DOMENICA III di QUARESIMA (2020)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « 1 miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

L’IMPURITÀ’

“Fratelli: Siate imitatori di Dio, come figli carissimi, e camminate nell’amore, come anche Cristo ha amato noi, e si è dato per noi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave odore. Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi, come si conviene a santi: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono; ma piuttosto il rendimento di grazie. Poiché, sappiatelo bene: nessun fornicatore, nessun impudico, nessun avaro, cioè idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. Non vogliate dunque avere comunanza con costoro. Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Camminate da figli della luce. E frutto della luce, poi, consiste in ogni sorta di bontà, di giustizia, di verità”. (Ef. V, 1-9).

Efeso, sul mare Egeo, era la capitale dell’Asia proconsolare. Era celebre pel commercio e più ancora per il tempio di Diana, ritenuto una delle meraviglie del mondo, e meta di frequenti pellegrinaggi. S. Paolo ne fece come il centro della sua attività apostolica nell’Asia minore. Lontano da Efeso, in prigionia. l’Apostolo non dimentica la Chiesa da lui fondata. Nella Chiesa di Efeso, come nelle altre dell’Asia minore, andavano infiltrandosi degli errori, che corrompevano la dottrina da lui predicata. L’Apostolo scrive una lettera, indirizzata agli Efesini, nella quale, a premonire i fedeli contro le sottigliezze dell’errore, espone il piano della Redenzione, trattando dei grandi benefìci comunicatici per mezzo di Gesù Cristo. Esorta inoltre gli Efesini a vivere secondo il Vangelo, e viene a parlare dei doveri generali e particolari dei cristiani. Dal capo V di questa lettera è tolta l’epistola odierna. Dio ha usato verso gli uomini una carità immensa, perdonando i loro debiti per i meriti di Gesù Cristo. Davanti a tanta dimostrazione di amore il Cristiano non può rimanere indifferente. Perciò San Paolo inculca agli Efesini che siano imitatori di Dio e di Gesù Cristo nella carità verso il prossimo e nel perdono delle offese ricevute. Fuggano, poi, l’avarizia e la disonestà, tanto nelle opere, quanto nelle parole, se non vogliono rimaner esclusi dal regno dei cieli. Non si lascino ingannare da chi insegna che questi peccati sono cosa da nulla. A ogni modo, essi sono figli della luce; pratichino, adunque, le opere della luce e non quelle delle tenebre. Tra le opere delle tenebre è certamente l’impurità, la quale:

1. È di una bruttezza tutta particolare.

2. Attira gravi castighi da parte di Dio.

3. È oltremodo sconveniente per un Cristiano.

1.

Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi. Impurità e avarizia erano le due grandi piaghe della società pagana, dalla quale i novelli Cristiani provenivano. Era troppo forte, nelle circostanze in cui vivevano, la voce allettatrice al ritorno a questi vizi. E S. Paolo li mette in guardia.Se tra i pagani questi peccati sono detestevoli, tra i Cristiani, chiamati a una vita di santità, non si devono neppur nominare. Sull’impurità specialmente insiste l’Apostolo. Non solo si devono fuggire le azioni; ma se ne devono mantenere assolutamente puri la mente e il cuore. Perciò soggiunge: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono.L’orrore che deve suscitare questo vizio si comprende benissimo se si considera la sua bruttezza. Dei peccati belli non ce n’è neppur uno, siam tutti d’accordo. Ma nell’uso generale, quando si dice peccato brutto, s’intende senz’altro il peccato impuro. È l’uso che si trova sulla bocca del popolo e dei letterati, nei libri sacri e nei profani. Voi nominate tutti gli altri vizi con il loro nome, senza sentir ripugnanza; ma il senso morale v’impedisce di parlar con disinvoltura di questo vizio. Voi sentite il bisogno, se costretti a parlarne, di essere riservati più che sia possibile.L’impuro teme che le sue azioni siano rivelate, anche se non c’è nulla da temere da parte delle leggi umane. « Odia la purità, e nondimeno vuol comparir puro ». (S. Zenone, L . 1, Tract. 4, 2). E così accade e non di rado che uomini, i quali ti sembrano santi e retti, anzi angioli che conversano sulla terra, sono imbrattati dal vizio dell’impurità. È troppo chiaro. Quando di uno si dice: «è un dissoluto», si pronuncia una di quelle condanne che scalzano la riputazione di un uomo. Anche il solo sospetto, che altri possano sapere qualche cosa della sua condotta, mette l’impuro in agitazione; poiché anche il semplice sospetto lo rende spregevole agli occhi stessi del mondo. – La ragione fa l’uomo re dell’universo. E l’uomo che è nato a dominare, se si lascia prendere dalla passione impura, è il più abbietto degli schiavi. In luogo della ragione comanda la passione: comanda sempre, e la volontà si piega e ubbidisce, ubbidisce sempre. E queste continue sconfitte non gli mettono in mente alcun sentimento di riscossa: col tempo finisce a non veder più lo stato in cui si trova. La sua anima offuscata dalle tenebre delle passioni non riconosce più se stessa, non sa più che sia dignità. Dal mal uso è vinta, la ragione; e si avvera l’osservazione del Profeta: « L’impudicizia, il vino e l’ubriachezza tolgono il bene dell’intelletto». (Os. IV, 11). Se alcuno cerca di illuminare l’impudico, di scuoterlo, quasi sempre farà opera vana, e alla fine si adatterà all’esortazione di Michea: «Non state a far tante parole: esse non cadranno sopra costoro, né vergogna li prenderà ». (II, 6). Chi ha buttato via una volta la vergogna, non la riprende più, dice il proverbio. E questo si avvera specialmente dell’impuro.

2.

I pretesti non mancano a coloro che vogliono scusare questo peccato. Si va dicendo che non è poi un gran male; che Dio non vorrà castigarlo. Ma l’Apostolo ci mette sull’avviso: Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. L’ira di Dio si manifesterà specialmente nel giorno del giudizio. Ma coloro che non vogliono accettare la luce del Vangelo, che si ribellano alla dottrina della Chiesa e alle esortazioni dei suoi ministri, per esser liberi nella loro vita disordinata, proveranno l’ira di Dio anche su questa terra. Limitandoci, ora al peccato impuro, apriamo la Sacra Scrittura, e vediamo con quali tremendi castighi Dio l’ha punito. Ai tempi di Noè il mondo era immerso in opere e in pensieri di carne. «Non durerà per sempre il mio spirito nell’uomo, — dice Dio — perché egli è carne; ma i suoi giorni sono contati: 120 anni». (Gen VI, 3). E mantiene la parola. Passati i 120 anni, senza che gli uomini cessassero dalla loro depravata condotta, viene il diluvio. La fine degli uomini è decisa. Tutta la terra da essi abitata è coperta dalle onde. Le acque crescono continuamente; raggiungono e sorpassano la vetta dei monti più alti. Le risa, i motteggi, gli scherni che si rivolgevano a Noè, uomo giusto, retto, il quale, in mezzo a quella generazione perversa, viveva nel timor di Dio, ora si cangiano in lamenti, in pianti, in spasimi di morte. Noè con la famiglia e con gli animali introdotti nell’arca, è salvo, e tutti gli altri trovano la tomba nelle acque. La terra si era di nuovo popolata, e di nuovo dilagava il mal costume. Corrottissimi erano i costumi degli abitanti della Pentapoli, cinque città situate in luogo amenissimo. Dio manda i suoi Angioli a punirla. «Noi siamo per distruggere questo luogo, — dicono a Lot — perché grande è il loro grido al cospetto del Signore» (Gen. XIX, 13). Gli abitanti prendono per scherzo i castighi minacciati; ma, appena partito Lot con la famiglia, fuoco e zolfo, per voler di Dio, distruggono tutto quel distretto. Periscono gli uomini, la vegetazione scompare, le città sprofondano; e nel suolo abbassato entrano le acque, che formano il triste «Mar morto». Dio vuole che non resti più traccia né dei peccatori, né dei luoghi testimoni dei loro peccati.Quel Dio, che con questi ed altri tremendi castighi punì il peccato impuro allora, è ancora quello stesso che può punirlo e lo punisce anche adesso. Non siamo tanto folli da dire: «L’Altissimo non starà lì a ricordare i miei peccati». (Eccli. XXIII, 26). Anche nel tempo di Noè i viziosi dicevano così, e non facevano alcun conto dei castighi da parte del Signore. Ma i primi non poterono sfuggire alle onde; e i secondi dovettero subire la sorte delle loro città. Non sono già, del resto, un castigo l’affanno, l’agitazione, l’amarezza che riempiono l’animo di chi si dà a questi peccati?

3.

A dimostrare quanto sia disdicevole in un Cristiano l’impurità, l’Apostolo ricorda agli Efesini la diversità della loro condizione presente da quella d’una volta: Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel SignorePrima di ricevere il Battesimo gli Efesini era schiavi del demonio, principe delle tenebre: adesso, essendo uniti a Gesù Cristo, camminano nella pienezza della luce. Quale stoltezza allontanarsi da Gesù Cristo, luce del mondo, per assoggettarsi di nuovo al principe delle tenebre! È sempre disdicevole dimenticarsi della propria condizione per poter commettere azioni, che meritano biasimo. Ma la cosa è tanto più sconveniente, quanto più chi vien meno al proprio dovere è persona costituita in dignità. La medesima mancanza, commessa da una persona del volgo e commessa da un principe, assume unaspetto diverso. La condizione del Cristiano è una condizione veramente principesca, reale. Figlio adottivo di Dio, fratello di Gesù Cristo, erede del regno celeste, quando egli compie qualche cosa che non è conveniente è molto più riprovevole di un pagano, che non è illuminato dalla luce del Vangelo, che non vive la libertà dei figli di Dio; che rimane sotto la schiavitù di satana. Che conducano una vita impura i pagani, — dice il Crisostomo — è cosa detestabile, che in certo modo, però, si spiega; «ma che conducano ancora una vita impura i Cristiani fatti partecipi di tanti misteri, e in possesso di tanta gloria è cosa che sorpassa ogni sfacciataggine, e che non si può in nessun modo tollerare». (In Ep. ad Philipp. Hom. 7, 5). « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio dimora in voi?» ricorda S. Paolo ai Corinti (I Cor. III, 16). Poter essere il tempio di Dio e l’abitazione dello Spirito Santo, e preferire d’essere l’abitazione dello spirito immondo, è tale demenza, che non si riesce a comprendere. Si racconta di reclusi, che, usciti dopo trenta o più anni di detenzione, si sentono come fuori di posto. L’aria libera, la vita libera, l’abito che li accomuna coi cittadini onorati, non contano più nulla per loro, e vogliono ritornare alla vita di catene e di disonore del carcere. Alcuni, interrogati se vogliono usufruire della grazia sovrana, dopo trenta o quarant’anni di ergastolo, vi rinunciano. Poveri infelici, veramente degni di compassione! Ancor più degni di compassione sono gli impudichi. Possono vivere della libertà che porta la grazia di Gesù Cristo, ma essi «convertono in lussuria la grazia del nostro Dio, e negano il solo Dominatore e Signor nostro Gesù Cristo». (Giud. IV). Salomone, considerando il misero stato a cui è ridotto il campo dell’uomo pigro, esclama: «Vedendo ciò vi feci riflessione, e tale spettacolo fu per me una lezione! » (Orov. XXIV, 32). Il Beato Salomone, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, si trova giovanetto a Boulogne a compiere gli studi commerciali. Considerando i gran pericoli per il corpo, e più per l’anima, ai quali si esponeva gran parte dei giovani della città col darsi alla vita marinaresca, pensa tra se: «Io non sarò marinaro… Esporsi a perdere il cielo per guadagnare in modo temerario le ricchezze è follia». E, nauseato della vita poco costumata di tanta gioventù, si decide a lasciare il mondo. (Comp. Della vita del Beato Salomone Martire. Valle di Pompei, 1927, p. 10-11). Se anche noi volessimo far riflessione sul misero stato a cui si riduce il Cristiano impudico, ne ricaveremmo una salutare lezione. Se riflettiamo che « la potenza del diavolo sul genere umano è cresciuta specialmente per la lussuria », (S. Greg. M.: Hom. 22, 9) dobbiam conchiudere, che è una vera follia esporsi a perdere il cielo per dei piaceri indegni. Se riflettiamo quanto sia abbietto lo stato di un Cristiano impudico, dobbiam sentir nausea del peccato d’impurità, e deciderci, con la grazia di Dio, di starcene sempre lontani, e di risorgere tosto, se ne siamo schiavi. Preghiera continua e fuga delle occasioni ci otterranno di riuscire nei nostri propositi.

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, [E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis. [Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

Omelia II

 [Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la confessione che è il rimedio del peccato.

“Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Quest’uomo che il demonio rendeva muto e che, secondo s. Matteo, era ancora cieco, ci presenta, fratelli miei. una trista, ma ben naturale figura di gran numero di peccatori, nella cui anima il demonio opera i medesimi effetti che quell’uomo provava nel suo corpo. Si tratta di commettere il peccato? Il demonio, sebbene sia spirato di tenebre rischiara, per cosi dire, il peccatore, insegnando loro i mezzi di contentare le loro passioni; allora loro toglie la vergogna e la confusione che dovrebbero essere inseparabili dal peccato. Ma bisogna farne penitenza? Convien dichiarare i peccati che ha loro ispirato di commettere? Li rende ciechi e muti, chiude loro gli occhi per non vedere i loro mancamenti e la bocca per non dichiararli. Sparge nelle loro menti dense tenebre, che l’impediscono di conoscerne la enormità e loro ispira una vergogna peccaminosa che impedisce ai medesimi di dirli. Con questo mezzo stabilisce sì bene il suo impero nelle loro anime che niente meno si ricerca che un miracolo della grazia per farlo uscire. – Or questo male è pur troppo comune tra i peccatori che s’accostano al sacro tribunale; gli uni sono ciechi che non vedono lo stato delle loro anime, che per difetto di un esame sufficiente non conoscono né il numero né l’enormità dei loro peccati, e per questo difetto di conoscenza non li accusano come debbono; gli altri sono muti cui la vergogna chiude la bocca per non dichiarare certi peccati di cui si sentono colpevoli. Quindi ne viene che quei peccatori, invece d’essere liberati, per la virtù del Sacramento, dal demonio che possiede le loro anime, gli danno su di essi un nuovo impero coi sacrilegi di cui si rendono colpevoli, e si riducono, per servirmi delle parole del nostro Vangelo, in uno stato peggiore di quello in cui erano per lo innanzi. Dio volesse che potessi io in quest’oggi fratelli miei, apportare qualche rimedio a si grandi mali ed illuminare questi ciechi, rendere la parola a questi muti, insegnando ai primi che per fare una confessione intera dei loro peccati, devono prima ben esaminarsi; e agli altri, che devono dichiarare tutti i peccati di cui si ricordano dopo un sufficiente esame. In due parole, il penitente deve esaminarsi con attenzione per nulla dimenticare nella confessione: primo punto. Egli deve accusarsi con sincerità per nulla occultare: secondo punto. A voi tocca, o Signore, che avete resa la vista e la parola a quell’uomo del nostro Vangelo, d’illuminare questi ciechi, di far parlare questi muti; questo è piuttosto l’opera della vostra grazia che dei nostri deboli sforzi.

I. Punto. Siccome l’esame di coscienza è una condizione necessaria per fare una buona confessione, le medesime ragioni che provano la necessità della confessione provano altresì quella dell’esame; convien dunque primieramente stabilir per principio che è un obbligo di diritto divino confessare i suoi peccati per ottenerne il perdono; ella è una verità di fede che Gesù Cristo ha dato agli Apostoli e ai Sacerdoti loro successori, la potestà di rimettere o di ritenere i peccati, di legare e sciogliere i peccatori nel cielo e sulla terra. A quelli, disse loro, cui rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a quelli cui li riterrete, saranno ritenuti: Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis, retenta sunt (Joan. XX). Potestà ammirabile, fratelli miei, che rende i Sacerdoti depositari di quella di Dio medesimo, sulla sorte eterna degli uomini: poiché rimettendo ad essi i loro peccati, aprono loro il cielo, e lo chiudono ritenendoli. Or come potrebbero i Sacerdoti esercitare la potestà di rimettere i peccati, se non fossimo obbligati di loro dichiararli? L’uomo non ha tanta umiltà per sottomettersi da se stesso, senza esservi obbligato, ad un giogo sì incomodo al suo orgoglio. Se egli potesse ottenere il perdono del suo peccato con un altro mezzo, la potestà dei Sacerdoti gli darebbe inutile, perché non evvi alcun peccatore che non fosse contento di sottrarsi a questa giurisdizione sì incomoda all’amor proprio. – Invano, dunque, dice s. Agostino, Gesù Cristo avrebbe date ai Sacerdoti le chiavi della Chiesa per legare e sciogliere i peccatori: frustra claves Ecclesiæ datæ sunt. I sacerdoti avrebbero mai luogo di servirsi di queste chiavi per peccatori che potrebbero essi stessi liberarsi? Come d’altra parte i Sacerdoti riterrebbero dei peccati che altri non sarebbe obbligato di loro dichiarare? Come riterrebbero dei prigioni in legami che potrebbero essi stessi spezzare? Perciocché in virtù di questa potestà i Sacerdoti sono stabiliti da Gesù Cristo per fare, riguardo ai peccatori, l’uffizio di giudici e di medici: come giudici debbono giudicare la loro causa, come medici debbono guarirli dalle loro malattie. – Or un giudice può egli pronunziare su d’una causa senza averne conoscenza? Un medico può egli guarire un male che gli è sconosciuto: No, senza dubbio, fratelli miei; bisogna dunque, peccatori, se volete ottener il perdono dei vostri peccati, presentarvi ai tribunali di quel giudici per farvi conoscere quali voi siete: incaricati di vendicare la giustizia di Dio contro le vostre ribellioni, come potranno esse imporvi pene proporzionate al numero e alla qualità delle vostre offese, se non le conoscono per via d’una confessione intera che voi dovete fare? Questi Sacerdoti sono ancora medici cui Gesù Cristo ha confidata la cura di guarire le vostre ferite; bisogna adunque che, come i lebbrosi del Vangelo, voi vi facciate vedere a questi Sacerdoti, non per metà, ma in tutta la difformità cui il peccato vi ha ridotti, senza di che non riceverete giammai la guarigione. – Or, fratelli miei, per dare a questi giudici e a questi medici la conoscenza di cui hanno d’uopo, bisogna conoscervi voi medesimi, poiché voi soli potete istruirli; ma per conoscervi voi medesimi, bisogna esaminarvi, convien fare una ricerca diligente ed esatta di tutti i peccati che avete commessi, senza di che voi mancherete alla giusta dichiarazione che ne dovete fare. Qual deve dunque esserne la materia e qual la regola? Questo è cui dovete tutta la vostra attenzione. Giacché la confessione è fondata su l’esame, ne segue da ciò che l’esame deve aggirarsi su tutti i peccati che è d’uopo accusare in confessione. Ora, per rendere la confessione intera, come esige il santo concilio di Trento, bisogna dichiarare tutti i suoi peccati, il numero e le circostanze; bisogna accusare tutte le trasgressioni che avete fatte dei comandamenti di Dio e della Chiesa, tutti i peccati di pensiero, tutti i desideri del vostro cuore, tutte le parole scorrette uscite dalla vostra bocca, tutte le azioni, tutte le omissioni di cui siete colpevoli verso Dio, il prossimo e voi medesimi: bisogna ancora manifestare le cause, gli effetti dei vostri peccati, le occasioni in cui vi trovaste, gli abiti che avete contratti, i peccati del vostro stato e della vostra condizione. Bisogna dire non solamente i peccati che avete commessi, ma ancora quelli che avete fatto commettere o che non avete impediti; tutti gli scandali che avete dati, tutti i danni che avete cagionati al prossimo nei beni o nella reputazione. Voi dovete ancora per rendere la confessione intera, dichiarare le circostanze del peccato prese dal tempo, dal luogo, dalla quantità, dall’oggetto, dalla qualità delle persone, per le quali circostanze il peccato cangia di specie, cioè rinchiude in sé un altro o più peccati di diversa specie, o diventa più grave nella sua specie che non lo sarebbe stato senza questa circostanza. Or potete voi dichiarare tutto questo senza conoscerlo? E potete voi conoscerlo, senza esaminarvi, senza fare una ricerca diligente dei luoghi ove avete peccato, degli oggetti che avete ricercati, dei motivi che vi hanno fatto agire, delle inclinazioni che vi hanno predominati, delle infedeltà commesse contro i doveri dello stato in cui siete? Tutto questo deve entrare nella materia dell’esame che dovete fare prima della vostra confessione. Bisogna, per avere tutte le cognizioni che vi sono necessarie, investigare il fondo del vostro cuore; bisogna ricercare nei nascondigli più occulti della vostra coscienza per scoprirvi il veleno di cui siete infetti. Bisogna passare nell’amarezza del vostro cuore, ad esempio del re Ezechia, gli anni della vostra vita, per richiamare tutti i peccati che avete commessi ciascun giorno, ciascuna settimana, ciascun mese, e dichiararli tali quali li conoscete. Bisogna finalmente entrare nelle particolarità di tutti i vostri obblighi per riconoscere in che vi avete mancato ed accusarvene. – Donde viene, fratelli miei, che un gran numero di confessioni sono nulle e sacrileghe? Perché non vi accusate che per metà; e non vi accusate che per metà perché non vi esaminate come si conviene. Voi dichiarate alcuni peccati in generale che vi sono comuni col resto degli uomini; ma non dichiarate i peccati che vi sono particolari, non discendete con serio esame alle particolarità delle vostre obbligazioni. Voi, padri e madri, vi accusate di qualche imprecazione, di qualche moto di collera che vi avrà trasportati; ma voi nulla dite della vostra poca attenzione ad istruire, a correggere i vostri figliuoli, e voi, padroni e padrone, dichiarate bensì le vostre impazienze contro la negligenza dei vostri servi nel fare quanto loro comandate; ma nulla dite della negligenza che avete avuta voi medesimi nel farli servir Dio, il primo di tutti i padroni, né della vostra indolenza a soffrire i loro disordini. Voi che siete impegnati nei negozi o in un’altra professione, non mancate di confessarvi delle vostre distrazioni nelle preghiere; ma non accusate le vostre infedeltà, i vostri inganni, le vostre ingiustizie, i vostri ladronecci. – Voi che esercitate un impiego dichiarate alcuni cattivi discorsi che avete tenuti in conversazione, ma non accusate la trascuratezza usata nei vostri doveri, la vostra poca vigilanza e fermezza nel riformare gli abusi, nel rendere giustizia a chi è dovuta. Tutto questo proviene non solo da un difetto di esame che ciascheduno far deve su i doveri del proprio stato, ma ancora da una grassa ignoranza in cui vivono i più dei Cristiani sulle loro obbligazioni, perché non assistono alle istruzioni, dove si apprende la sua religione e i suoi doveri. Questi sono ciechi che chiudono gli occhi alla luce che li rischiara e non vogliono conoscere i loro doveri per adempierli: Noluit intelligere, ut bene ageret (Psal. LV). Ciechi infinitamente più a compiangere che quello dell’odierno vangelo, che non era punto colpevole del suo accecamento; laddove questi sono ciechi colpevoli che restano per loro colpa nei legami e nelle tenebre del peccato; e sono in uno stato tanto più deplorabile che, non conoscendosi da sé medesimi, non cercano i mezzi di uscirne. Schiavi delle più vergognose passioni, degli abiti più inveterati, non vedono la loro miseria; quindi ne viene che non scoprono le loro piaghe ai medici che potrebbero guarirle. Or quanti vi sono di questi peccatori abituati, accecati da una passione che in voi predomina, e scoprirla al medico della vostra anima; perché questa passione essendo la causa degli altri vostri peccati, facendola conoscere, voi farete vedere lo stato infelice della vostra anima e riceverete i rimedi convenevoli per la vostra guarigione: esaminate dunque seriamente avanti a Dio se è la superbia che vi predomina, o l’invidia che vi rode, l’avarizia che vi tiranneggia, la lussuria che v’incanta e vi seduce, l’ira che vi trasporta, e vedrete che si è da questa sorgente avvelenata che nascono tutti i vostri sregolamenti; voi la conoscerete questa passione per li pensieri che si rivolgono il più sovente nella vostra mente, pei vostri discorsi ordinari, per gli oggetti che ricercate con maggior premura. Voi amate di comparire, voi cercate la gloria gli onori, voi vi offendete di un legger disprezzo, vi disgustate di una parola detta senza riflessione, la vostra passione dominante è la superbia. Voi non vi occupate da mattina sino alla sera che dei mezzi di acquistar del bene, voi nulla lasciate indietro per fare un piccolo profitto; voi siete tanto sensibili alla minima perdita che vi accade, come insensibili alla miseria dei poveri, la vostra passione è un sordido attacco ai beni del mondo, e l’avarizia. Il vostro cuore è incessantemente occupato della rimembranza di un oggetto che lo accende, voi ne parlate con piacere, voi cercate di vedere quell’oggetto, voi concedete ogni sorta di libertà ai vostri sentimenti, voi vi dimostrate liberi nelle parole oscene, voi non vi vergognate di certe libertà contrarie all’onestà, la vostra passione è un amor profano che vi conduce a mille disordini. Quanto a voi, bestemmiatori, ubriaconi, vendicativi, non è bisogno di farvi il vostro ritratto, le vostre parole, le vostre azioni manifestano abbastanza ciò che voi siete. Quanti, oimè! se ne trovano che predominati sono da molte passioni e che per questo motivo han bisogno di fare assai più ricerche che gli altri? Fate dunque, fratelli miei, queste ricerche coll’ultima esattezza. Se voi impiegate a far questo esame tutto il tempo che domanda un affare sì importante, darete alle vostre confessioni l’integrità necessaria per ottenere il vostro perdono. – Ma qual regola convien osservare per far questo esame? E quanto tempo convien impiegarvi? La regola più infallibile ch’io possa prescrivervi si è, fratelli miei, l’esame che Dio farà Egli stesso al suo giudizio dei peccati degli uomini: perciocché se il peccator penitente deve tener le veci della giustizia di Dio per punir il peccato, bisogna che le tenga anche per esaminarlo. Or con qual esattezza Dio farà questo esame al suo giudizio? Allorché applicando i raggi della sua luce su tutta la vita dell’uomo peccatore ne scoprirà tutte le iniquità, ne manifesterà tutti i pensieri più segreti, sino alle intenzioni più occulte. Nulla vi sarà di sì nascosto che sfugga ai suoi occhi infinitamente penetranti, nulla di sì oscuro che non venga posto in pieno giorno. Gli è così che voi dovete in qualche guisa esaminare, ricercare, la profondità delle vostre piaghe. Imitate la donna del Vangelo, la quale avendo perduta una dramma, accende una fiaccola, volta sossopra ogni cosa, fruga tutti gli angoli della casa e non è tranquilla che quando ha ritrovato ciò che ricerca. E certamente è forse esiger troppo da voi? Quel che avete perduto è molto più prezioso che quella dramma; voi avete perduta la grazia né potete ricuperarla che con una confessione preceduta da un esame sufficiente; nulla dunque tralasciate per conoscere i vostri peccati, rianimate la vostra fede, e allo splendore di questa fiaccola vi sarà facile di conoscere le vostre trasgressioni. Sì, fratelli miei, discendete, per così dire, colla fiaccola in mano, sino nei ripostigli più nascosti delle vostre coscienze per  scoprirvi tutto ciò che v’ha di più segreto e manifestarlo in appresso con una sincera confessione. – Egli è vero che, qualunque cosa faccia il peccatore, non conoscerà giammai la bruttezza del suo peccato come la conosce Dio: egli è ancor vero che malgrado tutte le precauzioni che prenderanno certi peccatori, le cui iniquità sono moltiplicato più dei capelli dei loro capi, sarà loro molto difficile, per non dire impossibile, di conoscere il numero dei loro peccati e per conseguenza di dichiararli tutti. A Dio non piaccia, fratelli miei, che io voglia rappresentare la confessione come un giogo insopportabile per la difficoltà di ricordarsi e di dichiarare tutti i suoi peccati. Ciò che Gesù Cristo domanda, come si spiega il santo concilio di Trento, e che si dichiarino i peccati di cui uno si ricorda dopo un sufficiente esame, cioè un esame proporzionato ai deboli lumi dello spirito umano, di modo che se il peccatore, dopo essersi esaminato tanto tempo, quanto ne richiede la prudenza, tralasciasse alcuni peccati sfuggiti alle sue ricerche, non lascerebbe di ottonerne il perdono, come degli altri che avesse dichiarati, con l’obbligo nulladimeno di sottometterli alle chiavi della Chiesa allorché se ne ricorderà. – Ma qual tempo la prudenza umana può ella prescrivere per fare un esame? Questo è ciò che non si può egualmente determinare per ogni persona; il numero dei peccati che si sono commessi, il tempo che è passato dopo l’ultima confessione, possono servire di regola per fare questo esame. Chi mai dubita che un peccatore che offende Dio sovente e che si confessa di rado non debba impiegar più di tempo a far il suo esame che un altro che offende Dio raramente e che spesso si confessa? Un peccatore abituato che può appena ricordarsi dei peccati che commette in un giorno, non deve egli impiegare più di tempo nella ricerca dei suoi peccati di quello che non vi cade che qualche volta? Con tutto ciò questi peccatori abituati sono quelli che passano un lungo tempo senza accostarsi al tribunale della penitenza, che mettono il meno di tempo ad esaminarsi: la loro confessione è l’affare di un momento, appena han cominciato che finiscono: poiché non pensate già che si accusino né del numero né delle circostanze dei loro peccati: due o tre parole in aria e che non dicono quasi cosa alcuna fanno tutta la loro confessione. Donde viene questo? Viene che questi peccatori abituati, a forza di accumulare peccati su peccati, non si rammentano, per cosi dire, più che all’ingrosso che sono colpevoli, allontanandosi così lungo tempo dal sacramento della penitenza, si sono posti in una sorta d’impossibilità di ricordarsi dei loro peccati, su di che la loro ignoranza non li scuserà avanti a Dio: perché avrebbero potuto prevenirla con esami o confessioni più frequenti. Ciò che rende ancora più colpevoli questi carichi di scelleratezze e d’iniquità che richiederebbero un lungo e serio esame si è che, dopo essersi esaminati superficialmente, non vanno che sul fine a presentarsi al tribunale della confessione, prendono il tempo in cui i confessori sono più occupati, sulla speranza che verranno ben presto spediti, si credono molto sicuri su d’una assoluzione di un confessore che han procurato di sorprendere; vanno tranquillamente in questo stato a presentarsi alla sacra mensa ma indarno si rassicurano; le loro confessioni, le loro comunioni non sono che sacrilegi per non avervi apportate le convenienti disposizioni. – Ah! non così certamente vi diportate, o peccatori, negli affari temporali che v’interessano. Avete voi una lite a far giudicare? Quanto tempo non mettete a studiare i vostri diritti, ad esaminare le scritture che possono esservi favorevoli? Voi contate per nulla i giorni interi che passate a leggere e a scrivere, e quando si tratta di ritrovare qualche nuovo mezzo di difesa nulla si risparmia. Avete voi un conto a rendere? Quante riviste non fate per non ommettere alcun articolo? Qual applicazione non usate voi per far vedere l’impiego delle somme che vi sono state confidato? Ecco la regola che seguir dovete per la lite più importante che abbiate a fai giudicare, per l’affare più interessante che abbiate a finire, che è quello della vostra salute, il cui successo dipende da una buona confessione. Si tratta in questo affare di tutto perdere o di tutto guadagnare; si tratta della vostr’anima, e voi vi contentate di alcune riviste superficiali; appena impiegate una mezza ora, un quarto d’ora ad esaminare, a ricercare i fatti che produrre dovete al sacro tribunale. Appena siete entrati in chiesa che con la mente ancora occupata in affari stranieri, andate a presentarvi ad un confessore per dirgli l’ingrosso alcuni peccati che si presentano di primo tratto al vostro spirito, nel mentre che ne tralasciate un gran numero che non avete esaminati. Fa d’uopo stupirsi forse se le vostre confessioni sono nulle e sacrileghe, se son confessioni riprovate da Dio, perché non hanno esse la integrità che loro è necessaria? Invano direte voi che non occultate alcuno dei vostri peccati per vergogna né per malizia, che dichiarate tutti quelli di cui vi ricordate. Ne convengo; ma se voi aveste impiegato più di tempo ad esaminarvi, se aveste ricercati con più esattezza tutti i vostri mancamenti Passati, ne avreste dichiarati di più; voi non siete dunque scusabili avanti a Dio, poiché questa omissione dei vostri peccati viene dalla vostra negligenza nell’esaminarvi, nel prepararvi diligentemente alla dichiarazione che ne dovete fare. Volete voi, peccatori, riuscire in un affare di questa importanza? Osservato le pratiche che sono ora per darvi prima di finire questa prima parte.

Pratiche. Avanti di accostarvi al sacro tribunale, indirizzatevi primieramente al Padre dei lumi, alzate i vostri occhi verso il monte santo donde vi verrà ogni soccorso; richiamando dipoi la bontà di Gesù Cristo, come quel cieco del Vangelo, pregatelo con fervore che v’ illumini, che vi faccia conoscere lo stato della vostr’anima e la profondità delle vostre piaghe: Domine ut videam (Luc. XVIII). Scendete in appresso in voi medesimi, ricercate il fondo del vostro cuore, applicatevi soprattutto a conoscere la vostra passion dominante, i doveri del vostro stato per riconoscere le vostre infedeltà. Prendete un tempo sufficiente, avuto riguardo a quello che avete passato senza confessarvi; non aspettate il giorno della vostra confessione, ma preparatevi alcun tempo prima esaminando ogni giorno la vostra coscienza su qualcheduno dei comandamenti di Dio e della Chiesa , ed osservate in che li avete trasgrediti, se in pensieri, in desideri, in parole, in azioni ed in omissioni. Indirizzatevi ad un buon confessore e pregatelo di aiutarvi a fare una buona confessione. Se è qualche tempo che non vi siete confessati, pregate questo confessore di differirvi l’assoluzione per avere più tempo ad esaminare i peccati che potessero esservi sfuggiti di mente. Il mezzo d’agevolare il vostro esame è di farlo ogni sera e di confessarvi frequentemente, perché con più facilità ci ricordiamo dei peccati che da breve tempo abbiamo commessi. Se voi vi servite di queste pratiche, le vostre confessioni saranno per voi sorgenti di grazie e di salute, perché non dimenticherete, almeno per colpa vostra, alcun peccato. Voi dovete ancora essere sinceri per nulla occultare.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Comunione spirituale:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

ringraziamento dopo la Comunione:

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (103)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIII.

Testimonianza che rendono di Dio gli animali dalui addottrinati a combattere ed a curarsi.

I. Non v’è uomo intendente nella pittura, che non vergognisi se richiesto di quale mano sia qualche tavola insigne, non sappia subito dir se è di Raffaello, o del Caracci, o del Correggio, o di Guido. Eppure vi sarà chi non si vergogni, se ricercato di qual mano sieno tante belle opere di natura, non sappia subito dire: di man di Dio. Tal è qualunque ateista. Ben si può pertanto affermare, che egli dunque di opere di natura non è intendente. Se le intendesse, vedrebbe tosto, non potere, queste essere di altro artefice, che dell’Artefice sommo. Finalmente le mani tutte degli uomini, benché grandi, sono capaci di essere contraffatte, e più non sarebbe sì grave fallo non discernere bene l’una dall’altra. Ma la mano di Dio non è mano imitabile mai da niuno. E però non discernerla dalla mano del caso, o di qualunque altro, che non sia Dio, non solamente è fallo, ma iniquità. Noi questa mano sì unica abbiamo dianzi scoperta già quanto basta negli strumenti e negli istinti mirabili dati ai bruti per conservarsi cibandosi. Ora andiam oltre. Conciossiachè tutto ciò che fanno essi per conservarsi, a che gioverebbe, se non sapessero al tempo stesso guardarsi opportunamente da chi gli assale? Eppure anche a ciò fu pensato. I loro assalitori son due: estrinseci e intrinseci. Gl’intrinseci sono i morbi, gli estrinseci sono vari nemici, i quali s’incontrano, come frequenti tra gli uomini, così ancora continui fra gli animali, che a cagione o dell’abitazione, o del pascolo, o della prole o di altro interesse tra loro opposto, mantengono gare eterne.

I.

II. E per dire in prima di questi nemici estrinseci, certo è, che senza avere appresa giammai l’arte militare, sanno i bruti conoscere a meraviglia i vantaggi loro di posto, e li sanno prendere. I rosignuoli, per assicurarsi dagli sparvieri, soggiornano infra le macchie. L’airone, per assicurarsi da’ falchi, si aggira intorno all’acque da lor temute. E l’alce, bestia peraltro sì paurosa, che a qualunque ferita, nel mirar ch’ella faccia il sangue grondante, cade subito a terra di raccapriccio, tuttavia vince i lupi, scegliendo contro di essi per campo di battaglia i fiumi gelati , sopra de’ quali può tenersi ben ella ferma coll’unghia acuta e biforcata ch’ella ha, ma non possono tenervisi fermi i lupi (V. hæc et seq. apud Aldrov. in suis locis, et apud Gasp. Scottum in physica curiosa).

III. Oltre il vantaggio del posto, sanno i bruti conoscere quel delle armi. Quindi è, che l’aquila tiene una cura grandissima de’ suoi artigli: e se ella è ferma, par che sempre li miri, arrotandogli sulla pietra, quando hanno perduto il filo, e risparmiandoli, quando sono affilati, col non camminare tra i sassi. I cervi, i capri ed i tori arruotano anch’essi ai tronchi le loro corna, e le provano, e le riprovano prima di venire a duello cogli avversari. L’ardea si rivolta col becco all’insù tra l’ale, e riceve intrepidamente l’impeto de’ falconi, che calandole sopra furiosamente per farne preda, vi rimangono morti. E il pellicano, per non venire sorpreso dagli altri uccelli assàssinatori, in una simile positura ancor egli piglia i suoi sonni, addormentato ed armato.

IV. Dove manchi la forza, suppliscono coll’unione. Così fanno gli storni, volando sempre a schiere numerosissimo, o procurando in quelle il posto di mezzo per maggior cura di sè. Gli armenti si fanno forti dal lupo, adunandosi insieme in un cerchio fitto, colle teste rivolte contro il nimico: e i giumenti con somigliante ordinanza volgono al lupo, non le teste, ma i piedi, dove hanno il loro valore, e si difendono bravamente coi calci. Che se non è pronto il soccorso, sanno anche i bruti richiederlo colla voce. Così l’upupa, ravvisando la volpe ascosa tra l’erbe, con inusitate e con importune strida l’addita ai cani. Così i cigni, così le’ cicogne, così l’anitre sollecitano le compagne da loro assenti alla difesa comune contro dell’aquila; e così le bertucce, nelle lor selve, fanno contra i medesimi cacciatori, gridando forte, come se gridassero al ladro. Senonchè a schermirsi da questi, tanto gli animali più imbelli, quanto i più forti, son destri al pari. La lepre salta di lancio nella sua tana, per non lasciare quivi impresse vestigia che la rivelino a chi la cerca. L’orso v’entra a ritroso, per mostrare d’esserne uscito, quando v’entrò: ed il leone medesimo (a guisa di guerriero prode, non meno attento ad iscoprir gli andamenti dell’inimico, che a coprire i propri) stampa insieme l’orme, passando sopra l’arena, insieme le guasta, perché non diano sentore de’ suoi viaggi. In una parola tutti gli animali hanno qualche dote lor propria per la difesa: quali con la destrezza, come le scimmie pur anzi dette, che giungono ad afferrare con la mano per l’aria quella saetta che loro voli alla vita: quali con la generosità, come il leone, che mai non fugge, senonchè mostrando la faccia, per dar terrore: quali con la timidità, come i cervi, a cui la paura medesima è sicurezza, tanto sono ratti alla fuga: quali col divenire quasi invisibili, come rendono le seppie nella lor tinta: quali coll’apparir quasi trasformati, come fa il polpo, che piglia tosto il colore di quello scoglio cui sta aggrappato, e così delude ogni guardo: senza che fra lo stuolo sì numeroso degli animali, o terrestri o acquatici, o aerei, pur un si trovi, che o con la forza datagli, o con l’ingegno, non sia bastantemente armato a suo schermo.

V. Né minore hanno l’arte per assaltare, di quella che posseggano a ripararsi. La donnola, quando si vuole cimentar co’ serpenti, vi si apparecchia col mangiare innanzi la ruta, erba a questi di odor troppo intollerabile. E l’icneumone, quando vuol pugnare cogli aspidi, si rivolge tutto nel fango, e se ne fa come una corazza, con assodarlo prima ai raggi sol solari, perché non tema alcun morso. La tigre, per assicurare le altre fiere a cibarsi delle sue carni, si finge morta, e di poi subito è loro sopra a man salva, e ne fa macello. La volpe è stata veduta rivoltarsi dentro la creta rossa, fintanto ch’ella apparisca quasi un cadavere senza pelle, per invitare i volatili meno accorti a un solenne pasto, che poi di loro fa ella, non di lei essi. E la torpedine, con un miracolo più insueto, sa fin rendere stupido chi la tocca e privarlo di moto, non che di audacia. Ma che sciocchezza è la mia? Presumo io forse raccogliere in pochi fogli ciò che altri non arrivarono a compilare in molti volumi? Anzi non altro ho inteso mai, che additarvi quella miniera da cui si possono scavare ogni giorno più nuove meraviglie, tanto è inesausta. Eppure ditemi: a questo piccolo saggio che ve ne porto, non vi accorgete abbastanza che il suo metallo non è metallo nostrale? Chi può dar tanta molteplicità d’invenzioni, di stratagemmi, di scherme ad un solo fine di guerra difensiva e offensiva tra gli animali, salvo l’intelletto divino? Senzachè, discorro così: la natura particolar della lepre, a cagion di esempio, non può amare, che i cani, appena miratala, si mettano ad incalzarla, con tanto pregiudizio della infelice, se sia raggiunta: la natura particolare de’ cani non può amare che la lepre da loro fugga. Chi dunque fu, che diede a un’ora medesima quello istinto, alla lepre di fuggir dai cani, ai cani di seguitarla, se non una natura più alta, la qual mirò a quel sollazzo continovo che poteva fra noi risultare da tale fuga affannosa e la tale caccia? E questa natura più alta è quella appunto che con più degno vocabolo è detta Dio.

II.

