IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo terzo (1)

LA LEGGE DELL’AMORE

È stato osservato che se è bene cogliere qualche rosa e deliziarsi della sua bellezza e del suo profumo, è meglio, però rivolgere le proprie cure al rosaio completo: le rose si moltiplicheranno ad ogni primavera e ci procureranno sorriso e fragranza. Avviene lo stesso nella morale: è tutt’altro che inutile esaminare le singole virtù, le singole norme, i singoli punti dell’etica cristiana; ma ciò che più importa è il rosaio dell’Amore, perché chi lo coltiva ha tutte le altre virtù. Quando noi possiamo dire con sincerità a noi stessi di amare Dio, possiamo soggiungere con sant’Agostino: « Ama e fa quello che vuoi ». L’amore è la perfezione della legge, avverte san Paolo; è la fonte di ogni precetto; dev’essere il soffio ispiratore di ogni atto; ed in esso sta tutta la morale cristiana. Lo ha insegnato Gesù nel Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze: ecco il primo ed il massimo dei comandamenti… Il secondo è simile al primo: Ama il tuo prossimo come te stesso ». Per comprendere il significato di queste parole, dobbiamo esaminare l’amore che dobbiamo a Dio, al prossimo, a noi stessi.

I. – L’AMORE DI DIO

Vi è un grave errore, quanto mai diffuso, che giova subito liquidare. Si crede che l’amore di Dio, voluto da Gesù, consista in questo: l’individuo, con tutte le energie della sua anima umana, col suo affetto, con la sua intelligenza e con la sua azione, protesta a Dio il suo amore. Si tratterebbe, quindi, d’un amore individuale ed umano. È uno sbaglio. Se l’amore nostro per Dio dovesse consistere solo in questo, non erano necessari il Cristianesimo, l’ordine soprannaturale e la rivelazione. Bastava la ragione o la coscienza del puro uomo, che, risalendo mediante un semplice ragionamento dalle cose create al Creatore, doveva sentire il dovere di amar Dio sopra ogni cosa. Ogni filosofo pagano, come un Platone o un Epitteto, anzi ogni anima naturalmente onesta, poteva giungere a questo atto di amore naturale.

1. – L’amore soprannaturale di Dio

L’amore a Dio, del quale parla Gesù, è qualcosa di più grande. È bensì anche tutto ciò che abbiamo detto or ora, poichè l’ordine soprannaturale non distrugge mai l’ordine naturale, ma è un atto di amore fatto da noi in unione con Cristo. Incorporati a Lui, divinizzati dalla sua grazia, uniti al suo corpo mistico, noi siamo vivificati dall’Amore sostanziale che unisce il Padre al Figlio ed il Figlio al Padre. Noi, dunque, siamo figli di Dio, ed il nostro amore a Diobnon è il semplice amore d’una creatura, ma è l’atto d’amore soprannaturale, il cui principio ci è infuso dallo Spirito Santo, col quale amiamo Dio, come i figli amano il Padre. Non per nulla la prima parola della grande preghiera, insegnata da Gesù, è un atto di amore: « Padre nostro »; insieme con Gesù noi salutiamo ed amiamo il Padre, che in noi non vede solo i singoli individui (come nella pagina d’un libro io non vedo solo le singole lettere), ma in noi contempla il suo Gesù che ci unisce, ci eleva, ci divinizza (come io nella pagina, attraverso le singole lettere, vedo il pensiero), e da noi viene amato con un amore umano sì, perché libero, ma trasformato e sublimato dalla grazia soprannaturale del Paradiso. – Cos’è il piccolo nostro cuore di fronte a Dio? cos’è il palpito d’amor umano per l’Infinito? È nulla, se per la carità il nostro cuore non è unito al Cuore di Cristo. Se noi insieme con Lui amiamo il Padre, allora i due palpiti — l’umano ed il divino — divengono simili, pur nella loro infinita differenza, a due grani d’incenso, gettati in un unico turibolo. La nube che s’alza al Padre allora è gradita ed è fragranza degna di Lui. L’amore soprannaturale di Dio, base ed anima della morale cristiana, presuppone, quindi, la fede. Con la fede noi crediamo ai misteri della nostra divinizzazione ed a tutte le verità, che in rapporto ad essa ci furono rivelate; — in una parola crediamo all’amore di Dio per noi: nos credidimus Charitati! Ancora: l’amore soprannaturale per Dio implica la speranza, poiché, come vedremo, cos’è questa se non il protendersi dell’anima verso l’amore di Dio, che sarà un giorno la nostra gioia eterna? Ed è con questa nozione di un amore non puramente individuale, ma in unione con Cristo — e non semplicemente umano, ma elevato dalla grazia, che bisogna leggere il Vangelo ed il Nuovo Testamento. Quando san Giovanni dice: « Colui che rimane nell’Amore, rimane in Dio e Dio in Lui », dobbiamo scorgere in tale espressione l’unione nostra con Dio nell’abito e nell’atto di carità. Quando san Paolo parla del nostro « amore per Dio che è in Cristo Gesù., la sua frase non dev’essere più un enigma incompreso. E quando soggiunge che in cielo non vi sarà più la fede né la speranza, perché Dio lo vedremo e lo possederemo, ma solo la carità, dobbiamo capire come il paradiso è la visione ed il possesso di Dio, conquistato con la carità di quaggiù, la quale non vien meno, ma in cielo si continua e si perfeziona in un eterno atto di amore dei figli verso la Trinità sacrosanta.

2. – I « surrogati » dell’amore di Dio

Se si partisse sempre da un simile concetto esatto dell’amore di Dio, non si correrebbe il rischio di confonderlo con i surrogati pericolosi, che si trovano in commercio.

a) Il primo surrogato, quanto mai ingannatore, è quello che sostituisce l’amore soprannaturale di Dio con l’amore sensibile, con quel sentimentalismo che ha origine nel nostro organismo fisiologico, con una serie di oh e di ah, che somigliano — direbbe il padre Aubry — a sospiri colombini. Vi sono delle anime che temono di non amare il Signore e son persuase d’aver pregato male, se non hanno avuto il fervore sensibile, quasi che l’amore di Dio, che risiede nella volontà nostra, non dovesse essere spirituale, ma fisiologico!

b) Il secondo surrogato, contro il quale ci ha messo in guardia lo stesso Gesù, fa consistere l’amore a Dio in pure parole, in dolci proteste verbali. « Non chi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio ». – Nella storia del Cristianesimo noi sappiamo come la Chiesa abbia condannato il quietismo, con non minore energia di quello che abbia riprovato il naturalismo-. Se il naturalismo riduceva la vita all’attività umana soltanto, senza amor di Dio, il quietismo avrebbe voluto togliere il nostro contributo e ridurre tutto all’azione divina. Sono due punti di vista unilaterali: sono il vero amore soprannaturale di Dio tagliato a metà, di modo che da un lato si ha l’attività dell’uomo e dall’altro la grazia di Dio, due cose che debbono essere ben unite insieme. – Perciò, chi crede d’amare Dio, perché frequenta la Chiesa, assiste alle funzioni, recita preghiere, e poi non pratica la legge morale nella sua vita, s’inganna grossolanamente: è un Cristiano di nome e d’apparenza, non un Cristiano vero e di fatto. Non si ama Dio, se non facendo la sua volontà. E non si fa la volontà del Padre senza la carità, che è forma d’ogni azione soprannaturale meritoria.

3. – Il vero amore di Dio.

Il vero amore di Dio l’abbiamo quando, uniti a Cristo e vivificati dallo Spirito Santo, noi amiamo il Padre « con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze ».

a) Con tutto il cuore, — vale a dire quando tutti gli affetti del cuore tendono a Lui come a fine e in Lui si riuniscono come a centro. Bisogna — commenta il padre Grou nelle sue Meditazioni sull’amor di Dio — che non vi sia divisione alcuna nel cuore nostro, ma che tutto sia per Dio; « bisogna, cioè, che Dio sia la sola cosa che io ami per se stessa, e che tutte le altre cose… io ami in rapporto a Dio ». – « Non è amare Te a sufficienza, esclamava sant’Agostino, l’amare con Te altra cosa che non si ami per Te ». In questo senso san Bernardo proseguiva: « La misura dell’amore che dobbiamo a Dio, è di amarlo senza misura ». Vedremo in seguito come in tal modo non è distrutto nè diminuito nessun valore umano, l’amore, ad es., a noi, agli altri simili, alle ricchezze, alla gloria e così via, ma tutto è unificato e subordinato all’amore di Dio.

b) Con tutta la mente, — ossia sempre l’intelligenza nostra deve contemplare la realtà alla luce di Dio e del suo Amore. Siccome tutto ciò che esiste è creazione di Dio e da Lui dipende, la mia mente non raggiungerà la vera cultura, se non coglierà il nesso fra le singole cose e Dio. Studino pure la natura il fisico, il chimico, il biologo, il naturalista; ma si ricordino che, se anche per le necessità dell’analisi occorre prescindere da Dio, non è però mai possibile la sintesi del sapere senza l’amore Suo per noi e nostro per Lui. Il biologo scruterà le leggi della vita; l’astronomo ammirerà l’armonia e l’ordine degli astri; il filosofo indagherà l’universo per giungere ai supremi principi dell’essere; ma tutte le scienze debbono ricondurmi al centro della realtà. Per continuare il paragone di prima, io potrò prescindere per un istante dal pensiero che ha originato una pagina e che da essa è espresso; potrò limitarmi ora a ricercare l’alfabeto usato, ora a studiare il metodo della punteggiatura, ora a fare un elenco di vocaboli, ora a scoprire le regole grammaticali e sintattiche di quella lingua, ma tutto questo è un mezzo per risalire al pensiero e per comprenderlo. Così nel gran libro dell’universo la mia mente, mediante gli innumerevoli rami delle scienze, condurrà indagini parziali, che non debbono essere fine a se stesse, ma debbono avere come principio e come termine quel Dio che, nella natura e nella storia, ci dà una delle manifestazioni del suo Amore. Ama Dio con tutta la mente colui, che dovunque lo sguardo gira, qualunque scienza coltivi, cerca Dio.

c) Con tutte le forze, — ossia con tutta la volontà e con l’azione nostra. L’amore per Dio esige che si viva per Lui, che si operi secondo la sua volontà, che Gli si sia praticamente fedeli, anche nelle piccole cose. – « Le piccole cose, ammoniva sant’Ambrogio, sono piccole cose; ma esser fedele nelle piccole cose, è una gran cosa ». E il Tissot commenta genialmente: « Nostro Signore non è forse tutt’intero, tanto grande, tanto vivo, tanto adorabile, in una piccola Ostia come in una grande, in una particella come in un’Ostia intera? Non ne raccolgo io forse i frammenti con la medesima adorazione che ho per l’Ostia grande? Così è della volontà di Dio »: essa è identica nel minimo dei precetti e nel massimo dei comandamenti. Ogni norma della legge morale è dettata dall’Amore e dev’essere eseguita per amore; perciò nelle piccole e nelle grandi imprese, nell’umile e nascosto adempimento del dovere quotidiano e nell’atto eventuale dell’eroismo, sempre v’è lo stesso amore.. Ogni nostra azione deve, quindi, essere un atto di amore per Dio. Per dirla col Rodriguez, nel Sancta Sanctorum, là nel tempio di Salomone, ogni cosa era oro e coperta d’oro; così in noi, ogni cosa ha da essere o amor di Dio, o fatta per amor di Dio. La preghiera, il lavoro, il dolore, il sacrificio, la vita, la morte, tutto deve tramutarsi in un cantico d’amore. Solo una distinzione è da farsi, secondo ciò che ci avverte Gesù nel Vangelo. Infatti:

a) C’è un amore comandato, ed è il campo del dovere, dei comandamenti, dei precetti. A questo amore nessuno può sottrarsi, senza rendersi ribelle. Qui abbiamo la volontà di Dio che impone.

b) E c’è un amore consigliato, ossia il campo dei consigli « Se vuoi essere perfetto, dice Gesù, posando il suo occhio di predilezione sopra un’anima, consacrati a Me col voto di castità, di povertà, di obbedienza ». Qui abbiamo la volontà di Dio, che non comanda, ma solo invita dolcemente. Ed ecco la duplice schiera dei Cristiani: vi sono coloronche viaggiano sulla strada comune della legge morale, ed altri che ascendono l’alta montagna. I primi ed i secondi amano Dio: la differenza consiste nel modo più diretto della pratica dell’amore, anche se non sta sempre nell’intensità di esso, la quale, in chi vive nel mondo, può anche pareggiare e superare quella di chi si trova nel chiostro.

4. – La rassegnazione cristiana e la « santa indifferenza di sant’Ignazio.

Siamo ora in grado di afferrare il vero senso della dottrina morale cristiana a proposito della rassegnazione nel dolore e del programma ignaziano circa la « santa indifferenza ». Abbiamo visto come l’amor di Dio implica essenzialmente che si faccia la sua volontà, ossia che si voglia ciò che vuole Lui. Se Egli ci vuole nella gioia, dobbiamo benedirlo con l’autore dell’Imitazione di Cristo; se ci vuole nel dolore, dobbiamo parimenti benedirlo. Cos’è la rassegnazione? Forse l’insensibilità o l’indifferenza? No, mille volte no! Anzi, quanto più si sente e si soffre, tanto più dobbiamo amare Dio, conformandoci ed uniformandoci al suo volere. Noi sappiamo che Egli è Padre e che, se permette il dolore, lo fa per il bene nostro; anche se non comprendiamo le sue segrete intenzioni, siamo certi di questo: che è il Padre Colui che ci manda la sofferenza. Perciò non ci ribelliamo, non ci disperiamo mai, ma proseguiamo sicuri il nostro cammino, con un grande atto di amore per Lui, anche se non riusciamo né possiamo ridurre la sofferenza ad una gioia. – « Dobbiamo farci indifferenti riguardo a tutte le cose create », continua sant’Ignazio, suscitando il coro delle recriminazioni di chi, in nome del « perinde ac cadaver », lo accusa d’esser fautore di apatia, di fatalismo musulmano, di inerzia buddhistica, di insensibilità stoica, e chi più ne ha più ne metta. Sciocchezze! Noi, secondo sant’Ignazio, dobbiamo amare Dio ed in questo non possiamo essere indifferenti. È il fine nostro, sul quale non si discute. Ma in qual modo dobbiamo amare Dio? E l’autore immortale degli Esercizi risponde: facendo ciò che Dio vuole, non ciò che voglio io. C’è qualcosa di più evidente? No. Ed allora ne consegue che noi non dobbiamo valutare le cose in se stesse, quasi fossero l’Assoluto, ma solo in rapporto alla volontà di Dio: le cose non hanno mai valore di fine, ma sono solo mezzi, variabili all’infinito, che possono condurre al fine. Se Dio mi vuole professore, lo amo facendo bene il professore; se Dio mi vuole contadino, lo amo coltivando bene i campi; se Dio mi vuole ammalato in un letto, lo amo soffrendo; se mi vuole soldato, lo amo combattendo e così via. Io debbo farmi indifferente di fronte alle cose umane: il che è tutt’altro che inerzia o insensibilità! È il contrario: è il massimo grado di attivismo a cui io posso aspirare e gli Esercizi ignaziani sono tutti pervasi di questo spirito di energico attivismo. Il facere nos indifferentes esige una lotta formidabile contro noi stessi, da affrontare per amore di Dio. La rassegnazione inerte del fatalista è negazione di attività ed è egoismo bell’e buono; egli dice: — Non voglio angustiarmi, e prendo le cose come vengono; tanto « che giova nelle fata dar di cozzo? ». — L’accettazione cristiana del beneplacito divino è la prova più bella di amore che possiamo dare a Dio, perché se è facile gridargli il nostro affetto nelle ore ridenti di felicità; non è così facile ripetergli l’attestazione del nostro amore quando Egli ci domanda il sacrificio, la lagrima, il martirio.

5. – Vita attiva e contemplativa.

Ecco, dunque, risolto anche l’altro problema se sia migliore la vita attiva o la contemplativa. Non basta discutere una simile questione in astratto, perché allora è evidente che la vita contemplativa è l’optima pars, in quanto l’anima si volge direttamente a Dio, mentre la vita attiva, volgendosi alle cose, sale a Dio solo indirettamente; ma bisogna discuterla in concreto. La vita migliore per ognuno di noi è quella che è voluta da Dio. Se una operaia dovesse ragionare così: « Io sono stanca di fare da Marta; voglio imitare Maria, che ha scelto l’ottima parte, e starò quindi in chiesa tutto il giorno, pregando dinanzi al Tabernacolo), la morale cristiana la riproverebbe, perché esser Cristiani vuol dire amare Dio, ossia fare la sua volontà; se Dio vuole che una persona lavori in un’officina, essa non ama Dio, ribellandosi al volere divino, stando cioè lunghe ore in chiesa. Se Dio vuole un figlio suo fra il febbrile agitarsi del commercio, è là che il figlio buono deve restare, senza sognare le estasi della contemplazione. Di modo che il Cristiano più perfetto, in linea pratica, è colui che compie meglio la volontà di Dio nello stato in cui la Provvidenza lo vuole. Il bene non è bene, se non è fatto quando conviene, come conviene, da chi conviene, secondo, cioè, tutte quelle circostanze concrete, che ci indicano il volere divino.

6. – Conclusione.

Non saprei come meglio chiudere questo paragrafo che col riferire alcuni versetti dell’Imitazione di Cristo (libro III, 5). « Io ti benedico, o Padre celeste, o Padre del mio Signor Gesù Cristo, perché ti sei degnato di ricordarti di me meschino. – « O Padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione… sempre ti benedico e ti rendo gloria con l’Unigenito tuo e con lo Spirito Santo, ne’ secoli de’ secoli. « O Signore Iddio, divino oggetto del mio amore.., tu sei la gloria e la delizia del mio cuore… « Gran cosa è l’amore ed il maggiore di tutti i beni! L’amore rende leggero ogni peso ed i pesi differenti porta tutti con animo eguale. Porta il peso senza sentirlo; e cangia in dolce sapore ogni amarezza… Nulla vi è in cielo e sulla terra che sia più dolce, più forte, più sublime, più espansivo, più giocondo, più perfetto, più eccellente dell’amore; perché l’amore è nato da Dio e non può trovar pace e quiete, se non al di sopra di ogni cosa creata, in Dio. « Colui che ama corre, vola, esulta; è libero e nulla può trattenerlo. Dà tutto per tutto e trova il tutto in tutte le cose, perché si riposa nel sommo unico Bene, da cui ogni bene fluisce e procede… « Per l’amore l’impossibile non esiste… Stanco, non perde lena; avvinto dai lacci, si serba disciolto; minacciato, non si sgomenta; ma come viva fiamma e come fiaccola ardente si slancia in alto e procede oltre, sicuro… « Un altro grido è all’orecchio di Dio questo stesso fervido affetto dell’anima, che dice: — Mio Dio, amor mio, tu sei tutto mio ed io sono tutto tuo. Apri il mio cuore all’amore, perché io possa nell’intimo dell’animo pregustare quanto sia dolce amare, struggersi, nuotar nell’amore… Deh! che io canti il cantico dell’amore; che io ti segua, o mio Diletto, fino al cielo; che languisca l’anima mia nelle tue lodi, giubilando d’amore… « Senza dolore, però, non si vive nell’amore. « Chi non è preparato a soffrire tutto ed a conformarsi alla volontà del Diletto, non è degno del nome di amante di Dio. Chi ama, per amore dell’amato deve abbracciare volentieri tutto ciò che v’ha di duro e d’amaro, nè per qualsiasi contrarietà deve separarsi da lui ». – Dal Cantico dei Cantici a questa pagina, forse scritta in estasi, l’inno tante volte si è elevato. E forse il nostro povero cuore, ne ha percepito così raramente, o così debolmente, una eco…

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (7)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (44): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -III-“

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (44)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

B. – DIO SUSSISTENTE UNO E TRINO

1. DIO “uno” secondo natura.

B1. a. – ESSENZA DIVINA

Si definisce l’Essenza metafisica di Dio (sec. i Tomisti), Essere sussistente, 3623; si spiega 3601-3604 3623s. Identità (reale) tra essenza e perfezioni di Dio. ogni perfezione di Dio ne è l’essenza: Dio è verità, sapienza etc., non una sola è participe 285; di Dio infatti è essere quanto volere, similmente volere quanto sapere 566; cf. e la semplicità di Dio, sotto B lbb. Riprov. asserzioni che peccano per eccesso 973s.

B 1b. b. – ATTRIBUTI DIVINI

1ba. AttributI trascendentali. Unità di Dio: Fedes in un solo Dio (per quanto in alcuni simboli, l’ “unum” omesso si riferisce a singole Persone divine) 3-5 42//50 71 108 125 150 800 3001 3021 3875; Dio è una sostanza singolare 3001; è similmente uno del Vecchio e del Nuovo Testamento 198 325 790 854 1334 1336.

Verità (ontologica) di Dio: Fede nel “vero” Dio 3 42/150 60 125 1800 1862 3001 3021 3026; Dio è la fonte di ogni verità 2811;

Bontà (ontologica) di Dio: Dio è il bene infinito, o il sommo bene (62) 240 285 .287 470 621 1333 (3002) 3004s .3251; ripov. l’asserzione che concepisce Dio come bene extra ragione 978.

1bb. Attributi quiescenti. Dio è: increato, incomposto 75 501; -: infinitamente perfetto (in ogni perfezione) 2751 3001 3623; add. infinitamente buono: B lba; in Lui niente è imperfetto 569; non abbisogna di nessuna partecipazione 285 358; non si lascia vincere nel numero dalla ragione della sostanza 530 -: eccelso sopra ogni cosa 3001; Maestà 73 75 293 529 1331; add. C 2a.

– incomprensibile ed ineffabile 294501 525 800 804 3001

– semplice (non composto, indiviso) 297 800 b805 ab1880 3001

-: personale 3542 3875 3890; sussistente in tre persone: vd. B 2.

– immutabile 285 294 297 501 569 683 800 853 1330 2901 3001

inconvertibile 197 358 416; in Dio non c’è emanazione o evoluzione 3024; nulla aumenta o sminuuisce 285 569.

– sostanza spirituale 3001; infatti Dio (Padre: Dio) è invisibile a16 a21 a39 b293s 683 853 3001; non può esprimersi con colori o figure 1825.

— : immenso 75 800 1330 3001; non circoscritto ed incontenibile 504:

nulla si estende fuori da Dio 204; pertanto Dio è dappertutto ed onnipresente (per potenza, presenza, essenza) 2185 a3330.

– eterno (sempiterno) 27 71 74s 147 173 284s 291 293 441 683 800 853 1330 1337 2828 3001; è senza inizio 501: Deus (aPater; bFiglio di Dio) è immortale a21s b294 b297 b358 b681 b801 b852 b1337; Dio (Padre) è il re dei secoli 21s; errore dei Teopaschitari: [Dio Figlio che soffre sec. divinità mortale] 359; vd. et E la.

1bc. Attributi operativi. Vita di Dio in genere 40 (173) 3001.

Vita intellettiva: Dio è (infinitamente) sapiente 2901 3001 3004 3009 3781; onnisciente 164 169 3009 3646;

In specie: ha la scienza dei cuori e dei segreti 670 2866; conosce in anticipo (scienza della visione) le future libere scelte delle creature (333 419) 621 625-629 646 685 3003 a3646 3890; queste quindi hanno verità determinata 1391-1395;

Dio non può fallire 3008.

Vita volitiva: Dio è —: volontà infinita 3001;

— libero da necessità 526 3890;

— volontà razionale, non preveniente la sapienza 526;

— giusto 285 621 1547 1549 1672 2216 3781:

— buono e misericordioso verso gli uomini 62 236 248 309 1534 1548s 1562 1576 1668 1696;

— verace: non può fallire 3008; Dio è la fonte di ogni verità 2811:

— onnipotente (referendosi solo ai luoghi più importanti di Dio in quanto uno. 680 683 685 800 851 1330 1880 3001; le singole Persone si dicono “onnipotente” 29 75 164 169 173 441 490; massimamente nei simboli l’onnipotenza si attribuisce al Padre 2//64 71 115 125 150 191 290 297 441; alla volontà di Dio niente può resistere 647; si riprov. l’asserzione che restringe la potenza di Dio 410 721 726s.

Vita affettiva : Dio è (in e fuori da Sè) beato 415 441s a3001.

Dio è impassibile ed inviolabile (soprattutto affermato contro i Theopaschiti la passione del Figlio incarnato che ripugna all’essenza della stessa Trinità)

16 166 0196s 284 293s 297 0300 318 358 0359 0367 504 635s 681 801 852 2529; si può pure dire “Dio che soffre nella carne”: vd. E 2ba.

2. Dio trino secondo le Persone.

B 2a a. — ESISTENZA DELLA TRINITÀ DELLE PERSONE IN DIO.

2aa. Testimonianze della fede. Fede nelle singole Persone divine, nel Padre, Figlio, Spirito Santo 1//30 36 40//51 55 60-64 71 73 75 105 125 144s 150 188 300 325 367 421 441 451 470 485 490 501 525 542 546 680 790 851 1330; add. forma Battesimo: J 3a.

Fede nella Trinità divina come tale: 3s 6 71 73 75 112 115 177 188 325 367 421 525 528s 546 568s 680 790 800 851 1330 1880.

Sono esclusivamente le tre Persone: al di fuori di Esse nessun altro possiede la divina natura 188 851; si riprovano i Priscilliani introducenti altri nomi della divinità fuori dalla Trinità 452; questa Trinità non moltiplica di numero 367; queste tre Persone in sé non si ridimensionano o diminuiscono, permangono 144;

Il Verbo di Dio, pertanto non ha mai fine 160.

2ab. Applicazione della ragione umana alla rivelazione della Trinità divina: è mistero incomprensibile all’intelletto, ineffabile, inenarrabile 167 367 525 616 619 2669; nella Trinità è inesplicabile la generazione 114; riprov. dell’assunto circa la dimostrabilita’ della Ss. Trinità e della sua identificazione con la realtà, l’idealita’, la moralità 3225s.

B 2b. b. — PROCESSIONI DIVINE

Pater. Sue proprietà: è senza principio 1331; da nessun altro è fatto o creato o generato c60 abc075 e441 ac485 bc490 be525 bc527 569 c572 c683 800 1330s; ciò che ha lo ha da sé 1331.

È principio generante 71 284; è fonte ed origine o principio di ogni divinità a490 a525 a568 b3326; il Padre genera il Figlio non per volontà, non per necessità, ma per natura a71 526; il Padre genera da Sè, dalla sua sostanza 470 485 525s 571 617 805 1330; senza sua diminuzione trasferisce la sua sostanza al Figlio 805; pertanto non è solo che per il Padre (sec. Ario) che si debba dire “Dio” 176 1332.

Attributi (appropriati al Padre): onnipotente 21/64 71 115 125 150 191 290 297 441; riprov.: [al Padre propriamente appartiene l’onnipotenza, non anche la sapienza e la bonta] 734.

Il Creatore ossia il fondatore di ogni cosa 27-30 36 40//51 60 125 150; “dal quale viene ogni cosa” 60 421 680 (851) 3326; ogni cosa fece per mezzo del F. e dello Sp. Sancto 171; è il dominatore dell’universo 1 5.

Re dei secoli immortale 21s.

Invisibile 16 21s 29.

Riprov. del predicato: [Croce del Figlio è la passione del Padre] 284; [Al Padre si può attribuire l’avvento alla fine del mondo] 737.

2bb. Figlio. Sue Proprietà: è principio dal principio 1331; è (veramente e propriamente) generato o nato dal Padre 40//51 71 75 113 125 144 150 163 a168 188s 272 284 485 490 503 526s 547 554 564 568s 572 681 851 1830 1337 2526.

È della sostanza o natura del Padre (non da altra sostanza) c43 a44 c45 a48 c49 a76 a125 c126 c144 a163 ab441 c526 c900 a2526; ciò che il Figlio ha, lo ha dal Padre 1331; il Padre da al Figlio tutto il suo “essere Padre” (900) 01301 01986 3675; è al Padre consustanziale: vd. B 2cba.

Non è parte (particola) del Padre 526 805; non è estensione o continuazione del Padre 160.

Non è fatto o creato dal nulla 042//50 60 75 113s 125 a126 a130 150 155 209 485 490 a526 536 1332 a2526; nel senso sec. Prov. 8,22, Figlio si dice “creato” 114; non è sostantivo 160.

È unico (unus) Figlio (oltre il quale non ce n’è altro) 4s 12/130 36 62s 0105 502; pertanto unigenito 2s I I 25 27 40//51 60 125 150 178 258 266 272 291 300 302 318 357 538 683 900 2526 3350 3352; solo Figlio da solo Padre 75 800 1330.

È generato dal Padre non per volontà o necessità, ma per natura 71 526.

È generato senza inizio o principio 357 470 526 536 572 617 1331; eternamente (atemporalmente) a490 504 (611) a617 681 852 900 1300s 1331 (3274); è dal principio con il Patre 61; sussiste dall’eterno in eterno

(126) 147; fu prima di ogni secolo (prima di ogni principio, ab aeterno) 40-42 48 50s 60 76 b126 b147 150 a189 272 294 a297 301 357 427 a441

485 0490 503s 526 538 547 554 568 571 (611) 617 681; è primogenito di ogni creaturae 40 50s 60 (490); riprov. l’asserzione ctr. l’eternità del Figlio [avrà fine; è mortale] e futura mutazione 43 45 47 49 113 126 130 a160 b359 2526.

Appellativi (oltre al nome “Figlio Dei” il più frequente): “Verbo di Dio” (Logos) 40 55 113 144 147 178 250/1263 427 502s 852 3326; Che invero non è da concepire come Verbum parlato 144 147; disapprovato come termine principale il titolo “Verbum” 2698; “Sapientia” (113) 148 476; “Sermo” 148; “Virtus” 113.

Predicati (appropriati al Figlio): Figlio rapportato alla creazione come “per il quale tutte le cose” 40//51 60 125 150 421 680 3326; “per il quale sono compaginati i secoli” 50s; si dice “creator di ogni cosa” 485.

