ecc. È impossibile stringere una pace a queste condizioni. Perciò l’Apostolo dice: se è possibile. Se non sempre è possibile essere in pace col nostro prossimo, è sempre possibile amarlo, dimostragli il nostro amore con la preghiera e soprattutto col buon esempio. È ciò che S. Ignazio raccomandava caldamente agli Efesi. « Pregate incessantemente anche per gli altri. Poiché c’è speranza che anch’essi si pentano, e giungano a Dio. Ammaestrateli, almeno, coi vostri esempi » (S. Ignazio M. Ad Ephes. 10, 1). Tutti possiamo ammaestrare il nostro prossimo, almeno con gli esempi. Non si richiede un’alta condizione sociale. Un operaio, una persona di servizio, un garzone di bottega, un contadino possono dare, in fatto di vita cristiana, insegnamenti altissimi. Nella loro vita cercano di ricopiare gli esempi di Gesù Cristo: possono quindi dire con la loro condotta «Siate miei imitatori come io di Cristo». (I Cor. IV, 10). Non si richiede una coltura speciale. La storia della Chiesa ci addita fari luminosi di santità in persone digiune affatto di lettere. Neppure c’è da darsi attorno per dei preparativi speciali. Non fa bisogno di diramare inviti, d’affiggere manifesti, di scegliere l’ora e il tempo più propizio, di inchinarsi a Tizio e a Caio per avere un locale adatto. Qualunque persona, che ti si presenti o che incontri inaspettatamente, o semplicemente ti veda, può essere ammaestrata dal tuo esempio. Gli oratori di cartello fanno le loro prediche nelle solennità, nelle ricorrenze speciali. Ma, se tu vuoi, ogni ora, ogni giorno, ogni momento puoi fare la tua predica. Senza muovere un passo, senza incomodare nessuno puoi esercitare l’opera tua in casa, nei campi, nella bottega, nello stabilimento, nell’ufficio, in strada, in treno. Puoi essere un maestro, senza salire in cattedra; un predicatore senza salire sul pulpito, un apostolo senza traversare i mari. Basta che tu viva da buon Cristiano, poiché chi ben vive, ben predica.E dal momento che è possibile a tutti, è anche obbligatorio per tutti. Se siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre, dobbiamo tutti essere interessati a controbilanciare il male, che reca offesa al nostro Padre, e che è così diffuso nel mondo. E il modo migliore di controbilanciare il male è sempre il buon esempio, che edifica ove il cattivo esempio distrugge. «Ciascuno di voi — ammonisce l’Apostolo — si renda grato al prossimo nel bene per edificazione». (Rom. XV, 2).

3.

Se il tuo amico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete dagli da bere: perché, così facendo, radunerai sul suo capo carboni ardenti. Cioè, il tuo nemico sarà scosso dalla tua beneficenza inaspettata e nel suo cuore si accenderà il fuoco della riconoscenza e della carità. Secondo S. Agostino sono pure dei carboni ardenti quelli che con il loro esempio, ci spingono a mutar vita. «Chi ieri era ubriacone, oggi è sobrio; chi ieri era adultero, oggi è casto; chi ieri era ladro, oggi è benefico. Tutti questi sono dei carboni ardenti» (En. in Ps. CXXXIX, 14).Difatti, i buoni esempi accendono i cuori, e li spingono, sotto l’impulso della grazia, a propositi efficaci. La parola è una fiaccola che illumina la mente, l’esempio è una forza che scuote la volontà. Un capitano che con parole sonanti invita i suoi soldati a uscire dalla trincea per attaccare una posizione, ben difficilmente scuoterà l’animo dei suoi uomini Se si avanza egli coraggiosamente pel primo, sarà seguito. I genitori, i superiori, gli insegnanti, non saranno mai educatori se alla parola non aggiungono l’esempio. Le loro norme non faranno forte impressione, se non sono accompagnate dai fatti. Tutte le loro osservazioni, invece d’essere un fuoco che suscita, sono una doccia che raffredda.« Niente — dice il Crisostomo è più freddo di un dottore che ragiona solamente con la parole» (in Act. Hom. 1, 2). Son buone le ammonizioni, gli avvisi, ma gli esempi sono più efficaci. Ben dire val molto, ben fare passa tutto. «E’ cosa buona l’insegnare, se chi parla fa ciò che insegna» (S. Ignazio M. ad Ephes. 15, 1). Perciò S. Paolo nell’indicare a Tito quello che deve insegnare aggiunge: «In ogni cosa mostrati modello di buone opere» (Tit. II, 7).Gli abitanti di Janaguchi, uno dei luoghi evangelizzati dal Zaverio, rimasti molti anni senza Sacerdoti e senza ministero ecclesiastico, così si esprimono in una loro supplica al Visitatore e Vice provinciale dei Gesuiti:« Noi siamo le primizie dei Cristiani del Giappone… Da venticinque anni viviamo sotto un re tirannico, e questo piccolo gregge di Cristiani, stretto tutt’intorno dal paganesimo, è senza Sacramenti, senza Messa, senza l’aiuto dei Padri e dei Fratelli, che ci mancano da lunghi anni. Al loro posto Dio ci aveva lasciato due Cristiani di forte fede e di grande virtù, la cui dottrina e il cui esempio ci hanno sostenuti finora. Per completare la nostra disgrazia sono morti entrambi nello spazio di un mese. Perciò, umilmente e con le lagrime preghiamo Vossignoria Reverendissima di ricordarsi del nostro abbandono, affinché non vadano perdute questo anime, che sono costatetanto al Redentore del mondo » (Scmurhammer, Janaguchi, in Die Katholiscen Missionem, 1927, p. 365.). Due semplici Cristiani, che. con l’esempio aggiunto alla parola, sostengono per lunghi anni, in paese pagano, sotto un governo tirannico, una Cristianità insidiata, rimasta senza sacerdoti e senza l’esercizio del culto divino, ci dicono, più di qualunque lungo trattato, quale sia l’efficacia del buon esempio.Davanti al buon esempio, si piega la testa che non si è mai piegata davanti ai ragionamenti, alle discussioni, alle dispute. Davanti al buon esempio si tiene alta la fronte con perseveranza in faccia a difficoltà e ostacoli d’ogni genere. Volesse il cielo, che nel giorno del rendiconto potessimo avere al nostro attivo qualche anima convertita o resa costante dal nostro esempio.

Graduale

Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua
[V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps XCVI: 1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt VIII: 1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre. Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis.
Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE VIII.

 “In quel tempo, sceso che fu Gesù dal monte, lo seguirono molte turbe. Quand’ecco un lebbroso accostatosegli lo adorava, dicendo: Signore, se vuoi, puoi mondarmi. E Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: Lo voglio; sii mondato. E fu subito fu mondato dalla sua lebbra. E Gesù gli disse: Guardati di dirlo a nessuno; ma va a mostrarti al sacerdote, e offerisci il dono prescritto da Mose in testimonianza per essi. Ed entrato che fu in Capharnaum, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosegli, e dicendo: Signore, il mio servo giace in letto malato di paralisi nella mia casa, ed è malamente tormentato. E Gesù gli disse: Io verrò, e lo guarirò. Ma il centurione rispondendo, disse: Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto; ma di’ solamente una parola, e il mio servo sarà guarito. Imperocché io sono un uomo subordinato ad altri, e ho sotto di me dei soldati: e dico ad uno: Va ed egli va; e all’altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servitore: Fa la tal cosa, ed ei la fa. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e disse a coloro che lo seguivano : In verità, in verità vi dico, che non ho trovato fede sì grande in Israele. E Io vi dico, che molti verranno dall’oriente e dall’occidente, e sederanno con Abramo, e Isacco, e Giacobbe uel regno de’ cieli: ma i figliuoli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Allora Gesù disse al centurione: Va, e ti sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito”. (Matt. VIII, 1-13).

Spesse volte il divin Redentore per istruire gli Apostoli e le moltitudini andava ad assidersi sopra una delle colline, che costeggiano il bel Lago di Genezaret. Ivi gli Apostoli e le turbe si aggruppavano dintorno a Lui, ed egli alla frescura dell’ombra degli alberi, tra l’incanto della natura feconda e profumata, innalzava le menti ed i cuori de’ suoi uditori insino a Colui che fa sorgere il suo sole sopra i buoni e sopra i cattivi. Uno di questi discorsi è rimasto celebre sopra ogni altro, perché in esso Gesù Cristo diede i principali precetti della morale cristiana, e si chiama per eccellenza: Il discorso del monte. Fra le tante altre cose dette in tale discorso, Gesù Cristo aveva pure raccomandato di chiedere a Dio tutte le grazie, che ci abbisognano, assicurando l’efficacia della preghiera. « Chiedete, aveva detto, e otterrete; cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto » (Matth. VII, 7). Or bene, terminato che ebbe questo discorso, e sceso che fu dal monte, ecco che gli si presentò subito l’occasione di confermare con due stupendi fatti la verità di quel che aveva detto. E sono questi due fatti, che il Vangelo di questa domenica propone alla nostra considerazione.

1. Essendo adunque Gesù disceso dal monte, seguito da tutta quella turba, che con grande attenzione e meraviglia aveva ascoltato il suo sermone, ecco farglisi incontro un uomo tutto coperto di lebbra, il quale si avvicina, si prostra innanzi a Gesù Cristo, e colla più intera fiducia gli dice: Signore, se voi volete, potete mondarmi: Domine, si vis, potes me mundare. Gesù stende la mano, lo tocca e gli dice: Lo voglio; sii mondato: Volo mundare. E nello stesso istante la lebbra che lordava il corpo di quell’infelice scomparve, ei fu miracolosamente guarito: Confestim mundata est lepra ejus ». Immaginate la gioia, da cui fu invaso quel povero uomo così repentinamente guarito da una malattia tanto schifosa, e che lo segregava dal consorzio degli uomini. Egli adunque fuori di sé per la contentezza, pieno di gratitudine pel divin Redentore, già stava per ripetere ed esaltare a gran voce il Nome di chi lo aveva sanato. Ma Gesù, volendo darci esempio di umiltà e farci conoscere quanto davvero fuggisse le lodi degli uomini, disse al lebbroso: Guardati di dirlo a nessuno; ma vanne, mostrati al sacerdote: ostende te sacerdoti; ed offerisci il dono prescritto da Mosè in testimonianza per essi. Così ordinò Gesù a questo lebbroso, mostrando grande rispetto per le leggi, secondo le quali apparteneva ai soli sacerdoti il giudicare se un lebbroso era purificato dalla sua sozzura, o se ne era tuttora infetto. E quelli, che essi dichiaravano guariti e sanati da ogni corruzione, liberi in avvenire di mescolarsi colla società degli uomini, dovevano presentare un’offerta, se ricchi, di due agnelli, una pecora, tre misure di farina ed una di olio, se poveri di un agnello, due tortore o due colombi, ed una misura di farina ed una d’olio. – Ora, o miei cari, in questo primo fatto del Santo Vangelo d’oggi, Gesù Cristo ci adombra meravigliosamente la grande guarigione dal peccato, che opera in noi il Sacramento della Penitenza. Voi non ignorate come la lebbra sia del peccato una esatta figura. La lebbra cominciava ad avvizzire una parte del corpo, quindi stendeva a poco a poco i crudeli suoi guasti, e finiva di corrompere tutta la massa del sangue. Parimente il peccato, penetrando la sostanza dell’anima, non ne vizia subito tutte le facoltà; da principio lascia ancora sussistere un certo qual desiderio del bene, ragione per cui l’anima, rea di colpa mortale, prova tosto dei cocenti rimorsi. Ma se ella resiste a questi vivi rimproveri della coscienza, ricadrà nel peccato con piacere, ne contrarrà l’abitudine, e si sentirà quasi irresistibilmente trascinata a commetterlo con una spaventevole frequenza. In questo stato la vergognosa lebbra del peccato infetterà tutto il suo essere, la sua intelligenza, la sua immaginazione, la sua memoria, il suo cuore, la sua volontà, per cui non curando più, né Dio, né anima, né eternità, non penserà più ad altro che a contentare le sue immonde brame. Inoltre come la malattia della lebbra costringeva coloro che ne erano affetti a vivere separati dal consorzio umano, così la lebbra del peccato produce in coloro, che ne sono divenuti schiavi, la più deplorevole separazione, perciocché a cagione di questa lebbra restano separati da Dio, che non può risiedere in un cuore soggetto alla colpa; restano separati dall’amicizia degli Angeli, che non possono soffrire la vicinanza del peccatore; restano separati dalla Comunione dei Santi, i cui meriti non possono essere loro partecipati se non in un modo assai imperfetto. Ora, o miei cari, poiché chi si è ricoperto della lebbra del peccato è caduto in tanta miseria, non potrà più, quando efficacemente il voglia, uscire da questo stato infelice e guarire interamente dal suo male? Sì, senza alcun dubbio, per mezzo del sacramento della misericordia, per mezzo della Penitenza, nella quale è bensì Gesù Cristo con la sua grazia quegli, che opera in noi la grande guarigione dalla colpa e ci ridona la sanità dell’anima, ma a patto però che noi pratichiamo la legge da Lui stesso stabilita di presentarci al suo Sacerdote e di mostrargli la nostra coscienza, confessando tutte le colpe mortali, che si ebbe la disgrazia di commettere, senza nulla mascherare, senza nulla diminuire, senza nulla tacere volontariamente, e di offrire dinnanzi a lui quel sacrifizio, che Davide chiama sacrifizio dello spirito tribolato, del cuore contrito ed umiliato. Or ecco la ragione principale, per cui molti nel Sacramento della Penitenza non guariscono dai loro peccati, si macchiano anzi di nuove gravissime colpe: non praticano in esso le leggi da Gesù Cristo stabilite; tacciono volontariamente dei peccati gravi, non sentono dei medesimi un vero dolore. Ed oh Dio volesse che fosse scarso il numero di questi infelici! Ma purtroppo l’Inferno, come ebbe a veder S. Teresa, va tuttodì riempiendosi di anime innumerevoli, che vi precipitano per le confessioni malfatte. Quasi tutti i Cristiani, che si dannano, si può dire che vanno dannati per questo. Difatti, quasi tutti prima di morire hanno la grazia di confessarsi. Ma molti, avvezzi a confessarsi male in vita, si confessano male anche in morte, e così la confessione in quegli estremi momenti non è per i miseri che un passaporto per l’Inferno. Questo ci deve incutere un salutare timore, ed impegnarci a star ben in guardia, onde non succeda anche a noi una sì tremenda sciagura; epperò quando andiamo a confessarci preghiamo ferventemente il Signore, la Madonna, i nostri Angeli Custodi, specialmente perché ci diano tutta la forza necessaria per procedere col nostro confessore con tutta la sincerità ed apertura di cuore, svelandogli tutte le nostre piaghe, anche più segrete e vergognose. Usiamo poi il massimo impegno per concepire un vivo dolore e fermo proponimento, che non sia solo di semplice apparenza, ricordandoci che con Dio non si scherza e che Egli non si contenta delle belle parole, ma guarda il cuore. Allora possiamo ben avere la morale certezza che nelle nostre confessioni saremo anche noi mondati dalla lebbra del peccato.

2. Il Vangelo d’oggi ci fa poscia conoscere un’altra guarigione miracolosamente operata dal nostro divin Salvatore. Nell’entrar che faceva in Cafarnao, gli si accostò un centurione. Al pari del lebbroso diresse una prece a Colui, che da padrone comandava alle malattie ed alla morte. Ma non è per sé, che il centurione implora la bontà di Gesù Cristo: Signore, dice egli, ho in mia casa un servo che patisce assai; la malattia gli toglie l’uso delle membra: Puer meus iacet in domo paralitìcus, et male torquetur. Gesù Cristo risponde a quel padrone così compassionevole: verrò in vostra casa, e guarirò quel paralitico: Ego veniam et curabo eum. – Al pensiero che riceverà in sua casa quel visitatore divino, il centurione è confuso. Egli non ha domandato un tale onore; non merita questo incomparabile favore. Signore, esclama, io non son degno che voi entriate nella mia abitazione, ma proferite soltanto una parola, e il mio servo sarà guarito, imperciocché io che sono costituito in dignità, io che ho dei soldati sotto i miei ordini, non ho che a pronunziare una parola per essere all’istante obbedito; dico all’uno: Va’, ed egli va; dico ad un’altro: Vieni, e viene; dico al mio servo: Fa’ questo, e lo fa. Ora, voi comandate a tutta la natura con autorità assai maggiore ch’io non comandi ai miei soldati. Potevasi mai riconoscere e confessare più energicamente la Divinità di Gesù Cristo? Potevasi avere in Lui una fede più viva, più umile, più ferma? Lo stesso Salvatore si mostra ammirato all’udire questa professione di fede: Audiens autem Jesus, miratus est. E volgendosi a coloro che lo seguivano, disse: In verità, ve lo dichiaro, non ho trovato fede sì grande in Israele. E quindi ricompensando tanta fede, voltosi al centurione disse: Va, e sia fatto conforme hai creduto. E nello stesso momento il servo fu guarito. Or questo ammirabile esempio del centurione è quello, che noi dobbiamo fedelmente seguire allora che, più fortunati di lui non solo possiamo accostarci a Gesù per domandargli delle grazie, ma possiamo riceverlo dentro ai nostri cuori nella Santa Comunione. Sì, o miei cari, per ricevere Gesù nella S. Comunione è grandemente necessaria una fede, che sia viva come quella del centurione. Essendo la fede il primo movimento dell’anima verso Dio, è necessaria sommamente in tutti i misteri divini; ma è più che mai necessaria in questo, che per sua propria eccellenza s’intitola: Mistero di fede; imperocché Iddio non si è mai altrove tanto nascosto, quanto in questo. Nel mondo si nasconde Egli in vero ai sensi, i quali non vedono se non la superfice delle cose, ma si manifesta agli occhi della ragione, la quale mira Dio nelle creature, come nello specchio si mira il sole. Ma questo non può dirsi dell’Eucaristia, perché quivi, oltre al nascondersi ai sensi, si nasconde alla medesima ragione naturale, che da sé sola non può trapassar quei veli, per cui la divinità si rimane celata nell’umanità del Salvatore, e l’umanità si rimane nascosta sotto la sembianza del pane. Ravvivate dunque la fede, o miei cari, prima di accostarvi alla sacra mensa, onde possiate cibarvi con profitto di quelle carni santissime. Sforzatevi di concepire un’alta stima della maestà di quel Dio, che avete ad alloggiare nel vostro cuore, onde possiate riceverlo con gran rispetto e venerazione. Abbiate fede che ricevete quel Dio cosi grande, che, se guarda la terra la fa tremare, se tocca i monti li scioglie in nembi di fumo, e se chiama le stelle, queste, senza frapporre alcuna dimora, gli si presentano tutte luminose davanti, pronte ad eseguire ogni suo cenno… Abbiate fede che ricevete quel Dio così potente, che comanda alle onde del mare, che raffrena la furia dei venti e che domina tutta la natura… Abbiate fede che ricevete quel Dio così sublime, che abita una luce inaccessibile, ed innanzi a cui gli Angeli stessi se ne stanno col capo velato in contrassegno di gran rispetto all’infinita sua maestà… Abbiate fede che ricevete quel Dio, che né gli ampi spazi della terra, né gli abissi profondi del mare, né gli augusti tabernacoli del cielo possono contenere… Abbiate fede che ricevete il Dio d’ogni bontà e di ogni consolazione. Ma questa fede non sia solamente speculativa, bensì pratica, cioè tale che facendovi riconoscere la grandezza di Dio e la miseria vostra, vi induca al sentimento di una profonda umiltà e a dire di tutto cuore col Centurione e colla Chiesa, che si serve appunto delle sue parole: Signore, io non son degno che voi entriate in questa mia vilissima abitazione. S. Girolamo, gran dottore della Chiesa, essendo moribondo chiese il santo Viatico. Avvicinandosi alla sua stanza la santissima Eucaristia, egli si fece deporre sulla nuda terra, e poi raccolti quei pochi spiriti, che gli erano rimasti in quegli estremi, si alzò ginocchioni sul pavimento, e chinandosi profondamente e percuotendosi il petto, ricevé le carni sacratissime del divin Redentore. S. Guglielmo arcivescovo, dell’Ordine Cistercense, stando vicino a morire, domandò con grande istanza la santissima Eucaristia; e benché si trovasse sì estenuato di forze che non poteva volgersi da un fianco all’altro, anzi neppure ingoiare una stilla d’acqua, pure all’arrivo di Gesù Sacramentato balzò improvvisamente dal letto con stupore dei circostanti, ed a guisa di una fiamma languente, che in un lampo di luce subito si ravviva, andò incontro al suo Signore; più volte s’inginocchiò, più volte si chinò profondamente per adorarlo; e tra questi atti di viva fede e di umilissima riverenza lo ricevette. Riflettete infine che la fede per ricevere Gesù Cristo nella santissima Eucaristia, oltre ad essere umile, deve essere, come fu ancora la fede del Centurione, una fede ferma, sicché escluda ogni ombra di esitazione sopra sì gran mistero. Credete alla realtà di chi andate a ricevere con maggior fermezza, che se vedeste cogli occhi propri, e toccaste colle vostre stesse mani quelle carni gloriose. Quest’era la fede che aveva verso questo divinissimo Sacramento S. Luigi re di Francia. Celebrandosi Messa nella cappella reale, accadde, che nell’elevazione dell’ostia consacrata, apparve sugli occhi di tutto il popolo, ivi radunato, Gesù Cristo in forma di splendido e vago bambinello. Fu pregato il sacerdote a non ritirare le mani finché fosse avvisato il re del prodigioso avvenimento, onde avesse anch’egli la consolazione di trovarsi presente ad un sì giocondo spettacolo; e subito corsero i cortigiani alle stanze di lui per renderlo consapevole. Il santo re rispose loro così: Vada pure a mirare tali prodigi chi non crede trovarsi presente Gesù Cristo nell’ostia sacra, che io credo più che se lo vedessi cogli occhi miei; né volle partire dal suo gabinetto. Abbiate anche voi una simil fede, e non dubitate che come il Centurione ebbe per essa guarito il suo caro servo, così ancor voi dalla Santa Comunione ricaverete ammirabili effetti di santità.