VI. Rimane ora a dare un’occhiata ai nemici intrinseci, da cui si sanno tanto bene i bruti salvare col medicarsi. Pochi di verità sono i loro malori al pari de’ nostri: o sia perché gli animali vivono con maggior temperanza, di quella con cui vivono i più degli uomini; o sia perché il loro temperamento, più materiale e più massiccio del nostro, sia men soggetto a ricevere le impressioni de’ suoi contrari; in quella guisa, che un oriuolo da torre è molto più difficile a sconcertarsi di quel che siasi una mostra da tavolino. Qualunque sia la ragione, certo è, che i bruti, guidati da un interno indirizzo della natura, sanno mirabilmente trovar rimedi proporzionati a’ lor mali, e rimedi facili, innocenti e infallibili più dei nostri, perché tanto più chiaro apparisca, che, come il caso non fu mai il loro artefice, così né anche egli è il loro conservatore. Se non che ciò che più riesce ammirabile in tali affari, è, che non solo ogni animale ha la sua medicina propria, che non ha l’altro; ma che, prima ancor di ogni prova, la conosce, la cerca e sa applicarla giustamente al bisogno. La prima volta che si acciechi la rondinella, sa ritrovare la celidonia: la prima volta che si accieca la vipera, sa ritrovare il finocchio; la prima volta che il daino riman ferito, sa far ricorso al suo dittamo. Non ha veleno, contra cui le testuggini non abbiano tosto pronta la loro triaca; e tal è l’origano: siccome il lauro è quella gran panacea che alle colombelle e che a’ corvi suffraga parimente in qualunque morbo. Or vada Ippocrate a logorar negli studi la vita propria, per allungare l’altrui: e poi diffidato di poter giungere a tanto, confessi pure, che l’arte è lunga, che il tempo è breve, e che l’esperimento è fallibile: Ars longa, vita brevis, experimentum fallax. Dica, che a molti mali non si è trovato governo finor che vaglia. I bruti, senza accademie e senza aforismi, sanno ad ogni languore trovare il suo medicamento adattato.E poi non mancherà chi per maestro assegni oro, non l’arte di una intelligenza sovrana,ma la cecità balorda di atomi vagabondi più che birboni?

VII. Poco poi parrebbe, se i bruti più non sapessero che curare il mal sopraggiunto. Sarebbe ciò scacciare il ladro di casa, ma scacciarlo dappoi che la svaligiò. Il più è, che sanno farsi incontro anche al male, serrandogli prontamente le porte in viso (Àrist. hist. anim1. 8. c. 120). A questo fine scelgono i luoghi più atti, senza timore di pellegrinare in paesi anche lontanissimi, come le gru della Scizia settentrionale, che, a fuggir que’ verni sì crudi, sen passano di là sino all’Etiopia, senza rischio che fallino mai la strada. I pesci, ora vanno dai lidi all’alto, ora vanno dall’alto ai lidi, mutando stanza, come fanno i grandi, al mutarsi della stagione. E tra loro molti anco sono, che da’ mari caldi tragittansi al ponto Eussino, e che dal ponto Eussino tragittansi a’ mari caldi. E perché i più deboli sentono prima la intemperie dell’aria che i più gagliardi, quindi è, che quelli fanno il loro passaggio prima di questi, come i rombi all’agosto, i tonni al settembre. Le rondinelle passano in Africa a schivare i ghiacci nostrali: e le quaglie, i tordi e le tortore, hanno anch’essi le loro piagge piacevoli ad isvernarvi. Gli avvoltoi medesimi, benché infami per le carogne di cui si pascono, sono tuttavia sì inimici dell’aria guasta, che il fare essi dimora in qualche paese, più che in un altro, si piglia per indizio di piena salubrità. Che più? Convien che l’uomo superbo si umìli in sì fatte scienze a pigliar lezione dagli animaluzzi più vili. Scrive Aristotile (L. 9. hist. anim.) di non so quale in Bizanzo, che presso il volgo si era acquistata fama grande di astrologo, perché avendo egli allevato in casa da piccolo uno spinoso, osservava, che questo, quando era vicino a muoversi vento opposto, mutava stanza, secondo il talento in nato ch’egli ha di fare alla sua tana di campagna due bocche, una all’austro, una all’aquilone, e dipoi chiudere ora l’una, ora l’altra, secondo che quegli soffiano. Né questa è dote singolare del riccio, mentre pochissimi sono quegli animali i quali nella loro fantasia non portino un tale istinto di presentire le mutazioni di tempo loro nocevoli: tanto che i più meschini paiono in questa parte i più addottrinati. Quinci, non pure il leone, che è sì ingegnoso, sa antivedere la siccità che sovrasti, e la sa scansare, con ritirarsi per tempo in luoghi più acquosi; ma i coccodrilli stessi pare che abbiano misurata già la piena del Nilo prima che egli esca dal letto, mentre san collocare le uova in tal sito, dove non arrivi mai quell’anno per l’inondazione. I corvi indovinano le tempeste, i merghi, l’anatre, le api presagiscono i venti più impetuosi: e le formiche la sterilità della futura stagione, con empir più del solito i lor granai prima che la messe scarseggi. Ora in quale scuola hanno appreso questi animali tanto di astrologia, che mostrino di saperne anche più dell’uomo, il quale nel predire le piogge piglia ne’ suoi lunari più gravi abbagli di quei che pigli una rana? Chi spedisce loro le nuove del futuro, prima che giunga? Qual maestro hanno essi trovato, che gli addottrini, e gli addottrini sì bene, che niuno scolaro mai resti addietro per poco ingegno, su le lezioni a lui date nella sua classe? Sarà credibile da veruno, che il caso, il qual non sa nulla di ciò che egli faccia, sappia formar tali allievi? Se così fosse, sarebbero dunque assai maggiori i discepoli, che il maestro. Violentate pure quanto a voi piace il vostro intelletto, perché s’induca a dirvi, che Dio non v’è: non potrà egli non conoscere l’onta che voi gli fate, e non si dibattere.

SALMI BIBLICI: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM” (CXI)

SALMO 111: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 111

Alleluja, reversionis Aggæi et Zachariæ.

 [1]  Beatus vir qui timet Dominum,

in mandatis ejus volet nimis.

[2] Potens in terra erit semen ejus; generatio rectorum benedicetur.

[3] Gloria et divitiæ in domo ejus, et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Exortum est in tenebris lumen rectis, misericors, et miserator, et justus.

[5] Jucundus homo qui miseretur et commodat, disponet sermones suos in judicio;

[6] quia in æternum non commovebitur.

[7] In memoria æterna erit justus; ab auditione mala non timebit. Paratum cor ejus sperare in Domino,

[8] confirmatum est cor ejus; non commovebitur donec despiciat inimicos suos.

[9] Dispersit, dedit pauperibus; justitia ejus manet in sæculum sæculi; cornu ejus exaltabitur in gloria.

[10] Peccator videbit, et irascetur, dentibus suis fremet et tabescet; desiderium peccatorum peribit.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXI.

Lode dell’uomo giusto. I latini aggiunsero del ritornodi Aggeo e Zaccaria, che esortarono, dopo la cattività, il popolo alla probità, forse per esortare gli altri alla probità, onde non ricadere nella schiavitù.

Alleluja: Del ritorno dì Aggeo e di Zaccaria (1)

1. Beato l’uomo che teme il Signore: egli avrà cari oltremodo i suoi comandamenti.

2. La sua posterità sarà potente sopra la terra; il secolo dei giusti sarà benedetto.

3. Gloria e ricchezze nella casa di lui; e la sua giustizia dura perpetuamente.

4. È nata tra le tenebre la luce per gli uomini di retto cuore: il misericordioso, il benigno, il giusto.

5. Fortunato l’uomo che è compassionevole, e dà in prestito, e con sapienza dispensa le sue parole; perocché egli non sarà mai vacillante.

6. Il giusto sarà in memoria eternamente: non temerà di udire sinistre parole.

7. Il suo cuore è disposto a sperare nel Signore, il suo cuore è costante;

8. ei non vacillerà, e neppur farà caso de’ suoi nemici.

9. A mani piene ha dato ai poveri; la giustizia di lui dura in perpetuo; la sua robusta virtù sarà esaltata nella gloria.

10. Vedrallo il peccatore, e avranne sdegno, digrignerà i denti e si consumerà: il desiderio dei peccatori andrà in fumo.

(1) Il titolo di Aggeo e di Zaccaria non si trova che nella versione in latino e deve verosimilmente la sua origine alla pia tradizione dei Profeti Aggeo e Zaccaria, che tornando presso i Giudei dalla cattività di Babilonia, si servirono di questo salmo. Questo salmo è alfabetico come il precedente.

Sommario analitico

Questo salmo contiene l’elogio dell’uomo virtuoso, o che teme Dio. I vantaggi che enumera il salmista non si verificano pienamente che nel senso spirituale (1):

(1) N.B. Nulla impedisce si attribuire a Davide questi due salmi CX e CXI, dei quali del resto nulla ce ne indica l’autore. Essi sono alfabetici e perfettamente simili metricamente; hanno ugualmente ventidue versi di sei sillabe ciascuno, riunite in dieci versetti, otto distici e tre trittici (Le Hir.).

I. Vantaggio. – Per il bene dell’anima, la conformità più perfetta della sua volontà ai Comandamenti di Dio (1).

II Vantaggio. – Per i beni esteriori, la moltiplicazione, la potenza e la gloria della sua posterità (2).

III Vantaggio – L’abbondanza degli onori, delle ricchezze (3).

IV Vantaggio – La luce celeste che Dio spande nei cuori retti (4).

V Vantaggio – La stabilità dell’uomo del bene, di cui descrive tre caratteri: egli ha pietà dei derelitti, presta volentieri, regola i suoi discorsi secondo la prudenza (5, 6).

VI Vantaggio – Una memoria eterna, al riparo di tutti i colpi della calunnia (7).

VII Vantaggio – La sicurezza della protezione divina contro i nemici non gli farà difetto (8)

VIII Vantaggio – L’accrescersi delle sue ricchezze e della sua potenza, proporzionato all’estensione ed alla grandezza delle sue liberalità e delle sue elemosine (9).

IX Vantaggio – La sua felicità sarà ancora aumentata dal contrasto del furore impotente dell’empio contro di lui, che il salmista oppone alla tranquillità ed alla gloria del giusto (10).

Spiegazioni e Considerazioni

 I.

ff. 1. – L’inizio di questo salmo si ricollega strettamente alla fine del precedente, e non forma di questi due salmi che un unico corpo, le cui parti sono perfettamente unite tra loro. Il Re-Profeta ha detto nel salmo che precede: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Per far seguito a questo pensiero sì profondo e sì bello, aggiunge ora che è ancora un principio di felicità, una sorgente di vita. L’uno è la conseguenza dell’altra. (S. Crys.). – « Felice l’uomo che teme il Signore. » Ora, colui che teme il Signore, che fa? Ascolta attentamente la parola di Dio, cerca di rendersi sapiente nella legge? No, non è ciò che dice il salmista: egli desidera compiere ardentemente i suoi Comandamenti. (S. Girol.). – Il timore del Signore è dunque la vera felicità; ma anche i demoni stessi hanno timore del Signore e tremano davanti a Lui; il Re-Profeta ci avverte che vuol parlare di questo timore odioso che, non portando a nulla con questo tremore freddo e sterile, si ritrova fin negli inferi, e che non è sufficiente a salvarci; ma questo timore attivo e fecondo che porta al compimento della legge, dopo aver detto, nel salmo precedente, che « il timor di Dio è l’inizio della Sapienza, » aveva aggiunto: « Tutti coloro che la praticano sono pieni di intelligenza salvifica. »

Inoltre qui, dopo aver proclamato la felicità di questo timore, egli lo distingue da quello che ha per principio la conoscenza e che esiste negli stessi demoni, aggiungendo. « … chi ha una volontà ardente di compiere i suoi precetti »; egli non dice: « egli osserverà i suoi comandamenti, » ma « … egli avrà una volontà ardente di compierli, » ciò che è una disposizione molto più perfetta. Ora, in cosa consiste questa disposizione? Nell’osservare i comandamenti di Dio con una santa alacrità, ad amarli passionalmente, e perseguirne l’esatta osservazione; nell’amarli, non per la ricompensa promessa, ma per Colui che li ha stabiliti, a farne le proprie delizie per la pratica della virtù, senza essere portato al timore dell’inferno, con la minaccia dei supplizi eterni, ma per amore di Colui che ci ha dato queste leggi (S. Gerol.. – S. Crys.).

II.

ff. 2. – La felicità del giusto, sotto l’antica legge, era una numerosa posterità sulla terra; questa è la benedizione per l’antico popolo, e non vuole forse Dio che non sia essa, il più sovente, quella del popolo nuovo? « Il giusto che cammina nella sua semplicità, lascia dopo di lui dei figli felici. » (Prov. XX, 7). Questi sono uomini di misericordia, e la loro pietà non è mai venuta meno. I loro beni restano alla loro razza; i loro nipoti sono una santa eredità, e la loro razza si conserva nell’alleanza eterna, ed i loro figli, a causa loro, restano eternamente, e la loro razza si perpetua come la loro gloria. (Eccli. XLIV, 10-13). – Se l’uomo giusto, talvolta, non ha parte di questa benedizione, essa si compirà almeno nel senso morale e spirituale, perché con il nome di “razza”, la Scrittura designa spesso, non i figli che nascono per via di generazione, ma la filiazione che viene in conformità della virtù (S. Chrys.). – La vera posterità dei Santi sono i figli ed i discepoli della loro pietà. – Le loro buone opere sono ancora, al loro sguardo, tanti figli che attirano su di loro la benedizione di Dio. (Dug.). –  « La sua semenza, la sua razza, sarà forte sulla terra. » La semenza della messe da venire, sono le opere di misericordia. L’Apostolo lo dichiara quando dice: « Facciamo il bene senza sosta, perché noi raccoglieremo nel tempo convenevole. » (Gal. VI, 9). – Ora, cosa c’è di più forte che l’acquisto del regno dei cieli, non solo per Zaccheo, al prezzo della metà dei suoi beni, ma ancora per una povera vedova, al prezzo di due oboli? E tuttavia entrambi lo possiedono. Cosa di più forte del bicchiere di acqua fredda del povero, che gli dà il regno dei cieli, come i tesori al ricco? Ma ci sono di coloro che in queste opere di misericordia, cercano dei beni terrestri, sia perché sperano che Dio li ricompenserà quaggiù, sia perché essi desiderano piacere agli uomini; ma « … la razza degli uomini dal cuore retto, sarà benedetta, » (Ps. CXI, 2); vale a dire le opere di coloro per i quali il Dio di Israele è buono perché hanno il cuore retto (S. Agost.). – Questi uomini dal cuore retto gettano in questo mondo con la grazia una semenza preziosa di opere sante che prepara loro, per l’avvenire, tutta una messe di meriti e di gloria. Aspettando, il loro secolo profitta delle virtù che essi hanno praticato. In questo senso, la verginità stessa è feconda, ed il celibato cristiano è una fonte di prosperità e di grandezza. I Santi fanno maggior bene che sapienti e re (Mgr. Pichenot, Ps. du D.).

III.

ff. 3. – « La gloria e la ricchezza sono nella sua casa. » Pensiamo forse che il profeta voglia qui parlare della gloria e della ricchezza del secolo? Ma che! Che il giusto faccia la volontà di Dio i compia i suoi comandamenti per ottenere le ricchezze di questo mondo? Ma questi comandamenti egli non può attuarli proprio se non perché disprezza le ricchezze della terra. Queste ricchezze sono quelle delle quali l’Apostolo diceva: « io rendo per voi al mio Dio le azioni di grazie … per tutte le ricchezze di cui siete state ricolmi in Lui dalla sua parola e dalla sua scienza (S. Girol.). – Nei secoli più perversi, l’uomo di fede è spesso onorato, la sua reputazione è intatta, gli si rende giustizia, è rispettato dagli altri, perché si è rispettato da se stesso; egli riesce nelle imprese che Dio benedice e la prudenza illumina; egli non manca né di stima né di ricchezze, e sa condurre degnamente l’una e le altre … Pur tuttavia, qui ancora ci sono, come ognuno sa, delle nobili e frequenti eccezioni, soprattutto dopo il Vangelo, e la Provvidenza, che cerca di staccarci dalla terra e trasportare più in alto le nostre affezioni ed i nostri voti, lascia talvolta dei giusti cadere nell’indigenza e nelle umiliazioni … Le vere ricchezze sono i meriti ed i tesori che essi ammassano per l’eternità, tesori che i ladri non possono rubare, che la ruggine e la corruzione non alterano mai, e che sussistono in eterno (Mgr. Pichenot, Ibid.). – Dopo tutto è per l’anima, per il cuore soprattutto che si tratta di accumulare ed arricchirsi. Che significa questa espressione: « Nella casa? » Cioè con lui. Le ricchezze materiali non sono in vero con colui che le possiede; che dico? I loro possessi, lungi dall’essere assicurati, sono tra le mani dei delatori, degli adulatori, nelle mani dei magistrati, nelle mani dei servitori. Il padrone di queste ricchezze le dissemina da ogni parte, perché non osa conservarle tutte presso di sé; ed ancora le circonda di guardie, di precauzioni inutili, che non possono impedire alle ricchezze di sfuggirgli. (S. Chrys.). –  L’uomo che teme il Signore e che, per la rettitudine del suo cuore, frutto del suo ritorno a Dio, si dispone a diventare una delle pietre del santo Tempio di Dio, non cerca la gloria umana e non ambisce alle ricchezze terrestri; e tuttavia: « … la gloria e le ricchezze abbondano nella sua casa; » perché la sua casa è il suo cuore, ove abita più ricco per la lode che Dio gli dona, con la speranza della vita eterna, ed egli non abiterà in palazzi di marmo, in mezzo alle adulazioni degli uomini, con il timore della morte eterna. In effetti « la sua giustizia resta nei secoli dei secoli; » esso fa la sua gloria e fa la sua ricchezza. Al contrario la porpora del ricco cattivo, i suoi abiti di lino fino ed i suo splendidi festini, passano già nel momento in cui ne gioisce e, quando tutto sarà finito, la sua lingua infuocata getterà delle crida di disperazione, reclamando invano una goccia di acqua caduta dalla punta del dito (S. Luc. XVI, 19, 24) – (S. Agost.). 

IV.

ff. 4. – Anche in mezzo alla più profonda oscurità, Dio farà brillare la sua luce agli occhi di coloro che hanno il cuore retto. Alla posterità, alla prosperità, il Profeta aggiunge il bene supremo dello spirito, la verità. « Felici coloro che hanno il cuore puro, perché essi vedranno Dio. » Quelli, al contrario che non sono puri, che non hanno il cuore retto, restano tristemente seduti nelle tenebre e nell’ombra della morte e grideranno un giorno – ma troppo tardi – davanti all’universo: « Noi abbiamo errato lontano dalla verità, ed il sole dell’intelligenza non si è levato sulle nostre teste. » (Sap. V, 6). – Questo sole dell’intelligenza, questa luce benefica e pura che si è levata per i cuori retti, è lo splendore del Padre, è il brillare ed lo splendore della sua faccia adorabile, è il Verbo fatto carne che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, di cui il Verbo ha detto: « Io sono la luce del mondo, » (Giov. VIII, 12); e che per bontà, per misericordia, per giustizia, è apparso nel mezzo della notte che avvolgeva il mondo e versato su di esso fasci di luce (S. Chrys.). – Queste tenebre, in mezzo alle quali il giusto deve camminare e raggiungere il suo fine, sono molteplici e di ogni genere: « Tenebre fuori di lui e nel suo interno; tenebre di paura e tenebre di eccessiva confidenza; tenebre di ignoranza e tenebre del desiderio di sapere, tenebre nell’orazione e tenebre nell’azione; tenebre del dubbio e tenebre di afflizione; tenebre sui pensieri dei nostri simili, e tenebre sui nostri consigli; tenebre riguardo ai peccati della nostra giovinezza e tenebre riguardo alla nostra penitenza; tenebre nelle tentazioni, e tenebre nella calma pretesa dell’anima » (Berthier). – Queste tenebre così spaventose non sono tuttavia così spesse da non essere trapassate da alcuna luce; ma è richiesta una condizione per gioire di questo beneficio: la rettitudine del cuore. Altrimenti questa luce, benché pura e viva, brillerà nelle tenebre, e le tenebre non la comprenderanno. Invano essa produrrà miracoli di giustizia e di bontà; se questo cuore non è retto, resterà nella sua cecità. È degno di nota che tra tutte le qualità che caratterizzano l’uomo giusto, il santo Profeta distingua e nomini questa semplice virtù: la rettitudine del cuore. (Rendu).

V.

ff. 5. – « Felice l’uomo che ha compassione e che dà in prestito. » Si crede forse che si tratti qui solo di questione di oro e di denaro? Spesso i giusti sono stati così lontani dall’aver di che donare, che erano obbligati a ricevere essi stessi dagli altri il nutrimento loro necessario. Dunque, se io non ho cosa dare, non sarò nel numero dei giusti? Quanti santi hanno fatto abbondanti elemosine e sono in seguito caduti dalla loro santità? Al contrario, uomini di perfezione eminente non hanno fatte elemosine, perché non avevano di che farne. Non fare l’elemosina è un crimine per chi possiede, per chi è ricco. Colui che nulla possiede è libero: egli dà pertanto ciò che desidera dare, la sua volontà è agli occhi di Dio una elemosina perfetta. Tuttavia i Santi non tralasciano di avere di che dare in elemosina. Ascoltiamo San Pietro: « Io non ho né oro né argento, ma ciò che io ho te lo do. Nel nome di Gesù, alzati e cammina. » (Act. III, 6). Cosa è meglio, cosa è più perfetto, dare un pezzo d’argento o rendere la salute e la forza ad un infermo? (S. Gerol.). – « E regolerà tutte le sue parole con prudenza e giudizio. » Il Profeta non dice: egli regalerà il suo oro, il suo argento secondo questo giudizio, ma regalerà le sue parole. Ecco la vera misericordia, quando un Santo insegna agli altri che non lo sono, ad addivenirlo. Noi comprendiamo dunque quali sono le ricchezze che egli presta agli altri. Regolare le sue parole secondo prudenza e giudizio, è praticare ciò che raccomanda Nostro Signore, per non gettare le perle davanti ai porci, cioè che ciascuno sappia bene a chi dona ciò che può ricevere, ciò che è incapace di comprendere … A che mi serve parlare se le mie parole non sono comprese, né recepite? A che pro versare del buon vino negli otri che lo lasciano subito sfuggire e spargersi? (S Gerol.). – Dopo aver parlato del bene dello spirito, il santo Profeta parla di quello del cuore, la carità. È la gioia spirituale, di cui le buone opere che la carità di Dio partorisce sono il principio, e la felicità di fare intorno a sé dei felici … L’uomo giusto è necessariamente buono, misericordioso e compassionevole, la sua compassione non si prosciuga mai, e regola tutti i suoi discorsi con una saggezza squisita, e non gli sfugge niente che abbia a rimpiangerne, che non possa ferire nessuno. –  Si può essere compassionevole, si può essere liberale e tuttavia non saper trattare con gli uomini, secondo ciò che la prudenza esige. Ugualmente, si può essere saggi nei discorsi, ed aver il cuore chiuso agli infelici. Infine si può avere un’anima compassionevole, saper parlare con saggezza, senza volersi spogliare di parte di ciò che si possiede per aiutare il prossimo prestando nel bisogno. Si è talvolta molto timorosi sugli avvenimenti futuri; si suppone con troppa diffidenza dei bisogni personali; ed invece di interessarsi allo stato degli altri, si preferisce il proprio benessere alla carità che reclama in loro favore. L’uomo dabbene che voglia stabilirsi nella pace e nelle gioia che dà la buona coscienza, unisce le tre condizioni che il Profeta segnala: egli è colpito dalla miseria degli altri, li aiuta nelle difficoltà in cui si trovano, e parla loro come conviene, sia per consolarli, sia per incoraggiarli, sia per dare loro dei consigli salutari. Se si intende il testo del regolamento degli affari, anche questa sarà una delle qualità dell’uomo dabbene: l’essere attento a tutto ciò che concerne la sua condotta, sia nei riguardi del temporale, che dello spirituale. Egli è sistemato in tutto ciò che fa, prudente in tutto ciò che intraprende, economo in tutto ciò che governa; ma, ciò che qui deve essere considerato come il punto essenziale, è che tutte queste eccellenti qualità hanno la loro fonte nel timore del Signore (Berthier). 

VI.

ff. 6. – Ma, forse tu non hai visto degli uomini misericordiosi che ondeggiavano sotto il peso dell’avversità? No, mai. Li si è visti diventare poveri, ridotti all’estrema indigenza, precipitati in ogni sorta di infortuni, ma queste prove non li hanno abbattuti, perché essi attirano su di loro la bontà e la protezione di Dio, e la testimonianza di una buona coscienza era per essi un’ancora ferma e sicura. Il Re-Profeta non dice dell’uomo misericordioso che egli non sarà attaccato, come Gesù-Cristo non dice di colui che ha costruito sulla pietra che sarà esente da inondazioni e da tempeste, ma che egli sarà in condizione di resistervi. Non è certo una cosa mirabile essere esente da tentazioni, rispetto al restare immobile in mezzo alle tentazioni. Il Profeta non dice anche che il giusto non sarà abbattuto, ma che non sarà abbattuto per sempre; e quest’ultimo senso è abbastanza in rapporto con la condizione dell’uomo su questa terra di prove. I più giusti vi sono fiaccati, come confessava Davide (Ps. LXXII, 2). Ma Davide abbattuto, Davide pur caduto, non è restato in questo stato di abbattimento o di caduta: la misericordia divina lo ha risollevato e raffermato. È lo stesso per tutti i Santi: Dio li prova, li purifica e li fortifica con le stesse prove: Non commovebitur in æternum (S. Chrys.). – « La memoria del giusto sarà eterna. » È l’ambizione dei mondani a fare un po’ di rumore intorno a sé e passare alla posterità; ma la gloria, non essendo che l’ombra della virtù, fugge, come l’ombra, colui che corre dietro ad essa, mentre segue colui che cerca di evitarla, e segue malgrado lui, i suoi passi; è ciò che succede ai Santi. C’è pure per essi quaggiù una gloria postuma, una vita oltre la tomba che fa loro elogio e che incoraggia. Essi possono essere anche talvolta coinvolti nei discorsi calunniosi degli empi; si troverà forse qualche anima vile che, vedendosi condannato dalla loro vita pura, cercherà di stigmatizzarli; ma essi non avranno nulla da temere, e come si è ben detto: che importa dopo tutto, che questi rettili impuri vengano a mescolare un po’ di bava e di veleno ai torrenti di gloria che conducono i loro nomi all’immortalità? (Mgr. Pichenot, Ps, du D.). – « La memoria dei giusti è eterna, soprattutto perché i loro nomi saranno scritti nel libro della vita, da dove non saranno mai cancellati, e saranno letti con onore dagli Angeli e dai Santi e, nell’ultimo giorno, non temeranno di ascoltare la parola cattiva, la terribile sentenza che sarà pronunciata contro i peccatori ed i riprovati. (S. Agost.).   

VII.

ff. 7, 8. – Ci sono di coloro che sono sempre pronti ad inquietarsi senza motivo, lo scoraggiamento per essi è come naturale, disperano ad ogni proposito; il primo movimento del giusto, è confidare il Dio, egli è sempre pronto a sperare nel Signore, per il suo cuore è un bisogno, come un dovere. (Mgr, Pichenot). – Ecco perché, in mezzo alle prove più terribili, non si abbandona mai alla paura. Egli ha deposto in anticipo le sue ricchezze in un forziere inviolabile e, lungi dal temere l’avvicinarsi della morte, si appresta a partire per queste regioni dove deve ritrovare tutta la sua fortuna. Che potrà temere in effetti colui che, spogliatosi di tutto, non è circondato da nulla, e non offre la presa a nessuno su di lui? Che potrebbe temere colui che è assicurato dalla bontà e dalla protezione di Dio? La sicurezza di cui gode ha dunque una doppia causa: la protezione del cielo e la felice disposizione dell’anima. Così niente è capace di abbatterlo, né i capovolgimento della fortuna, né gli oltraggi, né la calunnie; egli è invulnerabile a tutti questi colpi, perché abita in una regione inaccessibile al crimine ed ai complotti dei malvagi; egli resterà buono fino alla fine, il suo coraggio non si smentirà mai finché non vedrà il suo nemico stramazzato dinanzi a lui. (S. Chrys.).   

VIII.

ff. 9. – Il Re-Profeta ha fin qui ricordato il dovere dell’elemosina e parlato di un prestito caritatevole e di misericordia. Ora ci sono diversi gradi nell’elemosina: l’uno dà meno, l’altro con più liberalità. Qual è dunque questo uomo misericordioso di cui egli parla? È colui che dà del suo superfluo, o colui che distribuisce i suoi beni senza riserva? È evidente che è colui che dissipa tutte le sue risorse, che spande i suoi beni con una pia profusione, e del quale S. Paolo parla in questi termini: « Colui che semina nelle benedizioni, raccoglierà anche le benedizioni. » (II Cor. IX, 6). C’è la profusione ridicola del lusso e della vanità, perché non quella della misericordia? (S. Chrys.). – Il ricco liberale deve spandere le sue ricchezze come il sole spande i suoi raggi. « Il giorno rischiara egualmente tutti gli uomini, il sole dissemina dappertutto i suoi raggi, la pioggia versa su tutte le parti della terra le sue acque fecondanti, il vento soffia su tutti i punti del pianeta, la luce delle stelle e della luna è comune a tutti gli uomini. L’uomo liberale, spandendo con profusione su tutti le larghezze della carità, è imitatore di Dio, suo Padre. » (S. Cypriano, De opere et clem.). – Egli è ancora come il lavoratore che spande la sua semenza su tutta la superficie del suo campo: « Seminate per voi nella giustizia, e raccogliete nella misericordia. » (Osea, X, 12). Siate un lavoratore spirituale, seminate ciò che deve essere produttivo. È una buona semenza quella che si getta nel cuore delle vedove. Se la terra vi rende al centuplo la semenza che ha ricevuto, quali frutti ben più abbondanti renderà la misericordia a colui che ne pratica le opere?  (S. Ambr. De Nab. 7). – Il ricco liberale che spande le sue ricchezze con liberalità, come il Signore raccomanda per bocca del Profeta, le conserva; colui che invece le ritiene, senza darle, le vede passare nelle mani di altri. Se voi le conservate, cesserete di possederle, se le spandete con liberalità, le conserverete, (S. Bas. Homil. in div.). – Considerate la giustezza delle espressioni del Profeta. Egli non dice: … egli ha dato, ha distribuito, ma: « Egli ha largheggiato, » per esprimere la liberalità di colui che dona, liberalità che compare nell’azione del seminare. Che fanno coloro che seminano? Essi spandono la loro semenza che tengono in riserva, sacrificano un bene certo nella speranza di un bene futuro. In questo essi fanno meglio che non ammassare, accumulare: meglio è spandere in tal modo, che accumulare incessantemente. Voi seminate il vostro denaro, ma raccoglierete la giustizia, voi spandete delle ricchezze passeggere per acquisire dei beni immortali. (S. Chrys.). – Questa espressione sembra racchiudere ancora un esempio ed un consiglio. Come regola generale, è meglio dare poco a molti che dare molto a pochi; perché è questo il mezzo di provvedere alle varie necessità di un gran numero ed impedirne l’abuso; è meglio variare le proprie opere, estendere la propria commiserazione, far progredire i propri benefici, piuttosto che concentrarli sempre. Questa saggia liberalità ci è profittevole perché, se la fortuna diminuisce per le elemosine, la giustizia, che ne è il frutto, aumenta e non è una giustizia passeggera, ma una giustizia che resta in tutti i secoli. (Mgr. Pichenot Ps. di D.). – Di qual valore sono questi beni invisibili, che ognuno può acquistare a prezzo di ciò che possiede? « È perché il giusto ha diffuso i suoi doni ai poveri. » Egli non vedeva ciò che comprava e non lasciava ricomprare; ma Colui che aveva fame e sete sulla terra, nella persona dei poveri, gli conservava un tesoro nel cielo. Non è dunque da meravigliarsi che « che la sua giustizia resta nei secoli dei secoli, » poiché essa è sotto la custodia del Creatore dei secoli. « La sua forza sarà elevata in gloria, (Ps. CXI, 9), dopo che la sua umiltà sarà disprezzata dai superbi » (S. Agost.).

IX.

ff. 10. – La virtù è uno spettacolo triste ed importuno per gli uomini viziosi, perché essa è un rimprovero ed una condanna della loro malvagità. Ma vedete come il peccatore, tutto roso dall’invidia, non osa formulare accusa contro l’uomo giusto, né sostenere lo sguardo puro e limpido della virtù. Il dolore che lo rode interiormente si manifesta con il digrignar dei denti, ma non osa pronunciare una parola, e richiude dentro di sé il dolore che lo affligge (S. Chrys.). – « Il peccatore lo vedrà e si irriterà, » ma con un pentimento tardivo ed infruttuoso, perché contro chi si irriterà più di sé quando, vedendo elevato in gloria la forza di colui che avrà elargito doni ai poveri, dirà: « A cosa ci è servito il nostro orgoglio?  A cosa ci sono valse le nostre ricchezze da cui traevamo tanta vanità? (Sap. V, 8). « Egli digrignerà i denti e si consumerà per il furore, » perché nell’inferno dove sarà piombato, ci sarà pianto e stridor di denti; perché non cresceranno né foglie, né rami per come ha fatto, se si fosse pentito in tempo opportuno; ma egli non si pentirà che « … quando il desiderio dei peccatori perirà, » senza che alcuna consolazione possa seguire a questo pentimento. Il desiderio dei peccatori perirà quando tutte le cose passeranno come un’ombra, quando il fieno sarà disseccato, il fiore del fieno cadrà (Isai. XI, 8); ma la parola del Signore, che resta per sempre, dopo aver subito le orgogliose provocazioni dei falsi felici, sarà una provocazione contro di loro, vera maledizione, quando saranno perduti per sempre (S. Agost.). 

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR – 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VI

Effetti dell’abitazione dello Spirito-Santo.

(Seguito)

I DONI DELLO SPIRITO-SANTO

I.

Con la grazia e le virtù cristiane, lo Spirito Santo porta ancora nell’anima, dove viene a fissare la sua dimora, i vari doni che portano il suo nome, il « sacro septenario » la, come si esprime la Chiesa, sacrum septenarium. Cosa significano questi doni? Qual è il loro ruolo, la funzione, lo scopo, nella vita soprannaturale? Sono davvero distinti dalle virtù infuse, e bisogna considerarli necessari alla salvezza? Queste sono le domande a cui occorre rispondere.  – E in primo luogo, qual è esattamente la natura dei doni dello Spirito Santo? Essi sono, essenzialmente, benefici gratuiti, come indica il nome di “doni”: un nome che è comune agli altri beni della grazia. Ma questo termine generico ha ricevuto nel linguaggio cristiano un significato preciso, un senso perfettamente determinato e limitato ad alcune perfezioni specifiche che Dio comunica liberamente all’anima retta per renderla flessibile e docile alle sue ispirazioni (S. Th. Ia-IIæ, q. LXVIII, a 1).  Come la grazia santificante, come le virtù infuse, con cui presentano molte analogie, i doni sono abitudini, disposizioni al bene che esistono in noi nello stato di qualità fisse e permanenti. Non sono quindi atti, ma principi di operazione; non sono mozioni, attuali, dei soccorsi passeggeri della grazia destinati a mettere in gioco le nostre facoltà, ma piuttosto delle qualità, delle forze conferite all’anima in vista di certe operazioni soprannaturali.  – La Scrittura stessa, parlando di questi doni, ce li rappresenta come esistenti in modo stabile, come riposanti nel giusto. Isaia dice del Verbo incarnato: « Lo Spirito del Signore riposerà su di Lui: lo Spirito di saggezza e di comprensione, lo Spirito di consiglio e di forza, lo Spirito di conoscenza e di pietà; e lo Spirito di timore del Signore lo riempirà. » (Isai. XI, 2-3). E i dottori applicarono queste parole ai membri viventi del Corpo Mistico di Nostro Signore, che devono partecipare ai privilegi del loro Capo. – San Gregorio Magno ci dice ugualmente che « … con i doni, senza i quali la vita non può essere raggiunta, lo Spirito Santo risiede in modo stabile negli eletti, mentre con la profezia, il dono dei miracoli e delle altre grazie gratuite, Esso non si stabilisce stabilmente in coloro ai quali li comunica: in his igitur donis, sine quibus ad vitam perveniri non potest, Spiritus Sanctus in electis omnibus semper manet; sed in aliis non semper manet. » – Potremmo, con l’angelico Dottore, definire i doni dello Spirito Santo: “… delle abitudini o qualità permanenti che sono essenzialmente soprannaturali, che perfezionano l’uomo e lo dispongono ad obbedire con prontezza alle mozioni dello Spirito Santo: Dona Spiritus Sancti sunt quidam habitus quibus homo perficitur ad prompte obediendum Spiritui Sancto. » (S. Th. Ia-IIæ, q. LXX, a. 2). – Da queste parole non si deve concludere che i doni siano delle disposizioni puramente passive, una sorta di unzione spirituale che abbia lo scopo esclusivo di ammorbidire le nostre facoltà perché esse non oppongano resistenza all’azione del celeste motore. « Essi sono nel contempo  delle morbidezze e delle energie, delle docilità e delle forze che rendono l’anima più docile sotto la mano di Dio e nello stesso tempo più attiva nel servirlo e nel compiere le sue opere. » (Mgr. GAY, De la Vie et des Vertus chrétiennes, I. Traité). Come le virtù morali, che mirano a sottomettere e assoggettare le nostre facoltà appetitive all’impero della ragione, a renderle docili alle sue prescrizioni, e che sono non di meno delle fonti di attività, i doni sono anch’essi delle energie soprannaturali, dei principi di operazione. Testimone di queste eccellenti opere, note come Beatitudini, che, per la loro stessa perfezione, devono essere attribuite ai doni piuttosto che alle virtù e che da essi emanano come l’operazione procede dall’abitudine ». (S. Th. Sent. III, d. XXXIV, q. 1, ad 4). In caso affermativo, in che modo i doni differiscono dalle virtù? Alcuni teologi credono di non siano molto diversi da loro, e che doni e virtù significhino, con nomi diversi, la stessa cosa. Se consideriamo le abitudini soprannaturali – essi dicono – come  dei benefici gratuiti che ci vengono dalla bontà divina, li chiamiamo doni; se li consideriamo principi di operazione, li chiamiamo virtù. Questa spiegazione apparentemente molto semplice ha il grave svantaggio di essere difficile da conciliare con  verità indiscutibili. E infatti, se i doni si identificano con le virtù, come mai il Signore, che  certamente possedeva tutti i doni, come ci dice chiaramente Isaia, non aveva avuto tutte le virtù infuse allo stesso modo? Non la fede, incompatibile con la visione immediata dell’Essenza divina, di cui la santa umanità del Salvatore non ha mai cessato di godere; né la speranza, che è stata esclusa dal suo stato e dalla sua perfezione di Persona comprendente; né la penitenza, che non va con l’impeccabilità? Inoltre, se doni e virtù non sono cose separate, rimarrebbe da spiegare perché alcuni doni, come il timore, non siano tra le virtù e perché certe virtù non vengano enumerate tra i doni. Pertanto, la grande maggioranza dei teologi ritiene, insieme a san Tommaso, che ci sia una vera distinzione tra doni e virtù, una distinzione basata sulla diversità dei motori ai quali l’uomo obbedisce nella pratica del bene. Se si vuole – dice l’angelico Dottore – distinguere chiaramente i doni dalle virtù, è necessario attenersi al linguaggio della Scrittura, che designa i primi non come doni, ma come spiriti – Spirito di saggezza e intelligenza, Spirito di consiglio e forza, ecc. – dandoci modo di comprendere che, venuti dall’esterno ed infusi nella nostra anima con la grazia, il loro scopo e il loro effetto è quello di rendere più flessibili le nostre potenze e di disporle a seguire docilmente l’ispirazione divina. Ora, chi dice ispirazione, dice mozione veniente dall’esterno, in contrapposizione al movimento del motore interno, che è la ragione. Ci sono infatti in noi due principi guida sotto il cui impulso si compiono gli atti che devono condurci alla salvezza: uno interiore, che è la ragione, l’altro esteriore, che è Dio. Per consentire all’uomo di ricevere correttamente questo doppio impulso, si ha bisogno di due tipi di perfezioni: le prime, più umili, che lo dispongono a seguire senza resistenza, in tutte le sue azioni interiori ed esteriori, il movimento e la direzione della ragione: questo è il ruolo delle virtù; le seconde, più elevate e conseguentemente distinte dalle precedenti, mirano a renderlo flessibile e docile alle ispirazioni dello Spirito Santo: questo è la funzione dei doni. (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Mettiamo queste verità nella giusta luce. Ed innanzitutto, che l’uomo possieda in se stesso, nella sua ragione, lasciata alle proprie luci o illuminata dalla fede, un principio di attività con cui si muove, decida di fare questo o quello, è ovvio. Non appena diventa un essere intelligente e libero, e quindi padrone delle sue azioni, può, nella sua sfera, come agente secondario e prossimo – in suo ordine, scilicet sicut agens proximum, – compiere questa o quella operazione a sua scelta. Ma, poiché le facoltà umane suscettibili di compiere un atto morale siano inclini abitualmente al bene e disposte a compierlo con facilità, prontezza e costanza, hanno bisogno di essere perfezionate da certe qualità o abitudini, aventi l’effetto di renderle docili alla direzione e all’impero della ragione. Nell’ordine naturale, questo ruolo appartiene alle virtù umane o acquisite; nell’ordine soprannaturale, questa funzione appartiene alle virtù cristiane. Così dotato, l’uomo è in grado di agire, di fare del bene, di fare opere salutari e meritorie, quelle almeno che non superano il livello ordinario e comune.  – Ma la ragione non è l’unico motore, né l’unico principio determinante delle nostre azioni; è anche solo un motore subordinato e secondario. Il  primo e principale motore è fuori di noi e non è altri che Dio. Ora  è una verità confermata dall’esperienza quotidiana che più elevato sia il motore, più perfette debbano essere le disposizioni che preparano il mobile a ricevere la sua azione (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Così, mentre un bambino è in grado di comprendere e seguire le lezioni di un insegnante di grammatica elementare, per consentire ad un adulto, anche colto, di seguire il corso di un insegnante di istruzione superiore, è necessaria una lunga preparazione, che non è nemmeno alla portata di tutte le intelligenze. – Se, allora, per disporre dei nostri poteri appetitivi onde obbedire prontamente alle ingiunzioni della ragione illuminata dalla nostra luce o da quella della fede, abbiamo bisogno di tutta una serie di abitudini, acquisite o infuse, a seconda che il bene di cui si tratti sia naturale o soprannaturale; come non concludere, con san Tommaso, che per poter ricevere fruttuosamente e seguire con docilità le ispirazioni e la guida dello Spirito Santo, un Motore così alto al di sopra della ragione stessa illuminata dalla fede, siano qui veramente necessarie altre perfezioni, ed altre abitudini superiori alle virtù morali, acquisite o infuse? Abbiamo nominato i doni che sono all’uomo nei suoi rapporti con lo Spirito Santo, ciò che sono le virtù morali alla volontà rispetto alla ragione. Queste dispongono le potenze appetitive ad obbedire prontamente alla ragione; quelli preparano l’uomo ad essere docile agli istinti dello Spirito Santo. (Ibid. a. 3).

