IL SEGNO DELLA CROCE (9)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (9)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA OTTAVA.

3 dicembre.

Il segno della croce noto ed in uso di poi la origine del mondo. — Contraddizione apparente. — Sette modi di fare il segno della trote. — Giacobbe, Mosè, Sansone lo hanno fatto. — Testimonianza de’ Padri. — David, Salomone, e tutto il popolo giudeo ne conoscevano il valore. — Prove.

Mio caro Federico il tuo orecchio, come quello di ben molti altri, farà il zufolo alla prima frase di questa mia lettera. Il segno della croce rimonta all’origine del mondo. Desso è stato eseguito da tutti i popoli, ancorché pagani, nelle solenni preghiere, e nelle contingenze, in che era da ottenere una qualche grazia decisiva. Innanzi tratto è da osservare, che questa proposizione non contraddice a quanto abbiamo detto nella precedente lettera; avvegnacché ieri fu parola del segno della croce nella sua forma completa, e perfettamente compresa, com’è in uso da poi il Cristianesimo; oggi l’è della forma elementare, benché reale, e più o meno misteriosa per quelli, che ne usavano avanti la predicazione del Vangelo. Uno schiarimento ti sembra necessario; ed eccolo.

Il segno della croce è si naturale all’uomo, che presso tutti i popoli, in tutte le religioni, ed in tutte le epoche, non s’è messo egli in rapporto con Dio per lo mezzo della preghiera senza eseguirlo. Hai tu conoscenza di un qualche popolo che pregasse con le braccia pendenti? Per me, lo ignoro; solo conosco che i pagani, i Giudei, ed i Cattolici, hanno pregato facendo questo segno della croce. V’hanno sette modi di fare questo segno. Le braccia distese: l’intiero nomo diviene segno di croce. – Le mani congiunte, e le dita commesse insieme; ecco cinque segni di croce.  Le mani applicate l’una contro l’altra, ed un pollice sovrapposto all’altro, nuovo segno di croce. – Le mani congiunte innanzi al petto, formano un altro segno di croce. Le braccia al petto conserte ti presentano di nuovo la croce. – Il dito pollice della mano destra passando sotto l’indice e posandosi sul medio forma un altro segno di croce, limitatissimo, come fra poco vedremo. – Infine, la mano destra passando dal mezzo della fronte al petto e da questo alle spalle, lo rappresenta più esplicitamente, come tu a pezza conosci. Sotto l’una o l’altra di queste forme, il segno della croce è stato conosciuto e praticato dappertutto e sempre, nelle circostanze solenni con una conoscenza più o meno chiara della sua efficacia.  Giacobbe è sul punto di morire. Dodici figli, futuri patriarchi di dodici grandi tribù, lo circondano. Il santo patriarca, per divina inspirazione predice a ciascun di loro quanto ad essi accadrebbe nel seguito de’ secoli. Alla vista di Efraim e di Manasse, i due figli di Giuseppe, il vecchio è commosso ed implora sopra di loro tutte le divine benedizioni (Genes. XLVII, 13. seq.). Ad ottenerle qual cosa mai fa egli? Incrocia le braccia, dice la scrittura, e poggia la mano sinistra sul capo del figlio che avea a destra, e la mano destra su quello, che avea a sinistra. Ecco il segno della croce, sorgente eterna di benedizioni! La tradizione non s’è ingannata; Giacobbe era la figura del Messia. In questo momento solenne, parole ed azioni, tutto nel patriarca dovea essere profetico. Giacobbe, dice san Giovanni Damasceno, incrocia le mani per benedire i figli di Giuseppe, forma il segno della croce, nulla v’ha di più evidente (Jacob, alternates cancellatisque manibus, filios Joseph benedicens, signum Crucis manifestissime scripsit. (De fide orthod. lib. I, c.18). – Fin da’tempi apostolici, Tertulliano constata lo stesso fatto, e dalla istessa interpretazione. «L’antico Testamento, dic’egli, ci mostra Giacobbe, che benedice i figli di Giuseppe con la mano sinistra sul capo di quello che avea a destra, e la destra sulla testa di chi era a sinistra. In questa posizione, esse formavano la croce ed annunziavano le benedizioni di che il Crocifisso sarebbe inesauribile fonte » (Sed est hoc quoque de veteri Sacramento, quo nepotes suos ex Joseph, Ephraim et Manasses, Jacob, impositis capitibus et intermutatis manibus  benedixerit; et quidem ita transversim obliquatis in se, ut Christum deformantes, jam tunc protenderet benedictionem in Cristum futuram – De Baptism). Sormontiamo i tempi della cattività in Egitto ed arriviamo a Mosè. Nel mezzo del deserto gli Ebrei si trovano di rincontro ad Achimalec, che alla testa di fortissima oste sbarra loro la via, ed una battaglia decisiva è inevitabile. Che farà Mosè? Invece di restare nel piano e dar coraggio a’ combattenti d’Israele col gesto e con la voce, egli ascende il monte, che resta a cavaliere del campo di battaglia, e durante la zuffa che fa egli il legislatore inspirato da Dio? Il segno della croce; non altro che questo segno, lungo tutto il tempo dell’azione, non leggendosi che abbia pronunziato parola alcuna. Egli tiene le mani aperte e le braccia distese verso il cielo, facendo di se un segno di croce, Dio lo vede in tale atteggiamento e la vittoria è riportata (Exod. XVII, 10). Non credere che vana supposizione sia questa. Ascolta quanto ne dicono i Padri. Amalec, esclama san Giovanni Damasceno, sono queste mani distese in croce, che ti hanno vinto! (Manus Crucis extensæ Amalech repulerunt. (De Fide Ortodox. lib. IV, c. 2). Ed il gran Tertulliano: « Perché… Mosè, quando Giosuè combatte Amalec, fa quanto mai ha fatto, cioè, pregare in piedi e con le braccia distese? In circostanza si decisiva era da pregare, per rendere più efficace la sua preghiera, in ginocchio, battendosi il petto, e con la fronte prostrata nella polvere. Niente di tutto questo: e perché? La battaglia, contro Amalec prefigurava la guerra del Verbo incarnato contro satana, ed il segno della croce, col quale questi riporterebbe la vittoria » (Jam vero Moyses quid utique nunc tantum, cum Jesus adversus Amalech præliabatur, expansis manibus orat resi-dens, quando in rebus tam altonitis, magia utique genibus depositis, et manibus cædentibus pectus, et facie numi volutami, orationem commendare debuisset; nisi quia illic, ubi nomen Domini dimicabat, dimicaturæ quandoque adversus diabolum crucis quoque erat habitus necessarius, per quam Jesus victoriam esset relaturus? (Contra Marcion. lib. III). Ed il filosofo martire san Giustino, che arriva fino agli apostoli : « Mosè sul monte fino al tramonto del sole, con le braccia distese sostenute da Ur e da Aronne, che cosa è mai, se non il segno della croce » (Moyses expansis manibus in colle ad vesperam usque permansi!, cum manus ejus susteiitarentur, quod sane nullam nisi crucis figuram exhibebat. {Dialog, cum Tryph. n. 111)? Insensibili ai miracoli di paterno amore, di che erano oggetto i Giudei pronunziavano male voci contro Mosè, e contro Dio. Dalle parole passano ai fatti, ed irrompono a rivolta ostinata. Ma la pena è pronta, e con i medesimi caratteri della colpa. De’ serpenti, rettili spaventevoli, il cui veleno brucia qual fuoco, si gettano su i colpevoli facendone strazio con i loro morsi, e coprono il campo di morti e di morenti. Alla preghiera di Mosè Dio si placa; per mettere in fuga i serpenti, e guarire gl’innumerevoli infermi, qual mezzo indica Egli? Delle preghiere? no. Dei digiuni? nemmeno. Un altare, o una colonna di espiazione? nulla di tutto questo. Comanda si faccia un segno di croce permanente e visibile a tutti, segno che ciascun infermo farà col desiderio guardandola, e tale sarà la potenza di questo segno, che un solo sguardo restituirà la perduta sanità. Il significato di questo segno divinamente comandato non è oscuro, avvegnacchè il vero segno della croce, il segno della croce vivente per tutta l’eternità, N. S. istesso ha rivelato al genere umano che il segno del deserto era sua immagine. « Come Mosè elevò nel mezzo del deserto il serpente, così è mestieri che il Figlio dell’uomo sia elevato, affinché chiunque crede in lui non perisca , ed abbia vita eterna » (1 Joan. III, 15). Se i limiti di una lettera lo permettessero, noi percorreremmo insieme gli annali del popolo figurativo, e vedresti, mio caro, che in tutte le importanti occasioni, chesono pervenute a nostra notizia, desso fece ricorso al segno della croce. Lascia che io te ne citi qualcuna. Nei sacrifizii il sacerdote, secondo il rito prescritto, elevava l’ostia, e la trasportava dall’Oriente all’Occidente, come ci dicono gli stessi Giudei, e con ciò formava una figura della croce, e con un movimento simile il gran sacerdote ed i semplici sacerdoti benedicevano il popolo dopo i sacrifizii (Duguet. Trait. de la croix de N. S. c. VIII). Dalla chiesa giudaica, questo segno è passato nella Chiesa cristiana. I primi fedeli ammiratori dell’antico modo di benedire con la figura della croce, ed ammaestrati dagli Apostoli del misterioso significato di questo segno lo hanno continuato accompagnandolo con le parole che lo spiegano. Le abbominazioni di Gerusalemme erano giunte al loro colmo, quando Dio mostrò al profeta Ezechiele il personaggio misterioso, che dovea attraversare la città e segnare del T la fronte de’ gementi sulla iniquità della colpevole capitale (Ezecb. IX, 4). Ai fianchi di esso camminavano sei individui muniti di armi micidiali con ordine di massacrare quanti non trovassero marcati del segno salutare. Come non vedervi una figura del segno della croce, ch’è fatto sulla nostra fronte? I Padri della Chiesa l’intendono a questa maniera, e fra gli altri, Tertulliano e s. Girolamo. Come, questi dicono, il segno del T impresso sulla fronte di quelli che gemevano sulla iniquità di questa città, li protesse contro gli angeli sterminatori; così il segno della croce, di che l’uomo segna la sua fronte, è certo argomento ch’egli non sarà la vittima di satana, né degli altri inimici del suo bene, s’egli geme sinceramente sulle abominazioni che questo segno combatte (Tertull. adv. Marc. 1, III, c. 22 – Hier, in Exech. c. X.). – I Filistei hanno ridotto Israele alla più umiliante delle servitù. Sansone comincia a liberarla, ma sventuratamente il forte d’Israele è sorpreso, incatenato, privato della vista degli occhi, ed i Filistei si servono di lui come di trastullo nelle loro feste. Sansone medita la vendetta, e con un sol colpo vuole schiacciare migliaia d’inimici, e la Provvidenza ha siffattamente disposto, che il suo disegno col segno della croce venga eseguito. Posto fra due colonne, sostegno dell’edilizio, dice S. Agostino, il forte d’Israele distende le sue braccia in forma di croce, ed in tale atteggiamento fortissimo, scuote le colonne, le abbatte, e schiaccia i nemici suoi, e come il Crocifisso, di che era figura, muore sepolto nel suo trionfo (Jam hic imaginem crucis attendite: expansas enim manas ad duas columnas, quasi ad duo signa crucis extendit; sed adversarios suos interemptos oppressit, et illius passio interferito facta est persequentium – Serm. 107. de temp.). – David pieno di amarezze è ridotto agli estremi, che possa patire un re ! Un figlio parricida, i sudditi in rivolta, un trono vacillante, la vecchia età che si avanza, lo appenano tanto, ch’egli n’è prostrato. Qual cosa fa il monarca inspiralo per lenire la forza del dolor suo? Prega. Ma come? Facendo il segno della croce. (Expandi manus meas ad te. (Ps. LXXXIII, CXLII, etc. etc.) – Salomone compisce il tempio di Gesusalemme, ed il magnifico edificio è consacrato con pompa degna di un tale sovrano; resta solo attirare le benedizioni divine sulla nuova casa del Dio d’Israele, ed ottenerne i favori per quelli, che vi pregheranno, Salomone all’uopo prega il Signore ed in atteggiamento di croce. In piedi, dinanzi l’altare del Signore, dice il sacro testo, al cospetto di tutto il popolo d’Israele, distende le mani verso il cielo, e dice: Signore, Dio d’Israele, non v’ha un Dio simile a voi ne’ cieli e sulla terra. Guardate la preghiera del vostro servo. I vostri occhi guardino questa casa notte e dì, onde le preci del vostro servo, e del vostro popolo sieno esaudite (stetit autem Salomon ante altare Domini in conspectu ecclesiæ Israel, et expandit manus suas in cœlum, et ait: Domine Deus Israel, non est similis tui, Deus in cœlo desuper, et super terram deorsum réspice ad orationem servi tui, et ad preces ejus ut sint oculi aperti super domum hanc nocte et die. . . ut exaudías deprecationem servi tui, et populi tui Israel. – III Reg. VIII, 22, 23, 28, 2», 30). Credere che i soli patriarchi, i giudici, i veggenti d’Israele conoscessero il segno della croce, e lo praticassero sarebbe un ingannarsi; tutto il popolo lo conosceva e ne’ pubbiici pericoli religiosamente ne usava. Sennacherib marcia di vittoria in vittoria, la maggior parte della Palestina è soggiogata, Gerusalemme è minacciata. Vedi tu quel che questo popolo, uomini, femmine e fanciulli, operano per respingere l’inimico? Come Mosè si rendono immagine della croce; eglino invocano il Signore delle misericordie, e distese le mani, le innalzano verso il cielo, ed il Signore li esaudì (Et invocaverunt Dominum misericordem , et expandentes manus suas, extulerunt ad Cœlum et sanctus Dominus Deus audivit cito vocem ipsorum. (Eccli. XLVIII, 22). Ma un altro pericolo li minaccia. Eliodoro s’avanza seguito dall’esercito per saccheggiare il tesoro del tempio, di già ha passato la soglia, un’istante ed il sacrilegio sarà compiuto. I Sacerdoti prostesi sul suolo innanzi all’altare del Signore pregavano; ma nulla arresta il sacrilego spogliatore: il popolo invoca a suo soccorso l’arma tradizionale, prega facendo il segno della croce: tu sai il resto (II Macab. III, 20). Se non è da porre in dubbio che pregare con le braccia distese è un formare la figura dalla croce, tu vedi chiaro ed aperto che, da’ tempi i più remoti, i Giudei hanno conosciuto e praticato il segno della croce, per un istinto più o meno misterioso della sua onnipotenza. Dimani noi vedremo se i pagani erano meno istruiti.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (3)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO TERZO

ARGOMENTO 

L’eccellenza del Paganesimo grecoromano nelle arti dello Stato e della immaginativa non riguarda l’uomo, in quanto tale. Che sia questo pei Cristiani. Ignoranza del Paganesimo intorno a ciò. Ragioni di quella eccellenza. La schiavitudine. Riscontro nella età moderna quanto alla filosofia, ai progressi materiali, al Comunismo. La scienza di Dio ha riempiuto il mondo cristiano.

I. L’avervi ieri, miei riveriti uditori, colla scorta di san Girolamo, adombrato l’antico Paganesimo nel figliuol prodigo, il quale, partitosi dalla casa paterna, ne sperperò malamente il retaggio, e fu travolto nel fondo di ogni miseria, quel paragone, dico, avrà fatto inarcare le ciglia a più d’un lettore assiduo di Cornelio Nipote o di Plutarco, ed ammiratore passionato dei costoro eroi. Come! avran questi certo pensato e detto: come! Non è l’uomo grecoromano il tipo ideale d’ogni grandezza civile? E non fu sommo l’antico mondo romano nelle arti della guerra e della pace, esso che da un pugno raccogliticcio di malviventi e di banditi, seppe costituire il più grande Impero, che fiorisse mai sotto le stelle? E quei senatori, quei giureconsulti, quei consoli, quei tribuni, quei duci, quegli oratori, che furono e sono tuttavia l’ammirazione d’ogni gente colta, ci si vorrà dipingere come un’accolta di malcreati e di mezzo barbari, non degni di altro, che della nostra compassione? Che se la Grecia fu meno audace nelle imprese guerresche, perché turbata troppo da intestine discordie, ed in Alessandro il Macedone mostrò appena quello, che avrebbe potuto con maggiore unità e con ordinamenti più fermi, chi vorrà negarle il primato in ogni arte bella ed in ogni nobile disciplina? Primato non contrastatole da nessun popolo, anche dopo nata la coltura cristiana, la quale, se giunse ad emulare nobilmente quell’antica, pare che sia sfidata al tutto del superarla. E cui mai imiterebbero con maggior laude i nostri pittori e statuari, se non i Greci? E quando un’nostro storico, un oratore, un poeta, un satirico, udisse dirsi di avere raggiunta la venustà greca, il greco tepore o i Sali attici, non si crederebbe di aver proprio tocco il cielo col dito? O non è la polizia e la letteratura del mondo grecoromano…. Ma deh! che serve, signori miei, andare più oltre? voi mi state dicendo quello che tutti sappiamo, quello che è stato dello e ridetto anche troppo, quello che nessuno ed io meno di qualunque altro, non ha mai negato o recato in forse; nel Paganesimo colto cioè, qual fu certo il grecoromano, essersi in maniera squisita possedute le arti del bello, e se volete eziandio essersi non men conosciuta l’arte di soggiogare i popoli, per ingrandire il proprio Impero, e l’arte ancor più difficile di mantenerlo. Ma che vorreste voi conchiudere da tutto questo? Che forse gli uomini, anche più cospicui e più ammirati di quel tempo, non fossero ciechi in quello che loro più caleva di vedere? che non fossero stolidi, bestiali, snaturati, maledetti e reprobi? che insomma non fossero il vivo ritratto del figliuol prodigo, il quale dissipavit substantiam, e morivasi della fame, e disputava agl’immondi animali le ghiande, onde essi, di lui meglio forniti, pur si sfamavano? Oh! perdonatemi se vel dico chiaro: voi discorrereste molto male, quando così pensaste. Poniamo pure che i Pagani avessero potuto, per effetto della loro condizione, conoscere il vero naturale e praticare qualche naturale virtù  il fatto è, che ciò si avverò in casi estremamente rari, non fu mai cosa del popolo, e quel medesimo barlume si ecclissò nell’apice appunto della forbitezza e della potenza; cioè negli ultimi tempi del romano Impero. E se il ciel mi assista, io vi mostrerò che la cecità dei Pagani, nello ignorare ciò che più loro rilevava di sapere, si mostrò tanto più lacrimevole e più sfoggiata, quanto che trovavasi in un mondo così forbito e che sapeva fare e dire con sovrana eccellenza tante altre cose. Da quella malaugurata radice, dell’essersi il genere umano separato da Dio, il primo infelice frutto che germinasse, fu l’avere l’uomo ignorato al tutto sé medesimo. Né sarà questa una sterile speculazione intorno ad una società defunta e della cui vita abbiamo soli testimoni i libri e gli avvanzi ancor maestosi della sua grandezza: no! vi sarà pratica utilità ancora per noi. Che se la società moderna, col separarsi sempre più da Dio, fa rivivere il Paganesimo, voi vedrete altresì, a vostro profitto, che da quella radice è cominciato nel nostro tempo a germogliare pur troppo lo stesso frutto di avere sconosciuto l’uomo in ciò che intrinsecamente lo costituisce. Un soggetto cotanto grave si raccomanda abbastanza di per sé stesso alla vostra attenzione; ed io, senza più, mi vi accosto e comincio.

I . Noi non siamo propriamente uomini, perchè fabbrichiamo, perchè cantiamo, perché scolpiamo, ricamiamo, dipingiamo e facciamo di cento altre cotal belle cose, nel giro della immaginativa e del senso. Tutte quelle belle cose la natura animale, e dico ancora la natura insensata, le fa come noi e meglio di noi, senza che per questo si sia mai sognato nessuno diassociarle alla grandezza e dignità umana. Le api ed i castori fabbricano le loro dimore con tale disciplina e simmetria di arte, che i più valenti architetti vi potrebbero imparare qualche cosa; e per giunta, senza rischio che alle api ed ai castori ruinino in capo le volte, per falliti precetti di statica, come non rade volte interviene a noi. Un canarino, dal corpicciuolo più esile di questo pollice, senza aver mai imparato di crome o di semicrome, e senza alcuno esercizio di solfeggio, vi sfodera trilli e gorgheggi da sbalordirne i più valorosi professori di flauto; e va sì franco, che neppure apprende il rischio di mettere in fallo un diesis od un bémolle. La semplice attrazione moleculare, esplicata nella materia dal principio attivo che la informa, v’impasta, vi simmetrizza ed affaccetta e forbisce un cristallo ancor minutissimo con tanta maestria, che nėssun gioielliere, per isperto ed esercitato che fosse, ne vorrebbe sostenere il paragone; e chi sa quanti di voi, nel levarsi questa mattina, avran trovato l’interno delle loro finestre arabescate tanto leggiadramente dal ghiaccio, che non vi è ago industre di valentissima ricamatrice capace a farne, con tanta perfezione ed in sì piccolo tempo, una millesima parte. Che più? ora che madre natura, vinta alle nostre industrie, non disdegna di copiare sé medesima, e che la luce in persona si piglia spasso di rubare il mestiere ai paesisti ed ai ritrattisti, voi state vedendo solenne maestra che questa si mostra all’opera! Vedute e paesaggi intrigatissimi, ritratti oltre ogni credere malagevoli, e che farebbero l’ambizione e la fama di un pittore, la luce ve li stampa con quant’è volgere il guar do agli originali; e può, multiplicarli a centinaia ed a migliaia, tanto solo che le forniate i semplicissimi appárati fotografici richiesti all’uopo. Sicchè vedete che tutte quelle belle cose ricordate di sopra, benchè riechieggano le facoltà dell’uomo per essere fatte dall’uomo, nondimeno per sè medesime non hanno nulla che fare colla dignità, colla elevatezza, col decoro proprio dell’uomo in quanto tale, potendosi quelle belle cose compiere da esseri che si digradano di smisurato intervallo dall’altezza e nobiltà della nostra natura. E forse che questo medesimo concetto non è suggerito a voi dal senso comune? forse che non lo dite voi nei consueti parlari, senza che per avventura vi abbiate posto ancor mente? Voi del tale o del tale altro dite che è un eccellente poeta, è un eccellente oratore, è un eccellente pittore; ma non per questo solo li qualifichereste altresì per eccellenti uomini: in quanto intendete benissimo, che tutte quelle eccellenze, e qualche altra ancora più splendida e più lucrosa, possonsi trovare in uomini, non pure cattivi, ma pessimi. Per converso, voi intendete ugualmente benissimo, che ad essere eccellente uomo si richiede qualche altra cosa che non è l’essere poeta, oratore o pittore; anzi vi pare evidente che quello possa trovarsi bene senza di questo, essendovi pure degli uomini davvero eccellenti, i quali nondimeno non sanno neppure ove stia di casa la poesia, la retorica o la pittura. Non dite, per vita vostra, miei amatissimi, che io ho dimenticato il mio assunto! Io vi sto anzi, navigando a vele gonfie, e per poco non sono in porto. E non vi accorgete? Quel po’ di discorso dal senso comune basta a gettare per terra tutto il superstizioso pregiudizio che, a favore dell’antico Paganesimo, è prevalso, al vedere l’eccellenza, onde esso primeggiò nelle arti dello Stato, della guerra, della immaginativa e del senso. Laddove Iddio permise, ovvero ordinò forse quella eccellenza, appunto perché apparisse più cospicuo, più solenne, più ignominioso l’avvilimento, in che giacque in essa la dignità umana, proprio in quello, che intrinsecamente la costituisce. Grandi capitani, grandi politici, grandi artisti ed oratori e storici e poeti: sia pure! Ma grandi uomini? oh! cotesto poi no! il Paganesimo non poté formarne né grandi né piccoli, per questa semplicissima ragione, che cioè esso ignorò radicalmente quello che fosse l’uomo: appunto come non è possibile che uno scultore vi foggi un cavallo, né grande né piccolo, se non conosca quello che sia cavallo. – Ed intendetelo bene! Conoscere l’uomo significa sapere che sia questo accoppiamento portentoso ed unico d’inerte materia e di spirito intelligente, che l’informa, dandole l’essere, la vita ed il senso; significa sapere da chi ed a quale scopo quella intelligenza fu imprigionata in questo ingombro materiale; significa sapere a che fare, con quali leggi, con quali temperamenti sia stato quel composto messo a pellegrinare sulla terra, in mezzo a tante seduzioni che l’allusingano, ed a tanti dolori che lo martellano; significa sapere come e perché, essendo pure sulla terra l’uomo l’essere più nobile di tutti, sia poi di tutti il più misero, tormentato sempre da tanti dolori, abbeverato da tante amarezze; e da questa, che più d’ogni altra è cocente, che assetati, come siamo, di giustizia ci scorgiamo condannati a vedere, il più spesso, misera la virtù, il vizio fortunato, la giustizia umana poco altro che uno scherno per chi la implora, ed un mantello d’ipocrisia per chi la promette. Conoscere l’uomo significa sapere se, separatisi per la morte questi due principii, anima e corpo, e gettato questo nel sepolcro ad imputridire della più schifosa tra le putredini, la parte intelligente e volitiva resti o no, superstite al sepolcro; e se sì, quali destini l’attendano in quella regione oscura, misteriosa, inesplorata, la quale tutti guardiamo con raccapriccio, e che tutti dovremo, presto o tardi, visitare. Questo importa, se nol sapete, conoscere l’uomo; e senza questo, si potrà bene saltare come un cavriolo, cantare come un usignuolo, pugnare, come un leone, giocare di astuzia come una volpe; ma non mai pensare e vivere e sentire ed operare, come alla dignità dell’uomo si addice. Ora di tutto questo il Paganesimo antico non ebbe, non che scienza, neppure sospetto; non si brigò neppure di cercarne, forse perché presentiva affatto impossibile la piena soluzione di quei problemi. Ebbero i sapienti di Grecia un bello imporre e raccomandare ai loro discepoli il famoso γνῶθι σέαυτον [=gnoti seauton], nosce teipsum! tutto essi studiarono, tutto seppero, meno questo solo, che pure per essi saria stato il tutto. Ed era una cosifatta ignoranza così universalmente accettata e riconosciuta nel mondo pagano, che il grande apologista Arnobio sfidava pubblicamente i Gentili del suo tempo a dare a quei quesiti una risposta, la quale non fosse nulla od assurda. E così gl’incalzava, prendendo le mosse nientemeno, che da Socrate: Potest quispiam explicare mortalium id quod Socrates ille explicare nequit in Phoedone? homo quid sit? unde sit? …. in quos usus prolatus sit? cuius sit excogitatus ingenio? quid in mundo faciat? cur malorum tanta experiatur examina (ARNOB . II, 7)? A queste domande tutta la sapienza pagana non avea una, quanto che piccolissima, risposta a dare: si restava mutola come il deserto: e se pure avesse voluto tentare una soluzione, questa non era altro, che o il sogghigno beffardo del cinico, o il dubbio straziante dello scettico, o la stupida impassibilità del fatalista e dello stoico, ch’eran tutt’uno. La sola verità che sapessero intorno a quel grande soggetto, come notò Lattanzio, era il non saperne nulla, quando pure avessero avuto il coraggio di confessarlo a sé stessi e ad altrui. Numquam illi tam veridici fuerunt, quam cum sententiam de sua ignoratione dederunt (Lactan. Div . Inst . II, 2). Presto vedremo a qual termini fosse condotto il Paganesimo da questa profonda ed assoluta ignoranza riguardo all’ uomo. Per ora bastici osservare che, tra le folte caligini di quelle tenebre, le intere generazioni, succedentisi sulla faccia della terra, furono costrette a scegliere tra questi estremi: o una bestialità di lascivia, da vergognarne le stesse bestie, se ne fossero capaci; od una ferocia di orgoglio, che si pasceva di calpestare e straziare quanti più si potesse esseri umani; o la desolata tristezza di una vita senza dignità, senza guiderdone, senza scopo. Mestizia sconsolata e inconsolabile, che quasi velo funereo coperse quella bugiarda grandezza, e sembra tuttavia protendersi sulle sue ruine: mestizia sconsolata ed inconsolabile, che dovett’essere la porzione delle anime di miglior tempera, e che il nostro antico poeta meravigliosamente ci dipinse in Virgilio; il quale, là nei regni bui, alla menzione del Salvatore ignorato da lui, come dagli altri sapienti del Gentilesimo, « Chinò la fronte, e più non disse e rimase turbato. »