2bc Spirito Sancto. Sue Proprietà: non è né ingenito né generato ab71 ab75 b485 b490 b527 b617 ab683; procede d Padre e dal Figlio [“Filioque”] 42 44 a48° 51 64 (a64) 71 (a71°) a75 (147) 150 (gr.) a150 (lat.) 178 (188) a284 441 a470 a485 a490 a527 546 a568s a617 a682s a800 a850 a853 a1072 a1300 a1330 a1986 a3807; lo Spirito è del Padre e del Figlio 178 527s 441 490; “Filioque” razionalmente è aggiunto al simbolo (perché si può provare) 1302 1986 a3553.

Sp. S. Procede come da un tanto principio o spirazione, non da due principii a850 a1300 ab1331 1986; si può dire: Sp. S. Procede dal Padre per mezzo del Patre Figlio 1300; lo Sp. S. è concepito dal Figlio sec. i Greci per causa, sec. i Latini come principio di sussistenza 1301 1986; lo stesso procede in quanto Spirito S. dal Figlio, il Figlio stesso lo ha dal Padre 1301.

Un solo tanto Spirito, che solo procede 40s 51 71 108 a1330. Sp. S. è fin dall’inizio 568 800 1331; procede eternamente (atemporalmente) 441 617 850 1300 1331 1986; è sempre e senza fine 800.

È di sostanza divina 168; riprov.: [non è della sostanza del Padre] 722; si rivendica la sua divinità increata ctr. errori: [Sp. S. è servo, creatura fatta per mezzo del Figlio] 44-49 71 75 145 a152 155 a170 485 490 527 617 1332 2527.

Appellativi: Paraclito 1 41 44 46 60 64 188; Dono 570 1522 1529s 1561 1690 3330.

Predicati (appropriazione allo Spirito S.): Sp. S. riferito alla creazione come, “in quo tutte le cose” 421 680 3326; riprov.: [Sp. S. è l’anima del mondo] 722.

Amore, in particolare tra Padre e Figlio 3326 3331; volontà 573 nella storia della salvezza allo Spirito S. si attribuisce— : l’ispirazione o locuzione per mezzo della Legge, i Profeti, gli Apostoli 41//48 150 682 790; —: incarnazione del Verbo: vd. E 5ba; non veramente è da credere Padre del Figlio 533; —: disceso al battesimo di Cristo 44 46 48 – — : sacrificio di Cristi 3327; —: riposare in Cristo 178; in modo peculiare si dice “Spirito di Cristo” 3807.

Nella vita della Chiesa lo Sp. S. è concepito come —: anima della Chiesa 3328; abitante in essa 600; congiungente le membra 3808; —: assistente ai concili e nelle preghiere nelle decisioni circa la fede e gli ordini 102 265 444 631 1500s 1600 1635 1667 1726 1738 1820.

Nella vita della grazia dei fedeli è concepito come —: fonte della grazia creata 3807; per i suoi doni si dice Sp. settiforme, Sp. di sapienza etc. 178 183 1726; ad Esso si appropriano i carismi 3328 3342; —: vivificante 3s 42 51 62 150 62 150 546; —: purificante 62s; — cooperante alla giustificazione illuminando e muovendo 374-378 387 1525 1552 1678 3009s; è lo stesso dono (altissimo) delle giustificazioni 1527 1529s 1561 1690 a3330; agisce nei Santi dell’eternità 60; inabita nei Santi e giusti 44 46 48 1962 3329-3331 3814s; i loro corpi sono tempio dello Sp. S. 1822; —: cooperante ai sacramenti 123 183 320 793 1774; —: alla perfezione delle virtù 3343.

Il peccato contro lo Spirito Santo è facente parte della potestà della Chiesa di rimettere qualsiasi peccato 349.

B2c. c. — LE PERSONE DIVINE TRA DI LORO COMPARATE.

2ca. Distinzione delle Persone tra loro. Esistenza della distinzione (ctr. la posizione del modalismo): Dio è uno, ma tuttavia, no è solitario 71 451 490; la Trinità divina non è sussistente in tre nomi 284-546; le Persone non sono da identificare, pertanto come Dio si nomina in egual modo il Filio, lo Sp. S. 73 75 112 154 188 192-194 284 451 530 569 1330; non il Padre incarnato è morto 105; uno è il Padre, non tre, etc. 75 421.

Ragione della distinzione: Padre, Figlio, Sp. S. sono nomi relativi 528 532 570; per quanto attiene al relativo, discretamente sono da predicare le proprietà delle tre Persone 570 573 800; altro è il Padre, altro il F. etc., non tuttavia altro è il P., altro F. etc. 573 80; nel Nome relativo sono designate anche le altre Persone 532 570; al nome “Spirito S.” Per questa relatività non si può sostituire pienamente il nome “Dono” 570.

Proprietà delle Persone tra loro comparate: il Padre è dall’eternità senza nascita, il Figlio è dell’eternità con la natività, lo Sp. Santo e procedente senza natività con l’eternità 532; oppure: il Padre è generante, il Figlio è generato o nascente, lo Sp. S. procedente 71 188 284 367 470 (526) 800.

Conseguenze logiche della distinzione delle Persone: Non è trasferibile all’essenza divina, quello che è proprio delle Persone 367; non pertanto “la cosa ” (sostanza divina) è generante, generata, procedente, ma il Padre è generante, il Figlio generato etc. 803s.

2cb. Eguaglianza delle Persone tra loro. Comparazione del Figlio con il Padre: il Padre non è generato da nessuno, è da se stesso 525; al Figlio da tutto ciò che è suo (senza diminuzione) tranne l’ “essere Padre” a470 b526 a805 1301 1986; il Figlio pertanto è (co)eguale al Padre per tutto, in nulla dissimile 74(76) ab144 164 b290 441 470 485 a490 491 a526 536s 572 617 a681 a852 1337; è della stessa natura 144 297 470; è consustanziale al Padre 42/151 55 125 138 150 272 301 357 430 441s 504 526 547 554 617 619 681 852 1337 (1880) 2526 2529 3350 3675.

In particolare si predica di questa eguaglianza per la — divinità 74 144 149 168 295 318 357; il Figlio è infatti Dio da Dio 40/151 125 144 150 490 (525); luce da luce 40//48 125 144 150 525; vita de vita 40; —: onore, gloria, maestà 74 290 318; —: eternità (coeterno) 27 74 290s 297 357 441 526 (611) 617 1337; —: sapienza o scienza 164 169 566 573; —: volontà ed (onni)potentia 144 164 169 290 566 573 681n852; add.: Gesù Cristo perfetto Dio: E la.

Comparazione dello Spirito Santo col Padre e col Figlio: lo Sp.S. è veramente dal Padre come dal Figlio 168; è al Padre e al Figlio — : consustanziale 29 46 55 (152) 441 853; —: (co)eguale 71 175 441 527 569 853; e lo stesso in onore e maestà, quindi a da coadorare, b da conglorificare ab42 147 ab150 a174 ab546; —: coeterno (sempiterno) 71 441;

—: eguale in potenza e virtù (29) 145 147 152; è in ogni luogo come il P. ed il F. 169.

Comparizione simultanea delle tre Persone: P., F., Sp. S. sono di una medesima natura 297; quindi a consustanziale o b coessenziale a3 ab325 a415 421 a442 a501 502 a516 a542 b547 554 a616-618 ab680 b682 ab790 a800 a805 ab851; in sè coeguali 4 75 169 173 415 441 537 616-618 682 800; pertanto nella Trinità nulla è inferiore, superiore, maggiore, minore 75 569 618.

In particolare si equiparano P., F., Sp. S. —: in divinità (sono Dio a pieno, b perfetto) 4 73 75 176 a325 b441 a529 a790 ab851; —: in gloria, maestà 73 75 501 529 1331; — in eternità (nella Tr. nulla è primo o posteriore) a75 a144 162 173 284 a618 1331; sono tra sè coeterni 75 147 325 546 616-618 680 682 790 800s 853; nessuna esiste prima o dopo l’altra o senza l’altra 531; — immensità (sono ovunque, contengono ogni cosa) 75 169 173; —: potenza 75 173 325 529 680 790 800 853; non sono di diverso grado di diverso grado di potenza nella Tr. 144 721 1331.

Riprov. errori ctr. l’eguaglianza delle Persone e dello Sp. S. sono creature] a155 721s 734 a1332.

2cc. Esistenza mutua (circumincessione) della Persone. Il Figlio sempre è nel Padre (e viceversa) 113 115; il Verbo necessariamente è unito a Dio 112 115; lo Sp. S. rimane in Dio ed inabita 112; il Padre tutto è nel Figlio, tutto nello Sp. Santo, etc. 1331; questo stesso procede dal Figlio, lo stesso Figlio lo ha dal Padre 1301.

B 2d d. — PERSONE DIVINE COMPARATE CON L’ESSENZA DIVINA.

2da. Identità reale dell’essenza divina nelle tre Persone. Principi: le tre Persone sono un solo Dio 71 73 75 112 325 530 546 680 683 853 1330; il numero in Dio concerne solo la ragione delle Persone 530; unica divinità è il nome delle tre Persone 188 441; trina Unità— una Trinità 441 501 546.

Nelle tre Persone è una (a medesima, b comune, c singolare) la divina sostanza (o essenza, natura) 3 71 73 75 144s 147 153 172 177 188 a284 c367 415 421 441 451 b470 485 490 501 525 527-529 535 542 546 616 683 800 804s 806 1330 2527; lo stesso è il Padre come il Figlio, lo stesso il Padre ed il Figlio come lo Spiruto S., id est: di natura è uno Dio 573 805; Dio non solo in senso ablativo si dice di essenza divina, ma pure in senso nominativo 745.

La forza dell’essenza divina esclude in Dio una quaternità 804.

L’unità della sostanza nella Trinità è così forte, che non è minore nella singola quanto in tutte le Persone. (441) 490 529.

Nelle tre Persone c’è —: una gloria 73 172 542 546; —: una maestà 144s 172 177 490 525 542 618 680 851; —: una verità 172; —: una volontà.; 172 501 542 545s 572s 680 851; —: una virtù 73 144s 415 421 441 451 490 501 525 542; —: una potestà (potenza) 3 71 73 (144) 153 172 177 415 421 441 451 490 501 546 680 851; —: una operazione 415 441 501 531 542 545s; —: una dominazione, un regno 172 501 542 548 3350; —: una beatitudine 415 441.

Tutte le cose in Dio sono uno, ove non si trova opposizione di relazione 1330; la sola natura divina è principio dell’universo 804.

La Trinità è la divinità consustanziale 284s 415.

Nelle tre Persone divine c’è la a individuale, b indivisa (indivisibile) c inseparabile, d indistinta (indiscreta) essenza divina bc73 c144s b188 b284 b290 d318 d367 bd415 d490 c505 b529 c531s c538 c542 c545s c561 c571 c569 c616

a683 a800 d805 d2697 bc3326 b3815.

Sequele logiche dell’essenza identica una indivisibile in qualunque Persona divina: “Dio” non è un nome relativo o di proprietà, ma nome di potestà che si applica in modo speciale 71 528;

Quanto si dice essenzialmente della natura della Trinità, si può dire per il singolo numero che per le tre Persone 542; infatti per il singolare numero si dice:

Deus Pater, Deus Filius etc. 529; non “tre Dii” 71 73 75 176 529 546 683 853 1330; non: “tre onnipotenti, increati, immensi etc.” 75 529 (pecca ctr. questa regola 173: “omnipotenti”); non: Dio (deitas) è triplice, ma: trino (trina) 528; non: Dio distinto in tre Persone, ma: distinti (2696) 2697 2830; non: battezzato nei nomi del Padre etc., ma: nel nome del Padre etc. 415 441.

Conseguenze cultuali: la Sostanza della Trinità indistinta è distintamente adorabile 367; non conviene riferire il culto ad una singola Persona trinitaria, ma offrire un culto comune alla Trinità 3325; infatti non esiste una festa propria delle singole Persone 3325.

2db. Distinzione della ragione tra essenza divina e le Persone. Non è da stabilire la divisione tra la natura divina e le Persone 745 803; il Trideismo è riprovato il trideismo che separa la natura unica delle Persone, introducendo tre dii, volontà ed operazioni personali 112 115 367 545 1880 3325; tuttavia non è da negare ogni distinzione in Dio 973s.

e. — OPERAZIONE DI DIO TRINO AD EXTRA.

2ea. Unità delle operazioni delle Persone all’esterno. Pater. F. et Spirito S. sono di operazione unica (171 325) 415 441 501 531 542 545s; per forza di principio: tutto in Dio sono un unico, ove non lo contrasti opposizione di relazione 1330.

Le opere della Trinità sono inseparabilmente indivise, comuni 491 531 535 538 571 618 3326; nessuna Persona opera prima o dopo l’altra o senza l’altra 531; le Persone divine a non sono tre principi di creatura, ma uno solo, cioè. b una sola natura divina 800 b804 a1331.

Pertanto l’Incarnazione è operata in comune da tutta la Trinità 491 535 57 I 801 3327; Sp. Sanctus si inserisce nell’operazione e remissione dei peccati col Padre ed il F. 145; l’inabitazione e l’opera di salvezza nelle anime dei giusti, per quanto attribuita allo Spirito S. sono comuni alla Trinità 3331 3814.

2eb. Appropriazioni fatte alla singole Persone. Fondamento: una certa similitudine ed affinità tra l’opera e la proprietà della Persona divina 573 3326.

Quindi la creazione è riferita alle singole Persone sec. la formula: Padre, dal quale tutte le cose, Figlio per cui tutte le cose, lo Sp. S., in cui tutte le cose 421 680 (851) 3326; oppure: P. ha fatto tutte le cose per mezzo del Figlio e dello Sp. S. 171.

Facoltà dell’anima riferite alla Trinità: al Padre la memoria, al Figlio l’intelligenza, allo Sp. S. la volontà 573.

Al Padre sono appropriate le opere nelle quali eccelle la potenza 3326; creazione dell’universo. 171 3326; cf. Il predicato “onnipotente” è attribuito solo al Padre”: vd. B 2ba. Al Figlio sono appropriate le opere nelle quali eccelle la sapienza (causa esemplare delle cose) 3326; la riconciliazione degli uomini con Dio 3326; vd. anche B 2bb.

Allo Spirito Santo sono appropriate le opere nelle quali eccelle l’amore e la bontà divina 3326; l’incarnazione del Verbo: vd. E 5ba; le opere completanti la santificazione dell’anima, inabitazione nel giusto: vd. B 2bc.

2ec Missioni delle Persone divine. Missione di Gesù Cristo Figlio di Dio 101 145 527 538 1522 3806.

Missione dello Spirito Santo: è mandato dal Padre e dal Figlio 60 145 527 681 3325 3327s: la sua missione è doppia: manifesta nella Chiesa, segreta nell’anima del giusto. 3327; la festa della sua missione è il giorno di Pentecoste 3325.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (45): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -IV-“

25 LUGLIO: SAN GIACOMO IL MAGGIORE

SAN GIACOMO IL MAGGIORE

(OTTO HOPHAN: GLI APOSTOLI. Ed. Marietti. Torino, 1951)

Giacomo ha molto di comune con Andrea, che nel Collegio apostolico gli era vicino, precedendolo d’un unico posto; se però ci addentriamo nella loro anima, ci appariranno molto diversi l’uno dall’altro. Anche Giacomo era pescatore del lago di Galilea e quindi doveva essere certamente da anni collega di professione con Andrea e suo fratello Simone Pietro; si direbbe anzi, stando ad accenni del Vangelo, che le due famiglie di pescatori possedevano, secondo il costume diffuso nel paese, barche e arnesi in comune ed in comune esercitavano il mestiere; in occasione infatti della pesca miracolosa, quando Simone e Andrea non riuscivano a dominare il miracolo, « fecero segno ai loro compagni nell’altra barca, perché venissero e li aiutassero. E quelli vennero ». Parabola dell’avvenire! Quando un giorno Pietro, divenuto pescatore d’uomini, ritirerà sovraccariche le reti, i compagni d’un tempo divideranno con lui il peso ed il piacere del lavoro. Anche Giacomo aveva un fratello, che con lui fu chiamato all’ufficio apostolico, ed era Giovanni, quel Giovanni, che ha per proprio simbolo l’aquila: chè anche questi è volato più in alto del fratello Giacomo, che dunque, come Andrea, deve starsene nell’ombra o, meglio, nella luce di un fratello più grande. È possibile che tutti e due, Giacomo e Andrea, fossero debitori di qualche privilegio ai loro fratelli più grandi; Giacomo però era molto interessato — e in questo si differenzia sostanzialmente dall’umile Andrea — d’essere grande lui stesso.

GIACOMO L’AMBIZIOSO.

Giacomo e Giovanni erano figli di Zebedeo, nome che letteralmente significa “dono di Dio”; i Vangeli notano espressamente il nome del padre per distinguere questo Giacomo da un altro Apostolo dello stesso nome, da Giacomo cioè figlio di Alfeo. Il figlio di Alfeo, dì cui ci occuperemo più tardi, è chiamato dagli Evangelisti « Minore », minore perchè il Signore lo chiamò a Sè più tardi e certo anche perchè doveva essere più giovane d’età del nostro Giacomo; per il figlio di Zebedeo quindi divenne usuale la designazione: «Il Maggiore ” e in

latino: « Major ». « Major » alla lettera vuol dire «più grande, il Grande »; ora questo appellativo aggiunto — il Signore ne aggiunse anche un altro a questo Apostolo — richiama l’intima natura di Giacomo; Giacomo Maggiore è di fatto « Giacomo il Grande », di alto sentire, di aspirazioni nobili, anche orgoglioso inizialmente, un uomo di carattere, portato all’autorità e al lavoro; come uomo di nerbo, pieno di espressione ed energia lo ha pensato anche il Rubens, e a buon diritto. Giacomo e Giovanni sortirono quest’indole distinta fin dalla nascita. Il loro padre Zebedeo, un vero « dono di Dio », doveva essere un uomo dall’anima grande e generosa, sebbene per professione fosse soltanto pescatore; quanto elevati fossero i suoi pensieri e a quali orizzonti si protendessero i suoi desideri, lo rivela l’ora della vocazione dei suoi figli. Il Signore glieli tolse letteralmente dalla barca e dalle reti, e non uno solo, ma tutti e due, e tutti e due in una sola volta: « essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con gli operai e Lo seguirono », ci riferisce chiaramente Marco; gli tolse i due giovani vigorosi quand’egli era ormai invecchiato e da tempo attendeva con impazienza l’ora, nella quale poter rimettere a loro il mestiere, poiché non si sentiva più le forze d’un tempo e anche gli occhi, nel rattoppare le reti, non lo servivano bene e le mani fallivano il colpo sempre più spesso; eppure Zebedeo non disse una parola di protesta contro la dolorosa chiamata di Gesù, non pose la sua mano sui figli, che pure erano suoi; essi erano ancor più del Signore! Dovevano andar con Lui; non si oppone alla loro volontà, non arresta la loro ascesa; con Gesù avrebbero realizzati maggiori progressi che non presso il loro padre ormai vecchio, nella barca, sul lago; e lui saprà accomodarsi anche senza i figli. Un gran padre Zebedeo! Solo pochi padri si comportano come Lui! – Anche la madre Salome era una donna dall’animo nobile. Per lei riuscì anche più difficile cedere i suoi due figli, perché se n’andassero lontani dalla famiglia, sulle vie sperdute dell’apostolato; ma pure lei accettò il sacrificio generosamente; anzi lei stessa si mise a seguire Gesù e con le altre pie donne Lo soccorreva con le proprie sostanze; perseverò accanto a Gesù persino sul Calvario e forse per il suo cuore materno riuscì di soddisfazione dolorosa vedere il proprio figlio Giovanni, l’unico fra i Dodici, fedele anche lui presso la Croce. Genitori simili sono veramente genitori « Zebedeo », veri doni di Dio. – Giacomo non è ricordato in occasione della vocazione dei primi discepoli presso le rive del Giordano; era ivi invece Giovanni, il fratello più giovane; uno dei duc dovette rimanere a casa per aiutare il padre. Chi di noi si sia trovato il più anziano, sa per esperienza quello che in analoghe contingenze tocca di solito al « maggiore » : il più giovane, come si può concludere anche dalla parabola evangelica del figlio prodigo, approfitta dei privilegi della sua età. Quando Giovanni fu di ritorno in famiglia, riferì con occhi raggianti di Gesù, « del Figlio di Dio, del Re d’Israele », ch’egli, con i figli di Giona, aveva incontrato laggiù al Giordano, e la sua relazione dovette procurare un profondo tormento a Giacomo, che in quella circostanza non s’era trovato presente: dev’egli passar tutta la sua vita solamente occupato a prender pesci e a lavar reti? Non si sente anche lui chiamato a uffici più elevati? Se quel Gesù gli passasse dinanzi, se n’andrebbe con Lui sull’istante! Passò forse un anno, e Gesù venne e, insieme a suo fratello Giovanni, chiamò anche Giacomo alla piena comunione di vita con Sè. Fu come un levarsi del sole sul mare: Gesù era già sorto per la coppia di fratelli Simone e Andrea; più avanti toccò con i suoi raggi anche Giacomo e Giovanni:《 Camminando, Egli vide due altri fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e suo fratello Giovanni, che con Zebedeo, padre loro, riparavano le loro reti nella barca. Ed Egli li chiamò. Essi lasciarono subito la barca e il padre loro e Lo seguirono… 》. Pochi mesi dopo questa chiamata seguì l’elezione dei dodici Apostoli; in quell’occasione Marco ha la breve ma significativa osservazione: « A Giacomo, figlio di Zebedeo, e a Giovanni, il fratello di Giacomo, Egli diede il soprannome di Boanerges, che significa figli del tuono ». Il Signore veramente aggiunse un soprannome anche a Simone e lo chiamò « Pietro », che vuol dire « roccia »; ma questo nome riguarda un ufficio, quello invece di « Boanerges » indica un carattere; Giacomo e Giovanni erano dotati d’un’indole così forte e ardente, d’una natura così impetuosa e violenta, che il Signore per ritrarli convenientemente creò una parola apposta, ed era a metà lode e a metà biasimo. Quest’indole violenta e presuntuosa dei figli di Zebedeo è documentata da due esempi conservatici dal Vangelo stesso. Il primo lo leggiamo in occasione d’un viaggio verso Gerusalemme attraverso la Samaria. « Gesù mandò innanzi a Sé dei messaggeri, i quali giunsero in un paese dei Samaritani per provvedere un albergo per Lui; ma non Lo si ricevette, perchè Egli si trovava in viaggio verso Gerusalemme »). Questo atteggiamento dei Samaritani verso Gesù, in questo suo passaggio per la loro terra, ci sorprende davvero, perchè ben diversamente s’erano comportati con Lui quando da Gerusalemme era disceso in Galilea e aveva sostato presso di loro per due giorni; allora L’avevano pregato di fermarsi; questa volta invece, poichè ha rivolto « la sua faccia》 alla Capitale, odiosa ai Samaritani, Gli rifiutarono ricetto. Anche gli altri Apostoli erano certamente urtati per questa violazione del sacro dovere dell’ospitalità; « quando però i discepoli Giacomo e Giovanni videro questo, domandarono: “Signore, dobbiamo invocare fuoco dal cielo perché li divori? ». Una richiesta tremenda! I due Apostoli avrebbero voluto fare della città di Samaria quello che la guerra inumana dei nostri anni ha fatto delle città moderne, seminandovi la rovina e il dolore. E saranno questi gli Apostoli della Nuova Alleanza?! Hanno ascoltato invano la predica sul monte: « Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori! »; forse l’inumana pretesa era stata suggerita ai due fratelli dal ricordo del castigo, che il profeta Elia aveva invocato sui messi dell’infedele re Ochozia. Ma Gesù non si fa la strada con fuoco e violenza, e per questo sdegnato « si voltò e li rimproverò ». In qualche antico manoscritto si legge anche la nobile aggiunta: « Non sapete di che spirito siete. Il Figlio dell’uomo non è venuto a perdere le anime, ma a salvarle! ». Boanerges! Come conviene bene questo nome ai due fratelli! È penoso anche il secondo episodio trasmessoci dal Vangelo. Nell’ultima ascesa a Gerusalemme, i due figli di Zebedeo non si peritarono di presentarGli la richiesta seguente: « Fa che nella tua gloria uno di noi sieda alla tua destra e l’altro alla tua sinistra ». Non potremmo misurare quanto d’inconcepibile e anzi di sfacciato ci sia in questa pretesa, senza leggerla nel suo contesto evangelico. Immediatamente prima, predicendo per la terza volta la sua passione, il Signore aveva dichiarato: « Noi adesso ascendiamo a Gerusalemme. Ivi il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai gentili, sarà deriso, maltrattato e sputacchiato. Lo si flagellerà e ucciderà. Ma il terzo giorno risorgerà». E precisamente in quel momento, in quell’ora gravissima della vita di Gesù, Giacomo e Giovanni misero innanzi la loro egoistica richiesta. Di tutta la profezia della passione essi non avevano colto che la parola circa la « risurrezione », e anche questa interpretavano secondo le loro idee, quasi fosse cioè l’inizio del glorioso regno messianico finale; era dunque quello il momento opportuno per muoversi. La loro richiesta era diretta evidentemente contro Simone Pietro, a cui il Signore aveva già promesso la preminenza su tutti i colleghi, e questo non li aveva soltanto sorpresi, ma anche amareggiati; quel Simone bisognava respingerlo indietro! Non è la prima volta che nella Sacra Scrittura leggiamo d’un Giacomo, che defrauda un altro della sua precedenza e dei suoi privilegi; lo fece già il patriarca Giacobbe a danno di suo fratello Esaù, che derubò del diritto di primogenitura e della benedizione paterna; in quell’occasione Esaù gridò amaramente: « Con ragione gli si è imposto il nome di Giacobbe; mi ha

ingannato già per la seconda volta》; e questa interpretazione di « urgente la pianta del piede, soppiantatore » viene data anche dell’Apostolo Giacomo in certi « Atti degli Apostoli» antichi dell’Etiopia. Un rimasuglio di pudore trattenne Giacomo e Giovanni dal proporre essi stessi la loro richiesta al Signore; secondo la relazione di Matteo, spinsero innanzi la loro madre. Che cosa non fanno le mamme per amore dei loro figli! Può essere.però che la buona donna Salome avvertisse quanto di vergognoso v’era nella loro richiesta, ma la logica femminile sa alla fine accomodare anche cose spiacevoli: non aveva lei dato al Signore due figli e mezza sostanza — ma quest’ultima cosa non la pensò sino in fondo —, i suoi figli non erano energici, bravi e più idonei degli altri ai primi posti nel regno dei Cieli.- L’ambiziosa aspirazione dei figli di Zebedeo provocò negli altri un profondo sconcerto: « Quando i Dieci sentirono questo, s’indignarono contro i due fratelli »; e non è escluso che l’indole violenta, intollerante e presuntuosa dei due abbia recato spesso delle molestie al Collegio apostolico. Un particolare, trasmessoci da Clemente di Alessandria, riguardante il martirio dell’Apostolo Giacomo, è una prova ancora del temperamento faticosamente domato di questo figlio del tuono: sulla via, che conduceva al luogo del supplizio, s’accostò a lui il suo delatore e lo pregò del perdono; Giacomo stette a riflettere un po’…! Solo dopo lo abbracciò dicendogli: « La pace sia con te », e insieme con colui, ch’era stato prima il suo nemico, ricevette il colpo di spada, che lo fece martire. Neppure Giovanni, come vedremo ancora, è in alcun modo un giovane fantasioso e mansueto, come troppo spesso lo si presenta; Giacomo e Giovanni erano e… restarono Boanerges. Chissà quanti autori d’ascetica ed educatori avrebbero consigliato insistentemente di trattenere con fermezza simili Boanerges nell’ombra, perchè, se le nature ambiziose non sono frenate, prendono il sopravvento l’orgoglio e la presunzione; gli spiriti quindi angusti e timorosi si meraviglieranno assai che il Signore abbia adottata con Giacomo e Giovanni una pedagogia diversa, che fu poi veramente chiaroveggente e magnanima. Percorrendo i Vangeli ci avvediamo che i figli di Zebedeo conseguono dovunque precedenze e privilegi: in tutti i cataloghi degli Apostoli essi fan parte del primo gruppo, Marco anzi pone Giacomo al secondo posto, immediatamente dopo Pietro; in casa di Giairo, quando Gesù gli risuscitò la figlia, « Egli non fece entrare con Sè nessuno all’infuori di Pietro, Giacomo e Giovanni》 ; anche come testi degli splendori del Tabor, Egli prese solo « Pietro, Giacomo e Giovanni》, e forse fu qui che sorsero nel loro animo il presentimento e il desiderio “della gloria” del Signore, nella quale ambivano di sedere ai primi posti; «Pietro, Giacomo e Giovanni Egli prese con Sè » anche quando, sul Monte degli Olivi, non passò il « calice », quel calice, che un giorno anch’essi avrebbero dovuto trangugiare. Oltre a questi privilegi ricordati espressamente nel Vangelo, altri ancora forse ne furono concessi ai tre primi Apostoli, dei quali però non ci fu trasmessa alcuna notizia. Questa condotta di Gesù ci fa intendere ch’Egli vuole come Apostoli degli uomini grandi in abbozzo; solo dei grandi nello spirito sono in grado di capire Lui, il Grande, e sono atti agli alti compiti, ch’Egli vuole loro assegnare; le indoli invece pieghevoli e fiacche, che con le loro aspirazioni non si spingono mai al di là dell loro comoda mediocrità e, soddisfatte di se stesse, gironzolano sempre nelle loro piccole barche né mai invocano il fuoco o guardano alle stelle del cielo, non saranno prime neppure nel regno dei Cieli. Il Signore non schiacciò la natura ardita di Giacomo, non lo lasciò neghittoso, ma profittò delle sue belle doti per fare proprio di lui uno dei primi. Giacomo, come pure suo fratello Giovanni, aveva ancora in sè, senza dubbio, tendenze ben poco nobili; non erano solamente mossi da ardenti desideri, ma anche da ambizione; non erano semplicemente inclini a grandi cose, ma anche orgogliosi; ma chi mai getta via l’oro, perché è misto a una massa di terra? Chi sradica un albero, perchè vi crescono sopra dei vischi? S’impone piuttosto una prudente separazione del nobile dal non nobile. A questa luce ci spiegheremo perché la risposta alla richiesta audace dei figli di Zebedeo, anelanti ai primi posti nel regno dei Cieli, fu tanto mite da sorprendere. Il Signore non tuonò contro i due fratelli e neppure rivolse loro un aspro rimprovero, perché di tanto s’erano allontanati dallo spirito del Vangelo; certo, smontò la loro temeraria pretesa, rinviandoli alla misteriosa predestinazione divina: «Non sapete quello che domandate. Il posto alla mia destra o alla mia sinistra non ho da conferirvelo Io; esso spetta a coloro, ai quali è preparato dal Padre mio》; non spense però le loro aspirazioni alle grandi cose, indicò invece ad esse un’altra meta: « Potete voi bere il calice », e allettando, « che Io berrò presto? »; in questo Giacomo deve dar prova della sua grandezza, nel « bere il calice », nel condividere la sorte e la passione di Gesù. Chi aspira a un primo posto « nella gloria del Signore », dev’esser anzitutto primo nel bere « il calice del Signore ». Seguì una lezione, con la quale il Signore istruì anche gli altri Apostoli sulla vera grandezza. L’indignazione dei Dieci verso i figli di Zebedeo aveva ben rivelato ch’essi pure erano stimolati dalla stessa sete di onori; ma Gesù non rintuzzò neppure le loro aspirazioni per sostituirvi soddisfazioni nel poco e contentezza di se stessi; anch’essi devono tener vivo l’anelito alla grandezza, dirigendolo però per altra via: « Sapete che coloro, i quali passano per i principi dei popoli, dominano su di essi, e i loro grandi esercitano su di essi il potere. Così non dev’essere fra voi; ma chi tra voi vuol divenire grande, sia vostro servo, e chi tra voi vuol essere il primo sia il servo di tutti. Poiché anche il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la sua vita come riscatto per tutti ». Il primo compito nel regno di Dio è servire. E così l’orgogliosa richiesta di Giacomo e di suo fratello Giovanni diede al Signore occasione e motivo di stabilire una legge evangelica fondamentale, che per tutti i tempi è un capovolgimento dei valori: anche nel regno di Cristo ci sono dei primi, ma essi devono essere come gli ultimi. – Alla domanda del Signore: « Potete voi bere il calice? », Giacomo, sicuro di sè, rispose: « Lo possiamo! ». Gesù allora guardò profondo negli occhi ai suoi Boan erges…

