L’IDEA RIPARATRICE (4)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (4)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO II

Chi deve riparare?

CAPO PRIMO

L’ANIMA CRISTIANA E LA RIPARAZIONE.

L’incarico di condurre a termine la missione — quindi anche la Passione — di Gesù Cristo, spetta in modo eminente e particolare a quelli che vi furono eletti e consacrati.

Non ne viene però che e la Missione e la Passione di Gesù Cristo non interessino punto l’anima cristiana. Ciascuno dei Cristiani può e deve occupare un posto, secondo

la misura della propria generosità, tra le file di quelli che vogliono riparare. A questo li spinga anzitutto un motivo che dovrebbe stimolare anche le anime tiepide: il loro proprio interesse. – Le leggi della giustizia divina sono note a tutti. Noi tutti sappiamo che, se il Signore non vuol far contro sé stesso, ad ogni peccato conviene che infligga, ora o più tardi ma necessariamente, un proporzionato castigo: così pure conviene che il delitto non rimanga fino al termine trionfante. Per gli individui la giustizia di Dio incomincia quaggiù ma sovente vi rimane incompiuta; nella sua misericordia il Signore temporeggia; che se l’uomo si ostina Egli ha nelle sue mani tutta l’eternità. Ma i popoli, le nazioni, che come tali non altra esistenza possono avere che quaggiù, debbono in una maniera o in un’altra espiare i loro falli assolutamente sopra la terra. – Nell’Antico Patto la dimostrazione d’un tale principio è evidente nella storia del popolo di Dio. Ascoltiamo le parole di Jehova riportate dal profeta Geremia al popolo ebreo prevaricatore: « Io chiamerò i popoli dal regno dell’aquilone ed essi verranno a rizzare i loro troni all’ingresso delle porte di Gerusalemme, tutt”attorno alle sue mura, ed in tutte le città di Giuda. E per causa di tutta la loro malizia pronunzierò una severa condanna contro Giuda, perché essi mi hanno abbandonato, ed hanno adorato le fatture delle loro mani » (I. 13). E altra volta: … « Io farò venire dai paesi più lontani un popolo, un popolo potente, un popolo la cui lingua vi sarà talmente nuova che voi non comprenderete nulla di quanto vi dirà. Il suo turcasso ingoierà gli uomini come un sepolcro spalancato; i suoi soldati saranno valorosi. Egli mangerà il vostro grano e il vostro pane e divorerà i vostri figliuoli, saccheggerà i vostri armenti e i vostri buoi, spoglierà le vostre vigne e verrà colla spada in pugno a distruggere le vostre più forti città in cui voi mettete la vostra sicurezza » (v. 15-18). – Nella storia contemporanea non abbiamo bisogno di andar tanto lontano per trovare dei casi consimili a quelli succitati… somiglianze singolari! (Non sarà fuor di proposito far notare che il Signore può benissimo — tutto l’Antico Testamento ce lo prova — servirsi di popoli anche corrotti per dare ad un altro popolo, anche eletto per una missione gloriosa, qualche lezione salutare. Quante volte noi leggiamo nella S. Scrittura: « Io mi servirò del flagello per sceverare il buon grano dalla paglia… e poi lo spezzerò »). Altri prende scandalo perché il Signore segue siffatta legge compensatrice; questo però non prova che tal legge sia ingiusta. Nei casi particolari non sarà sempre lecito a noi il giudizio categorico: questo doloroso caso è l’espiazione di questa piuttosto che di quella colpa; S. Elena, a cagion di esempio, espiazione di Savona e di Fontainebleau. Non così per la legge generale, la quale non è altra: ogni delitto ha la sua pena e Dio, non può esser altrimenti, avrà sempre per sé l’ultima parola. Noi abbiamo altrove affermato che gli avvenimenti così tragici degli anni testé passati possono sotto un certo aspetto, senza timore di paradosso, esser considerati come un’opera di misericordia dalla parte di Dio. Ma nessuno può negare che se vogliamo spiegarci ogni cosa dobbiamo deciderci a scorger in essi un’opera di giustizia divina Soltanto un cieco orgoglio può ostinarsi a negarlo. – « Qua e là giacciono a terra rugginosi e crivellati dalle palle gli strumenti del lavoro. In mezzo al cortile, nel frutteto sotto gli alberi, presso le siepi, un po’ per tutto si aprono le tombe, sorgono le croci. Oh! ditemi, quanto è terribile questa rivincita delle croci! Fino a quando ci ostineremo a non voler comprendere? ». Così ha parlato un soldato (Notice sur l’Abbé Chevolleau, séminariste, caporal au 90° d’inf., mort à Verdun, par EMILE BAUMANN). Quanti hanno visto questo numero senza numero di cimiteri della fronte, questi reggimenti di tombe, si sentirono prepotente spuntare in cuore: « Oh! l’hanno bandita la Croce dai monumenti pubblici, dai tribunali, dalle scuole, dalle pubbliche vie… ed eccola la piccola Croce che compare un po’ per tutto in mezzo ai boschi, lungo le vie e nei giardini ». – Che si andava cercando finora -— e ancora al presente forse troppo spesso — fuorché il piacere, la soddisfazione propria? Anche in seno alle famiglie cristiane quante libertà, quale noncuranza delle leggi anche più rigorose, doveri del matrimonio, osservanza del riposo festivo, santificazione delle feste, rispetto alla roba altrui! Tutta la vita è organizzata contro la sofferenza, non eccettuata quella che è semplice conseguenza di fedeltà ai comandamenti più imperiosi di Dio e della Chiesa… – E il « dolore » aspettava la sua ora, preparava la sua rivincita. La chiamata sotto le armi del 2 agosto 1914 fu ben l’opera sua. E allora s’imposero la separazione, l’ultimo addio, le ansie senza fine… e poi le notizie dolorose… : il caro lontano è ferito, prigioniero, scomparso, … forse più e peggio di tutto questo… è morto! Poveri afflitti! Quanto grande comparve la capacità di soffrire del cuore umano! E fra quanti furono spettatori degli orrori della guerra nessuno potrà mai descrivere la quantità prodigiosa di sacrifizio che in certi momenti, in certi giorni — e furono anche dei mesi interi — hanno saputo dare i nostri soldati alla fronte. Ora tutto questo è finito… e per l’avvenire? Che resterà delle famiglie, delle fortune, del benessere materiale accumulato con tante pene? Come resteremo insensibili alla vista delle angosce e dei dolori che si preparano? Forse che noi potremo far nulla? Noi possiamo molto. Durante la guerra noiabbiamo fatto assegnamento su tre sorta di combattenti. Quelli che in campo lottavano col nemico, quelli che curavano i feriti e quelli che pregavano. I soldati che si sono battuti hanno pagato più che largamente il loro tributo di sangue alla patria. Quanti si sono dedicati alla cura dei feriti l’hanno fatto con uno spirito di sacrifizio senza limiti. Ma la parte che meglio contribuì per la vittoria fu certamente quella sostenuta da quanti perseverarono nella preghiera e nel1’abnegazione propria — e nel numero di costoro dobbiam contare molti che appartennero pure alle due prime schiere di combattenti. Anche questa volta si avverarono le parole di Giovanna d”Arco: « Le mani levate al Cielo ci danno !a vittoria meglio di quelle che impugnano le armi ». – « La misteriosa vittoria della Marna, ha scritto un autore di vedute spesso profonde, forse fu opera della preghiera ben umile di una qualche bambina ». – Di più: « Ecco una povera giovane che prega in una oscura chiesetta devastata. Essa tutto ignora fuorché la forza della preghiera, poiché il Signore ha promesso di concedere quello che noi con semplice confidenza gli domandiamo. …Tendete l’orecchio, sentite nella notte quel rumore assordante di soldati, di cavalli, di carri in marcia …? Questo rumore è il movimento delle labbra di quella semplicetta a cui il Signore non saprà nulla negare ». È un fatto certissimo; l’influsso del soprannaturale ebbe una parte grandissima nella storia degli ultimi anni dal 1914 al 1919. Da noi dipende il far sì che nella storia degli eventi che seguono quegli anni dolorosi questo stesso influsso del soprannaturale vi abbia parte copiosa e sovrabbondante. Noi vediamo pur troppo che la calma stenta a ristabilirsi nelle nazioni e che i popoli hanno bisogno di parafulmini forse più ancora che pel passato. Un po’ per tutto l’agitazione, il malessere: rumori che si fanno sentire, convulsioni che si preparano. Così noi sapessimo capire quanto di azione divina noi possiamo introdurre nella storia degli uomini! Non è che si debba rinunziare all’uso dei mezzi naturali, ma vorremmo poter persuadere a molti — fra i quali non mancano anche dei Cristiani che non credono abbastanza all’efficacia dei mezzi soprannaturali — che appunto servendoci di essi noi potremmo recare molti miglioramenti nei fatti che si svolgono dinanzi a noi. Colui che può influire sopra la Causa prima di ogni cosa può ben dirsi onnipotente: ora la Causa prima d’ogni cosa ha una parte non indifferente nella storia del mondo. Durante una tempesta che infuriava contro le navi di S. Luigi in rotta per la Crociata, si vide il re, dopo aver recitata una breve preghiera, alzarsi pieno di confidenza assicurando che alla flotta non sarebbe accaduto nulla di sinistro. « Donde ricavate questa vostra fiducia? » gli domandarono i suoi, « Laggiù – rispose egli – nel mio monastero di Chiaravalle «i offrono a Dio per noi preghiere e penitenza. Tutto andrà a seconda ». – Pochi anni or sono un Vescovo di Cina fu interrogato quale credesse egli il mezzo più efficace per condurre a Cristo tutto quell’immenso Impero: « Avremmo bisogno, egli rispose, di qualche Carmelitana di più e di qualche Trappista ». Questo vi potrà sembrare mezzo ben sproporzionato per il fine che si vuol ottenere. Ma nulla può contrastare all’evidenza della verità. E la verità è questa: Chi rovina le nazioni? il peccato. Quod evertit nationes, peccatum. Verrà dunque la salvezza dei popoli dalla santità — la santità per mezzo dei due elementi che la costituiscono: la penitenza e la preghiera. – Ne derivano necessariamente due conseguenze. La prima: Interroghiamo noi stessi per conoscere se mai colla nostra vita abbiamo potuto esser causa anche solo in piccola parte dei fatti che deploriamo. V’hanno regioni dell’Oriente in cui, quando si trova il cadavere di un qualche assassinato per via, lo si porta sulla piazza pubblica e tutti gli abitanti del paese debbono giurare di non aver avuto parte alcuna nell’uccisione di quel disgraziato. Dinanzi alla rovina della propria patria ci resta da fare qualche cosa di meglio che il gesto di Pilato e una fredda dichiarazione: « Io sono del tutto innocente di quanto è avvenuto ». Come potremmo sapere fino a qual punto vi hanno contribuito ciascuna delle nostre colpe? Non è forse vero che se il Signore trovava nelle città di Sodoma e di Gomorra qualche giusto di più non le avrebbe incenerite sotto una pioggia di fuoco? Stiamo lontani dal peccato. Quod evertit nationes, peccatum (Prov.. XIV. 31). È il peccato dei singoli uomini che attira, più spesso che noi crediamo, il castigo sulle nazioni. – Anche un solo peccato mortale, per sé stesso, è sufficiente per attirare sulla terra calamità immense. E vero che pochi possono comprender ciò, ma convien pur dire chiara la verità. Difatti il peccato mortale consiste in ciò che. potendo scegliere fra una creatura qualunque e Dio. si preferisce la creatura e si ripudia Dio come se si tentasse di sopprimere il Creatore quando ciò potesse farsi. Di qui ne viene che l’ingiuria fatta all’essere Infinito che è Dio non potrà mai esser compensata quand’anche si annientassero tutte le creature dell’Universo, che son cosa limitata e finita. Questi sono i termini netti del problema e il ricorrere ai brevetti decretati a dotti e scienziati, e il moltiplicare le accuse di barbarie lanciate contro Dio non mutano affatto la sostanza del fatto. – Quanti esempi noi troviamo ancora nella storia del popoli di Dio — se le nostre generazioni potessero ancora interessarsi qualche poco della vita del popolo di Dio — esempi che meditati ci farebbero del bene. Tra i soldati che marciano contro Gerico uno ven’ha che commette un grave fallo. Il Signore aveva comandato che dal bottino nulla fosse passato nelle mani dei soldati, ma tutto fosse riservato pel tempio di Gerusalemme. Quel soldato s’era impadronito d’una verga d’oro e d’un mantello di porpora e li aveva nascosti nella sua tenda, il che era evidentemente contro il volere di Dio. Il popolo di Israele si batte contro i suoi nemici e ne è sconfitto… Un soldato ha disobbedito a Dio e Dio abbandona il popolo d’Israele. Si cerchi il colpevole e paghi il fio della sua colpa. Ciò fatto, Dio dice ad Israele: « Fin da questo momento hai la vittoria in pugno: va pure, combatti nuovamente, io sono con te ». Israele ritorna sul campo, si batte contro il nemico e lo sbaraglia completamente (Jos, 7 e 8). Non vogliamo dire con questo che il Signore abbia l’abitudine di punire sempre con castighi generali le colpe private dei singoli; ciò non avviene specialmente — per nostra buona sorte — nella legge di grazia. Ma non si può negare che il Signore ha il diritto di farlo e che quando lo faccia noi non possiamo tacciarlo d’ingiustizia: e tutti i castighi temporali riuniti insieme non valgono per sé a compensare un solo peccato, perché tra l’infinito e il finito non vi ha proporzione alcuna. Sottentra allora la misericordia di Dio e coll’offerta di una nostra sofferenza domandata e accettata da Dio si possono espiare anche molti peccati, e diremo colle parole stesse di Gesù Cristo a S. Margherita Maria: « un’anima giusta può ottenere il perdono per mille peccatori ». Cosi soltanto, senza rinunziare per nulla ai diritti della sua giustizia, il Signore trova modo di esercitare le sue grandi misericordie. Ma vuole che nella misura più larga che ci è possibile noi gli porgiamo il nostro concorso e che noi concediamo a questa misericordia infinita l’occasione — vorrei dire: il permesso — di mostrarsi per quella che è. Quindi non dobbiamo mostrarci scandalizzati e tanto meno uscire in bestemmie esecrande, come fanno i nostri moderni pagani, per gli avvenimenti che ci sconvolgono o ci fanno soffrire; non dobbiamo prenderci la libertà di criticare tutte le interpretazioni della Storia, ove la sciagura si presenta come l’espiazione delle colpe sociali, come fanno i nostri odierni farisei dalla vita, dicono essi, senza macchia alcuna. Noi dobbiamo invece apprezzare il peccato secondo verità e cercare di evitarlo come il più gran male che possa darsi e per i singoli individui e per le nazioni. Non diremo già che di due nazioni sia la più santa o la meno colpevole quella a cui il Signore concede o permette maggior prosperità; ma è fuor di dubbio che se non di fatto, certo di diritt o un grave delitto può attirare sulla terra le più terribili rovine, e che, se abbiam a cuore il bene degli uomini, il nostro primo pensiero dev’essere di vivere bene, cioè fare ogni sforzo per evitare tutte quelle colpe che l’Altissimo nella sua giustizia non può non punire o nel tempo o nell’eternità. Meditiamo qualche volta le parole seguenti del Newman, parole le quali dopo quanto abbiamo detto fin qui non v’ha pericolo che restino incomprese: « Non immaginiamoci che il Signore usi con noi al presente, perché siamo spettatori delle opere sue, altro modo di punire che pel passato. La principale differenza fra il contegno tenuto da Dio verso i Giudei e quello che ora tiene verso i Cristiani certamente non è altro che questa: pei Giudei il modo era esteriore e visibile, pei Cristiani è intimo e invisibile. Noi non vediamo oggi come in quei tempi gli effetti della collera di Dio. Perché  Egli non si dà la pena di venircelo a dichiarare in persona come faceva coi Giudei o per sé stesso o per mezzo dei Profeti, ma questi effetti non sono perciò meno palpabili, sono anzi più terribili perché proporzionati alle maggiori grazie a noi concesse, e di cui noi purtroppo abusiamo ». Ma la parte che vi deve prendere il Cristiano non deve restare puramente negativa. A ciascuno di noi, se abbiamo desiderio di guarire e prevenire il male, spetta la missione di collocare sulla bilancia divina come contrappeso delle colpe, di cui pur troppo siamo spettatori, una buona misura di fedeltà alla preghiera, di accettazione della sofferenza e di pratica d ogni virtù. E così un motivo d’interesse proprio deve spingere ogni Cristiano alla riparazione. Se egli manca alla parte sua, i suoi fratelli, l’intera comunità, la Società, la Nazione vanno a rischio di espiare la sua noncuranza o il suo colpevole oblio. – Ma ci resta un secondo motivo più nobile, non più di interesse ma di amore. E che? Si può forse veder il Signore trattato così come lo si tratta e non sentire il bisogno di recargli qualche sollievo? Gesù Cristo, il nostro re, il nostro duce è oltraggiato, posto fuori della legge e noi non proviamo un sussulto, uno slancio, un dispiacere, un desiderio? È vero che dopo il giardino degli Olivi, dopo la Croce oramai è avvezzo a vedersi quasi abbandonato da tutti. Ma vorremo abbandonarlo anche noi e non esser invece di quei pochi che gli rimangono fedeli? Dov’è la nostra fede, dove i nobili sentimenti d’un cuore Cristiano? Nessuno vorrà accostarsi per consolar le pene del Maestro? Nessuno vorrà offrirsi per lenire il duolo della Chiesa? Sono forse i soli Sacerdoti e i religiosi che possono comprendere la croce e la miseria delle anime? « Guardatevi tutti intorno, scriveva Manning, e poi ditemi se il mondo è retto dallo Spirito di Dio che ne è il creatore o dallo spirito di satana che ne è l’idolo e la ruina! Noi dovremmo riparare per tutti quelli che furono rigenerati nel Battesimo coll’acqua e collo Spirito Santo e che pure hanno peccato contro di Lui » . E aggiungeva con tristezza: « Ma noi invece restiamo tutto il giorno inoperosi! ». Lo Spirito Santo è tradito ad ogni istante, e non si troverà alcuno per riparare? La Chiesa è presa di mira continuamente dall’una parte senza vergogna alcuna, dall’altra con armi subdole. E noi rimarremo sempre inerti? Alla battaglia di Eylau vedendosi incalzato troppo da vicino dal nemico, Napoleone gridò, se non erro, a Murat: « Non li vedi che ci stanno addosso? Ci lascerai dunque mangiare da quella gente? ». Dunque non abbiamo in cuore qualche po’ di amore? La Madre nostra, la Chiesa, sono parole vuote, senza valore? V’ha chi insulta la Madre nostra e noi lo lasciamo andare impunito? Un tempo se altri avesse recato dispiacere a colei che ci diede la vita, non ci saremmo affrettati intorno ad essa per compensarla tosto colla nostra tenerezza? – « Nel mondo sono necessarie, scriveva Mgr. d’Hulst, delle anime che amando e soffrendo riparino senza far mostra di sé per non spaventare o recar disturbo ad alcuno ». La Dio mercé di tali anime se ne trovano ancora, e certamente anche più di quello che si crede. Una madre, una contadina, è al letto del figlio che muore. Ad un tratto il ragazzo apre gli occhi a stento e: « Madre, geme, un po’ d’acqua, io muoio di sete! » Al pendolo della camera suonano in quell’istante le tre del pomeriggio; la madre prende il Crocefisso e nel metterlo tra le mani scarne del moribondo gli dice con voce interrotta dai singhiozzi: « Mio caro, è l’ora in cui Gesù è morto per te; per conformarti sempre meglio al tuo modello non vorrai trattenerti per qualche istante dal bere? » — « Oh sì. mamma » , risponde il giovane; e accostando alle labbra il divin Crocefisso vi stampa sopra un lungo bacio. Senza pensarci questa donna e il figliuolo suo facevano proprie le parole del Serafino d’Assisi: « Come mai! Voi mio Salvatore, voi siete sulla Croce ed io non mi ci trovo anch’io? ». Col loro eroismo e madre e figlio si collocavano tra le file di quei « buoni Cristiani » di cui parlava il Santo Curato d’Ars quando diceva: « Le persone del mondo si affliggono quando hanno delle croci e i buoni Cristiani invece piangono quando non ne possono avere »  — tra le file dei veri credenti, di quelli che hanno compreso ciò che Fénelon ha definito « il gran mistero del Cristianesimo » . cioè « la crocifissione dell’uomo » in unione colla Crocifissione di Dio. Il vero amore non ha altro modo di mostrarsi che non lasci dubbio della sua sincerità: spinge all’imitazione della persona amata. – Eugenio Courtois. socio della Gioventù Cattolica di Francia, il quale cadde valorosamente durante l’offensiva del 25 settembre 1915, era un bravo operaio convertitosi alla morte del fratello suo. Gli erano familiari le più rigorose penitenze: levarsi di buon mattino per potersi comunicare ogni giorno, assistenza di malati ributtanti, dormire steso sopra una gran croce di legno che egli ponevasi nel letto, e tutto questo mentre aveva al piede una piaga infettiva che per lungo tempo non volle curare per aumentare le sue mortificazioni. Egli si sentiva infelice quando non aveva da soffrire: « Io sono troppo ben trattato a tavola, le privazioni mi mancano… ». Lucilla X … legge, giovanetta ancora, la vita di Maria Celina della Presentazione, morta a diciannove anni nel Convento dell’ave Maria di Talenza, e si decide di consacrarsi anch’essa alla vita di riparazione. Segue gli Esercizi di una Missione predicata a Maubeuge e si conferma sempre più nel suo proposito. Ha fatto la sua prima Comunione nel 1902, e nel 1906, il giorno 2 dicembre, scrive nelle sue note intime: a Gesù, io vi offro il sacrificio della mia vita per la salvezza della mia cara patria. Prendetemi, se vi piace, come vittima per essa ». E il 13 dello stesso mese: « Fatemi soffrire per i delitti commessi dalla Francia ». E il suo ardore porta tutti i segni d’una soda pietà: « Rinnegare me stessa vuol dir compiere il mio dovere a qualunque costo senza badare alla mia soddisfazione. Quando possa scegliere liberamente fra due cose, preferirò quella che meno mi piace. Sacrificherò le mie inclinazioni per seguire piuttosto il gusto altrui … Non darò segno di preferir l’una cosa all’altra, non dirò mai: ” Questo a me piace di più … ». Quanta sapienza in questa fanciulla e che retta intelligenza dello spirito di sacrifizio! Essa non si sbaglia quando rivolgendosi a Dio prega: « Mandatemi da soffrire… E quando avrete incominciato non badate a quello che io vi posso dire allora, o Gesù, ma continuate sempre. Io mi rimetto interamente a voi! » E Gesù non si arrestò più finche il giorno 29 maggio 1907 venne a prendersela per condurla in cielo con Lui. – « Il Cristiano, diceva ancora il Santo Curato d’Ars, vive in mezzo alle croci come il pesce nell’acqua » . S’intende, il Cristiano che ha preso sul serio la dottrina e l’esempio del divin Maestro. È nota la preghiera veramente bella che

Madama Elisabetta compose nelle prigioni del Tempio (Io voglio tutto, tutto accetto e di tutto faccio un sacrificio a voi, mio Dio, e unisco questo mio sacrifizio a quello che vi fece di sé Gesù Cristo, ecc. …. ) e quella del Generale De Sonis: « … O mio Dio, che io sia crocifisso ma per mano vostra! ». Tra le rovine del « Bazar de la Charité », dopo il famoso incendio, sul cadavere d’una giovane di vent’anni furono trovate queste parole tracciate sopra un taccuino, mezzo distrutto dalle fiamme: « O Gesù! io offro la mia vita come vittima in espiazione per amor vostro ». La piccola Bernardetta Dupont nel giorno della sua prima Comunione domanda al Signore di potersi fare poi « religiosa e poi di morire ce martire ». Da Gesù non le fu concessa la prima grazia perché la chiamò a sé nei suoi quindici anni: essa fu esaudita invece nella seconda perché la sua morte fu preceduta da trentadue mesi di penose sofferenze. – Vediamo ora un ufficiale dell’esercito, il Comandante De Robien. Gentiluomo bretone, egli è di buona stirpe: già prima d’ora per ragione della sua fede aveva preferito spezzare la sua spada: sopravviene la guerra, egli vuol partire contro il nemico. Non gli basta un battaglione di territoriali, vuole il servizio di guerra. Di passaggio a Domremy, si getta ai piedi di Giovanna d’Arco e nella sua preghiera ragiona tra sé: « E se mi offrissi per salvare tanti di questi giovani, innocenti dei falli dei padri loro? … », e una voce interna mifa comprendere che il Signore accetta la sua offerta. Ecco arriva l’ordine di partire col 3° degli Zuavi. « Io mi reputo a grande onore di poter soffrire per la mia patria, egli esclama accomiatandosi dai suoi vecchi amici. Poche settimane dopo, in un contrattacco, il Signore accettava di fatto il sacrificio della sua vita. La domenica dopo la sua morte, il sacerdote della parrocchia, suo confidente, poteva dar pubblica lettura ai fedeli di questo ammirabile tratto di lettera: « … Per soddisfare pienamente la giustizia divina, per riscattare la nostra cara patria non è forse necessario che si offrano spontanee in olocausto molte vittime? « Ah! se il Signore mi volesse accettare et me vittima di espiazione per la liberazione della nostra cara patria, con quanta gioia io darei la mia vita per la santa causa della riparazione! « Dopo aver pregato a lungo e sofferto crudelmente al pensiero della mia indegnità, ho creduto bene formulare timidamente questo voto… « Non so se il Signore mi riputerà degno, nonostante i miei gravi difetti, d’un simile onore… Ma se fosse nella mente di Dio di esaudirmi, come potrei trattenermi dal ringraziarlo fin d’ora per la sua indulgenza e per la sua bontà a mio riguardo? ». Ammiriamo quanto Dio solo sa ricavare da quel pugno di fango che è il cuor umano. Mirabilis Deus in sanctis suis. Ammiriamo e procuriamo di comprendere. Molti ignorano siffatti eroismi: gli stessi eroi non sanno di esserlo, per lo più. Chi li conosce ben può dire che ben più numerosa di quanto s’immagina è la schiera di questi eroi: a cominciar da quelli le cui gesta riscuotono il nostro plauso, fino ai più nascosti agli occhi degli uomini, è tutta una gamma e i più umili non sono sempre quelli che meritano meno al cospetto della storia. Sarà però sempre vero che la parte scelta non formerà grande schiera: tuttavia abbiamo potuto vedere che anche nel mondo e in mezzo a quelli che nel mondo vivono, il Signore trova i suoi eletti. – Il R. P. Matteo Crawley, il noto missionario peruviano che ha visitato minutamente varie nazioni, parlando della Francia, ha potuto dire — senza intendere di escludere per ciò le altre nazioni — : « A ciascun delitto sociale ho trovato corrispondere non soltanto un’opera di riparazione, ma tutta una serie di opere riforatrici. « E non si creda spenta questa generosità (di anime cristiane fino al sacrifizio, e talvolta al sacrifizio completo oh! no. Io stesso ho scoperto, e nelle grandi citta e nei piccoli villaggi, qualche milite di questa schiera eletta e di una bellezza morale sfolgorante. – Ma non è troppo facile lo scoprirlo, perché essi sono come quei corsi d’acqua nascosti, causa silenziosa e segreta del bel verde fiorito che si espande tutto attorno ad essi… Anime elette che si trovano un po’ d’ogni parte tra gli alti personaggi e gli uomini influenti tanto quanto tra le persone modeste, umili e piccine. Donde vengono queste anime preziose? « Esse sono le gocce del sangue di una stirpe, la voce delle tradizioni che vivono di un antico succo cristiano, la ricchezza morale d’un organismo tutto impregnato del più puro e più forte Cristianesimo… Ed è con questo frumento che il Cielo ha preparato le ostie redentrici della Francia » (Riprodotto da Les nouvelles religieuses, 1° febbraio 1918, p. 81). – Tocca a noi il custodire con ogni cura i grani scelti di questo puro frumento e, se Dio ci ha posto in cuore il germe di affetti generosi, il ripararci dal gelo dell’indifferenza che domina intorno a noi. Per soffrir volentieri è necessario amare: forse che è cosa difficile l’amare? Il giorno 25 Ventoso 1794, in Parigi, il giudice inquisitore del tribunale rivoluzionario domanda ad una santa fanciulla, Margherita De Pons: « Quali sono le tue opinioni religiose? » . La fanciulla con tutta semplicità risponde: « Io amo con tutto il cuore il mio Dio ». Chi non può ripetere con essa le stesse parole? E questo basta come condizione preliminare per incominciare l’opera riparatrice, e anche nel continuare il lavoro non c’è bisogno di più per condurlo a buon termine: – Amare Iddio con tuttoil proprio cuore.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “UBI NOS”