III. La quale assoluta ignoranza, in che versò il Paganesimo riguardo all’uomo, tanto è lungi che possa trovare scusa o compenso in quell’ammirata eccellenza, nelle arti della politica, della guerra, della immaginazione e del senso, che anzi, a riscontro di questa, apparisce più notevole e più stupenda quella ignoranza; la quale, oltre a ciò, fu forse cagione, almeno parziale, di quella medesima eccellenza: perciocché se quella stupida ignoranza si fosse trovata in uomini incolti e selvaggi, che non si curano di quel che sono, del perché sono, di quel che saranno, tanto, la cosa si capirebbe e si spiegherebbe. Ma che quella stupida ignoranza si trovasse in un mondo di tanto sopraffino e forbito incivilimento; che non sapessero di avere o no un’anima in corpo, né fossero meglio informati del se la loro morte si dovesse differenziare dalla morte del cane, del cavallo e del gatto, chi? quei magni viri dell’antichità, che stringeano in pugno i destini dei popoli; che aveano toccato il non plus ultra della eleganza nella pa rola sciolta o legata da numeri; che col pennello e collo scalpello aveano creati miracoli di arte, che restano tuttavia modelli stupendi ed inarrivabili dalle seguenti generazioni; cotesto, signori miei, appena si crederebbe, se non ne avessimo sotto degli occhi la evidenza dei fatti. Cotesto ci deve far pensare che Iddio permettesse ed ordinasse appunto quella incredibile e mostruosa cecità, in cose di tanta rilevanza, in uomini per altri rispetti cotanto colti, affine appunto di fare intendere al nostro mondo, quanto poco ci sia a fare assegnamento sopra questa cultura, chi voglia sapere qualche cosa di ciò, che più importa all’uomo di sapere. – Dall’altra parte quella eccellenza, raggiunta dal Paganesimo nella estetica naturale, nei maneggi politici e nell’arte militare, si spiega abbastanza appunto da quella cecità ed ignoranza lacrimevole, iņ che esso versava intorno alla parte più intima e razionale dell’uomo. Né vi sembri strana questa osservazione, perché forse vi giunge nuova. La nostra naturale limitatezza fa sì che, sparpagliando le forze dello spirito in molti oggetti, ne resta debilitata la considerazione che rechiamo in ciascuno di essi: è ciò, in altri termini, il detto vulgatissimo: Pluribus intentus minor est ad singula sensus. L’azione esterna poi ed i frutti, che se ne derivano, dovendo di necessità essere misurati dalla maggiore o minore considerazione portatavi dallo spirito; è indubitato che quei frutti od effetti saranno tanto più insigni, quanto la considerazione stessa sarà più ristretta e raccolta in una sola ragione di obbietti. Ora supposto che nel mondo pagano tutto l’ordine degli spiriti e la economiă ultramondiale fosse affatto ignorata; supposto che tante dispute di sapienti, intorno a quel subbietto, efficaci solo a scalzare per vicenda gli uni i pronunziati degli altri, non avessero fruttato altro di certo, che la certezza di non potersene saper nulla, come ai Gentili rimproverò Arnobio: Qui cum alter alterius labe factant decreta, cuncta incerta fecerunt, nec posse aliquid sciri ex ipsa dissensione monstrarunt (Arnob. I, 10); supposto, dico, che le cose fossero a questi estremi, fu naturale che quelle generazioni infelici restringessero ogni loro considerazione al mondo presente; concentrassero ogni loro amore nella vita sensata; condensassero in certa guisa ogni loro conato nel bello materiale, quale è altresì il fantastico o l’immaginativo, perché nel senso si fonda e di esso si avviva. E con questo incentramento di considerazioni, di amori, di conati in una sola qualità di obbietti, e per giunta dei meno nobili, qual meraviglia che intorno a questi quel mondo antico ottenesse una eccellenza, né prima né poi non potutasi mai più raggiungere, appunto perché quelle speciali condizioni non si sono potute mai più riprodurre? Tra le quali condizioni non è ultima l’essersi quelle generazioni trovate vergini, diciamo così, dalla mistura di elementi derivati da straniere culture, e l’avere esse operato, siccome meno lontane dalle origini, col vigore di una natura fresca, ardente, e che spiegava lussureggiante tutto il rigoglio di forze novelle ed intatte. – Di che voi vedete che se queste considerazioni ci spiegano l’ordine provvidenziale e la genesi naturale di quella eccellenza, nelle arti del reggimento e della immaginativa, tanto ammirate nell’antico Paganesimo; male assai si conchiuderebbe, che quella eccellenza stessa gli conferisse pure l’ombra di quella bontà morale, di quella dignità, di quella contentezza che è solamente propria dell’uomo ragionevole . Nulla meno! anzi vi è il contrario; e tra i tanti ne ricordo un fatto solo. Quella eccellenza, effetto in parte della sconosciuta condizione dell’uomo, ed ordinata a farne vieppiù cospicuo, dal contrapposto, lo scadimento, per colpa di questo non potea comperarsi, che al prezzo nefando di calpestata, tradita, assassinata natura in milioni di creature umane; ed a questo prezzo fu comperata. Ogni qualvolta voi, dallo avere sconosciuta la destinazione ultramondiale dell’uomo, stabilite per principio, per lui non vi essere altra beatitudine, che godere i beni di questa vita; e voi v’imbattete in uno scoglio, innanzi a cui tutta la umana sapienza non può altro, che rompere e naufragare. E lo scoglio è, che avendo pure tutti uguale tendenza e, pella ipotesi fatta, anche uguale diritto a quel godimento; tuttavolta non vi sono nel mondo beni sufficienti a farne godere tutti gli uomini, quanto potrebbero e quanto vorrebbero in questa vita. Signori sì! non è a dubitarne! Nel convito apparecchiato dalla natura, i posti o, come voi francescamente solete chiamarli, le coperte sono più poche assai dei convitati. Al che se aggiungete che tra questi ci ha parecchi, i quali, non che mangiare a doppia ganascia vogliono altresì impinzarsi le tasche pel domani e pel posdomani, voi capite bene che, oltre agli esclusi dal convito, molti di quei medesimi, che vi sono ammessi debbono, avervi molto magra la loro pietanza. Come i moderni nostri paganeggianti potranno cavarsi da cotesto imbroglio, sel veggano essi, che l’hanno rimesso al mondo, quando Cristo colla sua dottrina ne lo avea, quasi al tutto, fatto sparire. E fatevi certi: l’imbroglio è grosso, più grosso di quel che si crede, e forse acchiude esso solo la grande e terribile quistione, che agita il mondo moderno, la quale, più che civile o politica, è sociale. Di questa il cardine è che i famelici sono smisuratamente più che i satollo; e quando si venisse alle mani, i pochi sarebbero, senza fallo, accoppati dai moltissimi. Il vecchio Paganesimo non pare che s’impensierisse gran fatto di questo scoglio; e, senza più, diede al problema la soluzione unicamente possibile alla sola natura; tanto che il Filosofo (ARIST.: lib. II. Oecon.) insegnò essere necessaria e naturale la schiavitudine; e qualche popolo, separatosi dall’unità cattolica, pur troppo col fatto proprio gli sta dando ragione. Esso Paganesimo dichiarò, che uomini erano solamente quel pugno di prepotenti e di astuti, i quali aveano saputo soggiogare tutto il resto; e tutto il resto, che vuol dire i nove decimi e forse più, furono dichiarati mancipii, quasi bestie, non persone; ma cose, e delle meno pregevoli, condannati così a formare, colla propria sventura ed abbiettezza, come la base della piramide, come l’opera morta ed il substrato al meraviglioso edifizio della eleganza e della grandezza pagana. Così le nazioni gentilesche innanzi a Cristo, e segnatamente il mondo grecoromano, che idoleggia in sé stesso la forbitezza delle arti pel primo e la potenza dell’Impero pel secondo, ignorò radicalmente quel che più gli rilevava sapere, cioè l’uomo; possedette una eccellenza che parte fu effetto di quella ignoranza, e parte servì a renderla più sfoggiata e lacrimevole; da ultimo quella ignoranza stessa lo condusse e sospinse alla più snaturata delle istituzioni, per la quale, ogni bene della vita confiscato a profitto di pochi scaltri o violenti, il più dell’uman genere era dechinato alla condizione del bruto, e più sotto.

IV. L’avervi così dichiarate le qualità e le cagioni della grandezza pagana, e l’averla posta a rincontro coll’assoluta cecità, in che versava quell’antico mondo, in tutto ciò che si attiene all’uomo, può servire al disinganno di molti illusi, e può farvi accorti di quel Paganesimo redivivo, il quale pur troppo, nel nostro tempo e nei nostri paesi, mostra che pigli il sopravvento. Io non vo cercare se e quanto lo studio dei classici greci e latini, che dai nostri giovanetti si usa nelle scuole, abbia potuto contribuire a quell’ammirazione sperticata del Paganesimo, la quale nel mondo moderno è venuta in moda. Dico così di passata, che quello studio, accoppiato col catechismo e col santo timore di Dio, è stato universale a secoli di molta fede, fu celebrato da uomini, non che Cristiani, ma santi, senza che se ne avesse a lamentare alcuno sconcio per questo riguardo. E così se quel medesimo studio conducesse la nostra gioventù a paganeggiare, un tale effetto si dovrebbe attribuire piuttosto al modo, onde si usa, che non alla sustanza. Ma siane questa od altra la cagione, il fatto è innegabile: le ammirazioni della grandezza pagana sono comuni, sono sfoggiate, non si restringono alla teorica, ma scendono al pratico; e per poco non ci farebbero vergognare di quella vocazione alla Fede, la quale pure, com’è il principio di ogni nostro bene, così dovrebb’essere il nostro amore, la nostra contentezza, il santo nostro orgoglio. Ed eccovi come, col passare d’uno in altro sofisma, la ragionano quei valent’uomini. Tanta vigoria, tanta stabilità, tanto splendore di bellezza e di eleganza nella forma, quanto all’ordinamento sociale e quanto alle opere di arte, suppone un ricco tesoro di verità nel fondo. Di qui fu piccolo il varco a conchiudere, che dunque l’antichità era il più splendido modello di verità filosofica e di perfezione civile. Dal che non vi restava, che un solo passo per inferire, che dunque la Religione cristiana, facendoci pensare più al cielo, che alla terra, avea fatto di noi dei mezzo barbari ed ispidi ed incivili, nemici della vera libertà e della bella natura. Ora questo discorso, o piuttosto, come dalle cose dette voi medesimi potete raccogliere, questo miserabile tessuto di paralogismi, che saltano d’uno in altro ordine, trapassando dalla forza politica e dal bello estetico alla bontà morale, non è certo di molti, soprattutto chi lo volesse udire espresso così esplicito e così reciso come testè l’ho io esposto. Ma la pratica? oh! la pratica, miei amatissimi, è pur troppo prevaluta tra noi, e più certo, che voi a prima vista non vi pensate. Né potea altro essere, chi mira attento. Posta la medesima radice, che altro potevamo noi attenderne, che i medesimi malaugurati germogli? Ora voi già lo vedeste: radice dell’antico Paganesimo fu la separazione da Dio, separazione nella età nostra già iniziata e molto innanzi proceduta. Fu dunque naturale che noi altresì il primo infelice frutto ne cogliessimo nell’ignorar l’uomo, nel rinnegarne, o certo nel dimenticare nella pratica quello che il Cristianesimo ce ne insegna, per volerne essere addottrinati dalla filosofia solitaria ed indipendente. Eccoci pertanto ridivenuti giuoco miserabile di altrettanti sistemi, quanti sono i cervelli; tra i quali quelli si credono di essere più autorevoli, i quali ardirono sputarle più esorbitanti. A quali termini sia condotta la filosofia, separatasi dal Cristianesimo, prima per ire eterodosse, poscia per metodi scientifici, e da ultimo per superbiole puerili e per inconsulto andazzo di moda, non è chi non sappia. Ma un’accolta d’intelligenze malate, delle quali ciascuna si crede avere, non pure il diritto, ma l’obbligo di fabbricare da capo la scienza, tutto traendo dal proprio fondo, come il ragno trae la tela dalle proprie viscere, sembra più fatta a divertire gli oziosi, che ad istruire gl’ignoranti. Se in altri tempi si dubitava qual parte avesse l’uomo in questo mondo; oggi si cerca se ci sia proprio questo mondo fuori del proprio lo; se siavi davvero oggetto oltre il soggetto: e già sapete spreco terribile che da questi filosofi suol farsi di oggettivo e di soggettivo. Se in altri tempi non si sapeva dove trovare la verità, oggi si reca in forse se una verità ci sia di fatto, o non sia piuttosto una illusione della nostra mente il supporla anche solo possibile. Se in altri tempi si cercava se fosse o no immortale la nostra anima, oggi non si vede ragione, perché si abbia a pensare di avere un’anima ragionevole in corpo, parendo che, ancor senza quella, si mangerebbe, si digerirebbe e si dormirebbe dall’uomo alla stessa maniera, e si farebbe qualche altra cosa. Talmente che se io a questi nostri filosofi scredenti movessi le medesime interrogazioni intorno all’uomo, le quali già movea Arnobio ai Gentili, questi filosofi, dopo sedici secoli di progresso, si mostrerebbero alla stessa maniera ignoranti; e solo si divarierebbero dai Gentili nel non volere riconoscere e confessare la propria ignoranza: cosa che pure quegli antichi facevano alcuna volta. E bene a ragione con più crassa ignoranza è punito un orgoglio più smisurato; ché dove quegli antichi ignorarono per manco di una verità che non li avea ancora visitati, i moderni in un mondo, già arricchito di quella verità per Cristo, la ignorano, per averla superbamente ripudiata. Né il nostro paganeggiare è minore nell’interno ordinarci al fine supremo coi soli dettami del Giure naturale e della Morale. Separate queste dal concetto cristiano, esse tornano alle vecchie abberrazioni, alle eterne storie di voler contentare le aspirazioni sconfinate di un’anima ragionevole ed immortale a furia di pitture, di musiche, di danze, di buoni pranzi e di migliori vini; di agi in somma materiali e di delizie, che sono finalmente quasi l’unico pensiero, l’unica ambizione di progresso della età moderna. E vi si progredisce, vi si trotta, vi si galoppa, lo veggo anch’io: né può essere altrimenti, quando da un mezzo secolo tanti ingegni eletti non istudiano che la materia o le affezioni della materia; tanto che oggimai non vi è via più spedita da acquistare rinomo e ricchezze, che il trovare qualche nuovo mezzo da deliziarne i beati sonni dei godenti del mondo! Ma se san Tommaso e l’Alighieri si fossero messi a studiare e manipolare l’elaterio del vapore compresso, l’azione chimica della luce e l’elettrodinamica, credete voi che avrebbero lasciato al nostro secolo la possibilità d’inventare le strade ferrate, la fotografia ed i telegrafi elettrici? Ma quei sovràni intelletti spaziarono in campi, dei quali noi abbiamo perduta perfino la memoria, quando abbiamo voluto ogni nostro pensiero circoscrivere nella materia. Se poi questi siano progressi da inorgoglirne un secolo o da vergognarne, quando siano soli, lo lascio pensare agli uomini che sentono tuttavia di aver in sé qualche cosa, che levasi sulla sfera dei sensi ignobili. Dall’avere noi, sotto il ducato di una filosofja naturalistica, sconosciuto l’uomo; dallo avergli assegnato per unico fine il godimento di questa vita, ne dovea seguire di necessità altresì per noi, quell’ altra piaga nelle turbe, che vogliono godere anch’esse il convito della natura, quando la natura non ha apparecchiato posti sufficienti per tutti; e n’è seguita. Il Cristianesimo, abolì la schiavitudine, non come si pretende abolirla oggi al di là dell’Atlantico con guerre sterminatrici. Esso la distrusse soavemente, radicalmente, spegnendone il principio, in quanto riuscì esso solo a torre di mezzo la radice prima di quel dissidio tra i gaudenti ed i sofferenti. E lo fece rivelando e impromettendo ai diseredati dalla fortuna una felicità avvenire , la cui speranza lenisse, compensasse e guiderdonasse i dolori e le privazioni della vita presente; e così le facesse non pure accettabili, ma degne di essere desiderate. Esso poi mostrava viva ed operante nel mondo quella speranza, nella perfezione evangelica, professata peculiarmente dai Claustrali. Questa dottrina sublimissima e capace essa sola a far vivere il mondo come famiglia di fratelli, fu ripudiata, quando la società volle separarsi da Dio. Allora il convito della natura fu assediato un’altra volta dai milioni di famelici, i quali, persuasi, ad essi non competere altra felicità, che il fruire di questo mondo, vogliono a tutti i patti assidersi a quel convito; ed il men male che possano volere, è rimuoverne i ricchi e gli agiati, che vi stanno assisi da tanto tempo, ed i quali troppo spesso furono i primi ad irritare, colle loro superbie provocanti, le passioni invidiose dei sofferenti, ed a debilitarne, coi loro scandali, quella pietà cristiana, che era il solo balsamo, onde quelli potessero lenire le proprie sofferenze. Questo è il moderno Comunismo o Socialismo, composto informe della idea tutta cristiana della fratellanza universale, e del concetto tutto pagano, non vi essere altra felicità, che di questo mondo. Sistema mostruoso, il quale, se pei nostri peccati prevalesse, mostrerebbe in pratica un’altra volta, con memorando ed atroce fatto, quel gran vero che io vi vengo dichiarando in teorica: per la umana famiglia non avervi oggimai che questi due estremi: o il Cristianesimo colla libertà dei figliuoli di Dio e colla dolce partecipazione dei suoi dolori e delle sue speranze; o il Paganesimo coi ceppi della schiavitudine e con tutti gli orrori dei suoi delitti e delle sue vergogne. Riposiamo.

V. Avea vaticinato Isaia che colla preziosa venuta del Salvatore la scienza delle cose divine, necessario prerequisito a bene intendere le umane, avrebbe riempita la terra: Repleta est terra scientia Domini (Isa. X, 9). Ora questo vaticinio, non che osservarsi comunque, si tocca con mano avverato nel Cristianesimo, mercé la grazia del Salvatore; e siate contenti che io ne faccia un cenno, perché questo dono della scienza, messo a paragone colla cecità del Gentilesimo, vi faccia, miei cari, tenere sempre in maggior pregio la divina chiamata, per cui fummo tramutati dalle tenebre a questa luce beatissima di verità, che nella Chiesa c’illustra. Bene, dunque! quelle interrogazioni intorno all’uomo, al suo essere, al suo Autore, al suo scopo nel mon do ed ai suoi destini al di là di questo, che furono mosse già da Arnobio ai Gentili, ed innanzi alle quali i filosofi antichi restavano mutoli, ed i moderni gareggiano a chi più sproposita, perché non hanno la discrezione di starsi zitti; quelle interrogazioni, dico io, movetele al più rozzo, al più zotico dei nostri Cristiani, tanto solo che abbia apparato il Catechismo. Signori si! rivolgete quelle interrogazioni al fanciullo ottenne che scalzo e cencioso si striscia nel fango dei nostri trivii, al pastorello incolto e solitario di aspre montagne, alla fantesca lurida ed arruffata, alla vecchierella analfabeta, a qualsivoglia insomma dei più zotici ed ignoranti della nostra plebe. Essi non esiteranno un istante a rispondervi con chiarezza, con precisione tanta, con tanta sicurezza della verità, che con più non potrebbe un matematico dei suoi teoremi. Né sanno quello solo; ma e di Dio, e degli spiriti buoni e dei rei, e della vita futura e dell’eterna sua durata, e dei Santi e della benedetta Vergine che per loro pregano e li attendono colassù, sanno così per filo e per segno, che meglio non ne parlerebbero se si trattasse di cose avute per esperienza. – Paragonate ora quest’ampiezza di cognizioni, questa sicurezza direi quasi d’intuito, feconda di tanta pace all’anima, di tanto decoro alla vita, di tanta tranquillità e contentezza; paragonatela, dico, alla ignoranza presuntuosa ed allo scetticismo desolante dei superbi sapienti del secolo, i quali sfatano la superstizione del volgo, ed essi si rodono della sete insoddisfatta del vero; deridono la credulità della plebe, ed essi non hanno altro in capo che le tenebre dell’ignoranza, non altro in cuore che le agitazioni del dubbio e la solitudine della negazione e del nulla; fate, ripeto, questo paragone, e poi sappiatemi dire, se non è grande, se non è inestimabile la dignità e la grazia a noi conferita dalla Fede, per virtù della quale la nostra terra cristiana è ripiena di quella scienza, di cui neppure un raggio rischiarò le menti dei più rinomati savii del Gentilesimo. Repleta est terra scientia Domini. E quando debbono gli uni e gli altri sloggiare dal mondo, chi non preferirebbe la condizione del cencioso, dello scalzo, dell’arruffato, ma Cristiano, alle torture supreme dell’ateo, dell’indifferentista e dello scettico (e fosse pure grande Statista, grande Ministro e grande Scienziato), il quale si sentirà trascinato suo malgrado ad una immortalità che non credette, che non vorrebbe, ma che pure gli sarà data eternamente per tutto!

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (4)

IL SEGNO DELLA CROCE (8)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (8)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA SETTIMA.

Quel che fosse il mondo innanzi apprendesse il segno della croce. — Quel che diviene il mondo cassando di fare questo segno. — Nuova considerazione. — Il segno della croce è un tesoro, che ci arricchisce.

Caro Amico

Quelli che fanno del segno della croce un oggetto di disdegno e disprezzo, non sospettano neppure il ministero che da esso si esercita nel mondo. Eglino appartengono alla categoria degli esseri, sì numerosa di presente, che non sospetta nulla, perché non conosce nulla. Liscia per un istante il tuo seggio da giudice, dammi la tua mano, ed uniti facciamo un piccolo viaggio nel mondo antico e moderno. – Visitiamo innanzi la brillante antichità, prima che l’umanità sapesse segnarsi, e pellegrini dalla verità percorriamo l’Oriente e l’Occidente. Menfi, Atene, Roma queste tre grandi centri di lume ci chiamano alla scuola de’ saggi. Quali cose dicono questi illustri maestri sui punti, che più è imposto conoscere? Il mondo è eterno, o è creato? se è stato creato, r perché? l’autore della natura è corporeo, o spirituale? è desso eterno, libero, indipendente? è un solo, o sono molti? Risposta: espressioni imperfette, incertezze, contraddizioni. Che cosa è il bene, e che cosa è il male? Donde vengono essi? come si trova nel mondo e nell’ uomo? V’ha un rimedio pel male, o è irreparabile? Qual n’è il rimedio? chi lo possiede? come ottenerlo? come applicarlo? – Risposta: vane parole, incertezze, contraddizioni manifeste. Che cosa ò l’uomo? ha egli un’anima, e qual n’è la natura? È fuoco, è un soffio, è uno spirito, una materia aeriforme? Quest’anima è destinata a perire col corpo, o lo sopravvive? Se lo soppravvive, qual n’è la destinazione? Qual è lo scopo della sua esistenza? A tutte queste questioni ed a mille altre, qual èla profonda, e filosofica risposta? vane parole, incertezze, contraddizioni manifeste! – Ahi! Pretesi grandi uomini, e grandi popoli impotenti a dire la prima parola di risposta a queste grandi questioni, voi non siete che de’ grandi ignoranti! Che c’importa che voi sappiate formar de’ sistemi, sottilizar sofismi, innondar di vostra facondia le scuole, i senati e gli areopaghi: condurre de’ carri nel Circo, fabbricare città, dare delle battaglie, conquistare delle Provincie, rendere la terra ed il mare tributari alle vostre concupiscenze. Quando voi ignorate chi vi siate, donde venite, e dove andate, voi non siete, per parlarvi come uno de’ vostri, che un’essere più o meno grasso dell’armento di Epicuro, Epicuri de grege porci.  – Ecco il mondo avanti il segno della croce ! questo eloquente segno apparso, queste vergognose tenebre si son dissipate. Il  genere umano, letterato ed ignorante che fosse, ha appreso la scienza di se stesso, del mondo, di Dio, e ripetendola di continuo l’ha impressa nel fondo dell’anima di modo, da non più dimenticarla. Che ché se ne dica, [mercè l’uso di questo segno della croce in tutte le classi della società, si nelle città che nelle campagne, il mondo cattolico de’ primi secoli e del Medio Evo, conservò in un grado sconosciuto innanzi e dopo lui la scienza divina, madre di tutte le altre, e lume della vita. Né poteva essere altrimenti; che se nel corso di quarant’anni, un uomo si ripete seriamente dieci volte al giorno un errore qualunque, egli finirà coll’esserne completamente imbevuto, e si identificherà con esso. Perché non sarà lo stesso per la verità? – Desideri tu la contro prova di quanto dico? Continuiamo il nostro viaggio e passiamo nel mondo moderno. Desso ha abbandonato il segno della croce. Di poi quel fatale momento, esso non ha a’ suoi fianchi l’ammonitore, che gli ripeta a ciascun momento i tre dogmi necessari alla sua vita morale; esso li dimentica, o per lui è un come non fossero. Or vedi qualsia divenuta la sua scienza. Come del mondo di altri tempi tu ascolti le vergognose sue vane parole sui principi i più elementari della religione, sul dritto, sulla famiglia e sulle proprietà. Qual fondo di vanità alimenta le sue conversazioni! Di che mai sono pieni i suoi libri di politica e filosofia? alla luce di quali fiaccole cammina la sua vita pubblica e privata? I giornali! di questi nuovi padri della Chiesa, qual è il tuo pensiero? In quel torrente di parole, con che inondano ogni giorno la società, qual sana idea potrai tu ritrovare sul conto di Dio, dell’uomo e del mondo? – Qual cosa mai conosce questo mondo moderno, questo secolo di lumi, che ignora come si faccia il segno della croce? Esso conosce, né più né meno di quello, che i pagani suoi maestri e modelli conoscevano. Desso conosce ed adora lo Dio Me, lo Dio Commercio, lo Dio Cotone, lo Dio Scudo, lo Dio Ventre, Deus venter. Esso conosce ed adora la Dea Industria, la Dea Vapore, laDea Elettricità. Per soddisfare alle sue cupidigie, conosce ed adora la scienza della materia, la chimica, la fisica, la meccanica, la dinamica, i sali, le essenze, le quintessenze, i solfati, i nitrati, i carbonati. Ecco i suoi dei, il suo culto, la sua teologia, la filosofia, la politica, la morale, la sua vita. Un altro passo nel progresso e sarà scienziato alla maniera de’ contemporanei di Noè, destinati a morire pel diluvio (Matth. XXIV, 37, 38, 39. – Luc. XVII, 38. – Gen. VI. 12.). Per quelli tutta la scienza era riposta nel conoscere ed adorare gli dei moderni; a bere, a mangiare, a fabbricare, vendere e comprare, maritare e maritarsi. L’uomo aveva concentrato la sua vita nella materia, egli stesso era divenuto carne; e com’essa ignorante e lordo.  – Quale di tutte queste tendenze manca al mondo moderno? La sua scienza benché meno avanzata di quella de’ giganti non ne ha forse la natura? Non sapendo, né facendo più il segno della croce si materializza; ed in virtù della legge di gravitazione morale, cade necessariamente nello stesso stato in che trovavasi il genere umano innanzi che apprendesse saper fare il segno della croce!

Ignoranti, il segno della croce è un libro, che c’istruisce. A questo nuovo punto di vista, tu puoi giudicare se i nostri padri aveano torto facendolo continuamente. Che l’ignoranza contemporanea, grandemente da deplorare, debba essere attribuita, in gran parte, all’abbandono di questo segno, tu ne sarai fra poco senza manco convinto. Che cosa è l’ignoranza? L’ignoranza è l’indigenza dello spirito. In fatto di religione, dessa importa soventemente l’indigenza del cuore, per difetto di forza a praticare la virtù, ed evitare il male. Perché questa debolezza? l’uomo trascura i mezzi capaci di ottenergli la grazia, o di renderla efficace, fra i quali primeggia, come più comune, più pronto e facile, la preghiera. E fra tutte le preghiere la più facile, la più pronta e la più comune, ed altresì, può essere la più efficace, è il segno della croce. Ecco un nuovo studio per te, e per i primi Cristiani, una nuova giustificazione.

Poveri, il segno della Croce è un tesoro, che ci arrichisce. Povero è colui che ciascun giorno passando di porta in porta accatta il suo pane: Creso era un povero, Cesare un povero, Alessandro un povero, gl’imperatori ed i re, le imperatrici e le regine sono de’ poveri mendicanti, e mendicanti coronati, ma sempre mendicanti e non altro. Chi è l’uomo, per quanto ricco si supponga, che non debba ciascun giorno alla porta del gran Padre di famiglia dire: Dateci il nostro pane quotidiano? Il più possente de’ monarchi può formare un granello di frumento? Vita fisica e morale, mezzi di conservazione per l’una e per l’altra, l’uomo ha tutto ricevuto, quid habes quod non accepisti? – Nulla egli possiede di proprio, neppure un capello del suo capo, e quanto egli ha ricevuto, non l’ha ricevuto una sola volta per sempre. La sua indigenza è continua in tutti i giorni, in tutte le ore, in tutti i minuti secondi. Se Dio cessasse di tutto donargli egli perirebbe all’istante. Di che segue, mio caro Federico, una legge del mondo morale, a che per fermo, i tuoi compagni non hanno giammai riflettuto: dico la legge della preghiera. – I popoli pagani d’altri tempi, gli idolatri ed i selvaggi dei nostri, hanno, più o meno, perduto il patrimonio delle verità tradizionali, ma nessuno ha perduto la conoscenza della legge della preghiera. Sotto di una, od altra forma, il genere umano di poi ch’egli è apparso sul pianeta, l’ha invariabilmente osservata. L’istinto della conservazione, più forte che tutte le passioni, e più eloquente che i sofismi, gli ha appreso che da questa invariabile fedeltà dipenderebbe la sua esistenza. Non s’èingannato! Il giorno in cui una preghiera umana o angelica non si elevasse verso Dio, ogni rapporto tra la creatura ed il Creatore, tra il ricco e il povero, cesserebbe il corso della vita, sarebbe all’istante medesimo sospeso. – Non èquesto il profondo mistero che il Verbo incarnato ha rivelato al mondo, dicendo: È mestiere sempre pregare, e non desistere dalla preghiera: Opportet semper orare et nunquam deficere?

Osserva quanto v’ha d’imperativo in queste parole. Il legislatore non invita, ma comanda, e siffatto comando ènecessità, assoluto, oportet, né ammette intermittenza alcuna né di giorno né di notte, per l’osservanza della legge oportet semper. Fino a che innanzi a Dio il genere umano è un povero, la legge della preghiera non sarà modificata, né sospesa, e comechè il genere umano sarà sempre un povero, la legge della preghiera conserverà il suo impero fino agli ultimi giorni del mondo: et nunquam deficere. Il  mondo fisico istesso è stato organizzato in vista dell’osservanza continua di questa legge conservatrice del mondo morale, che il passaggio successivo del sole d’un emisfero all’altro tiene la metà del genere umano svegliato per pregare.  – Ora una delle preghiere la più potente èil segno della croce, per comune sentir dell’intiero genere umano. Egli lo ha creduto, perché Io ha appreso, e non ha potuto apprenderlo che da Dio, da cui tutto ha appreso. Ho detto il genere umano tutto intiero a disegno. I tuoi compagni può essere che credano che il segno della croce cominciato col Cristianesimo, o per lo meno, che l’uso ne sia stato circoscritto presso il popolo giudeo ed il popolo cattolico. La mia prima lettera ti farà avvisato della confidenza, che la loro opinione merita.

IL SEGNO DELLA CROCE (9)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (2)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (2)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SECONDO

ARGOMENTO 

La venuta del Redentore fu indugiata e perché. Quindi se ne costituì il Paganesimo antico che separò interamente l’uomo privato e pubblico da Dio. La società moderna tende a quella stessa separazione e comincia a coglierne gli stessi frutti.