II.

L’argomento che abbiamo appena sviluppato dimostra bene, è vero, che i doni e le virtù sono abitudini davvero distinte; ma non indica, almeno in modo esplicito, in cosa consista questa differenza. Così, quando San Tommaso propone solo di stabilire – come in Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1, – che i doni sono perfezioni diverse dalle virtù, la ragione che egli propone è la dualità dei motori a cui l’uomo obbedisce nella pratica del bene: ottima ragione, perché motori formalmente diversi presuppongono, richiedono disposizioni diverse da parte del mobile, in modo che egli sia in grado di ricevere connaturalmente impulsi di cui gli uni possano essere tanto elevati al di sopra degli altri: Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (S. Th. Ia-IIæq. LXVIII, a. 8). Ma quando il santo Dottore vuole mostrare in cosa i doni e le virtù differiscano, tutt’altra è la sua risposta; si richiama alla divergenza nel modo di agire che caratterizza questi due tipi di abitudini, e alla diversità della regola che serve come misura dei loro atti: Dona a virtutibus distinguuntur in hoc quod virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO, sed dona. ULTRA UMANO. (S. Th. Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 1.).Il primo elemento caratteristico dei doni, quello per cui essi si distinguono chiaramente dalle virtù, è il loro modo di agire. Infatti, le virtù, qualunque esse siano, naturali o soprannaturali, acquisite o infuse, dispongono l’uomo ad un’azione di forma razionale e umana: virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO; i doni, al contrario, lo mettono in grado di operare in modo sovrumano e in qualche modo divino: sed dona ULTRA HUMANUM MODUM. Questa è la loro ragione: Donorum propria est ratio, ut per ea quis super humanum modum operetur (S. Th., m, Sent., III, dist., xxxv, q. II, a. 3): questo è ciò che costituisce la loro superiorità sulle virtù: Donum in hoc transcendit virtutem quod supra humanum modum operetur (S. Th., Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 3.). Lasciate che lo stesso san Tommaso ci spieghi, con la sua ordinaria lucidità, che cosa debba intendersi del modo umano di agire specifico delle virtù e in cosa consista il processo superiore che caratterizza i doni. A tal fine, egli confronta la virtù della fede con il dono dell’intelletto che gli corrisponde, e mostra con un esempio, che egli stesso dichiara evidente, la divergenza dei loro processi.  Il nostro modo naturale di conoscere le cose spirituali e divine – dice – è quello di salire da questo mondo materiale e visibile al mondo invisibile attraverso lo specchio della creatura e l’enigma delle analogie, cioè attraverso concetti inappropriati presi in prestito all’ordine sensibile e pertanto necessariamente imperfetti. Connaturalis enim modus humanæ naturæ est ut divina non nisi per speculum creaturarum et ænigmate similitudinum percipiat (Ibid. dist. XXXIV, q. 1, ad I). Così, per la fede, che è una virtù, usa queste stesse nozioni per introdurci alle verità soprannaturali. Et ad sic percipienda divina perjicit fides, quæ virtus dicitur (S. Th., III, Sent., dist., XXXIV, q. I, a. 1). – Senza dubbio essa allarga il cerchio della nostra conoscenza, ci conduce nel santuario della Divinità e ci rivela misteri di cui la contemplazione dell’universo non ci avrebbe mai manifestata l’esistenza; ma in luogo del nostro semplice assentimento ai dogmi rivelati che implica la fede, ci comunica una certa percezione della verità, ci fa cogliere, per così dire, le cose divine, ci eleva al di sopra del nostro modo naturale di conoscere e, senza togliere tutti i veli, ci dà di questa vita, come un’anticipazione delle manifestazioni e delle chiarezze future. (S.Th. III Sent.. dist. XXXIV, a I a. I). – Che senso profondo delle verità di fede possiamo trovare di tanto in tanto in certi uomini senza cultura e senza lettere, ma docili alle ispirazioni dello Spirito Santo, a volte anche nei bambini semplici! Quali intuizioni per scoprire il veleno dell’errore! Forse non saranno in grado di confutare, secondo le regole della dialettica, i sofismi dell’eresia o dell’incredulità; ma poiché sono impregnati delle verità dell’insegnamento cattolico, capiscono che non devono discostarsene in nulla! Da dove viene in loro una tale certezza sulle cose della fede? Dai mezzi naturali della conoscenza per l’uomo: lo studio, la riflessione? No, ma dal dono dell’intelletto. – Leggiamo nella vita di Santa Giovanna Chantal che un giorno, all’età di cinque anni, giocava nell’ufficio del padre, quando scoppiò una discussione tra il presidente Frémiot e un gentiluomo protestante venuto a trovarlo. Si discuteva della Santa Eucaristia. Il signore protestante diceva che quello che gli piaceva di più della religione riformata era che negava la presenza reale di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento. A queste parole, la santa bambina non poté trattenersi: ella si avvicina vivacemente al protestante e si mette a fissarlo con uno sguardo accigliato: « Monsignore – gli disse – dovete credere che Gesù Cristo è nel Santissimo Sacramento perché Egli lo ha detto; se non lo credete, lo ritenete un bugiardo ». Il tono con cui parla stupisce il protestante, che inizia a discutere con lei; ma ella lo ferma subito con la saggezza delle sue risposte, e nello stesso tempo, con l’ardore della sua fede, ed incanta tutti i presenti. Imbarazzato dalle sue vivaci rimostranze, il signore protestante volle porre fine alla discussione come si conclude con i bambini: gli presenta dei dolcetti. Ma la piccola subito li prende dal grembiule e, senza toccarli, li getta nel fuoco, dicendo: « Guardate, monsignore, è così che tutti gli eretici bruceranno nelle profondità dell’inferno, perché non credono a ciò che il Signore ha detto. »

III.

Se ora, passando all’ordine pratico, chiediamo all’angelico Dottore in cosa consista il modo umano di agire proprio delle virtù, per esempio della prudenza, ed in cosa si distingua dal processo sovrumano che caratterizza il dono corrispondente, quì il dono del Consiglio, la sua risposta non sarà meno netta né meno precisa. Che si tratti della scelta di uno stato di vita o di ogni altra determinazione importante da prendere, ecco come procede la prudenza. Essa si occupa delle vie e dei mezzi convenienti per ottenere il fine prefissato, e giudica quali siano i migliori e ne prescrive l’applicazione. A mo’ di indagine, il modo umano consiste nell’esaminare tutto alla luce della ragione o della fede, soppesare i pro e i contro, studiarne le attitudini, le attrattive, le disposizioni, prevedere il futuro secondo quanto accade abitualmente in situazioni simili, consultare persone prudenti, pregare.  In Inventione, MODUS HUMANUS est quod procedatur inquirendo et conjecturando ex his quæ sient accidere (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Poi arriva il turno del giudizio, e infine quello del comandamento, che è il principale atto di prudenza. Ma non è raro che la prudenza umana, a causa di circostanze eccezionali o particolarmente difficili, si trovi in difficoltà. Si ha un bel riflettere, consultare, studiare la questione da tutte le parti, non possiamo andare fino in fondo, né possiamo formulare una risoluzione ferma e precisa. Che cosa dobbiamo fare in queste circostanze, quando la prudenza è muta, e la ragione è disperata? Ciò che fece Re Josaphat quando, in una situazione simile, di fronte a una moltitudine di Moabiti, Ammoniti e Siriani che erano uniti contro di lui, e non sapendo da che parte stare, si voltò verso il cielo e pregò: “Signore, non sapendo quello che dobbiamo fare, tutto quello che dobbiamo fare è guardare a te: Cum ignorremus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui ut oculos nostros dirigamus ad te (II Paralip. XX, 12). Ed ecco, lo Spirito del Signore si posò improvvisamente su di un profeta, che venne a dire al re e al suo popolo da parte di Jeowah: « Non temete, non vi spaventi questa moltitudine; la battaglia non è affar vostro, ma di Dio…. Domani camminerete contro di loro e il Signore sarà con voi: Nolite timere, ne paveatis hanc multitudinem; non est enim vestra pugna, sed Dei…. Cras egrediemini contra eos, e Dominus erit vobiscum (II Paralip. XX, 15-17). “Ora, se allo stesso modo, in una simile occasione, un Cristiano ricorre, con fiducia, a Colui che non rifiuta mai il suo aiuto nelle cose necessarie o utili alla salvezza, e se ne riceve ispirazione che pone fine alle sue perplessità e gli insegna con una sorta di certezza ciò che deve fare, questo è al di sopra del modo umano e l’effetto del dono del Consiglio. Sed quod homo accipiat hoc quod agendum est, quasi per certitudinem a Spiritu Sancto edoctus, SUPRA HUMANUM MODUM EST; et ad hoc perficit donum consilii (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Così, nelle cose che non vanno oltre la portata della ragione, è alla prudenza acquisita o infusa che spetta guidare l’uomo nella scelta e nell’uso dei mezzi (S. Th., Ia-IIæ, q. LII, a. 1, ad. 1).. Trascurare poi di esaminare da soli ciò che sia opportuno dire o fare, con il pretesto dell’abbandono alla Provvidenza, sarebbe tentare Dio (S. Th., IIa-IIæ, q. LIII, a. 4, ad 1). Ma poiché la ragione umana è incapace di comprendere tutti i casi particolari e contingenti che possano sorgere, – dal che deriva che « i pensieri dei mortali sono timidi e le loro previsioni incerte » – per non essere privati di consiglio in materia di salvezza, dove la prudenza non è più sufficiente, l’uomo deve essere guidato e diretto da Colui che sa tutto; così come nelle cose umane, quando non si ha abbastanza luce per trattare un caso, si ricorre ai consigli di persone più illuminate. (S. Th., Ia-IIæ q. LXVIII, a. 3, ad 2). – Questa direzione superiore nell’ordine della salvezza si realizza attraverso il dono del Consiglio, da cui le parole del Salmista: « Il Signore è la mia guida, nulla mi mancherà: Dominus regit me,  et nihil mihi deerit » (Ps. XXII-1). Ma in questo caso, l’uomo non deve esaminare e giudicare da solo ciò che sia opportuno fare, lo Spirito Santo si incarica di questa cura, e l’uomo deve solo prestarsi obbedientemente alle sue ispirazioni; perché – secondo l’osservazione di san Tommaso – è il motore, non lo strumento, che deve giudicare e comandare. Tuttavia, in materia di doni, è lo Spirito Santo, non la ragione umana, che è la forza motrice, essendo l’uomo più passivo che attivo, strumento e non causa principale: strumento, però, che non può essere considerato inerte, perché attivo e libero, attivo in quanto libero, collaborando liberamente con la mozione divina. (S. Th., Ia IIæ q. LXVIII, a. 3, ad a. 1). – La differenza nel modo di agire che abbiamo appena visto tra la prudenza e il dono del Consiglio, si trova allo stesso modo tra le altre virtù e i doni che le perfezionano; ad ogni virtù corrisponde infatti un dono particolare che la aiuta e la fa operare a volte in modo sovrumano. Ciò è particolarmente vero per la fortezza ed il dono che porta lo stesso nome. – La caratteristica della virtù della fortezza è quella di rafforzare l’anima e farle superare tutti gli ostacoli che si incontrano nella pratica del bene, nonostante i pericoli e persino la morte stessa. Se mi chiedete qual sia il suo modo naturale per agire, vi risponderò con San Tommaso che esso consiste nell’affrontare le difficoltà fino all’estensione delle forze umane, pensatis viribus propriis et secundum earum mensuram (S. Th. III Sent., dist. XXXIV, q. 1 a.2); andare oltre, intraprendere con il proprio movimento un’opera che superi le proprie forze, non sarebbe più virtù, ma incoscienza, così come rimanerne al di sotto, per difetto il coraggio, sarebbe un segno di pusillanimità. Ma che, in un incontro particolare, spinto da un istinto superiore, l’uomo prenda come misura delle sue azioni, non più le proprie forze, ma la potenza divina, elevandosi a cose manifestamente superiori alle sue energie native, ed affronti pericoli che non è in grado di superare, affidandosi all’aiuto divino, è al di sopra del modo umano ed effetto del dono della fortezza. -Sarebbe facile continuare questo parallelo e mostrare nel dettaglio quale sia il modo umano di agire specifico delle diverse virtù, e come si differenzi dal modo speciale di operare mediante i doni; ma forse sarebbe meglio limitarsi ad indicare in caratteri generali ciò che costituisce la divergenza di processo tra gli uni e le altre. Negli atti che emanano da virtù, acquisite o infuse, l’uomo agisce in modo conforme alla sua condizione umana, cioè con il proprio movimento, in virtù della propria iniziativa personale. Dopo aver riflettuto, deliberato e, se necessario, preso consiglio, egli si porta al bene per libera scelta, per propria determinazione, senza escludere, naturalmente, la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente libero o naturale come causa prima: non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate intérius operatur1. (S. Th. Ia IIæ, q.  LXVIII, a. 2). Al contrario, egli agisce, sotto l’influenza dei doni, ma non è più da se stesso che opera, ma un impulso interiore onnipotente, al quale egli si presta tuttavia volontariamente, lo spinge a fare questa o altra cosa il cui pensiero gli sia stato improvvisamente ispirato. Qui l’uomo è più passivo che attivo, anche se non manca la sua attività personale, sotto forma di consenso e di libera collaborazione, perché Dio muove ogni essere in modo conforme alla sua natura (S. Th. IIa IIæ, q. LII, a. 2 ad 1). -Sant’Agostino ha descritto molto bene questa seconda modalità d’azione quando, a proposito delle parole dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei » (Rom. VIII, 14), egli sottolinea che lo Spirito Santo « li muove per farli agire, non perché rimangano inerti e puramente,  passivi: Aguntur enim ut agant, non ut ipsi nihil agant » (S. Aug. De gest, Pelag. C. III, n. 5). Agiscono dunque, ma per far emergere il particolare istinto che li fa agire, l’Apostolo san Paolo dice che sono mossi e azionati dallo Spirito di Dio. Ora, « essere mossi o azionati è più che essere semplicemente guidati o diretti; perché colui che è guidato fa pure qualcosa; egli è precisamente diretto in modo che agisca correttamente. Ma chi è mosso o attivato sembra a malapena fare qualcosa da se stesso; eppure la grazia del Salvatore agisce così efficacemente sulla nostra volontà che l’Apostolo non ha paura di dire: Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio » (Rom., VIII, 14). E la nostra volontà non saprebbe fare un uso migliore della propria libertà, che abbandonandola all’impulso di Colui che non può fare il male …. » (Rom. VIII, 14 – S. Aug. De Gestius Pel. C. III, n. 5). La Scrittura e la vita dei Santi contengono un gran numero di fatti in cui questo impulso divino è visto in esercizio. Così si dice in Luca che « Gesù è stato spinto nel deserto dallo Spirito Santo: Agebatur a Spiritu in desertum » (Luc. IV, 1). Allo stesso modo il vecchio Simeone, che aveva ricevuto dallo Spirito Santo la promessa che non sarebbe morto senza aver visto prima il Cristo del Signore, si sentiva ispirato a venire al Tempio, venit in Spiritu in templum, (Luc. II, 25) nel momento in cui Maria e Giuseppe si sono presentati lì per adempiere le prescrizioni della legge nella persona del Bambino Gesù.  – Un fatto ci mostrerà in modo impressionante la differenza nel modo di agire che distingue le virtù dai doni. Sotto la persecuzione di Settimio-Severo, una giovane schiava di nome Felicita era appena stata condannata alle bestie feroci con altri Cristiani. Ella era prossima a partorire, e poiché si avvicinava il giorno del supplizio, Félicita era desolata al pensiero che la sua gravidanza avesse potuto ritardare il suo supplizio, perché la legge vietava l’esecuzione di una donna incinta. Anche gli altri martiri si affliggevano di lasciarla indietro.Tre giorni prima della data fissata per il combattimento, tutti pregavano per la sua pronta liberazione. Non appena finito, la colsero i dolori. Mentre si lamentava, una delle carceriere le disse: « Se in questo momento non puoi sopportare le sofferenze, come sarà quando sarai straziata dalle bestie? Sarebbe quindi molto meglio sacrificare agli dei. » Al che, questa donna generosa diede questa bella risposta: « Oggi sono io che soffro; ma allora sarà un Altro in me che soffrirà per me, perché anch’io soffrirò per Lui. »

IV.

Distinti dalle virtù per il loro modo di agire, i doni lo sono ancora per una regola che serve da misura dei loro atti. La regola delle virtù acquisite è la ragione umana perfezionata dalla prudenza naturale; quella delle virtù infuse, la ragione illuminata dalla fede e diretta dalla prudenza soprannaturale; per questo si definisce la virtù: un’abitudine che ci inclina a vivere con rettitudine secondo la regola della ragione: qua recte vivitur secundum regulam rationis (S. Th., Ia IIæ, q. LXVII, a. 1, ad 3). Quanto ai doni dello Spirito Santo, queste perfezioni superiori, alliores perfectiones (Ibid. in corp. art.) che Dio ci dà in vista della sua mozione, in ordine ad motionem ipsius (Ibid. ad. 3), i loro atti non hanno altra regola che l’ispirazione divina e la saggezza di Colui che è lo Spirito di verità.  (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1 a. 3) – Non è quindi raro che « l’ispirazione divina spinga l’uomo a delle opere che vanno oltre i limiti ordinari della ragione, quando è illuminato dalla fede. Queste opere sono buone di una bontà superiore; non sono temerarie perché hanno Dio stesso come consigliere e sostegno; esse sono giustificate da questa ragione superiore per cui Dio, quando agisce in questo modo, non è obbligato a restare entro i limiti che l’imperfezione naturale dell’uomo lo costringe a rispettare. Per tutte queste ragioni esse soddisfano più del necessario i dati della prudenza. Tuttavia, la prudenza ordinaria, anche la cristiana, non permetterebbe loro di essere intraprese o consigliate. È soprattutto in queste opere che sono in gioco i doni dello Spirito Santo. » Così quando Santa Dorotea, condotta al supplizio e interrogata da un avvocato di nome Teofilo, che, avendola sentita parlare del paradiso del suo Sposo, le disse scherzosamente: « Vieni, sposa di Cristo, mandami dei fiori o delle rose dal Paradiso di tuo marito », rispose subito: « Certamente lo farò »: da dove ha ottenuto tale assicurazione? Avrebbe potuto parlare in questo modo, secondo le leggi della prudenza cristiana? Non si esponeva ella alla tentazione di Dio contando su di un miracolo che  Egli non era tenuto ad operare, o a screditare la Religione Cristiana, se la promessa che aveva appena fatto non fosse stata mantenuta? Eppure la giovane vergine risponde senza esitazione: « Certamente lo farò: Plane hoc faciam. » E l’evento gli diede subito ragione. Perché lo Spirito Santo le aveva suggerito la sua risposta e, senza esitazione, senza ulteriori riflessioni, aveva obbedito docilmente all’ispirazione divina, secondo questa parola del profeta: « Il Signore mi ha aperto l’orecchio per farmi sentire la sua voce; qualunque cosa mi dica, non resisto; qualunque difficoltà si presenti, non torno indietro. »  – Allo stesso modo, quando il Beato Enrico Suso, dell’Ordine di San Domenico, incise profondamente sul suo petto il nome di Gesù e compì macerazioni che rivoltano la nostra delicatezza; quando Santa Apollonia, minacciata dai pagani di essere bruciata viva se non rinunciava a Gesù Cristo, preveniva i suoi carnefici e si gettava nelle fiamme; quando gli stiliti e tanti altri Santi abbracciavano una vita che sembrava una sfida perpetua alla natura, si comportavano secondo le regole della prudenza cristiana? Certo che no! Eppure i miracoli compiuti a conferma della loro santità sono lì a dimostrarci che, agendo in questo modo, hanno obbedito ad un impulso divino. Tutti questi eroismi di fede, di dolcezza, di forza, di pazienza, di carità, di cui l’agiografia cristiana ci fornisce il commovente racconto; le straordinarie opere intraprese per la gloria di Dio o la salvezza del prossimo; le manifestazioni più alte ed eccellenti della vita spirituale, non sono altro che gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Partendo da un principio superiore alle virtù, non sorprende che esse vadano oltre la misura delle virtù? Ecco perché alcuni teologi dicono che i doni sono delle perfezioni che dispongono l’uomo ad atti più elevati, più eccellenti di quanto non lo siano generalmente gli atti di virtù: et hoc est quod quidam dicunt quod dona perficiunt hominem ad altiores actus quam sint actus virtutum (S. Th., Ia IIae, q. LXVII1, a. 1). – E, lungi dall’impugnare questa opinione, san Tommaso dichiara, in un altro passaggio, che è quella che sembra più conforme alla verità: Et hæc opinio inter omnes vera videtur. (S. Th., III Sent., dist. xxxiv, q. I, a. 1). – Questo significa che i doni hanno un oggetto distinto da quello delle virtù, e che entrano in gioco solo quando si tratta di opere eroiche o straordinarie? Se così fosse, sarebbero adatte solo ai grandi Santi, agli Apostoli, ai martiri, alle anime generose pronte a fare ogni sacrificio per avanzare sulla via della perfezione, mentre sarebbero quasi inutili per la moltitudine immensa di Cristiani che vivono nella giustizia senza fare azioni eclatanti. Quanti in effetti sono salvati dalla semplice pratica dei comandamenti e dalle opere ordinarie della vita cristiana! A che serve dunque che gli habitus debbano praticarsi solo raramente, in casi eccezionali, e chi rimarrebbero più spesso nello stato di forze dormienti e inattive? Ora, è l’insegnamento unanime dei Dottori e dei maestri della vita spirituale che i doni dello Spirito Santo siano la sorte comune di tutti i giusti, senza escludere i più umili; e San Tommaso li dichiara necessari alla salvezza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 2). – Come non riconoscere, dunque, che gli atti eroici e le eminenti opere di perfetta santità, pur costituendo il dominio principale dei doni, non possano essere tuttavia considerati come oggetto adeguato e come il limite estremo della loro sfera di influenza? Così, pur ammettendo che « i doni superano la comune perfezione delle virtù >>, il santo Dottore sottolinea che questo non è quanto al genere delle opere, nel modo in cui i consigli prevalgono sui precetti, ma nel modo in cui operano, in quanto dispongono l’uomo a ricevere la mozione di un Agente superiore: Dona excédant communem perfectionem virtutum, non quantum ad gênas operum, eo modo quo consilia præcedunt præcepta, sed quantum ad modum opérandi secundum quod movetur homo ab altiori principio. » (S. Th., 1a IIae, q. LXVIII, a. 2, ad I). Non sarebbe quindi possibile, senza allontanarsi dal pensiero del principe della teologia, assegnare alle virtù e ai doni domini completamente separati, riservare loro una sorta di opera speciale che supererebbe in perfezione l’oggetto materiale di questi. Al contrario, non c’è alcuna virtù sulla quale l’uno o l’altro dono non possa essere chiamato ad esercitare in un dato momento il suo modo sovreminente di operare, così come non ci sono forze umane o facoltà suscettibili di essere il principio degli atti umani, che non possano essere attivati dallo Spirito Santo e perfezionati dai suoi doni (S. Th., Ia Ilæ, q. LXVIII, a. 4.). In breve, il campo d’azione dei doni si estende fino a quello delle virtù; ma se entrambi hanno la stessa materia, si differenziano, come abbiamo detto, sia nel loro modo d’azione che nella regola che serve come misura delle loro azioni; per questo il loro oggetto formale non è lo stesso. 

V.

Le considerazioni che precedono sulla natura e la distinzione dei doni e delle virtù hanno già chiarito i rispettivi ruoli nell’economia soprannaturale. Tuttavia, la questione non è stata affrontata direttamente fino ad ora; è giunto il momento di farlo e di indagare su quale sia questo ruolo. Secondo il giudizio dell’Angelico Dottore, questo consisterebbe, per le virtù, nel mettere le nostre potenze appetitive in uno stato di pronta obbedienza alla ragione, e per i doni nel disporre i giusti a seguire docilmente le ispirazioni dello Spirito Santo: Virtutes morales habitus quidam sunt, quibus vires appetitivæ disponuntur ad prompte obediendum rationi….. Dona Spiritus Sancti Sancti sunt quidam habitas quibus homo perficitur ad obediendum Spiritui Sancto (S. Th. Ia IIæq. XXXVI, ad. 3). – Ridotta in questi termini e considerata solo nella sue grandi linee, la dottrina relativa alle particolari funzioni delle virtù e dei doni ha facilmente raccolto tutti i suffragi; ma non appena si è trattato di chiarirla ulteriormente, l’accordo è scomparso e le opinioni si contrastarono. – Così alcuni teologi sostengono che le virtù dispongono « solo ad obbedire alla ragione, ad agire in conformità ad essa, e non a seguire l’ispirazione divina »; il ruolo dei doni sarebbe quello di perfezionare l’uomo « in tutto ciò che egli deve fare sotto l’impulso, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo ». E poiché non c’è alcuna azione della creatura in cui il moto divino non sia associato all’attività umana, essi concludono che le virtù e i doni entrano in esercizio tra i giusti in ogni atto della loro vita soprannaturale.  Essi ragionano così: « Le virtù dispongono l’uomo a seguire l’impulso della ragione giusta; i doni lo dispongono a seguire quello di Dio o dello Spirito Santo. Tuttavia, questo doppio impulso è necessario negli atti ordinari di virtù, dal più elevato al più infimo. » È quindi necessario riconoscere in ogni atto soprannaturale, anche il più semplice, l’esercizio delle virtù e dei doni.  – San Tommaso vede le cose in modo diverso. A suo avviso, pur avendo come ufficio quello di preparare l’anima a seguire il movimento e la direzione della ragione senza resistenza, le virtù la dispongono ancora, di conseguenza, a seguire l’impulso divino, almeno quell’impulso ordinario e comune che Dio non rifiuta a nessuna creatura desiderosa di usare ed attuare i principi di attività che in essa risiedono. Perché, secondo l’osservazione del Santo Dottore, per il fatto stesso che l’uomo sia ben disposto verso la propria ragione, è anche ben disposto verso Dio: Quia per hoc quod homo bene se habet circa rationem propriam, disponitur ad hoc quod se bene habeat in ordine ad Deum (S. Th., Ia IIæ, q. XXXIV, a. 8, ad 9). Per quanto riguarda i doni, la loro specifica funzione, il loro particolare ruolo è quello di preparare colui che li possieda a ricevere in modo connaturale non ogni specie di mozione divina, ma solo alcuni impulsi speciali designati come ispirazioni, distinti dello Spirito Santo, e di far compiere all’uomo atti fuori dal comune, se non per il loro oggetto materiale, almeno per il loro modo di produzione e dalla norma che serve come loro misura: Dona sunt quædam perfectiones hominis, quibus homo disponitur ad hoc quod bene sequatur INSTINCTUM Spiritus Sancti (S, Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 3). Cum dona sint ad operandum SUPRA HUMANUM MODUM, oportet quod donorum operationes mensurentes ex altéra régula quam sit régula humanæ virtutis, quæ est ipsa Divinitas participata suo modo. (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1, a. 3). – Per mettere questa verità in tutta la sua luce, non sarà fuori luogo ricordarci che possiamo distinguere una triplice mozione divina: la prima, proporzionata alla natura, e data in vista delle operazioni naturali; è la mozione con cui Dio opera in qualsiasi agente naturale o libero, qua Deus operatur in omni operante, come prima causa, e di cui San Tommaso prova la necessità nella Summa Theologica (I p., q. 105, a. 5). La seconda, soprannaturale e proporzionata alla grazia, ci è concessa da Dio per farci compiere opere salutari; poiché, per quanto perfetta sia o si supponga essere una creatura, anche se possiede in grado eminente la grazia santificante e le virtù infuse, ella non è in grado di passare dalla potenza all’azione, se non in virtù della mozione divina, che qui non si distingue dalla grazia attuale: Nulla res creata potest in quemcumque ætum prodire, nisi virtute motionis divinæ (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – La terza ed ultima è una mozione molto speciale sotto l’influenza della quale l’uomo è più passivo che attivo, magis agitator quam agat, secondo questa parola dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi e attuati dallo Spirito Santo, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (Rom. VIII, 14) ». Su questo san Tommaso sottolinea che « essere mossi o attivati è come essere messo in moto da una sorta di istinto superiore: Illa enim agi dicuntur, quæ quodam superiori instinctu moventur. Così si dice di animali, non che non agiscono da se stessi. Si dice quindi che gli animali agiscano, non come se agissero con il proprio movimento, ma spinti dall’istinto della natura: Unde de brutis dicimus quod non agunt, sed aguntur, quia a natura moventur, e non ex proprio motu, ad suas actiones agendas. Ora, qualcosa di simile accade nell’uomo spirituale che è inclinato a certi atti non dal movimento del suo libero arbitrio, ma principalmente dallo Spirito Santo: Similiter autem homo spiritualis non quasi ex motu propriæ voluntatis principaliter, sed ex instinctu Spiritus Sancii inclinatur ad aliquid. » (S. Th., in Rom. VIII, 14, lect. 3). E per non abusare del paragone che ha appena fatto, l’angelico Dottore si affretta ad aggiungere che questo impulso dello Spirito Santo non esclude in alcun modo la spontaneità, o addirittura la libertà delle loro azioni, nei giusti, ma è l’indicazione che il movimento stesso della loro volontà e del libero arbitrio è causato dallo Spirito Santo, seguendo questa parola dell’Apostolo: « è Dio che opera in noi il volere ed il compierlo. – Non tamen per hoc excluditur quin viri viri spirituales per voluntatem et liberum arbitrium operentur, quia ipsum motum voluntatis et liberi arbitrii Spiritus Sanctus in eis causat, secundum illud Philip, II, 13; Deus est qui operatur in nobis velle et perficere (Ibid.). Il primo tipo di moto divino attiva le nostre forze naturali, sia da sole, sia perfezionate dalle virtù acquisite, e con esse diventa il principio degli atti moralmente buoni. Il secondo mette in pratica le virtù infuse, e ci fa compiere atti soprannaturali, almeno quelli in cui è conservato il nostro modo naturale di agire. Quanto al terzo, è specifico dei doni, ed è sempre un impulso speciale avente come termine opere sovreminenti in qualche ambito, cum donum elevet ad operationem quæ est supra humanum modum (S. Th., m Sent., dîst. XXXIV, q. 1, a. 2), opere in cui l’anima umana opera come strumento dello Spirito Santo, ed è quindi più passiva che attiva: In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sedmagis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). – Nei primi due casi, il moto divino si nasconde dietro le nostre facoltà, che fa sì che vengano esercitate nel rispetto del loro normale gioco. Secondo la felice espressione di Papa Pio VI nella bolla Auctorem fidei, ci fa compiere gli atti ai quali ci siamo determinati liberamente: facit ut faciàmus (Bulla Auctorem fidei, Prop. 21). È il moto ordinario e comune sotto l’influenza del quale si compiono gli atti emanati dalle virtù.  – Molto diversa è la mozione specifica per i doni. Questa, infatti, impedisce le nostre deliberazioni, anticipa i nostri giudizi, e ci porta in un modo quasi istintivo ad opere che non avevamo pensato e che possiamo veramente chiamare sovrumane, sia perché superano le nostre forze, sia perché avvengono al di fuori del modo e dei processi ordinari della natura e della grazia. È l’impulso che viene da Dio come Agente superiore, sicut a quadam superiori potentia, (S. Th., I* II”, q. LXVIII, a. 4) e che, per essere ben accolto, richiede disposizioni molto particolari. Infatti, è comprensibile che, per preparare l’anima a seguire prontamente questi straordinari impulsi per mezzo dei quali lo Spirito Santo spinge le anime ad atti che sono principalmente sotto il suo controllo e che avvengono al di fuori delle regole comuni, sono qui necessarie particolari perfezioni, superiori alle virtù, altiores perfectiones (Idem a. 1), i doni, in una parola. Il mobile non dovrebbe essere in relazione armoniosa con il suo motore? Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (Idem a. 8). Ma quando si tratta di opere ordinarie e comuni, alle quali l’uomo si dedica da se stesso, con il proprio movimento, come non ammettere con san Tommaso che la stessa abitudine che inclina la volontà a seguire l’impulso della retta ragione lo disponga ugualmente a ricevere il moto divino: ad esempio, che la stessa virtù della fortezza o della temperanza che ammorbidisce la nostra volontà al giogo e all’impero della ragione, la renda allo stesso tempo docile al moto divino, inclinandolo a compiere le sue azioni nelle circostanze ordinarie della vita? – Non è forse l’essenza stessa dell’habitus operativo ad avere il potere che esso perfeziona nell’atto, in modo che dipenda dalla volontà usarne a piacimento, secondo le parole di San Tommaso: Habitus est quo quo quis utitur cum valuerit? (S. Th., Ia IIæ, q. L, a. 5). Inoltre, chiunque abbia una buona abitudine, non solo il giusto in cui si trovano i doni dello Spirito Santo con le virtù infuse, ma lo stesso peccatore, o almeno quello  che abbia conservato la fede e la speranza, può compiere gli atti quando lo giudica opportuno, e in modo connaturale, anche in assenza dei doni. – Se fosse altrimenti, se dovesse preparasi l’anima giusta a ricevere fedelmente la mozione divina in tutto ciò che è soprannaturale e a cui i doni sono ordinati, non vediamo perché non ci dovrebbero essere, nell’ordine puramente naturale, delle perfezioni simili ai doni dello Spirito Santo, e destinate a renderci docili al moto divino, così come vi sono virtù acquisite che dispongono della facoltà di obbedire alla ragione; perché infine, nell’ordine della natura come in quello della grazia, obbediamo ad un doppio motore: la ragione e Dio. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, nessuno ha mai parlato di questo tipo di perfezioni.  – Concludiamo quindi che: Dio ci muove sia con le virtù che con i doni, ma in modi diversi: in modo conforme alla nostra natura mediante le virtù, in un modo superiore attraverso i doni: Virtutes perficiunt ad actus modo humano, sed dona ultra humanum modum. (S. Th., III Sent, dist. XXXIV, q. 1, a. 1). Finché si tratta di operare il bene in modo umano, secondo le procedure ordinarie e le regole della natura e della grazia, non è richiesta l’azione dei doni e le virtù sono sufficienti: le virtù acquisite, se si tratta di un’opera moralmente buona nell’ordine naturale; le virtù cristiane o infuse, se si tratta di un atto salutare. È solo nei casi in cui l’uomo debba comportarsi in modo superiore al modo ordinario, praticare la virtù in misura eroica o in circostanze particolarmente difficili; o quando si tratti di corrispondere come strumento libero ma docile a qualcuno di quegli impulsi insoliti che vengono da Dio come agente superiore, secondum quod movetur homo ab altiori principio, (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 1) che i doni diventano necessari ed entrano in esercizio.  Una comparazione  completerà il nostro pensiero. Se un Lacordaire o un Montalembert, diventando maestri di scuola, si abbassano al punto di insegnare ai bambini l’a, b, c, sarà necessario che abbiano ricevuto una preparazione speciale per poter seguire le loro lezioni? No, per niente. Non appena questi illustri maestri, molto al di sopra di un normale pedagogo, si limitano ad insegnare le basi della lingua, tutti possono capirle. Sarebbe diverso se, invece di dare al loro giovane pubblico un’istruzione elementare, questi grandi oratori pretendessero di far loro conoscere tutti i segreti dell’eloquenza!

VI.

Se questo è il ruolo dei doni, se il loro scopo proprio e speciale è quello di prepararci a seguire obbedientemente le ispirazioni divine, gli impulsi speciali e straordinari dello Spirito Santo nelle cose dove il moto della ragione è insufficiente, come possiamo affermare che sono necessari alla salvezza? Come possiamo dimostrare che i fedeli, la cui vita si muove nell’orbita di una virtù comune, abbiano davvero bisogno dei doni per raggiungere il loro ultimo fine? Sembra che, con le virtù teologali che le dispongono bene in relazione alle cose divine, con le virtù morali infuse che producono un effetto simile in relazione alle cose umane, possiedano già tutto ciò che è necessario per ottenere la salvezza. Conoscono il termine a cui indirizzare la loro vita, possiedono le forze soprannaturali per lottare per esso, di cosa hanno bisogno di più? Il moto speciale e la direzione di colui di cui il Salmista ha parlato quando ha detto: « Il tuo Spirito che è buono, o Signore, mi condurrà nella terra della vera giustizia » (Ps. CXLII, 10). Infatti, nessuno può raggiungere l’eredità della patria celeste se non sia diretto e guidato dallo Spirito Santo: Quia scilicet in hæreditatem illius terras beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto (S. Th., Ia. IIæ, q. XLVIII, a. 2). – Se l’uomo non avesse altro fine che quello che risponde alle esigenze della sua natura, potrebbe, con le sue energie nativee e l’aiuto ordinario che la Provvidenza non rifiuta mai di dare alle cause seconde per l’esercizio della loro attività, andrebbe da solo verso il termine del suo destino. Se, però, Dio si degna di venire ancora in suo aiuto con una mozione ed un impulso speciale, per especialem instinctum, sarebbe l’effetto di una bontà veramente sovrabbondante che va volentieri oltre il necessario, e non è il segno di un bisogno a cui sia indispensabile provvedere: Si tamen etiam in hoc homo adjuvetur a Deo per specialem instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis (Idem). Ma perché è piaciuto a Dio chiamarci ad un fine che supera assolutamente le forze e le esigenze della natura, e poiché la ragione stessa, pur perfezionata dalla fede e dalle altre virtù teologali, non è in grado di condurci a questo felice termine, abbiamo bisogno della direzione di una guida più illuminata, dell’aiuto di un motore più potente, e di conseguenza dei doni divini che hanno precisamente come loro scopo il renderci flessibili e docili alle ispirazioni dall’alto: Sed in ordine ad finem ultimum supernaturalem….. non sufficit ipsa motio rathonis, nisi adsit instinctus et motio Spiritus Sancti….. E ideo ad illum finem consequendum necessariun est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia. IIæ, q. LXVIII, a. 2). Da dove viene questa impotenza della ragione? Il difettoso possesso delle virtù teologali che caratterizza lo stato del cammino, e l’insufficienza delle virtù morali per resistere in ogni caso agli attacchi talvolta così improvvisi e così vivaci del demone, del mondo e della carne.  – Chiunque, infatti – nota san Tommaso – possiede perfettamente una natura, una forma, una virtù, insomma un principio qualunque di operazione, può, con la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente naturale o libero, agire da solo in questo ambito; ma chi possiede solo imperfettamente una fonte di attività non gli è bastante questa per agire, ma ha bisogno di aiuto estraneo, di una direzione, di una mozione speciale. (S. Th., Ia Iæ, q. LXVIII, a. 2). Così uno studente di medicina, un interno degli ospedali, non ancora pienamente istruito, non si avventura, se è prudente, ad intraprendere da solo e senza l’assistenza del suo maestro, un’operazione delicata che potrebbe portare a gravi conseguenze, mentre un medico o chirurgo incaricato, una volta che ha pienamente posseduto la sua arte, può operare da solo, anche, senza bisogno di direzione o assistenza (Ibid). Il capitano di una nave, che viaggia in ambienti sconosciuti, non si avventura nell’entrare da solo in un porto di difficile e pericoloso accesso, ma porta a bordo un pilota esperto che ha familiarità con i passi che conducono alla rada. Tuttavia, questa è proprio la condizione attuale dell’uomo in relazione al suo fine ultimo soprannaturale. Avendo solo allo stato imperfetto i principi delle operazioni soprannaturali, cioè le virtù cristiane, e in particolare le tre virtù teologali – perché è solo imperfettamente che conosciamo e amiamo Dio – è impossibile raggiungere il porto della salvezza senza un aiuto speciale, senza un particolare impulso ed un aiuto dello Spirito Santo.. In ordine ad finem ultimum supernaturalem…., non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit istinctus et motio Spiritus Sancti…..; quia scilicet in hæreditatem illius terræ beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto.. E poiché è necessario questo speciale impulso divino, sono necessari di conseguenza i doni che dispongono a riceverlo. Et ideo ad illum finem consequendum necessarium est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2) – Non è che, anche nell’ordine della  Grazia, l’uomo non sia in grado di agire da solo e con il proprio movimento in qualsiasi incontro. Essendo informato, anche se in modo difettoso, dalle virtù teologali, la sua ragione può benissimo, è vero, permettergli di compiere, con l’aiuto ordinario della grazia, più di un atto salutare; essa può cominciare a portarla sulle sponde eterne; ma perché non è in suo potere né il sapere tutto ciò che sia importante sapere, né di compiere tutto ciò che sarebbe utile o necessario fare (Ibid. ad 3); perché essa non possiede, nelle virtù acquisite o infuse, se non solo un insufficiente rimedio contro l’ignoranza, l’ottusità, la durezza del cuore e le altre miserie della nostra natura, non è in grado di superare efficacemente tutti gli ostacoli, di superare tutte le difficoltà che possano sorgere, e di condurci definitivamente in cielo senza una speciale assistenza, e quindi senza i doni dello Spirito Santo.  – Quante volte, nel corso della sua vita, un Cristiano si trova di fronte a certe gravi evenienze, ad importanti risoluzioni da prendere, ad una scelta di vita da fare, ai comportamenti da seguire in questo o in quel caso, senza poter sapere esattamente cosa sia opportuno per la sua eternità! È quindi necessario che Colui che sa tutto e può fare tutto si incarichi Egli stesso di guidarci e proteggerci (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – Inoltre, la salvezza a volte richiede delle opere difficili. Sia un funzionario che non può compiere i suoi doveri religiosi senza essere visto male dai suoi capi e senza esporsi nell’incorrere in loro disgrazia. Se fosse solo, affronterebbe il pericolo con maggior coraggio; ma è sostegno di famiglia, e la sua funzione è la sua unica risorsa. Siano coniugi che, per non lasciarsi trascinare dalla corrente che ne trasporta tanti altri, hanno bisogno di un’energia insolita per essere fedeli fino alla fine dei gravi doveri che impone il matrimonio. Anche supponendo che questi Cristiani posseggano con la grazia, l’uno la virtù della fortezza, gli altri la castità coniugale, spesso la loro virtù è debole e la loro forza vacillante. Dove trovare l’aiuto speciale, l’energia extra, necessaria in tali circostanze critiche, se non nella preghiera incessante e nei doni dello Spirito Santo? Infatti, il dono della fortezza è lì per perfezionare la virtù che porta il suo nome; e quello del timore arriverà molto opportuno in aiuto della castità coniugale per facilitare il suo trionfo ispirando agli sposi un santo orrore del peccato. Per questo San Tommaso ci dice – seguendo le orme di San Gregorio Magno – che i doni sono conferiti per aiutare le virtù, in adjutorium virtutum (S. Th., in Is. XI, 2). Pur essendo inferiori per eccellenza alle virtù teologali che ci uniscono direttamente a Dio, i doni danno loro comunque un utile contributo: Sono soprattutto i preziosi ausiliari delle virtù morali, di cui perfezionano l’azione, supplendo anche al bisogno alla loro impotenza: Dona dantur in adjutorium virtutum contra defectus; e sic videtur quod perficiant illud quod virtutes perficere non possunt (S. Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 8, arg. Sed contra). – La prudenza riceve dal dono del consiglio le luci che le mancano; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, si perfeziona con il dono della pietà, che ci ispira sentimenti di tenerezza filiale per Dio e ci dona viscere di misericordia per i fratelli e le sorelle. Il dono della fortezza ci fa superare senza paura tutti gli ostacoli che potrebbero distoglierci dal bene, ci rafforza contro l’orrore delle difficoltà e ci ispira con il coraggio necessario per intraprendere i più difficili lavori. Infine, il dono del timore sostiene la virtù della temperanza contro i duri assalti della carne in rivolta. Un’azione più energica, degli sforzi più eroici nella pratica del bene, questi sono gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Attraverso di loro, l’anima che le virtù infuse avevano già portata in possesso della comune santità e resa capace di compiere le opere ordinarie della vita cristiana, sale facilmente alle vette più elevate della perfezione. Da qui le parole dell’angelico Dottore: « I doni perfezionano le virtù elevandole al di sopra del modo umano: Dona perficiunt virtutes, elevando eas supra modum humanum (S. Th., De charit., q. unie., a. 2. ad 17). – Così i maestri della vita spirituale li hanno paragonati alle ali dell’uccello o alle vele della nave. L’uccello vola più veloce di quanto cammini; e mentre la nave, con semplici remi avanza solo con difficoltà e lentezza, quella per cui il vento gonfia le vele o il cui vapore fende i flutti, corre veloce sulle onde. – Quello che emerge dalle spiegazioni precedenti, e quello che ne consegue, ci sembra, con la chiarezza dell’evidenza, che i doni dello Spirito Santo siano veramente necessari laddove il moto stesso della ragione, perfezionato dalle virtù infuse, sia insufficiente, e serva uno speciale impulso divino. Ora, il fatto è che, anche con l’appoggio delle virtù cristiane, la ragione umana non è in grado di condurci efficacemente al nostro ultimo fine e di superare tutti gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino, se non sia aiutata, salvata, assistita da una particolare ispirazione dall’alto, da una sorta di istinto superiore dello Spirito Santo, quodam superiori instinctu Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 2).Abbiamo quindi bisogno di questo speciale impulso divino, e conseguentemente dei doni, non costantemente, ma di tanto in tanto nel corso della nostra esistenza, più o meno spesso secondo le difficoltà che sorgono, gli atti eminenti che devono essere compiuti, il grado di perfezione a cui siamo chiamati, e anche secondo il buon piacere di Colui che, padrone dei suoi doni, li distribuisce a suo piacimento. Non c’è tempo nella vita, nessuno stato, nessuna condizione umana che possa fare a meno dei doni e della loro influenza divina. -Tuttavia, non sono necessari per tutti e per ogni atto soprannaturale, ma solo per le opere emanate dai giusti sotto la guida dello Spirito Santo, e nelle quali l’uomo è più passivo che attivo. In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sed magis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). È con questa restrizione che dobbiamo sempre comprendere la risposta di San Tommaso alla seguente obiezione contro la necessità dei doni: Sembra che con le virtù teologali e morali l’uomo sia sufficientemente preparato per raggiungere la salvezza, anche senza i doni. A cui il Santo Dottore risponde: « Le virtù teologali e morali non perfezionano l’uomo talmente tanto rispetto all’ultimo fine, che ancora non abbiano bisogno di essere mosse da un istinto superiore dello Spirito Santo: Per virtutes theologicas et morales non ita perficitur homo in ordine ad ultimum finem, quin SEMPER indigeat moveri quodam superiori istintu Spiritus Sancti, ratione jam dicta in corpore articuli (S. Th., Ia IIæq. LXVIII, a. 2 ad 2).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/17/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-15/

SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE…IN CONSILIO” (CX)

SALMO 110: CINFITEBOR TIBI DOMINE, … in consilio”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878 IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 110

Alleluja.