Non dovete pensare mai che diminuisca la dignità della vostra grandezza se amate e difendete la libertà della Chiesa, Sposa di Dio e Madre vostra; non crediate di umiliarvi se la esaltate; non temete di indebolirvi se la rafforzate. Guardatevi attorno, gli esempi sono evidenti. Abbiate presenti i Prìncipi che la combattono e la opprimono: che giovamento ne traggono? A qual esito pervengono? È abbastanza chiaro, non c’è bisogno di dirlo. Sicuramente, coloro che la glorificano, con essa ed in essa saranno glorificati …”: con queste parole di S. Anselmo, il Sommo Pontefice Pio IX, indicava ai governanti la rettitudine nel governo dei loro popoli, e la necessità della loro adesione agli interessi della Chiesa di Cristo onde assicurarsi prosperità e pace nei loro regni. E questo in seguito alle empie e vergognose leggi delle quarentigie, promulgate dal Governo Cisalpino a giustificazione delle indegne usurpazioni e turpi latrocini operati a danno della Santa Sede, alla quale veniva sottratto il potere temporale che Dio le aveva assicurato nei millenni a garanzia di libertà da poteri politici con mire materiali e di dominio territoriale. Vibranti furono le proteste del Santo Padre che ovviamente non ottennero alcun risultato pratico apparente, anche perché il governo del Re-burattino piemontese era diretto dalle solite sette di perdizione sovranazionali, il cui unico scopo era, e rimane tuttora, se fosse possibile, la distruzione del Cristianesimo, della Chiesa di Cristo, della società tutta e del genere umano affinché sprofondi nello stagno eterno preparato per i demoni ed i suoi adepti. Lo Stato Cisalpino, poi divenuto Regno di Piemonte e poi d’Italia, è stato dissolto ed umiliato da quelle stesse sette empie che lo manovravano a sua perdizione, la dinastia sabauda vergognosamente confinata in esilio e nei meandri della infamia eterna, dai quali non risorgerà mai più. Né il popolo italiano tutto ha tratto beneficio da queste manovre illecite ed ipocrite, trascinato com’è stato in guerre disastrose con perdita di intere generazioni di giovani soldati mandati al macello, in una feroce dittatura prima fascista e poi – ancor peggiore perché occulta – di sinistra, in una sudditanza ed una colonizzazione americana e poi finto-europeista, per finire ai giorni nostri, sotto il totale asservimento ai poteri massonici mondialisti degli Illuminati [… da satana], infiltrati in tutte le posizioni chiave dello Stato e perfino in Vaticano ove tengono custodito il loro Capo mondiale, che finge di essere, con la sua scimmia-marionetta, il successore di Pietro a dirigere la sinagoga di satana apparentemente trionfante. I danni spirituali poi sono stati e sono a tutt’oggi più che mai immensi ed irreparabili se non ribaltati da un intervento diretto di Cristo: paganizzazione sfrenata, scristianizzazione pressoché totale, caduta in massa nella peccaminosità più vergognosa e bestiale, corsa precipitosa verso lo stagno di fuoco eterno… un disastro completo! … il fuoco di Sodoma e Gomorra incombe imminente.

S. S. Pio IX

Ubi nos

Quando, per arcano volere divino, fummo ridotti sotto un potere ostile, e vedemmo la triste e amara sorte di questa Nostra Urbe e il civile Principato della Sede Apostolica oppresso dall’invasione armata, proprio allora, con una lettera a Voi inviata il primo novembre dell’anno scorso, dichiarammo a Voi e, per mezzo Vostro, a tutto il mondo cattolico, quale fosse la situazione Nostra e di questa Urbe e a quali eccessi di sfrenata licenza fossimo esposti. Per dovere del Nostro Supremo Ufficio, al cospetto di Dio e degli uomini, abbiamo dichiarato di voler salvi ed integri i diritti della Sede Apostolica, e abbiamo incitato Voi e tutti i diletti Figli affidati alle vostre cure a placare con fervide preci la divina Maestà. Da quel momento i mali e le sventure che già erano preannunciate a Noi e a questa Urbe da quei primi nefasti tentativi d’usurpazione si rovesciarono sulla dignità e Autorità Apostolica, sulla santità della Religione e dei costumi, e perciò anche sui dilettissimi Nostri sudditi. Anzi, Venerabili Fratelli, aggravandosi ogni giorno la situazione, siamo costretti a dire, con le parole di San Bernardo: “Gli inizi delle sventure sono questi, e ne temiamo di ancor più gravi” . L’iniquità infatti persevera nel seguire la sua strada e sviluppa i suoi piani, né si affanna d’altro che di stendere un velo sulle sue nefaste imprese che non possono restare nascoste, e si sforza di sottrarre le ultime spoglie alla giustizia oppressa, alla onestà e alla Religione. – Tra queste angustie che colmano i nostri giorni di amarezza, soprattutto quando pensiamo a quali pericoli e a quali insidie sono sottoposti, giorno per giorno, i fedeli e la virtù del nostro popolo, non possiamo onorare o ricordare senza un profondo senso di gratitudine gli eccelsi meriti vostri, Venerabili Fratelli, e dei diletti fedeli avvinti dal vostro amore. Infatti, in ogni plaga della terra i fedeli di Cristo, rispondendo con ammirevole premura alle Nostre esortazioni, hanno seguito Voi come maestri e modelli, e da quel giorno infausto in cui fu espugnata questa Urbe, indissero assidue e ferventi preghiere e sia con pubbliche e ripetute suppliche, sia con sacri pellegrinaggi, sia con ininterrotta affluenza nelle Chiese e con la partecipazione ai Sacramenti, sia con altre opere di ispirazione cristiana, ritennero proprio dovere accostarsi assiduamente al trono della divina clemenza. Né invero queste appassionate invocazioni possono mancare di copiosissimi frutti presso Dio. Anzi, i molti beni già ottenuti da esse ne promettono altri, da Noi attesi con fiducia e speranza. Vediamo infatti la fermezza della fede e l’ardore della carità che si diffondono ogni giorno più ampiamente; scorgiamo negli animi dei fedeli, in favore di questa Sede e del supremo Pastore quella sollecitudine (risvegliata dall’offesa dell’attacco subito) che Dio solo poté ispirare, e avvertiamo tanta solidarietà di menti e di volontà che mai più, e più veracemente che in questi giorni, dai primordi della Chiesa fino a questi tempi, si potrà affermare che il cuore e l’anima di una moltitudine di credenti sono una sola realtà (At IV, 32). Di fronte a una tale prova di virtù, non possiamo tacere che nei Nostri affettuosissimi figli, cittadini di ogni ordine e grado di questa Urbe, venne in piena luce un devoto, rispettoso amore verso di Noi, e insieme la fermezza pari all’impresa, e la grandezza d’animo non solo degna ma emula dei loro antenati. – Pertanto rendiamo grazie e gloria immortale a Dio misericordioso in nome di Voi tutti, Venerabili Fratelli, e dei Nostri diletti figli, fedeli di quel Cristo che tanto ha operato e opera in Voi e nella Sua Chiesa, e ha fatto sì che, mentre sovrabbonda l’iniquità, sovrabbondi anche la grazia della fede, dell’amore e della confessione. “Quale è dunque la Nostra speranza, il Nostro gaudio e la corona di gloria? Non è forse la vostra presenza davanti a Dio? Il figlio sapiente è gloria del Padre. Vi benefichi dunque Dio, e si ricorderà del fedele servizio, della pia compassione, della consolazione e dell’onore che alla Sposa di suo Figlio in tempo avverso e nei giorni del suo dolore avete mostrato e mostrate” .

Frattanto il Governo Subalpino, mentre per un verso si affretta a raccontare al mondo fandonie sull’Urbe, per l’altro, allo scopo di gettar polvere negli occhi dei Cattolici e di sopire le loro ansie, ha studiato e sviluppato alcune inconsistenti immunità e alcuni privilegi volgarmente detti guarentigie, che intende concedere a Noi in sostituzione di quel potere temporale di cui Ci ha spogliato con una lunga serie d’inganni e con armi parricide. Su queste immunità e garanzie, Venerabili Fratelli, abbiamo già espresso il Nostro giudizio, rilevando la loro oltraggiosa doppiezza nella lettera del 2 marzo scorso, inviata al Nostro Venerabile Fratello Costantino Patrizi, Cardinale della Santa Romana Chiesa, decano del Sacro Collegio e Nostro Vicario nell’Urbe: lettera che subito fu pubblicata a stampa. – Ma poiché è tipico del Governo Subalpino coniugare l’ostinata e turpe ipocrisia con l’impudente disprezzo verso la Nostra dignità e autorità Pontificia, nei fatti dimostra di non tenere in alcun conto le Nostre proteste, richieste, censure; perciò, senza dare alcun peso al giudizio da Noi espresso circa le predette garanzie, non desiste dal sollecitare e promuovere il dibattito e l’esame di esse presso i supremi Ordini del Regno, come se si trattasse di cosa seria. In quel dibattito emerse in piena luce sia la verità del Nostro giudizio circa la natura e l’indole di quelle garanzie, sia il vano tentativo dei nemici di occultarne la malizia e la frode. Certo, Venerabili Fratelli, è incredibile che tanti errori, apertamente incompatibili con la Fede Cattolica e perfino con gli stessi fondamenti del diritto naturale, e tante bestemmie che in quella occasione furono pronunciate, abbiano potuto pronunciarsi in questa Italia che si è sempre gloriata e si gloria del culto della Religione Cattolica e della Sede Apostolica del Romano Pontefice. E in realtà, proteggendo Iddio la Sua Chiesa, del tutto diversi sono i sentimenti che nutre la maggior parte degli Italiani: essi con Noi lamentano e deplorano questa inaudita forma di sacrilegio e Ci hanno dimostrato, con le loro meritevoli prove e con impegni di devozione ogni giorno più evidenti, di essere solidali, in unione di spirito e di sentimenti, con gli altri Fedeli della terra. – Perciò oggi di nuovo Noi Vi rivolgiamo le Nostre parole, Venerabili Fratelli, e sebbene i Fedeli a Voi affidati o con le loro lettere o con severe proteste abbiano chiaramente significato con quanta amarezza subiscano la situazione che Ci affligge, e quanto siano lontani dal farsi ingannare da quei raggiri che si nascondono sotto il nome di garanzie; tuttavia riteniamo sia dovere del Nostro Ufficio Apostolico dichiarare solennemente a tutto il mondo, per mezzo Vostro, che non solo le cosiddette garanzie malamente fabbricate dal Governo Subalpino, ma anche titoli, onori, immunità, privilegi e qualunque altra offerta fatta sotto il nome di garanzie o di guarentigie non hanno alcuna validità quando dichiarano sicuro e libero l’uso del potere a Noi affidato da Dio e di voler proteggere la necessaria libertà della Chiesa. – Stando così le cose, come più volte dichiarammo e denunciammo, Noi, per non violare la fede, non possiamo aderire con giuramento ad alcuna conciliazione forzata che in qualche modo annulli o limiti i Nostri diritti, che sono diritti di Dio e della Sede Apostolica; così ora, per dovere del Nostro Ufficio, Noi dichiariamo che mai potremo in alcun modo ammettere o accettare quelle garanzie, ossia guarantigie, escogitate dal Governo Subalpino, qualunque sia il loro dispositivo, né altri patti, qualunque sia il loro contenuto e comunque siano stati ratificati, in quanto essi ci furono proposti con il pretesto di rafforzare la Nostra sacra e libera potestà in luogo e in sostituzione del Principato civile di cui la divina Provvidenza volle dotata e rafforzata la Santa Sede Apostolica, come Ci è confermato sia da titoli legittimi e indiscussi, sia dal possesso di undici secoli ed oltre. Infatti ad ognuno deve risultare chiaro che necessariamente, qualora il Romano Pontefice fosse soggetto al potere di un altro Principe, né fosse dotato di più ampio e supremo potere nell’ordine politico, non potrebbe per ciò che riguarda la sua persona e gli atti del ministero Apostolico, sottrarsi all’arbitrio del Principe dominante, il quale potrebbe anche diventare eretico o persecutore della Chiesa, o trovarsi in guerra o in stato di guerra contro altri Principi. Certamente questa stessa concessione di garanzie di cui parliamo non è forse, di per sé, evidentissima prova che a Noi fu data una divina autorità di promulgare leggi concernenti l’ordine morale e religioso; che a Noi, designati in tutto il mondo come interpreti del diritto naturale e divino, verrebbero imposte delle leggi, e per di più leggi che si riferiscono al governo della Chiesa Universale, il cui diritto di conservazione e di esecuzione non sarebbe altro che la volontà prescritta e stabilita dal potere laico? Per ciò che riguarda il rapporto tra Chiesa e Società civile, ben sapete, Venerabili Fratelli, che Noi ricevemmo direttamente da Dio, in persona del Beatissimo Pietro, tutte le prerogative e tutta la legittima autorità necessaria al governo della Chiesa Universale, e che anzi quelle prerogative e quei diritti, e quindi anche la stessa libertà della Chiesa, derivano dal sangue di Gesù Cristo e devono essere stimati secondo l’infinito valore del Suo Sangue divino. – Pertanto Noi saremmo immeritevoli (e ciò non accada) del divino Sangue del Nostro Redentore se questi Nostri diritti, che ora soprattutto si vorrebbero così sviliti e deturpati, dipendessero dai Principi della terra. I Principi Cristiani infatti, sono figli, non padroni della Chiesa. Ad essi propriamente si rivolgeva Anselmo, quel lume di santità e di dottrina, Arcivescovo di Canterbury: “Non dovete credere che la Chiesa di Dio vi sia stata data per servire a un padrone, ma piuttosto per servire come avvocato e difensore; in questo mondo nulla Dio ama di più che la libertà della sua Chiesa” . E aggiungendo altre esortazioni per essi, in altro momento scriveva: “Non dovete pensare mai che diminuisca la dignità della vostra grandezza se amate e difendete la libertà della Chiesa, Sposa di Dio e Madre vostra; non crediate di umiliarvi se la esaltate; non temete di indebolirvi se la rafforzate. Guardatevi attorno, gli esempi sono evidenti. Abbiate presenti i Principi che la combattono e la opprimono: che giovamento ne traggono? A qual esito pervengono? È abbastanza chiaro, non c’è bisogno di dirlo. Sicuramente, coloro che la glorificano, con essa ed in essa saranno glorificati” .

Dunque, Venerabili Fratelli, dopo tutto ciò che vi abbiamo detto, a nessuno per certo può sfuggire che l’offesa recata a questa Santa Sede, in questi tempi crudeli, ricade su tutta la Comunità Cristiana. Ad ogni Cristiano dunque, come diceva San Bernardo, è rivolta l’offesa che colpisce gli Apostoli, appunto i gloriosi Principi della terra; e siccome la Chiesa Romana si dà pensiero di tutte le Chiese, come diceva il predetto Sant’Anselmo, chiunque ad essa sottrae ciò che è suo, deve essere giudicato colpevole di sacrilegio non solo verso di essa ma verso tutte le Chiese . Né certo alcuno può dubitare che la tutela dei diritti di questa Sede Apostolica non sia strettamente congiunta e collegata con le supreme ragioni e i vantaggi della Chiesa universale e con la libertà del vostro ministero Episcopale.

Nel riflettere e considerare tali questioni, come è Nostro dovere, Noi siamo costretti a confermare nuovamente e a dichiarare con insistenza ciò che più di una volta esponemmo a Voi, del tutto consenzienti con Noi, ossia che il potere temporale della Santa Sede è stato concesso al Romano Pontefice per singolare volontà della Divina Provvidenza e che esso è necessario affinché lo stesso Pontefice Romano, mai soggetto a nessun Principe o a un Potere civile, possa esercitare la suprema potestà di pascere e governare in piena libertà tutto il gregge del Signore con l’autorità conferitagli dallo stesso Cristo Signore su tutta la Chiesa e perché possa provvedere al maggior bene della stessa Chiesa ed agli indigenti. Voi certamente comprendete tutto ciò, Venerabili Fratelli, e con Voi i Fedeli a Voi affidati, e giustamente Voi tutti siete in ansia per la causa della Religione, della giustizia e della pace che sono i fondamenti di tutti i beni, e date lustro alla Chiesa di Dio con un degno spettacolo di fede, di amore, di costanza, di virtù e, fedelmente intenti alla sua difesa, tramandate un nuovo e ammirevole esempio, degno dei suoi annali e della memoria delle future generazioni. Poiché il Dio della misericordia è autore di questi beni, a Lui sollevando gli occhi, i cuori e la speranza Nostra, Lo supplichiamo con insistenza perché confermi, rafforzi, accresca i sentimenti Vostri e dei Fedeli, la pietà comune, l’amore e lo zelo. Con ogni premura esortiamo Voi e i popoli affidati alla Vostra vigilanza affinché ogni giorno, con tanta più fermezza e rigoglio quanto più minacciosamente si agitano i nemici, invochiate con Noi il Signore perché si degni di maturare i giorni della sua benevolenza. Provveda Iddio perché i Principi della terra che hanno particolare interesse ad evitare che il caso di usurpazione di cui siamo vittime diventi regola a danno di ogni ordine e potere, si uniscano in un perfetto accordo di animi e di volontà e, placate le discordie, sedate le turbolenze delle ribellioni, disperse le esiziali opinioni delle sette, svolgano un’opera comune affinché siano restituiti a questa Santa Sede i suoi diritti, e con essi la piena libertà al Capo visibile della Chiesa e la desiderata pace al consorzio civile. E con altrettanto ardore, Venerabili Fratelli, con le suppliche Vostre e dei Fedeli, chiedete alla divina clemenza che converta alla penitenza i cuori degli empi, rimuovendo la cecità delle menti prima che sopraggiunga il grande e terribile giorno del Signore o, col reprimere i loro infami propositi, dimostri quanto ottusi e stolti sono coloro che tentano di rovesciare la pietra posata da Cristo e di violare i divini privilegi. In queste preghiere si fondino più saldamente le Nostre speranze in Dio. “Davvero pensate che Dio potrebbe distogliere l’orecchio dalla sua carissima Sposa quando invoca aiuto contro coloro che la fanno soffrire? Come non riconoscerebbe un osso delle sue ossa, la carne della sua carne, anzi in certo modo, in verità, lo spirito del suo spirito? È certamente giunta l’ora della malizia, il potere delle tenebre. D’altronde è l’ultima ora, e il potere presto scompare. Cristo, potenza e sapienza di Dio, è con Noi, partecipa con Noi. Abbiate fiducia, Egli vince il mondo” . Frattanto ascoltiamo con animo aperto e con salda fede la voce dell’eterna verità che dice: “Combatti per la giustizia, per la tua anima, e fino alla morte lotta per la giustizia: Dio sconfiggerà per te i tuoi nemici” (Sir IV, 28). – Infine, con tutto il cuore invocando doni fecondi di celesti grazie per Voi, Venerabili Fratelli, per tutti gli Ecclesiastici e per i fedeli Laici affidati alla cura di ciascuno di Voi, come pegno del Nostro grande e intimo affetto verso Voi e i Fedeli, amorosamente impartiamo a Voi e agli stessi diletti Figli l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 maggio 1871, nel venticinquesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La liturgia di questo giorno insiste sui castighi terribili che la giustizia di Dio infliggerà a quelli che avranno rinnegato Cristo. Morranno tutti e nessuno entrerà nel regno dei cieli. Coloro invece che in mezzo a tutte le avversità di questa vita saranno rimasti fedeli a Gesù, saranno un giorno strappati alle mani dei loro nemici ed entreranno al suo seguito nel cielo, ove Egli entrò nel giorno della sua Ascensione, che la Chiesa ha celebrato nel Tempo Pasquale. Questi pensieri sulla giustizia divina sono conformi, in questa IX Domenica dopo Pentecoste, colla lettura che la liturgia fa della storia del profeta Elia nel Breviario. – Dopo la morte di Salomone, le dodici tribù di Israele si divisero in due grandi regni: quello di Giuda e quello d’Israele. Il primo formatosi con le due tribù di Giuda e di Beniamino, ebbe per capitale Gerusalemme: il secondo si compose di dieci tribù con capitale Sichem, poi Samaria. A questo secondo regno appartenne il profeta Elia, che abitava il deserto di Galaad in Samaria. Uomo virtuoso e austero, vestiva una tunica di peli di cammello con ai fianchi una cintura di cuoio: « pieno di zelo per il Dio degli eserciti », uscì tre volte dal deserto per minacciare Achab, VII re di Israele, e la regina Iezabele, che avevano trascinato il popolo all’idolatria; per mandare a morte i 450 profeti di Baal che confuse sul Monte Carmelo; e per annunciare al re, impossessatosi della vigna di Naboth, che sarebbe stato ucciso, e alla regina, che era stata il cattivo genio di Achab, che il suo sangue sarebbe scorso ove era scorso il sangue di Naboth e i cani avrebbero divorate le sue carni. Per tutti questi motivi, Elia fu perseguitato dagli Israeliti, da Achab e da lezabele e dovette fuggire sul monte Horeb per scampare alla morte. Quando più tardi Ochozia, figlio di Achab, divenne re, Elia gli fece dire di non consultare Belzebù, il dio di Accaron, come aveva intenzione, ma il Dio d’Israele. Ochozia allora gli mandò un capitano con cinquanta soldati per indurlo a scendere dalla montagna e rendergli conto delle sue parole. Elia rispose al capitano: « Se io sono un uomo di Dio, scenda dal cielo un fuoco che divori te e i tuoi cinquanta », E scese il fuoco e divorò lui e i suoi cinquanta uomini » (Breviario). Più tardi, Elia andò verso il Giordano con Eliseo e allorché ebbero attraversato il fiume, un carro di fuoco con cavalli di fuoco separò l’uno dall’altro ed Elia sali al cielo in un turbine. Eliseo allora si rivestì del mantello che Elia aveva lasciato cadere e ricevette doppiamente il suo spirito. E tutti i discepoli di Elia dissero: «lo spirito di Elia si è posato su Eliseo ». E mentre Eliseo andava verso Bethel, alcuni ragazzi lo schernirono dicendo: « Sali, sali, calvo! ». Ed Eliseo li maledisse nel nome di Dio che essi offendevano: due orsi uscirono dalla foresta e sbranarono 42 di quei fanciulli. — Per tutta la sua vita Elia, con la sua parola di  fuoco, difese i diritti di Dio. Più tardi Giovanni Battista, « pieno dello Spirito e della virtù di Elia », si presentò vestito come lui ed abitante come lui nel deserto, e difese allo stesso modo gli stessi diritti di Dio, annunziando la separazione che farà Cristo venturo della paglia dal buon grano »: raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà. –   « Elia, dice S. Agostino, rappresenta il Salvatore e Signore nostro. Come infatti Elia soffrì persecuzioni da parte dei Giudei; nostro Signore, il vero Elia, fu rigettato e disprezzato dal medesimo popolo. Elia lasciò il paese suo; Cristo abbandonò la sinagoga e accolse i Gentili (2° Nott.). « Dio liberò Elia dai suoi nemici elevandolo al cielo, Dio innalzò Cristo in mezzo ai suoi nemici e lo fece salire il giorno dell’Ascensione in cielo ». « Liberami, o Signore dai miei nemici, dice l’Alleluia, e allontanami da quelli che insorgono contro di me ». Elia, trasportato in un carro di fuoco è, secondo i Padri, la figura di Cristo, che sale al Cielo. Il Graduale è il versetto del Salmo VIII, che la liturgia usa nel giorno dell’Ascensione: «Signore, Dio nostro, come è ammirevole il tuo nome su tutta la terra: poiché la tua magnificenza si solleva al di sopra dei cieli. » E l’Introito aggiunge :« Ecco che Dio viene in mio aiuto e che il Signore accoglie la mia anima. Oh, Dio! salvami nel tuo nome e liberami nella tua potenza ». Questo trionfo di Gesù su quelli che lo odiano, figurato da quello di Elia su coloro che lo disprezzano, sarà anche il nostro se «non tenteremo Cristo», cioè se eviteremo l’idolatria, l’impurità, la mormorazione» (Ep.) rimanendo fedeli alla grazia Poiché « se Gesù continua a immolarsi sui nostri altari per applicarci i frutti della sua redenzione » (Secr.), e se « mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue,  noi dimoriamo in Lui e Lui in noi » (Com.), si è perché, « uniti a Lui », (Postcom.), osserviamo fedelmente i suoi comandamenti, che sono più dolci del miele » (Off.). S. Paolo ci dice infatti che « Dio, il quale è fedele, non permetterà che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche il mezzo di uscirne affinché possiamo perseverare » (Ep.). Supplichiamo dunque il Signore d’accogliere benignamente le preghiere che noi gli indirizziamo e di fare in modo che gli chiediamo solo quanto gli sia gradito, affinché ci possa sempre esaudire (Oraz.). – Ma la Giustizia divina non si accontenta di proteggere il gìusto contro i suoi nemici e di ricompensarlo per la sua fedeltà; essa punisce anche quelli che fanno il male. Elia minacciò il regno di Israele infedele e fece cadere il fuoco dal cielo sui suoi nemici (Brev.); « Gli Israeliti, che tentarono Iddio con le loro mormorazioni, perirono per mezzo dei serpenti di fuoco » (Ep.), e Gerusalemme sulla quale Gesù pianse, minacciandole castighi perché lo respingeva, fu distrutta dalla guerra e dall’incendio (Vang.). « Ventitremila Ebrei perirono in un sol giorno per la loro idolatria, e molti furono colpiti a morte dall’Angelo sterminatore per le loro mormorazioni ». Ma tutti questi avvenimenti, spiega S. Paolo, furono permessi da Dio, e narrati per servire di nostro ammaestramento » (Ep.). Più di un milione di Giudei perirono nella distruzione di Gerusalemme, perché avevano rifiutato il Messia e il Vangelo (Vedi I Domenica dell’Avvento e XXIV dopo Pentecoste). Gesù ha sempre paragonata questa fine tragica alle catastrofi che segneranno la fine del mondo, quando Dio verrà a giudicare il mondo col fuoco. Allora il Giudice divino opererà la separazioni dei buoni dai cattivi e mentre ricompenserà i primi, allontanerà dal regno di Dio tutti quelli che lo avranno rinnegato per la loro incredulità e i loro peccati, come cacciò dal Tempio, che è la figura della Chiesa terrestre e celeste, tutti i venditori che avevano trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Vang.). « Il male ricada sui miei avversari, chiede il Salmista e, fedele alle tue promesse, distruggili, o Dio, mio protettore! » (Intr.). Allora, infatti il tempo della misericordia sarà passato e non vi sarà più che quello della giustizia ». « Frattanto colui che crede di essere in alto guardi di non cadere!», dice l’Apostolo (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LIII: 6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]


Ps LIII: 3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.