3. Ma il Divin Redentore non contento di aver celebrata la fede del Centurione, volle ancora istituire un confronto tra i gentili, ai quali il Centurione apparteneva, così arrendevoli a credergli, e gli Ebrei così ostinati nel negargli fede. Epperò soggiunse: Ed io vi dico che verranno molti dall’Oriente e dall’Occidente, e sederanno nel regno con Àbramo, Isacco e Giacobbe, ma i figliuoli del regno verranno rigettati nelle tenebre esteriori; ivi sarà pianto e stridor di denti. Così adunque Gesù annunziava ai suoi Apostoli la vocazione dei gentili, e la punizione degli Ebrei ostinati. I Pagani dovevano un giorno credere alla Divinità di Gesù Cristo, come il centurione, e così meritare d’entrar nel regno de’ cieli. Molti Giudei all’opposto avrebbero ricusato di riconoscer il Messia nel re pacifico, dolce ed umile di cuore, ch’era venuto a chiamare tutti gli uomini alla cognizione del vero Dio e che dapprima aveva voluto aprire la via della salute ai figliuoli d’Israele, e ne sarebbero stati gravissimamente puniti. E qui, o miei cari, conviene riflettere come le terribili parole di Gesù Cristo si avverino purtroppo anche per molti Cristiani ai tempi nostri, i quali sembrano per tal modo prendere il posto dei Giudei. Di fatti dall’oriente all’occidente gli Apostoli di Gesù Cristo, i valorosi missionari a forza di tanti stenti, di tanti rischi, di tante pene vanno spargendo la luce del Vangelo in mezzo alle nazioni ed ai popoli più barbari e selvaggi. Eppure alla loro predicazione quegli uomini, che sembravano più indomabili, più sfrenati e più feroci delle fiere, col diventar Cristiani si sono cambiati e si cambiano tuttora in uomini celesti, in angeli terreni. Basta leggere gli annali della propagazione della fede, le relazioni dei missionari per conoscere la vivezza di fede, la purezza di vita, l’ardore di pietà, da cui quei nuovi Cristiani sono animati. E intanto mentre in quei lontani paesi avvengono questi mirabili mutamenti e si vive così cristianamente, che succede nei nostri? Ciò che succedeva fra i Giudei ai tempi di Gesù Cristo. Ormai l’indifferenza pratica per le cose di Dio, la sollecitudine continua di acquistare i beni temporali, la dimenticanza di quelli eterni, la smania degli onori, il furore dei godimenti sensibili, ha strappato da moltissimi giovani e Cristiani persino le tracce del Cristianesimo. Molti sono arrivati al punto da non curare più né culto di Dio, né Messa, né digiuni, né sacramenti, né pratiche di pietà, né divozione, né nulla che riguardi i doveri Cristiani. E così, mentre i selvaggi lontani abbracciando la fede e vivendo conforme alla stessa si guadagnano il regno di Dio, molti Cristiani di qui, dove pure avrebbero tante comodità per farsi santi, si preparano da se stessi quella terribile sentenza, per cui un giorno saranno gettati nelle tenebre esteriori, dove è pianto e stridore di denti. – Or bene, o miei cari, non ci sarà tra di noi alcuno che si trovi già nel numero di questi sventurati Cristiani, o che al meno loro si accosti? Esaminiamoci bene, e mentre siamo in tempo, con una vita tutta conforme alla fede, che Dio ci ha data, assicuriamoci un posto tra coloro che un giorno siederanno con Abramo, con Isacco, con Giacobbe, con tutti i santi nel regno dei cieli.

ALTRA OMELIA

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra i doveri reciproci dei padroni e dei servi

“Domine, puer meus iacet in domo paralyticus et male torquetur”.

Matth. VIII.

Ammiriamo, fratelli miei, la pietosa carità di quel centurione, di cui fa menzione l’odierno vangelo. Ha in sua casa un servo travagliato da paralisi, che lo mette fuori di stato di rendergli i suoi servigi: invece di licenziarlo come fanno oggi giorno assai padroni, che si disfanno di un servo che la malattia rende loro inutile, presso di sé lo ritiene; e siccome a nulla hanno servito i rimedi tutti che ha impiegati per guarirlo, informato del sommo potere di Gesù Cristo sulle malattie dei corpi a lui s’indirizza con la confidenza ispirata da una viva fede. Signore, gli dice, io ho un servo in mia casa crudelmente tormentato da paralisi: Domine, puer meus ec. Notiamo di passaggio la gran fede di quest’uomo: non chiede a Gesù Cristo di venire in sua casa, per guarire il suo servo, persuaso che la sua possanza non è annessa alla sua presenza, che ben può dal luogo ove è operare il miracolo: gli dice anzi di non venirvi; perché si riconosce indegno di riceverlo. Perciò la sua preghiera ebbe tutto l’effetto che ne attendeva: Gesù Cristo risanò il servo del centurione e fece elogi alla fede di quello straniero, dicendo che non avevane ritrovata una sì grande in Israello: Non inveni tantum fidem in Israel. Ma se la fede del centurione fu degna di elogio, la carità pel suo servo non ne merita meno, e ci fornisce nella sua persona il modello di un buon padrone. Si può dire ancora che il servo per cui egli s’interessa presso di Gesù Cristo meritato aveva con la sua fedeltà e con i suoi servizi una tale benevolenza dalla parte del suo padrone. E perciò, fratelli miei, nel disegno che ho d’istruire i padroni e i servi dei loro doveri reciproci a riguardo gli uni degli altri, ho creduto dover a loro proporre questi esempi del Vangelo per animarli ad adempiere le loro obbligazioni, ciascuno nel suo stato. Quali sono adunque i doveri dei padroni verso i servi? Ciò farà il primo punto. Quali sono i doveri dei servi verso i padroni? Ciò farà il secondo.

I . Punto. Bisogna che i padroni contratto abbiano di grandi obbligazioni verso i loro servi, poiché l’Apostolo s. Paolo non ha difficoltà alcuna di dire che chi non ha cura dei suoi, e particolarmente de domestici, ha rinnegata la fede ed è peggior di un infedele. Si quis suorum, et maxime domesticorum, curam non habet, fidem negavit et est infideli deterior (1 Tim. V). Quali sono dunque questi doveri dei padroni verso i loro servi? Adempier debbono a loro riguardo i doveri di giustizia, i doveri di carità, i doveri di pietà: doveri di giustizia per dar loro il dovuto alimento e salario; doveri di carità per soccorrerli nei loro bisogni e sopportarne i difetti; doveri di pietà per condurli a servir Dio ed aver cura della salute della loro anima. Tale è, padroni e padrone; l’estensione dei vostri obblighi: per compierli Iddio vi ha rivestiti della sua autorità e vi ha stabiliti capi delle vostre famiglie. Che obbligati siano i padroni per giustizia ad alimentare e pagare i loro servi, è una massima universalmente ricevuta anche nel mondo profano. Infatti, se i servi che si pongono al servizio di un padrone contraggono un obbligo stretto di servirlo in coscienza, il padrone scambievolmente si obbliga per lo stesso contratto ad alimentarli e pagar loro un conveniente stipendio. – I servi sacrificano per lo servigio del padrone la loro libertà, il loro riposo, la loro sanità, il loro tempo, i loro lavori: non è egli giusto che i padroni li nutriscono e li ricompensino a proporzione del servigio che ne ricevono? Ricusar dunque loro l’alimento o il salario non solo è peccare contro la carità, ma eziandio contro la giustizia, la quale non obbliga meno alla restituzione i padroni che fan qualche torto su questo punto ai loro servi, che se s’impadronissero dalla roba altrui. Di qual peccato non si rendono dunque colpevoli quei padroni duri e crudeli che negano gli alimenti ai loro servi o li nutriscono male, e cui rincresce vederli mangiare quel poco pane che loro danno; nel mentre che d’altra parte li opprimono di fatiche, non dando loro riposo alcuno né giorno né notte; e li trattano con più durezza che non farebbero con vili animali? Quale ingiustizia dal canto di quelli che non pagano ai loro servi gli stipendi convenuti, che ritengono la mercede degli operai che hanno per essi lavorato! E questo un peccato che domanda vendetta in cielo, dice lo Spirito Santo, siccome il sangue di Abele la domandava contro la crudeltà di Caino che assassinato lo aveva: Ecce merces operariorum, qui messuerunt regiones vestras, clamat in aures Dei (Jac. V). Non si trovano, è vero, comunemente padroni che ricusino assolutamente gli stipendi ai servi: convengono che è giusto di pagarli. Ma quanti ve n’ha che li fanno languire, ritardando loro la mercede con queste ingiuste dilazioni portando loro un pregiudizio considerabile, e privandoli di certi profitti che pur farebbero se fossero a tempo pagati! Riconoscete, padroni e padrone, l’indegnità della vostra condotta ed arrossite della vostra crudeltà; voi trascurate di pagare a quella povera gente ciò che per tanti titoli le dovete, mentre nulla ricusate a voi medesimi e fate servire ai vostri piaceri, ai vostri interessi un denaro che loro per diritto appartiene. Quanti vi ha ancora padroni ingiusti che ritengono ai servi una parte dello stipendio sotto il falso pretesto che non hanno ben servito, o con la scusa di qualche danno che loro imputano senza ragione, facendosi di tal guisa giudici in causa propria, senza volere ascoltare giustificazione alcuna dalla parte di quei meschini! Quanti che li licenziano prima del tempo per qualche legger mancamento od anche senza averselo meritato! Il che è un’ingiustizia tanto più grande, quanto che, dopo aver profittato dell’opera loro durante una stagione gravosa, li rimandano sovente in un tempo in cui trovar non possono da guadagnarsi il vitto; eccettuato per altro il caso in cui convenuto si fosse di non mantenerli che un certo tempo. È altresì un ingiustizia non voler pagar un servo, perché si parte prima del tempo fissato dall’uso o dall’accordo; fuorché se ne risentisse un danno che non si possa in altro modo riparare: poiché dev’egli essere pagato a proporzione del tempo che ha servito; il che deve anche intendersi nella circostanza che il suo partire vi cagionasse qualche danno, se egli ha giusti motivi di lasciarvi, perché obbligato non si è di servirvi a suo pregiudizio, massime con pregiudizio della salute dell’anima sua. Che però nei differenti casi di giustizia che accader possono tra i padroni e servi consultar conviene un direttore savio ed illuminato. Veniamo ora ai doveri di carità che i padroni esercitar debbono verso i loro servi. Questa carità li obbliga a sopportarli nelle loro debolezze, trattarli con bontà e dolcezza. Ed invero, se siamo obbligati a soccorrere il mendico, da cui non abbiamo ricevuto servigio alcuno, con quanto più forte ragione prestar ci dobbiamo alle miserie di un povero servo che ha sacrificata la sua sanità al nostro servigio, ed ha per noi sofferto fatiche e travagli che l’hanno logorato! Non è forse giusto, e la gratitudine non ci obbliga a dargli i soccorsi che non si ricusano neppur agli animali che ci appartengono? Se dunque questi servi ridotti sono ad uno stato di povertà, o di malattia, non dovete voi porger loro una mano caritatevole per cavarneli? Tanto più quando questo servo ha perduta la sua sanità, o perché rifiutati gli avete i necessari alimenti o perché l’avete aggravato di soverchie fatiche; allora non la carità soltanto, ma la giustizia ancora vi obbliga in tal caso a dargli soccorso. – Io so che la maggior parte dei padroni sono molto caritatevoli per soccorrere un servo nella sua malattia: ma quanto è raro che la carità non si raffreddi quando il male dura un qualche tempo! Cercasi ben tosto di disfarsene, come di un peso insopportabile, di una persona divenuta inutile. Ma quanto diversamente operereste, fratelli miei, se la vostra carità rassomigliasse a quella del Centurione del Vangelo, che teneva in propria casa il suo servo, benché paralitico: iacet in domo mea paralyticus! Quanto diversamente operereste, se riguardaste il servo come una persona di cui Dio vi ha confidata la cura, e se consideraste le grandi ricompense che Dio promette ad una carità la quale non ha altri limiti che il potere di colui che la fa! Questa carità vi obbliga ancora a sopportare i vostri servi nei loro difetti, a trattarli con bontà e dolcezza. Convien confessarlo, fratelli miei, è molto da compatire la condizione dei padroni con certi servi; gli uni sono lenti e poltroni e fanno a stento quanto loro si comanda; gli altri sono pronti e violenti e montano in collera per una parola che loro si dica; questi non hanno attenzione alcuna pei vostri interessi, quelli nessuna inclinazione per lo servizio di Dio. I più vi mancano di rispetto o vi lacerano con le loro maldicenze; ben pochi v’ha che vi servano con affetto e da cui non abbiate qualche sgarbatezza, qualche maniera spiacevole a sopportare. Ma che partito prendere? Congedarli quando lo meritano, la prudenza l’insegna, e la religione anche lo comanda in certe occasioni, come dirollo in appresso: ma cangiar sempre servitori egli è un cadere in inconvenienti talvolta maggiori di quelli che vogliamo evitare. È dunque necessaria la carità per sopportare i difetti, le imperfezioni di quelle persone da cui attender non dovete l’educazione tutta che potreste aver voi. Voi che siete spirituali, dice s. Paolo, che siete ragionevoli, date loro avvertimenti con spirito di dolcezza, considerando voi medesimi nelle loro infermità, in cui potete voi come essi cadere; sopportate con pazienza e con umiltà quei che non potete schivare, e con ciò adempirete la legge di Gesù Cristo: et sic adimplebitis legem Cliristi (Gal. VI). Voi corregger potete i vostri servi, siete anzi in ciò obbligati; ma guardatevi bene dal servirvi di quelle parole dure ed ingiuriose di cui si servono certi padroni che trattano i loro servi come schiavi, cui essi credono troppo felici di essere al loro servigio, che vorrebbero umiliarli sotto di sé come vermi della terra; che, non parlando mai loro se non con isdegno ed in un modo fiero ed orgoglioso, li caricano di maledizioni, d’imprecazioni; che su di essi affettano un imperio tirannico, di cui fan loro sentir il rigore coi cattivi trattamenti; che sfogano anche sovente (dirollo?) con furore sopra i poveri servi la stizza che loro cagiona una disgrazia, il cattivo esito di un affare, una perdita che han fatta nel giuoco o altrimenti, come se i loro servi ne fossero la cagione. Bisogna poi meravigliarsi se questi padroni sono sì mal serviti, sì spesso screditati, e se tener non possano alcun servo? Ricordatevi, padroni e padrone, che quantunque elevati voi siate per la vostra condizione al di sopra dei vostri servi, essi sono vostri fratelli Cristiani, hanno lo stesso Dio per padre, la stessa Chiesa per madre, lo stesso cielo per retaggio. Voi dunque dovete amarli, sopportarne i difetti., perdonar loro i mancamenti di fragilità. Il vostro grado vi dà diritto di comandar loro con autorità, ma non già d’insultarli con orgoglio. Voi non dovete addomesticarvi con essi, ma neppur dovete disprezzarli. Amateli come vostri figliuoli, date loro segni di una carità benefica: vi troverete il vostro proprio vantaggio, perché ne sarete meglio serviti. Ma voi dovete operare per un motivo ancora più nobile e più eccellente; Iddio medesimo deve essere il vostro fine, e se voi la amate per Dio, li impegnerete a servirlo, procurerete loro il più grande di tutti i beni, la salute dell’anima; ecco il dovere della pietà cristiana che devo ancora spiegarvi. No, non è solamente per esser serviti dai vostri servi che Dio vi ha data su di essi l’autorità, voi dovete inoltre valervi di quest’autorità per obbligarli a servir Dio, il primo di tutti i padroni. Impiegar voi dovete le vostre cure tutte per procurare la salute della loro anima poiché se si perdono per colpa vostra, voi ne risponderete avanti a Dio; è l’Apostolo s. Paolo che lo insegna, allorché, ammaestrando gli inferiori dei loro obblighi verso i superiori, raccomanda loro di ubbidirli come persone che vegliar devono su di essi e render conto a Dio delle loro anime: Obedite præpositis vestris; ipsi enim pervigìlant, quasi rationem prò animabus vestris reddituri (Heb. XIII). Ora come debbono i padroni adoperarsi alla salute dei loro servi? di quali mezzi debbono a ciò valersi? Questi mezzi sono l’istruzione, la correzione ed il buon esempio. Voi dovete, padroni e padrone, considerare i servi quali vostri figliuoli; è un’opera stessa istruire così quelli come questi. Voi potete, dice s. Agostino, dare miglior pane materiale a questi che a quelli; ma dar dovete agli uni e agli altri lo stesso pane spirituale, che è l’istruzione; dovete riguardarvi come gli Apostoli e i pastori delle vostre case, per fare ivi render a Dio il culto ed il servigio a Lui dovuti. Ora come mai i vostri servi sapranno servir Dio, se non sono istruiti? Convien dunque loro, insegnare il modo di pregarlo ed obbligarli a ciò fare mattina e sera, bisogna altresì istruirli dei misteri della nostra santa Religione; e se voi capaci non siete di far loro queste istruzioni, mandarli a quelle che si fanno in chiesa o da persone che possan loro farle. È una carità tanto più grande istruire i poveri servi quanto che la maggior parte vive in una grande ignoranza anche dei primi elementi della nostra santa Religione. Sono talvolta figliuoli abbandonati dai loro padri e madri sin dalla loro tenera età, che hanno errato da un luogo all’altro, senza trovar alcuno che prendesse cura di loro. Oh quanto ben impiegati sono i momenti che si spendono nell’istruirli! Molti ve ne avanzano che impiegare almen potreste in un’opera si buona, principalmente nelle stagioni in cui non si lavora, la sera insegnar loro il catechismo o farlo da essi recitare, è un’opera di misericordia molto più grata a Dio che dare del pane ad un povero che ve lo chieda alla porta. Sono questi altrettanti poveri di spirito che vi domandano e che hanno bisogno del pane della parola. Distribuite loro dunque questo pane celeste per nutrirli nella loro fame, per dissipar le tenebre dell’ignoranza in cui sono involti. Ma non vi contentate delle istruzioni che loro farete: voi far dovete in guisa che assistano alla Messa, massime i giorni di festa, agli uffizi, alle prediche, al catechismo, che frequentino i Sacramenti nelle feste solenni, e principalmente che non manchino al precetto pasquale. Perciocché se qualcheduno ne avete sì poco di religioso che non voglia ad un tal obbligo soddisfare, voi non dovete tenerlo. Io intendo, dovete loro dire, non avere che buoni Cristiani al mio servigio, non gente senza Religione, gente viziosa e dissoluta; e perciò unir conviene la correzione all’istruzione per reprimere i loro disordini allorché ve vengono osservati. Non tollerate loro dunque alcuna parola disonesta, alcuna canzone profana, alcuna bestemmia, alcuna mormorazione: vegliate affinché non frequentino cattive compagnie, non abbiano alcuna confidenza peccaminosa né tra essi né con persone estranee, non si trattengano ad ore indebite per involarsi alla vostra vigilanza: vegliate principalmente affinché non vi sia tra i vostri servi e i vostri figliuoli alcuna di quelle amicizie, di quelle compiacenze e di quelle familiarità che degenerano spesse volte in libertinaggio: una troppo grande confidenza tra i figliuoli e i servi è ordinariamente lo scoglio fatale dell’innocenza degli uni e degli altri. Un lupo in un ovile non fa tanto danno, come un cattivo servo in una casa: la ragione è evidente; i figliuoli sono più sovente coi servi che coi loro genitori; non si mettono in soggezione alla loro presenza ed hanno con essi più familiarità; onde ne viene che un servo dissoluto, impudico, bestemmiatore, collerico comunica ordinariamente i suoi vizi ai figliuoli. Perciò convien ben guardarsi dal ricevere al suo servizio certi servi vagabondi, i quali errando, da un luogo all’altro, v’hanno appreso tutto ciò che era di cattivo e di contagioso, e quindi lo comunicano dappertutto dove si trovano. Informatevi dunque, padri e madri, donde vengono cotali servi, dalle persone che hanno servito, affine di non ricevere di quelli che siano bestemmiatori, disonesti, rapaci, dissoluti. Che se malgrado le vostre più esatte ricerche ingannati vi siete, o se questi servi si pervertiscono in casa vostra, se si lasciano uscir di bocca parole libere; in breve, se non si diportano come debbono, convien riprenderli severamente, minacciar loro di cacciarli, se non si correggono; e se malgrado le vostre correzioni, e le vostre minacce persistono nei cattivi abiti, bisogna licenziarli, e chiuder loro l’entrata delle vostre case, dicendo ad essi che non volete al vostro servizio cattivi Cristiani. Ed è tanto più importante per voi avere servi savi e virtuosi, quanto che trarranno su di voi le benedizioni del Signore, come Labano diceva a Giacobbe: Conosco che Dio benedice la mia casa dappoi che tu sei meco. Questi buoni servi guideranno i vostri figliuoli alla virtù col buon esempio: laddove i cattivi servi, oltre lo scandalo che daranno ai vostri figliuoli, trarranno su di voi la maledizione del Signore. Nulla dunque risparmiate, padroni e padrone, per aver buoni servi o per render buoni quelli che avete. Impiegate a questo effetto non solamente l’istruzione, la correzione, ma più ancora il buon esempio; mentre questa è la voce la più forte per persuadere la virtù. Fate voi i primi ciò che volete facciano i vostri servi, cioè vivete da buoni Cristiani, ed essi faranno volentieri quanto comanderete per la loro salute. Come mai persuaderete loro l’assiduità all’orazione, ai divini uffizi, l’uso frequente dei Sacramenti, se voi medesimi trascurate questi pii esercizi? Come li correggerete dei loro vizi, essendo voi medesimi viziosi e forse più ancora di essi? Risponderanno alle vostre riprensioni ciò che dicesi comunemente: medico, comincia dal guarire te medesimo, medice, cura te ipsum. Laddove, se voi sostenete le vostre correzioni col buon esempio, esse diverranno loro profittevoli, e voi ne farete dei santi e virtuosi servi. Da questi principi, su cui abbiamo stabilito la cura, che i padroni prendere devono della salute dei propri servi, qual funesta conseguenza ne viene contro quelli che non si mettono in pena della loro salute più che se non avessero anima. Purché siano ben serviti, non s’informano se i servi loro servono Dio: che dico? non li distolgono fors’anche dal servizio di Dio, non lasciando loro neppure il tempo di far orazione, di ascoltare una Messa, di frequentare i Sacramenti, d’assistere ad una predica, ad un’istruzione, dove si lamentano sempre che vi siano di troppo trattenuti? Non si trovano anche di quei padroni senza Religione che impiegano i propri servi in opere servili nei giorni di festa, senza lasciar loro alcun tempo per adempiere ai doveri di Cristiano? Sappiate, o padroni e padrone, metter limiti al vostro potere: il tempo dei vostri servi è vostro, è vero, ma Dio, che è il primo padrone, esser deve servito pel primo. Quanti altri padroni indolenti sopra la salute dei propri servi, che non li correggono dei loro difetti? Si affliggeranno, si adireranno contro un servo che abbia mancato di puntualità a servirli o a mensa o in qualche altro bisogno, che abbia trascurato un uccello od altro animale favorito, o che sia caduto nella minima incongruità, e non diranno pur una parola sulle loro frequenti cadute nel peccato, sulle loro bestemmie, sulle loro dissolutezze, sulla loro infedeltà nel servizio di Dio. Tollereranno, perdoneranno tutto ad un servo, quantunque vizioso, perché, dicono essi, è necessario, accorto, cortese; non sarà forse altresì perché è l’oggetto di una passione peccaminosa? Ma qual più funesta conseguenza ancora qui si presenta contro quei padroni che non solo trascurano la salute dei loro servi, ma li precipitano nell’abisso di una dannazione eterna, dando loro cattivi consigli, impegnandoli in occasioni di peccato, rendendoli complici dei propri disordini, servendosi dell’autorità che hanno su di essi per fare ingiustizie al prossimo, per mantenere una pratica, un intrigo, o anche rendendo quei poveri servi vittima delle loro passioni peccaminose, cui li fanno soccombere con preghiere, con sollecitazioni, con minacce, (dirollo?) con violenza e cattivi trattamenti! Ah! poveri genitori, che credete mettere i vostri figliuoli in luogo di sicurezza, confidarli a padroni virtuosi, sarebbe meglio tenerveli in casa che abbandonarli in tal modo al furore di lupi rapaci. Quanto a voi, padroni scellerati, che invece di contribuire alla salute dei vostri servi, li strascinate nel precipizio, qual conto non renderete a Dio delle anime loro ch’egli vi ha affidate per salvarle? Come? vi dirà il Signore, voi avete prese tutte le precauzioni per farvi ben servire dai vostri servi, e nessuna cura preso vi siete per farmi rendere da essi il culto che mi era dovuto? Al contrario voi allontanati li avete dal mio servigio per impegnarli nelle vie dell’iniquità coi vostri perniciosi esempi, con le vostre sollecitazioni peccaminose: rendetemi conto di queste anime da voi perdute.