 [1] Confitebor tibi, Domine

in toto corde meo, …

in consilio justorum,

et congregatione.

[2] Magna opera Domini, exquisita in omnes voluntates ejus.

[3] Confessio et magnificentia opus ejus; et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Memoriam fecit mirabilium suorum, misericors et miserator Dominus.

[5] Escam dedit timentibus se; memor erit in saeculum testamenti sui.

[6] Virtutem operum suorum annuntiabit populo suo,

[7] ut det illis hæreditatem gentium. Opera manuum ejus veritas et judicium;

[8] fidelia omnia mandata ejus, confirmata in saeculum sæculi, facta in veritate et æquitate.

[9] Redemptionem misit populo suo; mandavit in æternum testamentum suum. Sanctum et terribile nomen ejus.

[10] Initium sapientiæ timor Domini; intellectus bonus omnibus facientibus eum, laudatio ejus manet in sæculum sæculi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CX.

Lode di Dio per le sue opere. Questo Salmo ha versetti quante sono le lettere alfabetiche ebraiche. Ma i LXX lo ridussero a soli dieci versetti, mirando più alla somiglianza degli altri Salmi che alle lettere.

Alleluja: Lodate Dio.

1. A te darò laude, o Signore, con tutto il cuor mio, nel consesso de’ giusti e nell’adunanza.

2. Grandi sono le opere del Signore; appropriate a tutte le sue volontà.

3. Gloria e magnificenza sono le opere di lui; e la sua giustizia è stabile per tutti i secoli.

4. Ha lasciata memoria di sue meraviglie il Signore, che è benigno e misericordioso; ha dato un cibo a quei che lo temono.

5. Ei sarà memore eternamente di sua alleanza, le opere di sua possanza rivelerà al suo popolo;

6. A’ quali darà l’eredità delle genti: le opere delle sue mani son verità e giustizia.

7. Fedeli tutti i comandamenti di lui; confermati per tutti i secoli, fondali nella verità e nell’equità.

8. Ha mandata la redenzione al suo popolo; ha stabilito per l’eternità il suo testamento.

9. Santo e terribile il nome di lui; principio della sapienza il timor del Signore.

10. Buono intelletto hanno tutti quelli che agiscono con questo timore: sarà egli laudato pe’ secoli de’ secoli.

Sommario analitico

Questo Salmo, è un cantico di lode a Dio a causa delle sue opere e dei suoi benefici generali che effonde sulla sua Chiesa, benefici figurati da quelli che ha effuso sui Giudei (1).

(1) Questo salmo è nel numero dei dodici che iniziano con Alleluja (Ps. CIV, CV, CVI, CX, CXI, CXII, CXIII, CXIV, CXV, CXVI, CXVII, CXVIII), come i cinque che finivano con questo canto di lode. Di questi salmi, ce ne sono cinque che gli ebrei chiamavano i “grandi alleluja“. Venivano cantati in tutte le feste, ma soprattutto nelle grandi solennità di Pasqua e dei Tabernacoli: i salmi CXIII e CXIV si cantavano prima della cena pasquale, ed i seguenti CXV, CXVIII, dopo i pasti. Talvolta si cantavano prima i salmi CX e CXII (Rosen-Muller). 

I. – Il profeta esprime la risoluzione di lodare e ringraziare Dio:

1° Segretamente nel suo cuore;

2° Nella riunione privata dei giusti;

3° Nelle assemblee pubbliche (1)

II. – Egli ne dà per motivo le opere di Dio:

1° Le opere di Dio in generale: – a) esse sono grandi e conformi alle volontà divine (2); – b) esse rendono pubbliche la sua magnificenza e la sua gloria (3).

2° Le sue opere particolari: – a) la manna e l’Eucarestia della quale essa era la figura, il ricordo della sua alleanza con il suo popolo (4, 5). – b) la potenza che ha fatto brillare per mettere i Giudei ed i Cristiani in possesso dell’eredità che ha loro promesso (6, 7); – c) le leggi della natura e della grazia, che Egli ha fatto immutabili e fondate sulla giustizia e sull’equità (8); – d) l’alleanza eterna che ha concluso con il suo popolo, e dei quali il Profeta sottolinea gli effetti. Egli ha inviato la redenzione, etc. (9).

III. Egli indica le disposizioni necessarie per entrare nell’alleanza di Dio:

Il timore di Dio, inizio della sapienza, che bisogna utilizzare e perfezionare con le opere (10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.

ff. 1. – « Io vi loderò, vi renderò grazie. » Tutta la vita del Re-Profeta è passata nel compimento di questi pii doveri; è là che comincia, ed è là che finisce. Tutto il suo soggetto, tutta la sua opera, è stata rendere grazie a Dio, tanto per i benefici che avevano ricevuto, che per le grazie accordate agli altri uomini. (S. Chrys.). –  Quanto questo dovere è oggi dimenticato: l’egoismo si è impadronito del sentimento religioso stesso! Il Cristiano dei nostri giorni chiede ancora solo ciò che gli possa essere utile, cerca i propri interessi; ma il fare tutto per la gloria di Dio – come San Paolo ci raccomanda – celebrare il suo Nome, rendere pubbliche le sue grandezze, le sue perfezioni infinite, tutta questa parte essenziale del culto e della virtù di Religione, è miseramente negletta tra noi o non la comprende più (Mgr. Pichenot, Ps. Du D. p. 116). –  « Con tutto il mio cuore », con tutto l’ardore di cui sono capace, con uno spirito avulso da tutte le preoccupazioni della vita, con un’anima elevata nelle alte regioni che toccano a Dio e staccata dai legami del corpo. Questo non solo con la bocca ed a parole, ma in spirito e cuore (S. Chrys.). – Dio è spirito, ed è in spirito e verità che bisogna adorarlo, lodarlo e pregarlo. A che servirebbe il brusio delle labbra, l’elevazione delle mani, se il cuore resta muto? (S. Agost.). – Nell’anima vi sono più facoltà: lo spirito, la memoria, l’immaginazione, devono essere impiegati al servizio di Colui che ci ha dato tutto; ma è il cuore soprattutto con cui dobbiamo contribuire. L’essenza del culto di Dio, è l’amore e l’assenza della preghiera è soprattutto un atto di volontà, un grido del cuore. – Chi dice “con tutto il cuore”, esclude l’indifferenza, la distrazione, la tiepidezza, e soprattutto le passioni che lo tiranneggiano. (Berthier). – Lodare Dio con tutto il suo cuore, lodarlo in compagnia dei giusti, sia nelle riunioni particolari, ove un piccolo numero di anime pie e ferventi si radunano, si intendono, aprono il loro cuore l’uno all’altro, sia nelle riunioni più numerose e più solenni, come gli esercii pubblici del culto, le feste della parrocchia, le grandi assemblee del popolo cristiano.

II. – 2-9

ff. 2, 3. – Ci sono coloro che rendono grazie a Dio quando sono felici, ma se viene a toccarli il malore, essi lo sopportano appena. Taluni giungono anche a colpevolizzare la Provvidenza negli avvenimento che essa permette. Il Re-Profeta rivela qui il doppio carattere delle opere di Dio in generale: la grandezza dello splendore, l’appropriazione e l’armonia che li distinguono. Egli ci fa qui – ci dice – come un giudice integro, un’assemblea incorruttibile, e si riconoscerà allorché le opere di Dio sono grandi e piene delle più strabilianti meraviglie. La loro grandezza attiene alla loro natura, ma questa grandezza, non appare che agli occhi di un giudice equo. (S. Chrys.). – Grandezza vi è nelle opere della natura, ma grandezza una ancora più ammirevole nelle opere della grazia, della redenzione. – Quanto le opere degli uomini sono piccole e meschine in paragone delle opere di Dio, piccole nell’oggetto che si propongono, piccole nella mobilità che le fa loro intraprendere, piccole nei mezzi che si impiegano, piccole nel fine che vogliono raggiungere, fine questo che ancora sfugge loro il più spesso, malgrado gli sforzi della loro volontà. Le opere di Dio, al contrario, sono grandi e conformi a tutte le sue volontà. Esse sono preparate, disposte con una perfezione che non lascia nulla a desiderare. Esse sono anche conformi alla volontà di Dio, proclamano altamente la sua potenza, e concorrono con un accordo mirabile al compimento degli ordini divini, come il Re-Profeta fa pertanto notare. Esse hanno una missione da compiere possedendo i mezzi e le risorse in sintonia con i disegni del Creatore. Non soltanto tutte le creature eseguono gli ordini di Dio conformemente al fine che si è proposto, creandole, ma obbediscono con una docilità perfetta agli ordini particolari che sono conformi a questo fine. Esse sono disposte in una perfetta sintonia con tutte le sue volontà, con tutti i suoi precetti, con tutti i suoi comandamenti. Ma questo non è il solo fine che si è proposto: Egli vuole essere soprattutto conosciuto dagli uomini; è là la sua volontà primaria e la causa principale della creazione (S. Chrys.). – Fine ultimo di tutte le opere del Creatore è la gloria di Dio e la salvezza delle anime, o meglio ancora – come dice Tertulliano – che così riconduce tutto all’unità: la gloria di Dio per la salvezza delle anime. « Honor Dei salus animarum. » – Che l’uomo faccia tale scelta come gli piacerà tra la giustizia e l’empietà: le opere del Signore sono stabilite in modo tale che la creatura, benché in possesso nel suo libero arbitrio, non possa trionfare della volontà del Creatore, anche quando si tratta di agire contro questa volontà. Dio non vuole che voi pecchiate, perché ve lo proibisce; tuttavia se avete peccato non crediate che l’uomo abbia fatto ciò che ha voluto, e che Dio  abbia sofferto ciò che non ha voluto soffrire; perché anche se Dio vuole che l’uomo non pecchi, Dio ugualmente vuole risparmiarlo quando pecca, affinché ritorni e viva; ugualmente infine Dio vuol punire colui che ha perseverato nel peccato, affinché il colpevole non possa sottrarsi alla potenza della sua giustizia. Così, qualunque cosa facciate, l’Onnipotente non mancherà di mezzi per compiere in voi la sua volontà, perché « le opere di Dio sono grandi e proporzionate a tutte le sue volontà. » – « Le sue opere manifestano le sue lodi e la sua gloria. » In effetti, ciascuna delle opere che vediamo sono sufficienti per eccitare nella nostra anima dei sentimenti di riconoscenza, ed il desiderio di lodare, benedire, glorificare Dio. Noi non abbiamo da dire: Perché questo? Per qual bene questo? Le tenebre come la luce, la fame come l’abbondanza, il deserto, i paesi disabitati come le terre fertili e coperte da ricche messi, la vita come la morte, in una parola, tutto ciò che vediamo, tutto ci porta a rendere a Dio delle azioni di grazie (S. Chrys.). – « La confessione e la magnificenza sono l’opera di Dio. » Cosa di più magnifico che giustificare l’empio? Ma forse l’opera dell’uomo oltrepassa la magnificenza dell’opera di Dio, di modo che merita con la confessione dei suoi peccati, di essere giustificato. In effetti, il pubblicano è disceso dal tempio giustificato e non il fariseo, e non osando levare gli occhi al cielo, si batteva il petto dicendo: « O Dio, siate clemente con me che sono un peccatore. »  Ora la magnificenza del Signore è la giustificazione del peccatore; perché colui che si abbassa sarà elevato, e chi si eleva sarà abbassato. (S. Luc. XVIII, 13, 14). La magnificenza del Signore è quella che a chi è stato perdonato di più, di più ama; (ibid. VII, 42-48); la magnificenza del Signore è che se il peccato è stato abbondante, la grazia è stata sovrabbondante (Rom. VI, 20). Ma è là il frutto delle nostre opere? No, dice l’Apostolo, « perché la grazia non viene dalle opere, affinché nessuno si glorifichi; perché noi siamo l’opera di Dio, essendo stati creati nel Cristo per le buone opere. » (Efes. II, 9-10). – In effetti, « … a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia » (Rom. IV, 5), e si comincia dalla fede, affinché le sue buone opere non abbiano preceduto la sua giustificazione, ma avendole seguita, mostrino non ciò che egli ha meritato, ma ciò che ha ricevuto. Perché dunque questa confessione? In verità essa non è ancora un’opera di giustizia; tuttavia essa è una disapprovazione del peccato; ma qualunque cosa sia, o uomo, non vi glorificate, « affinché chiunque sii glorificherà, si glorifichi nel Signore. » (1 Cor., I, 33).  Non è dunque solamente la magnificenza con la quale è giustificato l’empio, ma la confessione e la magnificenza che sono l’opera di Dio (S. Agost.) [Sant’Agostino dà evidentemente alla parola “confessione” un senso diverso da quello che gli danno la maggior parte degli interpreti, ma la dottrina che egli appoggia sul senso che ha scelto non è meno piena di solidità e verità]. – La Provvidenza di Dio è sì attenta, sì paterna e sì dolce, che per noi è almeno un motivo di riconoscenza, un soggetto di benedizione come la stessa lode, ed un inno sostanziale e pieno di gratitudine ed amore. –  Non soltanto Dio manifesta la sua bontà e provoca le nostre lodi alla condotta della sua Provvidenza quaggiù, ma vi fa splendere la sua gloria e brillare la sua grandezza e maestà. Noi vediamo d’altra parte, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, nella condotta di Dio verso tutte le creature, nella sua condotta sulla sua Chiesa attraverso i secoli, nel mistero incessantemente rinnovato della grazia e della giustificazione, un’abbondanza, una ricchezza, una pienezza, una magnificenza mirabile. – Un terzo ed ultimo carattere quaggiù, è la giustizia e l’equità dalla quale non si disgiunge mai, malgrado il disordine apparente delle cose umane. La giustizia di Dio avrà il suo corso. Dio è paziente, perché è eterno; prima o tardi Egli renderà a ciascuno secondo le sue pere.

ff. 4, 5. –  « Il Signore ha perpetuato il ricordo delle sue meraviglie », vale a dire Egli non ha mai cessato di fare dei miracoli, non ha mai interrotto di generazione in generazione il corso dei suoi prodigi per risvegliare con questo spettacolo straordinario gli spiriti più grossolani. Uno spirito elevato ed applicato allo studio della saggezza, non ha bisogno di miracoli; ma Dio, la cui Provvidenza si estende non solo su questi ultimi, ma anche su coloro il cui spirito è meno aperto, non ha cessato di operare dei prodigi in ogni generazione (S. Chrys.). – Orbene, in un altro senso che non esclude il primo, Dio ha voluto immortalare, eternizzare il ricordo delle sue antiche meraviglie, con un toccante memoriale nel quale ha come riprodotto e oltrepassato tutti gli effetti della sua saggezza, della sua potenza e del suo amore. Per i Giudei questo fu la manna che per quaranta anni cadde dal cielo, e che lungo tempo dopo, eccitava ancora il trasporto e la riconoscenza del Re-Profeta … Per i Cristiani, è la Santa Eucarestia, della quale la manna era una figura, vero e toccante memoriale dell’amore infinito del Salvatore nel mistero della Redenzione: « fate questo in memoria di me » … Tutti coloro che come i protestanti, perdono il memoriale, perdono la memoria: essi mettono in oblio le verità sante, essi cessano di pensarvi, cessano ben presto di credervi; dalla fede cadono nel razionalismo, dal razionalismo nello scetticismo. – La Santa Eucarestia, è ancora memoriale, perché essa richiama e sorpassa da sola tutte le più grandi meraviglie che Dio abbia mai operato … essa è il memoriale e la continuazione della vita stessa e di tutti i misteri del Salvatore. – «Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza. Non c’è in effetti che l’immensa carità di Dio che abbia potuto impegnarsi a fare per noi sì grandi meraviglie, ed a rendere così la sua immolazione eterna (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – Cosa si è proposto soprattutto in questo? « Dare il nutrimento a coloro che lo temono. » Perché parlare qui di coloro che lo temono? Essi sono dunque i soli che Egli nutre? Non è detto nel Vangelo: « Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi? » (S. Matth. V, 45). Perché dunque dire qui: « a coloro che lo temono? » Il Re-Profeta parla qui, non del nutrimento del corpo, ma di quello dell’anima. Ecco perché Egli lo ha ristretto a coloro che temono Dio, perché è ad essi che è destinato (S. Chrys.). – Questi solo che temono Dio e lo servono con fedeltà, meritano di ricevere questo nutrimento. La condizione essenziale per partecipare a questa alimento celeste, è temere il Signore, perché il timore del Signore fa che si porti alla tavola di Gesù-Cristo una coscienza pura; perché questo timore stabilisce nell’anima il desiderio della povertà, delle sofferenze e delle umiliazioni; di conseguenza, essa ci mette nello stato in cui Gesù fu sulla terra (Berthier). – « Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza; Egli ha eternizzato la memoria delle sue meraviglie, ha dato il nutrimento a coloro che lo temono. » È nell’Eucarestia soprattutto che il Signore si mostra così pieno di misericordia e di tenerezza al nostro sguardo: – 1° come un uomo compatisce le miserie che ha provato per primo: « Il Pontefice che noi abbiamo, può compatire le nostre debolezze, perché Egli è stato provato come noi da ogni sorta di mali », (Ebr. IV, 15); – 2° Come un Dio verso la sua creatura: « Io sono come un olivo che si copre di frutti nella casa del Signore; io ho sperato nella misericordia di Dio per l’eternità » (Ps. LI, 8); – 3° Come un liberatore verso prigionieri dei quali rompe le catene; – 4° come un ricco verso un povero, al quale Egli dà in questo Sacramento, la rugiada del cielo e l’adipe della terra, grano e vino in abbondanza, (Gen. XXVII, 28); – 5° Come un pastore verso le sue pecore: « Il Buon Pastore ha fatto ciò che ha raccomandato, ha per primo eseguito ciò di cui ha fatto un precetto: Egli ha dato la sua vita per le sue pecore alfine di cambiare nel sacramento dell’Eucarestia il pane nel suo corpo ed il vino nel suo sangue, e nutrire così con l’alimento sostanziale della sua carne, le pecore che aveva riscattato. » (S. Greg. Homl. XIV in Ev.); – 6° come un padre nei riguardi di suo figlio: Colui che era il pane vero ed il latte perfetto del Padre si è dato lui stesso a noi, affinché fossimo nutriti dalla mammella della sua carne, ed essendo abituati da questo allattamento divino a mangiare e bere il Verbo di Dio, noi possiamo riceverlo e conservarlo dentro di noi (S. Iren., 1, IV, c. 74); 7° come l’anima rispetto al corpo: Gesù-Cristo è in questo sacramento l’anima della nostra anima, lo spirito della nostra bocca, (Lament., IV, 20); come il corpo è morto se non è vivificato dallo spirito, così la nostra anima è morta se Gesù-Cristo non conserva in essa la vita per mezzo di questo nutrimento celeste che Egli dà a coloro che lo temono, l’Eucarestia è veramente l’opera delle mani di Gesù-Cristo, che è ugualmente il Sacerdote e la vittima del Sacrificio dell’altare. – « Il Signore si ricorderà eternamente della sua alleanza. » Il salmista vuol combattere le orgogliose pretese dei Giudei e di tutte le anime superbe, e togliere tutti gli oggetti di vanagloria; o piuttosto Egli vuole loro mostrare che i benefici di cui Dio li ha colmati non sono dovuti ai loro propri meriti, ma all’affezione che Dio aveva per i loro padri, ed all’alleanza che aveva stabilito con essi. (S. Chrys.). – Il nostro Dio è un Dio che si ricorda, che sa tutto, al quale nulla sfugge, che ha sempre davanti agli occhi, in un solo e medesimo punto, il passato, il presente e l’avvenire … Egli si ricorda soprattutto della sua alleanza con noi, rispetta per sempre le condizioni del trattato; ciò che ha promesso, lo esegue; quando giudicherà la terra e si degnerà, per così dire, di regolare i suoi conti, l’avrà vinta sui suoi contraddittori, sarà giustificato da essi (Ps. L, 6).

ff. 6, 7. – « Egli annuncerà al suo popolo la potenza delle sue opere. » Il compimento dei disegni di Dio incontra sempre mille ostacoli, la contraddizione è il prezzo delle sue opere. Ciò che era stato promesso al popolo antico, gli era stato disputato da numerosi nemici: è stato necessario che Dio impiegasse incessantemente in suo favore la forza del suo braccio, e non è questa una figura imperfetta dei prodigi operati fin dall’Incarnazione per stabilire il regno di Dio, sostenere l’istituzione nascente della Chiesa, e decidere il mondo a credere dei misteri incomprensibili e abbracciare una morale scoraggiante per la natura … – Tutti i secoli cristiani hanno così fatto risuonare più o meno nel brusio delle meraviglie di Dio e pubblicato la sua gloria e le sue grandezze (Mgr. Pichenot, abrég.). – Perché questo dispiegamento continuo di forza e di potenza? « Per dare l’eredità delle nazioni al suo popolo, e qui, come dappertutto, la giustizia e la verità brillano nell’opera delle sue mani. Per il popolo giudeo, questa era il possesso della terra promessa che i figli di Cam consideravano loro proprietà e loro eredità; per i Cristiani, nel senso profetico, è la conversione di tutti i popoli al Cristianesimo, e l’intenzione nella quale era il Signore, di dare a Gesù-Cristo ed alla sua Chiesa, l’eredità delle nazioni. « Domandate, dice Dio a suo Figlio che ha generato, ed Io vi darò le nazioni per eredità e la terra per impero. » (Ps. II, 8). – Come gli ebrei trionfarono dei cananei e piantarono la loro tenda su questa terra conquistata, così i ministri della nuova alleanza estenderanno dappertutto l’impero della verità e della giustizia, perché tutte le nazioni sono state promesse in eredità. – Ora, perché Dio cacciò le Nazioni dalla terra che esse abitavano, alfine di darle ai Giudei? Egli lo fece per delle giuste ragioni. « Le opere delle sue mani sono verità e giustizia. » Queste parole non devono restringersi al popolo giudeo ed agli avvenimenti che gli sono propri, ma esse hanno un significato generale. – (S. Chrys.). – « La verità ed il giudizio sono le opere delle sue mani. » Conservino energicamente la verità coloro che sono giudicati quaggiù. I martiri sono giudicati quaggiù, essi sono condotti da Dio al tribunale, ove giudicheranno non solo coloro che li avranno giudicati, ma anche gli Angeli (1 Cor., VI, 3). Non si lascino separare dal Cristo né dalla tribolazione, né dalle angosce, né dalla fame, né dalla nudità, né dalla spada, (Rom. VIII, 35); « … perché tutti i suoi precetti sono fedeli. » Egli non inganna mai; Egli dà sempre ciò che ha promesso. Tuttavia non è quaggiù che dobbiamo attendere o sperare ciò che ha promesso; perché « … i suoi precetti sono stati confermati per i secoli dei secoli, stabiliti come sono sulla verità e la giustizia. » Ora è per la verità e la giustizia che noi soffriamo quaggiù, e ci riposeremo nel cielo. In effetti, « Egli ha inviato la redenzione al suo popolo, e da cosa il suo popolo è riscattato se non dalla cattività del suo viaggio quaggiù? Non c’è dunque riposo da cercare se non nella patria celeste (S. Agost.). – Perché, ad esempio, sotto la nuova legge, nel mondo della redenzione, una contrada è chiamata prima di un’altra? Perché questo popolo passa avanti a quest’altro? Quale cammino segue la fiaccola della fede, e come Dio trasporta il candelabro della rivelazione? È il segreto di Dio; a noi è sufficiente sapere che in Dio non c’è ingiustizia, né preferenza di persone; Egli fa bene tutte le cose, Egli ha le sue ragioni per agire così; esse sono sempre degne della sua saggezza e della sua misericordia. « Tutte le sue opere, qualsiasi esse siano, sono verità e giudizio, cioè giustizia. » (S. Chrys.; Mgr. Pichenot).

ff. 8, 9. – Il Re-Profeta, secondo il suo costume, passa dalla saggezza e dall’ordine che brilla nel dettaglio sì variato della creazione, alle leggi stesse della Provvidenza che comincia ad esporre. Ciò non è solo per lo spettacolo delle opere di questa creazione sì ricca e varia, ma è dando delle leggi agli uomini, che ha loro tracciato una sicura regola di condotta; è così che nel salmo XVIII, egli riunisce queste due cose, che sembrano pertanto non aver tra loro alcun rapporto. (S. Chrys.). – Tre sono i grandi caratteri delle leggi di Dio: esse sono fedeli, cioè non ingannano nessuno; sono stabili e permanenti, perché devono durare per sempre; sono fondate sulla verità e la giustizia, perché hanno per autore Dio stesso, che è la verità e l’equità essenziale. (Berthier). – Il Re-Profeta, comprende qui tutte le leggi di Dio, le leggi della creazione, che reggono gli esseri inanimati ed ai quali questi esseri inferiori si sforzano di obbedire; ma soprattutto, ed è di queste leggi che parla il profeta, le leggi fatte per l’uomo, la legge naturale, la legge scritta sulle due tavole, e la legge del Vangelo. – Ora: 1° Queste leggi sono fedeli, non ingannano mai; tutto ciò che esse promettono viene eseguito, la loro sanzione è inevitabile; le ricompense offerte a coloro che le osservano sono assicurate, così come i castighi di cui minacciano i colpevoli. – 2° Queste leggi sono stabili e affermate per sempre. La legge naturale non cambia, i suoi principi sono fissi ed invariabili, fondati sulla costituzione dell’uomo e sulla natura stessa delle cose. I precetti del decalogo non sono mai più abrogati. Cosa bisogna fare per ereditare la vita eterna … si domanda a nostro Signore? « Se volete giungere alla vita, osservate i Comandamenti. » E quali? Quelli che il decalogo enumera. Il Vangelo è vero oggi come lo era ai tempi degli Apostoli. Invano si tenta, dopo milleottocento anni di alterarli, di sminuirli, di mandarli in frantumi; gli eretici, i filosofi ed i cattivi Cristiani vi hanno perso il loro tempo; essi non hanno potuto cancellare il più piccolo iota, questi sussistono nella loro interezza, immutabili e fondati per tutti i secoli; i tempi ed i luoghi non vi mutano nulla, e mentre vediamo i trattati pretesi immutabili, le costituzioni più sapientemente elaborate cadere e sparire al soffio delle rivoluzioni e dei tempi, il Vangelo resta; il suo regno non avrà mai fine, perché Gesù-Cristo: “era ieri, oggi e sarà nei secoli”. – 3° Queste leggi sono fondate “sulla verità”, su ciò che è, sulla conoscenza esatta e precisa di Dio e dell’uomo, sui rapporti necessari che esistono tra di essi; « sulla giustizia », cioè su ciò che deve essere; perché gli obblighi che Dio ci impone scaturiscono dall’essenza e dalla natura stessa delle cose; non c’è nulla di arbitrario, nulla di inutile … Così qui possiamo notare, con gli interpreti, tutto ciò che entra nella definizione di una legge verace: la volontà formale di colui che stabilisce  le leggi, ed ha diritto di stabilirle, « omnia mandata ejus »; la sanzione che è conferma, “fidelia”; la stabilità che le distingue, « confirmata in sæculum sæculi »; la verità e la giustizia che servono loro come base, « facta in veritate ed æquitate. » (Mgr. Pichenot). –Tre sono le grandi opere di Dio per rapportarci a noi: l’opera della creazione, l’opera della redenzione e l’opera della santificazione. Il Profeta già celebra nel salmo il Dio Creatore, le cui opere sono così grandi e sì ben proporzionate alle sue vedute, di cui la Provvidenza è sì paterna e giusta, di cui le leggi infine riposano tutte sulla ragione e sull’equità; qui, egli canta il Dio Redentore. –  Il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » Nel senso storico, il Re-Profeta vuol parlare della libertà resa ai Giudei; nel senso figurato e profetico, si tratta della liberazione del mondo intero, come vediamo nelle parole seguenti: « Egli ha concluso con lui una alleanza eterna. » Ed è qui questione della Nuova Alleanza: il Profeta ha parlato dell’antica legge e dei suoi precetti, ma siccome essa non è stata osservata e non ha fatto che provocare la collera di Dio, egli aggiunge: « … il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » (S. Chrys.). Bontà infinita di Dio è l’aver inviato agli uomini un Salvatore, un Redentore, per metterli in condizioni di compiere i suoi precetti con l’infusione del suo Spirito e della sua grazia. « Il Figlio dell’uomo è venuto a dare la sua vita per la redenzione di un gran numero. » (Matth. XX, 28). « Ciò che era impossibile che la legge facesse, indebolendosi la carne, Dio lo ha fatto, quado ha inviato il suo Figlio, rivestito da una carne simile a quella del peccato, ed a motivo del peccato, Egli ha condannato il peccato nella carne, affinché la giustizia e la legge fosse compiuta in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito. » (Rom. VIII, 3, 4). – E non è solo la redenzione che Egli ci invia, Egli impone una legge a coloro che ha riscattato, affinché la nostra vita sia degna di una sì grande grazia. « Egli ha fatto con lui una alleanza eterna. » (S. Chrys.). – « Il suo Nome è santo e terribile. » Il suo Nome è santo per i santi e per i giusti, è terribile per i peccatori e per i malvagi. (S. Girol.). – Fuggite innanzitutto dai castighi, evitate l’inferno; prima di desiderare le promesse di Dio, sfuggite alle sue minacce; « perché il suo Nome è santo e terribile. » (S. Agost.). Il santo Nome di Dio, è Dio stesso. – Siccome Egli è per sua natura spirituale ed invisibile, non può cadere sotto i nostri sensi, noi siamo ridotti a pronunziare il suo Nome quando vogliamo parlare di Lui, ed il Nome diventa così per la forza stessa delle cose, come è nel genio della lingua ebraica, il simbolo e la personificazione dell’Onnipotente … Dio è santo, Egli detesta il peccato, ha in abominio l’iniquità; il male gli dispiace sovranamente, lo condanna, lo respinge con perseverante energia … questa santità ci obbliga – noi suoi figli, suoi servi – : « siate santi, perché Io sono santo; siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste. » … Ma se siamo così ingrati, temerari nell’infrangere la sua legge, subito qualcosa di nuovo avviene in Lui. La sua potenza affrontata, la sua grandezza oltraggiata, la sua bontà disprezzata, la sua giustizia provocata, tutti i suoi attributi violati fremono, e da Santo che era, diventa minaccioso e terribile. (Mgr. Pichenot). 

III — 10.

ff. 10. – « Il timore del Signore è l’inizio della sapienza. » L’inizio della sapienza considerata nel suo effetto, è l’inizio delle operazioni della sapienza in noi, ed in questo senso il Profeta dice: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Bisogna tuttavia distinguere qui il timore servile dal timore filiale: il timore servile è come un principio estrinseco, che predispone alla saggezza nel senso che allontana dal peccato per la paura del castigo, secondo queste parole dello Spirito-Santo: « Il timore del Signore caccia il peccato; » (Eccli. I); ma il timore casto o filiale è l’inizio della sSpienza come il primo effetto diretto della Sapienza. In effetti, poiché appartiene alla Sapienza dirigere, regolare la vita umana secondo le ragioni divine, è necessario che l’uomo cominci col temere e riverire Dio, e sottomettersi a Lui. È così che come per conseguenza naturale, tutte le sue azioni saranno dirette secondo le regole che Dio stesso ha stabilito. (S. Thom. II; IIæ. q. XIX, art. 7). – Il Profeta-Re, che ha celebrato nel versetto precedente le due alleanze e le due redenzioni, sembra rimarcare in questo, i loro meravigliosi effetti sul cuore, e le disposizioni necessarie per mantenervisi e ben profittarne: il timore che è l’inizio della Sapienza; la Sapienza che è l’effetto ed il coronamento del timore; il timore, che è il carattere proprio della legge antica; la Sapienza che è, con la carità, la gloria della Nuova Alleanza e del santo Vangelo; il timore, che è il primo, il meno perfetto dei doni dello Spirito-Santo e che ci allontana dal male; la Sapienza, che ne è il più eccellente, l’ultimo e che ci porta al bene; il timore e la Sapienza, con i due grandi attributi che li fanno nascere. (Mgr. Pichenot, Ps. de la D.). – Questo timore è buono per il peccatore poiché lo ritrae dal male, dall’abisso dei vizi e delle passioni; quel timore è buono anche per i giusti stessi che, in certi momenti di stanchezza, non hanno più risorse se non nelle terribili minacce, nei pensieri travolgenti degli ultimi fini, nel ricordo della morte che giunge, nelle apprensioni del tribunale che sta per ergersi, negli orrori dell’inferno. In certe occasioni delicate, non c’è che il terrore che possa raffreddare il cuore e fermare la mano; è talvolta l’ultimo freno dello stesso giusto ed è ancora come una schiuma bianca (Ibid.). – Senza dubbio la carità val più del timore; ma il timore precede ordinariamente l’amore e gli serve da furiere, come dice ingegnosamente San Francesco de Sales; è un Giovanni Battista che precede il Salvatore, è l’ago appuntito che buca il tessuto per entrarvi e lasciar passare dopo di esso il filo d’oro o di seta che deve abbellirlo. – « L’intelligenza è buona in coloro che la praticano. L’intelligenza è buone, chi può negarlo? Ma comprendere e non fare, è cosa pericolosa. Di conseguenza, l’intelligenza è vantaggiosa per coloro che agiscono. (S. Agost.). – In effetti la fede non è sufficiente se la nostra vita non è conforme ai suoi divini insegnamenti. Ma come il timor del Signore è l’inizio della Sapienza? Perché esso ci libera da tutti i vizi per insegnarci la pratica di tutte le virtù. Ora la Sapienza di cui parla qui il Profeta, non è quella che consiste nelle parole, ma la Sapienza che si manifesta con le azioni. – Il Re-Profeta non vuole che ci si contenti di ascoltare, bisogna andare fino alla pratica: « Una intelligenza salutare rischiara coloro che la praticano; » cioè coloro che praticano la Sapienza e che la manifestano nella loro condotta, fanno mostra di una vera intelligenza. « Essi possiedono una buona intelligenza; » perché in oggetto c’è una intelligenza cattiva, quella di cui ci parla il Profeta: « essi sono abili e saggi nel fare il male e non sanno fare il bene. » (Ger. IV, 22). – Ciò che il Re-Profeta chiede, è una intelligenza che si metta al servizio della virtù (S. Chrys.). – Sapere tanto per sapere, è mera curiosità; sapere per essere risaputo, è vanità; sapere per vendere la propria scienza, è un vile traffico; ma sapere per edificare gli altri, è prudenza, è chiarezza (S. Bern.). – Aggiungiamo ancora che colui che è intelligente per la buona sorte, cioè – come dice il Re-Profeta – è intelligente e cerca Dio, non solo fa prova di riflessione e di saggezza, ma nel compimento dei propri doveri trova in più una sorgente feconda di attività e di luce. « Una salutare intelligenza rischiara coloro che la praticano. » – E questa pratica non deve gonfiare d’orgoglio, perché è la lode del Signore, « di cui il timore è l’inizio e la Sapienza sussiste per i secoli dei secoli », e questa lode che noi riceveremo da Dio, sarà la nostra ricompensa; colà è il fine ultimo, là è la dimora, là il trono eterno, là si verifica la fedeltà ai precetti del Signore, confermati per i secoli dei secoli, colà si trova l’eredità della nuova alleanza, di cui Dio fa un precetto per l’eternità. (S. Agost.).

PREDICHE QUARESIMALI – (II 2020)

-XIII-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA SECONDA DOMENICA.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Die ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo, etc. Nescitis quid petatis.”

Matth. XX, 21 et 22.

1. Se fa mai veruno, che con arti onestissime cercasse di vantaggiare la sua famiglia, o povera o popolare, fu senza dubbio questa donna evangelica, fortunata madre di Giacomo e di Giovanni. Bramò ben ella di sollevare i suoi cari figli dalla barca al trono, e dalla pescagione al comando; eda tal fine procurò diligentemente che fossero collocati, come principali assessori, l’uno alla destra, e l’altro alla sinistra di Gesù, ch’ella credeva dover tra poco aprir una reggia terrena nella Giudea. Ma nol procurò come avviene comunemente, con arti inique. Non pres’ella per questo a perseguitare veruno di quegli Apostoli, che potevano essere i concorrenti da lei maggiormente temuti; non tessè frodi, non tramò furberie, non si valse di adulazioni, non tenne mano ad usure o aperte o palliate, per comperarsi con frequenti regali la grazia del nuovo principe. Ma che? Dopo aver già qualch’anno tenuti i due suoi figliuoli alla servitù stentata di Cristo: dopo averli notte e giorno mandati dietro a lui, scalzi ne’ piedi, e laceri nelle vesti; dopo avergli esposti per tal cagione assai spesso alle beffe del popolo, all’odio degli Scribi, agl’insulti de’ Farisei: dopo essersi ella medesima ancora data a seguirlo dovunque andasse, senza riguardo della casa rimasta sola, del marito lasciato vedovo, delle faccende trascurate, neglette, dimenticate; dopo tanti meriti, dico, verso di Cristo non altro fece che comparirgli dinanzi, che gittarsegli a’ piedi, e che presentargli una supplica ossequiosa, senza veruna né doppiezza di formule, né perversità di rigiri. Dic ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo. Contuttociò tanto fu da lungi che Cristo desse alcun segno di approvazione o di applauso a quella ambiziosa domanda, che la rigettò piuttosto da sé con gravissima indignazione, la tacciò d’insensata, la riprese di temeraria, e con un nescitis quid petatis colmò di pubblica confusione la faccia de’ supplicanti. – Or dove sono coloro, i quali per ansia d’ingrandir la famiglia, o di straricchirla, si valgono non solo di mezzi onesti, e di sollecitudini non viziose, ma di menzogne inoltre e di trufferie, di oppressioni, di crudeltà, di calunnie, d’iniquità? Dove sono quei che a tal fine ardiscono profferire su’ tribunali sentenze ingiuste? Dove quei che stravolgono i testamenti o le cedole da’ lor sensi? Dove quei che defraudano i mercenarj o le chiese del loro dovere? Dove tutti coloro che attendono solamente ad aggravar gli orfani, a soverchiare le vedove, ad aggirare i pupilli, ed a succhiarsi fino all’ultima stilla il sangue de’ poveretti? – Vengano pure questa mattina costoro ad udirmi tutti, perch’io voglio che scorgano ad evidenza quanto malamente consiglinsi in tant’affare. Come? non condona Cristo a una madre per altro sì meritevole e sì modesta quell’affetto soverchio che la conduce a porgere a lui preghiere per esaltazione della famiglia, e lo condonerà a chi procuri esaltarla a dispetto suo? Oh fatiche male spese! oh vigilie mal impiegate! Su le usure dunque, su le rapacità, su le ruberie, su le rovine dei miseri volete voi stabilire la casa vostra, tanto sviscerato è l’amor che a lei portate? Attendete, e vedrete che questo amore, se pur amore ha da dirsi, è un amor crudele.