[O Dio, salvami nel tuo nome: e líberami per la tua potenza.]


Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Oratio

Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.

[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X: 6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília.
Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

[“Fratelli: Non desideriamo cose cattive, come le desiderarono quelli. Non diventate idolatri, come furono alcuni di loro, secondo sta scritto: «Il popolo si sedette a mangiare e bere; poi si alzarono a tripudiare. Né fornichiamo, come fornicarono alcuni di loro, e caddero in un giorno 23 mila. Né tentiamo Cristo come lo tentarono alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti. Né mormorate come mormorarono alcuni di loro, ed ebbero morte dallo sterminatore. Or tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi, che viviamo alla fine dei tempi. Colui, pertanto che si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha sorpreso se non umana. Dio, poi, che è fedele, non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze: ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla”. (I Cor. X, 6-13).]

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL TIMOR DI DIO

Essere Cristiani non vuol dire essere esenti dalla vigilanza, e da una attenta vigilanza. Nell’Epistola della Domenica di Settuagesima abbiam visto come l’Apostolo per incoraggiare i Corinti alla perseveranza, oltre il proprio esempio, portò l’esempio dei Giudei, i quali, quantunque usciti in gran numero dall’Egitto, dopo aver ricevuto grandi benefici dal Signore, solamente in numero di due poterono entrare nella terra promessa. L’Epistola di quest’oggi continua quel brano. Vi sono enumerate alcune prevaricazioni degli Ebrei e i castighi, che ne seguirono, e si esortano i Corinti a non imitarne l’esempio; poiché quanto avvenne agli Israeliti sarà figura di quanto avverrà a noi Cristiani, se abuseremo delle grazie del Signore. – E noi non abuseremo certamente delle grazie del Signore, se avremo il timor di Dio, il quale:

1 Ci fa evitare il peccato,

2 Ci rende diffidenti di noi,

3 Ci lascia calmi e fiduciosi in Dio, durante le prove.

1.

Le prevaricazioni degli Ebrei, dopo la loro uscita dall’Egitto, ebbero da parte di Dio la meritata punizione. La storia di questa punizione e dei conseguenti castighi, deve servire di esperienza, perché tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi. Dunque, le punizioni di Dio, prefigurate in ciò che accadde agli Ebrei, devono attendere anche i Cristiani che, invece di mostrarsi grati a Dio per i benefici ricevuti e che ricevono quotidianamente, lo offendono con i peccati. – E lo offendono, perché non temono il Signore. «Il timor di Dio fa odiare il male» (Prov. VIII, 13). L’uomo che ha tanto paura di commettere cosa che possa offendere il suo simile, mortale come lui, ludibrio degli eventi; oggi forte, domani debole; oggi stimato, domani disprezzato, abbandonato; come potrebbe indursi a commettere il male sotto gli occhi di Dio, se pensasse che quel Dio che lo vede, lo giudicherà? Non si pensa a Dio, e si opera come se Dio non esistesse. E da questo errore ne consegue un altro: si fa il male senza badare alle sue conseguenze. Si pecca, ma non si tien conto che «Agli empi e ai peccatori Dio renderà il loro castigo» (Eccli. XII, 4). I servi non osano commettere mancanze alla presenza del loro padrone. Se avvengono degli alterchi, avvengono quando e dove il padrone non li sente: «Noi invece — dice il Crisostomo — tutto osiamo in faccia a Dio, che vede e che sente. Essi hanno sempre davanti agli occhi il timor del padrone; noi, il timor di Dio non l’abbiamo mai» (In 1. Epist. ad Thim. Hom. 16, 2).« Chi teme Dio rientra in se stesso» (Eccli XXI, 7). Può egli continuare a vivere in peccato, se da un momento all’altro può capitare nelle mani del suo Giudice? Il peccatore può mettersi a letto pieno di sanità e di vita, e prima dello spuntar del giorno trovarsi davanti al tribunale di Dio. Può alzarsi la mattina, e prima di sera esser già giudicato. Ma il pericolo di ricevere una condanna egli può evitarlo. Se teme il castigo ne tolga la causa. Faccia penitenza dei suoi peccati, e cominci una vita nuova. Chi teme Dio non dice: Dio è buono, dunque non mi punirà. Se Dio è buono devi amarlo, invece di offenderlo. Tu offendi Dio perché è buono. «Questa è dunque la retribuzione che rendi al Signore?… Non è Egli il tuo Padre, che ti ha posseduto, che ti ha fatto, che ti ha creato?» (Deut. XXXII, 6). – Egli è buono, immensamente buono, ma è anche giusto; la sua bontà non può andar scompagnata dalla sua giustizia. «Presso Dio non vi è pietà senza giustizia, né giustizia senza pietà» (S. Pier Crisos. Serm. 145). – Se tutti gli uomini avessero il timore di Dio e non solo il timore delle leggi umane, nessuno commetterebbe il male, neppur per breve tempo.

2.

Nessuno può tenersi sicuro di poter perseverare sino alla fine nello stato di grazia e di tenersi conseguentemente certo della propria salvezza. Nessuno può esser sicuro di questo, senza una speciale rivelazione. Pertanto, chi si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Caddero gli Angeli che si trovavano in cielo; caddero i nostri progenitori che si trovavano nel paradiso terrestre; noi soli vogliam presumere di andar esenti da cadute? La Sacra Scrittura ci pone davanti agli occhi abbondante materia di seria riflessione su questo punto. Essa ci fa passare innanzi re, giudici, sapienti, sacerdoti, profeti, Apostoli, che precipitarono dalla loro altezza nell’abisso del peccato. Dopo simili esempi, nessuno troverà esagerata l’ammonizione dell’Apostolo: Pertanto chi si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Quando la nebbia è fitta, il viandante cammina con la più grande precauzione. Le nostre passioni sono come una nebbia fitta, che non ci lascia ben distinguere ove mette fine il nostro cammino. Abbiamo bisogno di essere illuminati, guidati. Il santo timor di Dio è il lume che ci guida. «Non voler essere saggio ai tuoi propri occhi; — dice Salomone — temi Dio e allontanati dal male» (Prov. III, 7). – Il timor di Dio ci insegna ad allontanarci dal male. Ci dice ove è il pericolo; ove bisogna far sacrificio d’una nostra tendenza; ove c’è una passione incipiente da estirpare, ove c’è un’occasione da evitare. Chi disprezza la voce del timor di Dio, un momento o l’altro si trova trascinato là ove non avrebbe né creduto né voluto. Chi non teme, non si guarda; chi non si guarda, si perde. – Non contano le battaglie spirituali vinte altre volte. Il cavaliere che ha vinto cento corse, che ha saltato migliaia di ostacoli, sempre saldo in sella, in un momento di distrazione o di troppo fiducia è sbalzato a terra. Il navigante che ha passato e ripassato i mari, superando furiose tempeste, affonda con la nave per un imprevisto incidente qualsiasi. L’aviatore che ha valicato catene di monti e attraversato mari tra le bufere, e sempre felicemente, precipita col velivolo quando, sicuro di sé, non vede davanti agli occhi che gli onori che coroneranno le sue imprese. A questo mondo non si è mai al sicuro dalle sorprese; e il Cristiano non è mai al sicuro dalle sorprese delle passioni, del demonio, del mondo. Nulla trascuri per mettersi al riparo contro di esse: «Chi teme Dio non trascura cosa veruna» (Eccle. VII, 19).

3.

Dio, poi, che è fedele non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze; ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla. Diffidare di noi stessi, temere la nostra debolezza, non vuol dire avvilirsi e perdersi di coraggio nelle umiliazioni, nelle tentazioni, nelle prove della vita. Noi siamo fragili, ma Dio è potente. Lasciarsi abbattere, mormorare nelle difficoltà, è un dubitare della bontà, sapienza e potenza di Dio. Egli non comanda mai cose impossibili, e non nega mai la sua grazia a quelli che a Lui ricorrono fiduciosi. Con la sua grazia potremo resistere a tutte le tentazioni e superar tutte le prove, uscendone vittoriosi, ornati di meriti, rassodati nel bene. Chi teme Dio accetta, calmo e fiducioso nell’aiuto di Lui, tutte le prove che Egli gli manda.Il timor di Dio non consiste nel prostrarsi innanzi a Lui tremanti, nell’esser presi dallo sgomento. « Il timor del Signore — dice lo Spirito Santo — ha corona di sapienza e di piena pace e di frutti di salute» (Eccli. I, 22). Il timor di Dio consiste nel non far nulla di quanto a Dio dispiace, nel chiedergli la grazia di fare ciò che Egli comanda, nel non ribellarci quando la sua mano ci sottopone alle prove. Il timor di Dio non turba la pace, anzi ne è la salvaguardia. Chi teme Dio è da Lui protetto e difeso. Egli può ripetere con tutta verità le parole del Salmista: «Ecco, Dio è colui che mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’anima mia» (Salm. LIII; 6. – Introito). – « I suoi precetti sono più dolci del miele e di ciò che stilla dai favi» (Salm. XVIII, 11 – Offertorio). Perciò li osserva, e nell’osservarli ha grande ricompensa; arricchisce la sua corona di frutti di salute. Il timore e l’amore sono gli sproni della vita: non solamente della vita materiale, ma anche, e più, della vita spirituale. Il timore e l’amore spingono l’uomo a risorgere dal peccato, e a ritornare al più amante dei padri. Se il peccatore dovesse guardare solamente ai propri demeriti, come potrebbe innalzare la fronte a Dio, e dirgli: «Perdona?» Ma egli sa con chi ha da fare; egli può rivolgersi a Lui e ricordargli con tutta fiducia: «So che tu sei un Dio clemente, e misericordioso e paziente, e molto compassionevole e che perdoni il mal fare» (Gion. IV, 2). – Chi ben si guarda, scudo si rende. Questa norma fu dimenticata da Sansone, il forte d’Israele, che, fidando troppo in sé stesso, si prese gioco del pericolo, e finì con perdere la libertà, la vista, la forza prodigiosa; finì col perdere Dio, che si allontanò da lui. Ma nel misero stato in cui è ridotto non si dimentica che Dio è clemente, misericordioso, paziente, molto compassionevole, e si rivolge a Lui con umiltà, fede e fiducia : «Signore Iddio, ricordati di me» (Giud. XVI, 28). E Dio ascolta l’umile e fiduciosa preghiera del pentito Giudice d’Israele. Chissà quante volte abbiamo imitato Sansone nello scherzare con le occasioni, con la conseguenza di rimanerne vittima! Imitiamolo anche nel ricorrere con fiducia a Dio per rialzarci dalle nostre cadute. Il timor di Dio, senza la fiducia nella sua misericordia non è un timore buono. «Tu lo placherai, se speri nella sua misericordia» (En. In Ps. CXLVI), dice S. Agostino. Sperando nella sua misericordia, risorgiamo, dunque, e subito. «Risorgiamo, o cari, sebben tardi, e stiamo saldamente in piedi» (S. Giov. Cris. In Epist. I ad Cor. Hom. 23, 4).

Graduale 

Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!

[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]


V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja

[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII: 2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.

 [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e líberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX: 41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ.
Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

[“In quel tempo avvicinandosi Gesù a Gerusalemme, rimirandola, pianse sopra di lei, e disse: Oh? se conoscessi anche tu, e in questo tuo giorno, quello che importa al tuo bene! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato. Conciossiachè verrà per te il tempo, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincea, e ti serreranno all’intorno, e ti stringeranno per ogni parte. E ti cacceranno per terra te e i tuoi figliuoli con te, e non lasceranno in te pietra sopra pietra; perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta. Ed entrato nel tempio, cominciò a scacciare coloro che in esso vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa di orazione; e voi l’avete cangiata in spelonca di ladri. E insegnava ogni giorno nel tempio”.

Omelia II

– Sopra il santo Sacrifizio della Messa.-

Domus mea, domus orationis est; vos autem fecistis illam speluncam latronum.

Luc. XIX

Bisognava, fratelli miei, che il tempio di Gerosolima fosse di grande rispetto, poiché il Salvatore del mondo, che era la stessa mansuetudine, usò tanta severità contro coloro che lo profanavano con commerci indegni della santità di quel luogo: severità, che lo portò a riprendere, non solamente come lo fa nell’odierno Vangelo, quei sacrileghi profanatori, ma ancora a scacciarli a colpi di sferza, a rovesciare le tavole su cui erano le loro mercanzie, come narrasi altrove nel Vangelo. Che avrebbe dunque fatto Gesù Cristo, e che farebbe Egli al giorno d’oggi contro i profanatori delle nostre chiese, infinitamente più rispettabili, che il tempio di Gerusalemme? Delle nostre chiese, dico, che contengono la realtà di ciò che non era che in figura nel tempio di Salomone. In questo che cosa eravi mai? Le tavole della legge, un po’ di manna data miracolosamente agl’Israeliti nel deserto; ma nei nostri tempi noi possediamo l’Autore medesimo della legge, il vero pane sceso dal cielo, Gesù Cristo, il Figliuolo di Dio che risiede in Persona nei nostri sacri tabernacoli. Ciò che rendeva ancora il tempio di Gerusalemme degno di venerazione, erano i sacrifici che si offrivano a Dio, era questo il solo luogo destinato ad offrirglieli. Ma che cosa erano mai questi sacrifici? Erano sacrifici di animali che si scannavano, il sangue di tori, di capretti che vi si spargeva; laddove nelle nostre chiese si presenta a Dio il Sacrificio dell’Agnello immacolato. Si è nelle nostre sole chiese che si può offrire l’adorabile Sacrificio dei nostri altari, ove Gesù Cristo si offre a Dio suo Padre per le mani dei Sacerdoti, ed ecco, dice s. Agostino, ciò che rende le nostre chiese sì rispettabili, ciò che deve farcele riguardare come case consacrate a Dio, come case di orazione; perché si è nel Sacrificio della Messa, che si rende a Dio più gloria, e che possiamo pregarlo con una maniera più efficace che in qualunque altro luogo. Di questo divin Sacrificio, fratelli miei, che è l’azione più santa della nostra Religione, voglio io in quest’oggi intertenervi per ispirarvi i sentimenti di pietà, che vi dovete recare, e per rianimare altresì il vostro rispetto pel luogo santo, ove egli è offerto. Per riempiere il mio disegno, noi riguarderemo il Sacrificio della Messa per i rapporti che ha con Dio e per quelli che ha con noi medesimi. La gloria che esso procura a Dio, ed i vantaggi che attira agli uomini, sono le due proprietà del Sacrifizio, che io trovo indicate nelle parole del reale profeta, ove dice ch’egli offrirà a Dio un sacrificio di lode, e che invocherà il suo santo Nome: Ubi sacrìficabo hostiam laudis, et nomen Domini invocabo (Ps. CXV). Di tutti i sacrifici quello della Messa è il più glorioso a Dio: Ubi sacrificabo hostiam laudis; primo punto. Di tutti i sacrifici quello della Messa è il più salutevole agli uomini, e dove possono essi più efficacemente invocare il Nome del Signore: et nomen Domini invocabo; secondo punto.

Da questo io tiro due conseguenze pratiche: se il Sacrificio della Messa è glorioso a Dio, convien dunque assistervi per glorificar Dio con i nostri omaggi e rispetti. Se egli è sì utile agli uomini, convien dunque assistervi con confidenza per domandare le grazie di cui abbiamo bisogno; il che richiede tutta la vostra attenzione.