GIACOMO IL MARTIRE

Nel tempo che seguì non avvenne nulla, che distinguesse Giacomo fra i colleghi d’apostolato. Dopo la risurrezione, andò con loro nuovamente a pescare; sul lago, quel giorno, tutto era come prima, e però tutto era diverso, come avviene a chi dall’estero giunga in patria l’ultima volta, prima di andarsene per sempre Nel dì di Pentecoste stava con gli altri nella sala e anche su di lui guizzò « fuoco dal cielo », ma il vero, il santo, il celeste fuoco, che purifica e illumina. Poi anch’egli partì da Gerusalemme col Vangelo; nelle lezioni della sua festa il Breviario lo esalta dicendo: « Dopo l’Ascensione, Giacomo predicò la divinità del Signore in Giudea e Samaria e condusse moltissimi alla fede cristiana »; questo però lo fecero anche tutti gli altri. Egli gustò pure alcune gocce del « calice del Signore »: nella prima persecuzione, mossa dall’autorità ecclesiastica giudaica, fu arrestato e gettato nelle carceri della nazione e flagellato; ma anche questo avvenne a tutti gli Apostoli e tutti « s’allontanarono dal Sinedrio rallegrandosi altamente, perché erano stati fatti degni di patire contumelia per il nome di Gesù». Rimarrà dunque senza uno speciale significato la parola, che un giorno Giacomo diede al Signore? Dopo la seconda persecuzione, che tenne dietro alla lapidazione di Stefano, infuriò sulla Chiesa apostolica anche la terza, voluta dal re Erode Agrippa I°, che fu pure la più pericolosa di tutte e tre. Sulla stirpe degli Erodi gravava la maledizione; abbiamo in quella famiglia una dimostrazione biblica di quanto possa l’ereditarietà della colpa Il nonno di Erode Agrippa I° era stato Erode I°, detto « il Grande », che aveva regnato dal 40 al 4 a. C.: splendido e forte nel suo governo, per carattere astuto e crudele, aveva tentato di soffocare il Cristianesimo nella culla, letteralmente, ordinando l’uccisione dei bimbi di Betlemme. Il padre di Agrippa, Aristobulo, era stato giustiziato, con un altro dei suoi fratelli, dal vecchio Erode, perché sospetto d’alto tradimento. Lo zio, Erode Antipa, tetrarca della Galilea e della Perea, aveva governato dal 4 prima al 39 dopo Cristo ed era stato il sovrano di Nostro Signore; principe indolente e tutto dedito alle gozzoviglie, adultero incestuoso, aveva ucciso Giovanni Battista e la mattina del Venerdì Santo aveva deriso. Gesù. Erode Agrippa, re dei Giudei dal 41 al 44, germogliò da radice tanto iniqua. Passata la giovinezza dissolutamente a Roma, ove per i debiti contratti compromise la sua posizione, riuscì ad ottenere, col favore dell’imperatore Caligola (37-41), suo amico e del suo livello, la tetrarchia rimasta senza capo per la morte di suo zio Filippo, poi quella di Lisania, in seguito, con una serie di intrighi, anche il territorio dello zio Erode Antipa, costretto ad andarsene in esilio; e finalmente dall’imperatore Claudio ottenne pure il dominio sull’Idumea, la Giudea e la Samaria; divenne così un potente dominatore, che riuniva sotto il suo scettr l’intero territorio una volta appartenuto al nonno suo, ma insieme fu pure un potente avversario della Chiesa; sembrò ch’egli potesse schiacciarla con un cenno della. sua volontà. – Gli Atti degli Apostoli indicano il motivo della persecuzione mossa da lui co brevità e semplicità: « Per piacere ai Giudei »; la maggior parte cioè dei Giudei era contraria al dominio di Agrippa; un rabbi aveva persino proposto di proibirgli il Tempio; il re però giocò di scaltrezza e condiscendenza, e così riuscì a disarmare i suoi nemici e a cattivarsi un po’ alla volta l’affetto del popolo. La persecuzione contro i Cristiani, ch’erano invisi ai Giudei, rientrava in questo programma: a quel modo che un giorno suo zio Erode Antipa, per calcolo politico-diplomatico, aveva rimandato Nostro Signore a Pilato per la condanna, così Erode Agrippa, per venale furberia, gettò in mano ai Giudei gli uomini più ragguardevoli della Chiesa apostolica: «In quel tempo re Erode cominciò una persecuzione contro alcuni membri della Chiesa. Fece giustiziare con la spada Giacomo, il fratello di Giovanni 》. Eravamo alla festa di Pasqua dell’anno 42. Dovette esserci certamente un motivo perché Erode, per una vittima qualificata, gettasse l’occhio su Giacomo; possiamo con ragione pensare che appunto il focoso «”figlio del tuonoo” si fosse reso, col suo zelo impetuoso per Cristo, quanto mai odioso ai Giudei; doveva quindi cadere prima di tutti gli altri. E così fu tolto di mezzo quest’uomo prezioso! Avrebbe forse lavorato per Cristo meno di Paolo? E invece eccolo, l’energico Apostolo, atterrato dalla potenza di un ribaldo, prima ancora che giungesse nei vasti campi della messe. Non sa provveder meglio Iddio agli uomini che si propongono di mandare ad effetto le sue santissime intenzioni? – E qui ci si presenta anche un’altra domanda, più molesta ancora: Erode « fece arrestare anche Pietro, quando s’avvide che questo piaceva ai Giudei. Voleva produrlo al popolo — darlo in pasto! — subito dopo Pasqua »; ma Pietro fu liberato miracolosamente dal carcere per mezzo d’un Angelo: perchè a Giacomo non fu mandato nessun Angelo? non sarebbe stato degno d’un miracolo anche lui? I disegni di Dio sono imperscrutabili! E nondimeno nella morte violenta di Giacomo possiamo scorgere un raggio della divina sapienza. Un giorno Giacomo, con occhio risplendente, aveva assicurato il Signore: « Possiamo bere il calice »; Iddio lo prese in parola; Egli permise questo martirio, che doveva essere per gli Apostoli il segnale della loro dispersione in tutto il mondo. Secondo informazioni molto antiche e sicure, gli Apostoli eran rimasti e avevano faticato circa dodici anni nell’angolo della Palestina, loro patria; la persecuzione di Erode Agrippa ebbe il compito di lanciarli al di là della terra di Giuda; Pietro « si portò in un altro luogo》 non appena fu liberato dal carcere, e la maggior parte degli altri Apostoli seguì il suo esempio. Giacomo però giacque a Gerusalemme, accanto al Tempio, nel proprio sangue; aveva ardentemente desiderato, fin da quando s’era trovato in Samaria, di disporre gli uomini ad accogliere il Signore, ma per la seconda volta questa sorte non gli era toccata; la sua morte servì alla Provvidenza, perchè allora fu posta mano finalmente alla grande opera della evangelizzazione del mondo. Per questo servizi Giacomo è divenuto il « Grande » e il « Primo »; il Vangelo ha la sua applicazione: « Chi fra di voi vuole divenite grande, dev’essere vostro servo; e chi fra di voi vuol essere il primo, dev’essere il vostro schiavo ». Quando gli altri Apostoli si trovarono lontani, nelle fatiche dell’apostolato, «in pene e vigilie, nella fame e nella sete, al freddo e nella nudità, in peregrinazioni, pericoli e affanni », dovettero ripensare con commozione al martirio del loro grande fratello Giacomo; egli aveva fatto per Cristo anche più di loro e dovette essere per loro un monit e un incoraggiamento continuo; un giorno li aveva feriti con la sua indole altezzosa; ma poi dimostrò con i fatti ch’egli era veramente un primo, non il Primo in potere, come Pietro, non il primo per lavoro, come Paolo, ma il Primo nel sangue. non fu il Primo e il più grande di tutti?

GIACOMO IL PELLEGRINO

La morte prematura dell’Apostolo — morì ancor prima del Concilio apostolico — non favorì il sorgere di leggende intorno a lui; gli apocrifi più antichi si limitano a colorire la sua attività a Gerusalemme e nelle terre vicine e la storia del suo martirio. Solo Teodomiro,Vescovo di Iria in Galizia verso l’anno 772, riferisce espressamente che Giacomo soffrì il martirio a Gerusalemme, dopo il suo ritorno dalla Spagna; i resti mortali sarebbero stati portati dai discepoli dell’Apostolo a Joppe e di là, per via di mare, a Iria in Spagna; Iria ebbe poi il nome di « Compostella ». Questo nome è interpretato da parecchi come un’abbreviazione di « Giacomo Postolo » — Giacomo Apostolo; in forma più lunga si dice: « San Jago di Compostella ». L’anno 1082 sopra il sepolcro dell’Apostolo si cominciò a costruire una splendida chiesa. Con Gerusalemme e Roma, Santiago di Compostella fa parte dei tre luoghi più celebri come mete di pellegrinaggio dell’intera cristianità. Così anche dopo la morte Giacomo è fra i tre primi! I pellegrinaggi al suo sepolcro, segnatamente dal secolo decimo al decimoquinto, furono celeberrimi; solo il Papa poteva dispensare dal voto d’un pellegrinaggio a Santiago; chiese e cappelle senza numero, erette in onore di San Giacomo, orlarono le vie, che da tutti i paesi conducevano a Santiago. Vi fu un tempo, in cui Giacomo Maggiore era il più popolare di tutti gli Apostoli. Egli è il patrono della Spagna e il patrono pure dei pellegrini. – Vorremmo concedere al cavalleresco popolo di Spagna l’onore di essere stato evangelizzato da questo Apostolo dall’animo nobile, col quale può sentirsi intimamente congiunto; ma la leggenda d’un’attività di Giacomo nella Spagna non è sostenibile. Essa è anche molto tardiva; la letteratura spagnola dal quinto all’ottavo secolo, ch’è pur così abbondante, tace assolutamente sul viaggio di Giacomo in Spagna; un passo invece della lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani fa capire che in quel tempo, verso l’anno 58, la Spagna non era ancora una terra dischiusa al Cristianesimo: « Spero, quando andrò in Spagna, di vedervi nel viaggio e di esservi condotto da voi》 3°. Diversa è la questione del trasporto delle reliquie di Giacomo a Compostella. L’anno 1884 il Papa Leone XIII riconobbe la loro autenticità. Nella Chiesa antica la festa di Giacomo Maggiore — un’altra sentenza ritiene che si tratti di Giacomo Minore — fu celebrata, con quella di Pietro e Giovanni, il 27 dicembre, come festa che faceva corteggio a quella del Natale; il giorno della festa attuale, il 25 luglio, dev’essere il giorno del trasporto delle reliquie. Nell’uso del popolo è considerato come giorno della sorte, come giorno delle prime mele e giorno di fortuna per la messe — « giorno di Giacomo nella raccolta, giorno di Giacomo nella mietitura » —; sui monti è pure il giorno di cambiamento della servitù e giorno festivo per i pastori. – Dal secolo decimosecondo in poi Giacomo è rappresentato quasi sempre come pellegrino, con la conchiglia, la tasca e il bordone del pellegrino. Tutto questo un senso profondo, anche se la leggenda del suo viaggio nella Spagna lontana sia priva d’ogni fondamento storico: Giacomo è il primo Apostolo, che è pellegrinato presso il Signore, in patria, ed è divenuto il primo « nella gloria del Signore », perchè per primo ne ha bevuto « il calice ». Noi pellegriniamo lontani dal Signore, perchè quaggiù non abbiamo una stabile dimora, ma cerchiamo quella avvenire; se, come Giacomo, beviamo i nostri « calici », anche noi un giorno perverremo stanchi, ma felici e maturi nella lontana terra natale. « Sii dunque con noi, o Signore, giacchè te ne supplichiamo, e fa che il viaggio dei tuoi servi trascorra favorevolmente nella tua salvezza, affinché in tutte le vicende di questa via e di questa vita trovino continuamente presso di Te protezione e aiuto ». Ce lo concedi per l’intercession del tuo santo pellegrino e Apostolo Giacomo. Amen.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo secondo (2)

L’ATTIVITA’ MORALE

II. L’AZIONE BUONA

Si narra che, sulla tomba di un povero sciagurato, i parenti volevano porre una lapide con questa iscrizione: « Il male lo fece bene: ed il bene lo fece male ». Almeno la seconda parte di una iscrizione tanto feroce potremmo dedicarla spesso a noi ed alle azioni che reputiamo « buone ». Non basta che un atto nel suo oggetto e nelle sue circostanze sia secondo ragione; occorre anche che sia compiuto con un fine buono. È certo secondo la ragione partecipare generosamente ad una sottoscrizione in occasione d’un terremoto o d’una sciagura; ma se il donatore compie il suo gesto solo per poter ottenere una onorificenza da tanto tempo agognata e mai raggiunta, non fa un’azione buona: la sua non è generosità; è dell’egoismo puro e ributtante. Cosi ancora: è buona cosa in sè la preghiera; ma se essa si riducesse ad un puro movimento delle labbra, senza nessuno sforzo d’attenzione, non sarebbe preghiera se non di nome. In altre parole: dopo d’aver visto l’atto morale dal punto di vista oggettivo, dobbiamo ora analizzarlo dal punto di vista soggettivo, secondo l’intenzione e l’animo che ispira l’azione; ossia, come usano dire i filosofi, dopo la materia occorre scrutare la forma dell’atto, che costituisce insieme con la prima un unico tutto, come il corpo e l’anima in noi. Evidentemente, ciò che più importa nell’atto è l’anima, o l’intenzione del fine, che, come proprio oggetto della volontà, dà la forma all’azione morale; cosicchè, se l’atto fosse in sè materialmente cattivo, ma chi lo compie, in buona fede, lo ritenesse buono, non vi sarebbe colpa. Quando, ad esempio, san Crispino, se è vero ciò che di lui si narra, rubava il cuoio ai ricchi per far scarpe per i poveri, la sua azione era oggettivamente cattiva, ma soggettivamente buona, supposto che egli incolpevolmente ritenesse lecito il suo modo di procedere: e se una persona giudicasse erroneamente che un atto buono è peccato e lo facesse, sarebbe colpevole dinanzi a Dio. – Diciamo, dunque, una parola sull’anima dell’azione, ossia sul fine. In questo sta la nostra grandezza, ma anche la nostra responsabilità. È la libertà di scegliere fra il bene ed il male, è l’intenzione che è in nostro potere, ciò che conferisce un valore morale alla nostra attività. Un orologio che si guasta, una tegola che cade, un’inondazione non sono un bene o un male morale, né li definiamo con l’appellativo di cosa buona e di cattiva. Noi, invece, siamo buoni o cattivi, perché siamo i padroni dei nostri atti. Dio ci ha creati liberi, perché vuole che con la nostra volontaria adesione decidiamo di amarlo. Per questo, se è bello il canto degli uccelli, più bello è il canto delle anime virtuose che amano Dio. Lo sappiamo: dopo il peccato originale, una tale volontà buona è spesso ardua e difficile. Il primo disordine fu la fonte degli altri disordini, come avviene a colui al quale si abbuia la ragione e che continua a pronunciare parole sconnesse. Tale, purtroppo, è la storia dell’umanità: invece della subordinazione a Dio, al « Bene dei beni », come dice sant’Agostino, alla Ragione suprema, in una parola all’Amore divino, abbiamo il disordine, la irrazionalità, la ribellione all’Amore infinito. E non solo si sbaglia facendo il male, ma possiamo in due modi sciupare ciò che è bene in sè e non arrivare all’altezza dell’atto morale; o compiendo il bene con un’intenzione non buona, che lo guasta, oppure limitandoci a porre un’azione buona materialmente, meccanicamente, per pura abitudine, senza darle un fremito di vita.

1. – Il bene per il bene.

Innanzi tutto, perché si abbia un’azione normalmente buona, occorre voler fare il bene per il bene. E’ questa l’espressione precisa di san Tommaso, il quale non esita a dichiarare che « affinché la volontà sia buona, si richiede che voglia il bene e lo voglia per il bene. — Ad hoc quod voluntas sit bona, requiritur quod velit bonum et propter bonum (I, II, q. 19, a. 7 ad 3) ». Non basta, cioè, ad esempio, sfamare un povero o fare il proprio dovere, ma è necessario fare questo con un fine buono. Se aiutassi l’indigente per un motivo volgare, o se osservassi il mio dovere solo per farmi vedere dal superiore o dal padrone, io avrei compiuto un’azione che in sè è buona, ma ha un’anima ispiratrice che la guasta. E’ per questa ragione inoltre che il Vangelo ci intima di non giudicare mai gli altri: per giudicare un’azione non basta limitarsi alla superficie di essa, alle apparenze esteriori, ma bisogna scendere nella coscienza di chi la compie; e siccome solo Dio intuisce i cuori, soltanto Lui può valutare il valore morale di un atto. In altri termini, il bene perfetto — come abbiamo mostrato — è ciò che è voluto dall’Amore di Dio, è ciò che è richiesto dalla sua volontà d’amore; e noi, per fare una azione buona, dobbiamo non solo volere e fare ciò che Dio vuole ed ama, ma volerlo e farlo per amore di Dio, ossia per amore del Bene sommo. L’ascetica cristiana inculca caldamente il pensiero della presenza di Dio e la preghiera, appunto perché in tal modo riesce più facile il bene fatto per amor suo. Quando non le labbra, ma la vita intera d’un Francesco d’Assisi grida: Deus meus et omnia, o quando un Ignazio di Loyola ad ogni momento si propone di tutto fare alla maggior gloria di Dio, si evita il pericolo di sciupare il bene con un’intenzione ispiratrice non nobile ed alta. -:Nulla di più opposto al Cristianesimo di un’attività materialmente buona, ma viziata da un’anima malvagia. Il fariseismo è ciò che più dispiaceva a Gesù e quando noi scorriamo il Vangelo di san Matteo e leggiamo le fiere ed inesorabili condanne dei « sepolcri imbiancati », comprendiamo come il Maestro divino non può gradire un’azione che in apparenza sia bella come il marmo bianco d’un monumento, ma intimamente racchiuda il cadavere e la putrefazione di mire egoistiche. Si può digiunare e distribuire elemosine; si possono moltiplicare abluzioni e purificazioni; si può osservare un rigorismo esteriore perfetto; ma se tutte queste pratiche non sono vivificate dall’amore di Dio, ma da un fine ignobile, Cristo condanna con una terribile ed espressiva parola; « Ipocrita ». È la sincerità che Egli vuole. La morale dell’amore non può appagarsi di una bugiarda manifestazione esteriore, ma chiede ed esige il cuore, ossia la rettitudine d’intenzione.

2. spiritualizziamoci

In secondo luogo, c’è un altro pericolo da evitare. Composti di spirito e di materia, noi dobbiamo continuamente vincere l’accidia e sforzarci di volare in alto. La materia ci trascina al basso, come zavorra pesante. Ed è facile la stanchezza, è facile cadere nel precipizio del meccanismo e della materializzazione. La vita morale implica l’attivismo dello spirito e non già passività comoda ed inerte. Non è un vero ammiratore di Dante colui che si accontenta di imparare a memoria tutta la Divina Commedia senza approfondirne le bellezze; così pure, il bene è fatto male da chi lo compie meccanicamente, senza rinnovarsi ad ogni istante, senza suscitare in sé le energie che gli dànno un soffio di vita spirituale. Questo sforzo vigile dello spirito nostro è più che mai necessario per frenare le nostre passioni. Se esse non fossero dominate, ci trascinerebbero al precipizio, simili all’acqua impetuosa, che, invece d’essere incanalata nel letto d’un torrente, dilaga nei campi e tutto sommerge. Ma come quell’acqua, sapientemente utilizzata, può essere sorgente di forza elettrica, di luce e di calore per intere città, così le passioni nostre, ben indirizzate, costituiscono un potente aiuto. Anche un focoso destriero, esclama il Cathrein, guidato a dovere, serve a farci percorrere, nel più breve tempo possibile, il massimo spazio; non frenato, ci conduce a perdizione. « Un uomo apatico non è atto a nulla di grande e non riuscirà ad elevarsi al di sopra di una ben calcolata mediocrità. Anche nel puro lavoro intellettuale l’uomo dev’essere sostenuto da una certa misura di passione, se vuol compiere qualcosa di bello. Chi si dà allo studio con entusiasmo, lavora più energicamente e con maggiore costanza, e la sua intelligenza si fa più pronta ed acuta. Questo si verifica in ogni campo. Quante volte l’uomo apparisce, tutt’ad un tratto, quasi trasformato, se lo dominano potenti passioni! Allora diviene più geniale, più ricco d’idee, più eloquente ». Infelice colui che procede per moto d’inerzia e per mera abitudine! Certo: dobbiamo distinguere due generi d’abitudine. C’è un’abitudine che dice ripetizione amorfa e senza vita; e c’è l’abitudine che è prontezza, facilità, e agilità. Quest’ultima viene dall’abito acquisito di fare il bene. Sulla tomba di san Paolo, a Roma, si leggono le parole di una sua lettera ai fedeli di Filippi: « La mia vita è Cristo. Mihi vivere Christus est ». Non era Paolo che viveva; era il Cristo che viveva in Paolo: Io vivo, scriveva egli un giorno ai Galati, ma non sono io che vivo; è Cristo che vive in me ». Da questo programma bisogna prendere le mosse, se si vuol abbracciare con un’occhiata la differenza tra l’azione morale umana e l’azione morale cristiana, tra l’attività naturale e l’attività soprannaturale, tra l’uomo onesto e il discepolo di Gesù. Come già vedemmo nel Sillabario del Cristianesimo, noi possiamo vivere la vita in tre modi: da bruti, da uomini, da Cristiani. Possiamo, cioè, orientarci o verso la materializzazione e l’abbrutimento, calpestando la legge morale; o verso la spiritualizzazione, ispirata da un sistema filosofico e da un’etica puramente umana: ovvero verso la elevazione soprannaturale della vita umana. È quest’ultimo punto che occorre approfondire, alla luce del dogma, che ci insegna il mistero della nostra divinizzazione e dell’incorporazione nostra a Cristo. – Sarò elementarmente chiaro in questo capitolo, perché so benissimo che esso rivelerà un’idea sconosciuta a moltissimi lettori, che pur si ritengono credenti e non conoscono le basi del Cristianesimo. Mi si segua con attento raccoglimento, perché è un’enormità che il Cristiano non sappia qual è la caratteristica propria della sua attività e la fisionomia speciale della sua vita. La ignoranza religiosa dei nostri tempi è qualcosa, non dico di spaventoso, ma di mostruoso.

1. – L’incorporazione a Cristo.

Era la sera dell’Amore divino. Poche ore prima di una acerbissima passione, quale solo l’eccesso dell’amore per gli uomini poteva suggerire, Gesù istituì il Sacramento dell’Eucaristia,nvale a dire il Sacramento dell’amore. Poi, in termini espliciti, riprendendo un pensiero già altre volte insegnato nella sua predicazione, manifestò ai dodici la verità consolante della nostra incorporazione in Lui. « Rimanete in me ed io in voi. Come il tralcio non può da sè dar frutto, se non rimane nella vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me. Io sono la vite; voi i tralci. Se uno rimane in me, ed io in lui, questo porta molto frutto, perchè senza di me non potete far niente. Chi non rimarrà innme, sarà gettato via, a guisa di tralcio che si secca, si raccoglie e si butta sul fuoco ove brucia ». Il Cristiano, dunque, non deve considerarsi come una persona avulsa o separata da Cristo e dagli altri credenti. Comeni vari tralci sono uniti fra loro e con la vite, così i discepoli di Cristo costituiscono un unico tutto tra di loro e col loro Capo adorato. Tale unione tra i fratelli e con Dio, Gesù proseguì a spiegarla, soggiungendo: « Il comandamento mio è questo, che vi amiate scambievolmente, come io ho amato voi »; e poi si rivolse con una ineffabile preghiera al Padre, chiedendo che i suoi seguaci fossero tutti una cosa sola, come Egli ed il Padre erano un solo Dio nell’unità dell’Amore sostanziale, vale a dire dello Spirito Santo: « Padre, custodisci nel Nome tuo quelli che mi hai dato, acciò siano uno, come noi… Né soltanto prego per questi (Apostoli), ma anche per quelli i quali per la loro parola crederanno in me; che siano tutti uno, come tu sei in me, Padre, ed Io in te: siano anch’essi uno in noi ». San Paolo non fece altro, se non commentare simili parole rivelatrici e spiegarle con molteplicità di paragoni. Nella lettera ai Cristiani di Roma enunciò il dogma della nostra unione a Cristo, con la similitudine dell’innesto: « Noi siamo stati innestati in Cristo » e partecipiamo perciò della sua linfa, della sua vita divina; e con Cristo formiamo l’unica grande pianta della Chiesa, che si svolgerà sino alla fine del mondo e durerà immortale. Nella lettera ai fedeli di Corinto volle ricorrere al paragone del corpo umano: a Pur essendo molti, noi siamo un sol corpo ». 《 Come il corpo è uno ed ha molte membra, e come tutte le membra del corpo, benché siano molte, non formano che un unico corpo, così è anche di Cristo ». Noi tutti abbiamo ricevuto il Battesimo per formare un corpo unico… Voi siete il corpo di Cristo e membra di questo corpo ». Ognuno di noi, continuava l’Apostolo, non deve mai profanare se stesso, perché profanerebbe Cristo. E tutto l’intento della sua predicazione era di infondere negli animi questa idea dominante (che oggi esula dalla mente di moltissimi Cristiani); noi dobbiamo sentirci uniti a Cristo; siamo incorporati a Lui: non viviamo la vita nostra, ma la Sua. Il braccio è bensì braccio ed ha la sua attività, ma non dev’essere riguardato come avulso dall’organismo, poiché vive della vita dell’organismo; così noi: abbiamo, sì, la nostra attività umana, ma essa è elevata, potenziata, soprannaturalizzata da Cristo, il Capo del grande organismo che è la sua Chiesa. – Nella lettera ai credenti di Efeso san Paolo ha insistito su quest’ultimo concetto: Dio ha dato Cristo come capo alla Chiesa, la quale è il suo corpo ed il suo compimento, e tutti sono uniti in Cristo, in un corpo unico. Non contento di questo, prese l’altra immagine, dell’edificio, e soggiunse che Cristo è la pietra angolare: « In Lui sorge un edificio bene ordinato per formare un tempio santo nel Signore ». Se noi non giungiamo a questa convinzione, se ci riguardiamo come individui egoisticamente divisi, come atomi separati da Cristo, se la nostra attività è considerata solo come nostra e non come la vita di Cristo in noi, che cooperiamo con Lui, come il braccio coopera alla vita unica dell’organismo, noi potremo arrivare alla morale umana, ma non concepiremo mai cos’è la morale cristiana. È un errore del protestantesimo — essenzialmente individualistico e, di conseguenza, negazione assoluta del Cristianesimo, che è organismo sociale — quello di immaginare la giustificazione nostra come una attribuzione giuridica dei meriti di Cristo a noi. No, osserva egregiamente il P. Plus nel suo aureo volumetto: In Cristo Gesù: « Per salvarci, nostro Signore non si è sostituito a noi, lasciandoci separati da Lui. Egli ci ha fatti solidali con Lui, unendosi intimamente e vitalmente a noi, tanto che, ormai, quando il Padre guarda un redento, lo vede come qualche cosa di Gesù e quando guarda Gesù, lo scorge, con tutti i redenti innestati in Lui », incorporati a Lui, congiunti con Lui. È vero: non si tratta d’una unione fisica, come avviene fra le parti d’un corpo; e nemmeno d’un’unione puramente morale, come fra i membri d’una famiglia; ma non si tratta neppure d’una unione esclusivamente giuridica e di una attribuzione esterna di meriti. Con Cristo noi siamo realmente e misticamente uniti. – La vera realtà non è solo il Cristo storico che è nato a Betlemme ed è morto sul Calvario; è anche il Cristo mistico, ossia il Gesù che si è incarnato, che è nato, ha vissuto a questo mondo e via dicendo, e che ci unisce tutti a sé nel grande corpo che è la Chiesa militante, purgante e trionfante, — che non è lontano da ognuno di noi, ma vive in noi con la sua grazia divinizzante, con la sua vita divina. Noi conosciamo per rivelazione questo fatto; non sappiamo oggi — perché in ciò sta il mistero — spiegare come si verifica il fatto, a somiglianza di molti fenomeni naturali, che sappiamo essere reali, ma non riusciamo a scorgere la intima spiegazione. Ma non dobbiamo mai dimenticare una simile dolce e consolante verità, come non la scordavano mai i Padri nei primi secoli del Cristianesimo. Tutti i loro discorsi si ispiravano a questo supremo concetto, che mirava ad infondere in tutti la persuasione che il Cristiano è un altro Gesù Cristo: Christianus alter Christus; che i credenti sono piccoli Gesù in fiore, per dirla con sant’Ambrogio: Christi florentes; che noi non solo siamo di Cristo, ma siamo Cristo, come inculcava Agostino: Christi sumus et Christus sumus; Cristo ci ha incorporati a sé, perché in Lui fossimo Cristo: corporans nos sibi, ut in illo Christus essemus. Non sgraniamo, dunque, più gli occhi, quando negli Atti dei martiri ad ogni passo leggiamo frasi come queste: « Il corpo intero era tutto una piaga: ma Cristo che soffriva in lui dimostrava che nulla può incutere timore, quando v’è l’amore del Padre ». Finiamola una buona volta di celebrare, ad esempio, un centenario di Bossuet, con articolucci e con pubblicazioni vuote, che lasciano sfuggire questa grande idea, presente come soffio possente in ogni opera o discorso di quel grande oratore. Non stupiamoci se « l’Apostolo del Verbo Incarnato », il cardinale De Bérulle, quando incontrava un fanciullo che col suo stesso candore lo assicurava della vita di Cristo nell’anima innocente, gli prendeva la piccola mano, e accompagnandola, si faceva dare una benedizione, che egli riteneva non benedizione d’un bimbo,nma quella di Gesù vivente in lui. Non stupiamoci se nelle Mémoirs dell’Olier noi leggiamo che il padre de Condren —il grande e santo Oratoriano — « non era che un’apparenza ed una scorza di ciò che realmente era, perché « era piuttosto Gesù Cristo che viveva nel padre de Condren, che non il padre de Condren che vivesse in se stesso. Egli era come un’Ostia dei nostri altari; al di fuori, si vedono le apparenze del pane, ma, di dentro, è Gesù Cristo. Così avveniva anche per questo gran servo di nostro Signore tanto amato da Dio ». – Con tale idea tutto capiremo. Comprenderemo cosa significa la nostra elevazione allo stato soprannaturale e la grazia santificante, perchè, uniti a Cristo, la nostra vita è elevata, santificata e divinizzata. Comprenderemo il dogma della Chiesa e della Comunione dei Santi, ossia l’unione di tutti i fedeli con Cristo e fra di loro, in uno scambio mutuo ed in un mutuo influsso di vita soprannaturale. Comprenderemo il perchè della rivelazione del mistero della Trinità, in quanto diveniamo figli adottivi di Dio per la nostra unione a Cristo, figlio naturale del Padre: ed allora il Figlio, che è non solo se stesso, ma l’unione di tutti i figli, ci unisce al Padre nell’amore dello Spirito Santo. Comprenderemo l’importanza del Battesimo, il sacramento che ci incorpora a Cristo e ci innesta in Lui, per esprimerci con san Paolo, e non stimeremo più pazzo il missionario, che reputa compensati tutti i suoi sacrifici anche per un semplice battesimo, amministrato ad un bimbo pagano morente. Comprenderemo la Confessione, che, quando il peccato ci rende membra morte nel corpo di Cristo, ci ritorna la vita e la partecipazione ai meriti del Salvatore. Capiremo il vero culto alla Vergine e ai Santi, e lo concepiremo come un omaggio allo stesso Gesù, poiché i grappoli ed i pampini li lodiamo e li ammiriamo in relazione alla vite: chi onora il frutto, dà lode alla pianta, che l’ha prodotta: ben lungi dall’essere la nostra devozione alla Madonna od ai Santi un atto di idolatria, è un atto di amore a Gesù Cristo Dio. Ameremo soprattutto l’Eucaristia, mediante la quale Gesù Cristo si unisce sacramentalmente a noi, per intensificare sempre più in noi la sua vita divina, in quanto nell’ora soave della Comunione, noi e Lui, come dice Cirillo di Gerusalemme, siamo due cere fuse, gettate l’una sull’altra e compenetrantisi totalmente. E, quando assisteremo alla Messa, non ci lascerà più indifferente il gesto del Sacerdote, che nel calice infonde col vino da consacrarsi alcune gocce d’acqua: quelle gocce rappresentano noi stessi, che, uniti a Gesù, siamo da Gesù trasformati e diventiamo consorti della divinità di Colui che della nostra povera umanità si è degnato divenire partecipe. Com’è bello il Cristianesimo, quando è conosciuto e vissuto! Perché mai saremo così stolti, da dedicare tutto il nostro tempo alle verità umane e trascureremo la verità e la vita divina?

