QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 143
Psalmus David. Adversus
Goliath.
[1] BenedictusDominus Deus meus,
qui docet manus meas ad prælium, et digitos meos ad bellum.
[2] Misericordia mea et refugium meum, susceptor meus et liberator meus; protector meus, et in ipso speravi; qui subdit populum meum sub me.
[3] Domine, quid est homo, quia innotuisti ei? aut filius hominis, quia reputas eum?
[4] Homo vanitati similis factus est; dies ejus sicut umbra prætereunt.
[5] Domine, inclina cœlos tuos, et descende; tange montes, et fumigabunt.
[6] Fulgura coruscationem, et dissipabis eos; emitte sagittas tuas, et conturbabis eos.
[7] Emitte manum tuam de alto: eripe me, et libera me de aquis multis, de manu filiorum alienorum:
[8] quorum os locutum est vanitatem, et dextera eorum dextera iniquitatis.
[9] Deus, canticum novum cantabo tibi; in psalterio decachordo psallam tibi.
[10] Qui das salutem regibus, qui redemisti David servum tuum de gladio maligno,
[11] eripe me, et erue me de manu filiorum alienorum, quorum os locutum est vanitatem, et dextera eorum dextera iniquitatis.
[12] Quorum filii sicut novellæ plantationes in juventute sua; filiæ eorum compositæ, circumornatæ ut similitudo templi.
[13] Promptuaria eorum plena, eructantia ex hoc in illud; oves eorum fœtosæ, abundantes in egressibus suis;
[14] boves eorum crassæ. Non est ruina maceriæ, neque transitus, neque clamor in plateis eorum.
[15] Beatum dixerunt populum cui hæc sunt; beatus populus cujus Dominus Deus ejus.
[Vecchio Testamento
Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI
Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXLIII.
Il salmo canta la vittoria di Davide sul gìgante Goliath; ed in senso spirituale, predice la vittoria Cristo e della Chiesa sul demonio.
Salmo di David contro Goliath.
1. Benedetto il Signore Dio mio, il quale alle mani mie insegna a combattere, e alle mie dita a trattare l’armi.
2.
Egli mia misericordia e mio asilo; mia difesa e mio liberatore; Protettor mio,
e in lui ho sperato: egli che a me soggetta il mio popolo.
3.
Signore, che è l’uomo, che a lui ti sei dato a conoscere? o il figliuolo
dell’uomo, che tal tu ne mostri concetto?
4.
L’uomo è divenuto simile al nulla: i giorni di lui passan come ombra.
5.
Signore, abbassa i tuoi cieli, e discendi, tocca i monti e andranno in fumo.
6. Fa lampeggiare i tuoi folgori, e dissiperai costoro; scocca le tue saette, e li porrai in ispavento.
7.
Stendi la mano tua dall’alto, e salvami; e liberami dalla piena dell’acque,
dalla mano de’ figliuoli stranieri.
8.
La bocca de’ quali di cose vane ragiona, e la loro destra, destra d’iniquità. (1)
9.
0 Dio, io canterò a te un cantico nuovo; inni di laude dirò a te sul salterio a
dieci corde.
10.
A te che dai salute ai regi, che liberasti David tuo servo dalla spada
micidiale; liberami,
11. E toglimi dalle mani de’ figliuoli stranieri, la bocca de’ quali di cose vane ragiona, e la loro destra, destra d’iniquità.
12.
I figliuoli de’ quali sono come piante novelle nella lor giovinezza. Le loro
figliuole abbigliate, e ornate da ogni lato, come l’idolo di un tempio. (2)
13.
Le loro dispense ripiene, e ridondanti per ogni lato. (3)
14.
Feconde le loro pecore, escono fuori in branchi copiosi: pingui le loro vacche.
Da
ruina sono esenti le loro mura, e da incursione; nè flebil grido si ode nelle
lor piazze.
15.
Beato hanno detto quel popolo che ha tali cose; ma beato il popolo, che per suo
Dio ha il Signore.
(1)Dextera
eorum, dextera iniquitatis, Vale a
dire, letteralmente: che porgono la mano per fare alleanze ingannevoli.
(2) Secondo il
testo ebraico: le nostre figlie sono come delle pietre angolari tagliate come
ornamento di un tempio o in un palazzo.
(3)Eructantia
ex hoc in illud, letteralmente:
fornente delle provvigioni di una specie ed altra, cioè di ogni specie.
Sommario analitico
Il Re-Profeta, persuaso che egli debba
la sua vittoria, o su Golia, o sui popoli vicini congiurati contro di lui, al
favore divino, testimonia a Dio la sua riconoscenza per i molteplici benefici
che ha ricevuto, malgrado la sua debolezza e la sua indegnità, ed implora
nuovamente la protezione divina.
I. – Egli rende grazie a Dio per la vittoria
che ha riportato:
1° Benedicendo Dio che, a) con la sua
saggezza ha istruito le sue mani al combattimento e le sue dita alla guerra
(1);
2° Con la sua misericordia è stato:
a) suo rifugio dai nemici;
b) suo sostegno e liberatore,
liberandolo da ogni pericolo al quale è stato esposto;
c) suo protettore, dandogli sua speranza
tra i combattimenti, e sottomettendogli il suo popolo (2);
3° Abbassandosi egli stesso,
a) si riconosce indegno di conoscere
Dio, indegno perché Dio si possa degnare di pensare a lui (3);
b) spiega la causa di questa indegnità:
il nulla dell’uomo e la brevità della sua esistenza (4);
II. – Implora
il soccorso di Dio contro i suoi nemici, e gli domanda:
1° che i suoi nemici siano distrutti da
Dio stesso,
a) abbassando i cieli,
b) colpendo con fulmini queste montagne
orgogliose (5), e facendo brillare i suoi fulmini onde dissiparli,
c) lanciando contro di essi i suoi dardi
per riempirli di terrore (6);
2° Che sia liberato dai perfidi disegni
dei suoi nemici, e adduce come ragione i loro discorsi ispirati dalla menzogna
e dalla vanità, e l’iniquità delle loro opere (7, 8).
III. – Promette a Dio delle nuove azioni di
grazie per le nuove vittorie che egli spera dalla sua misericordia:
1° promette di cantare un cantico nuovo
per ringraziare Dio per averlo salvato e liberato dalla mano di figli di
stranieri (9-11);
2° porta come ragioni in appoggio alla
sua preghiera, l’orgoglio dei suoi nemici, prodotto dalla prosperità e
dall’abbondanza di cui godono:
a) col numero dei loro figli, pieni di
linfa e di vigore (12);
b) dalla bellezza e splendore delle loro
figlie (12);
c) dall’abbondanza dei loro raccolti
(13);
d) dal numero e dalla fecondità delle
loro greggi;
e) dalla solidità delle loro abitazioni;
f) dalla calma e tranquillità che li
circonda (14);
3° all’opinione del mondo, che proclama
felici cloro che possiedono questi beni, egli oppone il proprio pensiero,
espressione della verità, e cioè che il popolo veramente felice è quello di cui
è Signore Dio (15).
Spiegazioni e considerazioni
I. — 1-4.
ff. 1, 2. –Cosa dite, o Profeta? Che Dio insegna a
far la guerra, a darsi ai combattimenti, a preparare delle armate in battaglia?
Sì, senza dubbio, e non ci si inganna ad attribuirgli le vittorie così
riportate … ma vi è un’altra guerra più spaventosa, in cui il soccorso
dall’alto ci è soprattutto necessario: è la guerra che dobbiamo sostenere
contro le potenze nemiche (Ephes. VI, 12). E ciò che rende
questa guerra più spaventosa è che queste potenze siano di una natura
differente dalla nostra, di una natura invisibile, e che non si tratti di
interessi senza importanza: sono in gioco la nostra salvezza o la nostra
perdita! Le vittime di questa guerra non
si possono vedere; è impossibile prevedere né il tempo, né le difficoltà, né i
luoghi, né le altre circostanze del combattimento (S. Chrys.). – Due lezioni
sono comprese in questi versetti: la prima: che è necessario considerare Dio
come l’Autore ed il principio di ogni bene, di ogni successo riportato sui
nostri nemici temporali o spirituali; la seconda è: che la protezione del
Signore consiste tanto nell’istruirci, che nel fortificarci (Berthier).
– « Egli è mia misericordia, etc. » Noi
vediamo qui in quale ordine Dio ha dato la vittoria a Davide, ed in quale
ordine pure la darà a noi, se riponiamo
in Lui ogni nostra speranza. Innanzitutto Dio lo ha considerato con
misericordia. La misericordia divina è, in effetti, l’origine di tutti i beni e
previene assolutamente ogni tipo di merito. – Una volta prevenuto e chiamato
dalla misericordia celeste, Davide ha rivolto gli occhi al Signore, e mettendo
in Lui tutte le sue speranze, si rifugia nel suo seno. – Dio, dal suo canto,
gli tende la mano, gli promette il suo soccorso: Egli è il suo difensore. – Ma
non basta, Dio lo libera e, dopo averlo liberato, continua a proteggerlo, per
sottrarlo ad ogni pericolo; in altri combattimenti Egli è il suo protettore;
infine come pure Dio ha sottomesso a Davide il popolo sul quale egli doveva
regnare, Egli ammorbidisce la fuga delle nostre passioni, ce le assoggetta e ce
ne rende padroni. – In effetti, nella guerra contro i nemici della salvezza,
l’operazione più difficile e necessaria è il renderci padroni del nostro
popolo, cioè delle nostre facoltà, dei nostri sensi, della nostra
immaginazione, della nostra memoria, del nostro spirito, della nostra volontà (Bellar.,
Berthier, Duguet)
ff.
3,
4. –
Ci è necessaria una doppia conoscenza, che questo salmo ci dà in successione:
la conoscenza di noi stessi, la conoscenza di Dio. – Per l’uomo è un grande
onore conoscere il Creatore. In questo noi differiamo dagli animali, perché noi
conosciamo il nostro Creatore, mentre gli animali non lo conoscono affatto. La
direzione stessa del nostro corpo sembra cercare il suo Creatore. Gli altri
animali guardano a terra, i loro occhi seguono la direzione del loro ventre, i
nostri occhi, al contrario, sono levati al cielo, affinché, anche se la nostra
anima è cieca, noi non cessiamo mai di guardare il cielo con gli occhi del
corpo. (S. Girol.). – Il Re-Profeta non intende marcare le differenze
tra Dio e l’uomo. L’intervallo è infinito, e non c’è nell’uomo alcun termine
che possa servire da regola e da proporzione. « Che cos’è l’uomo, e cosa siete
Voi o Signore? » È tutto ciò che può dire questo grande Profeta; il suo spirito
entra in una sorta di estasi, si perde in questi due abissi, l’uno di
perdizione e l’atro di debolezza (Berthier). « Signore, che cos’è
l’uomo? » Tutto ciò che egli è, lo è perché Voi gli avete concesso di
conoscervi. « Che cos’è l’uomo perché gli abbiate concesso di conoscervi? O il
figlio dell’uomo perché ne facciate conto? » Voi lo considerate, fate gran caso
di lui, lo apprezzate di grande valore: gli date un rango, Voi sapete sopra di
chi porlo, Voi sapete sopra di chi lo avete posto. La stima su misura dal
prezzo che si dà ad una cosa; e quale stima ha fatto dell’uomo Colui che ha
versato per lui il sangue del suo Figlio unigenito? « Cosa è l’uomo perché gli
abbiate concesso di conoscervi? » A chi lo avete concesso? Chi lo ha concesso?
« Cos’è il figlio dell’uomo perché Voi lo consideriate? » E ponendo un prezzo
così alto, stimandolo di un tal valore, Voi dimostrate che egli è qualcosa di
prezioso; perché Dio non stima l’uomo, come l’uomo stima se stesso. Quando si
compra uno schiavo, lo si paga meno di un cavallo. Vedete quando Dio vi stimi,
perché possiate dire: « Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? » (Rom.
VIII, 31). A qual prezzo elevato, vi ha stimato, Egli che non ha risparmiato
suo Figlio, ma lo ha offerto per noi! « Come non ci avrebbe dato ogni cosa con
Lui? » (ibid.). Egli che ha dato un tal nutrimento al combattente, cosa
riserva al vincitore? (San Agost.). – « L’uomo è diventato
simile alla vanità, i suoi giorni passano come l’ombra. » I nostri giorni sono
veramente come l’ombra: io ero un bambino, sono stato adolescente, giovane,
sono diventato un uomo fatto, cioè ho raggiunto l’età perfetta, senza
accorgermene, sono diventato vecchio, e la morte si appresta a succedere alla
vecchiaia. Io cambio ogni giorno, non sento che sono nulla. Noi non restiamo un
solo istante della nostra vita nel medesimo stato, ma sempre ci accresciamo o
decresciamo. L’uomo dunque cambia ad ogni istante, e muore nel momento che meno
immagina. Vecchio, mi ricordo di ciò che sono stato, ciò che ho fatto da
piccolo, giocare, correre qua e là, io mi vedo ora curvo sotto il peso degli
anni. « I suoi giorni passano come l’ombra. » (S. Gerol.) – « L’uomo è
divenuto simile alla vanità! » A quale vanità? Ai tempi che passano e scorrono.
In effetti, i tempi possono essere chiamati una vanità, in confronto alla
verità che resta eternamente e non può morire. Ma questa creatura è al suo
posto. In effetti, « Dio, come è scritto, ha riempito la terra dei suoi beni. »
(Eccli.
XVI, 30). Che significa « Dei suoi beni? » Dei beni che gli convengono.
Ma tutti questi beni terrestri sono cangianti e passeggeri, se li si compara a
questa verità per eccellenza che ha detto: « Io sono colui che sono » (Es.
III, 14); tutto ciò che accade si chiama col nome di Vanità; perché
tutto ciò svanisce nel tempo, come il fumo nell’aria. E cosa dirò di più di ciò
che ha detto l’Apostolo San Giacomo, con l’intenzione di richiamare all’umiltà
l’orgoglio degli uomini? « Cos’è – egli dice – la vostra vita? un vapore che
appare per un po’ di tempo e che dopo sarà disperso. » (Giac. IV, 15). « L’uomo è
dunque divenuto simile alla vanità. » E peccando, « … egli è divenuto simile
alla vanità; » perché, quando è stato creato, è stato fatto in origine simile
alla verità; ma poiché ha peccato ed ha ricevuto il castigo, « è divenuto
simile alla vanità. » (S. Agost.). – I giorni dell’uomo passano come l’ombra.
Questo paragone è completo: l’ombra diminuisce di forma, a misura che cresce;
crescendo si avvicina alla sua fine, e sparisce nel momento in cui ha maggiore
estensione. I nostri giorni diventano più deboli man mano che il loro numero
aumenta, e si spengono completamente quando hanno raggiunto la somma che Dio ha
loro assegnato. Non resta a colui che è giunto alla vecchiaia se non il ricordo
delle sue diverse età, e questo ricordo è ancora nel suo spirito come un’ombra
che si affievolisce con il progredire dei giorni, e si spegne del tutto al
momento della morte. (Berthier).
II. — 5-8.
ff.
5,
6. –
Il Signore ha abbassato i cieli ed è sceso quando si è annientato fino ad
unirsi all’uomo. Egli ha colpito le montagne, quando ha umiliato i superbi ed i
grandi della terra. – Ciò che succede nelle regioni dell’aria, quando Dio vi
eccita delle tempeste, è un’immagine dello stato in cui si trova l’anima toccata
dalla grazia e penetrata dal timore dei giudizi di Dio. Sembra allora che i
cieli si abbassino, che i fulmini della collera divina giungano fino a tutto
l’interno. Che Dio lanci i suoi colpi e ferisca tutte le parti del cuore un
tempo fiero, ribelle ed insensibile (Berthier). – Nel linguaggio della
Scrittura, dice S. Agostino, vi sono dei buoni e dei cattivi monti. I buoni
rappresentano la grandezza spirituale; i cattivi designano il rigonfiamento del
cuore. – Questi ultimi sono la figura di quelle persone che fanno professione
di religione e che, pieni di sentimenti di più alta pietà, non respirano che
Dio e la sua gloria, sagge nella loro condotta e severi nelle loro massime, ma
incapaci, tra tutto questo, di ricevere un avvertimento: gente meravigliosa nel
dire le verità agli altri, ma insensibili fino alla fiacchezza, quando sono
obbligati ad ascoltare le loro; delle montagne, dice la Scrittura, per
l’apparenza della loro elevazione, ma montagne presto fumanti quando si giunge
a toccarle (BOURD. Am. et crainte de la
Vér.)
ff.
7.
8. –
« Mandate dall’alto del cielo la vostra mano e liberatemi. » La potenza di Dio
non si esercita solamente per punire, ma per salvare. La mano di Dio, è il suo
soccorso, la sua protezione. Queste acque figurano l’irruzione disordinata e
violenta dei nemici ed il loro attacco tempestoso. Una prova, in effetti, che
il Profeta non parla qui delle acque in senso proprio, è che egli aggiunge: «
Dalla mano dei figli dello straniero. » Questi figli stranieri sono a mio
avviso, coloro che sono estranei alla verità: come noi riguardiamo tutti i
fedeli come nostri parenti e fratelli, così consideriamo gli infedeli come
degli stranieri, ed è per questo che noi distinguiamo lo straniero da colui che
ci è unito dai legami di affetto. Io considero mio fratello colui che riconosce
la stesso padre mio, partecipa alla medesima tavola, piuttosto che colui che
non mi è unito che per il sangue. Questa parentela è ben più perfetta
dell’altra, ed anche l’incompatibilità che risulta dai sentimenti contrari è
molto più pronunziata di quella che proviene dalla diversità delle famiglie.
Non vi fermate dunque a questo pensiero secondo cui viviamo sotto lo stesso
cielo ed abitiamo la stessa terra; io voglio un’altra unione che è al di sopra
dei cieli. « È là che è il nostro regno e la nostra vita. » Noi non abitiamo
più la terra, noi veniamo trasportati nella città dei cieli. Noi abbiam
un’altra vera luce, un’altra patria, altri concittadini, altri parenti. Ecco
perché San Paolo diceva: (Ephes. II, 19) « Voi non siete più
stranieri né ospiti, ma concittadini dei Santi. » (S. Chrys.).
III. — 9-11.
ff. 11. – Vediamo ora i
segni con i quali possiamo distinguere lo straniero dal prossimo: dai loro
discorsi, dalle loro opere. Chi sono questi stranieri? Sono coloro che vivono
nel crimine, che amano l’iniquità, che fanno discorsi insensati, e dicono
parole inutili: quindi è dai loro discorsi, dalle loro parole che potete
riconoscerli, come dichiara Gesù-Cristo; (Matth. VII, 16); « dai frutti li
riconoscerete. » (S. Chrys.). – Parole di menzogna e di vanità. Azioni ingiuste,
opere inique: è da qui che li riconoscerete.
ff.
12.-14.
–
Non è dunque li la felicità? Io lo chiedo ai bambini del regno dei cieli; io lo
chiedo alla razza che deve resuscitare per l’eternità; io lo chiedo al corpo di
Cristo, ai membri del Cristo, al tempio di Dio: dunque la felicità non è l’avere
figli vigorosi, figlie ornate, cantine ricolme, greggi numerose; avere non solo
delle muraglie, ma delle aie senza brecce né aperture, non sentire nelle strade
né tumulti, né clamori, ma possedere il riposo, la pace, le ricchezze e
l’abbondanza di tutti i beni nelle case e nelle città? Non è dunque lì la
felicità? I giusti devono rifuggire da questa felicità? Non troverete mai la
casa del giusto ricolma di tutte queste ricchezze e piena di questa
beatitudine? La casa di Abramo non abbondava in oro, in argento, in figli, in
servi ed in greggi? (Gen. XII, 5 e XIII, 2-6). Il santo
patriarca Giacobbe, fuggitivo in Mesopotamia davanti alla faccia del fratello
Esaù, e tenuto a servizio di Labano, non vi si è arricchito? Al suo ritorno non
ha reso grazie a Dio di ciò quando passando il Giordano, con un bastone solo,
tornava con una moltitudine di greggi e di figli? (Gen. XXXI, 18; XXXII, 7-10).
Non è li la felicità? Certo, è una felicità ma viene dalla sinistra. Che vuol
dire dalla sinistra? Una felicità temporale, mortale, materiale. Io non esigo
che voi la evitiate, ma io non voglio che la scambiate con la felicità della
destra; perché questi uomini non erano malvagi e vani perché possedessero
questi beni in abbondanza; ma perché essi ponevano a destra i beni che dovevano
lasciare a sinistra. Cosa devono porre alla loro destra? Dio, l’eternità, gli
anni indefettibili di Dio, di cui è detto:
« I vostri anni non avranno fine. » (Ps. CI, 28). Là è la
nostra destra. Usiamo la sinistra per il tempo, aspiriamo a destra per
l’eternità. (S. Agost.). – Gli uomini mostrano le loro figlie per essere
spettacolo di vanità ed oggetto della pubblica cupidigia, e « le preparano come
si fa con un tempio. », Essi trasportano gli ornamenti che il vostro tempio
solo dovrebbe avere, a questi cadaveri ornati, a questi sepolcri imbiancati e
sembra che abbiano deciso di farli adorare nella vostra piazza. Essi nutrono la
loro vanità e quella degli altri; riempiono altre figlie di gelosia, gli uomini
di voluttà; tutto questo, di conseguenza, è errore e corruzione. O fedeli, o
figli di Dio, non abusate di queste false concupiscenze. Perché volgete le vostre
necessità in vanità? Voi avete bisogno di una casa come di una difesa contro le
ingiurie dell’aria; è una debolezza; voi avete bisogno di nutrimento per
restaurare le vostre forze che si esauriscono e si dissipano in ogni momento:
altra debolezza; voi avete bisogno del letto per riposarvi dalla vostra
stanchezza e lasciarvi andare al sonno che lega e seppellisce la vostra ragione:
altra deplorevole debolezza. Voi fate di tutti questi testimoni e di tutti
questi monumenti della vostra debolezza uno spettacolo alla vostra vanità, e
sembra che vogliate trionfare dell’infermità che vi circonda da ogni parte.
Mentre il resto degli uomini si inorgoglisce dei propri bisogni, e sembra voler
ornare le sue miserie per nasconderle a se stesso, tu almeno, o Cristiano,
discepolo della verità, distogli i tuoi occhi da queste illusioni. Ama nella
tua tavola il sostegno necessario del tuo corpo, e non questo apparato
sontuoso. Felici coloro che, ritirati umilmente nella casa del Signore, si
dilettano nella nudità della loro piccola cella e del modesto armamentario di
cui hanno bisogno in questa vita, che non è che ombra di morte, per non vedervi
che la loro infermità ed il giogo pesante di cui il peccato li ha caricati!
Felici le vergini consacrate, che non vogliono essere lo spettacolo del mondo,
e che vorrebbero nascondersi a se stesse sotto il velo sacro che le circonda!
Felice la dolce costrizione ai loro occhi per non vedere le vanità, per dire
con Davide: « Allontanate i miei occhi al fine di non vederle! » Beati coloro che
abitando secondo il loro stato in mezzo al mondo, come questo santo re, non ne
sono toccati, che lo traversano senza legarvisi; « che usano – come dice San
Paolo – di questo mondo come se non ne usassero; » che dicono con Esther sotto
il diadema: « Voi sapete, o mio Signore quanto disprezzi questo segno di
orgoglio e tutto ciò che può servire alla gloria degli empi, e che la vostra
serva non si è mai rallegrata se non di Voi solo, o Dio di Israele; » che
ascoltano questo grande precetto della legge: « non seguite i vostri pensieri
ed i vostri occhi, contaminandovi con diversi oggetti, » che sono la corruzione
e, per parlare con il sacro testo, la fornicazione degli occhi; infine coloro
che prestano ascolto a San Giovanni, che, penetrato da tutta l’abominazione che
è legata agli sguardi, tanto di uno spirito curioso che gli occhi catturati
dalla vanità, non cessa di gridar loro: « Non amate il mondo che è pieno di
illusioni e di corruzione per la concupiscenza degli occhi. » (BOSSUET,
Traité de la concup., ch. IX.)
ff. 15. – « Si dice
felice il popolo che gioisce dei suoi beni; no, ma felice il popolo che come
solo padrone, possiede Dio. » – Spesso in un popolo giunto alla fine prossima,
i germi di morte che esso contiene in seno sono dissimulati sotto le apparenze
della prosperità. Le nazioni vicine ammirano questo popolo, lo proclamano il
più felice tra i popoli, mentre Dio lo ha già condannato ed i suoi giorni sono
contati. – Quel serio e triste soggetto di riflessione per la nostra Francia! «
Perché, dopo tutto, nessuno degli elementi ordinari che costituiscono la
prosperità di una nazione ci viene rifiutato. Il frumento, che è la vita
dell’uomo, riempie e sovraccarica i nostri granai, troppo ripieni di
abbondanza; tutti i mari sono solcati da navigli che portano i loro tesori al
nostro continente, e lo stato non riesce a marcare con la sua effige l’oro che
affluisce da noi dall’estremità della terra;
» e ciò che la saggezza di tutti i popoli, conforme agli insegnamenti
della Scrittura, ha sempre segnalato come la principale ricchezza di un paese,
la patria è dotata di una popolazione numerosa, di una gioventù lussureggiante.
L’arte si è aggiunta alla natura per moltiplicare sul nostro suolo i pascoli e
le greggi, e la fecondità non manca alle nostre pecore, né il sovrappeso ai
nostri buoi. Appena sussiste nelle nostre città ed anche nei nostri borghi, una
abitazione che cela la miseria e della quale la rovina affligga gli occhi del
viaggiatore. Il grido della destrezza non si fa intendere per le strade e sulle
piazze. Non c’è l’uso di chiamare felice il popolo che ha tutte queste cose? –
E tuttavia, fenomeno inspiegabile! In mezzo a tutte queste condizioni di
benessere, noi proviamo tutte le angosce dello scioglimento: noi siamo poveri
nell’abbondanza, tremanti in seno alla pace; ciò che, in altri tempi faceva la
ricchezza e la sicurezza di una nazione, non ci porta che perturbazione e timore.
Chi dunque ci ha messo in questo stato? Le sante Scritture e la storia del
popolo di Dio ci rispondono: che se è la giustizia che eleva una nazione, è il
peccato che la rende infelice. Così il più grande e il solo ostacolo alla
tranquillità pubblica, è la nostra opposizione a Dio, è la nostra ingiustizia
nei riguardi della verità, è la nostra simpatia perseverante per la menzogna, è
l’iniquità che lasciamo ristagnare nel fondo delle nostre anime. Ecco il
terribile avversario della patria; il nemico mortale della repubblica,
dell’impero, del reame, di tutte le forme che il diritto pubblico e l’autorità
possono rivestire tra noi. È l’empietà! (Mgr
PIE. Disc. et Instruct. I, p.
356, 357.) – Che altri
felicitino dunque la nostra patria di tutti questi vantaggi. Io mi consento di
aggiungere la mia voce alla loro voce, purché mi si lasci aggiungere: « Felice
il popolo che, arricchito dal grasso della terra, non lasci di implorare la
rugiada del cielo! Felice il popolo potente e religioso ad un tempo, forte e
sottomesso, che sa comandare alla natura ed obbedire al Creatore! Felice, in
una parola, il popolo grande e fedele di cui il Signore è sempre il Dio! »
(Idem, t. I, 45).
Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (13)
[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]
TERZA PARTE
MEZZI
PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE
Capitolo IX.
IL CUORE DI GESÙ E LA PENITENZA
Eucaristia e
Penitenza: Sacramenti del Cuore di Gesù
Attraverso il Battesimo e la Cresima, il
Salvatore ci ha dato il Suo Spirito. Attraverso l’Eucaristia ha aggiunto a
questo primo dono quello della sua carne, del suo sangue, anima e divinità.
Cos’altro ancora può offrirci? Gesù Cristo non avrebbe più nulla da offrirci
sulla terra, se ci vedesse solo come creature imperfette da perfezionare. Ma
questa non è la nostra condizione: non siamo non solo imperfetti, ma anche
peccatori. E l’ufficio principale del Salvatore è quello di liberarci dal
peccato. Per realizzare questo, Egli istituisce un nuovo Sacramento, che ci
manifesta l’amore del suo Cuore sotto un nuovo aspetto: il pozzo senza fondo della
sua misericordia. La penitenza, come l’Eucaristia, merita di essere chiamata il
mistero dell’amore, il Sacramento del Cuore di Gesù. L’Eucaristia è il mistero
dell’amore, fino al dono completo di sé. La Penitenza è il mistero del perdono,
dell’amore che giunge fino a dimenticare se stesso. Il secondo di questi
misteri non manifesta con meno splendore del primo l’onnipotenza del Cuore di
Gesù. Quando ha voluto istituire il primo, Egli non ha trovato altri ostacoli
che le leggi della natura. Ma per istituire la Penitenza, era necessario
superare l’infinita ripugnanza al peccato del Cuore infinitamente santo di un
Dio e far prevalere su di essa un’infinita condiscendenza verso l’uomo
peccaminoso. Gli Sngeli erano stati liberati dal peccato con una grazia di
preservazione. Gli infedeli ad essa, già alla loro prima ribellione, erano
stati puniti senza alcuna speranza di perdono. Per l’uomo, più debole di loro,
Dio doveva agire diversamente: così come non sarebbe stato impeccabile dopo il
primo atto meritorio, così sarebbe stato punito dopo la sua prima caduta. La
sua lotta contro il peccato durerà quanto la sua vita: né il Battesimo, né la
Cresima, né l’Eucaristia lo metteranno al riparo da questo nemico. Dovrà
combattere ad ogni passo, ed in ogni momento potrà essere sconfitto. Ma grazie
alla Penitenza, avrà una mano per rialzarsi dalle sue cadute, profittare delle
sue sconfitte, trasformare in fonti di merito gli stessi peccati, dei quali
tutti sarà spogliato. Solo la misericordia infinita del Cuore di Gesù poteva
compiere tali meraviglie.
Penitenza:
riconciliazione di due opposti interessi
La prima meraviglia operata dal Cuore di
Gesù nel Sacramento della Penitenza è la perfetta riconciliazione dei due
interessi che gli uomini hanno sempre visto come inconciliabili: quello della
gloria di Dio e quello dell’uomo peccatore. La conservazione della legge e la
salvezza del trasgressore. La riparazione del crimine e la conservazione del
criminale. Prima di Gesù Cristo, come dopo di Lui, gli uomini hanno cercato
invano un bilanciere che permettesse loro di avere in equilibrio tali interessi
contrapposti. Solo Gesù Cristo, Giustizia incarnata, ha trovato l’equilibrio
che gli uomini hanno cercato invano. E lo ha stabilito con un Sacramento che
sembrava tendere alla distruzione di ogni santità e giustizia. Supponiamo che
un sovrano abbia una legge promulgata in tutto il suo impero che assicuri l’impunità
a ladri, assassini, adulteri e criminali di ogni genere, a condizione che,
essendo sinceri e pentiti, confessino i loro crimini, nel più inviolabile
segreto, ad un magistrato per questo scopo prescelto. La supposizione è assurda.
Ammettiamo, però, che sia così. Chi non crederebbe di vedere in una tale legge
il sacrificio di tutti i diritti legittimi, la sanzione di tutti i crimini e
gli eccessi, la rovina di tutte le istituzioni sociali? Ebbene, Gesù Cristo non
ha avuto paura di promulgare una legge così umanamente assurda, ma che non ha cessato
di essere in vigore nella Chiesa Cattolica. Nessun crimine, nessun misfatto è
esente dal beneficio di questa legge. Non è stato posto alcun limite alla
reiterazione del perdono. L’impunità è assicurata in anticipo a tutti coloro
che peccano, qualunque sia il numero e l’enormità delle loro offese, dal
momento in cui vengono ad accusarsi con sincerità e con vero pentimento.
Affinché questa condizione possa essere facilmente soddisfatta, il numero di
magistrati incaricati di ascoltare le confessioni e di perdonare le colpe è in
continuo aumento. Sono in ogni parte del mondo, in ogni città, in ogni paese e
persino in quasi tutti i villaggi. Hanno l’incarico di non aspettare che i
criminali vengano a cercarli, ma di andare loro incontro e di portare il perdono
a casa loro, se i criminali trovano troppo dispendioso venire in tribunale.
Devono ascoltare senza indignazione la narrazione dei crimini più abominevoli;
mostrare compassione ai malvagi per i quali la prigione e il patibolo sarebbero
pene molto blande. E dopo aver dimostrato la realtà delle più odiose violazioni
della legge divina, la loro unica sentenza dovrebbe essere l’assoluzione, a
meno che non la si rifiuti rinnegando volontariamente il pentimento. Come
potrebbe funzionare una tale istituzione nella Chiesa senza distruggere
completamente non solo la Chiesa, ma anche la legge divina su cui poggia?
La penitenza
distrugge il peccato.
La potenza del Cuore di Gesù ha fatto
questo miracolo! Un vero miracolo, anche se non unico. Aggiungete quindi a
questo Sacramento un secondo, ancora più ammirevole, stupefacente. Sacrificare
in apparenza tutti i suoi diritti per la salvezza del peccatore, la giustizia
misericordiosa di Dio ha guardato, più efficacemente della giustizia degli
uomini, alla distruzione del peccato. Con esso, il Sacramento che sembrava
essere l’abolizione della legge è, al contrario, la sua salvaguardia e il suo
più potente sostenitore. Lungi dal moltiplicarsi dei crimini, ne ha distrutto
le radici più profonde. Perché, ovunque sia stato in vigore, ha reso
inutilizzabili non solo le guarnigioni, ma anche le carceri. Basta un momento
di riflessione per convincersi che debba essere proprio così. Quali sono le
cause del crimine? Non sono forse le passioni disordinate, i cattivi sentimenti
del cuore? Lascite germogliare una brutta passione nel profondo dell’anima
senza ostacoli, e presto vedrete i suoi frutti velenosi germogliare verso
l’esterno. Mancherà solo un’occasione favorevole per far scoppiare il crimine.
Le considerazioni umane potranno fermare per qualche tempo le eruzioni del
vulcano che ruggisce al suo interno. Ma presto questa diga troppo debole non
sarà in grado di contenere la colata lavica in aumento. Sfonderà
improvvisamente l’ostacolo, e guai a chi lo ostacola! Per distruggere il
crimine è necessario scendere nelle profondità dell’anima e prosciugare la
sorgente di questo torrente devastante. Per preservare la società dal contagio
del vizio è necessario purificare il cuore dal veleno delle passioni depravate.
Questo fa e farà sempre con ineffabile efficacia il Sacramento della Penitenza.
Esso obbliga il peccatore a penetrare nei recessi della sua coscienza per
riconoscere e distruggere non solo gli atti criminali esterni, ma anche i
desideri ed i pensieri più intimi che li suscitano. Poiché il penitente si esporrebbe
all’illusione se fosse il solo a istruire la sua causa, gli viene dato il
Sacramento della Penitenza da un aiutante istruito, gentile e disinteressato,
incaricato di vegliare sugli interessi della legge divina e su quelli della sua
anima. Con l’aiuto di questo intimo consigliere, egli può scoprire nel suo
cuore tutti i semi che sono stati messi nel terreno e rimuoverli prima che
portino i frutti della morte. Se sono germogliati, la Penitenza li strappa via
e ne impedisce la rinascita. Sotto la sua influenza, il peccatore prende contro
se stesso gli interessi della legge. Si fa da sé proprio giudice, e la
punizione interiore che impone a se stesso è più efficace, più santificante e
più salutare di tutte le punizioni esterne. Potremmo giustamente dire di questo
Sacramento che è in realtà un’ammirevole salvaguardia degli interessi della
legge. Infatti, non c’è peccato o crimine, per quanto abominevole, che non
sopporti e non perdoni. Ma perdonando il peccatore distrugge il peccato. Colui
che viene giustiziato dalla misericordia divina, assolto dal Tribunale della
Penitenza, si trasforma in un uomo completamente nuovo: da colpevole è
diventato veramente un santo, poiché ha appena acquisito la grazia
santificante. La penitenza trasforma il male in merito. La misericordia del
Cuore di Gesù in questo Sacramento si estende a molto di più. Non solo
distrugge tutte le iniquità, ma trasforma i mali in merito e ci fa trovare,
anche nella morte, un mezzo di vita. Quando il peccato è entrato nell’anima ha
tolto tutti i suoi meriti, perché il merito è il diritto alla vita eterna, che
non può sussistere in un’anima condannata alla morte eterna. Ma questi meriti
non sono stati distrutti in modo tale da non poter essere rianimati. Avevano
cessato di esistere nella persona del loro legittimo possessore, che,
rinunciando ad essi, diventava incapace di rivendicarli. Ma anche quando
cessano di esistere nella sua persona, rimangono indelebili nella mente di Dio.
Così, quando nella Penitenza il possessore di questi meriti torna in vita, essi
rinascono con lui e riportano alla sua anima i frutti immortali. Il peccatore si
trova in ascesa e ricco com’era prima di cadere. Ma il Cuore di Gesù non si
accontenta di questo: vuole che il perdono sia un anticipo, e che il peccato,
di cui si confessa colpevole, sia l’occasione e la questione di nuovi meriti.
Infatti, il Sacramento che perdona i suoi peccati produce con la sua stessa
virtù un aumento di grazia santificante. Ciascuno degli atti soprannaturali che
il penitente compie è accompagnato da un aumento di questa grazia proporzionale
al fervore con cui li compie. Ora, ad ogni grado di grazia santificante ne
corrisponde uno di merito e di gloria per tutta l’eternità.
Conclusione.