I. Uno dei divini consigli, a prima vista, men penetrabile dalla nostra inferma pupilla, è la lunga espettazione, in che l’uman genere dovette stancarsi e languire, innanzi di vedere in effetto mandato al mondo il promesso Riparatore. Sarebbe certo paruto convenientissimo, che al veleno fosse venuto appresso, senza indugio, l’antidoto, ed alla ferita fosse stato tosto applicato il balsamo. E nondimeno, voi lo sapete! Per ben quaranta secoli, di quel Riparatore aspettatissimo si ebbero le promesse, i tipi, i vaticinii, le immagini, più o meno espressive e le speranze; ma quanto alla realtà, oh ! questa non si ebbe da forse un centinaio e mezzo di generazioni che, nell’ampiezza dello spazio e nella lunghezza del tempo, si succedettero. E frattanto le tenebre si addensavano sulle tenebre; le nefandezze si aggiungevano alle nefandezze; l’idolatria, senz’alcun rallento, infelloniva; il lume naturale della ragione si offuscava ognora peggio con una proporzionata per versione delle volontà; e, salvo una piccola gente poco conosciuta e meno pregiata, sarebbesi detto che tutta la umana famiglia, abbandonata a cieco e ferreo destino, non avesse per sua eredità che nequizia e dolori al di qua della tomba: al di là condanna e perdizione . Perché dunque indugiare tanti secoli a mandare sulla terra un rimedio, il quale pure Iddio, per sua pietà, avea decretato e promesso, fino dall’ora stessa del gran peccato, pei nostri danni famoso? Io non so, miei riveriti uditori, se questo dubbio siasi affaccialo mai alla vostra mente; ma pare che, fino dai primi secoli della Chiesa, i Gentili lo proponessero ai Cristiani, trovando noi espressamente in Arnobio quel dubbio; come mosso da loro :l Cur tam sero missús est Sospitator? (ARNOB., II, DISCORSO SECONDO 23). Né vi deve far meraviglia, che il grande Apologista rispondesse schiettamente di non lo sapere: Non imus inficias nescire nos; e nessun uomo d’intelletto può vedere in questa ignoranza ona ragione, perché se ne debba scemar punto nulla la dignità o la fermezza della nostra credenza . Che se Iddio avria potuto, senza ombra d’ingiustizia, non mandarlo mái quel Salvatore; chi sarà ardito chiedergli ragione del non averlo mandato più presto? soprattutto che, in quei lunghi secoli, diciamo così, di aspettativa, la Fede in quel Salvatore venturo potea valere e valse di fatto alla giustificazione di non pochi, come al presente vale tra noi la Fede nel Salvatore veņuto. Dall’altra parte, essendo i divini consigli giustificati in loro stessi da quella infinita sapienza, onde sono misurati, il sol vedere che Iddio fe’ apparire il Verbo Umanato in un tempo piuttosto che in un altro, ci dee bastare, senza più, a giudicare, quello propriamente essere stato il tempo più opportuno a quella venuta; e la opportunità in questo caso non dee prendersi altronde, che dalla salute degli eletti. Tuttavolta l’Angelico san Tommaso, con quell’acume d’ingegno e con quella umiltà di Fede, onde interrogò tanti Misteri e ne trovò congruenze o ragioni vere alla stess’ora ed istruttive, l’Angelico, io dico, propose nella sua Somma quel dubbio intorno al perché tardasse tanto il Salvatore a venire al mondo; e ne rese una ragione soprammodo acconcissima a farvi intendere quella radice intima del Paganesimo, la quale io vi promisi di mostrarvi in questo Discorso, essere stata la separazione dell’uomo da Dio. Da quella ragione adunque dell’indugio prendendo le mosse, io vi dichiarerò questa radice del Paganesimo antico, per poscia mostrarlavi, a non dubbii segni ripullulante, per nostro inestimabile danno, nel nuovo. Incomincio.

II. Propostosi dunque san Tommaso quel dubbio, (3. p . q . 2 , a. 5.) risponde chiaro e reciso, avere Iddio lasciata la umana famiglia, i lunghi secoli, colla sola legge naturale impressale nella mente e colla libertà dell’arbitrio, che è facoltà inseparabile dal volere intelligente, affine che gli uomini prendessero un saggio delle proprie forze, e conoscessero quello di che era capace la loro natura di per sè sola, e senz’alcuno aiutorio che le venisse dall’alto. Reliquit Deus prius hominem in libertate arbitrii, ut sic vires naturæ cognosceret. Quasi volesse dire: se dopo il veleno fosse tosto venuto l’antidoto; se dopo la ferita fosse stato tosto applicato il balsamo, l’uomo sconoscente ed orgoglioso avria potuto pensare che alla fin fine, anche senza quei rimedii, avrebbe potuto da sé fare qualche cosa (e perché non anche tutto?) a sua salvezza. Ma supposto che il morbo fosse dichiarato dalla sperienza, non che grave, insanabile, e ciò non per difetto della legge naturale o della scritta, ma propriamente per imbecillità della natura estenuata ed inferma; allora l’aiuto arrivava desiderato, invocato, sospirato, riconosciuto indispensabile; e così veniva condito da quel sentimento di umiltà, il quale Iddio richiede e pregia sopra ogni altra cosa in questa povera e superba nostra argilla. Invaluit morbus non legis, sed naturæ vitio, ut ita (homo), cognita sua infirmitate, clamaret ad medicum et gratiæ quæreret auxilium (Ibid..) E di quei clamori sono piene le Scritture; le quali ad una voce ci dicono, che nel Messia spererebbero le Nazioni: In eum Gentes sperabunt (Rom . XV: 12). Dovea insomma essere tanto desiderato dalle Nazioni quel Salvatore, che per antonomasia ne fosse detto la ESPETTAZIONE: Expectatio Gentium (Gen. XLIX , X. 26). Che se quello sperimento di quaranta secoli, compiuto al prezzo di tanti delitti, di tanta corruzione, di tanti dolori e di tante dannazioni, vi paresse per avventura troppo lungo, io vi dirò in primo luogo, che l’opera d’imprimere altamente nell’uman genere un sentimento, ed un sentimento così ripugnante al natio suo orgoglio, non era faccenda da compiersi in anni ed in lustri, ma a dirittura avea uopo di secoli noverati per lo meno a decine. Appresso vi pregherò di osservare, che se quei quaranta secoli di così doloroso sperimento quasi non sono bastati a fare universalmente intendere e sentire la debolezza della umana natura; se neppure è bastata la giunta degli altri diciotto secoli e mezzo che per noi Cristiani vi si sono accumulati; e noi dopo cinque mila ottocensessant’un anno di sperimento, non siamo ancora fatti capaci di quella debolezza della nostra natura: tanto che a mezzo il secolo decimonono, baldi e pettoruti, andiamo fantasticando non so che progressi umanitarii, non so che perfettibilità indefinite e non so che altre pazze utopie, fondate tutte sul ripudio d’ogni rivelazione divina e sulla presunzione che la natura debba bastare a sé stessa; stando, dico, le cose a questi termini, chi vorrà dire che sia stato troppo lungo quello sperimento? Anzi, a dirvi proprio il mio pensiero, io lo vorrei quasi dire troppo breve; e certo fu più breve di quello che sarebbe potuto essere, parendomi di aver trovato nelle Scritture, che Iddio accorciò quegl’indugi; in riguardo degli accesi prieghi che venivangli dagli umili servi suoi, impazienti di pure vedere partorita al mondo quella tanta salute. Nel resto, se dalla superbia degli uomini carnali si fosse dovuto aspettare quell’ umile riconoscimento del quanto poco valga questa scaduta nostra natura, io vi so dire che né i quaranta, né i quattrocento secoli non sariano bastati; perché l’umano orgoglio è irretrattabile, è incorreggibile, è eterno, come eterno dovrà essere lo svilimento ed il castigo che lo fiacchi finalmente e lo conquida. Ma, escluso questo eccesso di cieca superbia dalle mire pietose della Provvidenza, pel comune dei mortali era richiesto che la umana natura sperimentasse le proprie forze; e le età che corsero da Adamo al diluvio, da questo ad Abramo, da questo a Mosè e da Mosè a Cristo furono appunto deputate a questo grande e salutare sperimento A voi nondimeno potrebbe parere strano che di cosa tanto, ovvia, quanta è la nostra naturale debolezza, fosse uopo convincerci per via così proliss , così umiliante e così dolorosa. Eh! Signori miei! che giova illuderci? Che che sia del concetto più o men favore vole, che ciascun di noi può portare di sé medesimo come di uomo individuo, il certo è che noi mortali abbiamo comunemente una matta presunzione, una inestimabile albagia, un’arroganza intollerabile, quanto alle forze che attribuiamo alla nostra natura. E somigliamo in ciò certi nobili decaduti, i quali, nella loro minore fortuna, tollererebbero rassegnati non poche onte anche gravi; ma guai chi poco poco si attentasse a recarne in dubbio i titoli, che ne attestano la chiarezza del sangue e lo splendore del casato! E tale noi altresì: benché conscii a noi medesimi di non poche debolezze e non lievi, noi ci compiacciamo a pensare che in noi medesimi, nel fondo della propria natura abbiamo quanto basta ad ogni gran cosa, e se non la facciamo, ciò è solamente, perché non la vogliamo fare. – Così nelle cose morali la nostra superbia ci traduce spesso il non posso in non voglio; come per contrario nel sovvenire il prossimo la nostra pigrizia od avarizia ci fa tradurre il vero non voglio in un finto non posso. Ora se vi ha concetto che dirittamente ripugni a tutta la economia della Redenzione, è appunto questo. Quella consiste sostanzialmente e si compendia in un aiuto venutoci dal di fuori, venutoci graziosamente, venutoci per indispensabile supplemento e conforto della inferma e debilitata nostra natura. Anzi, atteso la ragionevole e libera condizione di questa medesima natura, è irremovibile divino decreto, che quell’aiuto non porgasi, e non si applichi quel conforto, se non a chi umile riconosca il suo bisogno e volente lo implori: supposto, s’intende, che abbia abilità di farlo. Di qui voi potete intendere di quanta rilevanza fosse quello sperimento, che Iddio ordinò si prendesse dall’uman genere, quando lo lasciò tanti secoli governarsi in tutto e per tutto da sé, coi soli naturali suoi presidii. Si trattava nientemeno che d’ingenerare nel mondo il primo e più necessario sentimento, che lo apparecchiasse alla venuta del Redentore, e lo disponesse a fruirne i favori celesti. Né era rilevante per quei soli che lo precessero: è eziandio per noi che venimmo appresso; ai quali non è possibile che siano conferiti i suoi doni, applicati i suoi meriti, donati i suoi carismi, senza quel riconoscimento umile del bisogno che ne abbiamo, per la infermità e debolezza della nostra natura. Che se Iddio ordinò quella condizione misera dell’uman genere a fruttare quell’umile riconoscimento; noi, ad ottenere questo, non possiamo far meglio, che affissarci a considerare quella misera condizione; ed a considerarla appunto nella sua radice, la quale dimorò nel trovarsi la umana natura lasciata a sé stessa, acciocché avesse l’agio, siccome udiste, di far prova delle proprie forze.

III. Signori, sì! Lo sperimento di quello che possa e sappia il genere umano coi soli presidii fornitigli dalla natura, e senza intervento speciale di Dio, quello sperimento, dico, è fatto, è strafatto e fu più prolisso, che voi non avreste creduto necessario; ed è riuscito più umiliante e più doloroso, che gli uomini per avventura non avrebbero voluto. Questo sperimento fu appunto l’antico Paganesimo, condizione comune ed universale di tutto il genere umano per quattro migliaia di anni, fattavi solo (come più volte dissi) una piccola eccezione di alquanti pietosi, costituitisi prima in famiglia e poscia cresciuti in popolo, eletto a custodire il deposito della rivelazione primitiva. Che ci state dunque a contare delle mirabilia che potrebbe e saprebbe fare l’umanità, se facesse da sè? quasi non lo avessimo veduto, ed anche troppo per nostra sventura ed ignominia, quello che l’umanità sa e può fare, facendo da sè!! – È lepida la storia del cervello balzano d’un Inglese mezzo ateo, ricco più di quattrini che di giudizio, il quale, raggruppatosi attorno un mezzo migliaio tra di uomini e di donne, tutti spiantati, senza pane e senza fede, se ne andò in America, a sperimentare in un apposita regione, comperata da lui a quest’uopo, quel che sapesse fare l’umanità da sé sola in opera di fondare e felicitare una società civile . Ma che volete? Monna umanità si trovò così male in gambe per quel negozio, che, in capo ad alquanti mesi di babilonia in miniatura, l’Inglese milionario vi andò fallito, e fu il miglior castigo che gli potesse incogliere; della turba umanitaria quelli che non si erano scannati fraternamente tra loro, furono distribuiti nei Depositi di mendicità, nelle prigioni, e contano che i più ingegnosi tra loro fossero allogati nei manicomii. Eh! miei amatissimi! Io già vel dissi: lo sperimento è fatto, ed in forma bene più splendida e solenne, che non sono coteste parodie di apostoli scomunicati, le quali tra ridicole e sacrileghe, non sapreste definire che siano più. – Sarà di altri discorsi il ragionarvi particolarmente i frutti dquello sperimento, che delle forze naturali fece il Gentilesimo: per ora debbo fermarmi alla radice di questo; e la radice ne fu la natura sola, separata e divulsa da Dio. Né già, vedete, che Iddio in quella natura non avesse inserito il lume della ragione: lo avevano quel lume, quanto qualunque altro di noi; e vi è chi giunge a sostenere, che lo avessero più acuto e più svegliato, che non lo abbiamo noi! Neppur mancavano di elementi tradizionali, che se erano meno copiosi e meno precisi, di quello che sieno i nostri, erano tuttavolta, per la prossimità alle origini, almeno naturalmente parlando, più autorevoli e più riveriti. E nondimeno che valse quel lume? quegli elementi che valsero? Il genere umano, salvato frescamente dalle acque sterminatrici del diluvio per mano dell’Onnipotente, lo dimenticò, lo sconobbe, lo rinnegò: le tradizioni più sante, che dai Patriarchi, quasi prezioso retaggio, alle genti novelle che dispergevansi erano state commesse, furono obliate in parte, in parte alterate per forma, da divenirne una tutt’altra cosa da quello, che erano state. Spoglio così l’uomo di soprannaturali presidii, dovette fabbricare la scienza da sé, dovette costituire la giustizia da sè, dovette trovare la felicità in sé medesimo, come se un Dio creatore ed ordinatore dell’universo, addirittura non esistesse. E questo fu propriamente la radice del Paganesimo: val quanto dire la separazione totale della creatura dal Creatore negli ordini speculativi e nei pratici; e quindi il genere umano ridotto a cercare nel proprio fondo, o nel proprio fondo solamente, quanto faceva uopo pel suo sapere, per la sua virtù, per ogni suo bene individuale, domestico e civile. – Ne andrebbe guari lungi dal vero chi pensasse, che quello stato d’isolamento, voluto a vero studio e per orgoglio, fu, come a dire, la riproduzione o piuttosto la continuazione della grande ribellione di Adamo contro Dio; colla sola differenza che in Adamo fu colpa, nel Paganesimo fu pena, fattasi malaugurata radice di nuove colpe. Tant’è! …il protoparente volle una scienza indipendente da Dio, trovata per propria industria, affine di usufruttuarla a suo senno; per diventarne un altro Dio, senza avere più nulla a fare col suo Autore: Eritis scientes …. eritis sicut dii (Gen. III , 5). Per ottenere questa scienza indipendente, non si curò Adamo del divino divieto, e nell’infrangimento di questo credette pazzamente di poter trovare felicità e contentezza. Quasi vorrei dire essere stata quella ribellione una specie di Razionalismo e di Egoismo, i quali cercavano la scienza e la felicità fuori di Dio, estranea a Dio, a dispetto di Dio. Or bene, questo Razionalismo oltracotante, questo superbo Egoismo, che fu il gran peccato del primo uomo, fu giustamente la grande pena di tutti gli uomini, lasciati per sì lungo volgere di secoli a loro medesimi, perché cercassero la scienza nella sola rągione, e la felicità al di dentro di loro. Ora, ditelo voi che siete saggi: quale scienza, quale felicità trovò il Paganesimo per questa via? Lo vedrete altra volta. Per ora basti considerarne la condizione generale, giovandoci del nobilissimo pensiero del Dottor Massimo, il quale riconosce appunto il Paganesimo nel figliuol prodigo di S. Luca, come ravvisa nel fratello di lui maggiore il popolo giudaico; ed aggiunge, che in quella parabola dei due figli è adombrata la vocazione dei due popoli, della quale sono piene le Scritture. Quod autem ait duos filios, omnes paene Scripturæ de duorum vocatione populorum plenæ sunt Sacramentis (Herons YM. Ep. 21 ad Damas. De duobus filiis). Oh! sì! tutte le nazioni erano figlie del gran Padre celeste niente meno, di quel che fosse la posterità di Abramo e di Giacobbe; quantunque a questa si appartenesse la primogenitura, siccome a quella, la cui Religione era nata quasi ad un parto stesso col mondo. Ma che? Le Nazioni si vollero emancipare dalla soggezione paterna, e nel dipartirsi chiesero superbamente al padre la porzione di eredità, che loro spettava: da mihi portionem quæ me contingit (Luc . XV , 12). Né il padre la dinegò, dando loro, siccome udiste, il lume della ragione, la legge naturale, impressa in questa, e gli elementi della tradizione primitiva. Come già quel figlio abiit in regionem longinquam (Ibid. V. 14) , tale altresì le nazioni gentili si allontanarono da Dio, per far da sé, per governarsi a talento, per essere indipendenti da ogni altra norma, che non fosse il proprio intelletto e la propria naturale propensione. Ora che ne seguisse al genere umano non è un mistero, e neppure è un problema: ne avvenne né più né meno di quello, che incontrò al figliuol prodigo, il quale dissipavit substantiam vivendo luxuriose. Sì! sì! il genere umano, dipartitosi dalla casa paterna, gettossi a disfreno dietro a tutte le inclinazioni animalesche, ed in questo modo sperperò malamente il patrimonio, che pure seco aveva portato; e voi vedrete miserabile stremo di abbandono e di abbiettezza a cui divenne. Dissipavit il lume della ragione ed i principii razionali, che ne sono spontaneo rampollo, fabbricando, per tutto che si attiene alla vita ultramondiale, al mondo degli spiriti ed alla divinità, una mole indigesta di mostruosi errori, cui diè nome di scienza, nella quale il meglio che fosse era la negazione ed il dubbio. Dissipavit i principii morali, attestati imperiosamente dalla sinderesi, o ne ritenne solo qualche rimembranza, che cresceva la colpa del conculcarli; e con quei principii mandò a male le più sante idee della giustizia e del diritto, costituendo, praticando e propagando il regno bestiale della violenza e della forza. Dissipavit i casti affetti, le soavi ispirazioni, le pietose virtù, ravvolgendosi, come porco in brago, nelle più schifose lordure, e facendo propria contentezza gli altrui dolori. Dissipavit gli elementi tradizionali, solo faro che poteano essere tra quelle tenebre, contessendo un garbuglio di stupide favole e d’insulsi miti, tra cui il più sagace ingegno stenterebbe a trovare vestigio di quelle tradizioni stesse, che pure n’erano il fondamento. Che più? dissipavit fino la memoria della casa paterna, ond’era uscito; più misero in questo del medesimo figliuol prodigo, il quale pure poté dire alla fine: surgam et ibo ad patrem (Luc, XV, 18), laddove il Paganesimo né sarebbe potuto sorgere né andare al padre, se questi non gli fosse pietosamente venuto incontro, e non gli avesse porta la mano. Talmente che incapace a cercare la luce, appena poté vederla, quando questa gli si fu offerta allo sguardo : Habitantibus in regione umbræ mortis, lux orta est eis (Isa.IX, 2). Avete udito? Non furono essi che cercarono la luce, fu la luce che spontanea si offerse adessi: orta est eis.

IV. La quale miserissima condizione dell’antico Paganesimo io temo forte non sia per divenire altresì, sotto molti rispetti, la condizione dei nostri tempi e dei nostri paesi, quando avessero effetto i voti insensati ed i conati sacrileghi di alcuni pretesi sapienti, i quali purtroppo hanno governata l’opinione di molti Italiani, ed al presente ne governano o piuttosto ne manomettono i popoli. Voi vedeste, radice prima di quella immensa vergogna e sventura dell’uman genere, che fu l’antico Paganesimo, essere stata l’abbandono della casa paterna, l’aver esso cercato scienza e felicità fuori di Dio: in breve, l‘abiit in regionem longinquam del figliuol prodigo. Ora chi crederebbe che quella separazione da Dio, la quale fu la piaga fetida e verminosa, che dovea rivelare all’antico mondo la necessità che esso avea di un Riparatore; chi crederebbe, dico io, che quella separazione stessa dovea diventare pel nostro mondo la cima di ogni perfezione; e che per questo si sarebbe praticamente ripudiato il Riparatore? E non vedete voi, non udite come nel moderno mondo, da oltre a mezzo secolo, ed in Italia segnatamente, dai suoi protettori e rigeneratori non si raccomanda, non si predica altro, che separazione della terra dal Cielo e dell’uomo da Dio? E non sapete come il Principato civile dei Pontefici è stato dai nemici della Chiesa dichiarato impossibile a mantenersi, per questa sola ragione, che, a rispetto di lui, è impossibile quella separazione, che già si è compiuta nel più dei Principati laicali, ed in tutti almeno è possibile? Ma nel Vicario di Cristo! oh! si appongono a meraviglia nel reputare impossibile quella scissione malaugurata del consorzio civile dai principii cristiani, la quale è il voto, il sospiro, direi quasi la rabbia dei nostri naturaleggianti umanitarii. E chi di noi non l’ha ascoltato o letto le cento volte? Separazione dello Stato dalla Chiesa; separazione della letteratura e delle arti dai concetti cristiani; separazione della storia dall’intervento della Provvidenza; separazione della morale e della probità naturale dalle prescrizioni dell’Evangelio; separazione della politica o delle scienze sociali ed economiche dai dettati della rivelazione; separazione della filosofia dalla teologia; separazione della ragione dalla fede, della terra dal cielo, dell’uomo da Dio. E quando tutte coteste separazioni fossero compiute, allora la terra potrebbe addirittura dimenticarsi del cielo, la ragione non saprebbe più che farsi della Fede, e l’uomo potrebbe starsene senza Dio; o, che torna al medesimo  potrebb’essere a sé medesimo il suo Dio, il suo fine, il suo ogni cosa. Or bene! questa espressione laconica dell’umano orgoglio, la quale fu la radice dell’antico Paganesimo, questa espressione proprio si sta da molto tempo mettendo in voga tra noi, per opera di uomini non so dire se scellerati od insensati, ma certo al consorzio civile ed al domestico perniciosissimi. Oh! quante volte sono io venuto meco medesimo considerando e rimpiangendo gli effetti di quel malaugurato principio di separazione, il quale si stà tacitamente infiltrando, eziandio in paesi cattolici ed in famiglie cristiane, in tutte le appartenenze domestiche e civili; e voi medesimi avete potuto notarli nei comuni discorsi e nelle cangiate usanze pubbliche e private! Per tutto voi vedete che la Religione si ritira a poco a poco dalle nostre consuetudini, dalle nostre pratiche, dai nostri divisamenti, dai nostri parlari; e chi sa che a voi eziandio, nel centro medesimo del Cristianesimo, non avvenga di pensare, di sentire, di parlare in parecchie congiunture, e senza quasi avvedervene, poco meno che da Pagani. Quanto è potente, quanto è prosperoso quello Stato! e pure o non si cura della Chiesa, o l’osteggia! quasi che per gli Stati cristiani vi possa essere prosperità sincera e potenza che metta a bene, quando si rompe guerra a Cristo medesimo nella sua Chiesa. Quel tal gentiluomo, quella tal dama, quel tale artigiano son cime di probità e di onoratezza; solo di Religione non hanno briciolo, né si saprebbe se sono atei, maomettani o giudei, e molto probabilmente non sono nulla di tutto questo, in quanto vivono da atei! quasi che possa trovarsi probità vera e vera onoratezza in chi calpesta una Religione, che giurò e pur dice di professare. E colpo meraviglioso fu quello del tale grande statista, per fare ricco e potente sè, più che la sua nazione; che poi si mettesse sotto i piedi l’Evangelio, cotesto non ci entra; perché, si sa, la politica non ha che fare colla sagrestia! quasi che la politica sia altro, che un’applicazione della morale, e la morale sia diventata degna dell’uomo per altra via, che entrando in sagrestia. E quel sistema filosofico, germinato tra le nebbie aquilonari e raffazzonato alla italiana da qualche esorbitante cervello nostrano, che neppure lo avea bene capito, è pure la gran cosa quel sistema! Che poi faccia a calci con tutta la economia della Rivelazione, ciò che rileva? eh! che la filosofia non è più privativa di preti e di frati; e può bene essere verissimo in filosofia tale pronunziato, che in teologia è manifestamente erroneo e forse ancora ereticale. E potrebbero moltiplicarsi senza fine questi esempi, che vi convincono essersi, non che iniziata, ma bene avviata tra noi quella separazione orgogliosa, che fu la radice del vecchio Paganesimo, e che è altresì la radice del nuovo. – Né voi preterire di osservare, come, nella nostra Penisola, sono alcuni improvvidi a ciò confortati da quella segreta inclinazione, pur troppo viva nel cuore di parecchi verso del Protestantesimo, come verso l’affrancamento della ragione. Dite bene: il Protestantesimo affrancò la ragione, separandola affatto da ogni attinenza col Creatore. Il suo principio fondamentale: non credere, non obbedire che alla Bibbia, interpretata dalla tua ragione, si tradusse presto nell’altro: non credere, non obbedire che a te stesso; e questo non suona altro alla fine, che un’autolatria, un’adorazione cieca di sé medesimo, un non riconoscere altro Dio, che il proprio io. – Matto delirio di orgoglio, di cui nell’antico Paganesimo non trovate riscontro, e forse neppure lo trovereste cercandolo nelle bolge infernali tra i demoni e tra i dannati; i quali, anche bestemmiando, credono e tremano: credunt et contremiscunt (JACOB . II, 19). Riposiamo.

V. Comincerò domani a divisarvi quanto fosse doloroso e svilente pel genere umano quello sperpero, che esso fece del retaggio paterno, come prima se ne fu ito in regionem longinquam . Per oggi siate contenti che io, a vostra pratica utilità, faccia notarvi quanto sia lamentabile, per le nazioni cattoliche altresì, la iattura che fecero di vantaggi insigni, anche nel giro della natura, come prima diedero adito al funesto principio di separazione da Dio. Oh! anche le nazioni cattoliche dissipaverunt substantiam, nel miserabile gettito che fecero di tante soavi consuetudini, di tanta scienza, di tanto decoro, di tante salutari istituzioni, di tanti celesti conforti! E che sono divenuti in molti paesi quei tesori, cui la cristiana carità dei nostri antichi avea ammassati da tanti anni, a sovvenimento di tutti i bisogni, a lenimento di tutti i dolori, a presidio di tutte le calamità? Dove pure dallo sperpero generale n’è restata una parte, questa parte è divenuta stipendio, cupidità, pascolo, latrocinio d’una falange burocratica senza viscere, la quale con freddo sprezzo ne getta gli avanzi all’indigenza, non per sovvenirla bisognosa, ma per cavarlasi d’attorno importuna; e faccia Dio che non anche per sedurne la schiva onestà, o per corromperne la cristiana credenza! Che sono ora quei tanti e maestosi edifizii, cui la religione degli avi nostri avea innalzati, per tranquillo ricovero della verginità illibata, degli amạri disinganni, della penitenza consolata, deisalmeggiamenti notturni, della fervente preghiera, delle aspirazioni celesti? Che sono ora? mi chiedete. Girate per la Italia e lo vedrete. Ove pur restano in piedi, sono oggi caserme stivate di baionette, per contenere i popoli che fremono, rugumando in segreto i loro mal dissimulati rancori; sono case di matti, che chiudono in copia cervelli, che dier la volta pel turbinio, in che folleggiarono, di politiche passioni e di corrotto incivilimento; sono prigioni ed ergastoli, pieni zeppi di malfattori, che sotto a volte, già echeggianti dalle caste preci di sante anime, fanno oggi risuonare la sacrilega bestemmia e la imprecazione disperata: intanto che il tempio vicino è quasi lieto di sentirsi scalpitato dall’unghia del cavallo guerriero, perché così risparmia la più grave onta di vedersi fatto ricettacolo infame di compre sgualdrine. E quelle Università, creazione unica della Chiesa Cattolica, le quali tacitamente attestavano al mondo e vi mantenevano vivo lo stupendo connubio della scienza colla Rivelazione, della ragione colla Fede? Consumata la separazione, le Università divennero ostello di tutte le nequizie, fucine di tutti gli errori, focolare di tutte le rivolture; talmente che delle esorbitanze scientifiche che sconvolsero le menti, e delle pubbliche commozioni che scombuiarono i popoli, voi potete porre ogni cosa che le novantanove sopra le cento, se da quelle Università non ebbero gl’inizii, ne trassero certamente i parteggiani per età più ardenti, e più maneggevoli per inesperienza. E non vi basta questo a convincervi, che i popoli, come gl’individui, non si possono separare da Dio, senza sperperare ogni loro più caro tesoro? dissipavit substantiam . Deh! Chi potrebbe noverare, chi deplorare degnamente le inestimabili calamità, che da quella separazione e da questo sperpero, a ruina temporale ed eterna dei miseri popoli, si derivarono? Oh! le due e le tre volte fortunate queste contrade! le quali, poste dalla Provvidenza sotto il reggimento del Capo visibile della Chiesa, sono nella felice impossibilità di vedersi mai civilmente separate da Dio! sono nella necessità ancor più felice di non essere mai governate altrimenti, che da cristiane! Che se questa condizione è il maggior torto che, agli occhi dei Pagani redivivi, ha il vostro Sovrano; questa stessa dev’essere per voi, o Romani, ed è di fatto quella che v’impreziosisce e rende più cara la sorte di essere sudditi di tal Sovrano, dalle cui mani si può bene, per somma empietà, strappare parzialmente o temporaneamente lo scettro; non si potrà ottenere in eterno, che quello sia trattato altrimenti, che come a Principe cristiano si addice.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (3)

IL SEGNO DELLA CROCE (7)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (7)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA SESTA.

Il 1 dicembre.

Sunto della lettera precedente. — Il segno della croce è un libro che istruisce — Creazione, Redenzione, Glorificazione, tre parole, che riassume la conoscenza di Dio, dell’uomo, del mondo. — Il legno della croce dice queste tre parole con autorità — con chiarezza — e profondamente. — Le insegna a tutti — dappertutto — e sempre.

Segno divino, distintivo del fiore della umanità, stemma del cattolico: tal è, mio caro Federico, il segno della croce considerato sotto il primo punto di vista. Se è vero che nobiltà obbliga, io non conosco, per inspirare all’ uomo il sentimento della sua dignità ed il rispetto di se stesso, un mezzo più semplice, più facile, e più efficace del segno della croce, fatto soventemente, attentamente e religiosamente. Questa è una delle ragioni di sua esistenza. Questo segno, dice un Padre (Magna hæc est custodia, quæ propter pauperes gratis datur sine labore propter infirmos, cum a Deo sit hæc gratia, Signum fidelium et timor dæmonum. Neque propterea quod est gratuitum, contemnas hoc signaculum; sed ideo magis venerare benefactorem. S. Cyril. Hier. Catech. XIII), è custodia potentissima, gratuita pe’ poveri, facile pei deboli. Benefizio divino e spavento di satana, a vece di disprezzarlo perché gratuito, aumenti in te la riconoscenza. Io aggiungo, che l’eloquenza della croce eguaglia la sua potenza. Qual cosa insegna dessa all’uomo? Vediamolo.