2. – L’azione cristianamente buona.

Vediamo ora l’applicazione pratica, le conseguenze necessarie del dogma nella vita morale. « Noi, scrive il card. De Bérulle, facciamo dunque parte di Gesù ed Egli è il nostro tutto. Il nostro bene è di essere in Lui, d’essere suoi, d’essere, di vivere e d’agire per mezzo suo, come il tralcio è e attinge vita e frutti dalla vite ». Il nostro io si sente incompleto ed imperfetto; ma non deve volgersi alle piccole cose o ai piccoli uomini per avere il suo complemento e la sua perfezione, ma a Cristo. Egli dev’essere « lo spirito del nostro spirito, la vita della nostra vita, la pienezza della nostra capacità… Di conseguenza, noi non dobbiamo agire se non come uniti a Lui, da Lui diretti, attingendo forza da Lui, per pensare, parlare, operare. Come meravigliosamente descrive san Giovanni Eudes nel suo libro: Le Royaume de Jésus, la vita cristiana non è altro se non la continuazione ed il compimento in ciascuno di noi della vita di Gesù, di modo che Gesù viva nelle sue membra. Ecco, del resto, la grande idea madre del sublime volumetto: De imitatione Christi: noi dobbiamo imitare Gesù Cristo divino; far nostri i suoi pensieri, le sue vedute, i suoi affetti, la sua volontà. Egli è l’esemplare che dobbiamo ricopiare; e, si noti bene, non è un modello fuori di noi, che dobbiamo guardare da lungi, per ritrarlo; per null’affatto; è unito a noi, ed è per questo che i « Cristiani », soggiunge san Giovanni Eudes, essendo suoi membri, fanno le sue veci sulla terra, rappresentano la sua persona e quindi debbono fare tutto quello che fanno… come Egli lo farebbe ». Agire cristianamente è agire con Gesù Cristo e secondo Gesù Cristo, con le medesime sue disposizioni, con le stesse sue intenzioni, col suo « spirito ». Dobbiamo armonizzare la nostra vita con la sua; i giudizi su noi, sulle cose e sugli avvenimenti coi suoi giudizi; i nostri sentimenti, i nostri discorsi, i nostri atti coi suoi. – Perchè, quindi, un’azione sia cristianamente buona, si richiede: che sia un atto morale, perchè altrimenti non sarebbe compiuto secondo lo spirito di Cristo e di conseguenza, che sia secondo la retta ragione, nel suo oggetto, nelle circostanze, nella intenzione e nel fine. Nulla v’è nell’atto naturalmente onesto che venga ripudiato dal Cristiano o che non occorra al Cristiano. Il soprannaturale non distrugge la natura, ma la suppone sempre; altrimenti che cosa verrebbe elevato e divinizzato?

2° che colui che agisce sia unito a Cristo con la grazia, sia, quindi, battezzato, almeno col battesimo di desiderio, e sia senza peccati mortali, perché altrimenti l’attività buona, pur restando umanamente buona, non sarebbe divinamente elevata e potenziata. Una grande differenza, dunque, esiste tra il galantuomo e il Cristiano, tra la virtù filosofica e la virtù cristiana, nella quale, essenzialmente, consiste la santità, perché — osserviamolo subito — la santità non sta nel far miracoli o nell’aver delle visioni, bensì nel santificare la nostra attività con la grazia di Cristo:

I) Per l’atto umanamente buono basta la luce e la guida della ragione; per l’atto cristianamente buono occorre anche la rivelazione, che ci porti la dolce novella dell’elevazione nostra allo stato soprannaturale. Nel primo caso potrebbe bastare la filosofia; nel secondo caso si richiede anche la fede, perché come mai si potrebbe concepire la morale cristiana, prescindendo dal dogma e dalla cognizione del fine soprannaturale, al quale dirigiamo le nostre azioni?

II) L’atto umanamente buono ha come principio il nostro io, le forze morali della nostra natura, sia pure confortate dall’assistenza e dall’aiuto del Creatore. L’azione cristianamente buona, invece, ha come principio il nostro io, divinizzato, per così dire, dalla grazia santificante; sono io che agisco, ma non sono solo; col mio piccolo io umano è Gesù Cristo che agisce in me, in quanto, unito a Lui, io agisco con Lui e per Lui.

III) L’atto che è solo umanamente buono è fatto per il bene, e non per un bene astratto, ma per amore naturale, almeno implicito, di Colui che è il « Bene dei beni », Dio. – L’atto cristianamente buono è fatto per Dio, nostro fine soprannaturale e per Gesù Cristo: uniti per la grazia con Lui, agiamo per amore del Padre, nel soffio vivificante dello Spirito Santo.

IV) L’atto onesto non può avere ricompense se non di ordine naturale. L’atto cristiano, compiuto in grazia, diventa meritorio di vita eterna ed ha come premio una felicità soprannaturale, della quale in seguito parleremo. Se ogni atto cristianamente buono è anche onesto, non ogni atto onesto è anche cristiano. E si capisce anche come tutte le virtù umane si possano e si debbano trovare nel credente; ma come altresì vi siano virtù cristiane, che non sarebbe possibile trovare in un ipotetico uomo puramente onesto. Ad esempio, la fede, la speranza e la carità soprannaturale, le virtù infuse ed i doni dello Spirito Santo solo li possiamo avere in chi crede a Cristo, alla unione con Lui, alla sua rivelazione.

3. – L’azione cristiana e l’amore

Svilupperemo in seguito il concetto che la morale cristiana è la morale dell’Amore. Ma già fin da questo momento possiamo intravvedere la profondità dell’insegnamento di san Paolo, quando nella lettera a quelli di Colossi raccomandava: « Sopra ogni cosa abbiate l’Amore, che è il vincolo della perfezione ». Nel Cristianesimo, infatti, la morale consiste essenzialmente nell’amore dei figli, uniti in Cristo, al Padre ed ai fratelli. È la grazia, è il dono dell’amore infinito di Dio per noi che ci divinizza; è il nostro amore per il Padre, in Cristo Gesù, che ci spinge ad agire moralmente. Amore di Dio per noi, da un lato, e amore nostro per Dio, dall’altro, sono i due elementi che concorrono nell’attività cristianamente buona. Il divino e l’umano si uniscono a formare un unico tutto, quantunque, per i bisogni dell’analisi, noi possiamo scrutare distintamente i due elementi della sintesi. – Quando, perciò, si parla di scuola ignaziana, di scuola oratoriana, e via dicendo, non si deve ritenere che si tratti di correnti opposte; finiamola di creare opposizioni inesistenti fra il cosiddetto Seneca cristiano, il p. Rodriguez, e un san Francesco di Sales! Secondo le necessità dei tempi, i pensatori sacri lumeggiano l’uno o l’altro dei due elementi dell’azione cristiana. Quando Pelagio tende al naturalismo o nega il soprannaturale, sant’Agostino svolge l’idea della grazia. Quando Lutero e Calvino negano il libero arbitrio e riducono l’atto morale alla sola imputazione estrinseca della grazia di Cristo, Ignazio di Loyola, seguito dal grande autore della Perfezione cristiana e da un teologo come il Molina, insiste sulla formazione della nostra volontà e sulla cooperazione nostra con l’aiuto divino. Quando, in seguito all’Umanesimo, il naturalismo cerca di prevalere, avremo la splendida fioritura dovuta al card. de Bérulle, a san Giovanni Eudes, al de Condren, all’Olier, a Grignion de Montfort, a Bossuet, a san Francesco di Sales, a san Vincenzo de’ Paoli, che sottolineeranno la vita di Gesù nelle anime cristiane, l’influsso divino nelle nostre azioni, il dovere che « Gesù sia tutto in ogni cosa », nelle parole, nei pensieri e nelle opere. Ma intendiamoci: il benedettino, che col vivo senso liturgico ci ricorda ad ogni istante l’incorporazione nostra a Cristo, col quale preghiamo e viviamo; — l’oratoriano, che con opere immortali insiste sul fatto che il soprannaturale ci bagna da ogni lato e ci penetra sino alle più profonde intimità dell’anima; — il gesuita, che con la meditazione, gli esami di coscienza e gli « Esercizi Spirituali », diventa maestro di energia, non sono in contrasto fra loro. Sant’Ignazio, che negli Esercitia spiritualia esamina in modo speciale l’elemento umano dell’atto morale, non trascura l’altro e nelle Costituzioni insisterà perché l’uomo non dimentichi mai di essere « uno strumento congiunto a Cristo, instrumentum Deo cojunctum »; come, d’altra parte, sant’Agostino e san Giovanni Eudes sono lontani mille miglia dal fare poco conto dell’umana attività, quantunque insistano sulla necessità del soprannaturale. Alcuni illustrano di preferenza l’amor di Dio per noi, gli altri l’amore nostro per Dio; la concretezza dell’atto morale è la sintesi di questi due elementi costitutivi di esso.

4. – Conclusioni

Dice Gesù nel Vangelo di san Giovanni: « Io non sono solo; è con me il Padre ». Ogni Cristiano che combatte le battaglie della vita può ripetere a sé: io non sono solo; è con me Gesù Cristo e con Lui sono con me il Padre e lo Spirito Santo. Alcuni filosofi hanno creduto che Dio e la sua grazia annientassero i valori umani, la volontà nostra, la nostra dignità. Follie! Non solo nulla dev’essere distrutto, eccetto le imperfezioni e le deficienze nostre: ma tutto è innalzato e potenziato. Nella concezione cristiana non abbiamo mai la debolezza dell’isolamento; uniti ai fratelli tutti, alla Chiesa di ieri e di oggi, alla storia passata e presente, uniti soprattutto a Cristo con la grazia santificante e coi suoi doni, sentiamo la forza divinamente grande che ci sospinge, ci sorregge, ci incoraggia; ed è per questo che i Santi hanno compiuto opere, le quali, anche dal punto di vista umano, sono gigantesche: essi agivano forti della potenza di Cristo. Vivere con Lui significa non l’annientamento, non la morte, ma la risurrezione e la vita. « Voi, filosofi, diremo anche noi con Auguste Cochin nel suo volume Espérances chrétiennes, voi non potete comprendere come noi amiamo Cristo e ciò che Egli è per noi. Egli è sempre là dinanzi ai nostri occhi, con la mano in qualche modo sulla nostra spalla, mentre lavoriamo e mentre riposiamo, alla tribuna ed all’ufficio, a tavola o al nostro capezzale. Ogni Cristiano, il quale sappia cosa crede, vive in presenza ed in compagnia di Gesù Cristo. Dopo questo, via via, o visioni di poeti, o divinità ispiratrici, o bellezze affascinanti della vita! Via anche voi, o santi affetti! Né poesia, né passione, né fascino potranno mai eguagliare l’amore reale e tenero, che ci ispira la persona di Cristo Gesù ». Cosa sono in confronto a Lui, tutti i personaggi della storia? Egli solo è il vero Vivente, che vive con noi, in noi, per noi, perché noi possiamo vivere con Lui, in Lui, per Lui.

Riepilogo.

L’attività morale cristiana può essere riguardata:

1) dal punto di vista oggettivo, ossia nella sua materialità esteriore;

2) dal punto di vista soggettivo, ossia nella forma, nel fine dell’azione;

3) nell’elemento soprannaturale che la divinizza.

Occorre, perciò, studiare:

1° il bene in se stesso;

2° l’azione buona;

3° l’azione cristiana.

I. – IL BENE. — Per poter giudicare ciò che in sè è bene e ciò che è male, ossia per conoscere qual è la norma della moralità, giova elaborare tre concetti:

a) Il concetto di essere. Dio è l’Essere supremo e da Lui sgorgano tutti quanti gli esseri, fra loro coordinati e tendenti a Dio, come a un ultimo fine. Questo grande principio della centralità divina è il punto di partenza anche in morale.

b) Il concetto di verità o dell’essere in quanto è conosciuto.

Quando noi, con la vostra ragione, cogliamo l’essere e le relazioni fra gli esseri, abbiamo la verità.

c) Il concetto di bene o dell’essere in quanto è voluto. Quando noi, con la nostra libera attività, agiamo rispettando praticamente la natura degli esseri, come sono da noi conosciuti, ed il loro ordine, abbiamo il bene.

La forma della moralità, di conseguenza, è questa: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione »; rispetta cioè l’Essere ed i rapporti fra gli esseri che la ragione ti manifesta. E’ buona l’azione che segue una tal regola e cattiva l’azione che la calpesta. – Ripensando questi concetti alla luce dell’Amore, si vede che ogni essere creato è un palpito dell’amore di Dio per noi; e così si dica dei rapporti che esistono fra gli esseri e dell’obbligo che abbiamo di agire moralmente. Se Dio è Amore, l’Essere e il Bene coincidono; e l’obbligazione morale è un frutto dell’Amore divino. Dio non amerebbe, se fosse indifferente all’ordine o al disordine, al bene o al male; anzi, non sarebbe più Dio, dato che l’ordine rispecchia la sua volontà.

II. – L’AZIONE BUONA. — Non basta, per avere l’atto morale, che l’azione in sè, oggettivamente considerata, sia un bene; è necessario altresì:

a) che sia compiuta con un fine od un’intenzione buona, ossia occorre che il bene sia fatto per il bene; e siccome il bene, in ultima analisi, è la volontà di Dio ed il suo Amore, per agire moralmente bisogna che noi facciamo il bene per amore di Dio, per amore cioè del Bene supremo;

b) che sia compiuta non meccanicamente, per pura abitudine, per moto d’inerzia. Per l’atto morale occorre l’attivismo dello spirito. Dobbiamo spiritualizzarci continuamente, servendoci dei meccanismi, che sono in sè utilissimi, quando sono mossi e ravvivati da un soffio di vita spirituale.

III. – L’AZIONE CRISTIANA. — L’atto onesto non è ancora l’atto cristiano, il quale implica bensì la nostra attività morale umana, ma la divinizza con la grazia divina. Innestati in Cristo, incorporati a Lui, vivendo una vita soprannaturale che ci permette di dire con san Paolo che Cristo vive in noi, le nostre energie umane sono divinamente sublimate e potenziate. Agire cristianamente è agire secondo la norma del Bene, ma in unione con Cristo, santificati dalla sua grazia, forti della sua forza divina, animati dal suo Spirito, che è lo Spirito Santo, Spirito d’amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (6)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “MILITANTIS ECCLESIÆ”

Militantis Ecclesiae è una lettera Enciclica inviata ai Vescovi tedeschi in occasione del III centenario della morte di S. Pietro Canisio, grande diffusore della verità cattolica presso quei popoli martoriati dalla peste del protestantesimo in atto. Oltre alla vita ed alle opere del Santo, il Santo Padre si dilunga sapientemente sulla didattica scolastica, fruttuosa solo se basata e costruita come solido edificio sulla morale cattolica radicata sul dogma cristiano. Così possiamo vedere la differenza con l’attuale orientamento scolastico dei Paesi “laici”, che si guardano bene dal fornire i mezzi per la conoscenza e la pratica cristiana, imbevuti come sono, fino all’esasperazione, di “massonismo” pseudo ecumenico ed indifferentista, appoggiati da una finta chiesa modernista con cui condividono ideologia e “succulenti prebende”… Godiamoci questa magnifica lettera e, invocando la venuta di un novello Pietro Canisio, preghiamo con pazienza accelerando la venuta del Signore Gesù tutti uniti strettamente nel suo Corpo mistico, di cui sono membri solo i veri Cattolici, perché ripristini le condizioni di vita cristiana ed essi formino un’armata compatta sotto la guida dell’Immacolata contro le falangi infernali operanti in ogni struttura ed in ogni ambito.

Leone XIII
Militantis Ecclesiae

Lettera Enciclica

III centenario della morte del beato Pietro Canisio
(ora santo)