I . Punto. Il sacrifizio, secondo la definizione che ne danno i teologi dopo s. Tommaso, è un atto di religione con cui si offre a Dio una cosa che, nell’oblazione che se ne fa, è distrutta o cangiata, per riconoscere il supremo dominio di Dio sopra le creature. Il sacrifizio è si necessario alla religione, che non si può senza di esso rendere a Dio un culto perfetto, come lo merita. Imperciocché per rendere a Dio questo culto perfetto, bisogna che la creatura ragionevole gli faccia una protesta della sua dipendenza, che lo riconosca per l’Autore del suo essere e della sua vita; ed è ciò che fassi nel sacrificio, ove la vittima è distrutta o cangiata, per dimostrar con questo, che Dio è il padrone della vita e della morte di ciascheduno di noi. Ed è per questo che si offrivano a Dio nell’antica legge sacrifici, che si chiamavano olocausti, ove la vittima era interamente distrutta. Questi erano animali che si scannavano e si facevano in appresso consumare col fuoco, in segno del potere assoluto che Dio ha sopra la vita degli uomini. Si offrivano ancora vittime pacifiche, sia in riconoscenza dei beni che gli uomini ricevevano dalla bontà di Dio, sia per ottener nuove grazie. Finalmente si offrivano sacrifici di propiziazione, per calmare l’ira di Dio irritata dai peccati degli uomini. Ma tutti questi sacrifici erano incapaci di render a Dio il culto che merita; non avevano essi virtù se non se in quanto erano uniti per la fede di coloro che gli offrivano, al Sacrificio del Redentore, di cui erano essi la figura. Che però questi sacrifici son passati per dar luogo al più grande, al più eccellente di tutti, che è quello dei nostri altari. Sacrifizio che rinchiude non solo, ma che supera tutto il valore ed il merito degli altri; perché ci somministra il mezzo più eccellente di adempiere tutte le nostre obbligazioni verso Dio. Che cosa dobbiamo noi a Dio, fratelli miei? Noi dobbiamo glorificare la grandezza del suo essere, riconoscerlo per il supremo Signore da cui noi dipendiamo in tutte le cose, ringraziarlo come l’Autore di tutti i nostri beni. Dio merita gli omaggi per se stesso, ed a cagione delle sue infinite perfezioni; Egli merita la nostra riconoscenza a cagione dei benefizi che ci ha fatti. Ora il santo Sacrificio della Messa è il più glorioso omaggio che noi possiamo rendere alla grandezza di Dio, perché è il più perfetto olocausto, che gli sia stato offerto giammai. Il Sacrifizio della Messa è il più giusto compenso, che noi possiamo dare a Dio per tutti i beni che ne abbiamo ricevuti. E perciò chiamasi eucaristico, cioè di ringraziamento: due proprietà del Sacrificio che provano quanto sia glorioso a Dio. Seguitemi ed ascoltate quanto sono per dirvi sulla eccellenza di tal Sacrificio. – Noi possiamo, è vero, glorificar Dio con tutti gli atti delle virtù che praticar possiamo, come sono l’orazione, la limosina, il digiuno e gli altri esercizi di religione. Ma qualunque gloria l’uomo possa rendere a Dio con le sue virtù, questa gloria sarà sempre infinitamente inferiore a quel che Dio merita. Non evvi che Dio che possa glorificarsi in una maniera degna di Lui. Ora nel Sacrificio della Messa noi troviamo il mezzo eccellente di rendere a Dio tutti gli onori che merita. Come mai ciò, fratelli miei? Nel Sacrificio della Messa noi gli offriamo un Dio, e per conseguenza una vittima d’un prezzo infinito, o per meglio dire, si è il Figliuolo di Dio medesimo, che si offre a suo Padre, che è nell’istesso tempo e sacerdote e vittima, e che si offre in olocausto per rendere al Padre suo a nome di tutte le creature gli omaggi che sono alla sua grandezza dovuti. – Procuriamo di sviluppare questo mistero della nostra santa Religione, che rinchiude sì grandi meraviglie. Di già, fratelli miei, il Figliuolo di Dio erasi offerto a suo Padre come un’ostia di soavità, dice l’Apostolo, col sacrificio che gli fece della sua vita rivestendosi della nostra natura, e che consumò sulla croce colla morte, che vi patì; sacrificio che riparò abbondantemente l’ingiuria, che il peccato aveva fatta a Dio, e gli rendette infinitamente più di gloria che tutte le creature non gliene potrebbero procurare. Ma siccome questo Sacrificio non si è offerto che una sola volta, ed in un sol luogo del mondo, e nulla di meno era necessaria a Dio una vittima pura e senza macchia, la quale, secondo la predizione d’un profeta, rendesse gloria alla grandezza del suo Nome in lutti i luoghi del mondo, perciò il Figliuolo adorabile, per una meravigliosa disposizione della sua sapienza, ha trovato il mezzo di perpetuare sino al fine dei secoli il Sacrificio, ch’Egli offrì sopra la croce alla gloria di suo Padre. Qual è questo mezzo, fratelli miei? L’adorabile Sacrificio dei nostri altari, che è non solamente un memoriale, ma ancora un rinnovamento del Sacrificio del Calvario. Per convincercene, richiamiamoci per un momento la sua intenzione, e consideriamo il modo con cui Gesù Cristo si offra in questo divin Sacrifizio, per rinnovare la memoria della morte e la morte medesima ch’Egli soffrì sopra la croce. Fu, come sapete, il giorno avanti la sua passione che il Salvatore del mondo, per fare la funzione di Sacerdote secondo l’ordine di Melchisedeck, preso del pane e del vino, li benedì e li cangiò nel suo vero corpo e sangue; con questo Egli fece due cose: istituì la santa Eucaristia come Sacramento, in quanto ci diede il suo corpo ed il suo sangue per essere l’alimento delle nostre anime; come Sacrificio, in quanto volle che questa consacrazione del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue fosse una rappresentazione del sacrificio che Egli era per offrire sopra la croce. Per la qual cosa raccomandò a’ suoi Apostoli che ogni qualvolta farebbero lo stesso, essi annunzierebbero la sua morte agli uomini. Fu altresì per perpetuare questo Sacrificio, che questo Dio salvatore diede agli Apostoli ed ai Sacerdoti loro successori il potere di fare quel ch’Egli aveva fatto; perché dovendo ritornare al cielo, non poteva Egli fare sopra la terra in una maniera visibile le funzioni di sacerdote eterno: Hoc quotiescumque feceritis, in mei memoriam facietis. Si è dunque questo potere ammirabile, che i Sacerdoti esercitano nella Messa, che noi chiamiamo e dobbiamo riconoscere come un memoriale della morte di Gesù Cristo; si è per questo potere, che essi continuano sopra la terra in una maniera visibile il sacerdozio di Gesù Cristo secondo l’ordine di Melchisedeck; potere che non consiste in benedir del pane e del vino, come il sommo sacerdote dell’antica legge; mentre, se ciò fosse, qual privilegio avremmo noi di più nella legge di grazia, che nell’antica? ma potere che consiste in cangiare, come fece Gesù Cristo, il pane ed il vino nel suo vero corpo e nel suo vero sangue. – Or in questo cangiamento, in questa consacrazione consiste il Sacrificio sì glorioso a Dio. E come questo? Io l’ho detto; ed è, che questo Sacrificio non solo è una memoria, ma anco una rinnovazione di quello della croce. Si è la medesima Vittima, che vien offerta a Dio; questo è il mio corpo, che sarà dato per voi, dicono a nome di G. C. i sacerdoti che celebrano; questo è il mio sangue, che sarà sparso per voi. Or questo corpo e questo sangue sono uniti alla divinità; Egli è dunque un Dio, che offriamo nel Sacrificio della Messa alla maestà di Dio, Egli è altresì un Dio che è sacrificatore. G. C., l’uomo-Dio, lo stesso che si è offerto sopra la croce, si offre ancora sopra l’altare; i Sacerdoti ne sono i ministri; essi operano a Nome suo, rappresentano la sua Persona; che però non dicono già: Questo è il corpo di G. C., questo è il sangue di G. C, ma; Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue. Si è dunque Gesù Cristo che si offre in olocausto per le mani dei Sacerdoti, in quanto che si sacrifica e muore tra le loro mani con una morte mistica, come morì sulla croce con una morte sanguinosa. – Gesù Cristo morì sulla croce con una morte reale per la separazione del suo sangue dal suo corpo; il che si rinnova io un senso nel Sacrificio della Messa, perché, in virtù delle parole della consacrazione, non vi è precisamente che il corpo di Gesù Cristo sotto le apparenze del pane, ed il sangue sotto le apparenze del vino: non già che effettivamente il corpo ed il sangue siano separati l’uno dall’altro, perché sono per sempre riuniti per la risurrezione del Salvatore; ma se potessero essere separati, le parole sacramentali, come una spada misteriosa, li dividerebbero l’uno dall’altro, li produrrebbero l’uno senza l’altro: ed in questo senso si dice con tutta verità che il Sacrificio della Messa rappresentata il Sacrificio della croce; perché la morte mistica di G. C., nel Sacrificio rappresenta la sua morte reale e sanguinosa sopra la croce. Si dice dunque con verità che Gesù Cristo si offre in olocausto a Dio suo Padre, poiché si mette in uno stato di morte per rendergli la gloria che è dovuta alla sua grandezza. Quel che devesi ancora osservare si è, che Gesù Cristo nel Sacrificio della Messa perde nella comunione del Sacerdote l’essere sacramentale, che aveva ricevuto nella consacrazione; in quanto che, distrutte le specie, Gesù Cristo cessa di esservi, e perde un modo di esistere che prima aveva. Egli è non solo sepolto nel petto del Sacerdote, come nella tomba, ma il suo corpo non vi è più, tosto che le specie sono consumate; il che si può dire, morir di una mistica maniera. Così, o fratelli miei, questo adorabile Salvatore ha saputo perpetuare, per onorar suo Padre, il sacrificio che gli ha offerto sopra la croce. Siccome non poteva più fare del suo corpo una vittima sanguinosa, a cagion dello stato glorioso ed impassibile di cui gode, Egli ha trovato il segreto di offrirsi in una maniera affatto misteriosa alla gloria di suo Padre, per supplire alla impotenza in cui sono gli uomini di rendergli quella che merita. Qual eccesso di bontà del nostro Dio salvatore! E quali felici conseguenze possiamo noi trarre da questo mistero ineffabile. – Non sono più dunque vittime materiali ed imperfette, come si offrivano nell’antica legge, non è più il sangue degli animali, che noi offriamo a Dio; ma è una vittima di un prezzo infinito, è il sangue medesimo di G. C, l’Agnello immacolato, che si sparge sui nostri altari, e che manda al cielo un più grato odore, che il fumo visibile che s’innalzava dagli antichi sacrifici. Egli è per conseguenza il più glorioso olocausto, che noi possiamo offrire a Dio per riconoscere la sua grandezza ed il dominio supremo che Egli ha sopra la sua creatura. Se Dio merita una gloria infinita a cagione della sovranità del suo essere, non è forse rendergli questa gloria, l’offrirgli il suo caro Figliuolo in cui Egli ha poste le sue compiacenze„ che è uguale in tutto a suo Padre, e che si mette in uno stato di morte e di annientamento per glorificare questo Padre celeste in una maniera degna di Lui? – Mi sembra, fratelli miei, udire questo Figliuolo adorabile, nell’augusto Sacrificio della Messa, tener a suo Padre il medesimo linguaggio che il profeta gli fa tenere nel suo ingresso nel mondo: Padre santo, che siete infinitamente adorabile, ma che non ricevevate gli omaggi, che vi erano dovuti per le vittime che vi si sacrificavano, voi avete rigettate queste vittime, come incapaci di rendervi un culto degno della vostra grandezza, sia per difetto di ragione e di libertà negli animali, sia per difetto di santità negli uomini: holocaustum prò peccato non postulasti (Ps. IL). Ma eccomi, invece di quelle vittime imperfette, che vi glorifico per le vostre creature, che mi sacrifico per esse alla gloria del vostro nome, che voglio rendervi per esse tutti gli omaggi che meritate: dixi: Ecce venio (Ibid.). Tale è, fratelli miei, il motivo che fa scendere invisibilmente G. C. sopra i nostri altari e che lo fa nascere una seconda volta, e che lo fa morire con una morte mistica tra le mani dei Sacerdoti; si è a fine di glorificar suo Padre: ecce honorifico Patrem. Si è per adempiere pienamente tutti gli obblighi di rispetto, di onore, di adorazione che dobbiamo alla sua suprema Maestà.Quindi torno a dire, qual felice conseguenza per noi! Mentre da tutto ciò che abbiam detto che ne segue? Ne segue, che Dio è tanto glorificato con una sola Messa quanto merita di esserlo, che una sola Messa rende più gloria a Dio che tutti gli uomini e gli Angeli ancora riuniti insieme non potrebbero procurargliene con le azioni più sante e più eroiche; che questa Messa è di maggiore prezzo avanti a Dio e gli è più gradita che tutti i patimenti dei martiri, tutte le penitenze degli anacoreti, tutte le virtù dei santi; che una sola Messa è più che bastante a riparare tutti gli oltraggi che Dio riceve dai peccatori, perché la dignità della vittima che vi è offerta, sorpassa tutta la malizia degli uomini che offendono il Signore. Qual forte motivo per voi d’intervenire assidui a questo santo Sacrificio, poiché vi trovate un mezzo si eccellente di glorificar Dio come vostro supremo Signore e di ringraziarlo dei beni che ne avete ricevuti!Noi abbiamo tutto ricevuto, fratelli miei, dalla bontà del nostro Dio, noi siamo attorniati da’ suoi benefizi e dai suoi favori; benefizi di cui Egli ci ha ricolmi in sì gran copia nell’ordine della natura ed in quello della grazia,che ci ritroviamo nell’impossibilità di rendergliene il contraccambio. Ma grazie vi siano per sempre rese, o mio adorabile Salvatore, che ci avete somministrato nell’augusto Sacrificio dei nostri altari, onde soddisfare pienamente per le nostre obbligazioni verso il vostro divin Padre. Noi non saremo più in pena sul tributo della nostra riconoscenza, che gli dobbiamo. Se cerchiamo il mezzo, come il reale profeta: quid retribuam Domino? noi lo ritroveremo, come lui nel calice della salute; calìcem salutaris accipiam ( P$. CXV). Questo calice ci è presentato nel sacrificio della Messa, egli è a nostra disposizione, per offrirlo a Dio in riconoscenza dei suoi benefizi; ed offrendoglielo noi siamo certi, che facciamo a Dio un dono degno di Lui; dono che uguaglia non solamente tutti i beni che Dio ci ha dati, ma li supera ancora, alla riserva di quello, per cui ci ha dato il suo Figliuolo, poiché questo dono non è altro che quel Figliuolo adorabile, che si è dato a noi per liberarci pienamente da tutti i nostri obblighi verso Dio. Quando io vi offro dunque, o mio Dio, questa preziosa Vittima, posso dire che io ho verso di voi tutta la riconoscenza, che mi domandate, che la mia riconoscenza uguaglia i vostri benefizi, per numerosi che possano essere, e che li sopravanza ancora, poiché io vi offro una Vittima d’un prezzo infinito, che vale più di tutti i beni, di tutti gli imperi del mondo. – Possiate voi, fratelli miei, servirvi sempre d’un mezzo così eccellente per rendere a Dio quanto gli dovete, per glorificarlo come vostro supremo Signore, per ringraziarlo come vostro benefattore; ma bisogna per questo unirvi a quel divin sacrificio col rispetto che dovete recarvi, con la riconoscenza da cui dovete essere penetrati. Qual cosa più capace d’inspirarvi questi sentimenti di rispetto, che la grandezza e la maestà d’un Dio, cui viene offerto un Sacrificio e gli abbassamenti d’un Dio, che sacrifica sé stesso? Ah! se fossimo ben penetrati da questo pensiero che ad un Dio, un Dio medesimo si sacrifica; che questo Sacrificio è l’azione più santa, più augusta della nostra Religione; che i cieli e la terra tremano alla vista di ciò che accade tra le mani del Sacerdote, con qual rispetto non assisteremmo a questo terribile mistero? Or in che consiste questo rispetto con cui dobbiamo presentarci a questo santo Sacrificio? Questo rispetto consiste a non comparirvi giammai che con un esteriore decente e coi sentimenti dell’umiltà più profonda. Essendo l’uomo composto di corpo e d’anima, Dio vuole essere onorato con queste due parti di noi medesimi; con un esteriore decente noi gli facciamo il sacrificio dei nostri corpi, e con l’umiltà gli offriamo il sacrificio dei nostri spiriti. Questa modestia del corpo deve ritenere i nostri sensi in ischiavitù, affinché non si perdano sopra oggetti capaci di cagionarci distrazioni. Questo esteriore del corpo deve essere accompagnato dall’umiltà dello spirito, che ci faccia scendere nel nostro nulla, c’ispiri del dispregio per noi medesimi per rendere omaggio all’umiltà d’un Dio, che si abbassa per noi. Senza questa, benché perfetto sia il Sacrificio dalla parte della vittima che è offerta, egli sarà imperfetto dal canto nostro e di nessun vantaggio per noi. – Umiliamoci dunque con Dio che si umilia, prostriamoci avanti alla sua infinita maestà: Venite, procidamus. Ringraziamo il Signore per tutti i beni ricevuti, come la Chiesa ci invita con la voce del sacerdote: Gratias agamus Domino Deo nostro. Ma si comparisce forse al giorno d’oggi al santo Sacrificio con quel rispetto, quell’umiltà, quella riconoscenza, che si deve recarvi? Non vi si tengono forse discorsi profani, che interrompono il silenzio dei sacri misteri? Non si dà forse ogni sorta di libertà ai sensi, che si lasciano errare d’oggetto in oggetto, invece di cattivarli sotto il giogo della modestia e dell’umiltà? Quanti trasportare si lasciano a distrazioni volontarie, incompatibili con l’attenzione, che si deve al santo Sacrificio? Non ve ne ha ancora di quelli che, trovando il tempo troppo lungo, portano l’empietà sino al segno di uscir dalla chiesa nel tempo medesimo, che un Dio si sacrifica per essi? Ed è questo, fratelli miei, ditemi di grazia, entrare nei disegni di Gesù Cristo che, facendosi vittima per noi, ha voluto che noi fossimo vittima con Lui? Non è forse al contrario disonorar Dio nell’azione medesima che deve più onorarlo? Del che si duole Gesù Cristo medesimo, come faceva altre volte contro i Giudei: mentre Io rendo gloria a mio Padre con le mie umiliazioni, voi m’insultate nel modo più oltraggiatile: Et vos inhonorastis me (Jo. VIII). Mentre le celesti intelligenze per cui il Sacrificio non è offerto, lodano ed adorano il Signore, mentre gli Angeli, i Troni e le Dominazioni stanno in un santo tremore alla vista delle umiliazioni d’un Dio, perfidi peccatori per cui si sacrifica si innalzano sfacciatamente contro di Lui, lo dispregiano e l’oltraggiano. Non è questo forse fare andar del pari la più nera ingratitudine col beneficio più segnalato? Ah! non sia così di voi, fratelli miei, assistete sempre ai santi misteri con un santo tremore, con un profondo rispetto, con una viva riconoscenza, che vi renderanno salutevole questo sacrificio, come sono per insegnarvi nel secondo punto.

II. Punto. Non solamente per rendere gloria a Dio suo Padre ha istituito Gesù Cristo l’augusto sacrificio dei nostri altari, ma ancora per lo vantaggio e la salute degli uomini. Questo sacrifizio è nell’istesso tempo propiziatorio ed impetratorio, ma in una maniera molto più eccellente che quelli dell’ antica legge. Esso è propiziatorio per calmare l’ira di Dio irritato per i peccati degli uomini; è impetratorio per ottener loro tutte le grazie di cui essi hanno bisogno. Due qualità assai atte ad inspirare una fermi confidenza a tutti coloro che hanno il vantaggio di assistervi, sia per domandar il perdono dei loro peccati, sia per ottenere le grazie che loro sono necessarie. – Qual mezzo infatti più proprio e più efficace per piegare l’ira di Dio, e per ottenere il perdono de’ suoi peccati, che un sacrificio in cui si offre a Dio la vittima, che ha cancellati tutti i peccati del mondo? Se il sangue dei tori e degli altri animali, che si sacrificavano nell’antica legge era capace di purificare, come dice l’Apostolo, coloro che avevano contratto qualche macchia legale, con quanto più forte ragione, soggiunge il santo Apostolo, il sangue di Gesù Cristo potrà purificare le nostre coscienze, lavandole da tutte le iniquità? Sangue prezioso, che essendo d’un valore infinito, e più che bastante per espiare i peccati di mille mondi ancora più colpevoli di questo. Or si è il valore di questo sangue prezioso, che ci è applicato nel sacrificio dalla Messa: esso è versato sull’altare per lavarci dalle nostra colpe; esso è offerto per nostre riconciliazione da Gesù Cristo medesimo, che si mette invece degli uomini peccatori e dice a suo Padre su l’altare, come gli disse sulla croce: Perdonate, o Signore, a quegli uomini scellerati, che hanno meritato il peso delle vostro vendette, Io vi dimando grazia per essi, Io mi santifico per essi: Ego prò eìs sanctifico me ipsum (Jo. XVII). Sono degni, è vero, di subire tutto il rigore delle sentenze che avete fulminato contro di essi; ma ecco qui il medesimo sangue, ecco la medesima vittima, che ha già disarmato il vostro braccio vendicatore, che ha tolto il fulmine dalle vostre mani; non ascoltate più dunque la voce delle iniquità, che s’innalza sino a voi, ma più tosto la voce del vostro Figliuolo, che implora la vostra misericordia per i peccatori: Ego prò eis sanctifico me ipsum. Iddio, fratelli miei, può Egli forse esser insensibile alla voce sì amabile d’un Figliuolo, che è l’oggetto delle sue compiacenze? Potrebbe egli vibrare i suoi fulmini sopra gli infelici bagnati del sangue di questo Figliuolo adorabile? Se la morte, che questo Figliuolo ha sofferta sopra la croce ha fatto cancellare, come dice l’Apostolo, il decreto di morte eterna pronunciato contro gli uomini, il sacrificio della Messa, che è un memoriale ed una rappresentazione di quella morte, non avrà Egli la virtù medesima? Si, fratelli miei, la virtù di questo sacrificio è così grande, che senza di Lui il mondo sarebbe già perito per l’eccesso delle scelleratezze ond’è inondato; sarebbe esso diventato secondo la predizione d’un profetacome Sodoma e Gomorra, che furono consumate dal fuoco del cielo. Egli è sì efficace questo divin sacrificio, che del peccatore più acciecato ed ostinato può fare un gran santo, se esso vi assiste con pietà e profitta delle grazie che vi sono annesse. Non è già che il sacrificio della Messa rimetta immediatamente da sé medesimo il peccato, come i Sacramenti, che sono instituiti per questo effetto; ma esso ottiene, come dice il santo concilio di Trento, ai peccatori grazie di conversione sì grandi ed in sì gran numero, che, per un po’ di sforzo che vogliono essi fare dal canto loro, è loro facile di entrare in grazia con Dio. – Finalmente questo Sacrificio è propiziatorio in quanto che cancella e rimette la pena temporale dovuta ai peccati, ed è questo, secondo la dottrina del medesimo Concilio, uno de’ suoi effetti particolari. Pena temporale che è rimessa sin da questa vita a quelli per cui egli è offerto e che si rimette anche nel purgatorio alle sante anime, che espiano i loro peccati con tormenti incredibili. Ed è perciò che queste anime pazienti desiderano e domandano con tanto ardore ai fedeli che sono sopra la terra, di far scendere sulle fiamme che le divorano il sangue di Gesù Cristo con l’applicazione del sacrificio della Messa, a fine di estinguere quelle fiamme e abbreviare i loro tormenti. – O voi dunque, che siete carichi del grave peso dei vostri peccati, che gemete sotto il grave peso delle vostre catene, accostatevi al liberatore che può spezzarle. Venite, infermi, venite ad immergervi in questa piscina, salutevole ove il sangue di Gesù Cristo scorre in abbondanza per lavarvi. Voi non potete già dire come quel paralitico del Vangelo, che non avete alcun uomo per introdurvi in essa, poiché voi trovate in tutti i luoghi del mondo, in tutte le chiese dei sacrificatori che offrono la preziosa vittima della salute per l’espiazione dei vostri peccati. Accostatevi, torno a dirvi, al santo monte ove l’agnello senza macchia è immolato: una sola gocciola del sangue che Egli sparge, è capace di purificarvi da tutte le colpe che avete commesse per numerose, enormi che possano essere. Ma per ottenere il perdono, bisogna che al sacrificio dell’uomo-Dio, voi uniate quello d’ un cuor contrito ed umiliato; questo è il sacrificio  che domanda da voi e che vi farà trovar grazia presso di lui: Sacrificium  Deo spiritus contribulatus; cor contritum et humiliatum Deus, non despicies (Ps. L). In vano Gesù Cristo si offrirà per voi a Dio suo Padre per calmarne lo sdegno; se voi non mescolate le vostre lagrime col sangue che Egli sparge, se non prendete in mano la spada della penitenza per immolare le vostre passioni, i vostri abiti, per sacrificare quell’oggetto, che occupa il vostro cuore, voi non otterrete giammai il perdono. L’evangelista ci riferisce, che alla morte di Gesù Cristo le rupi si spaccarono, il velo del tempio si squarciò, e che molti di coloro che furono testimoni di questi prodigi se ne ritornavano percuotendosi il petto: revertebantur percutientes pectora sua. (Luc. XXV). – Tali debbono essere, fratelli miei, le vostre disposizioni quando assistete ai santi misteri, ove fassi memoria della morte di Gesù Cristo; convien comparirvi coi sentimenti del povero pubblicano, che non osava alzar gli occhi verso il cielo, percuotevasi il petto supplicando il Signore di essergli propizio: Deus, propitius esto mihi peccatori (Luc. XVIII). Signore, dovete voi dire com’esso, siate propizio ad un povera peccatore qual sono io. Non riguardate le iniquità che ho commesso, ma rimirate la faccia del vostro Figliuolo, che vi chiede grazia per me: respice in faciem Christi tui (Ps.LXXXIII). Il dolore che sento di avervi offeso mi farà, come la Maddalena ai piedi della croce, mescolar le mie lagrime col sangue di questo vostro dilettissimo Figliuolo per attirarne su di me alcune gocce, che mi lavino dalle mie iniquità» Questo dolore mi farà prendere la sincera risoluzione di non più separarmi da voi col peccato » di attaccarmi inviolabilmente al vostro servizio. Tali sono, fratelli miei, i sentimenti da cui dovete essere penetrati assistendo alla santa Messa. Quale sarebbe stato il vostro dolore, la vostra pietà, se foste stati presenti al sacrificio del Calvario, se aveste veduto Gesù Cristo spirante sulla croce per vostro amore? Egli è questo il medesimo sacrificio; bisogna dunque assistervi con le medesime disposizioni con cui sareste allora stati presenti. Da quale sdegno non sareste allora stati presi contro i crudeli Carnefici, che confissero Gesù Cristo sulla croce, e contro i Giudei che lo insultavano in quello stato, dicendogli: Se tu sei il Figliuolo di Dio, discendi dalla croce: Si filius Dèi es, descende de cruce (Matth.XXVII). Questi sono, peccatori, gli oltraggi che voi rinnovate contro Gesù Cristo allorché, in vece di comparire al santo sacrificio della Messa, con sentimenti e attitudine di penitenti, col cuore spezzato dal dolore, vi comparite in positure indecenti, allorché appena piegate un ginocchio nel tempo, che un Dio si sacrifica per noi. Voi rinnovate con questo l’empio saluto, che gli facevano i Giudei allorché, mettendo un ginocchio in terra, gli dicevano per derisione: Ave rex Judàeorum. Questi sono, torno a dirvi, quegli oltraggi che voi rinnovate, allorché venite al sacrificio per cercarvi l’oggetto della vostra passione, allorché il vostro cuore non è tutto occupato, in vece di spezzarlo col dolore dei vostri peccati, in vece di sacrificarlo con un intero distacco dalle creature. Questo confronto della vostra condotta con quella dei Giudei vi fa senza dubbio orrore; ma ella deve servire a farvi rientrare in voi medesimi, per armarvi, come dice l’Apostolo s. Pietro, dello stesso pensiero, dei medesimi sentimenti, ch’ebbe Gesù Cristo quando soffrì per voi; Christo passo in carne, et vos eadem cogitatione armamini (1 Petr. 4). Sarebbe egli giusto che avendo fatto il Figliuolo innocente dal canto suo ciò che non era obbligato di fare per calmar l’ira di suo Padre, il colpevole nulla facesse per soddisfar alla giustizia di Dio e per applicarsi i meriti che hanno espiati i suoi mancamenti? Si è nel sacrificio della Messa che questi meriti vi sono particolarmente applicati; ma a condizione che il dolore e la penitenza faccia su di voi quest’applicazione. Con questo, fratelli miei, il sacrificio vi sarà propiziatorio per ottenervi il perdono, sarà ancora impetratorio per procurarvi tutti gli aiuti e tutte le grazie di cui avete bisogno. Nulla infatti evvi, fratelli miei, che non possiate domandare ed ottenere per i meriti della vittima che si offre per voi nella santa Messa. Se giudicar possiamo dall’esito delle nostre domande dal credito delle persone che le appoggiano presso di coloro cui le indirizziamo, che non dobbiamo noi sperare dalla mediazione di Gesù Cristo, il Figliuolo di Dio, che è stato esaudito, come dice l’Apostolo, in quel che ha domandato a suo Padre, a cagion della riverenza, che gli è dovuta? Exauditus est prò sua reverentia (Heb. V)? Si è il medesimo mediatore, che intercede per noi su l’altare e nel cielo, ove Egli presenta incessantemente a Dio i suoi meriti per far scendere su di noi i tesori celesti: sempér vivens ad interpellandum prò nobis (Heb.VII). Può forse Iddio ricusar cosa alcuna ad un mediatore cosi potente? E se è cosi, quali non saranno le nostre speranze? Perciò la Chiesa; ben persuasa del gran potere « e dell’efficacia del credito di Gesù Cristo presso del Padre suo, in tutte le orazioni che essa indirizza a Dio nel santo sacrificio della Messa, impiega continuamente il nome di Gesù Cristo: per Dominum nostrum Jesum Christum, come se dicesse a Dio: Signore, in tutto ciò ch’io vi domando, vi offro, per averlo, il sangue, la vita, i meriti del vostro caro Figliuolo; si è una moneta, mi si permetta questa espressione, d’un prezzo infinito di cui io mi servo per comprar tutto quello, che posso desiderare. Qualunque cosa io possa chiedere è di molto inferiore a quel, ch’io presento per ottenerla: qual sicurezza non ho io dunque di essere esaudito nelle mie domande? Non è forse questo, fratelli miei, un motivo molto capace di animar la vostra confidenza per chiedere a Dio nella santa Messa tutte le grazie di cui avete bisogno? Quel Dio di bontà, che ci ha dato il suo caro Figliuolo, che l’ha, per così dire, abbandonato alla nostra disposizione, ci ricuserà egli qualche altra cosa? Al contrario non ci darà Egli tutti gli altri beni con Lui, dice l’Apostolo: Quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit (Rom.VIII). Ah! se noi siamo nella miseria e nell’indigenza, lo meritiamo, poiché abbiamo nel santo sacrificio un tesoro inesausto, una sorgente perenne di tatti i beni, donde possiamo cavare ogni ricchezza pel tempo e per l’eternità. Volete voi dunque, fratelli miei, uscir dallo stato di povertà, a cui siete ridotti, per arricchirvi dei tesori celesti della grazia? Venite alle fontane del vostro Salvatore che scorrono sull’altare, ad attinger quell’acqua salutevole che zampilla per la vita eterna. Gli Israeliti che bevettero dell’acqua, che Mosè aveva fatto uscir dalla rupe, non lasciarono di perire. Ma chi berrà dell’acqua di questa rupe misteriosa non avrà mai sete, e sarà preservato dalla morte eterna. O voi dunque, che siete arsi dalla sete mortale, che eccita in voi il fuoco delle passioni, venite a bere di quest’acqua, che vi guarirà dalla vostra sete e vi darà la vita! Peccatori che gemete sotto la schiavitù del peccato, e sotto il peso degli abiti cattivi; che vi tiranneggiano, domandate la vostra conversione. Giusti che temete di perdere il dono della grazia, che vi assicura dell’amicizia del vostro Dio, domandate quello della perseveranza, domandate la vittoria delle tentazioni per la virtù di questo sacrificio, che vi otterrà aiuti abbondanti per superarle; domandate una fede viva, una carità ardente, un’umiltà profonda, una purezza inviolabile, una pazienza alla prova di tutte le afflizioni da cui siete circondati; domandate principalmente la grazia d’una santa morte, in questo divin sacrificio che ci richiama alla memoria la morte di Gesù Cristo. Il tempo più acconcio per chiedere una buona morte si è l’intervallo tra le due elevazioni. – Mentre allora è che Gesù Cristo muore con una morte mistica tra le mani del sacerdote, pregatelo allora di farvi morire tra le braccia della sua croce. Voi potete ancora, fratelli miei, alzare le vostre speranze nel sacrificio della Messa sino a domandare i beni temporali che vi sono necessari, come il ristabilimento della vostra sanità l’esito di un affare che v’interessa, la conservazione dei vostri beni; ma questo sia sempre secondo la volontà di Dio, ed in vista della salute della vostr’anima, e non già per contentar passioni malvage, per cui non si deve impiegar un mezzo così prezioso come l’adorabile sacrificio. Voi potete finalmente, fratelli miei, pregare nel santo sacrificio, non solamente per i vostri bisogni, ma ancora per i bisogni di coloro che vi appartengono. – Padri e madri, pregate per i vostri figliuoli; consorti, pei vostri mariti; padroni e padrone, per i vostri servi. Ma per rendere le vostre preghiere gradite a Dio ed efficaci per voi medesimi, bisogna assistere a quel divin sacrificio con le disposizioni, che Dio da voi richiede e che vi prego di tener a memoria.