Ignoranti, il segno della croce è un libro, che e istruisce. Creazione, Redenzione, Glorificazione! Tutta la scienza teologica, filosofica, sociale, politica, isterica, divina ed umana, è raccolta in queste tre parole. Scienza del passato, scienza del presente e dell’avvenire, tutta è in esse e per esse, lume del mondo, base dell’intelligenza umana! Supponi un istante che il genere umano dimentichi queste tre parole, o che ne sconosca il vero senso: qual cosa mai diverebbe? Agglomerazione di atomi che si muovono nel vuoto senza direzione e senza scopo; cieco nato senza guida e senza bastone; mistero inesplicabile a se stesso; infelice senza consolazione; un forzato senza speranza. Ecco l’uomo e la società!  Creazione, Redenzione, Glorificazione: queste tre parole sono più necessarie alla umanità che il pane che lo vive, e l’aria che desso respira. Sono necessarie a tutti, a ciascuna ora, e sempre. Desse sole allietano la vita e tutte le vite, l’azione e tutte le azioni, la parola e tutte le parole, il pensiero ed ogni pensiero, la gioia e tutte le gioie, la tristezza e tutte le tristezze, il sentimento ed ogni sentimento.  Ciò posto, la semplice ragione insegna che Dio dovea per se stesso stabilire un mezzo facile, universale, permanente, per dare a tutti questa conoscenza fondamentale, e darla non una sola volta, ma rinnovarla di continuo come rinnova l’aria, che respiriamo. A qual dottore sarà commesso siffatto insegnamento? A s. Paolo, santo Agostino, e s. Tommaso ? Forse ai genii d’Oriente, e d’Occidente? No. Questi dottori parlano un linguaggio, che tutti non comprendono, è mestieri di un dottore che parli una lingua intelligibile a tutti, al selvaggio dell’Oriente, ed al civilizzato della vecchia Europa. Chi sarà dunque il mio dottore? Tu l’hai nominato, è il segno della croce. Desso, e lui solo raccoglie in se le condizioni esatte. Esso non muore, è da per tutto, la sua lingua è universale. Un solo instante richiede per insegnare la lezione, ed un momento solo basta a tutti per apprenderla. In prova di quanto dico, permetti ch’io ti disveli un mistero. Il Verbo incarnato, che Isaia chiama a ragione il Precettore del genere umano, avea risoluto di morire per noi. V’erano molti generi di morte la lapidazione, la decapitazione, precipitato da luogo eminente, l’acqua, il fuoco, e che so io? Fra tutte queste specie di morti perché ha Egli scelto la croce?  – Un profondo teologo ha risposto da molti secoli. Una delle ragioni perché la divina ed infinita saggezza scelse la croce, è per fermo, che un leggero movimento di mano basta a segnar su di noi lo strumento del divino supplizio; segno luminoso e potente, che c’insegna quanto è da sapere, e in che troviamo valida difesa contro i nostri avversari (Noluit Dominus lapidari, aut gladio truncari, quod videlicet nos semper nobiscum lapides aut ferrum forre non possumus, quibus defendamur. Elegit vero crucem, quæ levi manus motu exprimitur, et contra inimici versutias munimur.(Alcuin, De divin. off. c. XVIII).). Ecco il segno della croce stabilito catechista del genere umano. Ma è egli vero che desso soddisfi, com’è dovere, a tale uffizio, tu mi dimandi, e ch’esso ripeta a segno le tre grandi parole: Creazione, Redenzione, Glorificazione? Non solo le ripete, ma le esplica con tale autorità, profondità e chiarezza da essere tutto cosa sua. – Con autorità, divina nella sua origine, è organo di Dio stesso. Con profondità e chiarezza: siine tu stesso giudice. Quando tu porti la mano dalla tua fronte al petto dicendo in nome, il segno della croce t’insegna l’indivisibile unità dell’essenza divina. Per solo questa parola, siitu un fanciullo, od una semplice femmina, tu sei più sapiente che tutti i filosofi del Paganesimo. Qual progresso in un solo istante! Dicendo del Padre un nuovo ed immenso raggio di luce èimmerso nell’intelligenza tua. Il segno della croce ti apprende la esistenza di un Essere, Padre di tutti i padri, principio eterno dell’Essere da cui traggono la loro origine tutte le creature celesti e terrestri, visibili ed invisibili. Aquesta parola si dissipano per te le nebbie, che lungo venti secoli nascosero agli occhi del mondo pagano l’origine delle cose. Tu continui dicendo: e del Figlio, ed il segno della croce continua ad ammaestrarti. Ti dice che il Padre de’ padri ha un figlio simile a sé. E facendoti portar la mano sul petto quando tu pronunzi il suo Nome t’insegna che questo Figlio eterno del padre s’è reso Figlio dell’uomo nel seno di una Vergine, per riscattare il mondo. L’uomo è dunque scaduto dall’altezza di uno stato migliore. Una novella luce questa parola apporta alla tua intelligenza! La coesistenza del bene e del male, il terribile dualismo che sperimenti in te stesso, questa riunione di nobili istinti e d’inclinazioni abbiette, d’azioni sublimi e di atti ignobili, la necessità della lotta, la possibilità ed i mezzi della riabilitazione: tutti questi misteri la cui profondità straziava la filosofia pagana, non sono più ravvolti fra tenebre per te. Tu finisci dicendo: e dello Spirito Santo. Questa parola compie l’insegnamento della croce. Per essa tu sai che v’ha un Dio, Unità di essenza e Trinità di Persone: tu formi un’idea giusta dell’Essere per eccellenza, dell’Essere completo che non sarebbe tale se non fosse uno e trino. Se la prima Persona è necessariamente potenza, la seconda dev’essere sapienza e la terza a-more. Questo amore essenzialmente benefico compisce l’opera del Padre che crea, e quella del Figlio che riscatta; desso santifica l’uomo e lo conduce alla gloria. Per la direzione della vita delle nazioni e dell’individuo, per i re come per i sudditi, qual luminoso insegnamento! Se Aristotele, Platone, Cicerone, tutti gli antichi pensatori, filosofi, legislatori e moralisti, fatigati dallo studio e stanchi di dubbi insolubili avessero risaputo la esistenza di un Maestro, che insegnasse con la profondità e chiarezza della croce, avrebbero corso l’intero mondo per vederlo, stimandosi felici di passare la vita ad intenderne l’insegnamento.  – Pronunziando il nome dello Spirito Santo tu compisci la croce, e con ciò tu non solo conosci il Redentore, ma ancora lo strumento della redenzione. Di siffatto modo, nel mentre che desso inonda lo spirito di vivida luce, apre nel cuore una inesauribile fonte di amore, di che parleremo altrove. Ma attendendo, dimmi se torna possibile insegnare con minor numero di voci, e con simile eloquenza, e con lingua sì accessibile i tre grandi dogmi, Creazione, Redenzione, Glorificazione, ippomoclio del mondo morale, e principio generatore della umana intelligenza? Essere creato, essere riscattato, essere destinato alla gloria, ecco quello che sei, o uomo! – Che cosa ne pensi tu, caro amico, è far della teologia questo? Ma se la teologia è la scienza di Dio, dell’uomo e del mondo; se la filosofia, conoscenza ragionata di Dio, dell’uomo, del mondo è figlia della teologia; se dalla teologia e dalla filosofia derivano tutte le scienze, la politica, la morale, l’istoria, ne segue, che il segno della croce è il dottore più sapiente e meno verboso che abbia mai insegnato. Vuoi tu sapere quale sia il posto, che questo segno venerando ha nel mondo? Te lo dirò domani.

IL SEGNO DELLA CROCE (8)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “CUM NUPER”

«Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini … » Così il Santo Padre esordisce in questa lettera Enciclica, indirizzata ai Vescovi del Regno delle due Sicilie, in occasione dei violenti terremoti che interessarono quel Regno. Da questa premessa trae spunto per ricordare ai Prelati in oggetto i loro precisi ed attenti doveri nei confronti dei fedeli, in particolare dei giovani e della loro educazione cristiana, nonché dei Parroci e degli aspiranti sacerdoti, per il cui reclutamento si raccomanda un’attenta osservazione della loro vocazione, pietà, integerrima condotta morale, e robusto bagaglio dottrinale e teologico, tutte qualità alla base dell’opera salvifica nei confronti delle anime dei fedeli affidati alle cure di pastori pii ed integri per vita e dottrina. Veramente è di tutta evidenza la preoccupazione del Santo Padre interamente volta alla salvezza eterna dell’anima dei Cattolici, scopo di ogni attività ecclesiastica, massimamente del Sommo Pontefice.  Certo è palese la diversità di linguaggio di un vero Pontefice (e che Pontefice!) se paragonata a quella degli antipapi e falsi profeti usurpatori dell’antichiesa vaticana e delle conventicole scismatiche pseudotradizionaliste … d’altra parte il Signore Gesù li aveva giudicati già a suo tempo dicendo: dai frutti li riconoscerete, i lupi travestiti da agnelli e da angeli di luce, i ladri ed i briganti famelici che sbranano le anime di tanti incauti ingannati. Ma si consoli il pusillus grex cattolico, la fine per gli sciacalli è vicina, il Cuore Immacolato di Maria, dopo la grande tribolazione, trionferà mirabilmente schiacciando la testa del drago primordiale come profetizzato in Genesi III … et Ipsa conteret caput tuum. Usque tandem?…

Pio IX
Cum nuper

Era trascorsa da poco la solenne, festiva ricorrenza annuale che celebra il giorno in cui l’Unigenito Figlio di Dio, per il grandissimo trasporto con il quale Ci ha amati, scendendo dal cielo senza recedere dalla gloria del Padre, fattosi in tutto simile agli uomini, ha voluto nascere dall’immacolata e beatissima Vergine Maria, quando Noi abbiamo ricevuto la Vostra gentilissima lettera in cui Voi, Venerabili Fratelli, professando la Vostra particolare e profonda devozione, l’amore e l’obbedienza verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, avete manifestato ancora una volta che niente Vi sta più a cuore che scongiurare con assidue e fervide preghiere il Dio Ottimo e Massimo affinché, con la sua onnipotente grazia, aiuti, confermi e rafforzi l’umile Nostra Persona, travagliata dalla gravissima sollecitudine per tutte le Chiese, e affinché la conservi salva e incolume ancora a lungo e la ricolmi di ogni prosperità per la maggior gloria del suo santo Nome e per la salvezza delle anime. – Gli egregi sentimenti della Vostra piissima devozione, sempre a Noi graditissimi, hanno, così commosso il Nostro animo paterno, che abbiamo voluto scrivere questa Lettera Enciclica a tutti Voi che esercitate il ministero pastorale in codesto Regno delle Due Sicilie, a testimonianza della particolarissima benevolenza Nostra verso di Voi e nello stesso tempo affinché comprendiate sempre meglio con quanta carità Vi amiamo nel Signore e quanto siamo solleciti delle Vostre persone e dei fedeli affidati alle Vostre cure. – Infatti, Venerabili Fratelli, non possiamo quasi esprimere a parole quell’acerbissimo dolore da cui siamo stati colpiti, allorché abbiamo avuto notizia che nello scorso mese di dicembre molte città di codesto Regno furono talmente sconquassate da grandi terremoti che molte persone, travolte dalle rovine di edifici cadenti, in modo miserando hanno perso la vita, con grande dolore del Nostro carissimo Figlio in Cristo il Re Ferdinando II che, per la sua grande carità cristiana e il suo affetto per le popolazioni a lui soggette, non risparmiandosi negli interventi e nelle spese, non cessò di apportare aiuti e soccorsi alle popolazioni di dette città per sollevare la loro deplorevole condizione. – Appena Ci giunsero le prime tristissime notizie di una così grande calamità, senza alcun indugio, nell’umiltà del Nostro cuore abbiamo levato i Nostri occhi al Signore, implorando e scongiurando la Sua divina misericordia per quelle misere popolazioni affinché risanasse le fratture della terra le cui fondamenta erano state scosse in modo così terribile. – Vi sono noti i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini. Noi, per il Nostro ufficio, sproniamo vivamente in Domino la Vostra episcopale sollecitudine, Venerabili Fratelli, affinché adempiate con ardore e attivamente ciò che fa parte del Vostro ministero, e abbiate subito in animo di allontanare dal vizio e dal peccato, con ogni sforzo e zelo, i fedeli affidati alle Vostre cure e di incamminarli per le vie della virtù, della giustizia e della religione. – E poiché, con Nostro e Vostro grande rammarico si trovano in codesto Regno anche degli ecclesiastici che, dimentichi della loro vocazione, con la loro riprovevole e malvagia condotta eccitano l’indignazione divina e diventano causa di morte spirituale del popolo cristiano, al quale dovrebbero essere guide per la vita, cercate di sradicare gli abusi e le corruzioni che si sono infiltrate nel costume del Clero, e difendete e favorite con la massima diligenza la disciplina ecclesiastica a norma dei sacri canoni. Non lasciate nulla d’intentato affinché i giovani Chierici fin dai teneri anni vengano educati opportunamente alla pietà, alla religiosità e allo spirito ecclesiastico, e vengano istruiti nelle migliori dottrine, nelle più severe discipline e specialmente nella conoscenza solida e sicura della scienza teologica e dei sacri Canoni. – E prima di tutto, avendo sempre davanti agli occhi il precetto dell’Apostolo, preoccupatevi in modo particolare di non aver fretta ad imporre le mani a chiunque, ma usate somma cura e precauzione nel conferimento degli Ordini sacri. – Venerabili Fratelli, non avvenga mai che in una scelta così importante vi sia alcuno di Voi che, indulgendo a interessi d’altri, propensioni, favori e ragioni umane, voglia aggregare al Clero e promuovere alle dignità ecclesiastiche e agli Ordini coloro che, non essendo dotati delle qualità prescritte dai sacri Canoni, sono invece da respingere dal sacro ministero. Infatti, ben sapete quale grave colpa commette, quanto danno reca alla Chiesa e quale tremendo e strettissimo conto dovrà rendere a Cristo Signore chi non ha paura di iniziare agli Ordini sacri persone indegne. Per questa ragione, Venerabili Fratelli, per la Vostra singolare pietà, abbiate cura di osservare scrupolosamente le sapientissime e prudentissime prescrizioni dei sacri Canoni nell’ammettere e promuovere ai sacri Ordini gli ecclesiastici; e dopo accurato accertamento ed esame vogliate conoscere e valutare l’origine familiare di ciascuno, la sua formazione, l’indole, l’ingegno e la cultura. Occorre quindi decorare dei sacri Ordini e ammettere a trattare i divini misteri soltanto coloro che, dopo una prova accurata e diligente, sia per il possesso di tutte le virtù, sia per lodata e buona condotta, sia perché dotati di vero spirito ecclesiastico, possono servire le Vostre Diocesi ed esserne di ornamento. Astenendosi da tutte quelle azioni e dagli atteggiamenti che sono vietati ai Chierici e che loro sconvengono, essi siano d’esempio ai fedeli nella parola, nella conversazione, nella carità, nella fede e nella castità. Esigete particolarmente in coloro ai quali si devono affidare la cura e la guida delle anime, buoni costumi, probità, integrità, pietà, scienza e prudenza. E vegliate sempre affinché i Parroci, esercitando premurosamente il proprio ufficio con scienza e virtù, non tralascino mai di istruire il popolo cristiano loro affidato con l’annuncio della parola di Dio, con l’amministrazione dei Sacramenti, e col dispensare la multiforme grazia di Dio, ammaestrando specialmente i fanciulli e le persone ignoranti nei misteri santissimi della nostra divina Religione; insegnando diligentemente i Comandamenti, onde portarli tutti alla pietà e ad ogni virtù. Voi ben sapete come si corrompono i costumi, con grande danno della società sacra e civile, se si rilassa la disciplina cristiana e si distrugge il culto religioso, se i Parroci non sanno esercitare il loro ministero e compiere il loro dovere, o se lo trascurano. Dovendo inoltre vigilare con particolare attenzione che la gioventù d’ambo i sessi venga educata nel timor santo del Signore, nella Sua legge, e venga preparata all’onestà, dovete avere molto a cuore l’ispezione nelle scuole, sia pubbliche che private, e con particolare zelo procurare che la stessa gioventù, lontana da ogni pericolo, abbia un’istruzione sana e veramente cattolica. Dedicate pertanto tutte le forze della Vostra pastorale sollecitudine a quest’opera, poiché ben sapete che la prosperità della società civile dipende specialmente dalla retta educazione della gioventù, come pure ben conoscete le arti molteplici e nefaste con le quali, in questi tempi scellerati, i nemici di Dio e dell’umanità si sforzano di corrompere e pervertire l’incauta gioventù. – Non tralasciate di erudire ogni giorno con pari sollecitudine i fedeli a Voi affidati sulla dottrina cattolica, sia a voce, sia per iscritto, per difenderli dal contagio di tanti errori ora serpeggianti, ammonendoli a conservarsi stabili e fermi nella professione della nostra Fede e ad osservare diligentemente le leggi di Dio e della Santa Chiesa per non lasciarsi ingannare e trarre in errore dai propagatori di perverse dottrine. E poiché si pubblicano ovunque, emersi dalle tenebre, perniciosissimi libri per mezzo dei quali abilissimi fabbricatori di menzogne si sforzano di portare alla depravazione, con malvage opinioni di ogni genere, le menti e i cuori, confondendo ogni realtà umana e divina, onde far crollare le fondamenta stesse della cristiana e civile società, allora, Venerabili Fratelli, combattete coraggiosamente con tutto il Vostro zelo per tener lontana il più possibile dal Vostro gregge questa esiziale peste di libri. – E affinché possiate più facilmente e con maggior sicurezza difendere la sana dottrina e i buoni costumi e chiudere l’adito ad ogni errore e alla corruzione, non trascurate di esaminare accuratamente tutti i libri, specialmente quelli che trattano di materie teologiche e filosofiche e di cose sacre, oltre che di diritto canonico e civile. – Sapete inoltre che è Vostro compito episcopale e fa parte del Vostro ministero difendere e sostenere costantemente i diritti venerandi della Chiesa, difendere i suoi beni, provvedere alla loro retta amministrazione e specialmente aver cura che siano convenientemente conservati i pii legati di Messe e gli altri oneri, e siano tutti religiosamente soddisfatti, rimovendo qualsiasi frode o turpe lucro. Né ignorate con quale saggezza e con quale delicatezza dovete provvedere a che nelle Vostre singole Curie gli affari siano trattati con ogni giustizia ed equità. Pertanto, abbiate cura zelante che nelle Vostre Curie Vescovili siano presenti soltanto quegli uomini che, stimati da tutti per integrità di vita e per esperienza nel trattare gli affari, possano essere incaricati ad adempiere con competenza ed onestà tutti i compiti da Voi affidati. – Vi chiediamo inoltre insistentemente che approfondiate e con grande diligenza esaminiate le cause ecclesiastiche che spettano ai Vostri Tribunali, secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni e in virtù della Convenzione; che le giudichiate e Vi adoperiate fortemente a che le sentenze abbiano la loro debita esecuzione; e a questo scopo, ogni qualvolta fosse necessario, chiedete l’aiuto e la forza dell’autorità civile. – E poiché i Sacerdoti Regolari sono dati ai Vescovi come aiuto nel coltivare la vigna del Signore, come ci ricorda il Nostro Predecessore di immortale memoria Benedetto XIV, per quanto dipende da Voi non trascurate di ammonire ed esortare questi uomini, affinché, seguendo le vestigia dei loro Padri ed emulandone l’esempio, si sforzino di ricambiare quello che hanno promesso a Dio, e vivano una vita santa secondo le regole del loro Istituto, e cerchino di dare a Voi e al Vostro gregge un utile aiuto, sia con le parole, che con l’esempio e la preghiera. – In modo particolare datevi cura, con la Vostra pastorale sollecitudine e carità, delle Vergini consacrate a Dio; esse sono la parte eletta del gregge, i fiori dei germogli della Chiesa, decoro e ornamento della grazia dello Spirito Santo. Offrite loro, pertanto, tutto l’aiuto e la Vostra opera, affinché, memori della santa vocazione con la quale Dio le chiamò, distolgano gli occhi dalle realtà umane per rivolgerli sempre ai beni celesti e ogni giorno, progredendo di virtù in virtù, cerchino di diffondere ovunque il buon profumo di Cristo. E chiediamo insistentemente alla Vostra religiosa pietà che abbiate sempre davanti agli occhi e prendiate in seria considerazione e poi eseguiate ciò che lo stesso Nostro Predecessore Benedetto XIV provvidamente raccomanda e sapientemente stabilisce nella sua Costituzione Pastoralis Curae del 5 agosto 1748 sulla designazione di Confessori straordinari per le Monache. – Infine, Venerabili Fratelli, affinché possiate provvedere sempre meglio al bene della nostra santissima Religione e alla salvezza delle pecorelle, Vi esortiamo caldamente a celebrare i Sinodi Provinciali secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni. Voi ben sapete, infatti, che soltanto in questo modo, esaminando tutte le realtà fra di Voi, potete più facilmente e ponderatamente porre rimedio opportuno ai mali, provvedere alla spirituale prosperità delle vostre Diocesi e ordinare successivamente i Sinodi Diocesani che dovete convocare secondo le Norme Canoniche. E siccome in codesto Regno molti Arcivescovi mancano di Vescovi suffraganei e alcuni Vescovi non hanno il loro Vescovo Metropolitano, e quindi non sono in grado di celebrare un Sinodo Provinciale, è affidato alla prudenza degli stessi sacri Prelati il compito di ponderare diligentemente tutte le circostanze di luogo, di cose e di tempo perché possano giungere ad avere anch’essi un Sinodo assieme a coloro con i quali hanno maggior consuetudine nel Signore, senza nessuna modifica al rango delle Chiese e senza alcun detrimento per i diritti e i privilegi dei quali i predetti Vescovi legittimamente godono e sono in possesso. – Avete davanti agli occhi, Venerabili Fratelli, tutto quello che abbiamo stimato opportuno esporvi per la particolare benevolenza che abbiamo verso di Voi e verso i fedeli affidati alle Vostre cure. Non dubitiamo che vorrete soddisfare sollecitamente e ancor più volonterosamente a tutti questi desideri e ammonimenti paterni, anche perché il carissimo Figlio Nostro in Cristo Ferdinando II, illustre Re delle Due Sicilie, Vi porge la mano ausiliatrice e – come Noi confidiamo – per la sua grande pietà farà sì che, secondo i Nostri desideri, nel suo Regno la Chiesa goda della piena libertà ed eserciti tutti quei diritti che le convengono e di cui deve usufruire per volontà di Dio e secondo i Sacri Canoni. – Frattanto umilmente preghiamo e supplichiamo Dio, ricco di misericordia, perché effonda su di Voi sempre più copiosi tutti i doni della sua bontà e benedica le Vostre fatiche pastorali, le Vostre preoccupazioni e le Vostre iniziative affinché i fedeli che Vi sono stati affidati, ogni giorno sempre più forti nella fede, rigettino il male e facciano il bene e, crescendo nella scienza di Dio e nella conoscenza del Signor Nostro Gesù Cristo, camminino degnamente nella via di Dio, piacendo in tutto e operando proficuamente in ogni buona iniziativa. – Come auspicio di tutto quanto esposto e come pegno certissimo della Nostra particolarissima benevolenza verso di Voi, ricevete l’Apostolica Benedizione che impartiamo dall’intimo del cuore a Voi, Venerabili Fratelli, e con grande amore ai Chierici delle Vostre Chiese e ai fedeli Laici.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 gennaio 1858, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXII DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

In quest’epoca le letture dell’Officiatura sono spesso tolte dal Libro dei Maccabei. Giuda Maccabeo, avendo udito quanto potenti fossero i Romani e come avessero sottomesso dei paesi assai lontani ed obbligato tanti re a pagar loro un tributo annuale, e d’altra parte sapendo che essi solevano acconsentire a quanto veniva loro chiesto e che avevano stretto amicizia con tutti coloro che con essi si erano alleati, mandò a Roma alcuni messi per fare amicizia ed alleanza con loro. Il Senato romano accolse favorevolmente la loro domanda e rinnovò più tardi questo trattato di pace con Gionata, e poi con Simeone che succedettero a Giuda Maccabeo, loro fratello. Ma ben presto la guerra civile sconvolse questo piccolo regno, poiché dei fratelli si disputarono tra di loro la corona. Uno di questi credette fare una mossa abile chiamando i Romani in aiuto; essi vennero infatti e nel 63 Pompeo prese Gerusalemme. Roma non soleva mai rendere quello che le sue armi avevano conquistato e la Palestina divenne quindi e restò una provincia romana. Il Senato nominò Erode re dei Giudei ed egli, per compiacere costoro, fece ingrandire il Tempio di Gerusalemme e fu in questo terzo tempio che il Redentore fece più tardi il suo ingresso trionfale. Da quel momento il popolo di Dio dovette pagare un tributo all’imperatore romano ed è a ciò che allude il Vangelo di oggi. Questo episodio avvenne in uno degli ultimi giorni della vita di Gesù. Con una risposta piena di sapienza divina, il Maestro confuse i suoi nemici, che erano più che mai accaniti per perderlo. L’obbligo di pagare un tributo a Cesare era tanto più odioso ai Giudei in quanto contrastava allo spirito di dominio universale che Israele era convinto di aver ricevuto con la promessa. Quelli che dicevano che si doveva pagarlo, avevano contro di loro l’opinione pubblica, quelli che dicevano che non si dovesse farlo incorrevano nell’ira dell’autorità romana imperante e dei Giudei che erano a questa favorevoli e che si chiamavano erodiani. I farisei pensavano dunque che forzare Gesù a rispondere a questo dilemma voleva sicuramente dire perderlo, sia davanti al popolo, sia davanti ai Romani, e che tanto dagli uni come dagli altri avrebbero potuto farlo arrestare. Per essere sicuri di riuscirvi gli mandarono una deputazione di Giudei che appartenevano ai due partiti, « alcuni dei loro discepoli con degli erodiani », dice S. Matteo. Questi uomini, per ottenere una risposta, cominciarono col dire a Gesù che sapevano come egli dicesse sempre la verità e non fosse accettatore di persone; poi gli tesero un tranello: « È permesso o no pagare il tributo a Cesare?». Gesù, conoscendo la loro malizia, disse loro: « Ipocriti, perché mi tentate?» Poi, sfuggendo loro destramente, domandò che gli mostrassero la moneta del tributo, per forzarli, come sempre faceva in queste circostanze, a rispondere essi stessi alla loro domanda. Infatti, quando i Giudei gli ebbero presentato un danaro che serviva per pagare il tributo: « Di chi è questa effigie e questa iscrizione? » chiese loro. «Di Cesare», risposero quelli. Bisognava infatti per pagare il tributo, cambiare prima la moneta nazionale in quella che portava l’effigie dell’imperatore romano. Con questo scambio i Giudei venivano ad ammettere di essere sotto la dominazione di Cesare, poiché una moneta non ha valore in un paese se non porta l’effigie del suo sovrano. Acquistando dunque quel denaro con l’impronta di Cesare, riconoscevano essere egli il signore del loro paese, al quale essi avevano l’intenzione di pagare il tributo. « Rendete dunque a Cesare — disse loro Gesù — quello che è di Cesare ». Ma allora il Maestro, diventando ad un tratto il giudice dei suoi interlocutori interdetti, aggiunse: « Rendete a Dio quello Che è di Dio ». Ciò vuol dire: che appartenendo l’anima umana a Dio, che l’ha fatta a propria immagine, tutte le facoltà di quest’anima devono far ritorno a Lui, pagando il tributo di adorazione e di obbedienza. « Noi siamo la moneta di Dio, coniata con la sua effigie . dice S. Agostino – e Dio esige il suo denaro, come Cesare il proprio » (In JOANN.). « Diamo a Cesare la moneta che porta l’impronta sua, aggiunge S. Girolamo,, poiché non possiamo fare diversamente, ma diamoci anche spontaneamente, volontariamente e liberamente a Dio, poiché l’anima nostra porta l’immagine sfolgorante di Dio e non quella più o meno maestosa di un imperatore ». (In MATT.). – « Questa immagine, che è l’anima nostra – dice ancora Bossuet – passerà un giorno di nuovo per le mani e davanti agli occhi di Gesù Cristo. Egli dirà ancora una volta guardandoci: Di chi è quest’immagine e quest’iscrizione? E l’anima risponderà: di Dio. È per Lui ch’eravamo stati fatti: dovevamo portare l’immagine di Dio, che il Battesimo aveva riparato, poiché questo è il suo effetto e il suo carattere. Ma che cosa è diventata questa immagine divina che dovevamo portare? Essa doveva essere nella tua ragione, o anima cristiana! e tu l’hai annegata nell’ebbrezza; tu l’hai sommersa nell’amore dei piaceri; tu l’hai data in mano all’ambizione; l’hai resa prigioniera dell’oro, il che è un’idolatria; l’hai sacrificata al tuo ventre, di cui hai fatto un dio; ne hai fatto un idolo della vanagloria; invece di lodare e benedire Iddio notte e giorno, essa si è lodata e ammirata da sé. In verità, in verità, dirà il Signore, non vi conosco; voi non siete opera mia, non vedo più in voi quello che vi ho messo. Avete voluto fare a modo vostro, siete l’opera del piacere e dell’ambizione; siete l’opera del diavolo di cui avete seguito le opere, di cui, imitandolo, vi siete fatto un padre. Andate con lui, che vi conosce e di cui avete seguito le suggestioni; andate al fuoco eterno che per lui è stato preparato. O giusto Giudice! dove sarò io allora? mi riconoscerò io stesso, dopo che il mio Creatore non mi avrà riconosciuto? » (Medit. sur l’Èvangile, 39e jour) In questo modo dobbiamo interpretare il Vangelo, in questa Domenica, che è una delle ultime dell’anno ecclesiastico e che segna per la Chiesa gli ultimi tempi del mondo. Infatti, a due riprese, l’Epistola parla dell’Avvento di Gesù, che è vicino. S. Paolo prega Dio che ha cominciato il bene nelle anime di compierlo fino al giorno del Cristo Gesù », poiché è da Lui che viene la perseveranza finale. E l’Apostolo invoca appunto questa grazia: che « la nostra carità abbondi vieppiù in cognizione e discernimento, affinché siamo puri e senza rimproveri nel giorno di Gesù Cristo » (Epistola). In questo terribile momento, infatti se il Signore tiene conto delle nostre iniquità, chi potrà sussistere davanti a Lui? (Introito). « Ma il Signore è il sostegno e il protettore di coloro che sperano in Lui » (Alleluia), poiché « la misericordia si trova nel Dio d’Israele» (Intr., Segret.). E noi risentiremo gli effetti di questa misericordia se saremo noi stessi misericordiosi verso il prossimo. « Come bello è soave è per i fratelli essere uniti! » dice il Graduale. E dobbiamo esserlo soprattutto nella preghiera, all’ora del pericolo, poiché se gridiamo verso il Signore, Egli ci esaudirà » (Com.). E la preghiera eminentemente sociale e fraterna, alla quale Dio è più specialmente propizio, è la preghiera della Chiesa, sua sposa, che Egli ascolta ed esaudisce come fece il re Assuero, allorché, come ricorda l’Offertorio, la sua sposa Ester si rivolse a Lui per salvare dalla morte il popolo di Dio (v. 19a Domenica dopo Pentecoste).