II. Ma prima, come esser può che voi da voi medesimi non veggiate quanto poco quest’arti debbano riuscire giovevoli al vostro fine? Certa cosa è che gli eredi vostri, se vorranno operare cristianamente, non potran ritenere punto di ciò che voi loro abbiate lasciato di mal acquisto, e per conseguente indarno voi durate al presente tante fatiche per arricchirli: converrà che, voi morti, calin di nuovo al loro pristino stato, che dismettan que’ lussi, che scemino quei servitori, che spopolino quelle stalle, e, in una parola, che vomitino (per usar la forma di Giobbe), che vomitino quante ricchezze hanno divorate: Divitias, quas devoraverint evoment (Job. XX, 15) pur essi non s’indurranno a ciò fare di buona voglia, che accaderà? Iddio medesimo le verrà loro di propria mano a strappare fin dalle viscere: de ventre ipsorum extrahet eas Deus. Che voglio significarci s’essi vorranno ritener punto di ciò che non si dovrebbe, eccovi Dio divenir nemico giurato di casa vostra; e però ditemi: sembra voi di lasciarla sicura assai con una inimicizia così potente? Mi ricordo aver fatto di Giulio Agrìcola, gran senatore romano, ch’essendo negli ultimi anni della sua vita caduto in odio all’imperador Domiziano, fu da esso però spogliato e di molte splendidissime rendite e di una segnalatissima dignità; anzi, come alcuni anche scrivono, avvelenato. Tollerò egli con prudente dissimulazione tanti disastri; e più della sua famiglia sollecito, che di sé, appigliossi morendo a questo stravagante partito. Fe’ testamento, e quivi in primo luogo chiamò per erede suo principale l’Imperadore, favellando sempre di lui con quelle maggiori espressioni di gratitudine, che avrebbe potuto usare non un Proconsole assassinato, ma un servo creato Console. Restarono stupefatti i meno intendenti a così inaspettata risoluzione, e giudicavan quella di Agricola sconsigliata semplicità di chi aveva prima potuto finir di vivere, che finir di adulare. Ma non così riputavano i più sagaci, i quali molto bene intendevano tornar meglio ad una onorata famiglia aver l’eredità svantaggiosa, e ‘l principe amico, che vantaggiosa l’eredità, ma nemico il principe. E conforme a questo, il successo poi dichiarò aver Agricola adoperato anche in ciò con quell’alto senno che sempre aveva dimostrato. E a dir il vero, ditemi un poco: voi stessi, se vi trovaste in eguali necessità non amereste assai meglio di lasciar la vostra casa men facoltosa, ma col principe favorevole, che di lasciarla più florida, ma col principe disgustato? Anzi ogni inimicizia potente che le lasciaste, ancorché fosse di un cavaliere privato, darebbevi gran pensiero: e se poteste comporla a qualunque costo, prima di partir voi dal mondo, non credo io già che perdonereste a danaro. Or s’è così, come dunque temer sì poco di lasciare ai posteri vostri un Dio per nemico? Vi par dunque egli sì debole, che non pigliar sue giuste vendette; o sì milenso ch’egli non sia per pigliarle? Anzi sentite ciò ch’Egli disse a Malachia di costoro che a suo dispetto, voleano pur far alte le case loro là nella superba Idumea: lasciali, lasciali fare, che al fine si vedrà chi miglior braccio, o essi nell’alzare, o io nell’abbattere; isti ædificabunt, et ego destruam (Mal. I, 4). E che sia così.

III. Andate un poco, ed informatevi, nelle divine Scritture di tutte quelle famiglie, le quali con le ree sostanze paterne ereditarono l’inimicizia divina; e poi tornatemi a riferire, se a veruna di loro giovi mai punto splendor di nascita, appoggio di parentele, ampiezza di possessioni, copia di rendite o grandezza anche somma di principato: anzi vedrete che questo appunto è quel caso, nel quale Iddio si è condotto a far cose insolite. Già voi sapete esser di legge ordinaria, che i figliuoli innocenti nulla patiscono per la malizia de’ padri filius non portabit iniquitatem Patris (Ezech. XVIII. 20). Nondimeno Dio, come signore assoluto, ha derogato talora a questa sua le e per lo peccato de’ padri non solamente egli ha puniti i figliuoli, ma i nipoti, ma i bisnipoti, anche sino alla quarta generazione, dacché la quarta comunemente era l’ultima, della quale un padre, già divenuto decrepito, potess’essere spettatore. Or se considerate per qual misfatto de’ padri usasse Iddio di esercitar ne’ figliuoli sì straordinarie vendette, vedrete che fu per questo reo desiderio di volerli arricchir con iniqui acquisti. – Con iniqui acquisti li volle arricchir quell’Acan, il quale contra la proibizione divina rubò in Jerico certa somma di oro ch’egli occultamente trovò; e però non solo fu dato egli alle fiamme, ma vi fu tutta anche data la sua famiglia (Jos. VII). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Giezi, il quale per via di astute menzogne tolse a Naaman una parte de’ donativi ricusati dal profeta Eliseo; e però non solo fu percosso egli di lebbra, ma ne furon percossi i suoi discendenti (IV Reg. 5). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Saule, il quale contro il divieto di Samuele si riserbò avaramente le spoglio degli Amaleciti sconfitti; e però non solo fu privato del suo regno, ma ne fu tutta privata la sua prosapia. (1 Reg. 15). Con iniqui acquisti li fece arricchir quell’Acabbo, il quale con Aperta ingiustizia tolse a Nabot una vigna che non poté appropriarsi a partiti giusti; e però non solo ei perì di morte violenta, mane perì tutta altresì la sua casa (III Reg. 21). Eppure Acabbo (udite cosa incredibile!), eppure Acabbo lasciò, morendo, la sua casa fondata sopra settantadue suoi figliuoli, e figliuoli maschi, onde pareva che essendo ella per altro provveduta di grossissime rendite, e dilatata in amplissime parentele, durar dovesse per via di generazioni gl’intieri secoli. E in manco di quindici anni tutta perì, tutta, tutta, senza che neppur un’anima sola ne rimanesse o de’ parenti prossimi o de’ rimoti: et percussisunt omnes de domo Achab, donec non remanerent ex eo reliquia (IV. Reg. 10. 11 ) . – Sicché vedete, che per questo delitto di malvagi accumulamenti non solamente ne patiscono i padri, i quali li fanno, ma con essi ancora i figliuoli, per cui son fatti, con essi i nipoti, con essi i pronipoti; essendo convenientissimo che in quello appunto l’uomo porti le pene, per cui commette le colpe. Come dunque, per ingrandire la casa vostra, voi vi inducete ad operare quelle arti, le quali appunto sono le più acconce a distruggerla? Vi par ch’ella possa promettersi una lunga stabilità con avere per suo nemico quel Dio medesimo, che in sì piccolo tempo seppe annientare famiglie sì popolate, anzi sì sublimi, sì splendide, sì potenti? Se non vi pare di aver giusta cagione di dubitare, fate pur voi; ma s’è manifesto il pericolo, che sciocchezza, per lasciare i posteri vostri un poco più agiati, lasciarli sì mal sicuri?

IV. Se voi vi abbiate a fabbricare, uditori, qualche edificio, non credo io già che vi porrete a fabbricarlo nel cuore di un crudo verno, ma aspetterete la primavera, ma aspetterete la state; e qualunque altra stagione voi sceglierete più volentieri di quella ch’è la più aspra. E per qual cagione? Perché gli edifici fabbricati di verno non sono durevoli; i ghiacci istupidiscono la calcina, le piogge ammollan la sabbia, e così i sassi non possono tra loro fare alta presa. Ora sapete voi ciò che sia fabbricarsi la casa con l’oro altrui? È fabbricarla di verno. Qui ædifìcat domum suam impendiis aliens (s’oda lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico), qui ædifìcat domum suam impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suus in hyeme(Eccli. XXI. 9); ch’è quanto dire, ad fabricandum in hyeme, come tutti dichiarano gli espositori. Voi fabbricate di verno,Cristiani miei, voi fabbricate di verno: però fermatevi; altrimenti la casa farà poi pelo,crollerà, caderà, precipiterà, e tutte queste saranno state fatiche gittate al vento; Væ qui ædifìcat domum suam in injustitia, et cœnacula sua non injudicio! così gridava Geremìa (XXII. 13). Vœ qui ædifìcat civitatem in sanguinibus, cioè nel sangue de’ poveri, et præparat urbem in iniquitate! così ripiglia Abacuc (II. 12 ). E voi più credete a’ vostri folli disegni, che alle minacce infallibili de’ Profeti? – Oh quante già fastose famiglie si veggono giornalmente andare in rovina per tal cagione, oh quante, oh quante! non si ricordando le misere, che i torrenti, perché si vogliono ingrossare o ingrassare d’acque non sue, sempre son però meno durevoli d’ogni fiumicello innocente, che del suo viva. Quando Zaccheo ravvedutosi disse a Cristo: Si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum; che rispose il Signore? Hodie salus domui huic  facta est (S. Luc. XIX. 8 et 9). Ma piano un poco. Che risposta fu questa? Pareva che dovesse dire huic homini, perché Zaccheo era stato l’operatore de’ furti, I’operator delle fraudi, che allor volea prontamente rifare i danni; e così pareva che tutta sua dovesse essere la salute. Sì; ma il Signore la intese meglio di noi: e però non disse huic homini, no; huic domui, huic domui; perché vedeva chiaro che se Zaccheo non avesse restituito, non sarebbe stato egli solo a portar le pene di que’ sozzi accumulamenti, quantunque fosse stato solo a commetterli.

V. Ma su, sia così, come voi desiderereste. Diamo che a casa vostra nulla debba arrecare di pregiudizio l’inimicizia divina; diamo che co’ malvagi conquistamenti voi la dobbiate eternare; diamo che le dobbiate accrescere credito, aggiungere autorità, acquistare aderenze; vi par però che vi torni conto di farlo? Infelicissimi hominum (lasciatemi sfogare stamane, ma sin dall’intimo, con le parole del gran prelato Salviano), Infelicissimi hominum, cogitatis quam bene alii post vos vivant, non cogitatis quam male ipsi moriamini! (ad Eccl. 1. 3). E chi mai vi ha insegnato di apprezzar tanto la prosperità temporale della vostra prosapia, che non dubitiate di avventurare per essa, la beatitudine eterna della vostra anima? Oh lagrimevolissima cecità! Dunque sì poco voi siete in pregio a voi stessi, che per verun uomo del mondo vi contentiate di andare ad ardere eternamente nel fuoco, a freneticar co’ dannati, a fremere co’ diavoli? – Io sempre aveva finora sentito dire, amare ogni uomo se stesso sopra d’ogn’altro; e sin da fanciullo mi si era impresso nell’animo il detto di quel Comico latinissimo (Terent.), il quale afferma: omnes sibi melius velle, quam alteri. Ma ohimè, che mi conviene al presente disimparare così celebre verità, mentre mi avveggo trovarsi tanti nel mondo, che co’ suoi stenti procacciano ad altri grandezza, a sé perdizione. Et ut alios affluere faciant deliciis temporariis, se tradunt urendos ignibus sempiternis (Salv. ad Ecc. 1.3). E che potrebbe farvi di peggio il più capitale nemico che aveste in terra? Finalmente ogni altro nemico potrebbe perseguitarvi, questo è verissimo: ma fin dove? fino alla bara, fino alla tomba; ma poi non più: omnis siquidem inimicitia morte dissolvitur, comeragionò l’istesso Salviano (1. 2. ad Eccl.).Ma voi non vi soddisfate per così poco;no, dico, no: vos cantra vos ita agitis, ut inimicitias vestras nec post mortem evadatis.Mentre non solo a benefizio de’ vostri eredi menar volete in questo mondo una vita travagliosissima, ora disputando ne’ tribunali, ora imprigionandovi nelle corti, ora consumandovi ne’ viaggi, ed ora annegandovi, per dir così, tra’ negozj sino alla gola; ma, oltre a ciò, fin dopo la vostra morte voi stendete la vostra persecuzione,e dopo aver per altrui perduta la pace e la sanità, non dubitate ancor di perdere l’anima e ‘l Paradiso. E qual mai de’ vostri avversarj, per inumano che fosse, per implacabile, potrebbe giugnere a farti tanto di male? – Ecco avverato quello che disse Abacucco (II. 6): va; ei, qui multiplicat non sua! Oh sciocco, oh sciocco!se sapesse che fa! Usquequo, et aggravat, contra se densum lutum!Avete notato? Non dice contra alios, no: contra se, contra se;perché, per far bene ad altri, con un amore stranamente crudele rovina sé, gravandosi di quel loto così pesante, da cui dovrà finalmente restare oppresso. E voi frattanto vedete un poco, o Cristiani, come Dio chiami di sua bocca quell’oro che da voi tanto s’ama, tanto s’apprezza: lo chiama fango, densum lutum.

VI. Ma forsechè nell’inferno verrebbevi a cagionare qualche conforto il risaper la grandezza e là gloria de’ vostri eredi? Anzi questo medesimo sarìa quello che forse allor maggiormente vi accorerebbe: considerare che quelli tanto trionfino a spese vostre, e che voi tanto peniate per amor loro. Misero, se a veruno di quanti voi siete qui toccasse (che a Dio non piaccia) una sorte sì luttuosa, di perder l’anima per arricchire la casa! Quante volte il dì si morderebbe lo sfortunato le labbra di si solenne pazzìa! quanto maledirebbe quel giorno ch’egli aperse i suoi lumi a mirare il sole! quanto maledirebbe quell’ora ch’egli snodò la sua lingua a formare accenti: Frattanto, a guisa di finti confortatori, gli verrebbon, credo, d’attorno quei neri spiriti, e con amarissimi insulti.- allegramente (direbbongli), allegramente. Noi veniamo ora dal mondo, ed abbiam quivi potuto ad uno ad uno conoscere tutti i tuoi. Tutti stan sani, prosperosi, gagliardi, ed attendon lieti a godersi quel patrimonio, per cui formare sei tu venuto fra noi. Uno di loro serve ora in corte il tal principe; un altro èssi accasato con la tal dama; un altro si ha buscato il benefizio, e tra poco anche aspira alla prelatura. E di che dunque, o sfortunato, ti attristi? Non ti eleggesti tu di morir dannato per farli grandi: Gli hai fatti: sta allegramente. Già quella femmina, cui per lasciar ricca dote non dubitasti di succhiare il sangue de’ poveri e di schernire i sudori de’ giornalieri, già quella femmina ha ritrovato il partito che tu bramavi; già i nipoti ti crescono, già si sperano i pronipoti: e tu ululi, misero, e ti affliggi? Cristiani miei, pare a voi che questi conforti sarebbon punto bastevoli a consolarvi? Anzi cred’io che parole  tali sarebbonvi tante frecce, sagittas potentis acutæ, violentemente scoccatevi in mezzo al cuore, e cum carbonibus desolatoriis (Ps, CXIX, 4). – Né  mirate all’affetto che or voi sentite verso la vostra prosapia, perché questo allora sarebbe tutto degenerato in rancore, in astio, in asprezza, in ferocità. Di Agrippina, madre dell’ imperatore Nerone, si legge, che essendo ella oltremodo desiderosa di veder lo scettro di Roma in mano al figliuolo, adoperava a questo fine ogni industria più che donnesca. Ne l’ammonirono gl’indovini caldei, chiamati da essa su tanto affare, e tutti ad una voce le dissero ch’egli a lei darebbe la morte, ov’ella a lui conseguisse la dignità. Che importa a me? rispose allora la femmina ambiziosa: occidat, dum imperet; muoja Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, oh quanto diversamente si diportò! Non prima cominciò ella a scorgere i preludj della sua morte, benché lontana, nelle crudeltà del suo parto già dominante, che subito cominciossi a pentir di quello che tanto aveva sospirato. Ed ecco (chi ‘l crederebbe?) ch’ella medesima prese a trattar di rimuovere dall’imperio Neron suo figliuolo, e di sostituirvi Britannico suo figliastro, cui si sarebbe più giustamente dovuto per diritto di successione. Anzi a Nerone stesso fe’ riferire, ch’ella sarebbe ita in persona a trovar l’esercito, e che ivi tanto ella avrebbe attizzati gli animi de’ soldati, tanto avrìa perorato, tanto avrìa pianto, finché si risolvesser di eleggersi nuovo principe. Ma poco valsero alla meschina minacce più feroci che sagge; perché da esse vieppiù irritato Nerone, fece morire Britannico di veleno, e indi a poco, sotto sembiante di onore, custodir la madre in palazzo. – Or che pare a voi? S’uno fosse ito a trovar allora Agrippina, mentre ella smaniava dentro a tal carcere, come leonessa in serraglio, o tigre in catena, o, quasi per consolarla, le avesse dotto: serenissima mia signora, e di che vi dolete voi? Non furono vostre quelle sì animose parole: purché Nerone comandi, Agrippina muoja: occidat, dum imperet? E come dunque ve. ne siete ora sì presto dimenticata? Confortatevi: già il vostro figliuolo siede regnante in quel trono che voi con industrie, così sagaci, per non dirsi maligne, gli procuraste; già riscuote i tributi delle provincia straniere, già riceve gli ossequj delle milizie ubbidienti. Anzi con la morte del giovinetto Britannico, che solo potea contendergli il principato, egli è già sicuro. Dunque né vi amareggi la prigionia ch’or patite, né vi atterrisca la morte qualor verrà; perciocché tutte queste sono miserie da voi previste, e nondimeno volute, purché con esse voi conseguiste l’imperio al vostro amato Nerone. Ditemi di grazia, uditori: se uno avesse favellato ad Agrippina in questo tenore, pare a voi ch’ella sarebbesi consolata? Anzi è credibile ch’ella avrebbe prorotto in maggiori smanie, considerando non poter lei contro di altri sfogar la rabbia, che contro di sé medesima. E di fatto, che tali ragioni non bastassero ad acquietarla, è manifestissimo; perch’ella fin di prigione altrettante arti malvagie seguì a tentare per lor l’imperio al figliuolo, quante n’avea prima impiegata per darglielo, a segno tale, che le convenne, qual rea di lesa maestà, comparire in giudizio a giustificarsi. E finalmente, dopo aver schivata in vano la morte altre volte a lei destinata, ben dimostrò su gli estremi della sua vita, quant’ella odiasse chi prima aveva tanto amato; perché veggendo comparire in sua camera un capitano col ferro ignudo, per segarle la gola, o passarle il petto; ella, quasi frenetica di furore, gli offerse il ventre; e: qui qui ferisci (gli disse), ferisci qui; In mortem Centurioni ferrum distringenti protendens uterum: ventrem feri, exclamavit(Tacit. 1. lo. c. 8); non so se per detestazione o se per vendetta di aver lei dato ricetto in esso ad un mostro, o, per usar più portentoso vocabolo, ad un Nerone. – Or mi perdonerete, cred’io, signori miei cari, se con qualche prolissità io ho voluto qui ponderare un successo profano sì, ma forse ancor profittevole. Perocché sembrami di potere da questo argomentare convincentissimamente così: se una madre cotanto ebbra di amore verso il figliuolo, che si offerse a morire per farlo Cesare, quando poi videsi questa morte vicina, cambiò talmente ed opinione ed affetti; che sarà di quei miserabili, i quali nell’inferno si veggano condannati ad un fuoco eterno, per aver fatto i loro, non Cesari (che finalmente sarebbe stata grandezza assai rilevante), ma o di plebei cittadini, o di cittadini nobili, o di nobili consolari? Pare a voi ch’essi non fremeranno di rabbia più che la sfortunata Agrippina? Parlate voi di presente a qualcuno di questi avidi accumulatori di roba, di cui trattiamo, e ditegli: mio signore, avvertite bene: cotesti vostri censi non sono leciti, cotesti vostri cambi non sono leali; e voi giungerete bensì con le oppressioni che giornalmente voi fate de’ poverelli, a comperare al vostro figliuolo il tale cavalierato, la tal commenda, o il tal titolo di rispetto; ma di poi questo probabilmente sarà l’eterna perdizion dell’anima vostra. Che vi rispondono? Si fanno beffe di voi; e se non con le parole, almeno co’ fatti vi dicono: non importa: occidat, dum imperet, occidat dum imperet. Perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa; perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa. Sì? Oh miseri! voi non capite al presente ciò che voglia dir perder l’anima; ma quando verrà quell’ora che il capirete, e che d’ogn’intorno vi scorgerete orribilmente assediati da fiamme, da mannaje, da ruote, da zagaglie, da vipere, da dragoni, oh quanto subito in voi verranno a cambiarsi sì crudi amori!

VII. – Io certamente mi persuado (sentite bene), se che allora da Dio vi fosse permesso di scappar dagli abissi, e di ritornarvene a’ vostri per piccol’ora, voi nel più cupo della notte entrereste con passo tacito in quella casa che fu vostro antico soggiorno; ed ivi rimirando que’ paramenti, que’ mobili, quegli arredi da voi malvagiamente adunati, non potreste più contenere l’interna smania; ma con le fiamme che avreste d’attorno, ne volereste or in questa parte, or in quella per darle il fuoco. Abbrucereste quelle lettiere dorate, que damaschi magnifici, que’ quadri vani, quegli scrigni preziosi, quelle arche piene, quei vestimenti superbi. Indi calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse ad incendiare le carrozze. Passereste a’ giardini, agli orti, alle ville; e scurendo per quei poderi, da voi comperati con oro di mal acquisto, tutte mandereste in un tratto a fuoco ed a fiamme le viti, gli alberi, e le peschiere, e i boschetti, e i grani, e le biade, per isfogare qual forsennati la rabbia delle vostre miserie contro a ciò che fu la materia delle vostre scelleratezze. – Ma tolga Dio da ciascun di voi questo augurio così funesto; e voi piuttosto confessate frattanto con schiettezza, se non a me, almeno a Salviano che vi domanda (lib. 3 ad Ecc.): non farebbe una pazzìa solennissima chiunque di voi per altrui giugnesse a dannarsi? Oh infelix ac miseranda conditio! bonis suis aliis præparare beatitudinem, sibi afflictionem; aliis gaudia, sibi lacrymas; aliis voluptatem brevem, sibi ignem perennem! La vostra salute siavi raccomandata, la vostra felicità, la vostra anima. Com’è possibile tenerla, voi Cristiani, in pregio sì vile, che la vogliate avventurare per un figliuolo, per un fratello, per un nipote, per un cugino, per un cognato, anzi per un erede talor posticcio, ch’altro del vostro non ha, che un cognome equivoco, se non ancora imprestato? Amate i vostri congiunti (questo va bene, ma dopo l’anima vostra; amate la loro prosperità temporale, ma più la vostra beatitudine eterna; amate la lor grandezza terrena, ma più la vostra gloria celeste: in unaparola: amate, non obsistimus, amate filios vestros, sed tamen secundo vobis gradu, Ita illos diligite(belle parole!), ita illos diligite, ne vos ipsos adisse videamini; inconsultus namque ac stultus amor est, alterius memor, sui immemor. Fin qui Salviano.

VIII. Benché non è questo veramente, non è un amare i congiunti, anzi è un odiarli con furor più che barbaro, più che ostile, e appunto diabolico. Perocché sentite: non vedete voi, che lasciando ai posteri vostri qualunque parte di roba mal acquistata, ponete anch’essi in evidente pericolo della loro dannazione? Ogni ricchezza,  avvengachè procacciala con arti lecite, sempre è pericolosa, quand’è abbondante. Quid enim sunt carnales divitia, così lo dice elegantemente Cirillo (Apol. mor. l. 3. c. 3), nisi blandimenta libidinis, fomenta cupiditatis, onera mortis? Confermalo santo Ambrogio (lib. 2. in Job c. 5; et apud Dan. c. 4. da cui son chiamate materia perfidiæ, illecebra delinquendi. Confermalo Pier Bleseuse (in Job) da cui son dette virtutum subversio, seminarium vitiorum. Confermalo San Giovanni Crisostomo (Hom. 6 de avar.), il quale, oh Dio! che mal non disse di loro? Le chiamò micidiali, le chiamò nemiche implacabili: Homicidæ, crudeles, implacabiles, quæque numquam erga eos, a quibus possidentur, remittunt simultatem. Le chiamò venti che muovono ognor tempesta (Hom.17 ad pop.); le chiamò fiere che sbranano ogn’ora i cuori (Hom. 6. de avar.); le chiamò fiamme che incendiano ogni ora il mondo. Hinc inimicitia, diss’egli, hinc pugnæ, hinc contentiones, hinc bella, hinc suspiciones, hinc convitia, hinc furta, hinc cædes, hinc sacrilegio(Hom. 65. ad pop.).Adunque certa cosa è, che, generalmente parlando, quanto più di ricchezze voi lascerete a qualunque siasi de’ vostri, tanto più lor lascerete ancor di pericoli; né miglior senno farete di chi vada a porre ai bambini in mano un coltello ben aguzzo,ben affilato, perd’egli ha il manico tempestato di gioie. – Or se ciò di tutte le ricchezze si viene a verificare, quanto più dunque di quelle, che siccome son prole d’iniquità, cosi, secondo il bel detto dell’Ecclesiaste, sogliono riuscirsi anche madri di perdizione? Divitiæ conservatæ in malum domini sui (Ecc. V. 12). Quanto rimarrebbe allacciata la coscienza del vostro erede, considerando non poter lui possedere con buona fede punto di ciò che voi gli avete acquistato con male industrie!Ch’egli il restituisca, è troppo difficile; se non lo restituisce, egli è già spedito. Adunque chi non conosce la perdizione che voi loro apportate con tali lasciti? E questo è amore, questa è affezione di padre? anzi è rancore, anzi è rabbia di parricida: inimici hominis domestici ejus (Mich. VII. 6). Meglio sarebbe, dice san Giovanni Crisostomo, che voi li lasciaste mendici: perché finalmente da qualsiasi meschinissima povertà potrebbero cavare qualche ben per l’anima loro, come per la sua ne cavò già tanto Lazaro l’ulceroso; ma da ricchezze inique nessuno. Non enim potest ad bonum proficere quod congregatur de malo (Imperf.hom. 38 in cap. XXII S. Matth.). Non possono con queste né arricchir tempi, né provvedere bisognosi, né soccorrere monasteri, né giovare a’ defunti, né placar Dio; e siccome senza colpa non possono ritenerle, così nemmeno possono spenderle senza colpa. Ditemi dunque, se può nel mondo trovarsi uno più miserabile di chi abbondi di tali beni. E questi beni voi, morendo, volete lasciare per patrimonio a’ vostri più cari? Oh amor crudele! oh stravaganza! oh spietatezza!oh barbarie di mente insana! -Racconta santo Antonino, arcivescovo di Firenze, nella sua Somma un caso atrocissimo.Si trovava già presso morte uno di questi empj ricchi, di cui parliamo; che però fu esortato dal sacerdote a restituire quei mali acquisti, de’ quali era reo; ma egli si stava immobile come un sasso: non si rendeva a preghiere, non si riscuoteva a minacce. Vi s’interposer però fin due suoi stessi figliuoli a persuaderglielo. Ai quali egli: non posso, miei figliuoli, non posso restituire; perché, s’io di poi campassi, mi converrebbe tutto dì mendicare di porta in porta la vita a stento; e s’io morissi, dovresti emendicar voi. Risposer questi, che quanto alle lor persone lasciasse pure diaverne sollecitudine, perché essi meglio amavano il padre salvo e sé poveri, che sé ricchi e il padre dannato. Allora il padre con occhio bieco mirandoli: tacete (disse), o figliuoli senza cervello. Non avete ancor imparato quanto più pietoso sia Dio, che non sono gli uomini? S’io son peccatore, posso sperar che Dio mi usi misericordia; ma se voi sarete mendici, come potrete confidare che gli uomini vi abbiano compassione.E persuaso da questo folle discorso, miserabilmente morì. Fece questo discorso grand’impressione nella mente de’ due fratelli, i quali rimanevano ereditieri delle ree sostanze paterne; nondimeno poi consigliatomi meglio seco medesimo uno di loro, volle fare perfetta restituzione della sua parte;ma non già l’altro la volle far della sua.Che avvenne però? Non andò molto, che di loro, il malvagio fini la vita, e l’innocente si consacrò religioso nell’inclita figliolanza di san Francesco. Or mentre il religioso stava una notte in solitaria contemplazione, ecco mira innanzi a’ suoi occhi spalancarsi una gran voragine, e tra nembi di fumo, tra nuvole di caligine, e tra torrenti di fuoco, tra volume di fiamme scorge il suo padre ed il suo fratello nel mezzo di una foltissima turba di condannati. Qual però credete che fosse l’atteggiamento in cui li mirò? Stavano insieme que’ due meschini afferrati come due mastini rabbiosi, ora svellendosi scambievolmente i capelli, or graffiandosi il viso; e con vicendevoli insulti:per te, maledetto figlio, diceva l’uno, io patisco questi tormenti; ed io, diceva l’altro,per te maledetto padre; meglio era pure ch’io generassi un serpente, diceva il padre; ed io che fossi generato da un orso,rispondevagli il figliuolo. Tu, figlio infame, mi strazi: tu mi braci, padre inumano. E con questi orrendi diverbi, vie più fremendo,avventavano i denti l’un con l’altro,quasi che il lor solo conforto fra tante pene non altro fosse che fare a gara tra lor di mangiarsi vivi, come due mostri legati insieme a una catena medesima. – Or ecco,signori miei, quale per relazion di un Santosi celebre sarà l’emolumento che ritrarranno per tutta l’eternità i padri delle inique ricchezze lasciate a’ figliuoli, ed i figliuoli delle inique ricchezze ereditate da’ padri.Sembra a voi però che si debba a così gran costo comperar la breve fortuna d’una famiglia? Se questo è amare sé stesso, che sarà odiarsi? e se questo è beneficare i congiunti,che sarebbe perseguitarli? Stabilisca dunque, che quando ancora i malvagi accumulamenti punto valessero ad ingrandire la casa, l’ingrandirla così non sarebbe spediente né a voi, né a’ vostri. Pensate poi che sarà, mentre, come da prima noi dimostriamo, questa è la maniera più certa da sterminarla. Væ qui congregat avaritiam malam domui suæ, ut sit in excælso njdus ejus! (Habac. II. 9) Ma perché, santo Profeta?; perché, perché, perché? Cogitasti confusionem domui tuæ (Ib. 10). Voi ponderatelo, ed io mi riposerò.

SECONDA PARTE

IX. Presupposto dunque, che per tante ragioni voi non dobbiate volere, ad ontadi Dio, far la famiglia più ricca di quelch’ell’è, che rimane a dire, se non che deponiate ormai dal cuore quella smoderata sollecitudine, con cui, per provvedervi a’ bisogni de’ vostri eredi, voi trascurate con amor crudo il pensiero della vostra anima? Deh cominciate a prezzar un poco una volta ciò che conviensi apprezzare, e  considerate tra voi: voi per ventura già carichi di anni, già cagionevoli della persona, e per conseguente vicini anche alla morte. Non andrà molto che vi converrà comparire avanti al tribunale divino, per rendere ragion dell’anima vostra: già vi aspettano da una parte gli Angeli come testimoni fedeli di quanto avrete operato;già dall’altra i demonj, come accusatori implacabili: e voi state ancora a pensare che mangeranno gli eredi vostri di buono dopo la vostra morte, come potranno abitare con comodità, come vivere con delizia? Ecce expectat te jam egressurum de ista vita officium tribunalis sacri, ritorna a parlare Salviano (1. 3 ad Eccli.), et tu delicias aliorum mente pertractas; quam bene scilicet post te hæres tuus de tuo prandeat, quibus copiis ventrem expleat, quomodo viscera exsaturata distendat? Queste son dunquele cure vostre più gravi, questi i pensieri più assidui, – come se allora nel tribunale divino doveste essere più sicuri, quando aveste lasciati i vostri più ricchi? So che vi gioverà allora gran fatto di poter dire:Signor, salvatemi. E perché? Perché io,conforme i vostri consigli, ho vestiti tanti ignudi? Perché ho dotate tante fanciulle? Perché ho riscattati tanti prigioni? Perché  ho pasciuti tanti famelici? Perché ho procurato di propagare in mille modi la gloria del vostro Nome? No, Signor mio, non per questo; ma perché ho lasciata la mia casa fornita di molte comodità, perché i miei posteri epulantus quotidie splendide; perché luxuriantur in peristomatis, quæ ego feci; perchè fornicantur in sericis, quæ reliquie (lb. IV, ad Eccl.): però salvatemi. Se dir questo vi par che debba giovarvi,pur ad accumular la roba con sì profonda ansietà; ma se vedete, che ciò piuttosto è per nuocervi, deh convertite l’ansietà in miglior uso, ed in cambio di pensar più tanto ad altri, pensate a voi.Revertere potius in tedirò a ciascuno con le belle parole di santo Eucherio, ut tu sis carior tibi, quam tuis (ep. 1 Parænet.). – Che se pur, de’ giovani vostri voi siete ansiosi, abbiate questa fidanza, che Dio piglierassi continuamente diloro una cura più che paterna, se voi sempre avrete all’amor del sangue anteposto l’onor di Dio. Povera Rut! Non capitò ella in Betlemme, giovane vedovella senza alcun bene? Contottociò, perché Dio n’avea patrocinio, trovò ancora in paese, ov’era straniera, un uomo ricchissimo che la tolse per moglie. Povera Ester! non dimorava ella in Susa, orfana fanciulletta senza alcun nome? Con tutto ciò, perché  Dio n’avea protezione, trovò ancora in paese,dov’era schiava, un potentissimo re che l’assunse al trono. Fidatevi dunque, fidatevi,che Dio non mancherà di pensare egualmente a’ vostri. E se voi frattanto Bramante come un prototipo bello, a cui conformarsi, rappresentatevi quel sì famoso Tobia.

X. Aveva egli nella sua canuta vecchiaia un sol figlioletto, speranza della sua stirpe, sostegno della sua debolezza, e quasi luce della sua cecità. E però, quantunque lo amasse con una svisceratissima tenerezza, era nondimeno sì lungi dal volerlo arricchire per vie men giuste, che udendo un giorno belar in casa un capretto comperatogli dalla madre, cominciò il buon vecchio con alte grida terribili a schiamazzare: ohimè, che sento? un capretto in casa! guardate bene, di grazia, guardate bene ch’egli non sia per ventura scappato qui dalla soglia di alcun vicino; e s’egli è, presto, rendetelo a’ suoi padroni, perché non conviene a noi di mangiare, non conviene a noi di toccare ciò ch’è di altrui. Videte ne forte furtivus sit: feddite eum dominis suis, quia non licet nobis aut edere ex furto aliquid, aut contingere (Tob. II. 21). Anzi, non contento di ciò, tutto quello che poteva mai risparmiare dal quotidiano sostentamento della povera famigliola, tutto veniva ripartito da lui caritatevolmente a persone più bisognose, tutto a’ prigioni, tutto a’ pupilli. Potea parere al giovinetto figliuolo una specie di crudeltà, veder che il padre, già grave di anni, si pigliasse sì poca cura di comporgli un patrimonio, se non fiorito, almeno decente, a potersi poi sostentare. Onde il buon vecchio, quasi che di questo volesse giustificarsi presso il figliuolo, lo chiamò un giorno; e, dopo avergli premessi di molti salutevoli documenti, gli significò lo scarsissimo capitale, ed i sottilissimi censi, che possedevano. Indi con le lagrime agli occhi: non dubitare (soggiunse), figliuol mio caro; bene io veggo quanto sia poco ciò che ti lascio: angustissima abbiamo l’abitazione, meschino il vivere, dispregiato il vestire; ma sappi, figlio, che molto avremo di bene, se non mancheremo d’un timor santo di Dio, e d’un’osservanza esattissima della legge: Noli timere, fili mi: pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, si timuerimus Deum(Tob. IV. 23). Così disse il vecchio Tobia. E non credete che, com’egli promise, così seguisse? Non andò molto, che il giovinetto figliuolo incontrò partito sceltissimo di accasarsi, buona dote, onorevole parentela, grossissima eredità. – Ora da questo vorrei che ancor voi pigliaste salutevole esempio, e che con qualche congiuntura opportuna ragionando da solo a’ giovani vostri: miei figli (diceste loro), voi ben vedete quale condizione sia quella di casa nostra. Anch’io potrei, se volessi, procurar di arricchirvi con quelle malvagie industrie, che oggidì sono in uso presso di molti ancora in questa città: potrei tenere anch’io di mano a cambi malsinceri, a censi malsicuri, a fraudi, a doppiezze, a falsificamenti, a litigi, ed a mille altre fallacie nel negoziare. Ma tolga Dio da me tali vizj: io non farei né a prò vostro, né ad util mio. Figliuoli cari, temete Dio, e non dubitate di nulla, perché vivrete sotto buon protettore. Non invidiate a’ cittadini vostri pari, quando vedrete che con biasimevoli acquisti alzino a fronte di casa vostra palazzi assai maggiori di quelli, ne’ quali nacquero, o piantino vicinoa’ vostri poderi ville maggiori doppiamente di quelle che ereditarono; non gl’invidiate di ciò: nolite attendere ad possessiones iniqua (Eccli, V.1), Come il Savio medesimo vi consiglia; ma piuttosto tenete sempre a memoria, che meglio è un piccolo patrimonio ad un giusto, che un grande ad un peccatore: melius est modicum justo super divitias peccatorum multas(Ps. XXXVI. 16). Lasciate pur ch’essi sfoggino per un poco, lasciate che vi soverchino: a Dio toccherà di far un giorno ad ognuno la sua giustizia. Osservate voi la sua legge, rispettatelo, riveritelo; e s’egli non avrà cura di provvedervi, doletevi poi di me. Pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, multa bona habebimus, si timuerimus Deum. Tali siano gli avvertimenti che, ad imitazion del giusto Tobia, voi diate ai giovani vostri; e frattanto cominciate un poco a raccorvi in età già grave, a pensare più all’anima che alla casa, più alla coscienza che ai traffichi, più a Dio che al mondo. E se per l’addietro aveste, ch’io già non credo, contaminate le vostre mani d’acquisti poco innocenti, presto, presto, scoteteli presto via, soddisfate ormai tanti poveri mercenarj, pagate spedali, pagate chiese, pagate chiostri, adempite legali pii, e non vogliate ritener più presso di voi, neppur un momento brevissimo, quel danaro che non può se non cagionare a voi dannazione, retare ai vostri esterminio, e, come dice Michea, mantener sempre accesa implacabilmente l’inimicizia divina con casa vostra: ignis in domo impii thesauri iniquitatis ( Mich. VI. 10).

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO V

Effetti dell’Inabitazione dello Spirito-Santo

LE VIRTÙ INFUSE TEOLOGALI E MORALI

I.

Se la beatitudine fosse data solo a titolo d’eredità, non dovremmo preoccuparci di aver cura di meritarla con le nostre opere; basterebbe per ottenerla il possedere, con la grazia santificante e attraverso di essa, il titolo e la qualità di figlio di Dio adottivo. E’ proprio questo il caso dei bambini battezzati, finché non abbiano raggiunto l’età della discrezione. Per gli adulti è diverso, perché, secondo la parola di sant’Agostino, colui che ci ha creati senza di noi non ha ritenuto opportuno giustificarci e salvarci senza di noi. (S. Aug., De Verbis Apost.f serm , XV, cap. XI). – Era, infatti, per lo meno bene opportuno che, dopo essere stato divinizzato e risuscitato con un dono tanto sublime, fino alla partecipazione dell’essere e della vita di Dio, si dia all’uomo la possibilità di agire divinamente, di esercitare le funzioni della sua nuova vita e diventare così collaboratore di Dio e artefice secondario della propria salvezza. Anche il Concilio di Trento, infallibile interprete della verità rivelata, dichiara apertamente che « la vita eterna deve essere offerta ai giustificati, non solo come grazia misericordiosamente promessa dal Signore ai figli di Dio, ma anche come ricompensa per le loro buone opere e per i loro meriti, come corona di giustizia che il Giudice giusto riserva a chiunque abbia legittimamente combattuto (Conc. Trid.\ sess. VI, c. XVI.). » Per questo l’Apostolo san Paolo ci esorta ad abbondare in ogni tipo di azioni sante, con la ferma convinzione che, lungi dall’essere sterili nel Signore, il nostro lavoro debba invece ricevere una magnifica ricompensa. E per stimolare il nostro zelo e scuotere la nostra apatia, ci ricorda che siamo salvati solo nella speranza, spe salvi facti sumus (I Cor. V, 58 – Hebr. X, 35), e che potendo sempre, ahimè, perdere la grazia ricevuta, dobbiamo operare la nostra salvezza con timore e tremore (Rom. VIII,24). Unendo la sua grande voce a quella di san Paolo, il capo del collegio apostolico ci grida: « Cercate, fratelli miei, di assicurare la vostra vocazione e la vostra elezione attraverso buone opere. Così facendo non peccherete e vi concederete un felice ingresso nell’eterno regno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (Fil. II, 12). – Ma per meritare, per produrre degli atti relativi alla nostra elevazione soprannaturale, per poterci muovere verso quell’ordine superiore che ci è stato assegnato dalla misericordia divina e che la natura non è in grado di raggiungere da sola, per agire divinamente, in una parola, abbiamo bisogno di forze, poteri, energie divine, di un aiuto speciale. Dio non ce li ha rifiutati; ce li concede persino con una varietà ed una sovrabbondanza veramente meravigliosa. Allo stesso modo, in effetti, che come nell’ordine  naturale possediamo un insieme di facoltà, intellettuali e sensibili, che derivano dall’essenza dell’anima e costituiscono altrettanti principi prossimi di operazione; così, nell’ordine soprannaturale, riceviamo con l’essere spirituale, tutta una serie di nuovi poteri, che derivano dalla grazia come sue proprietà, e perfezionano, nobilitano, elevano le nostre facoltà al di sopra di se stesse e permettono loro di produrre atti superiori alle forze della natura. (S. Th., Summa Theol., Ia IIæ, q. CX, a. 4, ad X.). Senza dubbio, la grazia attuale sarebbe di rigore sufficiente per questo tipo di operazioni; e, infatti, è attraverso un tale soccorso temporaneo e transitorio che Dio viene in aiuto del peccatore non rigenerato, per consentirgli di compiere gli atti preparatori alla giustificazione. Ma quando la vita soprannaturale ha raggiunto uno stato di perfezione in un’anima, quando le è stata comunicata in modo stabile con il dono della grazia santificante, non è più solo attraverso l’aiuto transitorio che Dio permette che quest’anima possa esercitare le funzioni della sua nuova vita; le infonde principi di attività proporzionati alle operazioni che deve compiere, le dà forza, qualità soprannaturali permanenti – tronchiamo le parole – delle abitudini, che le permettano di esercitare in modo come naturale, connaturaliter, delle opere soprannaturali. Queste abitudini sono le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo. – Questo organismo soprannaturale è stato mirabilmente descritto in una pagina che ci rimprovereremmo di non mettere sotto gli occhi dei nostri lettori. « È qualcosa di ineffabile – dice Msr Gay -che questo irradiamento attivo e benefico di Dio nella creatura che Egli abita….. Soprattutto, Dio irradia ed opera nell’essenza dell’anima. Egli riversa in essa questa grazia radicale che si chiama santificante, e che, essendo sia la condizione che primario effetto della sua presenza soprannaturale, diventa in noi un titolo e come un passaggio ai suoi altri benefici, e libra l’anima intera alle sue operazioni, almeno di diritto, in potenza e in principio. È con questa grazia che la libera, che la rischiara, che la rende nuova, giovane, candida, aperta a tutte le influenze alle quali la sottopone, docile a tutti gli impulsi che gli dà. – È con questa grazia che Egli tiene, per così dire, le radici di quest’anima, e, innestandola su di Lui, le fa bere la sua linfa tre volte santa, e diventa capace di proiettarla in tutte queste magnifiche potenze con cui si estende come l’albero nei suoi rami. Queste forze naturali, così numerose, così varie e già così ammirevoli, sono divinamente perfezionate da questa diffusione interiore, ciascuna secondo il suo ordine, la sua funzione e il suo fine. Tutte ne ricevono delle qualità nuove, superiori, essenzialmente soprannaturali, che sono allo stesso tempo delle dolcezze e delle energie, delle docilità e delle forze, delle trasparenze e dei concentramenti,  rendendo l’anima più passiva sotto la mano di Dio e allo stesso tempo più attiva nel servirlo e nel fare le sue opere. Queste sono innanzitutto quelle virtù sovrane che si chiamano teologali: la fede, la speranza e la carità. L’esperienza ci mostra che la luce solare unica si sfiocca in diversi colori, e prima di tutto in tre colori principali. Sembra che queste tre grandi virtù siano l’immediata espansione della grazia santificante. Poi ci sono le virtù infuse, sia intellettuali che morali. Queste sono i doni dello Spirito Santo che, derivanti dalle tre virtù teologali e dalla loro fonte, permettono all’anima di esercitare divinamente le virtù secondarie e diventare i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi. Senza dubbio l’unico Sacramento della Cresima dà automaticamente l’abbondanza di questi sacri doni; ma il semplice stato di grazia ne implica la presenza nell’anima, e non c’è un solo giusto che non li possieda tutti in questa o quella misura (Mgr Gay: De la vie et des vertus chrétiennes ie r traité) ». Lo stesso bambino, battezzato all’alba della vita e incapace a quest’età di un atto di bene o di male, riceve tuttavia con la grazia, tutta questa serie di virtù soprannaturali, come altrettanti semi che lo Spirito Santo getta nella sua anima, affinché, al primo risveglio della ragione, stiano già lì, pronti ad entrare in esercizio e a dare i loro frutti.