1 agosto 1897

Il bene della Chiesa militante, e così pure il suo onore, esorta a celebrare più spesso con rito solenne la memoria di coloro che per la loro straordinaria virtù e pietà furono innalzati alla gloria della Chiesa trionfante. Mediante questi segni di onore infatti si insinua il ricordo dell’antica santità, cosa sempre opportuna, utilissima poi in questi tempi infausti per la fede e la pietà. E proprio nel presente anno, per la benevolenza della divina provvidenza, è concesso a Noi di rallegrarci per il compiersi del terzo centenario della morte di Pietro Canisio, uomo di eccelsa santità, con l’unico intento di incitare gli animi dei buoni a quelle arti mediante le quali lui stesso venne in aiuto in modo tanto efficace alla società cristiana. Il nostro tempo infatti presenta non poche analogie con i tempi nei quali operò il Canisio, quando la bramosia di novità e l’avvento tumultuoso di una cultura più libera furono seguiti dallo smarrimento della fede e dalla decadenza dei costumi. Ad allontanare questa duplice peste da tutti, ma soprattutto dalla gioventù, si adoperò questo apostolo della Germania, secondo dopo Bonifacio, e non solo con opportune predicazioni o con la sottigliezza delle dispute, ma soprattutto con l’istituzione delle scuole e con la stampa di ottimi libri. Avendo seguito i suoi esempi preclari, anche molti altri uomini volonterosi del vostro popolo, usando le medesime armi contro un genere di nemici per nulla grossolano, mai trascurarono, per la difesa e la dignità della Religione, di custodire ogni nobile disciplina e di perseguire con animo ardente ogni esercizio delle arti oneste, con il favore e l’approvazione dei Romani Pontefici, che sempre si preoccuparono con grande sollecitudine di custodire l’antica grandezza delle lettere, e di far sì che ogni espressione di umana civiltà ricevesse di giorno in giorno sempre nuovi incrementi. E voi ben sapete, venerabili fratelli, che la cosa che sempre Ci è stata più cara è l’educazione corretta e salutare dell’adolescenza; a questo, per quanto Ci è stato possibile, abbiamo sempre guardato con attenzione. Ora poi utilizziamo volentieri la presente occasione, presentando l’esempio del valoroso condottiero Pietro Canisio agli occhi di coloro che negli accampamenti della Chiesa militano per Cristo, affinché, forti del pensiero che alle armi della giustizia si debbano associare le armi della cultura, possano più energicamente e vittoriosamente servire la causa della Religione. – Quanto sia stato gravoso l’impegno assunto da quell’uomo zelantissimo della fede cattolica, appare facilmente a coloro che considerano con attenzione il volto della Germania agli inizi della ribellione luterana. Modificati i costumi, di giorno in giorno sempre più degradati, fu facile il passaggio all’errore; e lo stesso errore poi condusse a maturazione la definitiva rovina dei costumi. Così, a poco a poco, molti si allontanarono dalla fede cattolica; quindi il virus del male si diffuse ampiamente in quasi tutte le province e contaminò uomini di ogni condizione e fortuna, al punto che nella mente di molti si consolidò l’opinione che la causa della Religione in questo regno fosse ormai totalmente perduta, e che non ci fosse ormai più alcun rimedio per curare la malattia. E senza dubbio non ci sarebbe stato più nulla da fare riguardo alle cose supreme, se Dio non fosse intervenuto con efficace soccorso. C’erano ancora in Germania uomini di antica fede, ragguardevoli per la cultura e lo zelo della Religione; c’erano i principi della Casa Bavarese e Austriaca, e soprattutto il re dei romani Ferdinando, primo del suo nome, per i quali era un dato indiscusso la protezione e la difesa con tutte le loro forze della causa cattolica. E Dio donò alla Germania in pericolo un nuovo e di gran lunga il più valido soccorso, la Compagnia di Gesù, nata opportunamente proprio in quella tempesta, e a questa, primo fra i tedeschi, diede il suo nome Pietro Canisio. – Non dobbiamo qui ora ripercorrere tutti gli aspetti dell’esemplare santità di quest’uomo; con quale impegno si sia preso cura della patria lacerata da dissidi e sedizioni, per ricostituire un comune sentire degli animi e l’antica concordia; con quale ardore abbia combattuto nelle dispute con i maestri dell’errore, con quali discorsi abbia incitato gli animi, quali fastidi abbia sopportato, quante regioni abbia percorso, quante faticose missioni abbia intrapreso per la causa della fede. Prendiamo in considerazione soltanto le armi della cultura; con quale costanza le ha esposte, con quale prudenza, con quale senso di opportunità! Quando ebbe fatto ritorno da Messina, dove si era recato come maestro della parola, subito si impegnò con singolare energia ad insegnare le sacre discipline nelle Università di Colonia, Ingolstadt e Vienna, e seguendovi la via regale della scuola cristiana dei dottori di sicura fama, aprì le menti dei tedeschi alla grandezza della teologia scolastica. Dal momento che in quel tempo i nemici della fede da questa si tenevano lontani con supremo disgusto, poiché su di essa si fondava principalmente la fede cattolica, proprio questo metodo di studio cercò di rimettere pubblicamente in auge nei licei e nei collegi della Compagnia di Gesù, che lui stesso aveva contribuito a realizzare con tanta fatica e lavoro. E lui stesso non si vergognò affatto di calarsi dalla sapienza più alta ai primi elementi degli studi letterari, e di accogliere fanciulli da istruire, scrivendo proprio per loro dei libri di letteratura e delle grammatiche. Contemporaneamente, dalle dimore dei principi, nelle quali teneva le sue orazioni, tornava spesso alle prediche al popolo, al punto che, mentre scriveva le cose più alte, sia in ordine a controversie dottrinali che sui costumi, metteva mano anche alla composizione di opuscoli che rafforzassero la fede del popolo e suscitassero e nutrissero la sua pietà. Degna di grande ammirazione per la sua utilità nel preservare dal laccio dell’errore gli inesperti fu la sua pubblicazione di una Summa della dottrina cattolica, opera densa e concisa, chiarissima nel suo limpido latino, non indegna dello stile dei padri della Chiesa. A questa splendida Opera, che fu accolta dai dotti in tutti i regni europei con unanime lode, sono inferiori per la mole, ma non per l’utilità, quei due famosissimi Catechismi, scritti da quel santo uomo ad uso degli indotti, uno per istruire sulla religione i fanciulli, l’altro per istruire su di essa gli adolescenti che si dedicano allo studio delle lettere, Tutti e due, non appena furono pubblicati, conobbero un così grande successo fra i Cattolici, da essere fra le mani di tutti coloro che insegnavano le verità fondamentali della fede cristiana; e non venivano usati soltanto nelle scuole, quasi come latte da sorbirsi dai fanciulli, ma venivano pubblicamente spiegati per l’utilità di tutti nelle chiese. È successo così che il Canisio per trecento anni è stato considerato il maestro comune dei Cattolici di Germania, al punto che nella coscienza del popolo queste due affermazioni avevano lo stesso significato, conoscere il Canisio, e tenere saldamente la verità cristiana. – Questi scritti del nostro santo indicano chiaramente a tutti i buoni la via da seguire. Sappiamo poi, venerabili fratelli, che questa gloria della vostra gente è magnifica: usatela con sapienza e in modo felice per promuovere con intelligenza e passione l’onore della patria e per conseguire il bene privato e pubblico. In verità è del massimo interesse che chiunque fra di voi è sapiente e buono, si adoperi con forza a favore della Religione; diriga al suo decoro e difesa ogni luce della mente e tutte le risorse delle scienze letterarie; e con il medesimo proposito, colga subito e si impadronisca con la conoscenza di qualsiasi cosa che in ogni ambito porti al bene, sia con l’incremento delle arti che della cultura. Infatti, se mai vi fu un tempo in cui, per la difesa del Cattolicesimo, fosse richiesto in modo speciale una grande cultura ed una grande erudizione, questo è proprio il nostro tempo, nel quale un più rapido progresso in ogni campo della cultura umana, offre talvolta ai nemici del nome cristiano lo spunto per combattere la fede. Per respingere l’attacco di costoro, bisogna far ricorso a forze di pari valore; occupare per primi le posizioni e strappare dalle loro mani le armi con le quali si sforzano di spezzare ogni legame fra le cose divine e quelle umane, I cattolici interiormente così preparati e a dovere formati, potranno facilmente dimostrare che la fede divina non solo non si contrappone alla cultura umana, ma è anzi di questa come il coronamento e il fastigio.
Anche in quelle cose in cui maggiore sembra essere la distanza, o in cui sembra esservi opposizione, la fede può molto facilmente accordarsi con la filosofia e ad essa associarsi, al punto di illuminarsi l’una con l’altra in modo sempre più grande; la natura non è nemica, ma compagna e ancella della religione.
Con il suo aiuto non solo tutte le conoscenze si arricchiscono, ma le lettere e tutte le arti ricevono maggiore vigore e vitalità. Quanto poi pervenga alle sacre dottrine di ornamento e di dignità dalle discipline profane, lo può facilmente comprendere chi ben conosce la natura umana, incline a tutto ciò che colpisce piacevolmente i sensi. Perciò, presso i popoli che eccellono sugli altri per la loro cultura, a stento si presta una qualche fiducia ad un sapienza rozza, e soprattutto i dotti non prestano attenzione a quelle cose che non si accompagnino ad una forma bella ed elegante. Ora noi siamo debitori ai dotti non meno che agli ignoranti: dobbiamo stare con i primi nel combattimento, dobbiamo sostenere questi ultimi quando vacillano e rafforzarli.
E’ qui in verità il campo si aprì davanti alla Chiesa con estrema larghezza. Infatti, appena essa riprese vigore dopo le lunghe persecuzioni, vi furono uomini di grande dottrina che con il loro ingegno e la loro scienza illustrarono quella fede che per l’innanzi uomini di grande coraggio avevano suggellato con il loro sangue. In questa lode per primi operarono concordi i padri, e lo fecero con tale vigore, che non potrà mai esserci nulla di più valido; e lo fecero il più delle volte con espressione dotta, degna delle orecchie dei romani e dei greci, Spronati quasi come da aculei dalla dottrina e dall’eloquenza di costoro, molti in seguito si gettarono con tutte le loro forze nello studio delle sacre verità, e raccolsero un patrimonio cosi’ grande di Sapienza cristiana, nel quale, in ogni successivo periodo della Chiesa, gli uomini fossero in grado di trovare tutto quanto potesse loro servire a sradicare le antiche superstizioni, o a distruggere i nuovi flagelli degli errori. In ogni tempo si trovò sempre una grande abbondanza di uomini dotti, anche in quel periodo in cui tutto ciò che vi era di più prezioso fu esposto alla furia e alla rapina dei barbari e quasi cadde nella trascuratezza e nella dimenticanza. Al punto che, se quegli antichi preziosi prodotti della mente e della mano dell’uomo, se quelle cose che un tempo furono in sommo onore presso i romani e i greci non andarono completamente perdute, tutto questo deve essere ascritto a merito del lavoro e della diligenza della Chiesa. – Dal momento che lo studio della scienza e delle arti apporta alla Religione una luce così grande, senza alcun dubbio coloro che si sono totalmente consacrati agli studi è necessario che adoperino tutta la loro solerzia non solo per pensare, ma anche per agire, affinché le loro conoscenze non rimangano chiuse in loro stessi e sterili. I dotti quindi mettano i loro studi a servizio della comunità cristiana e dedichino il loro tempo libero al bene comune, e cosi’ le loro conoscenze non sembreranno restare inconcludenti, ma saranno congiunte con la realtà dell’azione. Questa azione si evidenzia soprattutto nell’educazione dei giovani; e quest’opera è di così grande valore che richiede per sé la maggior parte dell’impegno e della sollecitudine. Proprio per questo, venerabili fratelli, vivamente vi esortiamo affinché vegliate a custodire nelle scuole l’integrità della fede, oppure, qualora fosse necessario, affinché ad essa queste siano con sollecitudine ricondotte; sia quelle di antica fondazione, come quelle che sono state aperte di recente; sia quelle dedicate all’infanzia, sia quelle che vengono chiamate medie ed universitarie. Gli altri Cattolici delle vostre regioni cerchino in primo luogo ed ottengano che nell’educazione degli adolescenti siano garantiti e salvaguardati i diritti propri dei genitori e della Chiesa. – A questo riguardo, bisogna prendersi cura specialmente delle cose che seguono. Prima di tutto, bisogna che i Cattolici abbiano, specialmente per i bambini, delle scuole proprie e non miste [pluriconfessionali], e che siano scelti degli ottimi maestri, assolutamente fidati. L’insegnamento in cui la realtà religiosa è erronea o assente è pieno di pericoli, e vediamo che questo spesso succede nelle scuole che abbiamo chiamato miste. Nessuno si lasci facilmente persuadere che si possa senza pericolo separare la pietà dall’istruzione. Infatti, se nessun periodo della vita umana, sia nelle cose pubbliche che in quelle private, può fare a meno della funzione della Religione, tanto meno può essere privata di quella funzione quell’età inesperta, di fervido ingegno, e posta fra le tante tentazioni della corruzione. Chi dunque organizza l’insegnamento in modo tale che non abbia nessun punto di contatto con la Religione, corrompe gli stessi germi del bello e dell’onesto e prepara non un presidio alla patria, ma la peste e la rovina del genere umano. Chi infatti, tolto di mezzo Dio, potrà ancora trattenere gli adolescenti nel dovere, o ricondurre quelli che hanno deviato dai retti sentieri della virtù e che sono caduti nel baratro dei vizi? – È necessario poi che la Religione venga insegnata ai giovani non soltanto in certe ore, ma bisogna che tutta l’educazione sia impregnata del modo di sentire della pietà cristiana. Se questo viene meno, se questo sacro alito non pervade e non scalda l’anima dei docenti e dei discenti, si raccoglieranno pochi frutti dall’insegnamento; e invece ne deriveranno spesso gravi danni. – Quasi tutte le discipline hanno i loro pericoli, e questi difficilmente potranno essere evitati dagli adolescenti se alle loro menti e alle loro volontà non vengono posti dei freni divini. Bisogna perciò fare molta attenzione affinché non venga posto in secondo piano ciò che è l’essenziale, cioè il culto della giustizia e della pietà; affinché nella gioventù, costretta soltanto alle cose che si vedono con gli occhi, non si atrofizzi ogni vigore di virtù; affinché i maestri, mentre insegnano con grande fatica le pedanterie dell’istruzione e analizzano sillabe e accenti, non siano poi solleciti di quella vera sapienza il cui “inizio è il timore del Signore”, ed ai cui precetti ci si deve conformare in tutti i momenti della vita. La conoscenza delle molte cose abbia perciò unita a sé la cura della perfezione dello spirito; la Religione informi e diriga a fondo ogni scienza, qualunque essa sia, e colpisca con la sua maestà e soavità, da rimanere così come un pungolo negli animi degli adolescenti.
Siccome fu sempre intenzione della Chiesa che ogni genere di studi servisse principalmente alla formazione dei giovani, è necessario che questa materia di studio non solo abbia il suo posto, e un posto speciale, ma è ugualmente necessario che nessuno possa svolgere un insegnamento così importante, se prima non sia stato riconosciuto idoneo a tale insegnamento dal giudizio e dall’autorità della Chiesa stessa. – Ma non è soltanto nelle scuole dei fanciulli che la Teligione reclama i sui diritti. Vi fu un tempo in cui negli statuti di ogni Università, in primo luogo di quella di Parigi, era disposto che tutti gli studi fossero orientati alla teologia, in modo tale che nessuno fosse ritenuto giunto al supremo livello della sapienza, se non avesse conseguito la laurea in questa disciplina. Il restauratore dell’età Augustale Leone X, e dopo di lui gli altri Pontefici Nostri predecessori, vollero che l’Ateneo romano e le altre cosiddette Università degli studi, quando ardevano le empie guerre contro la Religione, fossero come solide fortezze, dove, sotto la guida e l’autorità della sapienza cristiana, venissero istruiti i giovani. Un ordinamento degli studi siffatto, che dava il primo posto a Dio e alle cose sacre, portò ottimi frutti; certamente fece sì che i giovani così istruiti fossero maggiormente fedeli al loro dovere. Questo positivo risultato potrà rinnovarsi anche presso di voi, se voi cercherete con tutte le vostre forze di ottenere che nelle scuole medie, nei ginnasi, nei licei e nelle università, vengano assicurati alla Religione i suoi propri diritti. – Non succeda però mai che anche ottimi consigli siano vanificati, e venga intrapresa una inutile fatica, qualora venisse meno l’accordo degli animi e la concordia nell’azione. Che cosa potranno mai fare le forze divise dei buoni, contro l’impeto unito dei nemici? O a che cosa servirà il coraggio dei singoli, dove venga meno una comune regola di condotta? Per questo vi esortiamo grandemente affinché, tolte di mezzo le inopportune controversie e le contese di parte, che possono con facilità dividere gli animi, tutti consentano in modo univoco a procurare il bene della Chiesa, e, riunite le forze, tendano a quest’unica cosa e manifestino un’unica volontà, “cercando si conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,3). – Ci ha persuasi a fare queste ammonizioni la memoria e la commemorazione di un grande Santo; e volesse il cielo che i suoi esempi luminosi si imprimessero negli animi e li muovessero a quel suo amore della sapienza che non può recedere mai dal lavorare per la salvezza degli uomini e dal difendere la dignità della Chiesa, Confidiamo quindi che voi, venerabili fratelli, che in questo avete una particolare sollecitudine, troverete sicuramente tra i dotti numerosi soci e compagni in questo glorioso lavoro. Ma questa nobile impresa, quasi deposta nel loro seno, la potranno soprattutto attuare coloro che sono stati dalla divina .provvidenza incaricati del magnifico compito di istruire la gioventù. Se costoro ricorderanno, cosa cara agli antichi, che la scienza separata dalla giustizia deve essere chiamata astuzia piuttosto che sapienza, o meglio, se presteranno attenzione a quanto dicono le sacre Scritture “vani sono… tutti gli uomini nei quali non c’è la scienza di Dio” (Sap 13,1), impareranno ad usare le armi della scienza non solo per la loro personale utilità, ma per la comune salvezza. Potranno infine sperare di ottenere, dal loro lavoro e dalla loro operosità, i medesimi frutti che ottenne un tempo Pietro Canisio nei suoi collegi e nei suoi istituti, formare cioè dei giovani docili e virtuosi, ornati di buoni costumi, che detestano con forza gli esempi dei cattivi, e che sono solleciti della scienza e della virtù. Quando la pietà avrà posto nell’animo di questi giovani più solide radici, sarà quasi del tutto scomparso il pericolo che essi possano essere intaccati da opinioni perverse o che possano deflettere dalla loro precedente vita virtuosa. E in costoro che la Chiesa e la società civile ripongono le loro migliori speranze essi saranno in futuro illustri cittadini e, con il loro consiglio, la loro prudenza, la loro cultura potranno essere salvaguardati l’ordinamento civile e la tranquillità della vita domestica. – Per il resto, a Dio ottimo massimo, che è il “Signore delle scienze”, alla sua vergine Madre, che è chiamata “Sede della sapienza”, forti dell’intercessione di Pietro Canisio, che per la gloria della sua dottrina ha così bene meritato dalla Chiesa Cattolica, innalziamo le Nostre preghiere, affinché sia possibile essere partecipi dei voti che abbiamo formulato per l’incremento della Chiesa stessa e per il bene della gioventù. Fiduciosi di questa speranza, a voi singolarmente, venerabili fratelli, e a tutto il vostro clero e popolo, auspice dei doni celesti e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di tutto cuore l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, il 1 agosto 1897, ventesimo anno del Nostro pontificato.

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE 2023

DOMENICA VIII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi

Durante la festa di Pentecoste la Chiesa ha ricevuto la manifestazione dello Spirito Santo e la liturgia di questo giorno ce ne mostra le felici conseguenze. Questo Spirito ci rende figli di Dio, tanto che possiamo dire in tutta verità: “Padre nostro; siamo quindi assicurati dell’eredità del cielo (Ep.): ma per questo bisogna che, vivendo per opera di Dio, noi viviamo secondo Dio (Oraz.) lasciandoci indurre in tutto dallo Spirito di Dio (Ep.), cosi Egli ci accoglierà un giorno nei tabernacoli eterni (Vang.). Sta qui la vera sapienza di cui ci parla la storia di Salomone, della quale in questa settimana si continua la lettura nel Breviario; qui sta la grande opera alla quale il re dedicò tutta la sua vita. – Salomone costruì il Tempio del Signore nella città di Gerusalemme, secondo la volontà di David suo padre, che non aveva potuto edificarlo egli stesso per le continue guerre che i nemici gli avevano mosso contro. Salomone impiegò tre anni a preparare il materiale, cioè le pietre che ottantamila uomini estraevano dalle cave di Gerusalemme e il legno di cedri e cipressi che trentamila uomini abbattevano sul Libano nel regno dell’Iram (V. Domenica prec.). – Quando tutto fu pronto si cominciò, nel 480° anno dopo l’uscita dall’Egitto, la costruzione che durò sette anni. Pietre da taglio, legno e fregi ornamentali erano stati così esattamente misurati prima, che i lavori si compivano nel più grande silenzio. Nella casa di Dio non si sentiva colpo di martello, né ascia, né altro strumento di ferro durante il tempo che si edificava. Salomone prese come piano quello del tabernacolo di Mosè; ma gli diede proporzioni più vaste e vi accumulò tutte le ricchezze che poté. I soffitti e i pavimenti di legni preziosi erano rivestiti da placche di oro, gli altari e le tavole erano ricoperti di oro, i candelabri e i vasi erano di oro massiccio. Tutte le mura del tempio erano ornate da cherubini e da palmizi coperti di oro. A lavori terminati, Salomone consacrò con grande solennità questo Tempio al Signore. In presenza di tutti gli Anziani di Israele e di un popolo immenso appartenente alle dodici tribù, i sacerdoti trasportavano l’Arca dell’alleanza nella quale si trovavano le tavole della legge di Mosè, sotto le ali spiegate di due cherubini, ricoperte di oro e alte dieci cubiti, che si innalzavano nel santuario. Si immolarono anche migliaia di pecore e di buoi e, quando i sacerdoti uscirono dal Sancta Sanctorum, una nube riempì la casa del Signore. Allora Salomone levando gli occhi verso il cielo, domandò a Dio di ascoltare le suppliche di tutti quelli, Israeliti o estranei, che sarebbero venuti in differenti circostanze, felici o infelici, nella loro vita, a pregarlo in questo luogo che era stato a Lui consacrato. Gli domandò anche di esaudire tutti quelli che, con la faccia rivolta verso Gerusalemme e verso il Tempio, gli avrebbero indirizzato le loro suppliche, per mostrare che Egli aveva scelta questa casa per sua residenza e che non vi era in nessun luogo altro Dio, che quello d’Israele. – Le feste della Consacrazione del Tempio durarono quattordici giorni in mezzo a sacrifici e banchetti sacri. E il popolo se ne tornò benedicendo il re e sentendo riconoscenza per tutto il bene che il Signore aveva fatto a Israele dal giorno dell’alleanza sul Sinai. Il Signore apparve allora una seconda volta a Salomone e gli disse: « Ho esaudita la tua preghiera, ho scelto e benedetto il tempio che mi hai innalzato; là saranno sempre i miei occhi ed il mio cuore per vegliare sul mio popolo fedele ». Nella Messa di questo giorno la Chiesa canta alcuni versetti di sei Salmi differenti che riassumono tutti i pensieri espressi da Salomone nella sua preghiera: « Il Signore è grande e degno di lode nella città del nostro Dio, sulla sua montagna santa » (l’Intr., Alt.). « Chi è dunque Dio se non il Signore?» (Off.). È nel suo tempio che si riceve la manifestazione della sua misericordia » (Intr.) e che « si prova e si sente quanto il Signore sia dolce » (Com.), poiché Egli è « per tutti quelli che sperano in Lui, un Dio protettore e un luogo di rifugio » (Grad.), — Come il regno di Salomone fu una specie di abbozzo e di figura del regno di Cristo (2° Nott.), cosi il tempio che egli innalzò a Gerusalemme non fu che una figura del cielo nel quale Dio risiede ed esaudisce le preghiere degli uomini. È sulla montagna santa e nella città di Dio (All.) che noi andremo un giorno a lodarlo per sempre. L’Epistola ci dice che se noi vivremo di Spirito Santo, facendo morire in noi le opere della carne saremo figli di Dio, e che da quel momento, eredi di Dio e coeredi di Cristo, entreremo nel cielo che è il luogo della nostra eredità. Ed il Vangelo completa questo pensiero dicendoci, sotto forma di una parabola, quale sia l’uso che dobbiamo fare delle ricchezze d’iniquità per assicurarci l’entrata nei tabernacoli eterni. Un fattore infedele, accusato di aver dissipato i beni del padrone, si procura degli amici con i beni che questi gli aveva affidato, per avere, dopo essere stato cacciato, « persone pronte ad accoglierlo nelle proprie case ». I figli della luce, dice Gesù, contendano per zelo coi figli del secolo, e, imitando la previdenza di questo fattore, utilizzino i beni, che Dio ha messi a disposizione loro per venire in aiuto dei bisognosi e si faccianoamici nel cielo, perché quelli che avranno sopportato cristianamente le privazioni sulla terra, entreranno lassù e renderanno testimonianza ai loro benefattori nel momento in cui tutti dovrann orendere conto al divino Giudice della loro amministrazione (Vang.)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Ps XLVII: 10-11.

Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitate Dei nostri, in monte sancto ejus.

[Grande è il Signore, e degnissimo di lode nella sua città e nel suo santo monte.]

Ps XLVII: 10-11 Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua.

[Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio; la tua lode, come si conviene al tuo nome, si stende fino alle estremità della terra: la tua destra è piena di giustizia.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.

Largíre nobis, quǽsumus, Dómine, semper spíritum cogitándi quæ recta sunt, propítius et agéndi: ut, qui sine te esse non póssumus, secúndum te vívere valeámus.

[Concedici propizio, Te ne preghiamo, o Signore, di pensare ed agire sempre rettamente; così che noi, che senza di Te non possiamo esistere, secondo Te possiamo vivere.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII: 12-17

Fratres: Debitóres sumus non carni, ut secúndum carnem vivámus. Si enim secúndum carnem vixéritis, moriémini: si autem spíritu facta carnis mortificavéritis, vivétis. Quicúmque enim spíritu Dei aguntur, ii sunt fílii Dei. Non enim accepístis spíritum servitútis íterum in timóre, sed accepístis spíritum adoptiónis filiórum, in quo clamámus: Abba – Pater. – Ipse enim Spíritus testimónium reddit spirítui nostro, quod sumus fíli Dei. Si autem fílii, et herédes: herédes quidem Dei, coherédes autem Christi.

(“Fratelli: Non abbiam alcun debito versa la carne per vivere secondo la carne. Se, pertanto, vivrete secondo la carne, morrete; se, al contrario, con lo spirito farete morire le opere della carne, vivrete. Poiché, quanti sono mossi dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Invero, non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma avete ricevuto lo spirito di adozione in figliuoli, per il quale gridiamo «Abba! (o Padre)». E lo Spirito Santo stesso attesta al nostro spirito che noi siamo figli di Dio. Ora, se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo”).

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.]

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Che grande parola ha detto il Cristianesimo agli uomini quando ha detto loro: voi siete figli di Dio! Fuori del Cristianesimo, osservate, l’uomo o è avvilito o è adulato. Gli spregiatori dicono all’uomo: sei una scimmia, appena un poco più perfezionato. Gli adulatori dicono: sei un Dio, sei Dio… E gli uni e gli altri dicono parole che hanno sapore di falsità e riescono moralmente funeste; perché è funesta l’abbiezione del bruto, come è funesto l’orgoglio di un falso iddio, di un idolo. Il Cristianesimo appaga e non solletica i nostri istinti, le nostre aspirazioni di grandezza, quando ci dice: voi siete figli di Dio. Purtroppo noi abbiamo fatto l’abitudine a questa parola, ed essa, che dovrebbe riempirci di gioia e di legittimo orgoglio, per poco non ci lascia indifferenti. – Ma non fu così per le prime generazioni cristiane. San Paolo si esalta, si entusiasma analizzando e quasi assaporando la frase. Per meglio gustarla e illuminarla, Paolo contrappone la sorte nostra, di noi Cristiani, a quella dei Giudei, che furono pure per tutto il mondo antico, e prima che venisse Gesù, i depositari della religione vera. Ma quella loro religione era pervasa da un suo spirito, perché dominata da una sua idea. Lo spirito onde l’anima giudaica era pervasa nel suo momento religioso, ben s’intende, era spirito di timore, anzi di timore servile, perché per il fedele giudeo cresciuto alla scuola di Mosè e della sua Legge, Dio era il Padrone, il grande, il vero padrone, il Re, il Sovrano, alla guisa orientale. L’anima, davanti a quel padrone, temeva e tremava. Era la forza specifica della sua adorazione. San Paolo ne aveva fatta l’esperienza: aveva tremato anche lui e sofferto insieme e goduto di quel timore. Più sofferto che goduto, perché la sua anima avrebbe voluto aprirsi a sensi più nobili, come sono i sensi dell’affetto. Ma la vecchia legge non glielo consentiva. Ed ecco sopraggiungere Gesù, non più semplice profeta, e servo, ma Figlio di Dio veracemente, propriamente. Ed ecco annunziare agli uomini, coll’autorità sua di Figlio, che Dio è per noi e vuole essere Padre « Pater noster; » Padre già per diritto e fatto di creazione, ma assai più e meglio per diritto e fatto di redenzione; Padre dacchè ci ha dato per fratello vero il vero e unico suo Figlio. – Chiamarsi così per noi non è più una usurpazione — come non fu usurpazione per Gesù il dirsi eguale al Padre — o una metafora: è un diritto. Guardate — dirà un altro Apostolo agli stessi primi Cristiani, — quale carità ci ha usato il Signore, dandoci nome e realtà di suoi figlioli: « ut filì Dei nominemur et simus ». Il Cristianesimo ha fatto e fa lievitare in noi, in noi esalta tutti quegli elementi che già costituiscono un fondo di sbiadita rassomiglianza con Dio. Esalta col lume della fede il lume dell’intelletto, orma di Dio nella nostra anima; ci soleva a quelle verità che sono il segreto di Dio, che nessuno dei principi di questo mondo sarebbe arrivato a scoprire. Esalta la nostra coscienza e la spinge a desiderare e volere forme nuove e più atte al bene. È qui anzi, nella fornace dell’amore al bene, della carità, che si compie questa meravigliosa trasformazione del Cristiano, in figlio di Dio, simile — non uguale, privilegio questo di Gesù Cristo — simile al Padre. Trasformazione dovuta alla grazia, ma alla cui completa realizzazione noi dobbiamo collaborare, operando da figli di Dio. I filosofi dicono che l’opera segue l’essere e lo dimostrano. « Operari seguitur esse ». Siamo figli di Dio! E operiamo allora da figli di Dio, non da estranei, non da nemici. Siano divine le nostre opere, sia divina la nostra condotta. Per fortuna, quale sia la divina condotta di un uomo noi lo sappiamo, guardando a N. S. Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Verrebbe voglia di riepilogare con parola evangelica questa condotta divina, superiore sovrannaturale in un binomio: spirito e verità. Seguiamo le ispirazioni dello Spirito e non le suggestioni della carne; queste fanno l’uomo animale, bruto, inferiore, degenere; lo spirito, al contrario, ci dà l’uomo superiore, spirituale. E della verità siamo solleciti ed entusiasti: Dio in ciascuno di noi… Se procederemo così secondo spirito e verità, avremo la soddisfazione arcana e profonda di sentirci davvero figli di Dio: quello che pareva sogno superbo, sarà diventato per noi realtà consolante.

Graduale

Ps LXX: 1V. Deus, in te sperávi: Dómine, non confúndar in ætérnum. Allelúja, allelúja.

[V. O Dio, in Te ho sperato: ch’io non sia confuso in eterno, o Signore. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XLVII:2

Alleluja, Alleluja.

Magnus Dóminus, et laudábilis valde, in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. Allelúja.

[Grande è il Signore, degnissimo di lode nella sua città e sul suo santo monte. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. (Luc XVI: 1-9)

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: jam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii hujus saeculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula

 (“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Eravì un ricco, che aveva un fattore, il quale fu accusato dinanzi a lui, come so dissipato avesse i suoi beni. E chiamatolo a sé, gli disse: Che è quello che io sento dire di te? Rendi conto del tuo maneggio; imperocché non potrai più esser fattore. E disse il fattore dentro di sé: Che farò, mentre il padrone mi leva la fattoria? non sono buono a zappare; mi vergogno a chiedere la limosina. So ben io quel che farò, affinché, quando mi sarà levata la fattoria, vi sia chi mi ricetti in casa sua. Chiamati pertanto ad uno ad uno i debitori del suo padrone, disse al primo: Di quanto vai tu debitore al mio padrone? E quegli disse: Di cento barili d’olio. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo; mettiti a sedere, e scrivi tosto cinquanta. Di poi disse a un altro: E tu di quanto sei debitore? E quegli rispose: Di cento staia di grano. Ed ei gli disse: Prendi il tuo chirografo, e scrivi ottanta. E il padrone lodò il fattore infedele, perché prudentemente aveva operato: imperocché i figliuoli di questo secolo sono nel loro genere più prudenti dei figliuoli della luce. E io dico a voi: Fatevi degli amici per mezzo delle inique ricchezze; affinché, quando veniate a mancare, vi dian ricetto ne’ tabernacoli eterni”).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