Non è senza ragione che attribuiamo
questi miracoli di misericordia in modo speciale al Cuore di Gesù. Per Lui, e
Lui solo, è sia l’inizio immediato che la causa remota dei buoni effetti
prodotti dal Sacramento della Penitenza. Il sacerdote è l’interprete e lo strumento
del Cuore di Gesù. L’assoluzione che egli pronuncia non sarebbe altro che una
formula vana se non fosse ratificata dal Cuore Divino e se non mandasse
all’anima del peccatore l’unica cosa che può purificarla: la grazia. Questa non
è altro che l’applicazione degli infiniti meriti acquisiti dai dolori e dall’agonia
del Cuore di Gesù. Solo questo può spiegare ciò che altrimenti sarebbe
inspiegabile. Se è così facile per noi espiare i nostri crimini è perché il
Cuore di Gesù ha espiato per tutti loro ed ha offerto un prezzo sovrabbondante
per ognuno di loro. La facilità del perdono non solo non ci renderà meno odiose
le nostre colpe, o pentiti meno amareggiati, ma al contrario, ci farà concepire
un dolore mille volte più vivo. Non avviciniamoci mai a quel tribunale della
misericordia senza ricordare quella terribile notte del Getsemani, in cui il
Cuore di Gesù fu tanto schiacciato che un sudore di sangue fuoriuscì da tutto
il suo corpo, gli inzuppò le vesti e inondò il suolo. Questo stesso sangue è
versato su di noi. E non saremo forse penetrati dall’orrore più vivido, quando
lo riceviamo sopra la nostra testa, dal peccato che lo ha fatto germogliare? Ma
come possono tanti uomini mostrare così poca gratitudine a questo capolavoro
della Sua misericordia? Come possono rifiutare i mezzi infallibili per
riconquistare la pace per le loro anime? Misteri di cecità ed ingratitudine non
meno impenetrabili di quelli della bontà divina!
Capitolo X
Il CUORE DI GESÙ E L’ESTREMA UNZIONE
L’Estrema
Unzione rispetto agli altri Sacramenti.
Nel Sacramento della Penitenza il Cuore
di Gesù dispiega tutte le ricchezze della sua misericordia. Prepara la nostra
debolezza ad un copioso riscatto e non pone limiti al perdono. Tuttavia, anche
se l’anima riacquista la grazia, può non ritrovare la pienezza della sua forza.
Questa debolezza potrebbe essere fatale nella battaglia finale: l’agonia che
porta all’eternità. È stato quindi degno della bontà e della saggezza del
nostro Capo, l’offrirci un ultimo soccorso per questa crisi. Lo ha fatto
attraverso l’Estrema Unzione. La penitenza è un secondo Battesimo. L’Estrema
Unzione può essere considerata come una seconda Confermazione. La ragione di
questa somiglianza tra questi Sacramenti è la grande analogia dei loro effetti.
L’unzione del santo crisma nella Cresima prepara i Cristiani alle lotte della
vita, l’unzione dell’olio santo nell’Estrema Unzione li prepara alle lotte
della morte. La prima dona all’anima la perfezione della grazia santificante,
la seconda la prepara a ricevere la perfezione molto più alta della gloria.
Come la pienezza della vita cristiana conferita dalla Cresima è un’emanazione
del Cuore di Gesù, così la grazia di una morte cristiana, data dall’Estrema
Unzione, scaturisce unicamente dalla carità del Cuore Divino.
Significato e
scopo della morte.
Prima di tutto, è necessario comprendere
il significato e lo scopo della morte. Questa non è altro che una temporanea
riparazione per il peccato, così come l’inferno è la sua eterna espiazione. A
causa del peccato, l’uomo nega a Dio il suo titolo di Signore sovrano e di fine
eterno. È proprio in questa ribellione volontaria contro Dio, non nell’atto
materiale in sé, che consiste la malizia del peccato. Per quanto disordinato
possa essere di per sé questo atto, non sarebbe peccato se si ignorasse che è
contrario alla volontà di Dio. Ma dal momento in cui l’uomo vuole
volontariamente togliere il suo essere dal dominio sovrano di Dio, l’infinita
maestà del Creatore esige una riparazione, che gli offriamo offrendogli la
morte. La morte, infatti, distrugge l’opera del peccato sulla terra. Essa
manifesta il supremo dominio di Dio, prostrando ai suoi piedi l’essere
orgoglioso e insolente che aveva osato sollevarsi contro di Lui. È proprio la
manifestazione del potere assoluto di Dio attraverso la distruzione di tutto
ciò che vi si può opporre, che le religioni hanno voluto mostrare con i
sacrifici. L’uomo ha sempre creduto che fosse necessario placare Dio
offrendogli vittime la cui immolazione era la figura del suo stesso sacrificio.
Dio accetta il simbolo, poiché i sacrifici simbolici sono un atto di religione
gradito ai suoi occhi, perché vogliono ristabilire l’ordine distrutto dal
peccato. Ma quest’ordine non può essere pienamente ristabilito fino a quando il
peccato non sarà punito nell’essere che lo ha commesso. La morte è l’unico
sacrificio completo, l’atto supremo della Religione, l’ultima ed indispensabile
preparazione dell’uomo peccatore alla sua eterna unione con Dio.
La morte è
convertita dal Cuore Divino in un sacrificio
di grazia e di consolazione.
Si guardi fino a che punto arriva la
bontà e la misericordia del Cuore di Gesù! Questo sacrificio di giustizia e di
vendetta è convertito dal Cuore Divino in un sacrificio di grazia e di
consolazione per i Cristiani. Come ha divinizzato la nostra vita, Egli divinizza
pure la nostra morte. Non sappiamo forse che Egli abbia comunicato una dignità
e una virtù divina a tutti coloro di cui si è rivestito per la nostra salvezza?
Cosa manca, dunque, perché anche la nostra morte sia divinizzata? Che il Figlio
di Dio la prenda come ha preso la nostra natura; che, dopo essere sceso sulla
terra, scenda nella tomba e muoia per noi dopo essere nato per noi. Così ha
fatto! Ha preso la nostra morte, e l’ha presa per noi, perché Egli era
immortale. E così, come ha abbracciato tutte le infermità prendendo la nostra
natura, ha voluto anche assaporare tutta l’amarezza e i terrori della nostra
morte; con l’intento che queste paure ed agonie siano per noi flussi di grazia
e strumenti di vittoria. Anche in questo ha seguito un piano: Egli ci salva,
non preservandoci dagli attacchi del male, ma dandoci la forza di sostenere i
suoi assalti e superare i suoi sforzi. Lascia i nostri nemici interamente
liberi e ci dà la gloria di vincerli combattendo e sconfiggendoli Egli stesso
con noi. Per questo Gesù ha voluto soffrire, prima di morire, tutti i dolori e
i terrori dell’agonia. Tutto ciò sarebbe estremamente inconcepibile in un Dio,
se non tenessimo conto del fatto che si è fatto uomo per essere il Capo dell’umanità,
e che ha pagato tutti i nostri debiti. Il primo di questi è stato proprio la
morte, e quindi era giusto che Lui la pagasse per noi e ci mettesse in
condizione di pagarla con Lui. Quando si immerse nelle acque del Giordano, vi
seppellì i nostri crimini. Immergendosi nell’Orto degli Ulivi, nell’oceano
amaro dell’agonia, ha dato a queste amarezze la virtù di santificare l’agonia e
la morte dei suoi fratelli. Di Lui è stato scritto che riceviamo tutto dalla
sua pienezza, per grazia. Vivendo per noi ha acquistato per noi la grazia di
vivere con Lui, e morendo per noi ha ottenuto per noi la grazia di morire con
Lui. Era molto giusto che, per riversare su di noi i tesori di meriti che Egli
ha accumulato nell’amarezza della sua agonia, usasse un canale particolare, il
Sacramento dei morenti: l’Estrema Unzione.
Effetti dell’Estrema
Unzione
La materia di questo Sacramento è
mirabilmente scelta per indicare i suoi effetti. L’olio è una sostanza che
illumina, fortifica, ammorbidisce ed è usato per ogni tipo di consacrazione.
Produce nell’anima del Cristiano che sta per lasciare questo mondo tutti questi
effetti: lo illumina spiritualmente, gli fa vedere la verità delle cose,
scoprendo il nulla di ciò che accade, il prezzo dei beni eterni, il male del
peccato, il bene della morte. Chi non ha ammirato quell’improvvisa chiarezza
che brilla negli occhi dei Cristiani morenti, unti con l’olio santo e alla cui
presenza le grandi illusioni si dissipano come una nuvola? Da dove possono
venire questi raggi luminosi così improvvisi, se non dal Cuore di Gesù e dalla
spaventosa oscurità in cui si è avvolto per amore nel Getsemani e sul Calvario?
L’olio santo fortifica l’atleta di Gesù Cristo nel momento in cui sta per
sostenere l’ultimo combattimento. Forse fino ad allora è fuggito dalla lotta,
forse purtroppo ha ceduto. Tuttavia, egli non può essere esonerato dalla legge
universale di non raggiungere la corona senza ottenere la Vittoria. Gli viene
presentata una lotta con la quale può recuperare ciò che gli è mancato in tutti
gli altri combattimenti, una vittoria decisiva che annullerà tutte le sue
sconfitte. Ma la sua natura svanisce, la sua energia si esaurisce e tutto il
suo essere è avvolto dal terrore della morte. Dove trovare le armi e l’incoraggiamento
necessario per sconfiggere i suoi avversari? Nei tesori del Cuore di Gesù, i cui
meriti gli saranno comunicati dall’olio sacro dell’Estrema Unzione. Non appena
la santa unzione si sarà estesa attraverso le sue membra, egli potrà dire con
l’Apostolo: « Quando più debole mi sento, è allora che sono più potente ». La
sua amarezza non sarà diminuita, ma da queste torture scaturirà una fonte di
pace e di consolazione. Insieme al Cuore di Gesù morente ripeterà la preghiera
dell’Orto degli Ulivi: « Padre mio, se è possibile, passi questo calice da me.
Ma non sia fatta la mia volontà, bensì la tua. » L’olio non è solo un principio
di forza, ma serve anche per ammorbidire: è uno dei principali lenitivi. Un
effetto simile è prodotto dall’olio santo nell’anima del Cristiano morente.
Spesso elimina gli orrori della morte, e proprio in coloro che ne avevano con
più intensità durante la sua vita, questo effetto appare con maggiore evidenza.
Se nell’ultima ora si gode una pace che non si è goduta mai, sappiate che lo
dovete al misterioso terrore del Cuore di Gesù: « Non pensavo – diceva un santo
religioso – che fosse così dolce morire. Non avevo mai pensato che ad ogni
amarezza sofferta dal Cuore di Gesù corrispondesse una nostra dolcezza: grazia
per grazia ». L’olio è il mezzo universale di consacrazione. Si usa per ungere
sacerdoti e re. È proprio per questo motivo che si usa per ungere il Cristiano
nel momento in cui sta per offrire il suo ultimo sacrificio e conquistare
definitivamente la sua eterna regalità.
Il Cristiano è,
sul letto di morte, sia sacerdote che vittima.
Come Gesù sulla croce, il Cristiano è
sul letto di morte, sacerdote e vittima allo stesso tempo. I due uomini che
egli porta in grembo dal giorno del suo Battesimo, l’uomo del peccato e l’uomo
della grazia, saranno definitivamente separati. La loro separazione non può che
consumare la glorificazione dell’uomo di grazia nella misura in cui essa
consuma la immolazione dell’uomo del peccato. L’Estrema Unzione prepara il
membro di Cristo a compiere, con il suo Capo Divino, una gloriosa quanto
dolorosa immolazione. Ogni volta che si avvicinava all’altare, annunciava la
morte del Salvatore e si univa misticamente al Suo sacrificio. Ora è necessario
riprodurlo realmente per poterne raccogliere tutti i frutti. Nel ricevere l’ultima
unzione, si prepara, come membro della razza prescelta, della nazione santa,
della tribù reale e sacerdotale, a compiere l’ultimo atto delle sue funzioni
sacerdotali. Ma questa unzione è molteplice: si applica ai cinque sensi, ai
reni e ai piedi. Perché? Perché nello stesso tempo che consacra il Cristiano come
sacerdote, e gli dà la forza di consumare il suo sacrificio, lo consacra anche
come vittima, e prepara il suo corpo alla gloriosa trasformazione che lo
attende. Aveva violato la legge con tutti i suoi sensi, i suoi poteri affettivi
e le sue forze motrici gli erano serviti come strumenti di peccato: vittime che
la morte immolerà. Ma poiché questo sacrificio deve essere un sacrificio d’amore,
la santa unzione purifica la vittima prima della sua immolazione, figura questa
della beatificazione che si realizzerà nella prossima vita. Molto presto quegli
stessi occhi, quegli stessi orecchi, quello stesso corpo, quella stessa anima,
che la mano del sacerdote prepara con l’ultima unzione per sopportare con fede
ed amore gli attacchi della morte, saranno inondati dall’olio della gioia, il
balsamo della vita eterna.
Capitolo XI
IL CUORE DI GESÙ E L’ORDINE
L’Ordine nel
piano del Cuore di Gesù.
Darla agli uomini, attraverso il
Battesimo, aumentarla con la Cresima, offrirgli il cibo divino nell’Eucaristia,
restaurarla con la Penitenza e l’Estrema Unzione, sono tanti benefici del Cuore
di Gesù, tanti canali attraverso i quali si distribuisce la grazia
soprannaturale di cui Egli possiede la pienezza. Affinché questi canali non si
esaurissero mai e affinché questi benefici fossero a disposizione delle anime
fino alla fine dei tempi, era necessario che Egli scegliesse sulla terra
ausiliari e cooperatori, per dare ai figli degli uomini non solo il potere di
raggiungere la filiazione divina, ma anche di dare figli a Dio. Bisognava
renderli capaci di comunicare la vita di Dio, di distribuire il suo Spirito, di
far risorgere le anime, di far crescere il loro corpo mistico, e quindi di far
crescere Dio stesso, anche se non è di per sé soggetto a qualsiasi crescita. Questa
è la meraviglia delle meraviglie che Gesù ha compiuto sulla terra istituendo il
Sacramento dell’Ordine. Alle creature di tutti i regni della creazione, Dio
concede l’onore di lavorare con Lui. Non solo li rende partecipi del suo
essere, ma vuole anche che partecipino alle sue opere. Così li unisce l’uno all’altro,
e rende l’universo nel suo insieme così concatenato e armonioso. Egli lavora
ovunque, ma in nessuna parte da solo. Egli muove tutti i corpi, ma lo fa
attraverso l’azione di altri corpi. Illumina le intelligenze, ma in genere fa
intervenire altre intelligenze. Dà vita a tutti gli esseri viventi, ma richiede
la collaborazione di altri esseri viventi. Dio Figlio ha voluto seguire nella
redenzione una dinamica simile a quello di Dio Padre nella creazione. Anche se
avrebbe potuto fare tutto da solo, voleva avere dei collaboratori. Ha concesso
agli uomini l’onore di aiutarlo a produrre la vita soprannaturale, la cui unica
focalizzazione e fonte inesauribile è nel suo Cuore. Da Lui, e da Lui solo, gli
Apostoli ricevono l’impulso e la forza per far nascere le anime, i Dottori per
illuminarle, i Pastori per nutrirle. E attraverso l’opera dei vari cooperatori
e il fedele adempimento dei loro ministeri, che le anime vengono santificate e
il Corpo mistico del Salvatore cresce. Così il mondo soprannaturale diventa più
vario e bello, e l’edificio divino si avvicina sempre più alla perfezione.
Il sacerdote è
“Alther Christus”.
Se vogliamo sapere che cosa sia un
Sacerdote nella Chiesa, dobbiamo prima di tutto immaginarlo come il
luogotenente di Gesù Cristo, come il suo interprete e ministro, e non solo a
parole, come un altro Gesù Cristo. Perché non c’è una delle funzioni divine esercitate
da Gesù Cristo sulla terra che non sia esercitata anche dal Sacerdote. E non
esiste un potere divino conferito al Figlio di Dio dal Padre, che il Figlio di
Dio non abbia delegato ai suoi Sacerdoti. Come Lui e attraverso di Lui, essi
sono per gli uomini, i loro fratelli, la verità, la via e la vita: tre funzioni
in cui si riassume la missione del Salvatore. Gesù Cristo, infatti, è prima di
tutto la verità, la luce del mondo, un titolo che gli si dà e che gli è dovuto.
Solo Lui ha istruito gli uomini su tutti i grandi problemi, la cui soluzione è
di fondamentale importanza per essi. Ma, allo stesso modo, dice ai suoi
Apostoli: voi siete la luce del mondo! Se il Verbo divino è la luce che
illumina, i Sacerdoti sono le torce con il quale, unico mezzo, si diffonde la chiarezza. Gesù Cristo
è la via e la porta del cielo: chi non entra da questa porta sarà per sempre
escluso dalla vita. Chi non segue questa strada, inevitabilmente si smarrirà.
Non è solo il Sacerdozio che può mostrare questa via e aprire questa porta? Non
ha ricevuto, nella persona del suo Capo, le chiavi del cielo? Gesù Cristo non
ha forse dato l’assicurazione che: tutto ciò che legherete in terra sarà legato
in cielo e tutto ciò che scioglierete in terra sarà sciolto in cielo? Non vi ha
affidato l’interpretazione dei suoi precetti? Non ha forse detto che avrebbe
considerato coloro che non avrebbero ascoltato i suoi ministri come ribelli
contro la sua stessa autorità? Gesù Cristo è la vita e il Padre delle anime; il
nuovo Adamo che genera per l’eternità, a coloro che Egli dapprima fa nascere
alla vita vivendo la morte eterna. Non hanno forse i Sacerdoti il diritto di
dire a tutti coloro che essi rigenerano con le acque del Battesimo e nutrono
col pane eucaristico, quello che San Paolo diceva ai suoi discepoli: « Non sono
solo il vostro maestro, ma anche vostro padre, perché vi ho veramente generati
in Gesù Cristo »? Infine, Gesù Cristo risuscita le anime, le libera dalla morte
del peccato, spezza le loro catene, ripristina la loro salute insieme alla
vita, ed è per questo che merita il nome di Salvatore. Ma un tale potere
divino, al cui confronto la resurrezione dei morti ha ben poco valore, non
viene esercitato ordinariamente attraverso il ministero dei Sacerdoti? Il
Sacerdote non pronuncia ogni giorno la parola che fu uno scandalo per i Giudei
(perché sembrava loro propria ed esclusiva di Dio): Io ti assolvo, ti libero
dal giogo di satana, ti do la vita che avevi perso, il cielo a cui non avevi
diritto? Non invano Gesù Cristo disse ai suoi ministri quando ascese al cielo:
« Come il Padre mio ha mandato me, così io mando voi ». Non sono vane le
promesse che, se rimarrete uniti a Lui come il tralcio alla vite, darete molto
frutto e farete opere simili alle sue, anzi più grandi delle sue. Il Sacerdozio
ha compiuto questa missione divina e ha realizzato questa magnifica
predicazione. Da quando Gesù è salito in cielo, i suoi Sacerdoti non hanno
cessato di fare sulla terra le opere che Egli, nella sua vita mortale, ha
compiuto; e hanno convertito incomparabilmente più peccatori, illuminato più
infedeli, santificato più anime di quante ne abbia fatte Egli personalmente.
Il sacerdote ha
potere sullo stesso Gesù Cristo.
Il Sacerdote è veramente un altro Gesù
Cristo. Possiamo dire qualcos’altro? Sì, il potere che esercita su Gesù Cristo:
il potere di comandare il Figlio dell’Onnipotente. Gesù Cristo, dalla sua
Ascensione, ha tre vite: quella gloriosa in cielo, quella sacramentale nell’Eucaristia
e quella mistica nelle anime. La gloriosa non può essere soggetta ad alcun
potere, perché è elevata al di sopra di ogni principato e potere. Ma, per
quanto riguarda le altre due vite, Gesù Cristo è del tutto subordinato al
potere dei suoi Sacerdoti. È da loro che riceve la sua vita sacramentale,
perché non scende sull’altare se non quando lo chiamano con le formule della
Consacrazione. Egli è alla loro mercé e a loro disposizione come il più umile schiavo;
con i loro orari stabiliti ed attende le loro consolazioni. Quando e come lo
desiderano, con la maggiore o minore frequenza che conviene, riceverà sull’altare
questa nuova esistenza. Quando vorranno toglierlo, si lascerà togliere senza
mai mostrare alcuna resistenza. Avete mai visto un servo così docilmente
sottomesso agli ordini dei suoi padroni? La schiavitù si definiva dicendo che
lo schiavo era una cosa del suo padrone. L’Eucaristia è una delle cose di cui
il Sacerdote può disporre a suo piacimento. Infatti, se rinchiude la vittima
eucaristica in un oscuro tabernacolo, questa non farà nulla per uscire dagli
angusti limiti della sua prigione. La lascerà quando vorrà, andrà dove vorrà, e
camminerà in trionfo per le strade e per le piazze di una città, o per entrare
in un lurido tugurio, luogo dove la povertà lotta disperatamente contro gli
orrori della malattia. Per unirsi ad un’anima angelica o per esporsi ai baci
sacrileghi di un nuovo Giuda. Tutte quelle cose che il Sacerdote comanderà a
Gesù, Egli le farà come se non avesse altro pensiero, nessun altra volontà,
nessun altro potere che non sia quello del suo ministro. Non meno importante è
la dipendenza del Salvatore, per quanto riguarda la vita che Egli ha nelle
anime. Essa gli appartiene e la stima più della sua vita sacramentale e
corporea. Per darla a noi ed accrescerla senza interruzioni, è rimasto presente
nell’Eucaristia e non ha esitato un attimo a sacrificare la vita naturale che
il suo corpo riceve dall’anima, quando si è visto nella condizione di scegliere
questa o quella soprannaturale. Non si può infatti negare che è molto più
glorioso avere un corpo mistico composto da anime divinamente vivificate dal
suo Spirito, piuttosto che un corpo fisico, i cui elementi materiali sono
animati dalla sua anima. Ora, sia questa terza vita che la seconda vita, le
riceve Gesù dai suoi Sacerdoti, e per la sua conservazione e crescita dipende
dalla libera collaborazione dei suoi ministri. Un sacerdote zelante
santificherà molte anime rispetto ad un altro negligente che le lascia languire
nell’imperfezione e ad un altro malvagio che le porta alla perdizione. Gesù
Cristo riceverà dal primo una vita che il secondo gli darebbe solo in parte, e
che il terzo gli toglierebbe. Per mezzo di essi Egli nascerà nelle anime, crescerà,
diventerà forte, sarà curato nelle sue infermità e raggiungerà in cielo il loro
sviluppo perfetto. In questo modo inizia in tutti i Cristiani una nuova
esistenza, esposta a molti pericoli, combattuta da tanti nemici come la prima,
e molto più soggetta ai suoi ministri di quanto la sua vita mortale lo sia
stata alla Vergine Maria. Non è quindi un’esagerazione dire che il Sacerdote
partecipa veramente alla gloriosa maternità della Vergine; un’affermazione che
possiamo corroborare con la parola del Salvatore stesso. Un giorno gli fu detto
che sua madre e i suoi fratelli lo stavano aspettando: « Chi è mia madre –
rispose il Salvatore – e chi sono i miei fratelli? »; e rivolgendosi ai suoi
Apostoli: « Ecco – dice – mia madre e i miei fratelli; perché chi fa la volontà
del Padre mio questi è mio fratello, mia sorella e mia madre. » La volontà di
Dio Padre è la salvezza e la rigenerazione delle anime. Coloro che si dedicano
alla realizzazione di questo desiderio del Signore, non sono solo i fratelli di
Gesù Cristo, in quanto partecipano alla sua vita e acquisiscono diritti sul suo
patrimonio celeste, ma anche « sua Madre », comunicando la sua vita alle anime
e dando ad esse una vita completamente nuova.
L’Ordine è un
Sacramento del Cuore di Gesù.
Vista alla luce di queste considerazioni l’incomparabile dignità del Sacerdozio cristiano, non dubitiamo che sia un Sacramento del Cuore di Gesù. Il Cuore Divino non ne è solo l’inizio, come per gli altri, ma non c’è nessuno al di fuori di Lui che possa dare a chi sente le spalle appesantite da un carico così formidabile, la forza di portarlo senza soccombere. Ogni potere porta con sé una responsabilità il cui peso è proporzionato alla sua portata e alla sua eccellenza. C’è solo una forza capace di portare un fardello così grande: quella dell’amore divino. Per attirare Gesù Cristo sulla terra e per riceverlo con dignità, il Sacerdote deve mostrargli un amore simile a quello che brucia nel cuore degli abitanti del cielo. Per farlo nascere nelle anime, egli deve essere consumato, come Maria, nelle fiamme il cui fulcro è l’adorabile Cuore di Gesù. Dio Padre ha voluto che la comunicazione della sua paternità fosse accompagnata da quella del suo amore. Sappiamo tutti quanto sia vivo questo amore negli animali che sono insignificanti e deboli di per sé. E se la paternità animale pura è accompagnata da un vero e proprio abbandono, che dire allora della paternità spirituale? Colui che è stato scelto per dare la vita di Dio non amerà forse gli uomini con amore divino? Se l’amore paterno per gli uomini è sufficiente perché essi sopportino i fardelli della paternità umana, ci sarà pure un amore che dia la forza ai ministri di Gesù Cristo di compiere i loro doveri e di uscire illesi dai pericoli che la paternità divina conduce con sé. Non sorprende che Dio abbia proibito qualsiasi altra paternità a coloro che sono investiti da questa incomparabile paternità. La capacità di amare che il cuore di un uomo contiene non è eccessiva, per adempiere a tutti gli obblighi che il Sacramento impone a chi ha ricevuto un tale temibile onore. Per rappresentare davanti alle anime l’infinitamente amorevole Dio che è morto per loro, il Sacerdote deve essere distaccato da tutto ciò che può ridurre le sue forze e impedirgli di dare la vita per le anime a lui affidate. Come può il Sacerdote far capire e fare amare agli uomini l’eccelsa paternità attribuitagli? Per portare a termine il suo compito e attirare le moltitudini ostili, non ha altro rimedio che rinfrescarsi alla fonte del suo Sacerdozio, e attingere dal Cuore di Gesù un amore più ardente di tutti gli odi ed uno spirito di abnegazione in cui tutte le ostilità siano infrante. L’unione con il Cuore di Gesù, che per i Cristiani è il mezzo più efficace di santificazione, è per il Sacerdote la principale condizione di successo nel suo temibile ministero e l’unica garanzia di trionfo nella lotta feroce che deve sostenere. I fedeli non dimentichino: il trionfo del Sacerdozio è il trionfo della Chiesa e i pericoli che minacciano i pastori sono i peggiori e più formidabili attacchi al gregge.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 142
Psalmus David, quando
persequebatur eum Absalom, filius ejus.
[1] Domine,exaudi orationem meam; auribus
percipe obsecrationem meam in veritate tua; exaudi me in tua justitia.
[2] Et non intres in judicium cum servo tuo, quia non justificabitur in conspectu tuo omnis vivens.
[3] Quia persecutus est inimicus animam meam, humiliavit in terra vitam meam; collocavit me in obscuris, sicut mortuos sæculi.
[4] Et anxiatus est super me spiritus meus; in me turbatum est cor meum.
[5] Memor fui dierum antiquorum: meditatus sum in omnibus operibus tuis, in factis manuum tuarum meditabar.
[6] Expandi manus meas ad te; anima mea sicut terra sine aqua tibi.
[7] Velociter exaudi me, Domine; defecit spiritus meus. Non avertas faciem tuam a me, et similis ero descendentibus in lacum.
[8] Auditam fac mihi mane misericordiam tuam, quia in te speravi. Notam fac mihi viam in qua ambulem, quia ad te levavi animam meam.
[9] Eripe me de inimicis meis, Domine; ad te confugi.
[10] Doce me facere voluntatem tuam, quia Deus meus es tu. Spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam.
[11] Propter nomen tuum, Domine, vivificabis me; in aequitate tua, educes de tribulatione animam meam;
[12] et in misericordia tua disperdes inimicos meos, et perdes omnes qui tribulant animam meam, quoniam ego servus tuus sum.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXLII
Davide, nella persecuzione di Assalonne, conoscendo il proprio peccato, lo deplora e invoca la misericordia di Dio. È Salmo penitenziale, che insegna ai veri penitenti la norma di pregare.
Salmo di David, quando lo perseguitava
Assalonnesuo figlio.
1.
Signore, esaudisci la mia orazione; porgi le orecchie alle mie suppliche
secondo la tua verità; esaudiscimi secondo la tua giustizia.
2.
E non entrare in giudizio col tuo servo; dappoiché nessun vivente sarà riconosciuto
per giusto al tuo cospetto.
3.
Perché il nimico ha perseguitato l’anima mia; ha umiliata la mia vita fino alla
terra.
4.
Mi ha confinato in luoghi tenebrosi, come i morti da gran tempo; ed è involto nell’affanno
il mio spirito, il mio cuore si è conturbato dentro di me.
5.
Mi son ricordato dei giorni antichi, ho meditate tutte le opere tue; meditava
le cose fatte dalle tue mani.
6.
A te io stesi le mani mie; l’anima mia è a te come una terra priva d’acqua.
7.
Esaudiscimi prontamente, o Signore; è venuto meno il mio spirito. Non rivolger
la tua faccia da me, perché sarei simile
a que’ che scendono nella fossa.
8.
Fa ch’io senta al mattino la tua misericordia, perché in te ho sperato. Fammi
conoscer la via che ho da battere, perché a te ho elevata l’anima mia.
9.
Liberami, o Signore, da’ miei nemici, a te son ricorso; insegnami a far la tua
volontà. Perché mio Dio se’ tu.
10.
Il tuo spirito buono mi condurrà al diritto cammino, pel nome tuo, o Signore!
Mi darai vita secondo la tua equità.
11. Trarrai dalla tribolazione l’anima il e per tua misericordia manderai dispersi il nemici.
12.
E dispergerai tutti coloro che affliggono l’anima mia perché tuo servo son io.
Sommario
analitico
Davide, considerando la spada della
giustizia di Dio sospesa sulla sua testa, durante la ribellione di suo figlio
Assalonne, non osando invocare alcun merito personale, mette tutta la sua
fiducia nella misericordia di Dio. Davide è qui la figura di ogni peccatore
penitente.
I. Egli chiede a Dio di essere esaudito, e riporta
diverse ragioni in appoggio della sua preghiera:
1° egli prega di esaudirlo, secondo la
verità delle sue promesse e l’equità della sua giustizia (1);
2° perché se Dio entra in discussione ed
in giudizio con lui, nessun uomo vivente sarà giustificato davanti a Lui (2);
3° perché egli è stato perseguitato ed
umiliato profondamente dal suo nemico, dal demonio (3);
4° perché è stato gettato nell’oscurità
e nelle tenebre, come i morti da secoli;
5° perché la sua anima è stata piena di
turbamenti, ansia ed angoscia (4).
II. – Davide ci insegna come abbia iniziato ad
uscire da questo infelice stato:
1° ha passato in rassegna il ricordo
della grandezza e delle misericordie di Dio;
2° ha considerato attentamente tutte le
sue opere (5);
3° ha steso le sue mani verso Dio per
ottenere che irrorasse con la sua grazia e rendesse feconda tutta la terra
arida dell’anima sua (6);
4° egli prega Dio di non tardare nel
soccorrerlo, a causa dell’estremità alla quale si trova ridotto (7).
III. – Egli chiede a Dio di fargli sentire
senza indugi gli sforzi della sua misericordia (8), e di
insegnargli la sua volontà:
1° facendogli conoscere la via celeste
per la quale l’anima può giungere fino a Lui (8);
2° rompendo i legami nei quali i suoi
nemici lo tenevano prigioniero (9);
3° insegnandogli come debba camminare in
questa via (10);
4° chiedendo come sua guida lo
Spirito-Santo, affinché non si allontani dalla via (10);
5° dandogli la vita e la forza
necessaria per non cadere lungo il cammino (11);
6° liberandolo da tutte le sue
tribolazioni e da tutti i suoi nemici perché egli è suo servo (12, 13).
Spiegazioni e considerazioni
I. — 1-4.
ff.
1,
2. – Qua
è la natura di questa preghiera? È questo un punto che gli uomini esaminano con
cura per cui non si raccolgono in preghiera se non quando sembri loro giusto e
legittimo. Ma cosa si domanda ordinariamente quando ci si rivolge agli uomini? Onori,
ricchezze, la loro protezione contro l’ingiustizia; lo stesso avviene nel
sollecitare i giudici nelle cose che oltrepassano il loro potere. Ma noi, al
contrario, chiediamo a Dio la remissione dei nostri peccati, e facciamo ricorso
alla preghiera, quando non abbiamo potuto ottenere perdono dal giudice
interiore, cioè dalla nostra coscienza, che non ci lascia riposo alcuno. (S.
Chrys.) – Cosa fate o Profeta? Voi dite in un istante: « Non entrate in
giudizio con il vostro servo, perché nessun uomo vivente sarà giustificato
davanti a voi, » e domandate qui di essere esaudito secondo le regola della
giustizia? Egli non parla qui della sua giustizia; egli dirà anche, nel
versetto seguente che, comparata a quella di Dio, essa non è nulla. La
giustizia di cui qui si vuol parlare è la bontà. La giustizia degli uomini è
senza misericordia, ma non è così la giustizia di Dio. La misericordia in Lui
si trova sempre mescolata alla giustizia, ed in proporzione tale che la
giustizia prenda nome di bontà. (S. Chrys.). Egli implora dunque la giustizia divina, che
si esercita propriamente in questo mondo con la misericordia, perché perdonando
al peccatore, Dio usa del diritto supremo
che ha di cancellare i peccati e ristabilire la giustizia in un’anima
che si era resa colpevole. – Chi sono
coloro che vogliono entrare in giudizio con Dio, se non coloro che, non
conoscendo la giustizia di Dio, pretendono di stabilire la propria giustizia. «
Perché, essi dicono, abbiamo digiunato e non l’avete visto? Perché tenuto la
nostra anima nelle privazione e non l’avete saputo? » (Isai. LVIII, 3). È come
se gli dicessero: noi abbiamo fatto ciò che avete comandato, perché non ci
rendete ciò che avete promesso? Dio vi risponde: perché voi riceviate ciò che
ho promesso, io ve lo darò; affinché voi fissiate di che meritare ciò che ho
promesso, io ve l’ho dato … è dunque con ragione che l’uomo umile dice a Dio: «
Non entrate in giudizio con il vostro servo; » non abbiamo infatti da dibattere
tra noi; io non voglio avere processo da Voi, perché non abbia a mettere avanti
la mia giustizia, e Voi non mi convinciate della mia iniquità. (S.
Aug.) – « Non entrate in giudizio con il vostro servo. » Perché questo?
« Perché nessun uomo vivente potrà giustificarsi davanti a Voi. » Che bisogno
c’è di parlare di me, di questo, di quello? Non c’è alcun uomo sulla terra che
possa essere trovato giusto, se entra in discussione con Voi sui comandamenti
che gli avete imposto; il vostro trionfo è dunque completo. (S.
Chrys.) – Quale speranza ci resterà, se Dio volesse giudicarci secondo
le regole severe della sua giustizia, se esigesse che l’innocenza della nostra
vita fosse in rapporto con la sua infinità santità? Chi è tra i mortali colui
che potrebbe essere giustificato in presenza di Dio, allorché la collera, il
dolore, la lussuria, l’ignoranza, l’oblio, la necessità, venisse a mescolarsi
in tutte le sue azioni, con una sequenza naturale della debolezza del corpo o
delle agitazioni di un’anima mobile ed incostante, allorché tutti i giorni è
minacciato da un implacabile nemico, il demonio, che tende trappole all’anima
fedele e la perseguita fino alla morte? (S. Hil.). – Noi dobbiamo temere che
Dio entri con noi in giudizio: 1° a causa delle macchie e dei resti funesti che
i peccati passati hanno lasciato nella nostra anima; – 2° A causa dei peccati
attuali che non cessiamo di commettere; – 3° a causa delle imperfezioni anche
delle buone opere; – 4° perché queste buone opere, quali siano, sono in numero
troppo piccolo rispetto alle grazie che noi abbiamo ricevuto; – 5° perché Dio
ci chiederà conto rigorosissimo di queste grazie; 6° perché l’uomo non sa se è
degno di amore o di odio, e colui al
quale la sua coscienza rende testimonianza la più favorevole non può tuttavia
essere sicuro di essere senza macchia davanti a Dio.
ff. 3, 4. – Il Profeta
dipinge qui le tristi sequel del peccato in un’anima che è stata perseguitata,
perseguita, e vinta dal demonio. – I nemici della salvezza cominciano col
perseguitarla, molestarla, presentandole mille occasioni di cadute,
moltiplicando le tentazioni. – Essi la curvano interamente verso terra, e la
umiliano piombandola nel fango delle passioni e nell’abisso del peccato: «
Avevo altre volte delle ali e prendevo liberamente il mio volo; ora, il mio
nemico, il demonio, ha perseguitato la mia anima, se ne è impadronita, ne ha
legato piedi e mani, come un uccello che, caduto in potere dell’uomo, sembra
come morto, perché non ha più la libertà di volare; è così che il mio nemico mi
ha legato con la coscienza dei miei peccati. » (S. Gerol.). – Essi
diffondono nell’anima delle tenebre dense che fanno considerare i falsi beni
come dei veri beni; che gli nascondono i precipizi, affinché vi cada, ed il
cammino del cielo per paura che vi entri. San Paolo ci dipinge queste tenebre
spirituali, allorquando dice, parlando dei pagani: « Essi camminano nella
vanità dei loro pensieri, hanno lo spirito pieno di tenebre, e sono interamente
allontanati dalla vita di Dio, a causa dell’ignoranza che è in loro, e
l’accecamento del loro cuore. » (Ephes. IV, 17, 18) – « Tribolazione,
angoscia, per l’anima di ogni uomo che fa il male. » (Rom. II, 9). Il torbido
si impossessa di tutte le sue facoltà; il suo spirito, creato per un fine più
nobile, cade nel disgusto, nella noia; il suo cuore, divenuto il trastullo
delle passioni, è il centro dei movimenti più tempestosi. Questo turbamento
della coscienza, è la risorsa contro il peccato: se il peccatore vuol
profittarne, il demonio non lo ispira
più, ma se ne serve per portare l’uomo alla disperazione.