Pratiche. Due cose sono assolutamente necessarie per ben udire la santa Messa: la modestia del corpo e l’attenzione dello spirito. La modestia del corpo, come ho già detto, consiste non solo nell’esser presente di corpo e di spirito al sacrificio dal principio sino al fine, ma ancora nel tenersi in una positura decente; la più convenevole è di star in ginocchio, non guardare qua e là, né tener discorsi profani, ed osservare, per quanto si può, quel che si fa sull’altare. Ma poco sarebbe l’esser presenti col corpo al sacrificio, se non vi fossimo presenti con lo spirito. Perciocché, siccome sarebbe grave peccato mancare una parte notabile della Messa, sarebbe pure peccato grave l’esservi volontariamente distratto durante un tempo considerabile. Or uno dei migliori mezzi per avere quest’attenzione, si è di pensare durante la Messa alla passione, e alla morte di Gesù Cristo, di cui ella ci richiama la memoria. Questa è una pratica, che non ecceda la capacità di alcuno, avendocela facilitata la Chiesa per via della cura, che ha avuta di rappresentare con le differenti cerimonie della Messa le circostanze della passione e della morte del Salvatore. Perciò quando voi vedete il Sacerdote a pie dell’altare prostrato, e che fa la confessione dei suoi peccati, rappresentatevi Gesù Cristo, che prega nel giardino degli ulivi, carico dei peccati degli uomini; domandate allora perdono dei vostri peccati, con un atto di contrizione e con l’umile confessione che ne farete. Quando il sacerdote va ai differenti lati dell’altare, rappresentatevi Gesù Cristo condotto nei differenti tribunali; domandategli perdono di tutti i passi che avete fatti nelle vie dell’iniquità, recitato il Credo col sacerdote. – L’elevazione dell’ostia e del calice è un memoriale di Gesù Cristo elevato sulla croce, ove sparse il suo sangue per la vostra salute; fate allora un atto di fede sopra la presenza reale di Lui nel santissimo Sacramento; ringraziatelo d’aver data la sua vita per voi. La Comunione del Sacerdote vi rammemora la sepoltura di Gesù Cristo; se non vi comunicate alla Messa, egli è bene di fare allora la comunione spirituale con un desiderio ardente di ricevere Gesù Cristo. Negli altri tempi della Messa potete far altre preghiere: coloro che sanno leggere, hanno il vantaggio di trovarne sopra i libri di pietà; gli altri possono recitar la corona, che si può interrompere per far attenzione alle azioni principali della Messa nel modo che vi ho spiegato. Conviene usar attenzione, specialmente fin dal principio, d’offrire il santo sacrificio per i fini che Gesù Cristo l’ha istituito; cioè per glorificar Dio, per ringraziarlo dei beni che ci ha fatti, per chiedergli perdono delle nostre colpe, e per le altre grazie che ci sono necessarie. – Rinnovate di tempo in tempo questa offerta con un atto di contrizione, quand’anche non si facesse questo che durante la Messa, egli è un modo eccellente d’ascoltarla ed una pratica, che gl’ignoranti medesimi sono capaci d’adempiere. Servitevene, fratelli miei, per soddisfare ad un obbligo, il cui adempimento procura tanta gloria a Dio e sì grandi vantaggi a voi medesimi. Assistete, il più sovente che vi sarà possibile, al sacrificio della Messa, anco nei giorni che non sono di precetto: quando noi potete, udendo suonare la campana, unitevi all’intenzione del Sacerdote e degli assistenti. Venite al sacrificio della Messa con uno spirito di sacrificio, che faccia morir in voi il peccato, le vostre passioni, le vostre inclinazioni sregolate, che vi consacri interamente a Gesù Cristo, per vivere e per regnare con Lui nei secoli dei secoli. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XVIII: 9-12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta

Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur.

[Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/04/02/la-comunione-spirituale-2/

Communio

Joann VI: 57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.

[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.

[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

PRIMO AGOSTO: FESTA DI SAN PIETRO IN VINCOLI, LA FESTA DEL PAPA IMPEDITO

Tutti i Cattolici romani del pusillus grex, sono oggi in fervorosa preghiera – come ai tempi di San Pietro nella prigione di Erode sostenuto dalla preghiera incessante dei Cristiani della Chiesa sotterranea – per sostenere a loro volta il Sommo Pontefice attuale, S. S. Gregorio XVIII, Papa impedito dalla sinagoga di satana e dalla “bestia” dell’Apocalisse [che sono parte attiva del corpo mistico di lucifero], ed ennesimo “S. Pietro in catene” della storia della Chiesa, speriamo l’ultimo.

In questo momento “apocalittico” per le anime cristiane, l’impegno spirituale deve essere massimo, per cui ognuno si offra vittima di espiazione con il Signore Nostro Gesù Cristo, per la libertà e l’esaltazione della Santa Madre Chiesa Cattolica – Luce dei popoli, Sposa Immacolata di Cristo – e del VICARIO unico del Figlio di Dio, alla cui adesione è indissolubilmente legata la nostra salvezza eterna.

Auguri, Santità, a presto vederci, anche soltanto in cielo a lodare con gli Angeli ed i Santi il nostro Creatore, il nostro Salvatore, il nostro Consolatore, nei secoli dei secoli,

“… Mettiti la cintura e lègati i sandali, buttati addosso il tuo mantello, e seguimi” …

Chiunque abbia lottato contro il Papa, con le armi, le persecuzioni, le eresie, lo scisma, l’apostasia, ha fatto – anche umanamente – fine miserrima. Non osiamo pensare a cosa gli stia succedendo nella vita eterna!

QUI MANGE LE PAPE MEURT!

Et portæ inferi non prævalebunt!

Quodcúmque in orbe néxibus revínxeris,
Erit revínctum, Petre, in arce síderum:
Et quod resólvit hic potéstas trádita,
Erit solútum cæli in alto vértice;
In fine mundi judicábis sǽculum.

Patri perénne sit per ævum glória,
Tibíque laudes concinámus ínclitas,
Ætérne Nate; sit, supérne Spíritus,
Honor tibi decúsque: sancta júgiter
Laudétur omne Trínitas per sǽculum.
Amen.

[Tutto ciò che legherai sulla terra,
sarà legato, o Pietro, nella rocca celeste:
e tutto ciò che scioglierà quaggiù il potere concessoti,
sarà sciolto nelle altezze del cielo:
alla fine del mondo giudicherai il secolo.

Al Padre eterno sia perenne gloria;
a te, Figlio eterno, noi cantiamo insigni lodi;
a te, Spirito Santo, sia onore e splendore:
la santa Trinità sia ognor lodata per tutti i secoli.
Amen.]

Dagli Atti degli Apostoli
Atti XII: 1-5


Il re Erode mise mano a maltrattare alcuni della Chiesa. Uccise di spada Giacomo, fratello di Giovanni. E vedendo che ciò piaceva ai Giudei, procedé anche all’arresto di Pietro. Erano i giorni degli azimi. E fattolo catturare, lo mise in prigione, dandolo in guardia a quattro picchetti, di quattro soldati ciascuno, volendo dopo la Pasqua processarlo davanti al popolo. Pietro dunque era custodito nella prigione. Ma dalla Chiesa si faceva continua orazione a Dio per lui. Or, la notte stessa che Erode stava per processarlo, Pietro dormiva tra due soldati, legato con due catene; e le sentinelle alla porta custodivano la prigione. Quand’ecco si presenta un Angelo del Signore e brilla una luce nella cella, e dato un colpo nel fianco a Pietro, lo risvegliò, dicendo: Lévati su in fretta. E caddero le catene dalle mani di lui. Poi l’Angelo gli disse: Mettiti la cintura e lègati i sandali. Ed egli fece così. E gli soggiunse: Buttati addosso il tuo mantello, e seguimi. E uscito che fu, lo seguiva, senza rendersi conto che fosse realtà quanto si faceva dall’Angelo; ma credeva di avere un’allucinazione. E passata la prima e la seconda sentinella, giunsero alla porta di ferro che mette in città, la quale s’aprì loro da sé medesima; e usciti fuori, s’inoltrarono in una contrada, e d’improvviso l’Angelo si partì da lui. Pietro allora, rientrato in se, disse; Adesso riconosco veramente che il Signore ha mandato il suo Angelo, e m’ha liberato dalle mani d’Erode, e da tutta l’attesa del popolo dei Giudei.

 Sotto l’imperatore Teodosio il giovane, Eudossia, sua sposa, essendo andata a Gerusalemme per sciogliere un voto, vi fu colmata di numerosi doni. Il più prezioso di tutti fu il dono della catena di ferro, ornata d’oro e di gemme, colla quale si affermava essere stato legato l’Apostolo Pietro da Erode. Eudossia, dopo aver venerato piamente detta catena, l’inviò in seguito a Roma, alla figlia Eudossia, che la portò al sommo Pontefice. Questi a sua volta glie ne mostrò un’altra colla quale lo stesso Apostolo era stato legato sotto Nerone. – Mentre dunque il Pontefice confrontava la catena conservata a Roma con quella portata da Gerusalemme, avvenne ch’esse si unirono talmente da sembrare non due, ma una catena sola fatta dallo stesso artefice. Da questo miracolo si cominciò ad avere tanto onore per queste sacre catene , che la chiesa del titolo d’Eudossia all’Esquilino venne perciò dedicata sotto il nome di san Pietro in Vincoli, in memoria di che fu istituita una festa al 1° Agosto. – Da questo momento, gli onori che usavasi tributare in questo giorno alle solennità dei Gentili, si cominciò a darli alle catene di Pietro, il contatto delle quali guariva i malati e scacciava i demoni. Il che avvenne nell’anno dell’umana salute 969 a un certo conte, famigliare dell’imperatore Ottone, il quale essendo posseduto dallo spirito immondo, si lacerava coi propri denti. Condotto per ordine dell’imperatore dal Pontefice Giovanni, non appena le sante catene n’ebbero toccato il collo, il maligno spirito se ne fuggì all’istante lasciando libero l’uomo: dopo di che la devozione alle sante catene si diffuse in Roma sempre più.

Sant’Agostino Vescovo
Sermone 29 sui Santi, alla metà.

Pietro è il solo degli Apostoli che meritò di udire: «In verità ti dico che tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa» Matth. XVI, 18; degno certo d’essere, per i popoli di cui sarebbesi formata la casa di Dio, la pietra fondamentale, la colonna di sostegno, la chiave del regno. Così leggiamo nel sacro testo: «E mettevano fuori, dice, i loro infermi, affinché, quando Pietro passava, almeno l’ombra sua ne coprisse qualcuno» Act. V, 15. Se allora l’ombra del suo corpo poteva portare soccorso, quanto più ora la pienezza del suo potere? se, mentr’era sulla terra, si sprigionava al suo passaggio tal fluido salutare per i supplicanti, quanta maggior influenza non eserciterà ora ch’è nel cielo? Giustamente dunque in tutte le chiese cristiane si ritiene più prezioso dell’oro il ferro delle catene onde egli fu legato. – Se fu sì salutare l’ombra del suo passaggio, quanto più la catena della sua prigionia? Se la fuggitiva apparenza d’una vana immagine poté avere in sé la proprietà di guarire, quanta maggior virtù non meritarono d’attrarre dal suo corpo le catene onde egli soffrì e che il peso impresse nelle sacre membra? S’egli a sollievo dei supplicanti fu tanto potente prima del martirio, quanto più efficace non sarà dopo il trionfo? Benedette catene, che, da manette e ceppi dovevano poi cambiarsi in corona, e che toccando l’Apostolo, lo resero così Martire! Benedette catene, che menarono il loro reo fino alla croce di Cristo, più per immortalarlo, che per farlo morire!

[Brev. Roman. 1 Aug.]

LO SCUDO DELLA FEDE (122)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO I .

Quanto convenga che Dio ci guidi per via di fede.

I . Troppo delicata convien che sia di verità quella sposa cui pesano insin le gioie. E tali son l’anime di molti Cristiani, cui sembra di grave incarico la credenza di tanti loro eccelsi misteri. Come? Si stimerà favor sommo, se un re terreno notifichi ad un suo suddito alcun segreto del gabinetto, e poi si stimerà sommo aggravio, se lo notifichi il Re celeste? Io dico, che per tutti capi fu convenevolissimo, che il Signore ci guidasse per via di fede. Convenevolissimo in riguardo suo, convenevolissimo in riguardo nostro, o convenevolissimo in riguardo ancor delle cose che porge a credere.

I.

II. In riguardo suo, non era forse il dovere che qual sovrano venisse Iddio riconosciuto da noi con qualche ossequio proporzionato a quella bella natura che ci donò nel formarci liberi? Ma il più proporzionato appunto era questo: che soggettassimo ai pie di lui con vigore non solamente la volontà, dove ripugnasse, ma l’intelletto. Come poteva però questo eseguirsi, se non in cose difficili di credenza? Perciò sta scritto: Plurima super sensum hominum ostensa sunt tibi(Eccli. 3. 25), perché a queste ancora chinassimo il capo altero.

III. Quindi quale onore sarebbe quello di Dio, se si contentasse, che di Lui non facessimo altro giudizio, che quale a noi vien dettato dal nostro senno? Ecce Deus magnus vincens scientiam nostram (Iob. XXXVI. 36). Convien che tutti, in guisa di abbarbagliati, al fissarci in lui, noi caliamo di subito le palpebre; anzi le chiudiamo, confessando con umiltà, che ci basta il credere quel che non ci è possibile di capire. Il maggior onore che il maestro riceva da’ suoi discepoli ecco qual è: che quegli stiano al suo detto: Discantem oportet credere. E ben tal onore ci venne chiesto da Dio con giustizia grande. Conciossiachè, avendo il primo uomo voluto sì facilmente nel paradiso terrestre stare al detto dell’inimico, benché fosse detto oppostissimo alla ragione; come non era giusto, che dovesse egli stare al detto di Dio? (L’intelligenza divina trascende per infinito eccesso 1’intelligenza umana. Di qui s’intende ragione per cui era conveniente, che il Signore ci guidasse per via di fede. La sapienza di Dio, siccome infinita, fa adeguazione perfetta colla Verità infinita, la quale non potendo perciò essere tutta appresa dalla nostra finita intelligenza, ragion vuole, che sia in parte oggetto di fede).

II.

IV. In riguardo nostro poi, di qual modo potevasi istituire un commercio stabile fra l’uomo e Dio senza la fede? mentre senza la fede né anche può stabilirsi tra uomo e uomo? (S. Aug. de utilit. credend. c. 2). Tuttodì fa d’uopo il fidarsi delle altrui relazioni in affari sommi: e se si crede ad un fantaccino, a un famiglio, come non dovrà darsi fede all’istesso principe? Anzi per abilitarci alla divina amicizia non rimanevaci altra via che la fede, la quale è già come un principio dell’istessa amicizia (mentre è una comunicazione de’ consigli divini ad altrui nascosti), o almanco n’è il fondamento. La visione beatifica è il fondamento di quell’amore, che portano in cielo a Dio tutti i comprensori; e la fede sostituita alla visione beatifica ha da essere il fondamento di quell’amore che in sulla terra parimente gli portano i viatori (S. Th. contra gentes 1. 1. c. 3). Così noi siamo certi di amare Dio, secondo ch’Egli è: che è il solo amor giusto. I beati ne sono certi, perché tale lo veggono qual Egli è: noi, perché tale il crediamo.

V. Ma per procedere in ciò più distintamente, di due generi sono le verità concernenti a Dio. Alcune, che eccedono di gran lunga il vigore della ragione naturale. E tale è l’essere nella sostanza Dio trino ed uno. E certe sì fatte, cui la ragion naturale non pure è losca, ma cieca dal nascimento. Altre, che non lo eccedono in simil modo, ma pure hanno bisogno di molto aiuto a capirsi bene, come sono l’esservi un Autore dell’universo, e questo incorporeo, potente, provvido, giusto, e varie non dissimili verità, che molti filosofi sono arrivati ad investigar con la face pigliata in prestito dal loro attento discorso (S. Th. c. gent. 1. 1. C. 3).

VI. Se noi guardiamo alle prime, qual dubbio v’è, che non fu di bisogno andare per via di fede, ma fu di necessità, mentre la sola fede aveva quivi da fare il tutto? Queste sono quelle verità di cui specialmente disse sant’Agostino, che se noi le volessimo prima conoscere e di poi credere, non le potremmo né credere, né conoscere: Si prius cognoscere et postea credere vellemus, nec credere, nec cognoscere veleremus (Tr. 27. in Io). E però solo potrebbesi da qualcuno qui dubitare, come fosse mai convenevole questo caso, che l’uomo avesse a seguire la fede sola, mentre esser uomo è l’istesso che essere ragionevole? Ma come no, se anzi a perfezionarlo tal è la via? Questa, se si considera, è l’eccellenza d’ogni natura inferiore, e conseguentemente subordinata alla superiore, che, oltre al moto proprio, che è men perfetto, partecipi il moto ancor della superiore, lasciandosi da lei trarre ad operazioni più rilevate della sua nascita (S. T h . 2. 2. q. 2. art. 3. in c.). Così in quei pianeti, che mai non sono atti ad andare da se medesimi senonchè dall’occaso all’orto, acquistano una virtù molto più eccedente, mentre nel tempo stesso, co’ moti del primo mobile, si lasciano rapir dall’orto all’occaso. E tali in noi sono i moti di quella fede che diamo a Dio, non curando di saper altro: moti che ci sollevano ad operar sopra quei che siamo.

VII. E vaglia la verità, mentre era l’uomo stato da Dio sublimato ad un fin sì eccelso, qual è la vision beatifica, visione totalmente spirituale, troppo era giusto, che si andasse prima a ciò disponendo col puro credere quel che poi dovea contemplare: mentre così egli va sollevandosi a poco a poco da’ sensi vili incapaci di veder Dio, alle operazioni totalmente astratte da’ sensi (S. Th. contra gentes 1. 1).

VIII. Che se guardiamo a quelle altre verità divine, cui può il nostro discorso arrivar da sé, fu dì uopo, che queste ancora dovesse l’uomo non solamente indagare , ma ancora credere.

IX. Prima, perché così le dovesse arrivar piuttosto, non si potendo in altra guisa ottenere sopra la terra perfetta scienza della divinità, senza il fondamento di molte scienze anche umane, non conseguibili, senonchè in decorso di tempo (S. Th. 2. 2. q. 2. a. 4. In c. cont. gent. 1. 1. c. 1).

X. Poi, perché cosi tale scienza fosse più agevolmente comune a tutti: ritrovandosi molti rozzi d’ingegno, e molti, se non rozzi, almeno distratti necessariamente in diverse cure, o famigliari, o mercantili, o meccaniche, o militari, che non danno luogo agli studi più sollevati. E questi non hanno anch’essi a sapere ciò che sia Dio?

XI. All’ultimo, perché tale scienza fosse per via di fede anche più infallibile, attesoché nelle verità conseguite per via di puro discorso benché acutissimo, si possono pigliare non pochi abbagli, come li pigliarono tanti filosofi grandi, che di Dio favellarono da bambini: Cui assimilastis me et adæquastis? dicit sanctus (Is. XL. 25).

XII. Qual più bell’onore poteva dunque a noi fare Iddio, che supplire Egli alla nostra incapacità, con fare a noi fin l’interprete di se stesso ? Veggiamo, che a ben intendere la formazione. l’indole, l’industria di una formica, non basterebbero tutti gl’intelletti di questa misera terra congiunti insieme, dopo gli studi di un secolo. Che dunque mai con sicurezza potrebbero supere gli uomini di quella natura increata, la quale è un abisso di luce, se non si fosse ella da se compiaciuta benignamente di dir che sia?

XIII. Aggiungete negli uomini la passione che spesso, benché dotti, fa travederli, come benché dotti, traveggono gli ubbriachi. E se traveggono nelle cose ancor chiare, quanto più travederebbero nelle oscure, quali sono le cose di là da’ sensi? Non era dunque possibile, che gl’intelletti umani per altra via aderissero immobilmente alle notizie del sommo vero, che per via di fede divina, la quale, a guisa di scorta amorevolissima, desse loro anche il braccio fra tanti inciampi, dove altrimenti verrebbero a tracollare di notte folta.

III.

XIV. E qui, per far passaggio al terzo riguardo che ebbe Iddio nel guidarci per via di fede (riguardo appartenente alle cose che diede a credere), ben apparisce subito, quanto sia intollerabile quel linguaggio di certi audaci, i quali, trattando della fede, ne parlano come appunto d’una ignoranza, di una violenza della ragione, di una viltà della mente (Tanto varrebbe tacciare di ignoranza, di violenza della ragione, di viltà di mente la fede, che noi uomini del secolo decimonono prestiamo ai fatti storici avvenuti nei secoli passati, fatti, cui la nostra ragione non avrebbe mai discoperti di per se sola senza l’autorità altrui.). Chi discorre così, merita il titolo dato a lui dall’apostolo dove dice: Superbus est nihil sciens (1. Tim. VI. 4). Egli è un otre vile, tanto più gonfio di sé. quanto più vuoto. La fede è una nobiltà dell’intelletto, che lo rende come di vino: ed è una fortezza, o per dir meglio, una generosità della mente, che per tal via solleva sé sopra sé: Generositas nostri intellectus. come giustamente chiamata fu dal gran vescovo di Parigi (Gal. Paris, de fide c. 1). E queste putride lucciole che ieri non distinguevansi dal letame, per un poco di splendore vacillante che la natura accese loro sul capo, vogliono avanzarsi a motteggiare di semplice quel fedele che crede a Dio? Non credono essi, perché non sanno comandare al loro intelletto, tanto, che si alzi un dito sopra la sfera dei sensi ignobili: Non capiunt fidei magnitudinem angusta impiorum pectora, disse Ambrogio (L. 3. de spir. c. 18), e disse divinamente. Si ravvolgono sempre d’intorno a qualche esperienza sensibile; e nel restante quæcumque ignorant blasphemant. amando per loro guida in ogni giudizio più la fantasia, che la fede, a guisa di quei nobili sventurati, che, allevati da piccoli tra’ bifolchi, non sanno poi concepire sentimenti mai degni de’ loro natali.

XV. Che favellare è cotesto, chiamar la fede una violenza della ragione? La fede non contraddice alla ragione giammai (Non contraddice, né può contraddire alla ragione la fede, perché entrambe illuminate dal medesimo Sole di verità), ma la perfeziona, come di sopra fu scorto: ond’è, che quod mens humana rationis investigatione comprehendere non potest, fidei plenitudo complectitur (Ambr. 1. 4. in Luc.. 5). E così nello verità divine, non indagabili dalla ragion naturale, a noi basta di far palese, che non si oppongono alla ragion dianzi detta (Non ciò, che sta al di sopra della ragione, ossia il mistero, bensì ciò, che va contro di essa, cioè l’assurdo, va rigettato), ma la trapassano, calpestandola solo quando è superba. Nelle indagabili, dimostriamo di più quanto bella lega esse facciano con la ragion naturale, avvalorata da esse, non altrimenti che l’occhio dal cannocchiale. Chi dipinge sull’alabastro, non vi scancella mai le sue vene, ma le promove, e se ne vale a vantaggio. Chi smalta l’oro, nol guasta. Chi ricama sull’ostro, non lo scolora. Come può una luce fare giammai contrasto ad un’altra luce? La fede è una ragion superiore, cioè un raggio diretto del divin volto: e però, come può ella far pregiudizio alla ragione inferiore, la quale è un raggio di quel volto medesimo, ma riflesso? È al certo da cervello sediziosissimo il mettere dissensione tra due luci tanto conformi, quali sono luce riflessa e luce diretta. Sono le scienze confederate alla fede, anzi confinanti. Dove finisce la terra, comincia l’aria. Dove finiscono gli elementi, comincia il cielo. E dove finiscono i lumi dell’intelletto o s’indeboliscono, cominciano i lumi di fede; lumi che sono incomparabilmente più nobili d’ogni scienza, si per l’oggetto conosciuto che è Dio, e le verità promulgate dalla sua bocca; sì per lo modo di conoscere, che è soprannaturale, cioè dipendente da un conforto che avanza tutte le forze della natura: e sì per la certezza di detto conoscimento: certezza tale, che maggiore non truovasi in paradiso, se non quanto quivi vien da cognizione intuitiva, come si accennò da principio, e qui da astrattiva. Nel rimanente ogni atto di fede ha una connessione tanto essenziale con la prima verità, quanto ve l’abbia quello che è di visione.

XVI. Che importa poi, che una tale certezza non sia chiarezza? In due maniere gli orologi solari ci additano il viaggio del sole sull’emispero: alcuni ce lo additano con la luce, altri con l’ombra: e pure amendue sono sicuri a una forma. Sia pur ombra la fede: ciò non rileva, mentre ella ‘tanto accertatamente scopre a’ viatori i disegni eccelsi di Dio, quanto la visione medesima ai comprensori. Oltre a che, il credere è di merito incomparabile: il che non conseguirebbesi nel vedere. Onde se Rachele vince Lia di bellezza, le cede in fecondità.

XVII. Finalmente né anche manca alla fede la sua evidenza, so non nelle cose credute, almeno nelle ragioni induttive a crederle, essendo sì patente aver Dio parlato, che il dubitarne è una ribellion manifesta alla verità: e il biasimare la fede è un arrolarsi nel numero di coloro i quali maledicono il dì comparso a destarli: Qui maledicunt diei (Iob. III. 8).