L’ASTUZIA DEI FIGLI DEL SECOLO

C’era un uomo ricco che aveva un fattore. Ma alcuni invidiosi vedevano di mal occhio quel fattore e lo calunniarono presso il padrone. Il padrone lo fece chiamare e gli disse: « Belle cose che so di te! Ed io dormivo tranquillo, e avevo un ladro in casa. È tempo di finirla: tu sei licenziato ». Il fattore rimase fulminato; non tentò nemmeno di scusarsi. Che cosa dovere fare adesso che il padrone lo metteva alla porta? Mestieri non ne sapeva, d’elemosinare non ne aveva il coraggio. « Bene, farò così », decise in fine. E chiamò privatamente i debitori del suo padrone. E disse al primo: « Tu quanto devi pagare? — Cento misure d’olio. « Siedi in fretta; ecco la tua fattura. Facciamo le cose come fossimo in famiglia. Al posto di cento scrivi cinquanta ». Poi disse ad un altro: « E tu quanto devi pagare? ». — Cento pesi di frumento. « Prendi la fattura e scrivi ottanta ». « Ecco della gente, pensava poi contento in cuore, che tra poco mi aprirà volentieri le porte di casa sua ». Chi sa come, il padrone venne a sapere, e quantunque indispettito per la frode non poté non lodare l’astuzia con cui il fattore aveva agito. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — E questo lamento che sta nella parabola di Gesù, è vero anche per noi. Quanto interesse per le cose mondane e quanto disinteresse per le cose del cielo! Quanta astuzia nel fare il male e quanta trascuratezza nel fare il bene! Impariamo dai figli del secolo. – 1. FIGLI DEL SECOLO E I MISTERI DELLA NATURA. Quando Michele Montgolfier, con un pallone di carta gonfiato d’aria calda dimostrò a Parigi che l’uomo poteva volare nei cieli, un poeta esclamava: « O uomo! che più ti resta? tu hai saputo scoprire le origini del tuono; hai saputo imprigionare il lampo e disperderlo nelle voragini della terra; hai saputo descrivere l’orbita alle stelle e misurare la loro distanza; tutto hai saputo scoprire e domare: la terra, il fuoco, il mare, il cielo, le fiere ». E veramente l’uomo, « con brando e con fiaccola » ascende arditamente alla conquista del mondo anche sacrificando la propria vita. Plinio, soffocato dalle ceneri e dai lapilli ardenti, muore a Stabia per scrutare l’eruzione del Vesuvio. Colombo con tre caravelle si slancia nel mistero tenebroso dell’oceano. Galileo consuma la vista e la vita a scrutare le macchie del sole. Clemente Adler, uno dei primi aviatori, cade in un mattino umido, con le gambe sfracellate sotto l’apparecchio, ma con lo sguardo nei cieli che aveva tentato di violare. È una sete d’ignoto e di conquista che sospinge i figli del secolo. Si può dir così anche dei figli della luce? Anche per essi c’è un mondo da conoscere e da conquistare: il mondo dello spirito. S’incontrano talvolta dei Cristiani che confondono le tre Persone della Sacra Famiglia con le tre Persone della SS. Trinità; che confondono l’Immacolata Concezione con il virginale concepimento di Maria; che non sanno bene che cosa ricevono nella santa Comunione. Eppure, ogni festa, queste sublimi verità si spiegano nella Chiesa. Ma i figli della luce non vengono ad istruirsi, e non hanno vergogna della loro supina ignoranza, mentre arrossirebbero di non sapere certe nozioni d’elettricità. Quanta ammirazione nel mondo per l’uomo che slancia il suo veicolo ad una folle velocità, che in poche ore attraversa l’oceano, che con una forza bestiale di pugno atterra un suo simile. È per l’uomo che sa vincere l’astutissimo demonio, conservarsi nell’equilibrio del bene anche in mezzo a tanto male, volare nei cieli della santità, per l’uomo che in pochi anni, come S. Luigi, S. Stanislao, S. Teresa del Bambin Gesù, sa raggiungere la cima della perfezione cristiana, nulla o fors’anche un sorriso di compatimento. – 2. I FIGLI DEL SECOLO E GLI INTERESSI MATERIALI. È triste la partenza degli emigranti. Con gli occhi lacrimosi, col cuore martoriato da mille sentimenti, ascendono la nave e dalla tolda si rivoltano a salutare. Povera gente che varca i mari verso un destino ignoto! Lasciati i loro cari, la loro casa, il loro campicello, il paese dei loro giuochi e dei loro sogni, la patria, tutto; ma perché? Perché sperano di tornare un giorno ricchi, riabbracciare i loro vecchi e i loro figli cresciuti e passare con loro beatamente gli ultimi giorni. Anche i figli della luce devono pensare al loro avvenire: quando questo mondo finirà, ed entreranno nei regni eterni. Eppure, sono pochi quelli che sanno distaccarsi dai luoghi, dalle persone, dalle cose terrene per accumulare meriti per il cielo. Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. — Napoleone per conquistare un regno patì freddo e fame, stanchezza e sonno, e si espose più volte alla guerra. Eppure, il suo regno non fu che una meteora ed egli moriva, lacrimando, sulla scogliera brulla in mezzo al mare. Cesare, sospirando l’impero di Roma, combatté le difficili guerre coi Galli, e le più difficili con i suoi rivali; eppure egli raggiunse appena le soglie del sognato impero, che cadde, pugnalato, ai piedi della statua di Pompeo. Alessandro combatté con una forza di volontà non mai vista sopra la terra e quando ottenne la signoria del mondo lo raggiunse la morte, e con lui si sfasciò il suo impero. Ma se i figli del secolo sanno patire ineffabili tormenti, superare terribili difficoltà per raggiungere il regno d’un giorno, perché i figli della luce non sapranno sopportare piccoli patimenti, combattere le passioni, respingere la lusinga del mondo per conquistarsi un regno eterno di felicità inimmaginabile? Filii huius sæculi prudentiores filii lucis. – Due principi Romani andarono a far visita al beato Egidio che viveva in una grotta, pregando e macerando il suo corpo. Rimasti alcun poco in colloquio, i due mondani lo salutarono, dicendo: « O Padre! pregate per noi ». – « Che dite mai? — rispose frate Egidio. — Io pregare per voi?! Voi piuttosto pregate per me; voi che non tremate al cospetto di Dio, voi che non sudate per salvare l’anima, voi che fate tanto a fidanza con Dio!… Io?! non vedete come tremo di perdermi, e vado meditando lunghe giornate per sapere il modo di piacere a Dio, mentre voi non trovate difficoltà se non per le cose del corpo? ». I due principi abbassarono la testa, e se ne andarono senza più voltarsi indietro. Se le parole del beato Egidio bruciano anche sulla nostra coscienza, abbassiamo noi pure la testa davanti a Dio, e ritorniamo alle nostre case, oggi, con un fermo proposito. –LE RICCHEZZE E IL LORO USO. Il Signore è paziente e grande nella sua fortezza. Quegli che fa tremare i monti e disseccare gli oceani, un giorno disse a Nahum, suo profeta: « Va a Ninive ed annuncia i castighi di Javé ». Il messo di Dio accorse e predicò sulla piazza ad un popolo numeroso come l’arena del mare. « Voi avete fatto più gran numero d’affari che non sono le stelle del cielo. Ma ecco che il nemico famelico vi tiene d’occhio: e quando vi avrà visto ben pasciuti si getterà sopra di voi come una nube di cavallette sui campi biondi di spighe. Prenderanno l’argento, prenderanno l’oro e non vedranno la fine delle ricchezze nascoste nei vostri vasi. Le case saranno rovinate e le sostanze disperse: dissipata, et scissa et dilacerata » (Nah., II, 10). Quello che disse il Signore al suo profeta, lo dice Gesù a noi: oggi nel Vangelo ch’io vi presento. Che debbono fare i figli della luce? I beni acquistati in eredità, accumulati col guadagno, ottenuti con mezzi forse non del tutto onesti, sono chiamati « mammona di iniquità »: occasione, frutto, mezzo di ingiustizia. Quelli che li hanno a disposizione sono semplici amministratori, come l’economo della parabola: bisogna ch’essi stiano attenti a non defraudare il Padrone che sta nei cieli, ma ad amministrarli bene, a prelevare qualche cosa per i poveri, per essere ricevuti in cielo assieme a loro, che sono gli amici di Dio. Altrimenti la loro furberia sarà quella dei figli del secolo, e se la scamperanno in vita, non la scamperanno in morte: e le sostanze loro saranno et dissipata et scissa et dilacerata. « Ed io vi dico: fatevi degli amici per mezzo delle ricchezze materiali e dei beni di fortuna, affinché, quando veniate a morire, vi diano ricetto nelle tende eterne ».1. L’USO CATTIVO. Seneca, che fu un filosofo pagano, andava torturandosi un dì il cervello per sapere dov’è la vera sapienza. Gli accadde d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argilla, ma s’accorse che aveva in cuore tanta brama d’aver vasellame d’oro: concluse che quello non era un uomo saggio. Gli venne poi d’incontrarsi con un uomo che mangiava in un piatto d’argento, beveva in una coppa d’oro; lo interrogò e seppe che mangiava e viveva con tanta semplicità come se il vasellame fosse d’argilla; e concluse: questi è l’uomo saggio. Anche il Signore Gesù aveva detto chi erano i ricchi saggi ed i ricchi stolti, quando distinse due specie di poveri, quelli di spirito e quelli di mezzi. I poveri di spirito sono anche i ricchi, quando non sono attaccati ai beni della terra e non dimenticano quelli del cielo, e vivono in semplicità, con l’animo medesimo con cui vive anche il povero. Quando è così, buone sono le ricchezze, dice S. Agostino, perché sono usate come vuole Dio, per operare il bene. E la Scrittura chiama beato quel ricco « che si è elevato sino alla comprensione del povero e dell’indigente ». Ma quanto è difficile essere savi fra le ricchezze! Sentite ancora Gesù: «In verità vi dico: un ricco entrerà difficilmente nel regno dei cieli. E aggiunge: è più facile per un cammello passar per la cruna d’un ago che per un ricco entrare nel regno dei cieli »: e nel Vangelo di quest’oggi le ricchezze sono da lui chiamate mammona iniquitatis, perché spesso sono frutto, occasione, mezzo di iniquità. La S. Scrittura chiama la cupidigia simulacrorum servitus; ah! quanto è vera l’espressione, quando l’idolo di cui s’è schiavi è la ricchezza! Per l’avidità di possedere, quanti mali acquisti fa l’uomo! speculatore, gioca sul danaro altrui con false notizie; capitalista, sfrutta il bisogno con un interesse da usuraio; industriale, non ripaga equamente l’operaio; commerciante, altera il peso, la misura, la merce; operaio, inganna il padrone. Così le ricchezze sono frutto di iniquità. Quando le ricchezze si hanno, divengono spesso mezzo di peccato: e si pongono nello scrigno avaramente o si spendono all’osteria, nelle sale, nei teatri, per i piaceri, per il fango; così come il ricco Epulone e come il Figliuol Prodigo. Ah, è troppo inumano che il denaro grondi sudore altrui o sprema sangue, ah! è troppo vergognoso che divenga mezzo di peccato. Domandate alle famiglie in dissidio la causa perché son divise, e vi risponderanno: il denaro; domandate alla società la causa dell’odio, delle inimicizie, delle lotte fra il ricco ed il povero, e vi risponderà: il denaro; domandate a quell’uomo perché ha perso la fede, l’onore e vi risponderà: per il denaro; domandate a quell’altro perchè ha dimenticato il suo dovere e vi risponderà: per il denaro. Denaro, sempre denaro; ah! è una ben triste occasione di peccato, il denaro! E se poteste domandare a tanti e a tanti perché sono nell’inferno, ancora con un gesto disperato e con un singulto orribile vi risponderebbero: per il denaro. Morì il ricco e fu sepolto nell’inferno ». La furberia dei figli del secolo non chiude quelle porte di fuoco. – 2. L’USO BUONO. Nell’Antico Testamento vi erano due specie di sacrificio: un sacrificio che uccide la vita e un sacrificio che dona la vita. Noi conosciamo bene il primo: la giustizia divina, che fulmina e scuote e strappa i cedri del Libano, esigeva sacrifici di sangue che spruzzava di rosso l’altare, sacrifici di fuoco che consumava la vittima. Ma vi era l’altro sacrificio di cui parla l’Ecclesiastico: Qui facit misericordiam offert sacrificium. (Eccl., XXXV, 4). Se con sacrificio di sangue si onora la giustizia divina offesa, col sacrificio dell’elemosina si onora la bontà divina, dolce e amabile che vuole la vita del peccatore, che non ha pensieri di afflizione, ma pensieri di pace. « Beati questi misericordiosi, perché otterranno misericordia » disse Gesù nel Nuovo Testamento, e la otterranno più splendida nel dì finale. Nel dì finale il Re dirà a coloro che sono a destra: « Venite benedetti, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; sete e mi avete dato da bere; ero Pellegrino e mi avete ricoverato; nudo e mi avete vestito; malato e mi avete curato, prigioniero e mi avete visitato ». « Quando, o Signore, abbiamo fatto questo? ». – « Ve lo dico in verità, tutto quello che avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, lo avete fatto a me medesimo ». Ora le capite le parole del Vangelo: « Colle ricchezze fatevi amici che vi riceveranno in cielo »; quanti, dopo averle udite e dopo averle meditate, hanno distribuito ai poveri i loro averi, hanno riparato alla ingiustizia, hanno reso la merce defraudata: e si sono fatti amici in cielo. Ora le capite le parole della Sacra Scrittura: « La elemosina copre non solamente i peccati, ma la moltitudine dei peccati »; « come l’acqua estingue il fuoco, così l’elemosina estingue la colpa ». Ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che non si considera un padrone assoluto, ma nel tempo e secondo i limiti che il Padrone Assoluto Eterno ha stabilito: ora capite che il buon uso delle ricchezze è di colui che, quando ha soddisfatto alla propria necessità, alla convenienza della sua posizione, alla esigenza della sua famiglia, il resto lo dà ai poveri. Ora capite che l’elemosina diviene frutto, mezzo, occasione di giustizia. Chi ha rubato e non trova l’antico padrone, chi ha danneggiato e non può riparare il danno, chi ha ereditato male e non può far più nulla; tutti costoro con l’elemosina convertono mammona iniquitatis in frutti di giustizia che raccoglieranno in cielo. Colui che penetra nel cuore e nell’anima del tapino per diffondere un po’ di luce fra tanto odio, per portare la pace e la grazia del Signore fra tanta miseria e fra tanta colpa, costui conquista anime e fa veramente amici in cielo: l’elemosina è occasione di tanto bene. « Chiudi la limosina nel seno del povero, e questa pregherà per te contro ogni male: essa è come sigillo dinanzi a Dio che segnerà il libro di vita, essa è come pupilla dell’occhio di Dio e irraggerà di luce in cielo » (Eccli., XXIX, 15). –  V’è nella vita del B. de la Colombière questo piccolo episodio autentico. Un ricco gentiluomo di Francia era morto dopo aver vissuto la vita galante di società. Il primo marzo del 1680 un’umile e santa suora della Visitazione lo vede mentre prega in coro e ascolta le sue parole: « Ah! quanto è grande Iddio, e giusto e santo! Nulla è piccolo ai suoi occhi, tutto è pesato, punito, ricompensato ». « Avete ottenuto misericordia? » domanda la suora. « Sì, per le elemosine ai poveri ». E sparve. Costui ha trovato in cielo i poveri suoi amici: e fu salvo. Li troveremo anche noi, che ci spaventiamo, guardando ai nostri peccati e al giudizio di Dio?

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps XVII: 28; XVII: 32

Pópulum húmilem salvum fácies, Dómine, et óculos superbórum humiliábis: quóniam quis Deus præter te, Dómine? [Tu, o Signore, salverai l’umile popolo e umilierai gli occhi dei superbi, poiché chi è Dio all’infuori di Te, o Signore?]

Secreta

Súscipe, quǽsumus, Dómine, múnera, quæ tibi de tua largitáte deférimus: ut hæc sacrosáncta mystéria, grátiæ tuæ operánte virtúte, et præséntis vitæ nos conversatióne sanctíficent, et ad gáudia sempitérna perdúcant.

[Gradisci, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che noi, partecipi dell’abbondanza dei tuoi beni, Ti offriamo, affinché questi sacrosanti misteri, per opera della tua grazia, ci santífichino nella pratica della vita presente e ci conducano ai gaudii sempiterni.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de Spiritu Sancto
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. Qui, ascéndens super omnes cælos sedénsque ad déxteram tuam, promíssum Spíritum Sanctum hodierna die in fílios adoptiónis effúdit. Quaprópter profúsis gáudiis totus in orbe terrárum mundus exsúltat. Sed et supérnæ Virtútes atque angélicæ Potestátes hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: per Cristo nostro Signore. Che, salito sopra tutti cieli e assiso alla tua destra effonde sui figli di adozione lo Spirito Santo promesso. Per la qual cosa, aperto il varco della gioia, tutto il mondo esulta. Cosí come le superne Virtú e le angeliche Potestà cantano l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXXIII: 9 Gustáte et vidéte, quóniam suávis est Dóminus: beátus vir, qui sperat in eo.

[Gustate e vedete quanto soave è il Signore: beato l’uomo che spera in Lui.]

Postcommunio

Orémus.

Sit nobis, Dómine, reparátio mentis et córporis cæléste mystérium: ut, cujus exséquimur cultum, sentiámus efféctum.

[O Signore, che questo celeste mistero giovi al rinnovamento dello spirito e del corpo, affinché di ciò che celebriamo sentiamo l’effetto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (261)

LO SCUDO DELLA FEDE (261)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (4)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO IV.

I. Ogni religione è buona. II. Io rispetto ogni religione. III. Volete voi che vadano all’Inferno tutti quelli che non pensano come noi?

Che ci voglia una religione qualunque, sono pochi al mondo che osino negarlo: poiché solo che si riconosca un Dio, ognun vede che non può rifiutarglisi un qualche culto; ma pur troppo non songo pochi quelli che gli ricusano il culto, che Egli avrebbe diritto di riportare. E per potere disobbedire a Dio a man salva hanno dato credito a certi assiomi, i quali, ammessi per veri una volta, mettono in piedi mille disordini. Cominciamo dal principale. Ogni religione è buona, dicono, a che dunque affannarsi in tante ricerche ed in tante dispute di religione? Solo gl’intolleranti disconoscono questa gran verità, e pretendono che tutti pensino secondo il loro modo di vedere. – Questi bei principii li sentirete ripetere così spesso in mezzo al mondo, e talvolta perfino da persone di tal reputazione, che sarà un miracolo se li apprenderete per quelle gravissime iniquità che pare sono. Esaminiamoli un poco.

I. Ogni religione è buona. Questa proposizione racchiude la licenza di commettere il maggior delitto che si possa effettuare sulla terra. Perocché, che cosa vuol essa significare? Che qualunque atto d’idolatria, qualunque errore, in cui possa cadere un uomo rispetto alla divinità, è tanto buono quanto il possa essere l’atto più puro d’ossequio che si faccia alla medesima. Sono religioni quelle dei Giudei, dei Musulmani, dei Bramani, degl’irochesi, dei popoli di Sandwich, i quali rinnegano Gesù Cristo e si prostrano davanti a Maometto, a Buda, a Sciacca o ad un altro idolo qualunque. Se è buono ogni culto, bisogna dire che l’errore è la verità, l’onore di Dio ed il suo biasimo, il conoscerlo o l’ignorarlo, l’adorare Lui o l’onorare il demonio negl’idoli, è la stessa cosa. Quale mostruosità più portentosa di questa? Perché adunque nell’antica legge Iddio vietò con tanti comandi l’idolatria? Perché minacciò tante pene a chi v’incorresse? Perché punì con tanti castighi gl’idolatri, perché sterminò tante nazioni che la praticavano? Perché munì con tante cautele il suo popolo, acciocché non cadesse in quell’eccesso? Si è scoperto ora che è buona ogni religione, e che tutto è istessa cosa! Il popolo giudaico aveva pure una religione, prima che Gesù Cristo venisse sopra la terra; e religione vera, poiché riconosceva l’unico vero Iddio; e religione buona, perché l’onorava con pratiche sante e manifestate e volute dallo stesso Dio. Se ogni religione è buona, perché è venuto Egli a cambiarla e ad abrogarla? Se a Dio fa lo stesso qualunque culto, non vi era ragione di questo cambiamento. – Ma forse vorranno dire che ogni religione, almeno di quelle che in qualche modo riconoscono Gesù Cristo, è buona: se anche limitassero così la loro proposizione, non sarebbe essa meno empia, meno assurda. Contiossiaché chi non sa che le sètte protestanti sono divise in mille differenti partiti? Quelle dottrine, che hanno difeso con tanto ardore da principio, quasi universalmente le rigettano al presente. Quello che tengono i luterani, lo negano i calvinisti: quello che ammettono i calvinisti, lo ricusano gli scozzesi: quello che ammettono gli scozzesi, lo impugnano gli anglicani: quello che difendono gli anglicani, lo rigettano i dissidenti, e così via via. Ogni setta ha quest’oggi il suo simbolo, che invecchiando domani, domani sarà cambiato. Di che avviene, che mentre gli uni stimano rivelata una verità, gli altri non la credono rivelata né punto né poco. Tutto ciò è indubitato. Ora che cosa è il dire che tutte queste religioni sono buone ugualmente? È lo stesso che dire che è buono e vero ugualmente il sì ed il no: che è buono, a cagion d’esempio, adorare il SS. Sacramento nell’altare coi Cattolici, ed è buono, adorandolo, commettere un atto d’idolatria, come pensano i calvinisti: che è buono ricevere l’assoluzione dei peccati nel Sacramento di Penitenza, come vogliono i Cattolici ed è buono il farsene beffe, come usano gli anglicani: che è buono adorare Gesù qual vivo e vero Figliuolo di Dio, come colla Chiesa Cattolica fanno molte sètte, ed è buono lo stimarlo una semplice creatura, come fanno i sociniani e gli unitari. Ma che cosa è mai tutto ciò? È un chiaro beffarsi di Gesù Cristo, perché si viene a dire col fatto o che Gesù Cristo non ha manifestato colla sua rivelazione quello che voleva che si credesse e si praticasse, o che manifestandolo non ha saputo farsi intendere dagli uomini, o che finalmente non gl’importa punto né poco di quel che facciano o credano i suoi seguaci. Il che quanto sia ingiurioso a Gesù Cristo, quanto in sé stesso empio, si può intendere dall’importanza estrema che Gesù Cristo pose nell’istruirci della verità. – L’unigenito Figliuolo di Dio, travalicando una distanza infinita che da noi lo separava, si fa uomo: nella nostra umanità fattosi visibile, predica, insegna, inculca la verità, stabilisce una Chiesa, la fa depositaria della sua dottrina, le dona il suo Spirito, le promette la sua assistenza fino alla consumazione dei secoli, perché mai non cada in errore. Il Figliuolo di Dio manda a tutta la terra i suoi Apostoli, perché annunzino le verità che Egli ha predicate, le stabilisce con ogni maniera di prodigi, miracoli, grazie e virtù: le conferma col sangue più puro dei suoi fedeli: e dopo tanto aver fatto perché tutti gli uomini arrivino al possesso della sua dottrina, traggono avanti questi nuovi maestri e ci fanno sapere, come ci svelassero un gran segreto di perfezione, che a Gesù Cristo non importa nulla quello che altri creda o pratichi di religione: ma se questo non è un farsi gabbo degli insegnamenti divini, che sarà mai? E dopo di essersi beffati di Gesù Cristo, passano a beffarsi eziandio di tutta la Chiesa. Imperocché ergono cattedra contro la Cattedra che Egli ha eretto, insegnano direttamente il contrario di quello che essa insegna. E come no? se è buona ogni religione, non vi ha più eresia di alcuna sorta: eppure l’Apostolo colloca l’eresia insieme all’omicidio ed all’adulterio, vuole ehe l’eretico sia rigettato dai fedeli, afferma che gli eretici non saranno eredi del regno di Dio. Se è buona ogni religione, ebbe torto l’Apostolo san Giovanni, sia nell’ aver prescritto che non si ricevesse in casa l’eretico, sia nel non aver voluto porre il piede in un pubblico bagno, dove trovavasi l’eresiarca Cerinto, come testifica S. Ireneo. – Se è buona ogni religione, son ridicole tutte le raccomandazioni dell’Apostolo di conservare intatto il deposito della fede, e l’esattezza nel modo di favellarne, e son vane tutte le sollecitudini della Chiesa nel premunire i fedeli contro ogni novità nelle credenze. Se è buona ogni religione, furono inutili tanti Concilii e tante lotte sostenute contro gli eretici dai primi secoli della Chiesa infino a noi. Se è buona ogni religione, furono stolidi tanti Vescovi, tanti Sacerdoti e tanti fedeli, i quali sopportarono carceri e spietatissime morti per sostenere o contro gli ariani, o contro i nestoriani, o contro gli scismatici, o contro altri eretici la cattolica verità. Credereste? Se è buona ogni religione, non solo è inutile la vigilanza dei Sacerdoti nell’ammaestrare, nell’istruire; ma è inutile la fondazione della Chiesa, l’assistenza dello Spirito Santo e tutta l’opera di Gesù; poiché, anche prima della sua venuta in terra, vi erano delle religioni. Finalmente se è buona ogni religione, è inutile la predicazione dei ministri protestanti; sono inutili le declamazioni degl’increduli. Imperocché che accade che essi tanto brighino o per far diventar protestanti i Cattolici, o per farli deisti, atei, naturalisti e che so io? Se ogni religione è buona, essi nulla guadagnano ad averli dalla loro, e questi nulla perdono ad essere Cattolici; poiché anche il Cattolicismo è una religione, ed ogni religione è buona. – Di che vede ognuno come quella massima sì assurda è poi finalmente un insulto gravissimo anche alla ragione ed al buon senso degli uomini; poiché è cosa da frenetico e da dissennato l’immaginare che siansi ingannate tutte quante le generazioni degli uomini, perché tutte col loro zelo, col loro operare e perfino colle guerre di religione, mostrarono la persuasione in che erano, del non poter esser buona ogni religione. E per fermo, se altro che una non può essere in sè stessa la verità, se Gesù Cristo non ha fatto altro che una rivelazione, se solo quello, che Egli ha rivelato è vero, bisognerà pur dire che una sola sia la verità, una sola la Religione buona.

II. Che cosa vorrà dire adunque quella parola: io rispetto ogni religione? Vuol dire praticamente io non ne credo nessuna vera, o le stimo tutte dubbiose, o penso che sia questione cui non importi gran fatto il risolvere. Il primo è la negazione di tutta la rivelazione, è un dichiarare sofismi tutte quelle prove che hanno mosse sin qui i popoli ed i principi, i semplici ed i sapienti ad abbracciare il Cristianesimo; il secondo è un atto formale di apostasia, poiché chi dubita della sua fede è già infedele, siccome è noto; il terzo finalmente equivale a dire che è di poco rilievo che l’uomo colga la verità rispetto a Dio, che non importa quello che un Dio ha creduto importante a segno di venire dal cielo per insegnarlo, e finalmente che non monta nulla che l’uomo raggiunga il suo ultimo fine, al quale è rivolta tutta la religione.. Quello che a taluni fa gabbo in quel modo di dire, è una certa apparenza di filosofica sublimità e di tolleranza umanitaria, che i libertini amano grandemente sfoggiare: ma gli è appunto un’apparenza e nulla più, poiché non v’ha cosa più contraria ad ogni buona filosofia e ad ogni vera umanità, che un rispetto sì sciocco a qualunque culto. La filosofia è la prima che se ne risente, poiché chi ha mai udito un vero filosofo insegnare che egli rispetta ugualmente le sentenze contraddittorie? Se la filosofia è l’indagine della verità, l’acquetarsi nell’errore, e peggio giungere sino a rispettarlo, è l’atto meno filosofico che si possa concepire. Ma molto più è contrario ad ogni umanità vera. lmperocché, se l’umanità vera insegna a non disprezzare gli erranti, a compatirli, ad amarli, mai non ha insegnato a sopportare tranquillamente l’errore. Eppure, questo è che importa quel famoso detto. Io rispetto ogni religione: vuol dire io rispetto anche quello che so certamente non poter esser vero, poiché la verità non può trovarsi nelle proposizioni contraddittorie. Se voi diceste: invece io compatisco tutti gli erranti, io li amo, nè, perché sono nelle tenebre, voglio lor male, voi parlereste non solo da uomo ma ancor da Cattolico, di cui è proprietà, come dice S. Agostino, detestare i traviarnenti e compatire i traviati; ma il dire io riguardo i loro errori, le loro follie, le toro aberrazionine le rispetto, è tutt’insieme una balordaggine ed un’empietà. Una balordaggine, perchè è un dire che voi rispettate quello che al mondo merita meno rispetto, cioè la falsità: è un’empietà, perché venite a dichiarare di portare rispetto a quello cui Dio odia infinitamente, e che vorrebbe vedere sterminato dal mondo. Laonde quando d’ora innanzi vi si presenti il caso di udire alcuno di quelli, che affermano con gran presunzione che è buona ogni religione, che egli rispetta ogni religione, e voi osservatelo da capo a piè. Se vi avvedete che sia uno di quei fanciulloni, che, per darsi aria d’uomo spregiudicato, si lascia uscir dalla chiostra dei denti quella sentenza che neppure comprende, e voi, dopo d’averlo compatito sino nel fondo del cuore, se potete, fategli un poco di correzione; se vi avvedete invece che sia uno di quelli più profondamente iniqui, che mettono in campo quella proposizione conoscendone tutto il veleno, allora voltatevegli contro come una vipera, e smascheratelo e svergognatelo per guisa, che non osi più alla vostra presenza fare il filosofo, con disonore di Gesù Cristo ed a spese delle anime da Lui redente.

III. Volete voi che vadano all’inferno, soggiungono poi, tutti quelli che non pensano come noi? Lettore mio, io ho già risposto sopra a questa difficoltà, facendo vedere che non va all’inferno se non chi il vuole, poiché Iddio non manca di provvidenza né coi gentili né cogli eretici. Qui mi contenterò di opporre alla vostra interrogazione un’altra interrogazione. Voi mi domandate, volete voi che vadano all’inferno tutti quelli che non pensano come noi; ed io vi domando a rincontro, volete voi che entrino in paradiso gli uomini qualunque sia il modo in cui pensano? Ma allora perché il Figliuolo di Dio è venuto sulla terra a stabilite una Religione, perché ha abrogate le altre, perché ha dichiarato con solennità che chi non avesse creduto a Lui sarebbe stato condannato? Oh, che? Avrebbe mai Egli fatto tante leggi, minacciate tante pene, e, che più è, incontrate e sopportate tante umiliazioni nel farsi nosiro maestro, per lasciare poi ad ognuno il diritto di fare quel che gli piace? Che cosa ne dite? La fede cattolica insegna ad ognuno che Dio vuole la salute di tutti sinceramente, ma vuole che l’acquistino per quella via che Egli ha tracciata, e dove noi facciano quando il possono, infallibilmente li condannerà. Il solo caso, che, può sottrarli ai fulmini della divina giustizia, è quell’ignoranza che non si può vincere perché non sospettata; ma in questo caso (secondoché abbiamo detto) essi saranno aiutati da Dio, prima perché comincino a fare quello che possono nello stato in cui sono, e poi perché abbiano il potere di fare quello che non possono ora: ma Iddio non salverà il Turco lasciandolo Turco, né l’idolatra lasciandolo idolatra; sebbene colla sua grazia il trarrà fino alla verità che è necessaria alla salute, e chi si arrenderà alla grazia divina, giungerà a salvamento, chi resisterà e si rimarrà infedele, perirà miseramente. – Quindi è che quei che si perdono, non vanno all’inferno perché non pensano come noi, ma perché sono infedeli alle grazie che ricevono, perché per loro colpa non pervengono a pensare rettamente siccome debbono. Né si vuole recare in dubbio questa dottrina per una compassione sciocca, né per un sentimentalismo romantico, né per un umor fantastico di filantropia. Il Signore che ha creato gli uomini e che li ha redenti li ama alcun poco più di noi; e se Egli ha così determinato, non tocca a noi a rifargli i disegni, ed a sostituire le nostre corte vedute alla sua provvidenza. Del resto volete voi vedere dove andrebbe a parare in ultimo questa teoria sentimentale? A distruggere tutta l’opera di Gesù Cristo sopra la terra, ed a fare il passaporto a tutti gli errori. Infatti voi affermate che Dio non può condannare quelli che non pensano come noi, ed applicate questo detto ai protestanti, agli eretici, a quelli che hanno almeno qualche conoscenza di Gesù Cristo: ma chi impedisce ad un altro più compassionevole di applicare quel detto medesimo ai musulmani, agli idolatri? Oh perché non dovranno andar salvi anche loro? Ma stabilito questo principio ed allargato il cuore alla compassione, non si vede perché non si debba stendere la salute anche al razionalista, al panteista, al deista, i quali finalmente non hanno altro torto che di onorare Dio a loro modo. I libertini certo non dovrebbero essere condannati, poiché ancor essi non sono rei di altro che di non pensar come noi. Dirò di più. Nerone, Giuda, gli stessi demonii dell’inferno che cosa hanno fatto? Hanno pensato a loro modo e nulla più. Se la compassione ha da far la legge, è evidente che il Cristianesimo si rende inutile, poiché ognuno che pensi a suo modo ha ugual salute. Lettor mio caro, questo è il colmo dell’assurdità. Iddio è verità, è giustizia, è santità, non è solo misericordia. Gesù Cristo ha pronunziato che chi crederà in lui e sarà battezzalo sarà salvo, e che chi non crederà, sarà condannato, e bisogna che sia così. L’Apostolo ha detto che senza fede è impossibile piacere a Dio: dunque ci vuole la fede. Conformemente a questa dottrina, lo stesso Apostolo collocò l’eresia tra gli omicidii e gli adulterii, ed affermò che chi si nude colpevole di essa non erediterà il regno dei cieli; dunque è chiaro che ne rimarrà escluso. Queste ed altre infinite sentenze delle Scritture, l’autorità della santa Chiesa, la tradizione di tutti i Padri ci assicurano che non vi è salvezza fuori della vera fede di Gesù Cristo: non basta adunque pensare di essere nel vero, quando vi è obbligo e mezzo di non pensare in tal guisa. Che se questo ha luogo per tutti gli uomini, e se anche gl’infedeli, anche gli eretici hanno d’uopo di fare quello che possono per giungere a mano a mano fino alla verità, come saranno scusabili i volteriani, i libertini, i quali vivono in mezzo a noi? Questi rigettano il Cristianesimo dopo d’averlo conosciuto; il rigettano per seguire la corruzione del loro cuore, il rigettano malgrado i rimorsi che provano nella coscienza, e con un affronto indicibile a quel Signore che, per sua pura misericordia, avevali illuminati, e poi pretendono che ad ogni modo li abbia a salvare la divina bontà. – Affè sì che Dio muterà i suoi disegni, renderà fallaci le sue parole, ritirerà le sue minacce, e spalancherà loro le porte del cielo per non privarsi della loro compagnia! Ah presunzione impudentissima di vermi schifosi, i quali poco meno che non credono di essere necessarii alla divinità! Ah si persuada bene ognuno, che non gioverà ad un reo la compassione di un altro reo, dove il giudice protesti di non usar compassione.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo secondo (1)

L’ATTIVITA’ MORALE

Dopo d’aver contemplato dalla riva l’oceano dell’Amore nella sua divina bellezza, dobbiamo sfidare le acque. Anche noi col poeta esclamiamo: Necesse est navigare. E per non esser travolti dalle onde, cominciamo ad esaminare la piccola nave, con cui potremo solcare con sicura tranquillità il grande mare della vita. Essa si chiama “l’attività morale”, risultante dalle singole azioni buone, le quali, pur essendo diversissime, concordano tutte nella loro caratteristica essenziale. Se analizziamo accuratamente uno di questi atti morali, in modo da non confonderlo con altri nostri gesti, noi vi distinguiamo con precisione tre aspetti:

1. L’azione morale può essere riguardata in ciò che appare esternamente, nella sua materialità oggettiva, in quanto atto esteriore.

