XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE (2021)

Last Judgement fresco by Vasari and Zuccari, Florence duomo, Tuscany, Italy

XXIV ED ULTIMA DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Quest’ultima settimana chiude l’anno ecclesiastico, e con essa si chiude la storia del mondo, iniziatasi coll’Avvento. Perciò in questa domenica la Chiesa fa leggere nel Breviario il libro del Profeta Michea (contemporaneo di Osea e di Isaia) con il commento di S. Basilio, che tratta del giudizio universale, e nel Messale il Vangelo dell’Avvento del Giudice divino. « Ecco, dice Michea, che il Signore uscirà dalla sua dimora; e camminerà su le alture della terra; le montagne si scioglieranno sotto i suoi passi e le valli fonderanno come la cera dinanzi al fuoco, e spariranno come l’acqua su un pendìo. E tutto questo per causa dei peccati d’Israele ». Dopo questa minaccia il Profeta continua con promesse di salvezza « Ti radunerò totalmente, Giacobbe, riunirò quello che resta d’Israele; lo radunerò come un gregge nell’ovile». Gli Assiri hanno distrutto Samaria, i Caldei hanno devastato Gerusalemme, il Messia riparerà tutte queste rovine. Michea annunzia che Gesù Cristo nascerà a Gerusalemme e che il suo regno, che è quello della Gerusalemme celeste, non avrà fine. I profeti Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria e Malachia, i libri dei quali si leggono nell’ufficiatura della settimana, confermano quanto ha detto Michea. Gesù nel Vangelo comincia con l’evocare la profezia di Daniele, che annunzia la rovina totale e definitiva del tempio di Gerusalemme e della nazione giudea per opera dell’esercito romano. Questa abominazione della desolazione è il castigo in cui il popolo di Israele ha incorso per la sua infedeltà, che è giunta al colmo, quando ha rigettato Cristo. Questa profezia si realizzò infatti qualche anno dopo la morte del Salvatore, allorché la tribolazione arrivò a tal punto, che se avesse durato ancora più a lungo nessun giudeo sarebbe sfuggito alla morte. Ma per salvare coloro che si convertirono in seguito ad una si rude lezione, Dio abbreviò l’assedio di Gerusalemme. Così farà alla fine del mondo, di cui è figura la distruzione di questa città. Al momento del Secondo Avvento di Cristo vi saranno senza dubbio tribolazioni ancor più terribili. «Molti impostori, fra i quali l’anticristo, faranno prodigi ancora più satanici per farsi credere il Cristo; allora, l’abominazione della desolazione regnerà in altro modo nel tempio, poiché, spiega S. Girolamo « sorgerà, secondo quanto dice S. Paolo, l’uomo dell’iniquità e dell’opposizione contro tutto quello che è chiamato Dio ed è adorato e spingerà l’audacia fino a sedersi nel tempio stesso di Dio ed a farsi passare egli stesso per Dio » – « Verrà accompagnato dalla potenza di satana per far perire e gettare nell’abbandono di Dio quelli che l’avranno accolto » (3° Notturno). Ma qui ancora, continua S. Girolamo, Dio abbrevierà questo tempo, affinché gli eletti non siano indotti in errore (id.). Del resto, non vi lasciate ingannare, dice il Salvatore, poiché il Figlio dell’uomo non apparirà, come la prima volta, nel velo del mistero e in un angolo remoto del mondo, ma in tutto il suo splendore e dappertutto contemporaneamente e con la rapidità della folgore. Allora tutti gli eletti andranno incontro a Lui, come gli avvoltoi verso la preda. Compariranno, allora, nel cielo, il segno sfolgorante della croce e il Figlio dell’Uomo che verrà con grande potenza, e con grande maestà (Vangelo). – « Quando vi prende la tentazione di commettere qualche peccato, dice S. Basilio, vorrei che pensaste a questo terribile tribunale di Cristo, dove Egli siederà come giudice sopra un altissimo trono; davanti a questo comparirà ogni creatura tremante alla sua gloriosa presenza; là renderemo uno per uno, conto delle azioni di tutta la nostra vita. Subito dopo, coloro che avranno commesso molto male durante la loro vita, si vedranno circondati da terribili e orribili demoni, che li precipiteranno in un profondo abisso. Temete queste cose, e, penetrati da questo timore, usatene come un freno per impedire all’anima vostra di esser trascinata dalla concupiscenza a commettere il peccato» (3″ Notturno). La Chiesa ci esorta perciò nell’Epistola, per bocca dell’Apostolo, a condurci in modo degno del Signore e a portar frutto in ogni sorta di buone opere, affinché, fortificati dalla sua gloriosa potenza, sopportiamo tutto con pazienza e con gioia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti capaci di aver parte all’eredità dei Santi, ora in ispirito, e all’ultimo giorno in corpo e in anima, per il Sangue redentore del suo Figlio diletto. Dio, che ci ha detto per bocca di Geremia di nutrire pensieri di pace e non di collera (Introito), e che ha premesso di esaudire le preghiere fatte con fede (Com.), ci esaudirà e ci affrancherà dalle concupiscenze terrene (Secr.) facendo cessare la nostra cattività (Intr. e Vers.) e aprendoci per sempre il cielo ove il trionfo del Messia troverà la sua gloriosa consumazione. – Vincitore assoluto sui suoi nemici, che risusciteranno per il loro castigo, e Re senza contestazione di tutti gli eletti, che hanno creduto nel suo avvento e che risusciteranno per essere gloriosi nel corpo e nell’anima per tutta l’eternità. Gesù Cristo rimetterà al Padre questo regno, che ha conquistato a prezzo del sul Sangue, come omaggio perfetto del capo e dei suoi membri. E sarà allora la vera Pasqua, il pieno passaggio nella vera terra promessa e la presa di possesso, per sempre, da parte di Gesù ed il suo popolo del regno della Gerusalemme celeste, dove, nel Tempio, che non è stato fatto da mano di uomo, regna sovrano Dio in cui metteremo tutta la nostra gloria ed il cui Nome celebreremo eternamente (Grad.). E per mezzo del nostro Sommo Sacerdote Gesù noi renderemo un eterno omaggio alla SS. Trinità dicendo: « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, come era in principio ed ora e sempre e nei secoli, così sia. »

Rendiamo infinite grazie a Dio Padre per averci riscattato per mezzo di Gesù Cristo dalla schiavitù del demonio e delle sue opere tenebrose ed averci resi degni di partecipare con Lui alla gloria del suo regno celeste, che è l’eredità dei Santi nella luce.

Gesù è venuto nell’umiliazione, e tornerà nella gloria. Il suo Primo Avvento ebbe per scopo di prepararci al secondo. Coloro che l’avranno accolto nel tempo, saranno da Lui accolti quando entreranno nell’eternità; quei che l’avranno misconosciuto saranno rigettati. Perciò i Profeti non hanno separato i due avventi del Messia, poiché sono i due atti di un medesimo dramma divino. Così pure Nostro Signore non separa la rovina di Gerusalemme dalla fine del mondo, poiché il castigo che colpì i Giudei deicidi è la figura del castigo eterno, che toccherà a tutti quelli che avranno rigettato il Salvatore. Questo primo avvento ha già avuto luogo, il secondo si effettuerà: prepariamoci; la lettura del Vangelo di oggi, tende appunto a questo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]


Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.

[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

(“Fratelli: Non cessiamo di pregare per voi, e di chiedere che abbiate la piena cognizione della volontà di Dio, con ogni sapienza e intelligenza spirituale, affinché camminiate in maniera degna di Dio; sì da piacergli in tutto; producendo frutti in ogni sorta di opere buone, e progredendo nella cognizione di Dio; corroborati dalla gloriosa potenza di lui in ogni specie di fortezza ad essere in tutto pazienti e longanimi con letizia, ringraziando Dio Padre che ci ha fatti degni di partecipare alla sorte dei santi nella luce, sottraendoci al potere delle tenebre; e trasportandoci nel regno del suo diletto Figliuolo, nel quale, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati”).

SAPERE.

San Paolo tocca mirabilmente tre verbi, che riassumono il fior fiore dell’attività veramente cristiana, con insistenza sul primo: sapere. Non è il caso di esagerare o piuttosto alterare l’azione che il Divin Maestro ha esercitato ed esercita sull’intelletto umano, e quella che l’intelletto umano deve esplicare docilmente, secondando gl’impulsi del Maestro. Ma non per nulla N. S. Gesù Cristo ha preso e conserva questo bel nome: Maestro. Rabbi. Non per nulla il Maestro è il Verbo di Dio, è la Sapienza incarnata di Lui. Verbo che illumina ogni uomo, quando specialmente, in carne mortale, viene a risiedere in mezzo a noi. – Il suo Vangelo è, inizialmente, radicalmente luce nuova. Ci ha strappato, dice San Paolo, parlando, si capisce, di preferenza ai convertiti, dal Gentilesimo, ci ha strappati dall’impero delle tenebre, trasportandoci nel regno della luce. Ed anche per questo il Cristianesimo è umano, cioè proporzionato, profondamente, perfettamente agli umani bisogni. L’uomo comincia di lì, dal sapere, dalla luce, dalla testa, la sua vita veramente umana. È un uomo perché pensa, uomo perché opera a ragione veduta. Il Cristianesimo ci prende di lì, comincia a prenderci di lì, dalla testa, colla sua rivelazione. Alla quale risponde la nostra fede, che è un sapere sovrannaturale, ma sapere. Sapere con una certezza nuova cose che erano oggetto di discussioni antiche; sapere cose nuove intravedute per « speculum in enigmate, » attendendo che venga di là, di lassù, la luce piena. E questo saper nuovo, scende sì, in noi, da Dio, ma dobbiamo noi pure accrescerlo col divino aiuto e la nostra operosità. Non tutti i Cristiani sono egualmente sapienti o veggenti. Paolo esorta i suoi lettori e discepoli a diventarlo sempre più. Augura loro e raccomanda che « siano riempiti della profonda conoscenza della volontà di Dio, in ogni sorta di spirituale sapienza e intelligenza spirituale ». Il che si consegue quando si studia e si medita il Vangelo, la rivelazione divina, il mondo della realtà cristiana. Si studia come fanno anche i più semplici Cristiani, leggendo il Catechismo, ascoltando la spiegazione evangelica dei Sacerdoti, e poi si medita come hanno fatto e fanno i grandi Cristiani, non solo sacerdoti e teologi, dirò così, di professione, S. Tommaso, S. Bonaventura, S. Bellarmino, ma anche i grandi laici, come Manzoni, Nicolò Tommaseo, Contardo Ferrini. Bisogna istruirsi per sapere; e bisogna sapere se si vuol essere degni del nome di uomini e di Cristiani. Ma, soprattutto, bisogna sapere cristianamente, per cristianamente lavorare e soffrire. Il sapere cristiano non è fine a se stesso; non è appagamento vano di vana curiosità. In ciò la sua profonda differenza dal sapere profano. S. Paolo segna subito quella finalità essenziale e doverosa del sapere cristiano, che è pratica. Augura a tutti i suoi lettori, a noi, che lo siamo dopo tanti secoli, di crescere in ogni maniera di sapienza spirituale perché — gli cedo la parola — « camminiate in modo degno di Dio in guisa da essergli in ogni cosa graditi, producendo frutti d’ogni opera buona ». – Del resto, è naturale, è logico. Alla luce si cammina meglio; più veloci, più alacri, nell’ordine fisico. Nell’ordine morale e religioso, è lo stesso. Quello che pareva problema di luce, si risolve in un problema di azione. Conoscendo meglio Dio, dobbiamo, — è quasi direi, una necessità, necessità logica, — amarlo di più. Conoscendo meglio noi stessi, dobbiamo lavorare di più alla nostra purificazione ed elevazione. Conoscendo meglio il prossimo, dobbiamo compatirlo di più e perdonargli più facilmente. C’è così, una vera termo-dinamica del mondo Spirituale. Siamo davvero immersi nella luce di Dio: questa ci circonda da ogni parte. Tutto è lucido attorno a noi. La via è nettamente tracciata. Si vedono molti ostacoli: avanti! «Ambulemus: » camminiamo. Lavoriamo: sapere per fare… Del qual fare è parte anche il soffrire, il sopportare. Il sacrificio è un Cristianesimo in forma di azione. Il soldato lavora e soffre, versa sudore e sangue. Noi dobbiamo essere i soldati di Gesù Cristo. – Sono cose buone, sempre a ricordarsi a noi; più utili ed opportune mentre si chiude un ciclo di vita ecclesiastica e se ne apre un altro. Un anno più dell’altro, il nostro programma deve essere: luce, lavoro, sacrificio.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

(“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Quando adunque vedrete l’abbominazione della desolazione, predetta dal profeta Daniele, posta nel luogo santo (chi legge comprenda): allora coloro che si troveranno nella Giudea fuggano ai monti; e chi si troverà sopra il solaio, non scenda per prendere qualche cosa di casa sua; e chi sarà al campo, non ritorni a pigliar la sua veste. Ma guai alle donne gravide, o che avranno bambini al petto in que’ giorni. Pregate perciò, che non abbiate a fuggire di verno, o in giorno di sabato. Imperocché grande sarà allora la tribolazione, quale non fu dal principio del mondo sino a quest’oggi, ne mai sarà. E se non fossero accorciati quei giorni non sarebbe uomo restato salvo; ma saranno accorciati quei giorni in grazia degli eletti. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o ecco là il Cristo; non date retta. Imperocché usciranno fuori dei falsi cristi e dei falsi profeti, e faranno miracoli grandi, e prodigi, da fare che siano ingannati (se è possibile) gli stessi eletti. Ecco che io ve l’ho predetto. Se adunque vi diranno: Ecco che egli è nel deserto; non vogliate muovervi: eccolo in fondo della casa; non date retta. Imperocché siccome il lampo si parte dall’oriente, e si fa vedere fino all’occidente; così la venuta del Figliuolo dell’uomo. Dovunque sarà il corpo, quivi si raduneranno le aquile. Immediatamente poi dopo la tribolazione di quei giorni si oscurerà il sole, e la luna non darà più la sua luce, e cadranno odal cielo le stelle, e le potestà dei cieli saranno sommosse. Allora il segno del Figliuolo dell’uomo comparirà nel cielo; e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figliuol dell’uomo scendere sulle nubi del cielo con potestà e maestà grande. E manderà i suoi Angeli, i quali con tromba e voce sonora raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un’estremità de’ cieli all’altra. Dalla pianta del fico imparate questa similitudine. Quando il ramo di essa intenerisce, e spuntano le foglie, voi sapete che l’estate è vicina: così ancora quando voi vedrete tutte queste cose, sappiate che Egli è vicino alla porta. In verità vi dico, non passerà questa generazione, che adempite non siano tutte queste cose. Il cielo e la terra passeranno; ma le mie parole non passeranno”).

OMELIA

(Discorsi del santo Curato d’Ars, vol. I, quarta edizione. Torino-Roma, C. Ed. Marietti, 1933)

DELLE VERITÁ ETERNE

Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis

“Ricordati della tua fine e non peccherai in eterno”

(Eccli. VII, 40)

Fratelli miei bisogna che queste verità siano molto potenti e molto salutari, se lo Spirito Santo ci assicura che se le meditiamo seriamente non peccheremo mai. Ciò non è difficile da comprendere. In effetti, fratelli miei, chi è colui che potrebbe attaccarsi ai beni di questo mondo pensando che fra poco tempo non ci sarà più? Da Adamo fino al presente, nessuno si è portato via qualcosa da quaggiù, e anche per noi sarà lo stesso. Chi è colui che si occuperebbe tanto degli affari di questo mondo, se fosse veramente persuaso che il tempo che trascorre sulla terra non gli sia donato se non per impegnarsi a guadagnare il cielo? Chi è colui che, ben impresso nella mente, o meglio nel cuore, che la vita del Cristiano debba essere vissuta nelle lacrime e nella penitenza, potrebbe ancora dedicarsi ai piaceri e alle gioie folli del mondo? Chi è colui che, essendo ben convinto che potrebbe morire in ogni momento, non si terrebbe sempre pronto? Ma voi mi direte: perché queste verità che hanno convertito tanti peccatori ci impressionano così poco? Ahimè, fratelli miei, questo accade perché noi non le meditiamo seriamente; il nostro cuore è troppo occupato dagli oggetti sensibili, che possono soddisfare le sue cattive inclinazioni; inoltre essendo il nostro spirito ingombro di affari temporali, perdiamo di vista queste grandi verità che dovrebbero costituire la nostra unica occupazione in questo mondo. Se mi domandaste perché lo Spirito Santo ci raccomanda con tanta insistenza di non perdere mai di vista queste verità, eccovene la ragione: il motivo è che non c’è nulla che sia più capace di distaccarci dai beni di questo mondo, niente di più potente per farci sopportare le miserie della vita in spirito di penitenza, o per meglio dire, nulla, più di queste verità ci faccia distaccare da tutte le cose create per non legarci che a DIO solo. – Ah! Fratelli miei, non dimentichiamo mai queste grandi verità, e cioè: che la nostra vita non è che un sogno; che la morte ci segue molto da vicino, e che ben presto essa ci raggiungerà; che un giorno saremo giudicati molto severamente, e che dopo questo giudizio la nostra sorte sarà fissata per sempre. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo desideri salvarci: a volte ci si presenta come un povero Bambino nella sua mangiatoia, adagiato su una manciata di paglia che egli bagna con le sue lacrime; altre volte come un criminale, legato, incatenato, coronato di spine, flagellato, cadente sotto il peso della sua croce, e, infine, morente tra i supplizi, per amore nostro. Anche se ciò non fosse capace di commuoverci, di attirarci a Lui, ci induce però ad annunciare che un giorno ritornerà, rivestito con tutto lo splendore della sua gloria e della maestà del Padre suo, per giudicarci senza più grazia né misericordia. Allora Egli svelerà, davanti al mondo intero, sia il bene che il male che noi abbiamo fatto in ogni istante della nostra vita. Ditemi, fratelli miei, se noi pensassimo bene a tutto ciò, ci sarebbe bisogno d’altro, per farci vivere e morire da santi? Ma Gesù Cristo, per farci comprendere bene cosa dobbiamo fare per andare in cielo, ci dice nel Vangelo, che le persone del mondo conducono una vita completamente opposta a quella di coloro che gli sono graditi, che appartengono interamente a Lui. I buoni Cristiani, Egli ci dice, fanno consistere la loro felicità nelle lacrime, nella penitenza e nel disprezzo; mentre le persone del mondo fanno consistere la loro felicità nei piaceri, nella gioia e negli onori della terra, rifuggendo da tutto il resto. Sicché, ci dice Gesù Cristo, la vita degli uni è del tutto opposta a quella degli altri, ed essi non andranno mai d’accordo, né nel modo di vivere né di pensare. E questo è molto facile da comprendere. Io dico che ci sono quattro cose che fanno la felicità di un buon Cristiano: la brevità della vita, il pensiero della morte, il giudizio e l’eternità. E noi vediamo che proprio queste quattro cose, costituiscono, invece, la disperazione di un cattivo Cristiano, cioè di una persona che dimentica il suo fine ultimo, per occuparsi solo delle cose presenti.

1. Dico che la brevità della vita è di conforto a un buon Cristiano, poiché egli vede che le sue pene, le sue disgrazie, le sue persecuzioni, le sue tentazioni, la sua separazione da DIO, non saranno lunghe. Quale gioia per noi, fratelli miei, quando pensiamo che tra poco tempo lasceremo questo mondo, dove siamo sempre in pericolo di offendere il buon DIO, che è un Salvatore così caritatevole, che ha tanto sofferto per noi. Ahimè! fratelli miei, con questo pensiero, potremmo forse noi mai attaccarci alla vita che è piena di tante miserie? “Che buona nuova! Esclamò san Girolamo. Quando si venne per annunziargli che stava per morire, felice nuova, che sta per unirmi al mio DIO, per sempre!”. Ed in effetti, fratelli miei, così è, dato che la morte è lo strumento di cui il buon DIO si serve per liberarci.

2° Io dico che il giudizio, ben lungi dal gettare il Cristiano nella disperazione, non fa invece che consolarlo, perché egli sta per trovarsi davanti non un giudice severo, ma suo Padre e il suo Salvatore. Sì, suo Padre, che lo attende per aprirgli le viscere della sua misericordia, al fine di riceverlo nel suo seno paterno; che sta, io dico, per manifestare al mondo intero tutte le sue lacrime, le sue penitenze, e tutte le buone opere che egli ha fatto durante tutti i giorni della sua vita.

3° Il pensiero dell’eternità, poi, porta al colmo la sua gioia. Se la sua beatitudine è infinita nelle sue dolcezze e nelle sue grandezze, l’eternità gli assicura che essa non finirà mai. Questo solo pensiero, fratelli miei, deve incoraggiarci a ben servire il buon DIO e per sopportare con pazienza tutte le miserie della vita, perché, una volta che saremo in cielo, non ne usciremo mai più! Ahimè! fratelli miei, tutte le miserie di questo mondo passano, tutto questo non dura che un momento, mentre la ricompensa durerà per sempre. Coraggio! ci dice san Paolo, siamo ormai vicini alla meta della nostra strada. Ma per un Cristiano, fratelli miei, che ha perso di vista il pensiero dei suoi fini ultimi, non è la stessa cosa; la brevità della vita è una sciagura e un’amarezza che lo turba e lo rode anche nel bel mezzo dei suoi piaceri; egli fa tutto ciò che può per allontanare questo pensiero della morte. Tutto ciò che gliene offre un ricordo, lo atterrisce; rimedi e medicine, tutto è invocato in suo soccorso, al minimo sentore che la morte si approssimi. Egli crede sempre di poter trovare la felicità quaggiù. Ma, purtroppo, egli si inganna. Questo povero derelitto, abbandonando il buon DIO, abbandona proprio ciò che poteva procurargliela; al momento della morte, sarà costretto a confessare di aver trascorso tutta la vita nel cercare un bene che non è mai riuscito a trovare. Ahimè! fuori di Dio, solo molte pene, molte sofferenze, nessuna consolazione, e nessuna ricompensa! Prima di partire da questo mondo, avrà il suo bel gridare, come quel re di cui ci parla la Scrittura, nell’Antico Testamento, il quale, vedendosi sul punto di dover lasciare la vita e tutti i suoi beni, diceva: “Ah!, devo dunque morire! Devo lasciare le mie aiuole e i miei bei giardini, per andare in un paese dove non conosco nessuno!”. Ahimè! la morte che è la consolazione del giusto, diviene la sua disperazione; bisogna morire, e non ci si è mai pensato! Ah! triste pensiero, bisogna andare a rendere conto a DIO di una vita che non è che una catena di peccati, e… senza buone opere che possano rassicurarlo. Al momento di partire da questa vita, egli vede chiaramente che il buon DIO lo aveva posto sulla terra soltanto per servirlo e per salvare la sua povera anima, mentre non ha fatto altro che oltraggiarlo e perdere così la sua bella anima. Egli vede, capisce benissimo, in questo momento, che il buon Dio non voleva affatto che si perdesse, ma voleva assolutamente salvarlo, e che sono i suoi peccati che Lo costringono a condannarlo. Quanto poi all’eternità, egli vede che fra qualche minuto sarà gettato nell’inferno. DIO mio, che disperazione! Se il pensiero dell’eternità consola tanto un Cristiano, nella certezza che la sua felicità non avrà mai fine, questo medesimo pensiero, completa la disperazione di questo povero infelice. Ah! povero disperato, deve iniziare il suo inferno per non finirlo mai più! Entrando nell’inferno, vede l’infelice Caino che brucia fin dall’inizio del mondo ed egli che ci sta entrando adesso, non ha meno tempo di lui da trascorrervi. Allora, i demoni stessi che lo hanno spinto a peccare, per rendere il suo supplizio ancora più violento, gli metteranno davanti tutte le grazie che il buon Dio aveva meritato per lui, con la sua morte e con la sua santa Passione. Egli vede come preoccupandosi della sua salvezza, sarebbe stato più felice. Egli vede quanto Gesù Cristo sia buono, per coloro che vogliono amarlo. – Ma, malgrado tutte queste riflessioni, che per lui saranno come altrettanti inferni, bisognerà rassegnarsi a bere, per tutta l’eternità, a piena bocca, il fiele del furore di Colui che doveva essere tutta la sua felicità, se egli si fosse deciso ad amarlo. Ah! triste meditazione che questo Cristiano farà per tutta l’eternità, dicendo a se stesso: ho perso il mio tempo, ho rovinato la mia anima, ho perduto DIO, ho rifiutato il cielo, ed ora mi aspetta una eternità di sofferenze! Ah! Cielo! che disgrazia! Ecco, fratelli miei, cosa succede a chi perde di vista i suoi fini ultimi. Ma! forse voi direte, voi dite bene che ci sia un’eternità infelice per i peccatori; ma occorre che lo dimostriate. Sarebbe molto facile, fratelli miei; ma questo significherebbe fare un affronto a dei Cristiani. Sarebbe molto meglio per voi, se potessi convincervi della necessità che avete di fare tutto il possibile per evitare quei tormenti. Se volete, ve ne dirò qualche parola, di passaggio, visto che siete così ignoranti e così ciechi, da nutrire qualche dubbio sull’argomento. Ascoltatemi bene. – Ecco cosa ci dice lo Spirito Santo per bocca del profeta Daniele: ci sono due sorta di uomini, ci sono coloro che sono giusti, vi sono quelli che sono peccatori; gli uni muoiono nella grazia di Dio, gli altri in odio a Lui. Tutti compariranno un giorno davanti al buon Dio, tutti si risveglieranno dal sonno della morte; tutti saranno giudicati e riceveranno una sentenza senza appello, dopo la quale, gli uni non avranno più nulla da temere, gli altri più nulla da sperare. Ma la differenza che sarà trovata tra gli uni e gli altri sarà molto grande, poiché gli uni si sveglieranno per andare a godere una gioia eterna, gli altri, per essere coperti di obbrobri, inabissati in ogni genere di pena, e questo, per tutta l’eternità. Lo Spirito Santo ci indica dappertutto quale sarà la sorte dei peccatori nell’altra vita; Egli ci dice: « Il Signore spargerà il fuoco sulla loro carne, affinché ardano e siano eternamente divorati ». Il santo re Davide dice che « il peccatore che durante la vita ha disprezzato il suo Dio, sarà gettato nell’inferno ». Se desiderate procedere oltre, san Giovanni Battista, predicando ai Giudei il battesimo di penitenza, per prepararli alla venuta del Messia, insegna loro, ancora, quale sarà la sorte del peccatore nell’altro mondo, dicendo loro che Gesù Cristo verrà un giorno e separerà il buon grano dal grano cattivo e dalla paglia: il buon grano, che sono i giusti, il Padre eterno li porrà nel suo granaio, che è il cielo; il grano cattivo e la paglia, che sono i peccatori, saranno legati in fasci e saranno gettati nel fuoco, che è l’inferno; là vi sarà pianto e stridore di denti. Gesù Cristo ci dice nel Vangelo, che il ricco epulone muore e che l’inferno è il suo sepolcro, dove soffre infiniti mali. Lazzaro, invece, è trasportato dagli Angeli nel seno di Abramo, cioè nel cielo. In un altro passo, parlando del peccatore ci dice: « Va’, maledetto, nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per coloro che lo hanno imitato ». Sant’Agostino ci dice parlando del peccatore: « Va’ maledetto, tu hai disprezzato il tuo DIO e le sue grazie durante la vita; va’ maledetto,  tu sarai precipitato in uno stagno di fuoco e di zolfo per tutta l’eternità. » Ma, fratelli miei, ciò che sto dicendo è inutile. Non c’è bisogno che vada a trovare così grandi prove, per mostrarvi che c’è una vita felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male. E’ sufficiente solo che apriate il vostro Catechismo, e lì troverete tutto quello che dovete credere, sapere e fare. Infatti, fratelli miei, quale è stata la prima domanda che vi è stata fatta, quando siete venuti in Chiesa per farvi istruire? Non è stata forse questa: chi vi ha creato e conservato fino al presente? E voi non avete forse risposto, molto semplicemente, che è stato DIO? Poi vi è stato chiesto: perché DIO vi ha creato? E voi avete risposto: per conoscerlo, amarlo, servirlo, e con questo mezzo guadagnare la vita eterna. Ecco, dunque, quale deve essere tutta l’occupazione di un buon Cristiano, e tutta la sua felicità. Deve imparare a conoscere DIO, cioè, a conoscere quali siano i mezzi più sicuri che debba usare, per piacere al buon DIO, evitando il male, e facendo il bene. Sto dicendo, fratelli miei, che noi dobbiamo amare il buon DIO. Ahimè! fratelli miei, non inganniamoci; se non ameremo il buon Dio in questo mondo, non avremo mai e poi mai la felicità di amarlo nell’altro. Non vi è stato detto forse, quando siete venuti al catechismo, che se non salvate la vostra anima, per voi tutto è perduto? Che avrete un bel piangere per tutta l’eternità, che non ne caverete un bel nulla! Non vi è stato forse assicurato, facendovi distinguere il bene dal male, che un solo peccato mortale possa portarvi alla idannazione eterna? E non vi è stato detto che il peccato sia l’unico male che dovete temere, perché non c’è che esso che abbia il potere di separarci da Dio per tutta l’eternità, gettandoci nell’inferno? Non vi è stato forse detto, che tutti noi un giorno moriremo, e che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per ognuno di noi? Non vi è stato forse ricordato che nell’istante in cui moriremo, saremo giudicati rigorosamente, e che tutto ciò che abbiamo fatto durante la nostra vita, sia in bene che in male, ci accompagnerà davanti al tribunale di Dio? Non avevo, dunque, ragione nel dirvi che se conoscessimo tutto quello che è scritto nel nostro Catechismo, avremmo tutta la scienza necessaria per salvarci? Allorché siete venuti qui, nella vostra infanzia, non vi è stato forse detto che, dopo questo tempo che finirà ben presto, ne verrà un altro che non finirà mai più, e che racchiuderà ogni sorta di bene o di male, a seconda che ci avremo fatto bene o male? Ditemi, fratelli miei, se tutte queste verità fossero incise nei nostri cuori, potremmo vivere senza amare il buon Dio, e senza fare tutto ciò che dipende da noi, per evitare tutti questi malanni? – Ahimè! fratelli miei, queste verità hanno fatto tremare i Santi, hanno fatto convertire grandi peccatori, e hanno spinto i penitenti a usare grande rigore nelle loro penitenze e nelle loro macerazioni! – Leggiamo nella storia che sant’Ambrogio, scrivendo all’imperatore Teodosio che aveva commesso un certo peccato, più per essere stato colto di sorpresa che per malizia, gli diceva: « Ho visto – dice Sant’Ambrogio – in una visione nella quale il buon DIO mi ha mostrato che, se ti avessi visto venire in chiesa, mi ha comandato di chiudervi la porta, poiché il vostro peccato vi aveva reso indegno di entrarvi ». Dopo la lettura di questa lettera, l’imperatore cominciò a spandere lacrime in abbondanza; tuttavia, come era suo costume, andò a presentarsi alla porta della chiesa, nella speranza che il Vescovo si sarebbe lasciato commuovere dalle sue lacrime e dal suo pentimento. Ma il Vescovo, ben lontano dal lasciarsi piegare, come i suoi ministri vili e compiacenti, vedendolo avvicinarsi alla chiesa, gli intimò di fermarsi, secondo l’ordine ricevuto da DIO, poiché non era degno di entrare nella casa di Colui che aveva osato oltraggiare, e gli ordinò di cominciare a espiare il suo peccato ». L’imperatore rispose: « E’ vero – gli dice –  che sono un peccatore e indegno di entrare nel tempio del Signore, ma il buon DIO vede il mio pentimento. Anche Davide ha peccato, ed il Signore gli ha perdonato ». – « Ebbene! – gli rispose sant’Ambrogio – se avete imitato Davide nel suo peccato, imitatelo nella sua penitenza ». L’imperatore, senza nulla replicare a queste parole, si ritira; le lacrime colano dai suoi occhi; il suo cuore si lacera per il dolore; si strappa i suoi abiti regali e ne indossa di poveri e laceri, si getta con la faccia a terra, abbandonandosi a tutta l’amarezza del dolore e facendo risuonare per il palazzo le grida più laceranti. I suoi sudditi, vedendolo in una così grande desolazione, non hanno il coraggio né di guardarlo, né di rivolgergli la minima parola per consolarlo; si contentano di mescolare le loro lacrime a quelle del loro padrone; il suo palazzo si trasforma in un luogo di dolore, di lacrime e di penitenza. Egli non si contenta di confessare il suo peccato nel tribunale della penitenza, ma lo confessò pubblicamente, affinché una tale umiliazione attirasse su di lui la misericordia di DIO. Era inconsolabile nel vedere che i suoi sudditi potessero entrare in chiesa, mentre egli ne era escluso. Se gli si permetteva di partecipare ad una preghiera pubblica, vi prendeva parte nella maniera più umiliante: non stava né in piedi, né in ginocchio, come gli altri, ma prostrato con la faccia a terra, inondandola di lacrime. Si strappava i capelli per mostrare la grandezza del suo dolore, raccoglieva delle pietre con le quali si martoriava il petto e gridava: Misericordia! Per tutta la vita conservò il ricordo del suo peccato: i suoi occhi versavano continuamente lacrime. Ma se voi mi domandate: quale è stata la causa di tante lacrime, di un così grande dolore e di una penitenza così straordinaria? Ahimè! fratelli miei, vi risponderei: che fu il solo pensiero che un giorno Dio lo avrebbe citato in giudizio per il suo peccato, davanti a quel tribunale dove sarebbe stato giudicato senza più misericordia. Ahimè! fratelli miei, se queste grandi verità fossero ben impresse nei nostri cuori, potremmo noi vivere senza lavorare continuamente per placare la giustizia di Dio, che i nostri peccati hanno tanto esasperato? In effetti, fratelli miei, chi è colui che, pensando che non si trovi in questo mondo se non per salvarsi l’anima, potrebbe ancora cercare di ingannare o fare torto al proprio prossimo? Chi è colui che ben convinto che tutti questi beni che accumula a discapito della salvezza della sua anima, fra poco tempo li lascerà a degli eredi che forse sono ingrati, che li dissiperanno in dissolutezze, senza, forse, fare la minima preghiera in suffragio della sua anima? Ma, quand’anche essi li usassero per compiere opere buone, queste non potranno strapparvi all’inferno, se voi avete lasciato la vostra anima nel peccato. Chi potrebbe ancora abbandonarsi ai divertimenti del mondo, che sono tanto fugaci e sì funesti per la nostra salvezza, perdendo di vista l’affare più grande della nostra salvezza? Chi è colui che, essendo ben persuaso che un solo peccato mortale possa dannarlo, avrebbe il coraggio di commetterlo? Oppure, chi, avendo avuto la disgrazia di averlo commesso, potrebbe restare ancora in uno stato sì deplorevole, in cui la mano di DIO può colpirlo da un momento all’altro, e non si affretterebbe invece a far ricorso al Sacramento della Penitenza, unico rimedio che il buon DIO ci offre, nella sua misericordia? – Chi è colui, fratelli miei, che pensando che potrebbe morire in qualunque momento, non vivrebbe ogni giorno, tremante, sull’orlo dell’abisso? Chi è colui che si attaccherebbe tanto fortemente alla vita, al pensiero che forse domani non esisterà più? Chi, fratelli miei, pur essendo certo che nell’istante in cui andrà a comparire davanti a DIO, sarà giudicato con ogni rigore, non temerebbe continuamente di dover subire un giudizio, così temibile perfino per i più giusti? Chi è colui fratelli miei che, essendo certo che dopo questa vita mortale ne avremo un’altra felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male, non metterebbe ogni cura nel meritare i beni che il buon DIO ha preparato per coloro che lo hanno amato? Ah! fratelli miei, diciamo ancora meglio, chi è colui che, meditando a fondo queste grandi verità, non vivrebbe e non morirebbe da santo? Anima mia – gridava un santo penitente – ricordati dei tuoi peccati e di queste grandi verità; non dimenticare mai da dove vieni, dove vai, da chi hai ricevuto l’essere, a chi devi donare il tuo cuore, che cosa hai portato in questo mondo e che cosa porterai via, uscendo dal tuo esilio. Ahimè! fratelli miei, noi, fino ad ora, non abbiamo mai considerato tutto questo fino al presente; ahimè! noi aspettiamo, per pensarci, il momento in cui le nostre lacrime e le nostre penitenze resteranno senza frutto. Come saremmo felici, fratelli miei, se queste grandi verità potessero dissipare le tenebre che ci accecano, riguardo al grande affare della nostra salvezza; se noi avessimo la fortuna di essere fortemente convinti che noi non siamo stati che un puro nulla e un miserabile verme di terra: che siamo solo peccatori e pieni di colpe, che un giorno saremo eternamente felici, se evitiamo il peccato, ed eternamente infelici, se seguiamo le nostre cattive inclinazioni! Ahimè! fratelli miei, forse non abbiamo a nostra disposizione che pochi istanti ancora, per prepararci al terribile passaggio. Rientriamo nei nostri cuori, fratelli miei, per non occuparci che delle grandi verità, le sole degne della nostra attenzione, le sole capaci di convertirci. Fratelli miei, lasciamo passare ciò che passa e perisce insieme a noi; attacchiamoci a ciò che è eterno e permanente. Diciamo a tutte le cose di quaggiù, come facevano tutti i Santi: No! No! Voi per me non contate più nulla, dal momento che, forse domani, o voi o io, non esisteremo più; lasciatemi profittare del poco tempo che mi resta, per fare in modo che il buon Dio si degni di perdonarmi. Ah! no, no, io non voglio vivere che per Dio, disprezzando i beni che periscono. Ah! questi Santi hanno ben compreso queste grandi verità! E potremmo dire che ne hanno fatto l’unica loro occupazione! Leggiamo nella storia della Chiesa che un gran numero di Santi, tutti penetrati dal nulla di questo mondo e dalla grandezza delle verità, lo hanno disprezzato e abbandonato, per andare a chiudersi nei monasteri o ritirarsi nel fondo delle foreste, per poter meditare queste verità con maggiore agio. E là, nelle grotte spaventose e oscure, lontani dai rumori e dai tumulti del mondo, non si occupavano d’altro se non di queste verità immutabili. Penetrati da questi grandi sentimenti, esercitavano sui loro corpi tutti i rigori della penitenza, che il loro amore per DIO gli ispirava. La preghiera, il digiuno e la disciplina, riducevano i loro corpi in uno stato degno della più grande compassione. Una gran parte di loro non mangiava che qualche radice che trovava smuovendo la terra. Se mangiavano qualche pezzetto di pane, lo ammollivano con le loro lacrime, vedendosi costretti a dare un po’ di sollievo a quel corpo che era più morto che vivente. Così trascorrevano la loro vita, che non era altro che un continuo martirio. E allorché, dopo venti, trenta, quaranta o ottant’anni di penitenza, arrivavano alla fine della loro corsa, ancora tutti spaventati, si dicevano, gridando, gli uni gli altri: Pensate, amici miei, che Dio avrà finalmente pietà delle nostre anime e che si lascerà piegare? Che vorrà ancora accordarci il perdono dei nostri peccati? Pensate che potremo ancora trovare grazia davanti a questo Giudice che allora sarà senza misericordia? Ah! chi pregherà per noi, per addolcire la severità del nostro Giudice? Ah! potremo ancora sperare di aver parte un giorno alla felicità dei figli di DIO? – Sì, fratelli miei, noi vediamo che i Santi penitenti, dopo aver avuto la fortuna di conoscere che cosa sia veramente il peccato, e come il buon Dio lo punisca severamente nell’altra vita, non mettevano limiti alla loro penitenza. – San Girolamo ci racconta che una dama romana, avendo abbandonato il marito, a causa dei vizi a cui era dedito, credette che, essendosi separata secondo la legge, poteva, senza peccare, rimaritarsi legittimamente con un altro uomo. San Girolamo ci dice che un giorno la rese consapevole del suo peccato; ella allora fu colta da un tale dolore, coperta da una tale confusione, che abbandonò all’istante gli abiti mondani e si vestì di un sacco; … i capelli scompigliati, il volto coperto di fango, le mani tutte sporche, la testa coperta di cenere e di polvere, i vestiti tutti strappati, la bocca serrata. In questo misero stato, si va a gettare ai piedi del santo Padre (san Girolamo). Il santo Padre e tutti coloro che furono testimoni di questo spettacolo, non riuscivano a resistere vedendo il triste stato in cui questa signora romana era caduta, a causa della sua ignoranza. Roma, continua questo Padre, faceva echeggiare le sue mura delle grida più laceranti, e sembrava voler condividere il dolore di questa grande penitente. Ella confessava pubblicamente il suo peccato, sempre versando un torrente di lacrime. Portò per tutta la vita i vestiti della penitenza; il suo dolore e il suo pentimento la seguirono fino alla tomba. Non contenta di tutto ciò, vendette tutti i suoi beni, che erano immensi, per vivere e morire nella più grande povertà. A questo punto vi sarete chiesti: … ma quale è stata la causa di tutto questo? Ahimè! Il solo pensiero che un giorno le sarebbe stato intimato di andare a presentarsi davanti al tribunale di Gesù Cristo. Ella chiedeva a Dio la grazia di prolungarle di qualche giorno la vita, affinché avesse il tempo di fare penitenza. Ahimè! Gridava ad ogni istante, bisogna che io vada a comparire davanti al buon Dio; che ne sarà di me, se il mio peccato non sarà cancellato dalle lacrime e dalla penitenza? O felice penitenza! O lacrime salutari! Venite in mio aiuto: soltanto voi voglio come compagne per tutti i giorni della mia vita. Ahimè! Fratelli miei, ci dice il grande Santo Giovanni Climaco, se il pensiero dell’eternità ha portato tanti Santi a fare penitenze così straordinarie, quale sarà la nostra sorte, noi che non facciamo nessuna penitenza? DIO mio! Quanto sarà terribile la vostra giustizia per questi poveri peccatori che non avranno nulla su cui appoggiarsi! « Ah! Amici miei, egli ci dice, ho visto dei penitenti in un luogo che non si può nemmeno immaginare, senza versare lacrime; in un luogo, dico, sprovvisto di ogni aiuto umano, di ogni consolazione umana. Non c’era che oscurità, puzza e sporcizia; tutto era così spaventoso, che non lo si poteva vedere senza piangere di compassione. Questi nobili e santi penitenti non avevano in questo luogo né fuoco né vino, solo qualche radice e qualche pezzo di pane duro e nero che essi inzuppavano con le loro lacrime. Quando arrivai – ci dice san Giovanni Climaco, in quel luogo di penitenza, che molto giustamente è nominato « soggiorno del pianto e delle lacrime », vidi veramente, oserei dire, ciò che colui il quale trascura la sua salvezza, non ha mai visto, e ciò che colui che è pigro nei suoi doveri, non ha mai ascoltato, e ciò che il cuore di colui che cammina lentamente nella via della virtù, non ha mai potuto comprendere; poiché vi assicuro che ho visto delle azioni ed ho ascoltato delle parole, capaci di esprimerlo. Alcuni passavano le notti intere in piedi nel rigore dell’inverno e, quando il loro povero corpo cadeva per la debolezza e il rilassamento: Ah! maledetto, dicevano a se stessi, poiché hai avuto l’ardire di oltraggiare il buon DIO, bisogna che tu soffra in questo mondo o nell’altro. Scegli la parte che vuoi prendere; le sofferenze di questo mondo non sono che di un momento, invece quelle dell’altra vita sono eterne. Ne vidi altri che con gli occhi sempre levati al cielo, rivolgevano le grida più laceranti chiedendo misericordia. Altri che si facevano legare le mani, finanche le dita, durante la loro preghiera, come criminali, ritenendosi indegni di fissare il cielo. Essi erano talmente penetrati dalla loro miseria e del loro niente che non sapevano da dove cominciare la loro preghiera. Essi si offrivano a DIO come vittime pronte ad essere immolate. Si vedevano altri, vestiti da un sacco, coperti di cenere, distesi sul pavimento e battersi la fronte contro le pietre; altri che piangevano con tante lacrime, da formarne dei ruscelli. Ne vidi alcuni talmente pieni di ulcere, che ne usciva un’infezione capace di far morire coloro che erano loro vicini. Essi avevano sì poca cura di sé, che i loro corpi sembravano un ammasso di ossa coperto da una pelle. Ovunque ci si volgeva, non si ascoltavano che grida e singhiozzi che laceravano le viscere facendo versare lacrime. Le loro grida più frequenti erano: Ah! guai a noi che abbiam peccato! Gli uni portavano il loro rigore tanto lontano che non bevevano acqua se non per impedirsi di morire; altri, quando mettevano qualche boccone di pane in bocca, lo rigettavano subito dicendo che essi erano indegni di mangiare il pane dei figli di DIO dopo averlo oltraggiato. Essi avevano sempre presente al loro spirito e davanti ai loro occhi l’immagine della morte; essi si dicevano l’un l’altro: ahimè! Amici miei, cosa diventeremo? Pensate che avanziamo un poco nella strada della penitenza? Oh! Siano profonde le nostre lacrime! I nostri debiti sono troppo grandi! Come faremo per ripagarli? Facciamo, si dicevano, come i niniviti. Ahimè! Chissà se il buon DIO non avrà ancora pietà di noi? Facciamo tutto ciò che potremo per sperare che il Signore voglia ancora lasciarsi commuovere; corriamo nella corsia della penitenza senza risparmiare questo corpo di peccato che non è che abisso di corruzione: uccidiamo questo corpo maledetto come esso ha voluto uccidere le nostre povere anime. Era questo il loro linguaggio ordinario, esso era sufficiente – ci dice San Giovanni Climaco, a condurli a piangere amaramente: essi avevano gli occhi abbattuti, infossati nella testa, non avevano più ciglia alle palpebre: le loro gote erano talmente infossate che sembrava che il fuoco le avesse rose, tanto era per loro ordinario il piangere con lacrime calde; il loro viso era così sfigurato e pallido che sembravano dei morti che avevano dimorato due giorni nella tomba; ve n’erano di taluni che si martoriavano talmente il petto a colpi di pietre, che alla maggior parte di essi si vedeva il sangue uscire dalla bocca; diversi chiedevano al loro superiore di mettere loro dei ferri al collo ed alle mani e ceppi ai piedi: una parte li tenevano fino alla tomba. Essi erano così umili, amavano talmente il buon DIO, avevano tanto dolore dei propri peccati, e si vedevano sul punto di comparire davanti al loro Giudice, che essi pregavano in grazia del loro superiore, di non seppellirli; ma di gettarli in qualche fiume o in qualche foresta per servire da pasto ai lupi e alle bestie selvagge. Ecco – ci dice San Giovanni – la maniera in cui vivevano queste anime sante ed innocenti. Quando fui di ritorno – continua il Santo medesimo –  ed il superiore vide che ero così distrutto e che appena poteva riconoscermi e sembravo di non poter più vivere: ebbene! Padre mio – mi dice – avete visto i travagli ed i combattimenti del nostro genere di soldati? Io non potei rispondergli se non con lacrime e singhiozzi, tanto questo genere di vita mi aveva colpito in dei corpi umani. » Ahimè! Fratelli miei, dove siamo? Qual sarà la nostra sorte e la nostra eternità se DIO domandasse a noi altrettanto? Ah! No, no, fratelli miei, mai per noi il cielo se ci volesse tanto! Ah! almeno senza fare così grandi e spaventose penitenze e cominciassimo ad amare il buon DIO, potremmo  ancora sperare la stessa felicità! Oh DIO mio, quanto siamo ciechi circa la nostra eterna felicità! Ahimè!, fratelli miei, questi grandi Santi che ammiriamo senza avere il coraggio di imitarli, ditemi, avevano forse un altro Vangelo da seguire? Avevano un’altra Religione da praticare? Avevano un altro DIO da servire? Un’altra eternità da temere o da sperare? No, senza dubbio, fratelli miei, ma essi avevano la fede che noi non abbiamo, che noi abbiamo quasi spenta per la moltitudine dei nostri peccati: è che essi pensano seriamente alla salvezza della loro povera anima, mentre noi lasciamo da parte questa povera anima che è sì povera e che tanto è costata a Gesù-Cristo, e che torna indifferente salvare o dannare. È che essi meditavano incessantemente queste grandi e terribili verità dell’altra vita, la perdita di un DIO, la grandezza del peccato, una eternità felice o infelice, l’incertezza della morte, gli abissi spaventosi dei giudizi di DIO e le sequele di un avvenire felice o infelice, secondo che avremo vissuto bene o male, mentre noi non ci pensiamo mai. Non essendo occupati che da cose di questo mondo, lasciamo la nostra anima ed il cielo da parte. In una parola, c’è che essi vivono da penitenti e da Santi, mentre noi viviamo da mondani, nel peccato e nei piaceri del mondo, e non di penitenza. O cecità dell’uomo, quanto grande tu sei! Chi potrà mai comprenderlo? Non essere in questo mondo che per amare il buon DIO e salvare la nostra anima, e non vivere per offenderlo e rendere la nostra anima infelice per l’eternità! In effetti, fratelli miei, qual è la nostra vita al presente? A cosa abbiamo pensato da quando siamo sulla terra? A chi abbiamo dato il nostro cuore? Cosa abbiamo fatto per Dio, nostro primo ed ultimo fine? Qual zelo, quale ardore abbiamo avuto per la gloria di Dio e la salvezza della nostra povera anima che è costata tante sofferenze a Gesù-Cristo? Quanti rimproveri, al contrario, non abbiamo da farci? Ahimè! Ben lungi dall’avere impiegato tutta la nostra vita a procurare la gloria di DIO ed assicurarci la felicità eterna, forse noi non vi abbiamo mai pensato un solo giorno, come un Cristiano dovrebbe fare tutta la vita. Ah! ingrati! È forse per questo che il buon DIO  ci ha creati e messo sulla terra? Non è al contrario che per occuparci di Lui e consacrargli tutto i movimenti del nostro cuore? Noi non dovremmo vivere che per LUI, e forse non abbiamo ancora vissuto un solo giorno del quale potremmo dire di essere tutto per Lui e solo per Lui. Ahimè! Fratelli miei, ben presto ci toccherà render conto di tutte le nostre azioni. Cosa abbiamo da presentargli? Cosa avremo da rispondere a tutte le sue interrogazioni quando ci mostrerà da un lato tutte le grazie che ci ha accordato durante tutta la nostra vita, e dall’altra il poco profitto o piuttosto il disprezzo che ne abbiamo fatto? È possibile mai che, avendo tra le mani, delle grazie così preziose, siamo ancora sì tiepidi, sì lassi e languidi nel servizio a DIO? Ah! fratelli miei, se i pagani e gli idolatri avessero ricevuto tante grazie come noi, non sarebbero divenuti gran Santi? Quanti, fratelli miei, grandi peccatori, se fossero stati ricolmi di tanti benefici come noi, non avrebbero fatto penitenza, come i niniviti, coperti da cenere e cilicio? Ricordiamoci, fratelli miei, tutto ciò che il buon DIO ha fatto per noi da quando siamo al mondo. Quanti tra voi sono morti senza avere avuto il beneficio di ricevere il santo Battesimo? Quanti altri che, dopo un peccato mortale sono stati colpiti subito e sono caduti nell’inferno! Oh! Quanti pericoli anche corporali da cui DIO, nella sua misericordia, ci ha preservato, preferendoci a tanti altri che sono periti in una maniera straordinaria. Ma a quanti di noi, dopo avere avuto la disgrazia di peccare, il buon DIO non ci ha perseguiti con rimorsi di coscienza, di buoni pensieri? Quante istruzioni, quanti buoni esempi che sembravano rimproverarci la nostra indifferenza per la nostra salvezza! Ditemi, fratelli miei, dopo tanti tratti di misericordia del buon DIO, cosa avremo da rispondergli quando ci domanderà conto del profitto che ne abbiamo fatto? O pensiero triste, fratelli miei,  per un peccatore che ha disprezzato tutto, e che non ha saputo profittare di nulla. Eh ben ingrato, ci dirà Gesù-Cristo, le virtù che vi ho comandato erano troppo difficili? Non potevate praticarle come tanti altri? In quale stato comparirete davanti a me! Non sapevate che sarebbe arrivato un giorno in cui Io avrei domandato a voi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi? Ebbene, miserabili, rendetemi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi! Ahimè! Fratelli miei, cosa andremo a rispondere, o piuttosto qual confusione per noi! Preveniamo, fratelli miei, questo momento orribile per il peccatore, profittando finalmente delle grazie che la bontà di DIO vuole ancora ben accordarci oggi. Io dico oggi, perché forse domani, in cui il buon DIO ci avrà abbandonato, non saremo più in questo mondo. Sapete, fratelli miei, il linguaggio che dobbiamo tenere in questo momento? Eccolo: Ah! diremo. Io sapevo molto bene che non ero sulla terra che per poco tempo, e tuttavia non ho vissuto che per il mondo. E perdendo la vita eterna, io sapevo che in qualche anno avrei finito la mia corsa, e che mille anni non sarebbero stati tanto lunghi per prepararmi a questo triste passaggio da questo mondo all’eternità in cui potevo entrare in ogni istante; e questo poco tempo io non l’ho impiegato che per gli affari del tempo, per i divertimenti e per del niente. Ecco questo tempo prezioso che DIO non mi aveva dato che per assicurarmi una eterna felicità che va a sparire ai miei occhi, e l’eternità che sta per cominciare per non finire mai. Sarà essa felice o infelice? Ahimè! Cosa ho fatto per meritarla felice? O tempo perduto! Eternità obliata! Qual disprezzo! Tu che getti anime nell’inferno! O cecità dell’uomo che potrà comprendere, quattro giorni da passare in questo mondo ed una eternità intera nell’altra: e questi quattro giorni hanno fatto tutta la mia occupazione, ed io ho fatto tutto ciò che ho potuto per cancellarvi dalla mia memoria. DIO mio, dov’è dunque la nostra fede? Dove la nostra ragione? Per vivere come viviamo. – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? È che, malgrado noi abbiamo tanto disprezzato delle grazie, se vogliamo profittare di quelle che il buon DIO vuole accordarci nella sua misericordia, non soltanto potremo riscattare il tempo passato, ma procurarci una felicità infinita nell’altra vita. Se il buon DIO ci ha conservato la vita, malgrado tanti peccati, non è che perché voleva effondere su di noi la grandezza delle sue misericordie; più siamo peccatori, più Egli desidera la nostra salvezza, affinché possiamo essere come tanti strumenti per manifestare per tutta l’eternità la grandezza delle sue misericordie per i peccatori. Sì, fratelli miei, Egli ci attende con le braccia aperte; Egli ci apre la piaga del suo Cuore divino per nasconderci alla severità della giustizia di suo Padre; Egli ci presenta tutti i meriti della sua morte e passione al fin di pagare per i nostri peccati. Se il nostro ritorno è sincero, Egli si incarica di rispondere per noi al tribunale di suo Padre, quando saremo interrogati per rendere conto della nostra vita. Felice colui che obbedisce alla voce del suo DIO che lo chiama! Felice, fratelli miei, colui che non avrà mai perso di vista che la sua vita è breve, che può morire in ogni istante, e non ha mai perso il pensiero che dopo questa vita sarà giudicato, per una eternità di felicità e di dannazione, per il cielo o per l’inferno. O DIO mio! Se noi pensassimo incessantemente ai nostri fini ultimi, potremo vivere nel peccato, potremmo dimenticare questo tempo avvenire che, una volta cominciato, non finirà mai? Ditemi, fratelli miei, credete a questa eternità, voi che dopo forse dieci o venti anni siete nell’odio di DIO? Credete all’eternità, fratelli miei, voi che avete i beni di altri? Ah! no, no, se voi vi credeste, voi non potreste vivere come vivete. Ditemi, voi miserabile, che dopo tanti anni di peccati celati nelle vostre Confessioni, colpevole di tanti sacrilegi fatti con le Comunioni; ahimè! Se voi lo credeste appena un poco, non morireste di orrore di voi stesso, pensando ad ogni momento in cui siete esposto ad andare a rendere conto di tutte queste turpitudini davanti ad un Giudice che sarà senza misericordia. Sì, fratelli miei, se avessimo la felicità di ben meditare su ciò che ci attende dopo questo mondo che è così breve, sarebbe impossibile non lavorare per tutta la vita tremando nel timore di non riuscire a salvare la nostra povera anima. Felice, fratelli miei, colui che si terrà sempre pronto! Ciò che io vi auguro…

 Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desideri celesti.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato].

Postcommunio

Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: DELLE VERITÁ ETERNE

(Discorsi del santo curato d’Ars, vol. I, quarta edizione. Torino-Roma, C. Ed. Marietti, 1933)

DELLE VERITÁ ETERNE

Memorare novissima tua, et in æternum non peccabis

“Ricordati della tua fine e non peccherai in eterno”

(Eccli. VII, 40)

Fratelli miei bisogna che queste verità siano molto potenti e molto salutari, se lo Spirito Santo ci assicura che se le meditiamo seriamente non peccheremo mai. Ciò non è difficile da comprendere. In effetti, fratelli miei, chi è colui che potrebbe attaccarsi ai beni di questo mondo pensando che fra poco tempo non ci sarà più? Da Adamo fino al presente, nessuno si è portato via qualcosa da quaggiù, e anche per noi sarà lo stesso. Chi è colui che si occuperebbe tanto degli affari di questo mondo, se fosse veramente persuaso che il tempo che trascorre sulla terra non gli sia donato se non per impegnarsi a guadagnare il cielo? Chi è colui che, ben impresso nella mente, o meglio nel cuore, che la vita del Cristiano debba essere vissuta nelle lacrime e nella penitenza, potrebbe ancora dedicarsi ai piaceri e alle gioie folli del mondo? Chi è colui che, essendo ben convinto che potrebbe morire in ogni momento, non si terrebbe sempre pronto? Ma mi voi mi direte: perché queste verità che hanno convertito tanti peccatori ci impressionano così poco? Ahimè, fratelli miei, questo accade perché noi non le meditiamo seriamente; il nostro cuore è troppo occupato dagli oggetti sensibili, che possono soddisfare le sue cattive inclinazioni; inoltre essendo il nostro spirito ingombro di affari temporali, perdiamo di vista queste grandi verità che dovrebbero costituire la nostra unica occupazione in questo mondo. Se mi domandaste perché lo Spirito Santo ci raccomanda con tanta insistenza di non perdere mai di vista queste verità, eccovene la ragione: il motivo è che non c’è nulla che sia più capace di distaccarci dai beni di questo mondo, niente di più potente per farci sopportare le miserie della vita in spirito di penitenza, o per meglio dire, nulla, più di queste verità ci faccia distaccare da tutte le cose create per non legarci che a DIO solo. – Ah! Fratelli miei, non dimentichiamo mai queste grandi verità, e cioè: che la nostra vita non è che un sogno; che la morte ci segue molto da vicino, e che ben presto essa ci raggiungerà; che un giorno saremo giudicati molto severamente, e che dopo questo giudizio la nostra sorte sarà fissata per sempre. Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo desideri salvarci: a volte ci si presenta come un povero Bambino nella sua mangiatoia, adagiato su una manciata di paglia che egli bagna con le sue lacrime; altre volte come un criminale, legato, incatenato, coronato di spine, flagellato, cadente sotto il peso della sua croce, e, infine, morente tra i supplizi, per amore nostro. Anche se ciò non fosse capace di commuoverci, di attirarci a Lui, ci induce però ad annunciare che un giorno ritornerà, rivestito con tutto lo splendore della sua gloria e della maestà del Padre suo, per giudicarci senza più grazia né misericordia. Allora Egli svelerà, davanti al mondo intero, sia il bene che il male che noi abbiamo fatto in ogni istante della nostra vita. Ditemi, fratelli miei, se noi pensassimo bene a tutto ciò, ci sarebbe bisogno d’altro, per farci vivere e morire da santi? Ma Gesù Cristo, per farci comprendere bene cosa dobbiamo fare per andare in cielo, ci dice nel Vangelo, che le persone del mondo conducono una vita completamente opposta a quella di coloro che gli sono graditi, che appartengono interamente a Lui. I buoni Cristiani, Egli ci dice, fanno consistere la loro felicità nelle lacrime, nella penitenza e nel disprezzo; mentre le persone del mondo fanno consistere la loro felicità nei piaceri, nella gioia e negli onori della terra, rifuggendo da tutto il resto. Sicché, ci dice Gesù Cristo, la vita degli uni è del tutto opposta a quella degli altri, ed essi non andranno mai d’accordo, né nel modo di vivere né di pensare. E questo è molto facile da comprendere. Io dico che ci sono quattro cose che fanno la felicità di un buon Cristiano: la brevità della vita, il pensiero della morte, il giudizio e l’eternità. E noi vediamo che proprio queste quattro cose, costituiscono, invece, la disperazione di un cattivo Cristiano, cioè di una persona che dimentica il suo fine ultimo, per occuparsi solo delle cose presenti.

1. Dico che la brevità della vita è di conforto a un buon Cristiano, poiché egli vede che le sue pene, le sue disgrazie, le sue persecuzioni, le sue tentazioni, la sua separazione da DIO, non saranno lunghe. Quale gioia per noi, fratelli miei, quando pensiamo che tra poco tempo lasceremo questo mondo, dove siamo sempre in pericolo di offendere il buon DIO, che è un Salvatore così caritatevole, che ha tanto sofferto per noi. Ahimè! fratelli miei, con questo pensiero, potremmo forse noi mai attaccarci alla vita che è piena di tante miserie? “Che buona nuova! Esclamò san Girolamo. Quando si venne per annunziargli che stava per morire, felice nuova, che sta per unirmi al mio DIO, per sempre!”. Ed in effetti, fratelli miei, così è, dato che la morte è lo strumento di cui il buon DIO si serve per liberarci.

2° Io dico che il giudizio, ben lungi dal gettare il Cristiano nella disperazione, non fa invece che consolarlo, perché egli sta per trovarsi davanti non un giudice severo, ma suo Padre e il suo Salvatore. Sì, suo Padre, che lo attende per aprirgli le viscere della sua misericordia, al fine di riceverlo nel suo seno paterno; che sta, io dico, per manifestare al mondo intero tutte le sue lacrime, le sue penitenze, e tutte le buone opere che egli ha fatto durante tutti i giorni della sua vita.