II. — 5-7
ff. 5-7. – È una grande
consolazione conoscere nello stesso tempo il passato ed il presente; perché
come il mondo attuale è governato dalle stesse leggi divine delle generazioni
che ci hanno preceduto, il ricordo degli avvenimenti antichi è una delle più
dolci consolazioni per il presente. (S. Crys.). Ricordiamoci, dunque, in
mezzo alle nostre prove, delle meraviglie che Dio ha operato nei secoli
passati, in favore di coloro che hanno fatto ricorso a Lui. Quando il demonio
si sforza di abbattere il nostro coraggio con il ricordo delle nostre colpe,
meditiamo le grandi misericordie di Dio su coloro che hanno sinceramente
rinunziato ai loro peccati. – Come la terra dura e disseccata sembra domandare
la pioggia, solo esponendo al cielo la sua aridità, così l’anima, esponendo i
suoi bisogni a Dio, lo prega veramente. È ciò che qui dice Davide: Ah! Signore,
io non ho bisogno di pregarvi, è il mio bisogno che vi prega, la mia necessità
vi prega, tutte le mie miserie e tutte le mie debolezze vi pregano: « La mia
anima è davanti a Voi come terra arida e senza acqua. » (BOSSUET, Opusc.
Prière au nom de J.-C.). « Sforzatevi, Signore, di esaudirmi, la mia anima
è caduta in disgrazia. » Cosa dite? Approntate la medicina della guarigione? No, ma
accade d’ordinario alle anime che sono nell’afflizione, come agli uomini
provati dalla sventura, cercare una pronta liberazione dai loro mali. (S.
Chrys.). – In tutte le circostanze, bisogna attendere i momenti di Dio, ed è
vero il dire che l’attitudine alla pazienza è veramente il genio del Cristiano.
Ma quando si sente la propria anima mancare, quando la causa di questo
mancamento è il pesante pensiero dei peccati commessi, quando infine è a Dio
che ci si rivolge, è anche necessario sentire e testimoniare il desiderio che
il soccorso richiesto non sia differito per lungo tempo (Rendu).
– A meno di un ritorno favorevole a Dio, il peccatore discenderà sempre più
nella fossa profonda del peccato, e di là nella tomba ancor più profonda
dell’inferno.
III. — 8-13.
ff. 8-9. – « Fatemi
sentire, fin dal mattino, la voce della vostra misericordia. « Io sono piombato
nella morte, ma ho messo in Voi la mia speranza, finché non passi l’iniquità della
notte » (Ps. LXI, 2). – « Al mattino, Voi ascolterete la mia voce; al
mattino, mi porrò davanti a Voi e vi contemplerò » (Ps. V, 4. 5) « … perché
ho messo in Voi la mia speranza. » In effetti, se speriamo ciò che non vediamo
ancora, noi l’aspettiamo con il soccorso della pazienza. (Rom. VIII, 25). « La
notte esige la pazienza, il giorno darà la gioia, » (S. Agost.) – « Fatemi
conoscere la via in cui camminare. » Tutto il segreto della vita è in questa
preghiera; conoscere la propria strada, vuol dire conoscere ciò che si deve
credere quaggiù, ciò che si deve sperare, praticare; ciò che si deve fare
perché questa vita sia come il vestibolo del cielo, ecco l’uomo intero e la
vita in tutti i suoi aspetti … – Quante
volte i cuori più fermi sono sconvolti nelle loro vie, e vacillano nel cammino
della vita! L’anima guarda in tutte le direzioni, e non scopre che le tenebre
più fitte; non le resta che la preghiera del Profeta: « … fatemi conoscere la
strada in cui volete che io cammini. » Ma anche essa prova allora che in un
quarto d’ora di intrattenimento, di conversazione con Dio, si impara più dei
nostri destini, sulla direzione da dare a certi affari delicati, che le più
lunghe riflessioni e le più abili combinazioni dell’umana saggezza. (Mgr
LANDRIOT, Prière,
II, 10).
ff. 10. – Supponiamo che un uomo si sia smarrito in una
foresta oscura o un deserto senza uscita: egli si agita con ardore per trovare
una strada che lo conduca al termine del suo viaggio e, se non può riuscire, se
l’impenetrabile caos degli alberi e l’onda inesorabile delle solitudini,
rifiutano di rispondere alle sue voce, se le sue grida, malgrado i violenti
sforzi per richiamare indicazioni e guide che lo illuminino, muoiono intorno a
sé senza eco, la sua inquietudine diventa profonda e minaccia di raggiungere la
disperazione. Ecco la nostra disperazione nella vita, se non sappiamo
nettamente la direzione che essa debba prendere, e la via per la quale dobbiamo
camminare … Conoscere esattamente la via che bisogna seguire, è evidentemente il
bisogno più imperioso di ogni anima cristiana. (Mgr LANDRIOT, Euch. IV,
20.) – « Perché ho levato la mia anima verso di Voi » egli chiede a Dio
la via che conduce a Lui, ma comincia a fare ciò che dipende da lui per
entrarvi: « Io ho elevato la mia anima verso di Voi; » vale a dire che è verso
Dio soltanto che sospira il mio cuore, è verso di Voi solo che io tengo fissi
gli occhi. È in effetti, alla anime così disposte che Dio si compiace farsi
conoscere. (S. Chrys.). – Egli va ancor più lontano, chiede di essere
liberato dalla tentazione del demonio, che si sforza sovente di oscurarne
l’intelligenza per impedirgli di vedere la via della giustizia; perché le
concupiscenze scatenate dal tentatore fanno sì che le cose ci appaiono diverse
da come in realtà esse sono. (Bellarm.).
ff. 9 – 18. – È difficile
immaginare una preghiera più bella e più santa di questa: « Insegnatemi
Signore, a fare la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. » 1° Essa
contiene la confessione della nostra debolezza; noi riconosciamo che, senza la
luce divina, siamo incapaci di compiere ciò che a Dio piace. 2° Essa racchiude
la persuasione intima in cui noi siamo, o piuttosto la viva fede che abbiamo,
che per noi vi sia un obbligo stretto di fare ciò che piace a Dio esigere da
noi. 3° Essa offre a Dio l’omaggio di tutto ciò che siamo, perché, dal momento
che noi dichiariamo che Egli è il nostro Dio, non escludiamo alcun tipo di
dipendenza, alcun genere di servizio. (Berthier). – Non bisogna fermarsi
alla conoscenza della volontà di Dio: « Non cessiamo di pregare per voi, diceva
San Paolo ai Colossesi, e di chiedere a Dio che vi riempia della conoscenza
della sua volontà e di ogni intelligenza spirituale. » Ma notate quale deve
essere la fine di questa conoscenza, « … perché possiate comportarvi in maniera
degna del Signore, per piacergli in tutto, portando frutto in ogni opera buona
e crescendo nella conoscenza di Dio; » (Coloss. I, 9-10) – « … Perché Voi
siete il mio Dio. » Non esiste che una sola volontà che abbia il diritto
essenziale ed assoluto di essere obbedita, la volontà dell’Essere eterno che ha
creato tutto e che conserva tutto: da qui la mirabile preghiera del Profeta-Re:
« Insegnatemi Signore, a fare la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. »
Poiché Egli ci ha creato, e creati capaci di una buona e di una cattiva scelta,
è Lui che ci insegna, e che cosa può insegnare di meglio se non fare la sua
volontà? Questa volontà sovrana ha dei ministri per ricordare i suoi ordini e
mantenerne l’esecuzione nella famiglia, nello stato, nella Chiesa, e l’obbedienza
loro è dovuta, perché essi rappresentano Dio, ognuno nel suo ordine, secondo i
gradi di una sublime gerarchia che risale dal padre al re, dal re al Pontefice,
dal Pontefice a Gesù-Cristo, da Gesù-Cristo a Colui che lo ha inviato, e « dal
quale ogni paternità, in cielo e sulla terra, prende il suo nome, » vale a dire
la sua autorità. (Lam., imit.) – Perché Voi siete il mio Dio, « io sarei corso
verso un altro, per essere creato di nuovo, se un altro mi avesse fatto » Voi
siete il mio tutto, « perché Voi siete il mio Dio. » Cercherò un padre per
avere la sua eredità? « Voi siete il mio Dio, » che non solo date un’eredità,
ma siete Voi stesso mia eredità. » (Ps. XV, 5). Cercherò un maestro che mi
riscatti: « Voi siete il mio Dio. » Cercherò un padrone che mi liberi: « Voi
siete il mio Dio. » Infine, dopo essere stato creato, desidero essere ricreato
nuovamente: « Voi siete il mio Dio » mio Creatore che mi avete creato per mezzo
del Verbo e creato di nuovo per mezzo del Verbo. Ma Voi mi avete creato per
mezzo del Verbo dimorante in Voi, e mi avete creato di nuovo per mezzo del
Verbo fatto carne per la nostra salvezza. « Insegnatemi dunque a fare la vostra
volontà, perché Voi siete il mio Dio. » – « Insegnatemi, » perché non può
essere che nello stesso tempo Voi siate il mio Dio, ed io il mio maestro.
Notate come il Profeta ci mostri qui la grazia. Conservate bene questo
pensiero, penetrate in esso, e nessuno possa farlo uscire dal vostro cuore, per
timore di avere per Dio uno zelo che non sia secondo scienza, per timore ancora
che, ignorando la giustizia di Dio e volendo stabilire la vostra, non siate
sottomesso alla giustizia di Dio (Rom. X, 2-3). – Voi riconoscete là,
senza dubbio, le parole dell’Apostolo. Dite dunque: « Insegnatemi, affinché io
faccia la vostra volontà, perché Voi siete il mio Dio. » (S. Agost.) – Il Padre ci
ha creati con la sua potenza, il Figlio ci insegna le sue vie mediante la
sapienza, lo Spirito-Santo ci fa entrare e ci conduce con la sua grazia. – E
siccome Dio solo è buono, con la testimonianza di Gesù-Cristo, si può anche
dire che non c’è che lo Spirito di Dio che sia buono. – Il vostro Spirito che è
buono, e non il mio che è cattivo. « Il vostro Spirito, che è buono, mi
condurrà in terra di giustizia, » perché il mio spirito che è cattivo, mi ha
condotto in terra di ingiustizia. E cosa ho meritato? Quali buone opere ho
fatto senza la vostra assistenza, che possano essermi accreditate, affinché o
ottenga e sia degno di essere condotto dal vostro Spirito in terra di
giustizia? (S. Agost.). – Ricordate la grazia che vi segnala qui il Profeta
e che vi ha gratuitamente salvato: « A causa del vostro Nome, Signore, Voi mi
farete vivere: nella vostra giustizia e non nella mia; non perché io l’abbia
meritato, ma perché Voi siete misericordioso; perché se volessi mostrare i miei
meriti, io non meriterei da Voi se non supplizi. Voi avete fatto sparire i miei
meriti, e li avete compensati con i vostri doni. » (S. Agost.). Motivo della
confidenza del Profeta, è la professione che fa di essere il servo di Dio. –
Noi siamo servi di Dio a doppio titolo, perché Egli ci ha creati, perché ci ha
riscattato come gli altri uomini e perché ci ha tratti da una servitù più
gravosa della prima, perché proveniva dalla nostra volontà.
Rerum suprémo in
vértice
Regína, Virgo, sísteris,
Exuberánter ómnium
Ditáta pulchritúdine.
Princeps opus formósior
Verbo creánti prǽnites,
Prædestináta Fílium,
Qui prótulit te, gígnere.
Ut Christus alta ab árbore
Rex purpurátus sánguine,
Sic passiónis párticeps,
Tu Mater es vivéntium.
Tantis decóra láudibus,
Ad nos ovántes réspice,
Tibíque sume grátulans
Quod fúndimus præcónium.
Jesu,
tibi sit glória,
Qui natus es de Vírgine,
Cum Patre et almo Spíritu
In sempitérna sǽcula.
Amen.
[Vergine Regina:
sei collocata
al vertice della creazione
e dotata d’una bellezza che supera
la bellezza di tutte le creature.
Opera somma, sei la più bella
ed amabile al Verbo creatore,
predestinata ad esser madre
di quel Figlio che ti creò.
Come Cristo, dall’alto della Croce,
fu vero re nella sua porpora insanguinata,
così tu, partecipe della passione di lui,
sei madre di tutti i viventi.
Splendida per così grandi titoli di onore,
guarda a noi che ti esaltiamo:
accetta l’inno di lode
che t’innalziamo per lodarti.
Sia gloria a te, o Gesù,
che sei nato dalla Vergine;
con il Padre e lo Spirito Santo
per tutti i secoli.
Amen.]
De libro Ecclesiástici
Sir XXIV: 5-11; 14-16; 24-30
5
Ego ex ore Altíssimi prodívi, primogénita ante omnem creatúram:
6 Ego feci in cælis ut orirétur lumen indefíciens, et sicut nébula texi omnem terram:
7 Ego in altíssimis habitávi et thronus meus in colúmna nubis.
8 Gyrum cæli circuívi sola, et profúndum abýssi penetrávi, in flúctibus maris ambulávi,
9 Et in omni terra steti: et in omni pópulo,
10 Et in omni gente primátum hábui:
11 Et ómnium excelléntium et humílium corda virtúte calcávi: et in his ómnibus
réquiem quæsívi, et in hereditáte Dómini morábor.
14 Ab inítio, et ante sǽcula creáta sum, et usque ad
futúrum sǽculum non désinam, et in habitatióne sancta coram ipso ministrávi.
15 Et sic in Sion firmáta sum, et in civitáte sanctificáta simíliter requiévi,
et in Jerúsalem potéstas mea.
16 Et radicávi in pópulo honorificáto, et in parte Dei mei heréditas illíus, et
in plenitúdine sanctórum deténtio mea.
24 Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris,
et agnitiónis, et sanctæ spei.
25 In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis.
26 Transíte ad me, omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis
implémini;
27 Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum.
28 Memória mea in generatiónes sæculórum.
29 Qui edunt me, adhuc esúrient, et qui bibunt me, adhuc sítient.
30 Qui audit me non confundétur, et qui operántur in me non peccábunt: qui
elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
[5
Io sono uscita dalla bocca dell’Altissimo, primogenita di tutta la creazione.
6 Io ho fatto sorgere nel cielo una luce indefettibile e come vapore ho coperto
tutta la terra.
7 Ho posto la mia tenda in alto: il mio trono è sopra una colonna di nube.
8 Io sola ho percorso la volta del cielo, sono penetrata nelle profondità
dell’abisso, ho camminato sui flutti del mare
9 E su tutta la terra: ho preso dominio su ogni popolo
10 E gente:
11 Ho soggiogato, con la mia forza, il capo dei potenti e degli umili; e in
tutti questi ho cercato riposo, e mi fermerò nei domini del Signore.
14
Mi creò prima del tempo, dal principio; né tramonterò mai più. Davanti a lui
servivo nella sua tenda.
15 E perciò ho preso dimora stabile in Sion, e mi fermai nella città amata; io
comando su Gerusalemme.
16 Affondai le radici presso un popolo glorioso, nella porzione del Signore,
nella sua eredità.]
24
Io sono la madre del vero amore, del timore e della scienza e della santa
speranza.
25 In me è ogni grazia di via e di verità, in me ogni speranza di vita e di
virtù.
26 Venite a me, o voi tutti che mi desiderate, e saziatevi dei miei frutti.
27 Perché il pensare a me è dolce più del miele, e il possedermi più del miele
e del favo:
28 La mia memoria si perpetuerà nelle successioni dei secoli.
29 Quelli che mi mangiano avranno ancora fame e quelli che mi bevono avranno
ancora sete.
30 Chi mi ascolta non avrà da arrossire, e quelli che operano per me non
peccheranno. Quelli che mi esaltano, avranno la vita eterna.]
Sermone di s. Pier Canisio presbitero
Su Maria Madre di Dio Vergine incomparabile, lib. 15, c. 13
Seguendo san Giovanni Damasceno,
sant’Atanasio e altri, perché non dobbiamo chiamare regina la vergine Maria,
quando nelle Scritture sono esaltati il suo antenato David come famoso re e il
Figlio suo come re dei re e signore dei dominanti, per l’eternità? Inoltre
Maria è regina se la si unisce con coloro che, quasi come re, posseggono il regno
dei cieli, assieme con Cristo, il re eterno: infatti essi sono eredi assieme a
Gesù e siedono sul suo stesso trono, per usare una frase della Scrittura. Maria
è regina non inferiore a nessun altro; anzi, è levata talmente al di sopra
degli angeli e degli uomini, che nessuno può essere più alto e più santo di
lei: infatti solo lei ha un figlio comune con il Padre. Al di sopra di sé vede
solo il Padre e il Figlio, e al di sotto di sé ogni altra creatura.
Il grande sant’Atanasio disse con
acutezza: «Maria deve esser ritenuta realmente non solo Madre di Dio, ma anche
regina e signora, poiché quel Cristo che nacque da questa vergine Madre, è lui
stesso Dio, signore e re». Si può attribuire a questa regina quello che si
legge nei salmi: «Alla tua destra si è assisa la regina, vestita in laminato
d’oro». Inoltre Maria è regina non soltanto del cielo, ma pure dei cieli,
essendo la madre del re degli angeli, e l’amica e la sposa del re dei cieli. O
Maria, nobile regina e madre fedele, nessuno ti implora senza essere aiutato e
tutti ti siamo riconoscenti per le tue grazie: ti prego e ti supplico con
insistenza e con rispetto, di accettare e di approvare questa manifestazione
della mia devozione, di tener conto della mia offerta, non badando alla sua
consistenza, ma alla mia buona volontà, e di raccomandarmi al tuo Figlio
onnipotente.
Dalla Lettera enciclica del papa Pio XII
Enciclica Ad caeli Reginam, 11 Ottobre 1954
Dai monumenti dell’antichità cristiana,
dalle preghiere liturgiche, dall’innata devozione del popolo cristiano, dalle
opere d’arte, da ogni parte abbiamo potuto raccogliere espressioni ed accenti,
secondo i quali la vergine Madre di Dio consta primeggiare per la sua dignità
regale; ed abbiamo anche provato come le ragioni che la sacra teologia ha
dedotto dal tesoro della fede, confermino pienamente questa verità. Di tali
testimonianze riportate si forma un concerto, la cui eco risuona
larghissimamente per celebrare il sommo fastigio della regale dignità della
Madre di Dio e degli uomini, che è al di sopra di ogni cosa creata, e che è
stata «innalzata sopra i cori degli angeli, ai regni celesti». Essendoci poi
fatta la convinzione, dopo mature e ponderate riflessioni, che verranno grandi
vantaggi alla Chiesa, se questa verità, solidamente dimostrata, risplenderà più
evidente davanti a tutti – quasi lucerna più luminosa posta sul suo candelabro
– con la nostra autorità apostolica, decretiamo e istituiamo la festa di Maria
Regina, da celebrarsi in tutto il mondo il giorno 31 maggio di ogni anno.
Omelia di s. Bonaventura vescovo
Sermone sulla regia dignità della Beata Maria Vergine
La beata vergine Maria è diventata madre
del sommo Re mediante una maternità del tutto singolare, secondo quanto si
sentì dire dall’angelo: «Ecco, concepirai e darai alla luce un figlio»; e
inoltre: «Il Signore gli darà il trono di David suo padre, e regnerà sulla casa
di Giacobbe in eterno e il suo regno non avrà fine». È come se dicesse
apertamente: Concepirai e darai alla luce un figlio che è re, che eternamente
abita sul suo trono regale, e per questo tu regnerai come madre del Re, e come
Regina siederai tu pure sul trono regale. Se infatti è giusto che il figlio
onori la madre, è altrettanto giusto che partecipi ad essa il trono regale; per
questo, per il fatto cioè che la vergine Maria ha concepito colui che porta
scritto sul suo femore «Re dei re e Signore dei dominanti», nell’istante stesso
in cui concepì il Figlio di Dio, divenne Regina non soltanto della terra, ma
anche del cielo. E questo era stato preannunciato nell’Apocalisse dove si dice
: «Un grande prodigio apparve nel cielo: una donna vestita di sole, e la luna
sotto i suoi piedi, e sul suo capo una corona di dodici stelle».
Anche riguardo alla sua gloria, Maria è
regina illustre. Il Profeta esprime ciò in modo adeguato in quel salmo, che si
riferisce in modo particolare a Cristo e alla vergine Maria. In esso si afferma
in un primo luogo di Cristo: «Il tuo trono, o Dio, è eterno». Poco dopo si dice
della Vergine: «Alla tua destra è assisa la regina». Ciò si riferisce alle qualità
più elevate, e perciò viene attribuito alla gloria del cuore. Poi il testo
prosegue: «Vestita in laminato d’oro»: qui si intende il vestito di quella
gloriosa immortalità che Maria acquistò con l’assunzione. Non si può credere
che il vestito che aveva circondato il Cristo e che sulla terra era stato
santificato totalmente dal Verbo incarnato, fosse distrutto dalla corruzione.
Come fu opportuno che Cristo donasse a sua Madre la grazia totale quando ella
fu concepita, così fu pure opportuno che donasse la gloria completa con
l’assunzione di sua Madre. Ne consegue che è da ritenere vero il fatto che la
Vergine, entrata nella gloria con l’anima e con il corpo, sia assisa accanto al
Figlio.
Maria è regina e distributrice di grazie: ciò fu. intuito nel libro di Ester, dove è scritto: «La fonte crebbe diventando fiume, e poi si trasformò in luce e in sole». La vergine Maria, raffigurata nella persona di Ester, è paragonata al dilatarsi dell’acqua e della luce, proprio perché diffonde la grazia che aiuta l’azione e la contemplazione. La stessa grazia di Dio che curò l’umanità, fu comunicata a noi attraverso Maria, come attraverso un acquedotto: è un compito della Vergine distribuire la grazia, non perché sia creatrice di grazia, ma perché ce la guadagna con i suoi meriti. Giustamente, quindi, la vergine Maria è regina nobile di fronte al suo popolo, proprio perché ci ottiene il perdono, vince le difficoltà, distribuisce la grazia e finalmente, introduce nella gloria.
[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]
IL SACRO CUORE DI GESÙ
DISCORSO XXXI.
Il Sacro Cuore di Gesù e la sua estrema agonia.
Su, o miei cari, su ascendiamo al monte santo di Dio, ascendiamo al Calvario, e contempliamo il Crocifisso Gesù sull’altare del suo sacrifizio. Oh Dio! che spettacolo si presenta ai nostri occhi! In che stato è ridotto l’amabile Gesù e quali sofferenze lo aggravano nel corpo e nell’anima! Eccolo sospeso tra cielo e terra, ritenuto da grossi chiodi su d’un infame patibolo, coperto di sangue e di piaghe dalla testa ai piedi. Egli soffre, e senza aicun sollievo. Se cerca riposarsi sui piedi, ohimè! non ha per appoggiarli se non il ferro, che li trapassa; se vuole riposarsi sulle mani, non fa che allargarne le piaghe e produrre una dolorosa tensione alle sue braccia; se egli abbassa la testa, accresce il peso del suo corpo, e il petto si gonfia, e la respirazione gli si fa più penosa; se Ei la solleva, la corona di spine incontra il legno della croce e le spine penetrano più addentro. Così non vi ha parte alcuna del suo Corpo adorabile, che non soffra un indicibile tormento. – Ma ben più gravi sono i tormenti della sua anima. Quando un uomo sta agonizzando, si vede circondato dalle persone più care, che gli prodigano le tenerezze più affettuose, e gli recano ogni possibile sollievo, gli porgono qualche stilla di consolazione. Per Gesù non è così. Tutto ciò che lo circonda è per Lui cagione di pena, tutto contribuisce a schiacciare il suo tenero Cuore ed a generargli nello spirito i più accascianti pensieri. Ai piedi della croce vede la sua Madre, S. Giovanni, e le pie donne, immerse nella più grande afflizione; dintorno alla croce vede una soldatesca insolente ed un vile popolaccio, che lo insulta e lo maledice; accanto alla croce, a destra ed a sinistra, vede crocifissi due ladroni per sua maggior ignominia. Oh se almeno lanciando lo sguardo nell’avvenire vedesse la croce tornare di salute a tutti gli uomini! Ma invece Egli ha pur dinnanzi questa dolorosissima vista, che la croce sarà di scandalo pei Giudei, e quale stoltezza ai Gentili. Povero Gesù! quanto soffre per ciò nell’anima sua! Eppure in mezzo a sì terribili sofferenze Egli apre ancora il suo labbro divino per parlare. E per quale ragione? Forse per maledire a’ suoi patimenti? per imprecare a’ suoi crocifissori? per scatenare i fulmini delle sue vendette?… Ah! no, certamente. In quegli estremi istanti della sua agonia Egli sembra dimenticare affatto le pene atrocissime che soffre e non ricordare ed aver presente altro, se non che Egli è un padre, che muore. E come ogni padre di famiglia che sta per morire si dà tosto la più viva sollecitudine di dichiarare a’ suoi figli le sue ultime volontà e di fare in loro vantaggio il suo testamento, così a questo stesso fine Gesù Cristo apre ancora il suo labbro divino e per ben sette volte ancora Egli parla. Per tal modo facendo uscire dal suo Cuore agonizzante sette parole, e compendiando con esse tutte le sue lezioni, tutti i suoi esempi, tutte le prove del suo amore infinito per noi, ci fece sempre meglio toccare con mano, che la causa vera, che lo ha confitto come vittima sull’altare della croce, più assai che non la perfidia de’ Giudei, è stata la carità immensa che nel Cuor suo ci ha portato. Raccogliamoci adunque anche noi presso la croce di Gesù Cristo per intendere le sue parole, ed ascoltandone oggi le tre prime, riconosciamo comeper esse questo Padre e maestro divino ci abbia animati a confidaretutti nella sua infinita misericordia e a darci a Lui senzapiù mai abbandonarlo.
I. — Miei cari! Quale lo avevano
descritto i profeti, Gesù Cristo ora veramente sulla croce l’uomo dei dolori, virdolorum. Eppure
a quei dolori atrocissimi, che già pativa nelle sue piaghe, veniva ad
aggiungersi in questo momento un altro dolore, ancor più crudele per le anime
delicate e sublimi, quello cioè degli insulti e delle derisioni. Benché
dinnanzi all’estremo supplizio di un uomo, per quanto scellerato e odiato, sogliano
spegnersi gli odii e cader le ire, e non sia mai lecito ad alcuno di
compiacersi delle sue pene, di oltraggiare la sua persona e d’insultare al suo
dolore, tuttavia per Gesù non accade così. A Lui è negato ogni riguardo. Al
vederlo in quel misero stato pendente fra due malfattori, i Giudei esultano di
gioia infernale e privi di ogni senso di umanità si fanno a recargli le più
orribili ingiurie. Chi lo guarda e lo beffeggia, chi batte palma a palma e lo
bestemmia, chi fa fischiate o digrigna i denti, chi crolla il capo e
sogghignando esclama: « Va! Suvvia! Tu, che distruggi il tempio di Dio e lo
rifabbrichi in tre giorni, salva ora te stesso! Se sei figliuolo di Dio
discendi dalla croce! » Ma più empi e protervi di questa vile plebaglia, i
sacerdoti, i maggiorenti e i maestri della legge scagliano contro del Giusto
inverecondi motti e feroci bestemmie. « Cotesto maliardo, dicono quei tristi,
ha salvato gli altri, salvi ora se stesso, se gli basta il vigore. Ei si disse
re d’Israele, via! discenda dalla croce sotto gli occhi nostri e non tarderemo
a credere nel regno suo. Si è vantato Figliuolo di Dio: vediamo come Dio si
affretti a liberarlo. » Oh scellerati Giudei! E non vi basta l’essere venuti a
capo delia vostra impresa? Gesù voleste confitto in croce, ed ecco Egli è in
croce confitto; a vista delle sue piaghe rimanetevi almeno dall’amareggiarlo
con nuovi obbrobri! Ma no! Con delitto più esecrando nel mirare le ambasce del Salvatore
più inacerbano la loro collera e più aggravano il loro disprezzo. E Gesù? …
Il profeta Isaia, che già molti secoli innanzi aveva descritte e piante le pene
destinate al sospirato Redentore, erasi piaciuto dipingerlo a sé e agli altri in
sembianza di mite ed innocente agnello, che condotto ad essere ucciso non apre
il suo labbro al menomo lamento. Ed invero Gesù, satollo di ogni maniera di
obbrobri e di patimenti, da crudi carnefici flagellato e coronato di spine, caricato
di pesante croce, e con calci e percosse spinto e trascinato per l’erta di un
monte, ed ivi disteso, inchiodato ed innalzato su d’un infame patibolo, mai non
aperse la bocca; e a tanti clamori levati contro di Lui non mai altro oppose che
un generoso silenzio. – Ma caro Gesù! egli è tempo, che parliate. La vostra
dignità fa oltraggiata; il vostro Padre fu offeso; e ciò che è, più ributtante,
s’insulta all’innocenza, nella quale voi state per spirare, su, su parlate! Una
sola vostra parola sarà bastante a far di tutti questi miserabili un mucchio di
cenere! Parlate, che lo aspetta il cielo, che impaziente si è coperto di
tenebre.. Parlate … lo aspetta la terra, che trema inorridita bevendo il
vostro sangue, parlate… lo aspetta fremendo tutta la natura … parlate, lo
aspettano istupiditi gli Angeli … parlate… lo aspettano pieni di rabbia e
d’invidia i demoni… parlate… lo aspetta il vostro stesso Padre celeste, che
stringe ormai i suoi fulmini per vendicarvi … parlate… Sì, parla Gesù,
parla! … ma ben diversamente, da quello che noi aspettiamo. Quanto più forti s’innalzano
le voci del cielo e della terra, degli angeli, degli uomini e degli stessi
demoni a chiedere vendetta, tanto più forte innalza Gesù il grido dell’amore; e
rompendo alla fine i suoi silenzi, rivolti in alto gli oscurati suoi occhi :
Padre, esclama, perdona loro, perché non sanno quel che si facciano:
Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt! (Luc. XXIII, 34) Oh parole! oh preghiera! oh misericordia infinita di Gesù Cristo! questo Agnello divino ha interrotto al fine il suo silenzio, ma non per altra ragione che per domandar grazia e perdono a’ suoi crudeli nemici. Ed in qual modo! Con quale efficacia! Quando si farà a lagnarsi del suo abbandono, l’ascolteremo rivolgersi al suo Padre celeste col nome di Dio: Deus,Deus meus; ma ora trattandosi di assicurare a’ suoi crudeli nemici il perdono, lo chiama col nome più dolce che vi sia, col nome di padre, quasi per dirgli: Ricordatevi che Voi siete padre, il più tenero, il più amoroso, il più misericordioso, e che io vi sono il figlio più umile, più sottomesso, più ubbidiente, sino al punto da sacrificare la mia vita fra i più atroci tormenti per compiere la vostra volontà: obediens usque admortem, mortem autem crucis. Per le qualità adunque, che adornano la paternità vostra e la mia figliolanza, voi dovete passar sopra al delitto, che costoro han commesso e perdonarli: Pater, dimitte illis. Inoltre ad ottenere più sicuramente l’effetto della sua preghiera, con somma premura si fa ancora in essa a scusare l’enormità del delitto de’ suoi crocifissori, e dice: Non conoscono quello che fauno: Non enim sciunt quid faciunt. Come per dire: Non hanno conosciuto abbastanza che Io sono il Re della gloria, il Salvatore del mondo, il Figlio di Dio; ed è perciò che nel loro furore si sono scagliati a far scempio di Colui, che dovrebbero amare, lodare, benedire, adorare. Sebbene adunque sia grande la loro malizia nell’imperversare che fanno così crudelmente contro di me, abbi tuttavia riguardo, o mio Padre celeste, alla loro ignoranza ed al loro accecamento: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ah! ben a ragione osserva S. Agostino, non mai vi è stato un avvocato così sollecito, così abile, così efficace a perorare la causa del suo cliente, quanto lo è stato Gesù Cristo nel perorare quella degli stessi suoi crocifissori; perciocché con una prece piena di misericordia infinita allontana da essi la condanna eterna. Per tal guisa mentre i suoi nemici Io provocavano insolentemente a comprovare la sua divinità col discendere dalla croce e salvare se stesso, Egli diede loro una prova di gran lunga maggiore di quella che chiedevano, e pur rimanendo sulla croce si manifestò Dio nel modo più splendido e più degno, col fare una preghiera, come nota S. Bernardo, non mai intesa per lo innanzi, e che solo un Figlio di Dio, un Dio Egli stesso, poteva fare. Ma perché mai nostro Signor Gesù Cristo ha voluto fare questa preghiera non già in silenzio, nel secreto del suo Cuore Santissimo, ma bensì ad alta voce da essere intesa da tutti coloro, che stavano intorno alla sua croce? Per due principali ragioni. La prima si fu, perché Gesù Cristo divenuto sull’altare della croce vittima di salute per noi, volle continuare, tuttavia sopra di essa, come sopra la cattedra più degna di lui, ad essere il nostro divino maestro e modello. E poiché già più volte nel corso della vita ci aveva ripetuta la legge del perdono, volle ancora ripetercela un’altra volta ed animarci alla sua pratica con queste sublimi parole, e confermarla con questo ammirabile esempio. Dopo di che, chi vi sarà ancora tra di noi, che al più piccolo affronto, che gli sia fatto, vada tosto in collera, e risponda colle ingiurie, coi giuramenti di odio e di vendetta, colle sfide ingiuste e scellerate? Vi sarà ancora tra di noi, chi avendo ricevuto una qualche offesa la covi e l’ingrandisca nel suo cuore, senza volerla affatto perdonare? Ah! si ricordi il misero, che lo stesso Gesù Cristo in altra circostanza ha solennemente dichiarato, che con la stessa misura, con cui avremo misurato gli altri, saremo misurati pur noi, vale a dire che se noi non perdoneremo agli altri le ingiurie, che ci avessero fatte, Iddio non perdonerà neppure a noi i nostri peccati, e che un giudizio senza misericordia è preparato a colui, che non usa misericordia; ma che il vero Cristiano invece, che docile alla dottrina di Gesù Cristo, e imitatore esatto del suo esempio, non concepirà, né conserverà ira od odio per le offese ricevute, che anzi ricambierà le medesime coll’amore, col benefizio e colla preghiera, sarà certamente da Dio perdonato delle sue colpe e premiato largamente delle sue buone opere. Animo adunque, o miei cari, non rendiamo inutile quella divina condotta, che Gesù Cristo ha tenuto in questa circostanza, per nostro ammaestramento ed esempio, ma a sua somiglianza siamo generosi del perdono anche al nostro più fiero nemico. – Ma la seconda ragione, per cui Gesù Cristo ha fatto ad alta voce questa preghiera di perdono, si fu perché conoscessimo, che colla stessa preghiera Egli chiedeva la stessa grazia non solo per coloro che direttamente lo avevano crocifisso, ma ancora per tutti i peccatori, di ogni tempo e di ogni luogo, i quali ancor essi coi loro peccati hanno cooperato alla passione e morte di Gesù Cristo. Ed in vero il divin Redentore rivoltosi al suo Padre celeste non gli disse: Padre, perdona ai Giudei; ma disse: Padre, perdona loro, volendo dire con questa espressione, come ne insegna S. Giovanni Crisostomo: Padre, perdona ai Giudei, perdona ai gentili, perdona agli estranei, perdona ai barbari, perdona al primo uomo, perdona alla sua posterità, perdona, perdona a tutti. Oh pensiero consolantissimo per noi: Tra i patimenti così atroci, che egli soffriva sopra la croce per cagion nostra, Gesù Cristo non ci ha dimenticati; e sebbene vedesse come anche noi colle nostre iniquità ci univamo ai crudeli Giudei per disprezzarlo e dargli la morte, sebbene conoscesse che in noi vi è maggiore malizia, perché peccando sappiamo di offendere il più grande dei sovrani, il più tenero dei padri, il più affettuoso tra gli amici, tuttavia pure di noi ha sentito pietà, pure per noi ha implorato perdono, e noi pure ha scusati col dire: Non sanno il male che fanno: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quidfaciunt. Certamente Gesù Cristo non poteva far uscire dal suo Cuore pieno di amore per noi, una preghiera di più grande misericordia. Ma ciò, che più di tutto ci deve consolare si è, che come tutte le preghiere di Gesù Cristo furono sempre dal suo celeste Padre esaudite, così pure fu esaudita questa. Alla voce potente con cui il Salvatore implorava perdono per i suoi crocifissori e per tutti gli uomini del mondo, Iddio si mosse a pietà, e spense la sua collera, colla penna intinta nel sangue istesso del suo Figlio cancellò il funesto decreto che ci condannava alla morte. Da quell’istante adunque fu stabilito che i nostri peccati per i meriti di Gesù Cristo ci siano perdonati, a sola condizione che col suo divin Sangue facciamo scorrere altresì le lagrime di una vera penitenza. Se è così, o miei cari., non tardiamo più un istante a spezzare le pesanti catene del peccato, veniamo tosto correndo a gettarci anche noi ai pie’ della croce di Gesù Cristo, e al suo Sangue prezioso congiungendo le lacrime nostre, meritiamo davvero che il Padre celeste ci perdoni, e non indarno per alcuno di noi Gesù Cristo abbia detto: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ma passiamo alla seconda parola.