Pratiche. Temete, padroni e padrone, procurate di risparmiarvi sì terribili rimproveri; giacché la vostra salute dipende in qualche modo da quella dai vostri servi, impiegatevi tutte le vostre cure. Non vi contentate di provveder ai bisogni del corpo con l’alimento e col salario che date loro; non vi contentate di soccorrerli nelle loro necessità, di sopportarli nei loro difetti; ma provvedete ancora ai loro bisogni spirituali con l’istruzione, con la correzione, con il buon esempio; abbiate cura che facciano la loro preghiera mattina e sera, fatela lor fare con voi in comune: questa preghiera sia seguita dalla lettura spirituale: è bene le feste e le domeniche di leggere o far loro leggere un articolo del catechismo: abbiate cura che assistano agli uffizi, alle istruzioni, che frequentino i Sacramenti, le adunanze di pietà; riprendeteli dei loro difetti; non tollerate le loro libertà o conversazioni pericolose; in una parola, fate in guisa che si diportino da buoni Cristiani. Salvando i vostri servi, salverete voi medesimi, ed avrete per ricompensa la gloria eterna. Veniamo ora ai doveri dei servi verso i loro padroni.

II. Punto. Tre qualità sono necessarie ad un buon servo: il rispetto, l’ubbidienza e la fedeltà. La ragione ne è evidente. I padroni rappresentano nella loro famiglia la persona di Dio, ne tengono le veci, convien dunque che siano rispettati dai loro servi. I padroni non prendono servi né li alimentano né danno loro stipendi che a patto d’esserne serviti; è dunque necessario che questi servi facciano la volontà dei padroni e li ubbidiscano in tutto ciò che loro comandano. Finalmente i padroni affidano le loro case e i loro beni ai servi: bisogna dunque che questi siano fedelissimi. Tali sono, o servi, gli obblighi del vostro stato; istruitevene per adempierli. Voi dovete rispettar i vostri padroni perché tengono le veci di Dio, che loro ha dato autorità sopra di voi. É l’Apostolo s. Paolo che ve lo dice, avvisandovi di riguardare piuttosto Dio vostri padroni che gli uomini: Sicut Domino, et non hominibus (Eph. VI). Benché poveri, benché viziosi siano i vostri padroni, bastivi sapere che rappresentano la Persona di Dio, che la loro condizione li innalza al di sopra di voi e che la vostra vi mette in uno stato di dipendenza dalla loro autorità per render loro ogni vostro rispetto; se voi gliene mancate, a Dio stesso mancate, di cui tengono le veci. – Lungi dunque quei servi fieri ed orgogliosi, i quali sotto il pretesto che i loro servigi siano grandemente necessari in una casa, trattano i propri padroni non solamente come se fossero loro uguali, ma come loro inferiori, giungendo talvolta a tal segno d’insolenza di disprezzarli, beffarsi, dei loro difetti, dir loro delle ingiurie: lungi quei servi superbi, i quali credendosi più perfetti dei loro padroni, soffrir non possono d’esser dai medesimi ripresi dei propri difetti, si beffano di quanto loro si dice, far non vogliono se non ciò che loro piace, rispondono con baldanza ad un padrone, ad una padrona che li avvertono dei toro doveri, che essi sanno benissimo quel che han a fare, che ciascuno deve pensare a sé. Quante volte non li avete intesi farvi queste repliche temerarie, che son un effetto della loro superbia, indocilità e irreligione? – Che diremo altresì di quelle serve altere e sfrontate, le quali prevalendosi dei lunghi servigi che renduti hanno in una casa o della rea condiscendenza dei padroni che ne fanno l’oggetto delle loro passioni, trattano una padrona con l’ultimo disprezzo, la opprimono d’ingiurie, o non possono né vederla né soffrirla? Ah! non meritano forse di essere trattate con più di rigore che l’insolente Agar serva di Abramo, che si burlava di Sara sua padrona, e che per questo motivo fu vergognosamente cacciata, costretta di andar in un bosco col suo figliuolo Ismaele, dove provò i rigori di una trista sorte, della fame, della sete e della più dura indigenza? Sarebbe questa la minima pena che meriterebbero queste serve orgogliose: felici ancora, se dopo aver imitato Agar nella sua condotta, l’imitassero nella sua penitenza, riconoscendo, come ella l’autorità delle loro padrone, rendendo loro il dovuto rispetto e correggendosi dei propri difetti. Apprendete, o servi, chiunque voi siate, per quanto abili, per quanto utili e necessari esser vi crediate in una casa, che voi siete sempre in uno stato di dipendenza e conseguentemente che dovete sempre rispettare i vostri padroni come Dio medesimo, che dovete loro dare in ogni occasione sia nelle vostre parole, sia nella vostra condotta, segni della vostra venerazione. Ma voi dovete principalmente dimostrare questo rispetto con una intera e perfetta ubbidienza in quel che comandano, purché i loro ordini non siano contrari alla legge di Dio. È sempre l’Apostolo s. Paolo che v’istruisce. Servi, dice egli, obbedite ai vostri padroni secondo la carne, di qualsivoglia qualità e condizione siano; fossero ben anche pagani, voi siete obbligati ubbidir loro: Servi obedite Dominis carnalibus (Eph. V). Ma come dovete ubbidire? Imparatelo dal medesimo Apostolo. Ubbidite loro con timore e con semplicità di cuore, come a Gesù Cristo, non servendoli solamente quando hanno gli occhi sopra di voi, come se non pensaste che a piacere agli uomini, non ad oculum servientes, quasi hominibus placentes (Eph. VI); ma fate di buon cuore, come i servi di Gesù Cristo, quanto Dio da voi richiede, serviteli con affetto, non considerando gli uomini, ma il Signore, che renderà a ciascuno la ricompensa di tutto il bene che avrà fatto. E sempre la dottrina del grande Apostolo; il quale abbassandosi a dare istruzioni alle persone del vostro stato, non l’ha già riguardato come incompatibile con la salute; al contrario lo reputa come uno stato in cui potete santificarvi, purché ne adempiate i doveri, cioè siate rispettosi, sommessi, ubbidienti ai vostri padroni, e di una ubbidienza pronta, volontaria, disinteressata, puntuale, poiché se non ubbidite che brontolando, mormorando, per forza, se non obbedite che per mire d’interesse, senza alcun riflesso a Dio, la vostra ubbidienza non gli è gradita, essa perde avanti a Lui tutto il suo merito.Ah! poveri servi, apprendete quivi il segreto di santificarvi e di diventar anche gran santi, benché non facciate gran cose. Il vostro stato è penoso, umiliante, ne convengo; costa molto l’ubbidire a padroni che operano talvolta per bizzarria e per capriccio, che sebben superiori, non sono ragionevoli; costa molto il sopportare non meritati rimproveri, far delle cose contro la propria inclinazione, in una parola, soggettare la sua all’altrui volontà: ma in questo appunto voi provate molte occasioni di meritar il cielo e di meritarlo a meno costo e in una maniera più sicura che in uno stato più alto. Voi siete primieramente nella vostra sfera meno esposti ad offender Dio, non avendo tutti gli scogli delle tentazioni che si trovano nella condizione di quelli che dominano sopra gli altri; voi non correte rischio di perdere la vostra anima pel cattivo uso dei beni, poiché avete appena il necessario; né di perdere la vostra innocenza pei piaceri, poiché non provate spesso che rigori e croci. Si tratta dunque per la vostra salute di soffrire per amor di Dio le pene annesse al vostro stato, di fare la volontà dei vostri padroni come quella di Dio. voi siete molto più sicuri di fare la volontà di Dio ubbidendo che comandando; non si comanda sempre secondo l’ordine di Dio; ma quando si ubbidisce, purché non sia in cose contrarie alla buona salute, si fa sempre quel che Dio vuole, perciocché se i vostri padroni fossero scellerati per comandarvi cose vietate, voi non dovete loro ubbidire, come se vi comandassero l’ingiustizia, la vendetta, se vi sollecitassero a qualche azione indegna di un Cristiano. Allora conviene dir loro, che avete un Padrone cui dovete prima che ad essi ubbidire: che amate meglio incorrere la disgrazia degli uomini che quella del vostro Dio; e che, per piacere agli uomini, cessar non volete di esser servi di Gesù Cristo: Si hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1). Oltre il rispetto e l’ubbidienza, debbono i servi ai loro padroni ancor la fedeltà. É questa una delle più belle qualità di un servo; poiché lo Spirito Santo ci assicura che quando si trovi un servo fedele, bisogna riguardarlo come un fratello, come un altro sé stesso. Ora questa fedeltà rinchiude molte cose : 1.° deve un servo dimostrare la sua fedeltà nella ritenutezza a favellare; vale a dire, rapportar non deve ciò che accade nella casa del suo padrone, per non rivelare i suoi difetti, né quelli dei figliuoli, né farecattivi rapporti che sono la cagione ordinaria dei contrasti, delle inimicizie coi congiunti e coi vicini. L’uomo non ha nemico più crudele che i suoi servi, allora quando sono sì indiscreti da tradire i segreti del padrone, dire quanto si passa in una casa. Felice il servo che ha posto un freno alla sua lingua e che sa osservar il silenzio! Egli è stimato da Dio e dagli uomini. Vi sono nondimeno certe occasioni in cui è opportuno ed anche necessario che un servo parli dei disordini che accadono in una famiglia. Ma a chi? A quelli che devono rimediarvi. Allorché, per esempio, i figliuoli prendono cattiva piega, frequentano cattive compagnie, e i padri e le madri l’ignorano, è bene informarli; come altresì dei disordini che accadono tra gli altri servi: ma usar conviene molta prudenza in queste occasioni; bisogna essere sicurissimi dei fatti, e guardarsi dall’operar per passione, per prevenzione, per gelosia; il che è cosa ordinaria nei servi; l’uno, per farsi ragione, dirà che l’altro fa contro di lui falsi rapporti, procurerà di menomarlo nella stima del suo padrone, il che cagiona talvolta grave pregiudizio. Dare devono ancora prova della loro fedeltà con la sobrietà, non appagando la propria golosità con vivande di cui i padroni non hanno loro permesso l’uso: questa fedeltà li obbliga ad invigilare alla conservazione dei beni dei loro padroni, ed avvertirli quando si fa loro danno: esser devono diligenti per nulla perdere di quanto spetta ai loro padroni, ed esatti a non disporne contro la loro volontà e senza il loro consenso. Finalmente deve la loro fedeltà risplendere principalmente dell’amministrazione dei beni a loro dati, sì che niente ritengano per sé sotto pretesto dell’industria che hanno avuta nel farli vendere, di un buon mercato che avranno fatto, oppure sotto pretesto di compensazione del salario che sufficiente non credono e proporzionato al loro servire. Quando un servo ha scapito, chieder può qualche cosa di più o provvedersi di una condizione migliore, ma non già farsi da se stesso giustizia. Finalmente i servi devono esser fedeli nel loro lavorio, e lo stesso dir bisogna di tutti gli operai che sono al servizio di un padrone: vale a dire, impiegar devono nel lavoro il tempo che la ragione ed il salario richiedono, lavorare con ugual fedeltà in assenza del padrone come in sua presenza. Imperciocché se un servo o un operaio perde un tempo considerabile in frivoli trattenimenti, in conversazioni inutili, e non si occupa come deve; se un artefice non fa un lavoro della natura e qualità di che è convenuto col padrone, gli uni e gli altri non possono in coscienza farsi pagare, come se avessero ben lavorato; e se lo fanno, obbligati sono alla restituzione a proporzione del tempo perduto e del difetto del lavoro: il che esser deve dalla prudenza regolato.

Pratiche. Finisco, fratelli miei, esortandovi con l’Spostolo s. Paolo a diportarvi in un modo degno di Dio nello stato a cui vi ha chiamati. Avete voi servi cui comandare? Riguardateli come vostri fratelli e non come schiavi; date loro tutti gli aiuti che la giustizia e la carità da voi richiedono, sia alimentandoli, pagando loro lo stipendio, sia soccorrendoli nei loro bisogni e nelle loro malattie e sopportando con pazienza i loro difetti: rendete loro il giogo che portano soave e leggiero con una bontà compassionevole: abbiate cura principalmente della salute della loro anima, che Dio vi ha confidata: istruiteli, correggeteli e date loro buon esempio. Siete voi servi? servite fedelmente i vostri padroni; abbiate per essi il rispetto, l’ubbidienza, la fedeltà che Dio da voi domanda, è questo il mezzo di santificarvi nel vostro stato. Evvi un Padrone che voi servir dovete a preferenza di tutti; di modo che, se i padroni della terra vi domandano qualche cosa che incompatibile sia col servizio del Padrone del cielo, la volontà di Dio sia l’unica vostra regola. Se vi sollecitano a qualche azione vietata dalla legge del vostro Dio, dite come il casto Giuseppe: Come potrò io essere infedele al mio Signore? Quomodo possum peccare in Dominum meum (Gen. XXXIX)? Se nella condizione in cui siete compier non potete i doveri di Cristiano; se questa condizione è per voi occasione di peccato e di dannazione, sebbene sia altronde per Voi vantaggiosa, foste anche nel caso di farvi la più brillante fortuna, bisogna lasciarla e sacrificar tutto alla vostra salute; la vostra anima esser vi deve più cara di tutto il restante. È meglio esser povero e miserabile in questo mondo per esser eternamente felice in cielo, che esser felice sopra la terra per esser eternamente riprovato nell’inferno. Voi poi che non siete nello stato dei padroni né dei servi ricordatevi che avete un gran padrone a servire un Dio da glorificare un inferno da evitare, un paradiso da guadagnare. Io vel desidero. Così sia.

 Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps CXVII: 16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Luc IV: 22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio

Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (95)

-Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (6)

CAPO VI.

Si prova che il mondo né fu lavoro del caso, né poteva essere.

I. Le fiere, quanto sono più stolide a dar nei lacci, tanto sono più salde a volerli rompere dappoiché vi sono incappate. Ma che? con ciò non fanno altro che strignerli di vantaggio, e non se ne avveggono. Mirate se non è ciò quel che avviene degli ateisti. Danno in falsità strabocchevoli, e per uscirne, sempre poi s’intrigano più: stretti però da maggiori difficoltà, perché vorrebbero scuotere le minori. – Veggendo essi dunque, non potersi da loro senza stoltizia negar che il mondo sia fatto; sia fatto, dicono, ma chi però ci necessita a riconoscere altro fabbro che il caso? Con ciò si salva, che non abbia l’esser dal nulla. Con ciò si salva, che non abbia l’esser da sé. E con ciò salvasi, che né anche abbia l’essere da alcun Dio; mentre il caso è bastevole a fare il tutto.

I.

II. Ed ecco (chi ‘l crederebbe)? ecco che vago di mantenere il credito a questo cieco esce fino in campo un Democrito, tanto pazzo, che rideva sempre, e solo in ciò savio, se arrivava anche a ridere di se stesso. Io non mi dolgo tanto di lui, quanto di chi gli die titolo di filosofo, mentre non si meritava né anche quel di poeta, fingendo egli non pure l’inveriosimile ad essere intervenuto, ma fino l’impossibile a intervenire. Si divisava costui, che prima di questo mondo sino ab eterno, non vi fosse altro, che un infinito popolo di corpicciuoli volanti, ma sì piccini, che a schierare mille di loro potrebbe facilmente servir di piazza la minuta punta di un ago. Questo numero senza numero di corpuzzi, quanto impercettibili nella mole, tanto impareggiabili nella forza, aggirandosi casualmente, or qua, or là, per immensi spazi dopo un corso d’infinite combinazioni spropositate, finalmente abbatteronsi a dar nel segno: perché concorrendo accidentalmente a congiungersi in modo bello, formarono questa fabbrica sì stupenda, chiamata mondo. Ed eccovi i materiali di tanta

macchina, gli atomi; eccovi i lavoranti, il moto; eccovi l’ingegnere , il caso. Parve ridicoloso ad un Aristotile ( L . 2 . phys. c. 6. et 9) l’affaticarsi in mostrare che il mondo non fu operazione fortuita, ma intesa dalla natura, cioè da un’arte sommamente avveduta ne’ suoi lavori: onde sarebbe più spediente trattar Democrito come lo trattarono i suoi cittadini, i quali invece di mettersi a rifiutare con le risposte de’ saggi queste sciocchezze di lui, diedero anzi a curar lui stesso ad Ippocrate con l’elleboro, come si curano i matti. Nondimeno, perché le larve trovano spesso più passionati amatori, di quelli che ne ritrovi la verità, mi farò lecito, a vostro preservamento, di avvilir la ragione fino a tal uso di riprovare i deliri.

II.

III. Ditemi dunque, se voi date loro adito nel cuor vostro: chi fè questi corpuscoli, chi gli schiuse, e sotto qual macina si stritolò questa farina volatile, di cui sono impastate tutte le cose? Si fecero forse gli atomi da se stessi? Se così è, operarono dunque prima che fossero e comunicarono l’essere a se medesimi innanzi di possederlo. Furono prodotti da qualche cagione estrinseca? Ma da quale? Converrà pure confessare una volta, malgrado vostro, questo fattore sovrano, cioè questo fattore, che non sia fatto: e converrà prostrarsi al trono di lui, dopo di avere follemente tentato di atterrarlo con queste baliste di nebbia (L’atomo, quale lo intende il fisico, non gode di una vera e reale esistenza in natura, essendoché egli ammette la divisibilità della materia all’infinito, epperò l’atomo, essendo indivisibile (come suona l’etimologia stessa del vocabolo, ma oggi abbiamo pure le particelle subatomiche, i protoni, i neutroni, gli elettroni, i muoni, leptoni, i quanta etc. etc. … che guazzabuglio!) non è materia. Come adunque potranno gli atomi aver dato origine ai corpi della natura, secondo le pretese di Democrito e dei materialisti?).

IV. No, ripiglia Democrito, timoroso che voi qui vi diate per vinto; sono increati questi atomi, sono eterni, ed hanno da se medesimi tutto l’essere. Adunque a questi minimi corpicciuoli, che appena sono, competerà, per sentenza degli ateisti, il più bel fregio che inghirlandi la fronte di un Dio regnante, che è il non conoscere cagione alcuna di sé, e il dovere solamente a sé la sua essenza, la sua esistenza; cosa, che, come abbiamo veduto, non può competere neppure all’istesso universo. – Questo sarebbe annullare un Dio per introdurre, lui per dir, tanti Dei, quanti sono quei corpuzzi di cui si forma la macchina mondiale. Senzaché, quale occupazione ebbero mai questi atomi sì felici per tutta l’eternità? Sono iti sempre vagando? Dunque avranno fatte altre volte in questo gran teatro altre congiunzioni, altre comparse, altre scene ammirabilissime, ed avranno intrecciandosi fatti nascere verisimilmente altri mondi, poscia iti in fumo. Hanno dunque sempre posato a guisa di languidi? Ma chi die’ loro pertanto la prima mossa? qual tamburo, qual tromba risvegliò quell’esercito addormentato? quale fu il sergente che lo ripartì a schiere a schiere? e quale il capitano che il precedette in così belle ordinanze? L’esperienza dimostraci che i corpi

non viventi non sono capaci di produrre da sé fuor che un moto solo: dalla circonferenza al centro, se sono gravi, e dal centro alla circonferenza, se hanno qualche principio di leggerezza (Bella osservazione contro la generazione spontanea.). Qual motore adunque fu quello che loro impresse quei movimenti sì vari, senza cui non poteva risultare tanta diversità di manifatture? dacché, non differendo gli atomi l’un dall’altro, senonché nella figura, non possono avere in sé quelle inclinazioni sì opposte che vi vorrebbero ad accozzarsi in sì differenti miscugli. Basilio imperadore di Oriente, avendo in una battaglia disfatti i Bulgari, usò con quindicimila di loro prigioni di guerra questa insolita crudeltà di cavarne a ciascuno gli occhi. Ma che? a tanta crudeltà mescolò questa lieve misericordia, di lasciare ad ogni cento di loro uno con un sol occhio, che servisse agli altri di guida nel ricondursi alla patria (Tursell. Epit.). Non così al certo Democrito e i suoi seguaci. Questi, molto più crudi, ad un esercito innumerabile di atomi per sé ciechi, non assegnano neppure una guida sola veggente, che gl’indirizzi, ma vogliono che a tante falangi immense di ciechi faccia la scorta nei viaggi un più cieco di tutti loro; la faccia il caso. Ecco però che vuol dire essere ateista! Vuol dire, non credere una verità sommamente bella, per credere infinite menzogne ridicolose. E voi prezzerete una sì misera libertà, quale han questi, dal vincolo della fede? Veramente sono essi liberi, non vel niego: ma liberi, come resta un vascello in mare, quando scosse le gomene, con cui l’ancora il tenea fermo, non altro può conseguire fra le tempeste, che rompere al primo scoglio. Veggiamo però se la ragione fosse bastante a rimetterli in miglior senno.

III.

V. Ma prima di ogni altra cosa, conviene che tra noi stabiliscasi unitamente ciò che sia caso, perché da ciò si vedrà se mai sia stato possibile che egli fosse l’ingegnere dell’universo. Caso non è altro che una cagione accidentale di qualche effetto, il quale avviene di rado; e quando avviene, è sempre fuori di ciò che dall’operante intendevasi, o antivedevasi (Arist. 1. 1. phys. c. 7). Eccone pronto l’esempio. Avicenna, medico illustre, dopo avere più anni letti e riletti tutti i volumi di sottilità metafisiche, noti a lui, determinò di abbandonare lo studio di detta scienza, tanto gli parve superiore alla propria capacità. Quando giunto un dì su la piazza per sue faccende, vi trovò un rivendugliolo, che dava libri vecchi a prezzo vilissimo. Allettato da tanta facilità, diede Avicenna tre giuli, ed ebbe per essi un volume insigne, di cui non aveva contezza, che era la filosofia commentata da Albumasarre. Lessela, e quindi ricavò tanta luce, che a divenir metafisico sublimissimo non ebbe bisogno più di altro direttore (Theat. Vet. v. 21. 1. 4). Questo incontro sì favorevole è caso, perché rarissimo, non solendo avvenire comunemente, che dal portarsi ad una piazza procedano tali acquisti: ed è caso perché impensato, mentre Avicenna non andava alla piazza per comperare de’ libri, vi andava per comperarsi da desinare. Or quale mai di queste due condizioni voi mi addurrete nella costituzione dell’universo, por dimostrarmi che sia prodotto dal caso? E quivi non vediamo risultare un effetto, cui la natura non abbia posto il suo mezzo per ottenerlo, e mezzo diretto. E quivi non vediamo che da tal mezzo risulti quell’effetto una volta o un’altra: vediamo che ne risulta ordinariamente. Se però queste non sono opere d’arte, quali saranno? Piuttosto su i due principii, pur ora da me additativi, come su due salde basi, abbiamo ad innalzar tali macchine contra il caso, che cada giù sprofondato. Comincisi dalla prima

(Il vocabolo caso è negazione di intelligenza e di ordine, o sinonimo di ignoranza per parte nostra, giacché noi lo adoperiamo tuttavolta che non ci riesce di conoscere la cagione di un avvenimento. Il pronunciare adunque, che l’universo è opera del caso, è un dire un bel nulla, è un coprire con un vocabolo la nostra ignoranza, giacché in sostanza si viene ad affermare sol questo, che noi ignoriamo l’origine dell’universo. Imperò il fatalismo non è una dottrina, ma una negazione).