2. Inoltre, la possiamo cogliere nei principi interiori, dai quali procede, in quanto le nostre intime energie spirituali, intellettive e volontarie la producono.

3. Finalmente, possiamo considerare l’elemento soprannaturale, che divinizza il nostro atto morale e lo rende cristianamente buono e soprannaturalmente meritorio. Il bene in sè, l’atto buono, l’atto cristiano: ecco tre problemi, che s’impongono alla attenzione e dalla cui soluzione dipenderà poi la navigazione nostra, ossia la nostra condotta.

I. – IL BENE

Ricordo un episodio, ricco per me di insegnamenti. Tenevo un corso di morale cattolica in un istituto superiore, frequentato da numerosi studenti, che possedevano una cultura generale non del tutto disprezzabile. In una delle prime lezioni, entrato in classe, pregai gli uditori di prendere un foglio di carta, che non doveva portare la firma dello scrivente, e di voler rispondere al seguente problema: « Tutti ammettono che assassinare un amico per derubarlo, bestemmiare Dio, disubbidire ai genitori e così via, sia un male; come, parimenti, tutti riconoscono che è un bene aiutare e soccorrere il povero, ubbidire all’autorità legittima, e via dicendo. Perché mai — secondo il Cristianesimo — alcune azioni sono definite in sé come cattive e poste nella categoria del male, ed altre considerate buone e messe nella categoria del bene?». Raccolsi i fogli, che dovevano rivelarmi in qual modo quel gruppo di studenti mi risolveva la questione. E subito cominciai a leggere ad alta voce ed a commentare le soluzioni proposte. – Uno diceva: « Un’azione è buona in sé o cattiva, perché così la qualifica il Vangelo ». Oh! e perché mai il Vangelo la qualifica in tal modo? forse senza nessun motivo?… E prima che fosse scritto il Vangelo, non si poteva forse distinguere un’azione buona da una cattiva? Un’altra risposta era redatta in questi termini: « Io chiamo buono un atto che la Chiesa mi propone; cattivo un atto che la Chiesa mi proibisce ». Ma, ancora una volta: perché la Chiesa mi comanda o mi consiglia certi atti? e perché me ne vieta altri? Potrebbe forse la Chiesa dichiarare lecito l’omicidio e il furto? Evidentemente no; e perché?… Ed anche quando vieta cose in sé lecite, come il mangiar carne al venerdì, di modo che esse non sono proibite perché cattive, ma son cattive solo perché proibite, per quale motivo la Chiesa fa questo? – Una terza risposta cercava la soluzione nella voce della coscienza: « È la mia coscienza, che mi avverte intorno a ciò che è bene o è male. Ecco la vera norma della moralità. Ed è vero che la voce intima della coscienza mi sussurra: « Assassinare l’amico è un delitto; beneficare questo povero è un bene »; ma perché la coscienza mi dichiara la prima cosa un delitto e la seconda una buona azione? Forse per un istinto cieco ed ingiustificato? O non piuttosto per un’altra ragione? Altri osservava: « Un’azione è in sé buona, se è premiata col paradiso; è cattiva, se è punita con l’inferno ». No, — io esclamai — la verità è semplicemente l’opposto di quanto mi si asserisce: un’azione non è buona, perché è premiata col paradiso; ma è compensata col paradiso, perché in sé è buona; un’azione non è cattiva, perché è punita con l’inferno; ma è punita con l’inferno, perché in sé cattiva. – E frattanto il problema resta. Qualcuno si appellava al consenso universale dei popoli: “Il bene è il bene, e il male è il male, perché tutti ammettono questo ». Oh! e se tutti, domani, con un plebiscito mondiale, dichiarassero lecite la calunnia e la rapina, queste azioni diverrebbero buone? E poi: perché tutti proclamano l’immoralità del calunniatore e del furfante? Qualche altro si rivolgeva al concetto di utilità: « Una leggenda cosa è buona, se è utile a me », oppure « se è utile alla patria e alla società »; in caso contrario è cattiva. Io obbiettavo: che supponete che potessi rubare un milione, senza incappare nelle reti della giustizia; possedere una simile somma, mi sarebbe certo utile; con ciò dichiarerò io il mio furto un bene? Ancora: se una nazione forte e ben agguerrita si trova dinanzi ad una nazione debole, può esser utilissimo alla prima invadere e annettere a sé l’altra terra; battezzeremo noi una tale prepotenza col nome di bene? Per tacere di altre curiosissime risposte, una ve n’era che ricorreva a Dio. « È bene ciò che Dio ha voluto comandarci di fare! È male ciò che Dio ci proibisce’. Chi scriveva questo, quantunque fosse nel vero affermando che Dio è il padrone supremo degli esseri ed in qualche caso può mutare l’ordine delle cose, tuttavia, senza saperlo, aderiva al volontarismo cartesiano, perché, secondo Descartes, la verità degli stessi primi principi e la moralità degli atti dipende dalla volontà divina, la quale avrebbe potuto stabilire che il principio di contraddizione è falso ed il matricidio è una virtù. Ahimè! Tutto ciò ripugna alla nostra ragione ed alla nostra coscienza morale: il matricidio è un male, non perché è stato proibito; ma è stato proibito, perché è un male. Ed il rispetto alla madre è un bene, non solo perché è stato comandato da Dio; bensì è stato comandato, perché è un bene, il quale bene, in ultima analisi, si fonda sull’ordine inteso e voluto da Dio. – Qual è, dunque, la « norma della moralità »? Come si risolve questo problema, che è stato da alcuni chiamato « il Rubicone dell’etica »? Dobbiamo forse dinanzi ad esso ripetere ciò che sant’Agostino confessava a proposito del tempo: « Se non mi chiedi cos’è il tempo, lo so benissimo; ma se me lo chiedi e cerco di spiegarlo, mi confondo »? Per null’affatto. Cerchiamo di elaborare, in modo elementarissimo, tre concetti:

l’Essere, l’essere in quanto è conosciuto e l’essere in quanto è voluto; ed allora vedremo perché un atto è in sé buono o cattivo.

1. – L’Essere e gli esseri.

Nella concezione cristiana, Dio è il centro dell’universo. Da Dio, Essere per essenza, Essere perfettissimo, che è la pienezza dell’essere ed ha in se stesso la ragione della sua esistenza, sgorgano per una libera azione creatrice tutti gli altri esseri. Come da una sorgente zampilla l’acqua, così da quest’unica fonte — Iddio — deriva tutto ciò che esiste. Come da un unico sole discendono innumerevoli raggi, così da Dio provengono tutte le creature. Come in un’unica mente sorgono mille e mille pensieri, così dalla mente divina vengono ideate tutte le cose e la sua volontà decreta il loro passaggio all’esistenza. L’origine di tutti gli esseri dipende quindi dall’Essere; la loro possibilità, la loro esistenza, la loro natura, la loro conversazione, il loro sviluppo ha riferimento all’Essere; il loro fine ultimo è ancora l’Essere, Dio. E si noti. Tutti gli esseri creati non sono ammassati gli uni accanto agli altri in un caotico disordine. Dio è la suprema Ragione e perciò l’ordine è intrinseco a ciò che Egli produce. Gli esseri sono fra loro da concepirsi come le lettere e le parole di un libro, o, se si vuole, come le note in un’opera musicale. La verità delle lettere e delle note, la loro individualità, la loro disposizione, debbono essere riguardate dal punto di vista dell’unico pensiero che le ispira e le vivifica. Quelle lettere, quelle note hanno fra di loro dei rapporti e guai se io turbo l’ordine di essi! Rovino il senso della pagina, o l’armonia della musica. Così anche si dica degli esseri creati: ci si presentano in una splendida coordinazione, che tutti li unifica in Dio. Non c’è nulla al mondo che meriti disprezzo; ogni cosa ha la sua funzione da compiere; ma ogni cosa deve conservare il suo posto. C’è in altre parole, una serie di rapporti fra gli esseri; c’è una gerarchia, derivante dalla loro natura e dal compito che debbono soddisfare; e nessuno ha diritto di turbare e di calpestare questo ordine: nessuno ha diritto di rovesciare ; apporti, perché l’Assoluto, il Necessario, la Causa delle cause, è Dio; noi non siamo se non esseri dipendenti, contingenti, causati, relativi, che veniamo da Lui, esistiamo in Lui, andiamo a Lui. – Questo grande principio della centralità di Dio fu da tutti i secoli cristiani riconosciuto, proclamato ed inculcato.

Paolo di Tarso — come ho rilevato nel mio volume sull’Anima dell’Umanesimo e del Rinascimento — insegnava il suo “nihil sine voce” ed in ogni essere coglieva una parola che orientava l’animo suo a Dio; Agostino d’Ippona concepiva l’universo come una armonia, di cui ogni cosa era una nota osannante alla divinità; Benedetto da Norcia, discorrendo con la sorella Scolastica, si estasiava all’idea di Dio; Francesco d’Assisi, fra il verde della sua Umbria e il gorgheggio degli uccelli, innalzava al cielo il Cantico di Frate Sole; nelle Somme medievali ogni articolo era una pietra di questa stupenda basilica. Poemi quali la Divina Commedia e poemi di marmo come il San Marco di Venezia, il Duomo di Pisa, la chiesa di Amiens, di Chartres e di Strasburgo, il Duomo di Milano e di Colonia; gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio col grido programmatico: Ad maiorem Dei gloriam; tutta la dottrina, insomma, e la vita e le opere grandi del Cristianesimo inculcano ed esprimono la stessa idea: Dio è il centro di tutto e come tale deve essere riconosciuto dagli individui e dalla società.

2. – L’essere in quanto è conosciuto

Se questo è l’essere, cos’è la verità? Noi sappiamo che è il pensiero ciò che distingue l’uomo dal bruto. Anche il bruto è un essere, e vive e si muove fra gli esseri. Ma non conosce ciò che è l’essere. Solo il pensiero può scrutare la realtà, studiare le varie categorie degli esseri, cogliere i loro rapporti, la loro subordinazione, la loro relazione con Dio. In questa indagine paziente, mediante la quale si formano le varie scienze e si giunge poi alla loro sintesi ed alla sapienza, noi possiamo cadere nell’errore, quando la nostra intelligenza non coglie la realtà come essa è ed i rapporti che in essa esistono; siamo nella verità, quando la nostra ragione conosce l’essere come realmente è. La verità, quindi, ci dà l’essere in quanto è conosciuto. E tutta la storia della cultura umana, gli sforzi dei filosofi e dei pensatori e le ricerche degli scienziati ci raccontano la splendida battaglia dell’uomo per strappare all’universo il velo oscuro che lo ricopre e per assurgere da esso a Dio. Come lo studioso che vuol decifrare un’iscrizione comincia a ricostruire i caratteri che la compongono e poi risale al pensiero che vi si nasconde e la spiega, così la ragione nostra, con le sue forze e alla luce della rivelazione, dopo di aver esaminati i diversi caratteri nei quali è scritto il volume del mondo (varie scienze), cerca di interpretarli e di leggere in essi l’idea che Dio vi ha espresso (filosofia e religione). Per il Cristiano, di conseguenza, è ridicola una scienza negatrice di Dio. Ed ogni disciplina scientifica, ogni scoperta, ogni progresso culturale è da benedirsi, perché, in una o in altra forma, ci serve a farci penetrare nell’intimo cuore degli esseri ed a farci risalire all’Essere degli esseri.

3. – L’essere in quanto è voluto Ma noi non siamo solo pensiero; siamo anche volontà e libertà. Conosciamo gli esseri ed i loro rapporti; ed, in seguito, la nostra libera attività si svolge. Quand’è allora che la nostra azione è buona? La risposta è semplicissima: quando noi rispettiamo la natura degli esseri ed i loro rapporti. Quando, dopo di aver conosciuto col pensiero tale natura e tali gerarchie, agiamo praticamente secondo tale ordine, noi facciamo il bene. Se al contrario, conoscendo gli esseri e la loro concatenazione, calpestiamo, rovesciamo, infrangiamo l’ordine, noi commettiamo il male.

Ad esempio: perché il furto è un male? Per questo motivo: la nostra ragione conosce noi e gli altri uomini; vede come vi son fra gli uomini rapporti di giustizia, che non debbono essere violati; chi praticamente disconosce tali rapporti e ruba, è reo d’una cattiva azione. Perché la bestemmia è un male? Per questo motivo: la ragione conosce Dio e l’uomo; vede qual è la natura di Dio, l’Essere perfettissimo, nostro principio, nostro fine e nostro aiuto; vede qual è la natura umana, che dipende da Dio e deve amare il suo Creatore e benefattore. Siccome la bestemmia non riconosce praticamente quest’ordine, ma anzi lo capovolge, è in sè un male. La preghiera, al contrario, è in sè un bene, perché è il riconoscimento dell’Essere e dell’ordine. Così si ripeta di ogni qualsiasi legge etica. La regola, il criterio, la norma con cui giudichiamo la moralità o l’immoralità d’un’azione, il metodo pratico per discernere il giusto dall’ingiusto, il lecito dall’illecito, l’onesto dal disonesto, è sempre quella che san Tommaso in parole limpide e profonde sintetizzava così: « Agisci in modo che il tuo atto sia secondo la retta ragione’, la quale è un riflesso, un’immagine della Ragione divina. « Sic age ut actus tuus sit secundum rectam rationem ».

Perciò un desiderio cattivo acconsentito è un male, perché è contro la retta ragione. E si vada dicendo per ogni qualsiasi atto, che si debba o si voglia compiere. – Si noti: per giudicare se un atto è buono, non basta guardarlo nella sua oggettività astratta, ma occorre altresì considerarlo nelle sue circostanze concrete. Ottima cosa è, ad esempio, pregare tenendo le braccia alzate verso il cielo; e se questo lo si fa nella propria stanza, dove solo il Padre divino vede, può servire ad eccitare maggiore devozione; ma che direste voi di chi nella chiesa parrocchiale del suo paese dovesse fare un simile gesto? È un bene che lo studente abbia a… studiare; ma se, mentre è a pranzo, volesse sfogliare un libro, voi glielo togliereste di mano e gli dareste un cucchiaio o una forchetta. È un atto di carità dar da mangiare agli affamati; ma se si tratta d’un convalescente, che non ha ancora del tutto superato il tifo ed al quale il medico ordina una dieta rigorosa, sarebbe un atto di stoltezza offrirgli del pane o dei dolci, poiché vi sarebbe il pericolo immediato d’una ricaduta. Insomma, non si può prescindere dalle circostanze, per valutare una azione morale, quest’ultima non dev’essere riguardata solo astrattamente, bensì nella sua concretezza. – Ancora. Si capisce perché alcuni popoli barbari o pagani, ed alcuni individui, sbagliano certe volte nel ritenere buona un’azione che in sè è cattiva. La verità è la base della morale; e siccome la loro mente erra nel cogliere la natura dei rapporti fra gli esseri, cosicché non si proporziona alla verità, da Dio stampata nell’ordine delle cose, abbiamo i loro spropositi in fatto di etica. Le passioni e l’ignoranza possono oscurare l’intelligenza umana: l’uomo, in tal caso, agisce non secondo la retta ragione, ma secondo un errore. – Gli antropofagi, perciò, non meritano le difese di Benedetto Croce; non giudichiamo della loro coscienza e della loro responsabilità; diciamo solo che, se anche fossero in perfetta buona fede, l’antropofagia sarebbe un male, derivante da una perversione di giudizio. – La risposta al problema, posto all’inizio di questo capitolo, è, quindi, limpidissima: un’azione è in sé buona, quando risponde all’ordine della retta ragione; è in sè cattiva, quando praticamente non riconosce questo ordine stesso. Dire bene è dire razionalità; dire male è dire irrazionalità. Il bene è il rispetto dell’ordine; il male è il disordine. E si noti: non è la Chiesa, non è lo Stato, non è l’individuo che creano la morale ed i suoi principi; tutti li debbono riconoscere e praticare; solo in tal modo si ammette davvero — e non solo a chiacchiere — l’esistenza di Dio e la sua centralità nell’universo, come ordinatore dei singoli esseri. Dinanzi alla evidenza di simili deduzioni, è superfluo insistere sull’obbligo morale che l’uomo ha di fare il bene e di evitare il male. Noi siamo liberi, è vero, e possiamo scegliere fra il bene ed il male; ma il primo principio morale ci grida nella nostra coscienza che il bene è da fare ed il male è da evitare e noi abbiamo il dovere di praticare il primo e di fuggire il secondo. Questo obbligo, questo dovere proviene dalla stessa natura delle cose. Non siamo noi l’Assoluto, come già avvertimmo, né abbiamo il diritto di rovinare l’ordine e la razionalità del reale. Quando stoltamente agiamo in modo diverso, è un’ingiuria che facciamo non solo a Dio, ma altresì alla ragione nostra che viene da Lui; ed è la rovina nostra ed altrui che procuriamo. Chi batte la via dell’ordine e delfa ragione, è sulla strada della moralità ed anche della felicità; chi batte la via del male, si trova sulla strada opposta.

4. – Il bene e l’amore.

Ripensiamo ora un istante questi supremi principi della filosofia perenne in funzione del concetto cristiano di Amore. Dio è Amore, è bontà infinita; e noi, memori sempre della bella parola di san Tommaso che il bene tende a diffondersi: « Bonum est diffusivum sui », non salutiamo Dio soltanto come centro di ogni essere, ma piuttosto come centro d’irradiazione dell’Amore. Prima che le creature siano, Egli le conosce e le ama. E questo solo vero Dio, mi si permetta di usare le espressioni dei Concili, soprattutto del Concilio Vaticano, per sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per acquistare od aumentare la sua beatitudine, ma solo per manifestare la sua perfezione mediante i beni che conferisce alle creature, liberissimamente ha creato. Ogni essere, ognuno di noi è opera del divino Amore. Dovunque c’è un essere, là palpita l’Amore di Dio. L’Esssere e il Bene coincidono, notavano gli antichi sapienti; e noi Cristiani possiamo soggiungere: coincidono l’Essere e l’Amore. Siccome, poi, gli esseri non vivono isolati, separati, ma fra loro si coordinano; siccome ognuno con grido vibrante di amore, tutto il loro complesso è una sinfonia sublime, dove la voce di ciascuno si fonde con la voce di tutti, in un solo canto di gloria, che non solo nulla fa perdere ai singoli, ma fa sì che ognuno si arricchisca delle vibrazioni del tutto. Dio è il vero Bene, l’Essere supremo, il supremo Amore. Ed appunto perché ci ama non può trascurarci, non può disinteressarsi di noi (come sospettava una ridicola obbiezione di alcuni sofisti), come altresì non può non volere la nostra felicità. Egli quindi, anche per l’amore che porta a noi, vuole che osserviamo l’ordine, che rispettiamo le leggi della ragione, che seguiamo la norma del bene. Se c’impone i comandi categorici della morale, è perché ci ama. Se ci permettesse di trasgredirli, non ci amerebbe, perché ci consentirebbe di cadere in un precipizio. Può un padre, un Dio concederci questo? Siccome il suo divino Amore vuole il bene delle sue creature, deve volere inflessibilmente che noi ci conformiamo alla sua volontà. Insomma, la legge morale e la sua obbligatorietà sono un frutto dell’Amore. – Non dobbiamo, dunque, esitare a definire la norma della moralità in termini di amore. La nostra azione è in sè buona, quando noi seguiamo la retta ragione, quando rispettiamo l’ordine, quando cioè la nostra volontà si conforma alla volontà di Dio. E siccome la volontà di Dio è volontà di amore, la nostra azione è buona, quando all’Amore rispondiamo con l’amore. Il bene è la libera rispondenza umana all’amore divino. Il male è il contrario, ossia è la negazione dell’Amore, anche se non giunge ad essere odio. Cominciamo già fin d’ora a spiegarci il fatto dell’immoralità dilagante. L’uomo dovrebbe tendere al divino Amore, centro dell’universo; Dio dovrebbe essere il centro dell’amore delle creature. Allora avremmo ovunque il bene che trionferebbe ed insieme avremmo la vera gioia. Invece, a centro dell’universo, noi praticamente poniamo il nostro piccolo io, l’amore sregolato per noi stessi e per le cose. – Io non so sottrarmi alla tentazione di riportare un altro brano del Tissot, che tolgo ancora dalla sua opera su La vita interiore semplificata. Mi sembra una pagina degna di meditazione:

« La vita naturale, la vita spirituale, press’a poco tutto in me è ispirato, regolato, diretto, dominato dalla mia soddisfazione… Qual terribile esame di coscienza, s’io volessi penetrare i particolari intimi de’ miei pensieri, de’ miei affetti e delle mie azioni… Come in tutto, dappertutto, sempre, vedrei il maledetto istinto della mia soddisfazione egoista soppiantare più o meno la gloria di Dio!… In tutto! Oh! non saprò mai sino a qual segno la mia vita sia un disordine!… L’io dappertutto il primo… Dio continuamente messo al secondo posto o scartato. In ciò che faccio, in ciò che mi succede, in ciò che ricevo od evito, è l’io che vedo in prima linea. Amo per me: detesto per me…

« Questo è anche il gran male della società. Tutto in essa è organizzato per l’uomo, non per Dio; l’interesse umano domina tutto, ispira tutto, dirige tutto, riassume tutto. Che posto tiene la gloria di Dio nelle famiglie, nelle associazioni, nei corpi costituiti? Dov’è l’idea di Dio nell’industria, nel commercio, nelle scienze, nella politica, nella storia, ecc.? Nelle relazioni umane è l’interesse umano che assorbe universalmente le idee, gli affetti, gli sforzi; tutto converge là. L’idea di Dio e della sua gloria va indebolendosi e dileguandosi. L’uomo scaccia Dio.

« Prendo l’esempio della storia, che è forse il più sorprendente. Essa non dovrebbe essere che il quadro della gloria di Dio attraverso le vicissitudini umane, dell’azione divina in mezzo alle agitazioni umane; eppure, non è più che il quadro scolorito delle convulsioni dell’umanità. Così tutto mentisce alle sue origini e al suo fine. Ecco la grande eresia rivoluzionaria; l’uomo al posto di Dio. – Quale contrasto con ciò che mi mostra la Bibbia! Nella vita dei Patriarchi si sente Dio; il loro Dio è tutto per loro. Egli domina, ispira, dirige efficacemente la loro vita; nella loro storia si sente ad ogni istante passare il soffio di Dio. Lo stesso si verifica in tutta la storia del popolo eletto; è Dio il centro di tutto. Se le passioni umane fanno dimenticare il suo ricordo, i castighi lo richiamano; e, sotto la verga, il grido che sfugge e domanda la vittoria sui nemici è sempre in primo luogo l’onore di Dio: « Per la gloria del Nome vostro, liberateci, o Signore! ». E quando la vittoria è ottenuta, si fa festa dovunque, perché Dio è glorificato. Quando Mosè, Giuditta, Ester vogliono ottenere la salute del loro popolo, lo fanno invocando la gloria del Nome di Dio, e per motivo della sua gloria Dio salva il suo popolo. Nei salmi, poi, qual posto occupa la gloria di Dio! Essa è lo scopo supremo e costante di questi canti sublimi.

« Nelle età e nei paesi di fede, quale posto più pratico e più vivente aveva Dio nelle abitudini dei popoli fedeli! Nulla. Lo esprimeva così vivamente come il linguaggio popolare. È nell’intonazione della conversazione familiare che meglio si riflette lo stato dell’anima. E come si parlava di Dio, nei tempi e nei luoghi in cui le idee della fede avevano il loro impero dominante! Il Nome divino si udiva ad ogni istante con opportunità e verità ammirabili. Con quanta semplicità e profondità si diceva: grazie a Dio, Dio sia benedetto, a Dio mercé, a Dio piacendo, con l’aiuto di Dio, ecc. Gli atti privati erano cominciati col segno della croce, gli atti pubblici stessi in nome della SS. Trinità, le leggi decretate in nome di Dio. L’uso delle primizie, retaggio dell’antica legge, che gli consacrava i primogeniti di tutte le cose; l’autorità paterna, giudiziaria, civile, che agiva come per delegazione divina; il rispetto delle persone, delle solennità e delle cose sante; l’orrore e la punizione della bestemmia, e tanti altri usi, purtroppo da noi lontani, dimostrano praticamente come l’idea divina teneva in tutto il primo posto. Dio era vivo nelle idee e nei costumi, negli usi e nelle istituzioni. La miseria umana s’affermava senza dubbio, perché essa si afferma sempre: ma anche Dio si affermava al di sopra della miseria dell’uomo. Si sentiva che Egli era il re degli animi e dei corpi, degli individui e dei popoli, del tempo e dell’eternità, e la sua regalità restava al di sopra di tutto ». – Perché il bene ritorni a fiorire sulla terra, è necessario che il Sole di Dio risplenda e tutto ancora riscaldi coi suoi raggi d’amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (5)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (43): “INDICE DEGLI ARGOMENTI” -II-

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (43): INNDICE DEGLI ARGOMENTI-II

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

A. — DIO CHE SI RIVELA

1. Attitudine del naturale intelletto umano.

A 1a a. — ATTITUDINE ALLA  CONOSCENZA IN GENERE

L’ordine della conoscenza umana è duplice: cognizione della ragione naturale e dalla fede 2856 3015.

Scienza naturale: sua libertà di conoscere 3019 (3457); ma  non è da escludere la ragione della rivelazione. 2859 2914 (3405).

La sola ragione — : può acquisire ogni scienza distinta dalla scienza suprannaturale rivelata, e la verità puramente naturale, razionale, morale. 2766; modo in cui essa si acquisisce (sec. Tomismo) 3618-3620.

— si può difendere il valore della cognizione naturale umana in genere e dei principii metafisici 2767 3892; in specie dei principii della ragione sufficiente, della causalità, finalità 3892; peccano per difetto le asserzioni 1028-1042 1048.

— si può dimostrare la aspiritualità dell’anima umana, l’immortalità, la libertà a-b 2766 a-e. 2812.

Nella scienza dei libri dell’occulto e del futuro nulla è da sperare dall’astrologia, dagli auguri, dai sortilegi e simili: cf. K 2de; libri vietati delle cose proibite 1859; sono riprovati il magnetismo e lo spiritismo in qualunque senso applicati. 2825 3642.

A lb.  b. — ATTITUDINE ALLA CONOSCENZA DELLE VERITA’ RELIGIOSE.

1ba. L’Esistenza di Dio si può conoscere con certezza in modo naturale, perfino dimostrarla astraendo dalla rivelazione e pure dall’ausilio della grazia 2441 .2751 2756 ab 2765 ab2812 a2853 2855 3004 3538 3875 abc. 3890 3892; si riprova l’ateismo, l’agnosticismo, gli avversari della teologia naturale.3021s b3026 a3475.

Via di dimostrazione: non a priori 3622; non si può attaccare la fede ctr. atei (2754) 2812; è da arguire a posteriori: dagli effetti alla causa 3538 3622 (qui i vari modi)

Non si può provocare la cognizione immediata o l’intuizione di Dio col lume intellettuale del viatore 2841s 3201 3205.

1bb. L’Essenza di Dio può essere conosciuta secondo alcuni attributi già dalla sola ragione umana (2441) 2853 3875; tra questi la personalità di Dio 3890 3892;

L’infinita perfezione di Dio 2751; Dio principio e fine di ogni cosa 3004.

lbc si può conoscere con certezza l’Efficienza di Dio dalla ragione naturale, per quanto possibile —: creazione come tale 3004 3875; —: legge naturale morale 2866 3875 3892; —: divinità della rivelazione mosaica e cristiana 2752 2756; —: esistenza di Gesù Cristo ctr. asserzione [Chr. è una finzione mitica] 2907 (3540); —: miracoli e profezie a2753 ab2768 ab2907 ab3009 a 3034 a3428 a3436s; a favore del miracolo della Resurrezione di Cristo, si può arguire dalla tradizione 2754 (2768).

A 2 2. Nozione della rivelazi0ne.

Rivelazione (in senso stretto): è la locuzione di Dio agli uomini 2778 3004; determina il corpo della dottrina applicato alla salute per tutti gli uomini di ogni tempo. (800) 3459.

Si riprova: [Riv. Che sia opera meramente umana, invenzione filosofica] 2777 2781 2904 2907 3541; [riv. è se non in relazione con la coscienza dell’uomo rivolta a Dio] 3420 3464 3541.

3. Possibilità e fatto della rivelazione.

Possibilità della rivelatzone in senso stretto. 3027s.

Fatto storico di tale rivelazione (asserto implicito in tutta la dottrina) edtto più solenne solenne 800 3004s; in questo senso si negano: a .Rationalisti e b. Modernisti (2904) b3475 b3477s.

Questa rivelazione fu finita e completata con gli Apostoli (1501 3070) 3421.

4. Fine ed utilità della rivelazione.

L’intenzione di Dio rivelante è, che l’uomo finalizzi la sua elevazione al commercio soprannaturale con Dio. 2854s.

Necessità della rivelazione: è per intuito il fine assoluto soprannaturale dell’uomo (378) 3005; è per intuito morale della presente condizione dell’uomo la via più spedita per conoscere le verità religiose, che di per sé non sono impervie alla ragion 3005 3876.

Utilità: la fede libera la ragione dagli errori ed istruisce in molteplici cognizioni 2776 3019; rev. è stella direttrice per la scienza naturale. Reprob.: [riv. è inutile, di ostacolo alla r agione, nociva] 2903 2906. 3028.

5. Proprietà delle rivelazioni.

a. — SUPRANNATURALITA’

La rivelazione (in senso stretto d.) è suprannaturale (2854) 3004ss (3547); e non può essere desiderata da meri uomini naturali 2618; fede nella rivelazione, è distinta dalla mera fede naturale 3032; la fede è sopra la ragione

b. — IMMUTABILITÀ

La. Rivelazione (e la fede in essa) è immutabile 2802 2829 3020 3043 . (3626 3893); alla comparsa di nuove dottrine, non è assucurata l’assistenza dello Spirito Santo 3070; reprob. le accommodazioni dei dogmi con odiose mutazioni 3340-3342,• 3458-3465; si riprova: [rivelazione di pari passo con la ragione umana deve progredire da uno stato imperfetto 2905. L’immutabilità della dottrina rivelata non esclude l’evoluzione omogenea dei dogmi: vd. A 9bb.