XVIII. Si concluda pur dunque, che fu giustissimo, che Iddio ci guidasse per via di fede. Fu giusto in riguardo suo, fu giusto in riguardo nostro, e fu giusto ancora in riguardo alle cose che porge a credere. E perciò, se abbiamo fior di saviezza, disponiamoci ad abbracciare ossequiosi questa sì degna fede, non a calunniarla astiosi. Udiamo ciò che da lei ci vien detto al cuore. Ma per udirla, sediamo prima il rumore delle passioni tumultuanti. Se l’aere interno non posa, l’orecchio non ode, a modo o non sente quel suono che è nell’ambiente prossimo, o trasente quel che non v’è.

CALENDARIO LITURGICO CATTOLICO DEL MESE DI AGOSTO 2020

CALENDARIO LITURGICO CATTOLICO DEL MESE DI AGOSTO 2020

LA CHIESA DEDICA IL MESE DI  AGOSTO ALLA

B. V. MARIA ASSUNTA ED AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA, MADRE DI DIO.

AD B. V. M. IN CÆLUM ASSUMPTAM

439 bis

Oratio

O Vergine Immacolata, Madre di Dio e Madre degli uomini!

I. Noi crediamo con tutto il fervore della nostra fede nella vostra Assunzione trionfale in anima e in corpo al cielo, ove siete acclamata Regina da tutti i cori degli Angeli e da tutte le schiere dei Santi; e noi ad essi ci uniamo per lodare e benedire il Signore, che vi ha esaltata sopra tutte le altre pure creature, e per offrirvi l’anelito della nostra devozione e del nostro amore.

II. Noi sappiamo che il vostro sguardo, che maternamente accarezzava l’umanità umile e sofferente di Gesù in terra, si sazia in cielo alla vista della umanità gloriosa della Sapienza increata, e che la letizia dell’anima vostra nel contemplare faccia a faccia l’adorabile Trinità fa sussultare il vostro cuore di beatificante tenerezza; e noi, poveri peccatori, noi a cui il corpo appesantisce il volo dell’anima, vi supplichiamo di purificare i nostri sensi, affinché apprendiamo, fin da quaggiù, a gustare Iddio, Iddio solo, nell’incanto delle creature.

III. Noi confidiamo che le vostre pupille misericordiose si abbassino sulle nostre miserie e sulle nostre angosce, sulle nostre lotte e sulle nostre debolezze; che le vostre labbra sorridano alle nostre gioie e alle nostre vittorie; che Voi sentiate la voce di Gesù dirvi di ognuno di noi, come già del suo discepolo amato: Ecco il tuo figlio; e noi, che vi invochiamo nostra Madre, noi vi prendiamo, come Giovanni, per guida, forza e consolazione della nostra vita mortale.

IV. Noi abbiamo la vivificante certezza che i vostri occhi, i quali hanno pianto sulla terra irrigata dal sangue di Gesù, si volgono ancora verso questo mondo in preda alle guerre, alle persecuzioni, alla oppressione dei giusti e dei deboli; e noi, fra le tenebre di questa valle di lacrime, attendiamo dal vostro celeste lume e dalla vostra dolce pietà sollievo alle pene dei nostri cuori, alle prove della Chiesa e della nostra patria.

V. Noi crediamo infine che nella gloria, ove Voi regnate, vestita di sole e coronata di stelle, Voi siete, dopo Gesù, la gioia e la letizia di tutti gli Angeli e di tutti i Santi; e noi, da questa terra, ove passiamo pellegrini, confortati dalla fede nella futura risurrezione, guardiamo verso di Voi, nostra vita, nostra dolcezza, nostra speranza; attraeteci con la soavità della vostra voce, per mostrarci un giorno, dopo il nostro esilio, Gesù, frutto benedetto del vostro seno, o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria (Pio Pp. XII).

Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem devote repetita (S. Pæn. Ap., 17 nov. 1951).

ACTUS REPARATIONIS CONTRA BLASPHEMIAS IN B. M. VIRGINEM

328

Gloriosissima Vergine, Madre di Dio e Madre nostra Maria, volgete pietoso lo sguardo verso di noi poveri peccatori, che afflitti da tanti mali, che ci circondano in questa vita, sentiamo lacerarci il cuore nell’udire le atroci ingiurie e bestemmie, lanciate contro di voi, o Vergine immacolata. Oh quanto queste empie voci offendono la maestà infinita di Dio e dell’unigenito suo Figlio, Gesù Cristo! Come ne provocano lo sdegno e quanto ci fanno temere gli effetti terribili della sua vendetta! Che se valesse, ad impedire tanti oltraggi e bestemmie, il sacrifizio della nostra vita, ben volentieri lo faremmo, perché, Madre nostra santissima, desideriamo amarvi ed onorarvi con tutto il cuore, tale essendo la volontà di Dio. E appunto perché vi amiamo, faremo quanto è in nostro potere, affinché siate da tutti onorata ed amata. Voi intanto, Madre nostra pietosa, Sovrana consolatrice degli afflitti, accettate questo atto di riparazione, che vi offriamo in nome nostro e di tutte le nostre famiglie, anche per quelli, che non sapendo ciò che si dicono, empiamente vi bestemmiano; affinché impetrandone da Dio la conversione, rendiate più manifesta e gloriosa la vostra pietà, la vostra potenza, la vostra grande misericordia; ed anch’essi a noi si uniscano a proclamarvi la benedetta fra tutte le donne, la Vergine immacolata, la pietosissima Madre di Dio.

Tre Ave Maria.

Indulgentia quinque annorum (S. C. Indulg., 21 mart.

1885; S. Pæn. Ap., 6 apr. 1935 et 10 iun. 1949).

* * *

Il terzo giorno dopo che Maria fu seppellita, riferisce la tradizione, « gli Apostoli che si trovavano a Gerusalemme, essendo sopravvenuto san Tommaso, l’unico che non era stato presente alla morte di Maria, il quale ardentemente desiderava di venerare anche una volta il sacro Corpo che aveva concepito il Figlio di Dio fatto Uomo, aprirono il sepolcro; ma non vi ritrovarono il sacro cadavere ». – Presi di ammirazione alla vista di questo mistero, gli Apostoli, assistiti dallo Spirito di Dio, l’interpretarono così: che Quegli a cui era piaciuto di prender carne nel seno immacolato di Maria, il Verbo di Dio, il Signore della gloria, che nel parto stesso di lei non aveva voluto offendere la integrità di quel corpo verginale, si era compiaciuto di trasportarlo incorruttibile e immacolato nella gloria, senza fargli aspettare la comune e universale risurrezione degli eletti. Insieme cogli Apostoli si trovavano a questo grande avvenimento Timoteo primo vescovo di Efeso, e Dionigi l’areopagita il quale ne parla egli stesso ne’ suoi scritti. Maria a guisa di una nube d’incenso, uscita dalla tomba, si era innalzata verso il cielo. È il dolce paragone che ci presenta la sacra Scrittura: Chi è costei che ascende per lo deserto quasi piccola colonna di fumo dagli aromati di mirra ed incenso? (Cant. III, 6). E noi ammirati, rispondiamo:

Maria, la Vergine Madre di Dio.

(1) TAIT, Vita di Maria. Occorre anche notare che, mentre possediamo molte reliquie dei corpi degli Apostoli, nessuno ha mai preteso di possedere una reliquia del corpo di Maria. Se Maria non fosse assunta in cielo bisognerebbe dire che mentre i primi Cristiani ebbero tanta premura di conservarci i resti mortali degli Apostoli e dei Martiri non si siano dato alcun pensiero dei resti mortali della madre del loro Signore.

(2) S. GIOVANNI DAMASCENO, Discorso 2° sulla Dormizione di Maria;

SOFRONIO, Sant’ATANASIO, ecc., Brevìar. Rom., die 18 augusti. — Non dobbiamo discutere questa tradizione perché  non fondiamo tanto sopra di lei, quanto nel Vangelo la nostra fede in questo glorioso mistero. Tuttavia, osserveremo col Nicolas « …non possiamo trattenerci dal far osservare questa prova morale della sua perfetta veracità, che, se fosse stata un’invenzione, non si sarebbe mancato di rendere gli Apostoli testimoni del miracolo medesimo dell’Assunzione, come lo erano stati di quello dell’Ascensione; e che, limitandosi ad arguire l’Assunzione dal fatto solo della scomparsa del corpo della Santissima Vergine e dalle circostanze che avevano accompagnate la morte e la traslazione di Lei, lo stesso racconto imprime, per la sua propria riservatezza, a queste circostanze soprannaturali e a questa induzione dell’avvenimento principale, un carattere di veracità più conveniente che non sarebbe stata la descrizione dell’avvenimento medesimo.

(G. Perardi: La Vergine Madre di Dio – Libr. del Sacro Cuore – TORINO, 1908)

Queste sono le feste del MESE DI AGOSTO 2020

1 Agosto S. Petri ad Vincula  –  Duplex majus

PRIMO SABATO

2 Agosto Dominica IX Post Pentecosten I. Augusti  –  Semiduplex Dominica minor

                        S. Alfonsi Mariæ de Ligorio Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

3 Agosto De Inventione S. Stephani Protomartyris  –  Semiduplex

4 Agosto S. Dominici Confessoris  –  Duplex majus

5 Agosto S. Mariæ ad Nives    Duplex majus

6 Agosto

In Transfiguratione Domini Nostri J  esu Christi  –  Duplex II. classis

7 Agosto S. Cajetani Confessoris  –  Duplex

PRIMO VENERDI

8 Agosto Ss. Cyriaci, Largi et Smaragdi Martyrum    Feria

9 Agosto Dominica X Post Pentecosten II. Augusti  –  Semiduplex Dom. mino

                  S. Joannis Mariæ Vianney Confessoris    Duplex

10 Agosto S. Laurentii Martyris  –  Duplex II. classis

11 Agosto  Ss. Tiburtii et Susannæ Virginum et Martyrum    Feria

12 Agosto S. Claræ Virginis    Duplex

13 Agosto  Ss. Hippolyti et Cassiani Martyrum    Feria

14 Agosto Vigilia Assumptionis B.M.V.  –  Duplex II. classis

15 Agosto In Assumptione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis

16 Agosto Dominica XI Post Pentecosten III. Augusti    Semiduplex Dom. minor

                     S. Joachim Confessoris, Patris B. Mariæ Virginis   

17 Agosto  S. Hyacinthi Confessoris    Duplex

19 Agosto  S. Joannis Eudes Confessoris    Duplex

20 Agosto  S. Bernardi Abbatis et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

21 Agosto  S. Joannæ Franciscæ Frémiot de Chantal Viduæ    Duplex

22 Agosto  Immaculati Cordis Beatæ Mariæ Virginis  –  Duplex II. classis

23 Agosto Dominica XII Post Pentecosten IV. Augusti    Semiduplex Dom.

                     S. Philippi Benitii Confessoris    Duplex

24 Agosto S. Bartholomæi Apostoli  –  Duplex II. classis

25 Agosto S. Ludovici Confessoris    Duplex

26 Agosto  S. Zephirini Papæ et Martyris  –  Feria

27 Agosto S. Josephi Calasanctii Confessoris    Duplex

28 Agosto  S. Augustini Episcopi et Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

29 Agosto  Decollatione S. Joannis Baptistæ  –  Duplex

30 Agosto Dominica XIII Post Pentecosten I. Septembris    Semiduplex Dom.

                   S. Rosæ a Sancta Maria Limange Virginis    Duplex

31 Agosto S. Raymundi Nonnati Confessoris  –  Duplex

L’IDEA RIPARATRICE (3)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (3)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

CAPO TERZO

LA RIPARAZIONE NECESSITÀ CHE S’IMPONE NELLE CIRCOSTANZE PRESENTI.

Ove il terreno non rende convien portar del nostro. Noi preghiamo e mattino e sera: « Padre celeste, venga il tuo regno » . E che il nostro augurio rimanga continuamente vano è pur troppo verità a tutti manifesta. Oh! chi oserà dire che il regno di Dio sta per giungere? Non è forse vero invece che egli non giunge punto, che neppure lo si vede venire da lontano verso di noi? Ai nostri giorni anche noi possiamo ripetere, senza timore di sbagliare, quelle parole che Peguy mette sulle labbra di Giovanna  d’Arco, parole che dipingono così bene la triste epoca degli inizi del regno di Carlo VI. « 0 Padre nostro! Padre nostro che sei quanto siam lontani dal vedere che il tuo Nome sia santificato, quanto siam lontani dal momento che il tuo regno arrivi tra noi… Si va di male in peggio. Vedessimo almeno spuntare il sole di tua giustizia; invece, si direbbe, o mio Dio, mio Dio, perdona! si direbbe che il tuo regno se ne va lontano da noi. Mai prima d’ora si è tanto bestemmiato il tuo Nome; mai si è tanto disprezzata la tua volontà. Mai si è disobbedito con tanto orgoglio… Se i Santi e le Sante vissute finora tra noi non furono sufficienti, ne manda ancora quanti se ne richiedono, ne manda in modo che il nemico si stanchi e ci abbandoni… ». – Nella magnifica introduzione alla vita di S. Liduina, la dolorosa riparatrice di Schiedam, Huysmans descrive a larghi tratti lo stato del mondo nell’epoca in cui Dio si prepara ad eleggere l’elegante pattinatrice di quel canto di Olanda per inchiodarla in un letto per 38 anni, in preda ai più atroci dolori di corpo e di spirito, e così mandar sconfitto satana il cui regno maledetto si va espandendo ogni giorno più. Il mondo non si è mutato di molto dopo S. Liduina. Ai suoi giorni i popoli si massacravano l’un l’altro. Oggi noi abbiamo nulla da invidiare a quei barbari di allora. Le nazioni si sfasciavano per decrepitezza e decadenza, fattesi volontariamente schiave di sofisti prezzolati e di falsi pastori senza scienza. E noi abbiamo visto tutto questo anche al presente. Non mancava allora il denaro per assoldare i traditori. E a questo fine del denaro non ne mancherà mai. Ora come pel passato abbondano quei filosofastri che trovano sempre delle ragioni per scusare i più nefandi delitti. La sete del piacere dappertutto e sempre. « Fra 23 giorni compirò i miei vent’un anno, è tempo di darmi al piacere », e questo motto di Beyle è l’ideale di intere generazioni. Il peccato si diffonde con una profusione ed un cinismo che fa spavento. Non ci sentiamo il coraggio di portarne qualche esempio poiché non si troverebbe più il modo di terminare [chissà cosa scriverebbe oggi p. Plus, epoca infinitamente peggiore della sua .. –ndr.-]. A qualche anima più generosa nella riparazione il divin Salvatore non di rado ha fatto delle confidenze, in cui il buon Maestro viene a particolari di peccati più enormi che attirano sulla terra castighi più terribili se non v’ha chi si offra per riparare. – E per primi i peccati di bestemmia. Gesù comparve tutto in lacrime e sfigurato in volto ad una Clarissa del XVIII secolo, Veronica Giuliani, e le disse: « Contempla come sono maltrattato dagli uomini e in che stato sono ridotto. Tutto questo per le orribili bestemmie che vomitano continuamente contro di me le creature delle mie mani ». E noi abbiamo riferito più sopra a questo proposito le parole della Vergine Santissima alla Salette. – Poi vengono i peccati di impurità. Mentre Caterina da Siena piangeva sui mali della Chiesa: « Ricorda, le disse il divin Salvatore, che ben prima della peste ti avevo fatto comprendere l’orrore ch’io sento del vizio impuro, e come ne era purtroppo guasto il mondo intero. Io ti ho messo innanzi agli occhi tutte le nazioni e vi hai scorto un po’ per tutto questo maledetto peccato. Questa lebbra aveva contaminato l’universo… la maggior parte degli uomini era macchiata da questo vizio infame nell’anima e nel corpo. « Tuttavia in mezzo a tanti prevaricatori ti ho mostrato un certo numero di anime immuni da simili colpe, poiché in mezzo ai perversi si danno sempre degli eletti le cui buone opere mi trattengono dal comandare alle montagne di schiacciare i colpevoli, alla terra di ingoiarli nei suoi abissi, alle belve feroci di divorarli, o ai demoni di portarseli in anima e corpo all’inferno. E allora io cerco modo di poter far loro misericordia col trarli a mutamento di vita e mi servo a questo fine degli stessi miei servi fedeli e puri da siffatta lebbra e li muovo a pregare per essi » (Dialoghi, c. 124. – — Nostro Signore già altra volta le aveva detto: « Mia dolce figliuola, le tue lacrime sono onnipotenti perché sparse per amor mio. Non posso resistere ai tuoi desideri. Ma guarda un po’ le brutture che disonoranoil volto della mia sposa. Essa è guasta come da una lebbra dall’impurità, dall’amor proprio, dall’orgoglio e dall’avarizia » – Dial., c. 14].- Specialmente a certe epoche questi peccati riboccano, è allora che in modo particolare convien riparare. – La Domenica di Quinquagesima al cominciar della Messa N. S. Gesù Cristo compare a S. Geltrude stanco, desolato per le persecuzioni di cui lo fanno oggetto da ogni parte e le domanda di rifugiarsi nel suo cuore: « E da quel momento durante i tre giorni di Carnevale, ogni volta che io rientravo nel mio cuore io vi scorgevo, mio Gesù, appoggiato sul mio petto, languido, spossato e io non potevo allora recare migliore sollievo ai vostri mali che coll’applicarmi per amor vostro all’orazione e agli altri esercizi di mortificazione per la conversione di quelli che vivono nei disordini del mondo » (Insinuations, L. 2, c. 14). – Così non accadesse che gli stessi « eletti » non uscissero mai dalla retta via! Con quanti singhiozzi non esprimeva le sue lagnanze il Signore a S. Margherita-Maria e ad altre simili anime privilegiate più vicine a noi! » Io voglio mostrarti la ferita più dolorosa che si faccia al mio Cuore… ne sono causa le anime religiose e sacerdotali che mancano di fedeltà alla loro vocazione o che non vi corrispondono secondo i miei disegni ». Ritorniamo ai semplici fedeli. Là dove essi dovrebbero trovarsi più spesso per amare chi li ama, essi non vi si trovano mai. « Nelle Chiese io mi resto quasi continuamente solo e derelitto, confida Nostro Signore a Gemma Galgani (Serva di Dio morta a Lucca nel 1903 dopo una vita di austerità meravigliosa e di mistici favori), e quelle poche ore in cui vi si accorre in folla, altri motivi dall’amore mio vi spingono la maggior parte, ed io soffro nel veder la mia Chiesa, mia propria dimora, mutata in un teatro ed in luogo di piacere ». E siccome Gesù continuava lamentando certe comunioni infami, Gemma lo supplicò di non andar più innanzi: « Gesù, Gesù, io vengo meno… ! ». Oltre le colpe di quelli che ancor hanno fede abbiamo l’incredulità di quelli che vivono lontani dal Dio della Verità! « O Signore! Venga, venga presto il tuo regno! ». Ahimè! quanto esso è ancor lontano! Di un miliardo e mezzo di uomini che abitano la terra appena cinquecento venti milioni sono Cristiani e fra questi i Cattolici contano per soli duecentosessanta milioni. Tutto il resto scismatici, protestanti, mussulmani, Giudei o pagani idolatri. Povero Gesù, che per redimere le anime ha versato tutto il suo sangue adorabile! Ahimè! Gli Apostoli non sono sufficienti… Ventisette secoli or sono. Amos profeta, sotto i sicomori di Béthel usciva in queste strane parole: Ecco si avvicinano quei tempi in cui manderò la fame e la sete sulla terra, non la fame e la sete dell’acqua, ma la fame e la sete della parola di Dio… ed essi andranno cercando per tutte le parti la parola di Dio… e non la troveranno ». Dopo ventisette secoli non ci troviamo forse nelle medesime condizioni? Nazioni e popoli in gran numero, anche dopo la venuta di Cristo, noi li vediamo tuttora seduti all’ombra della morte. « Quale sciagura, Padre mio, per i figli dei Tanali! », scrive una tribù del Madagascar centrale domandando il ritorno del missionario che per la penuria di sacerdoti era stato tolto da quella stazione. « Noi eravamo nella notte profonda come un uomo rischiarato da una fiaccola tra le tenebre: la luce della preghiera cattolica ci aveva illuminati. Ora la grande luce da noi veduta ci è stata rapita. Ahimè! quale disgrazia 0terribile. Salvateci. Padre mio!Quel grido del nostro dolore. Eccoci ridotti quali pecore orfane del loro pastore, la preda dei lupi ». – Il mondo desolato domanda aiuto, ma non è facile trovar molti che si vogliano dedicare a questa impresa che converrebbe intraprendere non soltanto con tutta la mente e l’energia possibile ma soprattutto e prima d’ogni altra cosa con tutto il cuore: dedicarvisi, cioè amare l’ideale che si vuol fare trionfare, siffattamente da sacrificare per esso non solo qualche parte di sé, dei propri gusti, delle proprie preferenze, delle proprie abitudini, ma tutto sé, tutte le proprie abitudini, preferenze, tutti i propri gusti: dedicarvisi, cioè amare quelli che si vogliono guadagnare siffattamente da andare verso di essi senza attender che vengano da sé, senza aspettarsi un compenso di affetto o di gratitudine, puramente per amore, amore di Dio, amore delle anime: dedicarsi ad una siffatta impresa e specialmente il farlo nel modo che si è detto, no, non è cosa facile. Quindi la grazia divina la vedete là sempre pronta a zampillare, a scorrere, a lavare le colpe, a purificare le coscienze, ad illuminare i ciechi, a guarire la lebbra e la paralisia. Ma come per il povero paralitico della piscina probatica non c’è chi metta alla portata dell’infermità il rimedio che è preparato. « È necessario lo spirito di sacrifizio? Eccomi pronta! ». Così diceva Valentina Riant, e di gran cuore accettò di consacrare la propria vita riparatrice al riscatto delle abbominazioni e delle turpitudini dei nostri giorni. Ma quanti vi sono che si sentono il coraggio di imitarla? – Dopo il 1871 Renan e i suoi amici fecero coniare una medaglia doro per commemorare un fatto strano riportato sulla medaglia colle seguenti parole: « Durante l’assedio un gruppo di persone, che solevano riunirsi a pranzo ogni quindici giorni da Brebant. non si sono avvedute neppure una volta che esse pranzavano in una città di due milioni d’abitanti circondata dai nemici ». Questo è quanto accade quaggiù. L’universo contiene due sorta di anime: le une, in piccolo numero, sul modello della generosa Riparatrice e sono quelle che vedono, comprendono e a tal vista soffrono troppo per non gettarsi allo sbaraglio; le altre, sul modello dell’odioso egoista e della sua truppa — truppa che è legione — i quali nulla vedono, o vedendo nulla comprendono, o vedendo e comprendendo nulla vogliono sacrificare e in mezzo ad una generazione che trasportata dal vortice delle passioni precipita verso l’abisso, non pensano che a banchettare presso i diversi Brebant dei nostri tempi, o almeno non pensano che a dimenticare i milioni di disgraziati che stanno ai loro fianchi, poveri assediati e prigionieri del dubbio, della miseria e della lontananza da Dio. « Tre milioni d’anime, computa con ironia un contemporaneo, sono uguali a una ventina di Anime colla lettera maiuscola ». L’abitudine di vivere sempre in mezzo a questo egoismo che tutto domina ci impedisce di vedere quanto vi sia in esso di odioso. Ma coloro che nelle tenebre di una vita passata fin allora fuori della Chiesa, da una grazia straordinaria tutto ad un tratto sono « colpiti di chiaroveggenza » e condotti all’Evangelo, non possono nascondere la loro meraviglia e simulare il disprezzo loro per queste ce anime vuote » di cui è popolato il mondo, le quali non aspirano che al nulla di cui continuamente si pascono.

L’artista olandese. Pietro Van der Meer, confessa nel suo Journal, il grande stupore che gli recava la prodigiosa incoscienza di certe persone — il più gran numero degli uomini — mentre egli stava cercando la fede. Egli attraversa in Londra la « vecchia città, lurido quartiere del commercio, del denaro e degli affari… Da tutte le porte, da tutte le vie, da tutti gli angoli, ripostigli e andirivieni io vidi uscire delle persone vestite in nero e senza cappello in testa che si precipitavano tutte nella stessa direzione, si sarebbe detto con un medesimo scopo. Era annunziata la sottoscrizione ad un Prestito giapponese, dunque v’era un guadagno assicurato e tutti si precipitavano come selvaggi sulla loro preda ». Un altro giorno è a Parigi ove giunge col diretto delle 6 del mattino. « Sui boulevards Rocheckouart et Clichy mi si presenta lo spettacolo dei piaceri e dei dolori della notte. In una sala al primo piano di

un caffè… i lampadari erano ancora accesi. Tutto ad un tratto mi giungono all’orecchio le risa sguaiate d’una ragazza. Poi mi imbatto in vari uomini e diverse donne in abito da serata col volto stanco, gli occhi infossati che si affrettano lungo le case o  cercano una vettura ». – Altrove abbiamo quelli il cui Dio è un buono stomaco, quorum Deus venter est: « Questo Gargantua si può ben dire che non conosce affatto il timore della morte e neppure si preoccupa troppo del mistero della vita. Che cosa può mai esser la vita dell’anima per chi non è altro che materia? ».Nel nostro albergo ha preso stanza una vecchia signora americana che si vanta di non aver né parenti, né amici. — O meglio — essa aggiunge — ho un amico e quello è l’unico! » e traendo di tasca il portamonete lo pone solennemente sul tavolo: « Il mio amico unico, eccolo! ». E il pensiero va a quella fanciulla troppo mondana che sul punto di morire confessa alla religiosa che l’assiste: «Mia buona suora, le mie mani sono vuote! »; o a quel gentiluomo austriaco, parente del conte Czerain. che diceva: « Quando il Signore mi domanderà conto della mia vita, sarò obbligato a rispondere: — 0 Signore, sono stato alla caccia ed ho preso lepri, lepri, lepri … — e questo è veramente troppo poco ». – Sì, certo, troppo poco. E non siamo con questo dei giansenisti, non condanniamo il piacere legittimo: noi qui intendiamo flagellare la mostruosa usanza di non vedere nella vita altro che il piacere che essa può procurare.