Il dono della perseveranza nel bene ci viene da Dio. San Paolo domanda a Dio di accordarlo ai Filippesi, che gli sono sempre stati uniti nelle sue sofferenze e nelle sue fatiche apostoliche e che egli ama, come Cristo Gesù stesso li ama. La loro carità dunque cresca continuamente, affinché il giorno dell’avvento di Gesù, colmi di buone opere, rendano gloria a Dio.

« Se noi siamo attaccati ai beni che dipendono da Cesare, dice S. Ilario, non possiamo lamentarci dell’obbligo di rendere a Cesare quello che è di Cesare; ma dobbiamo anche rendere a Dio quello che gli appartiene in proprio, cioè consacrargli il nostro corpo, l’anima nostra, la nostra volontà » (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps. CXXIX: 3-4

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Ps CXXIX: 1-2

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: O Signore, esaudisci la mia supplica.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? quia apud te propitiátio est, Deus Israël.

[Se tieni conto delle colpe, o Signore, o Signore chi potrà sostenersi? Ma presso di Te si trova misericordia, o Dio di Israele.]

Oratio

Orémus.

Deus, refúgium nostrum et virtus: adésto piis Ecclésiæ tuæ précibus, auctor ipse pietátis, et præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur.

[Dio, nostro rifugio e nostra forza, ascolta favorevolmente le umili preghiere della tua Chiesa, Tu che sei l’autore stesso di ogni pietà, e fa che quanto con fede domandiamo, lo conseguiamo nella realtà.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses

Phil I: 6-11

“Fratres: Confídimus in Dómino Jesu, quia, qui cœpit in vobis opus bonum, perfíciet usque in diem Christi Jesu. Sicut est mihi justum hoc sentíre pro ómnibus vobis: eo quod hábeam vos in corde, et in vínculis meis, et enim defensióne, et confirmatióne Evangélii, sócios gáudii mei omnes vos esse. Testis enim mihi est Deus, quómodo cúpiam omnes vos in viscéribus Jesu Christi. Et hoc oro, ut cáritas vestra magis ac magis abúndet in sciéntia et in omni sensu: ut probétis potióra, ut sitis sincéri et sine offénsa in diem Christi, repléti fructu justítiæ per Jesum Christum, in glóriam et laudem Dei”.

(“Fratelli: Abbiam fiducia nel Signore Gesù, che colui il quale ha cominciato in voi l’opera buona la condurrà a termine fino al giorno di Cristo Gesù. Ed è ben giusto ch’io nutra questi sentimenti per voi tutti; poiché io vi porto in cuore, partecipi come siete del mio gaudio, e nelle mie catene, e nella difesa e nel consolidamento del Vangelo. Mi è, infatti, testimonio Dio come ami voi tutti nelle viscere di Gesù Cristo. E questa è la mia preghiera: che il vostro amore vada crescendo di più in più in cognizione e in ogni discernimento, si da distinguere il meglio, affinché siate puri e incensurati per il giorno di Cristo, ripieni di frutti di giustizia, mediante Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio”).

AUGURI CRISTIANI DI UN APOSTOLO.

Che cosa dobbiamo noi Cristiani desiderare ed augurare a noi stessi e agli altri? dico così: a noi e agli altri, perché dovendo noi amare il prossimo come noi stessi, s’ha da desiderare agli altri ed augurare né più, né meno di quello che desideriamo ed auguriamo a noi. È un problema molto pratico, se si consideri il gran numero d’auguri che per consuetudine antica, si cambiano in mille circostanze diverse, anche fra noi Cristiani. I quali spesso, troppo spesso, ci auguriamo, quello stesso che si augurano fra di loro i pagani, come se il Cristianesimo non esistesse, come se nelle fatti specie non avesse un bel nulla da insegnarci. Opportunissima è al proposito l’Epistola paolina di questa domenica, nella quale San Paolo lascia libero sfogo al suo grande cuore. E dice ai suoi figli, ai Cristiani da lui convertiti, da lui rigenerati al fonte battesimale, quale sia l’oggetto precipuo e costante delle sue preghiere per loro. La preghiera, giova ricordarlo tra parentesi, è la forma cristiana dell’augurio. Il pagano augura, il Cristiano prega. Ordunque che cosa augura e prega il grande Apostolo ai suoi cari? Una carità in un aumento costantemente progressivo. «Chiedo a Dio che la vostra carità abbondi più e più». Che cosa auguriamo noi istintivamente a quelli che amiamo? Lo si sa: salute e felicità. E dicendo salute, quando parliamo il linguaggio comune, fondato sulla comune psicologia, intendiamo la salute del corpo, e la felicità del tempo. Ebbene: noi Cristiani sappiamo che c’è una salute più preziosa della corporea: è la salute dell’anima; c’è una felicità più vera della comunemente intesa, è la felicità spirituale ed eterna. Tutto questo è nella carità. La carità cristiana, amore fervido di Dio e dei fratelli, unico moto con due poli ed estremità, la carità; l’ardore di essa è la vita dell’anima. Si vive di carità; senza essa si muore, muore la parte più vera, più intima, più umana di noi: «qui non diligîit, manet in morte. » E questo amore divino, divino sempre, divino ancora quando sembra diventare umano, è la gioia più profonda ed indistruttibile. L’amore profano con le sue gioie è un abbozzo della gioia che porta nell’anima l’amore celeste. Desiderare la carità agli altri (e a noi) significa desiderare (e chiedere, per conseguenza), la vita, la salute più vera e la felicità più completa. Lo sentiamo noi questo? ne siamo noi veramente convinti? Ecco, se mai, una buona occasione per ridestare in noi questa convinzione, per rettificare nella nostra anima, come dicono oggi, la scala dei valori. In cima a questa benedetta scala, che regola poi in pratica i moti, i voli della nostra anima; in cima la carità. Nella quale non si progredisce mai abbastanza e bisogna progredire sempre. Quando si è convinti della preziosità di una cosa qualsiasi, non se ne ha, non si crede mai di averne abbastanza, se ne desidera sempre di più. La carità è il nostro tesoro per eccellenza, il vero tesoro cristiano. Paolo la desidera, la prega ai fedeli sempre maggiore, in aumento continuo e indefinito. E sempre meglio. Fiamma più ardente e fiamma più pura. Progresso in quantità e in qualità. In che cosa l’Apostolo faccia consistere il miglioramento qualitativo, non è chiarissimo. Ma tra le interpretazioni in cui s’indugiano i critici, gli esegeti, la migliore mi par questa: la nostra carità S. Paolo desidera e prega diventi sempre più conscia (questo significa quello che il testo chiama progresso in scientia), alimentata cioè da una conoscenza sempre più chiara, esatta, profonda di Dio, Signor Nostro. – Meglio si vede una cosa o persona bella e più acceso ne ferve in noi il desiderio, nell’ordine naturale. Lo stesso nell’ordine soprannaturale: più, meglio, si conosce Dio e più e meglio lo si ama. E anche il prossimo nostro lo amiamo tanto più quanto più lo guardiamo, e vediamo in una luce divina colta, afferrata bene dal nostro occhio interiore. Ma lì nel prossimo ci vuol giudizio. San Paolo dice proprio: la carità divina verso Dio sempre più conscia; la carità verso il prossimo sempre più giudiziosa. Non si potrebbe dire di meglio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

  Ps CXXXII: 1-2

Ecce, quam bonum et quam jucúndum, habitáre fratres in unum!

[Oh, come è bello, com’è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme!]

V. Sicut unguéntum in cápite, quod descéndit in barbam, barbam Aaron.

[È come l’unguento versato sul capo, che scende alla barba, la barba di Aronne. ]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CXIII: 11

Qui timent Dóminum sperent in eo: adjútor et protéctor eórum est. Allelúja.

[Quelli che temono il Signore sperino in Lui: Egli è loro protettore e loro rifugio. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt XXII: 15-21

In illo témpore: Abeúntes pharisæi consílium iniérunt, ut cáperent Jesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magíster, scimus, quia verax es et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo: non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis, quid tibi vidétur, licet censum dare Caesari, an non? Cógnita autem Jesus nequítia eórum, ait: Quid me tentátis, hypócritæ? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denárium. Et ait illis Jesus: Cujus est imágo hæc et superscríptio? Dicunt ei: Caesaris. Tunc ait illis: Réddite ergo, quæ sunt Caesaris, Caesari; et, quæ sunt Dei, Deo.

( “In quel tempo, i Farisei ritiratisi, tennero consiglio per coglierlo in parole. E mandano da lui i loro discepoli con degli Erodiani, i quali dissero: Maestro, noi sappiamo che tu sei verace, e insegni la via di Dio secondo la verità, senza badare a chicchessia; imperocché non guardi in faccia gli uomini. Spiegaci adunque il tuo parere: È egli lecito, o no, di pagare il tributo a Cesare? Ma Gesù conoscendo la loro malizia, disse: Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo. Ed essi gli presentarono un danaro. E Gesù disse loro: Di chi è questa immagine e questa iscrizione? Gli risposero: Di Cesare. Allora egli disse loro: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”).

OMELIA

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla restituzione.

Reddito ergo quæ sunt Cæsaris, Cæsari: et quæ sunt Dei, Deo.

(MATTH. XXII, 21).

Dare a Dio quello ch’è di Dio, ed al prossimo quello che gli è dovuto; niente di più giusto, niente di più ragionevole. Se tutti i Cristiani seguissero questa via, l’inferno non avrebbe più alcun abitatore, ed il cielo sarebbe popolato. Ah! volesse Iddio, ci dice il gran S. Ilario, che gli uomini non perdessero mai di vista questo precetto! Ma, ahimè! quanti si illudono! Essi passano la loro vita rubando all’uno, ed ingannando l’altro. Si, F. M., non vi è cosa più comune delle ingiustizie, non vi è cosa più rara delle restituzioni. Il profeta Osea aveva ben ragione di dire che le ingiustizie ed i latrocini coprivano la faccia della terra, e che assomigliavano al diluvio che aveva distrutto l’universo  (Os. IV, 2). E disgraziatamente quanti sono i colpevoli altrettanti sono quelli che non vogliono riconoscersi tali. Mio Dio! quanti ladri farà scoprire la morte! Per convincervene, F. M., vi mostrerò:

1° che i beni di mal acquisto non portano fortuna;

in quanti modi si reca danno al prossimo;

3° come ed a chi dovete restituire ciò che non vi appartiene.

I. — Noi siamo sì ciechi, che passiamo tutta la vita nel cercare di ammassare beni che poi, nostro malgrado, perderemo, e trascuriamo quelli che potremo conservare per tutta l’eternità. Le ricchezze di questo mondo per un Cristiano sono degne soltanto di disprezzo, e noi invece corriamo precisamente dietro ad esse. L’uomo è dunque un insensato, perché agisce in un modo tutto contrario al fine per cui Dio l’ha messo al mondo. Non voglio parlarvi, F. M., di coloro che prestano ad usura, al sette, otto, nove e dieci per cento; lasciamoli da una parte. Bisognerebbe, per far sentir loro tutta l’enormità della loro ingiustizia e crudeltà, che uno di quei vecchi usurai, che da tre o quattro mila anni bruciano nell’inferno, venisse a raccontar loro i tormenti che soffre a causa delle sue innumerevoli ingiustizie. No, non è questo il mio assunto. Costoro sanno che fanno male e che Dio non perdonerà loro mai, se non restituiscono a quelli che hanno danneggiato. Tutto ciò che potrei dire servirebbe soltanto a renderli più colpevoli. Entriamo invece in certi particolari che riguardano la maggior parte dei Cristiani. – Dico anzitutto che i beni acquistati ingiustamente non arricchiscono mai chi li possiede. Al contrario saranno una sorgente di maledizioni per tutta la sua famiglia. Mio Dio! quanto è cieco l’uomo! Egli è perfettamente convinto che viene in questo mondo per brevissimo tempo; ad ogni istante ne vede partir uomini più giovani e più robusti di lui; non importa; ciò non gli fa aprire gli occhi. Può ben dirgli lo Spirito Santo, per bocca di Giobbe, che egli è venuto nel mondo sprovvisto di tutto e che se ne andrà nella stessa condizione (Job I, 21); che tutti questi beni dietro ai quali egli corre, lo abbandoneranno quando meno vi penserà; tutto questo non vale a trattenerlo. S. Paolo afferma che chi vuol diventar ricco per vie ingiuste, non tarderà a cadere in grandi traviamenti; e di più non vedrà mai la faccia di Dio (I Tim. VI, 9). E questo è così vero, che un avaro, od anche, se volete, una persona arricchita per frode o con male arti, senza un miracolo della grazia non si convertirà quasi mai, tanto questo peccato acceca chi lo commette. Ascoltate come san Agostino parla a quelli che ritengono beni altrui (Ep CLIII ad Macedonium, c. VI, 22). Potrete ben confessarvi, dice, far penitenze e piangere i vostri peccati, se non restituite, quando potete, Iddio non vi perdonerà mai. Tutte le vostre confessioni e comunioni non saranno che sacrilegi l’un sopra l’altro. O rendete quello che non è vostro, o risolvetevi di andar a bruciare nell’inferno. Lo Spirito Santo non ci proibisce solo di prendere e desiderare i beni del prossimo, manon vuole nemmeno che li guardiamo nel timore che questa vista vi ci faccia mettere sopra le mani. Il profeta Zaccaria ci dice che la maledizione di Dio resterà sulla casa di chi ruba, fino a che essa non sarà distrutta (Zach. V, 3,4). Ed io aggiungo, che non solo i beni acquistati con frode o con male arti non vi daranno alcun profitto, ma saranno la causa che abbiate da quelli legittimamente acquistati, e che si abbrevino i vostri giorni. Se ne dubitato, ascoltatemi un momento e ne sarete persuasi. Leggiamo nella sacra Scrittura, che il re Acabbo volendo allargare il suo giardino, andò da un uomo chiamato Naboth, per domandargli di vendergli la sua vigna. “No, gli disse Naboth, è l’eredità dei miei padri, e voglio conservarla.„ Il re fu così indispettito per questo rifiuto, che ne ammalò. Non poteva né bere, né mangiare, e si mise a letto. La regina venne, e gli domandò la causa della sua malattia. Le rispose il re che voleva allargare il giardino, e che Naboth erasi rifiutato di vendergli la sua vigna. « Ecchè! disse la regina, dov’è dunque la vostra autorità? Non inquietatevi tanto; io ve la farò avere. E s’affrettò a cercare qualcuno che, corrotto con denaro, testimoniasse che Naboth aveva bestemmiato contro Dio e contro Mosè. Il povero uomo poté ben difendersi, affermando che era innocente del delitto di cui lo si accusava, invano; non gli si volle credere: fu trascinato dalla folla e lapidato. La regina vistolo immerso nel proprio sangue, corse dal re annunciandogli di impossessarsi pure della vigna, poiché colui che aveva ardito rifiutargliela era morto. A questa notizia il re guarì, e corse come un pazzo ad impossessarsi della vigna. Lo sciagurato non pensava che qui appunto l’aspettasse Iddio per punirlo. Il Signore chiamò il suo profeta Elia, e gli ordinò d’andare dal re a dirgli da parte sua che, nel luogo stesso dove i cani avevano leccato il sangue di Naboth, leccherebbero anche il suo, e che nessuno dei suoi figli regnerebbe dopo di lui. Lo mandò poi dalla regina Gezabele per annunziarle che, in punizione del suo delitto, i cani la mangerebbero. Come il profeta aveva predetto, così avvenne. Il re fu ucciso in un combattimento, ed i cani leccarono il suo sangue. Il nuovo re chiamato Jehu, entrando nella città, vide una donna affacciata ad una finestra. Ella s’era vestita come una dea, sperando affascinare il cuore del nuovo re. Questi domandò chi fosse. Gli fu risposto che era la regina Gezabele. Subito comandò di gettarla dalla finestra; e uomini e cavalli la calpestarono sotto i loro piedi. Alla sera, quando si volle darle sepoltura, non si trovò di lei che qualche misero avanzo: i cani avevano mangiato il resto. “Ah! esclamò Jehu, ecco adempiuta la parola del profeta.„ (IV, Reg. IX). Il re Acabbo lasciava settanta figli, tutti principi; il nuovo re ordinò che a tutti fosse mozzata la testa, e che le teste fossero raccolte in panieri alle porte della città, per mostrare con uno spettacolo così orrendo quali disgrazie attirino sui figli le ingiustizie dei genitori (IV, Reg. X, 7). S. Vittore ci racconta un esempio che non è meno sorprendente. Un uomo, egli dice, era entrato nel granaio del suo vicino per rubargli del grano. Nel momento in cui s’impadroniva del sacco, il demonio s’impadronì di lui, e lo trascinò davanti a tutti come se lo portasse all’inferno (Vedere nel RIBADENEIRA, al 26 Febbraio la vita di san Vittore d’Arcis-sur-Aube.). Dio mio, come è cieco l’uomo, che vuol dannarsi per sì poca cosa. – La seconda ragione che ci deve far temere d’impossessarci dei beni altrui, è che questa colpa ci trascina all’inferno. Il profeta Zaccaria dice che, in una visione, Iddio gli fece vedere un libro, dove era scritto che mai i rapitori dei beni altrui vedranno Dio, e che essi saranno gettati nelle fiamme. Eppure, F. M., vi sono alcuni talmente ciechi che preferirebbero morire e dannarsi, anziché restituire le ricchezze mal acquistate, anche se la morte fosse sul punto di strapparle loro dalle mani. Un uomo aveva passato la sua vita rubando e saccheggiando… Aveva appena trent’anni, quando fu preso da una malattia, della quale poi morì. Uno dei suoi amici, vedendo ch’egli non domandava il sacerdote, andò egli stesso a cercarne uno. “Amico, gli dice il prete, mi sembrate molto aggravato. Non pensavate dunque a chiamarmi? Volete confessarvi? — Ah! Reverendo, rispose l’ammalato smarrito, mi credete dunque già spacciato? — Ma, amico, più conoscenza avrete, e meglio riceverete i Sacramenti. — Non me ne parlate; in questo momento sono stanco; quando starò meglio verrò io stesso in chiesa. — No, amico, se aveste a morire senza Sacramenti, ne sarei troppo addolorato. Siccome sono qui, non me ne andrò finché non vi siate confessato.„ Vedendovisi costretto, acconsente; ma come lo fa? come una persona che avendo dei beni altrui non vuol restituirli. Non ne dice nulla… – “Se peggiorerete verrò a portarvi il Viatico.„ Infatti l’ammalato si avvicina alla morte: si corre ad avvertire il prete che il suo penitente sta per spirare, ed egli si affretta ad accorrere. Quando l’ammalato sentì il campanello, domandò che cos’era, e sapendo che il signor Parroco gli portava il Viatico: “Ecché! esclamò, non vi avevo detto, che non volevo riceverlo? Ditegli pure che non venga avanti.„ Frattanto entrò il sacerdote, ed accostandosi al letto di lui, gli dice: “Voi non volete dunque ricevere il buon Dio, che vi consolerebbe, e che vi aiuterebbe a sopportare le vostre pene? — No, no, ho già fatto troppo male. — Ma scandalizzerete tutta la parrocchia. — Eh! che m’importa che tutti sappiano ch’io mi son dannato? — Se non volete ricevere i Sacramenti, non potrete essere sepolto cristianamente. — Un dannato merita forse di essere sepolto tra i santi? Quando il demonio si sarà impossessato della mia maledetta anima, gettate il mio corpo ai lupi, come quello d’un animale… „ E vedendo sua moglie piangente: “Tu piangi? consolati; se mi hai accompagnato per andare di notte a rubare ai vicini, non tarderai a raggiungermi nell’inferno. „ E gridava disperato: “Ah! orrori dell’inferno, aprite i vostri abissi, venite a strapparmi da questo mondo; io non posso più reggere. „ E muore con segni visibili di riprovazione. — Ma, mi direte, egli aveva certo commesso grandi peccati. — Ahimè! amico, se osassi, vi direi ch’egli faceva quello che fate quasi tutti; ora rubava un fascio di legna, ora una bracciata di fieno, ovvero un covone di grano.

II. — Se volessi, F. M., esaminare la condotta di quelli che sono qui presenti, forse non troverei altro che ladri. Vi stupisce questo? Ascoltatemi un momento e converrete con me che ciò è vero. S’io comincio coll’esaminare la condotta dei servitori, li trovo colpevoli verso i padroni e verso i poveri. I servi sono colpevoli verso i padroni e, per conseguenza obbligati a restituire, tutto il tempo di più dell’occorrente che hanno impiegato per riposarsi o che hanno sciupato nelle osterie; se hanno lasciato andar in rovina e rubare i beni dei loro padroni, e se potendo impedirlo non l’abbiano fatto. Parimente, se, un servo offrendo l’opera sua ha assicurato che era capace di far certi lavori, sapendo benissimo ch’egli non li conosceva o padrone della perdita che deriva dalla sua ignoranza o dalla sua debolezza. Di più, ruba ai poveri tutte le volte che spende il denaro nel giuoco, all’osteria, o in altre cose inutili. — Ma, mi direte, questo denaro è mio, è il mio guadagno. — Vi risponderò: Voi avete lavorato per guadagnarlo, è vero; eppure siete colpevoli. Ascoltatemi e capitemi bene. Forse i vostri genitori sono tanto poveri da essere obbligati a ricorrere alla carità pubblica; se voi aveste conservato il vostro guadagno, potreste sollevarli; siete nell’impossibilità di farlo; non è rubare ai poveri? Una serva od un domestico hanno sprecato tutto il loro denaro, l’una nel comperare oggetti di vanità, l’altro nelle osterie e nei giuochi; se il buon Dio manda loro qualche malattia od infermità, sono obbligati di andar all’ospedale a mangiare il pane dei poveri; oppure aspetteranno che una persona caritatevole tenda loro la mano, dando ad essi quello che verrà a mancare ad altri che sono più disgraziati. Se contraggono matrimonio, eccoli ridotti in miseria insieme coi loro figliuoli. Perché tutto questo? Perché da giovani non hanno saputo metter nulla da parte. Non è vero, sorella mia, che se si riflettesse un po’, la vanità non andrebbe tant’alto? E il più desolante si è, che voi non solo sprecate un bene che poi vi mancherà, ma perdete la vostra anima. – Ma ecco un peccato tanto più deplorevole quanto è più comune: quello dei fanciulli e dei servitori che rubano ai loro genitori padroni. I fanciulli non devono mai nulla prendere ai genitori col pretesto che non è abbastanza. Quando i vostri genitori vi hanno nutriti, vestiti ed istruiti, non vi devono più nulla. Del resto quando un ragazzo ruba ai suoi genitori, lo si considera capace di tutto. Tutti lo fuggono e lo disprezzano. Un servo mi dirà: “Non vengo pagato delle mie fatiche, bisogna dunque che mi ricompensi. — Se non siete pagato delle vostre fatiche, amico mio, perché restate presso questi padroni? Quando vi siete presentato, sapevate quale era il vostro guadagno, e quanto potevate meritare; dovevate indirizzarvi dove avreste potuto guadagnare di più. E quelli che ricevono in custodia quanto i servi rubano ai loro padroni od i figli ai genitori, stiano bene attenti! Quando pure quegli oggetti fossero stati presso di loro solo cinque minuti: e quand’anche non ne conoscessero il valore, questi nasconditori sono obbligati a restituirli, sotto pena di dannarsi, se i colpevoli non li restituiscono essi stessi. Alcuni, compreranno qualche oggetto da un figlio di famiglia o da un domestico; ora, quando pure lo pagassero più di quello che vale, sono obbligati di restituire al padrone l’oggetto od il suo valore; altrimenti saranno gettati nell’inferno. Se avete consigliato ad una persona di rubare, quand’anche voi non ne aveste ricavato alcun profitto, se il ladro non restituisce, tocca a voi di farlo; altrimenti è inutile sperare il cielo. I furti più comuni si fanno nelle vendite e nelle compere. Entriamo nei particolari, affinché conosciate il male che avete fatto, e, nel medesimo tempo possiate correggervene. Quando portate a vendere le vostre derrate, vi si domanderà se le vostre uova ed il vostro burro sono freschi, e vi affretterete di rispondere: Sì; mentre sapete benissimo che è vero il contrario. Perché lo dite, se non per rubare due o tre soldi ad una povera madre di famiglia che, forse li ebbe in prestito per preparare il pranzo? Un’altra volta sarà vendendo il cotone. Voi avrete la precauzione di nascondere in mezzo il più piccolo ed il più brutto. Forse direte: Se non facessi così non ne venderei tanto. — Cioè se vi diportaste da buon Cristiano non rubereste come fate. Un’altra volta, vi siete accorto che nel conto vi fu dato più di quanto vi si doveva, ma non avete detto nulla. — Tanto peggio per quella persona; non è mio sbaglio. — Ah! amico mio, verrà un giorno in cui vi si dirà forse con più ragione: Tanto peggio per te!… Il tale vuol comperare da voi del grano, del vino o delle bestie, e vi domanderà se quel grano è buono. Senza esitare l’assicurate di sì. Il vino lo mescolate con dell’altro cattivo e lo vendete come se fosse buono. Se non siete creduto, giurate; e non una, ma anche venti volte date la vostra anima al demonio. Ah amico mio, non fa bisogno che ti affatichi tanto per darti a lui; già da molto tempo gli appartieni! Questa bestia, vi si chiederà, ha qualche difetto? Non dovete ingannarmi; ho preso in prestito questo denaro, e se mi ingannate sono in miseria. — No, no, rispondete, questa bestia è sanissima. Se la vendo, non lo faccio senza rincrescimento; se potessi altrimenti certo non la venderei. Ed infatti la vendete solo perché non val nulla, e non può più servirvi. — Io faccio come fanno tutti; peggio per chi resta ingannato. Sono stato ingannato e cerco d’ingannare, altrimenti perderei troppo. — Ma, amico, gli altri si dannano e bisogna che vi danniate anche voi? gli altri vanno all’inferno, e dovete proprio andarvi insieme? Voi preferite avere qualche soldo di più e andar a bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Ebbene! vi dico che se avete venduto una bestia con dei difetti nascosti, siete obbligati a ricompensare il compratore della perdita che quei difetti possono avergli recato; altrimenti vi dannerete. — Ah! se voi foste al nostro posto, fareste come noi. — Sì, senza dubbio, farei come voi se, come voi, volessi dannarmi; ma, volendo salvarmi, farei tutto il contrario di quello che voi fate. Altri passando per un prato, per un campo di rape, per un orto non si faranno scrupolo di riempire i loro grembiuli di erbe o di rape e di portar via i panieri e le tasche piene di frutta. I genitori vedranno ritornare i figli colle mani piene di cose rubate e li rimprovereranno ridendo: — Ehei! è troppo, sai! — F. M, se rubate ora un soldo, ora due, ben presto avrete accumulato la materia d’un peccato mortale. D’altra parte, potete commettere peccato mortale anche prendendo un centesimo, se avete intenzione di rubare tre lire. Che debbono dunque fare i genitori quando vedono i figli con qualche oggetto rubato? ecco. Debbono obbligarli ad andare essi stessi a restituirli a quelli cui li hanno rubati. Una o due volte basteranno per correggerli. Un esempio mostrerà come dovete essere fedeli in questo. Si racconta che un fanciullo dai nove ai dieci anni cominciava a commettere piccoli furti, come di frutta o d’altre cose di lieve valore. E andò sempre aumentando i suoi furti fino a che più tardi lasciò la vita sul patibolo. Prima di morire, domandò ai giudici, che si facessero venire i suoi genitori; quand’essi furono presenti: “O padre e madre sciagurati, esclamò, voglio che tutti sappiano che voi siete la causa della mia morte infame. Voi siete disonorati davanti al mondo; ma siete dei disgraziati! se m’aveste corretto quando cominciavo a commettere i miei piccoli furti, non avrei certo commessi quelli che mi hanno condotto su questo patibolo. „ Dico, F. M., che i genitori debbono essere molto circospetti riguardo ai loro figli, quando pure dimenticassero di aver un’anima da salvare. Si vede infatti, ordinariamente, che quali sono i genitori, tali sono i figli. Ogni giorno si sente dire: Il tale ha dei figli che ripeteranno quello che ha fatto lui quand’era giovane. — Questo non vi riguarda, mi direte, lasciateci tranquilli, non venite a disturbarci; noi non pensavamo più a questo e voi venite a ricordarcelo. Il fuoco dell’inferno non è dunque abbastanza rigoroso, e l’eternità abbastanza lunga, perché ci facciate soffrire così in questo mondo? — È vero, F. M., ma è perché non vorrei vedervi dannati. — Ebbene, peggio per noi; se noi facciamo il male, non ne porterete voi la pena. — Contenti voi, tanto meglio!… Altra volta, sarà un calzolaio che adopererà cuoio cattivo e filo scadente e lo farà pagare come buono. Oppure sarà un sarto, che col pretesto di non ricevere un buon prezzo di fattura, riterrà senza dir nulla un pezzo di stoffa. Dio mio! quanti ladri scoprirà la morte!… Ovvero un tessitore che guasta una parte del filo, piuttosto di affaticarsi a districarlo; oppure ne metterà di meno e, senza dir nulla, nasconderà quello che gli venne dato. Ecco una donna cui si darà della canapa da filare; essa ne getterà via una parte col pretesto che non è ben pettinata, poi ne nasconderà un poco per sé e, mettendo il filo in un luogo umido, il peso sarà ancora uguale. Essa forse non pensa che questo filo appartiene ad un povero domestico, il quale non potrà servirsene, perché già mezzo marcio: essa, dunque, sarà la causa di molte sue maledizioni contro il padrone che gli avrà dato questa canapa in compenso del salario; un pastore sa benissimo che non è permesso condurre a pascolare in quel prato od in quel bosco; non importa: gli basta non esser visto. Un altro sa che è proibito raccogliere il loglio tra quel grano, perché è fiorito; ed egli guarda se nessuno lo vede e vi entra. Ditemi, F. M., sareste contenti se il vostro vicino facesse così con voi? No, senza dubbio: ebbene credetemi: colui che… Se esaminiamo ora la condotta degli operai, ne troviamo una parte che sono ladri; e ne sarete subito convinti. Se si fanno lavorare a cottimo, sia a zappare, sia a scavare, sia per qualunque altro lavoro, ne faranno male la metà, e non mancheranno di farsi ben pagare. Presi a giornate, si accontentano di lavorar bene quando il padrone li osserva, e poi si mettono a chiacchierare o ad oziare. Un servo non si farà scrupolo di ricevere e trattar bene i suoi amici in assenza dei padroni pur sapendo che essi non lo tollererebbero. Altri fanno grosse elemosine per essere in voce di persone caritatevoli. Non dovrebbero invece farle col loro guadagno che sì spesso sciupano in vanità? Se questo vi è capitato, non dimenticate l’obbligo che avete di restituire a chi spetta quanto avete dato ai poveri all’insaputa e contro la volontà dei vostri padroni. Può esservi pure un primo servo cui il padrone ha affidata la sorveglianza sugli altri domestici o sugli operai, e che, domandato da loro darà ad essi vino o qualche altra cosa: attenti bene: se sapete dare, bisognerà saper restituire sotto pena di dannazione. Un uomo d’affari sarà stato incaricato di comperare del grano, del fieno o della paglia, e dirà al mercante: “Fatemi una quietanza su cui noterete pel mio padrone qualche misura di più di grano; dieci, dodici quintali di paglia e di fieno più di quanto m’avete dato. Ciò non può far danno. „ Ora se quel povero cieco fa una tale quietanza, è obbligato lui stesso a restituire il denaro che quest’uomo fa spendere in più al suo padrone, altrimenti deve risolversi ad andare a bruciare nell’inferno. – Se ci volgiamo ora dalla parte dei padroni, credo che non mancheremo di trovarvi dei ladri. Infatti, quanti padroni non danno ai loro dipendenti tutto ciò che è stato convenuto; e che, avvicinandosi la fine dell’anno fanno ogni possibile per licenziarli affine di non doverli pagare. Se una bestia muore, malgrado tutte le cure da parte di chi ne era incaricato, gliene riterranno il valore sul suo salario; così che quel poveretto avrà lavorato tutto l’anno, ed alla fine si troverà colle mani vuote. Quanti avendo promesso della tela, la faranno fare più corta o di filo peggiore, od anche la fanno aspettare per parecchi anni; così che bisogna citarli in giudizio per obbligarli a pagare. Quanti infine coltivando, falciando, mietendo oltrepassano i propri confini; oppure tagliano al loro vicino un alberello per fare il manico alla zappa, ovvero un vinciglio per legare il covone, o farne una corda per la loro carretta. Non avevo ragione di dire, F. M., che esaminando da vicino la condotta della gente del mondo, non troveremmo altro che ladri e mariuoli? Non mancate di esaminarvi su quanto ho detto; e se la vostra coscienza vi rimorde, affrettatevi a riparare il male che avete fatto, e mentre ne siete ancora in tempo, restituite subito, se potete, od almeno lavorate con tutte le vostre forze per restituire ciò che avete male acquistato. Ricordatevi di dire nelle vostre confessioni quante volte avete trascurato di restituire essendo in grado di farlo; poiché avendovene Dio dato il pensiero, sono tante grazie disprezzate. – Vi parlerò anche d’un furto assai comune nelle famiglie, quando certi eredi, al tempo della divisione, nascondono più roba che possono. Questo è un vero rubare e si è obbligati a restituire, altrimenti si è dannati. Vi ho detto in principio, che nulla è più comune della ingiustizia, e nulla è più raro della restituzione: sono pochi, come vedete, quelli che non hanno nulla sulla coscienza. Ebbene! dove sono quelli che restituiscono? Io non lo so. Eppure, F. M., quantunque siamo obbligati a restituire i beni mal acquistati sotto pena di dannarci, quando lo facciamo Dio non lascia di ricompensarcene. Un esempio ve lo proverà chiaramente. Un fornaio, che da molti anni aveva usato falsi pesi e false misure, volendo acquietare la sua coscienza, consultò il proprio confessore, che lo consigliò di usare, per qualche tempo, pesi un po’ più abbondanti. Essendosene sparsa la voce, il concorso dei clienti diventò grandissimo, e, sebbene guadagnasse poco, Dio permise che restituendo, aumentasse considerevolmente la sua fortuna.