6. Ambito della rivelazione.

a. — MISTERI IN SENSO LATO

Lee rivelazioni sono dovute anche a delle cognizioni delle cose divine che di per sé non sono impervieall’umana ragione 3005 3876, sunt dogmi che la ragione naturale ha in comune con.la fede. 2851 2853 3136.

b. — MISTERI IN SENSO STRETTO

Sono misteri in senso stretto quelli che si possono percepire dalla sola rivelazione (oppure dalla fede) 2853s 3015 3041.

Transcendono l’intelletto umano 824 2851s 2856 3016 3041; restano oscuri e caliginosi anche dopo la rivelazionem 2856 3016; trascendono anche l’intelligenza naturale degli Angeli. 2856.

Non tuttavia ripugnano alla ragione: numquam per quanto potrebbe esservi vero dissenso tra -:fede e ragione 2776 2811 3017-3019 (3287); —: fede e storia 3544s; —: teologo e fisico, rimanendo nel proprio ambito 3287; pertanto ogni asserzione contraria alla fede è falsa 1441 3017 (3895); causa di apparente contraddizione 3017 (3287).

7. Tradizione della revelatione.

A7a. a.— TRADIZIONE DELLA RIVELAZIONE IN GENERE.

7aa Origine. La tradizione delle rivelazioni si deve a:— Cristo revelante agli Apostoli 1501 3006; Spirito Santo veramente inabitante nella Chiesa e dettante agli Apostolis a600 b1501 b3006; reprob.: [la tradizione non contiene nulla di divino] 3548.

7ab. Il modo di comunicare la rivelazione. La Rivelazione è contenuta in libri scritti ed in tradizioni senza scritti 609 1501 3006 CdIC 1323, § 1.

7ac Riconoscimento della tradizione — : richiesta dalla Chiesa 1100 110 186° 1501 1504 1863 2537 2738s 2771 2784 2879 (3012 3540) 3626.

—: conservatata 542 548 600 602s 609 650-652 654 657 705 1510 1600 1637 1648 1750 1764 1766 1800 1820s 3069.

Criteri della tradizione: Consenso universale della Chiesa 1637: Consenso dei Padri: tradizione dei Padri invocata ed introdotta 271 370 396 399 485 501//520 548 550 575 635 710 824 850 1510 1542 1600 1692 1750 1766 1800 1820s 2090 2830 2855s 3284 3541; in particolar come regola per interpretare la S. Scrittura 1507 1863 2771 2784.

Consenso dei teologi: rappresenta la tradizione 824; pertanto si deve guardare indietro 1407 2879.

A 7b   b. TRADIZIONE DELLA RIVELAZIONE MEDIANTE LA S. SCRITTURA.

Esistenza dei libri inspiratori. Esiste il canone dei libri sacri dallo statuto della Chiesa 179s 186 213 (350°) 1335 1502s; si deve accettare quel canone esclusivo e con ogni parte (come contenuto nella Vulgata) a202 a213 a354 b1504 1863 2538 b3006 b3029.

Ragione della interna canonicità non consiste nell’approvazione di un’opera meramente umana né nella inerranza, ma nell’indole ispirata. 3006 3409 3412s 3415 3490.

Fatto dell’inspirazione. I libri canonici hanno Dio come autore. (800) 3006 3293; in particolare inculcato contro i Manichei che l’Autore del Vecchio e del Nuovo Testamento è il medesimo Dio 198 325 685 790 854 1334 1336 1501.

L’inspirazione è appropriazione dello Spirito Santo dettante 1334 1501 3292 3593; Lo Spirito S. parla nella Legge Mosaica, per mezzo dei Profeti (o nei Profeti), mediante gli Apostoli, o gli Evangelisti (s. nei Vangeli) b41s be 46 abed 48 c60 b150 b682.

Modo descritto per l’inspirazione 3293 3650s; riprov. delle spiegazioni dei Modernismi 3409-3411 3413 3491.

Estensione della inspirazione: da tutti i libri recepiti dalla Chiesa con ogni parte. (1504 3006 3029) 3291s.

Questioni circa la canonicità, l’autore, composizione dei vari libri de delle parti: Citazioni implicite 3372 3654; Pentateuco 3394-3397 3862-3864; Genesi 3512-3519; Psalmi 3521-3528; Isaia 3505-3509; Questione sinottica 3577s: Ev. Mt. 3561-3567; Ev. Mc. Et Lc. 3568-3576; Ev. Jo. 3398-3400; Atti degli Apost. 3581-3586; Lettere Pastorali 3587-3590; Lett. agli Ebr. 3591-3593; Lett. di Giov. 180 1811; Comma Giovanneo 3681s; Apocal. 486 1501°; altri libri 1501°.

7bb  Inerranza della S. Scritture. Tutti i libri contengono indubbia 1065: l’inerranza proviene da questo: dall’inspirazione a3292s 3652-3654; non è lecito concedere che l’autore abbia errato 3291.

Riprov. asserto che detrae l’inerranza e professa il mitologismo a2907 a3034 3414 3887.

La S. Scrittura non vuole insegnare la costituzione delle cose naturali. Che descrivono solo sec. La sensibile apparenza 3288; da ciò nessun vero dissenso tra teologo e fisico 3287.

Interpretazione delle S. Scritture deve seguire la regola — : giudizio del Magistero della Chiesa 1507 1863 2538 3007 3281 3401-3408;

— tradizione unanime dei Padri e dei teologi 1507 1863 2771 2784 3007 3284 3546 3887; non è una vera opera se scaturisce da tutte le opinioni dei singoli 3289;

— analogia della fede 3283 3515 3546 3887.

Scienze ausiliari dell’esegeta sperimentato sono cose elevate di critica letteraria e cognizione di cose naturali 3286s.

La libera investigazione ed interpretazione di dottori privati rimane un campo ampio nonostante le regole suddette 3282 3289 3831; così che possa farsi (eccetto le cose che riguardino la fede ed i costumi) un miglioramento ed un’emendazione dell’interpretazione 3294.

Questioni circa l’interpretazione: Generi letterari nella S. Scr. 3829s; Fonti mitologiche 3899; Applicazione del metodo storico alla S. Scrittura 3290; Parti specialmente storiche 3373; Senso letterale e spirituale 325 3792s 3826-3828 3888s; Genesi cap. 1-11: 3898; Ps. 15,10s: 3750; Vangeli: Mt. 16,26 et Lc. 9,25: 3751; Ev. Io. 3416-3418; Altro avvento di Cristo nelle Lett. Paoline 3628-3630; indole della vera profezia (2907) 3505s 3528 3563 3573; rigettata la discrepanza tra Vecchio e Nuovo Testamento pretesa dai Manichei 198 790 854 1334 1336. Si riprova il metodo di interpretare (in genere) dei Razionalisti, Modernisti e delle Società bibliche acattol.. 2784 3546s; pericolo di errare soprattutto dei laici 770s.

Testi originali e versioni della S. Scrittura. Gli esegeti usino massimamente i codici originali 3280.

Traduzioni in altre lingue comportano il pericolo di errori ed abusi 770s 1853s 2710s; per questo motivo la versione della Vulgata è dichiarata autentica 1506 1853 2710 3280; questa autenticità è solo giuridica, in quanto non esclude difetti di versione b3280 3794s 3825; l’esegeta usi altre versioni 3280; ai fedeli tuttavia non sono permesse versioni senza note ed approvazione eccl. 1508 1863 2772 CdIC 1391; si proibiscono le versioni delle Società bibliche acattoliche. 2771 2784.

Lettura della S. Scrittura raccomandata in genere 770s; non invero è utile a tutti 1853s 2712 2771s; infatti non è per tutti obbligatoria 2479-2485. 2667; la lettura presuppone l’uso di edizioni approvate: vd. A 7bd

8. Accettazione della rivelazione per mezzo della fede

a. — NATURA DELLA FEDE

la fede è la virtù soprannaturale per cui si credono le cose da Deo rivelate sull’autorità di Dio rivelante 3008 3542; l’assenso è libero (obediente per grazia, non è necessaria la forza prodotta dalle argomentazioni) 3010 3035; né tuttavia l’assenso è cieco 3010 3542.

Riprov. del concetto di fede dei Modernisti 3484-3486 3542.

Fede in quanto dono di grazia: vd. F 4; come disposizione alla giustificazione: F 3c

b. — PREREQUISITI PER LA FEDE.

Da parte di Dio si richiede l’ausilio della grazia (illuminazione dello Sp. Sancto) 378 396-400 1553 2813 3010 3014 3035.

Da parte dell’intelletto umano si richiede il giudizio di possibilità e l’obbligo di credere: (che è da chiedere) perché si possa acquisire vera certa nozione dei fondamenti della fede (come del fatto della rivelazione) 2121 2752-2754 2756 2768 a2778 2853 3009 3019 3539 3892; fede (Supposto l’ossequio della ragione consentaneo) deve precedere la ragione (che argomenta di essa) 2751 (2754) 2755 2765s 2812s .3009 (3019).

Si deve conoscere la credibilità dell’esistenza dei segni esterni 3033s 3475 3477 3539; quali motivi di credibilità valgono: vaticini, miracoli (tra i quali la resurrezione di Cristo), l’eroismo dei martiri, la mirabile propagazione della religione crist. La Chiesa in sé stimata (segno elevato) 4772 b2753 be2754 abc2768 . abcde 2779 (°2907) ab3009 et3012-3014 b3034 b3539; non vale la sola ispirazione privata o l’interna esperienza 3033.

Si può infirmare il giudizio di credibilità per gli influssi provenienti dall’esterno  3876; l’uomo può faticare anche per l’errore invincibile della vera religione. 2865° 2866. Da parte della volontà si richiede la libertà della coazione nell’accettare la fede: vd. K 4cc. Obbligo di credere: vd. K 2a.

9. Applicazione della ragione umana alle cose rivelate.

A  9a  a. – UTILITÀ DELLA  RAGIONE E SUOI LIMITI.

La ragione dimostra e difende la fede 2776 3019 3135-3138; prepara in parte all’intelligenza dei misteri 2853 3016 3137 3892.

I limiti della ragione nascono dall’indole sovrannaturali e dalla misteriosa rivelazione degli oggetti: cf. A 6b; infatti non si possono trattare i misteri allo stesso modo degli oggetti della scienza naturale 2854 2856s; né la filosofia è immune da errore 2829; esistono anche questioni più profonde della ragioni quasi insolubili 249.

Ragione umana (filosofia) quindi non deve dominare nelle verità rivelate (o in teologia) 824 2829.

Si riprende l’eccessiva stima della ragione umana (razionalismo) 2732 2775-2777 2828s 2850s 2858-2861 2878 2901-2914; riprov. dei principii dell’autonomia della ragione e della piena indipendenza dalla religione 2860 2903s 2911 2914 3031s; riprov. della tendenza a risolvere (ex toto) gli oggetti della fede ad opera della ragione 824 2732 (2738) 2851s 2908s; con tale pretesa si perde il merito della fede 824.

A 8b  b. – TRATTAZIONE SCIENTIFICA DELLE COSE RIVELATE.

9ba Dono della teologia. La ragione considera la teologia come la trattazione scientifica degli oggetti rivelati. 3135-3138.

L’indole del progresso scientifico è l’evoluzione delle dottrine nel medesimo senso (s. evolutio homogenea) 2802 3020 3043 3541 (3626) 3886; si riprova la concezione (massimamemte del modernismo) circa il progresso teologico e dei dogmi 2905 3020 3043 3422-3424 3426 3458-3465 3483 3488 3541; si respinge l’accusa, che il Magistero ecclesiastici impedisca il progresso della scienza teol. 2912 3457; si nega l’oscurazione delle verità nella Chiesa 2495 2601.

9bb Metodo della teologia. La norma principale per conoscere le verità soprannaturali non è la ragione umana 2738; al teologo non è lecito astrarre dall’indole soprannaturale delle cose rivelate (2854 2856s) 3547. Metodo scolastico (s. “vecchia scuola”) si raccomanda (ma con restrizione). E si difende ctr. il fideismo ed il modernismo 2814 2876 2913 3139 3140 3894. Si difende il metodo apologetico 3499s 3879s. Si rigetta il dubbio positivo come principio di inchiesta teologíca 2738. Si comanda di conservare la terminologia coltivata nella tradizione 824 2831 3881-3883.

Preminenza della teologia sulle altre scienze 824 (2829); ordine dei dottori nella Chiesa è del tutto particolare 771.

Dipendenza della teologia dal Magistero eccl. Subordinazione al Magistero in genere; vd. H 1; conformazione alla tradizione: vd. A 7a; La libertà di insegnare al teologo è legata al Magistero: vd. H lbb.

Si spinge al riconoscimento della singolare autorità dei teologi in genere 1328 2871 Gli autori moderni per quanto preferiscano al Magistero le cose più antiche,  904; non tuttavia sono indipendenti dalla Sede Apostolica e devono essere approvati. 2047 3154s.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (44): “INDICE DEGLI ARGOMENTI -III-“

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (3)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (3)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo primo

IL CRISTIANESIMO E L’AMORE

Senza esitazione io applicherei al Cristianesimo ciò che Goethe scriveva delle poesie: Sono simili a finestre istoriate le Poesie: finestre che, guardate dalla piazza alla chiesa, apron sui muri una fila di buchi nudi e scuri. E le guarda così la buona gente, e dice poi che non ci vede niente. Ma su, una volta alfine, penetrate per la porta del tempio, e là guardate! Ecco, figure e scene, e cielo e mare, tutto nei vetri luminoso appare.

Creature di Dio, semplici e liete, gli occhi allegrate e l’animo pascete!

(Trad. CROCE)

Chi vuol comprendere il Cristianesimo, deve entrare nella nostra cattedrale, ed allora i dogmi ed i precetti morali che, stando al di fuori, gli restavano incomprensibili e gli parevano ciò che di più strano e di più oscuro si potesse immaginare, gli sembreranno luminosamente belli e veri. Solo vivendo in questa divina cattedrale, eretta da Dio, è possibile intuire il principio di unità che, come riduce le varie scene d’un vetro istoriato ad un tutto unico e mirabile e quasi prisma che ricompone i vari raggi colorati nell’unico raggio solare, così collega insieme armonicamente i dati della rivelazione e le norme della condotta, e tutto vivifica con unico soffio, con un’identica anima. Tale principio di unità ha formato l’estasi soprattutto dei santi. I filosofi ed i teologi nostri l’hanno descritto; e mentre alcuni volgevano lo sguardo indagatore specialmente ai singoli elementi molteplici, altri abbracciavano con una occhiata comprensiva lo spettacolo sublime, ad imitazione di san Francesco di Sales, che nella prefazione del suo celebre Tratté de ramour de Dieu esclama: « Tout est l’amour, en l’amour, pour l’amour et d’amour en la sainte Eglise. – Nella Chiesa di Dio tutto appartiene all’Amore, tutto è fondato sull’Amore, tutto si riferisce all’Amore, tutto parla d’Amore ».

Una mistica moderna, la madre Maria Luisa Margherita Claret de la Touche, nel suo Libro dell’amore infinito, ha egregiamente commentato le parole del Vescovo di Ginevra. Non si tratta — ella scrive — di « un amore snervante, senza vigore, che si appoggia sulla sensibilità ed è incapace di fortificare i cuori e di far loro produrre azioni magnanime e forti virtù »; si tratta dell’Amore di Dio, considerato in Dio stesso… Si è parlato molto d’amore, si è scritto molto sull’amore, da secoli. Ma di quale amore? Sovente della corruzione dell’amore carnale; — qualche volta di quel riflesso del vero Amore, che risplende ancora nel cuore della creatura; — raramente del grande e gratuito Amore, che Iddio versa in benefici sopra la medesima creatura; — ben più raramente ancora dell’Amore eterno ed infinito che è la sostanza di Dio e la Divinità stessa. Dall’Amore di Dio, invece, bisogna partire, perchè il Cristianesimo ci appaia in tutta la sua luce piena e per potere in tal modo cogliere l’anima vera anche della morale cattolica. Bisogna, cioè, ben convincersi che tutto nel Cristianesimo è Amore; che l’Amore è la causa universale della creazione, della redenzione e della santificazione; che l’Amore, per dirla con Dante, « muove il cielo e l’altre stelle »; che il Credo, per usare una felice espressione di mons. Baunard, articolo per articolo è la successione della nostra ascesa continua verso Dio sulle ali dell’Amore, che Dio infonde in noi; che ogni colpa non è se non una volontaria ribellione all’Amore. Con questa chiave d’oro — l’Amore divino — si apre la porta di ogni verità rivelata e di ogni precetto dell’etica.cristiana.

1. – Il dogma e l’amore

Un soave Dottore della Chiesa, san Francesco di Sales, nell’opera ora rammentata, richiama gli insegnamenti sull’amore di Dio di san Paolo, « che li aveva appresi dal cielo stesso., e degli altri grandi scrittori nostri che hanno svolto questo soggetto. Gli antichi Padri, egli ricorda, « servendo amorosamente Dio, parlavano anche divinamente del suo amore… San Tommaso ne ha fatto un trattato degno di san Tommaso ». San Bonaventura, Giovanni Gersone, cancelliere dell’Università di Parigi, il cardinal Bellarmino, santa Caterina da.Genova ed Angela da Foligno, santa Caterina da Siena e santa Matilde, santa Teresa e mille altri hanno dedicato a questo argomento pagine ineffabilmente belle. Non è qui possibile riassumere i grandi principi, che mostrano come nel campo dogmatico l’Amore « è l’anima della dottrina cattolica, il suo centro, è la spiegazione di tutti i misteri di nostra fede ». Solo ci appagheremo di rapidi accenni.

Innanzi tutto, chi è Dio?

« Dio è Amore! Egli vuol essere conosciuto così e vuole che questa conoscenza si diffonda nel mondo, lo infiammi e lo rinnovi… Il suo Amore è Lui stesso. – « Mosè, — prosegue la madre Claret de la Touche — il grande legislatore degli Ebrei, il privilegiato, che con la sua dolcezza e forza aveva attirato gli sguardi di Dio, riconoscendo nel roveto ardente del deserto la presenza della Divinità, Gli aveva domandato il suo nome; e Dio aveva risposto dalle fiamme ardenti: « Io sono Colui che sono! ». Risposta profonda, che rivelava Iddio come l’Essere supremo, essenziale, unico, causa e principio degli esseri, di una stabilità e unità assoluta, senza possibilità di mutamento, di diminuzione o accrescimento. Ma risposta misteriosa, come tutte le manifestazioni divine dell’Antico Testamento, che non rivelava il segreto di Dio e teneva l’anima umana sospesa davanti a questo Essere incomprensibile ». Si camminava ancora in mezzo alle ombre; la luce piena della rivelazione era riservata per più tardi. « Spuntarono finalmente i giorni della Redenzione; la seconda Persona della Santissima Trinità s’incarnò, il Verbo divino si fece uomo, soffrì e morì per noi; poi, asceso al cielo, inviò lo Spirito Santo. È allora che sentiamo sgorgare dal cuore infiammato e dalle labbra verginali dell’Apostolo prediletto le parole rivelatrici: « Deus charitas est! », Dio è Amore! – « Iddio vedendo l’uomo purificato dal grande sacrificio del Calvario, rientrato in grazia, ritornato suo Figliuolo sottomesso e l’erede della sua gloria, non ha più segreti per Lui. « Rivelandogli il suo Nome: « l’Amore », si fa da lui conoscere per intero. Nel medesimo tempo gli svela tutti i suoi misteri, il segreto delle sue divine operazioni e la ragione de’ suoi atti ».

I grandi pensatori cristiani, da sant’Agostino a Bossuet, hanno indicato in questo Amore di Dio il perchè di tutti i misteri. Essi hanno inneggiato all’Amore infinito, che passa e ripassa in un flusso e riflusso divino fra le tre Persone della Santissima Trinità; e, come riassume il loro pensiero mons. Baunard, ci hanno dato questa sintesi degli altri dogmi cristiani: « Dio ama: amare è donarsi; e Dio ha tutto donato a noi e si è dato Lui stesso, cominciando dall’esistenza nostra e di tutti gli esseri: ecco la Creazione. «Dio ama: amare è parlare, è farsi comprendere da quelli che si ama, ed ecco la Rivelazione, la Sacra Scrittura e la sua Legge.

« Dio ama: amare è salvare, a qualunque costo, chi si ama, è morire per chi si ama: ecco la Redenzione. « Amare è voler essere continuamente con chi si ama: ecco l’Eucaristia, la presenza reale, l’altare. « Amare è donarsi a ciascuno di coloro che si amano: ed ecco la divina Comunione, la Cena. « Infine, amare è voler rendere felici, con sè e per sempre tutti coloro che si amano, ed ecco l’eterna beatitudine e il Cielo. – « Vasta sintesi dell’amore, che è pure quella di tutta la nostra fede! ».

Non per nulla l’aquila di Meaux, nella sua Oraison funèbre d’Anne de Gonzague, riferiva e commentava da pari suo un’espressione dell’illustre defunta, la quale aveva detto: « Dal giorno che piacque a Dio di mettermi in cuore che il suo amore è la ragione di tutto quello che crediamo, la risposta mi persuade più di tutti i libri ». Non per nulla i Santi e tutte le anime sentitamente cristiane trovano ovunque una delle strofe dell’Amore eterno, che li lancia in un impeto di riconoscenza verso Dio. Cos’è la natura, per il credente? Cosa dicono al suo cuore e alla sua intelligenza le montagne belle, gli oceani immensi ed il sorriso dei fiori? Risponde la mistica citata: « L’Autore Infinito aveva deciso la creazione dell’uomo per potersi effondere in lui. E come una giovane madre prepara con amore, di propria mano, la culla del bimbo che sta per dare alla luce, e si sforza di renderla, non solo dolce e comoda, ma graziosa e lieta, così Dio, che doveva essere padre e madre, preparò con amore la culla dell’uomo, l’universo, e si compiacque di onorarlo ed arricchirlo di tutto ciò che poteva servire all’utilità, al bene e alla gioia della sua creatura prediletta ». Per questo Gesù le diceva: « Dà il tuo cuore alle creature, affinchè esse amino per mezzo tuo e tu ami in loro, fa che esse glorifichino, esaltino, amino il loro Creatore. Ama con l’uccello che canta, con la nube che va vagando nello spazio, con la foglia che freme alla brezza. Dà a tutti questi esseri creati dall’Amore un’anima che conosca, un cuore che palpiti ». Per questo ella soggiungeva: « Mi pare che la creazione sia come uno strumento musicale, un’arpa; se nessuno la tocca, l’arpa non vibra: ma se il cuore dell’uomo, come un abile artista, tocca le corde di quest’arpa d’oro, allora s’innalza un suono armonioso: è un inno di amore, cantato dall’amore in onore dell’Amore infinito,. Cos’è la nostra elevazione alla stato soprannaturale? I Padri, ad una voce, con mille figure rispondono spiegando la parola dell’Apostolo della carità: « Vedete quale amore ci ha dimostrato il Padre, nel far sì che potessimo avere il nome, e fossimo in realtà figli di Dio ». Com’è stato, in ogni tempo, annunciato nella Chiesa il mistero dell’Incarnazione e della Renzione, se non come il mistero di quell’Amore, del quale san Paolo osservava che sorpassa ogni scienza? Dio ha così amato il mondo, ha esclamato il veggente di Patmos, da dargli il suo Figlio unigenito ». E la mistica di Siena, santa Caterina, ispirandosi a questa nota, eleverà la sua voce: « Da qualunque lato mi volgo, trovo ineffabile amore… L’amore fece discendere l’altezza della Deità a tanta bassezza quanta è la nostra umanità… L’amore lo fece abitare nella stalla in mezzo agli animali. L’amore lo fece satollare di obbrobri. E, per amore, il dolce Gesù sommamente si dilettò di portare la croce di molte tribolazioni… L’amore lo fece correre con pronta obbedienza fino all’obbrobriosa morte della croce… Chi l’ha tenuto fermo in croce? Non chiodi, nè pietra, nè terra tenne ritta la croce, perchè non erano sufficienti a tener ritto l’Uomo-Dio; ma l’amore ». E non aveva detto già Gesù Cristo: « Nessuno ha amore piu grande di chi dà la vita per i suoi amici? ». – Anche Dante, discorrendo nel canto VII del Paradiso del decreto della Redenzione, ha magnificamente scritto:

Questo decreto, frate, sta sepulto

Agli occhi di ciascuno, il cui ingegno

Nella fiamma d’amor non è adulto.

Tutto ciò è evidente. E non solo Betlemme e Nazaret, ma anche le parole cadute dal labbro divino di Gesù sotto gli olivi della Giudea e fra le rose di Gerico, i suoi miracoli ed i suoi esempi, ed il Cenacolo, ed il Calvario, e l’Altare, e la Pentecoste, e tutta la storia della Chiesa sono verità chiuse in sepolcro, per chi trascura la « fiamma d’Amor ». Costui non capirà mai che la Chiesa è il regno dell’Amore; non capirà il Sacerdozio, ossia la schiera dei ministri dell’Amore; non capirà la Comunione frequente e quotidiana, alimento ogni giorno dell’Amore; non capirà Paray e la devozione al sacro Cuore e riterrà quest’ultima come una semplice devozione sentimentale, mentre è la sintesi di tutto il Cristianesimo. In breve: qual è il più bell’atto di fede che il dogma rivelato esige da noi? Non io, non un teologo, neppure un santo lo ha recitato la prima volta. Fu il discepolo che Gesù prediligeva e che posò il capo sopra il suo Cuore nell’ultima Cena, che ci insegnò a dire: « Nos credidimus Charitati!… Noi abbiamo creduto, noi crediamo all’Amore! ».

2. – La morale dell’amore

Su un simile stelo, poteva forse sbocciare il fiore di una morale che non fosse la morale dell’Amore? La rivelazione all’uomo dell’Amore infinito di Dio implica come conseguenza la necessità, il dovere, il bisogno di ricondurre a Dio l’amore dell’uomo, perchè — è sempre san Giovanni che lo proclama — « chi non ama, rimane nella morte ». E sempre nei secoli echeggerà il grido delle Confessioni di sant’Agostino: « Ci hai fatto per Te, o mio Dio, ed il nostro cuore non ha pace, finchè in Te non si riposi! ». – Come l’aquila reale, per usare il paragone del Bauthier nel suo volume su il sacrificio nel dogma cattolico e nella vita cristiana, quando è prigioniera, insanguina le ali alle inferriate della sua gabbia, così il cuore, chiuso nell’egoismo, senza i voli dell’Amore, si sente necessariamente tormentato dal rimorso. – Dalla dogmatica cristiana non poteva sorgere se non la morale della carità. Gesù Cristo, come vedremo, riassumerà la sua etica in un comando: « Diliges! Amerai!.». Nè poteva esser diversamente. Ogni precetto, ogni comandamento, ogni norma dell’etica doveva essere nel Cristianesimo ispirata dall’Amore, perchè ogni dogma della fede aveva lo stesso spirito. Gesù Cristo non è venuto al mondo per sciogliere la legge data sul Sinai ed impressa, prima ancora, nella umana coscienza; è venuto per compierla, per perfezionarla, per vivificarla con l’Amore. Come nel dogma, così anche nella morale, questa è la ragione di tutto, il principio vitale che tutto ci spiegherà. Perché dovremo adorare Dio e Dio solo? perchè non dovremo bestemmiarne il Nome e non pronunciarlo invano? Perché Gli dovremo consacrare un giorno della settimana, e si vada dicendo? Per amore, perché dobbiamo amarlo sopra ogni cosa. Perché, ancora, dobbiamo compiere il nostro dovere, non mentire, non ammazzare, non dire il falso, non profanare con l’impurità la nostra mente ed il nostro corpo, non rubare, e così via? — Perché, risponde l’Apostolo san Giovanni, dobbiamo amare il Signore non con le parale e con la lingua, ma con la realtà dei fatti. Perchè negli altri, anche nei nemici, dobbiamo vedere dei fratelli? E perchè ancora, non contenti dei comandi, ci sentiremo spinti ad attuare i grandi consigli della perfezione? Sempre per amore.

Nella casa di Miriam, Sienkiewicz, nel suo Quo vadis?, ha ritratto artisticamente la figura del tribuno romano Vinicio. Stanco delle orge, del vino, del canto, delle cetre, delle ghirlande di fiori, del palazzo di Cesare, col cuore acceso da un puro affetto, Vinicio, attratto sulla via della conversione, si rivolge a Pietro ed a Paolo di Tarso e con accento rapito e commosso implora la luce:

— Vedete! Mi torturo nell’incertezza: Mi dissero che la vostra dottrina distrugge la vita, la felicità, le leggi, la potenza dell’impero. È vero? Mi dissero che siete dissennati. Istruitemi… Mi fu anche detto: la Grecia creò la sapienza e la bellezza, e Roma la forza; che cosa dunque arrecate voi? Se in voi è la luce, fate che un raggio brilli su di me. — Noi rechiamo l’Amore, disse Pietro. E Paolo di Tarso soggiunse: — Conoscessi pure la lingua degli Angeli, senza la carità io non so più parlare e divengo rame sonoro tintinnante. Così è. La sintesi del dogma è l’Amore di Dio in sè e per l’uomo. La sintesi della morale cristiana, e tutto questo Sillabario ne sarà una dimostrazione, non è altro se non l’amore dell’uomo per Dio.

Riepilogo

Prima di esporre la morale cristiana, occorre affermare il principio di unità che la vivifica e che si può esprimere con una parola: L’Amore.

1. – Tutto nel Cristianesimo è amore. Il dogma ci rivela l’Amore infinito di Dio in sè e l’amore suo per noi.

2. – E’ chiaro che la morale cristiana non poteva, di conseguenza, essere altro se non la morale dell’amore, ossia dell’amore dell’uomo per Dio. Per non confondere l’etica di Cristo con altre dottrine, non bisogna mai perdere di vista quest’anima ispiratrice dell’Amore.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (4)