C’è ben ancora dell’altro. Fortunatamente v’ha chi lo comprende.

Ed uno di questi scrive: «Perché è sì poco conosciuto, così poco amato? Perché la sete del piacere più o meno sanodivora l’umanità? Ahimè! quand’io getto lo sguardo sulla nostra società, io mi sentopreso da profonda compassione e da unvivo desiderio di amare Gesù per tutti quelli che lo disprezzano ».In queste parole noi troviamo appunto il programma formulato con vera riuscitada un certo personaggio d’una operettamoderna. « Noi ci sottomettiamo a privazioni, amortificazioni alla vista delle sofferenze altrui per un sentimento profondo di simpatia, per un bisogno, un desiderio di soffrire insieme con essi: altre volte ci imponiamodelle privazioni anche perché altritroppo si abbandonano al godimento; alloraè per un desiderio di riscatto, un sentimentodi compensazione: ciascuno secondola sua condizione e la sua capacitàprocura di mantener un certo livello nell’umanità».

La festa dell’Ascensione, 11 maggio 1899,Nostro Signore, ad un’anima che si erascelta già altre volte per confidarle i desideridel suo Cuore, rivolse la seguentedomanda:— Mia figliuola, posso io contare sopradi te e richiedere da te quello che non mivogliono concedere le anime molli e sensualidel mondo e nemmeno la maggiorparte delle anime devote che se mi amanoe mi servono lo fanno solo perché nell’amarmie servirmi trovano una qualche soddisfazionepropria?

— Oh! sì, mio Dio.

— Accetti la tua parte della mia vita di pene per la continua espiazione dei peccati che di continuo si commettono? E poiché così io vivo nelle anime che volentieri si danno a me per soffrire e per espiare, vuoi tu esser una di queste anime abbandonate al mio volere?

— Oh! si, mio Gesù.

— Acconsenti a soffrire tutte le pene che mi piacerà inviarti sia nel tuo cuore, sia nel tuo spirito, sia nel tuo corpo? Mi resterai fedele? avrai tu sempre fiducia nella mia sapienza, nella mia misericordia, nel mio amore?

— Oh! sì. mio Dio.

— Consenti a lasciarti ridurre, in conseguenza delle infermità che ti invierò, alla completa impotenza? E fra siffatte tribolazioni resterai tu sempre calma, servizievole, pronta a tutto? Mi prometti di non mai dubitare del mio amore per te. di non accoglier mai volontariamente nel tuo cuore pensiero alcuno di diffidenza e di moltiplicare, col moltiplicarsi delle prove, gli atti di abbandono alla mia Provvidenza, di adesione alla mia volontà, di riconoscenza per la parte che io ti dono della mia vita d’espiazione?

— Oh! sì, mio Dio, colla vostra grazia io ve lo prometto – (Questi particolari li abbiamo avuti qualche anno fa da un eminente direttore di anime, il cui nome è ben conosciuto, il R. P. Foch).

Quanti cuori generosi nel secreto della orazione si sono così offerti a Dio con la stessa generosità! Compiacetevi, Signore, di mandarcene molte di queste anime giuste per la riparazione compensatrice! Mandatecene di queste anime non solo fedeli ma risolute a pagare colla loro fedeltà il debito contratto dagli uomini colla vostra giustizia! Una generosità ordinaria non basta, fa d’uopo di una generosità senza riserve a disposizione d’un amore riparatore e penitente. Se altre opere sono necessarie, questa va innanzi a tutte. – Meglio ancora, o Signore, fate spuntare delle anime che non solo accettino il sacrifizio, ma gli vadano incontro generose, lo amino, lo desiderino per sconfiggere le potenze del male. Avremo così le anime riparatrici in grado massimo: « massimaliste ». – Il cardinal Manning scriveva: « Questa nostra non è un’epoca di martiri (chi sa?) ma un’epoca in cui ciascuno deve possedere una volontà robusta come quella dei martiri ». In un libro pubblicato ancor prima della guerra, Daniele, protagonista di quel libro, dà una risposta ben meritata ad un giovine ecclesiastico un po’ mondano, il quale con compiacenza ricordava il detto d’un vescovo della Cina che, testimone di molti massacri avvenuti colà, aveva confessato: ce Giovane ancora io avevo desiderato il martirio … ma ora mi sono affatto ricreduto ». « Lasciate che io ve lo dica — risponde dunque Daniele — sevi hanno in mezzo a noi mille fedeli, se ve n’hanno cento o anche solo venti i quali sieno preparati a portare sul loro corpo le stimmate della Passione di Gesù Cristo, questi ne sono i veri e i soli discepoli e si riconosceranno nel versare che faranno lietamente il loro sangue! Questo sangue la terra che noi calpestiamo già lo conosce, già in altri tempi ne fu imbevuta abbondantemente, era il sangue dei nostri martiri; per la patria che deve risorgere noi siam pronti a dare anche il nostro ». « Sì, daremo anche il nostro sangue ». Non già sul campo di battaglia o nelle arene dei gladiatori versato forse tutto quanto in una volta, ma a goccia a goccia nello sforzo di ogni giorno per la santità, per la ristorazione in Cristo di tutto il genere umano: versato a goccia a goccia nelle immolazioni che si direbbero da nulla ma sono di grande efficacia, in una vita tutta per Dio fino al sacrifizio, per le anime più elette, d’ogni riserva dell’amor proprio, al sacrifizio degli affetti più intimi men che ordinati, dei gusti anche leciti e di tutte le soddisfazioni per aver la soddisfazione — certo più nobile e più gradita — di vedere Dio finalmente conosciuto, amato e servito come si deve e si merita.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/03/lidea-riparatrice-4/

DA SAN PIETRO A PIO XII (10)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAPO XII.

LE CONDIZIONI DELLA CHIESA NEI SECOLI IX E X

1) L’elezione del Papa — 2) Il sacro romano impero

3) Lo spavento dell’anno 1000

1 – L’ELEZIONE DEL PAPA PREAMBOLO

Eletto dal clero e dal popolo

Essendo il Papa anzitutto capo della comunità romana, era naturale che questa, a somiglianza delle altre chiese, partecipasse alla scelta del proprio pastore. Sicché anche a Roma si osservava il cànone apostolico « Oportet episcupum testimonium habere bonum ab his qui foris sunt » (I Tim. III, 7), cioè « è necessario che il Vescovo abbia, buona riputazione presso gli estranei », e il Papa alla stregua della disciplina comune era eletto dal clero e dal popolo e confermato dai Vescovi suburbicari, che a tale scopo convenivano a Roma. Cipriano agli scismatici Noviziani mostra come Cornelio fosse eletto in piena regola nel 251. Due secoli dopo, a testimonianza di Papa Leone Magno, l’elezione importava sempre « vota civium, testimonia populorum, honoratorum arbitrium, electio clericorum ». – In seguito vollero calamitosamente interferirvi imperatori e fazioni nobiliari, finché fu esclusivamente riservata al Collegio dei Cardinali (1179). E con ciò continua la disciplina antica del Papa eletto dal clero romano : perché i Cardinali, anche se stranieri, sono titolari d’una chiesa dell’Urbe e perciò fanno parte del clero romano’.

D. Chi aveva diritto ad eleggere il Papa?

— Il clero di Roma.

D. Che cosa pretesero i nobili romani dopo la costituzione dello Stato Pontificio?

— Dopo la formazione dello Stato Pontificio i nobili romani pretesero di prender parte anch’essi all’elezione del Papa.

D. Per qual motivo?

— Perché il Papa era il loro sovrano temporale giuridicamente riconosciuto, perciò ritenevan giusto che nella sua elezione avessero anch’essi da far sentire la loro voce, come i principali cittadini del suo Stato.

D. Chi vi si oppose?

— Il clero; e la storia posteriore gli diede piena ragione, poiché i potenti del mondo, nell’elezione del Papa, si lasciarono spesso guidare non dagl’interessi della religione, ma da passioni di parte e da interessi familiari e politici, per cui qualche volta furono eletti degli incapaci o indegni.

PREAMBOLO

2 – IL SACRO ROMANO IMPERO

Restaurazione

Adriano I, morto nel 795, era stato dato per successore Leone III di illustre famiglia romana. Un’audace fazione prese ad avversarlo in tutti i modi, ne esitò a ricorrere anche ad un infame attentato. Di fatti nel giorno di S. Marco (25 aprile), durante la processione delle Rogazioni, alcuni sediziosi s’impadronirono della persona del Papa, e, dopo averlo malmenato, lo chiusero in carcere. Il popolo accorse a liberarlo, ma Leone, non sentendosi sicuro, ricorse a colui che, essendo stato investito del titolo di Patrizio, aveva il diritto e il dovere di tutelare i diritti della S. Sede e la dignità, del Pontefice. Andò dunque in Francia presso il re Carlo. Sei mesi dopo Leone III rientrava in Roma accompagnato dai delegati del re, che dovevano procedere contro gli autori del criminoso attentato. Carlo stesso poco dopo venne a Roma per sanzionare i provvedimenti presi. – Leone approfittò per restaurare in Carlo la maestà dell’Impero Romano fatto cristiano.

D. In che circostanza Leone III incoronò Cario Magno quale Imperatore del Sacro Romano Impero?

— Nel Natale del 799, mentre il re assisteva alle solenni funzioni inginocchiato dinanzi all’altare del Principe degli Apostoli.

D. Che fece il Papa?

— Prese la corona imperiale, e dopo la benedizione di rito, la pose sul capo del re dei Franchi, mentre il popolo festante ripeteva: « A Carlo, augusto coronato da Dio, grande e pacifico Imperatore dei Romani, vita e vittoria».

D . L’atto compiuto dal Papa doveva essere solo una vuota cerimonia ?

— No, ma la base di nuovi rapporti tra l’autorità civile e religiosa, il fondamento di un nuovo importantissimo edificio politico. Leone III, sostituendosi al Senato nel proclamare Carlo M. imperatore, e consacrandolo con il sacro Crisma, come un giorno il sommo sacerdote faceva con i re d’Israele, dava al nuovo Impero un carattere essenzialmente cristiano.

D. Qual era in quest’Impero la missione dell’Imperatore?

— L’Imperatore veniva chiamato ad esercitare la sua azione accanto a quella stessa del Papa; egli doveva essere il capo temporale di un’alleanza fraterna fra i popoli Cristiani, a quella guisa che il Papa n’era il capo spirituale. Per questo titolo Carlo Magno veniva ad acquistare una preminenza su tutti gli altri principi, anzi sullo stesso Imperatore di Costantinopoli.

D. A che doveva servirsi di tale potere?

— Per rinforzare l’azione della Chiesa sopra la società, per diffondere il Cristianesimo in mezzo ai popoli barbari, per tutelare i diritti e l’autorità del Pontefice.

D. Che intendeva inoltre il Papa con tale creazione?

— Intendeva affrancarsi definitivamente dalla supremazia politica dell’Impero di Bisanzio, che più d’una volta era stato alla mercé di audaci avventurieri o di qualche rozzo guerriero; e più d’una volta i suoi imperatori avevano creato alla Chiesa Cattolica gravi difficoltà o facendosi fautori di eresie, o mostrandosi impotenti od incuranti nel recarle aiuti in circostanze difficili. Tutti poi angariavano l’Italia con estorsioni e balzelli, quasi fosse un paese di conquista.

D. Che fece Carlo Magno divenuto imperatore del S.R.I.?

— Spiegò nell’interesse della Chiesa e del Papato la più ammirabile sollecitudine.

D. Come furono regolate le relazioni tra i due poterli

— Per via di amichevoli accordi, come lo attestano vari documenti. Le monete romane portano insieme con il nome del Papa anche quello dell’Imperatore, e i Romani prestavano giuramento di fedeltà all’Imperatore ugualmente che al Papa; a questi come loro sovrano, all’Imperatore come a loro protettore ed avvocato.

D.Che cosa doveva ingenerare tuttavia questa confusione di poteri?

— Questa mancanza di severa distinzione dei diritti reciproci fra i due poteri, doveva a non lungo andare ingenerare deplorevoli equivoci e odiosi dissensi.

D.Quando cominciarono questi dissensi!

— Con i successori di Carlo Magno, che, considerandosi come legittimi eredi di Augusto, di Costantino, di Teodosio, venivano ad esercitare la loro azione anche sulla stessa disciplina della Chiesa, indipendentemente dal Papa, il quale, secondo loro, non dava all’autorità imperiale che una sanzione religiosa.

D. A che valsero le rimostranze del Papa?

— A nulla, per cui tra non molto si accenderà con la lotta delle investiture in un duello terribile che si protrarrà per secoli.

3 – LO SPAVENTO DELL’ANNO 1000

PREAMBOLO

Meschine fantasie

L’inglése Robertson, il francese Michelet, il ginevrino Sismondi. arrivati con le loro storie alla seconda metà del sec. X, s’indugiano a descrivere la società come pervasa « dalla spaventosa speranza della fine del mondo », annunziata per la notte di San Silvestro dell’anno 999. Gli uomini di quel tempo erano nella condizione del reo che udì la sentenza e attende l’esecuzione. Mille e non più mille. Il testo dell’Apocalisse (XX, 1-7), le parole di S. Paolo che dicevano imminente la venuta del Signore a rapir seco i morti e i vivi nell’aere, il presentimento del giudizio finale prossimo, che compare con tanta frequenza negli scritti di Gregorio Magno, tutti questi terrori, come nubi diverse che aggruppandosi fanno temporale, confluirono sulla fine del sec. X in una sola e immane paura E che grido di gioia salì al cielo dalle turbe raccolte in gruppi silenziosi intorno ai manieri feudali, accasciate e singhiozzanti nelle chiese tenebrose e nei chiostri, sparse con pallidi volti e sommessi mormorii per le vie e i campi, quando il sole, fonte di luce e di vita, si levò trionfale la mattina dell’anno mille!…

D. Quale fondamento ha tutta cotesta descrizione?

—  Nessuno. Lo mostrò il padre Plaine fin dal 1873. Falso che si aspettasse universalmente il finimondo per il S. Silvestro del 999; falso che si citasse a sostegno il XX, 1-7 dell’Apocalisse; falso che il clero alimentasse la diceria per impinguarsi dei beni lasciati dai fedeli « prò remedio animæ ».

D. Non ci fu qualche cenno sulla fine del mondo fra il 960 e 970?

— Sì, e sparso da qualche fanatico, ma negli anni successivi fino al 1000 non troviamo un testo, un cenno, un’allusione a simile credenza; non nelle 150 bolle papali di quel trentennio, non in bolle posteriori, non in atti conciliari, non in strumenti privati. Si trova anzi il contrario, per es. il concilio romano del 998 impone a Roberto il Pio, re di Francia, una penitenza di 7 anni, e papa Silvestro II, proprio il 31 dicembre 999, conferma i privilegi del Monastero di Fulda e della chiesa di Reims.

D. A che si riduce dunque tutto lo spavento all’avvicinarsi dell’anno 1000?

— A un curioso errore storico. Accenni alla prossima fine del mondo si trovano in tutti i secoli, prima e dopo i l mille; e quindi anche nel sec. X. Il mondo, però, continuò ad andare avanti senza accorgersi di questo errore.

D. E tutte le dicerie contro la Chiesa al riguardo?

— Non vengono ad avere nessuna consistenza storica; hanno servito puramente all’anticlericalismo per gracidare contro la Chiesa.

L’IDEA RIPARATRICE (2)

P. RODOLFO PLUS S. J.

L’IDEA RIPARATRICE (2)

[Traduzione del P. Giovanni Actis, S. J.  dalla 25° edizione originale]

Torino-Roma Casa Editrice MARIETTI 1926

Imprimi potest.

P . ANTONIOS ARGANO S. I., Præp. Prov. Taur.

Visto: Nulla osta alla stampa.

Torino, 26 Maggio 1925.

Teol. Coll. ATTILIO VAUDAGNOTTI.

Imprimatur.

Can. FRANCESCO DUVINA, Prov. Gen.

(30) PROPRIETÀ ARTISTICA LETTERARIA (2-xi-25-2M).

LIBRO I

Perché riparare?

CAPO SECONDO

LA RIPARAZIONE: DESIDERIO ESPLICITO DI NOSTRO SIGNORE.

La necessità della riparazione s’impone a ciascuno di noi non soltanto, come abbiamo visto fin qui, quale conseguenza legittima dei più saldi principii della nostra fede cattolica e in particolare della dottrina del Corpo Mistico di Gesù e del dogma della Redenzione, ma ancora per un obbligo esplicitamente inculcato e ripetuto dallo stesso nostro Divin Redentore. Apriamo il Santo Vangelo, consultiamo gli altri libri divinamente inspirati, ad ogni tratto noi troviamo che il Salvatore si mostra desideroso di trovare delle anime che sappiano rinnegare se stesse e mettere a profitto della gran causa della gloria divina e della salvezza di molti la propria abnegazione. – Incominciamo dai Santi Vangeli. La legge che più di ogni altra vi si ricorda è il dovere della penitenza riparatrice: e i testi sovrabbondano. Il divin Maestro manda innanzi a sé il Battista; quale la sua predicazione? — « Un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati » . — Sulle rive del Giordano, ove verrà a lui lo stesso divin Salvatore per incominciare la sua missione, che ripete nelle sue lunghe giornate? — « Fate penitenza, perché si avvicina il Regno di Dio ». Ed egli stesso colla sua vita precede dandone l’esempio: poiché le sue vesti sono un rozzo cilicio, suo cibo le locuste del campo, suo compagno il silenzio del deserto. Vengono a lui le turbe e l’interrogano: « Tu chi sei? ». Ed egli risponde loro: « Chi io mi sia, lo volete sapere? Sono la voce che grida nel deserto: Raddrizzate le vie del Signore ». Voi siete fuori di strada, avete sbagliato il cammino, convien ritornare sulla buona via — riparare. E quando gli si accostano degli ipocriti, poco desiderosi certo di cambiar vita, e mostrano di voler esser purificati col suo battesimo, Giovanni li accoglie colle ben meritate invettive: « Razza di vipere, ipocriti! il vostro pentimento non è sincero. Il Signore esige frutti di penitenza proporzionati alla gravità delle vostre colpe. La scure è alla radice dell’albero. Quella pianta che non porta buoni frutti sarà tagliata e gittata al fuoco. Non tardate più oltre. V’ha chi deve venire — anzi Egli è già in mezzo a voi — e voi nol conoscete ancora. Avete presso di voi del buon grano? Egli lo raccoglierà per i suoi granai: non avete che della paglia? egli la butterà tra le fiamme che mai non si estingueranno ». Può darsi forse parola più decisa e più vibrata per inculcare la necessità della pena compensatrice, l’obbligo di ritornare sulla retta via, di riparare i propri errori, di sollecitare il perdono coll’offerta di una penitenza proporzionata ai propri falli? Ed ora sottentra lo stesso divin Salvatore ed incomincia la sua predicazione col digiuno di quaranta giorni nel deserto. Agli Apostoli che chiama alla sua sequela più intima Egli dice: « Abbandonate ogni cosa »; e alle turbe che si affollano intorno a Lui: Rinnegate voi stessi » . S. Matteo ce lo fa notare appositamente: « Da quel punto incominciò a predicare dicendo: Fate penitenza »; quasi per farci comprendere che tale insegnamento, molto frequente poi in appresso, Egli lo proponeva fin dal principio come un pensiero che gli era caro ed un tema che preferiva ad ogni altro. Anzi Egli passerà tutta la sua vita pubblica nello sviluppare questo tema: la rinunzia di sé stessi e la penitenza dei peccati. « Se voi avete due tuniche, vendetene una. Non vi turbate in vita vostra pel cibo e vestito necessario. Che importa il denaro? Quel che conta è il tesoro ammassato pel Cielo » . Lo sentirete continuamente fulminare di anatema quanti battono la via larga e invitare i pellegrini di quaggiù a preferire la via stretta. « Guai a voi, o ricchi! Guai a voi, o ipocriti, guai a voi! E chi sarà beato? Quelli che non posseggono nulla, i mansueti, quelli che piangono, gli assetati della giustizia, i misericordiosi, i puri, i pacifici, i perseguitati! Ecco: seriamente, volete voi impegnarvi al mio servizio, venire dietro di me? Un passo s’impone: Risolvete di rinnegare voi stessi e prendete a due mani la vostra croce. Altrimenti tutto è inutile ». E il Salvatore non ha sole parole. Se Iddio avesse tracciato soltanto delle formole, pochi avrebbero compreso. Ma la parola si mutò in atto, la parola ha preso corpo: Et Verbum caro factum est, il Verbo si è fatto carne. Così quanto poteva giungere soltanto agli orecchi nostri diventò visibile agli occhi di tutti. Il consiglio si cambiò in esempio. Il Salvatore farà consistere l’intera sua vita in una continua ostia per insegnare a noi l’immolazione. Fin dal suo primo ingresso nel mondo — ingrediens mundum — dichiara la natura della sua impresa. — Dicit: hostiam et oblationem noluisti. Tunc dixi: ecce venio. Poiché le vittime offerte fino a questo giorno non vi sono gradite, o Padre Celeste, ecco da questo momento, accettatemi, sarò io stesso la vittima. Nel seno di Maria, Gesù non fa altro che le prime prove di quella vita di ostia che Egli poi continuerà attraverso ai secoli nei chiusi tabernacoli sparsi sulla faccia della terra. Egli viene alla luce: il presepio, Betlemme, la stalla. Egli è ostia. A parto virgineo effectus hostia, dirà Tertulliano. E dopo la nascita da Maria SS. la serie dei sacrifizi si continua: la circoncisione, la fuga in Egitto, l’esilio; nulla manca. Il Saldatore doveva dire più tardi: « Beati quelli che soffrono, beati quelli che sono spogliati di ogni cosa ». Se Egli possedesse qualche cosa, se fosse nato in mezzo alle comodità, gliel’avrebbero rinfacciato. Oh! no, Egli sarà più di tutti noi povero e disgraziato. A Nazareth la vita nascosta. Senza di essa, predicando Egli più tardi l’umiltà, noi non avremmo accolte le sue parole: sono così pochi quelli che lo fanno anche dopo il suo esempio così eloquente! Noi amiamo tanto comparire… ed Egli si nasconde per trent’anni. Per ogni sorta di orgoglio, è conveniente un’ammenda speciale. Egli si nasconde e lavora ed il suo lavoro è faticoso. Holman Hunt, pittore inglese, in un quadro intitolato « L’ombra della morte nella bottega di Nazareth », ha dipinto il Cristo operaio che sospende per un istante il lavoro, si rizza sulla persona e stende le sue braccia per riposarsi dalla fatica. L’ombra della sua persona si proietta sul muro bianco attraversato orizzontalmente da un asse a cui sono appesi gli utensili da falegname. L’illusione è perfetta. Si direbbe un uomo che spicca in rilievo sopra una croce. Poi viene la vita pubblica colle sue faticose peregrinazioni in cerca di anime, il Cristo assetato domanda un po’ d’acqua alla Samaritana, le notti passate in preghiera, l’Apostolato infaticabile. Le volpi hanno una tana, gli uccelli un nido, il Figlio dell’uomo, nulla. Non un tetto per ricoverarsi. Egli sconta per tutti quelli che si perdono dietro alle vanità, per gli adoratori del vitello d’oro, per i figli di Dio che dimenticano o trascurano di ricorrere a Lui, per i seminatori di zizzania, e per quanti non accolgono o ricevono invano il seme divino. Al cominciar del suo ministero Giovanni Battista lo addita alle turbe chiamandolo semplicemente : « L’Agnello di Dio che porta i peccati degli uomini ». Comprendiamo bene: Ecco la vittima universale e silenziosa per cui il mondo avrà salvezza. Con pazienza veramente divina, per ben tre anni il Cristo cercherà di far comprendere ai suoi Apostoli che Egli dovrà sacrificarsi alla morte. Essi non ne saranno persuasi finché dai nascondigli in cui avranno potuto rifugiarsi ben dentro alla città di Gerusalemme, non lo scorgeranno lontano sulla vetta del Calvario confitto sopra la Croce. Finalmente ecco la Passione di Gesù: in essa specialmente il divin Salvatore si mostra l’ostia per eccellenza. Egli accetta di essere tradito, rinnegato, insultato, battuto, oltraggiato, inchiodato e sospeso al patibolo della Croce per insegnare a noi di soffrire com’Egli fece, nel nostro onore, nella nostra riputazione, nella nostra carne, nelle nostre affezioni e poi — perché necessaria la riparazione alla giustizia divina — per tutti quelli che se la godono e che si divertono, per tutti quelli che tradiscono il loro battesimo e la loro fede, pei rinnegati e quanti insultano il Crocefisso e perseguitano la religione, per quelli che schiaffeggiano la Chiesa, il suo capo e i suoi ministri, per tutti quelli insomma che per il loro svergognato egoismo non sanno sostenere la vista della Croce del Signore. È sì grande l’amore di Cristo per la riparazione che la glorifica nella Maddalena, la pubblica peccatrice, la quale in virtù del suo pentimento sincero e del suo grande amore è diventata la Maddalena di Betania — « Il Maestro è là che ti cerca — e la Maddalena del Golgota… Ai piedi della Croce sul Calvario scorgiamo tre persone — come avviene sempre quando c’è da soffrire — un uomo e due donne. Maria SS., S. Giovanni, la Maddalena: tra due innocenze intatte, un’innocenza ricostruita… », ricostruita a prezzo di riparazione così cenerosa, col doppio spezzarsi dell’alabastro dei profumi e del suo proprio cuore— ricostruita di maniera che la peccatrice di una volta ora sarà la prima creatura a cui, dopo che alla Vergine SS., Gesù si mostri risorto — la Maddalena del mattino di Pasqua. Per conoscere meglio il pensiero di Cristo sulla riparazione dopo averlo studiato nei Santi Vangeli, vediamolo illustrato nelle grandi rivelazioni della Storia. Paray le Monial, Lourdes, La Salette, Pellevoisin, Pontmain… sono eloquenti. Si direbbe che Nostro Signore nelle sue apparizioni a Santa Margherita-Maria Alacoque non avesse altro scopo che mendicare delle immolazioni riparatrici. « Ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini e in compenso non riceve che ingratitudini e amarezze. Io domando quindi da te riparazione » (Autobiografia, p. 365). « Il S. Cuore — dice la Santa — cerca delle anime riparatrici che gli rendano amore per amore e che con profonda umiltà domandino perdono a Dio per tutte le ingiurie che gli si fanno ». – « È un fatto, mia diletta figlia, che il mio Cuore mi ha spinto a sacrificare tutto me stesso per gli uomini senza che ne avessi da parte loro corrispondenza alcuna. E questa una pena che mi addolora più di ogni altra da me sofferta nella mia Passione; essi non hanno che freddezza e ripulsa per quanto mi adoperi a far loro del bene… tu almeno recami questo piacere di supplire per la loro ingratitudine… » (Lettere 44, 30, 126). Verso il termine del febbraio 1669, nei giorni del Carnevale, la Santa scrive alla Madre De Saumaise: « Questo Cuore amabilissimo, se non erro, mi rivolse la seguente domanda: Vuoi tu farmi compagnia sulla Croce in questi giorni in cui sono cotanto afflitto per la sete del piacere che inebria il mondo? Io ti farò provare tali amarezze che tu potrai in qualche modo raddolcire quelle che i peccatori versano abbondanti nel mio Cuore: e tu coi tuoi gemiti incessanti uniti alle mie pene otterrai misericordia perché i peccati degli uomini non passino oltre l a misura » (M. Gathey: Vita ed opera della B. Margh. T. 2, p. 425). Allo stesso fine, la riparazione. Nostro Signore domanda l’istituzione di una festa speciale in onore del suo Cuore divino, la Comunione dei primi venerdì del mese. anzi la Comunione anche più frequente coll’approvazione dell’obbedienza, la pratica dell’Ora Santa, ecc. Quasi sempre nelle sue comunicazioni colla diletta discepola del suo Cuore, Gesù ha di mira il formare essa — e per mezzo di essa, ciascuno di noi — allo spirito della riparazione. Per l’Ora Santa, a mo’ d’esempio, il Signore domanda: « Ogni notte dal giovedì al venerdì io ti metterò a parte di quella tristezza mortale che io ho provato nell’Orto di Getsemani. Tu ti leverai dalle undici ore a mezzanotte: ti prostrerai per quell’ora vicino a me, la faccia a terra, sia per placare la giustizia divina domandando misericordia pei peccatori, sia per addolcire in qualche modo l’amarezza ch’io provai per l’abbandono dei miei apostoli che non avevano potuto vegliare un’ora vicino a me » (Autob. N. 57). – E sulle intenzioni del divin Maestro non è possibile andar errati. La prima volta che il divin Cuore si manifesta alla Santa, il 27 dicembre 1673, le si mostra sull’altare, luogo del sacrifizio, e con sembiante afflitto. L’immagine che suggerisce alla Santa perché venga disegnata ed esposta alla venerazione, deve rappresentare un cuore ferito, sormontato da una croce, e circondato da una corona di spine. Si spiegano quindi le parole piene di ardore nella Santa: « Se voi sapeste — scriveva essa — quanto il mio Sovrano mi spinge perché lo ami d’un amore di conformità alla sua vita dolorosa! Io non vedo che possa addolcire la lunghezza della vita fuorché il soffrire sempre per amore. Soffriamo dunque amando senza lamentarci mai, e riputiamo come perduti quei momenti passati senza dolore » . La vita della Santa si compendia in un inno alla Riparazione, un ardente invito ad amare Gesù « con un amore di conformità alla sua vita dolorosa ». È inutile continuare le citazioni della sua vita e delle sue opere: conviene scorrerle tutte quante. – Il P. Terrien, nell’opera piena di dottrina sulla Divozione al S. Cuore (L. 3, cap. 3), si esprime categoricamente così: « Riparare è la stessa cosa che amare, ma è soprattutto soffrire sacrificarsi interamente amando » (2).