SALMI BIBLICI: “QUI HABITAT IN ADJUTORIO ALTISSIMI” (XC)

SALMO 90: “QUI HABITAT IN ADJUTORIO ALTISSIMI

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 90

[1] Laus cantici David.

     Qui habitat in adjutorio Altissimi,

in protectione Dei cœli commorabitur.

[2] Dicet Domino: Susceptor meus es tu et refugium meum; Deus meus, sperabo in eum.

[3] Quoniam ipse liberavit me de laqueo venantium, et a verbo aspero.

[4] Scapulis suis obumbrabit tibi, et sub pennis ejus sperabis.

[5] Scuto circumdabit te veritas ejus: non timebis a timore nocturno;

[6] a sagitta volante in die, a negotio perambulante in tenebris, ab incursu, et daemonio meridiano.

[7] Cadent a latere tuo mille, et decem millia a dextris tuis; ad te autem non appropinquabit.

[8] Verumtamen oculis tuis considerabis et retributionem peccatorum videbis.

[9] Quoniam tu es, Domine, spes mea; Altissimum posuisti refugium tuum.

[10] Non accedet ad te malum, et flagellum non appropinquabit tabernaculo tuo.

[11] Quoniam angelis suis mandavit de te, ut custodiant te in omnibus viis tuis.

[12] In manibus portabunt te, ne forte offendas ad lapidem pedem tuum.

[13] Super aspidem et basiliscum ambulabis, et conculcabis leonem et draconem.

[14] Quoniam in me speravit, liberabo eum; protegam eum, quoniam cognovit nomen meum.

[15] Clamabit ad me, et ego exaudiam eum; cum ipso sum in tribulatione; eripiam eum, et glorificabo eum.

[16] Longitudine dierum replebo eum, et ostendam illi salutare meum.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XC

Il titolo non leggesi nei codici ebraico e greco. Forse fu aggiunto per far intendere che il Salmo non fosse di Mosè. Argomento è esortazione a porre in Dio ferma fiducia. Ora parla il profeta, ora il giusto, ora Dio a modo drammatico. Il Salmo è utile a formare i costumi.

Lauda o cantico di David.

1. Colui che riposa nell’aiuto dell’Altissimo, viverà sotto la protezione del Dio del cielo.

2. Egli dirà al Signore: Mio difensore sei tu, e mio asilo; egli è il mio Dio, in lui spero.

3. Imperocché egli dal laccio dei cacciatore e da dure cose mi ha liberato.

4. Dei suoi omeri farà ombra a te, e sotto le ali di lui avrai fidanza.

5. La sua verità ti coprirà come scudo per ogni parte: non temerai i notturni spaventi.

6. Non di giorno la saetta volante, non l’avversiere che va attorno nelle tenebre, non gli assalti del demonio del mezzogiorno.

7. Mille cadranno al tuo fianco, e diecimila alla tua destra; ma nissuna (saetta) a te si accosterà.

8. Ma tu coi tuoi propri occhi osserverai; e vedrai il contraccambio renduto ai peccatori.

9. ( E dirai): Tu sei, o Signore, la mia speranza; e che per tuo rifugio hai scelto l’Altissimo.

10. Non si accosterà a te il male, e alla tua casa non accosterassi il flagello.

11. Imperocché egli ha commessa di te la cura ai suoi Angeli; ed eglino in tutte le vie tue saran tuoi custodi.

12. Ti sosterranno colle lor mani, affinché sgraziatamente tu non urti col tuo piede nel sasso.

13 Camminerai sopra l’aspide e sopra il basilisco; e calpesterai il leone e il dragone.

14. Perché egli ha sperato in me, io lo libererò; lo proteggerò perché ha conosciuto il mio nome.

15. Alzerà a me la voce, e io lo esaudirò; con lui son io nella tribolazione, ne lo trarrò, e lo glorificherò.

16. Lo sazierò di lunghi giorni, e farogli vedere il Salvatore, che vien da me.

Sommario analitico

In questo Salmo in cui Davide espone la sicurezza e la tranquillità di cui gode, in mezzo ai pericoli così numerosi di questa vita, si vede l’uomo giusto che ripone tutta la sua fiducia in Dio (1).

(1) [Questo salmo sembra essere un dialogo a due voci, con una terza nel nome di Dio, senza il coro. I tre primi versetti sono detti per la prima voce, i versetti 5-8 per il coro, ed il versetto 9 per una seconda voce; i versetti 9-13 per il coro, ed i versetti 14-16 per una terza voce, nel nome di Dio. – Questo salmo enumera, con una grande poesia nel dettaglio, e sotto ricche metafore, tutti i vantaggi legati ai luoghi di asilo, e soprattutto a questo asilo posto in un luogo elevato che non è altri che l’Altissimo. Questo salmo è pieno di malinconia e di attraenti misteri, quando è recitato o cantato di sera, sotto le ombre maestose che cadono dalle volte delle nostre antiche basiliche sull’assemblea raccolta dei fedeli, ché incoraggia ad essere intrepidi nella vita ed al riposo della forza, per la fiducia in Dio (Claude, Les Psaumes, etc.)].

I. – Considera Dio come una fortezza inespugnabile nella quale:

1° Dio riceve l’uomo giusto e gli offre un sicuro rifugio;

2° Egli si comunica a lui e lo fa entrare nella propria intimità (1);

3° L’uomo giusto che sfugge ai suoi nemici vi trova un asilo ed un rifugio contro i suoi persecutori (2, 3).

II. – Durante il soggiorno che fa il giusto in questa fortezza inespugnabile in cui Dio lo riceve:

1° Prima del combattimento: – a) Dio lo mette al riparo delle sue spalle: – b) lo copre sotto le ali come una chioccia copre i suoi piccoli (4);

2° Durante il combattimento: – a) lo protegge dai suoi nemici coprendolo con lo scudo della sua verità contro gli attacchi notturni (5-6); – b) gli dà ancora la forza di trionfare dei suoi nemici (7);

3° dopo il combattimento: – a) Dio gli procura la gioia di vedere la loro disfatta (8); – b) gli concede di gioire dall’alto di questa fortezza, di una sicurezza che nulla può turbare; – c) ricolma di questa gioia allontanando dalla sua dimora tutto ciò che è capace di nuocere.

III. – Quando il giusto esce da questa fortezza:

1° Dio gli dà degli Angeli per guida e per difesa: – a) essi lo custodiscono in tutte le sue vie (11); – b) lo portano nelle loro mani per garantirlo da tutti i pericoli della strada (12, 13);

2° Dio stesso si accompagna a lui nella strada e dichiara, per bocca del Profeta, ciò che debba fare in favore dei giusti: – a) Egli li libererà dai loro nemici coloro che sperano in Lui (14); – b) li assisterà nelle loro tribolazioni; – c) li libererà e farà volgere queste tribolazioni a loro gloria (15); – d) renderà questa gloria universale; 

e) ed al colmo, si manifesterà Egli stesso a loro (16).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3.

ff. 1, 2. – È da questo salmo che il demonio ha tratto le parole di cui ha osato servirsi per tentare Nostro Signore Gesù-Cristo. Ascoltiamolo dunque, per istruirci e per poter resistere al tentatore, non mettendo la nostra fiducia in noi, ma in Colui che è stato tentato prima di noi, per assicurarci la vittoria nelle nostre tentazioni. In effetti, la tentazione non gli era necessaria, ma la tentazione del Cristo è un insegnamento per l’uomo. Ora, se prestiamo attenzione a ciò che il Cristo risponde al demonio, per rispondergli allo stesso modo, noi entriamo dalla porta. Che vuol dire entrare dalla porta? Entrare attraverso il Cristo, imitare i modi del Cristo (S. Agost.). – Ci sono tre tipi di persone che non dimorano nel segreto dell’Altissimo: 1° coloro che, in luogo di confidare in Dio, mettono la fiducia nella loro forza, nelle loro ricchezze, sia temporali che spirituali; 2° coloro che disperano della loro salvezza, soccombendo sotto il peso delle loro infermità, senza ricorrere a Dio; 3° coloro che si lusingano invano di ottenere il suo soccorso senza curare di correggersi. I primi dimorano nei propri meriti, i secondi nella diffidenza, i terzi nei loro vizi (S. Bern.). – Colui dunque che imita il Cristo sopportando tutte le pene di questo mondo, e mettendo in Dio la propria speranza per non essere sedotto dalla lussuria, né annientato dalla paura, costui è veramente colui che abita sotto l’aiuto dell’Altissimo, e che dimora sotto la protezione del Dio del cielo. – « Egli riposerà sotto la protezione del Dio del cielo, » vale a dire che, forte di questa protezione, non temerà nulla di ciò che esista o di ciò che possa accadere sotto il cielo. È il complemento di ciò che il salmista sta per dire nella prima parte di questo versetto: l’assistenza dell’Altissimo ha soprattutto come scopo di aiutarci a fare il bene; la sua protezione, di difenderci dal male. E si noti che non dice: egli dimorerà alla presenza del Dio del cielo, ma sotto la protezione del Dio del cielo. Gli Angeli trasaliscono di gioia alla sua presenza; per me, possa io riposare sotto la sua protezione! Gli Angeli sono felici di essere eternamente alla presenza di Dio, possa io – quanto a me – essere in sicurezza sotto questa divina protezione! (S. Bernardo). – Per abitare così nel segreto dell’Altissimo, non è sufficiente un atto passeggero di fede, di speranza, ma occorre una lunga abitudine, una perseveranza costante nel mettere la propria fiducia in Dio; bisogna per così dire, essersi costruito una casa, una dimora in Dio e portarla con sé. « Egli dimorerà sotto la protezione del Dio del cielo. » Qui non si tratta di un soggiorno transitorio, come una delle capanne erette nei cantieri o nelle vigne, come sotto la tenda del viaggiatore: è una dimora permanente. – Ora non ci sono che gli uomini di preghiera che abitano così in modo permanente nel segreto di Dio. Per elevarsi a questo segreto di Dio, bisogna fare ciò che san Gregorio spiegava con questa comparazione sensibile: voi vedete – egli diceva – l’acqua che zampilla da una tubazione, essa si pone a livello della riserva da dove è discesa; ma darà essa questo spettacolo che fa la delizia di coloro che ne sono testimoni, se essa non è costretta in questo canale stretto dal quale si slancia in aria? Non si spanderà nella campagna se la si lascia in libertà? Ne è lo stesso per i nostri spiriti ed i nostri cuori, tutte le volte che li abbandoniamo a se stessi, che li lasciamo errare nelle occupazioni frivole del mondo, essi si spandono e non risalgono alla sorgente di ogni bene. – Chi dice a Dio: « Voi siete il mio sostegno, il mio rifugio e il mio Dio? – Colui che abita sotto l’aiuto dell’Altissimo. Chi è colui che abita così sotto l’aiuto dell’Altissimo? Colui che non si mette al riparo da se stesso. Chi è colui che abita sotto l’aiuto dell’Altissimo? Colui che non è orgoglioso, come lo sono stati coloro che hanno mangiato il frutto proibito, al fine di essere come déi, che hanno perso il dono dell’immortalità che avevano ricevuto nella loro creazione, « Voi siete il mio protettore, il mio rifugio, il mio Dio. » Queste tre parole sembrano corrispondere ai tre grandi benefici di Dio: l’uno passato, l’altro presente, ed il terzo futuro. Il primo, è l’infinita misericordia di Dio che ritrae l’uomo dal peccato e dalla via che conduce alla perdizione. Il secondo, quando Dio diventa il rifugio del peccatore convertito contro le ricadute e le tentazioni che potrebbero rivoltarlo. Il terzo, che è il più grande di tutti, è compreso in queste parole « Mio Dio. » Dio è il mio Dio, cioè il sovrano Bene, ma lo sarà per noi veramente ed in una maniera personale, se non nel cielo quando lo vedremo così com’è. (S. Bernardo) – Egli dirà al Signore: « Voi siete il mio difensore, e il mio rifugio, ed il mio Dio. » Tutte le creature possono dire a Dio: Voi siete il mio Creatore; gli animali possono dire: Voi siete il mio pastore; tutti gli uomini possono dire. Voi siete il mio difensore, che dimora sotto l’assistenza dell’Altissimo. Egli aggiunge: « … e il mio Dio. » Perché non dice: Nostro Dio? Perché nella creazione, nella redenzione, in tutte la altre grazie comuni, Dio è Dio di tutti gli uomini; ma, nelle tentazioni, gli eletti lo considerano e lo invocano come loro Dio, a titolo particolare. In effetti, Egli è disposto a difendere colui che è prossimo a soccombere, coprendolo con la sua potente protezione, come se lasciasse tutte le altre creature e non fosse Dio che per lui solo … notate, egli non dice: io ho sperato, o io spero, ma « io spererò ». È l’augurio, la risoluzione, l’intenzione del mio cuore. Questa speranza riposa nel mio seno ed io persevererò. Io non mi lascerò andare né alla disperazione, né ad una vana speranza, perché maledetto è colui che pecca sperando il male e disperandone; io non voglio essere più di coloro che non sperano nel Signore: « io spererò in lui » (S. Bern.). –  « Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori. » Siamo dunque degli animali? Ahimè! Si, questo è pur vero. L’uomo che è elevato agli onori, non lo ha affatto compreso: egli è stato comparato alle bestie irragionevoli ed è divenuto simile a loro (Ps. XLVIII, 15). Si, gli uomini sono come animali senza ragione, come pecore erranti senza pastore … Ma chi sono questi cacciatori? I cacciatori pieni di malizia, di inganno e di crudeltà; dei cacciatori che non suonano il corno per timore di essere sentiti, ma che lanciano le proprie frecce nel segreto contro l’anima innocente ed indifesa. Questi sono i principi delle tenebre, versato in tutti gli inganni del demonio, e ciò che è l’animale davanti al cacciatore abile, l’uomo più fine e più abile lo è davanti ad essi, a meno che essi non siano di coloro che, come gli Apostoli, conoscono il pensiero di satana, e a chi la saggezza di Dio ha dato il potere di scoprire i suoi disegni artificiosi e funesti. (S. Bernardo). –  Il demonio ed i suoi angeli tendono i loro tranelli, e gli uomini che camminano in Cristo camminano lontani da questi lacci. In effetti il demonio non osa tendere i suoi lacci nella via che è il Cristo; egli li pone attorno alla via, ma non sulla via stessa. Il Cristo sia sempre la nostra via, e noi non cadremo nelle insidie del demonio. Ma colui che erra fuori da questa via incontra l’insidia: a destra, a sinistra egli pone i suoi lacci; « … voi camminate in mezzo alle trappole » (S. Agostino). – Così come in mezzo ai pagani, colui che è Cristiano è esposto alle parole ingiuriose dei pagani, così in mezzo ai Cristiani, coloro che vogliono essere più vigilanti e migliori degli altri, sono esposti agli insulti degli stessi Cristiani … – In tutte le città, c’è un numero di cattivi Cristiani che vivono nel disordine, e coloro che voglio vivere bene tra di loro, coloro che vogliono essere sobri in mezzo ad uomini intemperanti, che vogliono restare casti in mezzo ad uomini dissoluti, che vogliono adorare Dio puramente in mezzo ad uomini che consultano gli astrologi e nulla chiedono ai loro vani calcoli; infine colui che vuole andare in Chiesa, in mezzo ad uomini amici degli spettacoli frivoli del teatro, costui è esposto agli insulti dei Cristiani stessi, che lo caricano di parole ingiuriose e che lo rimproverano dicendo: « Quanto a voi, voi siete un grande uomo, voi siete un santo »; essi lo insultano, e da qualunque parte si giri, a destra o a sinistra, si sentono parole oltraggiose. Ma se egli se ne duole, o si allontana dalla via del Cristo, cade nei lacci dei cacciatori (S. Agost.) -. – Qual è questa parola dura se non il grido dell’insaziabile inferno: eliminate, eliminate, colpite, distruggete, mettete a morte, impeditegli di dividere le spoglie? Qual è questa dura parola se non questa: « Che l’empio sia eliminato per non vedere la gloria di Dio? » (Isai. XXVI, 10). Allo stesso modo i cacciatori trionfano gioiosi quando, catturata la preda, gridano: Afferratela, legatela, ponetela sul braciere, afferratela e gettatela nella caldaia bollente, la stessa dura parola del popolo giudeo quando esclamò: « … via, via, crocifiggilo » (Giov. XIX, 15). Voi avete sopportato questa dura parola, Signore; perché? Se non per liberarci da una simile parola … gli uomini del mondo, quando consigliamo loro di fare penitenza, ci rispondono come fecero i Giudei a Nostro Signore: « Questa parola è dura. » (Giov. VI, 61). Ma come, sono una cosa dura « … queste afflizioni sì brevi e leggere della presente vita, che produrranno per noi il contrappeso eterno di una incomparabile gloria? » (II Cor. IV, 17) – Vi sembra duro riscattare con un lavoro sì breve e leggero queste sofferenze e queste torture che non vedranno mai termine, e che nessuno spirito può concepire? Vi sembra duro ascoltare questa parola: « … Fate penitenza? » voi siete nell’errore. Un giorno veramente sentirete una dura parola: « … andate via, maledetti, al fuoco eterno. » (Matt. XXV, 41). Ecco la parola che bisogna temere, la sola parola che deve apparirvi dura, e allora troverete che il giogo del Signore è dolce ed il suo peso leggero. (S. Bern.). 

II. — 4-8.

ff. 4-8. – « Ti metterà all’ombra sotto le sue spalle, e sotto le sue ali sarai pieno di speranza. » È evidente che questo riferimento delle due ali spiegate indica a sufficienza che voi siete come tra le spalle di Dio, in modo tale che le sue ali, in mezzo alle quali vi trovate, vi proteggano da ogni lato, e facciano in modo che non abbiate a temere nessuno. Badate solo di non lasciare un asilo ove alcun nemico osi penetrare. Se la chioccia protegge i suoi pulcini, quanto più sarete sicuri sotto le ali di Dio contro il demonio ed i suoi angeli! (S. Agost.) – Quattro benefici segnalati ci vengono accordati all’ombra delle spalle di Dio: Dio ci nasconde sotto le sue spalle; ci protegge contro gli attacchi degli uccelli predatori, che sono le potenze dell’aria; ci offre un’ombra salutare e rinfrescante, e ci mette al riparo degli ardori brucianti del sole; infine ci nutre e ci riscalda, come la chioccia riscalda i suoi pulcini che nasconde sotto le sue ali (S. Bern.). – Questo è lo scudo impenetrabile della verità di Dio, che rende invulnerabile coloro che sanno servirsene. Un elmetto copre soltanto la testa, una corazza non può difendere che una parte del corpo, ma lo scudo è una difesa generale che si può alzare, abbassare e girare intorno al corpo (Dug.). – Circondato da questo scudo della fede fondata sulla Verità di Dio, non si temono né le tentazioni di pusillanimità, figurate dai timori notturni di cui parla il Profeta, né le tentazioni di vanagloria e di orgoglio, significate dalla saetta che vola di giorno, né le tentazioni di avarizia ed il desiderio di ricchezze che risiedono nelle tenebre profonde nell’anima e l’accecano, né le tentazioni di impurità, significate dagli assalti del demonio del mezzogiorno, che cerca di abbracciarci con i fuochi della lussuria. – Dopo aver rassicurato l’uomo giusto e pieno di fiducia in Dio, il Profeta gli fa vedere la disfatta dei suoi nemici, e la protezione tutta particolare di cui sarà oggetto. Questa vittoria non sarà completa che nella vita futura, e lo spettacolo del castigo degli empi costituirà una parte della gloria dei giusti. – « Ma tuttavia voi considererete con i vostri occhi. » Perché queste parole: « … Ma ora? »  È stato permesso agli empi di ergersi arrogantemente contro i vostri servi; è stato permesso agli empi di perseguitare i vostri servitori. E questo impunemente? No, non sarà impunemente; perché, benché lo abbiate permesso, ed i vostri servi ne abbiano merito per la loro corona, « … tuttavia, essi considereranno con i loro occhi, e vedranno la punizione dei peccatori. » Ora, noi abbiamo bisogno di vedere, con gli occhi della fede, e la loro elevazione temporale e le lacrime che verseranno eternamente. Un potere passeggero è stato loro dato sui figli di Dio, ma sarà loro detto un giorno: « … andate nel fuoco eterno. » E chiunque ha occhi per vedere, considererà con i propri occhi; ed è questo un terribile spettacolo, il vedere l’empio florido in questo mondo, e fissare gli occhi su di lui per contemplare con la fede i supplizi che gli sono riservati alla fine, se non si corregge; perché coloro che pretendono di maneggiare il fulmine, più tardi saranno fulminati (S. Agost.). – I giusti troveranno, nella considerazione dei supplizi del peccatore, un soggetto di grazie e di gioia: 1° perché, grazie alla sola misericordia del Redentore, essi sono sfuggiti a questi supplizi eterni; 2° perché essi gioiranno di una perfetta sicurezza, vedendo i castighi dei peccatori, di cui non avranno più a temere né la malizia né gli attacchi diabolici, e che non vedranno non solo caduti alla loro destra e sinistra, ma caduti per sempre nell’inferno; 3° A causa della comparazione che faranno del loro stato con quello dei peccatori, paragone che farà risaltare la brillanza e lo splendore della gloria di cui saranno ricoperti; 4° perché vedranno nei supplizi dei malvagi il compimento dei disegni provvidenziali della saggezza e della giustizia divina (S. Bern.).

ff. 9, 10. – Gli uomini cercheranno sempre un asilo nei luoghi più elevati. Colui che si rifugia nel seno di Dio, stabilisce la sua dimora nell’asilo più elevato, il più forte, il più inaccessibile alle imprese degli uomini. Ce ne sono molti che vogliono farsi un rifugio in Dio, per sfuggire alle tempeste di questa vita. – Ora, il rifugio che Dio ci presenta e nel quale si può sfuggire alla collera ventura, è un luogo molto elevato e molto nascosto (S. Agost.). – « Voi avete posto il vostro rifugio in un luogo molto elevato. » Il tentatore non potrà avvicinarsi, il calunniatore non potrà salirvi, il maledetto accusatore dei suoi fratelli non potrà mai raggiungerlo …  « Voi avete posto il vostro rifugio in un luogo molto elevato; voi avete scelto l’Altissimo per vostro rifugio. » Fuggiamo spesso in questo rifugio, il luogo è fortificato, non c’è da temere alcun nemico. Piacesse a Dio che noi potessimo sempre dimorarvi! Ma questo non è possibile nella vita presente. Ciò che è ora per noi un rifugio, diventerà un giorno una dimora permanente per l’eternità. Ma nell’attesa, benché non ci sia concesso abitarvi sempre, ricorriamo spesso a questo rifugio. In tutte le nostre tentazioni, in tutte le nostre tribolazioni, in tutte le nostre necessità, di qualunque natura siano, questa città di rifugio ci è aperta, il seno della madre nostra ci attende, le viscere della misericordia sono pronte a riceverci.  (S. Bernar.) – Uno dei frutti di questa speranza che il giusto ripone nell’Altissimo, è che il male non gli si avvicinerà. Ora vi sono due tipi di male: il peccato e la pena dovuta al peccato; il peccato è il male propriamente detto, la pena non è che un male relativo, così è questa pena che bisogna intendere con il castigo o catastrofe di cui parla qui il Profeta. Che il peccato sia solo un male nel senso assoluto della parola, e che così non lo sia per la pena, è evidente: solo il peccato ci rende malvagi, mentre la pena non ci rende che infelici; nessuno può servirsi del peccato per il bene, mentre la pena può rendersi meritoria; il peccato non è mai utile, perché ci fa perdere più di quanto non ci dia; non si può mai dire che sia un bene, perché è sempre una iniquità, mentre la pena più esserci buona ed utile; non si può dire che Dio sia l’autore del peccato, perché tutto ciò che Egli fa, è buono, mentre la pena la si può ricondurre alla sua giustizia (S. Bernar.) – (Bellarmin.) – Quando il peccato sarà stato completamente distrutto, essendone stata eliminata la causa, l’effetto cesserà di esistere, e non potendo più il male avvicinarvi, le catastrofi non potranno raggiungere la vostra tenda, ed il castigo sarà allontanato dall’uomo esteriore e l’uomo interiore sarà puro e affrancato da ogni colpa.