III. — Ora, direte voi, possiamo sperare di conoscere, almeno superficialmente, il modo con cui possiamo commettere ingiustizia. Ma come ed a chi bisogna restituire? — Volete restituire? Ebbene! ascoltatemi un momento e lo saprete. Non bisogna accontentarsi di rendere la metà, né i tre quarti; ma tutto, se lo potete, altrimenti vi dannerete. Vi sono di quelli che, senza cercare il numero delle persone alle quali hanno recato danno, faranno qualche elemosina, o faranno celebrare qualche messa; e dopo questo, si crederanno sicuri in coscienza. È vero, le elemosine e le messe sono buonissime cose, ma bisogna che siano fatte col vostro denaro, e non con quello del vostro prossimo. Questo denaro non è vostro; rendetelo al suo padrone, e poi date del vostro, se volete; farete benissimo. Sapete come chiama queste elemosine S. Gio. Crisostomo? le elemosine di Giuda e del demonio. Quando Giuda ebbe venduto nostro Signore, vedendolo condannato, corse a restituire il denaro ai dottori; questi, sebbene avarissimi, non vollero accettarlo; ne comperarono un campo per seppellirvi i forestieri. — Ma, mi direte, quando i danneggiati sono morti, a chi bisogna restituire? Non si può ritenersi il denaro o darlo ai poveri? Amico, ecco ciò che dovete fare. Se hanno dei figli, dovete restituire a loro; se non ne hanno, ai parenti, agli eredi; se non hanno parenti né eredi, andate dal vostro pastore ed egli vi dirà ciò che dovete fare. Altri dicono: Io ho danneggiato il tale, ma egli è ricchissimo, soccorrerò una persona povera che ha molto maggior bisogno. — Amico, a questa persona date del vostro; ma restituite al vostro prossimo ciò che gli avete rubato. — Egli l’adoprerà malamente. — Ciò non v’importa: dategli il suo, pregate per lui e state tranquillo. Ahimè! oggi la gente del mondo è così avara, così attaccata ai beni della terra, che, credendo di non averne mai abbastanza, fa a chi sarà più accorto ed ingannerà meglio degli altri. Ma voi, F. M., non dimenticatevi che se per colpa vostra ad alcuno avete recato danno, quand’anche aveste dato il doppio ai poveri, se non restituirete al padrone ciò che avete rubato, vi dannerete. Io non so se la vostra coscienza è tranquilla; ne dubito molto … Ho detto che il mondo è pieno di ladri e di imbroglioni. I mercanti rubano ingannando coi pesi e colle misure; essi approfittano della semplicità d’una persona per vendere più caro, e per comperare a miglior prezzo; i padroni rubano ai loro dipendenti facendo perdere loro una parte del salario; altri, facendoli aspettare per un tempo considerevole, diminuendo perfino un giorno di malattia, come se avessero preso il male in casa di un vicino e non al loro servizio!… Da parte loro i domestici rubano ai padroni o non facendo il lavoro stabilito, o lasciandone rovinare colpevolmente gli averi; un operaio si fa pagare mentre il lavoro è fatto per metà. Quelli che tengono le osterie, questi serbatoi d’iniquità, porte d’inferno, calvari dove Gesù Cristo è incessantemente crocifisso, scuole infernali dove satana insegna la sua dottrina, dove si distruggono la religione e la morale, gli osti, dico, rubano il pane d’una povera donna e dei suoi figli dando del vino a questi ubbriaconi, che la domenica sprecano tutto il guadagno della settimana. Un mezzadro distrarrà mille cose per sé, prima di dividere col padrone, e non ne terrà conto. Dio mio, dove siamo? Quante cose da giudicare dopo la morte!… Se la loro coscienza grida troppo forte, costoro andranno dal ministro del Signore. Vorrebbero ottenere la remissione del loro debito; se invece vengono sollecitati a restituire, troveranno mille pretesti per provare che altri hanno recato danno anche a loro e che per ora non possono. Ah! io non so se il buon Dio si accontenterà delle vostre ragioni! Se voleste diminuire un po’ quelle vanità, quelle golosità, quei giuochi; andare un po’ meno all’osteria e al ballo e raddoppiare il vostro lavoro, avreste ben presto pagata una parte dei vostri debiti. Ricordatevi, che se non fate il possibile per restituire a ciascuno quanto gli dovete, qualsiasi penitenza facciate, non tralascerete di cadere nell’inferno: statene sicuri!… Troverete molti così ciechi da dire che i figli lo faranno dopo la loro morte. I vostri figli. amico mio, lo faranno al pari di voi. Del resto, volete che della vostr’anima abbiano più cura i vostri figli di voi? Vi dannerete; ecco ciò che vi toccherà. Ditemi, avete soddisfatto voi piccole ingiustizie dei vostri genitori? Ve ne siete ben guardati, ed i vostri poveri genitori sono all’inferno per non aver restituito quand’erano vivi, fidandosi troppo della vostra buona volontà. Infine, per tagliar corto, quanti tra quelli che m’ascoltano, incaricati dai loro genitori, forse più di venti anni fa, di far elemosine o celebrare messe, l’han fatto? se ne sono ben guardati! Preferiscono allargare le loro possessioni, frequentare i giuochi e le osterie, comperare vanità alle loro figliuole. – S. Antonino racconta che un usuraio preferì morire senza Sacramenti piuttosto che restituire ciò che non gli apparteneva. Egli non aveva che due figli; uno temeva Dio, l’altro no. Quello che si dava pensiero della salute della sua anima fu così commosso dallo stato sciagurato in cui era morto suo padre, che dopo aver usata una parte della sua fortuna per riparare le ingiustizie del padre, si fece monaco per non aver più nulla a cui pensare fuorché a Dio solo. L’altro invece dissipò tutto il suo denaro in stravizi e morì improvvisamente. Ne fu portata la notizia al religioso il quale si mise subito in orazione. Vide in spirito la terra spalancata e, nel suo centro, una profonda voragine da cui uscivano fiamme. In mezzo a queste fiamme suo padre e suo fratello bruciavano e si maledicevano l’un l’altro. Il padre malediceva il figlio, poiché volendo egli lasciargli molte ricchezze, non aveva temuto di dannarsi per lui, ed il figlio rimproverava al padre i cattivi esempi ricevuti. Dovrò io parlarvi di quelli che aspettano fino alla loro morte prima di restituire? Vi proverò con due esempi che, in quel momento, o non lo vorrete, o, quand’anche lo vorreste, non lo potrete più.

1° Non lo vorrete. Si racconta che stando per morire un padre di numerosa famiglia, i suoi figli gli dissero: “Padre, lo sapete, queste ricchezze che ci lasciate, non sono nostre, bisognerebbe restituirle. — Figli miei, disse il padre, se restituissi tutto ciò che non è mio, non vi resterebbe quasi nulla. — Padre, piuttosto che vi danniate, noi preferiamo lavorare per guadagnarci da vivere. — No, figli miei, non voglio restituire; voi non sapete che cos’è l’esser poveri. — Se non restituite, andrete all’inferno. — No, non restituirò nulla. „ E morì dannato… Dio mio! quanto il peccato d’avarizia acceca l’uomo!

2° Ho detto che, in quel momento quand’anche il voleste, non lo potrete. Un missionario racconta che un padre, vedendo la sua fine prossima, fece venire i figli vicino al suo letto, e disse loro: “Figli miei, sapete che io ho danneggiato molta gente; se non restituisco sono perduto. Andate in cerca di un notaio che abbia da ricevere le mie disposizioni. — Ecchè! padre, gli risposero i figli, vorreste disonorare voi e noi, facendovi passare per uomo disonesto? Vorreste ridurci in miseria e costringerci a mendicare il pane? — Ma, figli miei, se non restituisco mi dannerò! „ Ed uno di quegli empi figliuoli non temette di dirgli: “Padre, voi dunque temete l’inferno? Via, si abitua a tutto: in otto giorni vi sarete già avvezzo… „ – Ebbene, F. M., che cosa concluderemo da tutto questo? Che voi siete estremamente ciechi! Voi perdete le vostre anime per lasciare qualche palmo di terra, o un po’ dibeni di fortuna ai vostri figli, i quali lungi, dall’esservene grati, si rideranno di voi, mentre voi brucerete nell’inferno. Finisco dicendo che siamo insensati non pensando che ad ammassare ricchezze, le quali ci rendono infelici mentre le accumuliamo, per tutto il tempo che le possediamo, quando le lasciamo ed anche per tutta l’eternità. Siamo più saggi, F. M., attacchiamoci a quei beni che ci accompagneranno nell’altra vita e formeranno la nostra felicità nei giorni senza fine: ciò che vi auguro…

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Esth XIV: 12; 13

Recordáre mei, Dómine, omni potentátui dóminans: et da sermónem rectum in os meum, ut pláceant verba mea in conspéctu príncipis.

[Ricòrdati di me, o Signore, Tu che dòmini ogni potestà: e metti sulle mie labbra un linguaggio retto, affinché le mie parole siano gradite al cospetto del príncipe.]

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.

[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata sempre vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XVI: 6

Ego clamávi, quóniam exaudísti me, Deus: inclína aurem tuam et exáudi verba mea.

[Ho gridato verso di Te, a ché Tu mi esaudisca, o Dio: porgi il tuo orecchio ed esaudisci le mie parole.]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, sacri dona mystérii, humíliter deprecántes: ut, quæ in tui commemoratiónem nos fácere præcepísti, in nostræ profíciant infirmitátis auxílium.

[Ricevuti, o Signore, i doni di questo sacro mistero, umilmente Ti supplichiamo: affinché ciò che comandasti di compiere in memoria di Te, torni di aiuto alla nostra debolezza.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: SULLA RESTITUZIONE

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla restituzione.

Reddito ergo quæ suntCæsaris, Cæsari: et quæ sunt Dei, Deo.

(MATTH. XXII, 21).

Dare a Dio quello ch’è di Dio, ed al prossimo quello che gli è dovuto; niente di più giusto, niente di più ragionevole. Se tutti i Cristiani seguissero questa via, l’inferno non avrebbe più alcun abitatore, ed il cielo sarebbe popolato. Ah! volesse Iddio, ci dice il gran S. Ilario, che gli uomini non perdessero mai di vista questo precetto! Ma, ahimè! quanti si illudono! Essi passano la loro vita rubando all’uno, ed ingannando l’altro. Si, F. M., non vi è cosa più comune delle ingiustizie, non vi è cosa più rara delle restituzioni. Il profeta Osea aveva ben ragione di dire che le ingiustizie ed i latrocini coprivano la faccia della terra, e che assomigliavano al diluvio che aveva distrutto l’universo  (Os. IV, 2). E disgraziatamente quanti sono i colpevoli altrettanti sono quelli che non vogliono riconoscersi tali. Mio Dio! quanti ladri farà scoprire la morte! Per convincervene, F. M., vi mostrerò:

1° che i beni di mal acquisto non portano fortuna;

in quanti modi si reca danno al prossimo;

3° come ed a chi dovete restituire ciò che non vi appartiene.

I. — Noi siamo sì ciechi, che passiamo tutta la vita nel cercare di ammassare beni che poi, nostro malgrado, perderemo, e trascuriamo quelli che potremo conservare per tutta l’eternità. Le ricchezze di questo mondo per un Cristiano sono degne soltanto di disprezzo, e noi invece corriamo precisamente dietro ad esse. L’uomo è dunque un insensato, perché agisce in un modo tutto contrario al fine per cui Dio l’ha messo al mondo. Non voglio parlarvi, F. M., di coloro che prestano ad usura, al sette, otto, nove e dieci per cento; lasciamoli da una parte. Bisognerebbe, per far sentir loro tutta l’enormità della loro ingiustizia e crudeltà, che uno di quei vecchi usurai, che da tre o quattro mila anni bruciano nell’inferno, venisse a raccontar loro i tormenti che soffre a causa delle sue innumerevoli ingiustizie. No, non è questo il mio assunto. Costoro sanno che fanno male e che Dio non perdonerà loro mai, se non restituiscono a quelli che hanno danneggiato. Tutto ciò che potrei dire servirebbe soltanto a renderli più colpevoli. Entriamo invece in certi particolari che riguardano la maggior parte dei Cristiani. – Dico anzitutto che i beni acquistati ingiustamente non arricchiscono mai chi li possiede. Al contrario saranno una sorgente di maledizioni per tutta la sua famiglia. Mio Dio! quanto è cieco l’uomo! Egli è perfettamente convinto che viene in questo mondo per brevissimo tempo; ad ogni istante ne vede partir uomini più giovani e più robusti di lui; non importa; ciò non gli fa aprire gli occhi. Può ben dirgli lo Spirito Santo, per bocca di Giobbe, che egli è venuto nel mondo sprovvisto di tutto e che se ne andrà nella stessa condizione (Job I, 21); che tutti questi beni dietro ai quali egli corre, lo abbandoneranno quando meno v i penserà; tutto questo non vale a trattenerlo. S. Paolo afferma che chi vuol diventar ricco per vie ingiuste, non tarerà a cadere in grandi traviamenti; e di più non vedrà mai la faccia di Dio (I Tim. VI, 9). È questo è così vero, che un avaro, od anche, se volete, una persona arricchita per frode o con male arti, senza un miracolo della grazia non si convertirà quasi mai, tanto questo peccato acceca chi lo commette. Ascoltate come san Agostino parla a quelli che ritengono beni altrui (Ep CLIII ad Macedonium, c. VI, 22). Potrete ben confessarvi, dice, far penitenze e piangere i vostri peccati, se non restituite, quando potete, Iddio non vi perdonerà mai. Tutte le vostre confessioni e comunioni non saranno che sacrilegi l’un sopra l’altro. O rendete quello che non è vostro, o risolvetevi di andar a bruciare nell’inferno.Lo Spirito Santo non ci proibisce solo di prendere e desiderare i beni del prossimo, manon vuole nemmeno che li guardiamo nel timore che questa vista vi ci faccia mettere sopra le mani. Il profeta Zaccaria ci dice chela maledizione di Dio resterà sulla casa di chi ruba, fino a che essa non sarà distrutta (Zach. V, 3,4). Ed io aggiungo, che non solo i beni acquistati con frode o con male arti non vi daranno alcun profitto,ma saranno la causa che abbiate da perdere anche quelli legittimamente acquistati, e che si abbrevino i vostri giorni. Se ne dubitato, ascoltatemi un momento e ne sarete persuasi. Leggiamo nella sacra Scrittura, che il re Acabbo volendo allargare il suo giardino, andò da un uomo chiamato Naboth, per domandargli di vendergli la sua vigna. “No, gli disse Naboth, è l’eredità dei miei padri, e voglio conservarla.„ Il re fu così indispettito per questo rifiuto, che ne ammalò. Non poteva né bere, né ì mangiare, e si mise a letto. La regina venne, e gli domandò la causa della sua malattia. Le rispose il re che voleva allargare il giardino, e che Naboth erasi rifiutato di vendergli la sua vigna. « Ecchè! disse la regina, dov’è dunque la vostra autorità? Non inquietatevi tanto; io ve la farò avere. E s’affrettò a cercare qualcuno che, corrotto con denaro, testimoniasse che Naboth aveva bestemmiato contro Dio e contro Mosè. Il povero uomo poté ben difendersi, affermando che era innocente del delitto di cui lo si accusava, invano; non gli si volle credere: fu trascinato dalla folla e lapidato. La regina vistolo immerso nel proprio sangue, corse dal re annunciandogli di impossessarsi pure della vigna, poiché colui che aveva ardito rifiutargliela era morto. A questa notizia il re guarì, e corse come un pazzo ad impossessarsi della vigna. Lo sciagurato non pensava che qui appunto l’aspettasse Iddio per punirlo. Il Signore chiamò il suo profeta Elia, e gli ordinò d’andare dal re a dirgli da parte sua che, nel luogo stesso dove i cani avevano leccato il sangue di Naboth, leccherebbero anche il suo, e che nessuno dei suoi figli regnerebbe dopo di lui. Lo mandò poi dalla regina Gezabele per annunziarle che, in punizione del suo delitto, i cani la mangerebbero. Come il profeta aveva predetto, così avvenne. Il re fa ucciso in un combattimento, ed i cani leccarono il suo sangue. Il nuovo re chiamato Jehu, entrando nella città, vide una donna affacciata ad una finestra. Ella s’era vestita come una dea, sperando affascinare il cuore del nuovo re. Questi domandò chi fosse. Gli fu risposto che era la regina Gezabele. Subito comandò di gettarla dalla finestra; e uomini e cavalli la calpestarono sotto i loro piedi. Alla sera, quando si volle darle sepoltura, non si trovò di lei che qualche misero avanzo: i cani avevano mangiato il resto. “Ah! esclamò Jehu, ecco adempiuta la parola del profeta.„ (IV, Reg. IX). Il re Acabbo lasciava settanta figli, tutti principi; il nuovo re ordinò che a tutti fosse mozzata la testa, e che le teste fossero raccolte in panieri alle porte della città, per mostrare con uno spettacolo così orrendo quali disgrazie attirino sui figli le ingiustizie dei genitori (IV, Reg. X, 7) . S. Vittore ci racconta un esempio che non è meno sorprendente. Un uomo, egli dice, era entrato nel granaio del suo vicino per rubargli del grano. Nel momento in cui s’impadroniva del sacco, il demonio s’impadronì di lui, e lo trascinò davanti a tutti come se lo portasse all’inferno (Vedere nel RIBADENEIRA, al 26 Febbraio la vita di san Vittore d’Arcis-sur-Aube.). Dio mio, come è cieco l’uomo, che vuol dannarsi per sì poca cosa. – La seconda ragione che ci deve far temere d’impossessarci dei beni altrui, è che questa colpa ci trascina all’inferno. Il profeta Zaccaria dice che, in una visione, Iddio gli fece vedere un libro, dove era scritto che mai i rapitori dei beni altrui vedranno Dio, e che essi saranno gettati nelle fiamme. Eppure, F. M., vi sono alcuni talmente ciechi che preferirebbero morire e dannarsi, anziché restituire le ricchezze mal acquistate, anche se la morte fosse sul punto di strapparle loro dalle mani. Un uomo aveva passato la sua vita rubando e saccheggiando… Aveva appena trent’anni, quando fu preso da una malattia, della quale poi morì. Uno dei suoi amici, vedendo ch’egli non domandava il sacerdote, andò egli stesso a cercarne uno. “Amico, gli dice il prete, mi sembrate molto aggravato. Non pensavate dunque a chiamarmi? Volete confessarvi? — Ah! Reverendo, rispose l’ammalato smarrito, mi credete dunque già spacciato? — Ma, amico, più conoscenza avrete, e meglio riceverete i Sacramenti. — Non me ne parlate; in questo momento sono stanco; quando starò meglio verrò io stesso in chiesa. — No, amico, se aveste a morire senza Sacramenti, ne sarei troppo addolorato. Siccome sono qui, non me ne andrò finché non vi siate confessato.„ Vedendovisi costretto, acconsente; ma come lo fa? come una persona che avendo dei beni altrui non vuol restituirli. Non ne dice nulla… – “Se peggiorerete verrò a portarvi il Viatico.„ Infatti l’ammalato si avvicina alla morte: si corre ad avvertire il prete che il suo penitente sta per spirare, ed egli si affretta ad accorrere. Quando l’ammalato sentì il campanello, domandò che cos’era, e sapendo che il signor Parroco gli portava il Viatico: “Ecché! esclamò, non vi avevo detto, che non volevo riceverlo? Ditegli pure che non venga avanti.„ Frattanto entrò il sacerdote, ed accostandosi al letto di lui, gli dice: “Voi non volete dunque ricevere il buon Dio, che vi consolerebbe, e che vi aiuterebbe a sopportare le vostre pene? — No, no, ho già fatto troppo male. — Ma scandalizzerete tutta la parrocchia. — Eh! che m’importa che tutti sappiano ch’io mi son dannato? — Se non volete ricevere i Sacramenti, non potrete essere sepolto cristianamente. — Un dannato merita forse di essere sepolto tra i santi? Quando il demonio si sarà impossessato della mia maledetta anima, gettate il mio corpo ai lupi, come quello d’un animale… „ E vedendo sua moglie piangente: “Tu piangi? consolati; se mi hai accompagnato per andare di notte a rubare ai vicini, non tarderai a raggiungermi nell’inferno. „ E gridava disperato: “Ah! orrori dell’inferno, aprite i vostri abissi, venite a strapparmi da questo mondo; io non posso più reggere. „ E muore con segni visibili di riprovazione. — Ma, mi direte, egli aveva certo commesso grandi peccati. — Ahimè! amico, se osassi, vi direi ch’egli faceva quello che fate quasi tutti; ora rubava un fascio di legna, ora una bracciata di fieno, ovvero un covone di grano.