II.

Possiamo già vedere da quanto appena detto, che un quadruplo elemento costituisce la vita soprannaturale dei giusti: la grazia abituale o santificante, le virtù teologali, le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo. Non sarà fuori luogo dedicare qui alcune pagine ad una breve esposizione della natura, del ruolo e del funzionamento di questi vari elementi. Se lo studio della vita organica e razionale offre al fisiologo e filosofo un’attrazione mediocre, quale forte interesse non dovrebbe avere un Cristiano nel conoscere gli organi, le funzioni ed i fenomeni della vita soprannaturale, in breve, i mezzi usati dallo Spirito Santo per provocare e promuovere la santificazione della sua anima? Diciamo solo una parola sul ruolo della grazia, la cui natura e i cui effetti abbiamo già sufficientemente spiegato sopra. – Per consentire all’uomo di compiere gli atti che devono condurlo alla visione beatifica, termine finale del suo destino, Dio riversa in lui prima di tutto la grazia santificante che svolge nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura. Allo stesso modo in cui, con la sua unione al corpo, l’anima fa della materia vile e inerte un essere vivente e umano, così la grazia, vera forma di ordine superiore, comunica a chi la riceve un nuovo essere, un essere spirituale e divino, che fa dell’uomo un Cristiano e figlio di Dio (S. Th., De virt. in comm., q. un., a. 10.). E poiché l’essere è la perfezione propria dell’essenza, così come l’operazione è quella delle potenze, la grazia è ricevuta nell’essenza stessa dell’anima che essa rende partecipe della natura divina, mentre le virtù che l’accompagnano hanno come soggetto le varie facoltà umane che elevano e perfezionano aggiungendo alle loro forze native un’energia extra, più alta e più potente. (S. Th, De Verit., q. XXVII, a. 6 ). Nessuno deve stupirsi che, similmente all’anima che non agisce direttamente sulla sua sostanza, ma con l’intermediazione delle sue facoltà, la grazia santificante non opera immediatamente per se stessa, ma con l’intermediazione delle virtù infuse e dei doni che tengono il posto delle potenze. (S. Th., De Verit., q. XXVII, a. 5, ad 17.). È vero, è un principio di vita e di funzionamento, è un principio radicale e lontano, non un principio immediato e vicino; è la radice o il tronco dell’albero, le virtù soprannaturali sono i suoi rami; eppure, come tutti sanno, sono i rami che di solito portano fiori e frutti.  – Abbiamo nominato le virtù soprannaturali e le infuse. Esse si chiamano soprannaturali perché superano la portata e le esigenze della natura; infuse perché, a differenza delle virtù naturali o acquisite, che sono il risultato dell’attività umana e sono acquisite attraverso la ripetizione frequente degli stessi atti (ad rem. Cf. S. Th. Ia- IIæ q. LI, a, 4), esse possono venire solo da Dio, che le provoca in noi senza la nostra effettiva cooperazione, ma non senza il nostro consenso (S. Th., 1a-IIæ, q. LV, a. 4, ad 6.). Sono ancora chiamate virtù cristiane, perché sono appannaggio esclusivo del Cristiano perfetto, cioè del membro vivente di Gesù Cristo; vengono con la grazia, crescono, si sviluppano e scompaiono con essa, tranne la fede e la speranza, che perseverano nel peccatore e sono distrutte solo da una grave colpa in opposizione ad esse. Le virtù infuse vengono quindi impiantate in noi per elevare e trasformare le energie della natura e renderle capaci di meritorie operazioni di vita eterna, così come i rami di una specie più eccellente e nobile vengono innestati su di una selvatica, e la linfa naturale dell’arbusto, passando attraverso l’innesto, viene corretta e purificata al punto da produrre frutti che non sono più come in precedenza amari e selvaggi, ma dolci e squisiti. – Tra le virtù infuse ci sono in primo luogo le tre virtù teologali, così chiamate perché hanno Dio stesso come oggetto, che solo Lui può diffonderle nei cuori, e che alla rivelazione divina dobbiamo la loro conoscenza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXII, a. 1). È impossibile mettere in dubbio l’esistenza di queste virtù, di cui san Paolo fa esplicita menzione nella sua prima epistola ai Corinzi: « Ora – egli dice – rimangono queste tre virtù, fede, speranza e carità; ma la più eccellente delle tre è la carità. Nunc autem manent fides, spes, charitas: tria hæc; major autem horum est charitas » (1 Cor.XIII, 13). Il Concilio di Trento non è meno formale. Esso insegna, infatti, che « nella giustificazione l’uomo riceve, con la remissione dei peccati, le tre virtù della fede, della speranza e della carità, infuse nello stesso tempo nella sua anima da Gesù Cristo su cui sono innestate ». Queste prove di autorità diventano ancora più convincenti se consideriamo il fine verso il quale dobbiamo sforzarci e muoverci attraverso i nostri atti. Se questo fine non fosse altro che la beatitudine proporzionata alla natura, le forze naturali, con l’aiuto di Dio, ci basterebbero per raggiungerlo. Ma poiché, nella sua infinita bontà, Dio si è degnato di chiamarci ad un fine soprannaturale, alla partecipazione della sua propria beatitudine, al possesso di beni che superano assolutamente la portata delle nostre facoltà, è di ogni necessità che Egli aggiunga alle nostre forze native altri principi di azione più potenti, energie di natura divina in relazione alla meta da perseguire e raggiungere. Questi principi superiori sono innanzitutto, le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, che ci ordinano verso l’ultimo fine, che è Dio (S. Th., Ia-Iiæ, q. LXII, a. 1). Che cosa è necessario, infatti, affinché un essere ragionevole sia in grado di tendere in modo diretto e regolare ad un determinato scopo? Che ne abbia la conoscenza e il desiderio di farlo. La conoscenza: come arrivarci senza di essa? Desiderio: senza il quale gli sarebbe difficile ottenerlo. Ma il desiderio effettivo di un bene presuppone la fiducia che esso possa essere acquisito, perché l’uomo saggio non si mette in moto verso una meta che considera impossibile da raggiungere; poi l’amore, perché si desidera solo ciò che si ama. Da lì, per disporre la nostra anima e renderla capace di muoversi liberamente verso il fine dei suoi destini soprannaturali, nasce la necessità delle virtù teologali: di fede, che ci mostra in Dio, visto e posseduto come è in se stesso, il fine supremo a cui siamo chiamati; la speranza con cui, fiduciosi nell’aiuto che ci è stato promesso, ci aspettiamo dal Padre celeste e la beatitudine eterna, ed i mezzi necessari o utili per raggiungerlo; la carità infine, che ci fa amare al di sopra di tutte le cose, Colui che è la bontà infinita (S. Th., De Virt. In comm., q. un., a. 12). – Queste sono le tre virtù principali che devono dare alla nostra vita la loro vera direzione ed esercitare la loro benefica influenza su tutti i nostri comportamenti: la fede, che il Concilio di Trento chiama « l’inizio della salvezza, fondamento e radice di ogni giustificazione; senza la quale è impossibile piacere a Dio e raggiungere la società dei suoi figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 8); la speranza, questa solida e ferma ancora che gettiamo nel cielo (Hebr. VI, 19)., affinché né gli uragani, né le tempeste della vita presente possano staccarci da Dio e portare via dal porto la nostra fragile carlinga; la carità, infine, la più nobile ed eccellente delle tre; la carità, questa incomparabile regina che dà alle altre virtù la loro forma e perfezione ultima, facendo convergere i loro atti  verso il proprio oggetto, Dio sommo Bene, e rendendole meritorie della vita eterna.

III.

Per quanto preziose ed eccellenti possano essere le virtù teologali, esse non bastano a regolare da sole tutta la vita del Cristiano; altre virtù devono dare il loro sostegno e la loro assistenza a quest’opera complessa; abbiamo così le nominate virtù morali. Indubbiamente, la prima e più indispensabile condizione di salvezza consiste nell’essere ben ordinati rispetto al fine ultimo; ma questa buona disposizione deve estendersi anche ai mezzi che devono condurci al fine. Inoltre, non è solo verso Dio che abbiamo dei doveri da compiere, ma altri ancora sono a carico nostro verso il prossimo e verso noi stessi. Se, allora, per inclinare la nostra intelligenza ad aderire a Dio come alla prima Verità, se per disporre la nostra volontà a disporsi verso di Lui come oggetto della nostra beatitudine suprema e ad amarlo come bontà infinita, abbiamo bisogno delle virtù teologali, per il fedele, rapido e facile adempimento dei nostri obblighi morali, sono necessarie anche altre virtù: la prudenza, per illuminare e dirigere la nostra condotta, e per insegnarci a discernere ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare; la giustizia, per prepararci a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; la fortezza, per farci superare le difficoltà incontrate nella pratica del bene; la temperanza, infine, per moderare i piaceri dei sensi e mantenerli entro i giusti limiti. A queste quattro virtù principali, comunemente chiamate cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la nostra vita morale, vi è una moltitudine di virtù secondarie e ausiliarie, che hanno tutte il proprio oggetto e scopo, e contribuiscono, ciascuna nella propria sfera, all’ordine e alla santificazione della nostra esistenza terrena fin nei minimi dettagli. Ma che dire delle virtù morali come la fede, la speranza e la carità? Sono esse divinamente infuse per essere gli organi e gli strumenti della vita soprannaturale, o dovremmo acquisirle con le nostre azioni? Sono un dono dello Spirito Santo o un prodotto della natura? In una parola, dovremmo ammettere come giusto, oltre alle virtù morali naturali che costituiscono l’uomo onesto e che sono acquisite con la ripetizione frequente degli stessi atti, altre virtù simili di ordine superiore –, delle virtù morali cristiane o soprannaturali che Dio produrrebbe direttamente e diffonderebbe nelle anime con la grazia e che sarebbero prerogativa esclusiva dei suoi figli adottivi? Una questione che in passato è stata oggetto di accesi dibattiti ed in cui la diversità di opinioni può ancora avere libero corso. Un certo numero di teologi medievali, considerando da un lato che la l’influenza della carità fosse sufficiente a rendere meritevole della vita eterna degli atti che emanavano da principi naturali, non vedevano la necessità di queste virtù infuse; e, d’altra parte, essi contestavano la loro esistenza come contraria all’esperienza, con il pretesto che dopo la loro giustificazione gli uomini incontravano le stesse difficoltà di prima per il bene. Tuttavia, la caratteristica della virtù è quella di inclinare verso il bene colui che la possiede e di renderla facile da praticare.  Nonostante queste ragioni, più pretestuose che convincenti, la stragrande maggioranza dei dottori ha sempre ritenuto e insegnato come più probabile l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. Noi non possiamo, è vero, portare qui a favore di questo sentimento, come abbiamo fatto in precedenza per le virtù teologali, l’autorità del Concilio di Trento, perché esso non fa alcun riferimento alle virtù morali. Ma sarebbe uno strano errore voler argomentare da questo silenzio per combattere un insegnamento comune nella Scuola. Se il Santo Concilio non parla delle virtù morali infuse, la ragione è facile da comprendere; perché per rimanere fedele al suo programma e alla risoluzione presa dall’inizio secondo il principio di concentrare tutti i propri sforzi sulle verità negate dall’eresia e non di dirimere le questioni controverse tra i Cattolici. – E per non fraintendere il suo vero pensiero, il Catechismo ufficiale redatto dai suoi canoni ed approvato dal grande Papa san Pio V elenca, tra gli effetti del battesimo, « il nobilissimo corteggio di tutte le virtù che sono divinamente infuse nell’anima con la grazia: Huic autem additur nobilissimus omnium virtutum comitatus, quæ in animam cum gratia divinitus infunduntur. » (Catech. Conc., part, n, de Baptismo, n. 51). Espressioni certamente singolari, se questa processione consistesse solo delle tre virtù teologali. – Questa non è l’unica occasione in cui la Chiesa ha espresso i suoi sentimenti su questo punto. Già nel XIII secolo, in relazione ad una controversia sugli effetti del Battesimo nei bambini, un tema sul quale i teologi erano divisi in due campi, alcuni sostenendo che la virtù del Sacramento rimette semplicemente ai bambini la colpa originaria, senza conferire loro né la grazia né le virtù infuse, che non consideravano necessarie finché il bambino non fosse stato in grado di compierne gli atti, mentre gli altri essendo di parere contrario, un illustre Pontefice, Innocenzo III, senza commentare il contenuto del dibattito, aveva tuttavia sottolineato che l’affermazione di coloro che sostengono che « né la fede, né la carità, né le altre virtù sono conferite ai bambini, per mancanza di consenso, non è assolutamente accettata dal maggior numero » . Infatti, la maggior parte dei teologi riteneva che l’infusione della grazia e delle virtù fosse un’abitudine, non solo negli adulti, ma anche negli stessi bambini. E di quali virtù si trattava? Delle virtù teologali? Senza dubbio, ma anche delle altre, secondo l’espressione di Innocenzo III. Ora, se le prime fossero state le uniche coinvolte, cosa c’è di più semplice e di più naturale che completare l’enumerazione aggiungendo la speranza, alla fede e alla carità già citata? E perché questo plurale “le altre virtù”, per designarne solo una?

IV.

Un secolo dopo, nel 1312, nel Concilio Ecumenico di Vienne, un altro Pontefice, Clemente V, riprendendo questa stessa questione ancora in discussione tra scotisti e tomisti, questa volta sostenendo chiaramente il sentimento di san Tommaso, e, senza farne una definizione di fede, dichiarava di adottare, con l’approvazione del Concilio, « come più probabile e conforme agli insegnamenti dei Santi e dei teologi moderni, l’opinione secondo la quale la grazia informante e le virtù siano conferite a tutti i battezzati, bambini o adulti » (Clemens V, in Conc. Vienn., De summa Trinit., et Cathol. Fide). Al cospetto di tale autorità, i teologi hanno da allora comunemente accettato l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. E la Scrittura, così come la Tradizione, sostengono questa opinione. Le Sante Lettere ci parlano di virtù cardinali che non sono il risultato del lavoro umano, ma il frutto della sapienza divina. « Perché è essa che insegna la temperanza, la prudenza, la giustizia e la forza, cioè ciò che è la cosa più utile in questa vita » (Sap. VIII,7). Anche sant’Agostino dichiara che « ci sono quattro virtù che devono dirigere la nostra vita, secondo la dottrina dei savi e gli insegnamenti della Scrittura. La prima si chiama prudenza; essa ci fa distinguere tra bene e male. La seconda è la giustizia, con la quale restituiamo a tutti ciò che appartiene loro. La terza è la temperanza, attraverso la quale freniamo le nostre passioni. La  quarta è la fortezza, che ci permette di sopportare tutto ciò che è doloroso. Queste virtù ci sono date da Dio con grazia in questa valle di lacrime: Iste virtutes nunc in convalle plorationis per gratiam Dei dantur nobis » (S. Agost. in Ps. LXXXIII). – A sostegno di questa dottrina, San Tommaso fornisce una ragione teologica di grande importanza. E’ necessario – egli dice – che gli effetti corrispondano e siano proporzionati alle loro cause o principi. Tuttavia, tutte le virtù, sia intellettuali che morali, che possiamo acquisire attraverso le nostre azioni, derivano da certi principi depositati nel profondo del nostro essere, da certi germi naturali di cui sono la realizzazione. In luogo ed al posto di questi principi, Dio ci conferisce, nell’ordine della grazia, le virtù teologali, che ci ordinano verso il nostro fine soprannaturale. È quindi necessario, perché ci sia armonia nel piano divino, che queste virtù teologali divinamente infuse corrispondano ad altre abitudini soprannaturali, della stessa origine e dello stesso ordine, che mirino a soprannaturalizzare la nostra vita morale e a rendere i suoi atti meritevoli della vita eterna; abitudini che siano alle virtù teologali ciò che le virtù umane, intellettuali o morali sono ai principi naturali da cui derivano (S. Th., Ia-IIæ, q. LXIII,  a. 3). Infatti, non lo si deve nascondere, le virtù acquisite non sono proporzionate alle virtù  teologali: non sunt proportionatæ virtutibus theologicis » (Idem. ad. 1); derivate da principi naturali, non possono estendere la loro attività oltre i limiti della natura. Senza dubbio, operando sotto l’influenza e l’impero della carità, possono compiere opere meritorie; ma tutto il valore di queste opere deriva in definitiva dal principio che le ispira, e l’atto che emana da una virtù naturale rimane intrinsecamente un atto naturale, senza proporzione di per sé con la ricompensa celeste. – Il Cristiano può quindi possedere due tipi di virtù morali, specificamente diverse, alcune naturali ed acquisite, altre soprannaturali ed infuse: prudenza naturale e prudenza infusa, giustizia naturale e giustizia infusa, ecc. che hanno lo stesso oggetto materiale, ma si differenziano non solo per la loro origine e modalità di crescita, ma anche per il loro oggetto formale e per la loro regola. – Così, mentre la temperanza naturale ci mantiene, nell’uso del cibo, una giusta misura fissata dalla ragione e consistente nell’evitare ogni eccesso capace di nuocere alla salute del corpo o di ostacolare le operazioni intellettive, la temperanza infusa o cristiana, elevandoci più in alto, ci inclina, sotto la direzione della fede, a punire il nostro corpo e ridurlo alla servitù con digiuni, astinenze, veglie e altre mortificazioni; e lo stesso vale per le altre virtù morali, a seconda che siano un prodotto della natura o un dono di Dio. Alcuni possono incontrarsi pure nel peccatore, altri sono privilegio esclusivo dei giusti. Ma allora, da dove possono venire le difficoltà e le ripugnanze nella pratica di certe virtù degli uomini giustificati, e chi dovrebbe quindi possederle tutte? Perché finalmente il miglior marchio, il segno più autentico della presenza di un’abitudine, è la facilità e il piacere che proviamo nel farne gli atti. – Anche san Tommaso, dal quale abbiamo preso in prestito l’obiezione, ce ne fornirà la risposta. « Non è raro – egli dice – trovare qualcuno con un’abitudine intellettuale o morale e che tuttavia abbia difficoltà a compierne gli atti, e non prova né piacere né soddisfazione a causa di alcuni ostacoli estrinseci che si pongono di traverso. Così, uno scienziato incontra a volte una vera difficoltà ad affrontare la scienza che ha acquisito, quando il sonno o qualche altra indisposizione ostacola l’esercizio delle sue facoltà. Allo stesso modo, chi possiede le virtù morali infuse può occasionalmente sperimentare qualche difficoltà nella pratica delle buone opere, come risultato di una cattiva inclinazione precedentemente contratta e che queste virtù non hanno fatto scomparire, perché non sono direttamente opposte ad essa. Lo stesso non si può dire delle virtù acquisite; per gli atti che le generano, rinnovandosi frequentemente, distruggono di per se stesse le disposizioni contrarie ». (S. Th., 1a -IIæ. q. LXV, a. 3, ad 2). – Aggiungiamo, per completezza, che non è universalmente vero che il peccatore giustificato senta, dopo una sincera e generosa conversione, la stessa ripugnanza per il bene come prima.  Quante difficoltà, che all’inizio sembravano insormontabili, vengono improvvisamente superate dall’azione della grazia e scompaiono come per incanto! Ne è testimone S. Agostino che racconta di se stesso: « all’improvviso  mi sembrava dolce il rinunciare alle dolcezze dei vani divertimenti! Io avevo timore di perderli, mentre ora la mia gioia era di lasciarli. Perché li cacciavate lontano da me queste dolcezze, Voi, la vera e sovrana dolcezza; Voi li allontanate ed entrate al loro posto, Voi che siete più dolce di ogni voluttà, ma di una dolcezza sconosciuta alla carne e al sangue … Già l’anima mia era libera dalle cocenti cure che eccitavano in me l’ambizione, la cupidigia, l’amore delle grossolane voluttà; e il mio piacere era di parlare con Voi, Signore mio Dio, che ora eravate oramai la mia gloria, le mie ricchezze e la mia salvezza » (S. Agost. Con. L. IX, c. I).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/12/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-14/

SALMI BIBLICI: “DIXIT DOMINUS, DOMINO MEO” (CIX)

SALMO 109: “DIXIT DOMINUS DOMINO MEO ominus”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 109

[1] Psalmus David.

    Dixit Dominus Domino meo:

Sede a dextris meis, donec ponam inimicos tuos scabellum pedum tuorum.

[2] Virgam virtutis tuae emittet Dominus ex Sion: dominare in medio inimicorum tuorum.

[3] Tecum principium in die virtutis tuae in splendoribus sanctorum; ex utero, ante luciferum, genui te.

[4] Juravit Dominus, et non poenitebit eum: Tu es sacerdos in aeternum secundum ordinem Melchisedech.

[5] Dominus a dextris tuis; confregit in die irae suae reges.

[6] Judicabit in nationibus; implebit ruinas, conquassabit capita in terra multorum,

[7] de torrente in via bibet; propterea exaltabit caput.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CIX.

Salute del regno di Cristo e del suo Sacerdozio. Cosiè inteso e spiegato in molti luoghi della Sacra Scrittura. — S. Matt., c. XXII; Att. II; Cor. XV; Ebr. I, 5, I., 10.

Salmo di David.

1. Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra; Fino a tanto che io ponga i tuoi nemici sgabello ai tuoi piedi. (1)

2. Da Sionne stenderà il Signore lo scettro di tua possanza; esercita il tuo dominio in mezzo dei tuoi nemici.

3. Teco è il principato nel giorno di tua possanza tra gli splendori della santità; avanti la stella del mattino io dal mio seno ti generai. (2)

4. Il Signore ha giurato, ed ei non si muterà: Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech.

5. Il Signore sta al tuo fianco; egli nel giorno dell’ira sua i regi atterrò.

6. Farà giudizio delle nazioni; moltiplica le rovine; spezzerà sulla terra le teste di molti.

7. (E dirà): Egli nel suo viaggio berrà al torrente; per questo alzerà la sua testa. (3)

***

( 1) Il titolo di Signore, di Sovrano, dato da Davide al Messia, prova la sua divinità.

(2) La parola ἀρκὴ significa nello stesso tempo principium e principatus. – Non c’è versetto che sia stato mai tanto diversamente interpretato, e comparando tutte queste versioni, risulta che siamo al cospetto di un testo che ha sofferto. La causa non è forse perché esprime molto chiaramente la generazione eterna, e di conseguenza la divinità del Salvatore? Noi pensiamo che il testo vero è quello che segue il traduttore greco. Noi diciamo greco, perché scriveva in questa lingua. Si sa che era giudeo. L’espressione ex utero non deve essere preso alla lettera; è una antropologia (S. Gerol.). – Nello splendore dei santi, nel giorno in cui i santi saranno circondati di splendore.

 (3) Agier e de Nolhac fanno qui notare, a ragione, che nei paesi caldi dell’Oriente, e specialmente in Palestina, l’acqua è rara. I viaggiatori ricchi prendono cura di far provviste con otri che vengo portati dai cammelli o dagli schiavi, mentre i poveri sono ridotti a contentarsi di quella che trovano lungo la strada, spesso fornita dai torrenti.  La scrittura fa menzione di un torrente celebre, il torrente del Cedron, in due circostanze notevoli. Davide oltrepassa questo torrente quando esce da Gerusalemme fuggendo davanti a suo figlio Assalonne, ed ebbe ben presto a sopportare le ingiurie e le maledizioni di Séméi (II Re, XXV, 23). Gesù-Cristo passò questo stesso torrente quando uscì da Gerusalemme per andare con i suoi discepoli ove il traditore Giuda doveva poi venire a consegnarlo ai Giudei (Giov. XVIII, 1).

Sommario analitico

È di fede che questo salmo abbia come autore Davide, non solo perché Nostro Signore Gesù-Cristo glielo attribuisce alla presenza dei farisei, alla credenza dei quali Egli lo avrebbe accomodato, ma perché l’argomentazione che fonda sulla citazione che ne fa, non avrebbe valore se questo salmo non fosse composto da Davide. – È ancora di fede che questo salmo abbia per oggetto il Messia e che si riferisca interamente a Nostro-Signore Gesù-Cristo: Egli infatti lo attribuisce a se stesso (Matth. XXII, 44); San Pietro lo ha commentato in questo stesso senso (Act. II, 34), e San Paolo in modo non meno esplicito (I Cor. XV, 25; Ebr. II, 13). – Il Re-Profeta vi annuncia e ne celebra la potenza, la generazione eterna nonché il Sacerdozio del Figlio di Dio:

I. – La sua potenza reale:

1° Nel cielo, il suo trono è comune con quello di suo Padre (1);

2° Sulla terra, aspettando la sottomissione completa dei suoi nemici, punto di partenza di questa potenza (2);

3° Nell’ultimo giorno, secondo il sentimento di diversi Padri, S. Crisostomo, Teodoreto, Sant’Agostino, San Atanasio, etc.

II. – La ragione e la fonte di questa potenza:

1° La ragione di queste vittorie: Tecum principium;

2° il giorno in cui trionferà nella maniera più eclatante;

3° il segreto di tanta potenza e gloria, è la sua generazione eterna (3).

III. – Gli attributi che derivano da questa generazione:

1° Il sacerdozio la cui eccellenza deriva, a) da quanto ha promesso con giuramento; b) dal fatto di essere di un ordine superiore a quello della legge; c) per essere Egli eterno (4);

2° La potenza vittoriosa del Cristo per il rovesciamento degli idoli, il giudizio ed il castigo dei re e dei popoli, e dei demoni, dei quali colmerà le rovine con delle ineffabili sostituzioni (5, 6).

IV. – Il Mezzo con il quale è arrivato a questo alto grado di potenza e di gloria, cioè il merito e la ricompensa.

1° Egli ha bevuto l’acqua del torrente, espressioni che nella Scrittura significano ordinariamente l’umiliazione, le afflizioni ed il dolore (7). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1. – Quanto questo salmo è breve per numero di parole, tanto più è grande e considerevole per i pesi dei pensieri. (S. Agost.). – Dio ha un Figlio, e questo Figlio è Dio come Lui, e questo Figlio è generato dal Padre suo eternamente, sostanzialmente; « Egli è lo splendore della sua gloria, l’immagine della sua sostanza. » (Hebr. I, 3). Tali sono la magnificenze che canta Davide in questo salmo: « il Signore ha detto al mio Signore. » È Dio Padre che parla a Dio Figlio, e gli ricorda l’ineffabile segreto della sua eterna generazione. – È bello che Davide, al quale il trono era stato promesso nella figura di Gesù-Cristo, fosse il primo a riconoscere il suo impero chiamandolo “mio Signore”, come se avesse detto: in apparenza è a me che Dio promette un impero che non avrà mai fine; ma in verità, è a Voi, o Figlio mio, che siete anche mio Signore, che esso è dato; ed io vengo in spirito per primo tra tutti i vostri assoggettati, a rendervi omaggio nel vostro trono, alla destra del Padre, come al mio sovrano Signore. Ecco perché non è detto in generale: il Signore ha detto al Signore; ma: « al mio Signore » (Bossuet, Med.). – Noi lo vediamo essenzialmente come Dio, e diciamo: « è qui il nostro Dio e non ce n’è altri. » Perché se è generato, Egli è Figlio, della stessa natura del Padre; se è della stessa natura, Egli è Dio, ed un solo Dio con suo Padre; perché nulla è più della natura di Dio che la sua unità. – Egli è Re; io lo vedo in spirito seduto in un trono. Dove è questo trono? Alla destra di Dio; lo poteva mettere in luogo più elevato? Tutto accoglie da questo trono: tutto ciò che è accolto da Dio e dall’impero del cielo, vi è sottomesso. Ecco il suo impero. (Bossuet, Med. LII, j). – «Sedetevi alla mia destra. » Questa espressione metaforica, “sedetevi”, significa due cose, dicono San Crisostomo e san Tommaso: la maestà ed il riposo; la maestà, qui c’è eguaglianza di onore; il trono è simbolo di regalità, e poiché non c’è che un solo trono, entrambi dividono l’onore della medesima Regalità. È ciò che faceva dire a San Paolo (Hebr. I, 7, 8): « Dio ha fatto degli spiriti i suoi inviati, e fiamme i suoi ministri. Ma al Figlio, Egli dice: « Il vostro trono, o Dio, sarà un trono eterno. » (S. Chrys.). – « Sedete alla mia destra, la divinità ci viene sottolineata molto chiaramente nella prima parte di questo versetto; e non lo è meno nella seconda: il Figlio seduto alla destra del Padre, è il segno della sua potenza, della sua perfetta eguaglianza con il Padre, Egli è Dio come il Padre. Ma se c’è uguaglianza perfetta tra il Padre ed il Figlio, c’è pure distinzione di Persone: il Figlio è generato dal Padre; « Egli siede alla sua destra. » – Si può anche dire che queste parole richiamino e suppongano l’umanità di Gesù-Cristo: Egli fa il suo ingresso nel cielo, vi è ricevuto come un ospite, e Gli è assegnato da Dio, suo Padre, un posto distinto. Il Figlio di Dio, è dunque anche il Figlio dell’uomo, perché gli si da il riposo, la potenza e la gloria; il riposo dopo i travagli ed i dolori della sua vita mortale. Egli divide ora il trono di suo Padre associato al suo impero come lo è alla sua divinità. È il Signore: Egli siede nel soggiorno della gloria, e nulla accade nel mondo senza il suo ordine o il suo permesso. « Sedetevi. » La sua potenza è indistruttibile, Egli è seduto! Ben diversamente dai re ed i principi di questo mondo, che sono per così dire in piedi sui loro troni, pronti a partire al primo colpo di vento e che non fanno che prendere e deporre la porpora ed il diadema; Egli è seduto: il suo trono è eterno; il suo regno non avrà fine, (Mgr PICHENOT, PS. du Dim. 29.). – Tutto ciò che è passato nel capo, deve, fino ad un certo punto, rinnovarsi nei membri: « Se siete resuscitati con Gesù-Cristo, cercate le cose del cielo ove il Cristo è seduto alla destra di suo Padre » (Coloss. III, 2). Al termine della nostra carriera, riconoscendo in noi la somiglianza che dobbiamo avere con suo Figlio, Dio Padre ci dirà: Buoni servitori, riposatevi, fermatevi, passate alla destra; gregge fedele, voi avete completato la vostra corsa, avete conservato la fede, avete trionfato del mondo, non vi resta che gustare il riposo, cingere la corona di giustizia e prendere posto sul trono stesso di mio Figlio. – Perché, ecco ciò che dice Colui che è la verità stessa, il testimone fedele e verace, che è il principio della creatura di Dio … « Colui che sarà vittorioso Io gli darò di sedere sul mio trono, come Io stesso ho vinto, e mi sono seduto con Voi, Padre, sul vostro trono. » (Apoc. III, 14-21). – « Finché avrò ridotto i vostri nemici a servire da marciapiede. » Questa espressione “fino a che”, non designa sempre nella scrittura un tempo limitato, è semplicemente un’affermazione che si applica, invero, ad una determinata epoca, e che nondimeno non ne esclude nessuna; perché se il regno di Gesù-Cristo si dovesse intendere al di là, ove sarebbe la verità di queste parole del profeta: « La sua potenza è una potenza eterna, il suo regno, un regno che non deve esaurirsi, e questo regno non avrà fine? » (Dan. VII, 14; Luc. I, 34) Non è sufficiente intendere queste parole, bisogna comprenderle ed entrarne nell’intelligenza anche delle cose che il Profeta ha in vista (S. Chrys.). – Tuttavia, questa maniera di esprimere è logica e fondata sulla ragione; questo “fino a quando” porta in effetti sul lasso di tempo in cui le cose che si affermano sembrano meno verosimili; e dà luogo, di conseguenza, ad un fortiori invincibile per giorni migliori e più felici. Se il Cristo è tranquillamente e gloriosamente seduto sul suo trono alla destra del Padre, anche nell’ora del combattimento, e quando i suoi nemici non sono ancora vinti, Egli deve regnare meglio che mai quando Dio li avrà circondati ed annientati. (Mgr PICHENOT, p. 35.). – Il Figlio di Dio, avrà dunque dei nemici, la Santa Scrittura e l’esperienza ce lo attestano. Essi devono essere come un segno di contraddizione universale: la storia di tutti i secoli non è che il triste e lamentevole commento di queste parole. I Giudei, i Gentili, i popoli civilizzati e quelli barbari, la spada dei Cesari, la penna dei sofisti, l’ascia dei carnefici, tutto è stato diretto contro di Lui, soprattutto ciò che lo richiama, soprattutto quelli che gli appartengono. – Come saranno trattati i nemici? « Essi saranno talmente vinti, umiliati, che Io li ridurrò a servirvi da marciapiedi. » Ciò che si mette sotto i piedi di qualcuno, lo eleva e lo ingrandisce. I nemici del Signore, circondati e confusi, con le loro fronti superbe, formeranno come il primo grado del suo trono e della sua potenza. – Applichiamole – queste parole – ai Giudei, portatori dei nostri titoli, testimoni non sospetti dell’autenticità delle nostre profezie, ai persecutori, ai carnefici, agli scismatici, agli eretici, ai nemici interni ed a noi stessi. – Voi siete il nemico del Signore, sarete un giorno sotto i suoi piedi, infallibilmente adottati o vinti. Vedete quale posto volete occupare sotto i piedi del Signore vostro Dio, perché voi me avrete necessariamente uno, o di grazia, o di castigo; o verrete da voi stessi, condotti dalla grazia, a fare la vostra sottomissione al Redentore, o sarete circondato e schiacciato sotto i piedi delle sue vendette (S. Agost.).

ff. 2. – Il regno del Messia doveva cominciare da Gerusalemme, i Profeti lo avevano annunziato; il Salvatore diceva Egli stesso, non era stato inviato che alle pecore smarrite della casa di Israele, e raccomanda ai suoi Apostoli di predicare innanzitutto nella Giudea. – Questo scettro della potenza divina, questo mezzo particolare di vittoria che Dio ha scelto, è la sua croce, lo strumento stesso del supplizio, alfine di far meglio brillare la sua gloria ed apparire sola nella conversione dell’universo. Essa è stata per gli Apostoli, ciò che altra volta era stata per Mosè la verga miracolosa alla quale Dio aveva comunicato una potenza divina: San Paolo non predicava se non Gesù-Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, follia per i gentili, ciò che era in realtà la saggezza e la potenza di Dio (S. Chrys.). –  « Dominate in mezzo ai vostri nemici, », vale a dire in mezzo alle nazioni frementi. È solamente più tardi, quando i santi avranno ricevuto la gloriosa ricompensa, e gli empi la loro dannazione, che il Cristo dominerà in mezzo ai nemici? Quale stupore che allora vi domini? Ma è ora che Voi dovete dominare in mezzo ai vostri nemici, ora, in questo passaggio dei secoli, in questa propagazione e successione della mortalità umana, in questo torrente di tempi che fuggono, che bisogna assicurare la vostra dominazione in mezzo ai vostri nemici (S. Agost.). Il regno del Messia è un regno legittimo, vero, un regno volontario, ma è un regno contestato, ecco ciò che lo distingue; ci sono sempre dei nemici, Egli ne è circondato da ogni parte: « Io vi invio, diceva Gesù ai suoi Apostoli, come pecore in mezzo ai lupi. » Qual prova più grande di questa vittoria eclatante degli Apostoli, l’aver elevato degli altari in mezzo ai loro nemici, essi che erano come pecore in mezzo ai lupi, … Egli non dice: uccidete, sterminate i vostri nemici, che siano forzati a riconoscere la vostra sovrana potenza (S. Gerolamo). – Egli non dice: Siate vincitori in mezzo ai vostri nemici, ma stabilite il vostro impero, “dominate”, per insegnarci che non è un trofeo che eleva dopo aver trionfato dei suoi nemici, ma un impero che stabilisce con autorità (S. Chrys.). – Tutti i vostri nemici, o mio Re, « devono essere lo sgabello dei vostri piedi. » Essi saranno ridotti, essi saranno vinti, saranno forzati a baciare i vostri passi e la polvere ove avrete camminato; cosa aspettiamo? Mettiamoci volontariamente sotto i piedi di questo Re vincitore, per timore che non ci si metta per forza, per paura che non dica dall’alto del suo trono: « per coloro che non hanno voluto che Io regnassi su di loro, che li si faccia morire davanti agli occhi miei, » davanti alla mia verità, davanti alla mia giustizia eterna; perché questo sarà il loro eterno supplizio, che la verità e la giustizia li condanneranno per sempre, e questa sarà la morte eterna. « Sedetevi, aspettando « nel vostro trono », o Re di gloria, « finché non verrà il tempo di mettere tutti i vostri nemici sotto i piedi, » cioè: dimorate in cielo finché non veniate ancora una volta a giudicare i vivi ed i morti …

II. — 3.

ff. 3. – È sempre il Signore che parla al Signore, è Jéhovah che si trattiene con Adonai fatto uomo. Perché il Figlio di Dio dominerà in mezzo ai suoi nemici? « La sovranità è in Voi dal giorno della vostra potenza, » cioè: essa non è sopravvenuta accidentalmente, essa essenzialmente vi appartiene da sempre. È questa stessa verità che Isaia esprime in questi termini: « Egli porta sulla sua spalla il segno del suo dominio, » (Isai. IX, 6); vale a dire: Egli la porta in se stesso, nella sua natura, nella sua sostanza; è una prerogativa che non hanno i re, la cui sovranità è interamente nelle loro numerose armate (S. Chrys.). – La sovranità è con Lui, essa gli appartiene, è un suo diritto, è il suo eterno patrimonio sulla terra come nei cieli, essa non lo lascia mai. Siete Re? Gli domanda Pilato. « Si, Io lo sono, Egli rispondeva; è per questo che Io sono nato e sono venuto in questo mondo. » (Giov. XVIII, 37). San Giovanni, con uno sguardo di aquila, l’ha posto nell’isola di Patmos: « Egli portava scritto sui suoi vestiti: Re dei re e Dominatore dei dominatori. » Ma ogni sua virtù è interiore, risiede nella sua stessa volontà, scaturisce spontaneamente dalle profondità della sua natura divina. – Non è così di coloro che si chiamano i padroni del mondo: la loro forza non è che un prestito, non è sempre in essi, e soprattutto non è in essi: essa è nel numero e nel coraggio delle loro truppe, nella devozione ed abilità dei loro generali, nell’affezione e le buona volontà dei loro soggetti; essa è nei loro tesori, nelle loro muraglie o nel loro nome … se tutto ciò viene loro a mancare, essi restano soli … (Mgr. Pichenot, Ps. du Dim.). – Il Figlio di Dio conserva questa Maestà suprema in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, ma ci sono dei giorni in cui si compiace di far risplendere con più splendore e che per Lui sono i giorni della sua forza per eccellenza. Tre grandi giorni ci sono, in cui la potenza del Figlio di Dio si manifesta: il giorno della Creazione, il giorno della Redenzione ed il giorno del Giudizio e della Resurrezione (S. Agost.- S Chrys.). – Il Re-Profeta dice: « nello splendore dei santi, » e non: nello splendore, perché le ricompense eterne sono numerose e varie. Ci sono più dimore nella casa del Padre (Giov. XIV, 2), diceva Gesù-Cristo, e san Paolo (I Cor., XV, 41): « … il sole ha il suo bagliore, la luna il suo, e le stelle la loro chiarezza, e tra le stelle l’una è più brillante delle altre. » Ne è lo stesso alla resurrezione dei morti. » (S. Chrys.). Chi è colui che sembrerà così grande? Da dove viene la sua forza? Da dove viene la sua maestà? Colui che è consustanziale al Padre e al quale suo Padre ha detto: « Io vi ho generato dal mio seno ». – Un essere non può trarre la esistenza da Dio che in due maniere: o per via di creazione, secondo le parole di san Paolo: « Per noi non c’è che un solo Dio, il Padre dal quale procedono tutte le cose, » (I Cor. VIII, 6); o per via di generazione, secondo le parole di Nostro Signore Gesù-Cristo; « Io sono uscito da mio Padre, » (Giov. XVI, 28); e queste altre del salmista: « Io vi ho generato dal mio seno prima dell’astro del mattino, » non senza dubbio che Dio abbia un seno come le sue creature, ma perché i figli veri e legittimi sono generati dal seno delle loro madri. Dio dunque impiega questa espressione: « Io vi ho generato dal mio seno, » per confondere gli empi, affinché considerandone loro pasto, essi apprendano che il Figlio è il frutto vero e legittimo del Padre poiché esce dal suo dal proprio seno (S. Basilio, Adv. Eunom., lib. V). –  « Io vi ho generato dal mio seno prima dell’aurora. » Ecco ciò che spiega tutto, ed il principio delle sue grandezze. Egli viene dal seno di Dio, è una emanazione della sua sostanza, un altro se-stesso … Egli non è stato creato, non è stato fatto, ma generato; Egli non è l’opera di Dio, è il Figlio suo consustanziale; è là la sua gloria incomunicabile. Il Padre non ha detto a nessuno: Voi siete mio figlio, Io vi ho generato. (Mgr PICHENOT, PS. du D.). – Dio Padre non ha bisogno di associarsi ad altra cosa per essere padre e fecondo; Egli non produce fuori di sé questo altro se stesso, perché nulla di ciò che è fuori di Dio, è Dio. Dio dunque concepisce solo in se stesso: Egli porta in se stesso suo Figlio che gli è coeterno. Ancorché non sia che Padre, e che il nome di madre legato ad un sesso imperfetto per sé, e degenerante non gli convenga, Egli tuttavia ha come un seno materno nel quale porta suo Figlio: « Io ti ho – Egli dice – generato oggi da un seno materno. » Ed il Figlio unico si chiama Egli stesso: « Figlio unico che è nel seno del Padre, è un carattere unico proprio del Figlio di Dio; » perché dove è il Figlio, Egli solamente, che è sempre nel Padre suo, e non esce mai dal Padre suo? La sua concezione non è distinta dalla sua nascita; il frutto che è perfetto, dal momento che è concepito e non esce mai dal seno che lo porta. Chi è portato in un seno immenso è innanzitutto così grande e così immenso, come il seno in cui è concepito, e non ne può mai uscire (Bossuet, Elev. 11, S. I, El.). – Queste parole: « Prima della stella del mattino, » non significano … prima che si levi la stella del mattino, ma … prima della creazione e la nascita di questa stella. La Scrittura distingue perfettamente queste due circostanze. Prima della natura, la creazione, e prima del levarsi (Sap. XVI, 28; Ps. LXXI, 17-5), (S. Chrys.). – La stella del mattino, il precursore è messo qui per tutti gli astri, designando la Scrittura il tutto con la parte, e tutti gli astri con l’astro più brillante (S. Agost.). – Cosa dunque? La sua generazione non ha preceduto se non la stella del mattino? No, senza dubbio, poiché infatti leggiamo: « il suo trono esiste da prima della luna. » E non solo prima della luna, poiché lo stesso Re-Profeta dice del Padre: « Prima della formazione delle montagne, prima della formazione della terra e del mondo, Tu sei Dio di tutti i tempi e per l’eternità. » (Ps. LXXXIX, 2). Dio non esiste solo dopo l’inizio dei secoli, ma prima di tutti i secoli (S. Crys.). – Tanto fu senza dubbio per ricordare questa generazione eterna, che il Figlio di Dio ha voluto nascere nel tempo, a metà della notte, prima dell’aurora.   