II. — I profeti della passione e morte di Gesù Cristo, tra le molte circostanze, che ne predissero, vi fu anche questa: che Egli sarebbe stato annoverato fra i scellerati : Et cum sceleratisreputatus est. (Is. xxxv) E lo stesso divin Redentore nell’orto del Getsemani, avendo rivolto la parola a’ suoi discepoli, asserì che era necessario che questa profezia si adempisse: Hoc quoque oportet impleri in me: et cum iniquis deputatus est. (Luc. XXII, 3) E questa profezia ancor essa si adempì.Ed in vero mentre Egli era condotto sulla cima del Calvario,insieme con Lui furono condotti due ladroni, al par di Lui condannati alla morte; e come Lui furono crocifissi, l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Ora, uno di essi,quello che stava alla sinistra, aveva preso egli pure a bestemmiare Gesù, e gli andava dicendo: « Su, se tu sei veramente il Messia, dammelo a conoscere col salvare te stesso e noi!Ma al contrario il ladro che si trovava alla destra e che fino
allora era stato uno scellerato egli pure, inorridito all’udire il compagno del suo supplizio ad insultare così il moribondo Signore, gli volge tosto questo giusto rimprovero: « E come? nemmeno tu, che pur stai sulla croce, temi la collera di Dio, che ti unisci a questo popolo scellerato per insultare un innocente? Noi, sì che soffriamo le pene giustamente dovute ai nostri delitti, ma questi che cosa ha fatto di male? » Rivoltosi quindi al divin Redentore con un’aria tutta umile, con voce supplichevole e col cuore spezzato dal dolore delle sue passate colpe: Signore, gli disse, ricordati di me, quando sarai giunto nel tuo regno: Domine, memento mei, cum venerisin regnum tuum. (Luc. XXIII, 42) Oh fede meravigliosa di questo buon ladrone! Oh mutamento ammirabile del suo cuore! Oh conversione portentosa sopra ogni altra! Fu grande, senza dubbio, la conversione di Maria Maddalena, perciocché una giovane ricca e peccatrice per eccellenza tutto ad un tratto vincendo le inveterate abitudini della colpa, sinceramente pentita andò a gettarsi ai piedi di Gesù Cristo per darsi interamente al suo amore; ma alla fin flne ella si convertiva, quando alla parola di Gesù Cristo i ciechi riacquistavano la vista, i sordi l’udito, i muti la loquela, i lebbrosi e gli infermi la guarigione, e i morti stessi la vita, allora insomma che Gesù comprovava coi miracoli che Egli era veramente Dio.. Così pure fu grande la conversione di Paolo, perché nell’atto stesso che questo fiero persecutore dei novelli seguaci del Nazareno si scagliava a ricercarli per incatenarli e farli condannare, fu di repente tramutato in un vaso di elezione e in un apostolo delle genti; ma egli si convertiva, quando una subita luce si faceva ad investirlo, quando un colpo ignoto lo balzava da cavallo e quando una voce poderosa risuonava per l’aria gridando: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ma questo ladro invece si convertiva allora, che Gesù Cristo pendeva dalla croce egli pure, come un vil malfattore, quando era svillaneggiato non solo dalla plebe, ma dagli stessi sacerdoti e maggiorenti, quando appariva agli occhi di tutti come un prodigio di umiliazione e di miseria. Sì, fu allora, che quest’uomo, sino a quel punto ostinato nel delitto, in un istante si converte, e benché vegga Gesù Cristo in mezzo a tanto obbrobrio, crede fermamente, che Egli sia l’innocente, il santo per eccellenza, il sovrano padrone del regno celeste, il Salvatore divino del genere umano; e fu allora che, rimproverato acerbamente il suo compagno degli insulti, che gli profferiva contro, a lui si rivolse, e colla fede più viva, coll’umiltà più profonda, colla contrizione più perfetta gli disse: Signore, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno: Domine, memento mei, cum venerisin regnum tuum. Ma tutto ciò, o miei cari, non fu che un miracolo della potenza della grazia, della bontà di Gesù Cristo. Fu Egli, che sebbene come uomo stesse soffrendo ogni sorta di ludibri, di scherni e di tormenti, come Dio dispiegò ed esercitò in questo ladro quella forza ineffabile, che penetra nelle menti più ottenebrate e le illumina, che tocca i cuori anche più duri e li muta, che comanda alle volontà anche più ribelli e le doma. Fu Egli che commosse quest’uomo sino a quel momento indurato nella colpa, fu Egli che lo animò di una fede sì viva, di una umiltà sì profonda, di una contrizione sì perfetta; fu Egli che gli ispirò e gli suggerì quella bella preghiera; fu Egli che in un attimo, di questo scellerato fece un penitente, un profeta, un evangelista, un martire, un confessore, un predicatore pubblico e coraggioso della sua innocenza, della sua potenza, del suo regno, della sua divinità e della sua redenzione. E così, mentre i Giudei, stupidi e maligni, collocando Gesù tra due ladroni, non avevano pensato ad altro che a maggiormente avvilirlo, beffati da Dio nella loro stupidità e malizia, non servirono invece che a renderlo più glorioso, dandogli agio anche qui di esercitare la sua misericordia, di manifestarsi Dio e di acquistare un nuovo adoratore. Ma se la conversione repentina di questo ladro fu anzitutto l’opera della grazia di Gesù Cristo, non lasciò di essere da parte del ladro una pronta e fedele corrispondenza alla medesima. Epperò questa condotta così ammirabile non poteva rimanere senza premio. Che farà adunque Gesù Cristo? Che cosa gli risponderà? Ah! Gesù Cristo, ascoltata l’umile e confidente preghiera, piega amorosamente verso di lui il suo capo, e con somma dolcezza gli risponde: « Te lo assicuro, oggi sarai meco in paradiso: » Amen dico Ubi: hodie mecum erisin paradiso. (Luc. XXIII, 43) Oh parola! oh risposta degna, d’immortale memoria! Oh prontezza della misericordia divina nel muovere incontro al peccatore penitente ed assicurarlo non solo del perdono, ma della eterna beatitudine. « Oggi sarai meco in paradiso, » vale a dire: Tu chiedi che Io mi ricordi di Te entrato che sarò nel mio regno, ma Io ti dono assai più di quello che chiedi; oggi stesso, prima che il giorno finisca, tu, benché sia stato ladro, sarai in mia compagnia; oggi stesso ti mostrerò agli Angioli come primo trofeo della mia grazia, come primo frutto della mia redenzione; oggi stesso insieme coi giusti che mi attendono nel limbo ti darò a vedere la mia essenza divina, in cui propriamente consiste la vera gloria del paradiso: Hodie meoum eris inparadiso. È dunque vero! L’uomo può ancora allargare alla speranza il suo cuore, quando pure ha passato una vita intera nelle abominazioni del peccato? Sì, o miei cari, nella sua infinita misericordia Iddio è pronto sempre ad accogliere nelle sue braccia il povero peccatore, anche allora che da lunghissimi anni sta lontano da lui. Forse vi saranno qui tra voi di coloro, che da dieci, venti, trenta, quarant’anni accumulano iniquità sopra iniquità, miserie sopra miserie, delitti sopra delitti, e che in questo istante medesimo all’udire il miracolo della grazia del Crocifisso sentono in fondo all’anima un salutare risveglio, che li fa esclamare: Oh se anch’io … Deh! assecondino essi il primo impulso della divina misericordia; non si spaventino al pensiero delle infinite colpe passate; non rispondano alla brama di convertirsi: Per noi è inutile; Dio non ci perdonerà più; no, o dilettissimi, ma, contemplando il buon ladrone accanto a Gesù Cristo, come lui percuotano il Cuore amoroso, come lui gli dicano contriti ed umiliati: Domine,memento mei: Signore, ricordati di me, volgimi il tuo sguardo amoroso; miserere mei; abbimi compassione. E d ancor essi potranno sentirsi ripetere questa consolante parola: Oggi sarai meco in Paradiso: Hodie mecum eris in paradiso. Sì, oggi, perché per la grazia di Dio, l’anima del peccatore può essere spezzata da un dolore sì grande delle proprie colpe, da ricolmare in un istante gli abissi, che la separano da Dio. Senonché, o miei cari, imitando la illimitata fiducia, con cui questo ladro corrispose alla grazia divina, guardiamoci bene dal differire come lui sino agli estremi della vita la nostra conversione. È vero, questo ladro si convertì e si fece santo, direi in quel momento medesimo, in cui l’anima gli fuggiva dal corpo; ma ben diversamente il cattivo ladrone in quel momento istesso si ostinava nella sua colpa, nella sua cecità, nella sua malizia; e propriamente vicino a Gesù Cristo, mentre il sangue di Lui si versa per la salute degli uomini, mentre le sue piaghe stanno aperte per riceverli, mentre insomma la grand’opera della redenzione si compie, egli, il disgraziato, si perde e si avvia con precipizio all’inferno. Ah ciò vuol dire adunque che il divin Redentore, nella misericordia infinita del Cuor suo, assicura il paradiso ai veri penitenti, che docili all’azione della sua grazia prontamente vi corrispondono, ma che d’ordinario abbandona alla loro trista sorte quegli uomini superbi ed ostinati che respingono le misericordiose sue chiamate. Ciò vuol dire che ad ottenere la salute non basta esser vicini alla Croce di Gesù Cristo, frequentando la chiesa, ascoltando anche ogni giorno la messa, intervenendo a processioni e ad altre pratiche devote, se per siffatto modo stando presso alla stessa croce pur si continua ad essere nemici di Gesù Cristo tenendo nell’animo il peccato e nutrendo perciò una profonda inimicizia con Lui. Ciò vuol dire che se si può perire sullo stesso Calvario presso alle piaghe ed al sangue del divin Redentore, vi è ben da tremare per coloro che se ne vivono lontani nei teatri, nei balli, nei ridotti, nei conviti, nelle conversazioni, negli scandali e nella corruzione del secolo. Ciò vuol dire insomma che la misericordia divina non manca a chi prontamente la vuole, la cerca, la invoca, ma che può mancare in eterno a chi ne abusa, a chi non la cura, a chi volontariamente la sfugge. Deh! o miei cari, se oggi la voce di. Gesù Cristo agonizzante, sprigionandosi dal suo Cuore divino ha ferito le nostre orecchie, non vogliamo indurare i cuori nostri. La gioventù, la sanità, il tempo potrebbero sul più bello mancarci, perché la morte propriamente come un ladro può coglierci quando meno si aspetta. Diciamo dunque ancor noi a Gesù Cristo con prontezza e con sincerità: Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno; perché a tutti Gesù Cristo risponda: Oggi sarai meco in paradiso: Hodie mecum eris in paradiso.
III. — Ma ecco che Gesù apre un’altra volta il suo labbro divino e pronunzia un’altra parola, la più dolce, la più tenera, la più consolante di tutte, quella parola con cui ci diede Maria SS. per Madre. Ma perché questa parola è così grande, che basta da se sola a costituire una delle prove supreme dell’amore di Gesù Cristo per noi, dobbiamo senza dubbio riservarla da sola e per altro giorno alle nostre considerazioni. Passiamo ora adunque a meditare la quarta parola, che il divin Redentore profferisce. Gettando lo sguardo sopra la terra sembra di non vedere altro che pene, guai e dolori; tendendo l’orecchio a noi d’intorno sembra non udire altro che lamenti, gemiti e pianti! Tant’è! Dopo la caduta del nostro progenitore il soffrire è divenuto legge universale per tutti gli uomini. Noi cominciamo a piangere appena nati, e il dolore, fattosi compagno del nostro viaggio attraverso a questa valle di lagrime, più non ci lascia sino al termine. Vi ha forse alcuno tra di voi, sebbene entrato da pochi anni per questo cammino della vita, che ignora ancora l’amarezza del pianto! Vi è stato o condizione che si possa sottrarre al dolore? Soffre il povero, ma non soffre meno il ricco; soffre il suddito, ma soffre pure il sovrano. Tutti, tutti soffrono; e in quanti modi diversi! Ma per quanto gravi siano tutto le sofferenze, a cui variamente sono gli uomini assoggettati, forse non ve n’è alcuna maggiore di quella, che opprime un’anima innocente, destinata ingiustamente al supplizio e per essere creduta rea, abbandonata persino dalle persone a lei più care. Io me la immagino quest’anima infelice in un giovane sventurato, che lanciatagli contro la falsa accusa di aver cospirato contro la patria, caricato di ferri vien gettato nel fondo di tetra prigione, perché ivi aspetti il giorno, in cui sarà tratto alla morte. Gli amici, anziché pigliar le sue difese, per timore di essere trascinati nella stessa iniqua sentenza, si sono nascosti. Ognuno tra gli stessi parenti lo aborre, ognuno lo abbandona al suo destino; nessun lo compiange, lo soccorre. Lo stesso suo vecchio padre, quel padre che prima tanto lo amava, ora ritenendolo egli pure colpevole, e costringendo al silenzio ogni affetto di natura, non ricorda il figlio che per far pesare sul suo capo tremendo la sua maledizione! Ah! dite: vi può essere afflizione più grave di questa? Morire innocente e abbandonato maledetto dallo stesso padre! Ahimè! o miei cari, che questa è propriamente la condizione di Gesù Cristo! Anche questa terribile parola: Maledictus, qui pendet in ligno! doveva per Lui essere adempiuta. Gesù Cristo, vero Figliuolo di Dio, innocente, senza macchia, segregato dai peccatori, colmo di tutte le ricchezze della grazia e della santità, non per necessità, ma per amore venuto sulla terra ad operare la nostra salute, si è rivestito di tutti i peccati degli uomini affine di espiarli. Ma da quell’istante medesimo che Egli fece sue tutte quante le nostre iniquità, il suo divin Padre lo riguardò come reo delle medesime, e senza punto risparmiarlo prese a percuoterlo terribilmente. Lo percosse nella sua nascita, e Gesù patì la povertà, il freddo, la miseria; lo percosse nella sua vita privata e Gesù patì l’esiglio, l’indigenza, la fatica; lo percosse nella sua vita pubblica e Gesù patì l’ingratitudine, gl’insulti e le maledizioni; lo percosse nella sua passione e Gesù patì l’abbandono dei discepoli, il tradimento di Giuda, la cattura, gli obbrobri, la flagellazione, la coronazione di spine, la condanna a morte, il portar la croce, l’esservi sopra confitto; lo percosse sulla croce istessa e in mezzo a quegli atroci tormenti, che andava soffrendo, lo lasciò nel più desolante abbandono. Non già, o miei cari, che il divin Padre abbandonasse Gesù Cristo in quanto alla natura divina, per cui sono tra di loro una cosa sola ed inseparabile, ma lo lasciò tuttavia in abbandono coll’esporre la sua umana ed inferma natura alle potestà delle tenebre, col lasciarlo in balìa de’ suoi nemici, in preda al furore degli nomini e dei demoni, a tutte le ignominie, a tutti gli insulti, a tutte le pene e a tutti gli orrori della croce; col sottrargli ogni protezione, col negargli ogni stilla di consolazione e di refrigerio, e qualunque siasi di quelle dolcezze, con cui confortando poscia i martiri li rendeva contenti e giulivi negli stessi più atroci tormenti, col lasciarlo insomma come immerso ed affogato in un mare di amarezza, anzi col gettarvelo Egli stesso: Proprio filio non pepercit, ned prò nobis tradidit illum. A questo colpo non poté più resistere l’agonizzante Gesù, e raccolto sulle labbra quel misero avanzo di fiato che gli era rimasto, si lamentò d’un sì doloroso abbandono, esclamando a tutta voce: Dio, Dio mio, perché mi hai Tu abbandonato? Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (MATT. XXVII, 46). Oh parole da far tremare la terra, da ecclissare il sole, da sbalordire tutta la natura! Certo è, che non vi era cosa più famigliare a Gesù Cristo, quando parlava a Dio o di Dio, che chiamarlo col nome di Padre! Eppure in così grande occasione, in tanta necessità di conforto, dimenticato questo dolce nome, lo chiama col nome augusto e terribile di Dio! Deus, Deus meus! Ah! queste non furono certamente le voci della natura divina, ma bensì le voci della inferma umanità, che vedendosi dall’Eterno Padre trattata come se non fosse quella del suo Figliuolo, non ebbe più l’ardire di chiamarlo Padre, e lo chiamò Dio. E volle dire : « Mio Dio, che io chiamo con questo nome, perché sembra che Tu stesso abbia dimenticato di essermi Padre; lasciandomi a soffrire in questo mare di amarezze senza una stilla sola di quella consolazione, che neppure negasti ad un ladro, che per enormi delitti mi pende su d’un patibolo qui vicino; Dio, Dio mio, perché, mi hai così abbandonato: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? » Oh parole! Oh lamento da impietosire un cuore di sasso! Ma di queste parole, di questo lamento noi siamo stati le causa coi nostri peccati. Questa è la conseguenza, questo l’effetto di quell’ingrato abbandono, che noi tante volte adoprammo con Dio. Sì, egli è per te, o superbo sapiente del mondo, perché abbondonasti le verità della fede, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o magistrato iniquo, perché abbandonasti la giustizia, che Dio ha abbandonato Gesù, egli è per te, o vile schiavo degli umani rispetti, perché abbandonasti la pratica della santissima Religione, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o miserabile assetato dei beni della terra, perché abbandonasti l’equità ne’ tuoi guadagni e il rispetto alle altrui sostanze, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o sacrilego infame, perché abbandonasti la santità nei sacramenti, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, scellerato marito, perché abbandonasti la tua sposa, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o padre snaturato, perché abbandonasti la cura de’ tuoi figli, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o donna vana e superba, perché hai abbandonato la modestia e l’umiltà; per te, o donzella scandalosa, perché abbandonasti il pudore; per te, o giovane dissoluto, perché abbandonasti l’onestà; per te, figliuolo ingrato, perché abbandonasti l’onore a’ tuoi genitori; per me, sacerdote e religioso indegno, perché abbandonai la santità ed il fervore; egli è per tutti noi, perché tutti abbiamo abbandonato Gesù che Gesù fu abbandonato da Dio! E perché lo abbandonammo? Oh stolti che fummo, Gesù stesso lo dice: « Abbandonarono me, fonte di acqua viva per scavarsi delle sozze pozzanghere! Dereliquerunt me, fontem aquæ vivæ, etfonderunt sibi cisternas… dissipatas. Per un capriccio, per un puntiglio, per una vendetta, per uno sfogo di carne, per un umano riguardo, per una lettura cattiva, per un discorso disonesto, per un piacere da nulla, che non ci ha fruttato che amari rimorsi. Se adunque Gesù Cristo ha sofferto l’abbandono del suo divin Padre per cagion nostra e di questo abbandono gliene ha mosso lamento, non fu già una lagnanza delle pene, che soffriva Egli stesso, ma piuttosto una lezione sensibile delle pene, cui andiamo incontro noi a cagione de’ nostri peccati. Vox ista – dice S. Agostino – doctrina est, non querela. I peccatori, che si danno con tanta licenza a contentar le passioni, a seguire il vizio, a commettere la colpa, abbandonano violentemente Iddìo, e si allontanano da lui: Elongaverunt a me; (GER. II, 5) ma il Signore abbandona alla sua volta questi peccatori e si fa lontano da essi: Longe est Dominus ab impiis.(Prov. xv, 29) Allora poi soprattutto, quando gli sciagurati si sono ostinati nella via dell’impenitenza e han fatto i sordi ai non pochi richiami della divina misericordia, allora Iddio pronunzia per essi la sentenza dell’eterno abbandono: CuravimusBabylonem, et non est sanata, derelinquamus eam. (GER. LI, 9) Ed allora effettuandosi questa feribile sentenza, verrà giorno, in cui i peccatori grideranno come Gesù Cristo: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti meiE questa straziante elegia del loro cuore, affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della loro eternità. Ecco la pena terribile, che Gesù Cristo ci ha posto innanzi in quel suo grido. E tutto ciò non fu un’altra prova della sua Carità infinita per noi? Non ha voluto per tal guisa animarci quanto più gli era possibile a non voltargli più mai le spalle, a non volerlo più. abbandonare? Ah! che le mire caritatevoli del Cuore di Gesù Cristo non siano frustrate! Che tutti abbiamo pietà dell’anima nostra! Che tutti prontamente risolviamo di unirci a Gesù Cristo per non abbandonarlo più mal e per non esserne più mai abbandonati. Sì, o Cuore Santissimo, noi ci stringiamo in questo momento alla vostra croce, e confidati nei meriti infiniti del vostro Sangue e delle vostre Piaghe, noi giuriamo solennemente di star sempre d’ora innanzi a voi uniti colla grazia vostra, di seguirvi dappertutto, in tutta la vostra dottrina e in tutti i vostri esempi, per meritarci un giorno la felicissima sorte di unirci a voi con un nodo indissolubile e godere della vostra beata compagnia per tutti i secoli.
In questa breve lettera, il Santo Padre Gregorio XVI, elogia tutti coloro che con forza e coraggio, si prodigarono in soccorso della Santa Sede, attaccata da sediziosi e turpi figuri, nemici della Chiesa di Cristo e soggetti all’impero del serpente antico. Questa determinazione, che spinse all’epoca quegli uomini valorosi ad impegnarsi in difesa dei diritti della Sede Apostolica perché potesse indipendentemente da qualsiasi potere temporale, esercitare le proprie funzioni apostoliche su tutto l’orbe terrestre, è solo un vago ricordo ed un sogno d’altri tempi oggi che la mollezza e l’indifferenza effeminata anima una società falsamente cristiana in balia del serpente maledetto e dei suoi adepti settari e non guidata che da falsi ed invalidi sacrileghi pastori, dediti a nutrire i propri appetiti, senza curarsi delle anime di fedeli sbandati e lasciati nelle fauci di lupi rabbiosi e leoni voraci e che essi stessi sbranano senza pietà. Qui si può costatare la distanza abissale che corre tra le persone dell’epoca dedite alla salvaguardia della propria fede, anche a rischio della propria vita, e gli abitanti attuali delle stesse terre, ridotti a fantasmi ebbri di piaceri e dediti a vizi vergognosi dai quali traggono una fellonia – come si esprime qui Sua Santità – che li conduce a tradire anche i più elementari doveri verso la patria e la Religione di Cristo. C’è veramente da rifugiarsi in caverne ed invocare che le montagne crollino e seppelliscano questi già morti, come i sepolcri imbiancati dei nostri governanti, nonché degli ipocriti – falsi chierici e falsi fedeli della sinagoga di satana – apparentemente vivi, ma morti nell’anima, sepolti e condannati all’eterna dannazione.
Gregorio XVI
Quel Dio
Quel Dio, che nei suoi impenetrabili
consigli non disdegnò chiamare la Nostra debolezza al Sommo Pontificato, non ci
dimenticò fra le angustie che fin dai primi momenti del medesimo si
moltiplicarono rapidamente, e con un tratto della sua sempre amabile
provvidenza, non permettendo che esse fossero superiori alle forze, fornì
sollecitamente a Noi con la tribolazione stessa il mezzo di superarla, affinché
non fossimo confusi nelle speranze di sicura protezione divina, le quali già
esternammo vivissime nell’indirizzare per la prima volta la voce ai Nostri
popoli. Perciò, mentre annunciamo lieti che si è calmata la tempesta e resa la
tranquillità nelle province (che persone nemiche della religione e del trono
desolarono con gli orrori della fellonia), esultiamo nel poter proclamare, a
gloria del vero, che, se si conserva incontaminata nel Nostro popolo Romano la purità di quella fede,
che con divina testimonianza asserì l’Apostolo Paolo essere annunziata in tutto
l’universo, costante del pari e celebrata in tutta l’Europa è la sua fedeltà a
chi ne è costituito Padre e Sovrano. – Dolce è per Noi rendere così un pubblico
elogio ad un popolo tanto fedele, da cui perciò anche nei momenti più torbidi
non Ci saremmo mai allontanati, risoluti di dividere con esso quella sorte con
la quale fosse piaciuto a Dio umiliarci sotto la potente sua mano.
L’attaccamento sincero, la filiale obbedienza, la docile sommissione dello
stesso popolo verso la Nostra persona, come ispiravano a Noi una illimitata
fiducia nel medesimo, così Ci renderanno sempre cara la memoria delle
commoventi dimostrazioni che esso cercò di fornire con i modi più luminosi. – Passarono,
mercé il divino soccorso che nel fervore di pubbliche e private preghiere
affrettarono i Nostri figli, passarono i giorni di tristezza, e in un con
l’arco si spezzarono le armi, che mani sacrileghe imbrandirono per portare
nell’agro Levitico devastazione e pianto. La Sede del Cristianesimo, che per singolare predilezione
Dio volle che si reggesse da chi fosse Principe e Pontefice, affinché l’essere
egli principe lo rendesse più libero nell’esercizio della sua spirituale
autorità, trionfò anche questa volta, difesa contro le macchine dell’empietà da
chi la pose quasi torre inespugnabile da cui pendono a mille e mille gli scudi
ed ogni armatura dei forti. – Ma se con la sincerità di riconoscenza più
viva ravvisiamo nell’imperiale reale esercito Austriaco quelle elette schiere
di prodi, alle quali Dio volle riservato il trionfo sopra la perversità dei
rivoltosi, e con esso l’onore di restituire i suoi Stati alla Santa Sede,
coronando con sì felice successo gl’impulsi incessanti di quella Religione
purissima che forma il più bell’elogio dell’augusto e potente loro signore
Francesco I (al quale indelebile gratitudine Ci legherà perpetuamente), siano
pure gloria e lode a quegli onorati cittadini che, riunitisi premurosi in
milizia civica, vegliarono indefessi sotto le armi, e fra i travagli di
servizio più stretto, alla salvezza della Nostra persona ed alla quiete di
questa città. Noi osservammo con tenerezza gareggiare in questo, generosamente
e indistintamente col popolo, persone tratte dalla nobiltà più illustre, e da
quanto vi è in tutti gli ordini di scelto e di attivo. Il nostro spirito ne fu
commosso sommamente; e caro quindi Ci è il dichiarare che a prove sì belle di
tanta devozione corrisponderà sempre la pienezza del Nostro affetto, che non
sarà pago se non con la sicurezza della compiuta felicità di figli così fedeli:
è per Noi un vero conforto dedicare ad essa le cure più industriose. – Ma in
così decisa fedeltà e in così nobile intendimento il popolo Romano ebbe emule
le convicine province che, dopo essersi disposte alla difesa dei loro
territori, ebbero a gloria d’inviare dei volontari i quali, lasciati i propri
focolari, concorsero ad aumentare quella parte preziosa delle Nostre truppe
che, sotto esperti ed onorati condottieri, sentì la forza dei giuramenti a Noi
prestati, e seppe difendere e far rispettare un suolo sacro alla fedeltà: e qui
abbiano tutti l’assicurazione del Nostro pieno gradimento e la promessa che ciò
non rimarrà sterile, troppo interessandoci di procurare effettivamente il loro
maggiore vantaggio, per quanto le infauste circostanze lo permetteranno. – Vorremmo
pur dilatare il cuore con eguali espressioni anche sopra tutti gli altri popoli
che Dio affidò al Nostro temporale governo. Ma se essi furono trascinati nelle
disavventure della rivolta, Ci è ben noto che non furono, nella massima parte,
che vittime della coazione o del timore, come ben dimostrarono l’esultanza e la
gioia con cui, appena apparve un raggio di prossima liberazione, scosso il
giogo umiliante loro imposto dai sediziosi, e sostituito alle insegne della
fellonia il pacifico vessillo del governo Pontificio, si proclamò il ritorno a
quel Padre e Sovrano dal cui seno li aveva strappati miseramente il delitto di
pochi. – Fermi nel gran pensiero di dare provvidenze che migliorino felicemente
lo stato dei Nostri sudditi, volgemmo a questo, anche fra le affliggenti
passate calamità, le Nostre sollecitudini: pronti sempre ad ascoltarne i voti
che siano figli di autentici bisogni, ed atti ad operare i desiderati vantaggi,
manifesteremo premurosi quelle disposizioni che la considerazione del passato e
l’esame delle circostanze Ci additano essere le più utili. – Ma tante cure
paterne rimarrebbero purtroppo deluse, né potrebbero farci pervenire al bramato
intento, e quand’anche Ci si presentasse il più lusinghiero apparato di un
felice avvenire, momentanea ne sarebbe la durata se con energiche misure non si
prevenisse il ritorno dei disordini, che lasceranno a lungo le tracce dei mali
che ne ridondarono. – Memori, perciò, che sarà sempre soffocato il grano eletto
se non ne sia divelta fin dalle radici la zizzania che l’uomo nemico vi
disseminò, non potemmo che vedere con rincrescimento un atto dato in Ancona il
giorno 26 dello scorso marzo, il quale, lasciando illesi gli elementi della
ribellione, non ne sospendeva che momentaneamente gli effetti, che tanto più
ruinosi si sarebbero risentiti appena fosse mancato quel che ne arrestava il
vorticoso torrente. Ma grazie a quel Dio che immenso nella sua provvidenza trae
dal male veri beni, ove così giudichi convenire per la causa della maggiore sua
gloria, Egli permise nei capi dei faziosi nuove penali cecità. Avverandosi nei
medesimi che essi fallirono nei loro vaneggiamenti nello scrutare follemente
nuovi mezzi alla loro reità, essi decisero di riparare al bisogno dell’istante
col carpire in presenza della forza e con fallaci prospetti d’imminenti
sciagure, non senza simulare anche menzogneri pentimenti, un atto del
dilettissimo Nostro figlio il Cardinale Benvenuti, il quale senza alcun
riguardo alla sublime sua dignità ingiuriato poco prima, assalito, arrestato e
caduto per siffatti trattamenti in grave malattia, né ancor reso alla
necessaria libertà, era tuttora trattenuto da quegli stessi che con pubblici
editti calunniosissimi avevano tentato di formarne un oggetto di popolare
indignazione. – Ma chiara evidentemente e troppo conosciuta da tutti era la
nullità intrinseca di un atto di tale natura emesso in istato di coazione da
chi, con l’essere trascinato prigioniero del nemico, aveva già perduto
sull’istante le facoltà di essere interprete della Nostra mente, ed aveva per
conseguenza cessato di essere depositario di quei poteri che gli avevano
affidato. I buoni se ne rattristarono senza fine, e comune fu il sentimento di
dolore per la sorpresa nella quale si vide caduto l’uomo giusto in momenti di
trepidazione, e fra i tortuosi sforzi degli implacabili nemici dell’ordine
pubblico. Noi, appena ne fummo a conoscenza, riprovammo tale atto, e ne
dichiarammo altamente la nullità, che risultava manifestissima per tanti
titoli. In linea con questa massima, che ogni sacro e profano diritto
garantiva, furono le istruzioni che Ci affrettammo ad ordinare, al solo scopo
di allontanare dai Nostri popoli reiterate disgrazie. – Ministri pertanto di
quel Signore il quale vuole che si recida ciò che dà causa a scandalo e che sia
tolto il fermento guasto che corromperebbe la massa, non dimenticheremo di
dovere un giorno render conto a Dio dell’uso che avremo fatto della clemenza
come della giustizia. Penetrati dai doveri, che Ci impone la qualità di Principe,
avremo sempre presente al pensiero, anche nell’insistere sulle vie della pace,
che a questa si deve accompagnare in dolce amplesso la giustizia, la quale da
Noi esige severamente di porre nel caso di non poter nuocere coloro che alle
reiterate profusioni di pietà e di mansuetudine non corrisposero che con nuovi
attentati contro la Religione, contro il Principato, contro la pubblica
tranquillità. Debitori ai Nostri sudditi di procurare loro la sicurezza nelle
persone, nell’ordine morale e nelle sostanze, non regoleremo che con questo
scopo salutare le Nostre provvidenze, tenendoci nei limiti che debbono avere la
clemenza e la giustizia. Sia quindi del comune impegno implorare su Noi dalla
divina misericordia lume ed aiuto, onde le Nostre determinazioni siano secondo
il suo volere, affinché protette da essa rendano quei risultati di soda e
costante felicità, che nata, fomentata, accresciuta nel retto e nel vero, può
sola rendere soddisfatti i voti che, nell’impartire sui Nostri sudditi
l’Apostolica Benedizione, per essi indirizziamo al cielo fervorosissimi.
Dato a Roma, presso Santa Maria
Maggiore, il 5 aprile 1831, anno primo del Nostro Pontificato.
DOMENICA DELLAFESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2020)
O Dio, uno nella natura e trino nelle
Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le
creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio
Redentore e mio Santificatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto
il cuore.
Voi nella vostra felicità infinita,
preferendo, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio
di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito
d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla
all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.
Dall’abisso della mia miseria vi adoro e
vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di
fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù;
fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui
costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino,
possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.
[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam orationem pie recitaverint, conceditur:I
Indulgentia plenaria suetis
conditionibus (S. Pæn. Ap.,10 maii 1941).
[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti, Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]
Canticum Quicumque
Symbolum Athanasium
Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem: Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit. Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur. Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes. Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti: Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas. Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus. Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus. Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus. Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus. Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus. Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus. Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens. Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus. Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus. Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus. Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur. Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus. Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus. Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens. Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti. Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles. Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit. Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat. Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat. Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est. Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus. Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens. Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem. Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus. Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum. Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ. Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus. Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis. Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos. Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem. Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum. Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.
MESSA
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R.
Berruti & C. Torino 1950)
Doppio di I° classe.
– Paramenti bianchi.
Lo Spirito Santo, il cui regno comincia con la festa di Pentecoste, viene a ridire alle nostre anime in questa seconda parte dell’anno (dalla Trinità all’Avvento – 6 mesi), quello che Gesù ci ha insegnato nella prima (dall’Avvento alla Trinità – 6 mesi). Il dogma fondamentale al quale fa capo ogni cosa nel Cristianesimo è quello della SS. Trinità, dalla quale tutto viene (Ep.) e alla quale debbono ritornare tutti quelli che sono stati battezzati nel suo nome (Vang.). Così, dopo aver ricordato, nel corso dell’anno, volta per volta, pensiero di Dio Padre Autore della Creazione, di Dio Figlio Autore della Redenzione, di Dio Spirito Santo, Autore della nostra santificazione, la Chiesa, in questo giorno specialmente, ricapitola il grande mistero che ci ha fatto conoscere e adorare in Dio l’Unità di natura nella Trinità delle persone (Or.). — « Subito dopo aver celebrato l’avvento dello Spirito Santo, noi celebriamo la festa della SS. Trinità nell’officio della domenica che segue, dice S. Ruperto nel XII secolo, e questo posto è ben scelto perché subito dopo la discesa di questo divino Spirito, cominciarono la predicazione e la credenza, e, nel Battesimo, la fede e la confessione nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ». Il dogma della SS. Trinità è affermato in tutta la liturgia. È in Nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo che si comincia e si finisce la Messa e l’Ufficio divino, e che si conferiscono i Sacramenti. Tutti i Salmi terminano col Gloria Patri, gli Inni con la Dossologia e le Orazioni con una conclusione in onore delle tre Persone divine. Nella Messa due volte si ricorda che il Sacrificio è offerto alla SS. Trinità. — Il dogma della Trinità risplende anche nelle chiese: i nostri padri amavano vederne un simbolo nell’altezza, larghezza e lunghezza mirabilmente proporzionate degli edifici; nelle loro divisioni principali e secondarie: il santuario, il coro, la navata; le gallerie, le trifore, le invetriate; le tre entrate, le tre porte, i tre vani, il frontone (formato a triangolo) e, a volte le tre torri campanili. Dovunque, fin nei dettagli dell’ornato il numero ripetuto rivela un piano prestabilito, un pensiero di fede nella SS. Trinità. — L’iconografia cristiana riproduce, in differenti maniere questo pensiero. Fino al XII secolo Dio Padre è rappresentato da una mano benedicente che sorge fra le nuvole, e spesso circondata da un nimbo: questa mano significa l’onnipotenza di Dio. Nei secoli XIII e XIV si vede il viso e il busto del Padre; dal secolo XV il Padre è rappresentato da un vegliardo vestito come il Pontefice. — Fino al XII secolo Dio Figlio è rappresentato da una croce, da un agnello o da un grazioso giovinetto come i pagani rappresentavano Apollo. Dal secolo XI al XVI secolo apparve il Cristo nella pienezza delle forze e barbato; dal XIII secolo porta la sua croce, ma è spesso ancora rappresentato dall’Agnello. — Lo Spirito Santo fu dapprima rappresentato da una colomba le cui ali spiegate spesso toccano la bocca del Padre e del Figlio, per significare che procede dall’uno e dall’altro. A partire dall’XI secolo fu rappresentato per questo sotto forma di un fanciullino. Nel XIII secolo è un adolescente, nel XV un uomo maturo come il Padre e il Figlio, ma con una colomba al disopra della testa o nella mano per distinguerlo dalle altre due Persone. Dopo il XVI secolo la colomba riprende il diritto esclusivo che aveva primieramente nel rappresentare lo Spirito Santo. — Per rappresentare la Trinità si prese dalla geometria il triangolo, che con la sua figura, indica l’unità divina nella quale sono iscritti i tre angoli, immagine delle tre Persone in Dio. Anche il trifoglio servì a designare il mistero della Trinità, come pure tre cerchi allacciati con il motto Unità scritto nello spazio lasciato libero al centro della intersezione dei cerchi; fu anche rappresentata come una testa a tre facce distinte su un unico capo, ma nel 1628 Papa Urbano VIII proibì di riprodurre le tre Persone in modo così mostruoso. — Una miniatura di questa epoca rappresenta il Padre e il Figlio somigliantissimi, il medesimo nimbo, la medesima tiara, la medesima capigliatura, un unico mantello: inoltre sono uniti dal Libro della Sapienza divina che reggono insieme e dallo Spirito Santo che li unisce con la punta delle ali spiegate. Ma il Padre è più vecchio del Figlio; la barba del primo è fluente, del secondo è breve; il Padre porta una veste senza cintura e il pianeta terrestre; il Figlio ha un camice con cintura e stola poiché è sacerdote. — La solennità della SS. Trinità deve la sua origine al fatto che le ordinazioni del Sabato delle Quattro Tempora si celebravano la sera prolungandosi fino all’indomani, domenica, che non aveva liturgia propria. — Come questo giorno, così tutto l’anno è consacrato alla SS. Trinità, e nella prima Domenica dopo Pentecoste viene celebrata la Messa votiva composta nel VII secolo in onore di questo mistero. E poiché occupa un posto fisso nel calendario liturgico, questa Messa fu considerata costituente una festa speciale in onore della SS. Trinità. Il Vescovo di Liegi, Stefano, nato verso l’850, ne compose l’ufficio che fu ritoccato dai francescani. Ma ebbe vero principioquesta festa nel X secolo e fu estesa a tutta la Chiesa da Papa Giovanni XXII nel 1334. — Affinché siamo sempre armati contro ogni avversità (Or.), facciamo in questo giorno con la liturgia professione solenne di fede nella santa ed eterna Trinità e sua indivisibile Unità (Secr.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Tob XII: 6.