II. — Se volessi, F. M., esaminare la condotta di quelli che sono qui presenti, forse non troverei altro che ladri. Vi stupisce questo? Ascoltatemi un momento e converrete con me che ciò è vero. S’io comincio coll’esaminare la condotta dei servitori, li trovo colpevoli verso i padroni e verso i poveri. I servi sono colpevoli verso i padroni e, per conseguenza obbligati a restituire, tutto il tempo di più dell’occorrente che hanno impiegato per riposarsi o che hanno sciupato nelle osterie; se hanno lasciato andar in rovina e rubare i beni dei loro padroni, e se potendo impedirlo non l’abbiano fatto. Parimente, se, un servo offrendo l’opera sua ha assicurato che era capace di far certi lavori, sapendo benissimo ch’egli non li conosceva o padrone della perdita che deriva dalla sua ignoranza o dalla sua debolezza. Di più, ruba ai poveri tutte le volte che spende il denaro nel giuoco, all’osteria, o in altre cose inutili. — Ma, mi direte, questo denaro è mio, è il mio guadagno. — Vi risponderò: Voi avete lavorato per guadagnarlo, è vero; eppure siete colpevoli. Ascoltatemi e capitemi bene. Forse i vostri genitori sono tanto poveri da essere obbligati a ricorrere alla carità pubblica; se voi aveste conservato il vostro guadagno, potreste sollevarli; siete nell’impossibilità di farlo; non è rubare ai poveri? Una serva od un domestico hanno sprecato tutto il loro denaro, l’una nel comperare oggetti di vanità, l’altro nelle osterie e nei giuochi; se il buon Dio manda loro qualche malattia od infermità, sono obbligati di andar all’ospedale a mangiare il pane dei poveri; oppure aspetteranno che una persona caritatevole tenda loro la mano, dando ad essi quello che verrà a mancare ad altri che sono più disgraziati. Se contraggono matrimonio, eccoli ridotti in miseria insieme coi loro figliuoli. Perché tutto questo? Perché da giovani non hanno saputo metter nulla da parte. Non è vero, sorella mia, che se si riflettesse un po’, la vanità non andrebbe tant’alto? E il più desolante si è, che voi non solo sprecate un bene che poi vi mancherà, ma perdete la vostra anima. – Ma ecco un peccato tanto più deplorevole quanto è più comune: quello dei fanciulli e dei servitori che rubano ai loro genitori padroni. I fanciulli non devono mai nulla prendere ai genitori col pretesto che non è abbastanza. Quando i vostri genitori vi hanno nutriti, vestiti ed istruiti, non vi devono più nulla. Del resto quando un ragazzo ruba ai suoi genitori, lo si considera capace di tutto. Tutti lo fuggono e lo disprezzano. Un servo mi dirà: “Non vengo pagato delle mie fatiche, bisogna dunque che mi ricompensi. — Se non siete pagato delle vostre fatiche, amico mio, perché restate presso questi padroni? Quando vi siete presentato, sapevate quale era il vostro guadagno, e quanto potevate meritare; dovevate indirizzarvi dove avreste potuto guadagnare di più. E quelli che ricevono in custodia quanto i servi rubano ai loro padroni od i figli ai genitori, stiano bene attenti! Quando pure quegli oggetti fossero stati presso di loro solo cinque minuti: e quand’anche non ne conoscessero il valore, questi nasconditori sono obbligati a restituirli, sotto pena di dannarsi, se i colpevoli non li restituiscono essi stessi. Alcuni, compreranno qualche oggetto da un figlio di famiglia o da un domestico; ora, quando pure lo pagassero più di quello che vale, sono obbligati di restituire al padrone l’oggetto od il suo valore; altrimenti saranno gettati nell’inferno. Se avete consigliato ad una persona di rubare, quand’anche voi non ne aveste ricavato alcun profitto, se il ladro non restituisce, tocca a voi di farlo; altrimenti è inutile sperare il cielo. I furti più comuni si fanno nelle vendite e nelle compere. Entriamo nei particolari, affinché conosciate il male che avete fatto, e, nel medesimo tempo possiate correggervene. Quando portate a vendere le vostre derrate, vi si domanderà se le vostre uova ed il vostro burro sono freschi, e vi affretterete di rispondere: Sì; mentre sapete benissimo che è vero il contrario. Perché lo dite, se non per rubare due o tre soldi ad una povera madre di famiglia che, forse li ebbe in prestito per preparare il pranzo? Un’altra volta sarà vendendo il cotone. Voi avrete la precauzione di nascondere in mezzo il più piccolo ed il più brutto. Porse direte: Se non facessi così non ne venderei tanto. — Cioè se vi diportaste da buon Cristiano non rubereste come fate. Un’altra volta, vi siete accorto che nel conto vi fu dato più di quanto vi si doveva, ma non avete detto nulla. — Tanto peggio per quella persona; non è mio sbaglio. — Ah! amico mio, verrà un giorno in cui vi si dirà forse con più ragione: Tanto peggio per te!… Il tale vuol comperare da voi del grano, del vino o delle bestie, e vi domanderà se quel grano è buono. Senza esitare l’assicurate di sì. Il vino lo mescolate con dell’altro cattivo e lo vendete come se fosse buono. Se non siete creduto, giurate; e non una, ma anche venti volte date la vostra anima al demonio. Ah amico mio, non fa bisogno che ti affatichi tanto per darti a lui; già da molto tempo gli appartieni! Questa bestia, vi si chiederà, ha qualche difetto? Non dovete ingannarmi; ho preso in prestito questo denaro, e se mi ingannate sono in miseria. — No, no, rispondete, questa bestia è sanissima. Se la vendo, non lo faccio senza rincrescimento; se potessi altrimenti certo non la venderei. Ed infatti la vendete solo perché non val nulla, e non può più servirvi. — Io faccio come fanno tutti; peggio per chi resta ingannato. Sono stato ingannato e cerco d’ingannare, altrimenti perderei troppo. — Ma, amico, gli altri si dannano e bisogna che vi danniate anche voi? gli altri vanno all’inferno, e dovete proprio andarvi insieme? Voi preferite avere qualche soldo di più e andar a bruciare nell’inferno per tutta l’eternità? Ebbene! vi dico che se avete venduto una bestia con dei difetti nascosti, siete obbligati a ricompensare il compratore della perdita che quei difetti possono avergli recato; altrimenti vi dannerete. — Ah! se voi foste al nostro posto, fareste come noi. — Sì, senza dubbio, farei come voi se, come voi, volessi dannarmi; ma, volendo salvarmi, farei tutto il contrario di quello che voi fate. Altri passando per un prato, per un campo di rape, per un orto non si faranno scrupolo di riempire i loro grembiuli di erbe o di rape e di portar via i panieri e le tasche piene di frutta. I genitori vedranno ritornare i figli colle mani piene di cose rubate e li rimprovereranno ridendo: — Ehei! è troppo, sai! — F. M, se rubate ora un soldo, ora due, ben presto avrete accumulato la materia d’un peccato mortale. D’altra parte, potete commettere peccato mortale anche prendendo un centesimo, se avete intenzione di rubare tre lire. Che debbono dunque fare i genitori quando vedono i figli con qualche oggetto rubato? ecco. Debbono obbligarli ad andare essi stessi a restituirli a quelli cui li hanno rubati. Una o due volte basteranno per correggerli. Un esempio mostrerà come dovete essere fedeli in questo. Si racconta che un fanciullo dai nove ai dieci anni cominciava a commettere piccoli furti, come di frutta o d’altre cose di lieve valore. E andò sempre aumentando i suoi furti fino a che più tardi lasciò la vita sul patibolo. Prima di morire, domandò ai giudici, che si facessero venire i suoi genitori; quand’essi furono presenti: “O padre e madre sciagurati, esclamò, voglio che tutti sappiano che voi siete la causa della mia morte infame. Voi siete disonorati davanti al mondo; ma siete dei disgraziati! se m’aveste corretto quando cominciavo a commettere i miei piccoli furti, non avrei certo commessi quelli che mi hanno condotto su questo patibolo. „ Dico, F. M., che i genitori debbono essere molto circospetti riguardo ai loro figli, quando pure dimenticassero di aver un’anima da salvare. Si vede infatti, ordinariamente, che quali sono i genitori, tali sono i figli. Ogni giorno si sente dire: Il tale ha dei figli che ripeteranno quello che ha fatto lui quand’era giovane. — Questo non vi riguarda, mi direte, lasciateci tranquilli, non venite a disturbarci; noi non pensavamo più a questo e voi venite a ricordarcelo. Il fuoco dell’inferno non è dunque abbastanza rigoroso, e l’eternità abbastanza lunga, perché ci facciate soffrire così in questo mondo? — E vero, F. M., ma è perché non vorrei vedervi dannati. — Ebbene, peggio per noi; se noi facciamo il male, non ne porterete voi la pena. — Contenti voi, tanto meglio!… Altra volta, sarà un calzolaio che adopererà cuoio cattivo e filo scadente e lo farà pagare come buono. Oppure sarà un sarto, che col pretesto di non ricevere un buon prezzo di fattura, riterrà senza dir nulla un pezzo di stoffa. Dio mio! quanti ladri scoprirà la morte!… Ovvero un tessitore che guasta una parte del filo, piuttosto di affaticarsi a districarlo; oppure ne metterà di meno e, senza dir nulla, nasconderà quello che gli venne dato. Ecco una donna cui si darà della canapa da filare; essa ne getterà via una parte col pretesto che non è ben pettinata, poi ne nasconderà un poco per sé e, mettendo il filo in un luogo umido, il peso sarà ancora uguale. Essa forse non pensa che questo filo appartiene ad un povero domestico, il quale non potrà servirsene, perché già mezzo marcio: essa, dunque, sarà la causa di molte sue maledizioni contro il padrone che gli avrà dato questa canapa in compenso del salario; Un pastore sa benissimo che non è permesso condurre a pascolare in quel prato od in quel bosco; non importa: gli basta non esser visto. Un altro sa che è proibito raccogliere il loglio tra quel grano, perché è fiorito; ed egli guarda se nessuno lo vede e vi entra. Ditemi, F. M., sareste contenti se il vostro vicino facesse così con voi? No, senza dubbio: ebbene credetemi: colui che… Se esaminiamo ora la condotta degli operai, ne troviamo una parte che sono ladri; e ne sarete subito convinti. Se si fanno lavorare a cottimo, sia a zappare, sia a scavare, sia per qualunque altro lavoro, ne faranno male la metà, e non mancheranno di farsi ben pagare. Presi a giornate, si accontentano di lavorar bene quando il padrone li osserva, e poi si mettono a chiacchierare o ad oziare. Un servo non si farà scrupolo di ricevere e trattar bene i suoi amici in assenza dei padroni pur sapendo che essi non lo tollererebbero. Altri fanno grosse elemosine per essere in voce di persone caritatevoli Non dovrebbero invece farle col loro guadagno che sì spesso sciupano in vanità? Se questo vi è capitato, non dimenticate l’obbligo che avete di restituire a chi spetta quanto avete dato ai poveri all’insaputa e contro la volontà dei vostri padroni. Può esservi pure un primo servo cui il padrone ha affidata la sorveglianza sugli altri domestici o sugli operai, e che, domandato da loro darà ad essi vino o qualche altra cosa: attenti bene: se sapete dare, bisognerà sapier restituire sotto pena di dannazione. Un uomo d’affari sarà stato incaricato di comperare del grano, del fieno o della paglia, e dirà al mercante: “Fatemi una quietanza su cui noterete pel mio padrone qualche misura di più di grano; dieci, dodici quintali di paglia e di fieno più di quanto m’avete dato. Ciò non può far danno. „ Ora se quel povero cieco fa una tale quietanza, è obbligato lui stesso a restituire il denaro che quest’uomo fa spendere in più al suo padrone, altrimenti deve risolversi ad andare a bruciare nell’inferno. – Se ci volgiamo ora dalla parte dei padroni, credo che non mancheremo di trovarvi dei ladri. Infatti, quanti padroni non danno ai loro dipendenti tutto ciò che è stato convenuto; e che, avvicinandosi la fine dell’anno fanno ogni possibile per licenziarli affine di non doverli pagare. Se una bestia muore, malgrado tutte le cure da parte di chi ne era incaricato, gliene riterranno il valore sul suo salario; così che quel poveretto avrà lavorato tutto l’anno, ed alla fine si troverà colle mani vuote. Quanti avendo promesso della tela, la faranno fare più corta o di filo peggiore, od anche la fanno aspettare per parecchi anni; così che bisogna citarli in giudizio per obbligarli a pagare. Quanti infine coltivando, falciando, mietendo oltrepassano i propri confini; oppure tagliano al loro vicino un alberello per fare il manico alla zappa, ovvero un vinciglio per legare il covone, o farne una corda per la loro carretta. Non avevo ragione di dire, F. M., che esaminando da vicino la condotta della gente del mondo, non troveremmo altro che ladri e mariuoli? Non mancate di esaminarvi su quanto ho detto; e se la vostra coscienza vi rimorde, affrettatevi a riparare il male che avete fatto, e mentre ne siete ancora in tempo, restituite subito, se potete, od almeno lavorate con tutte le vostre forze per restituire ciò che avete male acquistato. Ricordatevi di dire nelle vostre confessioni quante volte avete trascurato di restituire essendo in grado di farlo; poiché avendovene Dio dato il pensiero, sono tante grazie disprezzate. – Vi parlerò anche d’un furto assai comune nelle famiglie, quando certi eredi, al tempo della divisione, nascondono più roba che possono. Questo è un vero rubare e si è obbligati a restituire, altrimenti si è dannati. Vi ho detto in principio, che nulla è più comune della ingiustizia, e nulla è più raro della restituzione: sono pochi, come vedete, quelli che non hanno nulla sulla coscienza. Ebbene! dove sono quelli che restituiscono? Io non lo so. Eppure, F. M., quantunque siamo obbligati a restituire i beni mal acquistati sotto pena di dannarci, quando lo facciamo Dio non lascia di ricompensarcene. Un esempio ve lo proverà chiaramente. Un fornaio, che da molti anni aveva usato falsi pesi e false misure, volendo acquetare la sua coscienza, consultò il proprio confessore, che lo consigliò di usare, per qualche tempo, pesi un po’ più abbondanti. Essendosene sparsa la voce, il concorso dei clienti diventò grandissimo, e, sebbene guadagnasse poco, Dio permise che restituendo, aumentasse considerevolmente la sua fortuna.

III. — Ora, direte voi, possiamo sperare di conoscere, almeno superficialmente, il modo con cui possiamo commettere ingiustizia. Ma come ed a chi bisogna restituire? — Volete restituire? Ebbene! ascoltatemi un momento e lo saprete. Non bisogna accontentarsi di rendere la metà, né i tre quarti; ma tutto, se lo potete, altrimenti vi dannerete. Vi sono di quelli che, senza cercare il numero delle persone alle quali hanno recato danno, faranno qualche elemosina, o faranno celebrare qualche messa; e dopo questo, si crederanno sicuri in coscienza. È vero, le elemosine e le messe sono buonissime cose, ma bisogna che siano fatte col vostro denaro, e non con quello del vostro prossimo. Questo denaro non è vostro; rendetelo al suo padrone, e poi date del vostro, se volete; farete benissimo. Sapete come chiama queste elemosine S. Gio. Crisostomo? le elemosine di Giuda e del demonio. Quando Giuda ebbe venduto nostro Signore, vedendolo condannato, corse a restituire il denaro ai dottori; questi, sebbene avarissimi, non vollero accettarlo; ne comperarono un campo per seppellirvi i forestieri. — Ma, mi direte, quando i danneggiati sono morti, a chi bisogna restituire? Non si può ritenersi il denaro o darlo ai poveri? Amico, ecco ciò che dovete fare. Se hanno dei figli, dovete restituire a loro; se non ne hanno, ai parenti, agli eredi; se non hanno parenti né eredi, andate dal vostro pastore ed egli vi dirà ciò che dovete fare. Altri dicono: Io ho danneggiato il tale, ma egli è ricchissimo, soccorrerò una persona povera che ha molto maggior bisogno. — Amico, a questa persona date del vostro; ma restituite al vostro prossimo ciò che gli avete rubato. — Egli l’adoprerà malamente. — Ciò non v’importa: dategli il suo, pregate per lui e state tranquillo. Ahimè! oggi la gente del mondo è così avara, così attaccata ai beni della terra, che, credendo di non averne mai abbastanza, fa a chi sarà più accorto ed ingannerà meglio degli altri. Ma voi, F. M., non dimenticatevi che se per colpa vostra ad alcuno avete recato danno, quand’anche aveste dato il doppio ai poveri, se non restituirete al padrone ciò che avete rubato, vi dannerete. Io non so se la vostra coscienza è tranquilla; ne dubito molto … Ho detto che il mondo è pieno di ladri e di imbroglioni. I mercanti rubano ingannando coi pesi e colle misure; essi approfittano della semplicità d’una persona per vendere più caro, e per comperare a miglior prezzo; i padroni rubano ai loro dipendenti facendo perdere loro una parte del salario; altri, facendoli aspettare per un tempo considerevole, diminuendo perfino un giorno di malattia, come se avessero preso il male in casa di un vicino e non al loro servizio!… Da parte loro i domestici rubano ai padroni o non facendo il lavoro stabilito, o lasciandone rovinare colpevolmente gli averi; un operaio si fa pagare mentre il lavoro è fatto per metà. Quelli che tengono le osterie, questi serbatoi d’iniquità, porte d’inferno, calvari dove Gesù Cristo è incessantemente crocifisso, scuole infernali dove satana insegna la sua dottrina, dove si distruggono la religione e la morale, gli osti, dico, rubano il pane d’una povera donna e dei suoi figli dando del vino a questi ubbriaconi, che la domenica sprecano tutto il guadagno della settimana. Un mezzadro distrarrà mille cose per sé, prima di dividere col padrone, e non ne terrà conto. Dio mio, dove siamo? Quante cose da giudicare dopo la morte!… Se la loro coscienza grida troppo forte, costoro andranno dal ministro del Signore. Vorrebbero ottenere la remissione del loro debito; se invece vengono sollecitati a restituire, troveranno mille pretesti per provare che altri hanno recato danno anche a loro e che per ora non possono. Ah! io non so se il buon Dio si accontenterà delle vostre ragioni! Se voleste diminuire un po’ quelle vanità, quelle golosità, quei giuochi; andare un po’ meno all’osteria e al ballo e raddoppiare il vostro lavoro, avreste ben presto pagata una parte dei vostri debiti. Ricordatevi, che se non fate il possibile per restituire a ciascuno quanto gli dovete, qualsiasi penitenza facciate, non tralascerete di cadere nell’inferno: statene sicuri!… Troverete molti così ciechi da dire che i figli lo faranno dopo la loro morte. I vostri figli. amico mio, lo faranno al pari di voi. Del resto, volete che della vostr’anima abbiano più cura i vostri figli di voi? Vi dannerete; ecco ciò che vi toccherà. Ditemi, avete soddisfatto voi piccolo ingiustizie dei vostri genitori? Ve ne siete ben guardati, ed i vostri poveri genitori sono all’inferno per non aver restituito quand’erano vivi, fidandosi troppo della vostra buona volontà. Infine, per tagliar corto, quanti tra quelli che m’ascoltano, incaricati dai loro genitori, forse più di venti anni fa, di far elemosine o celebrare messe, l’han fatto? se ne sono ben guardati! Preferiscono allargare le loro possessioni, frequentare i giuochi e le osterie, comperare vanità alle loro figliuole. – S. Antonino racconta che un usuraio preferì morire senza Sacramenti piuttosto che restituire ciò che non gli apparteneva. Egli non aveva che due figli; uno temeva Dio, l’altro no. Quello che si dava pensiero della salute della sua anima fu così commosso dallo stato sciagurato in cui era morto suo padre, che dopo aver usata una parte della sua fortuna per riparare le ingiustizie del padre, si fece monaco per non aver più nulla a cui pensare fuorché a Dio solo. L’altro invece dissipò tutto il suo denaro in stravizi e morì improvvisamente. Ne fu portata la notizia al religioso il quale si mise subito in orazione. Vide in spirito la terra spalancata e, nel suo centro, una profonda voragine da cui uscivano fiamme. In mezzo a queste fiamme suo padre e suo fratello bruciavano e si maledicevano l’un l’altro. Il padre malediceva il figlio, poiché volendo egli lasciargli molte ricchezze, non aveva temuto di dannarsi per lui, ed il figliò rimproverava al padre i cattivi esempi ricevuti. Dovrò io parlarvi di quelli che aspettano fino alla loro morte prima di restituire? Vi proverò con due esempi che, in quel momento, o non lo vorrete, o, quand’anche lo vorreste, non lo potrete più.

1° Non lo vorrete. Si racconta che stando per morire un padre di numerosa famiglia, i suoi figli gli dissero: “Padre, lo sapete, queste ricchezze che ci lasciate, non sono nostre, bisognerebbe restituirle. — Figli miei, disse il padre, se restituissi tutto ciò che non è mio, non vi resterebbe quasi nulla. — Padre, piuttosto che vi danniate, noi preferiamo lavorare per guadagnarci da vivere. — No, figli miei, non voglio restituire; voi non sapete che cos’è l’esser poveri. — Se non restituite, andrete all’inferno. — No, non restituirò nulla. „ E morì dannato… Dio mio! quanto il peccato d’avarizia acceca l’ uomo!

2° Ho detto che, in quel momento quand’anche il voleste, non lo potrete. Un missionario racconta che un padre, vedendo la sua fine prossima, fece venire i figli vicino al suo letto, e disse loro: “Figli miei, sapete che io ho danneggiato molta gente; se non restituisco sono perduto. Andate in cerca di un notaio che abbia da ricevere le mie disposizioni. — Ecchè! padre, gli risposero i figli, vorreste disonorare voi e noi, facendovi passare per uomo disonesto? Vorreste ridurci in miseria e costringerci a mendicare il pane? — Ma, figli miei, se non restituisco mi dannerò! „ Ed uno di quegli empi figliuoli non temette di dirgli: “Padre, voi dunque temete l’inferno? Via, si abitua a tutto: in otto giorni vi sarete già avvezzo… „ – Ebbene, F. M., che cosa concluderemo da tutto questo? Che voi siete estremamente ciechi! Voi perdete le vostre anime per lasciare qualche palmo di terra, o un po’ di beni di fortuna ai vostri figli, i quali lungi, dall’esservene grati, si rideranno di voi, mentre voi brucerete nell’inferno. Finisco dicendo che siamo insensati non pensando che ad ammassare ricchezze, le quali ci rendono infelici mentre le accumuliamo, per tutto il tempo che le possediamo, quando le lasciamo ed anche per tutta l’eternità. Siamo più saggi, F. M., attacchiamoci a quei beni che ci accompagneranno nell’altra vita e formeranno la nostra felicità nei giorni senza fine: ciò che vi auguro…

LO SCUDO DELLA FEDE (178)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIV)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VIII. — Il mistero della Grazia.

D. Dicevi testè che la Redenzione non è resa effettiva se non per la restituzione della vita soprannaturale perduta per la colpa. In che consiste esattamente questa vita?

R. L’abbiamo espressa in una sola parola: la grazia. Lì sta il fatto essenziale del Cristianesimo, quello in vista del quale sono istituiti o ci sono rivelati tutti gli altri.

D. Ed è anche un mistero?

R. È un mistero affatto segreto che Dio solo ci può rivelare, e siamo noi stessi uno di questi segreti, sia nella nostra natura profonda, sia in ciò che Dio ne vuol fare.

D. La grazia è dunque un disegno di Dio?

R. È il suo disegno essenziale, ed è poi un fatto.

D. Qual disegno? Quale fatto?

È. Il disegno è di farci figliuoli di Dio in un senso nuovo che la natura non comportava punto, che la pura filosofia deista ignora, e che è propriamente la buona novella evangelica, espressa da queste parole di S. Giovanni: « A tutti quelli che hanno creduto, Egli diede il potere di diventare figliuoli di Dio, a quelli che credono nel suo Nome, e che, non dal sangue e dalla volontà della carne, né dalla volontà dell’uomo, ma da Dio, son nati » (Prologo).

D. Bisogna dunque nascere di nuovo?

R. Tu poni la questione di Nicodemo, quando venne di nottetempo a interrogare Gesù sulla sua dottrina: io non posso che ripeterti la risposta di Gesù a Nicodemo: « Nessuno, se non rinasce dall’acqua e dallo Spirito, può entrare nel regno di Dio ».

D. Tu dici che lì sta l’essenziale? Io credevo che l’essenziale del Cristianesimo fosse nell’adesione a Cristo.

R. L’adesione a Cristo non ha ragione di essere e non vuole altro effetto che l’effusione in noi dei doni divini che Cristo ha ricevuto per il genere umano. Cristo è il « Ceppo », e noi siamo i tralci, e il ceppo non è fatto che per i tralci e per i grappoli. Quando riceviamo la grazia, noi diamo a Cristo la sua ragione di essere con quella della nostra adesione. La Trinità non ci fu rivelata se non come la sorgente di questo fatto, l’Incarnazione come il suo agente, la Redenzione come la sua condizione e il suo prezzo. La Chiesa, con tutto quello che porta in sé, ne sarà lo strumento.

D. Vuoi precisarmi che cosa è la grazia?

R. Si chiama grazia, in generale, ogni favore che Dio ci fa, nell’ordine soprannaturale in cui ci ha collocati. Vi sono delle grazie esteriori, come la Redenzione stessa, gli esempi e le esortazioni di Gesù Cristo o dei Santi, il ministero della Chiesa, etc. Ce ne sono delle interiori, come i doni di lume e gli stimoli segreti che ci spingono al bene. In questo dominio segreto, si distinguono due sorta di grazie: la grazia abituale, o santificante, che si può conservare o perdere, ma che, per sé, ci è data per sempre, e le grazie attuali, destinate a procurare atti virtuosi.

D. Queste sono divisioni; io domandavo che cosa è veramente la grazia in sé, e che cosa tu intendi per quest’ordine soprannaturale di cui si tratta dall’inizio dei nostri discorsi.

E. Io aspettavo questo momento per spiegarmi in proposito, e la Spiegazione chiarirà, come spero, tutto quello che abbiamo detto, come quello che deve seguire.

D. La grazia deve affiliarci a Dio?

R. Noi siamo dei figli di Dio per natura; la creazione di cui abbiamo stabilito la nozione precisa, ci mette in relazione necessaria e permanente col nostro Principio. Ma la relazione tra due esseri può essere più o meno stretta, e quando si tratta di relazioni che arricchiscono, come quelle che ci rilegano a Dio, la ricchezza può essere più o meno preziosa e appartenere ad ordini diversissimi. La creazione ci arricchisce per se stessa del nostro essere e della nostra natura ragionevole; ci dà un corpo ed un’anima, delle facoltà vitali, dei poteri di sensazione e di pensiero; ci assegna in sorte la cognizione e l’uso di questo mondo, e inoltre, per la filosofia nel suo più alto insegnamento o per istinto religioso che la sostituisce, il conoscimento astratto e il culto ragionevole del divino.

D. Non basta questo?

R. Noi non possiamo spingerci più lontano del fatto della nostra natura stessa e del suo funzionamento proprio. Ma, osserva S. Tommaso, dovunque noi vediamo delle nature coordinate, ciascuna di esse, oltre il suo movimento proprio, ubbidisce a un movimento che le è impresso dalla natura superiore. In questo modo il mare, lasciato a se stesso si estende a guisa di velo e sposa la forma del suo pianeta; ma gli astri lo attirano e, gonfiando la sua massa, producono il fenomeno delle maree, che non gli è naturale se non lo si considera come in composizione con gli astri. Ora, aggiunge egli, l’uomo è rilegato a Dio per la sua attività intelligente, poiché l’intelligenza gli permette di raggiungere l’universale a proposito degli oggetti dell’esperienza, mettendolo per questo solo, sulla strada del principio dell’universale, che è il Primo Principio. Sarà dunque normale e conforme ad un’induzione costante che la natura umana si sviluppi sopra un duplice piano. Quello che la sua natura determina, tal quale ce la rivela l’analisi, e quello al quale vorrà elevarlo quel motore supremo, buono e magnifico, che noi chiamiamo Dio.

D. Questa teoria è interessante; è propria di S. Tommaso d’Aquino?

R. Essa era stata abbozzata da parecchi filosofi dell’antichità. Aristotile ne fornì i lineamenti nella sua celebre interpretazione del genio, genio dell’intelligenza o genio della virtù, che, secondo lui, non sarebbe altro che un’irruzione subitanea del divino che si sostituisce ai nostri ragionamenti e alle nostre prudenze, per portarci più in alto e più lontano. La Morale di Eudemo, uscita immediatamente dalla sua intelligenza, ci presenta a questo proposito una pagina mirabile, e Plutarco, in cui si trova un riflesso di ciò che vi è di meglio nella filosofia antica, scrisse nel Banchetto dei sette sapienti questo passo meraviglioso che suscitava in Gratry l’entusiasmo: «Il corpo è lo strumento dell’anima e l’anima è io strumento di Dio. E come il corpo ha dei movimenti che gli sono proprii, ma ne ha altri più belli che gli vengono dall’anima, così l’anima ha il suo ordine proprio d’azioni e di movimenti, ma può anche, come il più perfetto degli strumenti, lasciarsi dirigere e muovere da Dio, che agisce in lei. Che se il fuoco, il vento, l’acqua, le nubi sono strumenti di Dio per la vita e per la morte, chi crederà che gli esseri viventi non si possano adattare alla forza di Dio, e lavorare con questa forza, e ispirarsi ai movimenti di Dio, come la freccia ubbidisce agli Sciti e la lira agli Elleni? ».

D. È evidentemente la teoria di S. Tommaso.

R. Bada bene; S. Tommaso ne fa un uso assai più ardito, sostenuto dalle rivelazioni evangeliche, donde vengono per noi le certezze e le ispirazioni superiori. Ciò che l’antichità sospetta, è che Dio opera in noi per portarci più lontano che non potremmo andare da noi stessi, per esempio, per farci vedere, nelle ore d’ispirazione, quello che rimane oscuro alla nostra intelligenza ragionante; per alzarci, in quello slancio che noi chiamiamo eroismo, al di sopra della debolezza del nostro volere. Ma i dominii di vita in cui quest’azione complementare ci spinge, sono nondimeno dei dominii del nostro ordine umano; quello che a noi ne verrà sarà della stessa natura che i risultati ottenuti da sforzi virili. La nostra vita resta nella sua essenza, nelle sue operazioni naturali, nel suo valore d’oggetti; non è cambiato altro che l’ampiezza del gesto, e noi non diventiamo divini pur essendo mossi così dalla Divinità.

D. Perché diventare divini?

R. Così vuole la divina munificenza, e ciò non avviene, ho detto, senza una profonda armonia con la nostra natura. «Il Vangelo soddisfa la coscienza perché la oltrepassa», serive Carlo Secrétan.

D. Tu dici dunque, lasciando l’antichità

E. Che il pensiero cristiano va più oltre; che esso intende di unirci a Dio non più solo come il mobile al suo motore, restando ciascuno dei due nel suo ordine, ma nel modo intimo che permetterà la comunicazione delle vite, in tal maniera che i pensieri e gli amori siano comuni, le vite mescolate, gli oggetti identici, e che io, Cristiano, possa sentire, o ad ogni modo riconoscere « qualcuno che sia in me più me stesso di me» (PAOLO CLAUDEL).

D. Non capisco una tale pretesa.

R. Rappresentati la gamma delle relazioni supponibili tra Dio e la sua creatura. L’uno degli estremi è abbastanza bene rappresentato dal razionalismo deista, il quale vede Dio che interviene nelle nostre vite soltanto per l’intermedio delle leggi generali. L’altro estremo sarebbe fornito dal panteismo, che confonde Dio e l’uomo nell’unità d’una stessa sostanza. Tra i due c’è posto per innumerevoli intermedi; ma il più vicino al razionalismo puro sarebbe quello che abbiamo ora incontrato nei nostri antichi filosofi, e il più vicino al panteismo, del quale esso si appropria la profondità di dottrina rigettando i suoi eccessi, è il sistema cristiano del soprannaturale. Noi ne abbiamo trovato il tipo in Cristo, ed era di diritto, poiché il nostro capo di stirpe soprannaturale è Lui stesso, nella sua umanità fraterna, paterna, solidale su ogni punto della nostra.

D. Cristo non è Dio?

R. Cristo è Dio, e a questo titolo, dicevamo, Egli realizza una sorta di panteismo individuale, in ciò che noi possiamo dire, designando la sua Persona: Questi è Dio, come Anassimene, mostrando con un largo gesto il cielo e la terra, diceva: Tutto questo è Dio. Ma questo fatto non annulla punto la sua umanità. Questa umanità unita a Dio in persona serba il suo funzionamento proprio, sopraelevato però da una tale unione, e l’essenza del soprannaturale si rivela appunto in questo funzionamento di una umanità « piena di grazia ».

D. Io ne richiedo ancora il dato preciso.

R. Si tratta di un’unione di conoscimento e di amore, di un’intuizione dell’intelletto, di un’interpenetrazione dei cuori, di una comunicazione delle vite che introduce l’umanità stessa nella Trinità, e non forma più che una sola vita delle due vite naturali infinitamente disparate.

D. Parli sempre di Cristo?

R. Parlo di Cristo anzitutto; perché Cristo per il primo godeva di questi privilegi, e vedeva Dio, lo provava, lo viveva come noi vediamo e proviamo coi nostri sensi gli oggetti di questo mondo, in tal modo che la sua vita era a un tempo terrestre e celeste. Ma questo stato di grazia — poiché anche in Cristo è una grazia, benché sia una derivazione naturale della grazia prima che è la « grazia d’unione » — questo stato, dico, ci è comunicato nel suo fondo, se noi prestiamo ai meriti di Cristo l’adesione dell’anima nostra. Noi non ne godiamo subito come Lui, perché abbiamo prima da cooperare e non pretendiamo alla sua dignità eminente; ma ne abbiamo in noi il germe, come il bambino prima di nascere ha in germe la vita e il pensiero. Ed è questo germe, questo grano di immortalità beatifica, d’intuizione trascendente, d’amore infinito, che noi chiamiamo grazia santificante. Per essa noi acquistiamo il potere, come diceva S. Giovanni, di esercitare verso Dio il compito di figliuoli nella sua pienezza, cioè di condividere la sua vita intima, di conoscere Lui stesso e tutto quello che Egli conosce, di amare quello che Egli ama e volere quello che Egli vuole come oggetti oramai nostri, connaturali all’anima nostra trapiantata, come il sensibile e i suoi oggetti sono a noi qui connaturali. Vedete, dice S. Giovanni, quale amore il Padre ci ha dimostrato, perché noi fossimo chiamati e fossimo realmente figliuoli di Dio. Adesso noi lo siamo; ma quello che saremo un giorno non e ancora stato manifestato. Noi sappiamo che quando questo sarà manifestato, saremo simili a Dio, perché lo vedremo tal quale Egli è. Per vedere Dio tal quale è, bisogna essergli simili a qualche titolo, poiché questo non è naturale che a Lui. Egli lo rende naturale a noi stessi comunicandoci questa nuova natura, questa natura soprannaturale che è la grazia.

D. Tutto questo rasenta la follia. I personaggi dell’Areopago ne avrebbero riso di cuore.

R. Essi ridevano anche della follia della croce, che fece la sua strada nel mondo. È appunto la follia della croce che richiede questo contrappeso, che spiega queste mire sublimi. Convenne che Cristo morisse per entrare nella sua gloria e perché noi vi salissimo con Lui; ma bisogna reciprocamente che noi saliamo nella gloria dove sale Cristo, per giustificare una tale morte. Quando il sole scende nella notte sanguigna, è per preparare l’alba e il meriggio; questa caduta d’astro è un pegno; un tramonto di sole non è che un’aurora anticipata: così la caduta di un Dio nella vita e nella morte umana è il pegno dei nostri supremi fini.