III. — 4-6.

ff. 4. – Davide dà ora alla sua profezia la forma di un giudizio solenne, e si rivolge al Figlio di Dio stesso, segno evidente di un amore ardente, di una gioia straordinaria, di un’anima piena dello Spirito di Dio … Egli discende dalle altezze ove si era posto e tratta così di volta in volta della divinità o dell’umanità del Salvatore (S. Chrys.). –  Mistero d’amore e di condiscendenza, Dio fa, per così dire, il sacrificio della sua dignità e scende fino a prestare giuramento tra le nostre mani, se posso esprimermi così, fino a giurare per se stesso che ha detto la verità e che si possa credere alla sua parola. – Gli uomini giurano per Colui che è più grande di essi, ma l’Altissimo per chi dovrebbe giurare? Non trovando – dice S. Paolo – superiori o eguali, Egli giura per se stesso, così come ci afferma, ed il suo giuramento resta in eterno! – Cosa ha giurato? « Voi sarete sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedek. » Gesù-Cristo è Sacerdote, è il Pontefice della Nuova Alleanza, il Vescovo delle nostre anime, è Lui e Lui solo che riconosce ed adora come esse meritano le grandezze di Dio, le ringrazia degnamente per i loro benefici, disarma la sua giustizia ed effonde su tutti i doni del Signore. – Egli è Sacerdote eterno; si può dire, a rigore, che il suo Sacerdozio non è cominciato e non finirà e che, fin nelle profondità di Dio, Egli celebra le sue ineffabili grandezze, riflettendole nella sua adorabile Persona. Ma il suo Sacerdozio propriamente detto non è cominciato che con il mondo. Dopo la caduta, in particolare, il Figlio di Dio preludeva al ministero ed alle funzioni sante del suo Sacerdozio. Egli è l’Agnello immolato fin dall’inizio del mondo … La Giudea, la terra intera, non è che un immenso altare ove tutto richiamava, figurava, questa grande Vittima. – Egli è Sacerdote soprattutto dopo la sua incarnazione ed in tutto il corso della sua vita mortale. È perciò che il Figlio di Dio, entrando nel mondo dice: Voi non avete voluto sacrificio né oblazione, ma mi avete formato un corpo: gli olocausti ed i sacrifici per il peccato non vi sono graditi, allora io ho detto: Eccomi (Ebr. X, 5-7). –  Egli è Sacerdote sulla croce, ove lo vediamo, con la mani stese al cielo, offrire il grande Sacrificio della preghiera … Egli resuscita e risale verso i cieli per continuarvi le auguste funzioni del suo Sacerdozio. Egli ancora è Sacerdote sulla terra e nei nostri santi tabernacoli, ove si immola ogni giorno, ove rinnova e perpetua il Sacrificio della croce. I Sacerdoti non sono che gli strumenti della sua potenza e come i veli con i quali ricopre le sue ineffabili operazioni (V. S. Paolo, Ep. ad Hebr.). –  Voi siete Sacerdote eternamente, secondo l’ordine di Melchisedek; come lui, non avete né precursori né successori; il vostro Sacerdozio è eterno; Egli non dipende dalla promessa fatta a Levi né ad Aronne ed ai suoi figli: « Venite Gesù, Figlio eterno di Dio, senza madre nel cielo, e senza padre sulla terra; nel quale noi vediamo e riconosciamo una discendenza reale; ma per quanto concerne il Sacerdozio, non lo avete se non da Colui che ha detto: « Voi siete mio figlio, oggi vi ho generato. » (Ps. II, 7). Per questo divin Sacerdozio, non bisogna essere che Dio, e Voi avete la vostra vocazione per la vostra nascita eterna. Voi venite anche da una tribù alla quale Dio non ha ordinato nulla circa il sacrificare: « la vostra ha questo privilegio di essere stabilita per giuramento », immobile, senza ripetizioni e senza cambiamenti; il Signore, Egli dice, « ha giurato, e non se ne pentirà mai. La legge di questo sacerdozio è eterna ed inviolabile. » Voi siete solo: Voi lasciate tuttavia dopo di voi dei Sacerdoti, che non sono che vicari, e non successori, senza poter offrire altre vittime se non quella che avete offerto sulla croce e che offrite eternamente alla destra di vostro Padre (Bossuet, Elev. XI+  II, S. VII, E.). Voi celebrate per Voi un ufficio ed una festa eternamente alla destra di vostro Padre, gli mostrate incessantemente le cicatrici delle piaghe che l’appagano e ci salvano; Voi gli offrite le nostre preghiere, intercedete per le nostre colpe, ci benedite, ci consacrate; dall’alto dei cieli, battezzate i vostri figli, cambiate dei doni terrestri nel vostro corpo e nel vostro sangue, rimettete i peccati, inviate il vostro Spirito-Santo, consacrate i vostri ministri, fatte tutto ciò che essi fanno nel vostro Nome; quando noi nasciamo, voi ci lavate con acqua celeste; quando moriamo ci sostenete con una unzione di conforto; i nostri mali diventano dei rimedi e la nostra morte una passaggio alla vita eterna. O Dio! O Re! O Pontefice! Io mi unisco a Voi in tutte queste auguste qualità; io mi sottometto alla vostra divinità, al vostro impero, al vostro Sacerdozio, che onorerò umilmente e con fede nella persona di coloro attraverso i quali vi piace esercitarli sulla terra (Bossuet, Médit. LII, J.). – Questa promessa che Dio Padre indirizzava a suo Figlio avanti i secoli, non si compie con meno splendore in seno alla Chiesa cattolica. Là pure, Gesù-Cristo è sempre vivente nel corpo augusto dell’episcopato e del sacerdozio; Egli non è solo il Principe dei pastori, ne è anche l’anima; la loro dignità sublime è il prolungamento del suo sacerdozio supremo attraverso il tempo e lo spazio. Sacerdote, « secondo l’ordine di Melchisedech, » cioè senza genealogia mortale. La volontà dell’uomo non vi ha parte; esso non è né nella carne né nel sangue che va ad affondare le sue radici e succhiare la linfa che l’alimenta; ma Egli è nato da Dio; la fede, la grazia e la celeste verginità lo propagano e lo perpetuano. Misterioso ed immacolato alla sua origine, è imperituro nella sua durata. L’impegno è preso: Colui che ha fatto questa importante opera non la distruggerà rimpiangendo di averla creata. Un Vescovo, un Sacerdote si estinguono; un altro Vescovo, un altro Sacerdote gli succedono, spariscono a loro volta, ma l’istituzione rimane. (Mgr PLANTIER, Mission remplie par l’Episcop.). – « Secondo l’ordine di Melchisedech. Come Melchisedech ha offerto a Dio una vittima non sanguinante, il pane ed i vino in sacrificio, e lo ha offerto al vincitore, così il Figlio di Dio istituisce il Sacrificio della Nuova Alleanza sotto le specie e le apparenze del pane e del vino. Questi semplici elementi scoprono ai nostri occhi i più profondi misteri ed i più ricchi doni. – « Avendo dunque per Sommo Pontefice Gesù, Figlio di Dio, salito nel più alto dei cieli, restiamo fermo nella fede; avviciniamoci a Lui con un cuore puro e devoto; andiamo dunque con confidenza davanti al trono della grazia, per ricevervi misericordia e trovarvi grazia in un soccorso opportuno (Hebr, IV, 14, 15).

ff. 5. – Il Re-Profeta si rivolge qui al Signore stesso che ha fatto questo giuramento: O Signore, voi che avete giurato ed avete deS per l’eternità è il Signore che sta alla vostra destra perché Voi stesso gli avete detto: «Sedete alla mia destra. »  Ma questo Cristo, il Signore seduto alla vostra destra, a chi avete fatto giuramento del quale non vi pentirete, che fa nella sua qualità di Sacerdote in eterno? Che fa, Egli che è alla destra di Dio, che intercede per noi (Rom. VIII, 34), e che entra come Sacerdote all’interno del Santo dei santi, nelle profondità segrete dei cieli, essendo il solo senza peccato e per questo anche purificante con facilità gli uomini dai loro peccati (Hebr. IX, 12, 14, 24)? « Stando alla vostra destra, ha distrutto i re nel giorno della sua collera. » Quali re? Avete dunque dimenticato queste parole: « … I re della terra si sono levati, ed i principi si sono riuniti contro il Signore e contro il suo Cristo? » (Ps. II, 2). Ecco i re che la sua gloria ha distrutti, Egli li ha gettati sotto i suoi piedi del suo nome, in maniera che non potessero fare ciò che volevano. In effetti essi hanno fatto mille sforzi per cancellare dalla terra il nome Cristiano, e non lo hanno potuto perché « chiunque urterà contro questa pietra, sarà distrutto. » (S. Matth. XXI, 44). Questi re si sono scontrati contro la pietra di inciampo, e sono stati distrutti, per essersi detti: Cos’è il Cristo? Io non so qual giudeo, qual galileo, morte in tal modo, ucciso in tale maniera. La pietra è davanti ai vostri piedi, essa è là come qualche cosa di oscuro e vile; voi vi scontrate contro di essa disprezzandola, cadete urtandola, e vi siete distrutti cadendo. Se dunque la collera del Signore è così terribile quando si nasconde, qual sarà il suo giudizio quando si manifesterà? …« Chiunque si scontrerà contro questa pietra sarà distrutto, e colui sul quale cadrà questa pietra, sarà schiacciato. » (S. Luc. XX, 18). Quando si urta contro di essa, che è come umilmente stesa a terra, ci si sgretola; ma se essa cade dall’alto, allora schiaccia. Con queste doppie espressioni: « essa distruggerà, ed essa schiaccerà, egli urterà contro di essa, essa piomberà su di lui … sono designate due epoche diverse, quella dell’abbassamento e della glorificazione del Cristo, quella del castigo nascosto e del giudizio a venire. » (S. Agost.). – « Nel giorno della sua collera; » espressione di cui la Scrittura si serve per mettersi alla nostra portata, a causa della similitudine degli effetti. Quando un uomo è spinto allo stremo, si riempie di collera, e nella sua giusta indignazione, getta e distrugge ciò che gli resiste. Così Dio, contrariato nei suoi disegni, disprezzato nel suo amore, colpisce rudemente tutti coloro che si ostinano a lottare contro di Lui e non voglio arrendersi; ma ciò che facciamo nella collera, Egli lo fa con un sangue freddo divino che è molto più terribile; Egli lo fa nella sua eterna calma, nella sua profonda ed inalterabile immutabilità; Egli è pieno di collera, non conosce altro. Che dire ancora: « Nel giorno della sua collera? » Dio non colpisce che al momento, ha dei rimpianti. La bontà è la sua natura, la giustizia è un’opera che gli è come estranea. Per se stesso, Egli non è che buono; siamo noi che armiamo le sue mani di fulmini, che lo forziamo ad essere giusto, severo, impietoso (S. Agost.) (Mgr PICHENOT, PS. du D..).

ff. 6. – « Egli eserciterà il suo giudizio in mezzo alle nazioni. » Dio governa tutto quaggiù, e nulla gli sfugge: Egli conduce i popoli e gli imperi come le famiglie ed i semplici individui, con la stessa cura e con la stessa facilità … c’è l’occhio della provvidenza, come c’è il braccio della giustizia, ed è per ciò che da Lui si rialzano tutti gli imperi, ed Egli li giudica con una sì perfetta equità. Gli uomini non vedono nel governo dei popoli che gli sforzi della politica, le combinazioni del genio o i semplici giochi del caso; il Cristiano sa che gli uomini per quanto facciano e si agitino, è Dio che li guida; invano i saggi propongano, Dio solo dispone e regola tutto con maestria. – « Egli moltiplicherà o li colmerà di rovine. »  Giudizio di Dio di due tipi: gli uni di rigore, gli altri di bontà e di misericordia. – La maggior parte degli interpreti traducono: Egli moltiplicherà le rovine, seminerà dappertutto la desolazione e la rovina, giungerà alla disfatta dei suoi nemici. Qualche altro, San Agostino, in particolare, spiega così: « Egli riempirà, colmerà le rovine fatte dalla sua giustizia, riedificherà ben presto su di un altro piano ciò che sarà obbligato a rivoltare dapprima. Quali rovine? Chiunque – egli dice – avrà temuto il suo nome, cadrà; quando sarà caduto, ciò che era sarà rivoltato, affinché ciò che non era, sia costruito.  Sappiatelo, voi ribelli al Cristo, voi elevate all’aria una torre che cadrà! Vi è più utile rivoltarvi da voi stessi, farvi umili, gettarvi ai piedi di Colui che è assiso alla destra del Padre, affinché si faccia di voi una rovina che possa essere rialzata. (S. Agost.). – Queste due interpretazioni possono essere adottate entrambe; si ha così il pensiero del profeta, e si legano facilmente queste parole alle due specie di giudizio indicato qui sopra. I salmi ci mostrano Dio di volta in volta in questi due grandi atti della sua sovrana dominazione, e la storia è là per attestare la successione e la perpetuità di questi giudizi sulla nazioni e sui popoli. – Nell’attesa che i suoi nemici siano lo sgabello dei suoi piedi, Egli non lascerà di esercitare il suo impero sulla terra; Egli schiaccerà la testa dei re; un Nerone, un Domiziano, attaccheranno la sua Chiesa, ma Egli schiaccerà la loro testa superba; un Diocleziano, un Massimiano, un Galero, un Massimino tormenteranno i fedeli, ma Egli li degraderà, li perderà, li batterà con una piaga irrimediabile, come fece con Antioco; un Giuliano l’Apostata gli dichiarerà guerra, ma perirà per mezzo di una mano sconosciuta, forse quella di un Angelo, certamente con un colpo ordinato da Dio. Tremate dunque o re, nemici della sua Chiesa! Ma voi, piccolo gregge non temete nulla: « il vostro Re metterà ai vostri piedi tutti i vostri nemici, fossero i più potenti tra i re » (BOSSUET, Médit, LII, j.).

ff. 7. – Qual è questo cammino, è il mondo per il quale il Cristo ha camminato durante la sua vita mortale. Egli è disceso dal cielo per camminare nella via di questo secolo, ha bevuto dell’acqua dal torrente che scorre nel secolo. Un torrente non ha acque naturali il cui corso sia regolare e continuo, esso è formato dalle acque dei temporali e delle tempeste; un torrente non scorre mai sulle montagne, ma sempre nelle vallate, nei burroni e nei precipizi; esso si gonfia di acque straniere, e scorre portando con sé dappertutto la devastazione e la distruzione. Le acque dei torrenti non sono mai chiare e limpide, ma sempre torbide e fangose. Ora, volete sapere come il Signore ha bevuto da questo torrente fangoso? Sentitelo dire: « … la mia anima è triste fino alla morte. » (Matth. XXVI) « Ed Egli cominciò, dice l’Evangelista, a rattristarsi ed a turbarsi. »Nostro Signore ha dunque bevuto le acque torbide del torrente di questo secolo, acque tristi e che non portano gioia con loro. Egli ha preso il calice, lo ha riempito con l’acqua di questo torrente e vedendola così torbida, ha detto: « Padre mio, se è possibile si allontani da me questo calice. » Egli ha dunque bevuto l’acqua del torrente, ma l’ha bevuta non come nella casa, ma nella via, quando si accingeva a camminare verso il termine del suo viaggio. Egli ha dunque bevuto l’acqua del torrente, perché Egli era per la via. Ora, se nostro Signore ha bevuto l’acqua del torrente di questo secolo, quanto a maggior ragione, i Santi devono berlo dopo di Lui? Volete una prova che i Santi bevono l’acqua del torrente? « … la nostra anima, dice il Profeta, ha traversato le acque del torrente. » (Ps. CXXIII). Ma sentendo parlare dei torrenti di questo secolo, non perdete coraggio. Questi torrenti restano ben presto a secco: essi sembrano gonfiarsi, le loro acque sono abbondanti, ma si ritirano prontamente se avete la pazienza di attendere (S. Gerem.). –  « Egli berrà nel suo cammino l’acqua del torrente. » Tuttavia, qual è questo torrente? Il corso fuggitivo della mortalità umana. similmente, in effetti, ad un torrente – formato dal concorso di acque pluviali – si gonfia, muggisce, corre e scorre correndo, cioè finisce la sua corsa fino a seccarsi, così è del corso della nostra mortalità. Gli uomini nascono, vivono e muoiono; mentre alcuni muoiono, altri nascono; questi a loro volta muoiono ed altri nascono ancora; tutto in successione, arrivo, partenza, cambiamento. Cosa c’è di stabile quaggiù? Cosa c’è che non scorra come l’acqua? Cosa c’è che non sia precipitato nell’abisso, come un torrente d’acqua pluvia? In effetti, similmente ad un torrente che si forma improvvisamente dalla riunione di acque pluviali, ed innumerevoli gocce di pioggia, così la massa del genere umano si forma con mille elementi segreti, e prende il suo corso fino a che la morte la rigetti nel segreto da dove è uscita; tra questi due abissi, essa fa un po’ di schiamazzo e passa. È a questo torrente che il Signore ha bevuto. Egli non ha disdegnato di bere da questo torrente; perché, per Lui, bere da questo torrente, era nascere e morire. Questo torrente ha due termini: la nascita e la morte. » (S. Agost.). – Non ci sono che due cose, quaggiù: la culla e la tomba, la nascita ed il trapasso; Gesù-Cristo li ha presi. Colui che vive e regna nei secoli si è assoggettato ai tempi; il fiume del tempo li ha trasportati nel suo corso, come i maledetti figli di Eva. – Questa acqua del torrente ha ancora un altro significato e figura la vita umile, semplice, povera del Signore, che non aveva altro per spegnere la sua sete che le acque del torrente (S. Chrys.). – Nelle sante Scritture, le acque del torrente sono ancora il simbolo delle pene e delle tribolazioni di questo esilio. Ora, tutta la vita di Gesù, è stata una croce ed un martirio continuo; ma è soprattutto alla fine della sua triste carriera che Egli ha bevuto il calice fino alla feccia. È una circostanza che gli evangelisti non ci hanno consegnato, ma che la tradizione ci ha trasmesso: Gesù-Cristo, trasportato fuori dal giardino degli Ulivi a Gerusalemme, in piena notte, fu obbligato ad attraversare il torrente di Cedron. Le guardie impietosamente lo spinsero con brutalità e lo fecero cadere nel letto quasi secco del torrente. Il Figlio di Dio, tramortito dalla caduta, avvicinò le sue labbra alle acque fangose che bagnarono i suoi vestiti sanguinanti; Egli volle gustarne l’amarezza (Mgr PICHENOT). nello stesso senso aveva detto ai suoi Apostoli, che gli chiedevano i primi posti nel suo regno: « … potete bere il calice che Io berrò? » (Matth. XX, 22), che Egli intendeva manifestamente essere la sua passione, e quando fece per tre volte questa preghiera nel Getsemani: « Padre mio, Padre mio, se è possibile questo calice passi via da me. » (Ibid. XXVI, 39). Ecco perché Egli alzerà gloriosamente la testa. » Dunque, è perché ha bevuto nel cammino l’acqua del torrente, che Egli ha alzato gloriosamente la testa; vale a dire, « poiché si è umiliato, e si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Ecco perché Dio lo ha esaltato tra i morti e gli ha dato un Nome che è sopra ogni altro nome, affinché al Nome di Gesù si pieghino i ginocchi in cielo, sulla terra e negli inferi, e che ogni lingua confessi che il Signore Gesù è nella gloria di Dio Padre. » (Filipp., II, 8-11). – Il Figlio dell’uomo si è fatto uomo, si è umiliato, annientato, fino a prendere forma di schiavo; Egli è stato povero e nel lavoro ha passato la sua giovinezza; Egli ha sofferto alla sua nascita, durante la sua vita, alla sua morte; Dio ha posto in questo triplice grado di umiliazione il principio delle sue grandezze e della sua elevazione. – Gesù-Cristo è il nostro modello: occorrerà essergli trovati conformi – dice San Paolo – per prendere posto al suo fianco nei cieli. Non ci sono che coloro che soffrano con Lui che potranno sperare di essere glorificati con Lui. – La Chiesa anche, come il suo divino sposo, camminando sul Calvario, è stata spesso rovesciata nel cammino, ed ha bevuto l’acqua del torrente; ma all’indomani della sua caduta, e precisamente a causa della sua umiliazione della vigilia, ha sollevato la testa sempre più in alto. Essa è nata nel sangue di Cristo; essa ha posto il suo trono reale a Roma, sul corpo sanguinante di Simon Pietro, il primo Vicario di Cristo; la sua storia non è che una lunga scia di sangue versata per essa  (Mgr PIE, Elog. des vol. Cath., t. v, p. 55.).– È una legge stabilita, ci dice Bossuet, che la Chiesa non può gioire di alcun successo che non gli costi la morte dei suoi figli, e che per affermare i propri diritti, occorra che sparga del sangue. Il suo Sposo l’ha riscattata con il sangue che ha versato per essa, e vuole che essa compri con un prezzo simile le grazie che Egli le accorda. »  (BOSSUET, Panég. de S. Th. de Cant.). – « Egli berrà dal torrente nella via; » Egli berrà il calice della passione, « ma in seguito alzerà la testa. » Beviamo con Lui le afflizioni, le mortificazioni, le umiliazioni, la penitenza, la povertà, le malattie; beviamo da questo torrente con coraggio; che questo torrente non ci trascini, non ci abbatta, non ci inabissi come il resto degli uomini. Allora noi eleveremo la testa; le teste orgogliose saranno distrutte, noi lo vediamo; ma le teste umiliate con un abbassamento volontario, saranno esaltate con Gesù-Cristo. (BOSSUET, Médit, LII° Jour.)

IL MERITO DELL’UOMO

IL MERITO

[Encicl. Cattolica, Vol. VIII, C. d. Vatic. 1952 – col. 721-726]

MERITO DELL’UOMO. – Il merito, teologicamente, è l’opera buona che, compiuta dall’uomo in determinate condizioni, è degna di premio soprannaturale.

I. REALTÀ DEL M. DELL’U.

1. La S. Scrittura. – La parola « merito » manca nella Bibbia, ma non la cosa, poiché mercede, rimunerazione, corona, retribuzione delle buone opere sono concetti correlativi. Nel Vecchio Testamento la visuale è ancora poco aperta ai beni eterni e lo sguardo è rivolto piuttosto alla collettività che al singolo, cui però a mano a mano vien dato rilievo. Del resto, anche le sanzioni terrestri sono divine ed è logico pensare che il rapporto sia trasportato alla sfera superiore. – Nel Nuovo Testamento il Regno, cioè la beatitudine eterna, si presenta come dono che discende dalla gratuita compiacenza del Padre. Ma accanto all’iniziativa divina trova posto l’elemento umano che ne condiziona normalmente l’applicazione. Sono da ricordare il discorso della montagna con le beatitudini e la norma morale del Regno, le parabole dei talenti, delle mine, degli operai della vigna. – Il Regno, che inizialmente è puro dono, diventa soggettivamente, nella sua fase di progresso e di perfezione, anche conquista per mezzo delle opere: « Possedete il Regno; avevo infatti fame e m’avete dato da mangiare » (Mt. 25, 34). Ciò che Gesù aspramente condanna non sono le opere della legge, che compie il fariseo, ma il principio umano su cui esclusivamente le fonda; la vana ostentazione davanti agli uomini e la petulante davanti a Dio. « Han già ricevuto la loro mercede »; non rinnega però le opere con il loro diritto alla ricompensa; anzi insegna il modo di rendere tale diritto veramente certo ed efficace davanti al Padre, che vede nel segreto (Mt. VI, 4). – La dottrina degli Apostoli è in perfetta armonia conil Vangelo. S. Giacomo sa che « ogni buona donazione e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre dei lumi» (Iac. 1, 17); ma inculca le opere buone e ne mette in risalto il valore: « che gioverebbe, fratelli miei, se uno dicesse d’avere la fede mentre non ha le opere? forse che la fede lo potrà salvare? » (ibid. 14). S . Pietro parla de « l’incorruttibile corona della gloria » (1 Pt. V, 4), che all’apparire del Principe dei pastori riceveranno i « presbiteri » che avranno compiuto degnamente il loro ministero; la stessa ricompensa attende tutti i fedeli per le loro buone opere (II Pt. 1, 5-6). Secondo s. Giovanni, Dio scruta reni e cuori e darà a ciascuno secondo le sue opere (Apoc. 2,23) e la mercede ai suoi servi (ibid. 11, 18). « Sii fedele sino alla morte e ti darò la corona della vita » (ibid. 2, 10). La morte per coloro che muoiono nel Signore è riposo dalle fatiche; le buone opere tengono loro dietro (ibid. 13). S. Paolo, mentre sottolinea il compito principale della Grazia nell’ordine della salvezza e l’assoluta gratuità, afferma il valore delle opere buone compiute dal giustificato. « L’uomo mieterà quel che avrà seminato… dalla carne la corruzione, dallo spirito la vita eterna » (ibid. 6, 8). « Ciascuno riceverà la mercede secondo la propria fatica » (Cor. 3 , 8 ) e « dal Signore la retribuzione dell’eredità » (Col. III,23) « nel giorno della Rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Rom. II, 6-7). I giustificati sono come atleti gareggianti in corsa: « Correte così da fare vostro il premio, che sarà corona incorruttibile » (1 Cor. IX, 24-25) : « Ho combattuto la buona battaglia, ho terminata la corsa, ho conservata la fede: del resto a me è serbata la corona della giustizia che il Signore, giusto Giudice, renderà a me in quel giorno, né solo a me ma anche a coloro che desiderano la sua venuta » (II Tim. IV, 7-8). Così la S. Scrittura insegna che il giustificato può, con la Grazia, fruttificare in opere buone, che deve compiere e che esse sono meritorie davanti a Dio.

2. La tradizione. – La fede della Chiesa nel valore meritorio delle opere buone si rileva dagli scritti dei secc. 1 e 11, nei quali, a giudizio del protestante Schutz, accanto alla Grazia di Dio, l’acquisizione d’una ricompensa per l’azione dell’uomo appare come una cosa naturale. – S. Giustino: « Abbiamo appreso dai profeti e manifestiamo per vero che le pene e i supplizi e le buone ricompense vengono ripartite secondo il merito delle opere di ciascuno » (Apologia I, 43: PG 6, 392). S. Ireneo: « Stimiamo preziosa la corona… che si acquista con la lotta… e tanto più preziosa quanto più attraverso il combattimento ci viene » (Adv. Hæres., 4, 37, 7: PG 7, 1104). Tertulliano fu il primo a introdurre la parola meritum, rimasta nell’uso teologico (Apologeticum, 18: PL, 434-35). S. Cipriano: «Puoi giungere a veder Dio, se avrai meritato Dio con la vita e le opere » (De opere et eleemosynis, 14: PL 4, 635). L’insegnamento dei Padri si determinò progressivamente soprattutto nella catechesi ordinaria e nelle omelie; p. es., s. Cirillo di Gerusalemme dice: « Radice d’ogni buona azione è la speranza della risurrezione, poiché l’aspettativa della mercede tonifica l’anima» (Cathech., 18, 1: PG 33, 107); s. Ambrogio: « Davanti ai singoli sta la bilancia dei nostri meriti; nel giorno del giudizio o le nostre opere ci saranno di aiuto o ci immergeranno nel profondo » (Epist., 2, 14, 16: PL 16, 883); s. Agostino: «avendo detto (Rom. VI, 23) salario del peccato la morte, chi non riterrebbe di soggiungere: salario poi della giustizia, la vita eterna? Ed è vero, poiché come al merito del peccato vien resa come castigo la morte, così al merito della giustizia come ricompensa la vita eterna» (Epist., 194, 20-21 : PL 33, 881; cf. Rivière, articolo cit. in bibl., col. 576 sgg).

3. La scolastica. – Il medioevo raccolse l’eredità patristica, l’assoggettò a rigorosa analisi, approfondendo le nozioni di naturale e soprannaturale e la « sinergia » tra Grazia e volontà libera, indagando l’essenza e il fondamento del m. dell’u., precisando i concetti di merito de condigno e de congruo. La distinzione è fondata sul diverso rapporto tra l’opera meritoria e il premio. Il merito de condigno importa una certa morale e proporzionale (non aritmetica) eguaglianza tra l’opera buona e il premio, così che, posta l’accettazione e la promessa da parte di Dio, il premio è dovuto secondo giustizia; quello de congruo non si fonda su eguaglianza e quindi il premio non è nell’ordine della giustizia, ma piuttosto in quello della convenienza (decentia) e della benignità; se vi si aggiunge la promessa divina, cui Dio è fedele, si ha il merito de congruo infallibile. Tra i due c’è solo analogia; merito vero, in senso proprio e stretto, è soltanto quello de condigno: con tale valore va preso, secondo l’interpretazione comune dei teologi, il termine « merito » nei documenti tridentini.

4. Il magistero ecclesiastico. — Nel 529, al termine della controversia semipelagiana, il secondo Concilio di Orange, al can. II (Denz – U, 191) affermò: « La Grazia non è prevenuta da merito alcuno. Alle buone opere, se vengono compiute, è dovuta la mercede, ma affinché esse siano fatte, precede la Grazia che non è dovuta ». Il Concilio di Trento trattò l’argomento con particolare chiarezza, specialmente nel cap. 16 e can. 32 della sess. VI: « Chi avrà detto che le buone opere dell’uomo giustificato sono talmente doni di Dio, da non essere anche meriti buoni dello stesso giustificato, o che il giustificato stesso con le opere buone, che da lui son compiute per la Grazia di Dio e per il merito di Gesù Cristo (di cui è membro vivo), non merita veramente l’aumento della Grazia, la vita eterna e della stessa vita eterna il conseguimento (se tuttavia sarà morto in Grazia) ed anche l’aumento della gloria, sia scomunicato » (Denz – U, 809, 842; cf. anche i cann. 2, 24 e 26: (Denz-U, 812, 834, 836). Nel 1567 s. Pio V condannò gli errori di Michele Bajo, il quale, misconoscendo la distinzione tra l’ordine naturale e soprannaturale, affermò che le opere dell’uomo danno diritto alla ricompensa celeste « in virtù d’una legge naturale » e negò che per veramente meritare l’uomo abbia bisogno della Grazia della filiazione divina e dello Spirito Santo inabitante (cf. propp. 2-18; Denz-U, 1002-18). – Nel 1653 Innocenzo X dichiarò e condannò come eretica la 3a proposizione di Giansenio: « Nello stato di natura decaduta, per meritare e demeritare non si richiede nell’uomo la libertà dalla necessità, ma basta la libertà da coazione » (Denz – U, 1094).

5. Battute polemiche. — Dopo questa rapida scorsa, si può concludere che quando la Chiesa alle negazioni della « riforma » oppose i memorabili capitoli e canoni della VI sessione tridentina, essa non altro esprima che la dottrina di Gesù. La « riforma » fu essenzialmente una lotta violenta contro il merito delle opere buone. È vero che alle prime radicali negazioni luterane furono aggiunti, subito e ancor più in seguito, dei correttivi, ma la sostanza restò e resta nei libri simbolici e nella concezione generale del cristianesimo protestante e riformato. Si pensò del tutto spenta per il bene la forza di volontà dell’uomo decaduto, così che resterebbe in sé inerte anche sotto la Grazia divina, mentre una giustificazione solamente esteriore e imputata non può certo recare uno stabile interno principio del vivere e dell’agire schiettamente umano e insieme divino. Si ragionò secondo ilfalso presupposto che la Grazia e l’opera dell’uomo sono come due rette originanti da due punti distinti, mentreè la Grazia che inizia, cui si allea, movendosi vitalmentesotto la sua continua spinta, forte e soave, la volontà libera. Il m. è il prodotto di due fattori, Grazia e libertà,ambedue realmente operanti e indispensabili alla realtà dell’effetto.L’opera meritoria dell’uomo sembra porre la creatura con diritti di fronte al Creatore, e ciò per di più suun terreno soprannaturale, di cui la gratuità è nota essensenziale. A tale obiezione si risponde concedendo di unaparte che tra Dio e l’uomo non vi può essere rapporto di rigorosa giustizia, e ricordando dall’altra la « coronadi giustizia » di s. Paolo e il detto di s. Agostino: « Dio si è fatto debitore non con il dovere ma con il promettere.Non possiamo dirgli: rendi quel che hai ricevuto, ma bene diciamo: rendi ciò che hai promesso » (En. in Ps.LXXXIII, 16: PL 37, 1068). Chese il Signore ha affermato: (S. Luc.XVII, 10) che ci si deve considerare « servi inutili », ha anche detto (S. Mt. XXV, 23): « Bravo! Servo buono e fedele. » Mala Scrittura dice che la vita eterna è eredità per i figli. È vero, ma dice anche che è mercede promessa ai figli operanti il bene. Si noti di passaggio come ancorauna volta l’eresia s’affermi come visione parziale, pretendente alla totalità. Per altro verso non reca ingiuria al merito di Gesù Cristo il m. dell’u., come non fa ingiuria alla vite il grappolo che pende dal tralcio. Faefficace il merito della passione e morte del Signoreda ottenere che l’uomo in lui potesse meritare. C’è poiil falso presupposto, molto comune, che in nome d’un purismo morale qualifica come grettamente egoistica ed interessata la dottrina cattolica del merito ove, si dice, domina la « mania della ricompensa ». Senza voler confutare a fondo tale posizione, si nota che esiste un rapporto oggettivo tra l’opera buona e il premio e che pertanto è morale che l’uomo, nel suo operare, positivamente intenda la retribuzione.

II. CONDIZIONI DEL M. DELL’U. –

1. Da parte dell’operante. — Questi deve essere : a) in statu viæ, perché al sopraggiungere della notte (la morte) nessuno può più operare » (Io. IX, 14); occorre compiere il bene « mentre abbiamo tempo » (Gal. VI, 10). B) in statu gratiæ (v. il Concilio Tridentino e la condanna degli errori di Bajo, sopra citati), deve cioè essere inserito vitalmente, come membro vivo di Cristo, da cui solo deriva nell’uomo l’operare cristiforme e meritorio. La dottrina cattolica non ipostatizza le opere, considerandole così avulse dal soggetto perante come avessero un valore in sé e per sé, come la moneta d’oro posseduta dal ladro, se non ripetessero tale valore meritorio de Condignoanche dalla dignità soprannaturale del soggetto operante, costituito per la Grazia abituale amico di Dio.

2. Da parte dell’opera. – Questa deve essere: a) libera, perfettamente, cioè non solo esente da costrizione esterna, ma anche da interna necessità (v. la 3a prop. di Giansenio dichiarata eretica): il merito è nell’ordine dei valori morali umani, la cui radice è la libertà; per questo il giustificato che muore prima di aver compiuto atti liberi ottiene la vita eterna solo come eredità; né il merito cessa ove l’opera sia obbligatoria: è comandamento evangelico l’amore dei nemici, eppure è detto che per chi li ama sarà grande la mercede » ( S. Lc. VI, 35); nel caso del precetto per cui l’opera è già dovuta a Dio, S. Tommaso ritiene che l’uomo ne ha il merito, « perché di propria volontà fa ciò che deve » (Sum. Theol., 1a – 2æ, q. 104, a. 1, ad 1); b) buona, ossia secondo tutti gli elementi richiesti per l’onestà dell’atto umano: l’opera cattiva merita il castigo; l’omissione di un’azione cattiva risulta meritoria quando richiede forza morale; c) soprannaturale: certamente per ragione del principio elicitivo prossimo, che è la facoltà elevata dall’abito infuso, che probabilmente dev’essere mossa dalla Grazia attuale. Che l’atto umano debba anche essere in qualche modo orientato verso Dio come autore della salvezzasoprannaturale è da ammettere; i teologi però non sono d’accordo nel precisare quale intenzionalità o motivooccorra. La Chiesa ha condannato alcune proposizioni di Quesnel tendenti ad affermare che solo l’atto di carità è meritorio (Denz – U, 1403 sgg.).

3.  Da parte di Dio. — Occorre la promessa di Dio di accettare l’opera buona e di premiarla. La ragione è che l’uono non può pretendere d’avere uno stretto diritto di fronte a Dio; occorre che Dio prenda graziosamente l’iniziativa d’ordinare a sé l’opera umana con la promessa del premio. La Rivelazione ha messo in chiaro questo punto in tutti i passi della Scrittura e dei Padri dove si dice che si può e si deve compiere opere buone. I teologi discutono sulla funzione che compete a tale ordinazione e promessa circa il m. dell’u. C’è chi pensa che l’opera, pure compiuta nelle condizioni richieste, non è in séaffatto proporzionata al premio senza la promessa divina; altri, all’opposto, ritengono che lo è intrinsecamente; molti affermano che tale opera ha in sé radicalmente e in actu primo la ragion di merito, che la divina promessa integra e compie in actu secundo, così che il premio le sia strettamente dovuto. Quest’ultima sembra la vera sentenza, poiché tiene in giusto conto e la dignitàintrinseca dell’opera e la trascendenza di Dio, che solo promettendo si fa nostro debitore. Da ultimo è da notare che per il merito de congruonon si esige lo stato di Grazia e che la promessa di Dio è solo richiesta per il merito de congruoinfallibile.

III. OGGETTO DEL M. DELL’U . –

Il Concilio Tridentino (sess. VI, cap. 16, can. 2, sopra riferiti) definisce gli oggetti che l’uomo, gratuitamente giustificato, con le buone opere merita veramente, cioè de condigno, e sono: 1) la vita eterna, oggetto principale;2) l’aumento della gloria, in quanto il Signore darà aciascuno secondo le sue opere e secondo la sua fatica: chi ha guadagnato dieci mine sarà costituito sopra dieci città, chi cinque, su cinque (S. Lc. XII, 16 sgg.). Epoiché il Regno di Dio, che è la vita eterna, s’inizia in terra nell’anima del giusto, dove la Grazia intrinsecamente aumentabile ne è il seme, la preparazione e la caparra, e poiché a un determinato grado di Grazia abituale corrisponderà un determinato grado di gloria, si deduce che anche l’aumento di Grazia è oggetto di merito. Il giusto merita pure il conferimento o soluzione della mercede eterna, che sarà però data a suo tempo e alla condizione ch’egli muoia in Grazia di Dio. – Non sono oggetto di merito de condigno: a) la giustificazione e le grazie per prepararvisi: s. Paolo lo afferma più volte e il Concilio di Trento lo ha definito (Sess. VI, cap. 8; Denz-U, 801); infatti la condizione per tale merito è l’esser giusto; qui pertanto vale il principio: « la prima grazia non può essere oggetto di merito »; b) ogni bene soprannaturale che il giusto intende ottenere per altri: Dio rende a ciascuno secondo le proprie opere, che sole, in quanto personali, valgono per la corona; è privilegio esclusivo di Gesù Cristo, l’unico mediatore, d’aver meritato de condignoper gli altri; c) la Grazia efficace in quanto tale: è sentenza comune dei teologi, fondata anche sulla mancanza, a questo riguardo, della promessa divina; d) il dono della perseveranza finale, che il Tridentino chiama magnum donum, circa il quale anche il giustificato deve sempre essere in salutare timore: lo stesso Concilio non lo elenca tra gli oggetti del merito vero, ma lo mette come condizione al meritato conseguimento della vita eterna; e) la propria riparazione, dopo la perdita della Grazia. La colpa mortale pone l’uomo nello stato di condannato a morte eterna, con sentenza immediatamente eseguibile: se Dio lo rifà suo figliolo, ciò è dovuto alla sola sua benignità. Quanto all’oggetto del merito de congruo, il peccatore può meritare: a) le ulteriori grazie attuali, con cui disporsi più da vicino alla giustificazione; questo merito, per la promessa di Dio, è infallibile; b) la giustificazione. E la sentenza più comune e meglio fondata nella Rivelazione e in alcuni incisi del Tridentino. Anzi quando si tratta dell’atto di contrizione perfetta il merito de congruoè infallibile. Il giusto può meritare: a) le Grazie efficaci e la stessa perseveranza finale; mancando però la promessa divina, il merito è fallibile: si osservi con il Suàrez (De Gratia, 12, 38, 14) che la perseveranza finale è meritata non con uno o più determinati atti o durante un certo tempo, ma con una serie di atti buoni svolgentesi per tutta la vita; il «gran dono» è oggetto infallibile della «supplice preghiera»; b) anche i beni temporali, in quanto sono d’aiuto per la vita eterna. Per gli altri, il giusto può meritare de congruo tutto ciò che in qualunque modo può meritare per sé, in più la prima Grazia soprannaturale e la prima Grazia efficace, s’intende fallibilmente. Tre grandi cose sono assolutamente e soltanto doni per chi li riceve: la prima Grazia soprannaturale, la prima Grazia efficace, e la predestinazione totale. L’ultimo tocco della misericordia divina è la reviviscenza dei meriti (v.).