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei,
quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
[Sia benedetta la Santa Trinità e
indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua
misericordia.]
Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!
[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]
Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui
dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam
agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem
fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis.
[O Dio onnipotente e sempiterno, che
concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria
dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo,
affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni
avversità.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli
Apóstoli ad Romános. Rom XI: 33-36.
“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”.
[O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]
Graduale
Dan III: 55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim.
[Benedetto sei Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]
Alleluja
Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja.
[V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]
Dan III: 52V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. Alleluja.
[Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum. Matt XXVIII:
18-20
“In illo témpore: Dixit Jesus
discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo
docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus
Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego
vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”.
« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni
potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le
genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo,
insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io
sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo ».
OMELIA
Il Vangelo della
Domenica.
[Mons. G. Bonomelli, Misteri Cristiani; vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]
Dio, uno nella sua essenza o natura, si svolge nella Trinità delle Persone: ecco il mistero primo e massimo della Religione, l’oggetto e il termine supremo della nostra fede. Tutti i simboli o compendi della nostra fede cominciano col professare che un solo è Dio, il principio sovrano d’ogni cosa: « Credo in unum Deum »; poi considerano l’una dopo l’altra le tre Persone, che nell’unica natura sussistono, distinte ed eguali tra loro, e l’una dall’altra procedente con atto semplicissimo ed eterno: poi di ciascuna Persona toccano l’opere compiute fuori della essenza divina, opere che sono come il pallido riflesso e l’aureola caratteristica di ciascuna. – La liturgia della Chiesa, che rispecchia nel corso dell’anno la serie ordinata delle opere singolarmente del Figlio e dello Spirito Santo, il primo Redentore, il secondo Santificatore delle anime, si chiude con la Pentecoste, cioè con lo stabilimento del regno di Cristo e dello Spirito da Lui mandato sulla terra e che deve continuare l’opera sua fino alla consumazione dei tempi. Qual cosa più naturale per la Chiesa quanto il riassumere in una festa la storia tutta della divina rivelazione e invitare tutti i suoi figli a fissare gli occhi illuminati dalla fede nel Principio Uno e Trino, da cui tutto si deriva e si squaderna ciò che esiste in cielo, in terra e nell’inferno? Dopo di aver loro additato Dio, principio senza principio, uno, eterno: dopo aver loro mostrato in quel pelago immensurabile della essenza divina la Persona del Padre, che non emana da altri, che è da sé: dopo aver loro mostrato, che questo Padre genera di sé un Figlio unico, a sé eguale e ricordate l’opere sue dopo fatto uomo: dopo aver loro mostrato lo Spirito Santo, che procede come Amore eterno dal Padre e dal Figlio e che spande nella Chiesa l’onda della vita divina, dopo tutto questo la Chiesa grida a tutti i credenti: – Figli miei! ora dalle cose tutte create, dalle cose tutte compiute dal Figlio fatto uomo e dallo Spirito Santificatore, sollevate gli occhi, risalite il fiume, che dal cielo si versa sulla terra; ficcate lo sguardo nella fonte, nell’origine prima di tutte le cose e riconoscete Dio, che è uno nella essenza e trino nelle Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Ecco la radice, il punto, da cui tutto si irradia, ecco la sintesi suprema della vostra fede. – La festa della Santa Trinità non si poteva meglio collocare che in questa domenica, che segue la Pentecoste, la manifestazione prodigiosa della terza divina Persona. La Festa odierna, o dilettissimi, è la degna corona dei misteri tutti della fede celebrati lungo l’anno e ci riconduce là donde siamo partiti, a Dio Uno e Trino. In questo primo Ragionamento io mi restringerò a commentare il Vangelo, che la Chiesa oggi ci propone a meditare e che esprime in tutta la sua chiarezza e concisione il mistero dell’Unità e Trinità di Dio. I tre versetti, che dobbiamo chiosare, sono gli ultimi dell’ultimo capo del Vangelo di S. Matteo e per intenderli a dovere è forza vedere il nesso con gli antecedenti. In quest’ultimo capo del suo Vangelo, S. Matteo narra la risurrezione di Gesù Cristo e lo fa in modo sì succinto, che più non avrebbe potuto fare. Narra la sua apparizione alle donne e il comando loro fatto di annunziarla agli Apostoli e che si recassero in Galilea, sopra un monte, sul quale die loro la posta, e dove essi lo videro e lo adorarono. E fu là in Galilea, su quel monte, che Gesù rivolse agli undici Apostoli le parole che ho riportate, che sono come l’ultimo suo ricordo, il compendio delle sue raccomandazioni e che ora dobbiamo spiegare. – « Ogni potere mi è dato in cielo ed in terra ». È Gesù che parla. Vi prego di ponderare questa sentenza semplicissima e chiarissima e pronunciata con una sicurezza, che ci deve riempire di stupore. Chi la pronuncia è un uomo, pochi giorni prima confìtto alla croce come un malfattore e mortovi sopra tra due ladroni, oggetto di pietà profonda per alcuni pochi, di abbominio per la nazione intera. È vero: Egli è uscito dal sepolcro poc’anzi con un miracolo, che non ha, ne avrà mai l’eguale. Ma contemplatelo bene: in Lui non vedete che un uomo: un uomo che non ha un solo soldato, che non cinge corona, né la vuole: che non ha un palmo di terra dove posare il capo. Eppure quest’uomo osa dire con una asseveranza, che non ammette dubbio: « Ogni potere mi è dato in cielo ed in terra ». O quest’uomo è pazzo, o questo uomo è Dio: non c’è via di mezzo, giacché sulla terra non vi ebbe mai un solo uomo anche nella ebbrezza d’una potenza sconfinata, nel delirio dell’orgoglio, a cui bastasse l’animo di dire: « Io ho ogni potere in cielo ed in terra ». Qualcuno potè dire: – Io posso tutto sulla terra: chi potrà sottrarsi al mio braccio? – ma aggiungere: – Io ho ogni potere in cielo -, questo non si udì mai. Ora chi potrà dire: Cristo è pazzo? La sua vita, la sua dottrina lo mostrano il sapientissimo degli uomini e per tale lo salutano e riconoscono gli apostoli stessi del libero pensiero; e se non foss’altro la sua creazione, che dopo quasi 2000 anni ci sta sotto gli occhi e ogni dì grandeggia, la Chiesa, ci prova che pari alla sapienza è la sua potenza. Dunque in questa frase d’una audacia inaudita, e che la storia ha suggellato con i fatti, Gesù Cristo si mostra Dio. « Ogni potere mi è dato in cielo e in terra ». Qual potere? Nelle parole di Cristo non si esclude potere alcuno e dove Cristo tutto afferma chi vorrebbe anche solo sospettare una eccezione? A Lui dunque spetta qualunque potere nell’ordine della natura e della grazia, il potere sacerdotale e regale, il potere di ammaestrare e di reggere, il potere di giudicare, di premiare e punire, sempre, dovunque, in cielo ed in terra: « Omnis,omnis potestas data est mihi in cœlo et in terra ». E ponete mente a questa parola: « Mihi » a me! A me solo, quale mi vedete qui, né può avervi parte alcuna qualsiasi uomo, o creatura celeste, a cui Io non la comunichi in quella misura che mi piace. – Ma come, o divin Salvatore? Voi dite che avete ogni potere senza limiti di tempo e di spazio e che questo potere vi è dato? Ma se siete Dio, e noi lo crediamo fermamente, come potete ricevere questo potere da altri? E chi ve lo può dare? Gesù Cristo è Dio e insieme è uomo. Come Dio da chi riceve Egli con la generazione la natura ed ogni cosa? Da Dio Padre. In quanto uomo da chi riceve Egli, come da principio attivo, la natura umana e tutto ciò che con essa è congiunto? Tutto riceve da Dio Padre, da Dio Figlio, da Dio Spirito Santo, unico Dio, Creatore, Conservatore e Santificatore, da Dio-Trinità, che fuori di sé opera con un solo e semplicissimo atto. A ragione adunque Gesù Cristo poteva dire, e come Dio e come uomo, che ogni potere in cielo ed in terra gli era dato e a Lui veniva da Dio. Nondimeno è da credere che Gesù Cristo ciò affermasse di sé specialmente in quanto uomo, perché in quanto uomo colla sua passione e con la sua morte redense l’umana natura e qui parla del potere, che conferisce agli Apostoli e ai loro successori di ammaestrare e governare la Chiesa, che è il suo regno, il suo corpo, la sua sposa secondo il linguaggio dei Libri Santi. Proseguiamo il commento. Io tengo ogni potere in cielo e in terra, dice Cristo: Io lo posso comunicare a chi voglio e in quella forma che voglio: ora lo comunico a voi, miei Apostoli, e a quelli che continueranno l’opera vostra; dacché questo e non altro importa la parola di Cristo, che segue: «Dunque andate, ammaestrate tutte le genti ». Poiché (così e non altrimenti suona il linguaggio di Cristo) poiché ora siete investiti del mio potere istesso, andate ed esercitatelo come Io l’ho esercitato. E qui è prezzo dell’opera fermare la nostra attenzione sopra una verità gravissima e non mai abbastanza inculcata. Il potere stesso di Cristo passa e si travasa da Lui negli Apostoli, ossia nei reggitori della Chiesa. Si muta il soggetto, ma non il potere [Non fa d’uopo avvertire che il potere di Cristo non ha limite, perché è Dio-Uomo e gli è proprio: il potere degli Apostoli e di Pietro, ha quei limiti che a Cristo è piaciuto porre: essi non sono che suoi Vicari e debbono esercitare il potere ricevuto secondo le norme stabilite da Cristo stesso, come è chiaro per la natura stessa delle cose]; si mutano le mani, che ricevono il tesoro, ma non il tesoro istesso: è sempre la stessa acqua quella che sgorga dalla fonte e quella che scorre nel letto del fiume, fosse pure a mille miglia dalla fonte. Per noi ascoltare e ubbidire l’Episcopato presente e Gregorio XVIII è ascoltare e ubbidire agli Apostoli ed a Pietro, ai quali Cristo disse: « Andate e ammaestrate ». Noi, illuminati dalla fede, nei Vescovi e nei successori di Pietro, quali che siano le loro doti e i loro difetti, non vediamo che gli Apostoli e Pietro, dirò meglio, non vediamo che Cristo, che ammaestra e regge la sua Chiesa e attraverso ai secoli continua l’opera sua riparatrice. Due cose Gesù Cristo impone agli Apostoli nelle parole che seguono: « Andate e ammaestrate – Euntes docete». Scopo immediato della venuta di Cristo sulla terra fu la fondazione della Chiesa e per essa la salvezza di tutti gli uomini. Questa Chiesa doveva essere universale secondo la condizione dei tempi e perciò gli Apostoli, destinati a fondare la Chiesa, dovevano spargersi dovunque per far udire dovunque la parola del Maestro: ecco perché dice loro: « Andate e ammaestrate tutte le genti ». Io, così Cristo, ho posto nelle vostre mani il seme della verità: spargetelo sulla terra: ho accesa la face del Vangelo: voi portatela dovunque e illuminate tutto il mondo: Io non vi mando a questa o a quella provincia: a questo o quel regno: a questo o quel continente: io vi mando per tutto il mondo, a tutte indistintamente le nazioni. Docete omnesgentes. Tutti gli uomini sono creature di Dio: Dio di tutti gli uomini è Padre e Maestro: dunque a tutti annunziate la verità e la salute, a tutti comunicate i suoi doni senza distinzione – Doceteomnes gentes-. Dio, che vi manda, è Creatore di tutti gli uomini e di tutti vuol essere Salvatore -. E qui non è da lasciare un’altra osservazione della più alta importanza. Uditela e ponderatela. Il popolo ebraico in fatto specialmente di religione era d’uno spirito esclusivo senza esempio. Esso rinchiudevasi in sé medesimo e respingeva fieramente tutto ciò che veniva dagli stranieri e considerava come un sacrilegio comunicare ad essi le sue cose sacre, fuorché nel caso che abbracciassero la sua religione, ed anche allora quali difficoltà! Quante precauzioni – La legge mosaica l’aveva informato a questo spirito per isolarlo dagli altri popoli e così impedire il suo pervertimento. Questo rigidissimo esclusivismo religioso era penetrato nelle fibre del popolo, era la sua forza, la sua vita e dopo tanti secoli è quello che lo conserva separato benché disperso. Dio era Dio degli Ebrei: le promesse di Dio ai soli Ebrei: essi il popolo eletto: dagli Ebrei il Messia, che avrebbe soggiogato l’universo per metterlo a loro piedi. Da qui l’odio feroce, il furore degli Ebrei contro S. Paolo, che francamente predica la salute annunziata agli Ebrei dover essere comune a tutte le genti. È questo un fatto storico, che non ha bisogno d’essere dimostrato. – Ebbene: Gesù Cristo è nato in mezzo a questo popolo; è cresciuto ed educato nell’ultimo angolo della terra d’Israele, dove era ancora più tenace che altrove questo spirito di isolamento e di egoismo religioso nazionale: Gesù Cristo non era mai uscito dagli angusti confini di Israele anche per non offendere questo sentimento estremamente geloso de’ suoi connazionali. Eppure, eccolo comandare ai suoi discepoli, tutti profondamente imbevuti dello spirito giudaico, di annunziare a tutti i popoli le promesse di Abramo e di Giacobbe, le promesse fatte a Davide e ai Profeti. Gesù Cristo con questo comando formale « Andate, ammaestrate tutte le genti » atterra il muro di bronzo, che separa Israele da tutti gli altri popoli, sfata il pregiudizio comune e antichissimo, che della verità e della vita divina faceva il patrimonio d’una piccola nazione e inizia un’era novella, che nessun uomo mai aveva neppure immaginato. Perché dovete sapere che se l’egoismo religioso nazionale aveva radici sì profonde in Israele, ch’era quasi impossibile divellere, un altro egoismo non meno tenace appariva nei popoli gentili stessi più colti: Le più alte intelligenze, il fiore dei filosofi di Grecia e di Roma (basta ricordare Marco Tullio), erano persuasi, essere stoltezza credere di poter ridurre tutti gli uomini a professare le stesse dottrine e la scienza del retto vivere, il conoscimento delle verità più elevate essere riservato alle menti superiori, spettare alla sola aristocrazia dei maggiori ingegni. E non è difficile comprendere come questo errore dovesse naturalmente entrare e radicarsi nelle menti stesse dei più dotti tra gentili. Il perché se gli Ebrei nel loro orgoglio nazionale delle verità divine fecero un monopolio a proprio vantaggio, i gentili lo facevano a profitto d’un numero ancor più scarso di uomini, la classe privilegiata dei dotti e dei filosofi. E Gesù Cristo, questo povero operaio di Nazaret, quest’umile Maestro di umili pescatori, questo crocifisso risorto, sopra un colle di Galilea, ad undici uomini, rozzi, ignari del mondo, impigliati ancora in tutti i pregiudizi giudaici, senza protezioni, sforniti d’ogni scienza umana, che vivono di pesca e di elemosina, senza mostrare la più lieve esitanza, dice: « Andate, ammaestrate tutte le genti! ». Egli, il primo e l’unico, che sulla terra abbia concepito il disegno di raccogliere tutti i popoli in una sola religione, di imporre loro le stesse identiche dottrine dogmatiche e morali, sotto il governo d’un solo capo, e di imporre tutto questo, non con la forza, ma con la sola persuasione, usando della sola parola di uomini i più inetti, che fosse possibile immaginare. L’assurda impresa, lo stoltissimo disegno in gran parte è compiuto e va compiendosi sotto i nostri occhi. Permettete che ora vi domandi: Considerato attentamente e senza pregiudizi tutto questo, che dobbiamo dire di quest’uomo? È egli un pazzo? I pazzi non sanno concepire e attuare senza mezzi il più audace e il più impossibile disegno che sia caduto in mente umana: i pazzi non possono insegnare la più santa e la più sublime dottrina teorica e pratica che siasi udita sulla terra: i pazzi non possono offrire al mondo lo spettacolo della virtù più perfetta possibile, quale veneriamo in Gesù Cristo. Dunque chi è desso Gesù Cristo, che con quelle quattro parole « Andate e ammaestrate tutte le genti » rovescia tutti i pregiudizi giudaici e gentili e fonda la Chiesa universale e signoreggia il tempo e lo spazio e prosegue oggi ancora l’opera immane cominciata duemila anni or sono? Chi è desso? S’Egli non è un pazzo fortunato, non è un uomo. Chi è dunque? Lo dissero gli Apostoli, che vissero con Lui e lo conobbero: – il Figlio di Dio, il Verbo fatto uomo -. Lo disse Egli stesso: « Io e il Padre siamo una cosa sola. Io sono uscito dal Padre, son venuto sulla terra e ritorno al Padre ». Adoriamolo. Ma è da ritornare al testo evangelico, che stiamo chiosando. Allorché un uomo qualunque dà il suo nome ad una società, accetta un ufficio, riceve una dignità, fa parte d’un corpo sociale, accorre sotto le bandiere d’un esercito, ha bisogno d’un segno esterno, che mostri a lui e agli altri tutti il nuovo stato per esso abbracciato, i nuovi doveri assunti e i nuovi diritti od onori acquistati. È ciò che si è sempre fatto e si fa e si farà costantemente, perché l’uomo non può far conoscere i suoi pensieri e i suoi voleri e conoscere gli altrui che per mezzo dei sensi e per conseguenza per mezzo della parola e dei segni. Con parole e segni adunque si dovevano conoscere e distinguere tutti quegli uomini che avrebbero dato il loro nome a Cristo, che sarebbero entrati nel suo esercito, che sarebbero diventati cittadini del suo regno. A chi spettava determinare queste parole, questa formola sacra, questo segno, al quale riconoscere i suoi discepoli, i membri della novella Società? Non v’è dubbio alcuno: il diritto di determinare questo segno e questa formola sacra non poteva spettare ad altri fuorché al Capo e al Fondatore della Società stessa, Gesù Cristo. E l’una e l’altra cosa Egli determinò e prescrisse con una chiarezza e precisione, che mai la maggiore. Udite: « Andate e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. [Dire battezzare e lavare è la stessa cosa: ora lavare necessariamente richiama l’idea dell’acqua, che è l’elemento necessario del Battesimo, onde la parola Battesimo indica per se stessa la materia del Sacramento, come la parola ungere indica l’olio]. Ecco, o carissimi, il segno, ecco le parole, con le quali l’uomo è accolto nel regno di Cristo; ecco quel Sacramento, che è la porta della Chiesa e che si compie nel nome augusto di quella Trinità, che oggi adoriamo. – L’acqua tra le terrene cose è la più comune e copre ben due terzi della superficie mondiale. Essa stilla dagli eterni ghiacciai, che Coronano tutte le più superbe vette dei monti; zampilla perenne dai loro fianchi, scorre pei ruscelli, per i torrenti, per i fiumi, si raccoglie negli ampi bacini dei laghi, si raduna e si agita nella immensità degli oceani, penetra nelle viscere della terra, dilatata in nubi passa sui nostri capi e riempie gli sterminati campi dell’atmosfera e irriga e feconda i colli e le pianure e porta dovunque la vita agli alberi e agli animali tutti. Fate che nel deserto o sulle rocce scorra un filo d’acqua e voi vedete sopra di esse verdeggiare l’erba, crescere i fiori e gli alberi e gli uccelli e gli animali accorrervi per dissetarsi. E Gesù Cristo volle che quest’acqua sì comune, sì facile ad aversi, fosse il segno materiale dei suoi seguaci, lo strumento per comunicare loro la vita divina nel Sacramento più necessario. L’acqua! Essa deterge i corpi, li monda, li fa belli e non avendo colore alcuno tutti li cancella e tutti li suscita, scrive S. Cirillo di Gerusalemme, perché spandendosi sui campi e sui prati, li copre di fiori variopinti. Ciò che l’acqua fa nei corpi, mondandoli d’ogni macchia, e sulla terra coprendola di verzura e di fiori, per virtù divina fa nelle anime, nettandole dalla macchia originale e deponendovi i germi della fede, della speranza e della carità, d’onde più tardi germoglieranno tutte le virtù. Ecco perché Gesù Cristo nell’immenso campo della materia diede la preferenza all’acqua, e con essa e per essa volle rigenerare gli uomini e ad essi dischiudere le porte della Chiesa e quelle del cielo. Se non che la materia per se stessa è muta e come è indifferente a ricevere qualunque forma, così è indifferente a significare qualunque cosa: spetta all’uomo determinarne il significato e il valore e ciò esso suol fare con la parola. Perciò, additandovi un agnello, vi dice: Ecco Gesù Cristo; additandovi una colomba, vi dice: Ecco lo Spirito Santo; additandovi una bilancia, vi dice: Ecco la giustizia. La parola circoscrive e determina il senso delle cose e ciò fece Gesù Cristo. Voi, così Egli, laverete l’uomo e per esprimere come quella lavanda produce nell’anima sua, aggiungerete queste parole: « Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito ». Quell’acqua congiunta con le parole sante, quasi corpo congiunto all’anima, cancellerà il peccato, rimetterà ogni pena per esso dovuta, infonderà la grazia santificatrice e stamperà nello spirito un carattere, un segno indistruttibile, attestante il pieno dominio di Lui. E poiché questo rito sì semplice e sì augusto è a tutti necessario, come è necessaria la vita della grazia, a tutti è dato di amministrarlo. Tanta è la bontà e la larghezza del divino Istitutore! Ed ora, o dilettissimi, studiamoci di penetrare il senso profondissimo di questa formula caduta dalle labbra di Gesù Cristo: « Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo ». – E primieramente giova comprendere la forza di quella parola: Nel nome. Presso gli antichi come presso i moderni, nell’uso sacro come profano, dire: – Nel nome – è dire nel potere, nella autorità, nel diritto di chi si nomina poi: su ciò non è mestieri insistere. Ora dopo la parola:- Nel nome – nel testo sacro vengono nominate distintamente le tre divine Persone. Ponete che quelle tre Persone non fossero eguali, ma diverse per potere e per natura; poteva Egli Gesù Cristo collocarle sulla stessa linea e pareggiarle, dicendo:- Nel nome – cioè nella autorità o nella potestà? Come attribuire a tutte e a ciascuna la stessa dignità, la stessa potenza e quindi la stessa natura? Quando mai un Monarca intima una legge a’ suoi sudditi, dicendo: – Nel nome nostro e del nostro ministro? – Come poteva Gesù agguagliare a Dio altre Persone, che se non sono Dio, sono necessariamente creature e perciò per infinito intervallo a Dio inferiori? Come confondere insieme Dio e le creature, il Padrone d’ogni cosa e i suoi servi? Sarebbe stata una empietà enorme anche per un’altra ragione. Per il rito sacro del Battesimo l’uomo è consacrato a Dio, diviene suo figlio per adozione, ne riceve in sé l’immagine ed il carattere. E volete voi che l’uomo si consacri a creature e creature sarebbero almeno la seconda e la terza Persona nominate quando non fossero Dio? E non sarebbe empietà consacrarsi egualmente a Dio e alle creature, pareggiando queste a quello? Dunque quelle tre Persone, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, poste nello stesso ordine, con la stessa autorità o podestà in forza della parola: – Nel Nome – e non nei nomi, sono eguali: se eguali nella autorità e podestà, debbono essere eguali nella natura o nella essenza, perché autorità e podestà, natura ed essenza sono inseparabili. È questa l’argomentazione comune dei Padri affermanti la Santa Trinità contro l’eresia Ariana. [La parola Trinità, se bene mi ricordo, fu introdotta per la prima volta da Tertulliano, quasi ter unitas vel trium unitas, tre volte unità od unità dei tre. Essa esprime sì felicemente il dogma, che la Chiesa la fece sua e ne consacrò l’uso.]. Il dogma della Santa Trinità consta di due termini distintissimi, l’unità della essenza o natura. e la Trinità delle Persone: nella parola: Nome – abbiamo visto il primo termine: nelle voci distinte di Padre, Piglio e Spirito Santo, brilla chiaramente la Trinità delle Persone. E come dubitarne? Ogni parola racchiude in sé il proprio significato, che non può essere quello di un’altra parola se non vogliamo ingannare o giuocare. Ora la parola Padre che significa essa? Certamente significa una persona, che dà principio per via di generazione ad un’altra e che necessariamente non può essere quella che è generata, se non vogliamo dire che generante e generato sono una sola persona. E la parola Figlio che significa essa? Certamente significa una persona, che riceve la vita e tutto l’essere suo per via di generazione dal padre e che per conseguenza necessaria non è il Padre stesso, ma un’altra persona da esso distinta. Chi mai potrebbe confondere in una sola Persona il padre e il figlio? Che significa essa la parola Spirito Santo? Certamente significa alcun che di emanante dalla natura stessa di Colui che lo spira od alita verso un altro, che lo riceve e che perciò è distinto dall’uno e dall’altro e poiché in Dio trattasi di un soffio, od alito o spirito infinito, debb’esser’Egli pure infinito e perciò Persona, tanto più che posto in ordine perfetto ed eguale dopo le Persone del Padre e del Figlio, non può essere che Persona. In questi tre nomi pertanto di Padre, di Figlio e di Spirito Santo non possiamo riconoscere tre attributi o tre perfezioni divine ma sì tre divine Persone, aventi la stessa natura e perfettamente eguali, ma distinte per le proprietà singolari di ciascuna, che non permettono di confonderle tra loro. – Ma forse a taluno di voi si affacceranno alcune difficoltà, che derivano naturalmente dalle voci di Padre, di Piglio e di Spirito Santo usate dal Vangelo, che per se stesse sembrano stabilire una disuguaglianza tra le Persone e quindi sembrano rovesciare il dogma cattolico. Il Padre deve precedere il Figlio e il Padre e il Figlio devono precedere lo Spirito Santo e per ragione della precedenza di origine debbono avere eziandio una precedenza di dignità e di potere. Non è egli così? No, dilettissimi: seguitemi e ve ne persuaderete facilmente. Noi non possiamo né ragionare, né parlare di Dio, della sua essenza, delle Persone divine, dei loro rapporti e delle loro perfezioni se non movendo da noi stessi e dalle cose tutte finite, che ci circondano: da ciò conseguita che qualunque nostro concetto, qualunque nostra idea e parola non possono mai adeguare ciò che pensiamo e diciamo di Dio: tutte le nostre idee e le nostre parole sono e saranno sempre imperfettissime e al tutto inette ad esprimere la verità. Che fare? Non pensare, non parlare mai di Dio e delle cose divine? Tanto varrebbe negare Dio stesso e fare alla ragione e al sentimento umano il massimo degli oltraggi. Pensiamo e parliamo di Dio e delle cose sue meglio che possiamo, correggendo secondo le forze nostre l’imperfezione dei nostri concetti e la povertà del nostro linguaggio. Dalla parola e dall’idea del padre comune e terreno, che conosciamo, assorgiamo alla parola e all’idea del Padre divino, che genera il Figliuol suo unigenito e rimuoviamone tutte quelle imperfezioni, che alla maestà e perfezione infinita di Dio ripugnano. L’uomo è un composto di anima e di corpo e nessuno dei suoi atti è sciolto perfettamente dall’impaccio corporeo: allorché dunque diciamo che in Dio vi è una Persona, che si chiama ed è vero Padre, via ogni immagine o concetto corporeo, perché in Dio non v’ha ombra o mistura qualsiasi di corpo. Per noi sulla terra, soggetti alla legge inesorabile del tempo, il padre esiste necessariamente prima del figlio: via questa precedenza di tempo in Dio, in cui tutto è eterno: il Padre fu sempre Padre e perciò ebbe sempre il Figlio, da Lui generato, ma eternamente generato. Vedeste mai il sole senza la luce, che è sua figlia, sua emanazione? No per fermo: così il Padre per ragione della origine è prima del Figlio, non mai in ordine di tempo, che non esiste: eterno il Padre, eterno il Figlio, cantiamo nel simbolo atanasiano. – Per noi uomini sulla terra la persona del padre è separata dalla persona del figlio: hanno la stessa natura, ma diversamente posseduta: in Dio via questa separazione delle Persone del Padre e del Figlio, perché la loro natura essendo unica e indivisibile e sovranamente spirituale, non può scindersi: essa è tutta ed identica nel Padre e tutta ed identica egualmente nel Figlio, come, o uomo, la tua anima è tutta nella tua mente, nella tua memoria e nella tua volontà. – L’uomo può essere padre di molti figli: via questa idea da Dio Padre, che ha un solo Figlio e non può averne altri. L’uomo, limitato nel tempo e nello spazio e nella natura, svolge gradatamente e con atti successivi e perciò molteplici la sua forza generatrice: Dio Padre, infinito nella sua essenza ed eterno, con un solo, eterno e semplicissimo atto esaurisce la infinita sua fecondità e perciò non può generare che un solo Figlio. L’uomo è libero d’essere e di non essere padre: la sua paternità dipende dalla sua libera volontà: via questo concetto da Dio Padre, che genera il Figliuol suo per natura e perciò necessariamente, ancorché poi lo voglia e vi trovi tutte le infinite compiacenze. – Rimosse tutte queste imperfezioni dalla divina paternità, voi vedete che Dio Padre è vero Padre e più Padre che non lo siano i padri terreni. Sì, il Padre è più Padre che non lo siano i padri terreni; è il Padre de’ padri, il Padre per eccellenza, dal quale, come da fonte prima e da archetipo sovrano, deriva ogni paternità. Egli è Padre per sola sua virtù e per attuare l’infinita sua fecondità non chiede l’aiuto di qualsiasi altro essere, né con altri divide la gloria della sua paternità, come avviene in tutte le creature che sole non possono generare. Egli è Padre da solo, vero e perfettissimo Padre, Padre senza esser figlio, sempre Padre, non altro che Padre, eternamente Padre. O mistero, nel quale chi ficca gli occhi della mente, si perde in un mare di luce! – Lo stesso si dica dello Spirito Santo, la terza Persona della augusta Trinità. Essa è una emanazione semplicissima, sempiterna dal Padre nel Figlio e dal Figlio nel Padre, un alito amoroso dell’uno nell’altro, che non divide l’uno dall’altro, che non cessa mai e nell’unica essenza compie e consuma l’ineffabile loro amplesso. Ma come ciò avvenga e come l’una Persona dall’altra si distingua, una e medesima rimanendo la natura, come in Dio non possono essere che tre Persone e come la mente umana, non può comprendere ma può concepire questo sommo dei misteri e trovarvi tanta luce da vederlo non pure ripugnante, ma conforme alla stessa ragione, lo vedremo nei due Ragionamenti che seguono. Ed ora ritorniamo al nostro commento, giacché ci rimangono ancora da spiegare due magnifiche sentenze. « Voi, diceva Cristo agli Apostoli, colla vostra predicazione e col Battesimo nel nome della Santa Trinità formerete i miei discepoli: ma perché giungano a salvezza basterà egli credere ed essere battezzati? No: la fede e il Battesimo sono necessari, sono il fondamento della giustizia: ma su questo fondamento bisogna innalzare l’edificio delle opere conformi alla fede e perciò Gesù Cristo continua e dice: Voi loro insegnerete ancora che bisogna osservare tutto ciò ch’Io vi ho prescritto ». Intendeste, dilettissimi? La fede e il Battesimo sono il seme della vita eterna; l’osservanza dei precetti, le opere sono i frutti e senza i frutti l’albero è tagliato e gettato ad ardere nel fuoco eterno. Pur troppo certi Cristiani dicono: – Noi siamo Cristiani: abbiamo la fede: la teniamo salda come il più prezioso dei tesori -. Ottimamente! Ma e l’opere della fede dove sono? Dove l’osservanza della legge? Chi non ama Dio non si salva, e non ama Dio chi non adempie la sua legge, lo disse Gesù Cristo medesimo. Non ingannatevi: la sola fede non salva, anzi, scompagnata dalle opere, essa è la vostra condanna. Gesù Cristo chiude il suo discorso con una sentenza, che è il suggello di tutte le altre, che è come il suo testamento, che è il sostegno e il conforto della Chiesa in tutte le sue prove. Eccola: « Ed ecco ch’Io sono con voi fino al termine del secolo » . O promessa consolante! O supremo conforto della Chiesa e di ogni anima cristiana! – Voi andrete, ecco il senso delle parole di Cristo, voi andrete per tutto il mondo: voi predicherete, voi battezzerete, voi continuerete l’opera mia ed altri dopo di voi la continueranno. L’opera, vel dissi, è grande, ardua, affatto superiore alle vostre forze: ma non temete: con voi quando predicherete, quando battezzerete. quando adempirete il vostro ufficio in mezzo alle più terribili lotte, Io, vostro Maestro, vostra guida, Io, Dio-Uomo, Signore d’ogni cosa, sarò con voi. Fin quando? Fino all’ultimo giorno, fino al termine dei tempi. E dove sono Io, vincitore della morte e dell’inferno, ivi è la vittoria -. E come Gesù Cristo sarà Egli sempre con la sua Chiesa? Nella Santa Eucaristia, in cui vive realmente e sostanzialmente presente, qual cibo delle anime, qual vittima espiatrice? Sì: Egli resterà sempre nella sua Chiesa per il Sacramento eucaristico, centro della sua vita. Ma rimarrà solo nella Santa Eucaristia? No: Egli per la sua grazia rimarrà nelle anime giuste, che crederanno in Lui, che spereranno in Lui, che lo ameranno. E non basta. Egli rimarrà sempre nella sua Chiesa, come uno sposo vive con la sua sposa: Egli la reggerà, la difenderà, la illustrerà col lume indefettibile della verità: Egli non permetterà giammai ch’Essa nel suo insegnamento esca dalla dritta via e si faccia banditrice dell’errore. Un giorno Gesù Cristo disse agli Apostoli: « Chi ascolta voi ascolta me ». È questa la sentenza che in altri termini ripete loro prima di lasciare la terra, allorché dice loro: « Ecco Io sono con voi fino al termine del secolo ». Carissimi! Vogliamo essere con Gesù Cristo per i secoli eterni? Siamo con la sua Chiesa nel tempo, con la Chiesa che ammaestra, che governa, che dispensa i Sacramenti e saremo con Gesù per tutta la eternità!
Tob XII: 6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
[Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]
Secreta
Sanctífica, quæsumus, Dómine,
Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et
per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum.
[Santífica, Te ne preghiamo, o Signore
Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e
per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]
Praefatio de sanctissima Trinitate
… Vere dignum et justum est,
æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte,
Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto
unus es Deus, unus es Dóminus: non in unius singularitáte persónæ, sed in uníus
Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de
Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in
confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in
esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque
Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre cotídie, una
voce dicéntes:
[ …veramente degno e giusto, conveniente
e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore
Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo
Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una
sola Persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua
rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione,
e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e
sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità
nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli
Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare,
dicendo ad una voce: ]…
Sanctus
Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Tob XII: 6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
[Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]
Postcommunio
Orémus.
Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.
[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]
(Messale Romano di
S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G.
LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
IL MISTERO DELLA
REDENZIONE
4) Tempo
di Settuagesima (Settuag. – Ceneri).
5) Tempo di Quaresima (Cen. – Domenica di
Passione),
6) Tempo
di Passione (Dom. di Passione – Pasqua).
7) Tempo Pasquale (Pasqua – SS. Trinità).
8) Tempo dopo Pentecoste (Trinità – Avvento).
VIII. – TEMPO DOPO LA PENTECOSTE.
I . — Commento dogmatico.
Dopo il regno del Padre sul
popolo di Dio, che comprende il Tempo dell’Avvento, dopo quello del Figlio che
va dalla sua nascita (Natale) alla sua Ascensione e comprende il Tempo di
Natale e il Tempo Pasquale, la liturgia celebra il regno dello Spirito
Santo, che si estende su tutta la Chiesa e va dalla Pentecoste fino alla fine
del mondo, di cui sì parla nella ventiquattresima e ultima Domenica dopo
Pentecoste. Come il Padre si servì del popolo Ebreo per preparare la
redenzione del mondo, come il Verbo prese le nostra natura umana e se he
servì per la nostra redenzione, così le Spirito Santo viene ad
effettuare la redenzione nella Chiesa. Il Sacerdozio, la Messa, i Sacramenti sono
i canali attraverso i quali ci viene data la dottrina del Salvatore e ci
vengono applicati i suoi meriti. — Il Papa domina la gerarchia ecclesiastica,
l’Eucarestia domina i Sacramenti. Il regno dello Spirito Santo si manifesta dunque
visibilmente attraverso la Chiesa romana, al centro della quale sfolgora il SS.