III. — 11-16.

ff. 11-13. – 1° Provvidenza ammirevole di Dio, che deputa a guardia nostra uno degli Angeli che vedono la sua faccia in cielo. – Chi ha comandato, a chi ha comandato, nell’interesse di chi è stato comandato? Da ciò possiamo concludere l’amore di Dio per noi, l’amore che gli Angeli ci portano, e la dignità della nostra anima. (S. Gerol., S. Bern.) – Chi ha dato questo comando? Qual è il Padrone degli Angeli, da chi essi ricevono ordini da eseguire? Alla volontà di Chi essi obbediscono? È dunque la sovrana Maestà che ha comandato agli Angeli, ai suoi Angeli, cioè a queste intelligenze sublimi e felici che sono così vicini a Lui, che Gli sono uniti, che vivono nella sua familiarità, che sono veramente della casa di Dio, che ha comandato loro a vostro riguardo. Chi siete voi? Signore, che cos’è l’uomo, perché vi ricordiate di lui, o il Figlio dell’uomo perché ve ne diate pena? L’uomo non è che un ammasso di corruzione, ed il Figlio dell’uomo un verme di terra? E cosa pensate che abbia comandato agli Angeli a vostro riguardo? Ha forse scritto contro di voi cose aspre? Ha forse comandato loro di far risplendere la loro potenza contro una foglia portata dal vento? Ha loro comandato di far sparire l’empio, perché non veda la gloria di Dio? Ecco cosa avrebbe dovuto comandare, ma non sono questi gli oggetti del suo ordine: « Egli ha comandato ai suoi Angeli di custodirvi in tutte le sue vie ».  E come queste parole non devono ispirarci un profondo rispetto, penetrarvi di una tenera devozione, e mettere nel vostro cuore una fiducia senza limiti, un profondo rispetto per la presenza dei suoi Angeli, un sentimento di tenera affezione per la loro benevolenza nei vostri riguardi, una fiducia senza limiti in questi guardiani tanto fedeli! (S. Bern.). – 2° Ecco il fine per il quale gli Angeli sono posti a nostra guardia: per custodirci in tutte le nostre vie, cioè in tutti i nostri pensieri, in tutti i nostri affetti, in tutte le nostre parole, in tutte le nostre azioni, queste sono le vie attraverso le quali noi andiamo a Dio. Ora, gli Angeli ci conducono nella via del cielo (Exod. XXIII, 20); essi rianimano il nostro coraggio e ci danno le forze per entrare generosamente in questa via. – « Essi vi custodiranno in tutte le vostre vie. » Quali sono queste vie? Quelle nelle quali voi camminate evitando il male e fuggendo la collera futura. Ci sono tante vie, tanti tipi di vie, cosa che crea un danno molto grande al viaggiatore. Quanto è facile, in questo incrocio di strade multiple, prenderne una che inganni, se manchiamo di discernimento nella via che scegliamo; perché Dio non ha comandato ai suoi Angeli di custodirci in tutte le vie, ma in tutte le « nostre vie ». Ci sono delle vie che dobbiamo evitare, delle vie seminate di insidie, costeggiate da precipizi, vie ben differenti da quelle nelle quali abbiamo bisogno di essere custoditi. (S. Bern.) – Una volte fortificati, gli Angeli ci indicano chiaramente il cammino. Essi ci aiutano in mezzo alle difficoltà della strada; essi combattono per noi se il nemico ci attacca. – 3°  Ecco ancora l’amore con il quale gli Angeli assolvono a questa missione: essi ci portano nelle loro mani, figura questa improntata alla nutrice, alla madre che porta i suoi figli nelle sue braccia. Le mani degli Angeli sono l’intelletto e la volontà. – I nostri piedi sono le affezioni della nostra anima, e le due principali affezioni sono l’amore ed il timore. Ogni azione, ogni parla, ogni desiderio dell’uomo verso un oggetto qualunque, sono l’effetto dell’amore e del timore, l’amore di un bene che vogliamo acquisire o il timore di un male che temiamo di soffrire; e noi urtiamo i nostri piedi contro la pietra, quando all’occasione di un bene temporale che vogliamo acquisire o che temiamo di perdere, cadiamo nel peccato. (S. Agost.). – Santi Angeli, quanti siete, « … che vedete la faccia di Dio, » ed ai quali Egli ha comandato di custodirci in tutte e nostre vie, apportate alla nostra debolezza i soccorsi di ogni sorta che Dio ha messo nelle vostre mani per la salvezza dei suoi eletti, per i quali si è degnato di stabilirvi spiriti amministratori.  (Bossuet, Elév. IV, S. III, E.) – O Angeli del cielo, io vivo in mezzo al mondo ove gli scandali mi circondano; vegliate su di me e custoditemi, è il Signore stesso che ve lo ordina! Voi, i cui occhi contemplano la faccia dell’Altissimo, abbassate tuttavia i vostri sguardi fino ai miei piedi, e nello stesso tempo che sostenete il mondo, portatemi nelle vostre mani, perché i miei piedi non inciampino nella pietra di scandalo. – Il demonio, il primo e più pericoloso nemico del genere umano, è figurato sotto il nome di aspide, di basilisco, di leone, di dragone, secondo i diversi modi con cui cerca di attaccarci. Questi animali rappresentano anche i quattro vizi principali: l’aspide, le suggestioni segrete degli spiriti immondi (S. Greg.); il basilisco, la vanagloria e l’invidia (S. Bern.); il leone, l’orgoglio, ed il drago, la collera.

ff. 14-16. – La vera conoscenza di Dio è quella che è congiunta alla speranza e all’amore; conoscere Dio, altrimenti, è conoscerlo in maniera sterile. – Non temete, quando siete nell’afflizione, che Dio, per così dire, non sia con voi: che la fede sia con voi, e Dio è con voi nelle vostre tribolazioni. Il mare solleva i suoi flutti, e voi siete sballottati nella vostra barca perché il Cristo si è addormentato. Se la vostra fede dorme nel vostro cuore, è come se il Cristo, che abita in voi per la fede, dormisse con il vostro naviglio. Quando cominciate a sentire qualche agitazione, svegliate il Cristo che dorme! Eccitate la vostra fede, e sentirete che non vi abbandonerà! (S. Agost.). – Tutto il Vangelo non è, in qualche modo, che il commento di questa bella parola del Profeta : « … Io sono con lui nella tribolazione. » Dio è sempre stato con i giusti nella tribolazione, ma questa verità ha ricevuto una applicazione ben più sensibile e più generale dopo che il Verbo di Dio si è degnato di farsi simile a noi e passare Egli stesso in tutte le tribolazioni. – « Io lo salverò e lo glorificherò. » A chi non sarebbe sufficiente essere glorificato da Colui le cui opere sono perfette? Perché una sì grande immensità non può glorificare i suoi eletti che in maniera immensa. La glorificazione deve essere necessariamente grande, e discendente da una gloria tanto magnifica (II Piet. I, 17). La gloria del mondo è ingannevole, il suo splendore è vano, i giorni dell’uomo sono brevi. Il saggio non desidera questa gloria, egli dice dal fondo del cuore a Colui che vede il fondo dei cuori: « io non desidero il giorno dell’uomo, voi lo sapete. » (Ger. XVII, 16). Io desidero qualcosa di più prezioso. Io conosco colui che ha detto: « Io non ricevo la gloria che viene dall’uomo. » (Giov. V, 41) Quanto siamo miserabili nel cercare la gloria che viene dagli uomini, e non volere quella che viene da Dio solo! Quella gloria per la quale non abbiamo che indifferenza, è la sola che abbia durata, la sola che possa riempire i nostri desideri (S. Bern.). – Cos’è la lunghezza dei giorni? La vita eterna. Non pensiate che qui si tratti di una lunghezza analoga a quella dei giorni dell’estate che sono più lunghi di quelli dell’inverno. Sono questi i giorni che Dio deve darci? No, la lunghezza dei giorni, non ha fine, è la vita eterna (S. Agost.). – « Ed io gli farò vedere la salvezza che destino a lui, » vale a dire, gli mostrerò il Cristo stesso. Ma come? Non si è visto il Cristo sulla terra? Cosa ha dunque di straordinario da mostraci? Ma il Cristo non è stato visto allo stesso modo in cui lo vedremo. Non è stato visto che come lo hanno visto coloro che lo hanno crocifisso, e noi che non lo abbiamo visto, noi abbiamo creduto in Lui, essi avevano degli occhi, dunque non ne abbiamo noi? Noi ne abbiamo, e questi sono gli occhi del cuore; ma noi vediamo ancora per la fede e non in realtà. Quando arriverà la realtà? Quando lo vedremo faccia a faccia (I Cor. XIII, 12), secondo l’espressione dell’Apostolo, e secondo la promessa di Dio che ci ha fatto come la più grande ricompensa dei nostri travagli. Qualunque sia il vostro lavoro, voi lavorate per giungere a questa visione. Noi vedremo dunque, un nonsoché di grande, perché questa visione deve essere tutta la nostra ricompensa; ora, questa visione incomparabile è quella di Nostro Signore Gesù-Cristo. (S. Agost.). – Il salmista, dopo aver detto: « io lo colmerò di giorni, » sembra rispondere a questa domanda: donde verrà il giorno in questa città di cui leggiamo: « E la città non ha bisogno del sole, né della luna per essere illuminata, perché non ci sarà più notte »? (Apoc. XXI, 23). « Io gli farò vedere la mia salvezza, » egli dice, e così l’Agnello sarà la sua fiamma, la luce che la illuminerà. Non è più con la fede che lo istruirò, non lo eserciterò con la speranza, il tempo della prova è trascorso; io colmerò i suoi desideri con la visione chiara: « Io gli farò vedere la mia salvezza, » Io gli farò vedere il mio Gesù, affinché contempli eternamente Colui in cui ha creduto, che ha amato, che ha sempre desiderato. «  Mostrateci Signore, la vostra misericordia, e donateci la vostra salvezza; » mostrateci Colui che ci destinate come Salvatore, e questo ci è sufficiente; perché chi lo vede, vede anche Voi, perché Egli è in Voi e Voi siete in Lui. Ora, « la vita eterna consiste nel conoscervi, Voi, il solo vero Dio e Gesù-Cristo che Voi avete inviato. » (Giov., XVII, 3S. Bern.) – La Gloria riservata al giusto consiste dunque in una durata senza limiti e nella visione del Salvatore; è questa manifestazione piena ed intera di Se stesso che prometteva ai suoi Apostoli quando diceva: «  Colui che mi ama sarà amato dal Padre mio, Io l’amerò e mi manifesterò a lui. » (Giov. XIV, 21). « Le due promesse comprese in questo versetto non sono dunque niente meno che l’eternità e la visione di Gesù-Cristo; l’una senza l’altra non sazierebbe l’uomo giusto; l’eternità senza Gesù-Cristo non potrebbe essere che l’inferno, e la visione di Gesù-Cristo senza l’eternità non potrebbe essere che una beatitudine passeggera, di conseguenza soggetta al timore di perderla … e al rimpianto di averla perduta. (Berthier).  

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° corso di esercizi spirituali (14)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (14)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

14. La fiducia

Prima di lasciarvi voglio aiutarvi a fare ancora una riflessione utile, e cioè vorrei dirvi una parola sulla fiducia, perché gli Esercizi finiscono e comincia la loro applicazione; la visione si chiude e comincia l’azione. La causa è messa e debbono cominciare gli effetti buoni. È il momento in cui bisogna aver fiducia. La fiducia suppone un fondamento e il fondamento c’ è. Ecco tutto. Ciascuno di voi ha davanti i suoi problemi, i suoi difetti, le cose che gli rimangono ancora da fare. Vorrei dirvi: non spaventatevi mai. Nel corso di questi Esercizi ciascuno di voi ha potuto costatare che Dio aiuta a vedere la verità e talvolta aiuta in una maniera sorprendente. Ed è Lui che agisce: non si tratta di cause esterne, è Lui. Quello che accade qualche volta, può accadere sempre e può ripetersi sempre purché noi — mi si passi la parola — aiutiamo il buon Dio a farlo accadere. Voi avete visto che durante gli Esercizi possono muoversi in noi dei sentimenti, delle certezze, delle accensioni anche formidabili. Anche qui non si tratta di cause esterne: si tratta della mano di Dio. Bene, quello che è accaduto una volta può accadere sempre, può accadere tutti i giorni. Ma soprattutto possiamo avere la tranquillità che Dio non ci abbandona in quelle articolazioni dei fatti, in quelle articolazioni della nostra vita, in quei momenti nei quali noi abbiamo bisogno assolutamente di luce, di certezza e di forza dentro di noi. Quello che accade in qualche momento può accadere sempre ed è indefinitamente ripetibile. Il fondamento c’è — lo avete visto — e il fondamento sta in quello che Iddio ci ha dato. Nostro Signore, lo ricordate, ci ha detto che dobbiamo chiedere e possiamo chiedere e che riceveremo; che se busseremo ci sarà aperto, perché il Padre stesso ci ascolta. Ci ha assicurato dell’infallibilità della sua assistenza e della infallibilità della preghiera. Non ci ha assicurato l’oggetto da noi inteso nella preghiera, perché poi possiamo chiedere anche cose meno convenienti o possiamo chiedere inadeguatamente o cose irragionevoli ecc. Ma la preghiera ha sempre un effetto: c’è aggiunta la promessa divina. – Ma il grande documento della nostra fiducia è proprio la SS. Eucaristia. Si può pensare che Colui che ha inventato questo, che ha fatto questo, che ha trasformato con questo l’orizzonte di tutto il mondo, che ha innalzato con questo le possibilità di tutti i redenti, che ha anticipato con questo una comunione eterna, è possibile mai che non sia dalla nostra parte? Voi capite bene che tutto l’oggetto, divino, amabilissimo oggetto di questi Esercizi, ritorna per darci una parola di fiducia. Ciascuno di voi può contemplare le sue questioni, i suoi problemi, le sue risoluzioni, il suo domani, ma sempre con infinita pace, perché c’è Lui. Il fondamento c’è: è questione di appoggiarvisi. Ma è certo che, appoggiandovisi, tutte le questioni possono risolversi nella forma migliore, tutti i problemi possono avere la loro conclusione nella maniera più felice, tutto quello che può rimanere dubbio nell’anima può trovare la luce al momento, nella misura in cui forse noi non pensiamo, ma certo può trovare la luce. Non c’è nessuna questione che rimanga fuori di questa affermazione universale. Voi potete avere fiducia e guardare con fiducia. Ricordatevi che c’è Lui; a Lui potete sempre direttamente chiedere, con Lui potete sempre direttamente intrattenervi; mi permetto di richiamare e raccomandarvi quello che ho già detto a proposito dell’orazione eucaristica. – Guardate che con l’applicazione della orazione eucaristica non c’è più niente da temere nella propria vita, né per i propri dubbi, né per le proprie carenze, né per le contingenze attraverso le quali potrà venirsi a trovare la vostra vita. Tutto è perfettamente solubile, notate bene, non nel senso della comodità, perché a colui che è andato in croce per noi non possiamo chiedere le comodità. Possiamo chiedere qualche volta di essere sollevati dalla nostra umana debolezza e dalla nostra piccolezza, ma la faccia di chiedere proprio che ci faccia un letto di petali di rose, non la possiamo avere. E su questo credo che si possa essere facilmente d’accordo, perché dinanzi a tutto quello che Nostro Signore Gesù Cristo ha dato, noi non possiamo essere degli egoisti, ma dobbiamo imparare da Lui ad essere infinitamente generosi. Ma è certo che si può guardare all’avvenire con fiducia per quanto riguarda noi, per quel che riguarda il nostro apostolato, le nostre imprese, la nostra opera. Guardate sempre con fiducia: avete il documento in mano. E di questo documento in mano, di questa infinita risorsa, di questa incomparabile grazia — questo vi dico — sappiatevene servire. Essa non mette limiti; la risorsa non ha limiti. Il tempo e lo spazio hanno i loro limiti, le circostanze hanno i loro limiti, i dolori hanno pure i loro limiti, ma ricordiamoci che la grazia di Dio non ha limiti mai.

FINE

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° corso di esercizi spirituali (13)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (13)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

13. La vittoria sul mondo

Dobbiamo concludere il discorso sull’iter che ci ha intrattenuto in questi Esercizi. Abbiamo detto che noi dobbiamo percorrere una strada insieme con Gesù Cristo e che Gesù Cristo lo troviamo dov’è, ossia dove s’è messo Lui. E nella forma più vicina, più umana, più accostevole, nell’Eucaristia. E pertanto, pensando che il cammino della vita dobbiamo farlo con Lui, ci siamo volti costantemente alla considerazione dell’Eucaristia. – Quando Nostro Signore ha istituito l’Eucaristia, allorché ha porto un calice ai discepoli, ha detto queste parole: « Fino a che non lo beva nuovo con voi ». E con questo rimandava il pensiero dei discepoli presenti in tutte le generazioni all’ultimo termine, cioè al banchetto eterno. Noi dobbiamo per un momento tenere gli occhi fissi a questo: la mensa, la comunione che noi abbiamo con Gesù Cristo, l’intimità alla quale ci autorizza la dottrina eucaristica nei confronti con Lui, debbono avere la conclusione nel banchetto eterno, che noi chiamiamo così, che si chiama così, non solo per la ragione di colleganza col banchetto nel quale Dio e gli uomini si trovano insieme mentre questi sono nel pellegrinaggio terreno, ma ancora perché l’immagine del banchetto è immagine tipicamente biblica per esprimere la pienezza dei beni. Noi dobbiamo guardare al banchetto eterno. – E allora, la prima considerazione che io sottopongo a voi in questo ordine di idee e per arrivare a quel punto, eccola. In questo iter, sapendo che siamo con Gesù Cristo, che con Lui possiamo parlare tutto il giorno, che lo possiamo ricevere tutte i giorni, che di Lui possiamo essere nutriti e con Lui possiamo essere forti, noi dobbiamo essere consapevoli, fieri, sicuri e coraggiosi di fronte al mondo. – Io sono profondamente convinto che gli uomini del nostro tempo siano molto più vicini a Dio di quanto noi crediamo; proprio per l’esperienza della fugacità e della caducità delle cose umane e per la fretta travolgente del loro stesso progresso e per le spettacolose terribili applicazioni che quella fretta ha recato, si sono trovati ben più vicini e sono tutti più vicini a ripensare con obiettività il loro stato. Per questo motivo e anche per la esperienza che ne faccio tutti i giorni, è mia convinzione profonda che gli uomini del nostro tempo, presi a uno a uno, siano più vicini a Dio, molto più di quanto non lo fossero 25, 30, 40, 50 anni fa. Di questo io sono convinto circa gli uomini individui, presi a uno a uno. Ma l’ambiente loro, il mondo, che è cosa diversa dagli uomini, è quanto mai sospetto, quanto mai misero e quanto mai degno di compassione. Non di ammirazione, di compassione. Noi sappiamo che questo mondo cerca d’intimorirci, e cerca d’intimorirci sciorinando tutte le sue conquiste, le sue possibilità tecniche, sciorinando, con molta mala fede, la sua scienza come se noi diventassimo piccoli, inermi, assolutamente incapaci e non potessimo sostenere il confronto con questa maestà che si muove fiera e spesse volte tracotante. Questo scopo a cui tende il mondo: dare a noi il senso di una inferiorità, fa parte di quel tale vento del deserto a cui ho già accennato durante questi Esercizi, quel vento che viene dal deserto e che non aiuta a crescere nessuna pianta ma le brucia tutte. Quel vento del deserto può arrivare a noi e può creare in noi dei complessi d’inferiorità, quasi che a non essere scanzonati come il mondo, a non essere tracotanti come il mondo, noi abbiamo a essere degli esseri inferiori, quasi che noi dobbiamo metterci a tremare dinanzi alle sue conquiste. Io vi prego di non tremare mai dinanzi a niente, le conquiste del mondo moderno, che ha arretrato su tutta la linea per quel che riguarda il pensiero e altre manifestazioni collegate col pensiero — ha certamente arretrato, dico, la cultura —, la intelligenza di questo mondo ha invece straordinariamente avanzato nel campo delle scienze esatte, delle loro applicazioni, delle scienze positive e della tecnica, ordinando scienza e applicazioni positive ad aumentare l’agio, il comodo e il piacere materiale degli uomini. Ma ricordiamoci bene che tutto il complesso delle scienze positive e delle scienze esatte non può oltrepassare l’accidens quantitatis, sta tutto al di qua: questa piccola cosa della quale noi abbiamo avuto occasione di parlare a proposito della presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo nell’Eucaristia, l’accidens quantitatis, lo ferma e lo fermerà sempre. Al di là di quello, in fatto di scienze esatte e in fatto di scienze positive, si potrà andare solo modestamente con qualche deduzione, con qualche parallelismo; il resto è lasciato alla fantasia, non alla scienza. È questo il motivo per cui non dobbiamo aver paura mai, mai. Ricordiamoci che la matematica comanda e comanda la fisica. La matematica di natura sua, non costata altro che la successione ed i rapporti di estensione. La matematica non ha per canto suo le supreme ragioni dell’essere ed i rapporti di causa ed effetto. È questo il motivo per cui talvolta taluni matematici, sconfinando in campo che non era il loro e cioè nel campo metafisico, hanno dato prova di altrettanta ignoranza e incapacità in campo metafisico, che è il massimo, quanto potevano dar prova egregia di valore nella loro diretta e immediata competenza. – Il mondo cerca di donare a noi dei complessi d’inferiorità; cerca perché non abbiamo talune sue manifestazioni — e ne possiamo fare benissimo a meno perché non servono a niente —, perché non abbiamo la sua iattanza, perché non abbiamo la sua sicumera; cerca di farci credere che siamo dei poveretti. Dei poveretti? Ricordatevi che noi camminiamo con Gesù. Cristo; ricordatevi che il mondo, tanto quanto la sua scienza è stato sempre al qua dell’accidens quantitatis, il mondo intero è stato sempre al di qua della barriera della morte e non l’ha mai potuta oltrepassare. E non la passerà mai. Gesù Cristo l’ha passata. E nella storia della Chiesa la fa passare quando crede: Egli è padrone della vita. Noi camminiamo con Lui, non camminiamo con un morituro. Il mondo cammina con sé stesso morituro. Noi assistiamo a questa mostra di giuochi: vediamo cose che sembrano grandiose e stupende, che hanno un andamento che oggi non si dice più meraviglioso, si dice addirittura cosmico, e non è vero. Noi in realtà assistiamo allo scendere in questa arena arrossata di squadre di gladiatori che hanno armi diverse, sono condannati alla morte e danno spettacolo Però questi gladiatori passano tutti davanti al podio di Cesare, alzan la mano e salutano gridando « Ave Cæsar, morituri te salutant ». Noi vediamo tutte queste cose, le guardiamo con senso di pietà e di tristezza, perché tutte queste  spettacolose cose, che sembrano scendere con tanta muscolosa iattanza nell’arena arrossata di sangue le vediamo invece passare dinanzi al podio di Gesù Cristo dicendo «Ave, Christe, morituri te salutant ». Ma camminiamo, noi, per cose che noi muoiono e siamo con Lui che, unico, ha passato la morte. – Non dimentichiamocelo mai; che non ci prenda mai il senso di una certa miseria: « Il cielo e la terra passeranno ma – ha detto Lui – le mie parole non passeranno », e nessun uomo si può perita neppure di sognare una cosa simile. Le pari degli uomini volano via molto più facilmente vento e degli uomini. Noi dobbiamo ricordare che quando spira questo vento del deserto e tenta di prenderci farci venir paura, di farci tremare, che vorrebbe far piegare le nostre ginocchia rivestendoci di complessi d’interiorità, noi con umiltà davanti a Dio e davanti a Dio e davanti a tutti i fratelli, ma con fierezza di fronte alla storia e di fronte avvenimenti  del mondo, al mondo come ambiente, dobbiamo levare la testa con sicurezza e coraggio. – I paragoni verranno incalzando davanti a noi per ottenere determinati effetti psicologici, ma attenti bene! Non lasciatevi prendere. S. Agostino, nel XII libro della sua mirabile opera De civitate Dei parlando e riassumendo tanti eventi e circostanze della storia, le guarda, a un certo momento si direbbe con una riflessione sdegnosa che vi riporto ed esclama: « Sono tutte impalcature effimere per costruire l’unica casa durevole. La storia è così Quello che voi vedete, quello che pare stupendo, non dimenticatelo: sono tutte impalcature effimere che servono unicamente per costruire l’unica casa durevole, che è il Regno di Dio. – La cultura! La cultura, la grande cultura, che ha messo tutto il suo impegno nel far perdere all’uomo la stima per la propria intelligenza, prima, poi per la certezza, poi per la verità, e l’ha privato della sicurezza della verità, poi della norma di coscienza, poi finalmente della stessa valutazione dell’essere, poi finalmente l’ha portato e condotto al disprezzo della stessa vita e della stessa felicità. Il cosiddetto pensiero dominante oggi, che non lo è, perché è una forma di romanticismo deteriore, l’esistenzialismo, è la scuola del disprezzo della vita e del disprezzo della felicità. L’ultima voce dell’ultima forma esistenzialista è il gettare in faccia al destino la stessa libertà perché non sa che farsene neppure di quella. L’odium vitæ. Prima avevano dissertato, disquisito e giocato a proposito dell’ odium contra veritatem, e sono arrivati necessariamente all’odium vitæ, allo svuotamento di tutto. È possibile aver paura? – Guardateli bene! Sono scintillanti, hanno armature splendide, fregiate d’oro; i loro pennacchi ondeggiano accompagnando e ritmando gesti di una forza, di una virulenza, di una tracotanza impressionante. Guardateli: sono gladiatori che scendono nell’arena; attendono, si ammazzeranno tra di loro, purtroppo. Credete voi di dover aver paura del mondo? È questo il dramma del nostro tempo: la dissociazione tra il fatto che gli uomini, presi come singoli, sono in realtà molto più vicini a Dio e hanno fame e sete di giustizia molto più di quanto noi possiamo credere — e lo si sperimenta ogni giorno — e l’altro fatto che il loro ambiente, che è cosa diversa dai singoli e dalla somma dei singoli, perché è cosa nella quale rifluisce tutto quello che si è raccolto da quattro secoli a questa parte e forse anche da prima, il loro ambiente porta tutti i segni della pazzia e della malattia. È possibile averne paura? – Non meravigliatevi che nell’ultima meditazione io vi intrattenga su questo argomento e insista così fortemente su questo argomento. Perché a che cosa ci si riduce noi quando abbiamo paura di qualcheduno? Noi possiamo morire, ma le cose che ci sono care non le toccherà nessuno e scapperanno fuori anche di sotto terra se dovessero andarcisi a nascondere, e s’aprirebbero veramente le tombe, se questo fosse necessario. Non ha importanza che noi si viva o si muoia quando si è camminato e quando s’intende morire con Gesù Cristo: ha importanza che quello che noi amiamo ben più di noi stessi sia assicurato al disopra del carattere effimero del mondo. « Sono tutte impalcature effimere poste per costruire l’unica casa durevole ». Guardate sempre con questa sicurezza. Guardate al mondo della cultura perché dovete lavorare anche per convertirlo, non rigettando quello che di prezioso può portare con sé ed effettivamente porta, ma non dimenticatevi che quel mondo non vi può far paura. Noi abbiamo l’assicurazione della vita, abbiamo l’assicurazione della vittoria, noi siamo e camminiamo con Gesù Cristo. Questa è la prima considerazione conclusiva che lascio a voi. – Una seconda considerazione. Noi abbiamo visto che Gesù ha istituito l’Eucaristia a tavola, mentre mangiava con gli altri; l’ha legata alla mensa Domini, alla mensa del Capo famiglia, nella luminosità dell’affetto familiare, nella chiarezza dei rapporti familiari, nella comunità. L’Eucaristia, ricordate, la si vede sempre in mensa Domini, nella comunità, e l’Eucaristia, con il quadro che intorno ad essa, col celebre discorso dell’Ultima Cena Gesù ha steso e delineato, ci porta sempre a parlare della famiglia di Dio. È inscindibile. E allora guardate bene che il monito dell’Eucaristia si volge sempre e fa volgere l’anima nostra verso la famiglia di Dio. È come dire che volge l’anima nostra verso l’apostolato. È una vocazione, quella dell’apostolato, che noi abbiamo perché ce l’ha data Lui. Segna talmente la sua strada che noi non possiamo essere veramente con Cristo se in un modo o nell’altro, agendo o pregando o soffrendo, non ci mettiamo nella linea dell’apostolato. Non dobbiamo dimenticare che Gesù Cristo è nei tabernacoli di tutto il mondo ad aspettare che noi, per quanto possiamo, gli portiamo tutti gli sparsi figli di Dio per la terra. Per quel che possiamo. Quelli che ci sono vicini, quelli che sono lontani, di tutti i continenti: sta lì ad attendere. Non che abbia bisogno di noi. No. Gesù Cristo non ha bisogno di noi; siamo noi che abbiamo bisogno di Lui. Ma Egli sta amorevolmente ad attendere, e noi che camminiamo con Lui dobbiamo sentire il battito del suo cuore che continua a dire: « Sitio », ho sete, aspetto. E dobbiamo portare gli altri o agendo, o pregando o soffrendo. Le strade possono essere diverse, ma neanche le monache di clausura, se si dispensassero dal concetto dell’apostolato, camminerebbero con Gesù Cristo: possono camminare con Gesù Cristo perché pregando lavorando e soffrendo possono rispondere, mentre l’accompagnano nella loro solitudine, al palpito e al desiderio del suo Cuore. L’apostolato cristiano è una questione connessa, come avete visto, con l’Eucaristia, e il vostro apostolato mettetelo in questa luce. E nel vostro apostolato proponetevi sempre di rendere meno deserti i tabernacoli, perché troppo deserti sono i tabernacoli e talvolta quasi dimenticati da quelli stessi che li dovrebbero curare con amore e tenerezza infinita! Collegatelo sempre, fatelo partire di là come mozione, fatelo tornare là come termine, il vostro apostolato. L’apostolato. La vostra opera vive per questo. Nella luce dell’apostolato sappiate stimare la vostra Cittadella. La vostra Cittadella è Cittadella, ma amo rappresentarla come un ponte, un ponte nuovo per uomini ai quali non è sufficiente gettare delle mobili malsicure ed effimere passerelle. La Cittadella è un ponte. Avete forse visto delineate delle fortezze che sono sui ponti. Ce ne sono a questo mondo, sono insieme cittadelle e sono ponti; ci sono dei castelli che sono costruiti sui fiumi, che uniscono due rive difendendo dagli oltraggi dell’una riva l’altra riva, eppure congiungendo le due rive. La vostra Cittadella vive per l’apostolato e ha la missione di congiungere, di gettare un ponte verso molti ai quali, senza particolari attitudini, particolari accorgimenti, particolare apertura di cuore e di metodo, nessuno sta gettando un ponte. Non dimenticate quello che dico: che in talune direzioni non esistono opere che si possano dire attrezzate, schematizzate, finalizzate, irrobustite, modellate in modo tale da costituire un ponte verso le zone più lontane da Nostro Signore Gesù Cristo, verso le zone della cultura, verso le zone del lavoro, verso le zone della confusione e della anarchia mentale, morale e materiale. La vostra opera è attrezzata per questo. Voi fate un lavoro che, sotto taluni aspetti e per talune considerazioni, nel nostro Paese si può considerare insostituibile al momento presente. E pertanto sappiate amare e stimare la vostra vocazione all’apostolato in questa Cittadella, che però è Cittadella stesa sugli archi di un ponte e deve congiungere due rive. E deve congiungere quelli che altri non possono o non hanno mezzi o non hanno attrezzature per poter congiungere. Ma il vostro apostolato, non dimenticatelo mai, fatelo tutto partire di là, incentratelo tutto là — questo è il significato degli Esercizi attraverso i quali mi sono sforzato di condurvi umilmente — e fatelo ritornare tutto là, perché troppi tabernacoli sono deserti e troppi sono i disertori dell’amore di Dio, della misericordia di Dio e della grazia di Dio. E questa è la seconda considerazione che lascio a voi chiudendo il discorso sull’iter della vita che accompagna Gesù Cristo presente tra di noi. – Ora ne viene una terza ed è quella conclusiva. Vedete, Nostro Signore quando nel discorso dell’Ultima Cena, verosimilmente prima della istituzione della Eucaristia, ha narrato la parabola della vite, ha descritto la sua Chiesa nei suoi tre momenti: militante, escatologico, eterno; l’insieme della sua Chiesa, del suo Regno, e ha identificato sé stesso col tronco della vite. Tanto basta per capire che Nostro Signore Gesù Cristo ha messo una colleganza tra l’Eucaristia e la sua Chiesa. Siccome del momento escatologico non ce ne dobbiamo occupare perché non vi arriveremo: penso che noi non arriveremo a vedere la fine del mondo, possiamo lasciarlo da parte. Siccome al momento eterno ci pensa Iddio: noi non possiamo che presentare umili preghiere a Lui, alla Vergine, agli Angeli e ai Santi, anche quello possiamo lasciarlo da parte. Noi dobbiamo invece occuparci della Chiesa militante. – Il collegamento che Gesù Cristo ha fatto tra sé stesso, l’Eucaristia e la sua Chiesa è evidentissimo. In mano di chi ha messo sé stesso? In mano di Pietro e degli altri Apostoli. A chi ha detto : « Fate questo in memoria di me »? A Pietro, agli Apostoli, ai discepoli. Tutto alla Chiesa. La grande presente al suo spirito, mentre teneva il discorso che  accompagnato la istituzione dell’Eucaristia, lo sappiamo dall’adombramento della parabola della parabola della vite — la grande presente era la sua Chiesa, quella che ha chiamato « la mia Chiesa ». Quel possessivo usato da Lui, con un affetto che potrà riempire tutti i secoli di commozione, quel possessivo « la mia Chiesa » riguarda la sua Chiesa. E pertanto l’Eucaristia, come per altre colleganze ci ha fatto volgere verso la missione della Chiesa, che è quella dell’apostolato, l’Eucaristia ci fa volgere lo sguardo alla Chiesa di Gesù Cristo. – Noi, se siamo dei votati, dobbiamo totalmente vivere con Gesù Cristo, « in mensa Domini »; vivere con la Chiesa. La nostra vita non si può distinguere da quella della Chiesa. I fedeli devono anch’essi sentire con la Chiesa, dal posto di sudditi, sudditi dei pastori stabiliti da Lui, come dice la dottrina; ma per noi che siamo votati in diverso modo o con promessa o con voti o con l’Ordinazione sacerdotale, per noi non può esistere nulla che non sia inserito, allineato, assorbito, assimilato nella stessa vita della Chiesa. – La Chiesa. Vogliamo essere con Gesù Cristo? Stiamo con la Chiesa. L’iter con Gesù Cristo lo si realizza soltanto se siamo con la sua Chiesa, perchésoltanto nella sua Chiesa noi troviamo legittimamente l’Eucaristia. E allora imparate a dare ai vostri pensieri un corso, direi, di obbedienza costante, un corso d’assimilazione affettuosa; ai vostri pensieri, ai vostri desideri, alle vostre preoccupazioni date un corso di dedizione tenerissima alla santa Madre Chiesa. Quello che si presenta gioioso per lei sia gioioso per voi, quello che si presenta arduo per lei sia arduo per voi; quello che si presenta di sacrificio per essa sia amabile sacrificio per voi. Bisogna diventare così per essere con Gesù Cristo: vivere, camminare con la Chiesa. – La Chiesa oggi ha davanti grandi problemi. La Chiesa ha il problema di far presto nella evangelizzazione dei due continenti che sono saltati improvvisamente e scapigliatamente nella strada della storia e rischiano di portare la confusione in tutta la strada della storia: l’Asia e l’Africa. La Chiesa ha questa grande istanza e la persegue. La Chiesa ha davanti a sé la istanza di compiere tutto quello che è necessario e che è nella sua disponibilità giuridica, per rendersi al massimo pronta e adatta a ricevere la fede di quelli che sono ancora infedeli nel grande continente asiatico e nel grande continente africano. – La Chiesa ha davanti a sé l’assestamento dei popoli nella giustizia e nella pace. Perché essa sola ha nelle mani una dottrina capace di portare all’assestamento duraturo dei popoli nella pace, almeno la sufficiente convivenza. Già una volta la Chiesa ha dovuto prendere in mano i popoli per dei secoli. Che cosa non sia costato questo alla Chiesa noi lo possiamo intuire leggendo la storia ecclesiastica, e Dio solo lo sa, ma l’ha fatto; perché a certe istanze e a certi livelli della vita umana, le piccole massime del campo delle scienze e del pensiero e della legislatura bastano a creare cerchi circoscritti, ma non sono state capaci di creare nulla di veramente universale. La Chiesa ha davanti a sé questo grande problema dell’avvenire e della pace dei popoli. La Chiesa ha il problema di fare quanto prima, al livello della religiosità e della cultura e del pensiero, la liquidazione della più grande ferita che sia stata inferta al suo corpo: la divisione protestantica, quella divisione che ha avvelenato il mondo civile, che ha avvelenato l’Europa e della quale sono conseguenza diretta, con evidenza di legami e di successioni e di cause, le ultime due guerre mondiali e tutto quello che potrebbe ancora accadere. Ma soprattutto, forse ancora più del Protestantesimo stesso, deve fare la liquidazione di quello che la grave ferita, che il terribile veleno allora cosparso ha lasciato nel pensiero, nel costume, nella depravazione del mondo.

So bene che alla Chiesa di Dio « nec rosæ, nec lilia desunt »: non mancano mai né le rose porporine né i gigli candidi, mai. E Dio manda gli uomini secondo i tempi; manda i giganti quando occorrono lotte gigantesche; manda i santi quando occorre la santità; manda i grandi strateghi quando occorre la strategia. Dio sa quello che fa. Dio non rende troppo comode le cose agli uomini perché essi debbono acquistarsi, attraverso le cose scomode, il merito della loro gloria; ma Dio sa quello che fa e arriva al momento opportuno. E forse noi cominciamo già a intuire qualche cosa del piano di Dio in quello che sarà. Ma vedete questa Madre, questa Madre che deve nutrire i suoi figli all’interno, che deve andare a raccogliere per tutta la terra gli altri sparsi figli, almeno virtualmente, potenzialmente figli; questa Madre che li deve nutrire, che li deve difendere, che deve talvolta con sé stessa fare un arco tra il cielo e la terra per sostenere tutto quello che umanamente può cadere! Noi sappiamo bene che gli altri fatti sono impalcature effimere per costruire l’unica casa durevole, che è essa nel tempo; essa che dal tempo si protenderà poi, unica forma associativa delle cose umane, nell’eternità. – E abbiamo finito. Vedete, S. Tommaso d’Aquino al termine della sua sequenza, il Lauda Sion, che è una delle più meravigliose poesie che siano state mai scritte in questo mondo, si volge al Signore nel Sacramento: « Tu, qui cuncta scis et vales, qui nos pascis hic mortales, tuos ibi commensales coheredes et sodales, fac sanctorum civium ». E siamo ritornati al punto di partenza. Lo sguardo deve rimanere fisso là. Abbiamo detto che l’iter è con Gesù Cristo e Gesù Cristo è lì per noi soprattutto, anzitutto. Nessun iter ha una ragione logica in sé stesso se non ha un punto d’arrivo; e il punto di arrivo non è quaggiù, a una felicità qualsiasi, a un livello qualsiasi, a una soddisfazione, a una dignità, a un posto qualsiasi, no. Il punto di arrivo non è la gloria di quaggiù, non è il plauso, non è neppure l’amore di quaggiù. Il punto di arrivo è lassù. Non dimenticatelo mai: l’Eucaristia ci collega al cielo: « Tuos ibi commensales coheredes et sodales, fac sanctorum civium ». Amen.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/24/s-s-gregorio-xvii-il-magistero-impedito-3-corso-di-esercizi-spirituali-14/

SALMI BIBLICI: “DOMINE, REFUGIUM FACTUS ES NOBIS” (LXXXIX)

SALMO 89: “DOMINE, REFUGIUM FACTUS ES NOBIS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 89

[1] Oratio Moysi, hominis Dei.

    Domine, refugium factus es nobis

a generatione in generationem.

[2] Priusquam montes fierent, aut formaretur terra et orbis, a sæculo et usque in sæculum tu es Deus.

[3] Ne avertas hominem in humilitatem; et dixisti: Convertimini, filii hominum.

[4] Quoniam mille anni ante oculos tuos tamquam dies hesterna quæ præteriit, et custodia in nocte;

[5] quæ pro nihilo habentur eorum anni erunt.

[6] Mane sicut herba transeat; mane floreat, et transeat; vespere decidat, induret, et arescat.

[7] Quia defecimus in ira tua, et in furore tuo turbati sumus.

[8] Posuisti iniquitates nostras in conspectu tuo, sæculum nostrum in illuminatione vultus tui.

[9] Quoniam omnes dies nostri defecerunt; et in ira tua defecimus. Anni nostri sicut aranea meditabuntur;

[10] dies annorum nostrorum in ipsis septuaginta anni. Si autem in potentatibus octoginta anni, et amplius eorum labor et dolor; quoniam supervenit mansuetudo, et corripiemur.

[11] Quis novit potestatem iræ tuæ,

[12] et præ timore tuo iram tuam dinumerare? Dexteram tuam sic notam fac, et eruditos corde in sapientia.

[13] Convertere, Domine; usquequo? et deprecabilis esto super servos tuos.

[14] Repleti sumus mane misericordia tua; et exsultavimus, et delectati sumus omnibus diebus nostris.

[15] Lætati sumus pro diebus quibus nos humiliasti, annis quibus vidimus mala.

[16] Respice in servos tuos et in opera tua, et dirige filios eorum.

[17] Et sit splendor Domini Dei nostri super nos; et opera manuum nostrarum dirige super nos, et opus manuum nostrarum dirige.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXIX

È il salmo intitolato da Mosè, non perché da Mosè composto; ma perché Mose prega Dio. Argomento è orazione a Dio pel genere umano, il quale pel peccato originale cadde nelle massime sciagure, ed è nella necessità del soccorso di Dio a portare con pazienza i mali della vita ed arrivare alla beatitudine celeste. (1)

Orazione di Mosè nomo di Dio.

1. Signore, tu sei stato nostro rifugio per tutte quante le età.

2. Prima che fossero fatti i monti, e formata la terra e il mondo da tutta l’eternità e per tutta l’eternità, o Dio, sei tu.

3. Non ridur l’uomo nell’abiezione, tu che dicesti: Convertitevi, o figliuoli degli uomini. (2)

4. Perocché mille anni dinanzi agli occhi tuoi son come il dì di ieri che è trapassato;

5. E come una vigilia notturna; i loro anni saran come cosa che nulla si stima.

6. In un giorno passa com’erba: al mattino fiorisce, e passa; sulla sera cade, e si indurisce, e si secca.

7. Siam venuti meno sotto il tuo sdegno, e pel tuo furore viviamo in turbamento.

8. Hai collocate davanti a te le nostre iniquità, e la nostra vita davanti alla luce della tua faccia.

9. Così tutti i giorni nostri sono mancati, e noi sotto il tuo sdegno siam consumati.

10. Come tela di ragno saran considerati gli anni nostri: pei giorni di nostra vita si hanno i settant’anni. E pei più robusti gli ottant’anni; e il di più è affanno e dolore. Dappoiché é venuta in aiuto la (tua) benignità, e noi sarem tosto rapiti. (3)

11. Chi sa conoscere la grandezza dell’ira tua? e chi sa comprender la tua indignazione, come tu sei formidabile?

12. Fa adunque conoscere (a noi) la tua destra, e dà a noi un cuore illuminato dalla sapienza. (4)

13. Volgiti a noi, o Signore; e fino a quando (sarai sdegnato)? placati coi servi tuoi.

14. Sarem ripieni al mattino di tua misericordia, e saremo nella esultazione e nel gaudio per tutti i giorni nostri.

15. Avrem letizia per ragione dei giorni nei quali tu ci affliggesti, e per gli anni nei quai vedemmo miserie.

16. Getta il tuo sguardo sopra i tuoi servi e sopra le opere tue; e reggi tu i loro figliuoli.

17. E la luce del Signore Dio nostro sia sopra di noi; e governa tu in noi le opera delle nostre mani; e l’opra delle mani nostre, governa tu.

(1) Diversi interpreti hanno attribuito questo salmo a Mosè, perché ne porta il nome; ma Sant’Agostino e, dopo di lui un gran numero di commentatori, respingono questa opinione per ragioni desunte dalla durata assegnata alla vita dell’uomo nel versetto 10, e pensano che il nome di Mosè sia stato attribuito a questo salmo per conferirgli maggiore autorità. – Questo salmo deve al nome di Mosè che porta, il posto che occupa nel breviario, nell’ufficio delle “laudes” del giovedì, ove è stato avvicinato al cantico di Mosè dopo il passaggio del mar rosso, che ebbe luogo, si dice, il giovedì.

(2) Nel testo ebraico, il Salmista oppone l’eternità di Dio alla brevità della vita degli uomini. Voi siete – egli dice – immortale ed immutabile, l’uomo passa sotto gli occhi vostri; Voi riducete allo stato più umile, alla distruzione, alla morte, e dite: andate e tornate, figli di Adamo nella polvere dalla quale siete stati tratti (Gen. III, 19).

(3) Le miserie che accompagnano la vita e ne accorciano il corso sono un effetto della giusta collera di Dio, ma la morte, che è il termine di queste miserie, può essere vista come un effetto della sua bontà, della sua compassione.

(4) Il senso di questo versetto, nella Vulgata, potrebbe essere la conseguenza di ciò che precede: Fate almeno che, riconoscendo la vostra mano in questi castighi, noi ne siamo istruiti in saggezza

Sommario analitico

Il Salmo CI, composto sulla fine della cattività di Babilonia, indica che i Salmi che compongono questo libro siano stati raccolti poco prima dell’epoca in cui, sotto Esdra, fu formato il canone dei Giudei (Le Hir.). – In questo salmo, in cui il profeta considera il genere umano dopo la caduta di Adamo e contempla le miserie di questa vita mortale e passeggera.