3° Il pensiero dell’eternità, poi, porta al colmo la sua gioia. Se la sua beatitudine è infinita nelle sue dolcezze e nelle sue grandezze, l’eternità gli assicura che essa non finirà mai. Questo solo pensiero, fratelli miei, deve incoraggiarci a ben servire il buon DIO e per sopportare con pazienza tutte le miserie della vita, perché, una volta che saremo in cielo, non ne usciremo mai più! Ahimè! fratelli miei, tutte le miserie di questo mondo passano, tutto questo non dura che un momento, mentre la ricompensa durerà per sempre. Coraggio! ci dice san Paolo, siamo ormai vicini alla meta della nostra strada. Ma per un Cristiano, fratelli miei, che ha perso di vista il pensiero dei suoi fini ultimi, non è la stessa cosa; la brevità della vita è una sciagura e un’amarezza che lo turba e lo rode anche nel bel mezzo dei suoi piaceri; egli fa tutto ciò che può per allontanare questo pensiero della morte. Tutto ciò che gliene offre un ricordo, lo atterrisce; rimedi e medicine, tutto è invocato in suo soccorso, al minimo sentore che la morte si approssimi. Egli crede sempre di poter trovare la felicità quaggiù. Ma, purtroppo, egli si inganna. Questo povero derelitto, abbandonando il buon DIO, abbandona proprio ciò che poteva procurargliela; al momento della morte, sarà costretto a confessare di aver trascorso tutta la vita nel cercare un bene che non è mai riuscito a trovare. Ahimè! fuori di Dio, solo molte pene, molte sofferenze, nessuna consolazione, e nessuna ricompensa! Prima di partire da questo mondo, avrà il suo bel gridare, come quel re di cui ci parla la Scrittura, nell’Antico Testamento, il quale, vedendosi sul punto di dover lasciare la vita e tutti i suoi beni, diceva: “Ah!, devo dunque morire! Devo lasciare le mie aiuole e i miei bei giardini, per andare in un paese dove non conosco nessuno!”. Ahimè! la morte che è la consolazione del giusto, diviene la sua disperazione; bisogna morire, e non ci si è mai pensato! Ah! triste pensiero, bisogna andare a rendere conto a DIO di una vita che non è che una catena di peccati, e… senza buone opere che possano rassicurarlo. Al momento di partire da questa vita, egli vede chiaramente che il buon DIO lo aveva posto sulla terra soltanto per servirlo e per salvare la sua povera anima, mentre non ha fatto altro che oltraggiarlo e perdere così la sua bella anima. Egli vede, capisce benissimo, in questo momento, che il buon Dio non voleva affatto che si perdesse, ma voleva assolutamente salvarlo, e che sono i suoi peccati che Lo costringono a condannarlo. Quanto poi all’eternità, egli vede che fra qualche minuto sarà gettato nell’inferno. DIO mio, che disperazione! Se il pensiero dell’eternità consola tanto un Cristiano, nella certezza che la sua felicità non avrà mai fine, questo medesimo pensiero, completa la disperazione di questo povero infelice. Ah! povero disperato, deve iniziare il suo inferno per non finirlo mai più! Entrando nell’inferno, vede l’infelice Caino che brucia fin dall’inizio del mondo ed egli che ci sta entrando adesso, non ha meno tempo di lui da trascorrervi. Allora, i demoni stessi che lo hanno spinto a peccare, per rendere il suo supplizio ancora più violento, gli metteranno davanti tutte le grazie che il buon Dio aveva meritato per lui, con la sua morte e con la sua santa Passione. Egli vede come preoccupandosi della sua salvezza, sarebbe stato più felice. Egli vede quanto Gesù Cristo sia buono, per coloro che vogliono amarlo. – Ma, malgrado tutte queste riflessioni, che per lui saranno come altrettanti inferni, bisognerà rassegnarsi a bere, per tutta l’eternità, a piena bocca, il fiele del furore di Colui che doveva essere tutta la sua felicità, se egli si fosse deciso ad amarlo. Ah! triste meditazione che questo Cristiano farà per tutta l’eternità, dicendo a se stesso: ho perso il mio tempo, ho rovinato la mia anima, ho perduto DIO, ho rifiutato il cielo, ed ora mi aspetta una eternità di sofferenze! Ah! Cielo! che disgrazia! Ecco, fratelli miei, cosa succede a chi perde di vista i suoi fini ultimi. Ma! forse voi direte, voi dite bene che ci sia un’eternità infelice per i peccatori; ma occorre che lo dimostriate. Sarebbe molto facile, fratelli miei; ma questo significherebbe fare un affronto a dei Cristiani. Sarebbe molto meglio per voi, se potessi convincervi della necessità che avete di fare tutto il possibile per evitare quei tormenti. Se volete, ve ne dirò qualche parola, di passaggio, visto che siete così ignoranti e così ciechi, da nutrire qualche dubbio sull’argomento. Ascoltatemi bene. – Ecco cosa ci dice lo Spirito Santo per bocca del profeta Daniele: ci sono due sorta di uomini, ci sono coloro che sono giusti, vi sono quelli che sono peccatori; gli uni muoiono nella grazia di Dio, gli altri in odio a Lui. Tutti compariranno un giorno davanti al buon Dio, tutti si risveglieranno dal sonno della morte; tutti saranno giudicati e riceveranno una sentenza senza appello, dopo la quale, gli uni non avranno più nulla da temere, gli altri più nulla da sperare. Ma la differenza che sarà trovata tra gli uni e gli altri sarà molto grande, poiché gli uni si sveglieranno per andare a godere una gioia eterna, gli altri, per essere coperti di obbrobri, inabissati in ogni genere di pena, e questo, per tutta l’eternità. Lo Spirito Santo ci indica dappertutto quale sarà la sorte dei peccatori nell’altra vita; Egli ci dice: « Il Signore spargerà il fuoco sulla loro carne, affinché ardano e siano eternamente divorati ». Il santo re Davide dice che « il peccatore che durante la vita ha disprezzato il suo Dio, sarà gettato nell’inferno ». Se desiderate procedere oltre, san Giovanni Battista, predicando ai Giudei il battesimo di penitenza, per prepararli alla venuta del Messia, insegna loro, ancora, quale sarà la sorte del peccatore nell’altro mondo, dicendo loro che Gesù Cristo verrà un giorno e separerà il buon grano dal grano cattivo e dalla paglia: il buon grano, che sono i giusti, il Padre eterno li porrà nel suo granaio, che è il cielo; il grano cattivo e la paglia, che sono i peccatori, saranno legati in fasci e saranno gettati nel fuoco, che è l’inferno; là vi sarà pianto e stridore di denti. Gesù Cristo ci dice nel Vangelo, che il ricco epulone muore e che l’inferno è il suo sepolcro, dove soffre infiniti mali. Lazzaro, invece, è trasportato dagli Angeli nel seno di Abramo, cioè nel cielo. In un altro passo, parlando del peccatore ci dice: « Va’, maledetto, nel fuoco che è stato preparato per il demonio e per coloro che lo hanno imitato ». San Agostino ci dice parlando del peccatore: « Va’ maledetto, tu hai disprezzato il tuo DIO e le sue grazie durante la vita; va’ maledetto,  tu sarai precipitato in uno stagno di fuoco e di zolfo per tutta l’eternità. » Ma, fratelli miei, ciò che sto dicendo è inutile. Non c’è bisogno che vada a trovare così grandi prove, per mostrarvi che c’è una vita felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male. E’ sufficiente solo che apriate il vostro Catechismo, e lì troverete tutto quello che dovete credere, sapere e fare. Infatti, fratelli miei, quale è stata la prima domanda che vi è stata fatta, quando siete venuti in Chiesa per farvi istruire? Non è stata forse questa: chi vi ha creato e conservato fino al presente? E voi non avete forse risposto, molto semplicemente, che è stato DIO? Poi vi è stato chiesto: perché DIO vi ha creato? E voi avete risposto: per conoscerlo, amarlo, servirlo, e con questo mezzo guadagnare la vita eterna. Ecco, dunque, quale deve essere tutta l’occupazione di un buon Cristiano, e tutta la sua felicità. Deve imparare a conoscere DIO, cioè, a conoscere quali siano i mezzi più sicuri che debba usare, per piacere al buon DIO, evitando il male, e facendo il bene. Sto dicendo, fratelli miei, che noi dobbiamo amare il buon DIO. Ahimè! fratelli miei, non inganniamoci; se non ameremo il buon Dio in questo mondo, non avremo mai e poi mai la felicità di amarlo nell’altro. Non vi è stato detto forse, quando siete venuti al catechismo, che se non salvate la vostra anima, per voi tutto è perduto? Che avrete un bel piangere per tutta l’eternità, che non ne caverete un bel nulla! Non vi è stato forse assicurato, facendovi distinguere il bene dal male, che un solo peccato mortale possa portarvi alla dannazione eterna? E non vi è stato detto che il peccato sia l’unico male che dovete temere, perché non c’è che esso che abbia il potere di separarci da Dio per tutta l’eternità, gettandoci nell’inferno? Non vi è stato forse detto, che tutti noi un giorno moriremo, e che ogni giorno potrebbe essere l’ultimo per ognuno di noi? Non vi è stato forse ricordato che nell’istante in cui moriremo, saremo giudicati rigorosamente, e che tutto ciò che abbiamo fatto durante la nostra vita, sia in bene che in male, ci accompagnerà davanti al tribunale di Dio? Non avevo, dunque, ragione nel dirvi che se conoscessimo tutto quello che è scritto nel nostro Catechismo, avremmo tutta la scienza necessaria per salvarci? Allorché siete venuti qui, nella vostra infanzia, non vi è stato forse detto che, dopo questo tempo che finirà ben presto, ne verrà un altro che non finirà mai più, e che racchiuderà ogni sorta di bene o di male, a seconda che ci avremo fatto bene o male? Ditemi, fratelli miei, se tutte queste verità fossero incise nei nostri cuori, potremmo vivere senza amare il buon Dio, e senza fare tutto ciò che dipende da noi, per evitare tutti questi malanni? – Ahimè! fratelli miei, queste verità hanno fatto tremare i Santi, hanno fatto convertire grandi peccatori, e hanno spinto i penitenti a usare grande rigore nelle loro penitenze e nelle loro macerazioni! – Leggiamo nella storia che sant’Ambrogio, scrivendo all’imperatore Teodosio che aveva commesso un certo peccato, più per essere stato colto di sorpresa che per malizia, gli diceva: « Ho visto – dice Sant’Ambrogio – in una visione nella quale il buon DIO mi ha mostrato che, se ti avessi visto venire in chiesa, mi ha comandato di chiudervi la porta, poiché il vostro peccato vi aveva reso indegno di entrarvi ». Dopo la lettura di questa lettera, l’imperatore cominciò a spandere lacrime in abbondanza; tuttavia, come era suo costume, andò a presentarsi alla porta della chiesa, nella speranza che il Vescovo si sarebbe lasciato commuovere dalle sue lacrime e dal suo pentimento. Ma il Vescovo, ben lontano dal lasciarsi piegare, come i suoi ministri vili e compiacenti, vedendolo avvicinarsi alla chiesa, gli intimò di fermarsi, secondo l’ordine ricevuto da DIO, poiché non era degno di entrare nella casa di Colui che aveva osato oltraggiare, e gli ordinò di cominciare a espiare il suo peccato ». L’imperatore rispose: « E’ vero – gli dice l’imperatore –  che sono un peccatore e indegno di entrare nel tempio del Signore, ma il buon DIO vede il mio pentimento. Anche Davide ha peccato, ed il Signore gli ha perdonato ». – « Ebbene! – gli rispose sant’Ambrogio – se avete imitato Davide nel suo peccato, imitatelo nella sua penitenza ». L’imperatore, senza nulla replicare a queste parole, si ritira; le lacrime colano dai suoi occhi; il suo cuore si lacera per il dolore; si strappa i suoi abiti regali e ne indossa di poveri e laceri, si getta con la faccia a terra, abbandonandosi a tutta l’amarezza del dolore e facendo risuonare per il palazzo le grida più laceranti. I suoi sudditi, vedendolo in una così grande desolazione, non hanno il coraggio né di guardarlo, né di rivolgergli la minima parola per consolarlo; si contentano di mescolare le loro lacrime a quelle del loro padrone; il suo palazzo si trasforma in un luogo di dolore, di lacrime e di penitenza. Egli non si contenta di confessare il suo peccato nel tribunale della penitenza, ma lo confessò pubblicamente, affinché una tale umiliazione attirasse su di lui la misericordia di DIO. Era inconsolabile nel vedere che i suoi sudditi potessero entrare in chiesa, mentre egli ne era escluso. Se gli si permetteva di partecipare ad una preghiera pubblica, vi prendeva parte nella maniera più umiliante: non stava né in piedi, né in ginocchio, come gli altri, ma prostrato con la faccia a terra, inondandola di lacrime. Si strappava i capelli per mostrare la grandezza del suo dolore, raccoglieva delle pietre con le quali si martoriava il petto e gridava: Misericordia! Per tutta la vita conservò il ricordo del suo peccato: i suoi occhi versavano continuamente lacrime. Ma se voi mi domandate: quale è stata la causa di tante lacrime, di un così grande dolore e di una penitenza così straordinaria? Ahimè! fratelli miei, vi risponderei: che fu il solo pensiero che un giorno Dio lo avrebbe citato in giudizio per il suo peccato, davanti a quel tribunale dove sarebbe stato giudicato senza più misericordia. Ahimè! fratelli miei, se queste grandi verità fossero ben impresse nei nostri cuori, potremmo noi vivere senza lavorare continuamente per placare la giustizia di Dio, che i nostri peccati hanno tanto esasperato? In effetti, fratelli miei, chi è colui che, pensando che non si trovi in questo mondo se non per salvarsi l’anima, potrebbe ancora cercare di ingannare o fare torto al proprio prossimo? Chi è colui che ben convinto che tutti questi beni che accumula a discapito della salvezza della sua anima, fra poco tempo li lascerà a degli eredi che forse sono ingrati che li dissiperanno in dissolutezze, senza, forse, fare la minima preghiera in suffragio della sua anima? Ma, quand’anche essi li usassero per compiere opere buone, queste non potranno strapparvi all’inferno, se voi avete lasciato la vostra anima nel peccato. Chi potrebbe ancora abbandonarsi ai divertimenti del mondo, che sono tanto fugaci e sì funesti per la nostra salvezza, perdendo di vista l’affare più grande della nostra salvezza. Chi è colui che, essendo ben persuaso che un solo peccato mortale possa dannarlo, avrebbe il coraggio di commetterlo? Oppure, chi, avendo avuto la disgrazia di averlo commesso, potrebbe restare ancora in uno stato sì deplorevole, in cui la mano di DIO può colpirlo da un momento all’altro, e non si affretterebbe invece a far ricorso al Sacramento della Penitenza, unico rimedio che il buon DIO ci offre, nella sua misericordia? – Chi è colui, fratelli miei, che pensando che potrebbe morire in qualunque momento, non vivrebbe ogni giorno, tremante, sull’orlo dell’abisso? Chi è colui che si attaccherebbe tanto fortemente alla vita, al pensiero che forse domani non esisterà più? Chi, fratelli miei, pur essendo certo che nell’istante in cui andrà a comparire davanti a DIO, sarà giudicato con ogni rigore, non temerebbe continuamente di dover subire un giudizio, così temibile perfino per i più giusti? Chi è colui fratelli miei che, essendo certo che dopo questa vita mortale ne avremo un’altra felice o infelice, a seconda che avremo vissuto bene o male, non metterebbe ogni cura nel meritare i beni che il buon DIO ha preparato per coloro che lo hanno amato? Ah! fratelli miei, diciamo ancora meglio, chi è colui che, meditando a fondo queste grandi verità, non vivrebbe e non morirebbe da santo? Anima mia – gridava un santo penitente – ricordati dei tuoi peccati e di queste grandi verità; non dimenticare mai da dove vieni, dove vai, da chi hai ricevuto l’essere, a chi devi donare il tuo cuore, che cosa hai portato in questo mondo e che cosa porterai via, uscendo dal tuo esilio. Ahimè! fratelli miei, noi, fino ad ora, non abbiamo mai considerato tutto questo fino al presente; ahimè! noi aspettiamo, per pensarci, il momento in cui le nostre lacrime e le nostre penitenze resteranno senza frutto. Come saremmo felici, fratelli miei, se queste grandi verità potessero dissipare le tenebre che ci accecano, riguardo al grande affare della nostra salvezza; se noi avessimo la fortuna di essere fortemente convinti che noi non siamo stati che un puro nulla e un miserabile verme di terra: che siamo solo peccatori e pieni di colpe, che un giorno saremo eternamente felici, se evitiamo il peccato, ed eternamente infelici, se seguiamo le nostre cattive inclinazioni! Ahimè! fratelli miei, forse non abbiamo a nostra disposizione che pochi istanti ancora, per prepararci al terribile passaggio. Rientriamo nei nostri cuori, fratelli miei, per non occuparci che delle grandi verità, le sole degne della nostra attenzione, le sole capaci di convertirci. Fratelli miei, lasciamo passare ciò che passa e perisce insieme a noi; attacchiamoci a ciò che è eterno e permanente. Diciamo a tutte le cose di quaggiù, come facevano tutti i Santi: No! No! Voi per me non contate più nulla, dal momento che, forse domani, o voi o io, non esisteremo più; lasciatemi profittare del poco tempo che mi resta, per fare in modo che il buon Dio si degni di perdonarmi. Ah! no, no, io non voglio vivere che per Dio, disprezzando i beni che periscono. Ah! questi Santi hanno ben compreso queste grandi verità! E potremmo dire che ne hanno fatto l’unica loro occupazione! Leggiamo nella storia della Chiesa che un gran numero di Santi, tutti penetrati dal nulla di questo mondo e dalla grandezza delle verità, lo hanno disprezzato e abbandonato, per andare a chiudersi nei monasteri o ritirarsi nel fondo delle foreste, per poter meditare queste verità con maggiore agio. E là, nelle grotte spaventose e oscure, lontani dai rumori e dai tumulti del mondo, non si occupavano d’altro se non di queste verità immutabili. Penetrati da questi grandi sentimenti, esercitavano sui loro corpi tutti i rigori della penitenza, che il loro amore per DIO gli ispirava. La preghiera, il digiuno e la disciplina, riducevano i loro corpi in uno stato degno della più grande compassione. Una gran parte di loro non mangiava che qualche radice che trovava smuovendo la terra. Se mangiavano qualche pezzetto di pane, lo ammollivano con le loro lacrime, vedendosi costretti a dare un po’ di sollievo a quel corpo che era più morto che vivente. Così trascorrevano la loro vita, che non era altro che un continuo martirio. E allorché, dopo venti, trenta, quaranta o ottant’anni di penitenza, arrivavano alla fine della loro corsa, ancora tutti spaventati, si dicevano, gridando, gli uni gli altri: Pensate, amici miei, che Dio avrà finalmente pietà delle nostre anime e che si lascerà piegare? Che vorrà ancora accordarci il perdono dei nostri peccati? Pensate che potremo ancora trovare grazia davanti a questo giudice che allora sarà senza misericordia? Ah! chi pregherà per noi, per addolcire la severità del nostro Giudice? Ah! potremo ancora sperare di aver parte un giorno alla felicità dei figli di DIO? – Sì, fratelli miei, noi vediamo che i Santi penitenti, dopo aver avuto la fortuna di conoscere che cosa sia veramente il peccato, e come il buon Dio lo punisca severamente nell’altra vita, non mettevano limiti alla loro penitenza. – San Girolamo ci racconta che una dama romana, avendo abbandonato il marito, a causa dei vizi a cui era dedito, credette che, essendosi separata secondo la legge, poteva, senza peccare, rimaritarsi legittimamente con un altro uomo. San Girolamo ci dice che un giorno la rese consapevole del suo peccato; ella allora fu colta da un tale dolore, coperta da una tale confusione, che abbandonò all’istante gli abiti mondani e si vestì di un sacco; … i capelli scompigliati, il volto coperto di fango, le mani tutte sporche, la testa coperta di cenere e di polvere, i vestiti tutti strappati, la bocca serrata. In questo misero stato, si va a gettare ai piedi del Santo Padre (san Girolamo). Il Santo Padre e tutti coloro che furono testimoni di questo spettacolo, non riuscivano a resistere vedendo il triste stato in cui questa signora romana era caduta, a causa della sua ignoranza. Roma, continua questo Padre, faceva echeggiare le sue mura delle grida più laceranti, e sembrava voler condividere il dolore di questa grande penitente. Ella confessava pubblicamente il suo peccato, sempre versando un torrente di lacrime. Portò per tutta la vita i vestiti della penitenza; il suo dolore e il suo pentimento la seguirono fino alla tomba. Non contenta di tutto ciò, vendette tutti i suoi beni, che erano immensi, per vivere e morire nella più grande povertà. A questo punto vi sarete chiesti: … ma quale è stata la causa di tutto questo? Ahimè! Il solo pensiero che un giorno le sarebbe stato intimato di andare a presentarsi davanti al tribunale di Gesù Cristo. Ella chiedeva a Dio la grazia di prolungarle di qualche giorno la vita, affinché avesse il tempo di fare penitenza. Ahimè! Gridava ad ogni istante, bisogna che io vada a comparire davanti al buon Dio; che ne sarà di me, se il mio peccato non sarà cancellato dalle lacrime e dalla penitenza? O felice penitenza! O lacrime salutari! Venite in mio aiuto: soltanto voi voglio come compagne per tutti i giorni della mia vita. Ahimè! Fratelli miei, ci dice il grande Santo Giovanni Climaco, se il pensiero dell’eternità ha portato tanti Santi a fare penitenze così straordinarie, quale sarà la nostra sorte, noi che non facciamo nessuna penitenza? DIO mio! Quanto sarà terribile la vostra giustizia per questi poveri peccatori che non avranno nulla su cui appoggiarsi! « Ah! Amici miei, egli ci dice, ho visto dei penitenti in un luogo che non si può nemmeno immaginare, senza versare lacrime; in un luogo, dico, sprovvisto di ogni aiuto umano, di ogni consolazione umana. Non c’era che oscurità, puzza e sporcizia; tutto era così spaventoso, che non lo si poteva vedere senza piangere di compassione. Questi nobili e santi penitenti non avevano in questo luogo né fuoco né vino, solo qualche radice e qualche pezzo di pane duro e nero che essi inzuppavano con le loro lacrime. Quando arrivai – ci dice san Giovanni Climaco, in quel luogo di penitenza, che molto giustamente è nominato « soggiorno del pianto e delle lacrime », vidi veramente, oserei dire, ciò che colui il quale trascura la sua salvezza, non ha mai visto, e ciò che colui che è pigro nei suoi doveri, non ha mai ascoltato, e ciò che il cuore di colui che cammina lentamente nella via della virtù, non ha mai potuto comprendere; poiché vi assicuro che ho visto delle azioni ed ho ascoltato delle parole, capaci di esprimerlo. Alcuni passavano le notti intere in piedi nel rigore dell’inverno e, quando il loro povero corpo cadeva per la debolezza e il rilassamento: Ah! maledetto, dicevano a se stessi, poiché hai avuto l’ardire di oltraggiare il buon DIO, bisogna che tu soffra in questo mondo o nell’altro. Scegli la parte che vuoi prendere; le sofferenze di questo mondo non sono che un di momento, invece quelle dell’altra vita sono eterne. Ne vidi altri che con gli occhi sempre levati al cielo, rivolgevano le grida più laceranti chiedendo misericordia. Altri che si facevano legare le mani, finanche le dita, durante la loro preghiera, come criminali, ritenendosi indegni di fissare il cielo. Essi erano talmente penetrati dalla loro miseria e del loro niente che non sapevano da dove cominciare la loro preghiera. Essi si offrivano a DIO come vittime pronte ad essere immolate. Si vedevano altri, vestiti da un sacco, coperti di cenere, distesi sul pavimento e battersi la fronte contro le pietre; altri che piangevano con tante lacrime, da formarne dei ruscelli. Ne vidi alcuni talmente pieni di ulcere, che ne usciva un’infezione capace di far morire coloro che erano loro vicini. Essi avevano sì poca cura di sé, che i loro corpi sembravano un ammasso di ossa coperto da una pelle. Ovunque ci si volgeva, non si ascoltavano che grida e singhiozzi che laceravano le viscere facendo versare lacrime. Le loro grida più frequenti erano: Ah! guai a noi che abbiam peccato! Gli uni portavano il loro rigore tanto lontano che non bevevano acqua se non per impedirsi di morire; altri, quando mettevano qualche boccone di pane in bocca, lo rigettavano subito dicendo che essi erano indegni di mangiare il pane dei figli di DIO dopo averlo oltraggiato. Essi avevano sempre presente al loro spirito e davanti ai loro occhi l’immagine della morte; essi si dicevano l’un l’altro: ahimè! Amici miei, cosa diventeremo? Pensate che avanziamo un poco nella strada della penitenza? Oh! Siano profonde le nostre lacrime! I nostri debiti sono troppo grandi! Come faremo per ripagarli? Facciamo, si dicevano, come i niniviti. Ahimè! Chissà se il buon DIO non avrà ancora pietà di noi? Facciamo tutto ciò che potremo per sperare che il Signore voglia ancora lasciarsi muovere; corriamo nella corsia della penitenza senza risparmiare questo corpo di peccato che non è che abisso di corruzione: uccidiamo questo corpo maledetto come esso ha voluto uccidere le nostre povere anime. Era questo il loro linguaggio ordinario, esso era sufficiente – ci dice San Giovanni Climaco, a condurli a piangere amaramente: essi avevano gli occhi abbattuti, infossati nella testa, non avevano più ciglia alle palpebre: le loro gote erano talmente infossate che sembrava che il fuoco le avesse rose, tanto era per loro ordinario il piangere con lacrime calde; il loro viso era così sfigurato e pallido che sembravano dei morti che avevano dimorato due giorni nella tomba; ve n’erano di taluni che si martoriavano talmente il petto a colpi di pietre, che alla maggior parte di essi si vedeva il sangue uscire dalla bocca; diversi chiedevano al loro superiore di mettere loro dei ferri al collo ed alle mani e ceppi ai piedi: una parte li tenevano fino alla tomba. Essi erano così umili, amavano talmente il buon DIO, avevano tanto dolore dei propri peccati, e si vedevano sul punto di comparire davanti al loro Giudice, che essi pregavano in grazia del loro superiore, di non seppellirli; ma di gettarli in qualche fiume o in qualche foresta per servire da pasto ai lupi e alle bestie selvagge. Ecco – ci dice San Giovanni – la maniera in cui vivevano queste anime sante ed innocenti. Quando fui i ritorno – continua il Santo medesimo –  ed il superiore vide che ero così distrutto e che appena poteva riconoscermi e sembravo di non poter più vivere: ebbene! Padre mio – mi dice – avete visto i travagli ed i combattimenti del nostro genere di soldati? Io non potei rispondergli se non con lacrime e singhiozzi, tanto questi genere di vita mi aveva colpito in dei corpi umani. » Ahimè! Fratelli miei, dove siamo? Qual sarà la nostra sorte e la nostra eternità se DIO domandasse a noi altrettanto? Ah! No, no, fratelli miei, mai per noi il cielo se ci volesse tanto! Ah! almeno senza fare così grandi e spaventose penitenze e cominciassimo ad amare il buon DIO, potremmo  ancora sperare la stessa felicità! Oh DIO mio, quanto siamo ciechi circa la nostra eterna felicità! Ahimè!, fratelli miei, questi grandi Santi che ammiriamo senza avere il coraggio di imitarli, ditemi, avevano forse un altro Vangelo da seguire? Avevano un’altra Religione da praticare? Avevano un altro DIO da servire? Un’altra eternità da temere o da sperare? No, senza dubbio, fratelli miei, ma essi avevano la fede che noi non abbiamo, che noi abbiamo quasi spenta per la moltitudine dei nostri peccati: è che essi pensano seriamente alla salvezza della loro povera anima, mentre noi lasciamo da parte questa povera anima che è sì povera e che tanto è costata a Gesù-Cristo, e che torna indifferente salvare o dannare. È che essi meditavano incessantemente queste grandi e terribili verità dell’altra vita, la perdita di un DIO, la grandezza del peccato, una eternità felice o infelice, l’incertezza della morte, gli abissi spaventosi dei giudizi di DIO e le sequele di un avvenire felice o infelice, secondo che avremo vissuto bene o male, mentre noi non ci pensiamo mai. Non essendo occupati che da cose di questo mondo, lasciamo la nostra anima ed il cielo da parte. In una parola, c’è che essi vivono da penitenti e da Santi, mentre noi viviamo da mondani, nel peccato e nei piaceri del mondo, e non di penitenza. O cecità dell’uomo, quanto grande tu sei! Chi potrà mai comprenderlo? Non essere in questo mondo che per amare il buon DIO e salvare la nostra anima, e non vivere per offenderlo e rendere la nostra anima infelice per l’eternità! In effetti, fratelli miei, qual è la nostra vita al presente? A cosa abbiamo pensato da quando siamo sulla terra? A chi abbiamo dato il nostro cuore? Cosa abbiamo fatto per Dio, nostro primo ed ultimo fine? Qual zelo, quale ardore abbiamo avuto per la gloria di Dio e la salvezza della nostra povera anima che è costata tante sofferenze a Gesù-Cristo? Quanti rimproveri, al contrario, non abbiamo da farci? Ahimè! Ben lungi dall’avere impiegato tutta la nostra vita a procurare la gloria di DIO ed assicurarci la felicità eterna, forse noi non vi abbiamo mai pensato un solo giorno, come un Cristiano dovrebbe fare tutta la vita. Ah! ingrati! È forse per questo che il buon DIO  ci ha creati e messo sulla terra? Non è al contrario che per occuparci di Lui e consacrargli tutto i movimenti del nostro cuore? Noi non dovremmo vivere che per LUI, e forse non abbiamo ancora vissuto un solo giorno del quale potremmo dire di essere tutto per Lui e solo per Lui. Ahimè! Fratelli miei, ben presto ci toccherà render conto di tutte le nostre azioni. Cosa abbiamo da presentargli? Cosa avremo da rispondere a tutte le sue interrogazioni quando ci mostrerà da un lato tutte le grazie che ci ha accordato durante tutta la nostra vita, e dall’altra il poco profitto o piuttosto il disprezzo che ne abbiamo fatto? È possibile mai che, avendo tra le mani, delle grazie così preziose, siamo ancora sì tiepidi, sì lassi e languidi nel servizio a DIO? Ah! fratelli miei, se i pagani e gli idolatri avessero ricevuto tante grazie come noi, non sarebbero divenuti gran Santi? Quanti, fratelli miei, grandi peccatori, se fossero stati ricolmi di tanti benefici come noi, non avrebbero fatto penitenza, come i niniviti, coperti da cenere e cilicio? Ricordiamoci, fratelli miei, tutto ciò che il buon DIO ha fatto per noi da quando siamo al mondo. Quanti tra voi sono morti senza avere avuto il beneficio di ricevere il santo Battesimo? Quanti altri che, dopo un peccato mortale sono stati colpiti subito e sono caduti nell’inferno! Oh! Quanti pericoli anche corporali da cui DIO, nella sua misericordia, ci ha preservato, preferendoci a tanti altri che sono periti in una maniera straordinaria. Ma a quanti di noi, dopo avere avuto la disgrazia di peccare, il buon DIO non ci ha perseguiti con rimorsi di coscienza, di buoni pensieri? Quante istruzioni, quanti buoni esempi che sembravano rimproverarci la nostra indifferenza per la nostra salvezza! Ditemi, fratelli miei, dopo tanti tratti di misericordia del buon DIO, cosa avremo da rispondergli quando ci domanderà conto del profitto che ne abbiamo fatto? O pensiero triste, fratelli miei,  per un peccatore che ha disprezzato tutto, e che non ha saputo profittare di nulla. Eh ben ingrato, ci dirà Gesù-Cristo, le virtù che vi ho comandato erano troppo difficili? Non potevate praticarle come tanti altri? In quale stato comparirete davanti a me! Non sapevate che sarebbe arrivato un giorno in cui Io avrei domandato a voi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi? Ebbene, miserabili, rendetemi conto di tutto ciò che la mia misericordia ha fatto per voi! Ahimè! Fratelli miei, cosa andremo a rispondere, o piuttosto qual confusione per noi! Preveniamo, fratelli miei, questo momento orribile per il peccatore, profittando finalmente delle grazie che la bontà di DIO vuole ancora ben accordarci oggi. Io dico oggi, perché forse domani, in cui il buon DIO ci avrà abbandonato, non saremo più in questo mondo. Sapete, fratelli miei, il linguaggio che dobbiamo tenere in questo momento? Eccolo: Ah! diremo. Io sapevo molto bene che non ero sulla terra che per poco tempo, e tuttavia non ho vissuto che per il mondo. E perdendo la vita eterna, io sapevo che in qualche anno avrei finito la mia corsa, e che mille anni non sarebbero stati tanto lunghi per prepararmi a questo triste passaggio da questo mondo all’eternità in cui potevo entrare in ogni istante; e questo poco tempo io non l’ho impiegato che per gli affari del tempo, per i divertimenti e per del niente. Ecco questo tempo prezioso che DIO non mi aveva dato che per assicurarmi una eterna felicità che va a sparire ai miei occhi, e l’eternità che sta per cominciare per non finire mai. Sarà essa felice o infelice? Ahimè! Cosa ho fatto per meritarla felice? O tempo perduto! Eternità obliata! Qual disprezzo! Tu che getti anime nell’inferno! O cecità dell’uomo che potrà comprendere, quattro giorni da passare in questo mondo ed una eternità intera nell’altra: e questi quattro giorni hanno fatto tutta la mia occupazione, ed io ho fatto tutto ciò che ho potuto per cancellarvi dalla mia memoria. DIO mio, dov’è dunque la nostra fede? Dove la nostra ragione? Per vivere come viviamo. – Cosa dobbiamo concludere da tutto questo, fratelli miei? È che, malgrado noi abbiamo tanto disprezzato delle grazie, se vogliamo profittare di quelle che il buon DIO vuole accordarci nella sua misericordia, non soltanto potremo riscattare il tempo passato, ma procurarci una felicità infinita nell’altra vita. Se il buon DIO ci ha conservato la vita, malgrado tanti peccati, non è che perché voleva effondere su di noi la grandezza delle sue misericordie; più siamo peccatori, più Egli desidera la nostra salvezza, affinché possiamo essere come tanti strumenti per manifestare per tutta l’eternità la grandezza delle sue misericordie per i peccatori. Sì, fratelli miei, Egli ci attende con le braccia aperte; Egli ci apre la piaga del suo Cuore divino per nasconderci alla severità della giustizia di suo Padre; Egli ci presenta tutti i meriti della sua morte e passione al fin di pagare per i nostri peccati. Se il nostro ritorno è sincero, Egli si incarica di rispondere per noi al tribunale di suo Padre, quando saremo interrogati per rendere conto della nostra vita. felice colui che obbedisce alla voce del suo DIO che lo chiama! Felice, fratelli miei, colui che non avrà mai perso di vista che la sua vita è breve, che può morire in ogni istante, e non ha mai perso il pensiero che dopo questa vita sarà giudicato, per una eternità di felicità e di dannazione, per il cielo o per l’inferno. O DIO mio! Se noi pensassimo incessantemente ai nostri fini ultimi, potremo vivere nel peccato, potremmo dimenticare questo tempo avvenire che, una volta cominciato, non finirà mai? Ditemi, fratelli miei, credete a questa eternità, voi che dopo forse dieci o venti anni siete nell’odio di DIO? Credete all’eternità, fratelli miei, voi che avete i beni di altri? Ah! no, no, se voi vi credeste, voi non potreste vivere come vivete. Ditemi, voi miserabile, che dopo tanti anni di peccati celati nelle vostre Confessioni, colpevole di tanti sacrilegi fatti con le Comunioni; ahimè! Se voi lo credeste appena un poco, non morireste di orrore di voi stesso, pensando ad ogni momento in cui siete esposto ad andare a rendere conto di tutte queste turpitudini davanti ad un Giudice che sarà senza misericordia. Sì, fratelli miei, se avessimo la felicità di ben meditare su ciò che ci attende dopo questo mondo che è così breve, sarebbe impossibile non lavorare per tutta la vita tremando nel timore di non riuscire a salvare la nostra povera anima. Felice, fratelli miei, colui che si terrà sempre pronto! Ciò che io vi auguro…

LO SCUDO DELLA FEDE (182)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO TERZO

LA CHIESA

III. L’ORGANIZZAZIONE DELLA CHIESA

a) L’ordine divino della Chiesa

D. Si vede nella tua Chiesa una grande complessità di funzioni: ciò non è forse contrario alla sua unità e alla semplicità del suo oggetto religioso?

R. L’oggetto religioso della Chiesa abbraccia tutta la vita; la sua unità è una unità organica rispondente alle funzioni della vita: la Chiesa dunque dev’essere a un tempo così molteplice e così una come questa vita che essa intende di reggere; è uno spiegamento che si concentra, un concentramento che si spiega.

D. Ha un tipo di organizzazione?

E. Sì, la Trinità, in cui lo spiegamento e il concentramento, compensati, ottengono il loro massimo di ricchezza. Perciò S. Cipriano chiama la Chiesa «un popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figliuolo e dello Spirito », e più brevemente: l’unità di Dio..

D. Ciò supporrebbe un’organizzazione perfetta su tutti i punti.

R. L’ordine della Chiesa è perfetto nel suo principio e imperfetto nelle sue estensioni, perché il suo principio è divino e la sua materia umana. Anche l’anima nostra organizza il nostro corpo come può e non sottomette mai perfettamente i suoi organi. Così lo Spirito di Dio nella Chiesa,

D. La Chiesa è una monarchia, una democrazia, o ha un governo suo proprio?

R. Il governo della Chiesa è necessariamente unico, come il suo caso; ma se si chiama democrazia un governo in cui l’autorità sale e monarchia quello in cui essa discende, la Chiesa è essenzialmente monarchica.

D. Perché ciò?

R. Perché la Chiesa è una società che include Dio, e dovunque è Dio, Egli non può essere che primo. Un governo democratico, in queste condizioni, sarebbe il governo di Dio mediante l’uomo.

D. Ma Dio non governa la Chiesa personalmente?

R. Non la governa visibilmente, ma la governa; non la governa senza intermediari, ma gl’intermediari non operano che nel suo Nome, e perciò questo non modifica affatto la forma del governo, che è sempre quello di uno solo.

D. Quali sono qui gl’intermediari?

R. Dio governa per Cristo, alle cui mani tutto è stato affidato, il quale è capo della stirpe soprannaturale, e che, al di sotto di Dio, o piuttosto congiuntamente con Dio — che gli è unito nell’unità di persona — è il primo nella Chiesa. Donde la tesi classica fra i teologi e recentemente proclamata, della regalità di Cristo; regalità spirituale, di cui la parola Cristo non è che l’espressione, poiché Cristo significa unto, consacrato regalmente, per il governo delle anime.

D. Ciò forma appena un intermediario.

R. Ulteriormente, essendo Cristo sempre presente, ma rientrato nell’invisibile, vi è di Cristo, nella Chiesa, una rappresentanza visibile; infatti fu detto ai Dodici: Come mio Padre ha mandato me, così Io mando voi. Andate e insegnate a tutte le nazioni, e questo è il potere che noi chiamiamo MAGISTERO; Battezzateli nel nome del Padre, e del Figliuolo e dello Spirito Santo, e Fate questo in memoria di me, e questo è il potere sacramentale chiamato MINISTERO; Chi ascolta voi ascolta me e chi disprezza voi disprezza me, Quello che voi legherete sopra la terra sarà legato in cielo, e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto in cielo, e questo è il potere di governo (IMPERIUM), che comprende il legislativo, il giudiziario e l’esecutivo, tutti e tre necessari per un vero governo. Di modo che il collegio dei Dodici nella loro successione autentica, sarà, nel nome di Cristo e di Dio, in unione con Cristo e con Dio, l’autorità prima. Tutto il popolo cristiano dipenderà da loro come il gregge da’ suoi pastori, l’insieme del gregge dipendendo dal loro insieme, e ciascun gregge particolare, richiesto dalle necessità locali dipendendo da ognuno di loro, senza pregiudizio dell’unità che avvolge tutti i gruppi. Finalmente i Dodici e i loro successori non sono essi stessi un gregge amorfo; ma hanno un capo, e vuol dire che Cristo volle darsi una rappresentanza non solo collettiva, ma individuale, con una sopravvivenza visibile, dicendo a uno dei Dodici: Pasci i miei agnelli, vale a dire i fedeli; Pasci le mie pecorelle, vale a dire i pastori, e ancora: Io ti darò le chiavi del regno dei cieli, come a un maggiordomo, per il quale bisogna passare per andare dal Padrone. Così, partito Cristo, Pietro è un Cristo per procura, per missione e per assistenza, di modo che, nella Chiesa, lui è a capo, lui e i suoi successori, coi quali gli altri Vescovi mantengono lo stesso rapporto che tutto il gruppo episcopale con Cristo e Cristo con Dio. Tal è l’emanazione, la derivazione del sovrano potere nella Chiesa.

D. I protestanti non ammettono punto tutto questo.

R. Non lo potrebbero ammettere; il loro punto di partenza vi si oppone totalmente; ma la colpa sta precisamente nel punto di partenza. Agli occhi dei protestanti, Dio è bensì in relazione con noi per via di Cristo; ma Cristo non è in relazione con noi per via della Chiesa; la corrente di vita si arresta fin dalla sorgente; la socializzazione si effettua non da se stessa, in virtù di una natura delle cose che Dio ha fondata e alla quale Egli si adatta, ma avviene dopo, arbitrariamente, per iniziative individuali e specialmente politiche. Così non è più Cristo che continua a venire a noi per le vie della vita; siamo noi che risaliamo verso di Lui e costituiamo, cammin facendo, degli organi sociali di nostra creazione, organi che saranno, per conseguenza, quello che noi li faremo, il cui governo si stabilirà come noi lo intenderemo, sempre in dipendenza dalla nostra iniziativa e sempre soggetto a revisione.

D. Non è forse il popolo sovrano?

R. L’idea del popolo sovrano nel soprannaturale è di fatto, nel protestantesimo, assai visibile. È la società religiosa nel suo insieme che tiene il potere e che lo delega ai pastori. Salvo che non si lasci questa cura ai principi temporali, proprio indicati per addossarsi dei pesi che incombono ai loro popoli!

D. Sì eviteranno così i conflitti tra la Chiesa e lo Stato.

R. Sì, dopo che la Chiesa sarà stata mangiata dallo Stato.

D. Quali conseguenze traggono i protestanti da questo sistema?

R. Ne segue naturalmente un diritto di controllo, un diritto di resistenza eventuale, un diritto di deposizione delle autorità religiose da parte del popolo o de’ suoi mandatari principali, e molte altre cose ancora, secondo le teorie di ciascuno; perché in ciò come in tutto i protestanti hanno tante idee quante teste.

D. Dai tuoi propri concetti trai tu qualche conseguenza relativamente al governo degli Stati?

R. Bisogna pur concedere ai teorici della regalità che la monarchia, in sé, nell’ideale, è il governo più perfetto, perché l’unità d’ordine ottenuta più o meno in democrazia o in aristocrazia non è che un genere di unità secondaria, che evoca finalmente l’altra. Per questo il governo universale è ultra monarchico, sotto il nome di governo divino. Resta a sapere se un governo ideale risponde a una realtà che non è guari realtà, e se Dio, rappresentato dai capi di Stato, ritrova sufficientemente se stesso.

D. Si ritrova Egli nella Chiesa?

R. Vi si ritrova sufficientemente, perché Egli vi abita per il suo Spirito, il che non è stato promesso alle società temporali. Donde segue che la monarchia è lì di diritto, e, riguardo all’essenziale per lo meno, non vi si offre alcun pericolo di oppressione, sia in ciò che concerne le autorità secondarie, sia in ciò che tocca le libertà.

D. Ciò risponde bene all’idea di organizzazione, che ti è familiare, e che importa, come sembra, un complesso spontaneo di elementi?

R. Un’organizzazione, naturale o artificiale, è un insieme procurato da’ suoi elementi se si riferisce all’esecuzione del piano organico; ma il piano stesso, la sua concezione e la legge della sua evoluzione non sono forniti dagli elementi. Quello che è primo, nella stessa meccanica, è l’idea. Nel corpo vivente è l’anima, Nel corpo Chiesa, quello che è primo è altresì l’anima sua, cioè lo Spirito divino comunicato da Cristo Figliuolo di Dio e dal Padre che lo ha mandato.

D. Qui non si vede né Papa né Vescovi.

R. Aspetta. Nel corpo vivente, quello che è primo dopo l’anima è il sistema nervoso centrale, non le cellule lontane. Nella Chiesa quello che è primo, a titolo di elemento visibile, è il corpo episcopale unito al Papa: encefalo donde, sotto l’azione dello Spirito Santo animatore, procedono e il pensiero, chiamato dogma, e la motricità, che è il governo e tutta la vita venuta da Cristo a benefizio delle anime, mediante l’effusione sacramentale.

D. Dunque, nella Chiesa, il semplice Cristiano sarà unicamente passivo?

R. Nessun elemento è passivo, in un organismo animato. La Religione che ci rilega a Dio non vi ci assorbe punto. Il governo religioso dev’essere un eccitatore di energie, non un accaparratore o un estintore di energie. Io sono venuto, disse Gesù, per mettere il fuoco alla terra, e che cosa desidero se non che esso arda? (Luc., XII, 49).

D. Che parte dunque attribuirai tu alle spontaneità e alle iniziative?

R. Il Cristiano reagisce già sull’autorità per ciò che egli è, e per il modo con cui si comporta sotto il regime della legge. Quest’autorità, divina qui nella sua essenza, non può evidentemente essere influenzata in se stessa; ma dipende ne’ suoi effetti dall’accettazione della nostra libertà e dalla collaborazione dei nostri sforzi. Non siamo dunque governati senza di noi, neppure da essa. A più forte ragione non siamo governati senza di noi dalle autorità umane che, in suo nome, ma con una gradazione di valore e di possibilità, ci reggono. In questo ultimo caso non solo partecipiamo agli effetti del governo, ma in un certo modo anche al governo stesso.

D. Non è un ritorno alla democrazia?

R. Niente affatto. Il corpo vivente non è una democrazia, dicevamo; perchè il principio animatore ha per punto di applicazione immediata e principale il cervello, il sistema nervoso centrale, donde partono le grandi correnti che dirigono tutto il resto. Ma non si ha da dire che l’anima abiti nel cervello esclusivamente; l’anima è da per tutto e da per tutto si rivela; in tal modo che la vita comunicata al cervello a pro delle membra non impedirà una comunicazione diretta alle stesse membra, e ne approfitterà il cervello alla sua volta.

D. Ciò sì applica a una società?

R. Perfettamente. Non vi è monarchia così assoluta che non sia influenzata da nessuno. Un saggio governo organizza le collaborazioni, non le respinge; si circonda di consiglieri; si appoggia sull’opinione dei migliori; esamina il suo popolo prima di proporgli delle leggi. E la ragione è che la legge è un dettato di ragione, e nessuna autorità può pretendere d’incarnare in sé sola la ragione. Parimenti l’autorità religiosa non ha da sé sola il monopolio dello Spirito; essa lo esprime legalmente, e ciò che verrà d’altronde dovrà esser controllato da essa, in tal modo che anche in ciò noi saremo governati, non governanti; ma sapendo che il suo proprio Spirito animatore è dovunque diffuso, animando anche i fedeli e ispirando loro delle verità, provocando in essi degli impulsi, producendo delle grazie, l’autorità religiosa ascolta, nello stesso tempo che parla; essa subisce, pure operando, e quindi il governo è in ciò una vera collaborazione.

D. Democrazia, ancora una volta.

R. Ancora una volta, non si tratta affatto di democrazia; ma quello che non è una democrazia può — ed è il caso di ogni saggio governo — partecipare della democrazia, come anche dell’aristocrazia, in ciò che le autorità secondarie ed anche i sudditi esercitano o influiscono realmente sopra l’autorità senza dividerla. Se è vero, come afferma S. Tommaso d’Aquino, che il migliore governo è quello che unisce la partecipazione di tutti all’azione dei migliori, controllata e centralizzata da un solo, il governo della Chiesa si fa vedere così perfetto quanto è possibile, ed è l’elogio del suo Dio.

D. Pretendi tu che la Chiesa sia la più perfetta società che esista?

R. Essa offre di fatto quello che mai non apparve più grande e più ammirabile come regime sociale. Essa raggiunge l’ideale della concentrazione e della pieghevolezza, dell’autorità efficace e della libera azione. Nulla si potrebbe concepire di più perfetto, e nemmeno altra forma, per un governo che si deve estendere a tutto il mondo.

IL SEGNO DELLA CROCE (16)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (16)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA DECIMAQUINTA.

10 dicembre.

Risposta ad una questione. — Il segno della croce è un’arma, che dissipa l’inimico. — La vita è una lotta. — Contro chi. — Necessità di un’arma alla portata di tutti. – Quale sia. — Prove che il segno della croce è un’arma speciale, l’arma di precisione contro i cattivi spiriti.