Sacramento. – Lo Spirito è l’anima che vivifica questa Chiesa (
«Lo Spirito Santo fa in tutta la Chiesa quello che l’anima fa in tutte le
membra del corpo» – S. AGOSTINO), il Cristo nascosto nell’Ostia ne è il cuore
dal quale il sangue della grazia scorre per tutto il corpo, ossia in tutti
i Cristiani. «Noi formiamo un solo Corpo », dice S. Paolo, « perché siamo stati
battezzati in un solo Spirito (1 Cor. XII, 13), e noi partecipiamo tutti ad un medesimo
pane. (Ibid., X, 17 « L’unità del corpo mistico è prodotta dal vero
Corpo sacramentalmente ricevuto » – S. TOMMASO). E noisiamo un solo
corpo anche perché siamo stati fatti da « Cristorisuscitato » agnelli o
pecore di un solo ed unico Pastore, capo visibile della Chiesa (S. Giov., XXI, 16-17). L’azione
dello Spirito Santo e l’azione di Gesù nel SS. Sacramento si fondono in modo
che i Libri santi affermano ugualmente che noi « siamo stati santificati nello
Spirito Santo » (1 Cor. VI, 11), ovvero «nel Cristo» (Ibid.), e che come lo
Spirito Santo è « spirito di vita », così Gesù è « pane di vita ». E l’azione
di queste due Persone della SS. Trinità viene esercitata mediante la Chiesa, «
come mio Padre ha inviato me, così io mando voi », dice Cristo agliApostoli
( S. Giov., XX, 21) , e la liturgia della Pentecoste dice che « lo Spirito
Santo è apparso ai discepoli sotto la forma di lingue di fuoco e che li ha mandati
in tutto il mondo » (Antifona del Magnificat dei Vespri della Pentecoste).
Proprio al Cenacolo, nel momento nel quale istituiva l’Eucarestia e il Sacerdozio
Gesù annunziò la venuta dello Spirito Santo. Una colomba d’oro o
d’argento, che nel passato veniva sospesa al di sopra dell’Altare per
conservarvi l’Ostia consacrata, serviva a simboleggiare questa profonda unità
d’azione dello Spirito Santo, del SS. Sacramento e della S. Chiesa, Diretta
dallo Spirito Santo, la Chiesa completa ciò che manca allavita
Sacramentale di Cristo: infatti Gesù è nascosto e silenzioso sotto le specie
eucaristiche e la gerarchia ecclesiastica gli presta la sua voce e la sua
attività esteriore. Il Papa, i Vescovi, i Sacerdoti parlano in suo nome, e
mediante il loro ministero Egli si offre nella Messa, ove continua a esercitare
il suo sacerdozio, perché Cristo è il vero Sacerdote e gli altri non
sono che i suoi ausiliari, tanto per il
Santo Sacrificio, quanto per i Sacramenti, cosicché Cristoe la Chiesa
diffondono insieme lo Spirito Santo nelle anime renderle figli di Dio ( « Voi
avete ricevuto lo Spirito di azione di figli di Dio nel quale, voi invocate
Abba, Padre – Romani, VIII, 15), lo Spirito Santo a sua volta « insegna
ogni cosa alla Chiesa » (S. Giov. XIV, 26) e la guida nella sua missione
continuatrice dell’opera di Gesù. – Da tutto ciò ne consegue che il regno dello
Spirito Santo e della Chiesa, che è cominciato alla Pentecoste, non è altro che
una manifestazione del regno di Cristo, al quale Egli dà una universalità di
tempo e di luogo che non aveva in Palestina. Infatti, non è più il Salvatore
che lavora solo in una località della terra in un periodo di tempo determinato,
ma è la Chiesa che, unita dalla virtù dello Spirito Santo al SS. Sacramento («
Per a virtù di questo Sacramento si opera una certa trasformazione dell’uomo
nel Cristo » – S. TOMMASO), unisce su tutti gli altari il suo sacrificio a
quello del Golgota e partecipa a tutti i misteri della vita terrestre del Salvatore.
Ciò che il Cristo sul Calvario ci ha meritato, ci viene applicato specialmente
nel Mistero Eucaristico. Questo punto è capitale nel concetto che dobbiamo avere
dell’Eucarestia. Questa costituisce con la Chiesa, animata dallo Spirito Santo,
un meraviglioso prolungamento dell’Incarnazione, un Cristo accresciuto di tutte
le anime nostre (Agli Efesini, IV,
12-13). Mediante il ciclo liturgico Cristo rivive, per così dire,
ogni anno sull’Altare — nuova Palestina — tutta la sua vita nell’ordine col quale
essa si svolse: siamo noi, che adesso, in unione con Gesù realizziamo per parte
nostra i suoi misteri ed è per queste che il Tempo dopo Pentecoste è più
specialmente consacrato al Ciclo dei Santi o alla vita della Chiesa. .Facendoci
gettare uno sguardo retrospettivo sulla vita del Salvatore, che nel Ciclo
liturgico termina con la Pentecoste, lo Spirito Santo ci ripete, per bocca
degli Evangelisti e degli Apostoli, da Lui ispirati, tutti gli insegnamenti del
Maestro, mettendoli più in luce ancora (Si leggono come Epistola a partire
dalla prima domenica dopo Pentecoste 2 volte le lettere di S. Giovanni, 2 di S.
Pietro, 4 di S. Paolo ai Romani, 5 ai Corinti, 3 ai Galati, 5 agli Efesini, 2
ai Filippesi e 1 ai Colossesi in modo che si percorrono tutti gli scritti degli
Apostoli. — La Chiesa greca, in corrispondenza, durante questo periodo fa
leggere come Vangelo quello di S. Matteo, di S. Marco, e di S. Luca. La
Chiesa romana ha scelto quelli che simboleggiano più specialmente il regno dei
cieli e la sua giustizia.). Le Epistole ed i Vangeli di questo tempo ci parlano
dei frutti di Santità che lo Spirito Santo produce nelle anime e noi
assistiamo, in tutto queste periodo dell’anno liturgico, alla magnifica
fioritura di Santi che non cessano, attraverso tutti i secoli e in tutti i
paesi, di riprodurre Cristo, Sole divino, radioso al suo sorgere nel giorno di
Natale, maestoso nel suo tramontare, il Venerdì Santo, Gesù ha compiuto la sua
corsa da gigante. Durante la lunga notte che precede la sua venuta e durante
quella che la segue, è Maria la luna mistica, e sono i Santi, stelle dai mille
riflessi differenti che brillano nel cielo della Chiesa e ci vengono proposti
ad esempi. La nostra anima, quindi, dopo aver copiato Gesù Cristo medesimo, può
copiarlo anche nelle sue membra, che sono tutte compenetrate della vita del
loro Capo. – Come durante il Tempo d’Avvento si celebra la gran festa dell’Immacolata
Concezione, cosi nel Tempo dopo Pentecoste si celebra quella dell’Assunzione (Durante
il Tempo dell’Avvento, Maria appare come la Regina dei Patriarchi e dei
Profeti, durante il Tempo dopo Pentecoste, come la Regina degli Apostoli e di
tutti i Santi). In questo periodo dell’anno hanno la loro festa gli Angeli, S.
Giovanni Battista, gli Apostoli Pietro e Paolo, e tutta la schiera de’ Santi
che si venerano durante questi sei mesi e il primo Novembre; inoltre ricorre
anche la Commemorazione dei Defunti e tutte le feste delle Consacrazioni delle Chiese.
— La solennità del Corpus Domini, che segue la Pentecoste e quella di S.
Pietro, che le tiene dietro, ci ricordano che lo Spirito Santo, il SS.
Sacramento e la Chiesa santificano le anime; le feste della SS. Trinità, del
Sacro Cuore e del SS. Rosario, che corrispondono tutte e tre al medesimo
bisogno di sintesi, ci mostrano che questa santificazione viene compiuta per
mezzo della dottrina del Salvatore e per l’applicazione dei suoi meriti. — Durante
i sei ultimi mesi o seconda parte dell’anno ecclesiastico, la Chiesa è la
continuatrice dell’opera di redenzione di Cristo, preparata e realizzata entro
i primi sei mesi o prima parte del Ciclo liturgico. « Il Cristiano che nella
prima metà del Ciclo non è incora giunto a vedere la sua vita personale
assorbita nella vita di Cristo, troverà nella seconda preziosi aiuti per
sviluppare la sua fede e accrescere il suo amore II Mistero della Trinità,
quello del SS. Sacramento, la misericordia e potenza del Sacro Cuore di Gesù,
la grandezza di Maria e la sua opera sulla Chiesa e sulle anime, gli sono
manifestati con maggiore evidenza e producono in lui nuovi salutari effetti;
infatti il Cristiano si sente più fortemente, più intimamente legato ad essi
durante le festività dei Santi, in questo tempo cosi numerose e solenni. La
felicità esterna che deve seguire questa vita di prova si rivela nella festa di
Tutti i Santi, nella quale l’uomo vede più addentro la natura di questo bene che
consiste nella luce e nell’amore; e unito ogni giorno più intimamente alla S.
Chiesa che è la Sposa di Colui al quale aderisce, egli segue tutte le fasi
della vita terrena del Salvatore, soffre alle sue sofferenze, gioisce e
partecipa ai suoi trionfi, mentre vede, senza smarrirsi, il mondo avviarsi
verso la fine perché sa che il Signore è vicino» . — Avviene quindi che nel Tempo
dopo Pentecoste, noi vediamo avverarsi la parola del Maestro, il quale
aveva promesso agli Apostoli che lo Spirito Santo loro mandato, avrebbe convinto
il mondo di peccato, di giustizia e di giudizio. Le anime pie infatti, con le
loro opere e con il loro esempio rendono omaggio di continuo alla giustizia e
alla verità divine (S. Giov. XVIII, 37); esse trionfano del mondo che
convincono di malizia e che giudicano, come Cristo stesso al momento della sua
esaltazione dette il giudizio a seconda che sarebbe riconosciuto o rifiutato.
La sentenza poi che giudicherà le anime per l’eterno gaudio o per la condanna
all’inferno sarà data dal figlio dell’Uomo assistito da tutti gli Angeli giorno
del giudizio, come si legge nella Messa dell’ultima Domenica di Pentecoste.
II. — Commento
storico.
Dopo la solennità della Pentecoste, dalla quale ebbe principio, la Chiesa riproduce nel corso dei secoli tutta la vita di Cristo, di cui essa è il corpo mistico. Gesù nella sua infanzia è perseguitato e deve fuggire in Egitto mentre vengono massacrati i Ss. Innocenti, e la Chiesa nei primi tempi della sua vita subisce le più violente persecuzioni e deve spesso nascondersi nelle catacombe e nel deserto. — Gesù adolescente, si ritira a Nazareth, ove passa la maggior parte della sua vita nel raccoglimento e nella preghiera, e la Chiesa, dopo Costantino, gode una lunga era di pace. Ovunque sorgono cattedrali e abbazie ove risuona la lode di Dio e dove Vescovi e Abati, Preti e Monaci contrastano collo studio e con zelo infaticabile il diffondersi delle eresie. — Gesù, il divino missionario, mandato dal Padre nelle regioni lontane di questa terra comincia a trent’anni la sua vita d’apostolato. La Chiesa dal secolo XVI deve resistere agli assalti del paganesimo che ripullulava e annunziare alle parti del mondo recentemente scoperte il Vangelo di Cristo. E dal suo seno sorgono senza tregua milizie nuove e legioni numerose d’apostoli e di missionari che annunziano la buona novella a tutto il mondo. — Infine Gesù termina la sua vita col sacrificio del Golgota, ben presto seguito dal trionfo della sua risurrezione, e la Chiesa alla fine dei tempi, come il suo divino Capo sulla Croce, sembrerà vinta, ma sarà essa che riporterà la vittoria » . « Il corpo di Cristo, che è la Chiesa – dice S. Agostino – a somiglianza del corpo umano fu dapprima giovane, ed ecco che alla fine del mondo avrà apparenza di caducità » (in Ps. XXVI). – Le feste dei Santi sono più numerose dopo la Pentecoste che è l’epoca liturgica più lunga (può cominciare anche il 10 maggio e terminare al 2 dicembre (Queste due date segnano i termini massimi nei quali può cominciare e finire il Tempo della Pentecoste e quello dopo la Pentecoste); ne viene che il Tempo dopo la Pentecoste è particolarmente il Ciclo del Santi. Per essere completi noi citeremo tuttavia qui le feste dei Santi di tutto il calendario, facendo precedere da un asterisco quelli che sono iscritti nel primo elenco del Canone della Messa e da due quelli che sono nel secondo.
a) Dopo aver rievocata la memoria di
** S. Giovanni Battista, commemorando l’anniversario della sua nascita (24 giugno); e quello del suo martirio (29 agosto), quella di
S. Giuseppe (19 marzo) e della sua solennità (mercoledì della 2* settimana dopo l’ottava di Pasqua), quella di
S. Gioacchino (16 agosto) e di
Sant’Anna (26 luglio) genitori della Vergine Maria, quella dei
Santi Innocenti (28 dicembre) e quella di
** S. Stefano, 1° martire (26 dicembre), la Chiesa ci fa rivivere ogni anno l’età apostolica, celebrando le feste degli Apostoli:
1 * S. Pietro (29 giugno)
2 * S. Paolo (29 e 30 giugno)
3 * S. Andrea (30 nov.)
4 * S. Giacomo il Magg. (25 luglio)
5 * S. Giovanni (27 die.)
6 * S. Tommaso o Didimo(21dic.)
7 * S. Glacomo il Min.(11 maggio)
8 * S. Filippo (11 maggio)
9 * S. Bartolomeo (24 agosto)
10 * S. Matteo (21 sett.)
11 * S. Simone (28 ott.)
12 * S. Taddeo o Giuda (28 ott.).
Poi vengono le feste di quelli che lo
Spirito Santo stesso designa per mezzo del sorteggio l’uno ad occupare il posto
di Giuda, l’altro a partecipare all’apostolato di S. Paolo:
** S. Mattia (24 febbr.)
** S. Barnaba (11 giugno).
Inviati dal Salvatore per insegnare a tutte le genti e battezzarle nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo gli Apostoli si dispersero in tutto il mondo. S. Giacomo il Maggiore, fratello di S. Giovanni (25 luglio), rende per primo testimonianza a Gesù Cristo con l’effusione del suo sangue a Gerusalemme, sotto Erode Agrippa I, verso l’anno 42. Poco dopo S. Pietro, è liberato miracolosamente da un Angelo (1° agosto), e si rifugia nella casa di S. Marco (25 aprile) autore del secondo Vangelo. Da li si reca dapprima ad Antiochia, ove stabilisce la sua cattedra (22 febbraio) e poi a Roma (18 gennaio) di cui fu Vescovo durante un pontificato di venticinque anni. S. Paolo di Tarso, convertito probabilmente l’anno 37 della nostra èra (25 gennaio), viene a trovare S. Pietro a Gerusalemme, e inizia nell’anno 44 i suoi viaggi apostolici. Investito ad Antiochia dell’episcopato insieme con S. Barnaba (11 giugno), percorre con questi nel suo primo viaggio l’isola di Cipro, ove il suo compagno fu più tardi vescovo, la Pamfilia, la Pisidia e la Licaonia. Di ritorno ad Antiochia, va, verso l’anno 51, al Concilio di Gerusalemme presieduto da S. Pietro, e mentre il principe degli Apostoli risiedeva per la seconda volta ad Antiochia, Paolo comincia il suo secondoviaggio verso l’anno 42. Va in Siria in Licaonia, ed essendosi a lui unito
S. Timoteo (24 gennaio), attraversa la Frigia e la Galazia: in quest’epoca deve essere stata fondata la Chiesa di Colossi. A Troade, S. Paolo s’imbarca con S. Luca (18 ottobre), l’autore degli Atti degli Apostoli, e va in Macedonia a Filippi, a Tessalonica, ad Atene, a Corinto e dopo Efeso e Cesarea si reca a Gerusalemme per la Pasqua dell’anno 54. Il terzo viaggio conduce S. Paolo attraverso la Frigia e la Galazia fino ad Efeso, ove scrive la sua Epistola ai Galati, e la sua prima Epistola ai Corinti; rivede poi la Macedonia donde scrive la seconda Epistola ai Corinti, poi la Grecia. Dopo essere stato sulle coste del Mare Adriatico fino all’Illiria, si sofferma di nuovo a Corinto e di là scrive la lettera ai Romani; poi ritorna a Gerusalemme per la festa di Pentecoste del 58. Arrestato nel tempio, fu condotto a Cesarea e dopo una prigionia di due anni, avendo fatto appello a Cesare, fu imbarcato per Roma ove giunse verso l’anno 61. Là trovò una Chiesa perfettamente organizzata da S. Pietro che vi aveva per primo predicato il Vangelo. Il suo processo durò due anni ancora, idrante i quali scrisse le lettere ai Filippesi, agli Efesini, e Colossesi. Divenuto libero e avendo deliberato di recarsi a Gerusalemme, si fa precedere da una lettera indirizzata agli Ebrei, come altre volte aveva fatto coi Romani. S. Paolo va poi a Efeso, in Macedonia, nell’isola di Creta ove lascia
S. Tito (6 febbraio) come Vescovo; a questi scriverà due lettere. Continuando il suo viaggio, va in Grecia e a Corinto ove si incontra con S. Pietro insieme col quale torna a Roma. I due Apostoli subirono il martirio verso l’anno 67; l’anno seguente Gerusalemme fu assediata, e nel 70 espugnata da Tito vide il Tempio bruciato.
b)Periodo delle persecuzioni (I – IV Secolo).
PAPI.
1. * S. Pietro (29 giugno)
2. * S. Lino (23 sett.)
3 * S. Cleto (26 apr.) ovvero
Anacleto
(13 luglio)
4 * S. Clemente (23 nov.)
5 * S. Evaristo (26 ott.)
6. ** S. Alessandro I (3 maggio)
8. S. Telesforo (5 genn.)
10. S. Igino (11 genn.)
11. S.Pìo I (11 luglio)
12. S.Aniceto (17 apr.)
13.Sotero (22 apr.)
14.S. Eleuterlo (26
mag.)
15 S. Vittore I (28 luglio)
16. S. Zelfirino (26 agosto)
17. S. Calisto I (14 ott.)
18. S. Urbano I (25maggio)
19. S. Ponziano (19 nov.)
21. S. Fabiano (20 genn.)
22. * S . Cornelio (16 sett.)
23. S. Lucio I (4 marzo)
24. S. Stefano I (2 agosto)
25. * S. Sisto II (6 agosto)
27. S. Felice I (30 maggio)
29. S. Caio (22 apr.)
30. S. Marcellino (26 apr.)
31. S. Marcello l (16.genn.)
33. S. Melchiade (10 dicembre)
SANTI.
S. Prisca (18 genn.)
S. Vitale da Ravenna (28 apr.)
S. Tecla (23 sett.)
S. Apollinare vesc.di Rav.(23 lug.)
** S. Ignazio d’Ant. (1° febbr.)
S Simeone (18 febbr.)
S. Ermete (28 agosto)
Ss . Faustino e Glovita (15 febbr.)
Ss. Evenzio e Comp. (3 maggio)
S. Sabina (29 agosto)
Ss. Eustachio e Comp. (20 sett.)
S. Sinforosa e i suoi 7 figli (18 luglio)
** Sante Perpetua e Felicita di Cartagine
(6 marzo)
S. Martina (30 gennaio)
Ss. Gervasio e Protasio (19giug.)
Ss. Nazario e Celso (28 luglio)
S. Domitilla (12 maggio)
S. Nicomede (15 sett.)
S. Policarpo (26 genn.)
S. Pudenziana (19 maggio)
S. Prassede (21 luglio)
I 7 fratelli martiri (10 luglio)
S. Felicita (23 novembre.)
S. Giustino (14 aprile)
S. Sinforiano (22 agosto)
S Ireneo (2S giugno)
Ss. Tiburzio, Valeriano e Massimo (14
aprile)
S. Cecilia (22 novembre)
Sant’Ippolito (22 agosto)
S. Barbara (4 dicembre)
S. Agata (5 febbraio)
S. Apollonia (9 febbraio)
S. Epimaco (10 maggio)
S. Venanzio (18 maggio)
S. Cristoforo (25 luglio)
Ss. Dionigi e Comp. (9 ottobre)
Ss. Trifone, Respizio e Ninfa (10
novembre)
S. Saturnino. (29 novembre)
Ss. Rufina e Seconda (10 luglio)
S. Margherita (20 luglio)
Ss. Abdon e Sennen (30 luglio)
S. Romano (9 agosto)
S. Lorenzo (10 agosto)
S. Ippolito (13 agosto)
Ss. Proto e Giacinto (11 sett.)
S. Cipriano (16 settembre)
Ss. Mario e Comp. (19 gennaio)
Sant’Emerenziana (23 gennaio)
S. Valentino (14 febbraio)
S. Giorgio (23 aprile)
S. Pancrazio (12 maggio)
S. Bonifacio (14 maggio)
S. Agapito (18 agosto)
S. Sebastiano (20 gennaio)
S. Agnese (21 gennaio)
S. Vincenzo (22 gennaio)
S. Dorotea (6 febbraio)
Ss. Marcellino, Pietro ed Erasmo (2
giugno)
Ss. Primo e Feliciano (9 giugno)
Ss. Basilide e Comp. (12 giugno)
S. Vito o Guido (15 giugno)
Ss. Marco e Marcellino (18 giugno)
Ss. Nabor e Felice (12 luglio)
S. Cristina (24 luglio)
S. Pantaleone (27 luglio)
Ss. Simplicio e Comp. (29 luglio)
Ss. Ciriaco e Comp. (8 agosto)
Ss. Tiburzlo e Susanna (11 agosto)
Ss. Felice e Adaucto (30 agosto)
Ss. Maurizio e Comp. (22 sett.)
Ss. Cipriano e Giustina (26 settembre)
Ss. Cosma e Damiano (27 sett.)
Ss. Sergio e Comp. (7 ottobre)
Ss. Crisante e Daria (25 ottobre)
Ss. Vitale e Agricola (4 nov.)
I 4 Coronati (8 novembre)
S. Menna (11 novembre)
S. Crisogono (24 novembre)
S. Caterina d’Aless. (25 nov.)
S. Lucia (13 dicembre)
Ss. Gennaro e Comp. (19 sett.)
S. Adriano (8 settembre)
S. Gorgonlo (9 settembre.)
S. Anastasia (25 dicembre)
S. Felice (14 gennaio)
S. Biagio (3 febbraio)
1 40 martiri di Sebaste (10 marzo)
S. Casslano (13 agosto)
S. Timoteo (22 agosto)
S. Pietro d’Aless. (26 novembre)
S. Acazio soldato (8 maggio)
S. Gregorio Taumat. (17 nov.)
c) Il Medio-evo (IV-XV.secolo)
Costantino (306-337), vittorioso di
Massenzio, grazie al Labaro si convertì al cattolicesimo, e fu lo strumento di
cui Dio si servì per permettere alla Chiesa, dopo tre secoli di persecuzioni, di
abbattere definitivamente il paganesimo. Costantino fece costruire le antiche
basiliche del Salvatore e di S. Pietro a Roma, ricostruite e consacrate più
tardi. La festa dell’Invenzione della S. Croce (3 maggio) si celebra in Oriente
il 14 settembre, anniversario della consacrazione dei!: basilica che Costantino
fece erigere sul Calvario; in Occidente dette origine alla festa
dell’Esaltazione della S. Croce (14 settembre).
Intanto, valendosi dell’era di pace, i Papi
34 S. Silvestro I (31 dicembre)
35 S. Marco I (7 ottobre)
si dedicarono all’organizzazione della
Chiesa; ma ben presto la persecùzione riprese e il calendario segna nuovi
martiri.
Sotto Giuliano l’Apostata:
S. Gordiano (10 maggio);
* Ss. Giovanni e Paolo (26 giugno);
3. Bibiana (2 dicembre).
Sotto Valentiniano I e Valente:
38 S. Felice II, papa (29 luglio).
E fu allora che per trovare la pace in
tempi così torbidi, un gran numero di cristiani si rifugiò nella solitudine
della Tebaide. Il più celebre fra questi fu S. Paolo, primo eremita (†341,
festeggiato il 15 gennaio), il quale fu il primo legislatore degli Anacoreti.
S. Orsola e le sue Compagne (21 ottobre)
S. Teodoro (9 novembre).
S. Giovenale (3 maggio) S. Alessio (17
luglio) S. Ilarione (21 ottobre).
A questo secolo appartengono il primo
santo Confessore ricordato nel Calendario cattolico in Oriente, e S.
Martino (11 novembre) il primo in Occidente. Il calendario porta nomi di altri
Papi Confessori:
39. S. Damaso 1 (11 dic.)
42. S. Innocente I (28 luglio)
47. S. Leone Magno (11 apr.)
55. S. Giovanni I (27 maggio)
80. S. Silverio (20 giugno)
66. S. Gregorio Magno (12 marzo)
76. S. Martino I (12 novembre)
82. S. Leone II (3 luglio)
Nel IV secolo incomincia l’èra aurea dei
Padri della Chiesa,
come ci ricordano le feste dei quattro
grandi dottori d’Oriente:
S. Atanasio (2 maggio),
S. Basilio Magno (14 giugno)
S. Gregorio di Nazianzo (9 maggio),
S. Giovanni Crisostomo (27 gennaio),
e di quelli d’Occidente:
S. Ambrogio (7 dicembre),
S. Agostino (28 agosto) convertito dalla madre
S. Monica (4 maggio),
S. Girolamo (30 settembre) e
S. Gregorio Magno, già ricordato. Se si aggiungono i nomi di
S. Nicola (6 dicembre), di
S. Ilario (14 gennaio), di
S. Eusebio (16 dicembre), di
S. Efrem (18 giugno), di
S. Damaso (già ricordato), di
S. Cirillo di Gerusalemme (18 marzo), di
S. Liborio (23 luglio), di
S. Paolino (22 giugno), di
S. Cirillo d’Alessandria (9 febbraio),
di
S. Pietro Crisologo (4 dicembre), dei due Papi Leone I e S. Leone II, già ricordati, di
S. Isidoro (4 aprile), di
S. Beda (27 maggio), e di
S. Giovanni Damasceno l’ultimo Padre della
Chiesa d’Oriente (27 marzo) si hanno ì principali difensori della dottrina
cattolica dal IV all’VIII secolo.
V
SECOLO.
Le grandi solennità dell’anno, le
ordinazioni delle Quattro Tempora e le Stazioni di Quaresima che si compivano
nelle basiliche romane e in oltre 43 santuari differenti, ci fanno vedere che
fin dal V secolo la Chiesa aveva completamente conquistata la città eterna.
In questo tempo vengono istituite due
feste: l’una per celebrare l’Apparizione di S. Michele in Italia (8 maggio) e
l’altra la Dedicazione della basilica di S. Michele (29 settembre) che gli fu consacrata
da Papa Bonifacio IV sull’area del circo romano.
Nel 415 avvenne l’Invenzione del corpo
di S. Stefano (3 agosto).
Nel 431 il terzo Concilio a Efeso condannò
Nestorio che negava l’unità della persona in Cristo e la conseguente maternità
divina in Maria.
Il calendario riporta inoltre nomi di
Vescovi missionari e monaci che, dal secolo V intrapresero la conversione dei
barbari le cui orde avevano invaso l’Europa.
VI
SECOLO.
S. Saba (5 dicembre) ordina le comunità
monastiche in Palestina.
S. Remigio (1° ottobre) battezzò
Clodoveo nel Natale del 496 e fece della Francia la Figlia primogenita della
Chiesa.
S. Patrizio (17 marzo) converti l’Irlanda
e fece sì che essa fu chiamata l’isola dei Santi.
S. Ermenegildo (13 aprile), determinò la
Spagna ad abbracciare la fede di Cristo.
S. Egidio (1° settembre) è uno dei quattordici
Santi Ausiliari.
Ma è soprattutto
S.
Benedetto
(21 marzo), che, dando alla vita monastica una regola piena di saggia
moderazione, assicura per parecchi secoli l’impero della Chiesa su Roma, allora
in decadenza, e sui popoli barbari; e mentre
S. Scolastica, sua sorella (10 febbraio)
santifica le anime nella solitudine del monastero; il Patriarca dei monaci
d’Occidente invia in Francia il discepolo
S. Mauro (15 gennaio).
S. Placido (5 ottobre) fu anche uno dei suoi discepoli più cari. Il primo Papa benedettino, S. Gregorio Magno Magno, mandò
S. Agostino di Cantorbery (28 maggio) ad evangelizzare la Gran Bretagna, la quale meritò in poco tempi d’essere anch’essa chiamata l’isola dei Santi.
VII
SECOLO.
Le Litanie Maggiori, il 25 aprile, perpetuano da S. Gregorio in poi, la testimonianza della confidenza piena che la Chiesa ha nella preghiera e nella penitenza per scongiurare calamità pubbliche.
Nel Pantheon d’Agrippa, Roma aveva riuniti tutti gli dèi pagani, ma questo tempio, liberato da tutti gli idoli, fu dedicato il 13 maggio del 640 dal Papa Bonifacio IV a Maria e ai Martiri, e più tardi a tutti i Santi. Sotto Gregorio IV (827-844), questa festa venne trasportata al 1° novembre, in modo che la festa di Tutti i Santi, divenuta anniversario di questa consacrazione, segnò il trionfo di Cristo sulle false deità.
Nel 628, S. Anastasio (22 gennaio) fu
martirizzato per òrdine del re Cosroe.
VIII
SECOLO.
Il 5 giugno la Chiesa festeggia
S. Bonifacio benedettino, sassone, il
quale incorona il re Pipino e converte la Germania.
IX
SECOLO.
In seguito a calamità pubbliche S. Mamerto
nel V secolo stabilisce le Rogazioni, che nell’816 vengono introdotte a Roma da
Leone III. Questi fu il Pontefice che coronò Carlo Magno nel Natale dell’800. Difensore
della S. Chiesa e Ausiliare in tutto della S. Sede Apostolica e della Cristianità,
di cui il Papa era la testa ed egli fu il braccio, questo imperatore diffonde
ovunque la liturgia romana e Il canto gregoriano.
La festa dei
Ss. Cirillo e Metodlo (7 luglio) ricorda
la conversione della Boemia e della Polonia che, per essi, entravano a far
parte della S. Chiesa nel 870. Di questi paesi e dell’Ungheria è patrono
S. Venceslao (28 settembre).
X
SECOLO.
In Francia, la fondazione del celebre
monastero benedettino di Cluny (910) segna una data importante nella storia
della Chiesa, poiché quest’abbazia fu un vivaio di uomini apostolici. Uno dei primi
abati di questo monastero, S. Odilone, fece celebrare il 2 novembre 998 la
Commemorazione del Defunti, che ben presto fu estesa a tutta la Chiesa.
XI
SECOLO.
Nell’XI secolo, lo slancio religioso è
dato da un grande numero di santi. Ancora dell’ordine benedettino vi sono da
ricordare due fondatori:
S. Giovanni Gualberto (12 luglio) e
S. Romualdo (7 febbraio) che istituisce
i Camaldolesi, di cui
S. Pietro Damiano (3 febbraio) è
uno dei più illustri membri. Sul trono risplendono le virtù di S. Enrico (15 luglio), capo del Sacro Romano
Impero;
di S. Stefano d’Ungheria (2 settembre),
onorato dalla Sede del titolo di Re apostolico; di S. Edoardo (13 ottobre)
d’Inghilterra;
di S. Canuto Magno (19 gennaio), re di
Danimarca, che distrusse nel suo popolo le ultime vestigia dell’idolatria, e
Santa Margherita (10 giugno) regina e
patrona della Scozia.
In Polonia è da ricordare il Vescovo
S. Stanislao (7 maggio).
Alla fine di questo medesimo secolo la
Chiesa attraversa una crisi gravissima. In Oriente le forze dell’Islamismo
diventano ogni giorno più minacciose; in Occidente la lotta fra il potere
spirituale e il potere temporale si è ingaggiata con un’asprezza tutta
particolare; nel clero s’introducono la simonia e il rilassamento e Berengario
comincia le sue controversie sull’Eucarestia. È allora che Dio suscita nel 1073
il glorioso monaco benedettino di Cluny, Ildebrando, che divenne Papa e portò
il nome di:
162. S. Gregorio VII (25 maggio).
Onesto illustre prelato ristabilisce la
legge del celibato, abolisce le investiture e si oppone alle usurpazioni
imperiali scomunicando e deponendo dal trono Enrico IV, imperatore di Germania.
XII
SECOLO.
Un altro figlio di S. Benedetto,
S. Anselmo di Cantorbéry (21 aprile)
sostiene in Inghilterra le medesime
lotte che sosterrà un secolo più tardi
S. Tomaso di Cantorbéry (29 dicembre).
Allora appaiono
S. Brunone (6 ottobre) fondatore
dell’Ordine dei Certosini,
S. Norberto (6 giugno) fondatore
dell’Ordine dei Premonstratensi,
e S. Roberto fondatore dell’Ordine dei
Cisterciensi, ove si osserva in tutto il suo rigore la regola di S. Benedetto.
La più grande gloria di quest’Ordine fu
S. Bernardo (20 agosto) che predicò la 2″ Crociata;
S. Guglielmo (25 giugno) fonda anche un
monastero che si ispira soprattutto alla regola benedettina.
Nel 1160 muore
S. Ubaldo (16 maggio), celebre per il
suo poter sui demoni.
XIII
SECOLO.
Il secolo XIII, che è tra i più gloriosi
per la Chiesa, vide sorgere due nuovi Ordini, destinati particolarmente al
riscatto e alla liberazione dei Cristiani prigionieri.
L’Ordine della Madonna della Mercede (24
settembre), istituito da
S. Pietro Nolasco (28 gennaio).
S. Raimondo .Nonnato (31 agosto)
fu una gloria di questo Ordine.
L’Ordine dei Trinitari, fondato un po’
prima da
S. Giovanni di Matha (8 febbraio) e da
S. Felice di Valols (20 novembre).
Più d’un milione di prigionieri furono
riscattati dai religiosi di questi Ordini dalla schiavitù dei Mussulmani. Inoltre
per opporsi ai disordini degli Albigesi, che infestavano il mezzogiorno della
Francia, Iddio manda
S. Domenico (4 agosto) che fonda l’Ordine dei Frati Predicatori, illustrato a sua volta da
S. Pietro da Verona (29 aprile), da
S. Giacinto (17 agosto), da
S. Tomaso d’Aquino (7 marzo) e da
S. Raimondo di Pegnafort (23 gennaio) e
da
Sant’Alberto il Grande (15 novembre).
Per riscaldare, dice la liturgia, il mondo raffreddato, Dio suscita contemporaneamente a S. Domenico, il serafico
S. Francesco d’Assisi (4 ottobre),
fondatore dell’Ordine dei Frati Minori. Viene celebrato il 17 settembre il
ricordo delle Stigmate che S. Francesco ricevette.
Fra gli illustri figli di quest’Ordine
sono da ricordare:
S. Antonio di Padova (13 giugno),
S. Bonaventura (14 luglio). Il 12 agosto
la Chiesa celebra
S. Chiara, cooperatrice di S. Francesco,
per la fondazione del secondo Ordine o delle Clarisse; in questo tempo fu
istituito il terzo Ordine o l’Ordine dei Terziari.
Nel secolo XIII fu anche istituito in
Europa l’Ordine del Carmelo come ricorda la solennità della
B. V. M. del Monte Carmelo (16 luglio);
fu inoltre istituito da 7 Fondatori (12 febbraio) l’Ordine dei Servi di Maria;
uno dei primi generali dei Serviti fu
S. Filippo Benizi (23 agosto).
Dall’Ordine benedettino si partono in
quest’epoca due rami:
quello dei Monaci Silvestrini, istituito
da
S. Silvestro († 1267: 26 novembre) e quello dei Celestini, fondato da S. Pietro Celestino che fu Papa per qualche mese sotto il nome di:
197 | S. Celestino V (19 maggio).
S. Elisabetta illustra il trono di
Ungheria (19 novembre),
S.Edvige quello di Polonia (16 ottobre)
e in Francia regna il più grande re cristiano della storia:
S. Luigi IX (25 agosto).
La festa del « Corpus Domini », chiesta
da nostro Signore alla beata Giuliana nel 1208 ed estesa a tutto il mondo da
Papa Urbano IV nel 1264, rammenta in noi il più potente mezzo scelto da Dio per
rendere alla Chiesa il suo fervore e rammenta altresì il XII Concilio
ecumenico del Luterano, nel quale fu formulato — usando la parola transustanziazione
— il dogma della presenza reale di Gesù nell’Eucarestia, dogma che del resto
aveva sempre fatto parte essenziale dell’insegnamento della Chiesa. Il medesimo
Concilio prescrisse la confessione annuale e la Comunione pasquale.
La Natività della B. V. Maria (8 settembre)
fu dal Papa Innocenzo IV arricchita di un’ottava dopo il XIII Concilio
ecumenico diLione del 1245.
XIV
SECOLO.
Nel XIV secolo l’antico Ordine degli
Agostiniani dà alla Chiesa
S. Nicola da Tolentino (10 settembre) e
S. Brigida di Svezia (8 ottobre);
quello dei Benedettini
S. Geltrude la Grande (16 novembre) che
fu celebre per le sue rivelazioni sul Sacro Cuore; quello del Carmelo
S. Andrea Corsini (4 febbraio); quello
di S. Francesco,
S. Elisabetta, regina del Portogallo (8
luglio); quello dei Servi di Maria
S. Giuliana Falconieri (19 giugno),
fondatrice delle Mantellate:
e quello di S. Domenico,
S.Caterina da Siena (30 aprile) che
persuase il Papa Gregorio XI a tornare a Roma. Durante un periodo di 70 anni —
che sono stati paragonati ai 70 anni della cattività di Babilonia — i Papi
abitarono infatti ad Avignone per sottrarsi ai pericoli, che essi incontravano
nella Città Eterna. Fu ad Avignone che Giovanni XXII estese, nel 1334, a tutta
la Chiesa la festà della SS. Trinità (I Domenica dopo Pentecoste) e che
Gregorio XI istituì, un anno prima di tornare a Roma, la festa della
Presentazione della B. V. M. (21 novembre), che era già celebrata in Oriente.
Il successore, Urbano VI stabilì nel 1389 per tutto il mondo la festa della Visitazione
della B. V. M. (2 luglio) per ottenere la fine del grande scisma, che mettendo
l’uno contro l’altro due papi, desolò per quarant’anni l’Occidente.
XV
SECOLO.