I. – Egli si volge a Dio:

1° Come verso il rifugio che gli è preparato dall’inizio del mondo (1);

2° come verso l’Autore eterno della salvezza dell’uomo;

3° Come verso la causa prima della sua conversione (2).

II. –  Deplora la brevità della vita:

1° Comparata con la primitiva immortalità (3);

2° considerata in se stessa e nei simboli della sua breve durata (5, 6);

3° Egli espone la causa di questa brevità della vita: la collera di Dio (7);

4° l’occasione di questa collera, il peccato (8, 9);

5° i lavori inutili che abbreviano ordinariamente la vita (10).

III. – Egli desidera che Dio:

1° che Dio, per un effetto della sua dolcezza, lo distolga dal male e gli faccia conoscere la grandezza della sua collera;

2° gli insegni la vera saggezza (10-12);

3° ponga su di lui degli sguardi di misericordia (13);

4° gli faccia provare i dolci e soavi effetti di questa misericordia, in cambio dei mali che egli ha sofferto (14-15);

5° diriga lui e tutta la sua vita con la sua luce divina, conduca e faccia prosperare tutte le sue opere (16, 17).

Spiegazioni e Considerazioni

1. – 1, 2.

ff. 1, 2. – Davide, prima di raccontare il triste destino dell’uomo, e deplorare le calamità del genere umano, comincia con il lodare Dio, affinché non si imputino alla durezza del Creatore le sventure e le prove di cui sta per parlare, ma alle colpe di colui che è stato creato (S. Girol., Epist. 139). – Dio è per noi un rifugio sicuro in tutte le nostre tribolazioni, qualunque esse siano; è un rifugio aperto a tutti, in ogni tempo e per l’eternità. « Signore, Voi siete stato il nostro rifugio di generazione in generazione, » per insegnarci come il Signore sia divenuto nostro rifugio, cominciando per noi ad essere ciò che non era in precedenza, benché sia sempre stato il nostro rifugio, il Profeta aggiunge: « prima che le montagne fossero fatte, e che la terra ed il pianeta non fosse formato, Voi siete fin dall’eternità, ed in tutti i secoli ». Voi dunque, che siete da sempre, Voi che siete da prima che noi fossimo e che il mondo fosse … Voi siete diventato il nostro rifugio dal giorno in cui ci siamo come convertiti a Voi (S. Agost.). –  « Prima che le montagne fossero fatte … Voi siete Dio. » Prima dell’esistenza di questi esseri che, nella vostra creazione, sono i più grandi ed i più elevati, prima che la terra fosse costituita perché vi fosse un essere che vi conoscesse e vi lodasse sulla terra; e non è esagerato dire che quasi tutti gli esseri abbiano cominciato sia nel tempo, sia con il tempo, ma piuttosto « … dal secolo fino al secoli Voi esistete. » La Scrittura non dice forse a ragione: Voi siete stato fin dai secoli, e sarete fino al secolo? essa pone il verbo al presente, per far comprendere che la sostanza di Dio è assolutamente immutabile, e che non si possa dire di Lui. Egli è, Egli è stato, Egli sarà, ma soltanto.: Egli è! Da ciò vengono queste parole: « Io sono Colui che sono » (Es. IV, 16) – « Voi siete sempre lo stesso, ed i vostri anni non verranno mai a mancare » (Ps. CI, 27, 28). Ecco che l’eternità è diventata vostro rifugio, ed è verso di essa che noi dobbiamo fuggire l’incostanza dei tempi, per restare sempre in essa (S. Agost.). – Fin tanto che noi siamo quaggiù, viviamo in mezzo a grandi e numerose tentazioni, ed è da temere che esse ci distacchino da questo rifugio. Così, cosa chiede l’uomo di Dio nella sua preghiera? « Non allontanate l’uomo nella sua bassezza », fate che l’uomo non si allontani dalle vostre eterne grandezze per desiderare ciò che passa, e prendere gusto a ciò che è terrestre, egli aggiunge poi: perché Voi avete detto: « convertitevi figli dell’uomo », come se dicesse: Io vi domando ciò che voi avete ordinato, glorificando così la grazia divina, affinché chi si glorifica, si glorifichi nel Signore, senza il cui soccorso noi non possiamo, con la nostra sola volontà, vincere le tentazioni di questa vita (S. Agost.). – Chiediamo spesso a Dio che non permetta che noi ci perdiamo nel fango dei nostri desideri e delle nostre passioni, e non ci seppelliamo interamente nella morte con l’oblio completo del sovrano Bene, perché Egli stesso ci ha chiamati a convertirci a Lui con la voce esterna delle Scritture, e con la voce interna della sua grazia.

II. — 3 – 9.

ff. 3-6. – Ecco il motivo per il quale noi dobbiamo allontanarci da tutto ciò che passa e scorre, al fine di arrivare al nostro rifugio, ove dimorare senza mai cambiare: e per quanto tempo si possa desiderare di vivere, « mille anni davanti ai vostri occhi, sono come il giorno di ieri che è passato. » Non è detto lo stesso per il giorno come il giorno di domani che deve ancora venire, perché tutto ciò che è limitato dal tempo che finisce, deve essere considerato come già passato (S Agost.). – « Il numero dei giorni dell’uomo, anche il più lungo, è di cento anni, e questi pochi anni sono come una goccia d’acqua nel mare, come un granello di sabbia nel giorno dell’eternità. Ecco perché il Signore è paziente verso gli uomini, e spande su di essi la sua misericordia » (Eccl. XVIII, 8, 7). Che sono cento anni, che sono mille anni, se un solo momento li cancella? Consideriamo allora come brevissimo, o piuttosto come un niente ciò che finisce, poiché infine, anche quanto si fossero moltiplicati gli anni oltre tutti i numeri conosciuti, visibilmente questo non sarà nulla quando saremo giunti a questo termine fatale. (Bossuet) – « I loro anni saranno come le cose che sono considerate un nulla. » Considerate un nulla, in effetti, sono le cose che non esistono prima di essere giunte e che, al loro arrivo, non saranno già più; perché esse non vengono per essere, ma per non essere. Il mattino, cioè l’inizio, che l’uomo trascorre come l’erba, il mattino, che fiorisce e che passa; la sera, cioè il poi, che cade, si dissecca e appassisce; cade nella morte e si dissecca nel suo cadavere, si dissecca nella polvere (S. Agost.). – La scrittura compara incessantemente la durata della nostra vita con ciò che vi è di più mobile, di più fuggitivo, di più leggero: è un’ombra, un sogno, un fiore che appare e appassisce ben presto, un fulmine che svanisce; ciò che è passato è ingoiato nel nulla, ciò che è futuro non è che in nostra potenza, quel che chiamiamo presente ci sfugge, e all’ultimo momento della nostra vita, di questa carriera non resta, per quanto lunga possiamo immaginarla, che il ricordo consegnato in parte alla nostra anima, ma ben più incisa nell’intelletto di Dio. È questo ricordo solo che ci deve interessare, e secondo il quale dobbiamo regolare tutti i nostri passaggi (Berthier).

ff. 7, 9. – L’uomo innocente non avrebbe provato la morte, ma è per l’invidia del demonio e a causa del peccato al quale egli ha condotto l’uomo, che la morte è entrata nel mondo. È dunque la collera di Dio, divampata per la malizia del peccato, che ha abbreviato la vita dell’uomo, e l’ha ridotta ad uno stato di debolezza. – È  lo stesso peccato che ha riempito di disturbi l’uomo, che godeva in principio di una pace profonda, nella conoscenza e nell’amore del suo Creatore (Duguet). – Nessuno deve essere persuaso che tutte le sue iniquità non siano presenti all’occhio di Dio, e che lo splendore di questa Maestà eterna rischiari finanche le pieghe più intime ed oscure della sua coscienza. Ciascuno di noi, al momento della morte, può dire: ecco il mio secolo finito; e con questo secolo, quale che sia la sua lunghezza o la sua brevità, tutti i secoli del mondo sono ugualmente assorbiti ed annientati. Non resta se non la luce di Dio, ed essa si stende su tutti i momenti della vita. Si saranno persi di vista gli smarrimenti dell’infanzia, le irruenze della giovinezza, gli intrighi dell’età matura, la debolezza della caducità, non ci si ricorderà né dei pensieri di frode, né dei desideri nascosti, né delle parole sconsiderate, né delle azioni momentanee, molto meno ancora delle circostanze che hanno cambiato o aggravato la specie dei peccati. Ma nulla sfugge alla conoscenza di Dio, come Egli tenga conto della minima azione fatta per compiacerlo, come raccolga tutti i dettagli della vita del peccatore per accusarglieli. (Berthier). – I suoi occhi eternamente aperti osservano tutte le direzioni, contano tutti i passi di un peccatore, e considerano i suoi peccati come sotto un sigillo, per presentarglieli nell’ultimo giorno … si nasconde agli uomini durante il momento così breve di questa vita, che passa come un’ombra, ma quando questa ombra sarà passata, la luce del volto di Dio, alla quale tutta la nostra vita sarà esposta, manifesterà tutto, metterà in evidenza le cose più nascoste nel fondo dei cuori. (Bossuet). – Anima cristiana, leva gli occhi, contempla in silenzio queste verità teologiche: che Dio, nella sua santità, conosce il tuo peccato, lo considera, lo esamina, e ne misura tutte le dimensioni; tanto che Egli vede nell’infinità delle bellezze e le grandezze delle sue perfezioni divine, sia che veda nelle bruttezze, le bassezze e gli obbrobri della vostra vita criminale. Egli compara il tuo stato al suo; trova che non c’è più né altezza né gloria nelle più sublimi elevazioni della tua saggezza e del tuo amore verso il suo Verbo, e che non c’è che il niente dove  sei caduta allontanandovi da Lui. Egli vede gli uni gli altri nella stessa visione. Che cos’è questo, gran Dio, esclama il Profeta tremante di orrore? (Ps. LXXXIX, 8). Occorre dunque che questo sia in un giorno così splendido nel quale contempliate le disgrazie e le onte della nostra vita miserabile e che, tra gli splendori del paradiso, il secolo della nostra ingratitudine, sia uno spettacolo della vostra eternità? Ecco come Dio conosce ciò che passa tra noi, ecco ciò che pensa di un solo e minimo peccato. (BOSSUET, liêflex. sur le triste état des pécheurs.)- Signore, Voi avete chiamato le nostre opere a comparire davanti alla vostra giustizia, avete posto il nostro secolo nello sguardo luminoso del vostro volto. Guardate la luce di questa fiamma, tutti i nostri giorni non sono stati che una sequela di cadute, e dovremo molto meditare per riempire i nostri anni di un lavorio che non ci sarà profittevole, un vero lavoro di ragnatela. – Riflessione, questa, tardiva che faranno alla morte tutti coloro che, per una lunga vita, avranno goduto della più grande prosperità. Essi diranno allora, vedendosi spogliati di tutti i loro beni: ahimè, tutti i nostri giorni si sono consumati, sono svaniti, e ci troviamo noi stessi consumati. Consideriamo allora il corso così precipitoso di una vita che tende alla morte in tutti i momenti, non attacchiamo il cuore ad un qualcosa che passa sì prontamente (Duguet). Perché rattristarci sulla rapidità dei destini dell’uomo? La vita è breve! E che importa! Che bisogno abbiamo di restare per tanto tempo sulla terra? Il cielo è nelle buone opere, non alle lunghe opere. Temete il viver male, non temete di vivere poco. Voi siete qui per lavorare. Se lavorate bene, avete paura di ricevere troppo presto la ricompensa? Al contrario, desideratela: Dio permette che voi la desideriate; ciò che Egli permette è giusto e saggio. Se lavorate male, di che si lamenta il vostro cuore, più virtuoso delle vostre opere? Convertitevi e desiderate di morire presto, per non ricadere nel peccato. « Colui che vuol vivere per raggiungere la perfezione – diceva un santo dottore – desideri morire, ed è perfetto. » Ma non crediate che la vita sia così breve: voi lasciate per tanto tempo dopo di voi, il bene o il male di cui avete riempito i vostri giorni. Non avete rovinato che un cuore, quanti ne rovineranno altri! Non avete preservato che un’anima, quante anime essa non preserverà (L. V., Rome et Lorette, n, 58.).

ff. 10, 11. – Nulla c’è di più preoccupante della ragnatela, niente di più fragile che il proprio lavoro. Esso si risolve nel tendere dei fili che sono distrutti in un momento. –  I nostri giorni trascorrono nei vani lavori simili a quelle tele che il ragno produce dalla sua sostanza e che lo affaticano. C’è molta arte nel lavoro di questo insetto, sembra quasi che esso rifletta per formare un tessuto così fine e ben  ordinato. È per questo che il Salmista si serve del termine “meditare”. Cosa facciamo durante la nostra vita? Riflessioni per ergere delle opere così frivole come le tele leggere del ragno, per intraprendere grandi lavori che terminano nel prendere delle mosche, per formare delle trame e tendere dei filamenti in cui siamo noi stessi avviluppati, e che si rompono tanto facilmente quanto più li abbiamo tessuti con difficoltà (Berthier, Duguet). – Qual è l’uomo la cui vita non si consumi tra vani progetti, tra vane meditazioni! Si fanno sogni che non si avverano; si formano dei desideri che non si realizzano o non soddisfano mai; si inseguono dei beni passeggeri, ci si agita, ci si sforza, ci si tormenta. E cosa ne viene all’uomo da tutto questo lavoro … domanda l’Ecclesiaste? (I, 3). Gli anni dell’uomo trascorrono nel meditare inutili pensieri; essi meditano, ci dice il Re-Profeta, come il ragno che tesse la sua tela. Ogni anno che passa è una tela nuova che si tesse e che si strappa. Le mosche frivole che si catturano nelle nostre trappole, valgono i nostri duri lavori? … così i nostri anni si succedono rapidamente e ci trascinano con esse; esse consumano lentamente la nostra vita. « Cosa viene all’uomo dal suo lavoro? » Ahimè, egli si consuma lavorando, tutte le cure che lo occupano lo divorano. Ogni nuovo affanno per il suo cuore, aggiunge una ruga nuova alla sua fronte. Simile al ragno tesse lui stesso i fili effimeri delle sue opere, e come esso, si dissecca, stendendo la tela. Tuttavia, ci affrettiamo a ridirlo, sono soprattutto i peccatori che si impegnano in pene superflue, perché a loro si applicano le parole di Davide: « allontanandosi da Dio, essi si sono resi inutili » (Ps. XXXVIII). E sempre è l’anima dei peccatori che lo stesso Profeta ha visto in questo versetto del Salmo: « Signore, avete punito l’uomo a causa delle sue iniquità, Voi avete fatto seccare la sua anima come il ragno » (Ps. XXXVIII, 13).  (Mgr. DE LA BOUILLERIE, Symb. II, p. 444, etc.).- Il Profeta aveva considerato l’eternità di Dio e vi oppone la durata sì breve della nostra vita, che è di settanta anni, o al più di ottanta anni, ma ancor circa la metà del genere umano perisce prima di raggiungere la giovinezza, e non c’è che la decima parte degli uomini fatti per giungere a settanta anni. (Berthier).

III. — 11-17.

ff. 12, 13. – Effetto della misericordia di Dio, è abbreviare il corso della nostra vita. Una vita breve, ma tutta impiegata al servizio di Dio, è ben lunga. Una vita lunga, ma che si consuma in bagattelle, è ben corta, ma quale lunghezza di mali produrrà (Dug.). – Dalla severità con cui Dio ha punito il peccato del primo uomo, il Profeta trae le conclusioni della divina severità in generale. Chi potrà temervi tanto da eguagliare il suo timore alla vostra giustizia e i mille mezzi che avete per punire i peccatori? – « Chi sa apprezzare la potenza della vostra collera e misurare la vostra collera sul timore che Voi ispirate? » – Non appartiene – dice il Profeta – che ad un piccolo numero di uomini il conoscere la potenza della vostra collera; perché nei riguardi della maggior parte degli uomini, più voi li risparmiate, più vi irritate contro di essi, di modo che è piuttosto alla vostra collera che alla vostra dolcezza che occorre attribuire la pena ed il dolore con i quali voi castigate ed istruite coloro che Voi amate, per paura che siano destinati alle pene eterne. Quanto è difficile trovare un uomo che sappia misurare la vostra collera sul timore che Voi ispirate, e considerare come un effetto della vostra collera la pazienza con la quale risparmiate coloro contro i quali vi irritate maggiormente, di modo tale che il peccatore prosperi nella sua via e riceva un castigo più severo nell’ultimo giorno. Non c’è che un piccolo numero di coloro che sono istruiti per comprendere che la vana ed ingannevole felicità degli empi è la prova di una collera più violenta da parte di Dio (S. Agost.). –  « Fate conoscere la vostra destra; » cioè fate conoscere il vostro Cristo, del quale è stato detto: « … A chi è stato rivelato il braccio del Signore. » (Isai. LIII, 1). Fatelo conoscere in modo tale che i suoi fedeli apprendano in Lui a sollecitare ed a sperare da Voi, di preferenza, le ricompense che non sono espresse nell’Antico Testamento, ma rivelate dal Nuovo. Fate che essi non pensino che bisogna stimare come gran prezzo la felicità che danno i beni terreni e temporali, bramarla e amarla con passione, per timore che i loro piedi non siano tremanti quando la vedranno posseduta da coloro che non vi adorano, e per timore che essi non scivolino e non cadano in errore nel calcolare la vostra collera (S. Agost.). –  C’è una saggezza di spirito ed una saggezza del cuore che San Paolo chiama la saggezza del mondo: questa conviene ai filosofi, ai politici e a tutti i falsi saggi del mondo. La vera saggezza del cuore, consiste nell’essere ben persuaso che tutta la falsa saggezza del mondo non è che una follia, secondo la qualifica stessa del grande Apostolo, e che non si può essere veramente saggio se non quando si riconosce che si ama e si preferisce Dio ad ogni cosa. – Dio si ritira talvolta e per qualche tempo dai suoi servi; ma quando i suoi fedeli sono in questo stato pietoso, Egli si lascia piegare in loro favore.

ff. 14, 15. – Il Profeta, anticipando per esperienza i beni a venire e considerandoli già come compiuti, esclama: « Noi siamo ricolmi fin dal mattino della vostra misericordia. » Questa profezia è dunque per noi, nel mattino dei lavori e dei dolori di questa notte, « … come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori » (II Piet. I, 19). – Fin tanto che questa promessa si compia, alcun bene ci è sufficiente e non deve farci soffrire, per timore che il nostro desiderio non resti in cammino, intendendosi cioè finché non sia soddisfatto. « Noi siamo nella gioia per tutta la durata dei nostri giorni. » Questo è il giorno che non ha fine. Tutti i giorni sono radunati in uno solo; ecco perché noi saremo saziati; perché non ci sarà un giorno che fa posto ad altri giorni, là dove non c’è nulla che non sia ancora da venire, e che non sia già venuto. Tutti i giorni sono riuniti insieme. Perché non c’è che un solo giorno che arriva e non passa mai, e questo giorno è l’eternità. (S. Agost.). – Rallegriamoci quaggiù in proporzione alle nostre sofferenze. Perché le gioie del cielo vi saranno proporzionate. Vedete i radiosi volti di questa folla di Santi che numerosi circondano, affollandosi, il trono dell’Altissimo, saziate le vostre anime con la contemplazione della loro grave ed intellettiva bellezza; ammirate questi fieri sguardi con cui si dipinge la loro purezza senza macchia, e la calma intensità del loro amore tutto celeste. Ebbene, per la maggior parte di essi, è il dolore che li ha condotti attraverso la tempesta fino a queste rive felici; è il dolore che ha confezionato le corone da cui la loro testa è ornata; il dolore profondo, acuto e prolungato che ha fatto contemplare ad essi, senza veli, la splendida ed eterna Maestà di Dio (FABER, Le Créât, et la créât., p. 217). – Non è vero che per molti tra noi, per misericordia di Dio, le più grandi dolcezze che abbiamo gustato nella nostra vita siano nate in queste grandi contraddizioni? E consultando il fondo della nostra anima, noi possiamo dire con il Salmista: « non ci resta che un sentimento di gioia al ricordo dei giorni nei quali siamo stati umiliati, e degli anni in cui abbiamo incontrato il male. »

ff. 16, 17. – « Gettate uno sguardo sui vostri servi. » 1° Lo sguardo di Dio è sovranamente desiderabile, essendo per noi la sorgente di vita e di ogni bene: « La grazia e la misericordia del Signore riposano sui suoi Santi, ed il suo sguardo sui suoi eletti. » (Sap. IV, 15). – 2° Noi abbiamo bisogno di Dio come guida nella via del cielo: « … e dirigete i loro figli. » – 3° Noi abbiamo bisogno in questa via, della luce divina: « … e che la luce del Signore si spanda su di noi. » – 4° L’uomo deve agire, ma deve dirigere tutte le sue opere verso Dio: « Conducete dall’alto le opere delle nostre mani. » – Tutte le nostre buone opere sono le opere delle mani di Dio, sulle quali Egli getta volentieri gli occhi. Guai a colui che le attribuisce a sé e le considera come opere delle sue mani. Se Dio le conduce e le dirige, non saranno più le opere delle nostre mani, ma delle mani di Dio (Dug.). – Tutte le nostre buone opere si riassumono in una sola opera buona, che è la carità; perché la carità è la pienezza della legge (Rom. XIII, 10). In effetti, dopo aver prima detto: « E rendete rette in noi le opere delle nostre mani, » il Profeta dice in un secondo luogo. « Rendete retta l’opera delle nostre mani, » come per mostrare che tutte le nostre opere non sono che un’opera unica, che cioè debbano tendere ad un’opera unica. Le nostre opere in effetti, sono rette quando tendono a quest’unico fine, perché la fine di ogni precetto, dice San Paolo (1 Tim. I, 5), è la carità che proviene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (S. Agost.).