Se tu mostrerai l’ultima mia lettera ai tuoi compagni, è ben facile, mio caro, ch’eglino ti dicano: Se il segno della croce è si potente, come vi si scrive, perchè non opera più quello, che ha fatto? A siffatta quistione v’hanno varie risposte. La è di S. Agostino la prima. Parlando de’ miracoli il santo fa una giustissima osservazione. I miracoli raccontati da libri santi hanno una grande pubblicità; tutti, che leggono le scritture, o le sentono, ne hanno contezza, e dovea essere a questo modo, perchè sono le prove della fede. Al presente ancora v’hanno de’ miracoli fatti in nome del Signore per lo mezzo de’ Sacramenti, e delle preghiere indirizzate a’ Santi, ma non hanno la istessa notorietà, si conoscono là solamente dove accadono, e se la città è grande, restano ancora ignoti ad un buon numero di abitanti, ed alle fiate, un piccolissimo numero di cittadini ne ha contezza. E quando questi miracoli sono raccontati ad altri, scemano nella certezza, non essendo tale l’autorità che li racconta, che li si ammettano senza difficoltà, tuttavolta sieno de’ cristiani, che ad altri Cristiani li raccontino (De Civ. Dei, lib. XVII, c. 8). In prova di che il santo racconta varii miracoli, di che egli era stato testimone, de’ quali, qualcuno operato dal segno della croce. Il perchè, dalla ignoranza che i tuoi compagni, o altri, possano avere de’ miracoli, che hanno luogo presentemente, non è da negare la esistenza di essi. A questa prima risposta è da aggiungere un’altra. Dessa è di un gran dottore, il Papa S. Gregorio (Hom. XXIX in Evang. post init.). Distinguendo egli gli antichi da’ moderni tempi, dice: « I miracoli al cominciar della Chiesa furono necessari; per essi la fede dovea stabilirsi. Quando affidiamo alla terra una pianta dobbiamo innaffiarla, perchè prenda radici, e quando ne siam certi noi desistiamo dal farlo, ed ecco ragione perchè l’Apostolo dica: Il dono della lingua è vero segno non per i fedeli, ma per gl’infedeli » (Homil. XXIX in Evang.). La coltura morale si assomiglia alla fisica. Di presente che il cristianesimo ha preso radici nelle viscere del mondo, nella coscienza umana, i miracoli non sono più necessari a quella maniera che lo erano al principio della divina piantagione. Da poi che il mondo crede, diceva S. Agostino, sono scorsi quindici secoli; colui, che per credere dimandasse ancora miracoli, sarebbe egli stesso un prodigio, chenel mezzo di un mondo che crede, è solo a miscredere (S. Aug. ubi supra). Ma dato ancora, ciò, che non ammettiamo, che il segno della croce non operi più miracoli, non mostra forse il suo potere sovraumano a ciascuna ora del giorno e della notte, ed in tutti i luoghi della terra? Se tu supponi cento milioni di tentazioni in un giorno, abbi per fermo, che tre quarti di esse sono dissipate dal segno della croce: chi non ne hafatto l’esperimento? Sii di ciò sicuro; e, ricordando che quanto da te vien fatto, è ripetuto dagli altri, tu potrai valutare la potenza permanente, ed universale del segno liberatore. Concedo ancora di più, ed ammetto che il segno della croce non riesca sempre ascacciare gl’immondi pensieri, a dissipare gl’incanti seduttori, a ritener l’anima sul pendio della colpa; ma di chi n’è la colpa? Non n’è forse la poca fede dei Cristiani? Non è forse da dire della inefficacia di questo segno, quanto a ragione dicesi della inutilità della Comunione per un gran numero? Il difetto non è da porre in quel che si riceve, ma nelle disposizioni di chi lo mangia: defectus non in cibo est, sed in edentis disposinone? Per guarire una tale mancanza di fede, che impoverisce e ruina i Cristiani, ho intrapreso questa nostra corrispondenza, e continuando svolgerò un nuovo titolo, che il segno della croce ha alla fiducia de’ Cristiani del secolo decimonono. – Soldati, il segno della croce è un’arma, che dissipa l’inimico! Sono già tremila anni che Giobbe definì la vita una lotta continua: Militia est vita hominis super terram. I secoli sono scorsi, le generazioni hanno succeduto ad altre generazioni, gl’imperi han dato luogo ad altri imperi; venti volte l’umanità s’è rinnovata, e la definizione di Giobbe è sempre vera. La vita è una lotta! Lotta continua per te, come per me, per i tuoi compagni, per tutti gli uomini. Lotta, il cui cominciamento è alla culla per finire alla tomba; lotta, che dura in lutti gl’istanti della notte e del giorno, sia che l’infermità ci appeni, o che la sanità ci conforti. Lotta decisiva, che dalla vittoria, o dalla disfatta dipende non la fortuna, o la sanità, non i temporali vantaggi si grandemente da noi stimali, ma ben altro, che a dismisura tutte queste passaggiere cose avanza; poiché, è da essa che una eternità felice, o una eternità di pene trae la origine sua! Ecco, mio caro amico, la condizione dell’uomo sulla terra: noi non possiamo mutarla. Chi sono i nemici dell’uomo? Ahimè! e chi può ignorarli di nome e per attacchi sofferti? Il demonio, la carne, il mondo; sono tre formidabili potenze, che agognano la nostra perdita. Non ho in pensiero farti un corso completo d’ascetismo, epperò parlerotti della sola prima. – Come è certo che v’ha un Dio, è certo che v’hanno de’demoni. « Se non v’è satana , non c’è Dio », diceva Voltaire; ed a ragione. Se non v’è satana, non v’è colpa; se non v’è colpa, non v’ha redenzione; se non redenzione, non esiste Cristianesimo; se non v’ha Cristianesimo, tutto è falso: il genere umano è pazzo, e Dio non esiste! Ora i demonii sono degli angeli prevaricatori, i quali per intelligenza, forza, ed agilità sorpassano l’uomo, e sono per numero incalcolabili. Pino all’estremo giudizio soggiornano nell’inferno, e nell’atmosfera, che ci circonda, dove invidiosi de* figli di Adamo chiamati alla felicità da essi perduta, si studiano con ogni mezzo di arreti-carci. Fomentano in noi le passioni ; ci creano d’intorno de’ pericoli, oscurano in noi l’occhio della fede, travolgono il senso morale, soffocano i rimorsi, ci rendono complici di loro rivolta per averci compagni de’ loro supplizi. Tutte queste verità, lo ripeto, sono certe al pari della esistenza di Dio. Tiranni dell’uomo per lo peccato, i demonii lo sono di tutte le creature sottoposte all’uomo; vinto il re, il suo regno appartiene al vincitore. Sparsi in tutte le parti del creato, ed in ciascuna creatura, le penetrano con le loro maligne influenze. Tra i limiti del potere, che loro da Dio viene accordato, essi ne formano strumento a disfogare il loro odio contro l’uomo, contro la sua anima ed il corpo. È questo ancora un dogma di fede universale. Che cosa mai conosce chi ciò ignora? Niente. Chi ne dubita? meno che niente. Quegli che lo miscrede non merita d’essere fra gli uomini ragionevoli. Esistendo la lotta, ed essendo l’uomo tale qual’egli è, potrai tu concepire che la sagezza divina abbia lasciato il genere umano senza difesa? Come non comprendere il contrario con la istessa evidenza, che due e due fanno quattro, che, per equilibrare la lotta, Dio ha dovuto dare all’uomo un’arma potente, universale, alla portata di tutti? Qual è quest’arma? Interroghiamo tutti i secoli, ed in principal modo i Cristiani, questi con grido unanime risponderanno: È il segno della croce! L’uso costante da essi fattone ribadisce la loro risposta. Questo punto di vista illumina la storia di questo segno adorabile, ne mostra la ragione, giustifica altamente la condotta de’ primi Cristiani, e condanna parimenti la nostra. – Nulla è a pezza più certo dell’essere il segno della croce arma di precisione contro satana, e suoi angeli. Dimmi: quando è da provare la forza di un cannone, di una carabina, o di qualsiasi arma nuovamente formata, in qual maniera si procede? Non si aggiusta mica alla cieca fede all’inventore, ma l’autorità forma una commissione, che alla presenza di giudici competenti fa saggio di essa, e dietro ripetute esperienze porta giudizio sul merito dello strumento guerresco al suo esame commesso. Non sia altrimenti per lo segno della croce. Ma ricorda solo, che questo segno divino non è testé formato; desso è di vecchia data, e vecchissima, ma non ruginosa, nè indebolita, nè fuori servizio. Il giuri poi dell’esame è formato da lungo tempo, e non lascia nulla a desiderare. Desso è composto di uomini competenti dell’Oriente e dell’Occidente; uomini della specialità, che da lungo tempo conoscono 1’arma in questione, ed il mestiere delle armi non solo in teoria, ma altresì praticamente. Ecco il tribunale, ascoltane il giudizio. – Crede egli alla potenza del segno della croce, ed alla forza di quest’arma divina contro i demoni, un giudice che siffattamente parla? « Non ti colga uscir da casa tua senza fare il segno della croce ; desso sarà per te bastone ed armatura inespugnabile: nè uomo, nè demonio oserà attaccarti, al vederti ricoperto di siffatta armatura, ed essa insegnerà a te stesso dover essere un soldato sollecito alla pugna contro satana, e guerreggiare per la corona di giustizia. Ignori forse l’operato dalla croce? La morte è stata vinta, il peccato distrutto, satana detronizzato, l’universo tornato a nuova vita; e dubiterai tu della potenza sua? » ((S. Chrysost., homil XXII ad popuL Antioch.). Vi crede questo secondo giudice, che in questi termini si esprime: « Il segno della croce è l’armatura invincibile de’ Cristiani. Soldato di Cristo, una tale armatura non ti abbandoni giammai né di giorno, nè di notte, in nessun tempo, ed in nessun luogo. Sia che tu dorma o vegli, che viaggi o riposi, che tu mangi o beva, che attraversi i mari od i fiumi, sii tu sempre coperto di questa corazza. Orna pure e proteggi le tue membra con questo segno vincitore, nulla ti potrà nuocere; non v’ha difesa simile ad esso per potere. A vista di questo segno le infernali potenze spaventate, tremano, e prendono la fuga » (S. Ephrem, De Panoplia et de pœnitentia, apud Gretzer. p. 580, 581, et 612).Vi crede, questo terzo giudice, che indirizza a’ Cristiani, e a sé stesso il seguente discorso: «Facciamo arditamente il segno della croce. Quando i demonii lo vedono, si ricordano del Crocifisso, prendono la fuga e ne lasciano tranquilli » (S Cyril. Hierosol. Cathec XIII).). E questo quarto? « Innalziamo sulle nostre fronti l’immortale stendardo; la sua vista fa tremare i demonii, che non temono i campidogli dorati, ed hanno paura della croce » (Origen., homil. VII in divers. Evangel. locis). Così giudica l’Oriente per l’organo de’ suoi illustri uomini S. Grisostomo, S. Efrem, S. Cirillo di Gerusalemme, ed Origine, cui sarebbe facile aggiungere altri nomi meritevoli di eguale rispetto. – Ascoltiamo l’Occidente. S. Agostino diceva a’ catecumeni: « Col simbolo, e con la croce è da muovere alla battaglia contro l’inimico. Il Cristiano rivestito di queste armi trionferà senza pena alcuna del suo antico e superbo tiranno. La croce basta a fare svanire tutte le macchinazioni degli spiriti delle tenebre » ( S. Aug ust. Lib. de symbol.,c. 1). Ed il suo illustre contemporaneo S. Girolamo: « Il segno della croce è scudo, che ci difende contro le infiammate freccie di satana » (S. Hieron. Ep. XVIII ad Eustoch.). Ed altrove: « Fate frequentemente il segno della croce sulla vostra fronte, onde non lasciar alcuna presa allo sterminatore dell’Egitto » (Idem, Ep.XCVII ad Demetriad.). E Lattanzio: « Perchè si conosca tutta la potenza del segno della croce, è da considerare quanto di esso s’impauri satana. Scongiurato nel nome di Cristo, questo segno lo scaccia dai posseduti da lui. Non v’ha da meravigliarne; quando il figlio di Dio era sulla terra, con una parola sola metteva in fuga satana, tornando il riposo e la sanità alle vittime di lui: ora i suoi discepoli scacciano gli stessi spiriti immondi in nome del loro Maestro, e col segno della sua passione » ({Lactant. lib. IV, c. 27).  – L’Oriente e l’Occidente hanno parlato. I giudici i più competenti, che immaginar si possa, hanno dichiarato il segno della croce arma, ed arma di precisione contro satana. Innumerevoli esperienze servono di base al loro giudizio, che ne’ primi secoli della Chiesa avevano luogo tutto giorno al cospetto de’ Cristiani e pagani su tutta la terra. Ed erano sì convincenti, da dire, il grande Atanasio, testimone oculare, senza temere di essere smentito: « per lo segno della croce tutti gli artifizii della magia sono impotenti, gl’idoli abbandonati. Per esso la voluttà per quanto sbrigliata sia e brutale, è moderata, le anime invilite ed infangate in essa sono rilevate dalla terra ed indirizzate al cielo. In altri tempi il demonio ad ingannare l’uomo prendeva diverse forme, e tenendosi sul margine de’ fiumi, ne’ boschi e sui monti sorprendeva con i suoi prestigi gli uomini insensati: ma, di poi la venuta del Verbo questi artifizii sono impotenti; avvignacene il segno della croce discopre tutte le sataniche furberie. Se alcuno volesse farne sperimento, basterebbe solo condursi nel mezzo de’ prestigi satanici, degli oracoli ingannatori, de’ miracoli della magia, e fatto quivi il segno della croce, invocando il nome del Signore, vedrebbe che per paura di questo sacro segno i demoni fuggono, gli oracoli si ammutoliscono, e le malefiche arti tornano impotenti » (S. Athan. Lib. de Incarnat. Verbi 1.). – Io voglio citarti qualcuna di queste esperienze. Il precettore del figlio di Costantino, Lattanzio, che sapeva delle cose della corte imperiale più che ogni altro il potesse, raccontò: « Lungo il soggiorno di Oriente, l’imperatore Massimino, curiosissimo di sapere i segreti dell’avvenire, immolava un giorno delle vittime per sapere, per lo mezzo delle loro viscere, le cose future. Qualcuna delle sue guardie cristiane fece il segno immortale, immortale signum, e tosto i demoni si solvono, il sacrifizio nulla predice » (Lactant. De mortib. persecut., c. 10). Se, a vista di questo segno, satana è costretto abbandonare i proprii tempi, come potrà restare negli altri luoghi? Ascoltiamo uno de’ più gravi dottori dell’Oriente, ed illustre storico, S. Gregorio Nisseno, che scrivendo di S. Gregorio il Taumaturgo, chiamato il Mosè dell’Armenia, cosi racconta: « Troade, diacono di Gregorio, arriva sul far della sera a Neocesarea stanco da un lungo viaggio, e per ristorare le sue forze crede utile bagnarsi, epperò egli si conduce ai bagni pubblici. Questo luogo era infestato da un demonio omicida, che ammazzava quanti ardissero entrarvi dopo il tramonto del sole, ed era questa la ragione, perchè le porte si tenevavo chiuse la notte. Il diacono dimanda che gli si disserrassero le porte; ma il custode a dissuaderlo dicea: In fede mia, chiunque ardisce entrare in quest’ora, non ne sorte sano, ma si mal concio per battiture da non reggersi sui piedi. La notte il demonio scorazza in questo luogo, e ben molti hanno pagato la loro curiosità temeraria con grida di dolore, e con la morte. Il diacono sprezzava tutti questi racconti, ed insisteva per aver libera l’entrata. Più non reggendo a tante inchieste il custode, per salvare la propria vita, e soddisfare al volere del diacono, trovò questo mezzo: concede la chiave, e prende la fuga. Il diacono entra, e tosto che fu tutto solo, nella prima sala depone le vestimenta. Ad un tratto, d’ogni dove sorgono oggetti di spavento, ed orrore. Spettri d’ogni maniera, a metà fuoco e fumo, sotto forma or di bestie or di uomo, fischiano al suo orecchio, gli sbuffano in faccia il loro alito, e lo circondano come in un cerchio da non poter oltrepassare. Il diacono non si smarrisce; fa il segno della croce, invoca il nome di Dio, ed incolume traversa la prima sala. Entra quella del bagno: quivi spettacolo più orrendo gli si para dinanzi, a sorprenderlo, e mettergli paura. Trema la terra, le mura scricchiolano, il suolo si apre, e lascia vedere nel fondo una fornace, le cui faville ascendono sino al volto del diacono. Egli ricorre all’arma del segno della croce e del nome del Signore, e tutto dispare. Preso il bagno si affretta a sortire; ma un demonio gli sbarra il passaggio, e tiene la porta serrata. Le porte si disserrano da per sè, e la resistenza satanica è vinta dal segno della croce. Tosto che il diacono ebbe guadagnata l’uscita, un demonio con voce umana, umana voce, gli disse: Non voler punto attribuire a tuo potere lo aver scampata la morte, ma al potere di Colui, che invocasti. Il diacono Troade divenne oggetto di ammirazione non solo pel custode de’ bagni, ma ancora per tutti, che seppero non avervi perduta la vita(Vita di S. Greg. Inter opera Nysseni). – Quanto leggi non è un fatto isolato, mio caro, ma è parte di un vasto insieme di fatti simili, confermayi da mille testimoni, e che si riproducono oggidì presso i popoli idolatri. Lasciamo che parli Lattanzio. « Quando i pagani, egli scrive, sacrificano a’ loro dei, se qualcuno degli astanti fa il segno della croce, il sacrifizio non riesce, ed il consultato oracolo non da responsi. Questa l ‘ è una delle cause, che mossero gì’ imperatori a perseguitare i cristiani. Alcuni de’ nostri avi li accompagnavano a1 sacrifizi, facevano il segno della croce ed i demoni messi in fuga non potevano produrre nelle viscere delle vittime i segni indicatori. Quando gli auruspici si addavano di una tal cosa, aizzati da satana, cui erano venduti, non trasandavano di menar lamento, per la presenza di profani. I principi sdegnati perseguitarono a morte il Cristianesimo, perchè impediva loro d’insozzarsi con sacrilegi, di che si ebbero la meritata pena (Lact. lib. X, c. 81) ».

La mia prima lettera ti conterà qualche altro fatto.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO OTTAVO

ARGOMENTO

Pratico frutto di questi discorsi. Mezzo alla conversione del Paganesimo non potea essere la sapienza: fu la stoltezza. Testo di san Paolo. Il Mistero della Croce e suo trionfo. Incoerenza apparente di quel testo. Il mondo ed i Credenti. Quello paganeggia col suo Cristianesimo civile. Caratteri di questo. Epilogo: si conchiude col Mistero della Croce.

1. Nel compiere questo piccolo servigio, che io con non piccolo affetto vi ho reso, miei dilettissimi uditori, non posso dissimularvi di rimanere con qualche timore, e quasi che non dissi con qualche rimorso; il quale mi riesce tanto più pungente, quanto esso riguarda la utilità di voi, che siete stati inverso me tanto benevoli e cortesi. Io temo forte che, sedotto dalla vastità e nobiltà del soggetto trattatovi, l’antico cioè ed il nuovo Paganesimo, non abbia forse mirato abbastanza alla pratica e spirituale vostra utilità. Tuttavolta, mi conforto al pensare che, avendo io, con questi discorsi, investito direttamente la tendenza capitale del nostro tempo e delle nostre contrade, la quale è, come più volte vi ho detto, il piegare ad un Naturalismo universale, da cui non può venire altro che il ritorno, più o meno esplicito, alle idee ed agli amori pagani; mi conforto, dico, a pensare che, avendo investita così di proposito questa malaugurata tendenza, voi, accorti siccome siete ed ingegnosi, non avrete mancato di farne da voi medesimi tutte quelle pratiche applicazioni, di cui la predicata parola poteva essere feconda. Che se pure ve ne fosse ancora qualche bisogno, io sono qui a farvene una, che sarà come il midollo e la corona di tutte le altre, e la quale io stimo di tanta rilevanza, che beato me se saprò ben dichiararlavi questo giorno! beati voi se saprete penetrarla intrinsecamente col pensiero, ed imprimerla a caratteri indelebili nei vostri cuori! E sapete qual è questa verità cotanto salutare, la quale, io intendo proporvi? Essa riguarda il mezzo tutto impensato, nuovo, incredibile direi, se il fatto non lo mostrasse avverato, onde Iddio disfece, come d’un soffio, l’opera di quaranta secoli, chiamando il Paganesimo alla Fede, e tramutandolo, come per incanto, in questo Cristianesimo, di cui noi siamo figli e nel cui centro, la Dio mercè, ci troviamo. Signori sì! Fu così inopinato quel mezzo, fu sì stupendo, fu così, fuori d’ogni umano consiglio od accorgimento, che quand’anche qualunque altro argomento mancasse, basterebbe quello solo a mostrare divina la nostra Religione santissima. E notate: io non parlo già della conversione delle Genti o del Gentilesimo; ché già quell’argomento è antichissimo e quasi vulgare nei nostri apologisti ; parlo sì veramente del mezzo, onde la Provvidenza si valse per convertire le Genti. · Il qual mezzo come servì a convertire i Gentili alla Fede, così è sovranamente necessario a mantenere nella Fede le generazioni già convertite; essendo manifesto quello che insegna san Tommaso: le istituzioni, ed in generale qualunque cosa soggetta a mutazione, come sono tutte le umane, mantenersi e restaurarsi per quei principii medesimi, onde ebbero vita e cominciamento. Veggo che voi, invaghiti della rilevanza del soggetto, mi esortate col desiderio a troncare gl’indugi di un più lungo esordire; ed io pure voglioso di fare il piacer vostro, vi vengo tosto, e comincio.

II. Non vi sia grave tuttavia tornare un tratto col pensiero sopra i suggetti, ragionati nei passati giorni, per farvi un concetto possibilmente adeguato delle condizioni misere, in che Cristo Redentore, venendo al mondo, trovò il genere umano. Voi non potreste mai sentire quanto valga e che sia la libertà, la luce e la salute per lui donateci, senza prima intendere la schiavitudine, le tenebre e la morte, in che noi ci aggiravamo. Oltre a ciò la soprammirabile efficacia del mezzo adoperato da Dio a compiere quella trasformazione, allora solamente potrà essere in qualche modo intesa, quando si sia ponderata l’assoluta opposizione dei due termini, dall’uno dei quali il mondo fu tramutato nell’altro. E però quella opposizione io mi studiai di farvi non solo intendere, ma sentire coi passati discorsi, dei quali vorrei ora che abbracciaste, come in iscorcio, tutta d’un guardo, la contenenza. – Per farlo poi bene, ci è uopo smettere un poco quei pregiudizii fanciulleschi, onde uomini anche adulti sogliono mirare ed ammirare la grandezza pagana. Che ché sia della eccellenza, che il mondo antico poté raggiungere nelle arti dello Stato e della immaginativa, il fatto è che tutte quelle prerogative nulla non aveano che fare colla dignità morale dell’uomo ragionevole, col suo costume privato e pubblico, ed aggiungo ancora colla sua contentezza, e con quella misurata felicità, che pure può godersi nella presente vita; la quale, a volerla ordinata debitamente, non può prescindere dalle sue relazioni colla futura. Quanto a tutto questo  il genere umano era dechinato sì basso, era venuto a tal termini di mostruosa libidine, di smisurato orgoglio, di bestiale abbiellezza, e di stupida e codarda schiavitudine, che appena bastano a darne un’idea tutte le immagini, onde sono piene le Scritture, di prigioni, di catene, di tenebre, di piaghe ulcerose e fetide, di regnante peccato , di morte trionfante, di demonio prevalente. A non dire del popolo giudaico, piccolissima eccezione a tanto pervertimento, e che pel meglio, onde superbiva, non si levava sopra la condizione dell’infante, il resto dell’uman genere, che vuol dire quasi tutto, separatosi da Dio, come già il figliuol prodigo, avea colto da quella malaugurata radice ignoranza e sconoscimento di sé medesimo e delle provvidenziali armonie, che lo legavano all’universo. Ristretto l’uomo in sé medesimo volle essere indipendente da tutto, e fu mancipio di tutto: servì alle forze cieche della natura, servi ai propri istinti sensuali, servì alla prepotenza sociale, personificata nell’idolo di tutti più vorace, che chiamavasi patria. Così mi pare, che quell’alta parola di Paolo ai Galati, intorno all’infanzia del popolo giudaico , si può applicare eziandio a tutta la umana famiglia; stantechè la dipendenza è il carattere più proprio dei bambini. E tale, dice egli, innanzi a Cristo, tutti, Giudei e Gentili, eravamo infanti; ed in questa condizione ci trovavamo fatti schiavi agli elementi del mondo: Cum essemus parvuli, sub elementis mundi eramus servientes (Gal. IV, 3). Ed elementi del mondo erano la cupidità, il disordine, le forze della natura, le propensioni sensuali, la prepotenza della società e degli Stati. Tant’è! eramus servientes sub elementis mundi. Ora, trattandosi di dovere disfare quella universale servitudine, rischiarare la terra da quelle tenebre, sciogliere quei ceppi, vendicare in libertà quelle generazioni depresse ed avvilite; qual mezzo avreste voi creduto opportuno a tanto scopo? E voi penserete tosto a quei mezzi, che, secondo natura, si offrono spontanei al pensiero di ognuno: l’ignoranza si sarebbe dovuta cacciare via del mondo per mezzo della scienza; la licenza dei costumi col decoro e colla dignità della vita civile; la schiavitudine universale coll’innamorare i cuori della libertà individuale, civile e politica, facendone sentire i pregi e gli emolumenti. Questo pensate voi, questo penserebbe ogni savia e prudente persona; né la natura e la ragione saprebbono suggerire mezzi più opportuni di questi. Ma al tutto diverso fu l’alto consiglio della Provvidenza; ed appunto perché la natura e la ragione erano traviate ed offuscate, i mezzi ad esse, secondo le naturali analogie, proporzionati non poteano fare buona prova; e però vi era uopo di ricorrere a qualche cosa fuori la cerchia della natura stessa e della stessa ragione. E questo appunto fece Dio col Mistero meraviglioso della Croce, cosa ripugnante a natura, cosa pazza per la ragione; e scelta nondimeno da Lui, come lo strumento di tutti più appropriato alla rigenerazione del mondo, la quale importava il guarire la inferma natura, ed il fare rinsavire la ragione ottenebrata e quasi spenta. Questo ineffabile ed augusto Mistero della Croce, sopra la quale la Vita sostenne la morte, e colla morte diè al mondo la vita: Qua Vita mortem pertulit, et morte vitam protulit; questo Mistero, ripeto, io giudico nella presente materia rilevantissimo il dichiararvi. E per farlo, il meglio che per me si possa, prenderò a guida un luogo profondissimo di san Paolo, nella prima sua Epistola ai Corinti; il quale testo intendo esporvi posatamente, pregandovi a recarvi speciale attenzione. Ecco dunque come ragiona, in sentenza, l’Apostolo.

III. Se il corrompimento, a che era divenuto il genere umano, massime nelle nefande ed empie abbominazioni della idolatria, fosse nato da ragionamento o da discorso, benché erroneo, dell’intelletto, sarebbe certo stato opportuno disfare quell’opera, per mezzo della scienza o sapienza umana, come volete dirla. Ma la cosa era andata tutt’altrimenti: quell’universale corrompimento era originato dall’orgoglio e dalla sensualità, senza che la ragione vi pigliasse alcuna parte, salvo quella di farsi dominare da captiva, di ammutolire e, per colmo d’ignominia, di farsi complice delle cupidigie sensuali e superbe. Così l’ordine primitivo, stabilito dalla Provvidenza, andò fallito per colpa dell’uomo. Secondo quell’ordine primitivo di Dio, che qui l’Apostolo esprime colla frase: In Dei sapientia, il genere umano dalle creature sarebbe dovuto assorgere alla cognizione ed all’amore del Creatore: il che sarebbe stato, secondo la medesima frase di Paolo, cognoscere Deum per sapientiam. Ma non ne fu nulla! ed il mondo non conobbe per iscienza Iddio, secondo la via daLui ordinata. In Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum (1a Cor. I, 21).Stando dunque così le cose, quale vantaggio potea aspettarsi il mondo da una sapienza secondo le sueidee, quando esso se ne avea manomesso, e poco menoche annientato lo strumento? Anzi non pure lo avea annientato, ma colla superbia lo avea reso restio; e lasapienza naturale o lo avrebbe trovato ripugnante, o neavrebbe gonfiato l’orgoglio. Pertanto, non potendo allaguarigione servire più la sapienza, e questa ripugnando anzi a quella, era uopo ricorrere a ciò che è contrario alla sapienza. Ora qual cosa è più diametralmente opposta alla sapienza, se non la stoltezza? Bene dunque! la stoltezza, signori sì! signori sì! la stoltezza proprio prenderà Dio a strumento, per rigenerare il mondo, guasto e folleggiante pei traviamenti di una ottenebrata sapienza. Né a ciò dovea servire lastoltezza in qualunque modo; ma la stoltezza professata, proclamata, predicata; ché il per stultitiam prædicationis è uno degli ebraismi frequentissimi a Paolo, benché egli scrivesse in greco, ed equivale a per stultitiam prædicatam. Eccovi colle proprie sue parole ildiscorso dell’Apostolo: « Non avendo il mondo conosciuto Dio per via di sapienza, secondo il primitivo consiglio divino; piacque a Dio salvare i credenti pervia di predicata stoltezza ». Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes. E sapete che significa propriamente stultitia prædicata? Significa il proclamare una dottrina, innanzi a cui tutta la sapienza umana saria restata sconcertata e confusa; una dottrina, che avrebbe messo alla cima ciò, che la sapienza umana metteva sempre al fondo: e viceversa messo al fondo ciò, che questa metteva sempre in cima; una dottrina, che avrebbe detto bene e beatitudine dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel riconoscere per sua suprema miseria: e per converso avrebbe detto miseria suprema dell’uomo ciò, che quaranta secoli si erano accordati nel dire suo bene e sua beatitudine. Questa fu propriamente la stultitia prædicata, pel cui mezzo volle Iddio salvare l’uomo,il quale non avea saputo trovare salute nella sapienza.E fate di rendervi ben chiaro questo punto. Che direste se un qualunque saltasse qui in mezzo a pensare ed adire a rovescio di quello che dicono e pensano tutti? come altro potreste qualificarlo, che per istolto? Ed è egli forse altro la stoltezza, che pensare e parlare a rovescio di ciò che pensa e parla l’universale, non pur dei savi, ma degli uomini? Pure questo appunto fecero gli Apostoli, e segnatamente Paolo, in mezzo ai Gentili: cominciarono solennemente a gridare cose del tutto opposte ai pensieri e dagli affetti del Gentilesimo. Dissero beati i poveri, gli umili, i sofferenti; e ciò in un mondo, che non conosceva cose più abbominevoli della povertà, della demissione, della sofferenza: dissero miseri e di compianto degnissimi i doviziosi, i rinomati, i gaudenti; e ciò in un mondo, che si struggea della rabbiosa fame di dovizie, di gaudii, di rinomanze. Deh! che vi poteva intendere quel mondo in questa non più udita dottrina? Dovette poi crescere a dismisura la sua confusione ed il suo stordimento, quando si udì contare che Iddio, quasi personificando in sé medesimo quella stoltezza, era nato bambino, era stato perseguito in fasce, avea conversato in mezzo agli uomini, patendo fame e sete, e rimbrotti, e calunnie; era stato accusato, trascinato pei tribunali, coperto di scherni, abbeverato di dolori, fino a lasciare la vita sopra di un infame patibolo tra due malfattori, quasi peggiore di ambedue. Or chieggo a voi un’altra volta: che vi potea intendere il mondo pagano nella sfoggiata stoltezza di quelle dottrine e di questo maestro? E vi è di più: se vi ebbe mai tempo meno opportuno a predicare tale stoltezza, fu quello appunto, in cui essa fu predicata. Lo stesso Paolo Apostolo ci fa sapere che, per quei giorni, i Giudei aspettavano portenti strepitosi, e meraviglie non più vedute: i Gentili, distinti da lui col nome speciale di Greci, che erano i più colti, volevano arti, letteratura, scienza, filosofia: Iudæi signa petunt, et Græci sapientiam quærunt. Or bene: a quel Giudaismo, così avido di portenti, gli Apostoli presentarono niente altro, che un Giusto oppresso, che vuol dire la cosa più ovvia, più comune, più vulgare di questo mondo; a quel Gentilesimo, cotanto assetato di scienza, gli Apostoli si presentarono con quella stoltizia della Croce, presumendo con questo mezzo conquidere il mondo, quando era umanamente indubitato, che quello, riuscendo pure a farsi considerare dal mondo, appena avrebbe potuto altro, che esserne esecrato o deriso. Fu quasi volere conquidere la sapienza colla stoltizia, la forza colla debolezza, il godimento col dolore, la nobiltà coll’avvilimento, l’esistente col nulla, il vigoroso col meno di nulla. E pure questo appunto fu il consiglio di Dio. Sed et quæ stulta sunt mundi elegit Deus, ut confun dat sapientes; et infirma mundi elegit Deus, ut confundat fortia, et ignobilia mundi et contemptibilia elegit Deus et ea quæ non sunt, ut ea quæ sunt destrueret (1 Cor. I, 24). Il quale concetto, mentre da una parte era il solo possibile a recarsi in pratica, siccome quello, che avrebbe, colla umiltà e col dolore, guarita la universale malattia nella sua radice, che era l’orgoglio e la sensualità; si presentava dall’altra parte all’intelletto, come la più matta pretensione, come il più bizzarro sogno, che potesse mai cadere in cervello di febbricitante.

IV. Tuttavia quella pretensione che al povero nostro intelletto saria paruta follia, quel sogno così bizzarro, sono oggimai diciotto secoli e mezzo, è un fatto compiuto; e non già come i fatti compiuti del nostro tempo: parola nuova a mantellarne la laidezza della nequizia, vecchia al mondo quanto Caino; ma come il fatto capitalissimo ed unico che informa tutte le tradizioni, che domina tutta la storia, che è improntato in tutti i monumenti, e che è attestato da una sperienza, innanzi alla cui luce non vi è pipistrello, che possa serrare le pupille. Ed i nostri progressisti umanitari possono bene, a loro grand’agio, storpiare le tradizioni, falsare o mutilare la storia, stiracchiare i monumenti e rinnegare la stessa esperienza! Ma fin che vi resta al mondo riverita una Croce, vi resterà un’irrepugnabile testimonianza di quel trionfo, che la stoltezza, predicata dagli Apostoli, ha portato sopra la ventosissima ed elatissima sapienza del Paganesimo. – Ma che parlo io di una sola Croce superstite? e dove possiamo noi volgere lo sguardo, che non la veggiamo sfolgorante di luce, come il sole nel meriggio: Fulget Crucis Mysterium; ed attestante in sua favella questo gran fatto del mondo vinto e trionfato da lei? Lei voi vedete, campata nelle regioni del tuono e delle nubi sopra gli augusti templi di Dio, narrare ai popoli le benedizioni, che colà piovono dal cielo per lei amicato; lei voi scorgete sui giganteschi obelischi, orgoglio che furono del mondo pagano, e servono oggi di degni piedistalli a quel trofeo di perenne vittoria; lei voi osservate tenere il primo posto sugli altari di Dio, ed ivi, tra lo splendore delle faci e tra la nube misteriosa degl’incensi benedetti, essere il precipuo obbietto del culto cristiano; lei voi mirate, ricca di gemme, pendere sul petto dei sacri Pastori, come indice di potestà spirituale: lei sormontare le cristiane corone dei Re, come simbolo di temporale potere; lei voi guardate sulle porte delle città come scudo di sicurezza, lei sui merli delle fortezze come propugnacolo di difesa, lei sulle prore delle navi come schermo dalle tempeste, lei tra i guerrieri vessilli come pegno di vittoria, lei in petto ai cavalieri come distinzione di onore. E forse che a voi Cristiani dovrò io rammemorare le benedizioni che, per la Croce e colla Croce, associata alla invocazione augusta della Trinità sacrosanta, vi furono impartite dal cielo? Essa Croce vi santificò, ancor fantolini, nel santo Battesimo; fatti più grandicelli, vi fu col sacro Crisma segnata in mezzo alla fronte, sede nobilissima del pudore, perché non ne aveste a vergognare giammai; essa acquetò tante volte le agitazioni ed i rimorsi della sbattuta vostra coscienza, schiudendole, colla fiducia del perdono, i sentieri fioriti della speranza;essa benedisse alle vostre nozze, consacrando così il casto amore, onde, al cospetto degli Angeli, stringente una mano diletta, che forse tremò nella vostra; essa vi accompagna per tutta la vita nel segno che o voi ne fate,o vi scende sul capo pel ministero dei vostri Sacerdoti e del vostro Pontefice; essa sarà stretta tra le già incadaverite vostre mani negli estremi aneliti, raccoglierà dalle fredde vostre labbra il supremo bacio dell’agonia; e, spenti che sarete, essa si poserà pietosa sulla vostra tomba, pegno di sicura, e (speratelo! miei devoti uditori, speratelo! ché ne avete bene onde) pegno altresì d’immortale risurrezione e gloriosa. Insomma Fulget Crucis Mysterium, quanto sono lunghi i secoli, quanto è larga la terra; e per lei ha avuto pienissimo compimento la fatidica parola d’Isaia; che cioè il deserto dirupato del Gentilesimo sariasi abbellito come i più aprichi e fioriti giardini, e che quella solitudine sconsolata sariaşi allietata di non più vista allegrezza. Lætabitur deserta et invia et exultabit solitudo (Isai. XXXV, 1). Qui pertanto, con innanzi agli occhi questo così portentoso trionfo, riportato dalla predicata stoltezza della Croce, voi potete sentire in tutta la sua forza l’alta parola di Paolo, che ci rivela un consiglio, il quale solo dalla Sapienza divina potea essere concepito, e solo dalla divina Onnipotenza compiuto. Udite un’altra volta quel contesto ora, che, dalle cose ragionate, siete in grado di tutta intenderne la verità profondissima. « Posciacchè il mondo non avea conosciuto Dio, per via di sapienza, secondo che la primitiva ordinazione divina avrebbe portato; piacque a Dio fare salvi i credenti,per via di predicata stoltezza. » Quia in Dei sapientia non cognovit mundus per sapientiam Deum, placuit Deo per stultitiam prædicationis salvos facere credentes.

V. Nel quale luogo così dichiarato dell’Apostolo io non so se voi, miei amatissimi, abbiate posto mente ad un’apparente incoerenza, che vi si potrebbe notare. E l’incoerenza sembra acchiudersi in questo, che, avendo detto l’Apostolo, che il mondo non conobbe Dio per la via della scienza, mundus non cognovit; pare che nel seguito del discorso si sarebbe dovuto ritenere il soggetto medesimo, e conchiudere, che, per la nuova via della stoltezza, Iddio volle salvare il mondo. Ma no! In questo secondo comma del periodo san Paolo cangia il soggetto, e non dice che Dio volle salvum facere mundum, ma dice che volle salvos facere credentes. Or come va egli cotesto? Eh! no! signori miei; qui non è ombra d’incoerenza: qui è anzi un’assai profonda morale dottrina; e fate di rendervene molto bene capaci. – A non conoscere Dio fu il mondo: a trovare salute per la stoltezza predicata non è il mondo, sono solo i Credenti; e se voi, come vi trovate, così vi volete conservare nel costoro numero avventurato, benché viviate nel mondo, vi dovete, nei pensieri, negli affetti, nelle inclinazioni, nei desideri e nei parlari medesimi, mantenere separati al tutto dal mondo. Questo non pure non capì il Mistero della Croce, ma se ne dichiarò, se ne professa, a viso scoperto, nemico acerrimo; e senza partirsi d’un capello dai pensieri e dagli amori del Paganesimo, sèguita a dire follia ciò che quello disse follia, beatitudine ciò che quello chiamò beatitudine . E così l’aderire a cotesto mondo, nemico della Croce di Cristo, che altro sarebbe, che rendere vano per la nostra salute quell’alto Mistero? che altro, se non evacuare in noi Crucem Christi, secondo la vigorosa espressione dello stesso Paolo? Né credeste che il caso sia molto difficile: io anzi lo reputo molto facile e più comune, che voi per avventura non pensereste; e ciò grazie a quel Naturalismo, fattosi oggimai così universale nel nostro tempo e nelle nostre contrade. E che ci vuole, signori miei, per rinnegare in certa guisa praticamente il Mistero della Croce, ed annullarne in sé medesimo i salutari effetti? Egli basta, che nei vostri giudizi prendiate a norma, non la follia della Croce, la quale professate di venerare; ma la sapienza del mondo, al quale nel santo Battesimo rinunciaste. Con ciò solo voi avete in voi reso vano il Mistero della Croce: Evacuastis Crucem Christi. Che sarebbe poi se, invece di giudicare le cose umane coi dettami della Fede, si volessero giudicare le cose della Fede coi pensieri umani? Ora non è questo il vezzo consueto della nostra società, che pregiasi di progresso? E che altro da tale progresso possiamo attendere, se non un ridivenire praticamente pagani, rimettendo in onore, come unica norma dei nostri giudizi speculativi e pratici, quella umana sapienza, che fu già confusa e trionfata dalla predicata stoltezza della Croce? Il Magno Leone volea che il Cristiano, nello appressarsi a contemplare gli alti Misteri della sua Fede, tenesse lungi da sé la caligine degli umani argomenti: Cum ad intelligendum Sacramentum …. Christi accedimus, abigatur procul terrenarum caligo rationum; volea che dall’occhio casto di una Fede divina si rimovesse al tutto il fumo dell’umana sapienza: Ab illuminatae Fidei oculo mundanæ sapientiæ fumus abscedat (Serm. I De Circumc.). Affatto opposto a queste prescrizioni è lo stile della età moderna, soprattutto tra quelli, che diconsi e sono tenuti sapienti al livello del secolo. Lungi dallo allontanare da loro la caligine degli umani argomenti, questa caligine appunto tolgono a norma dei loro giudizi, intorno ai Misteri della Fede; lungi dal rimuovere il fumo della umana sapienza, quando si tratta di prescrizioni e di consigli evangelici; appunto quel fumo di umana sapienza prendono a misura, per fare stima delle opere e delle parole divine. E qual meraviglia che, volendosi rischiarare colla caligine ed illuminare col fumo, la società moderna si trova oggimai ravvolta in tante tenebre, da farci temere, almeno per una parte di essa, imminente la notte del Paganesimo?

VI. E sapete in che dimora propriamente e fuori metafora cotesto vezzo? Eccolo in due parole. Consiste nel prendere dai dommi, dalle credenze e dalle prescrizioni della morale evangelica tutto quello, che si accomoda coi poveri nostri cervelli e coi nostri cuori corrotti; e questo ritenere come vero, come buono, come utile all’uomo individuo ed allo stesso consorzio civile; magnificarlo, se fia uopo, eziandio siccome bello, per le armonie che ha colla immaginativa e coi delicati sentimenti del cuore: ed il resto? oh! il resto gettarlo via superbamente, come superstizioso ed inutile, o interpretarlo per mito, o intenderlo a rovescio, o, senza molte cerimonie, sfatarlo come favole e fanatismi. La mortificazione cristiana? Ma si capisce che bisogna astenersi da quei diletti che guastano la sanità, che vuotano la borsa e che denigrano la fama: cose che potrebbero dire ed hanno detto Epitteto, Seneca e Plutarco, come le dicono i nostri umanitari, senza sapersi nondimeno che questi le osservino meglio di quelli. Ma quanto a mortificare davvero la carne per espiazione delle proprie colpe, per domarne l’albagia, per averne merito; oh! i nostri barbassori ci riderebbero sotto i baffi a solo sentirne a parlare; ed appena al medio evo sono generosi di perdonare quegli ascetismi. L’amore della povertà? Sarebbe certo la gran bella cosa, quando ne fossero persuase le turbe cenciose ed affamate, che ci assediano coi lamenti, ed in qualche parte del mondo cominciano ancora ad atterrire colle minacce. Se vi riesce con un po’ di Crocefisso persuadere quella marmaglia a contentarsi dei suoi cenci e della sua fame; tanto meglio! essi i sapienti filantropi vi sapranno grado di avere loro agevolato il traffico su quei cenci e su quella fame. Ma venire a contare a loro, che beati i poveri e guai ai ricchi, sono cose, da neppur si credere possibili nel secolo della Economia sociale, del Credito mobiliare, dei Capitali riuniti e del Libero scambio. La Rivelazione indispensabile all’uomo individuo, la Religione elemento essenziale d’ogni umano consorzio? Ma chi ne dubita? tanto solo, che per Rivelazione intendiate il lume della ragione colle verità immediate che essa intuisce, e colle mediate che essa ne trae per fil di logica, senza rifiutare la scorta dei Grandi Uomini, tra i quali si degnano di noverare anche Cristo; tanto solo che per Religione intendiate la civiltà, ossia l’arte di starne molto bene in questo mondo, senza escluderne la voglia di starne anche meglio nell’altro, purché l’altro non ci scemi e non ci turbi tutti i godimenti di questo. – In breve: cotesto è quel Cristianesimo civile, che seconda tutte le cupidità, che si acconcia a tutti i gusti, che si accorda con tutte le sette, che non esclude nessuna Religione, tranne solo la cattolica, apostolica, romana, la quale, perché lo conosce ottimamente per quel che è, lo condanna e lo maledice. Standone ai dettami di questa Chiesa, nel preteso Cristianesimo civile, non possiamo riconoscere, che un Paganesimo redivivo, il quale dell’antico ha le abbominazioni, senza la grandezza; che ha, sopra l’antico, il marchio dell’apostata e del rinnegato; che ha, meno dell’antico, le speranze e le promesse, che pure a quello sorridevano; laddove questo secondo, nato per corrompimento di Cristianesimo sconosciuto, mutilato e storpiato, non può sperare altro in questo mondo, che la barbarie, sequela indeclinabile di una civiltà corrotta ed inverminita, e l’inferno nel l’altro. È parola dura, lo so: io nondimeno ho dovuto dirvi non il molle, ma il vero; ed il vero, nella presente materia, non ha altro nome, che inferno. Riposiamo.

VII. Io vi dissi fin da principio, che le istituzioni si conservano e crescono coi mezzi medesimi, che loro diedero cominciamento. E così, essendo stato il Mistero augusto della Croce il mezzo, di che si valse la Provvidenza, a tramutare il deserto del Paganesimo in questo orto fecondissimo ed in questo giardino di celesti delizie, che è la Chiesa; quel Mistero medesimo è il mezzo più appropriato a conservarci nella Chiesa, come membri vivi di lei, vigorosi contro le seduzioni del senso e le fallacie del mondo, e fidenti di quella beata eternità, che dovrà coronare i dolori e le lotte del nostro pellegrinaggio terreno. Oh! sì! l’alto concetto della Croce, l’amore tenero ed operoso della Croce è il faro più sicuro, che ai nostri occhi può rilucere, nelle tenebre di questo mondo! è la stella polare, che sola, può guidarci e sostenerci nei timori e nei travagli di questa procellosa nostra vita! Ed oh! Come sarei contento! come mi crederei largamente compensato della povera mia fatica, se, nel separarmi da voi, miei desideratissimi uditori, vi potessi lasciare altamente scolpito nella mente e nel cuore il concetto e l’amore della Croce! di quella Croce, la quale Iddio riputò trono unicamente degno di Lui, quando, da Re supremo dell’universo, volle alle nazioni mostrarsi assiso in trono: In nationibus regnavit a ligno Deus. Tenendovi a lei fedelmente uniti, essa vi sarebbe sicurissima difesa contro gli scaltrimenti e gli scandali della società, in mezzo a cui dovete vivere, la quale, come mi sono studiato mostrarlovi in questi giorni, piega manifestamente ai pensieri ed agli amori pagani. E non ricordale a quanti indizi io vi feci accorti di così fatto lamentevole regresso? regresso che è danno suo, ma che all’ora stessa è vostro pericolo presentissimo. Io ve la mostrai separata da Dio, pel Razionalismo che la domina; disordinata riguardo all’Universo, pel cercarvi che fa una felicità, che Dio non vi pose; ignorante dell’uomo, perché ne rinnega o trasanda i destini ultramondiali; fatta schiava delle forze naturali, cui solo riverisce e adora; dedita alle propensioni sensuali, cui, non che giustificare, si studia di annobilire; da ultimo folleggiante in fanatici di amor patrio, i quali, senza riguardo a diritti od a giustizia, ci vorrebbero tutti venduti anima e corpo per le glorie e per la felicità di una patria, della quale essi sono la vergogna maggiore ed il peggiore flagello. Contro tutti questi o errori d’intelletto o traviamenti di cuore, voi sarete premuniti abbastanza, se, a farne giudizio, non vi consiglierete con quello solo, che ve ne dice la natura; ma attenderete precipuamente a ciò, che ve ne insegna la Fede, nei principii speculativi e pratici consacrati dalla Croce. E però ogni qual volta vi avvenga di leggere o di udire cotesti insipienti e perfidi nemici della Croce di Cristo; e voi, levando le pietose pupille al cielo, dite in cuor vostro: o Signor mio! gl’iniqui mi contarono tante cose! nuove, strane, inaudite! Ma io le tenni per favole, non tanto perché mi parvero riprovate dalla mia ragione; non tanto perché le sentii, nel fondo del cuore, condannate dalla voce della mia coscienza, quanto perché le trovai ripugnanti alla santa vostra legge. Narravernt mihi iniqui fabulationes, sed non ut lex tua (Psalm. CXVIII, 85). Così sia.