D. Ancora bisogna tenersi nel verosimile.

E. Il verosimile è sempre oltrepassato da Dio. Quante inverosimiglianze, già, nella natura! In fondo, tutto è inverosimile; lo diciamo verosimile dopo. Ad ogni modo una questione come questa è a noi superiore. «Se si vuole dire che l’uomo è troppo poco per meritare la comunicazione con Dio, bisogna essere ben grande per giudicarne » (PASCAL).

D. Le tue Scritture nel loro insieme appoggiano queste straordinarie pretese?

R. Senza ciò, noi non ci permetteremmo mai di aprire la bocca in proposito. Io ho testè citato Giovanni; ma questa dottrina è comune nel Nuovo Testamento. « Voi sarete partecipi della stessa natura di Dio », diceva S. Pietro ai suoi fedeli, e S. Paolo: «Quando il perfetto sarà venuto, quello che è parziale e incompleto in noi avrà fine. Conosciamo adesso come in uno specchio in modo oscuro; ma allora vedremo il divino a faccia a faccia. Ora conosco in parte; ma allora conoscerò come sono conosciuto » (I Cor., XIII).

D. La grazia, dici, presagisce questo stato; come intendi tu î loro rapporti?

R. Io, per figurarlo, ho usato l’immagine del grano, del germe, e con ciò intendo che in ragione dell’unità della nostra vita, naturale o soprannaturale, si deve trovare al punto di partenza, virtualmente, quello che si troverà sviluppato al termine. Ogni termine qualifica le tappe che lo preparano. Nessuna evoluzione si concepisce se non per trasformazione successiva di un elemento già differenziato e in relazione specifica con l’ultimo effetto. Perché la quercia sia quercia, bisogna che la ghianda sia ghianda, cioè non una quercia in piccolo, come credevano antichi naturalisti, ma una quercia in potenza. Nello stesso modo, se l’uomo dev’essere un giorno divino, nel senso partecipato che abbiamo definito, bisogna che sia tale fin di qui nello stesso senso, con la sola differenza tra la pianta sviluppata e il suo germe.

D. In altre parole?…

R. Voglio dire che l’uomo, portato dalla Divinità così come ogni creatura, deve di più essere pervaso di essa, unito ad essa più a fondo, invaso nel suo essere e nei suoi poteri da quello stesso influsso di cui noi pensiamo che vive Dio e che chiamiamo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è l’agente proprio della grazia; è Lui che effettua questa compenetrazione del divino e dell’umano nell’uomo rigenerato, nuovamente generato per una vita nuova. Egli è per questo fatto «l’anima dell’anima nostra », dice S. Agostino, perché la relazione dell’anima al corpo, come principio di vita, si riscontra in un grado superiore tra l’anima nostra e l’influsso divino che la mette in azione. L’anima informa il corpo; la grazia informa l’anima nostra, e per essa tutto l’essere, per renderlo più divino. Per questo fatto, si dice che Dio lo abita.

D. Abitazione metaforica!

R. Abitazione misteriosa, ma reale, sotto gli auspizi della grazia, e questa abitazione di Dio in noi è agli occhi nostri tutta la religione, poiché è il vincolo solido, quello, non puramente ideale, che ci lega all’oggetto religioso, alla Divinità in persona.

D. L’individualità umana, in tali condizioni, può ancora sussistere? Che cosa diventano le nostre facoltà, e di qual libera azione sono ancora suscettibili?

R. Dio non distrugge niente di ciò che Egli tocca, poiché non tocca se non per vivificare. La sua sopracreazione rispetta în tutto la creazione primitiva. Le nostre facoltà sono sopraelevate e rafforzate per il contributo divino della grazia, senza perdere nulla della loro autonomia e dei loro caratteri. Quello che è grazia santificante nell’anima presa nella sua entità fondamentale, nella sua essenza, come noi diciamo, diventa virtù soprannaturale nell’incanalarsi nelle nostre varie facoltà. Nel nostro intelletto è la fede, che si sovrappone alle nostre cognizioni naturali senza contradirle; nella nostra volontà e nella nostra sensibilità, sono la speranza, la carità, le virtù morali soprannaturali, e inoltre, aggiungendovisi come il genio alla scienza e l’eroismo alla virtù, ciò che noi chiamiamo i doni dello Spirito Santo, disposizioni interiori procedenti a modo dell’istinto, quando le virtù si valgono dei procedimenti razionali dei quali la deliberazione è il tipo.

D. E qual è qui l’essenziale?

R. È la carità, l’amore. Onde l’ordine soprannaturale è chiamato comunemente l’ordine della carità, come si vede in Pascal. Lì è il centro della nostra vita soprannaturale, e per conseguenza lì sta il suo principio organizzatore. La grazia di Dio opera nell’anima il medesimo effetto che lo Spirito sopra il caos primitivo. Il nostro ingresso nella vita divina, che è armonia e dirittura, luce e forza, si effettua sotto questo segno dello Spirito, che è l’Amore vivente, e noi siamo, per questo fatto, sotto una legge d’amore, scritta, dice S. Paolo, non su tavole di pietra, ma su tavole di carne, nei nostri cuori.

D. Ciò esclude evidentemente il male morale?

R. La grazia e il male sono per sé incompatibili; perciò chiamiamo un peccato grave un peccato mortale, perché trae seco la morte dell’anima riguardo a quella vita soprannaturale che noi descriviamo. Parimenti chiamiamo la venuta nello stato di grazia una giustificazione, perché l’uomo in grazia è necessariamente un giusto, un essere gradito a Dio, un figlio di adozione, un fratello di Cristo, perciò un erede del regno che Gesù Cristo conquistò, un «tempio » dello Spirito Santo e di tutta la Trinità, le cui missioni nell’anima sono uno degli arcani più sottili della fede.

D. Sono questi per te veramente dei fatti psicologici, e non solo dei dati morali?

E. Sono dei fatti di biologia spirituale, se così posso dire, dei modi reali dell’essere, dei fenomeni di vita.

D. Allora come non ne abbiamo coscienza?

E. Un sommo psicologo non ne converrebbe affatto. Maine de Biran (Journal, 20 dicembre 1823) scrive: « Adesso intendo la comunicazione interiore d’uno Spirito superiore a noi, che ci parla, che noi udiamo dentro, che vivifica e feconda il nostro Spirito senza confondersi con esso; infatti noi sentiamo che i buoni pensieri, i buoni movimenti non nascono da noi stessi. Questa comunicazione interna dello Spirito col nostro spirito proprio, quando sappiamo invitarlo o preparargli una dimora dentro, è un vero fatto psicologico, e non di fede soltanto. »Tuttavia bisogna riconoscere che di solito lo stato soprannaturale in se stesso non può essere l’oggetto di una certezza sperimentale. Onde S. Paolo dice che assolutamente parlando nessuno sa se sia degno di amore o di odio. Ma si può discernere l’albero da’ suoi frutti. Il modo di vivere, il modo di comportarsi riguardo al soprannaturale, ecco il segno, e questo segno è moralmente sicuro, senza che vi sia bisogno di una evidenza immediata, di un contatto.

D. Resta la stranezza di un’armatura spirituale completa di cui non abbiamo affatto coscienza.

R. Abbiamo noi coscienza dell’incosciente, la cui esistenza è così certa? Abbiamo anzi coscienza della circolazione del sangue? Un fenomeno così grossolano non è stato scoperto che dopo secoli di studi fisiologici, e certi sapienti non ci vollero punto credere. Una folla di correnti ci attraversano o si sprigionano da noi senza che ne siamo avvertiti dalla minima sensazione.

D. Tu ammetti qui, ad ogni modo, un miracolo permanente.

R. Non è un miracolo più di quello che sia un miracolo il sollevarsi dell’acqua nel fenomeno delle maree. È un ordine nuovo, è vero, ma che si presenta come in continuità con tutti gli altri, nell’interno del piano divino. La vita della grazia si sovrappone alla vita naturale dell’anima che essa impregna, come questa all’attività cerebrale, questa all’azione fisico-chimica del corpo e questa all’inerzia materiale.

D. Ma questo stato soprannaturale, identico in tutti i « giusti », non è la rovina delle originalità e delle iniziative? Tutti nello stesso stampo, sia pure uno stampo divino, questo non è un ideale.

R. Comprendere così le cose sarebbe commettere un grosso controsenso. La grazia è la stessa per tutti come soprannaturale e adattata alla natura comune; ma ho già detto che essa è ricevuta in ciascuno secondo le sue particolarità, e, salvo il male, essa rispetta queste ultime. L’Incarnazione non tolse a Cristo uomo i suoi caratteri individuali, neppure quelli della sua stirpe: a molto più forte ragione la grazia non altera i nostri, giacché la nostra personalità non è assorbita da Dio, come fu quella di Cristo. Anzi la grazia consacra e intende di effettuare superiormente ciò che si potrebbe chiamare la nostra vocazione di natura, essa vuol fare con noi la nostra opera propria; sposa il nostro caso e lo favorisce sotto il nome di grazia di stato. Si può essere sicuri che un essere è molto meglio se stesso, quando per la grazia è purificato da’ suoi difetti e sollevato in tutti i suoi mezzi. Alla fine di questo lavoro, la gloria, che espande la grazia, ciascun uomo apparisce, secondo il celebre detto di Mallarmé: « e quale in se stesso finalmente l’eternità lo cambia ». Egli è cambiato, ma in se stesso, in ciò stesso che ideò il Creatore e che le nostre miserie terrene ricoprivano, e per di più in un se stesso trasposto, realizzato in un modo superiore, come di una melodia scritta in un tono più alto.

D. Hai parlato di grazie attuali: qual è la loro nozione?

R. Noi chiamiamo così ogni soccorso soprannaturale di Dio che non ha più un carattere permanente, ma occasionale. Può essere un lume nella nostra intelligenza, uno stimolo della nostra volontà, un movimento felice della nostra sensibilità il tutto in vista del nostro bene spirituale. Secondo i suoi effetti, si dirà di questa grazia che essa ci eccita, ci aiuta, ci guarisce, ci eleva. Si chiamerà efficace se essa porta fino all’azione, o sufficiente se è lasciata all’uso del nostro libero arbitrio. Ma in tutti i casi essa esige la nostra cooperazione. Non ci si salva senza di noi.

D. La grazia dunque non è che una prevenienza di Dio.

R. È più che una prevenienza, perché anche alla risposta Iddio coopera, allorché alle sue prevenienze noi non cooperiamo. Dio è sempre il primo, Dio è sempre il più forte, specialmente in amore. Egli viene, e noi gli andiamo incontro; ma, anche Lui che è dovunque e mescolato a tutto viene con noi, al suo proprio incontro. Che cosa si farebbe, o uomini, in questo ordine che sorpassa l’uomo, senza questo compagno divino?

D. Non si può fare nulla di bene senza la grazia?

E. Si possono fare delle buone azioni senza la grazia, checché ne abbiano detto i luterani e i giansenisti, per i quali la natura umana, totalmente corrotta dal peccato di origine, non sarebbe capace che di male. Ma senza la grazia non si può fare nulla di efficace per la salute, che è soprannaturale; si è solamente ad essa preparati e messi sulla sua strada. Di più, senza la grazia, non si potrebbe evitare, in tutto il corso di una vita, ogni colpa grave contro la legge morale. E noi crediamo ancora giustamente necessario un soccorso speciale, per ottenere quello che chiamiamo la perseveranza finale.

D. Credi possibile, con la grazia, di evitare ogni colpa qualsiasi, anche la più leggera?

R. Praticamente, no; lo spirito umano è troppo incostante; troppe occasioni e accidenti interni o esterni ci sorprendono. Si può evitare ciascuna colpa presa a parte; ma per vincere sempre e non essere mai feriti, noi crediamo indispensabile un privilegio fuori dell’ordinario, che per quanto sappiamo non si è riscontrato che due volte: in Gesù e nella sua purissima Madre.

D. Avendo in sé la grazia che tu chiami santificante, si può  senza la grazia attuale, essere Santi?

R. Anche qui, diamo la stessa risposta. Teoricamente, è possibile; ma praticamente, ci son veramente necessarie grazie attuali, grazie d’occasione. Per quanto armata e coraggiosa sia una milizia, può sempre evitare di ricorrere al suo capo per chieder rinforzo?

D. Il «rinforzo » è qui assicurato?

R. È di fede che tutti i giusti ricevono le grazie necessarie alla loro perseveranza nel bene, tutti i peccatori le grazie necessarie alla loro conversione e alla loro salute, tutti gl’infedeli le grazie che, se vogliono, li condurranno, sia alla fede esplicita, sia ai supplementi morali e soprannaturali della fede.

D. Pare che questa dottrina sia uno sforzo di equilibrio tra il tutto o il niente delle dottrine estreme.

R.. Tommaso scrisse queste belle parole: «La Chiesa santa e apostolica tra due siepi di errori, ben in mezzo alla strada, va con un passo lento ».

D. La dottrina della grazia urta però legittimi orgogli.

R. Quale sorta di orgoglio potrebbe veramente essere qui legittima? « Che bella cosa, scrive Pascal, gridare a un uomo che non conosce se stesso che egli vada da se stesso a Dio! E che bella cosa dirlo a un uomo che conosce se stesso! ». E ancora: « Per fare d’un uomo un santo, è indispensabile che intervenga la grazia, e chi ne dubita non sa che cosa sia un santo e che cosa sia un UOMO ».

D. Ciò non favorisce quelle eresie contrarie che poco fa condannavi?

R. L’uomo s’immagina alternativamente, e alle volte nello stesso tempo che egli può tutto senza Dio e che non può niente, anche con Dio: la Chiesa gl’insegna che egli non può niente senza Dio e tutto con Dio. In tal modo essa crede di onorarlo e d’incoraggiarlo di più; perché l’onore dell’uomo è in quello di Dio, e in Dio la sua forza.

D. L’uomo da solo compie spesso delle belle opere.

R. Compie delle opere magnifiche, ma in collaborazione con la natura e armandosi delle forze universali, delle quali egli stesso non è fisicamente che un punto di concentramento. Ve ne sono anche nell’ordine spirituale, e più ancora nell’ordine soprannaturale. La grazia è un collegamento, in noi, per l’utilizzazione delle forze eterne. Vorrà l’uomo compiere senza Dio un’opera divina, dal momento che non può agire in questo mondo se non utilizzando la materia che insozza i suoi piedi?

D. Ma dov’è allora il merito umano?

R. Il merito umano non può essere un merito solitario, perché l’uomo non è mai solo; ma pure è un merito, perché ciò ch’egli fa con un soccorso normale, lo fa veramente lui, ed è normale altresì che egli ne abbia il benefizio. Per giunta, quello che Dio ci dà non ci appartiene forse, e i meriti di Cristo non sono forse nostri? Che Dio, coronando le nostre opere, non faccia altro che coronare i suoi propri doni, come dice S. Agostino, ciò non impedisce che egli ci coroni. Dio incomincia, ci mette sulla strada; accompagna il viaggiatore, ed è lui che ci riceve; ma ciononostante si cammina.

D. Si può meritare l’aumento della grazia?

R. Sì, ma con la grazia, poiché senza di essa non si può nulla.

D. Si può dunque meritare la prima grazia?

R. La sua stessa definizione vi si oppone. Ho detto però che uno vi si può disporre.

D. Il peccatore destato da una prima grazia può meritarne altre e la conversione stessa?

R. Strettamente no, poiché non si merita propriamente se non essendo amico di Dio; ma alla bontà che lo ha così prevenuto conviene rispondere al suo buon volere e compiere l’opera sua.

D. E si merita la gloria?

R. Nelle medesime condizioni, e si merita pure che essa si aumenti.

D. Che dici del merito per altri o in vista di altri?

R. Non si può salvare un altro senza che lui stesso lo voglia, ma gli si può meritare soccorso, in ragione della nostra solidarietà in Gesù Cristo e nella comune paternità divina. Ecco un caso di ciò che noi chiamiamo la comunione dei santi.

D. Che avviene quando si sono acquistati dei meriti e si pecca poi gravemente?

R. I meriti periscono, perché non si può essere a un tempo separato da Dio e meritevole davanti a Lui; ma se si rientra nella sua amicizia, i meriti rivivono.

D. Rivivono anche le colpe perdonate, quando si ricade?

R. No, e in ciò splende la bontà del nostro Dio, che ricorda il bene e dimentica il male. Non si può tuttavia fare a meno che ne sussistano le tracce, e grande a questo riguardo è la differenza tra il peccatore che ricade e il peccatore che si rialza; perché sul primo gli effetti di antichi peccati sono un peso di più, mentre al secondo servono di scusa. Nel capitolo della Penitenza, del resto, noi ritroveremo questo caso.

D. Quali sono, secondo te, i rapporti di questo regime individuale e interindividuale della grazia con lo stato sociale?

R. Essi sono stretti, e i loro effetti riconosciuti sarebbero immensi. Avendo la grazia per compito di raddrizzare la natura individuale, di sopraelevarla conforme a se stessa e in tutti i suoi aspetti, di aiutarla in tutte le sue attribuzioni, è chiaro che la grazia prepara alla società degli elementi scelti e favorisce l’uso di questi elementi in tutti gli ordini di fatti che la società abbraccia. Essa tende a frenare le forze cattive che mantengono il disordine e intralciano il progresso; dispone le menti alle sane concezioni e alle utili riforme; calma le impazienze perturbatrici; dà come base alla costruzione sociale una famiglia purificata, consolidata dall’unità e dall’indissolubilità del matrimonio, perciò conforme alle esigenze di una società veramente in progresso; con la carità unita alla giustizia, essa aiuta la concordia degli elementi del lavoro, la ricerca e l’accettazione delle combinazioni economiche favorevoli, l’elaborazione e il funzionamento d’una buona politica nazionale e d’una politica di pace.

D. Ammetti tu la reciproca?

R. Essa è di diritto. Poiché la grazia si deve adattare a nature individuali definite e attive, non a una materia anonima e inerte, vi è interesse per essa e per il suo lavoro sovrumano a che le nature individuali siano prese in quadri sociali ben concepiti e funzionanti normalmente. Come base di azione soprannaturale, nulla è meglio che individualità umane « qualificate », e se è possibile superiormente qualificate.

D. Vi è dunque un parallelismo sociale tra la grazia e la natura, come tu hai riconosciuto tra esse un parallelismo individuale?

R. Socialmente come individualmente vi è di fatto un avviamento parallelo e concertato della grazia e della natura. Questo si concepisce subito, se si osserva che la nostra natura è sociale, e solo per astrazione si può distinguere.

D. Vorresti riassumermi in due parole che cosa è il tuo soprannaturale?

R. È un modo di essere e di agire che è naturale solo a Dio e che Dio ci comunica. È la vita intima della Trinità, nella quale noi entriamo.

D. È dunque una vita in due mondi?

R. La nostra conversazione è in cielo, dice S. Paolo. La nostra società con Dio non dipende da nessun mondo; essa comporta solo delle tappe, richieste per il necessario uso della nostra libertà. È presentemente una società per meritare e lavorare alacremente, in attesa del fine e del godimento.

D. Il divino nell’umano, insomma, e umano nel divino?

R. Satana aveva promesso ad Adamo e ad Eva che sarebbero come dèi. « Gesù Cristo mantiene la magnifica promessa del demonio » (MALEBRANCHE).

IL SEGNO DELLA CROCE (6)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (6)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA QUINTA.

30 novembre.

Il segno della croce ci nobilita. — Desso è il segno del fiore della umanità. — Il blasone del cattolico. — Quel che sia un cattolico. — II segno della croce nobilitandoci c’insegna il rispetto di noi stessi. — Importanza di tale insegnamento. — Onta di chi non fа il segno della croce. — Quadro del disfreno ch’eglino hanno per se stessi.

Ho detto, mio caro Federico, che il segno della croce è un segno che nobilita, perché quanto è divino nobilita. Questa sola ragione basterebbe; ma nondimeno continuandomi dico, che questo segno ci nobilita perché desso è il segno del fiorе della umanità. V’hanno mai pensato i compagni tuoi? Chi non si segna, ed ancor più, chi ha onta di questo segno, resta misto e confuso con i pagani, i musulmani, i giudei, gli eretici, i cattivi cattolici, infine con le bestie; è quanto dire, con la feccia della creazione. Che ne pensi tu? Non dobbiamo andare superbi di un segno che ci distingue sì nobilmente da tutti quelli che non lo hanno?  Il figlio ascrive a gran ventura essere membro di una famiglia veneranda per l’antichità sua, illustre per le gesta, rispettabile per le virtù, potente per le ricchezze. Egli pensa parimente del suo blasone. Lo fa scolpire in pietra, in marmo, in argento, in oro, in agata, ed in rubini; lo pone sulla sua abitazione, lo fa modellare su la mobilia, designare sul vasellame, e sui pannilini, lo fa incidere sul suo suggello, dipingere sulla sua carrozza, orna di esso i fornimenti de’ suoi cavalli, vorrebbe scolpirlo sulla propria fronte. Se tu ne togli la vanità, egli ha ragione. La sua condotta proclama altamente la legge pereminenza sociale, la solidarietà. La gloria degli avi, ègloria dei figli, èun patrimonio di famiglia. – Come cattolico, il segno della croce èmio stemma. Esso dice a me ed a tutti la nobiltà della mia schiatta, la sua antichità, le sue gesta, le glorie e le virtù sue. Come non andarne superbo? Io rinunzierei al sangue illustre, che mi corre per le vene! Indegno di avere un gran nome, rigetterei vigliaccamente la legge della solidarietà gettando nel fango le mie insegne gentilizie, ed al vento la ricca eredità degli avi miei. Gli uomini sono lieti di appartenere ad una grande nazione aristocratica. Lo Spagnuolo d’essere Spagnuolo, l’Inglese d’essere Inglese, ed il Francese d’essere Francese, l’Italiano di essere Italiano, come tutte le altre grandi nazioni. Dimmi, amico mio, qual è la nazione più grande, e la più aristocratica del pianeta? V’ha una nazione che tutte vinca in antichità, che conti fra i suoi membri un numero, che avanzi quello delle nazioni testé nominate? Una nazione che per i suoi lumi brilli come il sole nel firmamento; che essenzialmente espansiva, a prezzo di proprio sangue abbia sottratto il genere umano alla barbarie, e gli dia modo da non ricadervi, e che la storia ed il mappamondo ne facciano fede? Una nazione che veda e sola, nel mezzo de’ suoi figli, quanto l’uomo ha conosciuto di meglio in fatto di genio e di virtù, di scienza e di coraggio, legioni intere di dottori, di vergini, di martiri, di oratori, filosofi, artisti, i grandi legislatori, i buoni re, i guerrieri illustri di tutte le parti del mondo; una nazione altrettanto più aristocratica, che tutte le altre da essa debbono ripetere la loro superiorità? Che che si dica, e che che si faccia, la storia ha nominato la grande NAZIONE CATTOLICA. IO le appartengo: il segno della croce è. il suo stemma: potrei averne onta? Dio stesso ha voluto mostrare con strepitosi miracoli, quanto sia in onore agli occhi suoi la persona ed il membro che fa il segno della croce. Santa Èdita figlia di Edgardo re d’Inghilterra sin dalla infanzia fu tenerissima del segno della croce. Questa giovane principessa, uno de’ più belli fiori olezzanti verginità, che abbia ornato l’antica isola dei santi, nulla operava senza che innanzi segnasse il fronte ed il petto dello stemma de’ cattolici. A sfogo di sua devozione fece edificare una chiesa in onore di S. Dionisio, e pregò S. Dunstan Arcivescovo di Cantorbery per la solenne dedicazione. Il santo consenti volentieri, e nelle diverse conversazioni che tenne seco lei, ammirò che la giovane principessa, come i primi Cristiani si segnava frequentemente col pollice la fronte. Tale divozione tornò si cara al santo, ch’egli fe’ voti a Dio perché benedicesse questo pollice, e Io preservasse dalla corruzione della tomba. La preghiera fu esaudita. Quinci a poco tempo la vergine moriva al 23″ anno dell’età sua ed apparsa al santo gli disse: disumate il mio corpo, desso è incorrotto, eccetto le parti di che feci mal uso nella leggerezza della mia infanzia. Queste parti erano gli occhi, i piedi e le mani, eccetto il pollice con che faceva in vita il segno della croce. – Al punto di vista dell’onore gli avi nostri aveano eglino torto di fare si soventemente il segno della croce? E noi; abbiamo noi ragione di non più farlo? Ah! ch’eglino aveano ben altrimenti da noi la coscienza di loro nobiltà, ed il sentimento della dignità loro. Così ripetendosi di continuo nobiltà obbliga, non mi meraviglio che abbiano formato una società unica negli annali del mondo per l’eroismo di sue virtù: fra poco l’intenderai.- II primo sentimento, che il segno della croce sviluppa in noi nobilitandoci agli occhi nostri istessi, èil rispetto di noi medesimi. Il rispetto di noi medesimi! io dico, caro amico, una grande parola. Volgo io sguardo all’intorno, e vedo un secolo, un mondo, una gioventù che non rifinisce di parlare di dignità umana, di emancipazione, di libertà. Queste parole vuote di senso, o che uno ne raccolgono cattivo, rende il secolo, il mondo, la gioventù insofferente d’ogni maniera di governo ed impaziente del giogo d’ogni autorità divina, civile e paterna, corre all’impazzata dicendo a quanti incontra: Rispettami!  Benissimo; ma se vuoi essere rispettato, comincia tu a rispettar te stesso. Il rispetto degli altri, a nostro riguardo, è in ragione di quello che noi stessi abbiamo per noi. La crudeltà, l’ipocrisia, il sensualismo, il vizio orpellato, nascosto, ricco, coronato, possono inspirare timore, ma ottenere rispetto giammai. Ora l’uomo attuale giovane o vecchio che sia, che non si segna dello stemma cattolico si rispetta? Facciamo un saggio di autopsia.  La parte più nobile dell’uomo è l’anima, e di questa la facoltà, che vince in dignità le altre, è l’intelligenza. Vaso prezioso, formato dalla mano di Dio a raccogliere la verità, e solo la verità, di modo, che quanto non è verità la rende immonda e profana. L’uomo attuale rispetta la intelligenza, le lascia libero il cammino alla verità? Egli non ha che disgusto per le sorgenti pure, dond’essa deriva; oracoli divini, sermoni, libri ascetici o di filosofia cristiana lo appenano ed annoiano. Se tu discendi al fondo di queste intelligenze battezzate, ti crederai in un bazar. Tu vi ritroverai un rimescolio d’ignoranze, di baje, di frivolezze, pregiudizii, menzogne, errori, dubbii, obbiezioni, negazioni, empietà, inezie. Triste spettacolo che mi ricorda lo struzzo morto ultimamente a Lione. Tu sai che l’autopsia del suo stomaco rivelò l’esistenza di un vero arsenale di pezzi di ferro, di legno, di corde ecc. Ecco di che nutrica la sua intelligenza l’uomo, che non fa più il segno della croce: ecco com’egli la rispetta! Ed il suo cuore? Dispensami, caro Federico, dal rivelartene le ignominie. I moti suoi in vece d’essere ascendenti, sono discendenti, non si eleva spaziandosi a volo di aquila, ma si striscia sulla terra; non si nutre, come l’ape, del profumo de’ fiori, ma, qual mosca schifosa, fa suo pasto ogni maniera di lordura. Non v’ha violazione di legge che lo spaventi, né immondizia che eviti. Tu puoi bene convincertene, che la bocca parlando per la pienezza del cuore, la sua gola è spiraglio di sepolcro in putrefazione. Ed il suo corpo? Giovane che trovi indegno di te fare il segno della croce, tu credi essere un grande spirito, ma tu fai pietà! Ti credi indipendente, e sei schiavo; tu non vuoi onorarti facendo quanto fa il fiore della umanità, e per giusto castigo, tu fai quanto esegue il rifiuto della umana famiglia. La tua mano non segna la fronte del segno divino, ed essa toccherà quanto non dovrebbe mai toccare. Tu non vuoi ornare del segno protettore i tuoi occhi, le labbra ed il petto, ed i tuoi occhi s’insozzeranno guardando quanto non dovrebbero guardare, le tue labbra mute ciarliere, loquaces muti, come dice un gran genio (S. Aug. Medit. XXXV, S), diranno quanto non dovrebbero dire, e diranno quello che dovrebbero tacere; il tuo petto, profano altare, brucerà di un fuoco, il cui solo nome fa onta. È questa la tua storia intima; potrai negarla, ma cancellarla giammai. Dessa è scritta su questa carta con inchiostro, ma è letta in tutte le parti del tuo essere, scrittavi con sanguigni caratteri di colpa, in sanguine peccati. – E la sua vita! L’uomo che non fa più il segno della croce perde la stima della sua vita. Egli la vilipende, ne fa spreco, e mai la prende sul serio. Fare della notte giorno, e del giorno notte; poco lavoro e molto sonno, cibi delicati, senza nulla negare al gusto; consumarsi pel tempo, senza alcuna considerazione per l’eternità, ciò è a dire, tessere della tela di ragno, fare de’ castelli di carta, prender mosche, in una parola: usar della vita come padrone, non è prenderla al serio. Prender la vita al serio è fare di essa l’uso voluto da Colui che ce l’ha confidata, e che ce ne domanderà conto non in confuso, ma dettagliatamente; non ad anni, ma per minuto.  – Quando il disprezzatore del segno divino, che doven nobilitarlo inspirandogli sentimenti di rispetto per l’anima ed il corpo suo, è stanco della iniquità e delle inezie, che cosa farà egli? Soventemente egli rigetta la vita come un peso insopportabile. Considerandosi qual bestia priva di timore e di speranza oltre la tomba, si uccide. – Qui, mio caro, come potrò io tutta esprimerti la pena dell’animo mio? Quanto diceva l’Apostolo delle meraviglie del cielo, che l’occhio non ha visto, né l’orecchio sentito, né lo spirito concepito nulla di simile, è mestieri dirlo al presente gemendo, arrossendo e tremando. No, in nessuna epoca, sotto nessun clima, nel mezzo di nessun popolo, ancorché pagano ed antropofago, l’occhio non ha visto, l’orecchio non ha sentito, lo spirito non ha concepito quello che noi vediamo, intendiamo e tocchiamo con mano; qual cosa? Il suicidio. Il suicidio è su di una scala senza paragone nell’istoria. In Francia solamente cento mila suicidi nel corso degli ultimi trentanni. Cento mila! ed il numero va sempre più crescendo. Ora, io son sicuro, benché senza prova, che di questi cento mila, novanta nove mila aveano perduto l’uso di fare il segno della croce seriamente, sovente, e con ogni religione. Credi ciò come tredicesimo articolo del simbolo. A dimani.

IL SEGNO DELLA CROCE (7)