(2) [Il che non toglie affatto l’orrore che si ha istintivo pel dolore. Nostro Signore diceva a S. Teresa: « Mia figlia, tu chiedi il dolore e poi ti lamenti quando te lo concedo ». Ma poi aggiungeva: « Tuttavia io non lascio di esaudirti assecondando così non già le ripugnanze della tua natura, ma i desiderii della tua volontà » (Autobiografia di S. Teresa, p. 169). Insistiamo sulle parole Ttua volontà. La vera pietà non è fatta di sentimento, specialmente la pietà riparatrice. I nostri lettori non dimentichino mai questa osservazione mentre continuano scorrere le pagine seguenti]. – E altrove aggiunge: « Conviene attingere nel Cuore di Gesù quella preziosa perfezione della Carità che sola può rendere a Lui pienamente gradite le nostre riparazioni ». Gesù batte alla porta dei nostri cuori per averne le nostre riparazioni, ma quel po’ di elemosina che noi gli possiamo dare non ha valore alcuno se non passa come attraverso al suo Cuore divino. È come un flusso e riflusso di benedizione. Il suo amore ci chiama partendo da quel centro e il nostro amore non può efficacemente rispondere senza ritornare a quello stesso centro. – Davide diceva: « Ho trovato il mio cuore per pregare il Signore » . Noi abbiamo di meglio: lo stesso Cuore di Dio. S. Bonaventura non desiderava di meglio che di prendere in esso stabile dimora e rimpiangeva la cecità degli uomini che non sanno penetrare nel loro Gesù attraverso alle sue ferite, specialmente a quella del suo Costato. Diciamo dunque ancor noi: « Umile sì. ma risoluto, andrò fino all’altare del Signore. Introibo ad altare Dei ».

Nell’inno alle Lodi per la festa del Sacro Cuore si canta: « O Cuore, altare sul quale il Cristo Sacerdote ha offerto e offre ogni giorno il Sacrifizio cruento e mistico, chi non vi adorerà, chi non vi amerà, chi non vi sceglierà come dimora per abitar in esso eternamente? ». Questo suo Cuore, in cui Gesù di continuo rinnova il suo sacrifizio, sarà il mio asilo benedetto, in esso io offrirò la mia modesta partecipazione all’opera della Redenzione. E come il farò.” Cercando di unire i miei sentimenti a quelli di questo Cuore adorabile, seguendo, per esempio, l’indirizzo dell’Apostolato della Preghiera — non è questo l’unico modo di farlo, ma è certo uno dei migliori.

Quali sono questi sentimenti del Cuor di Gesù?

« Ecce venio: eccomi. Signore, io mi offro, mi dono a voi » . La vita di Gesù è un ecce perpetuo, una continua conferma dell’immolazione del primo giorno. Ecce rex, ecco le Palme: Ecce homo, ecco la Passione; Ecce Agnus, ecco Gesù del Giordano e dell’Eucaristia. Maria SS., fedele imitatrice di Gesù, anch’essa nella sua lunga vita non fece che ripetere quel suo: « Ecce, ecce ancilla Domini. Eccomi, io mi abbandono al vostro volere ».

Dal Cuore di Gesù erompe di continuo un duplice desiderio: — una fame divorante di compiere la volontà del Padre; — una sete ardente d’esser battezzato nel proprio sangue per strapparci dalla morte. Orbene, questo doppio desiderio pervade in Gesù tutto quello che gli appartiene. Di fatto, al presente, Gesù anche nella Umanità sua propria non è più passibile di umiliazione né di patimento; ma gli restiamo noi, suo Corpo mistico. Ed è per ciascuno di noi in particolare che Egli desidera l’abbandono totale ai voleri divini, per ciascuno di noi ha sete di quelle immolazioni che debbono unirci al suo Sacrifizio. Gesù non può più umiliarsi in se stesso, lo può fare in noi: non può più in se stesso soffrire, soffre in noi. Noi siamo in qualche modo Lui stesso: questa è la ragione per la quale aspetta la nostra partecipazione e le nostre offerte. Ahimè! troppo pochi son quelli che s’accorgono dei desideri di Gesù, meno ancora quelli che vi corrispondono. Tuttavia a questo tende la divozione al S. Cuore di Gesù: meglio, questo appunto ne costituisce l’essenza. Chi la giudica altrimenti la diminuisce o la falsa del tutto. Inoltre per farci comprender meglio le sue intenzioni, il divin Salvatore ha voluto rimanere in mezzo a noi sotto la figura di ostia. Sotto i veli eucaristici Gesù non può di fatto soffrire pei sacrilegi e per l’indifferenza, per la ribellione e per l’orgoglio, per la sensualità e le immodestie degli uomini. Ma un tempo, mentre viveva mortale quaggiù, per tutti questi oltraggi alla sua Maestà divina e per così crudele dimenticanza della sua legge, Egli ha già provato nel suo cuore e nel suo corpo indicibili tormenti. Egli tutto ha previsto, scoperto e penetrato fino al fondo e per ciascun delitto in particolare ha sofferto la corrispondente pena. Egli ci domanda un po’ di compassione che lo compensi, che lo conforti in quella sue agonie di Cuore, e poiché ha scelto di perpetuare nell’Eucaristia il Sacrifizio compiuto già sulla Croce, non potremo fare di meglio che perpetuare ancor noi insieme con; mesto suo sacrifizio, il che vuol dire diventare con Lui altrettante ostie viventi. Ancora: poiché nel Sacramento di amore si prolunga misticamente la fame divorante che il Salvatore prova di compiere in tutto la volontà del Padre e la sete ardente che ha di soffrire per nostra salvezza, non potremo fare di meglio che entrare ancor noi in quei sentimenti che animano di continuo il Prigioniero dei nostri tabernacoli. – Più innanzi, quando dimostreremo come un’anima riparatrice deve amare l’Eucaristia, ritorneremo sull’argomento. Per ora fermiamoci qui. Chi comprende bene il S. Cuore fa consistere la vita eucaristica nell’unione di due ostie in un solo perfetto abbandono al volere divino; chi comprende bene la vita eucaristica, cioè l’unione con Gesù Ostia, mette praticamente l’amore al Cuore di Gesù in uno sforzo energico per spogliarsi di se medesimo, e diventare come una « specie sensibile » sotto la quale solo vivrà Gesù. Una « specie sensibile » che nelle mani di Gesù, sarà come uno strumento per continuare a compiere la sua opera, una « specie sensibile » che Egli sacrifica incessantemente con se stesso, nell’unità di un medesimo sacrifizio, alla gloria dell’Adorabile Trinità e alla salute delle anime. Noi ci siamo un po’ dilungati, e se ne comprende facilmente la ragione, su Paray e sulla divozione al S. Cuore di Gesù. Ma anche nelle grandi apparizioni della S. Vergine in Francia, nel secolo XIX, per non dir che di quelle, noi troviamo sempre l’intento divino di richiamarci al nostro dovere della vita di riparazione. – A Bernardetta si rivolge Maria lamentando che gli uomini si abbandonino sempre più al peccato e le domanda una doppia compensazione: Si preghi e si faccia penitenza. Ella fa recitare alla fanciulla il Santo Rosario, vuole si edifichi un tempio ove il Signore sia glorificato, si promuovano pellegrinaggi per cui le folle vengano a portare in un’epoca fredda e blasfema, l’omaggio delle loro pubbliche adorazioni, delle loro infuocate acclamazioni, della loro fede vendicatrice. Ma sovra ogni altra cosa Maria insiste domandando: ce Penitenza! Penitenza! Penitenza! » (24 febbr. 1858). – A Pellevoisin, a Pontmain, alla Salette la Vergine benedetta non domanderà niente di più, ma ancora una volta domanderà appunto quello stesso: La preghiera e la penitenza, in espiazione di tutti i delitti che si commettono. « Pregate, pregate, ragazzi miei! ». « Fate penitenza!…  Ai due pastorelli della Salette la Regina del Cielo fa sapere che ormai non può più trattenere il braccio vendicatore del suo divin Figliuolo. I peccati si moltiplicano, la bilancia sta per dare il tracollo: « Se il mio popolo non vuole sottomettersi io finirò per dover lasciar libera la mano di mio Figlio. Essa è sì grave e sì pesante ch’io non la posso più sostenere. È già lungo tempo ch’io soffro per voi; se voglio ottenere che Gesù non vi abbandoni io debbo continuamente rivolgergli la mia preghiera. E voi? e voi non ci badate punto ». E la Santa Vergine versava calde lacrime. – E poi continuò: « Io vi ho lasciato sei giorni pei vostri lavori e mi sono riserbato soltanto il settimo e voi non volete accordarmelo ». Qui la Vergine parla la persona di suo Figlio, e Melania racconta che a queste parole apparve, come vivente, sul petto di Maria SS. tutta in lagrime, Gesù Crocifisso, il quale in segno di approvazione inclinò il suo capo. – Dopo aver richieste riparazioni per la violazione delle feste di precetto, la Madonna aggiunge nuove domande riguardo al vizio della bestemmia: « I mulattieri, i carrettieri non sanno più parlare senza frammettere ai loro detti il nome del mio divin Figliuolo. La bestemmia e la violazione della festa sono le due iniquità che rendono così pesante il braccio del mio Figliuolo ». – È necessario un contrappeso sulla bilancia altrimenti la giustizia divina, che francamente non può più esser trattenuta, scatterà. – Quale lezione per noi! Anime, anime ci vogliono che si dedichino alla riparazione. Iddio è irritato. Guai a noi se sull’altro piatto della bilancia divina non vi gettano le loro immolazioni compensatoci delle anime generose.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/07/31/lidea-riparatrice-3/

DA SAN PIETRO A PIO XII (9)

[G. Sbuttoni: Da Pietro a Pio XII, Edit. A. B. E. S. Bologna, 1953; nihil ob. et imprim. Dic. 1952]

CAP. IX

LE ORIGINI DELLA SOVRANITÀ TEMPORALE DEI PONTEFICI

PREAMBOLO

La forza delle cose

In mezzo alle agitazioni interminabili provocate dalle dominazioni barbariche, in mancanza di un potere centrale fortemente costituito, i Papi, per una conseguenza necessaria della loro stessa condizione morale, si videro obbligati a provvedere ad una tale molteplicità di faccende, da potersi considerare veri prìncipi temporali. Nessuno ormai crede più al famoso Atto di donazione di Costantino, a cui accenna [l’eretico gnostico – n.dr.] Dante (Parad. XX, 57), per cui quest’Imperatore, ritirandosi a Bisanzio nel 330, avrebbe ceduto al Pontefice Silvestro I, la città di Roma e tutta la parte occidentale dell’Impero. Tale documento, a cui si accenna nelle decretali pseudo isidoriane e negli atti apocrifi di Silvestro Papa, è dimostrato essere una finzione del sec. VIII. E’ certo però che l’atteggiamento di Costantino il Grande conciliò al Papato un certo splendore esterno. Con il trasferimento della residenza imperiale da Roma a Costantinopoli, il Papa divenne di fatto la suprema autorità politica, sebbene di diritto l’Imperatore continuasse a dominare, per oltre quattro secoli ancora, la città di Roma. – Ma la dominazione bizantina diverrà per l’Italia più insopportabile che quella dei barbari. Le angherie del fisco, le ingerenze della corte nel campo religioso finiranno, ai tempi di Liutprando, per sollevare le popolazioni. L’alleanza dei Papi con la Casa di Heristal e le donazioni fatte da Pipino il Breve alla Santa Sede verranno a costituire, come vedremo, uno stato autonomo, di cui sarà riconosciuto sovrano il Pontefice. Questo potere temporale, sorto per la forza stessa delle cose, contribuì allora efficacemente ad assicurare alla Santa Sede quel prestigio che le era necessario per il disimpegno della sua alta, missione civile, religiosa e morale in mezzo ai popoli.

D. Nel doloroso periodo delle invasioni barbariche chi aiutò gli Italiani?

— Gli unici che dessero un aiuto veramente efficace furono i Sommi Pontefici, poiché gl’imperatori di Costantinopoli si ricordavano dell’Italia quasi soltanto quando si trattava di spillar denaro. I Papi, invece, e con la loro autorità e con la loro beneficenza riuscirono, nei limiti del possibile, a difendere e a soccorrere le popolazioni prostrate da così gravi sciagure.

D. Quale conseguenza portò questo fatto?

— In ogni sventura, come guerra, carestia, pestilenza, i Romani erari sicuri di trovare nel Papa un padre pronto a soccorrerli con tutti i mezzi a sua disposizione; perciò, abbandonati come si trovarono di fatto dagli imperatori di Costantinopoli, cominciarono a vedere nel Papa il loro unico difensore e il loro vero sovrano.

D. Il Papa ha mai cercata e domandata tale sovranità?

— No, ma è nata dal diritto che avevano i Romani di scegliersi un difensore. Tuttavia qualche debole legame con l’impero bizantino rimase ancora di fatto sino all’anno 754, quando ogni vincolo si ruppe.

D . Che avvenne in detto anno?

— I Longobardi, in avanzata verso Roma, avevano giurato di mettere ogni cosa a ferro e a fuoco e di troncar la testa a tutti i Romani. Questi ricorsero, come al solito, inutilmente, all’imperatore di Costantinopoli. Allora il Papa valicò le Alpi nel cuore dell’inverno, «per salvare Roma », e ottenne l’aiuto necessario dal re dei Franchi, Pipino, che scese due volte in Italia e sconfisse il re dei Longobardi.

D. Che fece Pipino dei territori tolti ai Longobardi?

— Li donò al Papa.

D. Che cosa formarono essi?

— Roma con i suoi dintorni, dove il Papa era già da tempo riconosciuto come sovrano, e i territori donati da re Pipino, formarono il « Patrimonio di S. Pietro » o Stato Pontificio.

D. Quanto durò lo Stato Pontificio?

— Attraverso vari e vicende, che sarebbe troppo lungo narrare, si mantenne per più di mille e cento anni, cioè fino al 1870, quando le truppe di Vittorio Emanuele II entrarono in Roma.

D. Il Papa, a Roma, si può dire che avesse una posizione come quella d’un vescovo qualunque?

— L’asserirlo sarebbe una puerilità. Difatto egli non era suddito dell’imperatore; infatti non era l’imperatore a nominarlo, né a dargli prestigio, ma la successione di Pietro, l’autorità di S. Pietro, la tomba di S. Pietro.

D. Come mai allora lo si vede immischiato in affari terreni… ?

— È vero, ora è intento a operazioni di guerra, ora a negoziare trattati, in nomine di funzionari, nella custodia delle finanze dello Stato, in intraprese di carattere municipale, come in restauri delle fortificazioni e degli acquedotti, in servizio di vettovagliamento pubblico… Ma tutto questo, non per ingerenza sua, ma per la fiducia che si aveva nella sua autorità morale, nella sua esperienza, nel suo personale d’amministrazione, nella solidità delle sue finanze. S’invocò il suo soccorso; egli non lo rifiutò.

D . Che cosa crearono questi servizi domandati e resi?

— Un territorio sacro intorno al santuario apostolico, che ne originò lo Stato.

D. Difendendo l’autonomia di Roma, il Papa non ha impedito la unificazione d’Italia per opera dei Longobardi?

— Sì, ma fu il sentimento nazionale degl’Italiani di Roma ad opporsi a tale unificazione.

D. E perché mai?

— Perché i Romani non volevano essere Longobardi e il loro capo morale — il primo tra loro —, il Papa, non poteva voler essere longobardo. Si era lottato tanto tempo per conservare l a qualità di Romani, di membri della repubblica santa, di sudditi di un uomo che, nonostante tutto, era l’erede di Augusto e di Costantino. Questa qualità era diventata cosa sacra e intangibile.

D . Chi erano i Longobardi?

— Erano dei barbari; sul loro conto si diffondevano racconti di ogni specie sulle loro inferiorità. Le loro leggi e i loro costumi non quadravano con quelli dei Romani; il diritto longobardo era fortemente improntato a tradizioni germaniche, mentre il Romano era piamente conservato dalle Dodici Tavole fino a Giustiniano. Dove arrivava il longobardo, bisognava vestire e portare i capelli e barba come lui; un Romano non l’avrebbe mai fatto, come un inglese non si rassegnerebbe mai a portare il codino dei cinesi e i loro abiti ondeggianti.

CAPO XI.

LO SCISMA GRECO

PREAMBOLO

Incompatibilità di carattere

Nel sec. IX, la Chiesa Orientale, che faceva capo a Costantinopoli, si separò dalla Chiesa Occidentale, che faceva capo a Roma. – Diverse ragioni d’indole morale, culturale, politica avevano lentamente scavato un profondo solco tra l’Europa medio-occidentale e l’Impero d’Oriente. Dalla diversità di carattere, esistente tra gli Occidentali e gli Orientali era nata un’avversione reciproca tra Greci e Latini, avversione che si accrebbe soprattutto durante la dominazione romana. – I Greci, che avevano raggiunto il primato nella filosofia, nell’arte, nella cultura, sentivano il giogo di Roma più di ogni altro popolo. In seguito, il trasferimento della capitale a Bisanzio diede ai Patriarchi di questa città l’illusione che vi fosse stato trasferito anche il Primato dell’Autorità spirituale e, se non osarono mai esprimere chiaramente quest’idea, praticamente lasciarono spesso comprendere che ambivano di rendersi indipendenti dal Pontefice Romano.

D. Per quali cause nacquero dissidi tra greci e latini?

— Per risentimenti nazionalistici con relative mutue incomprensioni, e per l’ambizione dei patriarchi di Costantinopoli.

D. Che cosa pretendevano i patriarchi di Costantinopoli?

— Pretendevano che dopo che questa città era diventata la capitale dell’Impero, fosse riservato ad essi un posto speciale di onore e di comando.

D. Che cosa accordarono loro i Papi?

— Il titolo di Patriarca, cioè di capo ecclesiastico per alcune Provincie, ma non la denominazione di « ecumenico », cioè «universale », ch’essi si arrogarono. Per questo videro nel Papa di Roma il perpetuo ostacolo alla gloria della « nuova Roma », come chiamavano Costantinopoli.

D. Che cosa contribuì a rendere più vivo questo malanimo!

— La serie di errori di religione che sorsero nella Chiesa orientale, e che costrinsero spesso il Papa a intervenire in difesa della vera Fede, e a lottare anche contro gli imperatori greci, che pretendevano di sentenziare su cose di fede, come se fossero essi i capi della Chiesa.

D. Che cosa portarono questi interventi pontifici?

— A ferire l’orgoglio degli orientali assai vivamente, tanto più che essi per gli occidentali conservavano il più burbanzoso disprezzo. Era per loro umiliante ammettere di essere caduti nell’eresia, tanto più poi doverlo riconoscere per l’intervento di un occidentale, quale era il Papa. Gli occidentali per loro erano nient’altro che barbari.

D. Ci furono atti di ribellione all’autorità del Papa?

— Ce ne furono anche prima del secolo IX, ma il più grave fu lo scisma promosso da Fozio nel sec. IX.

D. Chi era Fozio?

— Un greco assai dotto, segretario dell’imperatore Michele III, e scomunicato dal santo patriarca di Costantinopoli, Ignazio, per i suoi scandali.

D. Che fece Fozio!

— Brigò per far cacciare illecitamente Ignazio e poi approfittò della di lui assenza forzata per andare al suo posto. Era semplice laico, in soli sei giorni si fece conferire tutti gli ordini sacri, fino all’episcopato, e, sostenuto dall’imperatore, si mise a perseguitare i vescovi che non lo volevano riconoscere e rimanevano fedeli al legittimo patriarca Ignazio.

D. A chi si rivolse Ignazio per aver giustizia?

— A Roma, ma Fozio ne fece intercettare le lettere, poi scrisse lui stesso presentando i fatti in modo completamente alterato.

D. Che fece il Papa!

— Il grande Papa Nicola I, conosciuti gli inganni di Fozio, prese risolutamente le parti della giustizia, depose Fozio e dichiarò legittimo Ignazio.

D. Come si diportò Fozio?

— Non si volle sottomettere al giudizio del Papa e si ribellò; anzi cercò di trascinare alla ribellione tutta la Chiesa greca, impugnando la supremazia della Santa Sede di Roma.

D . Quali accuse portava contro i latini!

— Ne portava delle ridicole, ad es che i preti latini si radevan la barba (presso gli orientali la barba è segno di dignità, ed esserne privi è uno dei più gravi sfregi) : … che i latini a Pasqua mettono sull’Altare un agnello per sacrificarlo con il Corpo di Gesù Cristo: cosa che nessuno s’è mai sognato di fare. Ma la più grave fu che i latini fossero caduti in eresia, perché nel Credo dicevano: « Credo nello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio », mentre gli antichi dicevano solo « dal Padre ».

D . Che risposero i latini?

— … che l’aggiunta non falsava, ma chiariva, il senso della Scrittura e il pensiero dei Padri.

D. Accettarono i greci la spiegazione ?

— No, ritennero vera l’accusa di Fozio e si servirono anche di essa per consumare lo scisma definitivo di due secoli dopo.

D. Che diceva Fozio nella sua lettera del Primato del Papa !

— Lo negava, in quanto il Vescovo di Roma sarebbe stato capo della Chiesa fino a che Roma fu capitale dell’Impero, ma ormai che la capitale era Costantinopoli, il capo della Chiesa era il Vescovo di Costantinopoli.

D. È giusto l’argomento di Fozio?

— No, perché il Papa non è il capo della Chiesa perché anticamente

Roma era capitale del mondo ; ma soltanto perché il legittimo successore di San Pietro principe degli Apostoli, morto vescovo di Roma.

D. Che avvenite nell’ottavo Concilio Ecumenico (Costantinopolitano IV)!

— La condanna di Fozio e la riconciliazione della Chiesa Orientale con Roma (anno 869).

D. Fu vera riconciliazione!

— Esternamente sì; negli animi però i rancori non erano scomparsi. Dopo 200 anni di pace apparente, nel 1054, per opera di Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli, scoppiò di nuovo lo scisma e questa volta fu permanente.

D. Come cominciò l’attacco?

— Michele ordinò la chiusura delle chiese e monasteri latini; scrisse contro i latini incolpandoli di eresia: proibì la Comunione amministrata dai latini, perché consacravano il pane azimo e non fermentato come gli orientali; fece persino calpestare l’Eucarestia dei latini.

D. A che valse l’ intervento del Papa?

— A nulla: i legati suoi non furono neppur ricevuti. Era l’anno 1054.