FINE

IL SEGNO DELLA CROCE (15)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (15)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA DECIMAQUARTA.

9 dicembre.

Il segno della croce preservativo contro quanto può ledere la sanità e la vita. — Abbonaccia le tempeste. — Estingue il fuoco. — Protegge contro gli accidenti. — Arresta i flutti. — Fa rientrare le acque nel loro letto. — Allontana le bestie feroci. — La folgore. — Fa delle creature strumento di prodigi.

Il segno della croce potente a rendere la sanità e la vita, mostra ugual potere, mio caro Federico, contro quanto può comprometterla. Qui ancora i fatti abbondano, ma i limiti di una lettera non mi consentono che citarne alcuni. Di poi la rivolta originale, tutti gli elementi sono sottoposti all’influenza di satana, congiurano contro l’uomo, l’aria, il fuoco, l’acqua, e che so io! gli fanno una guerra continua, e soventi volte mortale. A nostra difesa l’arma universale stabilita è il segno della croce! – Il Signore, la cui voce comanda ai venti ed alle tempeste, loro parla per lo mezzo di questo segno. Leggiamo di Niceta Vescovo di Treveri, che viaggiando alla volta della sua diocesi si addormentò sulla nave, che aveva noleggiata. A mezzo del corso levasi furiosa tempesta, che squarciate le vele, messi in pezzi gli alberi, minacciava la nave di certo naufragio. I viaggiatori spaventati lo destano. Ed egli, tranquillo fa il segno della croce sulle onde in furore, e queste placatesi lasciano succedere la calma alla furiosa tempesta (Excitatus quoque a suis fecit Signum crucis super aquas, et cessavit procella. – S. Greg. Turon. De glor. confes. c. XVII.). – È fede cattolica espressa nel Pontificale Romano che satana sia l’autore di molte tempeste, e, nell’aria, dimora di lui e degli angeli suoi, esercita particolare e trista influenza. Soventi volte egli reca di tali uragani per disertare le campagne, e soprattutto per far guai agli uomini da bene, che si studiano distruggere il suo impero. Di questi fenomeni, di fatti, usava per rendere inutile la predicazione di Vincenzo Ferreri. Il Santo, atteso il numero delia gente, che d’ogni dove si traeva ai suoi sermoni, non poteva predicare in chiese, che anguste tornavano a contenere tanto popolo, ma su per le piazze, e queste erano sempre gremite di fedeli, ebrei, e maomettani, che per i sermoni di Vincenzo si rendevano cattolici, o se lo erano, divenivano migliori. Satana a distorre tanto bene usava quest’arte. Raccoglieva venti e nubi, suscitava tempeste tali, che il popolo impaurito si cacciava nelle case, e solo restava Vincenzo. La più terribile di tutte le tempeste fu quella suscitata in una borgata di Cotogna. Il Santo, secondo il suo solito dopo la Messa, innanzi deponesse i sacri paramenti, col segno della croce e con l’acqua benedetta, fattosi alla porta della chiesa, costrinse satana a restar tranquillo tutto quel giorno (Sparsit aquam sacratam, ed deinde crucis expressit Signum; illico tempestas dissipatur…. sæpissime…. ortas tem-pestates crucis signo compescuit. – Vit. lib. III).  Come l’aria, così il fuoco ubbidisce al segno della croce. S. Tiburzio, figlio del Prefetto di Roma, è condannato a bruciar l’incenso a’ falsi numi e camminare sul letto di fuoco. Il giovane martire fa il segno della croce, e senza esitare si avanza nel mezzo delle braci, ed in piedi e nudo, « Rinunzia, dice egli al giudice, adesso ai tuoi errori, e riconosci che non v’ha altro vero Dio che il nostro. Metti, se te ne basta l’animo, la tua mano nell’acqua bollente in nome di Giove, e questo che chiami Dio le impedisca di recarti nocumento alcuno. Per me, mi sembra un letto di rose questo che calpesto » (Atti di S. Sebast.). – Sulpizio Severo racconta, come saputolo da S. Martino istesso, che una notte il fuoco si appiccò alla stanza del santo taumaturgo delle Gallie. Egli si risveglia, e confuso si studia estinguere il fuoco; ma inutili tornarono gli sforzi! Rasserenatosi, non più pensa né a salvarsi, né ad estinguere il fuoco, ma, fiduciando in Dio, fa il segno della croce. Le fiamme si dividono, e piegandosi in arco sul capo di lui, gli lasciano continuare la preghiera (Ep. 1 ad Euseb. Præsbyt.: e Vita di S. Martino, lib. X). Lascia che io ti parli di un fatto personale del gran Vescovo. Inimico instancabile dell’idolatria, Martino, avea abbattuto un tempio d’idoli quanto antico, altrettanto in gran fama, e restava solo un gran pino, che sorgeva d’allato al tempio. Egli volevalo distrutto, comeché oggetto di superstizione; ma i sacerdoti degli idoli ed i pagani vi si opponevano a tutt’uomo. In fine, questi dissero al coraggioso vescovo: Poiché tu hai tanta fiducia nel tuo Dio, noi abbatteremo l’albero a patto, che tu resti sotto di esso quando cadrà. La condizione fu accettata. Un popolo immenso si assembra e gremisce lo spazio dove l’albero doveva essere abbattuto; alla presenza di esso S. Martino lasciasi legare e mettere su quel punto verso cui l’albero inclinava. Ai compagni del Santo un fremito correva per le vene, chel’albero a metà asciato pendeva su Martino, e fra pochi istanti ne sarebbe schiacciato: ma l’uomo di Dio era tutto tranquillo, ed elevata la mano, fa contro il cadente albero il segno della croce. A questo segno l’albero si erge, e come spinto da violentissimo vento cade dalla parte opposta. Un grido d’ammirazione si eleva, e non v’ ha quasi alcuno che non dimandi il Battesimo! (Ubi supra). – Questo avvenimento accaduto nelle Gallie è ripetuto in Italia. Onorato, santo abate, e fondatore di un monastero di Fondi, che raccoglieva 200 monaci, vide minacciata l’opera sua di totale ruina. Un gran monte era a cavaliere del monastero, e dal sommo di esso staccasi tale un macigno, che rotolando giù per la china avrebbe schiacciato e monastero, e frati. Onorato accorre; invoca il santo nome di Dio, distende la mano destra ed oppone al macigno il segno salvatore. L’enorme massa si arresta, ed immobile si tiene sul pendio del monte sino a’ giorni nostri (S. Greg. (Dial., lib. I. c. 1).  – Dall’occidente passiamo all’oriente, e noi troveremo che la potenza sovrana di questo segno non è limitata per differenza di latitudine, né di longitudine. Ascolta S. Girolamo. Il tremuoto che seguì la morte di Giuliano l’apostata portò il mare fuori i suoi limiti, e quasi Dio avesse minacciato il mondo di un nuovo diluvio, o che l’universo dovesse rientrare nel caos, le navi si trovarono sui monti spintevi dal furore de’ flutti. Gli abitanti d’Epidauro spaventati per le grandi masse di acqua, che cadevano sui monti, e temendo che la patria fosse trasportata da esse, si condussero presso il santo vecchio Ilarione, e presolo, lo condussero alla loro testa quasi ad una battaglia, contro le acque. Giunti alla riva, il santo fece per tre volte il segno della croce sull’arena. A questo segno le acque si gonfiano, ascendono ad una altezza incredibile come irritate dell’ostacolo, che loro opponeva Ilarione; ma, dopo poco tempo, abbonacciate, rientrano nel loro letto senza più sorpassare il sacrato limite. Epidauro e tutta la contrada pubblicano questo miracolo, e le madri lo raccontano a’ figli perché la posterità ne risapesse ((Vit. S. Hilarión, vers. fin.).  – Eccoti un altro fatto analogo, ma più recente. Mezey istoriografo francese narra che le piogge del 1106 avevano fatto straripare i fiumi ed i laghi di modo, che le inondazioni producevano un nuovo diluvio. Le sole preghiere e le processioni furono potente rimedio contro questo flagello, e, come fu fatto il segno della croce sulle acque, incontanente entrarono nel loro letto (Ist. di Francia, tom. II, p. 135). – Se la verga mosaica, figura della croce, ha potuto dividere le acque del Mar Rosso, e tenerle sospese come monti, perché il segno istesso della croce non potrà rientrare le acque nel loro letto?  Torniamo all’immortale Tebaide, e lascia che io dica una qualche meraviglia, di che i suoi angelici abitanti furono gli attori, ed il segno della croce strumento. Uno di essi, Giuliano, chiamato Sabas, o il vecchio da’ capelli bianchi, traversando l’arida solitudine, s’imbatte in un enorme dragone. Lo spaventoso animale getta sovra di lui uno sguardo sanguigno, apre l’affamata gola, e si slancia per divorarlo. Il venerabile senza scomporsi rallenta il passo, invoca il nome di Dio, fa il segno della croce: il mostro stramazza morto (Theodoret. Relig. hist., c. 2). Più lontano, osserva Marciano, solitario della Siria, che rinnova lo stesso prodigio. Egli pregava alla porta della sua stanzuccia quando Eusebio, suo discepolo, gli grida di lontano per avvertirlo che un rettile mostruoso, poggiato sul muro dalla parte d’oriente, è per slanciarsi sopra lui e divorarlo, e però si desse alla fuga. Marciano riprende il discepolo di siffattamente impaurarsi; fa il segno della croce, e soffia contro la spaventevole bestia. Si vide allora l’effetto della parola primitiva: Metterò una guerra a morte fra la tua razza e la sua. Il fiato uscito dalla bocca del santo fu come un fuoco, che invase di modo il dragone, che cadde in pezzi come bruciata canna (Ibid. c. 3).  Sarebbe facile narrare i molteplici fatti che hanno avuto luogo in queste celebri contrade; ma per riunire le meraviglie dello stesso genere percorriamo l’Italia, serbandoci tornare in Oriente. S. Gregorio il grande racconta che S. Amanzio, prete di Tiferno, oggi città di Castello nell’Umbria, aveva tale impero sui serpenti i più temuti e terribili, che queste bestie non potevano restare in sua presenza. Un segno solo di croce faceva morire quanti ne incontrasse, e se per salvarsi si cacciavano in qualche buco, lo chiudeva con lo stesso segno, e la serpe n’era estratta morta da una potenza invisibile. Era un vero compimento delle parole del Signore : Decideranno i serpenti, serpentes tollent (S. Greg. Dialog., lib. III, c. 35). 1). – Tu sai che N. S. aggiunge immediatamente: « E se » eglino beveranno alcun che di avvelenato , non ne avranno nocumento alcuno, Et si mortiferum quid biberint, non eis noeebit ». Qualche pruova tra mille. La città di Bosra nell’Idumea avea a Vescovo S. Giuliano. Alcuni notabili, in odio della religione, stabilirono avvelenarlo; all’uopo corruppero il servo del Vescovo perché apprestasse il veleno al padrone in una coppa. Lo sciagurato ubbidisce. Il santo divinamente sapendo quanto sul conto suo si facesse, depone la tazza, e dice al servo: Va da mia parte presso i principali abitanti, ed invitali a pranzar meco. Egli sapeva essere fra questi i rei. Tutti accettarono l’invito. Allora il santo, che non voleva diffamare nessuno, disse con estrema dolcezza: Poiché volete avvelenare il povero Giuliano, ecco il veleno, io lo beverò. Ciò detto, segnò per tre fiate la coppa, dicendo: In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo io bevo questa tazza. Egli la beve sino all’ultima gocciola, senza averne nocumento alcuno. A si strano spettacolo gl’inimici gli caddero a’ piedi implorando perdono (Sophron, in Prat. Spirit.). – È mestieri essere bacelliere del secolo decimonono per ignorare il fatto seguente. Se v’ha una vita da esser nota a tutti, è per fermo, quella del patriarca de’ monaci di occidente, Benedetto. Nuovo Mosè, a lui ed ai suoi figli l’Europa deve l’esser stata sottratta alla barbarie. Mostrate una landa materiale o morale che dal Benedettino non sia stata dissodata? Un principio civilizzatore che non sia stato coltivato, insegnato e praticato? Dio sa a prezzo di quali sacrifìzi! Quel che sappiamo si è, che satana, vecchio Faraone, non rincula d’innanzi ad alcun mezzo per impedire l’opera liberatrice; epperò come Benedetto si raccoglie nella solitudine, gli si assembrano d’intorno alcuni monaci, indegni di tal nome, supplicando il santo di rendersene direttore. Questi loro impone una regola, e con la parola e l’esempio cerca accostumarli al giogo della disciplina. Vani sforzi! Gli esempi feriscono l’orgoglio de’ frati, le parole ne provocano la collera e ne accendono l’odio. La risoluzione è presa; il superiore deve morir di veleno: pensato, fatto. Un bicchier di vino avvelenato gli è presentato, perché, secondo il costume, lo benedicesse. Benedetto lo benedice, ma il bicchiere va in mille schegge. Il santo comprese che una coppa di morte gli era presentata, che non poteva reggere al segno della vita (S. Greg. Dialog., lib. II, c. 3). Per questi esempi e per mille altri di simil fatta è facil cosa comprendere qual potente preghiera sia il segno della croce, quante grazie ne apporti, e come preservi questa nostra fragile esistenza da’ pericoli che la minacciano e circondano. In Francia, nella Spagna e nell’Italia, e credo nelle altre regioni, i Cattolici costumano segnarsi al tuono della folgore, e quando lampeggia. Gl’indifferenti se ne burlano, come se i veri Cattolici de’ secoli scorsi, che ci precedettero, fossero tutti spiriti da nulla e superstiziose femminucce. Ora ne’ casi indicati ed in tutti i pericoli noi vediamo il segno della croce in uso presso i Cristiani dell’oriente e dell’occidente, sino da’ primi tempi della Chiesa. S. Efrem, S. Agostino, S. Gregorio di Tours, mille altri testimoni, l’han visto per noi e l’attestano. « Se il lampo squarcia le nubi, dice il santo Diacono di Edessa, se la folgore scoppia, l’uomo s’impaura, e tutti intimoriti c’inchiniamo verso la terra » ( S. Ephrem. Serm. de Cruc.). S. Angostino parlando di quelli, che usano mondane riunioni, aggiunge: « Se un qualche accidente loro mette paura, tosto formano il segno della croce » (Aug., lib. 50 homel. XXI.).  S. Gregorio racconta, come cosa nota a tutti, che sotto l’impressione di un timore ed a vista di qualsiasi pericolo, i Cristiani facevano ricorso al segno protettore. Fra mille fatti il seguente ne sia prova (S. Greg. Turon., lib. Il miracul., S. Martini, c. 45). Due uomini si conducevano da Ginevra a Losanna. Un uragano violento li sorprende, accompagnato da spessi lampi e tuoni. Uno de’ viaggiatori, secondo l’uso cristiano, fa il segno della croce, e l’altro beffandosene gli dice: Che?scacci le mosche? Lascia le superstizioni da femminette. Simili anticaglie disonorano la religione, e sono indegne di un uomo illuminato! Non ebbe detto ciò, che un fulmine lo stende morto a’ piedi del compagno. Questi continuò a difendersi col segno salutare; compì il suo viaggio prosperamente, e propalò da per tutto l’accaduto (Tilman.. Collez, de’ Santi, lib. VII, c 58). Avviso agli spiriti forti!  – Il segno della croce non protegge solamente la umana vita, ma quanto gli appartiene: desso è pegno di sicurezza. Quindi l’uso universale di apporre siffatto segno sulle case, nei campi, sui i frutti e gli animali. « I cattolici , dice il grave Stuckius, hanno delle preghiere accompagnate dal segno della croce per ciascuna creatura, per le acque, le foglie, i fiori, l’agnello pasquale, il latte, il miele, il formaggio, il pane, i legumi, le uova, il vino, l’olio ed i vasi a contenerlo. In ciascuna formula di benedizione eglino domandano espressamente che la malefica potenza di satana ne sia allontanata, e pregano Dio per ottenere la sanità dell’anima e del corpo ».II giorno della Risurrezione benedicono il latte, il miele, le vivande, le uova, il pane, quanto si conserva ed èconsiderato come salutare all’anima. Il giorno dell’Ascensione, le erbe, le piante, le radici per loro comunicare una virtù divina. Il giorno di S. Giovanni il vino, considerato, senza tale benedizione, come impuro e male. Il giorno di S. Giovanni i pascoli; ed in quello di S. Marco le messi. E con ciò eseguono il comando di S. Paolo, che impone a’ fedeli di benedire quanto serve alla vita, e renderne grazie a Dio; uso misterioso, di che i Teologi apportano eccellenti ragioni (Stukius Àntiq convivial, lib. II,  C. 36, p. 430)- Queste creature liberate, mercè il segno della croce, dalla influenza di satana, diventano strumento della inesausta bontà del Creatore ». Leggesi in S. Gregorio di Tours, che una malattia distruggeva siffattamente il bestiame da temerne fin la perdita (s. Greg. Turon., lib. III Miracul. S. Martin, c. XVIII). Nella loro costernazione, alcuni abitanti si condussero alla basilica di S. Martino, presero l’olio che bruciavasi nella lampada, e dell’acqua benedetta; portatisi nelle loro dimore, con essi segnarono le teste delle bestie non ancora affette, e ne diedero a bere a quelle, che non erano ancora perite: tutte furono salve. –  Citiamo un ultimo esempio della potenza protettrice del segno della croce. S. Germano, vescovo di Parigi, si portava ad incontrare le reliquie di S. Simforiano martire, quando gli abitanti di un villaggio, ch’egli traversava, lo pregarono di aver compassione di una povera vedova, il cui piccolo campo era divorato dagli orsi. « Vieni, gli dicevano, a vedere il povero campo, e le bestie distruggitrici fuggiranno per la tua presenza. Tuttavolta i compagni del santo si opponessero, egli si recò sul campo e lo benedisse col segno della croce. Tosto arrivarono due orsi, ma presi da furore cominciano a combattere fra loro; uno resta ucciso, l’altro gravemente ferito, che in seguito fu morto a colpi di piuoli, e la vedova nulla ebbe più a temere per la sua raccolta (Fortunati, In vita S. Germani). L’istoria e piena di simili fatti; ma basti per quest’oggi.

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

 IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (7)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

DISCORSO SETTIMO

ARGOMENTO

Amore patrio alla pagana. Quell’amore si fonda nella natura, e pei Cristiani è carità del prossimo. Sacrifizio pel bene comune. Veri patrioti. Come il Paganesimo formasse della patria un idolo. Tirannide di questo e schiavitudine universale. Cristo ne francò il mondo. Solo Signore dei Cristiani è Cristo. Amor patrio e sudditanza nel concetto evangelico. Diritto divino. Politica erodiana.

I. Se non il più giusto, certo il più splendido orgoglio dell’antichità pagana fu quel caldissimo amore di patria, onde gli uomini alla grandezza di lei ogni loro cosa e sé medesimi, alacri, volenti ed in tanto numero, sacrificarono. E pari allo splendore di quella gloria furono le ammirazioni, colle quali i secoli appresso la celebrarono, per opera soprattutto dei retori e degli umanisti. E chi è di noi, signori miei, che alle rimembranze della sua fanciullezza non associi gli stupori e la riverenza pei Temistocli e per gli Epaminondi, pei trecento Spartani e pei diecimila di Senofonte, per Maratona e per Salamina? Chi di noi non ha celebrato, per esercitazione di scuola, gli Orazii e i Curiazii , i Camilli e gli Scevoli, gli Scipioni, i Pompei ed i Cesari, senza che vi mancasse, quando il pedante pizzicasse un poco del libertino, qualche fiore poetico, aggiunto dalla nostra musa balbettante alle civiche corone dei Gracchi, o dell’uno e dell’altro Bruto? Io non cercherò se e quanto siano ben consigliate quelle ammirazioni; questo dico solamente, che quando a quelle ammirazioni poco meno che puerili, vengano dietro insegnamenti, foggiati sulla stampa del Segretario fiorentino, non consolati da un alito di Cristianesimo o da un fiato di Fede, allora non ne può venire altro che lo spettacolo che abbiamo visto noi, che ne stan vedendo i popoli europei da un paio di generazioni, e ne vedranno, chi sa per quante altre! i nostri nipoti. Non ne può venire altro che una storpiata parodia del vecchio fanatismo pagano, tra il goffo e l’atroce non sapreste qual più, ma goffo ed atroce in supremo grado: parodia, per la quale popoli, che anelavano ad una felicità portentosa, si videro travolti in un mare di guai, e che in vece di diventarne gloriosi, furono fortunati, quando ne divennero solamente ridicoli. Né voi, o Romani, per esserne persuasi, avete uopo di risalire alle storie di Pierleone, di Cola da Rienzo o di Arnaldo da Brescia. A voi basta recarvi alla memoria ciò, di che, già poc’oltre a due lustri, voi medesimi foste parte e testimoni. Deh! che era divenuta a quei di questa vostra alma città, Capo dell’Orbe, centro del Cattolicismo, patria spirituale di quanti sono credenti, e gloria e stupore dell’universo mondo? Abbandonata alla balia d’una falange di forsennati, che, come paese di conquista, la correvano qual cosa loro; perduta ogni sicurezza della vita, ogni tutela delle sustanze, ogni riguardo ai diritti, vedea ogni pace, ogni decoro, ogni tranquillità cittadina tolta via; e dolorava intanto allo scorgere esule il suo Pontefice, disertati i suoi templi, perseguiti e manomessi i suoi Sacerdoti, e la pubblica cosa a tali termini divenuta, che essa dovette salutare con gaudio il fulminare delle artiglierie, che, battendola in breccia e squarciandole un fianco, venivano a liberarla da tanti dolori e da tante vergogne. E pure vi è chi vorrebbe cominciare da capo! E che altro chiedereste per convincervi, che sono pur troppo superstiti alla sconfitta quei fanatismi, dai quali eziandio le anime buone sogliono talora sentire qualche offesa? Nondimeno quanto non ci sarebbe agevole lo schermircene, se ci tenessimo saldi alle norme del santo Vangelo! Né credeste già che il santo Vangelo togliesse un pregio al mondo sterpandone quel fanatismo; esso anzi lo liberò dalle esorbitanze di un orgoglio feroce e dall’avvilimento di una schiavitudine codarda. Signori sì! Signori sì! non è a prenderne meraviglia: il tanto vantato amor patrio dei Pagani, salvo i rari casi in cui poté avere qualche naturale rettitudine, come era socialmente professato, era un indistinto di orgoglio e di schiavitudine, in cui solo non può definirsi chi fosse più misero, se chi opprimeva o chi era oppresso. Ma Cristo Redentore, chiamando il Paganesimo alla luce della sua verità, lo sciolse da quel fascino, e ritenendone il naturale fondamento, raddrizzò, ridusse alla sua vera misura, nobilitò e consacrò il medesimo amore della patria, come fece di tutti i legittimi amori. Questo mi studierò di mostrarvi nel presente discorso; e, senza più, prendo le mosse e comincio.

II. Come dunque io vi diceva testè, il fanatismo patrio dei Pagani, con tutte le sue forsennate esorbitanze, avea un fondamento legittimo nella natura. E qual cosa più naturale all’uomo, che amare di tenerissimo affetto il luogo natio? quel luogo natio, a cui si associano tante rimembranze della inconsapevole infanzia e della vaga puerizia; che accoglie tanti nostri beneamati o per vincolo di sangue, o per lunga consuetudine di dolci ami che in ogni via, in ogni piazza, in ogni tempio, starei per dire in ogni zolla ed in ogni sasso ha legata una qualche memoria degli anni che furono, e sembra ripeterci in sua favella i favori onde fummo lieti, le allegrezze e i dolori che partecipammo coi nostri o domestici o concittadini, e fino i lieti sogni della spensierata giovinezza e le speranze! Di questo poi soavissimo sentimento, se di altro mai, si avvera quello che a rispetto di tutti gli altri beni della vita suole avvenire; che cioè si cominciano ad apprezzare, quando si perdono. E voi che ora neppure avvertite gli agi, il decoro, le affezioni che vi circondano in questa nobilissima patria vostra; oh! voi li avvertireste davvero e con ismisurato desiderio li sospirereste, quando (che il cielo non voglia!), esuli da lei, vi aggiraste stranieri tra stranieri sembianti, visitando città, castella e borgate, che, poco dicendo al pensier vostro, affatto nulla non direbbero al vostro cuore; quando sorpresi in luogo solingo dal declinare del giorno, vi avvenisse di ascoltare una squilla da lungi: oh! allora, al rimembrare il nido natio e i cari lontani, sentireste serrarvisi il cuore e gli occhi vi si gonfierebbon di lagrime. Ed ora che questa Roma, sempre ospitale, accoglie tante vittime onorate delle ire civili, chi sa in quanti cuori avranno trovata un’eco affettuosa queste mie parole! – Che se alcuni per divino servigio abbandonano la patria loro, non credeste per questo che essi l’abbiano in poco pregio, o ne siano disamorati e indifferenti, come alcuni odiatori della pietà ne li hanno calunniati. NO! davvero! E quale sacrifizio farebbero essi a Dio, se per niente l’amassero? il sacrifizio consiste appunto nel lasciare per suo amore, e forse per sempre, cosa tanto caramente diletta. – O cielo ammantato d’azzurro! o fulgidi soli e dorati! o tranquille marine! o pendici fiorite, che sorrideste benigne alla mia culla, e forse alle stanche mie ossa non vi farete pietose! oh! Patria mia! Quanto non me li fece più cara la tua sventura! Tu, per ignavia e perfidia di pochi tuoi, di donna, che fosti e reina di province, sei fatta serva; e del servaggio stai cogliendo frutto amarissimo, nelle insidie che si tendono alla gemma dei pregi, che ti fanno cara ai presenti e dai lontani ammirata, alla Fede santissima dei padri tuoi! Sicché vedete che l’amore della patria è cosa legittima, naturale, che nulla non può avere di riprovevole, e che anzi può essere degno di molta commendazione, quando si mantiene nei limiti a lui segnati dalla ragione. Ma deh! questi limiti in quale amore seppe conoscerli e mantenerli la ragione umana, come giacque abbandonata a sé stessa nel Paganesimo? Neppure li sospettò quei limiti: tanto fu lungi dal non preferirli! Ma noi nati alla grazia, noi formati alla scuola dell’amore, noi sappiamo bene onde si origina quell’amore della patria, quanto largo si stende, quai doveri c’impone; ed insomma, illustrati la mente dalla Fede, lo possiamo quasi notomizzare, come colla scorta di san Tommaso ci è agevole a fare di tutte le altre umane affezioni. Ora, come insegna l’Angelico, l’amore della patria non si origina da altra fonte, che dalla carità verso del prossimo; la quale carità, benché nessuno non escluda dal suo affetto, deve nondimeno, per essere ordinata, pigliare la sua norma, appunto dalla prossimità; ed i più vicini amare più e prima, che i più lontani. Così il luogo, ove nascemmo e fummo educati, e gli uomini che lo abitano dobbiamo amare più, che non quelli della nostra Provincia, e questi più di quelli del nostro Stato, e questi più di quelli della nostra Nazione; e così via via, senza che una ragione di amare non manchi mai, quanlunque quell’attinenza, coll’allontanarsi dal centro, si vada facendo sempre più rimessa: appunto come avviene nel simbolo più espressivo dell’amore, che è il fuoco, dal quale quanto più vi allontanate, e tanto meno vi viene di calore. Di che si vede che l’amore della patria non è altro finalmente, che un’ampliazione dell’amore di famiglia, in quanto sono appunto le famiglie, le quali raggruppandosi fanno i Comuni, e questi, congiungendosi tra loro, costituiscono le Province, dalla cui riunione con altre, sotto l’Autorità medesima, è formato lo Stato. E quinci apparisce quanto sia insipiente il nostro secolo, il quale predica tanto l’amore della patria, e poi, col debilitare per tutti i modi l’amore della famiglia, ne scalza e ruina il primo fondamento e forse l’unico. Anzi è così naturale quella genesi dell’amor patrio, che le condizioni di questo si debbono ragionare, appunto per analogia all’amore della famiglia.

III. Ed il primo sentimento cristiano, che in questa materia ci si offre al pensiero, è questo: non essere cioè ordinato l’individuo al bene della famiglia, o della società civile, ma essere la famiglia e la società civile ordinata al bene dell’individuo; e ciò consuona perfettamente con quell’alta dignità, che la nostra Fede riconosce nella umana persona. Che se tutta questa gran macchina del mondo sensibile è costituita ed ordinata a servigio dell’uomo; crederemo poi che l’uomo sia come morto strumento, e mezzo quasi inanimato, pel bene di un essere collettizio, poniamo pure che voluto dalla stessa natura? E perché altro volle natura, che l’uomo nascesse in famiglia, vivesse in società, se non perché gli fossero assicurati i mezzi di ogni suo bene religioso e naturale, morale e fisico? Vero è che il bene della famiglia e della società rifluisce nei particolari soggetti, che compongono l’una e l’altra; ed in questo modo chi fa servigio a quelle lo fa a questi, e tanto più ampio lo fa, quanto la comunanza è più vasta. In tal caso è manifestissimo il principio, che il bene comune deve prevalere al privato, essendo certo che il bene di mille o di diecimila è cosa assai più rilevante, che non è di uno o di dieci. Ma quando si trattasse di vantaggi, i quali o veri beni non sono, o fossero tenuissimi e di pochi, il sacrificare a quelli l’individuo sarebbe uno sconoscere la dignità umana; sarebbe una tirannide in chi lo pretendesse da altri; sarebbe una pazza fantasia, scusabile appena per l’ignoranza, in chi si contentasse di patirlo per sé medesimo. E che direste di un uomo, il quale, per aggiungere un vano titolo alla sua casa, o per crescerne di alquanti scudi il patrimonio, vi rimettesse di sanità, di onore, e quasi che non dissi, vi sacrificasse la vita temporale e l’eterna? Ora ragionate alla stessa maniera della patria, la quale è appunto una grandissima famiglia, di cui siamo membri. Il vero bene di questa consiste nella pace, nell’ordine, e specialmente nella giustizia in tutto e per tutti, senza la quale l’ordine sarebbe fittizio, e la pace saria bugiarda. Ed è naturale che a procurare quei beni alla patria ogni sacrifizio dalla nostra parte saria ben collocato; stantechè se è bello trasandare le proprie utilità, per assicurare quei beni al fratello, al congiunto, all’amico; quanto sarà più il trasandarle per la patria, che vuol dire per l’accolta vastissima di tutti i parenti, di tutti gli amici, di tutti i congiunti, e di quegli altri innumerevoli, che, quantunque sconosciuti, ci sono pure legati col vincolo del medesimo consorzio civile? E quindi si origina la giusta ammirazione, che circonda quei generosi, i quali per assicurare alla patria loro qualche grande e vero bene, e più per liberarla da qualche grande e vera calamità, non dubitarono di esporre ad ogni sbaraglio la propria vita. Questo è propriamente il ponere animam pro fratribus, del quale Cristo insegnò non vi essere atto di carità più eccelso. Di che vedete che, per noi Cristiani, l’amore della patria appena è altro dalla carità verso il prossimo; e se non fosse prostituita la significazione di questa voce, come la voce stessa non è italiana, vorrei dire che i più grandi patrioti furono gli uomini apostolici, i quali spesero tutta la loro vita pel bene morale e spirituale dei popoli, nel cui mezzo vissero ed operarono. Furono, per figura di esempio, per questa Roma il vostro Filippo Neri, per Firenze il suo Antonino, il suo Carlo per Milano, per la mia Napoli il suo Francesco di Girolamo, e così di altri per altre città e regioni diverse. A questa stregua veri patrioti sono, esempli di grazia, que’ benemeriti professori che, decorando la patria della loro scienza, coll’insegnamento e coll’esempio, le apparecchiano, in una gioventù istruita e cristianamente morigerata, ottimi cittadini; sono quei pubblici ufficiali che, col pieno ed accurato adempi mento dei propri doveri, mantengono la buona contentezza nell’universale, guardando il proprio ufficio, non come un beneficio semplice, ma come un vero carico di servire al pubblico: della quale tutto cristiana parola meno d’ogni altro dovrebbero adontarsi gli uffiziali di uno Stato, il cui Sovrano non disdegna intitolarsi Servo dei Servi del Signore. Così, per la ragione dei contrari, non patrioti, ma parricidi sono quegli scellerati che, alle proprie cupidità ed ambizioni pretendendo non so che gloria e prosperità della patria, apparecchiano a questa giorni procellosi, ne contaminano il costume, ne insidiano la Religione, spogliando, perseguitando, proscrivendo e perfino trucidando i più specchiati e zelanti suoi Ministri.

IV. Ora, chieggo io a voi: questo verace amore di patria come poté aver luogo nel Paganesimo, il quale della carità, non che esercitare i doveri, non conobbe neppure il nome? E quando pure si volesse lasciare da banda la carità, come avrebbe potuto il Paganesimo coll’amore della patria ordinare il civile consorzio, quando esso ignorava di questo le condizioni essenziali e la natura? come già Minucio Felice avea notato: Non potest pulchre gerere rem civilem, quia non cognovit hanc communem mundi civitatem (OCTAVIUS, Cap. XVII). Conviene dunquedire, che nel fondo di questo patrio amore si trovassequell’orgoglio smisurato, che era come l’anima e la vitadel Gentilesimo, il quale per questa via, anelando dislargarsi ad obbietto più grande, riusciva a fabbricarsicolle proprie mani un nuovo idelo, a cui servire e percui sacrificarsi. Mi dichiaro; e voi fate di penetrareintrinsecamente in questo mio pensiero; ché forse ragionandovi del mondo antico, vi rivelerò una piaga bendolorosa del moderno.L’uomo, abbandonato a se stesso e perduta, non cheogni conoscenza, ma ogni rimembranza del suo principio, cercò in sé solo l’appagamento compiuto di ogni sua aspirazione. Ma ristretto alla cerchia del proprio individuo, sentì tosto che era vano cercarvi l’adempimento di desiderii che, lui inconsapevole, lo portavano all’infinito. Pertanto, uscito in certa guisa di sé medesimo, cercò nel mondo esteriore qualche cosa più ampia e più permanente, che non fosse l’individuo, angusto sempre, meschino e labile, come il fumo nell’aria o la spuma sull’acqua. Quest’obbietto credette avere trovato nella patria, nella nazione, nello Stato. Quindi si strinse ad esso; e tanto più ad esso si strinse, quanto sperò che, afferrato, in un modo o in un altro, se non il timone di quella gran nave, almeno un remo, avrebbe esso partecipato la potenza, le ricchezze, la gloria, di che sarebbe la patria depositaria e custode. Così quell’autolatria o adorazione di sé medesimo, la quale era il carattere più espressivo dell’uomo pagano, si amplificava, in certa guisa, e si distendeva in uno smisurato ente collettivo, nel quale tutti, adorando sé stessi, adoravano tutti; ed oltre a ciò se ne acquistava qualche sicurezza contro le invasioni degli altri popoli, i quali, però solo che erano forestieri, erano riputati, secondo le idee di quel mondo, non pure barbari, ma nemici. Eccovi dunque della Patria fatto un verissimo idolo, che s’impadroniva di tutto, che assorbiva tutto, che trasformava tutto in sé medesimo; ed eccovi i popoli trascinati ad immolarsi, a vendersi anima e corpo, per la prevalenza e per gl’incrementi di lei .. Né già, vedete, per gl’incrementi della contentezza privata, del costume, della pace, dell’ordine, della giustizia, la quale della pace e dell’ordine è unica norma e sicura custode; ma sì veramente a fare che la patria allargasse, quanto più si potesse, i suoi confini, annettendosi Stati e Province, quante più potesse (vedete come le annessioni sono cose stravecchie nel mondo); a fare che la patria fosse riverita servilmente dalle vicine nazioni e temuta dalle longinque; che potesse disporre dei destini dei popoli e, se fosse possibile, togliesse e donasse corone ai Regi; senza che in tutto questo entrasse altro motivo che l’orgoglio, altro movente che l’interesse, altro strumento che la forza, altro titolo che il diritto del più forte e la prepotenza. Qual parte si promettesse ciascuno di quella potenza, di quelle dovizie, di quello splendore è inutile a dire, quando è manifesto che tutti i liberi cioè i non mancipii, doveano prometterlasi grandissima, benché quasi tutti ne restassero a denti asciutti; come anche a’ dì nostri si è visto in più di un caso e si vede. Nè altro potea essere, stanteché, dovendosi pure innalzare quella smisurata mole (e tutti vi agognavano i popoli, benché un solo vi riuscisse), fu naturale, che a quella mole si dovesse dare per appoggio, per alimento e per sostegno, tutta la immensa turba dei cittadini, i quali, con isnaturato pervertimento, non più pensarono, la patria essere per bene loro; ma si giudicarono, sé essere per bene della patria, ed a quel mostruoso Moloc tutti doversi immolare i più santi affetti, tutte le più legittime propensioni, tutti gl’interessi, tutti i respiri, tutte le vite. Quindi quelle massime, contro cui la natura freme, e che nondimeno lasciarono eco prolissa infino a noi, i cittadini essere proprietà dello Stato; nulla possedersi in proprio da quelli, che dallo Stato non si possa occupare come cosa sua; i figli appartenere, non tanto ai propri genitori, quanto allo Stato, il quale ne può commettere a cui meglio gli sia in grado l’allevamento: per poco non si aggiungerebbe, i cittadini portare la testa sul collo, per graziosa degnazione dello Stato , il quale per ora non vede ancora nessuna sua utilità nel separarnela; ma se la vedesse, non penserebbe un quarto d’ora a fare loro la festa. Ed una società, a questa maniera costituita, che era dunque, se non un immenso branco di pecore, chiamate cittadini, i quali o le quali, perduta ogni coscienza, non che della propria dignità, ma della personale loro indipendenza, viveano atterrati e conquisi dal dominio assoluto di un essere misterioso e inesorabile, che impinguava di oppressioni, vivea di servaggio e si abbeverava, senza mai dissetarsene, di lagrime e di sangue? che altro era, se non un popolo che assassinava stupidamente sé stesso, perché lo Stato fosse abilitato ad assassinare altri popoli? Leggete con occhio cristiano le storie antiche, e voi non vi troverete altro. Erano popoli che si scannavano l’un l’altro per l’ingrandimento della patria rispettiva; e, finito o piuttosto sospeso il macello, trionfava la patria che più aveane uccisi degli altri, e meno ne trovava uccisi dei suoi; ma sempre uccisi. Direte che quella patria aveanla fabbricata essi: direte che volenti a lei e per lei s’immolavano. Ma che per ciò? forse che gl’idolatri non adorarono e non adorano un fantoccio fabbricato dalle loro mani? forse che il forsennato non si getta nel precipizio menando carole? Dite dunque forsennati quegl’idolatri, ed avrete spiegato il mistero. Nel resto quella medesima illusione di vedere nella patria un essere collettizio e quasi un corpaccio immenso, nella cui smisurata ventraia ognuno potea immaginarsi di carpire un siterello, per fruire potenza e ricchezza, quella medesima illusione sparì col decadere della Repubblica romana, concentratane l’autorità nelle mani di Ottaviano Augusto, il quale, col nome di principale, si prese il tutto. Personificatasi la patria in un uomo, quell’uomo fu Imperatore, fu despota, fu idolo, fu Divo, ed ebbe templi, ed are, ed incensi, e sagrifizii; quantunque i pretoriani si avessero arrogato il diritto di mandare all’altro mondo quelle vituperose divinità, quando diventavano intollerabili, e loro, senza più, sostituirne delle altre, che sarebbero spacciate al modo stesso. E si vide così lo spettacolo, prolungato per alquanti secoli, di quasi tutto il genere umano, almeno per la parte fino allora conosciuta ed esplorata, che, incatenato e pavido, allibiva o fremeva ai piedi di un uomo bestialmente mostruoso, spesso sarmata, talora trace, la cui volontà consideravasi come il fato, e la cui persona era adorata come divina. Oh! non vi pare che l’uomo fosse stato così ripagato con larga usura dell’alterigia, ond’erasi sottratto superbamente al dominio del vero Iddio? Da quaranta secoli il genere umano non era mai dechinato sì basso! e ben si dice, nei Fasti cristiani, che nell’anno quarantaduesimo di Augusto tutto il mondo era in pace: era la pace universale della universale schiavitudine! Ora fu proprio quello l’anno, in cui apparve al mondo il Salvatore, il Liberatore per antonomasia, il grande e vero Sospitatore!