Nel XV secolo Dio mandò alla Francia
Santa Giovanna d’Arco (30 maggio); alla
Spagna
S. Vincenzo Ferreri dell’Ordine di S.
Domenico (5 aprile);
S. Giovanni di S. Facondo dell’Ordine di
S. Agostino (12 giugno) e
S. Diego dell’Ordine di S. Francesco (13
novembre): all’Italia
S. Francesca Romana, fondatrice delle
Oblate di S. Benedetto (9 marzo),
S. Antonino, domenicano, arcivescovo di
Firenze (10 maggio),
S. Bernardino da Siena, francescano (20
maggio),
S. Lorenzo Giustiniani (1° Patriarca di Venezia) (5 settembre); e alla Polonia
S. Giovanni di Kenty (20 ottobre) e
S. Casimiro
(4 marzo).
La presa di Costantinopoli per opera di
Maometto II, nel 1453, portò con sé la caduta dell’Impero d’Oriente, che
risaliva fino a Costantino, giusto castigo della sua ribellione alla Chiesa di
Roma. Intanto per proteggere l’Europa dall’onda invadente, i Papi suscitano
degli eroi.
S. Giovanni Capiscano, francescano
italiano (28 marzo) predica una crociata e sotto le mura di Belgrado l’islamismo
viene vittoriosamente ricacciato da Giovanni Huniady. In memoria di questo
avvenimento importante, Papa Calisto III estende a tutta la Chiesa la festa della
Trasfigurazione (6 agosto), Cristoforo Colombo scopre il nuovo mondo e Vasco di
Gama le Indie Orientali che ricompenseranno la Chiesa dei danni che subirà in
Europa nel XVI secolo.
d)
Evo Moderno (XVI-XX secolo)
XVI
SECOLO.
Il XVI secolo segna una data dolorosa
per la Chiesa. Il paganesimo rinascente, Il protestantesimo e ben presto il
giansenismo la travagliano all’interno, mentre all’esterno l’Islamismo diventa
sempre più minaccioso. Sembra che si sia scatenato satana; egli seduce le
nazioni ai quattro angoli della terra, le riunisce per il combattimento ed «
esse circondano la terra dei Santi e la città beata » (Apoc. XX, 7); più tardi
anzi andranno a spogliare il successore di Pietro del suo patrimonio.
Per opporre un ostacolo all’invasione
dei barbari, la Provvidenza Divina aveva suscitato all’alba del Medio-Evo S.
Benedetto e il suo Ordine di pace; per combattere la barbarie dello spirito che
si avanza come l’armata del male, Dio fa sorgere nei primi tempi dell’Evo
Moderno in mezzo a uno stuolo di altri santi,
S. Ignazio di Loyola (31 luglio) primo generale della Compagnia di Gesù, questa nuova milizia di Cristo approvata dalla bolla: Al governo della Chiesa militante. Fino a questo momento si possono ricordaredi questa Compagnia i nomi gloriosi di
S. Francesco Borgia (10 ottobre),
S. Francesco Saverio (primo apostolo
degli Indi(3 dicembre) e
S. Luigi Gonzaga, il modello della
giovinezza cristiana(21 giugno) e
S. Pietro Canisio (27 aprile) che affrontò coraggiosamente l’errore protestante e fece un celebre catechismo.
Nel 1507 muore
S. Francesco da Paola (2 aprile) fondatore
dell’Ordine dei Minimi.
Un figlio di S. Domenico sale allora sul
trono pontificale:
232 | S. Pio V (5 maggio). Egli
istituisce nel 1571 la festa della Madonna della Vittoria, diventata due anni
più tardi festa del S. Rosario della B. V. Maria (7 ottobre), in ricordo
della vittoria navale di Lepanto riportata sui Turchi.
Con l’aiuto di
S. Giovanni della Croce, Carmelitano
scalzo (24 novembre), la serafica
S. Teresa (15 ottobre) ristabilisce la primitiva
osservanza nell’antico Ordine del Carmelo;
S. Pietro d’Alcantara, illustre
riformatore dell’Ordine dei Minori (19 ottobre) guida la santa nel suo nobile
lavoro.
S. Pasquale Baylon, il patrono delle
opere eucaristiche (17 maggio) è anch’egli figlio di S. Francesco.
S. Gerolamo Emiliani (20 luglio)
istituisce la Congregazione dei Somaschi per l’educazione dei giovani e
S. Angela de Merici (31 maggio) quella
delle Orsoline per l’educazione delle giovinette.
S. Gaetano (7 agosto) fonda i Teatini;
S. Antonio Maria Zaccaria (5 lug io)
fonda un altro istituto del medesimo genere.
S. Carlo Borromeo (4 novembre) riforma
il clero;
S. Filippo Neri (26 maggio) istituisce
la Congregazione dell’Oratorio;
S. Tommaso da Villanova, monaco
agostiniano, si rende celebre per la sua carità verso i poveri (22 settembre),
e
S. Giovanni di Dio (8 marzo) stabilisce
una Congregazione di Frati Ospitalieri. Nel 1584 Gregorio XIII estende la festa
di
S. Anna (26 luglio) a tutta la Chiesa; fu
questo Papa che nel 1582 promulgò la riforma del calendario, che va sotto il
nome di Riforma gregoriana.
Nel 1585 Sisto V impose a tutta la Chiesa
la festa della Presentazione di Maria, che si celebrava già da tempo in
Oriente.
Ancora nel XVI secolo Giulio II e Leone X fecero innalzare sulla tomba di S. Pietro la vasta basilica del Vaticano, una delle meraviglie del mondo. Nell’anno 1600 le indulgenze del giubileo vi attirarono tre milioni di pellegrini; Urbano VIII la consacrò nel 1626, come ci ricorda l’anniversario della Consacrazione della basilica di S. Pietro (18 novembre).
XVII
SECOLO.
Nel 1608 Paolo V estende alla Chiesa
universale la festa dei Ss. Angeli (2 ottobre) e nel 1621 Gregorio XV quella di
S. Giuseppe, la quale fin dagli ultimi del secolo XV era stata fissata la data 19
marzo.
La festa del SS. Nome di Maria (12
settembre) approvata da Roma nel 1513, nel 1683 fu estesa da Papa Innocenzo XI
a tutta la Chiesa per ringraziare la Vergine della vittoria di Giovanni Sobieski
sui Turchi che assediavano Vienna. Lo stesso Papa istituì nel 1688 la festa dei
Sette Dolori della B. V. Maria, estesa da Benedetto XIII nel 1727 alla Chiesa
Universale; Pio X la fissò al 15 settembre, giorno della ottava della Natività.
XVII sec. appaiono nuovi Ordini religiosi che si dedicheranno in modo
meraviglioso all’insegnamento e a tutte le opere di carità.
S. Francesco di Sales (29 gennaio)
istituisce insieme con
S. Giovanna Francesca di Chantal († 1641:
21 agosto) l’ordine della Visitazione.
Nel 1690
S. Margherita Maria Alacoque (17
ottobre) è favorita a Paray-le-Monial da parecchie visioni del Sacro Cuore.
S. Vincenzo de’ Paoli (19 luglio) fonda
la Congregazione dei Preti delle Missioni e, con l’aiuto di S. Luisa Marillac
(canonizzata nel 1934) quella delle Figlie delia Carità
S. Camillo de Lellis (18 luglio) fonda
una Congregazione di Chierici regolari per il servizio degli ammalati.
S. Francesco Caracciolo (4 giugno) fonda
l’Ordine dei Chierici minori regolari e
S. Giuseppe Calasanzio (27 agosto)
quello dei Chierici regolari delle scuole pie.
S. Maria Maddalena de’ Pazzi (29 maggio)
è una delle glorie dell’Ordine del Carmelo, mentre per l’Ordine di S.
Francesco, vi è
S. Fedele da Sigmaringen (24 aprile) e
S. Giuseppe da Copertino (18 settembre); per l’Ordine dei Gesuiti,
S. Roberto Bellarmino (13 maggio), e per l’Ordine dei Teatini
S. Andrea Avellino (10 novembre).
S. Rosa da Lima (30 agosto) è il primo
fiore di santità prodotto dal nuovo mondo.
Nel 1623
S. Giosafat, Arcivescovo di Polosca (14
novembre) che cerca di ricondurre a Roma gli eretici e gli scismatici è mandato
a morte.
Da segnalare vi è poi il voto fatto da
Luigi XIII, nel 1638 di fare una solenne processione il giorno dell’Assunta,
legando così questa grande festa della Madonna alla storia nazionale della Francia.
XVIII
SECOLO.
S. Giovanni Battista de La Salle (15
maggio) fonda l’Istituto cosi utile e benefico dei Fratelli delle Scuole
Cristiane. Nel 1716 la festa della Madonna del Rosario (7 ottobre) viene estesa
da Clemente XI a tutta la Chiesa in memoria della nuova disfatta dei Turchi,
subita a Peter Wardein, per opera di Carlo VI.
Nel 1721 Innocenzo XIII concede
l’estensione della festa del SS. Nome di Gesù, il 2 gennaio, a tutto il mondo.
Nel 1726 Benedetto XIII, consacra la
basilica di S. Giovanni in Laterano, che era stata riedificata, e fa celebrare
ogni anno l’anniversario di questo avvenimento con la festa della Consacrazione
dcll’Arcibasilica del S. Salvatore (9 novembre); lo stesso Papa l’anno seguente
estende a tutta la Chiesa la festa dei Sette Dolori della B.V. M. che si
celebra il Venerdì di Passione.
S. Alfonso de’ Liguori, (2 agosto) istituisce
la Congregazione del SS. Redentore; i suoi scritti contribuiscono grandemente a
riparare al male causato dal rigorismo giansenista. —
S. Paolo della Croce (28 aprile) fonda l’istituto dei Passionisti.— Nel 1765 Clemente XIII estende a tutta la Chiesa l’usanza delle Quarant’Ore che risale al secolo XVI: è una divozione riparatrice e nello stesso tempo una protesta contro il razionalismo che cominciava già a produrre tanta rovina. Alla fine di questo secolo di incredulità, scoppia la rivoluzione francese e il secolo seguente è quello della rivolta generale contro ogni autorità.
XIX
SECOLO.
Nel 1817 per ricordare i dolori che Pio
VII esiliato e prigioniero aveva sopportato e la protezione della Vergine che
lo aveva liberato contro ogni umana aspettativa, Pio VIII estende a tutta la Chiesa
la Festa dei Dolori di Maria (15 settembre), che i Servi di Maria celebravano
fin dal XIII secolo.
Nel 1849 Pio IX istituisce la
festa del Preziosissimo Sangue di Gesù (1° luglio) per mostrare che ai meriti del Salvatore si deve la vittoria riportata dalle armi francesi sulla rivoluzione che aveva cacciato il Papa da Roma; essendosi ottenuta questa vittoria il 2 luglio, il Papa elevò la festa della Visitazione della B. V. M. a rito doppio di II classe. — Ancora questo Papa nel 1847 estende a tutta la Chiesa la festa della Solennità di S. Giuseppe (mercoledì della 2a settimana dopo l’Ottava di Pasqua), e nel 1870 dichiara questo santo Patriarca protettore della Chiesa universale.
– Nel 1854, Papa Pio IX proclama il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, la cui festa (8 dicembre) era stata già concessa al mondo intero da Clemente X nel 1708; Leone XIII estende a tutto il mondo la Vigilia di questa festa nel 1879. — Ma il mezzo più grandioso che Dio impiega per confondere insieme la perfida dell’eresia giansenista e il razionalismo empio e immorale è il culto del Sacro Cuore la cui festa (Venerdì dopo l’Ottava del Corpus Domini) approvata nel 1765 da Clemente XIII, è innalzata nel 1889 alla dignità di rito di I classe. — Nel 1854 Papa Pio IX consacrala Basilica di S. Paolo fuori le mura, incendiata nel 1823 e fissa la festa della Consacrazione della Basilica di S. Paolo al 18 novembre. — Nel XIX secolo è istituita anche la festa delle Reliquie (5 novembre). — Nel 1888 Leone XIII colpito dalle dolorose prove che la Chiesa subisce, compone una Méssa e un ufficio nuovo in onore della Madonna del Rosario (7 ottobre) ed eleva questa festa al rito doppio di II classe. Il medesimo Papa nel 1879 eleva al rito doppio di II classe la festa di
S. Gioachino, 16 agosto) e quella di
S. Anna (26 luglio).
XX
SECOLO.
Nel 1890 Leone XIII istituisce la festa
della Madonna di Lourdes febbraio) che Pio X estende nel 1907 alla Chiesa
universale. Questo Papa eleva al rito doppio di II classe la festa della
Madonna dei 7 Dolori (15 settembre) e trasforma il calendario delle feste cristiane
in modo da rendere al Ciclo Cristologico la preponderanza sul Ciclo Santorale.
Benedetto XV fa rendere culto universale a
S. Efrem (18 giugno) e gli dà il titolo di dottore; ordina un nuovo Prefazio per S. Giuseppe e i Defunti, e canonizza Giovanna d’Arco, già ricordata, S. Margherita Maria Alacoque (17 ottobre) e
S. Gabriele dell’Addolorata (27 febbraio). Introduce inoltre nella Chiesa universale la
festa della Sacra Famiglia (Domenica
nell’Ottava dell’Epifania), di
S. Gabriele (24 marzo), di
S. Raffaele, 24 ottobre, di
S. Ireneo (28 giugno) e, ove lo
desiderano, la festa di
Maria Mediatrice di tutte le grazie (31
maggio) e del
Cuore Eucaristico Gesù (giovedì dopo
l’Ottava del Corpus Domini).
Pio XI istituisce la
Festa di Cristo Re (ultima Domenica di
ottobre), quella di
S. Teresa del Bambino Gesù (3 ottobre) e
di
S. Pietro Canisio (già citato), che
dichiara Dottore della Chiesa insieme con
Giovanni della Croce (già citato anch’esso). Canonizza il S. Curato d’Ars (9 agosto),
S. Maria Sofia Barat (25 maggio) fondatrice delle Dame del S. Cuore, e
S. Giovanni Eudes (19 agosto), fondatore degli Eudisti. Compone anche un nuovo Ufficio e una nuova Messa con Prefazio proprio della Festa del Sacro Cuore, aggiungendovi l’Ottava privilegiata. Estende la festa di S. Margherita Maria Alacoque alla Chiesa universale e canonizza nel 1930
S. Roberto Bellarmino (13 maggio), che insieme a
S. Alberto Magno (15 novembre), canonizzato nel 1932 fu da lui proclamato Dottore della Chiesa. Infine estende alla Chiesa universale la festa della Maternità della B. V. M. (11 ottobre)
e quella di S. Gabriele dell’Addolorata.
Fra le ultime canonizzazioni avvenute, ricordiamo in modo speciale quelle di
S. Giovanni Bosco (31 gennaio)
S. Giuseppe Ben. Cottolengo (30 aprile
S. Giovanna Antida Thouret (23 maggio)
S. Margherita Redi (11 marzo).
S. Giovanni Leonardi (9 ottobre)
S. Andrea Bobola (16 maggio)
S. Salvatore da Orla (18 marzo).
Pio XII costituisce Patroni principali d’Italia S. Francesco d’Assisi e S. Caterina da Siena; canonizza
S. Gemma Galgani (11 aprile) e
S. Maria S. Eufrasia Pelletier (24
aprile).
III. — Commento Liturgico.
Durante il primo semestre dell’anno ecclesiastico (Avvento-Pentecoste) la Chiesa ricostituisce la vita di Cristo; durante il secondo (Trinità-Avvento), mostra la vita della Chiesa stessa che si sforza di riprodurre nei suoi Santi le virtù del Maestro. Infatti nel passato le Domeniche che. seguivano la Pentecoste erano raggruppate attorno a qualche Santo più importante: vi erano così le settimane dopo la festa di S. Pietro o degli Apostoli, le settimane dopo la festa di S. Lorenzo, le settimane del settimo mese (settembre) e le settimane dopo la festa di S. Michele. Volendo accentuare l’azione dello Spirito Santo nelle anime dopo la Pentecoste, queste Domeniche ricevettero più tardi l’antica e più logica denominazione di Domeniche dopo la Pentecoste, che le riunisce cosi al Ciclo pasquale. Questa seconda parte dell’anno, senza sottoporre nuovamente la sua liturgia all’ordine cronologico della prima, ne è tuttavia l’eco fedele, poiché approfondisce in maniera nuova gli insegnamenti del Signore lasciandosi guidare dai bisogni della nostra intelligenza e del nostro cuore. E così come già nella prima parte si leggevano nel loro ordine le lettere di S. Paolo, il Vangelo di S. Matteo, S. Marco, S. Luca, anche qui si ritrova traccia di questo ordine. Si vede così che per « la maggior parte del tempo », i Salmi sono presi, specialmente per gli Alleluia, Offertori e Comunioni, in un ordine ascendente (Vedi Tavola, p. 844 e 845). Ma perché in questi brani del Vangelo e nei Salmi è stato preso un tal passo o un tal versetto piuttosto che un altro? Come per le Domeniche del Tempo della Settuagesima e della Quaresima, sono i libri storici letti nel Breviario che hanno determinato, per la maggior parte del tempo, questa scelta per le Messe dalla I alla XI Domenica dopo la Pentecoste. Dalla XII Domenica il ravvicinamento tra il Messale ed il Breviario, è meno apparente. Ma per restar fedele al metodo usato per le prime 11 Domeniche come per le Domeniche dalla Settuagesima alla IV Domenica di Quaresima, noi abbiamo creduto bene continuare a stabilire questo parallelismo. Noi non vogliamo con ciò dire che i rapporti da noi già stabiliti, fossero stati tutti voluti dalla Chiesa quando Ella compose il Messale, ma pensiamo che è conforme allo spirito della Chiesa Io studiare questo libro in rapporto al Breviario, poiché Essa ce li dà unitamente ogni giorno, e proponiamo una interpretazione che ci farà rivivere tutta la Storia Sacra ogni anno. Cosi il Messale insegna nello stesso tempo la Storia Sacra, la Storia di Gesù e la storia della Chiesa e, soprattutto, il dogma cattolico, e la morale cristiana nella sua applicazione pratica. Che bel catechismo! Siccome tutte le Domeniche di questo tempo si ricollegano, come è stato detto, alla festa di Pentecoste — ed ecco perché sono dette Domeniche dopo Pentecoste, — si può cercare un altro piano logico che si aggiunge a quello già esposto e viene a completarlo, facendo inquadrare quest’epoca col piano generale del Ciclo. — Lo Spirito Santo, come è stato detto (V. Commento dogmatico), dà alla Chiesa i differenti insegnamenti di Cristo. Il primo di tutti i dogmi è quello della SS. Trinità e questo dogma, lo Spirito Santo ricorda prima d’ogni altro alla Chiesa, poiché solo battezzando in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, essa deve insegnare a tutto il mondo. Ed ecco che la prima Domenica dopo Pentecoste coincide con la festa della SS. Trinità. — Ilsecondo dogma è l’Incarnazione, che ci ricorda fino alla fine dei secoli, la presenza di Gesù nell’Eucarestia; e la seconda solennità è quella del Corpus Domini. — Il terzo dogma è quello della Chiesa la cui anima è lo Spirito Santo, ed ecco che tutte le domeniche seguenti contengono allusioni allo Spirito Santo, e alla grazia che produce nelle anime che appartengono alla Chiesa, per farle sempre più intimamente spose di Cristo. « Durante questo tempo la nostra attenzione è sempre rivolta alla santa Persona divina che, mandata alla Chiesa e alle anime continua e conduce a termine l’opera redentrice ricordata dall’Avvento a Pentecoste. Grazie a questa luce, noi intenderemo meglio le pagine e le parole ispirate, scelte come letture e come canti della Messa: e ciascuna ci apparirà come uno strumento per le divine operazioni dello Spirito Santo nelleanime. Manteniamo la luce di fede che splende specialmente nelle Messe del Tempo dopo Pentecoste; senza dare alle formule di queste Messe una unità, una fisionomia precisa, questo criterio serve a produrre i frutti più preziosi di salvezza per l’anima, che lascia esplicare in se stessa l’azione dello Spirito» (Messale per tutti, LOVANIO). — Essendo poi queste domeniche destinate a rappresentare tutti i secoli che passerà la Chiesa, vi si possono vedere allusioni alle differenti età del mondo; infatti le ultime domeniche parlano esplicitamente del ritorno dei Giudei e delle grandi prove che segneranno la fine del mondo. – Infine. siccome il Tempo dopo Pentecoste è soprattutto consacrato alla Chiesa, fra le diverse domeniche destinate a conservare tutta la preminenza che spetta al Ciclo Cristologico, s’intercalano le grandi feste mediante le qualivengono ricordati i Santi che lo Spirito di Gesù ha fatti. Essi diventano da questo momento il commento vivo della parola del Maestro mettendo in pratica, durante la settimana, quello che lo Spirito Santo ha insegnato nella domenica. Il Ciclo dei Santi trova quindi in questo Tempo dopo Pentecoste tutta la sua ampiezza, pur mettendo in piena evidenza il Ciclo temporale dal quale dipende. Infatti noi qui abbiamo la festa della nascita di Maria sulla terra (8 settembre) e in cielo (15 agosto); la festa di S. Michele (29 settembre); degli Angeli (2 ottobre); la doppia natività di S. Giovanni Battista in terra (24 giugno) e in cielo, il giorno del suo martirio (29 agosto); la festa del Ss. Apostoli Pietro e Paolo (29 e 30 giugno); la festa di Tutti i Santi; la Commemorazione dei Defunti e l’Anniversario della Consacrazione delle principali chiese, simbolo delle assemblee delle anime che un giorno formeranno la Gerusalemme celeste. — Per esprimere questa speranza si usano i paramenti verdi, che ne sono il simbolo, per le Messe di tutte queste domeniche. Il verde che è l’indizio di vita nella natura, era antecedentemente assegnato agli Angeli, che erano rappresentati con aureola oppure veste di questo colore. Il verde designa anche il lavoro della vita della grazia nelle anime e perciò gli antichi dipingevano spesso la Vergine e i Santi con vesti verdi; mentre sui monumenti funerari si disegnava un ramo verde per significare l’immortalità dell’anima e la risurrezione, che sono la mèta del Tempo dopo Pentecoste. Siccome le Domeniche dopo la Pentecoste sono regolate dalla Pasqua, tra la XXIII e la XXIV, che è sempre l’ultima, si forma un vuoto che è riempito con le Domeniche dopo l’Epifania (6a, 5a e 4a e qualche volta anche la 3a dopo l’Epifania) che non furono celebrate. Di modo che, a seconda della Pasqua, si possono avere durante l’anno da 23 a 28 Domeniche dopo Pentecoste.
L’ astrologia
giudiziale non si può né anche fondare sull’esperienza.
I. Le fiere più maliziose sogliono alle lor tane formare due bocche, le
quali se da’ cacciatori non sono serrate a un’ora, vana è la caccia. Dopo aver
pertanto all’astrologia chiusa una porta della sua tana, che è la ragione, vantata
a torto, conviene incontanente chiuder l’altra, che è l’esperienza: tanto più
che da questa si fida più di scappare la maliziosa ove le riesca.
I.
II. E indubitato che qualunque esperienza si conseguisce colla induzion di più casi particolari tra loro simili, i quali danno la regola universale, madre dell’arte; e l’induzione, come il filosofo insegna (Arist. metaph. 1. 1. c. I . eth. 1. 6 c. 4), vuol decorso lungo di tempo: che è la cagione onde i giovani ne son privi. Dican però gli astrologi, che esperienza sia mai la loro di lungo tempo? A lasciare andare le favole, Tolomeo riduce le prime prove di una tal arte ai caldei, usi di vivere anticamente all’aperto, per osservare gli andamenti anche minimi delle sfere. Ma i caldei non osservarono altro più che i moti solari ed i moti lunari: e poco attesero a quei degli altri pianeti, come si raccoglie da Ipparco, il quale spogliò per sé tutti i loro fondachi (V. Gassend. tom. 1. 1. 6. c. 1). Eppure quelle osservazioni medesime furono da’ caldei formate alla grossa (come avviene in tutti i principii delle arti), sì perché ancor non avevano altri istrumenti, che mastini e malfatti, sì perché quelli malamente adattavano alle misure (V. Sext. Empir. 1. 1. in mathem. c. 21): onde chi può dire gli errori corrotti in essi, non pure da Tolomeo, ma da tutti i seguenti astronomi, che sulle tavole, formato poi da lui più distintamente, si tennero lunga età per non ire a fondo?
III. Senonchè neppur esse bastarono a preservarli da un generale naufragio,
mentre fino al passato secolo tutti al pari, con presupporre che le sfere de’
cieli fosser concentriche, si appoggiarono ad un sistema, convinto ormai e condannato
ad evidenza per falso.
IV. E pur v’è di più. Perchè l’età nostra, portando il guardo per mezzo del
cannocchiale fin sulle sfere più alte, ha scoperto un nuovo cielo, dirò così,
dentro il cielo antico: scoperte stelle senza numero, o massimamente nella via
lattea (che per la gran moltitudine che ne accoglie non può non formare una
costellazione più attiva di qualunque altra): scoperte ne’ pianeti stessi nuove
apparenze, nuovi compagni, nuovi corsi, non più notati che a variare
gl’influssi buoni o maligni de’ suddetti pianeti, sicuramente possono molto
più, che non può il semplice luogo, considerato sol dagli astrologi nelle loro
calcolazioni, o piuttosto finto di un zodiaco posticcio, qual è uno zodiaco fuori
del cielo stellato; e scoperte soprattutto macchie vastissime in faccia al sole
per cui, quando ancora le osservazioni antiche fossero esatte, verrebbero a
scapitare infinitamente di autorità: perciocché essendo queste macchie solari
come nuvole immense, riputata taluna eguale a tutta l’Europa (Blancan. in
sphaera 1. 10. c. 25), chi può spiegare quanto a quel gran corpo di fuoco, cui
stanno opposte, rifrangano la sua possa, con alterare tutti gli effetti sullunari
a gran segno? che però a quegli anni, in cui tali nubi sono comparse più
smisurate o più stabili, il nostro mondo inferiore ha goduta una state molto
più mite, standosi quasi all’ombra di quello sì vaste tende; come per
contrario, non essendosi dopo le comete insigni, vedute più in volto al sole per
qualche tempo simili macchie, i mesi estivi sono corsi più accesi, e le stagioni
più asciutte. Ora, non pure gli astrologi da principio non osservarono nulla di
tutto ciò, ma né anche ne fan parola addì nostri come dovrebbero, dappoiché il
Galileo, primo discopritore, non di una terra incognita, ma di un cielo, ce ne
recò le novelle. Che esperienze però son coteste loro? Bisogna prima fermar
come stian le sfere, e dipoi fondarvi i discorsi.
V. Ma questo è ‘l bello, che ne’ caldei tutti gli astrologi notano gravi abbagli quanto al sistema de’ cieli, e in un protestano di non volersi dipartir da’ caldei nelle loro regole. Così fa Tolomeo
medesimo (Alex, de Ang. 1. 4. in astrol. c. 4). Ed il Cardano, che vantasi di
avere rialzata l’astrologia dalle sue rovine con gloria maggiore che non sortì
il Fontana dal rialzarne l’obelisco sì bello del Vaticano, riconosce Tolomeo
qual principe degli astrologi; eppure non solamente gli appone abbagli gravissimi
sopra i moti del sole e della luna, due pianeti i più validi ad operare; ma di
quattro falli, i più solenni nella sua professione, che sono falsa ratio,
falsa computatio, falsa observatio, falsa temporum enumeratio (Sect. 1.
aph. 71), lo dichiara reo de’ due ultimi chiaramente: quasiché i due ultimi non
si tirino dietro ancora i due primi. L’onore istesso fa egli a Giulio Firmico,
pronunciando che fu uno sfacciato e uno stolido: l’istesso all’Albumasarre,
1’istesso all’Albubater, l’istesso al Bonato, maestri sommi: laddove quelli che
sono poi succeduti al Cardano, tacciano lui di aver errato, qual uomo audace,
all’ingrosso, anche ne’ primi principii. E così leggasi il Bellanzo, il Pighio,
il Pontano, il Nifo, i l Gaurico, il Giuntino, il Vossio, o sia chi si vuole,
non troverassi un astrologo, il quale non danni l’altro d’ignorantissimo, di
venale, di vano, di trascurato (Al. de Ang. 1. 4. c. 2). Che però dov’è
l’esperienza di sì grand’arte, se in lei non v’è chi seguire con sicurezza,
dacché ella nacque?
VI. Almeno fosse vero, che quelle prove alquanto legittime che si fossero tolte per lo passato,
potessero adattarsi al tempo presente. Ma non si può. Conciossiachè avanzandosi
le stelle fisse col moto proprio dall’occidente verso l’oriente, fino ad un
grado, nello spazio di settantadue anni e quattro mesi; ne segue, che oggi abbiano
in cielo un posto diverso assai da quello che occupavano al tempo de’ primi
osservatori de’ loro corsi (Ricciol. Almag. 1. 4. c. 14): tanto che la prima
stella d’ariete, collocata nel destro corno, era, duemila anni sono, nel primo
grado dell’istesso ariete, ed ora è nel vigesimonono: e il simile è di più altre
(Alex, de Angel. 1. 4. c. 21). Pertanto, cambiato il luogo, di cui i giudiziari
fanno così gran caso, vengono a cambiarsi le declinazioni e le altezze
meridiane, e conseguentemente ancora gì’influssi, come apparisce nel sole, sì
differente ne’ suoi effetti la state da quello che egli è di verno, per la mera
diversità di quel posto che tiene in cielo. Sicché non essendo l’ottavo cielo
tornato anco nella positura medesima che ebbe al tempo de’ suoi primi osservatori,
né potendovi ritornare (come dimostrasi) se non in capo ad anni, per lo meno
ventottomila; qualunque prova che adducasi da’ moderni, sarà una prova singolare,
e pero non atta a meritarsi nel tribunale della sapienza fede maggiore di quella
che si meriti nel tribunale della giustizia la testimonianza d’un solo: Unus
testisnullus testis. E posto ciò, chi non vede, per
conclusione, che da più prove simili non han potuto gli astrologi cavar finora
una regola universale, su cui tenersi nelle loro natività? E se non hanno una
regola universale, come possono dunque alla professione che fanno dar nome
d’arte? Ella al più è giuoco semplice di fortuna, non è induzione; mentre non ha
potuto finora avere per sua guida l’esperienza, ma salo il caso: Experientia
facit artem,inexperientia casum.
II.
VII. Che se non l’ha potuta avere finora, la potrà forse avere da ora innanzi? Questo è il peggio: che non potrà: onde se l’astrologo non vuole andare alla caccia dell’ombra propria, che
quanto più si segue, tanto più fugge, meglio è che lasci l’impresa.
VIII. I moti di Mercurio e di Marte (che sulle scene de’ genetliaci fanno le prime parti come quelli da
cui dipendono gli affari più rilevanti della pace e della guerra), né finora sono
ben palesi a veruno, né possono essere. Mercurio si dilunga così poco dal sole,
che i più valenti e i più vecchi astronomi appena si potranno dar vanto di
averlo veduto in vita loro due volte. Marte poi è così strano ne’ suoi viaggi,
che fu creduto dagli antichi talora quasi esule dalla patria, cioè dal suo
cielo (Ricciol. Almag. t. 1. in praef. pag. 14). Certa cosa è, che Ticone (il
quale nel contemplare le stelle parve un’intelligenza terrena emula delle
celesti che le governano) afferma, non potersi per via delle tavole usate saper
le congiunzioni di Marte con Saturno più esattamente, che con pericolo di dare
lo spazio di tre o quattro giorni di là dal vero ( L . de nova stella). E tuttavia
gli astrologi assegnano non solo il giorno e l’ora, ma sino il minuto preciso di
tal congiunzione, per adattar bene le cuspidi delle loro case celesti (come ad
uno di loro rimproverò l’istesso Ticone) (Ib. Contra Appian.). formandosi gli
antichi il cielo a lor modo, quasiché nessuno abbia mai da riconvenirli.
IX. Queste medesime difficoltà s’incontrano più o meno, nel divisare gli
andamenti degli altri pianeti ancora: donde nasce il tanto variare che fanno
nelle loro effemeridi gli astronomi, benché dotti: nasce il non accertare per
appunto nelle predizioni delle ecclissi, in cui spesso discordano le loro
tavole l’ore intere; e nasce la necessità che v’è stata perpetuamente di
riordinare ad ora ad ora il calendario non mai ben fermo. L’incostanza degli anni
è quella che ha portata una tale necessità, non si può negare: ma l’incostanza
degli anni ecco donde viene: dal non essersi mai finora potuto arrivare il
punto preciso dell’equinozio vernale, che è quello da cui piglia l’anno astronomico
il suo principio. So però non si può sapere appunto l’ingresso che fa il sole
ne’ propri segni, come si potrà saper quello che facciano ne’ loro gli altri
pianeti di lui più occulti? E se non si sa tale ingresso, su che stabiliranno
gli astrologi l’esperienze de’ loro superbi annunzi? Potrà definire in qual
grado, in qual particella, in qual punto i pianeti si trovino di alcun segno
chi non sa quando fu il passaggio lor preciso dall’uno all’altro?
X. Diranno che non è di necessità una cognizione sì esatta di tali tempi e di tali trasmigrazioni, ma che bastane una morale. Questa risposta, che par sostegno da reggere la fabbrica già cascante, è nondimeno un ariete a finir di rovinarla. E che sia tale:
XI. Uno de’ più solenni argomenti a discredito di quest’arte è la diversissima fine che ordinariamente
sortiscono due gemelli nati ad un’ora. Di questo argomento si valse Tullio (L.
4. de Div.) coll’esempio di Proclo e di Euristene, signore de’ lacedemoni, pari
nel nascere, e dissimigliantissimi sì nel vivere, si nel morire: e più
acutamente se ne valse il grande Agostino (L. 5. de civ. c. 6), coll’esempio di
due gemelli, diversi ancora di sesso: ed uno, che, tolta moglie, lasciò la casa
per andare alla guerra; l’altra vergine, data a guardar la casa. Se dunque fosse
vero quello che è primo principio de’ genetliaci, cioè che al primo momento
dell’uscir fuori la creatura dall’utero, le stelle natalizie v’improntano i
loro influssi per tutto il tempo avvenire, come il sigillo improntasi in una
cera: se fosse, dico, ciò vero, converrebbe che i due gemelli sortissero senza
divario un destino stesso sino alla fin della vita. Ma per lo più succede tutto
l’opposto: dunque conviene che sia falso il principio su cui i genetliaci
fondano le avventure.
XII. Lo scudo che essi oppongono a sì gran lancia, fu il pensier sovvenuto a
Nigidio Figulo, pensiero a lui così caro per la invenzione, che ne pigliò fino
il nome, qual Scipione dall’Africa debellata. Entrato Nigidio nell’officina di
un vasaio, mentre il vasaio volgeva appunto la ruota più fortemente, la segnò due
volte con due velocissimi tratti di tinta nera che aveva in mano, e fattola poi
restare, fè vedere agli astanti, che que’ due segni, benché impressi quasi ad
un attimo, erano tuttavia ben distanti l’uno dall’altro, per la celerità della
ruota nel suo girarsi. Così disse egli, addiviene nel rotarsi de’ cieli tanto più
rapidi. Quel breve tempo che si frammette nel venire i due gemelli alla luce
(quantunque immediatamente l’un dopo l’altro) è la cagione della diversità che
poi passa nel loro vivere.
XIII. Ora per veder quanto male a loro difesa si vagliano i genetliaci di
questa ruota, quasi di fatata rotella, rispondano a Favorino filosofo, che
presso Gellio (L. 14. c. 1) gl’interroga di tal guisa: Se uno spazio sì breve, qual
è quello che si frappone nel nascimento di due gemelli, è di sì alto rilievo,
che basta a collocarli sotto un fato sì differente; com’è possibile, che gli astrologi
dalle stelle natalizie possano mai saper nulla degli accidenti futuri a verun
mortale, mentre non possono mai sapere accertatamente la positura di tali stelle
nell’atto della natività la quale non può avvenire in sì breve tratto, che in
breve non abbiano già quello seguito a correre più che la ruota di qualsisia
vasellaio: o molto meno possono innalzare il tema di detta natività sulla
relazione che sian per darne i genitori, le mammane, i medici, o qualunque
altro che fosse assistente al parto: né si può fare mai diligenza che basti a
rinvenire questo momento fatale, senza scambiarlo, massimamente in tanta
dissension di orologi non mai concordi; eppure un momento che sia pigliato per
l’altro, benché immediato, fa tanto svario! Così non intendono gli astrologi,
che ad un architetto di castelli in aria non basta l’avere ingegno, vi vuol
memoria. Di sopra dicevano essi, che a’ loro assiomi non è necessaria una cognizione
esattissima de’ minuti e de’ movimenti, bastandone una morale; ed ora dicono che
la diversità d’un momento solo cagiona ne’ gemelli effetti così contrari, non
che diversi : Oportet mendacem esse memorem. Se avessero tal
memoria, non oserebbero certamente di far gli oroscopi, non solo ai bambinelli,
ma alle città. E non veggono essi quanti lustri vogliono a porle in piedi?
Eppure non temono di formare ad esse le loro natività: come anticamente un
certo Taruzio la fece a Roma, e come ultimamente il Cardano la fece a tante
d’Italia (a Venezia, a Bologna, a Milano, a Firenze), dappoi di avere apprese
già le loro indoli e i loro istinti, per esser più sicuro d’indovinarli : 0
vim maximam erroris, dicea però bene Tullio (L. 2. de div.) montato in
ira: Etiamne urbis natalisdies ad vim stellarum pertinebat
? Fac in pueroreferre ex qua affectione cœli primum spiritumduxerit: num hoc in latere, aut cæmentoex quibus urbs
effecia est, poterit valere?
III.