BIBL.: I. Rivière, Mérite, in D Th C, X, coli. 574 – 785: id., La doctrine du mérite au Concile de Trente, in Revue des sciences religieuses, 7 (1927), PP. 262 – 98; id., St Thomas et le mérite «de congruo », ibid., pp. 641 – 49; id., Sur l’origine des formules «de congruo », « de condigno », i n Bullettin de la littérature ecclésiastique, 28 (1927). PP – 75 – 89; H. Lange, De Gratta, Friburgo in Br. 1929, pp. 123 – 29, 557 – 90; A. Landgraf, Die Bestimmung des Verdienstgrades in der Fruhscholastik, in Scholastik, 8 (1933), pp. 1 – 4 0; – E . Hugon, Le mérite dans la vie spirituelle, Juvisy 1 9 3 5 ; P. De Letter, De ratione meriti sec. s. Thomam, Roma 1939; P. Parente, Anthropologia supernaturalis, 2″ ed., Roma 1946, pp. 173 – 81; – B. Bartmann, Manuale di teologia dogmatica, II, trad. R. di N. Bussi, Alba 1949, PP. 347 – 57. Mario Ghirardi

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “ADEO NOTA”

L’Adeo nota, è una delle encicliche che il Santo Padre Pio VI scrive in occasione dei moti rivoluzionari francesi che miravano, sotto la direzione degli Illuminati e delle logge sataniche, a colpire la società francese, ma soprattutto la Chiesa e la Religione Cattolica. In realtà tutte le rivoluzioni dei tempi moderni del neopaganesimo risorgimentale hanno mirato unicamente, sotto coperture politiche o sociali, a destabilizzare il Regno di Cristo ed affermare il motto luciferino: “Non serviam”. Qui alla Santa Sede viene sottratto il territorio di Avignone e del contado annesso, ma le cose vanno ben oltre, nel senso che si mira allo scisma ed alla distruzione della giurisdizione gerarchica in seno alla Chiesa francese. Nulla di dissimile oggi, quando le forze della sovversione – mascherate da finta democrazia asservita alle logge e, attraverso di loro, a coloro che odiano Dio, la Chiesa di Cristo e tutti gli uomini – oltre ad aver posto il dominio su tutto l’ambito politico e finanziario internazionale, agiscono fomentando scismi a catena dalla vera Chiesa Cattolica, oggi eclissata e ridotta in anfratti e sottoscala. Cosa sono infatti i falsi vescovi delle sette scismatiche lefebvriane o sedevacantiste che non hanno alcuna missione canonica, né uno straccio di giurisdizione, sovrapponendosi fraudolentemente ad autorità anch’esse invalide perché non in comunione col vero Vicario di Cristo, perseguitato ed in cattività. È una epidemia di scismi ed eresie pronunciate in nome di una pseudo-tradizione che però si sgancia da ogni regola dottrinale circa la gerarchia ecclesiastica (oggi, visto il traballare delle prime linee, si sono chiamati a resistere alla vera Chiesa, anche – ridicoli – triari!!). Si è costituito un mondo totalmente sacrilego – quanti Malieri in giro – ed ancor più tenebroso del Novus ordo, chiaramente divenuto tentacolo della piovra oggi incoronata dal Kether Malkhuth, come ci fanno sapere i mass media satanico-mondialisti che ci propinano i successi nefasti e terrorizzanti della “Corona” luciferina (chi ha intelletto comprenda!). Abbiamo qui in questa lettera, la cronaca dolorosa del primo attacco frontale delle forze delle tenebre verso la Chiesa, attacco che poi è stato portato dall’interno di essa dalla quinta colonna gestita dalle logge Ecclesia & C. Il Santo Padre Pio VI, che avrebbe poi personalmente provato sulla propria pelle la violenza dei satanisti organizzati, protesta vibratamente contro le decisioni del direttorio insediato dagli Illuminati. Oggi una voce simile è stata silenziata e sostituita da quella di un fantoccio partorito dalle sette d’oltreoceano. Ma nessun problema, il Cattolico sa che, come Cristo, sarà perseguitato e martirizzato, e sa che tutto questo sarà di gran merito per lui, per cui noi del pusillus grex, ringrazieremo di cuore chi ci farà soffrire nel corpo e nell’anima, perché ci darà l’occasione di testimoniare il Nome del Redentore e così conquistare la vita eterna, come promesso infallibilmente dal Salvatore Gesù.

Pio VI
Adeo nota

1. Sono così noti e divulgati presso le Nazioni i delitti perpetrati contro le leggi del santuario sia ad Avignone sia nel Contado Venesino di Nostra giurisdizione, e contro i diritti di sovranità, tanto che non hanno bisogno di lunga e particolareggiata descrizione. – Gravemente infatti si è peccato contro di Noi da parte di ambedue i popoli; ma la defezione del popolo avignonese è assai peggiore di quella del popolo del Contado. Gli Avignonesi infatti, per nulla preoccupati d’aver seguito la malvagità di pochi uomini che, per Nostra clemenza, erano sfuggiti alle pene dovute per i loro delitti, come se avessero impugnato con le loro mani il vessillo della ribellione, hanno tanto progredito in prepotenza, da indurre quelli del Contado, anche a mano armata, a formare con loro una nefanda società e a costringere a seguire il loro partito sia quelli del Contado sia gli Avignonesi che si fossero opposti, convincendoli con ogni genere di minacce, di stragi e di supplizi.

2. Ma di codesto delitto, come di altri, non parleremo; possono essere di validissima prova i rispettabili cittadini e gli uomini di Chiesa rapiti a morte, la città di Chalon sur S. occupata con la forza e saccheggiata, le irruzioni ostili nella città di Carpentras, ed altri generi di sfrenata violenza, che macchieranno gli scellerati autori di eterna ignominia e d’infamia. Essi infatti, imitando la crudeltà di Giasone, nemico delle patrie leggi e di Dio, come le sacre pagine di lui attestano, al fine di allontanare i cittadini e quelli del contado dalle leggi della patria e di Dio, non risparmiarono di stragi i loro concittadini, né pensarono che la prosperità acquisita contro gli amici fosse il massimo dei mali, come se essi catturassero trofei di nemici, non dei concittadini: degni perciò che essi, non diversamente come fu di Giasone (II Macc. capp. IV-V), fossero dichiarati a tutti odiosi, dissacratori delle leggi e traditori della patria.

3. Fra il popolo cominciarono a diffondersi la causa e il peso di quelle ribellioni, dalle quali il popolo era oppresso sempre di più. Ma quando a ciascuno parve chiaro che la motivazione di tutto ciò era assolutamente fittizia e piena di calunnia, in quanto gli Avignonesi e il popolo del Contado, oppressi da nessun genere di tasse, usufruivano di un regime tanto leggero e temperato che le altre Nazioni invidiavano, non senza motivo, la loro felicità, apparve evidente che l’unica vera causa era il desiderio di una sfrenata libertà: per raggiungere la quale si dichiarò essere necessaria l’integrale Costituzione dell’Assemblea Francese che s’impegna tanto nelle materie politiche quanto in quelle ecclesiastiche e religiose, e porta ad una maggiore e più duratura felicità, e conseguentemente i popoli di Avignone e del Contado passassero sotto la sovranità francese.

4. Fra queste scellerate perversità non abbiamo cessato di manifestare all’uno e all’altro popolo quanta e quale sia la Nostra benevolenza di padre e di sovrano verso gl’ingrati. Fu infatti Nostra cura, non senza rilevante dispendio dell’erario pontificio, liberare tali popoli dagl’impegni incombenti con grande carità; e li abbiamo paternamente ammoniti di guardarsi dalle insidie occulte, che si offrivano loro, alla Religione e anche alla pubblica utilità sotto la chimera della libertà. Se tuttavia per la stessa varietà dei tempi, od anche per l’umana prevaricazione, fosse insorta qualche trasgressione contro le leggi, o si fosse introdotto qualche abuso particolare, abbiamo apertamente dichiarato che Noi, ascoltate le Comunità, avremmo prestato la Nostra opera e l’aiuto perché tutto ritornasse, con la debita correzione, al retto ordine. E affinché nessuno dubitasse che per quanto era in Nostro potere saremmo intervenuti con la Nostra autorità, abbiamo immediatamente deliberato di inviare costà il diletto figlio Giovanni Celestini, uomo ben noto a molti ad Avignone, gestore di affari del Contado Venesino, affinché al più presto raggiungesse Avignone e Carpentras, ed ivi, col Nostro pro-legato e con i più esperti e prudenti cittadini trattasse di quei capitoli, cioè di quei punti che soprattutto si desiderava conoscere, affinché con voti unanimi potessimo assecondare la determinazione di quelle cose che fossero giudicate convenienti ed opportune. In tal senso si espressero due Nostre lettere in forma di Breve, l’una scritta il 21 aprile dell’anno scorso ai diletti figli nobili e al popolo della Nostra città di Avignone, l’altra scritta il 24 febbraio dello stesso anno al Venerabile Fratello il Vescovo di Carpentras, e ai diletti figli designati dai comizi generali della stessa città.

5. Ma del tutto inutili furono i Nostri benefici, inutili le paterne ammonizioni, inutile il viaggio del delegato. Infatti, i cittadini di Avignone, costretti poco legalmente ad intervenire ad una riunione per sostenere quei decreti che avevano estorto al Nostro pro-legato, e che da Noi erano già stati dichiarati nulli e irriti, gli Avignonesi, diciamo, costretti alla riunione rifiutarono di accogliere il delegato e minacciarono persino che l’avrebbero ritenuto un perturbatore pubblico se avesse messo piede in città o nel territorio. Inoltre cercarono il modo di esautorare il diletto figlio Filippo Casoni, pro-legato, e gli altri Nostri ministri, fra i quali non mancò chi, per le insidie subite, fu costretto a darsi alla fuga; infine presero la decisione di sottomettersi alla giurisdizione e al comando del carissimo in Cristo figlio Nostro il cristianissimo Re delle Gallie, e a questo fine furono mandati deputati allo stesso Re e all’Assemblea Francese. Da questo momento per mezzo della Municipalità fu ordinato allo stesso pro-legato di allontanarsi da Avignone; ed effettivamente egli partì il 12 giugno 1790, avendo prima espresso le proteste del caso sia a voce davanti agli stessi ufficiali della Municipalità, che gli avevano ordinato di andarsene, sia con uno scritto davanti a testimoni, poiché ad Avignone non si trovò alcun notaio che registrasse quelle proteste. Pertanto lo stesso pro-legato, partito per Carpentras, rinnovò tosto le proteste il 16 e il 21 del medesimo mese davanti al notaio Oliveiro, cancelliere della Rettorìa, e ordinò che esse fossero conservate fra gli atti della Segreteria, affinché non morisse mai il ricordo di tale evento. Nello stesso tempo da parte dell’Assemblea di Avignone fu pensato all’adeguamento delle materie politiche ed ecclesiastiche con la Costituzione generale dell’Assemblea Francese, e per far questo rapidamente si operò con tale e tanto furore da ogni parte, che nulla di simile nessuno vide neppure nei comizi Gallicani.

6. Da questo derivò che da una parte al legittimo ed antico principato subentrò un misero stato di anarchia, e dall’altra furono tolte dai canoni leggi secolari, sì da sovvertire la sacra gerarchia, l’autorità della Chiesa e la stessa Religione Cattolica. Infatti le Chiese furono spogliate dei loro beni; le suppellettili d’argento furono rubate; i sacri vasi sottratti da mani sacrileghe e trasportati a Marsiglia col ricavo di ingenti somme di danaro; infranti i recinti dei monasteri; maltrattate le sacre vergini e costrette a bussare ad altri monasteri o a ritornare ai patrii lari. Inoltre con pubblico editto del 30 novembre dello scorso anno, sia al Venerabile Fratello Arcivescovo di Avignone, che si era ritirato a Villanova, località della sua Diocesi, sia a tutti i parroci e a tutti gli uomini di Chiesa si ordinava che nel più breve spazio di tempo si portassero ad Avignone ed ivi si vincolassero con giuramento alla civica religione: giuramento dal quale nacque la causa maggiore di tutti i mali. Se fosse stato altrimenti, tutti avrebbero dovuto ritenersi decaduti dal loro grado e le loro Chiese ugualmente, come se mancassero del loro Pastore. – Questo atto Ci richiama alla mente quello scellerato editto contro i buoni e legittimi Pastori emanato dall’imperatore Costante su consiglio e per iniziativa degli Ariani: il che tutti gli scrittori hanno condannato con giustificato orrore. Infatti, anche questo editto, mentre praticamente chiedeva un impegno dagli ecclesiastici, al contempo formulava minacce concepite con queste parole: “O firmate, o vi allontanate dalle Chiese“.

7. Alle minacce contenute nell’editto risponde un episodio pieno di profana scelleratezza e traboccante immane sacrilegio. – Infatti il 26 febbraio di quest’anno entrò nella Chiesa cattedrale un ufficiale municipale, di nome Duprazio, abile nell’uso delle armi, con la spada nella mano destra, seguito da un ingente reparto di soldati del Comitato. Egli osò costringere i Canonici della Chiesa, che stavano uscendo dal coro, ad entrare nella sala capitolare per eleggere, in nome della Municipalità, un Vicario capitolare, col pretesto che, secondo i decreti dell’Assemblea Gallicana adottati dagli Avignonesi, dovevano ritenere l’Arcivescovo civilmente morto e la sua Chiesa priva del pastore perché egli da qualche tempo non si trovava ad Avignone e non aveva prestato il giuramento civico.

8. I Canonici negarono di poter eseguire quell’ordine, contrario a tutte le regole della Chiesa, ma l’ufficiale minacciò che non li avrebbe lasciati muovere piede da lì finché non avessero eletto il Vicario. Allora i Canonici chiesero che si facesse venire un notaio, il quale recasse la testimonianza della violenza loro inferta. Ma, rifiutata la loro richiesta, l’ufficiale presentò loro una carta nella quale erano scritti otto nomi di uomini, fra i quali dovevano scegliere il Vicario, e nello stesso tempo fece chiamare ed introdurre il notaio Poncezio e il segretario della Municipalità Escuierio, affinché presenziassero alla elezione. Invano i Canonici si opposero nuovamente, ma, costretti a dare il proprio voto, le cose si svolsero in modo tale che nessuno potesse dirsi regolarmente eletto. Infatti, dei dieci Canonici presenti in capitolo, il Canonico della Cattedrale Malierio ebbe soltanto quattro voti, l’altro Canonico della Cattedrale Depretis due voti e altrettanti Messangeanio, Canonico della Collegiata di San Genesio; gli altri cinque nessun voto. Tuttavia Duprazio volle che siffatta elezione di Malierio, per il quale non la maggior parte del capitolo, com’è prescritto, ma solo quattro avevano votato, fosse ritenuta valida; volle inoltre che i canonici, sebbene contrari e riluttanti, la sottoscrivessero con la loro firma; e con la minaccia di gravi pene vietò ai notai della città, tanto ai presenti quanto agli assenti, di registrare nei loro atti qualsiasi protesta dei Canonici.

9. Quando l’ufficiale ebbe estorto ai Canonici questa fittizia elezione che i voti e i consigli della Municipalità chiedevano, simulò di non ricordare affatto se il civico giuramento fosse stato prestato dagli stessi Canonici. Pertanto si adoperò affinché lo prestassero. Ma rifiutando i Canonici di volersi vincolare con quel tipo di giuramento, come egli stesso aveva previsto, tosto, in nome della Municipalità, dichiarò che il Capitolo era estinto e che d’ora in poi i Canonici non potevano svolgere nessun ufficio nella Chiesa e in alcun modo formare un solo corpo e riunirsi.

10. Benedetto Francesco Malierio era così avanzato in età da somigliare ad Eleazaro, illustre vecchio della storia sacra: poteva anch’egli lasciare alla gioventù e a tutto il popolo un glorioso esempio, cercando di imitarlo mediante importantissime e santissime leggi. Ma egli si comportò molto diversamente da Eleazaro, il quale, reputando nel suo animo che più dell’età, della veneranda vecchiaia, della nobile canizie era preferibile una gloriosissima morte, piuttosto che abbracciare una vita odiosa, decise di non fare cose illecite per un breve tempo di vita corruttibile. -Invece Malierio, non solo davanti ai soldati presenti nell’aula capitolare non rifiutò l’ufficio di Vicario capitolare, che, essendo ancora vivo il suo Arcivescovo, le leggi della Chiesa e quelle più sante di Dio vietavano potesse essere trasferito a chicchessia, ma lasciato totalmente libero ringraziò pubblicamente la Municipalità, e il 6 marzo – dopo la Messa celebrata dal sacerdote dell’Oratorio, Mouvansio vestito dell’insegna municipale sopra i sacri paramenti – non esitò ad iniziare in Cattedrale, con un rito più solenne, l’ufficio che gli era stato affidato e a prenderne possesso in mezzo ai soldati. Inoltre non disdegnò ricevere gli elogi che gli venivano fatti, come se fosse la colonna della rivolta, sia da Ricarzio, prefetto della città, sia da Vinaio, sostituto procuratore della stessa; infine non tardò ad aggiungere a tutte queste cose un’altra scelleratezza. Infatti davanti a tutti si vincolò con il civico giuramento verso la Nazione, le leggi e il Re della Francia, usando tali parole che neppure i più sfrontati usavano in Francia, e promise di rispettare anzitutto la civile Costituzione del clero, qualsiasi ostacolo si frapponesse e qualsiasi critica venisse mormorata contro di lui, sia dai nemici che lo guardavano di traverso, sia dagli amici dai quali si vedeva abbandonato.

11. Per confermare ciò ancor più coi fatti, lo stesso giorno comandò che si facesse pervenire ai parroci un certo scritto in cui parlava di sede vacante, ed osava sciogliere il vincolo del precetto quaresimale. Il giorno 9 dello stesso mese, con un altro scritto simile, interdisse dai loro uffici tutti coloro che in qualsiasi modo presiedevano ai seminari, perché avevano rifiutato di prestare giuramento; eliminò due seminari; e infine con tanta temerarietà, quanta nessuno a stento possa credere, con lettera del 5 dello stesso mese Ci informò della sua elezione, pregandoci di non disapprovarla affatto. Che le cose stiano così nessuno dubiterà, senza che egli cerchi di attribuire la vergogna e il giuramento alla propria vecchiaia.

12. La città di Avignone si è comportata con Noi secondo codesto criterio. Per quanto riguarda la città di Carpentras e le altre comunità del Contado, Ci arrideva la speranza che sarebbero tornate in breve tempo ai loro doveri. Esse infatti, costrette ad un’assemblea rappresentativa, non solo accolsero il pro-legato espulso da Avignone e Giovanni Celestini mandato da Roma, ma il 27 maggio dell’anno scorso dichiararono apertamente che avrebbero abbracciato la Costituzione Francese solo in ciò che conveniva ai loro interessi, al loro paese e alle circostanze, e che potesse accordarsi con l’ossequio a Noi dovuto, ed affermarono di voler rimanere sempre sotto il Nostro governo e la Nostra giurisdizione. Ma poi, a seguito di violenze o di allettamenti o di insidie dei rivoltosi di Avignone, esse mostrarono apertamente che veneravano il Sommo Pontefice e onoravano i suoi ministri soltanto formalmente, ma in realtà i loro consigli a null’altro miravano se non che il Pontefice e i suoi ministri approvassero, sancissero ed eseguissero tutta la Costituzione Francese sia per gli affari ecclesiastici, sia per quelli politici.

13. Senza dire con inutili parole tutte le deliberazioni prese dall’Assemblea del Contado, basterà citare quei diciassette articoli dove i diritti dell’uomo erano pressappoco accolti come erano stati spiegati e proposti nei decreti dell’Assemblea Francese, ossia quei diritti che erano contrari alla Religione e alla società; essi venivano accolti come fossero base e fondamento della nuova Costituzione. Altrettanto basterà ricordare gli altri diciannove articoli, che erano i primi elementi della nuova Costituzione, presi e attinti dalla stessa fonte della Costituzione Francese. Pertanto, poiché non poteva assolutamente accadere che Noi sancissimo tali deliberazioni e che i Nostri ministri, dovunque fossero, le osservassero, avvenne che l’Assemblea rappresentativa tosto manifestasse quel furioso ardore di ribellione per il quale già da tempo combatteva e che fino ad oggi aveva nascosto.

14. Perciò, presa dall’odio nei confronti del Nostro pro-legato perché non aveva accolto le sue richieste né aveva prestato il giuramento civico, l’Assemblea lo spogliò di qualsiasi potere giurisdizionale e dichiarò che non poteva più considerarlo come Nostro ministro. Né diversamente si agì nei confronti del diletto figlio Cristoforo Pieracchi, rettore di Carpentras, e di tutti gli altri ministri pontefici. Poscia in luogo del pro-legato fu istituito un nuovo tribunale, furono nominati tre conservatori di stato, e furono mandati a Noi due deputati preparati secondo un preciso ordine pieno d’arroganza e d’insulti, indice di aperta defezione: questa la ragione per cui abbiamo negato qualsiasi udienza a deputati siffatti. – Esautorati così i Nostri ministri, Giovanni Celestini dovette ritornare a Roma, e gli altri delegati pontifici, allontanatisi di là, giunsero prima ad Aubignano, luogo vicino a Carpentras, poscia a Bucheto, vicino ai confini del Contado Venesino, quindi, crescendo il tumulto, a Montelimarzio, nel Delfinato, e infine a Camberiaco, ove il 5 marzo di quest’anno rinnovarono le opportune proteste, curando di farle inserire negli atti della cancelleria vescovile.

15. Chi mai avrebbe creduto che questa partenza dei Nostri ministri, determinata da nessun’altra causa se non che essi erano stati spogliati di ogni giurisdizione e vedevano la loro vita in pericolo, come dimostrano le loro ripetute e frequenti proteste, che questa partenza – ripetiamo – sarebbe stato l’appiglio per il Consiglio municipale di Carpentras e per altre comunità di raccontare e ripetere alla gente che i popoli erano stati abbandonati dal loro Principe? – Sciolti pertanto dal giuramento di fedeltà, potevano, se volevano, sottomettersi al Re cristianissimo, come in realtà essi decretarono di fare. – Il popolo Avignonese e del Contado si sottrasse alla Nostra sovranità osando violare le leggi umane e divine. Ma Noi mai pensammo di abbandonare quei popoli, e pertanto presteremo la Nostra opera e daremo il Nostro aiuto in futuro, come in passato, affinché ritornino a Noi. Per questa ragione a coloro che si fossero allontanati da Noi abbiamo perdonato, senza alcuna condizione. Ma questo singolare atto della Nostra clemenza, sia ad Avignone sia a Carpentras, fu accolto con sfrenata arroganza e furono anche adottate dall’una e dall’altra parte deliberazioni indegne, che è meglio passare sotto silenzio e coprire con le tenebre, piuttosto che metterle in luce.

16. Ma non per questo il Nostro amore venne meno. Non ignoriamo infatti, Venerabili Fratelli, che non v’è nessuno fra voi che non detesti con grande orrore i delitti fin qui commessi e da essi non si allontani, per meglio adempire al suo ufficio di pastore. Sappiamo anche che fra voi, diletti figli, canonici, parroci, ed ecclesiastici di Avignone e del Contado vi sono molte persone eccellenti per virtù, accese di fervore religioso, pronte per ciò a sopportare qualsiasi sacrificio per difendere la causa di Dio, della Chiesa e della Patria. Sappiamo infine, diletti figli, che nel vostro nobile e civico rango si trovano molti dotati di apprezzabile devozione verso la Chiesa e di ottimo animo verso di Noi, sia ad Avignone, sia molto di più nel Contado, dove intere comunità conservano intatte ed intemerate la Religione e la fedeltà. Da qui, ammaestrati dalla divina sapienza, deduciamo che abbiano ragione i probi e i giusti; conseguentemente sopportiamo con mansuetudine i cattivi. E quantunque scorgendo tanti delitti siamo afflitti da grandissimo dolore, vogliamo tuttavia parlare paternamente agli uni e agli altri, affinché i buoni perseverino nel proposito di bene, e i cattivi vi ritornino e, con la penitenza, purghino le loro colpe. Inoltre, giacché scriviamo per questo tempo, nulla è più santo di ciò che porta con sé il giorno della riconciliazione e della pace. – Non siamo pertanto inorriditi per le cose contrarie che sono avvenute sia costà che nel regno dei Galli, come se Dio Ci avesse abbandonato. Ma pensiamo e reputiamo che le cose siano accadute sia per i Nostri peccati, sia per quelli del popolo, e non per la morte, ma per la correzione della Nostra stirpe. Pertanto confidiamo che in futuro il Dio ottimo e massimo, davanti al quale tanto spesso Ci siamo prostrati per chiedere perdono a favore del popolo affidato alla Nostra cura, si riconcili con i suoi servi, non allontani mai la sua misericordia da Noi, ma, abbracciando nelle disgrazie il suo popolo, non lo abbandoni: chi è abbandonato nell’ira di Dio onnipotente, di nuovo sarà esaltato nella riconciliazione del grande Signore.

17. Ascoltate, Venerabili Fratelli e diletti Figli, le Nostre paterne parole, che, seguendo il consiglio dei Nostri Venerabili Fratelli Cardinali Santa Romana Chiesa, vi rivolgiamo come pastore universale e vostro principe sul divario delle cose ecclesiastiche e politiche. Per quanto riguarda il regime ecclesiastico, nei confronti di coloro che con giuramento lo abbracciarono e seguirono, o mai abbracceranno e seguiranno costì la Costituzione civile del clero, agiremo con la stessa benignità con la quale abbiamo agito nei confronti di coloro che fecero lo stesso nelle Gallie, ove nacque la medesima Costituzione, in parte eretica, in parte scismatica, e nel complesso lontana dalle regole e avversa alla disciplina ecclesiastica; così è Nostro proposito di non fare altro che comminare ed estendere le stesse pene canoniche che reca la Nostra lettera del giorno 13 di questo mese, mandata ai diletti Nostri figli i Cardinali di Santa Romana Chiesa e ai Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi, ai diletti figli del capitolo, al clero e al popolo del regno delle Gallie. Di questa lettera mandiamo a voi molte altre copie, Venerabili Fratelli, affinché le facciate pervenire alle mani dei capitoli, del clero e dei popoli di codesta Nostra giurisdizione.

18. Pertanto, con la Nostra Autorità Apostolica, dichiariamo irriti, illegittimi e sacrileghi tutti gli atti che con qualsiasi nome, sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia altrove siano stati compiuti per fare abbracciare o seguire, sia tacitamente, sia esplicitamente, tutta la Costituzione civile del clero od anche soltanto una parte, e tutti questi atti che diamo per espressi li condanniamo, respingiamo ed aboliamo.

19. Soprattutto annulliamo ed aboliamo l’editto dell’8 ottobre 1790, col quale il Consiglio municipale di Avignone, non solo temerariamente, ma anche empiamente, tentò di costringere il Venerabile Fratello Arcivescovo di quella città, i canonici, i parroci e gli altri ministri ecclesiastici ad unirsi a sé con civico giuramento, essendo proprio di qualsiasi indegno uomo cattolico, una volta promulgata la dichiarazione, considerare vacanti la sede arcivescovile, le parrocchie e tutti gli altri uffici se non viene espresso un giuramento di tal fatta: tale editto perciò è invalido, sacrilego, e per sua natura idoneo a favorire lo scisma.

20. Parimenti condanniamo ed annulliamo l’elezione di Malierio a vicario capitolare, e la dichiariamo empia, violenta, irrita e sacrilega poiché è del tutto ignorato nella Chiesa di Dio che si possa togliere al pastore legittimo ancora vivente il governo del suo gregge, se non per cause canoniche, previste dalla stessa Chiesa o da questa Santa Sede; e poiché manca dei necessari suffragi ed è priva di ogni libertà, così l’elezione non può essere considerata né canonica, né ecclesiastica, ma un atto militare ed ostile. Infatti la forza militare estorse i suffragi; con la forza militare avvenne che codesta fittizia elezione venisse presentata al popolo fra le giuste proteste dei canonici che precedettero e seguirono l’atto profano; si deve perciò ritenere che lo stesso possesso dell’eletto sia stato accreditato con la forza militare. – A questa vicenda si possono dunque applicare le parole che furono scritte dal Sinodo di Alessandria nella lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, quando Sant’Atanasio fu cacciato dalla sua sede nel conciliabolo di Tiro: “Quando il capo presiedeva, quando il capo parlava, gli altri stavano in silenzio, o piuttosto prestavano ossequio al capo; ciò che comunemente piaceva ai Vescovi, da lui era impedito; egli usava il comando, noi eravamo guidati dai soldati“. Ottimamente il Sinodo affermò che siffatta degradazione era da considerare “intrigo di comandanti, non atto sinodale“.Ugualmente si confanno le parole dette da San Giulio, quando al posto dello stesso Atanasio i Vescovi Ariani sostennero il dissipatore Giorgio, e lo mandarono ad Alessandria protetto dal braccio militare. – Egregiamente il Santo Pontefice scriveva che Giorgio era entrato in Chiesa “non con i sacerdoti e i diaconi della città, ma con i soldati… credetemi, carissimi, poiché parliamo con verità come se fosse presente Dio: codesto non è un fatto pio, né giusto, né ecclesiastico“.

21. La dichiarata nullità dell’elezione porta con sé la nullità di tutti gli atti compiuti da Malierio fin dall’inizio, senza giurisdizione, contro i rettori del seminario, contro i buoni pastori, contro i religiosi privati dei loro uffici per nessun’altra causa, se non perché rifiutarono di prestare il giuramento di osservare una Costituzione assolutamente acattolica.

A proposito della nostra questione, ancora San Giulio esclama: “Gli atti compiuti da Giorgio nel suo ingresso, mostrano quale sia stata la regola nella sua ordinazione; preti… indegnamente fatti… rapiti i sacri misteri per costringere con la forza alcuni ad approvare la costituzione di Giorgio. Queste cose ed altre simili dimostrano chi siano i prevaricatori dei canoni. Infatti… neanche con la prevaricazione della legge avrebbe costretto ad ubbidire coloro che legittimamente ubbidivano ad essa“.

22. Pertanto, quantunque siano gravi e molti i delitti commessi da Malierio, tuttavia, volendo lasciargli tempo e possibilità di ritirarsi e di purgare le sue colpe con pubblica e opportuna riparazione, Ci asteniamo dall’imporgli le pene canoniche più gravi e gli comminiamo la pena più mite di tutte, dichiarandolo sospeso dall’Ordine sacerdotale e colpevole d’irregolarità se osasse esercitare il predetto Ordine.

23. Ordiniamo inoltre al predetto Malierio, sotto pena di sospensione, di non osare da qui in poi di chiamarsi Vicario capitolare né di esercitare alcun ufficio inerente in qualche modo a questa dignità, alla quale è giunto né per diritto né canonicamente. Soprattutto vogliamo che gli sia interdetto mandare lettere dimissorie a coloro che si apprestano a ricevere gli ordini, e che non siano da lui nominati in alcun modo parroci, rettori di seminari, funzionari ed altri ministri ecclesiastici di qualsiasi genere, anche se eletti dal popolo, dichiarando nulli ed irriti tutti i provvedimenti e gli incarichi che fino a questo momento fossero stati disposti, con tutte le relative conseguenze, e qualsiasi altro atto che osasse fare in seguito.

24. Comminiamo la stessa pena della sospensione dall’esercizio dell’Ordine al predetto Mouvansio, prete dell’Oratorio, che celebrò la Messa quando lo pseudo-Vicario Malierio prese possesso, e per somma temerità aggiunse le insegne della Municipalità alle vesti sacerdotali che indossava.

25. Rivolgendoci a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici e cittadini tutti di Avignone, vi preghiamo nel Signore di non accogliere il predetto Vicario capitolare, o qualsiasi altro ministro che per vie tortuose e sotterrane e tentasse di occupare incarichi ecclesiastici; al contrario vi raccomandiamo di ubbidire anzitutto all’Arcivescovo ed ai vostri legittimi parroci; questi infatti saranno sempre i vostri pastori, anche se costretti ad allontanarsi contro la loro volontà; ciò anche se, con orribile sacrilegio, fosse eletto e consacrato un altro Arcivescovo o si designassero altri parroci. – Questo tipo di sacrilegio è stato da Noi denunciato e condannato con Nostra lettera ai Vescovi delle Gallie trasmessa anche a voi. -Sarà quindi compito dell’Arcivescovo guidare le sue pecore, e dei buoni parroci offrire aiuti spirituali al proprio popolo come meglio potranno. Ricordatevi che senza il giudizio canonico della Chiesa non potete, anche in condizioni di violenza e di necessità, sottrarvi o liberarvi da quel vincolo d’obbedienza con il quale siete legati all’Arcivescovo ed ai vostri parroci, come fu riconosciuto e dichiarato il 25 febbraio nel convegno straordinario tenutosi presso la celebre Università della Sorbona.

26. A questo punto riteniamo opportuno difendere sia il vostro Arcivescovo sia gli altri funzionari dalle accuse con le quali erano stati colpiti ingiustamente nell’editto del Consiglio municipale, come se gli stessi non potessero essere lontani da Avignone senza contravvenire a quanto prescritto dai canoni. Effettivamente, secondo i canoni, non possono essere senza colpa né l’Arcivescovo né gli altri ministri assenti, che per l’esercizio del loro dovere sono obbligati ad essere presenti alla Chiesa, sia quando l’Arcivescovo, per giusti e razionali motivi inderogabili, si reca fuori diocesi e quivi si ferma oltre il tempo consentito, sia quando gli altri ministri ecclesiastici si allontanano dal servizio della Chiesa cui sono addetti. Ma se ciò accadesse, gli autori dell’editto non devono affatto ignorare che a norma degli stessi canoni non è permesso ai laici sentenziare contro gli ecclesiastici e castigarli con l’estrema pena della privazione: ma devono essere lasciati alla Chiesa il libero diritto e la facoltà di trattare nei loro riguardi con gradualità e con diverse pene, o privandoli dei redditi dei benefici, o castigandoli con pene spirituali, o privandoli infine degli stessi benefici. Così come se si trattasse del Metropolitano assente, “il Vescovo residente più anziano, sotto pena dell’interdetto da incorrere immediatamente, è tenuto a denunciare entro tre mesi, per lettera o per mezzo di un ambasciatore, al Romano Pontefice, il quale, secondo la maggiore o la minore contumacia, con l’autorità della sua Sede suprema potrà riprendere gli assenti e provvedere le Chiese stesse di pastori più utili, così come riterrà più salutare nel Signore e come è stabilito con le stesse parole dal Concilio Tridentino“.

27. Per la verità sono conosciute da tutti quelle grandi masse, costì eccitate, che costrinsero i nobili e gli ecclesiastici ad abbandonare la patria e il domicilio per evitare di giurare o per sfuggire a quei danni che altri probi uomini miseramente subirono; quei danni ai quali non poterono essere sottratti neppure i loro patrimoni, come avvenne per la casa arcivescovile e per gli altri beni dell’Arcivescovo. Si giunse a questo ancorché l’Arcivescovo non avesse mai mosso un piede fuori della sua Diocesi; infatti Villanova, dove egli ha dimorato e tuttora dimora, si trova entro i confini della sua stessa Diocesi; così che per questo non si può dire che egli si sia scostato dalla disposizione Tridentina, che ordina ai Metropolitani di risiedere nella Chiesa arcivescovile o nella Diocesi. Del resto a Noi, cui spetta il giudizio su queste cose, consta per certo che niente più ardentemente desiderava l’Arcivescovo che ritornare costì e sarebbe già tornato da voi, anche con rischio della sua vita, se non avesse temuto che la sua morte, più che di utilità alle sue pecore, fosse di danno e detrimento in questi infelicissimi tempi.

28. Le cose che abbiamo detto al clero e al popolo di Avignone sull’ubbidienza dovuta all’Arcivescovo e ai pastori, ripetiamo anche a voi, diletti figli, canonici, ecclesiastici, e genti delle altre Chiese del Contado. State lontani da coloro che invasero le Chiese altrui o che tentano ancora di invaderle, evitateli, guardateli con orrore: amate invece i vostri legittimi Vescovi e Parroci, ossequiateli ed ascoltateli.

29. Tutti gli abitanti di Avignone e del Contado formino unità di animi e volontà quando si tratta di argomenti religiosi: rivolgete sempre gli occhi alle leggi divine, alle leggi ecclesiastiche e a quelle di questa Sede Apostolica. La Chiesa infatti e la Sede Apostolica sono mosse dallo Spirito di Dio. Se così vi comporterete, come confidando sulla vostra pietà speriamo per il futuro, l’ira di Dio si convertirà in misericordia e da questo riporterete trionfo; coloro che combattono contro la Religione saranno costretti a dire di voi ciò che i nemici dei Giudei dicevano dei Maccabei, cioè che i Giudei avevano Dio quale protettore e per Lui erano invulnerabili perché osservavano le leggi da Lui stabilite.

30. Passando ora dal governo ecclesiastico a quello civile non possiamo comportarci con voi nello stesso modo con il quale Ci comportammo con i Galli. A questi, infatti, non abbiamo voluto parlare della nuova legge relativa alle cose civili approntata dalle Assemblee Generali e sancita dal Re per competenza. Al contrario non possiamo tacere con voi che da molti secoli siete sotto la Sede Apostolica, sotto il governo dei Sommi Pontefici, e che senza la Nostra suprema autorizzazione non potete cambiare la forma del regime temporale: ciò richiedono sia le leggi umane, sia quelle divine.

31. Perciò, usando la Nostra suprema e legittima potestà, in qualità di Principe, annulliamo tutti e i singoli atti compiuti contro i diritti del Nostro Principato sia ad Avignone, sia a Carpentras, sia in qualunque parte del Contado, e riproviamo innanzi tutto e annulliamo, in quanto irrite, le delibere piene di violenza e di sedizione adottate costà con il proposito di sottrarvi dalla Nostra sovranità per trasferirvi a quella Francese; delibere – diciamo – che il carissimo Nostro figlio in Cristo il cristianissimo Re insieme alla sua inclita Nazione non può approvare e neppure mettere in discussione senza ledere i sacrosanti diritti delle genti, come abbiamo specificato allo stesso Re con ripetute rimostranze.

32. Disapproviamo parimenti ed annulliamo le delibere ugualmente assurde e sediziose di vivere costì con ordinamento repubblicano; riproviamo e annulliamo anche le delibere con le quali per somma pazzia si accolgono le leggi civili straniere, sia emanate sia da emanare, e con le quali si antepongono leggi nuove, pericolose e incerte, alla Costituzione antica, domestica e legittima, sotto la quale voi ed i vostri antenati siete vissuti tranquillamente ed in pace per tanti secoli.

33. E, tralasciando altre innovazioni compiute in massima parte senza il Nostro consenso, nell’eccitazione degli animi e nello stesso calore della sedizione, per cui si debbono ritenere illecite come se a questo punto le avessimo ricordate singolarmente, annulliamo soprattutto gli indegnissimi atti di violenza, per i quali il Nostro pro-legato, il rettore e gli altri ministri sono stati prima esautorati e poscia costretti ad allontanarsi dai nuovi ufficiali e dai tribunali subentrati. E affinché non si possa mai dubitare che Noi conserviamo intatto ed integro il Nostro antico possedimento e custodiamo tutti i Nostri antichi, legittimi e tutelati diritti, con queste parole e nel modo più solenne possibile, con diritto confermiamo non solo le proteste sopra ricordate, spesso rinnovate per mezzo del Nostro pro-legato e che qui vogliamo siano ricordate come se fossero scritte parola per parola, ma anche i reclami che, seguendo l’esempio dei Nostri predecessori, e imitando il costume di altri principi, abbiamo curato di mandare al Re delle Gallie e ad altre assemblee cattoliche con l’intento e la volontà, se sarà necessario, di ricorrere a rimedi più forti, che sono in Nostro potere, per vincere la sempre più insistente pervicacia.

34. Ciò premesso, vi ammoniamo paternamente e vi esortiamo, Venerabili Fratelli e diletti figli che siete rimasti fedeli, affinché non solo con l’esempio, ma anche con la parola esortiate coloro che tanto ed in tanti modi si allontanarono, ad abbandonare quella sedizione, nella quale si sono miseramente avviluppati e a ritornare a Noi, che li abbiamo sempre portati nell’animo, in modo tale che, abbracciandoli nuovamente, non possiamo non accoglierli in seno. – Si ricordino che per il precetto stabilito da Dio, e che le sacre pagine tanto spesso ripetono, i sudditi devono ubbidire al loro Principe, e debbono eseguire le patrie leggi che da lui furono emanate. – Si guardino diligentemente dalla ricerca di cose nuove, che quantunque in apparenza sembrino utili, sono sempre collegate ad un sommo pericolo. Se nelle patrie leggi entrò qualche abuso (già altre volte abbiamo dichiarato e ancora dichiariamo) siamo pronti a sradicarlo e a toglierlo di mezzo, ascoltando, per quanto starà in Noi, i vostri desideri. – Cessino le fazioni e le discordie fra i cittadini; le cose tornino al loro posto; agli animi siano restituite la carità, la giustizia e la pace. Infatti sarete felici ovunque se, osservando le leggi di Dio, della Chiesa e del vostro Sovrano, godrete della pace, dal momento che il Dio della pace e dell’amore sarà con voi, come promise l’apostolo Paolo ai suoi fedeli. – Noi intanto, in pegno di quella pace che per tutti invochiamo dal Signore, a voi, Venerabili Fratelli, e a voi, diletti figli, impartiamo con affetto la Nostra Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 23 aprile 1791, anno diciassettesimo del Nostro Pontificato.