V. Rientrata un’altra volta l’umana famiglia, mercè la grazia del Salvatore, sotto il dominio di Dio, se ne ristorò tosto la dignità, non già, vedete, rifiutando obbedienza a quei tiranni: tutt’altro. Mentre i Cristiani erano così perseguiti e manomessi, in tutte le cospirazioni, che si ordivano contro quegli esosi Imperatori, non si trovò che pigliasse mai parte un Cristiano; e Tertulliano sfidava a fronte alta i Gentili a nominarne un solo che l’avesse fatto! Ma sì veramente fu ristorata, per tale rispetto, la dignità umana, facendo che dalle generazioni redente s’intendessero le intime ragioni dell’ordinamento sociale, e la tanta parte, che il Re supremo ha nell’autorità civile, per quanto sia vero, che i depositarii di essa possano abusarne e talora ne abusino. Non più dunque l’uomo fu tenuto proprietà della patria, schiavo della Repubblica, mancipio del Principe o dello Stato. Oh! no! un’anima ragionevole ed immortale è cosa troppo sublime, sicché possa tributare le sue adorazioni ad altri, che a quel Re sempiterno, di cui sa di essere immagine espressiva; e quasi si sente spiracolo vivo. Il carattere del sacrosanto Battesimo, onde abbiamo insignita la fronte, ci onora assai più, che qualunque corona di Monarca non potrebbe; e l’ambizioso Civis romanus , di cui i padri vostri, o Romani, erano cotanto altieri, spari dai loro occhi, al pensiero di essere rinati per Cristo, come il Magno Leone con esso loro se ne gratulava: Nec tam gloriantur quod in Imperio geniti, quam gloriantur quod in Baptismate sunt renati (S. Leon. Serm. XXXVII). Noi amiamo la patria, riveriamo la legittima autorità civile; ma riveriamo questa ed amiamo quella di riverenza di amore ben diversi da ciò, che ne seppe e ne praticò il Paganesimo. Noi amiamo la patria, non come nostro fine ultimo: a questo modo, la nostra vera città, la vera nostra patria è il Paradiso. Noi amiamo altresì la terrena; ma l’amiamo come uno dei tanti mezzi fornitici dalla Provvidenza ad asseguire l’ultimo nostro fine; e perché questa destinazione si avveri, desideriamo che in essa patria fiorisca la Religione, la giustizia, la pace, l’ordine, senza aggiungere grande importanza al timore che essa possa incutere altrui colle sue forze di terra e di mare; e piangeremmo se vedessimo sperperate le sue ricchezze e versato a torrenti il suo sangue in guerre, di cui non si sapesse neppure il perchè, o si sapesse che sono a sostegno della nequizia; ed arrossiremmo quando sapessimo, che la nostra patria avesse perduta ogni fede nel mondo per le sue menzogne diplomatiche, o fosse da tutti guardata in cagnesco per le sue perfidie. Il prosperare materiale della patria piace anche a noi; ma non possiamo volerlo mai come bene assoluto, quale non è nessun bene creato; e così dobbiamo volerlo, e lo vogliamo subordinato ai beni morali ed agli eterni; e non sarebbe così subordinato, quando, per ragione di esempio, quella prosperità materiale, fattasi squisitamente voluttuosa e sibaritica in alquanti gaudenti del secolo, lasciasse ai più la fame, i dolori, le privazioni, una vita di pene incessanti e di fatiche. Per ciò che si attiene all’autorità legittima, il Cristiano non obbedisce all’uomo: no! il concetto dell’uomo, soggetto all’uomo, in quanto tale, è concetto altamente oltraggioso alla dignità di uomo, e più ancora alla professione di Cristiano. No! il Cristiano non ha altro Re o padrone che Dio, e precisamente il Dio Incarnato, e non obbedisce che a Lui solo. Noi coll’Apostolo Giuda professiamo di credere, a Gesù Cristo essere il solo Signore nostro: » Iesum Christum nostrum (Ephes. VI, 5, 6). E se Egli è Solo, non ve n’è, non ve ne può essere altro fuori di Lui. Qui, nei templi santi di Dio, sotto queste auguste volte, tra i solenni concenti dell’organo armonioso, in mezzo alla maestà dei riti cristiani, la nostra plebe, anche scalza, anche cenciosa, fa coro coi suoi Sacerdoti, che cantano altamente e proclamano uno, uno solo essere il Signore, il solo Altissimo Cristo Gesù: Tu solus Dominus, Tu solus altissimus, lesu Christe. E non vi pare, che questi scalzi, questi cenciosi siano al quanto dappiù di quel dorato servidorame, che, tenendo per unico Dio il suo padrone terreno, è dannato a imputridire nelle anticamere, aspettandone l’insigne onore di un comando, o il favore miracoloso di uno scherno? – Che se il Cristiano, com’è suo dovere, riverisce ed osserva eziandio le autorità terrene, ciò è solo, perché Iddio, nell’ordinamento della società e della famiglia, avendo conferita parte della sua autorità a chi alla famiglia od alla società fu preposto, egli il Cristiano in costui non paventa la forza, non teme l’astuzia, molto meno invidia la potenza; ma con semplice cuore riconosce un Luogotenente di Dio, un investito dell’autorità di Lui. Ed oh! che grande! che sublime parola è quella di Paolo là, dove conforta, non che i sudditi, ma gli schiavi medesimi ad obbedire ai loro preposti: “Servi obedite præpositis vestris sicul Deo …. non ad oculum servientes. Avete udito? Non bisogna fermarsi a quello che ce ne dice il senso; non dobbiamo mirarvi l’ambizione, l’ingiustizia, la prepotenza, la cupidità che spesso vi si trova, e più spesso vi si suppone; ma l’essere essi strumenti di Dio. Che se vi paresse strano, che Iddio pigli talora a strumento uomini inetti od anche malvagi, non ci è uopo di prenderne scandalo, e neppure meraviglia. Forse che Dio non castiga cogli scarsi raccolti, colle inondazioni, colle pestilenze, coi tremuoti? E perché dunque non ha potuto pigliare talora a strumento dell’ira sua, eziandio il mal governo di Reggitori incapaci o tristi, valendosene come il padre si vale della verga? Ché egli con questa corregge il figlio, e poscia al figlio riserba la eredità, e la verga getta ad ardere nel fuoco, secondo la viva immagine che ne dà Agostino. Or vedete fonte perenne di dignità, di pace, di contentezza rassegnata per qualunque sia sommesso a superiore potestà, eziandio quando questa o per incapacità tentenni e sbagli, o per malvolere, o per capricci trasmodi! soprattutto quando, riconosciuto da tutti il Potere come dato da Cristo, il suo Vicario in terra possa stendere la mano paterna, a rattento e correzione dei trascorsi di quello. Ma questa dottrina, che in sostanza è il tanto calunniato Diritto divino, e che mantenne il mondo, a tal riguardo, tranquillo per otto secoli, questo sistema, putiva troppo di sagrestia; ed i razionalisti umanitarii vollero rifare essi a modo loro la società. E che riuscirono a fare? scardinata la società europea dall’imo fondo, col sottrarle il fondamento cristiano, fecero una cotal pazza cosa, che né cristiana non è né pagana, ma va barcheggiando sciancata tra l’uno e l’altro, senza avere i vantaggi di alcuna: non la dignità della prima, non la stabilità e la forza della seconda. Dall’assoluta indipendenza individuale passarono a riconoscere l’autorità nelle moltitudini; nella impossibilità di ritrovare in queste il principio di autorità una ed operante, si gettarono alle maggioranze, ossia alla prevalenza del numero; ma essendo in questo troppi capi, si passò alle elezioni ed all’eletto. Talmente che, in ultima conchiusione, per non prestare obbedienza a Dio, si venne a prestare idolatria alla marmaglia; per iscuotersi da qualche dipendenza dalla Chiesa, si restò alla discrezione della piazza; per non riconoscere gli eletti di Dio, si riuscì ad accettare gli eletti del popolo, che significa, con rarissime eccezioni, i più furbi, i quali sanno meglio abbindolare le moltitudini passionate ed imperite. Voi non avete uopo che io vi dichiari gl’insigni guadagni, che con questi nuovi processi ha fatto la società, soprattutto nel costume e nella pubblica quiete, quando vedete le carceri e le galere sempre più amplificarsi, e le rivoluzioni essersi rese cotanto frequenti, che se il loro ricorrere fosse costante, noi potremmo misurare con esse il nostro tempo, come già i Greci facevano colle loro Olimpiadi. Riposiamo.

VI. Mi guarderei bene dal dire, che tutti i politici del nostro tempo esemplano in loro medesimi il perfido ed empio Erode, persecutore del Redentore fino dalla culla. Ma se l’asserzione, scendendo da quell’ampiezza, si restringesse a quei soli politici, i quali o non mai hanno avuto il dono della Fede, o ne fecero miseramente getto, sicchè appena hanno altra norma del loro pubblico operare, che l’ingrandirsi a tutti i patti ed il prepotere, alla maniera gentilesca; ahimè! che sarebbe purtroppo vero il paragone! E che fece finalmente Erode? volle conservarsi un Regno, a cui pare che avesse un qualche diritto, e volle conservarlosi ad ogni costo. E così, sentendo parlare di non so che nuovo nato Re dei Giudei, si dié a giocare di astuzia per saperne prima per minuto, e poscia per disfarsene in tutti i modi. Pertanto un po’ di politica machiavellica coi Magi, fingendo di volerlo adorare, quando avea in animo di sterminarlo; un po’ di acceso risentimento, quando si vide schernito dai Magi stessi, i quali più dell’Angelo si fidarono che non di lui; da ultimo un po’ di sangue infantile versato, un po’ di scipito guaire di madri piangolose, non erano cose da fare dietreggiare la ragione di Stato, la quale volea salvo il diadema, e segua che può. Or chieggo io: se si tolga quel troppo strepitoso macello d’infanti, cui la mitezza dei tempi moderni non vorrebbe tollerare, e quale è parte della politica erodiana, cui non abbiamo vista adoperata sotto i nostri occhi? colla sola differenza, che Erode lo fece per conservare il suo: noi l’abbiamo veduto fare per prendere l’altrui. Fingere ossequio, quando in cuore si cova odio; promettere amicizia, quando si stanno tendendo agguati; perseguitare qualche innocente , schiacciare qualche ardito, non si curare delle lagrime, delle sventure dei deboli, lasciar correre come acqua il sangue dei popoli, oh! e non sono cotesti i primi elementi della politica anticristiana, e peggio che gentilesca, tenuta in onore nel mondo? Ma Iddio che schernì gli scaltrimenti volpini dell’antico Erode, schernirà, siatene certi, anche quelli dei nuovi: Dominus irridebit eos. E valga a sostenere la nostra fiducia il saggio stupendo, che ci sta dando della protezione, onde Egli copre la Chiesa in maniera così analoga a quella, onde già protesse il divino Autore di lei fino dalla culla; massime chi consideri la qualità dei mezzi di cui si vale. Oh! guardate! Tanta strage d’innocenti dovea servire per ravvolgere in quella il temuto Re neonato; e pure il temuto Re neonato fu il solo, che non fosse ravvolto in quella strage. Ora non sapete come, nei disegni dei nemici di Dio e della sua Chiesa, la tempesta scatenata, in questi due ultimi anni, sopra i troni italiani era ordinata principalmente ad abbattere il trono del Vicario di Cristo? E non dimeno (voi lo state vedendo!) il trono del Vicario di Cristo è il solo, che non sia stato abbattuto da quella tempesta: Unus tot inter funera Impune Christus tollitur (Ecclesia in Officio SS . Innoc. Hymn. ad Matut.)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (8)

IL SEGNO DELLA CROCE (14)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (14 )

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA DECIMATERZA.

8 dicembre.

Effetti del segno della croce nell’ordine temporale. — Guarisce tutte le malattie ed allontana quanto può nuocerci. — Rende la vista a ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti. L’uso delle membra agli zoppi, ed ai paralitici, guarisce le altre malattie e torna in vita i morti.

Povero nell’ordine spirituale l’uomo non l’è meno nell’ordine temporale: il suo corpo e l’anima non vivono che di accatto. Fra i beni necessarii al corpo ve n’hanno due, mio caro, che voglio ricordarti: la sanità, e la sicurezza. Il segno della croce ci procura con efficacia l’una e l’altra. – La sanità. Il Verbo eterno è la vita vivente e vivificante. L’evangelo parlandoci di lui quando viveva nel mezzo degli uomini ci dice una parola quanto semplice, altrettanto sublime: Una virtù emanava da Lui che guariva tutte le infermità; virtus de illo exibat et sanabat omnes. L’istoria c’insegna che questa parola può intendersi a cappello del segno della croce.  – Che i primi Cristiani si servissero del segno della croce a guarire le malattie, nulla v’ha di meglio dimostrato. San Cirillo e san Giovanni Crisostomo, uno patriarca di Gerusalemme e l’altro di Costantinopoli, affermano con ogni asseveranza, che il segno della croce continuava a guarire le infermità e i morsi delle bestie feroci al loro tempo, come all’epoca de’ loro maggiori (Hoc Signum ad hodiernum diem curat morbos. – Catech. XIII; S. Gris., hom. 54, in Math.).  Veniamo alle prove: Tutti i sensi dell’uomo sono soggetti a delle infermità. Cominciamo dal più nobile, la vista. Se invece d’impallidire di continuo su gli autori pagani i giovani leggessero gli atti de’ martiri, troverebbero in quelli di san Lorenzo il gran miracolo, che ancora celebra la Chiesa, qui per signum crucis cæcos illuminavit. L’illustre arcidiacono di Roma era entrato in una casa di un Cristiano, dove trovavasi il cieco Crescenzio. Questi distruggendosi in lagrime si gittò a’ suoi piedi dicendo: Mettete la vostra mano sugli occhi miei, perché io veda. Il beato Lorenzo profondamente commosso gli risponde: II nostro signore Gesù, che ha aperti gli occhi al cieco, ti doni la vista. E sì dicendo, fa il segno della croce su gli occhi di Crescenzio, che tosto vide la luce ed il beato Lorenzo (Vita del santo scritta da S. Oven vesc. di Raven, c. XXIX). – Il dotto Teodoreto ci racconta quanto segue della propria madre: « Mia madre aveva tale una infermità negli occhi, che inutilmente la medicina aveva posto in uso tutti i suoi mezzi contro di essa. Tutti i vecchi volumi ed autori interrogati, nessuno dava mezzo a guarirne. In tale stato noi eravamo, quando un’amica venne a vedere mia madre, e le parlò d’un certo santo uomo per nome Pietro, e contolle d’un miracolo da esso operato. Ella diceva: La moglie del Governatore d’Oriente era affetta dallo stesso male: si diresse a Pietro dimorante a Pergamo, « questi la guarì pregando per lei, e facendo sopra di essa il segno della croce. Mia madre non perde un istante; corre per l’uomo di Dio, si getta a’ suoi piedi e lo prega della guarigione. E questi a lei: Io non sono che un povero peccatore, io non ho punto presso Dio il potere che voi credete. Mia madre raddoppia le preghiere, e lagrimando protesta che non partirebbe se non guarita. Dio, riprese Pietro, è il medico di questi mali; Egli esaudisce quelli che credono. Desso vi esaudirà non per i miei meriti, ma per la vostra fede. Se questa è in voi vera, sincera, pura e senza esitazione, trasandate medici e medicine, ed accettate il rimedio che Dio vi offre. Sì dicendo, distese la mano su l’occhio, e fattovi il segno della croce il male disparve » ( Hæc cum dixisset, manum imposuit oculo, et salutane crucis signo facto, morbum expulit. – Hist. ss. Patr. in Petr.). De’ fatti men lontani da noi ti mostreranno che questo segno attraversando i secoli non ha mai cessato di essere il migliore degli oculisti. S. Eloi vescovo di Noyon, passando uno de’ ponti di Parigi, guarì un cieco, che a vece di chiedergli un soccorso, lo pregò che lo segnasse su gli occhi col segno della croce (Mabillon, Vita del santo, tom. 11). – Un simile miracolo leggesi nella vita di S. Frobert abate di un monastero presso Trojes nella Champagne. Era ancora fanciulletto, quando la madre cieca da più anni lo prese sulle sue ginocchia, e carezzatolo lo pregò di fare il segno della croce sopra i suoi occhi. Sulle prime il giovane santo si ricusò; ma, dietro le instanze materne, invocò il santo nome del Signore, fece il segno della croce richiesta, ed al momento la madre riebbe la vista.  – Il Mabillon nella vita di S. Bernardo cita oltre trenta ciechi di ogni età e condizione, che in Francia, Italia ed Alemagna furono guariti, alla presenza de’ re e de’ principi, col mezzo del segno della croce (Mabillon, ubi supra).- Dalla vista passiamo all’udito. Come N. S. il segno della croce rende l’udito ai sordi, e la loquela ai muti. Eccoci in Roma e nel palazzo del Prefetto: un giovane e brillante uffiziale è inanzi a noi, per nome Sebastiano. Questo nome illustre è ignoto ne’ collegi. Tu apprenderai ai tuoi compagni che S. Sebastiano comandava la prima coorte pretoriana al tempo di Diocleziano, che, alla moderna vuol dire, colonnello di un reggimento della guardia imperiale. Dotato di eloquenza pari al suo coraggio, egli usava i doni di Dio ad animare i martiri, che ogni giorno venivano tradotti al pretorio. In uno fra questi, Zoe femmina del prefetto ebbe la ventura di ascoltare uno di questi discorsi. Tuttavolta pagana, fu si commossa, che gittossi in ginocchio, e, comeché muta da poi sei anni, col gesto faceva intendere di voler essere cristiana. Fu intesa. Un segno di croce sulle labbra le diede la parola, di che, il primo uso che fece, fu in dimandare il battesimo (Atti di s. Seb.). – Tu dirai loro altresì, che con lo stesso mezzo l’immortale abate di Chiaravalle, san Bernardo, ha guarito un numero immenso di sordi e muti. A Cologna una giovinetta sorda e muta; a Bourlemont un fanciullo sordo e muto dalla natività; a Bile un sordo; a Metz un sordo al cospetto di una folla immensa; a Costanza, a Spira, a Maestricht de’ sordi e de’ muti; a Troyes una giovinetta zoppa e muta alla presenza de’ vescovi Geoffrai di Langres, e di Enrico di Troyes. In fine, a Chiaravalle un fanciullo sordo-muto, che attendeva da quindici giorni il suo ritorno. Mentre il Santo soggiornava a Spira, dove operava molte miracolose guarigioni, arrivò Anselmo vescovo di Havelsperg, cui una infermità di gola rendeva pressoché impossibile l’inghiottire ed il parlare. Voi dovreste guarirmi, disse questi a S. Bernardo. E S. Bernardo piacevolmente a lui: Se voi aveste la fede di queste buone femmine, io potrei, può essere, operar su di voi in pari modo. Se la mia fede non basta, riprese il Vescovo, mi guarisca la vostra. Allora il Santo lo toccò facendo su di lui il segno della croce, ed all’instante istesso l’enfiagione, ed il dolore sparirono (Ut signum sancte crucis expressit, confestim omnis vigor per membra diffunditur. – Vita cap. X).  – Il tatto è il senso sparso in tutto il corpo, epperò presenta agli attacchi delle infermità maggior presa. Come allontanare tutti i mali, gli uni più dolorosi degli altri, a cui è esposto? Per quanto numerosi siano, consola il pensiero che nessuno di essi sfugge alla potenza salutare del segno della croce, che, con la sua virtù, ricorda quella di colui, che guariva ogni maniera d’infermità ira gli uomini, omnem longuorem in populo. Uno de’ vescovi venuto in gran fama di santità, che abbia governato la diocesi di Parigi, è S. Germano. Questi conducevasi un giorno a render visita ad Ilario vescovo di Poitiers, suo degno collega. Sul suo passaggio due uomini gli presentarono, con pena, una donna muta e priva dell’uso delle gambe. Tosto che il Santo ebbe fatto il segno della croce sopra di essa, dessa ricuperò la favella e le gambe di modo, che dopo tre giorni si condusse a render grazie al suo benefattore (Mox multa eius membra cruce consignât, otille se sentit incolumis. Vit., lib. IV.). Un miracolo simile fu operato da S. Eutimio, il grande arcivescovo di Palestina. Terabone, figlio del governatore de’ Seraceni nell’Arabia, fin dalla fanciullezza avea perduto per paralisia la metà del corpo; com’ebbe inteso parlare della virtù del santo Abate, si fece condurre presso di lui in compagnia del padre e della madre, con numeroso seguito di barbari. Il Santo lo segnò con la croce, e tosto guari. Siffatta guarigione produsse la conversione de’ suoi genitori non solo, ma ancora de’ Saraceni compagni di viaggio, e spettatori del miracolo (Vit., lib. IV., c. 41, Vita, lib. II). – Gran tempo dopo questo miracolo, che aveva rallegrato l’Oriente, un simile fu operato da San Vincenzo Ferreri a Nantes in Francia, nella persona di un uomo paralitico da 18anni, che gli fu presentato perché lo benedicesse. Non ho oro, né argento, disse il Santo all’infermo, ma pregherò il Signore perché ti conceda la sanità dell’anima, e del corpo. Come ebbe detto tali parole fece il segno della croce sulle membra dell’infermo, il paralitico guarisce, si alza, e rende grazie a Dio ed al suo benefattore, torna a casa sua, senza più nulla risentire del passato malore! (Mabillon ubi supra, Lib. IV, c. 6, n. 33). – È tale alcuna volta la forza del dolore da far perdere il bene dell’intelletto e la sanità dell’anima a’ poveri figli di Adamo; ma il segno della croce spinge la sua forza in queste nuove trincee del male. Edmer, istoriografo di S. Anselmo Arcivescovo di Cantorberi racconta, che questo Santo andando a Cluni, guarì col segno della croce una femmina affetta di follia, e furiosa. S. Bernardo operò lo stesso a Sechigen, e a Cologna. In quest’ultima città gli fu presentata una femmina frenetica per la morte del marito, che usava delle sue esaltate forze contro sé stessa di modo, da doverle assicurare le braccia con catene. Il Santo ebbe pietà di lei; fece il segno della croce sopra di essa, e tosto tranquilla rivenne all’uso della ragione. – Il Verbo Redentore, che il Vangelo mostra, come il medico di febbri ostinate, ha comunicato al segno della croce la virtù di operare simile prodigio. S. Prix Vescovo di Clermont nell’Alvernia, essendo venuto nel Monastero di Dorange, vi trovò l’abate Amarin infermo di pessima febbre, di maniera, ch’eragli impossibile camminare e prendere cibo. Il santo Vescovo ricorse all’arma sua ordinaria e pagò il suo scotto con un miracolo, risanando col segno della croce siffattamente l’infermo, che andò perfettamente guarito della infermità sua (Cura vexillum crucis super ægrum fecisset, protinus, fugata febre, sanatus æger surrexit – Vite de’ SS. 25 Jan.). Dello stesso potere è dotato contro una malattia più difficile a guarire; l’epilessia. Nella vita di S. Malachia, Arcivescovo di Armagli, morto a Chiaravalle, S. Bernardo dice: « Innanzi partisse per Roma, dove si conduceva per ricevere il pallio da Eugenio III, il santo Arcivescovo guarì un epilettico col segno della croce». E S. Bernardo istesso operò simile prodigio nella persona di una giovinetta della Champagna a Troyes (Signavit eam statimque locuta est: Mabillon, ubi supra, c. XIV, n . 47).  – Secondo l’esempio da me datovi, guarite i lebbrosi, avea detto N. S. I Discepoli raccolsero questa parola, la cui virtù divina è passata nel segno della croce. La fama  di Francesco Saverio era sparsa in tutte le Indie, e dessa faceva accorrere presso il Santo i lebbrosi da tutti i luoghi, per ottenere la guarigione tante volte inutilmente sperata. Uno fra questi, non osando di comparire in pubblico, pregò il Santo di condursi presso di lui. Il Saverio non potè soddisfarlo, ed in sua vece commise ad un compagno una tal visita, dicendogli di domandare per tre volte all’infermo se crederebbe al Vangelo, ove venisse guarito, e che dopo tale promessa lo segnasse per tre volte col segno della croce. Tutto fu eseguito come il Santo avea detto, ed il lebbroso guarì (Vita, lib. V).- Innanzi procedere più oltre, credo esser mestieri, mio caro, il ricordarti una osservazione di S. Giovanni Crisostomo, da aver presente ragionando dell’azione del segno della croce, sia nella guarigione delle malattie, che per l’allontanamento de’ tristi accidenti. Se alcuna volta i mali non sono guariti e le calamità allontanate, tutta volta il segno della croce convenevolmente sia eseguito, non è difetto di potere del segno, ma perché questi mali ci sono utili pruove (Morbis iuiperans terribile est hoc nomen, et si non abigerit morbum, non hinc est quod infirmum sit hoc nomen, sed quod utilis est morbus. Ad Coloss. II, homil IX.). – V’ha una infermità non meno crudele della lebbra, ma più comune: il canchero. Ma questa come tutte le altre infermità umane non resiste alla potente azione della croce. Ascolta quanto narra S. Agostino testimone oculare. « A Cartagine una nobilissima donna per nome Innocenza aveva nel petto un canchero stimato da’ medici incurabile. Il medico nulla le avea nascosto del suo stato, ed Innocenza, posta in Dio ogni sua fiducia, da lui solo attendeva la guarigione. Una notte, verso la Pasqua, è avvertita in sogno di condursi al battistero nel luogo delle donne, e di far fare dalla prima catecumena che trovasse, il segno della croce sul membro infermo, ubbidisce, ed è guarita. Il medico meravigliato trovandola risanata, volle saperne il come. La donna tutto gli narrò. Il medico con grande indifferenza, il che facea temere alla donna dicesse qualche parola contro N. S., disse: Io mi attendeva qualche cosa straordinaria. E vedendola inquieta, soggiunse: Che v’ha di meraviglioso che Gesù Cristo abbia guarito un canchero; Egli che ha dato la vita ad un morto dopo quattro intieri giorni! (Quid grande fuit Christus sanare cancrum, qui quatriduanum mortuum suscitavit. Ang.de Civ. Dei, lib. XXII, c. 8.). A tutte queste infermità naturali spesso si congiungono gli attacchi delle bestie feroci e velenose, per togliere all’uomo la sanità e la vita. Contro esse gran rimedio è il segno della croce. Il santo anacoreta Tolasce, scrive Teodoreto, viaggiando fra le tenebre della notte, calpestò una vipera. Il rettile furioso lo morde nella pianta del piede. Il Santo s’inclina, porta la destra sulla ferita, e la vipera gliela morde, come altresì la sinistra accorsa al soccorso della destra. La bestia di tutto ciò non contenta, lo addentò per circa dieci volte, e poi si cacciò nella sua tana, lasciando la vittima in preda ad intollerabili dolori. In siffatto stato il servo di Dio crede non dover far ricorso a medicine. Per guarire le ferite si contentò impiegare i mezzi della fede: il segno della croce, la preghiera, e l’invocazione del santo nome di Dio (Theodoret. in Thalass.).  – Padrone della vita, N. S. , lo è ancora della morte. Questo impero sovrano si trova nel segno della croce. Ecco quanto leggesi nella vita di S. Domenico. Predicava il Santo in Roma: una dama, per nome Guttadona, devotissima di lui, per assistere al suo sermone, avea lasciato a casa un figlio infermo, al suo ritorno lo trovò morto. Senza dar sfogo al materno dolore, assembra le sue donne e porta il fanciullo a S. Domenico. Lo incontra alla porta del convento di S. Sisto, depone il morto a’ suoi piedi, e disfacendosi in lagrime, gliene dimanda la vita. Il Santo commosso s’inginocchia, e dopo breve preghiera fa il segno della croce, prende il fanciullo per la mano e lo rende in vita alla madre pregandola di profondo segreto.. Ma che! la buona donna nell’eccesso della gioia pubblicò l’avvenuto miracolo in tutta Roma (Vita di S. Dom., lib. II, c. 3).   Tu il vedi chiaro, mio caro Federico, io mi son contentato di citare uno o due fatti per ciascuna malattia, che se tutti rapportar si volessero, molti volumi non potrebbero neppure contenerli. S. Agostino, S. Griso-stomo, S. Cirillo, S. Efrem, S. Gregorio Nisseno, S. Paolino e cento altri testimoni dell’Oriente e dell’Occidente di tutti i secoli mostrano, con migliaio di fatti, che il segno adorabile di Colui, ch’è venuto per guarire ogni infermità, non ha mai cessato dal rendere la vista a’ ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti, la sanità agl’infermi e la vita a’ morti.  Ecco l’istoria. È mestieri accettarla come è, o farne in pezzi le pagine e cader nello scetticismo: o farne un’altra più sapiente, più coscienziosa e veridica. Dimanda a’ tuoi compagni se hanno polsi da ciò, e quando dessa sarà compilata, noi vedremo. A domani.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. PIO XII – “SUMMI PONTIFICATO” (2)

Continua lo svolgersi maestoso e stupendo di questa prima Enciclica di Papa Pacelli in un serrare denso di contenuti e ricco di spunti per meditazioni spirituali. Tra gli altri ammonimenti ce n’è uno che risuona oggi di particolare importanza « … non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i suoi confini tutte le genti, si dimostra l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi… » – Sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza all’Ente supremo: ecco l’origine di ogni male sociale e politico così diffusi oggi nel mondo ateo e neopagano, truccato maldestramente da una maschera di falso Cristianesimo stantio ed ipocrita, intriso di massonismo liberista che incatena asservendoli ad un mondialismo luciferino, popoli e Nazioni incapaci per questo di uscire da una serie infinita di crisi insanabili, politiche, sociali, economiche, ambientali, filosofofico-ideologiche, ed ora pure sanitarie. Ma il Santo Padre, lungi dal perdere la fiducia cieca nell’azione salvifica divina, ci incoraggia con ardore … « … Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell’ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell’amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione… » Parole che danno forza e coraggio soprattutto quando poi si accoppiano al ricorso alla preghiera ed ai mezzi della grazia … «All’ombra delle tue ali mi rifugio, finché passi la calamità» (Sal LVI, 2)… « Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte Egli voglia, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. – Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate, soprattutto, quando offrite il divino Sacrificio d’amore …» Rifugiamoci dunque, pusillus grex, sotto le ali di Dio non come pulcini impauriti ma come aquilotti pronti ad affrontare ogni lotta che il maligno ci muove mediante le frecce che provengono da ogni lato, specie da dove meno le attenderemmo, cioè dalla falsa chiesa satanista vaticana, dai filantropi ed imbonitori delle logge e dei parlamenti, dagli ipocriti pseudocristiani che come “fuoco amico” ci colpiscono alle spalle.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

SUMMI PONTIFICATUS (2)

PROGRAMMA DEL PONTIFICATO

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Venerabili fratelli, se la dimenticanza della legge di carità universale, che sola può consolidare la pace, spegnendo gli odi e attenuando i rancori e i contrasti, è fonte di gravissimi mali per la convivenza pacifica dei popoli, non meno dannoso al benessere delle nazioni e alla prosperità della grande società umana, che raccoglie e abbraccia entro i suoi confini tutte le genti, si dimostra l’errore contenuto in quelle concezioni, le quali non dubitano di sciogliere l’autorità civile da qualsiasi dipendenza dall’Ente supremo, causa prima e Signore assoluto sia dell’uomo che della società, e da ogni legame di legge trascendente, che da Dio deriva come da fonte primaria, e le concedono una facoltà illimitata di azione, abbandonata all’onda mutevole dell’arbitrio o ai soli dettami di esigenze storiche contingenti e di interessi relativi. – Rinnegata, in tal modo, l’autorità di Dio e l’impero della sua legge, il potere civile, per conseguenza ineluttabile, tende ad attribuirsi quell’assoluta autonomia, che solo compete al Supremo Fattore, e a sostituirsi all’Onnipotente, elevando lo stato o la collettività a fine ultimo della vita, a criterio sommo dell’ordine morale e giuridico, e interdicendo, perciò, ogni appello ai princìpi della ragione naturale e della coscienza cristiana. – Non disconosciamo, invero, che princìpi errati, fortunatamente, non sempre esercitano intero il loro influsso, principalmente quando le tradizioni cristiane, più volte secolari, di cui si sono nutriti i popoli, rimangono ancora profondamente, anche se inconsciamente, radicate nei cuori. Tuttavia, non bisogna dimenticare l’essenziale insufficienza e fragilità di ogni norma di vita sociale che riposi su un fondamento esclusivamente umano, s’ispiri a motivi esclusivamente terreni e riponga la sua forza nella sanzione di un’autorità semplicemente esterna. – Dove è negata la dipendenza del diritto umano dal diritto divino, dove non si fa appello che ad una malsicura idea di autorità meramente terrena e si rivendica un’autonomia fondata soltanto sopra una morale utilitaria, qui lo stesso diritto umano perde giustamente nelle sue applicazioni più gravose la forza morale, che è la condizione essenziale per essere riconosciuto e per esigere anche sacrifici. – È ben vero che il potere basato sopra fondamenti così deboli e vacillanti può raggiungere talvolta, per circostanze contingenti, successi materiali da destar meraviglia ad osservatori meno profondi; ma viene il momento, nel quale trionfa l’ineluttabile legge che colpisce tutto quanto è stato costruito sopra una latente o aperta sproporzione tra la grandezza del successo materiale ed esterno e la debolezza del valore interno e del suo fondamento morale. Sproporzione che sussiste sempre, quando la pubblica autorità misconosce o rinnega il dominio del sommo Legislatore, il quale se ha dato la potestà ai reggitori, ne ha per altro segnato e determinato i limiti. La sovranità civile è stata voluta dal Creatore, come sapientemente insegna il Nostro grande predecessore Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei, affinché regolasse la vita sociale secondo le prescrizioni di un ordine immutabile nei suoi princìpi universali, rendesse più agevole alla persona umana, nell’ordine temporale, il conseguimento della perfezione fisica, intellettuale e morale e l’aiutasse a raggiungere il fine soprannaturale. È quindi nobile prerogativa e missione dello stato il controllare, aiutare e ordinare le attività private e individuali della vita nazionale, per farle convergere armonicamente al bene comune, il quale non può essere determinato da concezioni arbitrarie, né ricevere la sua norma primariamente dalla prosperità materiale della società, ma piuttosto dallo sviluppo armonico e dalla perfezione naturale dell’uomo al quale la società è destinata, quale mezzo, dal Creatore. – Considerare lo stato come fine, al quale ogni cosa dovrebbe essere subordinata e indirizzata, non potrebbe che nuocere alla vera e durevole prosperità delle nazioni. E ciò avviene, sia che tale dominio illimitato venga attribuito allo stato, quale mandatario della nazione, del popolo, o anche di una classe sociale, sia che venga preteso dallo stato, quale padrone assoluto, indipendente da qualsiasi mandato. Se lo Stato infatti a sé attribuisce e ordina le iniziative private, queste, governate come sono da delicate e complesse norme interne, che garantiscono e assicurano il conseguimento dello scopo ad esse proprio, possono essere danneggiate, con svantaggio del pubblico bene, venendo avulse dall’ambiente loro naturale, cioè dalla responsabile attività privata. – Anche la prima ed essenziale cellula della società, la famiglia, come il suo benessere e il suo accrescimento, correrebbe allora il pericolo di venir considerata esclusivamente sotto l’angolo della potenza nazionale e si dimenticherebbe che l’uomo e la famiglia sono per natura anteriori allo Stato, e che il Creatore diede ad entrambi forze e diritti e assegnò una missione, rispondente a indubbie esigenze naturali. – L’educazione delle nuove generazioni non mirerebbe a un equilibrato armonico sviluppo delle forze fisiche e di tutte le qualità intellettuali e morali, ma ad una unilaterale formazione di quelle virtù civiche, che si considerano necessarie al conseguimento di successi politici; quelle virtù invece, che dànno alla società un profumo di nobiltà, d’umanità e di rispetto, meno s’inculcherebbero, quasi deprimessero la fierezza del cittadino. Davanti al nostro sguardo si profilano con dolorosa chiarezza i pericoli che temiamo potranno derivare a questa generazione e alle future dal misconoscimento, dalla diminuzione e dalla progressiva abolizione dei diritti della famiglia. Perciò Ci eleviamo a fermi difensori di tali diritti in piena coscienza del dovere che Ci impone il Nostro apostolico ministero. Le angustie dei nostri tempi, sia esterne che interne, sia materiali che spirituali, i molteplici errori con le loro innumerevoli ripercussioni da nessuno vengono assaporati così amaramente come nella piccola nobile cellula familiare. Un vero coraggio e, nella sua semplicità, un eroismo degno di ammirato rispetto sono spesso necessari per sopportare le durezze della vita, il peso quotidiano delle miserie, le crescenti indigenze e le ristrettezze in una misura mai prima sperimentata, di cui spesso non si vede né la ragione né la reale necessità. Chi ha cura d’anime, chi può indagare nei cuori, conosce le nascoste lacrime delle madri, il rassegnato dolore di numerosi padri, le innumerevoli amarezze, delle quali nessuna statistica parla né può parlare; vede con sguardo preoccupato crescere sempre più il cumulo di queste sofferenze e sa che le potenze dello sconvolgimento e della distruzione stanno al varco, pronte a servirsene per i loro tenebrosi disegni. – Nessuno, che abbia buona volontà e occhi aperti, potrà rifiutare nelle condizioni straordinarie, in cui si trova il mondo, al potere dello Stato un corrispondente più ampio diritto eccezionale per sovvenire ai bisogni del popolo. Ma l’ordine morale, stabilito da Dio, esige, anche in tali contingenze, che s’indaghi tanto più seriamente e acutamente sulla liceità di tali provvedimenti e sulla loro reale necessità, secondo le norme del bene comune. – Ad ogni modo, quanto più gravosi sono i sacrifici materiali richiesti dallo stato agli individui e alle famiglie, tanto più sacri e inviolabili devono essergli i diritti delle coscienze. Può pretendere beni e sangue, ma non mai l’anima da Dio redenta. La missione assegnata da Dio ai genitori, di provvedere al bene materiale e spirituale della prole e di procurare ad essa una formazione armonica pervasa da vero spirito religioso, non può esser loro strappata senza grave lesione del diritto. Questa formazione deve certamente aver anche lo scopo di preparare la gioventù ad adempiere con intelligenza, coscienza e fierezza quei doveri di nobile patriottismo, che dà alla patria terrestre tutta la dovuta misura di amore, dedizione e collaborazione. Ma d’altra parte una formazione che dimentichi, o peggio, volutamente trascuri di dirigere gli occhi e il cuore della gioventù alla patria soprannaturale, sarebbe un’ingiustizia contro gli inalienabili doveri e diritti della famiglia cristiana, uno sconfinamento, a cui deve essere opposto un rimedio anche nell’interesse del bene del popolo e dello stato. Una simile educazione potrà forse sembrare a coloro, che ne portano la responsabilità, fonte di aumentata forza e vigoria; in realtà sarebbe il contrario, e le tristi conseguenze lo proverebbero. Il delitto di lesa maestà contro «il Re dei re e il Signore dei dominanti» (1 Tm VI, 15; Ap XIX,16), perpetrato da un’educazione indifferente o avversa allo spirito cristiano, il capovolgimento del «lasciate che i pargoli vengano a me» (Mc X, 14) porterebbero amarissimi frutti. Lo stato invece, che toglie ai sanguinanti e lacerati cuori dei padri e delle madri cristiane le loro preoccupazioni e ristabilisce i loro diritti, promuove la sua stessa pace interna e pone il fondamento per un più felice avvenire della patria. Le anime dei figli, donati da Dio ai genitori, consacrati nel battesimo con il sigillo regale di Cristo, sono un sacro deposito, su cui vigila l’amore geloso di Dio. Lo stesso Cristo, che ha pronunziato il «lasciate che i pargoli vengano a me», ha anche minacciato, nonostante la sua misericordia e bontà, terribili mali a coloro che dànno scandalo ai prediletti del suo cuore. E quale scandalo più dannoso alle generazioni e più duraturo di una formazione della gioventù mal diretta verso una méta, che allontana da Cristo, «via, verità e vita», e conduce ad un’apostasia manifesta o occulta da Cristo? Questo Cristo, da cui si vogliono alienare le giovani generazioni presenti e future, è quello stesso che dall’Eterno Padre ha ricevuto ogni potere in cielo e in terra. Egli tiene nella sua mano onnipotente il destino degli Stati, dei popoli e delle Nazioni. Appartiene a lui il diminuire o prolungare la vita, l’accrescimento, la prosperità e la grandezza. Di tutto ciò che è sulla terra, solo l’anima vive immortale. Un sistema di educazione che non rispettasse il recinto sacro della famiglia cristiana, protetto dalla santa legge di Dio, ne attaccasse le basi, chiudesse alla gioventù il cammino a Cristo, alle fonti di vita e di gioia del Salvatore (cf. Is XII, 3), considerasse l’apostasia da Cristo e dalla Chiesa come simbolo di fedeltà al popolo o a una determinata classe, pronuncerebbe contro se stesso la condanna e sperimenterebbe a suo tempo l’ineluttabile verità delle parole del profeta: «Coloro che si ritirano da te, saranno scritti in terra» (Ger XVII,13).