XIV. Ma, dacché tutto il saper loro si fonda sull’esperienza, dicano inoltre:
da quale esperienza si conducono essi ad argomentare il tenor del vivere ed il
tenor del morire, dal solo punto del nascere, mentre l’esperienza ci fa vedere
in contrario, che tanti entrati nel mondo sotto oroscopi diversissimi, ne
escono tuttavia coll’istesso fine? Mi spiegherò. Muoiano oggi due uomini, l’uno
in acqua, l’altro di spada: se voi consultate gli astrologi (tanto felici a
rinvenire ciò che fu, quanto infelici a dir ciò che sia per essere), vi
troveranno subito donde avvenne. Chi naufragò, dicon essi, sortì nascendo la
secchia dell’acquario per ascendente: e chi ferito morì in battaglia, sortì la
punta acutissima della freccia del sagittario (V. Miletto 3. curs. math. de
astr. prop. 9). Fermi le risa chi può, e passi ad addimandare: certo è, che
pochissimi appo gli astrologi son gli aspetti significatori di morte in guerra,
o di morte in acqua, Postò ciò, quando nel secolo passato 1’armata navale cristiana,
rompendo la turchesca di Selimo II, tinse il mare di sangue maomettano, ed empì
le spiagge vastissime di cadaveri, dobbiamo noi credere che tutti quei
musulmani, periti di ferro fossero stati al nascer loro feriti dalla cuspide
del sagittario, e tutti gli affogati nell’onde fossero nati coll’urna in capo
di acquario? Non si può dire che sì, perché in tanti natali differentissimi
sarebbe stoltizia volerselo divisare. Adunque diversi oroscopi nel nascere portano
ad un medesimo termine nel morire.
XV. Senonchè per difendere una falsità minore con una maggiore, sognano essi certe rivoluzioni
universali, che tirandosi dietro a forza gli oroscopi particolari, stravolgano
loro il corso: come farebbe ad una nave bene avviata dal vento in poppa, un
turbine improvviso ed impetuoso sorto da fianco. E queste universali rivoluzioni
portano tanti insieme, per loro detto, a perire di naufragio, di fuoco, di
ferro e di altre sciagure indebite. Ma se le stelle non sono né segni, né
cagioni degli eventi liberi o casuali, conforme abbiamo veduto, ma influiscono
al più nel solo temperamento a formare un’indole o un’inclinazione, piuttosto
che un’altra: con quali lieve svolgono le cose sossopra in queste universali
rovine? Dove s’impressero allora quelle influenze sì maligne al nome ottomano?
Nel mare nato già sei mil’anni prima? ne’legni? negli archibusi? nelle aste?
nelle spade? nelle saette? nelle munizioni? Dicasi, in che? Di poi, quando a
risposta sì capricciosa pur donisi il passaporto non meritato, ne segue dunque,
non poter mai gli astrologi predir nulla intorno alla vita ed alla morte degli
uomini; perocché sempre rimarrà a dubitare di qualche abbattimento di stelle
non preveduto, che tronchi a mezzo la tela incamminata de’ successi privati,
coll’occasione di qualche squarcio solenne, recato ai pubblici da tali
rivoluzioni.
XVI. Passiamo innanzi. Qual esperienza ha loro insegnato o potrà insegnare,
di ascrivere alle stelle, ascrivere ai segni, una man di effetti che manifestamente
debbonsi al sole? Eccone chiaro l’esempio. Ascrivono questi i caldi eccessivi
di agosto al segno del leone ed alla stella del cane unita a tal segno. Eppur nulla
meno. Conciossiachè quelle vampe che noi proviamo quando il sole è in leone,
provan gli antipodi quando il sole è in acquario: e il nostro agosto è il loro
gennaio, e il nostro gennaio è il loro agosto: cambiandosi tra loro e noi
totalmente le altezze meridiane del sole, da cui proviene la state. Quindi se il
mondo segua a vivere ancora diecimil’anni, il cane si avanzerà a nascere nel cuore
di gennaio. Vogliamo però noi credere che allora il gennaio debba essere sì
cocente, come or l’agosto nei giorni canicolari, perché il cane è focoso di sua
natura? Eppure così avverrebbe se fosse vera quella distribuzione che fanno gli
astrologi di segni ignei e di stelle che buttan fuoco. Qual dubbio dunque che ingiustissimamente
attribuiscono essi alle stelle, qual parto suppositizio ciò ch’è del sole, e che
però troppo sono da dileggiarsi, quando per la congiunzion de’ pianeti in
questi segni ignei, pronosticano incendi sì spaventosi?
XVII. Senonchè non è certo, che tali segni sono tutti fantastici? E come dunque un puro nome avrà forza di operare le più strane cose del mondo? Eppure così è. Distinguono i genetliaci prima il cielo in dodici parti, e danno a questo il nome di case, in cui riconoscono poscia tanto di forza, che un pianeta buono in una casa cattiva divien dannoso, e un pianeta cattivo in una casa buona divien propizio; quasi che qualunque pianeta sia come il pesco, che piantato in Persia è veleno, trapiantato in Italia si dà per cibo: Posuit translatavenenum (V. Millet. 10. 3. curs. mat. propos. 3. astr. Alex, de Ang. 1. 4. c. 19. et 1. 4. c. 6). La prima casa, situata all’oriente, dicon essere della vita: e perché, dopo la vita nessuna cosa amasi più della roba; danno la seconda al guadagno: e perché la roba porta gli amici in copia, danno la terza agli amici: e perché la quarta è nel posto principale, detto imo cielo, danno la quarta ai padri, al patrimonio ed a tutto ciò che provenga felicemente da eredità: e perché per questa sogliono star bene i figliuoli, danno la quinta ai figliuoli, intitolandola dalla buona ventura, promessa quivi da Venere; e perché nella sesta, finta sull’occidente scorgono Marte, danno la sesta alla fortuna sinistra, con farla significare i servi e le serve, e le cadute sì orride ai cortigiani; e perché dopo gl’ineguali succedono ben gli eguali, danno la settima alle nozze, in cui godesi l’eguaglianza; l’ottava, scorta da un malefico raggio non aspettato, viene attribuita alla morte già imminente; la nona alla pietà, perché quel luogo, secondo loro, è prossimo al sommo cielo; la decima agli onori, perché è nel mezzo; l’undecima al genio buono, perché v’è Giove: la duodecima finalmente al cattivo, perché così loro aggrada: che è la ragione anche vera di tutto il resto. Voi che leggete, udiste mai zingaresca più dilettevole? Veramente non vi abbisognano catapulte, quando si tratti di abbattere case tali, fondate in aria. Contuttociò domandate prima agli astrologi, perché ripartiscano il cielo in dodici case e non più: non han che rispondervi, mentre la divisione è affatto arbitraria. Gli auguri antichi lo ripartivano in sedici (Tull., de div. 1. 2). Quanto a me io vorrei ridurre tutte queste case a due semplici appartamenti, ed allogarne uno alla temerità di chi propon queste ciance come misteri, l’altro alla leggerezza di chi le crede.
XVIII. Oltre a ciò, non solo gli astrologi disconvengono in tal partizione dagli auguri; ma né anche convengono ben tra loro; perché alcuni nel disegno di case tali seguono l’architettura di Tolomeo, altri quella degli arabi, altri quella dell’Alchibizio, altri quella del Cardano, altri quella del Montereggio (Ap.Ricciol. Almag. 1. 1. c. 14): donde segue, che avendo ciascun di loro una canna diversa per misurarle nell’assegnazion de’ confini, quel pianeta che starà ad albergare nell’undecima casa secondo un ordine, e significherà buoni amici, starà secondo l’altro ad albergare nella duodecima, e
significherà prigionia.
XIX. E poi, che sono queste case celesti? Forse palazzi incantati? Sono tante parti di cielo al tutto
omogenee, cioè ciascuna della medesima qualità, pura pura, di cui son l’altre. Or
come dunque la quinta casa ha da stimarsi della buona fortuna, e ha però ad
esser colma di piaceri, di conviti, di conversazioni, di musiche e di regali: e
la sesta, che è la contigua, dirò così, a muro a muro, ha da ricettare non
altro che malattie, che mestizie, che avversità? Idem manens idem, semperfacit idem. Se però gli astrologi non vogliono abusare indiscretamente
la credulità popolare, conviene che dimostrino donde mai da un corpo unico ed
uniforme ha da provenire questa diversità d’influenze così contrarie, che nel
medesimo tempo piova su l’uno aconito, su l’altro ambrosia.
XX. L’istesso dite de’ segni dello zodiaco meri nomi e mere partizioni ad
arbitrio; e tuttavia, se si volesse prestar fede alle chiacchiere, questi sono
i primi ministri nel governo di tutte le cose inferiori, mentre vogliono che
l’efficienza delle stelle sia promossa, sia rattenuta, o sia talora tramutata
in contraria dal segno in cui si trova ciascun pianeta. Ci dicano dunque
cotesti interpreti delle cose celesti, che sia questo zodiaco sì misterioso per
li suoi segni?Non è altro, che il sommo cielo, diviso non dalla
natura, che l’ha fatto tutto di un modo, ma dall’astronomia, che l’ha cosi ripartito
in tante intersecazioni mentali per favellarne con legge (Alex, de Ang. 1. 4.
c. 22). Adunque come non si vergognano i genetliaci di attribuire effetti così diversi
a quella parte di mondo superiore, che in sé non ha veruna diversità, per
minima ch’ella sia, ma l’ha soltanto nella fantasia dei mortali? Queste parti,
che neppure sono parti reali, come son le membra dell’uomo, ma un tutto sempre
somigliante a se stesso, da ciascun lato, com’è un cristallo; queste, dico, potranno
affatto disgiungersi con chiamarle altre maschie, altre femmine, altre diurne, altre
notturne, altre lucide, altre tenebrose, altre stanti, altre pellegrine, e
queste medesime avranno sopra i costumi degli uomini, e le lor sorti, tanto
differente potere, che possa affermarsi ciò che sì sfacciatamente scrive il Cardano
(L. 2. de revol. c. 11). Si ascenditaries, erit natus in
timore mortis violentæ; sitaurus, ægrotabit ex libidine; si
gemini, sollicitabiturin perquirendis secretis; si cancer,erit amator rerum publicarum ? E fin a quando i deliri si venderan
dagli audaci a prezzo di oracoli, e si compereran dagl’insani?
XXI. Una pari temerità mostrano questi falsari nel determinare gli effetti
delle costellazioni pur ora dette, avendo usurpate le favole de’ poeti per
fondo da lavorarvi i punti in aria delle loro vaticinazioni bugiarde. Guai al
parto, dice il Cardano, cui servano di ascendenti due pianeti congiunti in
pesce: nascerà muto: quasi che l’altre stelle avessero voce da farsi intendere
(Alex, de Ang. 1. 2, c. 10). Perché non afferma, che chi nascerà sotto il granchio
, avrà all’andare otto gambe invece di due, e quattro chi sotto il capricorno,
o sotto il centauro? Guardati, disse altrove l’istesso autore, guardati di non
pigliar medicina quando la luna è in toro. E perché? Notisi l’ingegno profondo.
Perché lo stomaco non terrebbela, ma come il toro, dopo aver mangiato, richiama
alla bocca il cibo, e torna a ruminarlo; così tu saresti costretto a rigettar la
bevanda salubre con tua gran pena. Ma piano, che il toro richiama il cibo alla
bocca, non vi richiama la medicina. Adunque dirò io, quando la luna è in toro,
guardati di non pigliar cibo, perché lo vomiterai: anzi non meno
guardati di pigliarlo quando è in montone, perché il montone anche rumina
quanto il toro. Eccovi gli assiomi de’ giudiziari (Id. 1. 4. c. 13): e secondo
questi udirete, che la spiga in mano della vergine sia feconda di agricoltori:
che la lira produca musici valentissimi; che la nave d’Argo sbarchi dall’alto nocchieri;
che la corona piova diademi in capo ai re, che lo scorpione empia le case sotto
lui fabbricate di scorpioni, impossibili a disnidarsi, ed altre sì fatte
inezie, per cui è di stupor grande, che gli astrologi incontrandosi per le vie,
possano mai fra loro tener le risa, come Catone soleva dir degli aruspici: Sicutdixit Cato, miravi se, quod non
rideret aruspex, aruspicem cum vidisset (Tuli.
1. 2.de div.).
XXII. Per tutte queste cose, e per altre noiose a dirsi, è manifesto quanto a torto presuma l’astrologia di paragonarsi alla medicina, con chiamarsi un’arte ancor ella congetturale. Che arte congetturale, se neppure ella merita il nome d’arte, tanto è priva di ogni ragione e di ogni esperienza? o s’ella è arte, è arte di frappatoro, che spaccia per oro fino quello che neppure può vendersi per orpello; e per dir meglio, è arte da giuntatore, che, vendendo oro falso, riceve il vero, beffando i creduli con un’alchimia più vana, ma più lucrosa: Homines æruscatores, et cibumquœstumque ex mendaciis captantes (Gell, lib. 24. c. 1). Ella è un aggregato di favole e di follie, fondato tutto in analogie puerili di nessun pregio, da che si sa che in cielo non v’ha né toro, né leone, né lupo, né vergine, né scorpione, né sagittari, né pesci; ma corpi lucidissimi, intitolati altrimenti dagli arabi, altrimenti dagli egiziani, altrimenti dagli ebrei, altrimenti da’ cinesi (Montan. in astrol. devict. pag. 38). E se da’ greci anche furono già chiamati con tali nomi (introdotti, come apparisce più verisimile, parte da’ pastori, parte da’ pescatori, usi di fare la loro vita all’aperto), non da altro avvenne, che dalla usata licenza loro poetica d’innalzare sino alle stelle, non solamente gli croi della loro altera nazione, ma sin le bestie, che somigliavano colla loro figura la situazion di quegli astri. Eppure gli astrologi vi discorrono su. come se quei nomi fossero una perfetta definizione della cosa, errando più all’ingrosso di chi alle antiche piramidi dell’Egitto avesse attribuita virtù d’infuocare tutto il paese, perché esse avevano, non pure il nome, ma la figura dal fuoco.
XXIII. Nel rimanente, quando a’ pianeti vogliasi pur dare alcuna virtù reale di formare il temperamento, qual esperienza ha persuaso o potrà mai persuadere agli astrologi un impossibile, cioè, che un agente naturale possa più da lontano, che da vicino ad aiutar l’altro (a guisa di fuoco che scaldi chi più sta lontano dal cammino, che chi dappresso), o possa parimente più da lontano che da vicino a fargli contrasto: a guisa di remora, che molte miglia distante ancor dalla nave l’arresti più, che quando v’è fatta ai lati?Eppure ciò costoro asseriscono francamente, dicendo che gl’influssi di un pianeta non si avvalorano dagli influssi dell’altro, né si rifrangono, quando ambedue sono in un medesimo segno, ma solo quando, già separatisi por tratti immensi di cielo, si mirano dirimpetto, o si mirano di traverso (Alex, de Ang. 1. 4. c. 30): tanto che secondo quattro aspetti soli le stelle si aiutino l’una l’altra, o si sturbino all’operare: fuori di questi, sieno cieche al vedersi e sorde all’intendersi.
XXIV. L’istesso dicasi dell’affermar che un pianeta nell’influire, passi da un estremo all’altro oppostissimo senza mezzo. Non è ciò del tutto impossibile alla natura? Eppure Giove secondo le loro regole, mentre sta nell’ultimo grado, nell’ultimo minuto, e nell’ultimo secondo al segno di gemini, vien riputato dimorare in un segno avverso, e contrarre, dirò così, dalla rea conversazion di que’ due gemelli malnati cinque gradi di nera malignità e contuttociò nel primo minuto del tempo seguente, passando al primo principio del grado del granchio, Giove, non più vestito a bruno, ma a festa, non sì tosto ha messo il pie sopra quella soglia fortunatissima, che diviene tutto benefico
e con quattro gradi di profusa liberalità rimira ogni parto. E questo non è più
che un volerci persuader che la terra oggi sia tutta sterile, tutta secca,
quale è nella bruma algente, e stasera sia tutta gaia, tutta gioconda, qual è
nella primavera? Chi può udir cose tali senza piegarsi a compassione della
gente che vi dà retta? Eppur la stolta si lascia persuader, che le
congiunzioni, le opposizioni, i sestili, gli esagoni, i quadrati, i trini, i
trigoni, cioè null’altro che la mera corrispondenza de’ segni in una figura di
sei lati, a cagion d’esempio, più che di quattro corrispondenza che altrove
nulla opera nella natura di fisico, in bene o in male), solo in questi sette lucidi
corpi abbia tal virtù, che ora versi in seno agli uomini ogni ventura, ed ora
ad ogni passo spalanchi un precipizio sotto i lor piedi, o erga un patibolo;
tanto più che nelle linee s’intende bene, come queste vengano a costituire un
quadrato, cioè una figura di quattro angoli, o a costituire un esagono, cioè
una figura di sei: ma in corpi tante e tante volte maggiori ancor della terra,
per dir così, indivisibili, in cui finiscano quegli angoli tanto validi ad
operare?
XXV. Almeno si contentassero di affermare, che per operazioni così stupende,
prodotte da que’ punti, vi voglia assai. No: tutto si opera in uno stante:
mentre quelle figure a un tratto svaniscono col girar velocissimo delle sfere.
Eppure ciò che in uno stante operossi dura, secondo questi, tutta la vita; come
se gli uomini si marcassero dalle stelle a guisa, di puledri, che portansi poi
quel segno, malgrado loro, benché decrepiti.
XXVI. Se non altro fossero paghi di darci a credere che i pianeti più possano
all’influire, quando stan sopra l’orizzonte, che sotto. Né anche a ciò
consentono quegli assiomi, che tutto riferiscono ai puri aspetti. Ma Dio buono!
Il sole non può sensibilmente più a mille doppi in questo basso mondo, di quel
che possono tutti gli altri pianeti? E nondimeno sperimentiamo pur tutti, che
quando egli di giorno è sull’orizzonte, ci scalda in altra guisa, che quando
egli è sotto l’orizzonte, di notte. Qual esperienza dunque insegna a costoro,
che Mercurio, sì poco visibile ad osservarsi, e sì poco valevole all’operare
quando è sorto dall’orizzonte, influisca nel feto all’istesso modo che quando è
sito? Una lieve nuvola rifrange i raggi del sole, e tutto il materiale e il
massiccio del corpo terreno non potrà rifrangere ad una stella il vigore, non
potrà indebolirlo? Questo è far peggio assai che da romanzieri, i quali, se non
ci raccontano cose vere, ci raccontano almeno le verisimili. Che però
giustamente Sisto di Eminga, nobilissimo astronomo del suo tempo, dopo aver
confessato lo studio grande impiegato da lui nell’astrologia su gli anni più
freschi, conclude alfine così: Curri autem longo usu et experientia multa
doctus,rem penitus inspexissem, comperi, astrologicam doctrinam,
cui prius, antequam notaesset, impense favebam, esse
impossibilem, falsam, nulla fide dignam et inutilem, quia nullahabent
rationum momenta genethliaci, solisexperimentis artem suam
constare profitentur.Expressimus iam experimenta quoque facereadversus genethliacam. Restat, ut omnium scriptorium libri, omnes hominum ordines, omniumgentium linguœ
astrologiæ loquantur vanitatem (Sixt. ab Hem. in gen. Caroli V. ap. Alex, de Ang. 1. 5. c. 16 in fine).
IV.
XXVII. Ma che? verissimo è il detto di santo Ambrogio (L. 4. in hex. c. 4): La sapienza de’ genetliaci è tutta in ordire una gran tela di ragno, la quale può ben prendere ogni meschino con sicurezza, ma non può vantarsi di avere mai finora arrestata un’aquila. Che voglio dire? Cervelli deboli di leggeri si trovano andar perduti dietro una scienza sì vana (Se l’astrologia genetliaca è arte di cervelli deboli, non pregiata da verun forte intelletto, non metteva proprio conto, che l’autore l’avesse presa così in sul serio a confutare). Ma quale intelletto forte la pregiò mai! Socrate la dannò come temeraria. Pitagora e Platone, che nell’astronomia studiarono tanto, dell’astrologia non fecero un caso al mondo. Aristotile, quell’uomo sì prodigioso nel render la ragione di tutte le cose, anche più riposte, la curò sì poco, che neppure degnò di farne menzione in verun suo libro né fisico, né morale (Ap. Euseb. 1. 14. de praep. Ev. c. 4). Cicerone (L. 2, de div.) savissimo la derise, ad imitazione di quegli uomini eccelsi, da lui lodati, che, benché peritissimi delle stelle, la dileggiarono. Ippocrate, Galeno, Avicenna, Porfirio, Plotino, Teofrasto, che furono i più dotti de’ loro secoli, certa cosa è che l’ebbero tutti a vile, come han poi fatto concordemente gli astronomi più moderni, arricchiti dal tempo di maggior lume (Perer. in Gen. 1. 2). Sicuramente fra questi può Ticone valore per uno stuolo. Eppure dopo ogni prova, egli dispregiò l’astrologia come vana, e gli astrologi come vaneggiatori (Gassenno in vita 1. 7). E l’unico Tolomeo che la professò tra gli uomini grandi, non la professò per la stima che mai ne avesse, mentre in più luoghi ( L . 1. de iud. cap. 1. Centiloq. sent. 1. et 5. Quadripart. 1. 2). ancor egli l’abbattè poco men che da’ fondamenti: la professò per bisogno: poiché veggendo egli il tenue guadagno che ritraeva dall’astronomia, nella quale era versatissimo, applicossi all’astrologia, volendo, come disse il Cheplero, che una figliuola stolta, qual è l’astrologia, alimentasse una madre savia, qual è l’astronomia: madre che l’avea data al mondo, qual legittimo parto, non può negarsi; ma parto degenerante, quando a poco a poco, da astrologia naturale, ella tralignò in astrologia giudiziale.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 141
Intellectus David, cum esset in
spelunca, oratio.
[1] Voce mea ad Dominum clamavi, voce mea ad Dominum deprecatus sum.
[2] Effundo in conspectu ejus orationem meam; et tribulationem meam ante ipsum pronuntio.
[3] In deficiendo ex me spiritum meum, et tu cognovisti semitas meas; in via hac qua ambulabam absconderunt laqueum mihi.
[4] Considerabam ad dexteram, et videbam, et non erat qui cognosceret me: periit fuga a me, et non est qui requirat animam meam.
[5] Clamavi ad te, Domine; dixi: Tu es spes mea, portio mea in terra viventium.
[6] Intende ad deprecationem meam, quia humiliatus sum nimis. Libera me a persequentibus me, quia confortati sunt super me.
[7] Educ de custodia animam meam ad confitendum nomini tuo; me exspectant justi donec retribuas mihi.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXLI.
In questo Salmo si dichiara la prudenza di Davide, che rifugiatosi nella spelonca di Odollam, in prossimo pericolo di morte, trovò saviamente il granrimedio del rivolgersi a Dio. Si riferisce il Salmo, in senso più alto, a Cristo che prega nell’orto, edè abbandonato in
Croce.
Salmo d’intelligenza di David quando era nella spelonca. Orazione.
1. Alzai il suono delle mie grida al Signore; alzai la mia voce per chieder soccorso al Signore.
2.
Spando dinanzi a lui la mia orazione, ed espongo ai suoi occhi la mia
tribolazione.
3.
Mentre vien meno in me il mio spirito, e le mie vie son conosciute da te.
4.
In questa via, per cui io camminava, hanno occultato per me il laccio.
5.
Me ne stava pensoso mirando a destra, e non era chi avesse di me conoscenza.
6.
Ogni scampo mi è tolto, e non avvi chi abbia pensiero dell’anima mia.
7.
Alzai le mie grida a te, o Signore; dissi: Tu sei mia speranza, mia porzione
nella terra dei vivi.
8.
Dà udienza alle mie suppliche, perché io son fuor misura umiliato.
9.
Liberami da coloro che mi perseguitano, perché sono più forti di me.
10.
Trai dal carcere l’anima mia, affinché io dia lode al tuo nome: i giusti stanno
aspettando il momento in cui tu mi sarai propizio.
Sommario analitico
David, nascosto nella caverna di Odollam, riconosce che non c’è nulla da aspettarsi dagli uomini, e che non spera se non da Dio la sua liberazione. La Chiesa militante, in ciascuno dei suoi membri, stanchi di una vita che non è che un duro esilio, si consola nella speranza ed offre a Dio le preghiere di coloro che li attendono e li chiamano già dall’alto del cielo.
I. Qualità della sua preghiera:
1° essa è fervente, come lo indica il
grido che innalza a Dio;
2° è umile, egli supplica Dio di
allontanar da lui il castigo che merita, per le sue preghiere (1);
3° è abbondante, effonde il suo cuore ed
i suoi desideri davanti a Dio;
4° è piena e confidente, non nasconde
alcuna delle sue ferite al Medico sovrano (2);
5° è necessaria nel pericolo di morte al
quale si trova esposto (3).
II. – Fa conoscere il triste stato nel quale i
suoi nemici lo hanno ridotto:
1° Essi lo forzano a cambiare tutti i
giorni il riparo, e a fuggire per sentieri segreti e contorti (4).
III. – Egli dichiara che pone in Dio tutta la
sua fiducia e lo supplica di esaudirlo:
1° a causa della grandezza della sua
afflizione,
2° a causa della potenza dei suoi nemici
(6);
3° a causa della gloria di Dio (7);
4° per la consolazione dei giusti che
attendono che Dio faccia loro giustizia (7).
Spiegazioni e considerazioni
I. – 1-3.
ff. 1, 2. –Non tutti elevano la voce pregando, non
tutti la dirigono verso Dio, non tutti fanno intendere la loro voce. Ora, il
concorso di queste tre cose è necessario alla preghiera. Il Profeta riunisce
queste tre condizioni: egli eleva la voce, si indirizza a Dio, e fa sentire la
sua voce (S. Chrys.). – Basta dire questo semplice: « Io ho gridato con
la voce al Signore; non è forse senza ragione che il Profeta ha aggiunto “con
la mia voce”. » Molti in effetti gridano verso il Signore non con la propria
voce, ma con la voce del proprio corpo. L’uomo interiore, nel quale il Cristo
ha cominciato ad abitare con la fede (Ephes. III, 17), deve dunque gridare
verso il Signore mediante la sua voce, non con il brusio delle proprie labbra,
ma con il sentimento del suo cuore. Ove non ascolta l’uomo, ascolta Dio; se voi
non gridate con la voce che producono i vostri polmoni, la vostra gola e la
vostra lingua, l’uomo non vi ascolta; ma il vostro pensiero è il grido verso il
Signore. Nella prima parte del versetto, vi è dichiarato il suo grido; nella
seconda, ha determinato questo grido. Come se gli si domandasse: qual tipo di
grido avete rivolto al Signore? Egli risponde: « Io ho elevato con la mia voce
delle suppliche al Signore. » Il mio grido è una preghiera; non è né un’ingiuria,
né un mormorio, né una bestemmia! (S. Agost.) – La preghiera si effonde
davanti a Dio quando sfugge poco a poco dalla sua interezza come l’acqua dal
vaso del cuore, quando, sull’esempio di Maddalena, noi bagniamo con le nostre
lacrime i piedi di nostro Signore, secondo l’invito che fa il profeta Geremia
alla figlia di Sion: « Alzatevi, lodate il Signore dall’inizio delle veglie
della notte; spandete il vostro cuore come acqua davanti al Signore » (Lament.
II, 19) – Pochi sono gli amici verso i quali si possa spandere il cuore
e rendere depositari delle pene che si provano. – Ma l’anima malata o afflitta
è vicina a Dio, dice San Gregorio Nazianzeno, e allora più che mai, noi siamo
vicini al Signore; è sufficiente offrire il nostro cuore e lasciarlo alleggerire
silenziosamente nel seno di Dio, spandere nel suo seno tutte le nostre
tristezze, tutte le nostre inquietudini: è il grido più energico, più potente e
più certo del successo. – Che significa: « Io effondo una preghiera davanti a
Lui? » Alla sua presenza? Ma cosa significa alla sua presenza? Dove Egli vede
Ma dove non vede? Perché noi diciamo dove Egli vede, come se ci fosse qualche
luogo ove non si veda. Nell’anbito delle cose corporee, gli uomini vedono ed
anche gli animali vedono; ma Dio vede là dove l’uomo non vede. In effetti non
c’è un uomo che veda il vostro pensiero, ma Dio lo vede. Diffondete dunque la
vostra preghiera là dove vede solo Colui che vi ricompensa; perché il Signore
Gesù-Cristo vi ha prescritto di pregare in segreto, e se sapete riconoscere la
camera del vostro cuore, destinato alla preghiera, a purificarla, è là che voi
pregate Dio. (S. Agost.).
ff.
3.
–«Quando il mio spirito era pronto ad
indebolirsi. » Là dove gli spiriti pusillanimi trovano occasione di caduta ed
ingiuste recriminazioni, il Salmista si ispira alla più alta saggezza, perché è
stato istruito alla scuola dell’avversità (S. Chrys.). – « Ma voi non conoscete i
miei sentieri. » Quali sono questi sentieri, se non le vie di cui è detto
altrove: « Il Signore conosce la via dei giusti e la via degli empi sarà
distrutta? » (Ps. I, 6). Non è detto: il Signore non conosce che la via degli
empi, ma: « Egli conosce la via dei giusti, e la via degli empi sarà distrutta,
» perché ciò che Dio non conosce, perisce. In molti passaggi delle Scritture,
noi troviamo che per Dio, conoscere è conservare. Conoscere in Dio, è conservare,
non conoscere, è condannare. Perché in effetti, Colui che conosce tutte le cose
dirà alla fine del mondo: « Io non vi conosco. » (Matth. VII, 23). Che i
peccatori non si rallegrino e si guardino dal dire: Noi non saremo puniti,
perché il Giudice non ci conosce. Essi sono già puniti se il Giudice non li
conosce. Queste vie che il Signore conosce sono dunque gli stessi sentieri di
cui il Signore dice: « Voi conoscete i miei sentieri; » perché ogni sentiero è
una via, ma ogni via non è un sentiero. Perché dunque queste vie sono chiamate
sentieri, se non perché esse sono strette? La via degli empi è larga, la via
dei giusti è stretta. « Voi conoscete i miei sentieri; » Voi sapete che tutto
ciò che io soffro per Voi, lo soffro per amore; Voi sapete che è la carità che
mi fa sopportare tutto; Voi sapete che se io offro il mio corpo per essere
bruciato, io ho la carità, senza la quale questo sacrificio non serve a nulla
all’uomo. Ma, chi conosce queste vie dell’uomo, se non colui al quale è detto
con tanta verità: « Voi conoscete i miei sentieri? » In effetti, tutte le
azioni umane si svolgono sotto gli occhi dell’uomo; ma chi sa con quali
intenzioni del cuore esse si fanno? E quanti empi vi sono che, secondo la
misura che prendono da se stessi, pretendono che noi cerchiamo nella Chiesa
degli onori, delle lodi, dei vantaggi temporali! Quanti ve n’è che dicono che
vi parlo per attirare i vostri applausi e le vostre lodi, per cui sia questo lo
scopo nel parlarne! E come provare loro che io non parlo con questa intenzione?
Io non ho altra risorsa che dire al Signore: « Come questi uomini saprebbero
che Voi non sappiate? Come saprebbero ciò che pur io so appena a malapena?
Perché io non mi giudico da me stesso, ma è il Signore che mi giudica » (I
Cor. IV, 3 e 4), (S. Agost.). – Non è da lontano, è da
vicino che il demone ci tende insidie che dissimula con cura; così ci è
necessaria la più grande vigilanza per scoprire queste insidie che ci nasconde,
la vanagloria nelle elemosine, la fierezza presuntuosa nei digiuni e nelle
buone opere. Questo non accade, lo vedete, nei cammini che ci sono estranei, ma
in quelli in cui noi camminiamo, ed è ciò che ci rende il pericolo ancor più
terribile. (S. Chrys.). – La via in cui si avanza il Cristiano fedele, è il
Cristo; è là che è stato teso un laccio dagli uomini che perseguitano coloro che
sono nel Cristo, in odio al nome di Cristo. … perché in effetti, questo furore contro di me? Cosa
perseguitano in me? Il mio titolo di Cristiano. Se dunque perseguitano in me il
mio titolo di Cristiano, essi mi hanno teso segretamente un laccio nella via in
cui avanzavo. (S. Agost.).
II. — 4
ff. 4. –Questo è il carattere degli uomini del
mondo: essi fanno mille proteste di amicizia verso coloro dai quali attendono
qualcosa, ma non li conoscono più se sono caduti in qualche disgrazia. Dio solo
è il nostro vero amico, Egli non ci conosce meglio di quando ci vede
abbandonato da tutti. (Duguet). – « La fuga mi è divenuta
impossibile. » Questo è un ulteriore accrescimento di infelicità. Non solo
insidie lungo il cammino, nessuno che gli porti soccorso, nessuno che lo
riconosca, ma anche la sola risorsa residua gli viene tolta, egli non può
cercare la sua salvezza se non nella fuga. (S. Chrys.).
III. — 5-7.
ff.
5-7.
–– In una situazione
di così grande estremità, in questa assoluta privazione di ogni mezzo di
difesa, si dispera della propria salvezza? No, egli si rifugia subito tra le
braccia di Dio e gli dice: « Io ho gridato verso di Voi, Signore, ho detto: Voi
siete la mia speranza e la mia parte nella terra dei viventi. » Ecco un’anima
veramente vigilante; le sue sventure, invece che abbatterlo, gli danno delle
ali per elevarsi, e fin anche in questa estremità in cui ogni speranza sembra
perduta, riconosce la mani invincibile di Dio, la sua potenza sovrana e la
facilità con la quale ci strappa ai pericoli più grandi (S. Chrys.) – Come Dio può
essere la nostra eredità – si chiede San Agostino – ? Perché ci sia eredità,
bisogna che colui da cui si erediti, sia morto; e quando la morte potrà
trovarsi in Dio? Questo accade – risponde – quando Dio, conosciuto quaggiù come
un enigma e nascosto sotto il velo della fede, si manifesterà pienamente a noi,
e lo vedremo così com’è. Ma se noi dobbiamo essere in tal modo degli eredi di
Dio, occorre che Dio anche sia il nostro erede, e non debba possedere questa
eredità se non quando noi saremo morti al mondo, ed il mondo sarà morto per noi
(Berthier).
– La vita presente, è terra dei morenti, piena di afflizioni e di croci; la vita
futura, è la terra dei viventi, della felicità e della gioia, che deve essere
nostra parte per sempre (Dug.). Doppio è il motivo della
preghiera che il Re-Profeta fa a Dio di liberarlo: l’eccessiva umiliazione alla
quale si è ridotto, ed il folle orgoglio che ha dato ai suoi persecutori il
trionfo della loro forza sulla sua innocenza. – Niente è più degno della bontà
e della potenza di Dio che l’essere la forza ed il liberatore dei deboli
oppressi. È la forza di questi deboli il ben sentire la loro debolezza, così come
è la debolezza di questi forti e potenti di abusare della loro forza e della
loro potenza contro coloro che non possono resistere loro se non con le loro
preghiere ed i loro gemiti (Duguet). – « Traete la mia anima
dalla sua prigione, » questa preghiera ha più di un oggetto, nello spirito del
Profeta, la liberazione dal suo corpo mortale, la sua evasione dalla caverna di
Odollam. L’Apostolo diceva nello stesso senso « … chi mi libererà da questo
corpo di morte? » I santi avevano bisogno di tutta la loro sottomissione alla
volontà divina per sopportare pazientemente il lori esilio in questa vita.
Bisogna nondimeno riconoscere che la nostra anima è talmente imprigionata in
questo corpo mortale che essa accarezza questa dimora, non come una prigione –
dice San Agostino – ma come facente parte di un tutt’uno in cui Dio ha legato
tutte le parti. È la corruzione del corpo che l’anima rischiarata dalla grazia
ha in orrore. Questa non è l’opera di Dio, è la pena del peccato che dà il suo
tormento. Quando il corpo, al tempo della resurrezione generale, sarà liberato
da questo gioco di iniquità che lo curvava verso terra, l’anima vi si riunirà
con una soddisfazione inesprimibile, « Finché noi siamo nella dimora di
quaggiù, dice l’Apostolo, noi gemiamo sotto il fardello, perché noi desideriamo
non di essere spogliati, ma di prendere come un secondo vestito, affinché ciò
che vi era di morto in noi sia assorbito dalla vita. » I giusti già coronati
nella gloria, attendono i giusti della terra, alfine di completare tutti
insieme l’edificio della santa Gerusalemme, e formare questa Chiesa eterna «
dei primogeniti che sono scritti nei cieli. » (Berthier). – « Traete la
mia anima dalla sua prigione, affinché io benedica il vostro Nome; i giusti mi
attendono finché mi ridiate la tranquillità desiderata. » Vedete di grazia
questo spirito (S. Franc. D’Assisi), che come un usignolo celeste chiuso nella
gabbia del suo corpo, nel quale non può cantare come desidera le benedizioni
del suo eterno Amore, sa che cinguetterebbe e praticherebbe meglio il suo bel
canto se potesse ottenere l’aria aperta per gioire della sua libertà e della
società con gli altri usignoli tra le gaie e fiorite colline della felice
contrada: ecco perché esclama: “ahimè, Signore della mia vita, per la vostra
bontà dolcissima, liberatemi, povero come sono, dalla gabbia del mio corpo;
traetemi da questa piccola prigione, affinché mi liberi da questa schiavitù, e
possa volare ove i miei cari compagni mi attendono, là in alto, in cielo, per
aggiungermi ai loro cori e circondarmi della loro gioia: là, Signore,
aggiungendo la mia voce alla loro, farò con essi una dolce armonia di arie e di
accenti deliziosi, cantando, lodando e benedicendo la vostra misericordia. (S.
FRANÇ. DE SALES, Tr. de l’am. de Dieu,
1. V, c.x.).