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (12)

S. S. GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (12)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

12. La orazione eucaristica

Il quadro di famiglia che Nostro Signore Gesù Cristo ha delineato intorno all’Eucaristia ci porta a considerare un altro elemento, quello dell’intimità, perché l’intimità è propria della famiglia. Questo discorso potrebbe allargarsi in diverse direzioni, ma per ragioni di tempo conteniamolo in un punto solo, il colloquio con Nostro Signore, cioè l’orazione. Questa orazione — parlo della orazione eucaristica, ma quello che dico può valere per qualsiasi tipo di orazione — ha l’aspetto di un colloquio. Vorrei dire che questo colloquio diventa un elemento caratteristico dell’iter che dobbiamo fare con Gesù Cristo. Perché io attiro la vostra attenzione sulla orazione eucaristica? Perché prima di tutto nella S. Comunione — a parte la preparazione che tutti sanno che va fatta e fatta bene — il nostro apporto è dato da questo discorrere con Nostro Signore. Pertanto il parlare della orazione eucaristica risolve anche il punto pratico più interessante a proposito della S. Comunione. Ma c’è un altro motivo anche più pratico che ritengo di dover delineare subito per indicare gli elementi che facilitano la orazione eucaristica. Mi rendo ben conto che il problema, quando si tratta di orazione, è sempre questo: Beh, io comincio, mi metto lì, poi a un certo punto non so più che cosa dire, e allora… mi attacco a ripetere sempre la stessa cosa, senza fine. Intanto è già una gran cosa ripetere, tanto più che la ripetizione è quella che può consumare, nel senso di portare a esplicitazione completa, l’amore di Dio. Si può fare benissimo! Ma mi rendo anche conto che quando si parla di orazione eucaristica, di colloquio con Nostro Signore Gesù Cristo, bisogna anche un po’ insegnare come si fa a parlare. È lo stesso problema che occorre a proposito della meditazione. Perché, vedete, la oratio eucaristica, e cioè la orazione che si fa davanti al SS. Sacramento, sia in chiesa che in qualsiasi punto del pianeta — quando in chiesa si è impediti di venirci col corpo, ci si può venire con la mente e col cuore — in realtà può diventare la orazione di tutta la vita. E allora veramente per questa strada si arriva a portare a perfezione una vita che sia, come è logico, come è da suggerirsi a tutti i Cristiani, incentrata in Nostro S. Gesù Cristo presente là dove Lui si è messo presente, cioè nell’Eucaristia. E vorrei affidare a questo discorso sulla orazione eucaristica la ripetizione della verità che ho già ricordato, e cioè che la pietà eucaristica non la si fa soltanto con le ginocchia o con la gola, facendo delle grandi genuflessioni e cantando, perché talvolta può anche accadere che intere ore di orazione siano fatte soltanto con le ginocchia e con la gola e nient’altro. Ci vuole qualche cosa di più. È tutta quanta la vita che viene ad armonizzarsi, a razionalizzarsi, a organizzarsi intorno a Nostro Signore. – La orazione eucaristica deve essere una orazione d’intimità. Perché? Perché la orazione eucaristica ha sempre il carattere di un dialogo: si parla con Nostro Signore. Non è mai un monologo, è sempre un colloquio. Questo colloquio, poiché da Nostro Signore è stato collocato nell’atmosfera di famiglia, di una famiglia divina, deve prendere sempre il carattere della intimità. Io ho già dovuto dire qualche cosa a proposito della intimità con gli altri: la intimità della carità con i fratelli, dell’amicizia, e ho ricordato che è un elemento fondamentale; ma ora, trattandosi di parlare con Nostro Signore Gesù Cristo, il che è una questione un po’ più alta, devo riprendere il discorso e dire quello che non ho avuto occasione di dire quando parlavo della intimità con gli altri, di quella intimità bene inteso onesta e sincera che ha luogo anche nella vita umana, nell’ambiente familiare e in tutti quegli ambienti che riproducono in qualche modo la stessa atmosfera del focolare domestico. – La preghiera deve essere d’intimità, bene! La intimità da che cosa risulta? Vediamo un po’ gli elementi dei quali è fatta la intimità. Il primo elemento è una comunanza: bisogna che ci sia qualche cosa di comune. Perché la fusione propria della intimità avviene su qualche cosa di comune. Se non c’è qualche cosa di comune, non si realizza l’intimità. E allora perché la preghiera e il colloquio con Nostro Signore raggiunga l’intimità, deve avere qualche cosa di comune. Che cosa di comune? L’apprezzamento dello stato di grazia. Quando si è nello stato di grazia, si ha la partecipazione della vita divina. La grazia è una partecipazione della vita divina, elemento che ci mette in comunità, in comunione di vita con Nostro Signore, comunione reale, non solo psicologica; è ontologica questa. – Ma noi dobbiamo cercare di spingere al massimo questa comunità di qualche cosa. Ed è quando con Nostro Signore ci si sforza di portare l’animo nostro ad avere le gioie e i dolori che ha avuto Lui nella sua vita terrena; avere le approvazioni e le disapprovazioni che Egli, giudice eterno, ha nella sua eterna saggezza, nel suo beneplacito, Egli, Signore delle cose. Quando noi la portiamo a questo, la comunità, la intimità aumenta. Per esempio io aumento la intimità con Nostro Signore se l’elemento comune, che poi porta legna al fuoco da ardere, sono le preoccupazioni della Chiesa, le preoccupazioni delle anime, le gioie della Chiesa, le gioie delle anime, tutti i bisogni che si conoscono, perché i bisogni di tutti gli uomini sono cose che interessano il Cuore divino; e allora, se noi entriamo su quelli, siamo subito in comunione. Non dimenticate! Vedete come incomincia a diventare facile la orazione eucaristica! Non si finisce più. Perché se nella orazione eucaristica uno, mancandogli assolutamente tutto, non solo i ceppi da gettare sul fuoco ma anche i sarmenti e perfino le foglie secche, comincia a dire: Signore, vedi, conosco il tale, poveretto, guarda un pochino, non se la sa cavare, così…. Lo sai, d’accordo, ma aspetti che te lo dica io. Abbi pietà di lui. Guarda ! Poi c’è l’altro e poi l’altro ancora. C è questo e poi quello. Quando uno non sapesse più cosa dire, soltanto che si metta su questo elemento che gli viene indicalo dalla comunità, non la finirebbe più. Io ho goduto quando ho sentito leggere certi punti nella vita del santo Curato d’Ars. L’hanno inteso pregare a voce alta — a voce alta si prega anche meglio — e ho goduto di sentire che stava facendo una preghiera di questo tipo. Badate che con una preghiera di questo tipo si può fare una orazione eucaristica che duri anche tutta una notte, perché di esemplari sui quali portare la nostra attenzione benevola e supplichevole ce ne sono tanti. E ci si trova nella intimità, perché si parla a Dio, a Gesù Cristo, di coloro che Egli ama, di coloro per i quali egli è andato in croce. La prima caratteristica della orazione eucaristica è la intimità. La intimità si basa sulla comunione, sulla comunità dell’oggetto, su degli elementi comuni. Guardate che la intimità è fatta di fiducia completa, la intimità è il « rilascio » dell’anima di uno verso l’anima dell’altro. Il rilascio, espresso in termini meno materiali e più esatti, è la fiducia. E la preghiera eucaristica acquista una intimità quando, oltre la comunione, la comunità dell’oggetto, ha la infinita fiducia. È quella fiducia in Nostro Signore Gesù Cristo che prende il carattere dell’abbandono. – La intimità non solo si fonda sulla comunione dell’oggetto, sulla fiducia, ma si fonda anche sulla semplicità. Tutto ciò che è arzigogolo guasta la intimità. L’intimità è un filo diretto. È una linea retta brevissima. Basta che faccia un cerchio perché la intimità s’illanguidisca. Quindi la semplicità dell’animo e la generosità del cuore, cioè l’amore che dona, che cerca; il cuore largo, il cuore aperto. Questi sono gli elementi con i quali si fa la intimità. Io mi sono fermato a esaminarne con una certa lunghezza uno, ho appena sfiorato l’altro, e ho accennato agli ultimi. Badate bene che tutte queste cose, a farne la radiografia, rivelano una ricchezza enorme per la oratio eucaristica, per il colloquio con Nostro Signore. – Ora andiamo avanti ed esaminiamo un altro elemento che si prospetta in modo diverso, ma che arricchisce stupendamente ed è il fondamento della orazione eucaristica. È l’atto di adorazione. L’atto di adorazione che cosa è? È il riconoscimento della sovraeminenza propria di Dio Signore e Creatore, della sua infinita eccellenza, della sua infinita superiorità. Il riconoscimento è adorazione. Ora la adorazione nella orazione eucaristica è una cosa necessaria, anzi è la prima, è preminente. Non è uno stato come la intimità. È un atto la adorazione. Ecco perché se ne distingue. Tuttavia può sembrare che possa essere esaurita subito: Signore, io ti adoro! Ti riconosco Padrone di tutto, Signore del cielo e della terra! Sei infinito, sei santo, sei perfetto. Amen. E poi? Finisce lì. Eh no! Non finisce lì. Attenti bene. Qui si apre un’altra ricchezza immensa. Perché? L’atto di adorazione non può essere inteso soltanto teorico. Perché se è inteso soltanto teorico, io pronuncio delle parole, dico: Signore, tu sei il creatore del cielo e della terra: adoramus te, benedicimus te, e giù fino in fondo, e poi è finito. Ma l’atto di adorazione concreto, pratico, è l’accettazione di Dio. È l’accettazione in concreto della superiorità divina. In poche parole è la conformazione, prima e soprattutto, della propria volontà alla volontà divina, e poi conseguentemente la conformazione di tutte le proprie azioni alla divina volontà. È la osservanza della legge, l’adorazione in concreto. Ora posso anche rendermi conto che la adorazione in concreto, l’osservanza della legge, la si fa anche dopo la orazione eucaristica, la si fa poi nella vita. La si fa lì, la si fa dovunque. Quello che invece emerge, proprio ai fini della orazione eucaristica, della sua ricchezza, è l’atto della uniformità della volontà propria alla volontà divina. E può essere fatto nella orazione sia come rettifica del passato, rettifica di tutto quello che è stato non accettazione, non uniformità della volontà propria alla volontà di Dio, sia come accettazione di tutto il presente e come premessa del futuro. Ora vedete che sorta di ricchezza è questa! Noi nella nostra vita non potremo avere un bene uguagliabile a questo, al di sotto della grazia del Signore, di avere l’abito della uniformità della volontà nostra alla volontà di Dio, che è l’abito morale proprio corrispondente all’atto della adorazione. – Ma agli effetti della preghiera e della adorazione eucaristica in sé stessa, ammirate un po’ che sorta di ricchezza. Se uno, quando è a colloquio con Nostro Signore e nella sua adorazione, comincia a dire: ecco io ho fatto questo, e la volontà perfettamente uniformata alla volontà di Dio non l’ho avuta, aggiustiamola! Ho fatto quest’altro, e lì le cose non erano del tutto secondo la legge di Dio, aggiustiamole! E se le fa passare, e le esamina, e trascina la vita propria, il proprio ricordo, la propria memoria davanti a Gesù Cristo, nella sua nudità, con la sua deformità, umilmente, e fa la rettifica, oh! ne viene fuori uno di quegli atti di adorazione che rintronano anche gli orecchi degli Angioli! Pensare e richiamare tutti gli elementi che sono difficoltosi nella propria esperienza spirituale e nella propria vita, richiamarli tutti e in tutti fare la rettifica della volontà: io voglio così, deve essere così perché così è la tua volontà. Vedete come allora può diventare incredibilmente ricca la orazione eucaristica, mentre diventa incredibilmente proficua ai fini morali di irrobustimento della propria vita. Perché noi la perfezione la troveremo sempre nella uniformità perfetta e concreta della nostra volontà alla volontà di Dio. E, vedete, è un esercizio questo che bisogna fare e farlo molto. Farlo quando si è al tempo delle vacche grasse affinché serva quando si arriva al tempo delle vacche magre. – Perché ci sono poi i momenti di aridità; i momenti di abbassamento, i momenti in cui cascano le ali a terra. Siamo uomini, poveretti! Si capisce che quando arriva lo scirocco, ci si sente più snervati. Quando arriva la tramontana si dirà: è freddo, ma si diventa più gagliardi. Le stesse cose succedono anche nella vita dell’anima. E allora che cosa è che salva e rende facile la uniformità alla volontà di Dio nei momenti delle vacche magre, cioè quando le faccende tentano allo stordimento, alla confusione e alla tentazione e soprattutto alla aridità spirituale? Quando avvengono certi traumi, certi choc psichici per cui succede nella nostra anima quello che succede quando si prende inavvertitamente una boccata di brodo che è ancora bollente, a cento gradi, e si rimane con la bocca tutta quanta bruciata per cui fino al giorno dopo non si sente più gusto di niente. E questo sarebbe poco, purché non succeda altro, che non si facciano delle piaghe. – Si hanno degli choc psichici, a volte, che producono questo effetto: di far perdere completamente la sensibilità, il gusto delle cose spirituali. Mettono veramente a terra. Oppure quando si debbono affrontare grandi decisioni, accettare dei dolori, accettare cose che possono fare anche spavento. Cari miei, allora viene bene l’esercizio della uniformità alla volontà divina. – La orazione eucaristica ha altri aspetti. Dopo la adorazione viene il ringraziamento. Guardate che cosa rappresenta per la nostra vita il ringraziamento inteso in concreto. Perché il ringraziare è il riconoscimento di un benefìcio ricevuto. Ed è quella certa forma di restituzione fatta con un atto affettuoso, con un riconoscimento affettuoso e con un atto spirituale di amore, di generosità, di ammirazione, una certa aliquale restituzione del bene che si è ricevuto. Quando io dico grazie, esprimo questo: mi hai fatto una cosa che mi ha fatto del bene, mi ha fatto piacere. Ti vorrei restituire qualche cosa. Riconosco anzitutto che mi hai fatto qualcosa e ti restituisco un atto di affetto. Ecco, questo è il ringraziamento. Però — ed è qui dove si vede la ricchezza pratica dell’inserimento nella orazione eucaristica del ringraziamento — l’atto del ringraziamento contiene sempre il giudizio sulla bontà delle cose. Questo significa che quello di cui io dico grazie, mi accorgo che è un bene. Se grazie lo dico distrattamente, per abitudine, non penserò a niente, sono quelle frasi che assumono quasi il valore di una interiezione. Ma se grazie lo dico sapendo quel che dico, in quel momento dico: questo è un bene, cioè riconosco che è un bene. – Sentite, miei cari amici, potete voi provarvi a pensare come cambia tutto il panorama della nostra vita spirituale se ci abituiamo a considerare che tutte le cose che Dio ci ha dato sono beni e che noi generalmente non consideriamo? Perché tutto passa in giudicato, passa nel comune, passa nel diritto e non se ne parla più. Ma se ci soffermiamo e facciamo questo atto di educazione di considerare le singole cose e accorgerci che sono un bene, allora si sostanzia l’atto del ringraziamento. Ne ho di cose di cui mi posso accorgere che sono un bene! Non la finiamo più nessuno di noi, perché i beni che abbiamo ricevuti sono infiniti. Noi gretti, che guardiamo quasi sempre nella mano dove c’è vuoto e non guardiamo mai nella mano dove c’è pieno e pertanto ci lamentiamo! Ma se siamo giusti, siccome sono molto di più le cose che abbiamo di quelle che non abbiamo, per giustizia dobbiamo prenderne atto: sì, questo è un bene, lo riconosco. Non nel dimenticatoio, non nella oblivione, non nel disprezzo, non nel non conto. Atto di giustizia. Questo è bene, quest’altra cosa è bene. Signore tu me l’hai data! Enumerare i beni! Anche in capo alla giornata! Ma insomma che oggi vi sia il sole non è una cosa bella, non è un bene? È sempre meglio che vi sia il sole che il tempo uggioso, che deprime, snerva, irrita. Siamo circondati di beni! Tutta la nostra vita è stata una continua elargizione di beni da parte di Dio. E se è così, ringraziamolo! – Vedete che non ci si ferma più, se vogliamo essere esatti. E di cose da nutrire la orazione eucaristica quante ne arrivano! Ma c’è un altro fatto che ha un risultato morale: la nostra vita, quando cui mi accorgo che è un bene, si accende una lampadina nuova! E io, continuando la elencazione e accorgendomene: questo è un bene, quest”altro è un bene, questo è un altro bene, aumento continuamente la luce. È verissimo questo: le anime liete sono quelle che vivono di riconoscenza. Il segreto della gioia è vivere di riconoscenza. Per la ragione che è riconoscenza vera, s’accorge del bene. Insomma, riconoscenza significa contemplazione del bene. Se uno si va a mettere per tutta la vita dinanzi a un lebbroso che si disfa, dinanzi a un cimitero stravecchio dove tutte le cose pare abbiano il tedio persino della eternità; se uno si mette sempre davanti a cascamorti, a gente che deve storcere sempre la bocca, gente che deve sempre capire a rovescio, parlare a rovescio, interpretare a rovescio, che deve predire dolori, che deve predire sciagure; che deve far cascare il mondo, catastrofi, apocalissi… a un certo punto, poveretto, gli viene un infarto! Finisce con l’avere il muso lungo anche lui: muso lungo di fuori e muso lungo di dentro. L’ha con gli altri e l’ha con se stesso; va tutto male, mangia limoni dalla mattina alla sera! – Il discorso potrebbe farsi lungo, ma bisogna che andiamo avanti. C’è la propiziazione. Il chiedere perdono. Basta enunciare: capite subito quale ricchezza porti questo terzo punto alla orazione eucaristica. C’è poi la impetrazione. Ah! Qui qualche parola bisogna spendercela, e vedrete la ricchezza che nella orazione eucaristica anche questo elemento può portare all’animo nostro nel colloquio con Nostro Signore Gesù Cristo. Chiedere. Ma se ci mettiamo a chiedere, possiamo non finirla più. Quanto lui ci ha incoraggiato! Ci ha detto: «Chiedete e vi sarà dato, bussate e vi sarà aperto», e ha aggiunto : « Sine intermissione orate ». Dunque si tratta di chiedere. C’è da chiedere per noi, per gli altri, per la Chiesa, per chi ne vuole e per chi non ne vuole, per chi sta bene, per chi sta male, per chi canta, per chi ride… per tutti. Si può chiedere per tutti. E siccome il buon Dio allarga la manica quanto più noi chiediamo e s’aumenta l’effetto della nostra preghiera se chiediamo insistentemente e se chiediamo di più e per i più, questa manica facciamola allargare! Andiamo avanti e cerchiamo di arrivare, almeno sommariamente, in fondo all’argomento di questa oratio eucaristica. Vedete! Questa orazione eucaristica può arrivare e deve arrivare a uno stato anche contemplativo., Intendiamoci -. io non parlo della contemplazione mistica, cioè quella che presuppone uno stato carismatico, che viene da una grazia speciale, da un miracolo che fa Iddio. Ma stiamocene pure in quella che non è contemplazione straordinaria, e cioè la orazione eucaristica che può arrivare a quello stato di quiete in cui non c’è più il fatto discorsivo, il fatto della successione delle immagini, ma il fatto dell’intelletto che, seguendo l’affetto del cuore, rimane fisso in Dio. Fisso, non addormentato eh, intendiamoci, fisso, che è una cosa diversa. Fisso su verità che riguardano Iddio, lasciando l’azione a un fatto penetrativo; quel fatto penetrativo che consiste nel guardare con l’intelletto, sostenendo la volontà il cuore, per cui una verità, che a guardarla sembrava nuvolosa, si dipana, diventa chiara. E allora in questa fissità dell’intelletto, senza fatto discorsivo, cioè senza successioni d’immagini o passaggio da maggiore a minore in un ragionamento, una verità diventa sempre più chiara, abbagliante. Questo può accadere e può accadere senza che occorrano grazie straordinarie. Quindi è una certa quale orazione di quiete. Una certi quale, intendiamoci, non la orazione di quiete di S. Giovanni della Croce, di S. Teresa, di S. Lutgarda e di S. Matilde’. Beati loro! È una orazione di quiete, di una certa qual quiete che è possibile al comune Cristiano. È evidente che l’arrivare a questo stato di contemplazione, di aliquale orazione di quiete, suppone una pace nell’anima, suppone aver placato quel certo sommovimento psicologico, aver fermato il passeggio indebito della fantasia — che a volte viene bene, soccorre perché con le sue trovate e con i suoi cartelloni e con i suoi ritagli aiuta — suppone aver fermato tutto questo. E pertanto il fatto contemplativo in qualsiasi orazione e anche nella orazione eucaristica della quale stiamo parlando non è il più facile, intendiamoci. Ma è possibile. E non è detto che a brevi tratti, a frammenti, non si possa intercalare, infilare in mezzo a tutto il rimanente della oratio eucaristica. E può essere anche che, a forza d’infilarcelo anche per pochi istanti, qualcuno riesca a portarlo avanti per qualche minuto; e poi può essere anche che gli accada di portarselo avanti per qualche ora: Dio sia benedetto! E sia benedetto anche colui al quale ciò succede. Però non è una cosa facile, ma ci si può arrivare. – Allora lo sguardo dell’intelletto è fisso a Gesù Cristo o a qualche verità, in quella fissità però nella quale, senza fatto discorsivo dell’anima, l’oggetto stesso, da solo, lo muove, e passa dallo stato nebuloso allo stato più luminoso, dallo stato chiuso allo stato aperto, dallo stato generico allo stato dettagliato; e può arrivare anche a una luce abbagliante. E può anche lentamente presentare, quasi si direbbe, delle risposte — non parliamo di cose miracolose — da parte di Dio, cioè sottoporre all’intelligenza che rimane così fissa in Dio dei principi o delle verità che, pervenute in quel momento, sono come la presentazione di una risposta. Perché ci può essere, al di là della orazione di quiete, un dubbio, una istanza che pencola nell’anima. E può accadere, in questa orazione di quiete, permettendolo Iddio, che l’oggetto si dipani da solo e venga a mettere davanti al naso proprio quella cosa che occorreva considerare per risolvere un dubbio, Allora Dio sia benedetto! Intendiamoci, è cosa diversa dall’intervento, dalle voci; per carità, non parliamo di quelle cose lì perché è talmente grave il pericolo dell’isterismo, che bisogna starsene bene attenti. Vedete che cosa è, che cosa può essere la orazione eucaristica! Come si può dipanare con la stessa ampiezza con la quale s i dipana il moto dell’onda nel mare immenso, che si riproduce, si risolleva, ripete il suo ritmo fintanto che forse, a distanza di migliaia di chilometri, trova la sponda. La sponda è l’eternità! Nel caso presente è la orazione eucaristica, il colloquio con Nostro Signore. – Perché il Signore sta lì? Sta lì perché noi camminiamo nella nostra vita con Lui. Ma capite bene che camminare nella vita con Lui non è semplicemente muovere delle gambe e mettersi dei chilometri dietro alle spalle. È un’altra cosa! È un movimento di virtù che s’ispira all’Eucaristia. È  un movimento dell’intelligenza che vive di tutta la realtà teologica, dogmatica, evangelica che sta nell’Eucaristia. È accendere il fuoco che Lui ha acceso intorno all’Eucaristia: la caritas, che ha il suo più grande fondamento nella humilitas. Ma è il parlare con lui partendo dal fondamento di quello stato di grazia che ci rende consoni e partecipi della stessa natura divina e che mette una comunanza tra noi e Gesù Cristo, dinanzi alla quale impallidiscono tutte le altre comunanze o comunità che possono annoverarsi nell’ordine meramente naturale. Parlare con Lui tutta la vita! Ora voi traducete e capirete il valore dell’ora di adorazione, il valore della visita al SS. Sacramento, capirete il valore della visita fatta al SS. Sacramento anche da lontano. Anche da lontano! Quando camminerete e incontrerete una chiesa, non dimenticatevi mai di parlare con Lui, anche se non vi entrerete. Quando vedrete un campanile, ricordatevi che c’è Lui e sappiate parlare con Lui, sia pure brevissimamente. Non è detto che gli altri se ne debbano accorgere, non occorre affatto. Sono affari che si sbrigano dentro sé stessi! Ma l’iter con Gesù Cristo ha una parte importante, una parte dirimente, una parte vitale nel colloquio con Nostro Signore Gesù Cristo. – Allora camminiamo con Lui! Che non accada, come è accaduto ai due discepoli che fino a Emmaus non si sono accorti di niente. Soltanto avvertivano un certo calore dentro. Apriamo gli occhi prima! Loro avevano parlato con Lui; ma avevano parlato senza accorgersene. Noi parliamo con Lui accorgendocene e ripetendo sempre, come hanno ripetuto quei due poveri uomini che in fondo finivano con lo scappare sconsolati da Gerusalemme e poi sono tornati indietro: « Mane nobiscum, Domine, quoniam advesperascit ». Rimani con noi,Signore, perché si fa sera! Già, si fa sempre seranel mondo, perché c’è la caducità delle cose, perchéc’è il volgersi del sole; c’è il volgersi dellestagioni e degli anni, c’è in tutto il ridursi all’umiltàdella morte. E allora il colloquio deve durare:

« Mane nobiscum, Domine, quoniam advesperascit!».

https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/23/s-s-gregorio-xvii-il-magistero-impedito-3-corso-di-esercizi-spirituali-13/