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La concezione che assegna allo Stato un’autorità illimitata non è, venerabili fratelli, soltanto un errore pernicioso alla vita interna delle nazioni, alla loro prosperità e al maggiore e ordinato incremento del loro benessere, ma arreca altresì nocumento alle relazioni fra i popoli, perché rompe l’unità della società soprannazionale, toglie fondamento e valore al diritto delle genti, apre la via alla violazione dei diritti altrui e rende difficili l’intesa e la convivenza pacifiche. Infatti il genere umano, quantunque per disposizione dell’ordine naturale stabilito da Dio si divida in gruppi sociali, nazioni o Stati, indipendenti gli uni dagli altri, in quanto riguarda il modo di organizzare e di dirigere la loro vita interna, è tuttavia legato, da mutui vincoli morali e giuridici, in una grande comunità, ordinata al bene di tutte le genti e regolata da leggi speciali, che ne tutelano l’unità e ne promuovono la prosperità. – Ora non è chi non veda come l’affermata autonomia assoluta dello stato si ponga in aperto contrasto con questa legge immanente e naturale, la neghi anzi radicalmente, lasciando in balìa della volontà dei reggitori la stabilità delle relazioni internazionali, e togliendo la possibilità di una vera unione e di una collaborazione feconda in ordine all’interesse generale. Perché, venerabili fratelli, all’esistenza di contatti armonici e duraturi e di relazioni fruttuose è indispensabile che i popoli riconoscano e osservino quei princìpi di diritto naturale internazionale, che regolano il loro normale svolgimento e funzionamento. Tali princìpi esigono il rispetto dei relativi diritti all’indipendenza, alla vita e alla possibilità di uno svolgimento progressivo nelle vie della civiltà; esigono, inoltre, la fedeltà ai patti, stipulati e sanciti in conformità alle norme del diritto delle genti. – Il presupposto indispensabile di ogni pacifica convivenza tra le leggi e l’anima delle relazioni giuridiche, vigenti fra di esse, è senza dubbio la mutua fiducia, la previsione e persuasione della reciproca fedeltà alla parola data, la certezza che dall’una e dall’altra parte si è convinti che «meglio è la sapienza che le armi guerresche» (cf. Eccle IX, 18) e si è disposti a discutere e a non ricorrere alla forza o alla minaccia della forza nel caso in cui sorgessero ritardi, impedimenti, mutamenti e contestazioni: cose tutte che possono anche derivare non da cattiva volontà, ma da mutate circostanze e da reali interessi contrastanti. – Ma d’altra parte, staccare il diritto delle genti dall’àncora del diritto divino, per fondarlo sulla volontà autonoma degli stati, significa detronizzare quello stesso diritto e togliergli i titoli più nobili e più validi, abbandonandolo all’infausta dinamica dell’interesse privato e dell’egoismo collettivo tutto intento a far valere i propri diritti e a disconoscere quelli degli altri. È pur vero che, col volgere del tempo e il mutar sostanziale delle circostanze, non previste e forse neanche prevedibili all’atto della stipulazione, un trattato o alcune sue clausole possono divenire o apparire ingiusti o inattuabili o troppo gravosi per una delle parti, ed è chiaro che, quando ciò avvenisse, si dovrebbe tempestivamente procedere a una leale discussione per modificare o sostituire il patto. Ma il considerare i patti per principio come effimeri e l’attribuirsi tacitamente la facoltà di rescinderli unilateralmente, quando più non convenissero, toglierebbe ogni fiducia reciproca fra gli stati. E così rimarrebbe scardinato l’ordine naturale, e verrebbero scavate delle fosse incolmabili di separazione fra i vari popoli e Nazioni. – Oggi, venerabili fratelli, tutti osservano con spavento l’abisso a cui hanno portato gli errori da Noi caratterizzati e le loro pratiche conseguenze. Son cadute le orgogliose illusioni di un progresso indefinito; e chi ancora non fosse desto, il tragico presente lo scuoterebbe con le parole del profetar «Ascoltate, o sordi, e rimirate, o ciechi» (Is XLII, 18). Ciò che appariva esternamente ordine, non era se non invadente perturbamento: scompiglio nelle norme di vita morale, le quali si erano staccate dalla maestà della legge divina e avevano inquinato tutti i campi dell’umana attività. Ma lasciamo il passato e rivolgiamo gli occhi verso quell’avvenire che, secondo le promesse dei potenti di questo mondo, cessati i sanguinosi scontri odierni, consisterà in un nuovo ordinamento, fondato sulla giustizia e sulla prosperità. Sarà tale avvenire veramente diverso, sarà soprattutto migliore? I trattati di pace, il nuovo ordine internazionale alla fine di questa guerra saranno animati da giustizia e da equità verso tutti, da quello spirito, il quale libera e pacifica, o saranno una lamentevole ripetizione di antichi e recenti errori? Sperare un decisivo mutamento esclusivamente dallo scontro guerresco e dal suo sbocco finale è vano, e l’esperienza ce lo dimostra. L’ora della vittoria è un’ora dell’esterno trionfo per la parte che riesce a conseguirla; ma è in pari tempo l’ora della tentazione, in cui l’Angelo della giustizia lotta con il dèmone della violenza; il cuore del vincitore troppo facilmente s’indurisce; la moderazione e una lungimirante saggezza gli appaiono debolezza; il bollore delle passioni popolari, attizzato dai sacrifici e dalle sofferenze sopportate, vela spesso l’occhio anche ai responsabili e fa sì che non badino alla voce ammonitrice dell’umanità e dell’equità, sopraffatta o spenta dall’inumano «Guai ai vinti!». Le risoluzioni e le decisioni nate in tali condizioni rischierebbero di non essere che ingiustizia sotto il manto della giustizia. – No, venerabili fratelli, la salvezza non viene ai popoli dai mezzi esterni, dalla spada, che può imporre condizioni di pace, ma non crea la pace. Le energie, che devono rinnovare la faccia della terra, devono procedere dall’interno, dallo spirito. Il nuovo ordine del mondo, la vita nazionale e internazionale, una volta cessate le amarezze e le crudeli lotte presenti, non dovrà più riposare sulla infida sabbia di norme mutabili ed effimere, lasciate all’arbitrio dell’egoismo collettivo e individuale. Esse devono piuttosto appoggiarsi sull’inconcusso fondamento, sulla roccia incrollabile del diritto naturale e della divina rivelazione. Ivi il legislatore umano deve attingere quello spirito di equilibrio, quell’acuto senso di responsabilità morale, senza cui è facile misconoscere i limiti tra il legittimo uso e l’abuso del potere. Solamente così le sue decisioni avranno interna consistenza, nobile dignità e sanzione religiosa, e non saranno alla mercé dell’egoismo e della passione. Se è vero che i mali di cui soffre l’umanità odierna provengono in parte dallo squilibrio economico e dalla lotta degli interessi per una più equa distribuzione dei beni che Dio ha concessa all’uomo come mezzi per il suo sostentamento e il suo progresso, non è men vero che la loro radice è più profonda e interna, poiché tocca le credenze religiose e le convinzioni morali pervertitesi con il progressivo distaccarsi dei popoli dall’unità di dottrina e di fede, di costumi e di morale, una volta promossa dall’opera indefessa e benefica della chiesa. La rieducazione dell’umanità, se vuole sortire qualche effetto, deve essere soprattutto spirituale e religiosa: deve, quindi, muovere da Cristo come da suo fondamento indispensabile, essere attuata dalla giustizia e coronata dalla carità. – Compiere quest’opera di rigenerazione, adattando i suoi mezzi alle mutate condizioni dei tempi e ai nuovi bisogni del genere umano, è ufficio essenziale e materno della chiesa. La predicazione dell’evangelo, affidatale dal suo divino Fondatore, nella quale vengono inculcate agli uomini la verità, la giustizia e la carità, e lo sforzo di radicarne saldamente i precetti negli animi e nelle coscienze, sono il più nobile e più fruttuoso lavoro in favore della pace. Questa missione, nella sua grandiosità, sembrerebbe dover scoraggiare i cuori di coloro che formano la Chiesa militante. Ma l’adoprarsi alla diffusione del regno di Dio, che ogni secolo compì in vari modi, con diversi mezzi, con molteplici e dure lotte, è un comando a cui è obbligato chiunque sia stato strappato dalla grazia del Signore alla schiavitù di satana e chiamato nel Battesimo ad essere cittadino di quel regno. E se appartenere ad esso, vivere conforme al suo spirito, lavorare al suo incremento e rendere accessibili i suoi beni anche a quella parte dell’umanità che ancora non ne fa parte, ai giorni nostri equivale a dover affrontare impedimenti e opposizioni vaste, profonde e minuziosamente organizzate, come mai prima, ciò non dispensa dalla franca e coraggiosa professione di fede, ma incita piuttosto a tener fermo nella lotta, anche a prezzo dei massimi sacrifici. Chi vive dello spirito di Cristo non si lascia abbattere dalle difficoltà che si oppongono, anzi si sente spinto a lavorare con tutte le sue forze e con piena fiducia in Dio; non si sottrae alle strettezze e necessità dell’ora, ma ne affronta le durezze pronto al soccorso, con quell’amore che non rifugge dal sacrificio, è più forte della morte, e non si lascia spegnere dalle impetuose acque della tribolazione. – Un intimo conforto, una gioia celeste, per cui giornalmente rivolgiamo a Dio il Nostro ringraziamento umile e profondo, Ci dà, venerabili fratelli, l’osservare in tutte le regioni del mondo cattolico evidenti segni di uno spirito che coraggiosamente affronta i compiti giganteschi dell’epoca presente, che con generosità e decisione è teso a riunire in feconda armonia con il primo ed essenziale dovere della santificazione propria anche l’attività apostolica per l’accrescimento del regno di Dio. Dal movimento dei congressi eucaristici, promossi con amorosa cura dai Nostri predecessori, e dalla collaborazione dei laici, formati nell’Azione Cattolica alla profonda coscienza della loro nobile missione, promanano fonti di grazia e riserve di forze, che, nei tempi attuali, in cui aumentano le minacce, maggiori sono i bisogni e arde la lotta tra cristianesimo e anticristianesimo, difficilmente potrebbero essere adeguatamente stimate. – Quando si deve con tristezza osservare la sproporzione tra il numero e i compiti dei sacerdoti, quando vediamo verificarsi anche oggi la parola del Salvatore: «La messe è molta, gli operai sono pochi» (Mt IX, 37; Lc X, 2), la collaborazione dei laici all’apostolato gerarchico, numerosa, animata da ardente zelo e generosa dedizione, appare un prezioso ausilio all’opera dei sacerdoti e mostra possibilità di sviluppo che legittimano le più belle speranze. La preghiera della chiesa al Signore della messe, perché mandi operai nella sua vigna (cf. Mt IX, 38; Lc X, 2) è stata esaudita in maniera conforme alle necessità dell’ora presente, e felicemente supplisce e completa le energie, spesso impedite e insufficienti, dell’apostolato sacerdotale. Una fervida falange di uomini e di donne di giovani e di giovinette, ubbidendo alla voce del sommo pastore, alle direttive dei loro vescovi, si consacra con tutto l’ardore dell’anima alle opere dell’apostolato, per ricondurre a Cristo le masse di popolo che da lui s’erano distaccate. Ad essi vada in questo momento, così importante per la chiesa e l’umanità, il Nostro saluto paterno, il Nostro commosso ringraziamento, la Nostra fiduciosa speranza. Essi hanno veramente posto la loro vita e la loro opera sotto il vessillo di Cristo re, e possono ripetere con il Salmista: «Al re io espongo le opere mie» (Sal XLIV, 1). «Venga il tuo regno» è non solamente il voto ardente delle loro preghiere, ma anche la direttiva del loro operare. In tutte le classi, in tutte le categorie, in tutti i gruppi questa collaborazione del laicato con il sacerdozio rivela preziose energie, a cui è affidata una missione che cuori nobili e fedeli non potrebbero desiderare più alta e consolante. Questo lavoro apostolico, compiuto secondo lo spirito della chiesa, consacra il laico quasi a «ministro di Cristo» in quel senso che sant’Agostino così spiega: «O fratelli, quando udite il Signore che dice: “Dove sono io, ivi sarà pure il mio ministro”, non vogliate correre col pensiero soltanto ai buoni vescovi e ai buoni chierici. Anche voi, a modo vostro, dovete essere ministri di Cristo, vivendo bene, facendo elemosine, predicando il suo nome e la sua dottrina a chi potrete, di modo che ognuno, anche se padre di famiglia, riconosca di dovere, anche per tale titolo, alla sua famiglia un affetto paterno. Per Cristo e per la vita eterna ammonisca i suoi, li istruisca, li esorti, li rimproveri, loro dimostri benevolenza, li contenga nell’ordine; così egli eserciterà in casa sua l’ufficio di chierico e in certo qual modo di vescovo, servendo a Cristo, per essere con lui in eterno». – Nel promuovere questa collaborazione dei laici all’apostolato, così importante ai tempi nostri, spetta una speciale missione alla famiglia, perché lo spirito della famiglia influisce essenzialmente sullo spirito delle giovani generazioni. Fino a che nel focolare domestico splende la sacra fiamma della fede in Cristo e i genitori foggiano e plasmano la vita dei figli conforme a questa fede, la gioventù sarà sempre pronta a riconoscere nelle sue prerogative regali il Redentore, e ad opporsi a chi lo vuole bandire dalla società o ne vìola sacrilegamente i diritti. Quando le chiese vengono chiuse, quando si toglie dalle scuole l’immagine del Crocifisso, la famiglia resta il rifugio provvidenziale e, in un certo senso, inattaccabile della vita cristiana. E rendiamo infinite grazie a Dio nel vedere che innumerevoli famiglie compiono questa loro missione con una fedeltà, che non si lascia abbattere né da attacchi né da sacrifici. Una potente schiera di giovani e di giovinette, anche in quelle regioni dove la fede in Cristo significa sofferenza e persecuzione, restano fermi presso il trono del Redentore con quella tranquillità e sicura decisione, che Ci fa ricordare i tempi più gloriosi delle lotte della chiesa. Quali torrenti di beni si riverserebbero sul mondo, quanta luce, quanto ordine, quanta pacificazione verrebbero alla vita sociale, quante energie insostituibili e preziose potrebbero contribuire a promuovere il bene dell’umanità, se si concedesse ovunque alla chiesa, maestra di giustizia e di amore, quella possibilità di azione, alla quale ha un diritto sacro e incontrovertibile in forza del mandato divino! Quante sciagure potrebbero venir evitate, quanta felicità e tranquillità sarebbero create, se gli sforzi sociali e internazionali per stabilire la pace si lasciassero permeare dai profondi impulsi dell’evangelo dell’amore nella lotta contro l’egoismo individuale e collettivo! – Tra le leggi che regolano la vita dei fedeli Cristiani e i postulati di una genuina umanità non vi è contrasto, ma comunanza e mutuo appoggio. Nell’interesse dell’umanità sofferente e profondamente scossa materialmente e spiritualmente, Noi non abbiamo desiderio più ardente di questo: che le angustie presenti aprano gli occhi a molti, affinché considerino nella loro vera luce il Signore Gesù Cristo e la missione della sua chiesa su questa terra, e che tutti coloro i quali esercitano il potere si risolvano a lasciare alla chiesa libero il cammino per lavorare alla formazione delle generazioni, secondo i princìpi della giustizia e della pace. Questo lavoro pacificatore suppone che non si frappongano impedimenti all’esercizio della missione affidata da Dio alla sua chiesa, non si restringa il campo della sua attività e non si sottraggano le masse, e specialmente la gioventù, al suo benefico influsso. Perciò Noi, come rappresentanti sulla terra di colui, che fu detto dal profeta «Principe della pace» (Is IX, 6), facciamo appello ai reggitori dei popoli e a coloro che hanno in qualsiasi modo influenza nella cosa pubblica, affinché la chiesa goda sempre piena libertà di compiere la sua opera educatrice, annunziando alle menti la verità, inculcando la giustizia, e riscaldando i cuori con la divina carità di Cristo. – Se la Chiesa, da una parte, non può rinunziare all’esercizio di questa sua missione, che ha come fine ultimo di attuare quaggiù il disegno divino di «instaurare tutte le cose in Cristo, sia le celesti sia le terrestri» (Ef 1,10), dall’altra, oggi la sua opera si dimostra più che in ogni altro tempo necessaria, giacché una triste esperienza insegna che i soli mezzi esterni e i provvedimenti umani e gli espedienti politici non portano un efficace lenimento ai mali, dai quali l’umanità è travagliata. – Edotti appunto dal fallimento doloroso degli espedienti umani per allontanare le tempeste che minacciano di travolgere la civiltà nel loro turbine, molti rivolgono con rinnovata speranza lo sguardo alla chiesa, rocca di verità e di amore, a questa cattedra di Pietro, donde sentono che può essere ridonata al genere umano quell’unità di dottrina religiosa e di codice morale, che in altri tempi diede consistenza alle relazioni pacifiche tra i popoli. Unità, a cui guardano con occhio di nostalgico rimpianto tanti uomini responsabili delle sorti delle nazioni, i quali esperimentano giornalmente quanto siano vani i mezzi, nei quali un giorno avevano posto fiducia; unità, che è il desiderio delle schiere tanto numerose dei Nostri figli, i quali invocano quotidianamente «il Dio di pace e di amore» (cf. 2 Cor XIII, 11); unità, che è l’attesa di tanti nobili spiriti, da Noi lontani, i quali nella loro fame e sete di giustizia e di pace, volgono gli occhi alla sede di Pietro e ne aspettano guida e consiglio. – Essi riconoscono nella chiesa cattolica la bimillenaria saldezza delle norme di fede e di vita, l’incrollabile compattezza della gerarchia ecclesiastica, la quale, unita al successore di Pietro, si prodiga nell’illuminare le menti con la dottrina dell’evangelo, nel guidare e santificare gli uomini, ed è larga di materna condiscendenza verso tutti, ma ferma, quando, anche a prezzo di tormenti o di martirio, ha da pronunziare: «Non è lecito». – Eppure, venerabili fratelli, la dottrina di Cristo, che sola può fornire all’uomo fondamento di fede, tale da allargargli ampiamente la vista e dilatargli divinamente il cuore e dare un rimedio efficace alle odierne gravissime difficoltà, e l’operosità della chiesa per insegnare quella dottrina, diffonderla e modellare gli animi secondo i suoi precetti, sono fatte talvolta oggetto di sospetti, quasi che scuotessero i cardini della civile autorità e ne usurpassero i diritti. – Contro tali sospetti Noi con apostolica sincerità dichiariamo – fermo restando tutto ciò che il Nostro predecessore Pio XI di v. m. nella sua enciclica Quas primas dell’11 dicembre 1925 insegnò circa la potestà di Cristo re e della sua chiesa che simili scopi sono del tutto alieni dalla chiesa medesima, la quale allarga le sue braccia materne verso questo mondo, non per dominare, ma per servire. Essa non pretende di sostituirsi nel campo loro proprio alle altre autorità legittime, ma offre loro il suo aiuto, sull’esempio e nello spirito del suo divino Fondatore, il quale «passò beneficando» (At X, 38). La Chiesa predica e inculca obbedienza e rispetto all’autorità terrena, che trae da Dio la sua nobile origine, e si attiene all’insegnamento del divino Maestro, che disse: «Date a Cesare quel che appartiene a Cesare» (Mt XXII, 21); non ha mire usurpatrici e canta nella sua liturgia: «Non rapisce i regni terreni Colui che dà i regni celesti». Non deprime le energie umane, ma le eleva a tutto ciò che è magnanimo e generoso e forma caratteri, che non transigono con la coscienza. Né essa, che rese civili i popoli, ha mai ritardato il progresso dell’umanità, del quale anzi con materna fierezza si compiace e gode. Il fine della sua attività fu dichiarato mirabilmente dagli angeli sulla culla del Verbo incarnato, quando cantarono gloria a Dio e annunziarono pace agli uomini di buona volontà (cf. Lc II, 14). Questa pace, che il mondo non può dare, è stata lasciata come eredità ai suoi discepoli dallo stesso divino Redentore: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv XIV, 27); e così seguendo la sublime dottrina di Cristo, compendiata da lui medesimo nel duplice precetto dell’amore di Dio e del prossimo, milioni di anime l’hanno conseguita, la conseguono e la conseguiranno. La storia – chiamata sapientemente da un sommo oratore romano «maestra della vita» – da quasi duemila anni dimostra quanto sia vera la parola della Scrittura, che non avrà pace chi resiste a Dio (cf. Gb IX, 4). Poiché Cristo solo è la «pietra angolare» (cf. Ef II, 20), sulla quale l’uomo e la società possono trovare stabilità e salvezza. – Su questa pietra angolare è fondata la Chiesa, e perciò contro di essa le potenze avverse non potranno mai prevalere: «Le porte dell’inferno non prevarranno» (Mt XVI, 18), né potranno mai svigorirla, ché anzi le lotte interne ed esterne contribuiscono ad accrescerne la forza e ad aumentare le corone delle sue gloriose vittorie. Al contrario, ogni altro edificio che non si fondi saldamente sulla dottrina di Cristo, è appoggiato sulla sabbia mobile, e destinato a rovinare miseramente (cf. Mt VII, 26-27).

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Venerabili fratelli, il momento in cui vi giunge questa Nostra prima enciclica è sotto più aspetti una vera ora delle tenebre (cf. Lc XXII, 53), in cui lo spirito della violenza e della discordia versa sull’umanità una sanguinosa coppa di dolori senza nome. È forse necessario assicurarvi che il Nostro cuore paterno è vicino in compassionevole amore a tutti i suoi figli, e in modo speciale ai tribolati, agli oppressi, ai perseguitati? I popoli, travolti nel tragico vortice della guerra, sono forse ancora soltanto agli «inizi dei dolori» (Mt 24,8), ma già in migliaia di famiglie regnano morte e desolazione, lamento e miseria. Il sangue di innumerevoli esseri umani, anche non combattenti, eleva uno straziante lamento specialmente sopra una diletta nazione, quale è la Polonia, che per la sua fedeltà verso la chiesa, per i suoi meriti nella difesa della civiltà cristiana, scritti a caratteri indelebili nei fasti della storia, ha diritto alla simpatia umana e fraterna del mondo, e attende, fiduciosa nella potente intercessione di Maria «Soccorso dei cristiani» l’ora di una risurrezione corrispondente ai princìpi della giustizia e della vera pace. Ciò che testé è accaduto e ancora accade appariva al Nostro sguardo come una visione, quando, non essendo ancora scomparsa ogni speranza, nulla lasciammo intentato, nella forma suggeritaci dal Nostro apostolico ministero e dai mezzi a Nostra disposizione, per impedire il ricorso alle armi e tener aperta la via ad una intesa, onorevole per ambedue le parti. Convinti che all’uso della forza da una parte avrebbe risposto il ricorso alle armi dall’altra, considerammo come dovere imprescindibile del Nostro apostolico ministero e dell’amore cristiano di metter tutto in opera, per risparmiare all’umanità intera e alla cristianità gli orrori di una conflagrazione mondiale, anche se vi era pericolo che le Nostre intenzioni e i Nostri scopi venissero fraintesi. I Nostri ammonimenti, se furono rispettosamente ascoltati, non vennero peraltro seguiti. E mentre il Nostro cuore di pastore osserva dolorante e preoccupato, si affaccia al Nostro sguardo l’immagine del buon pastore e Ci sembra di dover ripetere al mondo, in nome suo, il lamento: «Oh, se conoscessi … quello che giova alla tua pace! Ma ora questo è celato ai tuoi occhi!» (Lc XIX, 42). – In mezzo a questo mondo, che presenta oggi uno stridente contrasto alla pace di Cristo nel regno di Cristo, la chiesa e i suoi fedeli si trovano in tempi e anni di prove, quali raramente si conobbero nella sua storia di lotte e sofferenze. Ma proprio in simili tempi, chi rimane fermo nella fede e ha robusto il cuore, sa che Cristo re non è mai tanto vicino quanto nell’ora della prova, che è l’ora della fedeltà. Con cuore straziato per le sofferenze e i patimenti di tanti suoi figli, ma con il coraggio e la fermezza che provengono dalle promesse del Signore, la sposa di Cristo cammina verso le incombenti procelle. Ed essa sa: la verità, che essa annunzia, la carità, che insegna e mette in opera, saranno gli insostituibili consiglieri e cooperatori degli uomini di buona volontà nella ricostruzione di un nuovo mondo, secondo la giustizia e l’amore, dopo che l’umanità, stanca di correre per le vie dell’errore, avrà assaporato gli amari frutti dell’odio e della violenza. – Nel frattempo, però, venerabili fratelli, il mondo e tutti coloro che sono colpiti dalla calamità della guerra devono sapere che il dovere dell’amore cristiano, cardine fondamentale del regno di Cristo, non è una parola vuota, ma una viva realtà. Un vastissimo campo si apre alla carità cristiana in tutte le sue forme. Abbiamo piena fiducia che tutti i Nostri figli, specialmente coloro che non sono provati dal flagello della guerra, si ricordino, imitando il divino Samaritano, di tutti coloro che, essendo vittime della guerra, hanno diritto alla pietà e al soccorso. La Chiesa cattolica, città di Dio, «che ha per re la verità, per legge la carità, per misura l’eternità», annunziando senza errori né diminuzioni la verità di Cristo, lavorando secondo l’amore di Cristo con slancio materno, sta come una beata visione di pace sopra il vortice di errori e passioni e aspetta il momento in cui la mano onnipotente di Cristo re sederà la tempesta e bandirà gli spiriti della discordia che l’hanno provocata. Quanto sta in Nostro potere per accelerare il giorno in cui la colomba della pace su questa terra, sommersa dal diluvio della discordia, troverà dove posare il piede, Noi continueremo a farlo, fidando in quegli eminenti uomini di stato che prima dello scoppio della guerra si sono nobilmente adoperati per allontanare dai popoli un tanto flagello; fidando nei milioni di anime di tutti i paesi e di tutti i campi, che invocano non solo giustizia, bensì anche carità e misericordia; ma soprattutto fidando in Dio onnipotente, al quale giornalmente rivolgiamo la preghiera: «All’ombra delle tue ali mi rifugio, finché passi la calamità» (Sal LVI, 2). Dio può tutto: al pari della felicità e delle sorti dei popoli, tiene nelle sue mani anche gli umani consigli e, in qualsiasi parte Egli voglia, dolcemente li inclina: anche gli ostacoli per la sua onnipotenza sono mezzi a plasmare le cose e gli eventi e a volgere le menti e i liberi voleri ai suoi altissimi fini. – Pregate, quindi, venerabili fratelli, pregate senza interruzione, pregate, soprattutto, quando offrite il divino Sacrificio d’amore. Pregate voi, ai quali la professione coraggiosa della fede impone oggi duri, penosi e non di rado eroici sacrifici; pregate voi, membra sofferenti e doloranti della Chiesa, quando Gesù viene a consolare e lenire le vostre pene. – E non dimenticate di rendere, mediante un vero spirito di mortificazione e degne opere di penitenza, le vostre preghiere più accette agli occhi di Colui «che sostiene tutti coloro che cadono e rialza tutti gli abbattuti» (Sal CXLIV, 14), affinché egli nella sua misericordia abbrevi i giorni della prova e si avverino così le parole del Salmo: «Gridarono al Signore nella loro tribolazione, e dalle loro angustie li liberò» (Sal CVI, 13). – E voi, candide legioni di bimbi, che siete tanto amati e prediletti da Gesù, nel comunicarvi col Pane di vita innalzate le vostre ingenue e innocenti preghiere e unitele a quelle di tutta la chiesa. All’innocenza supplicante non resiste il cuore di Gesù che vi ama: pregate tutti, «pregate senza interruzione» (1Ts V, 17). –  In tal modo metterete in pratica il sublime precetto del divino Maestro, il più sacro testamento del suo cuore, «che tutti siano una cosa sola» (Gv XVII, 21), che tutti vivano in quell’unità di fede e di amore, da cui riconosca il mondo la potenza e l’efficacia della missione di Cristo e dell’opera della sua Chiesa. La Chiesa primitiva comprese e attuò questo divino precetto e lo espresse in una magnifica preghiera; e voi unitevi con gli stessi sentimenti, che tanto bene rispondono alle necessità dell’ora presente: «Ricòrdati, o Signore, della tua Chiesa, per liberarla da ogni male e perfezionarla nella tua carità e, santificàtala, raccòglila da ogni parte del mondo nel regno tuo, che le hai preparato; poiché tua è la virtù e la gloria per tutti i secoli». Nella fiducia che Dio, autore e amante della pace, ascolti le suppliche della chiesa, vi impartiamo come pegno dell’abbondanza delle grazie divine, dalla pienezza del Nostro animo paterno, l’apostolica benedizione.

Castel Gandolfo, presso Roma, il 20 ottobre dell’anno 1939, I del Nostro pontificato.

DOMENICA VI quæ superfuit POST EPIPHANIAM – IV. Novembris

DOMENICA VI quæ superfuit POST EPIPHANIAM – IV. Novembris

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le domeniche terza, quarta, quinta e sesta dopo l’Epifania sono mobili e si celebrano fra la 23a e la 24a Domenica dopo Pentecoste, quando non hanno potuto entrare prima della Settuagesima, cioè quando la festa di Pasqua e il suo corteo di 9 Domeniche, che ad essa preparano, vengono molto presto (vedi Commento liturgico del Tempo della Settuagesima). In questo caso l’Orazione, l’Epistola e il Vangelo sono quelli delle Domeniche dopo l’Epifania e basta interpretarli nel senso del secondo avvento di Gesù Cristo invece del primo, per adattarli al tempo dopo Pentecoste che prepara le anime alla venuta del Salvatore alla fine del mondo, segnata dall’ultima Domenica dell’anno o 24a Domenica dopo Pentecoste. Quanto all’Introito, al Graduale, all’Alleluia, all’Offertorio e alla Comunione, si prendono quelli della 23a Domenica dopo Pentecoste, che fa direttamente allusione alla redenzione definitiva delle anime (Intr.), quando Gesù, rispondendo alla nostra invocazione (Alleluia, Offertorio, Communio) verrà a giudicare i vivi e i morti ed a strapparci per sempre dalle mani dei nostri nemici (Graduale). Per riferire la Messa di questo giorno alla lettura del Breviario di quest’epoca, si può leggere quello che abbiamo detto dei Maccabei alla 20a, 21a e 22a Dom. dopo Pentecoste. – Per riferire la Messa di questa Domenica alla lettura del Breviario di questo tempo leggasi quello che abbiamo detto dei Profeti dopo Pentecoste.

La Messa di questo giorno fa risaltare la divinità di Gesù attestando chiaramente che Egli ha ricevuto il potere, come Figlio di Dio, di giudicare tutti gli uomini. Gesù è Dio, poiché Egli rivela cose che sono nascoste in Dio e che il mondo ignora (Vangelo). La sua parola, che Egli paragona a un piccolo seme gettato nel campo del mondo ed a un po’ di lievito messo nella pasta, è divina, perché seda le nostre passioni e produce nel nostro cuore le meraviglie della fede, della speranza e della carità di cui ci parla l’Epistola. La Chiesa, suscitata dalla parola di Gesù Cristo, è simbolizzata mirabilmente dalle tre misure di farina, che la forza di espansione del lievito ha fatto « completamente fermentare » e dalla pianta di senapa, la più grande della sua specie, ove gli uccelli del cielo vengono a cercare un asilo. Meditiamo sempre la dottrina di Gesù (Or.), onde, come il lievito, essa penetri le anime nostre e le trasformi, e, come il grano di senapa, irradia l’anima del prossimo con la sua santità. Così il regno di Dio si estenderà vieppiù, quel regno quale Gesù ci ha chiamati e di cui egli è il Re. Egli eserciterà questa regalità soprattutto alla fine del mondo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Jer XXIX:11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
(Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.)

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.


(Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.)

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

(Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.)

Oratio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
(Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.)

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1: 2-10

Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de cœlis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

“Fratelli: Noi rendiamo sempre grazie a Dio per voi tutti, facendo continuamente menzione di voi nelle nostre preghiere, memori nel cospetto di Dio e Padre nostro della vostra fede operosa, della vostra carità paziente e della vostra ferma speranza nel nostro Signor Gesù Cristo; sapendo, o fratelli cari a Dio, che siete stati eletti; poiché la nostra predicazione del vangelo presso di voi fu non nella sola parola, ma anche nei miracoli, nello Spirito Santo e nella piena convinzione: voi, infatti, sapete quali siamo stati tra voi per il vostro bene. E voi vi faceste imitatori nostri e del Signore, avendo accolta la parola in mezzo a molte tribolazioni col gaudio dello Spirito Santo, al punto da diventare un modello a tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia. Poiché non solo da voi si è ripercossa nella Macedonia e nell’Acaia la parola di Dio; ma la fede che voi avete in Dio s’è sparsa in ogni luogo, così che non occorre che noi ne parliamo. Infatti, essi stessi, riferendo di noi, raccontano quale fu la nostra venuta tra voi, e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e aspettare dal cielo il suo Figlio (che Egli risuscitò da morte) Gesù, che ci ha liberati dall’ira ventura”.

TRIBOLAZIONI E GIOIE CRISTIANE.

Una delle storie più interessanti per tutti, interessantissima per noi Cristiani, è la storia della prima diffusione del Vangelo, specialmente quando chi la racconta, più che semplice testimone, ne è stato autore e attore. È il caso di San Paolo. E, nella Epistola d’oggi, Egli, l’Apostolo infaticabile, di quella storia ci narra una pagina, un frammento, tanto più importante, perché quello che dice della introduzione del Vangelo in Salonicco vale di tante altre terre. La propagazione del santo Vangelo certo non fu fatta a colpi di gran cassa, o di sciabola o di scimitarra: niente di ciarlatanesco e niente di bellicoso nel senso materiale della parola. La ciarlataneria stonava col sano realismo del Vangelo e la sua umiltà: la spada contrastava con la mansuetudine evangelica. Ma non fu neppure una diffusione tranquilla, pacifica e blanda. San Paolo ci parla di una tempesta o tribolazione attraverso la quale e con la quale il Vangelo s’impiantò nella industre città commerciale: tribolazione è la frase che adopera l’Apostolo. E vuol dire che ci fu da soffrire per lui e per i primi discepoli, da soffrire non poco. – Il Vangelo è entrato nel mondo giudaico o greco-romano ch’esso fosse, come un soffio procelloso di travolgimento. Non veniva a conservare e quasi ad imbalsamare uno stato di anime e di cose ormai impiantato e sicuro: veniva a sconvolgere idee, affetti, leggi, costumi. Qui lo stesso Apostolo ricorda il passaggio dei suoi Cristiani dalla servitù degli idoli simulacri, (parvenze di forze divine) alla adorazione del Dio vivo e vero. Ma quella idolatria a cui il Vangelo col suo monoteismo spirituale gittava un guanto di sfida, dichiarava una guerra mortale, quella idolatria era una religione organizzata e trionfante. Con quella, Roma aveva fatto la sua fortuna militare, e stava facendo la sua fortuna politica. E il Cristianesimo non veniva a temperare blandamente, a ritoccare il politeismo pagano: no, veniva a distruggerlo. Lo negava da cima a fondo. Voleva radicalmente sostituirlo. Operazione di alta chirurgia. Perciò la lotta che suonò da parte degli elementi pagani era una specie di legittima difesa. Il che va letteralmente ripetuto anche per la religione giudaica, pure al Vangelo tanto più affine. – Ma il Cristianesimo veniva a surrogare anche il giudaismo, come il definitivo surroga, sostituisce il provvisorio, il meriggio l’aurora. N. S. Gesù Cristo l’aveva annunciato e predetto. Non sono venuto, non vengo a suggellare una pace tranquilla: vengo a suscitare una tempesta, guerra. Guerra, lotta che se da parte degli agnelli evangelici veniva combattuta con dolcezza e mansuetudine nuova, dall’altra parte si combatteva in quella vece, colla fierezza antica, tradizionale. Donde tra le file cristiane dolore, tristezza, «tribulatio multa.» Grande e gioconda, lieta, serena. Di questa gioia ripieni, i Cristiani primi sopportarono le loro tribolazioni di convertiti, di cui parla espressamente ancora una volta l’Apostolo. Il Maestro l’aveva detto: «Sarete beati quando vi perseguiteranno, pagani e Giudei, e questi vi cacceranno dalle loro sinagoghe, quelli dai loro templi come traditori. Godete, esultate in quel giorno.» E averlo detto fu poco di fronte alla energia che Gesù Cristo seppe ispirare ai suoi seguaci: quella gioia della persecuzione che dagli Apostoli passa ai loro fedeli, che dalle prime generazioni cristiane, arriva, come un soffio eroico, fino a noi, senza interruzione. Tornavano lieti, — dice dei primissimi Apostoli e confessori della fede, il sacro testo, — dal Sinedrio, perché  avevano avuto l’alto ed immeritato onore di soffrire per Gesù Cristo. L’onore di soffrire! È una delle manifestazioni più geniali e impressionanti dello Spirito di Dio nei suoi fedeli. Infatti, San Paolo chiama quello dei suoi Cristiani gaudio dello Spirito Santo. Al quale deve salire assidua la nostra prece perché nella Chiesa di Dio mantenga questo eroismo almeno sotto forma di una disposizione alacre e pronta a tutto soffrire piuttosto di rinunciare alle fede e alla legge di Cristo, piuttosto che perdere per noi e per altri i frutti della Redenzione di Gesù Cristo.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939).

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sǽcula. Allelúja,

Allelúja.

(Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.

V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.)

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

(Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.)

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum cœlórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres cœli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi.

[“In quel tempo Gesù propose alle turbe un’altra parabola, dicendo: È simile il regno de’ cieli a un grano di senapa, che un uomo prese e seminò nel suo campo. La quale è bensì in più minuta di tutte le semenze; ma cresciuta che sia è maggiore di tutti i legumi, e diventa un albero, dimodoché gli uccelli dell’aria vanno a riposare sopra i di lei rami. Un’altra parabola disse loro: È simile il regno de’ cieli a un pezzo di lievito, cui una donna rimestolla con tre staia di farina, fintantoché tutta sia fermentata. Tutte queste cose Gesù disse alle turbe per via di parabole: né mai parlava loro senza parabole; affinché si adempisse quello che era stato detto dal profeta: Aprirò la mia bocca in parabole, manifesterò cose che sono state nascoste dalla fondazione del mondo”].

OMELIA.

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)

IL NOSTRO CRESCERE IN GESÙ

Crescere è la legge di ogni vita. – Nel Cristiano ci sono tre specie di vita, ed in ciascuna egli deve svilupparsi fino alla sua giusta e piena misura. C’è in lui la vita fisica del corpo. Il bambino che nasce, voi sapete come ha le membra esili, le ossa senza consistenza, le manine più piccole dei petali di rosa. Ma poi, giorno per giorno, cresce: e i muscoli si fanno robusti e nervosi, le ossa induriscono, le manine divengono larghe e possenti, i passi sicuri ed energici. Guai se anche un membro solo del corpo non si sviluppasse! resterebbe un deforme e un rachitico. – C’è ancora nell’uomo la vita spirituale dell’anima, fatta di volontà ed intelligenza. Anche questa vita esige il suo sviluppo. Il bambino dapprima incapace d’un minimo atto di volontà crescerà fino a sopportare la violenza delle grandi passioni; dapprima incapace della più semplice idea crescerà fino a scoprire l’ingranaggio di complicati problemi e a reggere sotto il fardello di gravi pensieri. Guai se una qualunque causa impedisse questa crescita nel fanciullo! resterebbe un anormale, un deficiente. – Nel Cristiano c’è una terza vita, preziosissima perchè lo avvicina a Dio, infinitamente superiore alle prime due che ormai non hanno più ragione d’essere se non per sostenere quest’altra come i fili elettrici non hanno più importanza che per la misteriosa energia da cui sono attraversati. Parlo della vita soprannaturale della grazia, che ci fu data nelle acque del santo Battesimo. Agli occhi di Dio è l’unica cosa che ha valore, l’unica necessaria, « Unum necessarium! ». Si pensi dunque alla sventura di chi la perdesse o anche solo di chi non la sviluppasse, restando in essa sempre un bambino. Nel Vangelo d’oggi, con due parabole, Gesù insinua la necessità e il modo di crescere nella vita soprannaturale. «A che cosa paragoneremo il regno di Dio? o con quale parabola lo rappresenteremo? Ecco io lo raffiguro al granello di senape. Quando lo si semina, esso è il più piccolo di tutti i semi che sono sopra la terra; ma quando è stato seminato, a poco a poco cresce, e diventa il più alto e produce degli ampi rami, talché gli uccelli del cielo possono ripararsi sotto la sua ombra ». – Anche il regno di Dio in noi, cioè la vita soprannaturale della grazia, segue la legge del progresso. Il Battesimo non ce la comunica nella sua pienezza, ma come in germe che deve svilupparsi in noi mediante la nostra collaborazione. – Col Battesimo non si è Cristiani finiti e perfetti; si comincia soltanto ad esserlo, poi, ogni giorno che passa, lo si deve diventare in una maniera sempre più profonda e piena. Proprio come l’albero di senape che spunta da un minuscolo granellino e progredisce insensibilmente ma continuamente, fino a distendere grandi e ombrosi rami. – S. Paolo, scrivendo ai Cristiani di Corinto, insiste sulla necessità della coscienza soprannaturale. « Fratelli, non restate bambini…; crescete e siate perfetti nei sentimenti dell’anima vostra ». Temeva che molti, ricevuto il Battesimo, restassero inerti senza svilupparsi nella vita divina. – Ciò che l’Apostolo temeva è diventato la frequente e dolorosa realtà di questi tempi. Sono moltissimi quelli che nella conoscenza della dottrina cristiana e nell’amore di Dio sono rimasti alle poche idee e ai pochi sentimenti della prima Comunione, se pure non hanno perduto anche quelli. Cresciuti in tutto: nel corpo e nell’intelligenza e nelle cognizioni del mondo; ma non nella vita cristiana, la sola vita che merita d’essere chiamata con tal nome e che il Vangelo qualifica eterna. Di cristiano resta soltanto il loro nome sui registri della parrocchia, e nel loro cuore resta il Battesimo inerte come un seme secco che non ha trovato terra per germogliare. Intanto il tempo, così prezioso per crescere nella vita soprannaturale, passa irrimediabilmente. Hanno trenta, cinquanta, sessant’anni: ma nell’anima sono rimasti bambini. Hanno studiato e imparato molto, sono forse ragionieri, professori, medici, avvocati: ma nell’anima sono rimasti bambini. Poi viene la morte che sfronda da ogni apparenza: ciascuno avrà allora solo l’età delle sue virtù. – S. Giovanni Damasceno narra che un solitario della Tebaide chiedeva un giorno a un eremita, logoro dalle austerità e bianco per antico pelo, quanti anni avesse. « Ne ho trentacinque » rispose l’eremita. L’interrogatore, con le labbra sfiorate da un sorriso arguto, gli fece osservare che quei trentancinque anni dovevano essere stati ben penosi se l’avevano ridotto bianco e macilento come un vegliardo di ottant’anni… « Sì, è ben possibile — rispose l’eremita — che sia vissuto ottant’anni dell’esistenza che ci è comune con gli insetti: ma è certo che sono vissuto per Dio solo trentancinque anni e innanzi a Lui questi soltanto contano ». Gli altri non erano vita. Vita è solo quella della grazia, al di fuori della quale è la morte, anche quando ci si illude di vivere. Cristiani, se ciascuno di noi togliesse dalla sua vita tutto il tempo che non ha vissuto per Dio, quanto gli resterebbe? – Alla prima parabola che c’insegna la necessità di crescere, Gesù ne aggiunse un’altra che ci mostra il modo di crescere nella vita soprannaturale. «Il regno di Dio è simile a un pugno di lievito che una donna prende per impastarlo con una massa di farina. A poco a poco tutta la farina si lascia penetrare e gonfiare dalla secreta forza del lievito ». La santa Chiesa è la donna della parabola che nel Battesimo mette nella nostra umanità il lievito della Grazia e della vita divina di Gesù. Gesù vuol crescere in noi, vuol assorbire e divinizzare tutta quanta la nostra povera vita d’uomini, e renderci così suoi fratelli, veri figli del suo celeste Padre, degni d’appartenere alla famiglia di Dio, godere nei cieli la gloria eterna di Dio. Due cose sono necessarie per crescere nella vita divina, e ce ne suggerisce S. Pietro: « Primo: rigettare da voi ogni malizia, ogni frode, ogni specie d’ipocrisia, d’invidia, di maldicenza. Secondo: come bambini di fresco nati, siate bramosi del latte spirituale purissimo e con esso crescete nella salvezza e gustate come è dolce il Signore » (I Pet., II, 1-3). – Ciò che dobbiamo bramare con incessanti preghiere, quel latte spirituale e purissimo che ci fa crescere nella salvezza, è la cognizione e l’amore di Dio. Si accresce la cognizione di Dio meditando il Vangelo e le vite dei Santi; ascoltando a cuore aperto le prediche, studiando la dottrina cristiana. Si accresce l’amore di Dio frequentando la santa Comunione, assistendo alla Messa, compiendo opere buone. Cristiani, che cosa fate di tutto questo? E se non fate le opere della vita, come pretendete di vivere? E se le fate raramente e male, come v’illudete di vivere intensamente e bene? – Quanto è da temere per quelli che avendo ricevuto la vita soprannaturale, l’hanno spenta col peccato mortale e restano così in uno stato di morte! Sono simili a certe piante del bosco colpite dal fulmine: si reggono per la corteccia ma dentro sono vuote, non gettano più che qualche raro germoglio che non diviene ramo e tanto meno porterà frutto. Quanto vi è da temere anche per quelli che hanno incominciato bene a progredire nella via della vita e poi si sono fermati, guardando indietro, rimpiangendo le sensualità del mondo e le cose visibili e transitorie. Sono simili alla moglie di Lot. Anch’essa per via dopo essere stata già liberata dalla città maledetta e infuocata; si volse indietro. Ma dove si volse, ivi rimase, mutata in statua di sale. « Essa fu data a te come esempio — scrive S. Agostino — affinché tu abbia senno e non te ne rimanga fatuo per via. Vedendo lei fermarsi, tu passa oltre; vedendo lei guardare indietro tu tieni lo sguardo fisso in ciò che hai dinanzi ». – Questa volta incominciamo da Diogene. Costui, da quel filosofo estroso che era, una volta, a giorno alto, fu veduto aggirarsi per la piazza di Atene, con una lampada tra le mani. Tutti ne ridevano. « Che cercate, Diogene, col lumicino? ». « Cerco l’uomo ». La piazza era gremita d’uomini, ma al filosofo nessuno appariva veramente uomo. Ora applichiamo: nella nostra Italia, nella nostra città, nella nostra parrocchia tutti, o quasi tutti, sono Cristiani cattolici: battezzati e registrati. Però si potrebbe con la lampadina andare in cerca del Cattolico. Non tutti gli uomini erano uomini per Diogene; e forse che tutti i Cattolici sono ora Cattolici? Quanti ne rubano il nome? – Anche il maestro di rettorica Mario Vittorino si vantava, si vantava di essere Cattolico: ma sapete che cosa gli ha risposto S. Simpliciano, il successore di S. Ambrogio nella cattedra di Milano? « Tu lo dici; ed io non ti crederò fino a quando non ti avrò visto nella Chiesa ad ascoltare i sermoni, a ricevere i sacramenti ». « Son forse i muri che fanno i Cristiani? », replicò, ridendo, Vittorino. Ma il Vescovo non si lasciò smuovere e aggiunse: « Eppure è così ». Se tutti quelli che lo dicono fossero Cattolici, dovrebbero intervenire alla dottrina cristiana, alle sante Comunioni, alle processioni: ma essi non vivono la vita della Chiesa Cattolica. Se tutti quelli che lo dicono fossero Cattolici, non dovrebbero leggere certi libri e certi giornali, non dovrebbero frequentare certi divertimenti, non dovrebbero permettersi certe azioni. Che fare allora? Ce lo suggerisce con due parabolette il Vangelo di questa domenica. Dice la prima: « Il regno dei cieli è simile a un granello di senapa, che un uomo prese e seminò. Era proprio il più minuto dei semi, ma, cresciuto che fu, divenne un albero, tanto che gli uccelli si ricoveravano sotto le sue frasche ». Dice la seconda: «Il regno dei cieli è simile a una manata di lievito che la massaia prese e nascose in tre staia di farina, la quale tutta fermentò ». – Il mondo è divenuto una terra brulla: è necessario lasciarvi un seme piccolo sì,  ma fecondo. Il mondo è diventato come una massa di farina inerte e insipida: bisogna lievitarla sia pure con una manata di lievito, ma vivo e saporito. Il seme, fecondo, il pugno di lievito in cui la Chiesa pone molta speranza è l’Azione Cattolica. Voglio dirvi che cosa è, che cosa fa l’Azione Cattolica. Ben lieto sarei se da queste mie parole qualcuno sentisse la vocazione di parteciparvi; ma già avrei ottenuto gran frutto se alcuni comprendessero la sublimità di questo ideale, e non lo guardassero più con occhio sospettoso… – Pregava un giorno S. Francesco nella chiesa di San Damiano, a pochi minuti di strada da Assisi. La chiesa, assai antica, era sgretolata, affumicata, senza lumi e senza devoti. Fuori, seduto, sui gradini, al sole, stava un vecchio prete. Dentro, dall’alto dell’altare, pendeva un Crocifisso bizantino. Improvvisamente sembrò a S. Francesco che il Cristo lo guardasse con dolorosi occhi, e gli sembrò anche che il Cristo parlasse. Nel silenzio della chiesetta le parole del Figlio di Dio agonizzante cadevano come un bisbiglio: « Francisce, vade et repara domum meam, quæ, ut cernis, tota destruitur ». Va, Francesco, e ripara la mia Chiesa: non vedi che da ogni parte è distrutta? Francesco si alzò tutto tremante e sbigottito: la chiesa era ripiombata nella sua immobilità, nel suo silenzio sepolcrale. Non era l’aiuto per la restaurazione d’una cappella in rovina che il Crocifisso voleva da lui, ma l’aiuto per la salvezza di tante anime, per la riforma della santa Chiesa dilaniata da tanti odi e da tanti peccati. Ma lui non era prete, e come poteva far questo? « Va, Francesco, e ripara la mia casa, non vedi che da ogni parte è distrutta? ». Ancora la Chiesa di Dio è assalita e combattuta da ogni parte: l’immoralità e l’indifferenza tentano di sgretolarla. Il Crocifisso ancora si lamenta… Ed il suo grido è stato raccolto ora, non da uno solo, ma da migliaia e migliaia di giovani, di uomini, di donne, di fanciulle: l’Azione Cattolica. Era invalso in mezzo a noi, che pur ci professiamo seguaci di Cristo, il pregiudizio che soltanto al Clero spettasse la difesa degli interessi di Dio, il dovere di promuovere la vittoria della Chiesa e di zelare la salute delle anime; anzi ognuno credeva che fosse compito dei laici disinteressarsene affatto. Non io negherò che la diffusione del Regno di Dio e la salvezza dei fratelli incombe, soprattutto, ai sacerdoti. Ma essi sono i capitani della santa battaglia, e l’esercito obbediente al cenno dov’è? Essi sono gli architetti per la restaurazione della casa di Dio in rovina, e la squadra solerte degli operai dov’è? Volete fare una guerra coi soli architetti? manca l’esercito, manca la squadra. L’Azione Cattolica vuole essere questo esercito e questa squadra, poiché, come il Santo Padre ha detto, essa non è altro che « la partecipazione dei laici all’apostolato gerarchico ». I membri dell’Azione Cattolica sono i veri collaboratori e cooperatori dei Vescovi e dei Sacerdoti per il trionfo di Cristo Re nel mondo: essi formano una spirituale milizia. « Mentre le forze giovanili intendono particolarmente alla formazione ed alla preparazione delle coscienze e delle intelligenze, e mentre le organizzazioni femminili svolgono efficace lavoro di penetrazione e di persuasione nel santuario domestico, le energie degli uomini, fortemente temprate nella fede e nella pietà, precisamente sviluppano l’azione di difesa, di diffusione e di pratica applicazione dei comandamenti cristiani alle contingenze della vita. Così tutti riporteranno ovunque con serena fortezza la nota della giustizia e della carità cristiana ». (Dal Messaggio di S.S. Pio XI al Congresso degli Uomini cattolici di Palermo). – A S. Francesco peregrinando per campagne e foreste deserte, accadde d’incontrarsi in ribaldi e ladri. « Chi sei?» gli gridarono assalendolo. «Io sono l’Araldo senza macchia e senza paura del Gran Re ». Ognuno dei membri dell’Azione Cattolica deve tendere a questo ideale. Annunciare che il Regno di Dio si avvicina alle anime, ed essere senza macchia davanti a Dio, senza paura davanti agli uomini. Quando, nei secoli scorsi, i Turchi con la loro ferocia minacciavano le nostre città e infestavano i nostri mari e devastavano la regione, furono i Papi che da ogni parte d’Europa suscitarono uomini per difendere la nostra fede e la civiltà. Ora non più una nazione, ma sono i peggiori vizi e gli errori che devastano le anime! È l’ateismo pratico, l’immoralità della moda e del divertimento, il divorzio e la calunnia contro la Chiesa. Il Papa ancora vuole raccogliere da tutte le parti del mondo un nuovo esercito spirituale per la battaglia santa del Signore. Il Papa sente che l’Azione Cattolica è il seme minuto, ma che presto frondeggerà su tutta la Chiesa con le buone opere e gli esempi buoni. Il Papa sente che l’Azione Cattolica è il pugno di lievito che solo potrà fermentare a novella vita cristiana i popoli moderni… il suo programma: preghiera, azione, sacrificio. Preghiera. « La pietà — scrive s. Paolo — è indispensabile in tutto; essa sola ha le benedizioni della vita presente e della vita futura» (I Tim., IV; 8). Se nel mondo le benedizioni di Dio mancano a tanti sventurati, se gli uomini si perdono eternamente, è perché la preghiera manca. Da molti si prega poco, da troppi non si prega più. I membri dell’Azione Cattolica vogliono vivere una vita di preghiera, persuasi che l’orazione rende fecondo l’apostolato. Vogliono la preghiera nel segreto dell’anima; la preghiera nella famiglia; la preghiera pubblica nella società: le ore di adorazione, i santi esercizi, le processioni solenni. Azione. Prima d’ogni altra, l’azione silenziosa del buon esempio. Il buon esempio è una predica che non si sente con le orecchie, ma si vede con gli occhi e quindi di effetto infallibile. La buona parola vola, ma il buon esempio trascina; una famiglia che ha per capo un Cristiano praticante e zelante, ne segue istintivamente la pietà, la modestia, la lealtà. In un paese dove ci sono parecchie decine di uomini, di giovani esemplari, a poco a poco tutto fermenterà in bene. Ma non basta l’azione personale e familiare, ci vuole anche l’azione sociale nella Parrocchia. I membri dell’Azione Cattolica vogliono e devono essere i docili collaboratori del Parroco in tutte le opere di bene. In prima linea partecipano alle funzioni religiose: coraggiosamente combattono contro la immoralità di certi divertimenti, di certe mode, di certe stampe, vigilano perché l’istruzione religiosa sia impartita nelle scuole secondo la legge, aiutano le opere di beneficenza cristiana; difendono il Papa e ì sacerdoti in cui vedono i rappresentanti di Cristo. – Sacrificio.  Ma per tutto questo è necessario un forte spirito di sacrificio. Sacrificio nel sapere dominare le proprie passioni più d’ogni altro Cristiano; vincere il rispetto umano; sacrificio di tempo, di lavoro, di denaro, di divertimento. Bisogna che i membri dell’Azione Cattolica si riempiano il cuore di Dio, per aver la forza d’essere sempre generosi e pronti a donarsi e a sacrificarsi. Ebbene, i membri dell’Azione Cattolica a tutto questo vogliono esser pronti.  – Dice la leggenda che Gesù Bambino voleva traghettare un fiume vorticoso. Allora venne a lui Cristoforo, il fortissimo traghettatore, che lo prese sulle sue spalle larghe e lo portò sopra le acque impetuose. Il nostro secolo è un impetuoso torrente di paganesimo e d’iniquità. Eppure Gesù ancora vuol regnare. L’Azione Cattolica sarà il fortissimo traghettatore e porterà il Signore ad un nuovo trionfo. – « Il regno dei Cieli — dice Gesù Cristo — è come un pugno di lievito che una donna rimescola in tre staia di farina, fin tanto che sia fermentata tutta ». Il pugno di lievito è Gesù Cristo. Quando visibilmente viveva su questo mondo sembrava il più povero degli uomini. Non aveva casa, non aveva danaro, non aveva né armi né armati: solo passava di paese in paese, donando a molti la salute e a tutti la sua parola buona, non mai udita sopra la terra. Eppure, fu questo umile Uomo che fermentò tutta l’umanità: fu Lui che portò la sapienza; Lui, l’amore; Lui, la vita eterna. Ma chi è quella donna evangelica, che ha preparato il mistico lievito e lo ha rimescolato nelle tre misure di farina? Quella donna è la Madonna. Il Figlio di Dio, fatto uomo per la nostra salute, ci venne dalla carne immacolata di Lei e dal sangue purissimo di Lei, Le tre staia di farina sono i tre tempi del mondo: il tempo antico, il presente, il futuro. Il tempo antico: quando la Madonna, non nata ancora, era predetta dai Profeti e il popolo la sognava come un’aurora immensa che da oriente s’innalza a dissipare il tenebrore notturno, come la rosa dei giorni primaverili sbocciata al sole, come il cipresso intatto dalla scure, come il terebinto che distende i suoi rami sul mondo. Il tempo presente: in cui tutte le arti l’hanno onorata, tutti i paesi le hanno fatto una Chiesa, o almeno un altare. Il tempo futuro: perché fin quando ci sarà un uomo, s’udirà sempre il suo bel nome. Le tre staia di farina possono anche significare le tre Chiese: la Chiesa militante in cui la Vergine mette il suo Gesù a fortificare nella lotta: la Chiesa purgante in cui la Vergine mette il suo Gesù a suffragare nel tormento; la Chiesa trionfante in cui la Vergine mette il suo Gesù a beatificare nel premio. E sembra che nessun desiderio abbia fuor che di fermentare ogni cuore col suo Figliuolo divino. Ella, come nel presepio, sta sempre nelle nostre Chiese in atto di offrire alla povertà delle nostre anime il ricco tesoro del sue viscere, come l’offerse ai poveri pastori di Betlemme. Ella, come nel tempio di Sion, sta sempre nelle nostre Chiese, per consegnare in braccio al nostro amore il suo eucaristico Gesù, come allora lo consegnò al vecchio Simeone profeta, e alla vecchia Anna profetessa. Chi è che non vorrà ricevere Gesù dalle mani di Maria? Chi è che preferisce rimanere sterile farina, invece che accogliere il divin Fermento, e trasformarsi in pane eletto? La Madonna, mettendoci il suo Figliuolo nell’anima, ci dà il perdono dei peccati commessi, ci dà la forza per non ricadere; ci dà tutto. Ella è madre di misericordia, è madre di valore, è madre d’amore. – Una donna di Thecua entrò un giorno nella sala del re, si gettò davanti al suo trono, e singultendo disse: « Salvami, o re! ». Davide, stupito e commosso, le rispose con voce buona: «Che hai tu? Parlami ». Allora la donna cominciò a raccontare la sua storia dolorosa, sospirando. « Ah! io sono una vedova e mio marito è morto lasciandomi due figli che son venuti a contesa. Erano alla campagna e non v’era nessuno che li potesse trattenere. Intanto l’uno percosse l’altro e lo uccise. Ma ecco che ora tutta la parentela si è levata contro di me e grida: — Dacci nelle mani colui che ha percosso suo fratello, che dobbiamo farlo morire: anima per anima. — Ed io che ho già perso un figlio, adesso dovrò vedere anche l’altro morire: così rimarrò sola al mondo, senza marito né figli, conculcata ». Il re, come la donna accasciata dalla sua sventura finì di parlare, balzò in piedi e disse: « Viva il Signore; un capello di tuo figlio non cadrà a terra ». Anche noi, coi nostri peccati, abbiamo ucciso nostro fratello Gesù Cristo. Rursum crucifigentes Filium Dei (Ebr., VI, 6). Gli Angeli della giustizia pretendono la nostra condanna e gridano: « Signore, dacci nelle mani quel peccatore che noi lo sprofondiamo nell’inferno ». Ed ecco la Madonna, come la vedova di Thecua, prostrarsi davanti al trono di Dio e supplicare: « Ho già perso un figlio; ho già subìto tutto lo strazio della sua morte in croce: come potrò sopportare adesso di veder l’altro precipitare nell’inferno? ». E Dio risponderà alla Vergine, come Davide alla Thecuite: « Non cadrà un capello di tuo figlio ». – Quando Iddio sta per scoccare la freccia della sua vendetta, accorre la Madonna e pone il suo Gesù in quell’anima, come un pugno di lievito nella farina. Come potrà allora il Signore colpirla se in essa vi è il Figliuol suo? Se alcuno, guardando alla sua vita, si accorge di essere caduto in basso, nella valle dei peccati, si rivolga con fiducia a Maria, ella è Madre dei peccatori che si vogliono convertire. Se i suoi vizi sono stati tanti, e le sue colpe sono state enormi, non si lasci scoraggiare, poiché quanto più grave è stata la sua colpa, tanta più gloria dalla sua conversione verrà a Maria. – Il giovanetto S. Pancrazio, che visse al tempo delle persecuzioni romane, tornando una sera dalla scuola, confidò a sua madre quello che gli era accaduto. Avevano saputo ch’era Cristiano: ormai non avrebbe più potuto vivere tranquillo, la beata fanciullezza era finita. Lo avrebbero ricercato, lo avrebbero perseguitato, tormentato, ucciso: gli bisognava una grande forza. La madre allora prese una piccola borsa, ornata di perle finissime e l’aprì: ne trasse una spugna secca imbevuta d’un liquido che il tempo aveva rappreso. Ecco, o figlio mio — e la voce le mancava e copiose lagrime sgorgavano dai suoi occhi — ecco il sangue di tuo padre; o Pancrazio. Io stessa l’ho raccolto dalle sue aperte ferite il dì in cui, sotto mentite spoglie, fui presente al suo martirio e lo vidi morir per Cristo ». Il giovanetto si mise al collo quella reliquia santa, e sentì nel suo spirito correre tutta la fierezza del martire genitore. E quel sangue stretto al suo cuore gli diede la forza di vincere il supremo combattimento, quando imprigionato e condotto nell’arena, aizzarono contro di lui l’avida pantera. Anche noi, nella vita, siamo attesi da terribili combattimenti; il mondo con dispiaceri ingannevoli, le nostre passioni, il demonio che, come pantera avida, gira intorno all’anima nostra per sbranarla. Abbiamo bisogno di forza e di valore. Ricorriamo alla Madonna. Ella, come già Lucina al figlio suo, ci metterà sul cuore il sangue di Gesù Cristo, quel Sangue che ha raccolto dalle aperte ferite il dì in cui, sotto la croce, lo vide spirare dopo tre ore d’agonia. E quel Sangue, penetrato nella nostra anima, sarà come un lievito che tutta la fermenterà e la farà invincibile ad ogni assalto infernale. – C’è una fanciulla che trema perché al lavoro, in famiglia, altrove, vive in mezzo ai pericoli morali? invochi Maria. Respice stellam, invoca Maria! C’è un uomo che il demonio con desideri impuri non lascia quieto? invochi Maria! Respice stellam, invoca Maria! O tutti, che ad ogni momento siamo sull’orlo d’un precipizio; e pare che una forza maligna ci spinga dentro, invochiamo Maria. Respice stellam, invoca Maria! Ella è terribile come un battaglione schierato in guerra. Iddio, incarnandosi, prese da Maria l’umana debolezza e donò a Lei in cambio la divina potenza della quale si prevale a favore dei suoi devoti. – Nell’inverno crudissimo, S. Ermanno pregava da lungo tempo, davanti alla Madonna. La Chiesa era deserta, ed egli tremava dal freddo e dalla fame. Povero fanciullo, non aveva calzatura sui piedini nudi, e non aveva sulle spalle tremanti fuor che uno sdrucito mantelletto. Solo aveva per riscaldarsi il fervore della sua preghiera. E la Madonna davanti a lui si mosse, s’irradiò di luce, e parlò: « Leva una pietra, che sotto v’è il denaro per comprarti un pezzo di pane e qualche vestito ». Il fanciullo ubbidì e trovò. Da quel giorno, qualunque volta ne abbisognasse, sotto quella pietra, trovò il danaro che occorrevagli. Quello che Maria ha fatto per un suo devoto, può farlo anche con noi. È tanto buona che non solo nei bisogni spirituali, ma anche in quelli materiali è pronta a soccorrerci. Se ci ha dato il suo Unigenito, ch’era la sua vita, tutto il suo amore, se ha lasciato che morisse in croce, purché noi fossimo salvi, che cosa ci potrà ancora negare? Ella è madre di bell’amore. Ego mater pulchræ dilectionis (Eccl., XXIV; 24). Ma se tale è l’amore di Maria, se più buona di così Dio non poteva crearla, guai all’uomo che non è attratto verso di Lei. Quando un’anima non sente più affetto e devozione verso la Madonna, quando il dolce nome di Maria più non lo muove, credetelo, il demonio è sicuro di una vittoria. – Nell’agosto del 1920, sul mare di Pola calava a picco il sommergibile «F 14». Quando i palombari, con un terribile lavoro di manovre, riuscirono a ripescarlo, si comprese che là dentro non c’erano che cadaveri. Ventisette: la morte aveva coperto quei volti di una maschera nerastra, sì che le vittime ebbero lo stesso aspetto, ma avevano avuto lo stesso puro e rassegnato coraggio. Solo dopo che furono riportate esanimi alla luce, e pienamente deterse, riapparvero le loro varie giovinezze, e il pallido viso. Dentro si trovò un foglio. « Mamma… ». La frase non fu compiuta. «Mamma! » In questo grido è racchiusa tutta la vita e tutta la morte d’un uomo. Oh in quell’ultimo istante, quando già l’asfissia anneriva il volto e dilaniava orribilmente le palpebre, l’immagine della mamma ignara lontana è apparsa davanti a ciascuno! Oh almeno la mamma fosse stata là a baciarli per l’ultima volta, ad aiutarli a morire!… Ma la madre terrena non può sempre essere accanto al suo figliuolo, né può vivere fin tanto che la sua creatura vive: spesso muore prima. – Ebbene, il Cristiano, conosce una Madre che non muore mai, che lo vede sempre, che sempre l’ascolta, che sta ai suoi fianchi sempre a rendergli meno triste la vita, e bella la morte, e felice l’eternità. Questa madre è la Madonna. – «Chi ha visto un granello di senape? è il più minuscolo di tutti i semi. Eppure lasciate che un contadino lo getti in terra buona: passano i giorni, passano i mesi ed ecco silenziosamente una lancetta verde occhieggiare su dal solco, e poi cresce e poi sale e poi ramifica e poi diventa il re di tutti i legumi, capace di ricoverare gli uccelli nel verde fresco delle sue foglie. Anche il lievito, gran cosa non è. Eppure, lasciate che una massaia ne prenda tanto quanto un pugno di bimbo, lo sciolga nell’acqua bollente, lo stemperi nella pasta nuova; saprà gonfiare anche tre staia di farina. Così avviene, — diceva alla gente Gesù — così avviene del Regno dei cieli, così la grazia si diffonde nei cuori: con questo silenzio, con questa umiltà ». – Al lievito, al grano di senape io nulla trovo di più somigliante che il buon esempio, sparso intorno con le opere e con le parole. Una parola buona sembra una cosa da nulla: è un debole suono che esce dai labbri e a fatica penetra negli orecchi. Ma lasciate che quella parola buona trovi la strada del cuore, saprà far meditare un’anima, farla piangere di pentimento, farla convertire. Ecco un giovanotto elegante, ricco, allegro che vive la vita spensierata: «Francesco — gli dice un giorno un amico — che cosa ti varrà il mondo intero se perdi l’anima? ». Questa parola gli cade in cuore come il seme di senape in terra; poco a poco mette radici, cresce, tutto lo invade. Quel giovane lascia il mondo, parte per le missioni, salva milioni di anime: è S. Francesco Saverio. Un gesto coraggioso; un’azione buona sembra una cosa da nulla: eppure talvolta bastano a trascinare al bene molte persone lontane dal Signore. Il padre di Luigi XV, a Strasburgo, durante la festa del Santissimo Sacramento, assiste alla processione in ginocchio e a mani giunte. In mezzo alla folla alcuni protestanti lo videro, ne furono commossi e si convertirono. Il buon esempio è simile a quell’altro seme, di cui è pure parola nel Vangelo, che un uomo getta nel campo. Poi se ne torna a casa: mangia, beve, dorme, lavora senza nessuna preoccupazione. Ma intanto quel seme da solo germina, cresce, fa la spiga e la granisce. Anche a nostra insaputa si estende l’influenza del buon esempio, si estenderà anche dopo la morte nostra. S. Maria Egiziaca era morta da molti anni quando un padre di famiglia dedito solo agli affari lesse un giorno la sua vita. Il buon esempio che quella santa diede al mondo con la sua conversione toccò ancora molti secoli dopo la sua morte il cuore d’un uomo che si convertì leggendo una vita della Santa, e divenne santo egli stesso: il Beato Colombini. Eppure sono molti i Cristiani che non diffondono intorno a sé il buon odore di Cristo, che non fermentano in bene la massa del prossimo tra cui vivono, che non fanno crescere il regno di Dio, ma lo isteriliscono come una pianta a cui manchi l’acqua e la luce: essi sono dominati dal rispetto umano. – Quando Federico Ozanam arrivò a Parigi per compiere gli studi universitari aveva diciotto anni. Non era incredulo, ma la sua anima era in crisi: nel frastuono della metropoli, in mezzo a studenti spassosi, con davanti agli occhi tanti spettacoli di corruzione, sentiva la fede materna illanguidire e tremare come la fiammella che sta per ispegnersi. Una sera entrò in una Chiesa della città e scorse in ginocchio in un angolo, un uomo, un vecchio, che fervorosamente recitava il santo Rosario. S’avvicina e nella incerta penombra lo riconosce: Ampére, il suo professore d’università. «Come? — pensa il giovane — Ampére inginocchiato come una donna? Lui, per la sua scienza famoso in tutto il mondo, con la corona in mano? ». Quella vista commuove fin nel profondo dell’anima; una segreta forza gli piega le ginocchia sul pavimento di marmo, lui pure si mette con le mani giunte accanto al gran maestro: le preghiere e le lagrime gli sgorgavano copiose dal cuore. Ormai non aveva più dubbi, non aveva più incertezze: era la piena vittoria della fede e dell’amor di Dio. « L’esempio d’Ampére — dirà poi frequentemente — su me ha fatto di più che tutti i libri e tutte le prediche ». L’influsso del buon esempio non si fermò in Ozanam, ma da lui passò in altri giovani, e da questi in altri ancora fino ai nostri tempi. La compagnia di San Vincenzo de’ Paoli con tutto il bene che compie, è ancora il frutto, che s’allarga sempre più, di quel primo buon esempio del professore Ampére. – Se in ogni famiglia ci fosse un padre che dà buon esempio, non perde mai la dottrina, non bestemmia, recita ogni sera devotamente il santo Rosario, io vi assicuro che in ogni famiglia vi sarebbero dei figliuoli d’oro. Ecco perché quando si convertì Zaccheo, Gesù ha detto: « Hodie salus domui huic facta est »(Lc., XIX, 9). Oggi abbiamo salvato tutta questa famiglia. Il Signore era persuaso che il buon esempio di quel padre, pronto a restituire quattro volte di più di quello che aveva rubato, sarebbe stato irresistibile anche per i figliuoli. Se in tutte le botteghe, se in tutte le officine ci fosse un padrone che dà buon esempio; che bella ripercussione non si avrebbe anche in tutti i dipendenti. Se tutti i servi, se tutti gli operai vedessero i loro padroni ogni festa alla Messa, ogni mese ai santi Sacramenti, certo che la Religione sarebbe più rispettata, certo che il regno di Dio nelle anime si svilupperebbe come il lievito nella farina, e come il granello di senape gettato in buona terra. Ecco perché quando il Regolo di Cafarnao credette nel Signore, tutti i suoi servi, i suoi soldati, i suoi parenti credettero. Credidit ipse et domus eius tota (Giov., IV, 53). – Perciò S. Girolamo scongiura i superiori a stare bene attenti, perché dalla loro condotta dipende la salvezza di molte anime. Perciò Gesù dal suo Vangelo ci dice di non essere carboni fumosi, ma lucerne ardenti che mostrano agli altri il modo di rendere gloria a Dio. – Eppure nel mondo sono più facili i mali esempi che i buoni: si ha vergogna del Vangelo. S. Paolo senza titubare poté dire in faccia a quei di Roma: «Io non ho mai arrossito della mia fede » (Rom., I, 16). Ma quanti sono i Cristiani che possono ripetere schiettamente la parola dell’Apostolo? Nel cuore dell’uomo facilmente si annida un microbo che guasta ogni più nobile affetto nel suo nascere: il microbo del rispetto umano. Se riesce ad acquistare padronanza, l’uomo diventa timido, irragionevole, e giunge a tanta viltà da tradire la propria coscienza. Ma è forse un delitto essere virtuosi perché si debba fare di nascosto ogni atto buono? Ci sono dei bravi giovani che sentono ripugnanza a mangiar di grasso in venerdì. Ma siccome tutti i compagni di lavoro, tutti i pensionanti dell’albergo non rispettano la legge della Chiesa, essi hanno vergogna e compromettono la loro anima. Ci sono degli uomini a cui piacerebbe iscriversi nella Confraternita del SS. Sacramento, fare un po’ di bene, acquistare molte indulgenze: ma hanno vergogna a portare l’abito, non vogliono mettersi in fila nelle processioni, temono che qualcuno li derida. Povere anime rovinate dalla paura di sembrar buone! – Là in quella casa, la conversazione della sera trascorre tutta nel fare strazio dell’onore altrui e si dicono anche cose indegne contro la Religione e i preti; fra tanta gente che ascolta, non manca una persona di sano criterio che vorrebbe insorgere, ma teme di riuscire sgradita a qualcuno e soffoca la parola in gola. Là in quell’ufficio, tutto il giorno è un parlare osceno, è un bestemmiare solo: costretta dal dovere, c’è anche qualche buona giovane. Vorrebbe levarsi in protesta a farla finita una benedetta volta, ma ha rispetto umano e finge con un sorriso di acconsentire. « In his omnibus apostasia est ». Qui c’è apostasia, esclama S. Cipriano. Parla e comanda il Signore e non lo si ascolta, il mondo fa un mezzo sorriso di scherno e subito si torce il collo dalla sua parte. Ma coloro che si fan vittima, per rispetto umano, di ogni diceria e di ogni giudizio della gente, che cosa s’aspettano poi dal mondo? Sentite. Molti secoli or sono l’Italia fu conquistata dall’esercito barbarico dei Goti con a capo re Teodorico. Il re e il suo popolo erano ariani. Orbene, un romano per acquistarsi simpatia e fiducia da Teodorico abiurò dalla Chiesa Cattolica e si fece ariano. Quando il re dei Goti seppe la cosa, se ne sdegnò fieramente e disse: « Costui che manca di fiducia al suo Dio, come potrà essere fedele al suo re, che è semplice uomo? ». E lo privò di ogni onore e lo scacciò dal suo palazzo. Così tratta il mondo quelli che, timidamente come conigli, lo servono, rinunciando a Dio, alla coscienza, alla ragione. Dopo di averli sfruttati, li disprezza e li getta via. – Si era saputo che anche Eufemia la giovane figlia di un senatore era cristiana. Neppure a lei si fece eccezione. Fu tradotta in tribunale e condannata a morire. La martire silenziosa e diritta stava in mezzo alla folla, davanti ai giudici, con gli occhi socchiusi come se di sotto le palpebre potesse già contemplare un mondo migliore. « Prendetela, legatela! » urlò il prefetto di tribunale a due soldatoni che gli stavano accanto. Quelli di scatto si precipitarono contro la vergine: come le furono vicini, si sentirono mutati e dissero: «Se la sua fede le dà tanta gioia a morire, non può essere che vera. Facciamoci anche noi Cristiani ». E si ricusarono di torcere un capello alla santa. Il giudice si sentì sconfitto da una fanciulla inerme. « Sòstenes! — gridò allora al centurione che aveva alla sua destra. — Sòstenes! gettala tu sopra la ruota dilaniatrice. E sia finita ». Anch’egli si avvicinò, ma anch’egli improvvisamente mutato da lei le chiese perdono e la forza d’imitarla. Poi col ferro sguainato si volse al giudice dicendo che più volentieri metterebbe quella lama nel suo petto che nel cuore di lei, la quale gli Angeli difendevano. Come S. Eufemia in mezzo al tribunale, così, o Cristiani, in mezzo al mondo faccia l’anima nostra. Che il profumo del buon esempio si diffonda dalle nostre azioni in tutti i giorni della vita, e chiunque ci avvicini, anche se in cuore è tristo, si allontani da noi edificato e col proposito di imitarci.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX1, 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

(Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.)

Secreta

Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat.

(Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.)

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI: 24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

(In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.)

Postcommunio

Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
(O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA