DOMENICA IV dopo PASQUA

DOMENICA IV dopo PASQUA

Introitus Ps CXVII:1; XCVII:2

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus. [Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen.

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

V. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod praecipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia. [O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli. Jac. I:17-21. “Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.” [Caríssimi: Ogni liberalità benéfica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con animo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.] R. Deo gratias.

DOMENICA IV. DOPO PASQUA

[mons. Bonomelli, Omelie – vol. II; Torino 1899, impr.]

Omelia XXI.

 “Ogni buon dono ed ogni perfetto presente viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi, presso il quale non vi è mutamento, od ombra di vicende. Egli di sua volontà ci ha generati colla parola di verità, affinché in certo modo fossimo la primizie dell’opera sua. Intendetelo bene, fratelli miei diletti. Ognuno sia pronto ad udire, tardo al parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non fa quello che è giusto dinanzi a Dio. Perciò smessa ogni bruttura e malvagità, accogliete docilmente la parola seminata in voi, la quale può salvare le anime vostre „ (S. Giacomo, I; 17-21).Queste poche sentenze leggiamo nella Messa odierna e si trovano nella epistola di S. Giacomo. Se non erro, è questa la prima volta che mi accade di dover togliere a soggetto dell’omelia un tratto di questa lettera. Essa, come si legge a principio, fu scritta da S. Giacomo apostolo. Son due gli apostoli di questo nome; il primo, detto il Maggiore, fratello di Giovanni e figliuolo di Zebedeo, ed uno dei tre prediletti da Cristo. Questi fu messo a morte da Erode Agrippa, dieci anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, l’anno 42 dell’era nostra. L’altro, detto il Minore, forse per ragione dell’età, figliuolo di Alfeo o Cleofa e di Maria, sorella o cugina della Vergine, e perciò detto fratello di Cristo, ossia cugino. Visse sempre in Gerusalemme, ne fu il primo vescovo, venerato per la sua santità anche dai Giudei, ebbe la corona del martirio l’anno 62 dell’era nostra, ad istigazione del pontefice Anano, otto anni prima dello sterminio di Gerusalemme. La lettera è di questo apostolo e fu indirizzata, non molto prima della sua morte, a tutti i Giudei convertiti e sparsi in varie provincie. Il suo scopo è tutto pratico e morale e riflette mirabilmente il fare degli Evangeli e mostra la perfetta opposizione, che esiste tra Dio ed il mondo, l’amore dell’uno e dell’altro. Sembra anche, per avviso di alcuni autorevoli interpreti, che S. Giacomo si proponesse in questa lettera di correggere l’abuso, che per molti si faceva della lettera di S. Paolo ai Romani. Interpretando male quella lettera, essi dicevano, che la sola fede bastava a salute senza le opere, mentre san Paolo aveva insegnato soltanto che nessuno, né Giudeo, né Gentile poteva colle opere meritare il dono della fede. S. Giacomo stabilisce che la fede senza le opere è morta, e che queste sono necessarie a salvezza. Premesse queste comuni e non inutili avvertenze, io tolgo a chiosare i cinque versetti, che or ora ho voltato nella nostra lingua.«Ogni buon dono ed ogni perfetto presente, viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi. „ Nei versetti che precedono, san Giacomo parla della concupiscenza e del peccato, che ne è il figlio e che genera la morte dell’anima. Ecco il mondo e l’opera del mondo: a questa l’apostolo contrappone il dono e l’opera di Dio, che produce la vita, e dice: “Ogni dono, ogni grazia perfetta non viene dal basso, dalla terra, ma discende dall’alto, discende da Dio, Padre e fonte d’ogni lume e d’ogni verità. „ Vi è un doppio ordine di beni o doni, che vengono da Dio: i beni dell’ordine naturale, che sono la vita, la ragione, la libertà e tutto ciò che conserva la vita e svolge le sue forze o facoltà: i beni dell’ordine sopranaturale, che sono la grazia, la fede e andate dicendo. Di quali doni scrive qui S. Giacomo? Di tutti, io credo, perché tutti provengono da Dio, ma certamente intende parlare dei sovranaturali in particolar modo, perché più eccellenti, e di questi soli ragiona nel versetto che segue. Miei cari! come i raggi della luce emanano dal sole e con essi il calore, che avviva ogni cosa sulla terra, così tutti i beni sgorgano da Dio, ed incessantemente si spargono sulle anime per fecondarle, abbellirle e santificarle. Tutti i beni derivano da Dio! Ma forse, donando continuamente a tutti, Dio si muta? Forse perde alcun che dell’essere suo? Porse passa sopra di Lui un’ombra sola d’imperfezione? No, mai. Egli dà sempre e nulla perde opera sempre e non si muta, tutto muove e non si muove. Egli è come la verità: essa è sempre la stessa: conosciuta da milioni di intelligenze in vari modi e applicata in tutte le forme, è sempre la stessa in tutti i luoghi ed in tutti i secoli passati, presenti e futuri. In cielo, in terra, corpi e spiriti, intelligenze e volontà acquistano o perdono, risplendono, si eclissano e si mutano, Dio solo è immutabile. « Presso di lui, grida S. Giacomo, non vi è mutamento, non ombra di vicende. „ A noi torna difficile concepire come Dio operi sempre e disponga ogni cosa, eppure non si muti. Io vi presenterò un fatto naturale, certissimo, che ci aiuterà a concepire l’immutabilità e la continua azione di Dio. Voi sapete che la terra e gli astri tutti del nostro sistema si muovono intorno al sole. Chi li muove incessantemente? Il sole colla forza, che dicono di attrazione. E il sole è immobile nel loro centro: esso tutti li muove in ogni istante e li illumina e li riscalda sempre egualmente, ed essi si muovono sempre e sempre sono illuminati e riscaldati variamente secondo i vari punti, in cui si trovano. Così Dio è immutabile in sé e muta le cose tutte. Non comprendete il mistero? Spiegatemi come il sole immutabile nel centro muti gli astri tutti, ed io vi spiegherò come Dio immutabile nella sua natura possa mutare le cose. S. Giacomo ha detto in genere, che Dio è fonte d’ogni dono, d’ogni grazia perfetta: ora passa a menzionarne una principalissima, che ne comprende molte altre. Udite: ” Dio, così Egli, di sua volontà, ci generò colla parola di verità. „ Dio Padre, della sua stessa sostanza, da tutta l’eternità genera il Figliuol suo in ogni cosa a sé eguale: questo Figliuolo, unico come unico è il Padre, è l’immagine perfetta e sostanziale di Colui che lo genera, è l’oggetto delle eterne sue compiacenze, lo specchio, in cui contempla se stesso e si bea e si letizia. Ma piacque a Dio formarsi altri figli fuori di sè, che fossero l’immagine del Figliuol suo, che in qualche modo crescessero e rispecchiassero le sue infinite perfezioni: tra questi figli di Dio, dopo gli angeli, sono gli uomini. – E come forma di noi, poveri uomini, suoi figli? Forse ci genera della sua sostanza, come l’eterno Figliuol suo? No, sarebbe empietà il dirlo e cosa impossibile: noi siamo creati dal nulla, e chi è creato dal nulla non può essere eguale a Dio. Come dunque? Dio ci fa suoi figliuoli, non per generazione naturale, ma per adozione. Che cosa è questa adozione ? E forse come quella che avviene tra gli uomini? No: l’adozione, che avviene tra gli uomini non mette nulla del padre adottante nel figlio adottato, doveché l’adozione divina mette in noi una forza, una qualità, un elemento divino. – Spieghiamoci meglio. Un pittore ritrae sulla tela una figura, uno scultore effigia sul marmo una statua: che fanno essi? Imprimono sulla tela o nel marmo una immagine: quella immagine donde la traggono? Certamente dalla loro mente, dalla loro anima. Quella immagine, pur rimanendo nella mente e nell’anima del pittore e dello scultore, si è impressa e stampata nella figura e nella statua e forma con essa una cosa sola ed è divenuta l’immagine esterna dell’immagine interna dell’artista, ed in qualche senso si può dire che la figura e la statua sono figlie dell’artista stesso e si chiamano parto del suo genio. Meglio ancora, o carissimi: un maestro ha intorno a sé una bella corona di figliuoli, che l’ascoltano: il maestro li istruisce a poco a poco. Non è egli vero, che il maestro, istruendo quei figliuoli, piglia le cose o verità, che insegna, e mediante la parola, le viene acconciamente travasando dalla propria nella loro tenera intelligenza, senza che egli nulla ne perda? Non è egli vero, che il maestro in tal modo viene ritraendo se stesso nei discepoli, e ponendo in loro ciò che ha di più proprio in sé, cioè le sue idee, la sua mente? Non è egli vero, che in quei fanciulli il maestro ritrarrà se stesso ed essi saranno sue immagini più o meno fedeli e formeranno la sua gioia, la sua gloria? Non è egli vero che quei fanciulli in qualche senso si potranno dire del maestro, perché nello spirito formati a sua immagine? Ciò è sì vero, che i nomi di maestro e di discepolo, di padre e di figlio si scambiano, perché, se non eguali, sono somigliantissimi. – Voi ora potete alcun poco intendere la nostra adozione in figli di Dio, accennata da san Giacomo. Dio ci adotta come figli, ma non mai come un padre adotta un figlio qualunque senza comunicargli nulla del proprio: Dio fa come e più assai del pittore, dello scultore con i lavori delle loro mani, del maestro con i suoi scolari: colla parola comunica alle anime nostre le eterne verità, che emanano da Lui e le stampa in esse per modo che vi restano e diventano la loro forma. Non è tutto: Dio versa nelle anime nostre la sua grazia, specialmente coi Sacramenti: essa le penetra, le investe, come l’acqua, come il calore penetrano i corpi, e le viene trasformando mirabilmente. Come sotto la mano dell’artista la figura e la statua acquistano a poco a poco la forma da lui vagheggiata, e sotto la parola e l’azione del maestro i fanciulli acquistano la fisionomia intellettuale e morale da lui voluta, così sotto la luce della verità evangelica, annunziata dalla Chiesa, e sotto l’azione della grazia interna, che Dio largisce in tanti modi, l’anima riceve l’immagine, i lineamenti di Gesù Cristo medesimo, divien simile a Lui, e si dice ed è figlio di Dio: “Ut filii Dei nominemur et simus”. – Questa adozione, generazione o rigenerazione, che Dio opera in noi, è il capolavoro della sua sapienza, è la sua gloria più bella fuori di sé, e qui S. Giacomo la chiama volontaria — “Voluntarie genuit nos verbo veritatis”,— per distinguerla dalla naturale, necessaria ed eterna, colla quale Dio Padre produce il suo Figliuolo unigenito. La nostra adozione in figli di Dio è dono della bontà sua, tutto suo dono, giacche a tanto onore non aveva diritto di sorta la nostra natura, né potevamo avere ombra di merito. È dunque nostro dovere riconoscere l’alto beneficio ricevuto, ringraziare Iddio e mostrare la nostra gratitudine colla più fedele corrispondenza. Dio, colla predicazione evangelica, ci ha chiamati alla dignità di suoi figliuoli, ed in tal modo, continua S. Giacomo, ci ha fatto l’onore insigne d’essere la primizie dell’opera sua, cioè della sua Chiesa: “Ut simus initium aliquod creatura ejus”. Tutte le cose che esistono in cielo ed in terra sono opere della mano di Dio, perché d’ogni cosa egli è Creatore; ma quelle creature si dicono specialmente sue, nelle quali più bella e più perfetta riluce la sua immagine e somiglianza: tali sono in cielo gli angeli e sulla terra gli uomini, che mercé il Battesimo fanno parte dell’ovile, della famiglia di Gesù Cristo, che è la Chiesa. Questa è la sposa di Gesù Cristo, che Gli genera i suoi figli, ed è l’opera sua per eccellenza. I Cristiani, ai quali S. Giacomo scriveva, erano entrati pei primi in questa Chiesa, primi de’ suoi figli, e perciò meritamente si dicono principio o primizie della sua conquista. Seguitiamo il commento. “Intendetelo bene, o fratelli diletti.„ Con queste parole l’apostolo richiama l’attenzione dei suoi lettori, e fa conoscere che la cosa che vuol dire, è di grande importanza, e lo è veramente nella vita pratica. Sopra, nel quinto versetto di questo capo, S. Giacomo esorta i Cristiani a far acquisto della verace sapienza coll’esercizio della preghiera e della pazienza nelle tentazioni: e qui passa, se ben vedo, a dare tre ammonimenti, che valgono non poco a far tesoro della sapienza: “Ogni uomo sia pronto ad udire, tardo a parlare e lento all’ira. „ Il mezzo più spedito e sicuro per apprendere qualunque scienza e la scienza stessa delle cose divine, egli è di ascoltare quelli che la insegnano. Senza dubbio il leggere i libri che ne trattano, o il meditare da sé le cose, sono mezzi utilissimi per apprendere; ma non tutti hanno tempo, ingegno e volontà ferma per studiare sui libri e meditare da sé e giungere con sicurezza e presto per queste vie al conoscimento della verità, mentrechè tutti possono ascoltare chi le annunzia e impararle con facilità e senza pericolo di errare. Gesù Cristo volendo ammaestrare tutti gli uomini nelle verità della fede non disse agli apostoli ed ai discepoli: Andate, scrivete, dettate libri, ma disse: Andate, predicate, ammaestrate! — E S. Paolo ci fa sapere che la fede viene dall’udito, cioè dalla parola predicata. E questo il mezzo per eccellenza che genera e nutre la fede nelle anime nostre, la parola di Dio. Sia dunque ognuno di voi pronto ad udire quelli che per ufficio vi ammaestrano. La scuola delle verità celesti è sempre aperta a tutti, ed è questa Chiesa; noi, che abbiamo il dovere di annunziarle, faremo del nostro meglio per adempirlo, e voi venite sempre e prontamente ad udirle. Che se dobbiamo essere pronti ad udire, secondo l’apostolo, dobbiamo essere tardi a parlare. — Perché questa differenza tra l’udire e il parlare? Perché coll’udire riceviamo la verità, col parlare la partecipiamo altrui, e prima di comunicare ad altri ciò che abbiamo appreso, si richiede che lo meditiamo attentamente, ed il conoscimento della nostra miseria ci persuade a preferire d’essere discepoli anziché farci maestri, come di sé scriveva sant’Agostino: “Io amo piuttosto imparare che insegnare — Ego plus amo discere quam ducere (Qæest. ad Ducitium). Di Maria non si legge che mai insegnasse se non coll’esempio, e si dice per contrario che ascoltava le parole di Gesù e le meditava in cuor suo: “Conservabat omnia verba hæc in corde suo” (Luca II, 51). Che più? Gesù, che venne per ammaestrarci, tacque fino ai trent’anni, e parlò solo per tre anni. La stessa natura, avverte S. Basilio, fa che dobbiamo essere pronti più ad udire che a parlare, perché se ci ha dato due orecchi, non ci ha dato che una sola lingua (De Verginitate.), e il molto favellare non è senza, colpa, è indizio d’animo leggero e stolto (Multum loqui stultitia est. S. Bernardus, De Interiori domo, c. 50), e recherà danno a se stesso. “Ognuno sia lento all’ira.„ Forse questa espressione si deve collegare colla antecedente in questa forma: Se vuol essere lento all’ira sia tardo a parlare —, e il senso è buono, perché generalmente è la lingua, come più innanzi dice ancora S. Giacomo, come una scintilla che appicca l’incendio, che è fonte funesta d’ogni male, che sparge un veleno mortifero. Ma questa sentenza si può pigliare anche separatamente, e in tal caso essa suppone che talvolta si possa secondare anche l’ira, volendo soltanto l’apostolo che siamo lenti, onde sta scritto: Sdegnatevi, ma non peccate —, cioè sdegnatevi contro il male, ma in guisa che non pecchiate, conservando sempre il pieno dominio sopra di voi stessi. S. Tommaso spiega assai bene questo luogo. Conviene distinguere, secondo il santo dottore, ira da ira. V’è un’ira, che previene la ragione, che spinge ad operare senza riflettere, seguendo la passione, e questa è riprovevole, perché operare senza la guida della ragione non è da uomo, ma da bruto; ma vi è un’ira, che è voluta, che è quasi un aiuto della ragione per operare, ne accresce le forze, e questa è buona; nobile è la santa indignazione, che proviamo alla vista del delitto, è lo zelo dei profeti, degli uomini di Dio, è quella ch’ebbe Cristo medesimo, del quale si dice nel Vangelo, che un giorno, vedendo la perfidia dei Farisei, li guardò con ira: “Circumspexit eos cum ira” (S. Thom. p. 3, q. 15, a. 9). Non sia mai, o dilettissimi. che noi ci lasciamo strappare di mano le redini della ragione e ci rendiamo schiavi neppure per un istante della brutta passione, che è l’ira. Essa stia sempre ai cenni della ragione e a lei non comandi, ma obbedisca, come il destriero ubbidisce al cavaliere. L’uomo, dice lo Spirito Santo, che raffrena l’ira, è più grande del conquistatore, perché vince se stesso.“Il perché, smessa ogni bruttura e malvagità, accogliete docilmente la parola seminata, in voi, la quale può salvare le anime vostre: „ è questa l’ultima sentenza della nostra epistola. Dopo avere esortato i fedeli a stare in guardia contro l’ira, S. Giacomo li esorta in genere a sbandire da sé qualunque passione, la gola, la lussuria, l’avarizia, l’invidia, comprese tutte in quella parola “ogni bruttura, omnem immundìtiam, ogni malvagità, che ribocca, et abundantìam malitiæ.„ E mondato il cuore, nettata l’anima di quelle sozzure, che devono essi fare? Allorché un vaso è purgato d’ogni feccia, lo si può riempire d’ogni liquore che sia buono: così devesi fare del vaso del nostro cuore. Purificato da tutte le immondezze dei peccato e delle passioni che lo insozzavano, con docilità di spirito e con amore, riceviamo e custodiamo in esso la verità e la grazie che sole possono salvare le anime nostre. La mente sia vuota dell’errore e ripiena di verità: il cuore sia sgombro d’ogni affetto sregolato, e come una coppa d’oro vi accolga il preziosissimo liquore dell’amore divino.

Alleluja Allelúja, allelúja Ps CXVII:16. Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja [La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.] Rom VI:9 Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja. [Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joannes XVI:5-14 In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille. árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il príncipe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della domenica IV dopo Pasqua

[Del canonico G. B. Musso- Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

-Dio principio e fine-

“Vado ad eum qui misit me”. Sono queste le parole colle quali il Divin Redentore prese congedo dai suoi discepoli, come ci narra S. Giovanni nell’odierno sacrosanto Vangelo. “Miei cari, più poco mi resta da star con voi, venni al mondo mandato dal Padre mio, ora men vado a Lui che mi mandò, “vado ad eum, qui misit me”.

Oh se queste divine parole potessimo noi ripetere appropriate a noi stessi, in giusto senso di verità! Felici noi. “Io men vado a Colui che mi mandò: Dio è il mio principio, Dio è il mio ultimo fine, da Lui vengo, a Lui mi porto; da Lui vengo come mia prima cagione, mi porto a Lui come mio centro; da Lui vengo per via di creazione, a Lui mi porto per la via dei suoi comandamenti”. Felici noi, lo ripeto, poiché saremo beati nel tempo e nell’eternità. Su questo pensiero io mi fermo, e per animarvi ad apprezzarlo colla mente, e a secondarlo coll’opera, passo a dimostrarvi che Dio è nostro principio, che Dio è nostro ultimo fine, e che nella cognizione di questo principio, e nel condurci direttamente a questo fine, consiste la nostra temporale ed eterna felicità. Di quanto peso sia l’argomento, e quanto debba impegnare e la vostra attenzione, e il mio e vostro interesse, voi lo conoscete, discreti ascoltanti. Diam principio.

.I. Ego sum alpha, et omega … principium et finis” (Apoc. XXII. 13). Così definisce se stesso il grande Iddio nel divino Apocalisse. Io sono di tutte le cose il principio, di tutte le cose il fine. A comprendere come Dio è nostro principio, ponderate questa proposizione. L’uomo non dà l’essere a se medesimo, perciocché dar l’essere a se medesimo involge contraddizione. Se l’uomo ha dato l’essere a se stesso, dunque esisteva, qual necessità di darsi 1’essere? Se poi non esisteva, come fece a darsi l’esistenza? Esisteva adunque al tempo stesso e non esisteva, era e non era, contraddizione manifesta, assurdo madornale, riprovata dal senso comune. Or se 1’uomo non può dare a sé l’esistenza, io domando, da chi egli mai 1’ebbe? Ascendiamo di generazione in generazione, e arriveremo a quel primo uomo da cui cominciò l’umana natura, cioè ad Adamo. Onde se voi mi dite che il primo uomo ebbe per padre un altro Adamo, io vi domando, e quest’altro Adamo da voi immaginato da chi ha avuto principio? Da un terzo, e questi da un quarto, e poi da un quinto, da un centesimo Adamo, e così fino all’infinito; ma questo progredire in infinito è una chimera fantastica, contraria al buon senso ed alla naturale ragione; perciocché convien ridursi a un punto fisso, ad un principio determinato. Questo punto, questo principio è il primo uomo; ma abbiamo veduto che quest’uomo da se stesso non si poté dar l’essere, dunque dovette averlo da una causa preesistente, da un principio eterno, indipendente, necessario, infinito, e questo è Dio. – Intelligenti delle cifre aritmetiche, ditemi se si può dare un numero che necessariamente non presupponga, che necessariamente non parta dal primo numero, qual è l’unità. Qualunque piccolo o grande numero necessariamente è basato sull’unità, come suo principio e fondamento; così che dall’unità comincia, e nell’unità con passo retrogrado conviene che ritorni e si fermi. Non altrimenti tutte le creature necessariamente suppongono una prima causa, un principio, da cui derivano, senza del quale non solo non sarebbero esistenti, ma né pur sarebbero possibili. Questa causa, questo principio è Dio, che da se stesso esiste, che “ab eterno” esiste, che necessariamente esiste, tolto il quale non v’è più creatura esistente, né possibilità di alcuna esistenza. – E perché di questo Dio, dite voi, non abbiamo un’idea chiara e adeguata? E di molte cose sensibili e naturali possiamo aver noi una chiara ed adeguata idea? Chi mi spiega la forza del moto, l’origine de’ venti, il modo onde l’anima è unita al corpo, e come il corpo materiale agisca sull’anima, e questa per mezzo degli organi corporei provi sensazioni or piacevoli, or dolorose, ed acquisti le necessarie nozioni a esulare i suoi moti, i suoi pensieri, i suoi voleri? Chi mi spiega la natura della luce così meravigliosa nella sua velocità, così meravigliosa nei suoi cambiamenti? Conosciamo noi la natura dell’aria, di questo fluido così terribile ne’ suoi fenomeni? Conosciamo l’essenza del fuoco così formidabile nei suoi effetti? Sudano i filosofi nello spiegare queste ed altre meraviglie che offre ai nostri sguardi la natura, ma un sistema di perfetto convincimento resta ancora a vedersi. Se dunque non possiamo penetrare nei segreti dell’ordine naturale, se di queste fisiche cose, delle quali abbiamo vista, tatto ed esperienza, non siamo capaci a formarci un’idea che sia compiuta, quale presunzione sarà la nostra pretendere idee e cognizioni perfette nell’ordine soprannaturale? Uomo meschino, non può fissar gli occhi in faccia al sole, e presume fissarli in volto a Dio? Sarebbe più facile racchiudere l’oceano in un vaselletto, che avere una idea adeguata di Dio; che tra un vaselletto e l’oceano vi à certa proporzione, tra noi e Dio v’è una infinita distanza. A finirla, se di Dio potessimo avere una compiuta idea, una delle due: o Dio cesserebbe d’essere Dio, o l’uomo sarebbe un altro Dio. – Basta che di Dio possiamo avere, come abbiamo di fatto, una cognizione, un’idea proporzionata alla limitata nostra capacità, un’idea giusta, veritiera secondo la retta ragione, e, senza paragone di più, secondo i lumi della rivelazione e della fede. E quale idea più elevata e più sublime di quella che Dio medesimo ci diede della sua esistenza? “Ego sum, qui sum” [Esod. III, 14] disse a Mosè dal misterioso roveto. Io sono quel che sono, vale a dire l’essere per essenza, la pienezza dell’essere, il principio di ogni essere, l’unico e solo che esiste per sua propria natura, ed ogni altro essere non si può dire che esista, mentre da Lui dipende e nella sua origine, e nella sua conservazione, così che tolta una, cessata l’altra, cessa la sua esistenza. – Ecco, o fedeli, la Causa prima, unica, eterna da cui discendiamo. Siam creature d’uno Dio, che colla sua onnipotenza ci trasse dal nulla.Unus est altissimus creator omnipotens[Eccl. I, 8]. Egli è d’ogni cosa il principio, e d’ogni cosa termine e fine. “Principium et finis, primus et novissimus. In questa cognizione ammessa e tenuta per fede, dice lo scrittore del libro della Sapienza, sta la nostra giustificazione. “Nosse te consummata iustitia est[Sap. 15, 3]. Ma questa cognizione esser non dee di puro intelletto, sterile, inefficace, ma una cognizione che muova la volontà, che ci porti a Dio per la via della giustizia, per la strada de’ suoi comandamenti, se vogliamo essere felici nel tempo e nell’eternità.

.II. Il cuore dell’uomo per naturale necessaria pendenza è portato a cercare la propria felicità; onde come l’ acqua corre al declive, come la pietra tende al centro, per simil modo il cuore dell’uomo è sempre in moto, e sempre in cerca d’un bene, ove crede trovare la sua pace, il riposo, la sua felicità. Questa quiete, questa felicità non può trovarsi che in Dio sommo ed unico bene; ma siccome la bontà, come parlano i teologi, è di se stessa diffusiva, così Iddio, Fonte inesausto d’ogni bene sparge varie stille di bene nelle sue creature, in alcune la bellezza, in altre il gusto, in queste il comodo, in quelle il vantaggio; così l’uomo, allettato da queste stille, abbandona sovente il fonte da cui derivano, quel fonte che solo può spegnere la sete dell’uman cuore, che è Dio, fonte d’acqua viva che sale in vita eterna. Avviene allora, all’uomo ingannato, d’incontrare la mala sorte d’una incauta farfalla, che si aggira intorno al lume sedotta dal suo splendore; uomo deluso, dice lo Spirito Santo, simile ai pesci ingannati dall’esca lusinghiera, simile agli augelletti allettati dal pascolo insidiosamente esposto dal cacciatore. – Convien distinguersi. Il nostro cuore è fatto per Dio; se fuor di Dio cerca il suo bene, in pratica resterà convinto che lo cerca dove non è, o che è un bene d’apparenza ingannevole, che non può fare il cuor contento, anzi il più delle volte un bene avvelenato, che affligge l’animo, e cagiona la morte. – Chi più d’un Salomone gustò i piaceri di questa vita, le delizie di questa terra? In quarant’anni di regno pacifico accumulò ricchezze immense, oltre le ereditate del suo padre Davide. La sua sapienza fu superiore a tutti i saggi del mondo che erano e che saranno; fu in altissima stima presso tutt’i popoli nazionali e stranieri, e nel colmo degli onori, e nell’apice della grandezza non negò a’ suoi sensi alcun piacere, né sfogo alcuno alle sue passioni. Lo confessò egli stesso: “Omnia quae desideraverunt oculi mei non negavi eis, nec prohibui cor meum, quin omni voluptate frueretur(Eccl. II, 10) . Questo grand’uomo dunque, questo gran re sarà arrivato al sommo grado della felicità, sarà stato pienamente, perfettamente contento. Per chiarircene, andiamo a trovarlo nel regio suo gabinetto. Osservate com’è tutto occupato da torbidi pensieri, come serio nel volto, come inquieto nell’animo, udite ciò che pronunzia: “La vita mi è di tedio e di peso”, tædet me vitæ meæ (Eccl. II, 17). Leggete ciò che scrive delle sue grandezze e dei suoi goduti piaceri, “vanitas vanitatum, universa vanitas et afflictio spiritus(Eccl. I, 14), tutto è vanità, non basta, è vanità di vanità, non basta ancora, è afflizione di spirito. – Cosi è, così sarà; un cuore che non è con Dio è fuori dell’ ordine da Dio stabilito, e un pesce fuor dell’acqua, e un osso fuor della propria giuntura, in istato di penosa violenza. Signore, il nostro cuore l’avete fatto per voi, e sarà sempre inquieto finché in Voi non riposi. Fecisti nos, Domine, ad te, et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te.” Lasciò scritta questa grave sentenza l’ingegno più acuto che vanti la Chiesa, un uomo, che, oltre l’impareggiabile talento, ebbe trentatré anni di esperienza: Desso è S. Agostino, che passò di accademia in accademia, di setta in setta per trovare la verità che lo convincesse, passò di piacere in piacere, lecito illecito, per trovare la pace del proprio cuore, ma vane furono le sue ricerche; finalmente e la verità e la pace trovò in abbracciare la fede di Gesù Cristo che è la via, la verità e la vita, via a conseguire la pace, verità a mantenerla, vita a goderne nel tempo e nell’eternità. – Questa pace, che cercano e trovano in Dio le anime giuste, oltr’esser la vera, essa anche è stabile permanente; perciocché, soggiunge il citato Agostino, siccome ha per oggetto un bene immutabile qual è Dio, così non è soggetta a disgustose vicissitudini. Chi ripone il suo contento in qualche bene di terra, al mancare questo convien che cessi ancor quello, ma chi lo mette in Dio, essendo eterno l’oggetto, sarà invariabile il suo godimento. “Vir habere gaudium sempiternum? Adhære illi, qui sempiternus est.” Ripetiamolo ancor una volta, “fecisti nos, Domine ad te”. Il nostro cuore è fatto per Dio, fatto per godere Dio, e perciò niun bene creato può appagarlo. Che mai sono i beni dì quaggiù? Onori, ricchezze, piaceri, ma gli onori son fumo, le ricchezze son terra, i piaceri son fango. Come dunque volete che l’anima nostra, nobilissimo spirito, fatto ad immagine di Dio, nel pascersi di fumo, di terra, di fango, trovi la propria felicità? – Me ne appello alla vostra esperienza. Quanto vi costa un piacere proibito, un’illecita soddisfazione; quanto vi tiranneggia una malnata passione; quante gelosie, quanti sospetti, quanti timori che non si scopra quell’amicizia, che non venga alla luce quel furto, quel delitto, quel fallo ignominioso? Se voi trovate la pace e la felicità nel peccato, e perché temete che il vostro peccato si sveli? Perché cercate le tenebre, perché raccomandate il segreto, perche vi copre di confusione il solo spavento che giunga all’altrui notizia? Accordate la pace del vostro cuore con tante apprensioni, con tanti timori, con tanti palpiti, con tanti affanni. Eh via che per i malvagi non v’è pace, non vi sarà mai pace, non può esservi pace. Lo dice Colui che ha fatto il cuore di tutti, lo dice Colui che vede il cuore in seno a tutti, lo dice Iddio: “Non est pax impiis, dicit Dominus Deus” (Isaia LVII, 21). – Conchiudiamo, miei cari. Se vogliamo esser felici di una felicità cominciata su questa terra e poi consumata e perfetta lassù nel cielo, con vivezza di fede riconosciamo Dio per nostro principio, con purità di cuore portiamoci a Dio come nostro ultimo fine. Viviamo ed operiamo in modo da poter dire in vita: Dio è mio principio, da Lui venni per creazione, e a Lui mi porto per la via de’ suoi precetti “vado ad eum, qui misit me”, e da poter ripetere in morte con dolce e fondata speranza, “vado ad eum qui misit me”.

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXV:1-2; LXXXV:16 Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’anima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrificii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quaesumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

Communio

Joann XVI:8 Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja. [Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur. [Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

DOMENICA III dopo PASQUA

DOMENICA III dopo PASQUA

Introitus Ps LXV:1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja. [Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

SALMO

Ps LXV:3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui. [Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli 1 Pet II: 11-19 “Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.” [Caríssimi: Vi scongiuro che, come forestieri e pellegrini vi asteniate dai desiderii carnali, che mílitano contro l’ànima, vivendo bene tra i gentili, affinché, pure sparlando di voi quasi siate malfattori, considerando le vostre opere buone, glorifichino Iddio nel giorno della sua venuta. Siate dunque soggetti ad ogni autorità umana per riguardo a Dio: sia al re come sovrano, sia ai prefetti come mandati da lui per far vendetta dei malfattori, e per onorare i buoni. Perché tale è la volontà di Dio, che facendo il bene chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Comportatevi da uomini liberi, senza però che la libertà vi serva di pretesto alla malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate soggetti con ogni timore ai padroni, non solo ai buoni e clementi, ma anche ai duri. Questa infatti è una grazia: in Gesù Cristo nostro Signore.] R. Deo gratias.

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja. [Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.] Luc XXIV:46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja. [Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen.

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! – Joannes XVI:16: 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

OMELIE

I lett. DOMENICA III DOPO PASQUA

[Mons. Bonomelli: Omelie vol. II – Omelia XIX.]

“Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini, affinché vi asteniate dalle cupidigie terrene, che fan guerra allo spirito. Diportatevi degnamente tra i Gentili, affinché se sparlano di voi, come di malfattori, giudicandovi dalle vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno che li visiterà. Il perché, siate sommessi, per amore del Signore, ad ogni umana istituzione, sia a re, come a sovrano, sia ai governatori, come mandati da lui, a punizione dei malfattori e a lode dei buoni. Perciocché tale è la volontà di Dio, che, operando il bene, imponiate silenzio alla ignoranza di uomini stolti. Come liberi e non pigliando la libertà a mantello di malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, riverite il re. Voi, servi, siate sommessi, con ogni riverenza, ai padroni non solo buoni e discreti, ma anche capricciosi. Perciocché questo è cosa grata, se alcuno per coscienza innanzi a Dio sostiene molestie, soffrendo ingiustamente „ (I. di S. Pietro,, c. II, vers. 11-19).

Due sentimenti affatto contrari provo in me stesso al pensiero di dovervi fare la chiosa delle sentenze, che avete udite, che son prese dalla prima lettera di S. Pietro; il primo sentimento è di vivo piacere, perché le verità che vi si contengono sono ad un tempo di somma rilevanza e pratiche per ogni classe di persone; il secondo sentimento è l’impaccio, nel quale mi trovo di svolgere come si deve ad una ad una queste verità, ciascuna delle quali richiederebbe un discorso. Mi è dunque forza congiungere insieme la brevità e il commento di tutti i nove versetti, che vi ho recitati: mi vi proverò, fidando sempre nella vostra attenzione. – « Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini, affinché vi asteniate dalle cupidigie terrene, che fan guerra allo spirito. „ Io non so dirvi, o fratelli, ciò che sento in cuore, allorché leggo e considero questa parola sì bella “Carissimi”, uscita dalla penna di S. Pietro. — Chi è colui, che scrive ? È il primo Vicario di Gesù Cristo, il Principe degli apostoli, il capo della Chiesa, carico di anni, di dolori e di meriti, già presso al patibolo, sul quale alla corona dell’apostolato si aggiungerà la palma del martire. A chi scrive? Ad alcuni cristiani, poveri, vessati, dispersi qua e là, usciti poc’anzi dalle tenebre del paganesimo e dai pregiudizi ebraici. E Pietro, questo primo depositario delle somme chiavi, lasciategli da Cristo, venerando per la dignità, per l’età, pei patimenti sofferti pel nome di Cristo, sembra quasi dimenticare se stesso, e con la effusione d’un padre, che abbraccia i suoi figliuoli, dice loro: “Carissimi!„ In questa parola si sente battere il cuore del sommo apostolo! Ah! se Pietro teneva coi semplici e poveri fedeli questo linguaggio pieno di affetto paterno, che dobbiamo fare noi? Noi, sacerdoti, noi, pastori di anime, oggi più che mai abbiamo bisogno d’informare i nostri cuori e le nostre parole al cuore, alle parole del primo apostolo! S. Pietro, dopo aver destata l’attenzione e guadagnato l’affetto dei suoi neofiti con quella parola -“Carissimi„- li esorta a considerarsi come stranieri e pellegrini sulla terra. Il pellegrino o straniero, che viaggia verso la patria sua, ricorda sempre d’essere pellegrino e straniero; non si cura delle cose che vede, passando, o appena le degna d’uno sguardo fuggevole, né punto lega ad esse il cuor suo; si sbriga di tutto ciò che lo impaccerebbe nel cammino e si restringe a portar seco solo quel tanto che è necessario e, fissa la mente nella patria, non bada a disagi e pericoli, non perde tempo con quelli che incontra per via, non contende con loro, li saluta cortesemente e studia il passo. — Ebbene: noi tutti, quaggiù sulla terra, siamo pellegrini e stranieri: la nostra patria è il cielo: là soltanto riposeremo: non fermiamoci per via, non leghiamo il nostro affetto a cose, che dobbiamo tosto abbandonare, non carichiamoci dell’inutile peso dei beni della terra, non consumiamoci tra noi con vani litigi, corriamo animosi verso la patria, dove ci aspetta Dio, Padre nostro, dove ci attendono i nostri fratelli, i Santi, dove tutto un giorno sarà pace e gioia purissima ed eterna. Se siete stranieri e pellegrini su questa terra “dovete astenervi – dice S. Pietro – dalle cupidigie terrene”, cioè dall’amore disordinato dei piaceri, dall’orgoglio, dall’ambizione, dalla gola, dalla avarizia, dall’ozio e sopra tutto dalla lussuria, che ritardano il vostro cammino, anzi vi incatenano a questo mondo. – L’anima, che viene da Dio, attratta dalla verità, che brilla in alto, mossa dalla grazia, che dolcemente la porta al cielo, quasi aquila generosa spiega le ali verso l’altezza suprema; ma le cupidigie, i piaceri del senso, quasi fili avvolgenti i suoi piedi, la tengono legata alla terra: rompiamo questi fili, stacchiamo i nostri affetti dalla terra e voleremo al cielo, nel seno stesso di Dio, e cesserà questa malaugurata lotta tra lo spirito e la carne, quello, che ci tira in alto, questa, che quasi palla di piombo, legata ai nostri piedi, ci tiene avvinti a questa misera terra. – Segue un’altra esortazione pratica: “Diportatevi degnamente tra i Gentili. „ I Cristiani devono sempre vivere come esige la loro professione di Cristiani, cioè degnamente e santamente, perché così vuole il loro dovere e così vuole Iddio: ma a questo motivo, che è il primo e principalissimo, altri buoni ed onesti si possono aggiungere; e buono ed onesto è pur quello di onorare la loro fede innanzi agli uomini, e particolarmente dinanzi ai nemici della fede tessa. Qual mezzo più efficace di mostrare la santità della religione, di renderla cara e degna di venerazione e di condurre a lei gli erranti ed i nemici suoi più fieri quanto il mostrarne i benefici effetti in noi stessi? Sta bene metterne in luce le prove con una parola eloquente, ma è molto meglio farne brillare la divina origine nelle opere e nelle virtù. Noi sappiamo che nei primi secoli la conversione dei Gentili, più che alla eloquenza dei grandi apologisti, si doveva alla vita illibata e santa dei cristiani, e perciò S. Pietro scriveva: “Diportatevi degnamente tra’ Gentili. „ Carissimi! ora noi non viviamo, grazie a Dio, tra Gentili, ma tra cristiani; ma quali Cristiani? Assai volte sono cristiani di nome, praticamente ed anche teoricamente miscredenti: sono cristiani di costumi perduti, immersi in ogni sorta di disordini e di scandali. Forse voi stessi avrete amici, conoscenti, congiunti, persone teneramente amate, che hanno perduta la fede, oppure, conservandola, la disonorano con una vita indegna. Volete guadagnarli a Dio? Il mezzo più sicuro è quello di offrire in voi stessi la pratica della religione, di presentare nelle vostre parole e nelle vostre opere il modello del vero cristiano. Spargete intorno a voi nella famiglia, nella conversazione, nella parrocchia il profumo della vita cristiana e a poco a poco ricondurrete sulla retta via gli erranti ed i poveri peccatori. Lo insegna S. Pietro, che va innanzi e dice: “Se i Gentili sparlano di voi e vi tengono come malfattori, quando vedranno le vostre opere buone, daranno gloria a Dio allorché Dio li visiterà, „ cioè li toccherà colla sua grazia. Che cosa è, o dilettissimi, la grazia di Dio? È una visita ch’Egli fa alle anime nostre: le visita col lume della verità, che. ci fa conoscere la verità e il dovere, che ci fa odiare il male, amare il bene: le visita colla grazia, che ci sveglia, ci scuote, ci rimprovera, ci stimola, ci sostiene, ci spinge innanzi nella via della virtù. Felice colui che riceve spesso la visita di Dio, più felice chi l’accoglie e si trattiene con Lui! – È da sapere, che nei primi secoli della Chiesa e al tempo stesso degli apostoli i cristiani erano considerati dai pagani come malfattori, nemici dell’impero e ribelli alle autorità costituite; lo sappiamo da Tacito, da Plinio, da Minuzio Felice, e qui ce lo fa sapere lo stesso S. Pietro : ” Quod detrectant de vobis tamquam de malefactoribus — Sparlano di voi come di malfattori. „ Non v’era delitto, per quanto enorme, che il popolo pagano, ingannato dai tristi, non apponesse ai cristiani, e il più comune e più terribile era quello, che essi disprezzavano le leggi e gli imperatori. – Era dunque natural cosa che gli apostoli respingessero la nera calunnia ed inculcassero pubblicamente il rispetto e l’obbedienza alle autorità civili in tutto ciò che era lecito [Allorché S. Pietro scriveva la sua lettera ai fedeli era già scoppiata o stava per scoppiare quella tremenda rivolta dei Giudei contro i Romani, che fini collo sterminio e colla dispersione di quelli. Presso i pagani troppo spesso Cristiano e Giudeo si confondevano, come apparisce da molti luoghi degli Atti Apostolici. Il fondatore del Cristianesimo era sorto in mezzo ai Giudei ed era Giudeo: i suoi apostoli erano Giudei, Giudei i primi cristiani, e tutta la parte dogmatica e morale del giudaismo era passata nella Chiesa cristiana. Qual cosa più facile per i pagani quanto il confondere i cristiani coi Giudei? Quindi è che lo spirito di rivolta dei Giudei si riputava comune ai cristiani e perciò era doppiamente necessario che gli apostoli separassero la causa dei cristiani da quella dei Giudei in cosa sì grave. Ecco una delle ragioni, per la quale S. Pietro e S Paolo insistono con tanta forza sul dovere che hanno i cristiani di rispettare ed ubbidire lo Autorità politiche e civili ancorché pagane. Si trattava di liberare i cristiani da una accusa e da un pericolo gravissimo in quei momenti supremi.]. – Egli è per questo che S. Paolo nella lettera ai Romani e in questa S. Pietro nei termini più espliciti e quasi identici ricordano ai cristiani questo dovere: “Siate dunque sommessi, scrive S. Pietro, per amore del Signore, ad ogni umana istituzione, sia a re, come a sovrani, sia a governatori, come mandati da Lui, a punizione dei malfattori ed a lode dei buoni. „ Il tempo, che mi è concesso, non mi permette di sviluppare largamente la dottrina del Vangelo o della Chiesa intorno ai doveri che abbiamo verso i poteri della terra, ma ve ne dirò quel tanto che basti all’uopo. Iddio ha creato l’uomo in modo che non può nascere, conservarsi, svilupparsi e perfezionarsi né quanto al corpo, né quanto all’anima se non nella società: prima nella società domestica, la famiglia, poi nella società civile e politica: esso è figlio, è fratello, è cittadino, e come il pesce non può vivere fuori dell’acqua, così l’uomo non può vivere fuori della società. E una necessità imposta dalla natura e perciò da Dio stesso, che ha creata la natura. Ora, o cari, perché gli uomini vivano insieme e i forti non opprimano i deboli e si mantenga l’ordine e la giustizia e si renda a ciascuno ciò che gli si deve, è necessario che vi sia una autorità, un potere, che mantenga quest’ordine e questa giustizia, e che impedisca che gli uni soverchino gli altri e procuri il bene privato e pubblico, ed eccovi l’autorità del padre in famiglia, l’autorità suprema nei tribunali, negli eserciti, nei regni, negli imperi, nelle repubbliche. Ora quel Dio che ha voluto che gli uomini vivano in società e regni la giustizia, ha voluto e deve volere, che vi siano le autorità od i poteri pubblici, che sono il mezzo necessario per conservare la società e far regnare la giustizia. Se voi, o cari, volete che i vostri figli imparino questa o quella scienza, facciano questo o quel viaggio, dovete anche volere, che abbiano i maestri, i libri e il tempo necessario per apprendere quelle scienze, e il danaro indispensabile per fare quei viaggi: è cosa manifesta, perché chi vuole il fine deve volere i mezzi. Se Dio vuole la società, vuole anche l’autorità che la governi: se vuole l’autorità che la governi, vuole anche l’obbedienza di quelli che devono essere governati, e perciò l’obbedienza alle autorità è voluta da Dio ed è un dovere di coscienza, e chi la rifiuta, offende Dio stesso. Ora comprenderete, o dilettissimi, come S. Pietro aveva ragione di dire ai primi fedeli : “Figliuoli, siate soggetti ad ogni umana istituzione, o legge, per amore di Dio, cioè perché lo vuole Iddio [S. Paolo (Rom. XIII, 1 seq.) dice: ” Ogni persona sia sottoposta ai potori superiori, perché non v’è potere se non da Dio, e quelli che sono esistenti, sono ordinati da Dio, a talché chi resiste al potere resiste all’ordine di Dio … È necessario essere soggetto al potere, non solo per timore, ma ancora per la coscienza. „ Vedete perfetto accordo di S. Pietro e di S. Paolo! Quasi le stesse frasi! S. Pietro dice che bisogna ubbidire ai poteri per amore di Dio, propter Deum; S. Paolo “per la coscienza” propter conscientiam. „] Siate soggetti al re, come al sovrano, cioè a colui, che vi sovrasta pel potere stesso. Veramente allora il potere supremo risiedeva nelle mani dell’imperatore, ma san Pietro colla parola “re” volle indicare l’imperatore, e forse lo chiamò re anziché imperatore, perché la parola “re” a lui ed agli Ebrei era famigliare, e nuova quella di imperatore, ma la sostanza è sempre la stessa. Ma ubbidiremo noi soltanto al re, od all’imperatore, od al potere supremo, quando immediatamente ci intima di ubbidire? No: noi ubbidiremo ad esso ed ai governatori, come a delegati da lui a punire i malvagi ed a lode dei buoni. Il potere supremo è come la vita: questa risiede nel capo, come nel suo centro, e di là si spande per tutto il corpo: il potere risiede nel capo o nei capi supremi dello Stato, e di là si dirama in tutti quelli, che variamente ne partecipano: e come il ferire o percuotere una mano od un dito è ferire e percuotere il capo, da cui deriva la vita ed il senso, così rivoltarci contro i poteri inferiori è rivoltarci contro il potere, del quale sono emanazione. Che fare pertanto? Ubbidire a tutti i poteri, per dovere di coscienza, per amore di Dio. Ai sommi, come agli inferiori, perché così vuole Iddio: “Quia sic est voluntas Dei”: lo vuole la necessità delle cose, lo vuole il nostro interesse, lo vuole il timore della pena, lo vuole sopra tutto Iddio! – E qui non vi sfugga, o cari, una osservazione di grande importanza, ed è questa: la fede nostra eleva, nobilita, divinizza il potere, e così eleva, nobilita e divinizza anche la nostra sommissione e la nostra ubbidienza. Ubbidire ad un uomo come noi, forse per ingegno, dottrina, ricchezza e virtù inferiore a noi, è cosa che offende l’amor proprio, che ci umilia, e tale può essere ed è assai volte chi comanda: ma allorché al di sopra di lui io veggo Dio, che così vuole, e mi dice: Ubbidendo a quest’uomo, tu ubbidisci a Me, Re dei re —, sento tutta la mia dignità, e lungi dall’abbassarmi, ubbidendo, mi innalzo: l’uomo del potere è un valletto, che mi porta i comandi di Dio; quello sparisce ai miei occhi e questo solo mi sta dinanzi: come non mi terrei onorato di ubbidire? S. Pietro voleva che i cristiani ubbidissero per coscienza al re, cioè all’imperatore; e chi era quell’imperatore? Sappiatelo bene: era il più scellerato degli imperatori, un vero mostro di crudeltà, uccisore del maestro e della madre sua; che due o tre anni appresso avrebbe fatto mettere in croce lui stesso, Pietro, e decollare il fratel suo nell’apostolato, Paolo: era Nerone. Ma Nerone era pagano! Non importa; Pietro a nome di Dio comanda di ubbidire anche al pagano: il potere sovrano è come un raggio di luce: esso può cadere sopra un diamante come sopra il fango: la luce è sempre luce e non si contamina illuminando le sozzure. Il padre pagano cessa di essere padre perché è pagano, e cessa forse nei suoi figli il dovere di rispettarlo ed ubbidirlo? Un ministro dell’altare potrebb’essere malvagio, empio, miscredente : ma il fulgore del carattere che suggella in lui il potere divino non si eclissa, non si spegne mai; così è il potere sovrano: esso può essere nel pagano, nell’eretico, nell’empio, e noi gli dobbiamo rispetto ed ubbidienza: non è l’uomo, ma Dio che in lui rispettiamo ed ubbidiamo. Ma l’imperatore era legittimo? Legittimo Nerone! Quale domanda! Allora non si facevano siffatte questioni, sempre difficilissime a sciogliersi anche dai dotti. Si diceva soltanto: Questi è l’imperatore: il potere supremo è nelle sue mani: il mio dovere è di ubbidire: il bene pubblico lo esige: non cerco altro, ubbidisco. E in che cosa dovevano ubbidire i cristiani? S. Pietro non determina nulla: vuole dunque che si ubbidisca in ogni cosa fin là dove un’altra autorità superiore dice: Qui comincia il mio regno e qui finisce quello dell’imperatore. — In altre parole: si deve ubbidire all’autorità terrena in tutto ciò che non si oppone alla legge di Dio; a Lui è soggetto ogni potere terreno, e allorché questo vuole ch’io mi ribelli a Dio ed alla sua Chiesa, io gli rispondo: Non ubbidisco a te, ma a Dio, che è mio e tuo Re. — Così fece Pietro con Nerone! E questa la gran regola tracciata dal Principe degli apostoli e costantemente osservata nella Chiesa e che noi custodiremo fedelmente. Con questa sommessione a tutti i poteri della terra voi non solo adempirete la volontà di Dio e farete il bene, scriveva S. Pietro, ma imporrete silenzio alla ignoranza di uomini insipienti. „ Con queste parole S. Pietro chiaramente ci fa conoscere le condizioni difficili e dolorose, nelle quali si trovavano i cristiani, sospettati non solo, ma denunciati pubblicamente come nemici dell’imperatore, sprezzatori delle leggi, pronti alla rivolta. Col vostro rispetto all’imperatore e a tutte le autorità, colla obbedienza alle leggi, voi, diceva S. Pietro, chiuderete la bocca a questi calunniatori, che, non conoscendovi, vi rappresentano come ribelli. – Miei cari! Alcun che di simile avviene anche al giorno d’oggi, nella nostra Italia. Certi giornali, certi scrittori, certi uomini ci designano pubblicamente come nemici della patria, come avversi alle sue istituzioni, alla sua libertà, alla sua grandezza, alla sua indipendenza: questa sì atroce accusa cade particolarmente sopra di noi, uomini di Chiesa. Ma seguendo l’esempio dei primi cristiani e il precetto di S. Pietro, colle opere, col nostro rispetto, colla nostra ubbidienza sincera e costante alle leggi ed alle autorità tutte ci studieremo di mostrare il nostro amore alla patria, e secondo le nostre forze ne procureremo la prosperità e la gloria, perché questo è pure un dovere impostoci da Dio. S. Pietro passa oltre e tocca una verità utile allora, oggi per noi necessaria, e che vorrei fosse da voi tutti debitamente ponderata. Udite: “Diportatevi come liberi, e non pigliando la libertà a mantello di malizia, ma come servi di Dio. „ Voi siete stati redenti da Gesù Cristo, e per Lui avete acquistata la libertà di figli di Dio. Ma che libertà è questa, che Gesù Cristo vi ha data? E la forza di vincere le vostre passioni, di conoscere la verità e rigettare l’errore, di praticare la virtù: Gesù Cristo vi ha chiamati alla libertà del bene, ma non vi ha sottratto ai vostri doveri, non vi ha sciolto dall’obbedienza, che dovete ai principi. Voi a ragione dite: Noi siamo liberi; ma badate bene di non usare della libertà per servire la iniquità, per gettarvi in braccio alle passioni, per coprire la licenza. Oggi la bella e santa parola di libertà per molti vuol dire “mantello di malizia” — “Velamen habentes malitiæ libertatem”.— Vogliono la libertà, ma quale libertà? La libertà di ingiuriare, di calunniare, di opprimere il fratello: la libertà di spargere la discordia: la libertà di scuotere il giogo della autorità paterna e sovrana: la libertà di farsi schiavi della superbia, della gola, dell’avarizia, della lussuria, del peccato. È questa libertà vera, o fratelli? Chiamereste voi libertà quella di potervi strappare gli occhi, di potervi tagliare, le braccia, di potervi togliere la ragione, di potervi gettare in un precipizio? Questo è abuso di libertà, non mai libertà. – Quella è vera libertà, che ci rende padroni di noi stessi, signori delle nostre passioni, che ci affranca dal vizio e dal peccato, che ci fa maggiormente simili a Dio, il quale non può far il male. Allora la nostra libertà è perfetta quando non offendiamo l’altrui, quando adempiamo tutti i nostri doveri, primo dei quali è ubbidire a Dio: Sicut servi Dei. Seguono quattro bellissime esortazioni di Pietro. “Onorate tutti, amate i fratelli, tetemete Dio, riverite il re. „ Il Vangelo fu e sarà sempre il più perfetto codice non solo di morale, ma eziandio di quella che dicesi civiltà ed educazione. Esso vuole che colle parole e colle opere sempre ed in ogni luogo onoriamo sinceramente non pure quelli che per dignità, scienza o per qualsiasi altro titolo ci sono superiori, ma gli eguali ed anche gli inferiori: “Omnes honorate”, prevenendovi gli uni gli altri con quegli atti, che sono segni di stima e di onore, come altrove insegna san Paolo. E onoreremo tutti, se tutti ameremo come fratelli: “Fraternitatem diligite”. Chi ama una persona la onora e vuole che da tutti sia onorata, e l’onore che le rende è sempre in ragione dell’amore. Quei superbissimi e terribili uomini della rivoluzione francese, che scossero tutta Europa e rovesciarono l’ordine antico di cose, scrissero sulla loro bandiera queste tre parole famose: Libertà, eguaglianza, fratellanza. Parole sante bene intese e bene applicate! Quei Titani della rivoluzione avevano l’orgoglio di credere d’aver essi pei primi proclamata la fratellanza universale, ignoravano che diciotto secoli prima S. Pietro aveva scritto: Fraternitatem diligite. — Amate la fratellanza. ” Temete Iddio — Deum timete. „ Temiamo Iddio, perché è infinita maestà e giustizia e non lascia impunita colpa alcuna; temiamo Iddio, non come lo schiavo teme il padrone, ma come il figlio teme il padre suo; il nostro sia timore di offenderlo, un timore misto ad amore. “Riverite il re — Regem honorificate. „ Ripete ciò che disse sopra per mostrare come la cosa gli stia a cuore, e non fa bisogno il dire, che questa riverenza dovuta al capo dello Stato deve manifestarsi nella obbedienza e nella preghiera, che per lui si deve fare, secondo ché S. Paolo comanda nella sua lettera a Timoteo (I. II, 1). – S. Pietro da Dio discende al re e dal re discende ai padroni ed ai servi e, rivolto a questi, dice: “Voi, servi, siate sottomessi, con ogni riverenza, ai padroni, non solo buoni e discreti, ma anche capricciosi. „ Quale insegnamento, o dilettissimi! La condizione dei servi, dirò meglio, degli schiavi, era orribile: potevano essere venduti e barattati come merce; potevano essere maltrattati, percossi ed anche uccisi: la legge non si curava di loro, perché li teneva in conto di proprietà del padrone, che poteva farne quell’uso, che voleva. Voi potete comprendere qual fosse la condizione di questi sventurati, venuti a mano dei padroni pagani, spesso senza cuore. L’apostolo non dice loro: Rivendicatevi a libertà, fate valere la vostra ragione: non avrebbe fatto che rendere più dolorosa la loro sì misera condizione: il Vangelo di Gesù Cristo ha collocato il rimedio dei maggiori mali nel grande segreto della pazienza e della rassegnazione che finisce col vincere e guadagnare gli stessi oppressori. S. Pietro vuole che questi infelici ubbidiscano ai loro padroni, ed ubbidiscano con ogni riverenza, e ubbidiscano ad essi non solo quando sono buoni, discreti, ma anche quando sono puntigliosi, capricciosi, cattivi, perché è questo il miglior modo di scemare i proprii mali e di rendere mansueti e trattabili i padroni. — Servi, dipendenti, che mi ascoltate e che forse talvolta trovate i vostri padroni difficili, duri, indiscreti, esigenti, capricciosi, ingiusti, ricordate le parole di san Pietro e fatene regola della vostra condotta. Il più terribile problema che si affacci alla mente dell’uomo, è questo: vedere la virtù avvilita, tribolata, oppressa, e la malvagità onorata, felice, trionfante. Se non ci fosse la fede, che ci mostra al di là della tomba la giustizia, che infallibilmente sarà fatta, sarebbe da disperare, da maledire la virtù, e ripetere col fiero Romano : “O virtù, tu non sei che un sogno. „ Ma la fede fa scendere dall’alto un raggio della sua luce e ci assicura che Dio un giorno renderà a ciascuno secondo le opere sue, e la ragione si calma, il cuore respira ed il problema è sciolto. Ecco ciò che insegna S. Pietro in quest’ultimo versetto: “Questo è cosa grata, se alcuno per coscienza innanzi a Dio sostiene molestie, soffrendo ingiustamente. „ – Sì, o cari, è un favore del cielo, è una gloria per noi soffrire molestie, dolori e persecuzioni ingiuste per amore di Dio, perché queste saranno il seme che ci frutterà la gioia eterna del cielo!

Omelia sul Vangelo della III Domenica dopo Pasqua

[del canonico G.B. Musso, Vol. II – 1851]

– Recidivi –

   “Miei cari (così Gesù Cristo a’ suoi discepoli nell’ultima cena, come abbiamo da S. Giovanni nell’odierno Vangelo), miei cari, fra poco più non mi vedrete, “Modicum, et non videbitis me”; e dopo un altro poco voi ritornerete a vedermi,” – “Modicuum, et videbitis me”. Attoniti i discepoli a questo parlare si domandano a vicenda qual ne sia il significato, e si protestano di non intenderlo. Fra non molto (dir voleva, secondo alcuni sacri spositori, il divino Maestro) fra non molto verrà l’ora e la potestà delle tenebre, sarà percosso il pastore e disperso il gregge, avverrà quel che più volte ho predetto, il Figliuol dell’uomo sarà dato in man dei gentili, sarà flagellato, deriso, crocifisso, sepolto, e perciò più non mi vedrete, “Modicum et non videbitis me”; ma poi dopo un altro poco, cioè dopo tre giorni, risorto da morte apparirò a voi in Galilea, e di nuovo mi rivedrete, “Modicum, et vìdebitis me”. Questa vicissitudine rinnovano in strano senso colpevole non pochi cristiani. Dicono anch’essi (almeno col fatto) ai lor piaceri, ai lor vizi, in vicinanza di Pasqua o di qualche altra solennità: convien accostarsi ai santi Sacramenti, bisogna lasciar il peccato, male pratiche, giuochi, ridotti, fra poco non mi vedrete. “Modicum, et non videbitis me”; ma siccome ogni cosa ha il suo tempo, dopo poco, passati i giorni santi torneremo a vederci. “Modicum, et vìdebitis me”. Ad impedire, quanto per me sia possibile, questa dannevolissima alternazione dal male al bene, dal bene al male, io vengo a dimostrarvi, che il far passaggio dal peccato alla grazia, dalla grazia al peccato, in una parola , che il ricader nel peccato egli è un delitto, che merita maggior castigo, sarà il primo punto della presente spiegazione; egli è un delitto che porta all’ultimo dei castighi, cioè l’impenitenza finale, sarà il secondo, se mi degnate di attenzione cortese.

I – Il ricadere in peccato merita maggior castigo. Volete vederlo? rammentate Caino, allorché tinte le mani del sangue di Abele, andava fuggiasco sulla faccia della terra. Ahimè, diceva egli preso dall’orrore del suo misfatto, ahimè, chiunque m’incontrerà vendicherà col sangue mio il sangue del mio tradito fratello. No, rispose Iddio, nol voglio. Perciocché ti porrò in fronte un tal segno, in cui ognuno legga il mio divieto. Anzi chi avesse 1’ardire di ucciderti, sarà punito sette volte di più, “punietur septuplum”: ma come? Il primogenito dei presciti uccide il primogenito degli elètti, e non dev’essere ucciso, e l’uccisore di questo scellerato, sette volte di più sarà punito, “septuplum punietur” (Gen. IV, 15)? Adoro, o Signore, i vostri profondi giudizi; ma non gl’intendo. Scioglie la Glossa la difficoltà, per questa ragione, perché sarebbe questi un secondo omicida, del primo assai più reo, “quia est homicida secundus”. E qual differenza passa tra il primo, ed il secondo omicida? Eccola, il primo, cioè Caino, non avea ancor veduta in faccia la morte, né della morte i tristi effetti e le lagrimevoli conseguenze, e perciò in questo senso è meno grave il suo reato. Ma il secondo omicida, dopo aver veduto morto un simile a sé, a terra steso, senza colore, senza moto, senza respiro, e poco dopo putrido, fetente, inverminito, ridotto ad uno scheletro, risolversi poi a dar morte ad un altr’uomo, merita costui di essere più gravemente punito “septuplum punietur”. – Ecco il vostro caso, peccatori fratelli, voi quando la prima volta peccaste per bollore di gioventù, o per impeto di passione, o per debolezza d’animo, o per sconsigliato trasporto, foste in qualche modo degni di compassione e di scusa; ma dopo aver conosciuto che il vostro peccato vi ha ucciso l’anima in seno, dopo aver conosciuto che, secondo la giusta espressione di S. Paolo, avete, quanto è da voi, rinnovata la Crocifissione e la morte al Figliuolo di Dio, dopo aver provato angustie d’animo, reclami della sinderesi, timori della rea coscienza, frutti amarissimi del peccato, dopo averlo detestato e pianto a piè del confessore, a piè del Crocifisso, tornando di nuovo a commetterlo, la malizia si fa maggiore, maggior la gravezza, merita per conseguenza punizione maggiore, “septuplum punietur”. – Fingete che il figliuol prodigo, dopo essere stato accolto fra i dolci amplessi e le tenere lacrime del suo buon genitore, da lui distinto con ricco anello, con abito sontuoso, con lauto banchetto, con i tratti dell’amor più sviscerato, colle rimostranze della più viva allegrezza, si fosse dopo pochi giorni nuovamente partito dalla casa paterna, senza dargli un addio, per portarsi in quei lontani paesi a ricominciare le sue scostumatezze, e consumare le sue sostanze; che avreste voi detto? Figlio disleale? figlio snaturato! Mostro d’ingratitudine! Sarebbero state queste le vostre giuste invettive. Or queste stesse invettive ricadrebbero sopra di voi, se dopo esser tornati a Dio ritornaste al peccato. Voi come il prodigo fuggiste dal Padre celeste, e al par delle sue furono le vostre dissolutezze e le vostre disgrazie. Pentiti poi de’ vostri traviamenti faceste a lui ritorno, ed egli accogliendovi a braccia spiegate, e a cuore aperto vi rivestì dell’abito preziosissimo della grazia santificante, foste ammessi alla sacra mensa, pasciuti delle carni immacolate del divino Agnello, e si fece in cielo gran festa pel vostro ravvedimento, come ne assicura il Vangelo. Se dopo tali grazie e tal finezze voltaste di nuovo a Dio le spalle per ripigliare il primiero costume di vita licenziosa, qual termine potrebbe esprimere la vostra sconoscenza, e qual vi trarreste addosso esemplare castigo! – Ma che dissi sconoscenza? Ingiuria invece, ingiuria atroce, insulto gravissimo. Udite come parla a Dio, colla voce del fatto più esprimente che le parole, chiunque dopo essersi riconciliato con Dio ritorna ai peccati di prima : Signore, ho provato quanto è tristo il mondo, quanto costa lo sfogo delle passioni, quanto è amaro il peccato, e punto da rimorsi, sazio di me stesso e stufo di peccare, sono a voi ricorso ravveduto e pentito. Ho allora sperimentato colla quiete di mia coscienza il bene della vostra amicizia, ho gustato il dolce della vostra grazia. Con tutto ciò mi sento ora nausea del vostro servizio, mi trovo allettato dai miei trascorsi piaceri, voglio di nuovo provare se starò meglio, se sarò più contento con soddisfar nuovamente i miei sensi, i miei capricci, le mie passioni. A tanto affronto, a tanto insulto, lascio a voi considerare, uditori, quale e quanta convenga rigorosa punizione e tremenda vendetta. – Né solo il ricader in peccato merita maggior castigo, ma porta all’ultimo e massimo di tutti i castighi, qual è l’impenitenza finale.

II – Io leggo che tutti i veri penitenti, entrati una volta nella strada della salute, d’ordinario non si sono più voltati addietro. Cosi Adamo, cosi Eva, cosi Davide, così Manasse. Mirate Matteo, mirate Zaccheo, si convertono, fanno restituzioni e limosine, ed usure non più. Piange Pietro, piange la Maddalena, questa abbandona per sempre le sue vanità, quegli abbomina per sempre i suoi spergiuri. Si converte Paolo, da persecutore si cangia in Apostolo, da lupo in agnello, e più non si muta, e compie col martirio l’intrapresa carriera. Si converte Agostino, scrive le sue Confessioni, e versa lacrime sui suoi trascorsi fino all’estrema agonia. Un S. Camillo, un S. Andrea Corsino, le sante Maria Egiziaca, Margherita da Cortona, escono dalla via di perdizione, e non ci metton piede mai più. Volgete l’antico Testamento ed il nuovo, leggete la storia della Chiesa, e vedrete che un vero penitente d’ordinario non cangia più strada, non muta più volontà. Una volontà per l’opposto, che domani ripiglia quel che ieri lasciò, che colla stessa facilità pecca e si pente, si pente e torna a peccare, mostra che la sua conversione non è sincera, ma di sola apparenza; ciò non di meno quest’istessa apparenza va lusingando il peccatore recidivo per modo che, non ostante la sua incostanza, crede una cosa facile passare dal peccato alla giustificazione onde ingannato s’incammina ad un morbo insanabile, che lo porta a morire impenitente. – Insegnano i fisici che una piaga non si può rimarginare se non colla quiete e col riposo, e perciò se avvenga che si apra una piaga nel nostro polmone, difficilmente si può saldare; perché essendo questo sempre in moto giorno e notte, nella veglia e nel sonno, per dare al corpo il necessario respiro, quel moto continuo impedisce che si chiuda la piaga, che congiunta con lenta etica febbre cagiona la morte. Non altrimenti passando voi, recidivi fratelli miei, con un movimento continuo dal peccato alla grazia, dalla grazia al peccato, o per dir meglio dalla confessione alla colpa, dalla colpa alla confessione, questo moto, questa incostanza farà che le piaghe della vostr’anima non possano rimarginarsi, e come avviene agli etici vi lusingherete di sempre star meglio, mentre sarete già marci, già morti agli occhi di Dio, e prossimi a chiudere la vita nell’ impenitenza finale, ultimo e massimo di tutt’i castighi. – Avverrà a voi, che Dio non voglia, ciò che avvenne ad Assalonne. Questo discolo figlio di Davide, dopo aver ucciso il suo fratello Ammone, fugge dall’indignato padre, esce fuori del regno; ma dopo tre anni, mal soffrendo il lungo esilio, tanto si adopra, tanto promette, che finalmente ottiene grazia e perdono. Eccolo di ritorno in Gerusalemme, eccolo nella reggia fra le braccia del genitore, che gl’imprime in volto mille teneri baci. “Post haec(II Re, XV, 1), dopo sì amorevoli tratti chi il crederebbe? Macchina il perfido contro del padre, forma disegni a toglierli la corona di fronte, e gli eseguisce. Già innalzato lo stendardo della ribellione, gli ha contro sollevato tutto Israele, e già coll’armi alla mano s’impegna in sanguinosa battaglia: ma disfatto il suo esercito nella foresta di Efraim, si dà avvilito a precipitosa fuga, passa sul suo destriero sotto una quercia, il vento gli solleva la chioma, s’impaccia questa fra i rami, gli sfugge di sotto il cavallo, ed ei resta in aria sospeso per i suoi capelli: si divincola in questo stato, si vuol liberare, ma non può, ma non vi riesce: vede appressarsi Gioabbo, e come io ne penso, gli avrà detto il cuore un pensiero: “Quegli è Gioabbo mio parente, quegli, che già una volta si è tanto adoprato per riconciliarmi col padre, senza dubbio ei viene a liberarmi: porta in mano una lancia, con quella senz’altro reciderà l’impaccio della mia chioma. Si accosta Gioabbo, e gli trapassa il cuore con tre colpi di lancia. – Cristiani penitenti, già vel dissi, voi avete data la morte co’ vostri peccati a Gesù Cristo vostro fratello, che con questo nome s’è compiaciuto appellarsi. Iddio compatendo la vostra fragilità, mosso dal vostro pentimento, dalle vostre preghiere, dalle vostre promesse, vi ha accordato il perdono, ed abbracciandovi vi ha stampato in fronte il bacio di pace. “Post hæc”, se dopo tratti così amorevoli, vi rivoltate contro un Dio sì pietoso, se armati di peccato gli muovete guerra, aspettatevi pure il tragico fine di Assalonne. Verrà sì, verrà anche per voi il giorno estremo, il punto di morte, in cui, come sospesi tra il tempo e l’eternità, agitati confusi non vi sarà dato di liberarvi dai vostri affannosi timori. Chiamerete allora quel confessore, quel Gioabbo, che già vi riconciliò con Dio: verrà alla sponda del vostro letto; ma sarete in quel punto da tre pensieri, come da tre lance, trafitti. Il pensiero del passato: “Oh! io era in grazia di Dio, feci quella buona confessione, se mi fossi mantenuto a Dio fedele non mi troverei in queste angosce”. Il pensiero del presente: Ecco il ministro di Dio che mi assolve, ma quest’assoluzione sarà forse un colpo per me di pesantissimo sacrilegio. Il pensiero del futuro: Ah! che la spada della divina giustizia mi pende sul capo, e tra poco scaricherà su di me il colpo fatale della giusta sua collera, e della mia eterna condanna. – Ecco l’ordinario fine dei peccatori recidivi. Si rassomigliano costoro al cane, che torna a divorarsi quel cibo che vomitò: “Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum, così nei Proverbi: “Sicut canis reversus ad vomitum [Cap. XXVI, 11], così S. Pietro [2 Piet. II, 22]. Or che sarà di questi sordidi cani? Che ne sarà? Udite S. Giovanni. “Foris canes, et venefici, et impudici[Apoc. XXII, 15], fuori del regno dei cieli, fuori questa razza di cani stomachevoli, che vomitano il veleno de’ propri peccati, e ritornano ad ingoiarlo colla stessa franchezza,foris canes”! – I convertiti per lume celeste, conchiude l’Apostolo, i quali gustarono quanto è dolce star bene con Dio, e di nuovo cadono in peccato, egli è impossibile che si rialzino ad abbracciare un’altra volta la penitenza. “Impossibile est eos, qui semel sunt illuminati, gustaverunt bonum Dei, et prolapsì sunt, rursus reverti ad poenitentiam [Ebr. VI, 4,5,6.]: non già che sia ciò assolutamente impossibile, come insegnano Padri e Teologi. Finché c’è vita, c’è speranza, c’è luogo a perdono; ma la scrittura santa in più luoghi e S. Paolo nel testo citato, si servono della parola impossibile” per significare la grande grandissima difficoltà di risorgere, e di salvarsi per quei che ricadono nel mortale peccato già detestato e pianto. Se questo tuono non ci riscuote, v’è a temere il fulmine che c’incenerisca; che Dio ci liberi! 

Credo…

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps CXLV:2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja. [Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia. [In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio

Joannes 16:16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja. [Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis. [Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

II DOMENICA dopo PASQUA

Introitus Ps XXXII:5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini coeli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini coeli firmáti sunt, allelúja, allelúja [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Petri II:21-25 Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle ànime vostre]. R. Deo gratias.

Omelia

II DOMENICA DOPO PASQUA

[Bonomelli, Om. Vol II, XVII]

Queste poche sentenze si leggono nella prima lettera di S. Pietro. Voi dovete sapere che del Principe degli Apostoli ci rimangono soltanto due lettere, la seconda brevissima, che sono, come potete bene immaginare, un vero tesoro di dottrina sacra. La prima lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, allorché si trovava colà con Marco, suo interprete e scrittore del Vangelo che porta il suo nome, dopo la fuga dal carcere di Gerusalemme, narrata nel capo XII degli Atti apostolici. La lettera fu scritta circa dodici anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, e indirizzata alle varie Chiese già stabilite nell’Asia Minore, nelle provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia e della Bitinia. – L’argomento di questa lettera, somigliantissima in ogni cosa a quella di S. Paolo ai Romani ed agli Efesini, è pratico e semplicissimo. Egli esorta i nuovi credenti, la maggior parte dei quali doveva essere di Ebrei convertiti poc’anzi, ad informare la loro vita secondo i principii del Vangelo, incoraggiandoli a tollerare l’odio, le vessazioni e le persecuzioni colla speranza del premio e a ricambiare i tristi, i nemici colla carità affine di guadagnarli. Premesse queste comuni, ma non inutili osservazioni, è da venire alla interpretazione dei cinque versetti, che sopra vi ho riportati; S. Pietro nei versetti, che precedono, con l’affetto d’un padre amorosissimo esorta quei novelli cristiani, usciti dal mosaismo e dal paganesimo, a nutrirsi, come bambini, del latte della divina parola, a star fermi sulla pietra fondamentale, che è Cristo, a raffrenare le cupidigie, e con una santa vita a guadagnare i pagani; poi ricorda loro il dovere di vivere sottomessi alle podestà della terra: eccita i servi ad ubbidire ai padroni anche cattivi e, se è necessario, a gloriarsi di soffrire ingiustamente. A questo punto pervenuto colle sue esortazioni, S. Pietro, come S. Paolo, mette innanzi ai suoi cari, il grande, l’eterno, l’incomparabile modello di tutte queste virtù, che è Gesù Cristo, e così continua: “Gesù Cristo ha patito per noi, lasciandovi esempio, affinché seguitiate le sue orme”. È egli possibile, o cari, vivere sulla terra ed esercitare la virtù senza patire nel corpo e nello spirito, dal mondo, dai nemici e da noi stessi? No: vivere ed esercitare la virtù vuol dire lottare, e per conseguenza soffrire: chi pensa altrimenti si inganna ad occhi aperti. Ora Iddio, per nostro conforto ed ammaestramento, volle che il Figliuol suo Gesù Cristo ci camminasse innanzi per l’aspra via; Egli ha patito, e più di tutti gli uomini, ed ha patito, non per sé, ma sì per noi, soddisfacendo per noi alla divina giustizia. È questo il primo scopo della Passione e morte di Gesù Cristo, pagare il prezzo dovuto pel nostro riscatto. Noi eravamo colpevoli: ai colpevoli è dovuta la pena, perché la giustizia lo vuole: al nostro luogo si mette l’amabile Gesù, e quella pena, che doveva cadere sopra di noi, cade sopra di Lui, come disse sì bene Isaia: “Disciplina pacis nostra, super eum,” onde il suo patire affranca noi. – Ma la Passione e la morte di Gesù Cristo ha un altro scopo strettamente congiunto al primo, ed è quello di darci esempio nel cammino della Croce. Esortare, incoraggiare altri colla parola a correre animosamente la gran via della croce, è bella e santa cosa, ma facile: mettersi per essa e percorrerla è opera assai più difficile, ma più efficace, e Gesù Cristo la volle compire. Vedetelo: Egli soffre nel corpo, cominciando dalla culla alla tomba: soffre il freddo, il caldo, la fame, la fatica nell’officina, nei viaggi della sua vita pubblica: soffre la povertà e tutto ciò che necessariamente va congiunto colla povertà: soffre le percosse, i flagelli, in una parola, la morte di croce. Ma i dolori del corpo sono ben poca cosa in confronto di quelli che soffre nello spirito. Egli è Dio e l’anima di Gesù, rischiarata perennemente dai fulgori della divinità, vede ogni cosa con perfetta certezza e chiarezza: occhio umano non vide, né vedrà mai più addentro le cose divine ed umane dell’occhio di Gesù. Egli vede l’ignoranza degli uomini, le loro colpe, la malignità dei suoi nemici, le iniquità tutte, che allagano la terra: vede il passato, il presente, il futuro: vede la rovina di tante anime, opera delle sue mani, e per le quali immola se stesso: vede la gloria del Padre suo conculcata: vede la propria dignità e maestà di Figlio di Dio disconosciuta, calpestata. Qual dolore! quale strazio pel suo cuore! Dolore e strazio tanto più crudele ed atroce in quanto che nessuno lo comprende e pochissimi lo raddolciscono, ed Egli è costretto a divorarlo in silenzio: Gesù è veramente l’uomo dei dolori! l’uomo dei dolori continui, intimi, ineffabili nel corpo e nello spirito, e come tale Egli raccoglie sopra di sé gli occhi di tutta questa immensa progenie di Adamo, che va incessantemente dolorando in questa via di esilio e, Lui rimirando, si conforta e apprende come ha da patire. Ah fratelli miei! Se allorché il dolore si aggrava sopra di noi e quasi ci schiaccia non avessimo dinanzi agli occhi questo Gesù l’uomo dei dolori, il re dei martiri, che sarebbe di noi? Rimirar Lui santo, innocentissimo, eppure saziato di obbrobri, agonizzante sulla croce, è sentirci confortati a correre la via dei patimenti, ch’Egli ha segnato col suo sangue! Sappiamo per fede che “Gesù non fece peccato alcuno, né sulle sue labbra fu mai trovata frode.” Con questa osservazione san Pietro rincalza la verità. Noi tutti soffriamo più o meno, ma nessuno di noi soffrirà mai come Gesù Cristo; è già un argomento efficacissimo ad imitarLo: ma vi è di più. Noi soffriamo e alcune volte soffriamo assai. Ma chi siamo noi? Povere creature, e Gesù è il Figlio di Dio! Quale confronto! Non basta: noi soffriamo e sia pure moltissimo. Chi siamo noi? Non solo povere creature, ma peccatori, e se poniamo sulla bilancia da una parte i nostri dolori, e dall’altra i nostri peccati, troviamo che questi di gran lunga superano quelli, e che se Iddio volesse proporzionare i dolori ai peccati nostri, noi ne saremmo certamente schiacciati. Eppure, Gesù che sofferse quel cumulo di dolori atrocissimi, che dicemmo, era santo, innocente, immacolato: ombra di colpa non fu mai, né poteva essere in Lui, perché l’Uomo-Dio non può peccare. Quale incoraggiamento per noi a patire, avendo innanzi agli occhi tanto modello, per noi rei di tante colpe e meritevoli d’ogni supplizio! – Né qui si ferma il Principe degli Apostoli. Dopo d’aver confortati noi peccatori a patire coll’esempio di Gesù innocentissimo, tocca del modo con cui Gesù patì, e in questo pure vuole che ci modelliamo sopra di Lui. “Gesù oltraggiato, non oltraggiava; soffrendo, non minacciava.” Con queste parole il sacro Scrittore credo abbia voluto abbracciare tutta la vita di Gesù, senza alludere a qualche fatto particolare: Gesù fu crudelmente oltraggiato allorché i Giudei più volte e pubblicamente lo dissero amico dei pubblicani e dei peccatori, bevitore, samaritano, posseduto dal demonio, eccitatore di tumulti, nemico di Cesare, malfattore, seduttore, bestemmiatore, peggiore d’un ladrone e d’un omicida; eppure Gesù a tanti insulti, a sì sanguinose ingiurie non oppose che il silenzio e risposte piene di dignità e di mansuetudine: a chi Lo straziava non fece minacce, ma come agnello si lasciò condurre alla morte. Ecco come pativa Gesù, l’innocentissimo Gesù, ed ecco come dobbiamo patire noi pure. Ma che avviene, o cari? che vediamo noi? che facciamo? Troppo spesso alla più lieve offesa, e forse non sempre immeritata, ci risentiamo, leviamo alti lamenti, mettiamo a rumore il vicinato, gridiamo, strepitiamo, vogliamo giustizia, sbuffiamo d’ira, rompiamo in insulti e, non piaccia a Dio, in bestemmie, in imprecazioni! Oh come abbiamo bisogno di meditare il divino modello, Gesù Cristo, che oltraggiato, non oltraggiava, soffrendo, non minacciava! Come è bella, nobile e degna di ammirazione la calma tranquilla e dignitosa del cristiano in faccia a chi lo offende ed insulta! La pazienza e la carità non vietano che domandiamo giustizia e riparazione delle offese ricevute, e in certi casi può essere un dovere l’esigerla, ma è sempre indegno del cristiano rispondere coll’ingiuria all’ingiuria, colle invettive alle invettive. S. Pietro, proseguendo a parlare del supremo nostro modello, Gesù Cristo, dice: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Ponete mente, o dilettissimi, a queste parole: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Esse vi dicono, che Gesù Cristo patì e morì, non forzatamente, ma liberamente: Egli stesso si diede in mano de’ suoi nemici, incatenò, se posso dirlo, la sua onnipotenza, e lasciò che facessero ogni lor volere della propria Persona. L’aveva detto in termini Gesù Cristo: “Io metto l’anima mia per ripigliarla: niuno me la toglie, ma la do da me stesso, ed ho potere di darla e di ripigliarla” (Giov. x, 15 seg.). Non poteva più chiaramente affermare la sua libertà di patire e non patire, di morire e non morire. E invero: se Gesù Cristo non fosse stato perfettamente libero e di patire e di morire, non sarebbe stato perfetto uomo, la sua Passione non avrebbe avuto merito alcuno e sarebbe stato ridicolo il proporlo a noi come esempio da seguire. Chi è colui, in balia del quale Gesù si diede e che Lo giudicò ingiustamente? Accennandosi qui un giudice ingiusto, in singolare, che pronunciò sentenza contro Gesù Cristo, sembra fuor di dubbio che questi sia Pilato. E’ vero, Lo giudicarono Anna, Caifa, i capi del popolo, Erode, e Lo giudicarono ingiustissimamente; ma di quelli, ancorché più colpevoli, S. Pietro non si cura, perché la loro sentenza non poteva essere eseguita, se quella di Pilato non si aggiungeva: onde fu la sua che trasse a morte Gesù Cristo, e perciò di lui particolarmente si parla. — Gesù si commise alla mercé di Pilato, giudice straniero e pagano: in lui riconobbe un potere, che veniva dall’alto (S. Giov. XIX, 11), ancorché ingiustamente ne usasse. – Apprendiamo, o cari, da queste parole di S. Pietro non solo a rispettare l’autorità, in chiunque essa risieda, ma eziandio a soffrire ingiustizie, se questa ce le fa soffrire. Chi mai sulla terra soffrì ingiustizia più scellerata di quella, che Gesù Cristo sofferse da Pilato? Riconosciuto innocente, flagellato, coronato di spine e condannato alla croce: eppure Egli si diede nelle sue mani, limitandosi a dirgli: “Chi mi ha dato nelle tue mani è reo di maggior peccato, perché lo faceva per odio. – Soffrire l’ingiustizia non è approvarla, e noi possiamo bene rispettare l’autorità e condannare i suoi abusi. Lo so, ciò è difficile, perché l’ingiustizia, che si soffre dalla autorità, è congiunta con essa per forma che ai nostri occhi sembra formare con essa una sola cosa: ma pure è necessario non confondere queste due cose se non vogliamo renderci colpevoli. Voi avete o aveste i vostri genitori: l’autorità paterna e materna, che dopo la divina è la prima, era ed è in essi e voi la rispettaste e la rispettate. Se, per sventura vi fosse stato o vi fosse abuso in loro, qual era e quale sarebbe il vostro dovere? Avreste voi il diritto di disconoscerla? Giammai. Voi potreste e dovreste riprovare in cuor vostro l’abuso della loro autorità, ma rispettarla sempre, perché essa è cosa divina. Ragguagliata ogni cosa, è ciò che dobbiamo fare con qualunque autorità, allorché vien meno a se stessa. Nell’antica legge il sommo sacerdote, una volta all’anno, compiva il rito solenne del capro emissario: egli poneva le mani sul suo capo, confessava i peccati suoi e del popolo, e li poneva sul capro, e questo era abbandonato nel deserto (Levit. XVI, 21). Qui S. Pietro accenna a quel rito misterioso, che adombrava Gesù Cristo, il quale tolse sopra di sé, volontariamente i peccati di tutti gli uomini, li portò sulla croce e nel suo corpo, ossia nei patimenti del suo corpo, e nel sangue che sparse li espiò e li cancellò. Egli è il vero Giacobbe, che si copre della pelle del capretto, anzi è il vero capro emissario, che carico dei delitti del mondo [Non è necessario avvertire che più volte nelle Scritture la parola peccato è presa non a significare il reato, il disordine morale, ma l ‘effetto del peccato, che è la pena. Qui si dice che Gesù Cristo portò i peccati nostri sulla croce, nel suo corpo, cioè portò sulla croce ed espiò la pena dovuta al peccato.], esce dal mondo, è sollevato sull’alto della croce, muore come reietto, anzi come maledetto, e in sé riconcilia il cielo e la terra, secondo la frase di san Paolo. Allorché Gesù morì per noi sull’albero della croce e nel suo sangue spense il peccato, noi fummo sciolti dal giogo del peccato stesso, fummo come morti ad esso, e cominciammo a vivere alla giustizia risanati dalle sue lividure. Spieghiamoci meglio. Un uomo è condannato alla morte: un altro uomo innocente, mosso a pietà di lui, si offre a morire in suo luogo: la morte dell’uno è la vita dell’altro: il colpevole, compiuta la giustizia, cessa d’essere colpevole, è riabilitato, è giusto: egli è come morto ai suoi delitti, rivive alla virtù, all’onestà, alla giustizia. Il colpevole è ciascuno di noi; Gesù Cristo si offre a pagare per noi, paga col suo sangue, ed eccoci riabilitati, giustificati, risanati colle sue lividure. – S. Pietro dopo aver messo innanzi agli occhi dei suoi figliuoli il sommo modello dell’amore e del perdono, Gesù Cristo, chiude la sua esortazione, rivolgendo loro queste bellissime parole: ” Voi eravate come pecorelle smarrite: ma ora vi siete rivolte al pastore e al vescovo delle anime vostre.” Voi, pochi anni or sono, eravate ancora Giudei e Gentili; correvate le vie dell’errore: eravate simili a quelle povere agnelle, che si allontanano dall’ovile, ai smarriscono nei fitto d’un bosco o nella immensità del deserto, e che ad ogni istante possono essere sbranate dalle belve feroci: Dio ebbe pietà di voi: vi chiamò, colla sua grazia vi trasse dolcemente a sé, e voi ubbidiste, vi rivolgeste a Lui, al pastore, al Vescovo delle anime vostre. — Gesù Cristo è il Pastore delle anime in quanto le guida ai pascoli della vita, le difende dai lupi che le insidiano: è vescovo [Vescovo “Episcopus”, significa propriamente chi sovraintende ad altri in qualunque ufficio: ora si usa esclusivamente per indicare il Vescovo, il maggiore dei gradi gerarchici], cioè veglia sopra di loro, le regge, le custodisce. Egli fu Pastore e Vescovo degli Apostoli e dei discepoli, dei credenti, finché visse mortale sulla terra, ed è Pastore e Vescovo sempre nella persona di quelli che continuano l’opera sua attraverso ai secoli. Queste parole di agnelle, di pastore e di vescovo richiamano alla nostra memoria i doveri che tutti abbiamo, io vostro pastore, voi agnelle dell’ovile di Cristo. A me i doveri di ammaestrarvi e di camminare innanzi a voi coll’esempio d’una vita irreprensibile: a voi di ascoltarmi e seguirmi: adempiamoli fedelmente e tutti dal Principe dei pastori, dal Vescovo dei vescovi, avremo la nostra mercede.

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV:35. Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia]. Joannes X:14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann X:11-16. “In illo témpore: Dixit Jesus pharisaeis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”. [In quel tempo: Gesú disse ai Farisei: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la vita per le sue pecore. Il mercenario invece, e chi non è pastore, cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, e lascia le pecore, e fugge; e il lupo rapisce e disperde le pecore: il mercenario fugge perché è mercenario, e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e queste conoscono me, come il Padre conosce me, ed io il Padre. Io dò la vita per le mie pecore. E ho delle altre pecore, le quali non sono di quest’ovile: anche quelle occorre che io raduni, e ascolteranno la mia voce, e sarà un solo ovile e un solo pastore].

Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della Domenica II dopo Pasqua

[Canonico G.B. Musso, 1851, vol. II -imprimatur-]

– Gesù Buon Pastore –

   “Ego sum pastor bonus”, dice nell’odierno Vangelo secondo la Volgata Cristo nostro Signore, e secondo il testo greco: “Ego sum ille pastor bonus! quasi dir voglia: “Io son quel buon Pastore veduto in ispirito dai Patriarchi, predetto dai Profeti, e figurato in Abele, in Giacobbe, in Davide, tutti pastori amatissimi della propria greggia”. Il buon pastore mette la vita per sue pecorelle. Ma il mercenario, che non è, e non merita il nome di pastore, al vedere appressarsi il lupo abbandona l’armento, si dà alla fuga, onde il lupo fa strage, rapisce, disperde le spaventate agnelle. E perché pratica così vilmente il mercenario? Appunto per questo che egli è mercenario, prezzolato, a cui le pecore non appartengono, ed altro non ha a cuore che il proprio vantaggio. Io però, che sono il vero e buon Pastore, Io che conosco ad una ad una le mie pecorelle, e da esse son conosciuto, Io per la loro salvezza son pronto a dare e darò la mia vita, “animam meam pono pro ovibus meis”. – Così parla, così dipinge sé stesso l’amorosissimo nostro Redentore. Seguiamo, uditori fedeli, l’evangelica allegoria, e vediamo quanto è mai buono questo nostro divin Pastore, e quanto noi dobbiamo essere sue docili e buone pecorelle. Merita ogni attenzione il dolce argomento.

I – Per il peccato del nostro incauto progenitore Adamo, eravam noi come tante pecore erranti, “omnes nos quasi oves erravimus(Isaia LV, v, 6). Immaginate una greggia percossa e dispersa da fulmine tremendo aggirarsi per balze e per dirupi senza guida, senza pastore, non può questa altro aspettarsi che il precipizio o le zanne del lupo. Tal’era la condizione infelice dell’umana nostra natura, “omnes nos quasi oves erravimus”. Quando il Figliuol di Dio, mosso a pietà di noi, lascia le novantanove pecorelle, ossia, come spiegano dotti Spositori, i nove cori degli Angeli, e viene quaggiù in cerca della pecora smarrita, cioè della perduta umana generazione, e viene, “saliens in montibus transiliens colles”(Cant. II, 8), vale a dire, dal cielo nel seno della Vergine Madre, da questo nella grotta di Betlemme, da Betlemme in Egitto, indi a Nazaret, e finalmente in Gerosolima. Qui osservate com’Egli adempie col fatto quanto aveva già detto colle sue parole, che per la salute delle sue pecorelle sacrificherà la sua vita. Animam mea pono pro ovibus meis”. – Vedete voi quella turba di fanti, di sgherri con faci, con lanterne, con bastoni, con spade avvicinarsi all’orlo degli ulivi? In capo a questa masnada è Giuda traditore. Ecco il lupo. Che fa il buon Pastore in tal cimento? Di sé non curando, pensa soltanto a sottrar dalle loro mani i suoi cari. Va incontro al capo ed alla schiera, e, “chi cercate voi?- dice intrepido e fermo – se Gesù Nazzareno, Io son quel desso, lasciate però andare in pace i miei discepoli”, “sinite hos abire” (Joan. XXVIII, 8). Così avvenne: Gesù resta fra le funi e le ritorte, e i suoi discepoli si salvano colla fuga. – Ecco il buon Pastore in mano dei lupi rabbiosi tratto ai tribunali, legato ad una colonna. Oh Dio! quale ne fanno sanguinosissimo scempio! Ed Egli intanto va dicendo in suo cuore: questo mio sangue laverà le macchie delle mie pecorelle, sarà il balsamo per le loro ferite, sarà il prezzo del loro riscatto, e la morte, a cui mi avvicino, darà ad esse la vita, “animam meam pono pro ovibus meis, et ego vitam æternam do eis(Jonn. X). – Era tanto l’amor di Davide ancor pastorello per la paterna greggia, che qualora orso o leone giungeva a rapire una qualche agnella, armato di tutto se stesso se gli scagliava contro, e ghermitolo per la gola, gli toglieva dalle zanne la palpitante preda. Tanto fece per noi il divino nostro Pastore; con questa differenza però, che Davide acquistò nome di valoroso e di forte, e Gesù Pastor buono, fu computato tra gli scellerati, e qual malfattore crocefisso. – Sembrerà questa l’ultima prova dell’amor di Gesù nostro buon Pastore verso di noi suo gregge avventuroso. Ma no: compiuta l’umana redenzione, rotta la catena della nostra schiavitù, prima di separarsi da noi per ascendere al Padre, udite con quai sentimenti e con qual cuore prende a parlare a Simon Pietro. Simone figliuol di Giovanni, gli dice, mi ami tu più di tutti questi, che qui son presenti? Simon Joannis, diligis me plus his(Joan. XXI)? “Signore – Pietro rispose –  sì che io Vi amo, e voi lo sapete.” – “Se veramente tu mi ami, ripiglia Gesù, dammi prove dell’amor tuo con pascere gli agnelli della mia greggia, “pasce agnos meos”. Ma tu mi ami davvero? soggiugne Gesù per la seconda volta. “Ah Signore – ripete Simon Pietro – Voi vedete il mio cuore, mi protesto che Vi amo”. “Se dunque tu mi ami, pasci i miei agnelli”, “pasce agnos meos”. Con una terza domanda Gesù l’interroga: Pietro, tu mi ami? “Mio Signore – risponde Pietro turbato e confuso – Voi lo chiedete a me? Niuna cosa è al vostro sguardo nascosta, Voi siete lo scrutatore dei cuori: e meglio di me sapete che Vi amo”. “Conoscerò –  conchiude Gesù – il tuo amore per me dalla cura che avrai di pascere le mie pecorelle”, “pasce oves meas”. Breve fu il suono di queste parole, ma a quale e quanto grave senso si estendono! Pietro, parmi dir volesse, tu sei quella pietra, che ho posta per fondamento della mia Chiesa. A te, primo fra i miei Apostoli, e mio vicario, ho dato in modo tutto singolare le chiavi del regno dei cieli, e con esse la potestà suprema di sciogliere e di legare con giudizio irrefragabile pronunziato sulla terra, ed approvato nel cielo. Ma ciò non basta. Ti costituisco da questo istante Pastore universale di tutto il gregge che mi son formato col mio Vangelo, co’ miei sudori, collo sborso di tutto il sangue mio. Tu pascerai non solo i miei agnelli, ma come Pastor dei pastori anche le pecore madri, “pasces oves meas”. Pasci dunque gli uni e le altre con guidarle all’erbe salubri, e ai limpidi fonti. Pasce colla dottrina, colla predicazione, coll’esempio, coi sacramenti: difendi la mia e la tua greggia e da quei lupi, che l’assalgono a viso aperto, e da quei che si ascondono sotto la pelle di agnelli: ad un cuore che mi ama, o Pietro, Io devo affidarla, e non ad altri darne il governo, che a un cuore che abbia dell’amore per me, “pasce agnos meos, pasce oves meas”.

II Che dite, che vi pare, uditori del cuore, dell’amore, della bontà del divino nostro Pastore? Che cura, che impegno, che sollecitudine, che tenerezza per noi! Quale ora dovrà essere la nostra corrispondenza? Ecco, Egli è il nostro buon Pastore, dobbiam noi essere sue fide e buone pecorelle. E come? Egli stesso nel suo Vangelo ce n’insegna il modo. “Oves meæ – dice – vocem meam audiunt(Joan. X. 27). Le mie pecorelle ascoltano la mia voce e l’apprezzano, ascoltano i miei avvisi e li seguono, ascoltano i miei precetti e gli osservano, ascoltano le mie ispirazioni e le accolgono, ascoltano la voce dei miei ministri e la rispettano, ascoltano la parola da loro annunziata e ne profittano. “Oves meæ voce meam audiunt”. È questo un segno, che sono pecorelle del mio ovile quelle anime che ascoltano e si pascono della mia parola letta nei libri, predicata dai pergami; e a tenore delle verità e delle massime ch’essa propone, emendano la vita, regolano il costume, raffrenano le passioni, adempiono la legge, praticano la virtù, edificano il prossimo, santificano sé stesse, “oves meæ vocem meam audiunt”. – Ma che segno sarebbe se invece si ascoltasse più volentieri la voce dei bugiardi figliuoli degli uomini, che promuovono dubbi circa la fede, che spargono massime ereticali, che bestemmiano quel che ignorano? Che sarebbe se più piacessero i laidi discorsi, i motti maliziosi, le favole oscene, le scandalose novelle? Di queste pecore infette, rognose, direbbe Gesù, io non sono il Pastore, esse non appartengono al mio ovile, “non sunt ex hoc ovili”(Joan. X, 16). Le pecore inoltre hanno in sommo orrore il lupo, orror tale, che al solo sentirne gli ululati, sebbene difese da ben chiuso e riparato ovile pure si vedono ritirarsi negli angoli più remoti, e tremar da capo a piedi, tanto è l’orrore e lo spavento di questo loro nemico. È tale, ascoltanti, l’orror vostro, il vostro spavento per il peccato, nemico dell’anima vostra? Ne temete il pericolo, ne fuggite l’aspetto? Buon segno, miei cari, se è così, buon segno; voi siete pecorelle del gregge di Cristo. Perseverate ad odiarlo, ad abbominarlo, e dite sempre col reale profeta: “Iniquitàtem odio habui et abominatus sum” (Ps. CXVIII). – Altra proprietà delle pecore, dice Cristo Signore, è il seguitare il proprio pastore, di cui conoscono la voce e la persona, “oves illum sequuntur” (Joan.). Siamo disposti a seguir l’orme del nostro Pastore Gesù Cristo? Beati noi, arriveremo a buon termine. Chi mi seguita, dice Egli, non cammina fra le tenebre dell’errore, “qui sequitur me, non ambulat in tenebris(Joann. VIII, 12). Ma chi vuol venir dietro a me, convien che neghi se stesso e le proprie voglie, che si addossi la propria croce, e calchi le mie pedate; “Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, tollat crucem suam, et sequatur me(Luc. IX, 23). E che vuol dire, interroga S. Agostino, questo sequatur me? Vuol dire imitare i suoi esempi, “quid est me sequatur, nisi me imitetur? (Tract. 51, in Jo.). Chi corre la vita del piacere non imita Gesù, che va per quella del Calvario. Gli esempi di questo nostro Pastore sono di umiltà e di mansuetudine, di pazienza, di carità; non può esser sua pecorella chi non è imitatore delle sue virtù. – La pecora finalmente dà il latte e la lana come in retribuzione al pastore che la guida, la pasce, la governa e la difende. Gesù buon Pastore, o fedeli, anche Egli vuol da voi, e vi chiede il latte e la lana; ma non per sé. Vi chiede il latte, cioè la cristiana educazione della vostra prole. I sentimenti di pietà, di timor di Dio, di religione, di rettitudine, di onestà, ed altre buone e sante massime, sono quel latte, che dovete istillare nel cuor de’ vostri figliuoli. I salutari avvisi, i saggi consigli, le dolci ammonizioni ai vostri inferiori, ai vostri eguali, anche questo è latte, col quale S.Paolo avea pasciuti i suoi figli rigenerati in Cristo Gesù, lac potum dedi (I Cor. V, 2), e che Gesù aspetta da voi. – Aspetta da voi, e vi domanda anche la lana per coprire tanti suoi poverelli mezzo ignudi, esposti al rigor delle stagioni, tremanti, intirizziti dal freddo. Oh Dio! Se il vostro cuore non si commuove, in vista di tanta miseria, come potete sperare di essere riguardati da Gesù Cristo in qualità di sue pecorelle? Visitate, visitate la vostra casa, aprite i guardaroba, o facoltosi, e vi troverete tante vesti rimesse, quanto per voi inutili, tanto pei poveri necessarie. Per carità coprite Cristo ignudo nei vostri ignudi fratelli. Imitate S. Martino ancor catecumeno, S. Filippo Benizio, S. Giovanni Canzio, S. Tommaso da Villanuova, e tanti altri caritatevoli servi di Dio, che si trassero le vesti di dosso per coprire l’altrui nudità. Contrassegno più chiaro, carattere più certo di nostra predestinazione non vi è di questo, qual è spargere le viscere della nostra carità verso i bisognosi nostri fratelli. – Ma il vestire non basta, conviene anche cacciar la fame, la fame, dico, che fa andar pallidi tanti vecchi cadenti, tante vecchierelle tremanti, tanti storpi impotenti, che fa languire tanti infermi sulla paglia, che fa gemere tante famiglie che non han cuore a mostrar faccia. – Ravviviamo la fede, cristiani miei cari. Nel giorno estremo, nella gran valle saranno dai capri separate le agnelle, e alla destra parte da Gesù benedette; quelle agnelle, dissi, che avranno dato ascolto alla sua voce, che avranno seguito i suoi esempi, avuto in orrore il peccato e dato il latte di cristiana educazione alla prole e la lana a soccorso degl’indigenti. A queste Cristo Signore rivolto in aria dolcissima, “venite a me, dirà loro, voi avete camminato sull’orme mie, voi mi siete stati fedeli, mi avete pasciuto famelico, e coperto ignudo, venite, per voi non son giudice, sono e sarò per sempre il vostro buon Pastore, venite ai pascoli, venite ai fonti di eterna vita, il mio regno sarà il vostro ovile; voi sarete sempre mie, Io sempre vostro. Vogliamo noi, uditori, goder di simile sorte? Siamo buone, fide, docili pecore, e sarà Gesù nostro buono ed eterno Pastore!

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXII:2; LXII:5 Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca]. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio Joannes X:14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

DOMENICA I DOPO PASQUA

DOMENICA I DOPO PASQUA

Introitus 1 Pet II, 2. Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja. [Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,] Ps LXXX:2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen – Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja. [Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus. [Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V:4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  [Carissimi: chiunque è nato da Dio trionfa del mondo; e ciò che ha trionfato del mondo è la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non chi crede che Gesù è figliolo di Dio? È Lui che è venuto per mezzo dell’acqua e del sangue, Gesù Cristo: non nell’acqua solo, ma nell’acqua e nel sangue. Ed è lo Spirito che attesta, perché lo Spirito è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una sola cosa. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono concordi. Se ammettiamo la testimonianza degli uomini, dobbiamo tanto più ammettere la testimonianza di Dio, che è superiore. Ora è Dio stesso che ha reso testimonianza al suo Figlio. Chi crede nel figliolo di Dio ha in sé la testimonianza di Dio.] – Deo gratias.

Omelia sulla lettura.

[Mons. Bonomelli: “Nuovo saggio di Omelie”, Marietti ed. Torino, vol. I; 1899 – Omel. XV]

Di S. Giovanni, oltre il Vangelo, che porta il suo nome, abbiamo tre lettere: le due ultime piuttosto che lettere si potrebbero dire biglietti, perché brevissime, affatto confidenziali e prive d’importanza sia dogmatica, sia morale, sia polemica, e indirizzate a persone private. – La prima lettera, da cui è tolto il brano recitatovi, è di grandissima rilevanza sotto ogni rispetto, e si direbbe un’eco del Vangelo, tanto a quello è somigliante. Quando fu scritta? Prima o dopo il Vangelo? Lo ignoriamo. A chi fu scritta? Questo pure ignoriamo, né di ciò vi è traccia in tutta la lettera: essa non porta indirizzo né a principio, né infine, non saluti, a differenza di tutte le altre lettere, e perciò sembra uno scritto esortativo indirizzato in generale alle Chiese da lui fondate. L’argomento della lettera è stabilire la divinità di Gesù Cristo e la verità della umana natura assunta, contro alcuni eretici gnostici, che cominciavano a negarla, e inculcare la necessità della fede in Lui e la carità scambievole fra i credenti. – Mandati innanzi questi pochi schiarimenti generali sulla lettera di S. Giovanni, poniamo mano alla spiegazione dei versetti, che avete udito. “Quanto è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria, che ha vinto il mondo, la nostra fede!” Che cosa è la terra, o dilettissimi? È un campo di battaglia. Chi sono i combattenti? Da una parte Cristo, coi suoi seguaci, che Lo precedettero, che vissero con Lui e che dopo di Lui vivranno fino al termine dei secoli, continuando l’opera di Lui; dall’altra il demonio, coi suoi seguaci, da Adamo ed Eva fino all’ultimo uomo che vivrà sulla terra. Quali sono le armi, che si adoperano? Dalla parte di Cristo e suoi seguaci: la verità, la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, la purezza, la mortificazione e andate dicendo: dalla parte del demonio e suoi seguaci: la menzogna, l’empietà, l’odio, l’orgoglio, la sensualità, le passioni tutte sfrenate. Tutti gli uomini pigliano posto più o meno in questi due gran campi di battaglia. S. Giovanni, che tratteggia più volte questa gran lotta in tutti i suoi scritti, qui ci fa sapere che tutti quelli che sono nati da Dio [Il testo dice: Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; perché non dice: Chiunque è nato da Dio, ecc.? Credo che quel neutro equivalga propriamente al chiunque, che indica persona; ma forse Giovanni usò il: Tutto ciò ecc. in forma neutra, perché colla persona volle significare tutti i doni della fede, della grazia ecc. che vengono da Dio.), ossia tutti quelli che per il battesimo sono rigenerati e divenuti figliuoli di Dio ed esercitano le virtù proprie dei figliuoli di Dio, che hanno il loro compimento nella carità, come sopra ha detto, vincono il mondo]. – Con questa parola, “mondo”, san Giovanni non intende certo di significare la terra, che calpestiamo, ma gli uomini che vivono secondo le massime del mondo, gli schiavi delle sue cupidigie e, in una parola, i seguaci di colui, che Gesù Cristo stesso chiamò “principe dì questo mondo”, gli uomini malvagi colle loro passioni! – Sì, ripiglia S. Giovanni, spiegando meglio il suo concetto e ripetendo la stessa verità in altra forma: Questa è la vittoria, cioè quelli riportano la vittoria, quelli hanno in mano l’arma sicura della vittoria sul mondo, che hanno la fede: la fede li farà vincitori del mondo. Che fede è questa che ci farà vincere il mondo e le sue passioni? Non certo la sola fede, nuda delle opere, che è morta per se stessa: ma la fede viva, che dalla mente discende al cuore, che dal pensiero si travasa nelle opere, che, secondo l’espressione di san Paolo, opera per la carità. Datemi un uomo che creda fermamente ciò che la fede insegna e ciò che crede per fede pratica colle opere, che al Simbolo congiunga il Decalogo: quest’uomo naturalmente disprezzerà il mondo, respingerà le sue lusinghe e calpesterà i suoi piaceri colpevoli: quest’uomo, ossia la fede di quest’uomo vincerà il mondo: “Hæc est Victoria, quæ vincit mundum, fides nostra”. – Né di questa sentenza si appaga S. Giovanni, ma la ribadisce nel versetto seguente in forma d’interrogazione e piena di energia: ” Chi è mai colui che vince il mondo, se non chi crede che Gesù è il Figliuolo di Dio? Come se dicesse: Nuovamente e più fortemente l’affermo: solo colui che crede ed opera conformemente alla fede, vince il mondo: a chi non crede è impossibile vincere il mondo. E questa fede, o Giovanni, in chi si appunta? In Chi si compendia? Da chi trae origine e forza? In Gesù Cristo, autore e consumatore della fede, come scrive S. Paolo, “autore”, perché viene da Lui, “consumatore”, perché Egli solo ci dà la forza di attuarla nelle opere, Gesù Cristo, che è il Figliuolo di Dio! Accenna con questa espressione al fondamento di tutta la nostra fede, che è la divinità di Gesù Cristo. Perciò badate che S. Giovanni non dice già che — Gesù è Figliuolo di Dio — ma sì “che è “il” Figliuolo di Dio”, cioè Figliuolo per eccellenza, Figliuolo unico, Figliuolo proprio di Dio, a Dio Padre consustanziale. Scolpitevela bene addentro nel cuore questa verità, o cari: Gesù Cristo è Dio ed Uomo, vero Dio e vero Uomo: se voi togliete in Lui la divinità, non vi resta che l’uomo, è distrutta la redenzione, perché un uomo non poteva riscattarci dal peccato, non poteva soddisfare la divina giustizia, cade tutta la sua autorità, e noi ci troviamo ai piedi d’un uomo, siamo adoratori di un uomo, il massimo dei delitti. Crediamo dunque che Gesù è il Figlio di Dio, Dio come il Padre, ed uniti a Lui, saremo forti della sua forza, e come Egli ha vinto il mondo, così lo vinceremo noi pure. – Gesù Cristo è il Figlio di Dio, vero Dio! Ma come lo sappiamo noi? Come si è provato tale? Ascoltate S. Giovanni: “Gesù è il venuto per acqua e sangue”. Come per acqua? Lascio alcune interpretazioni date e mi attengo a quella che mi sembra più chiara, più naturale e meglio fondata. Gesù, allorché ricevette il battesimo al Giordano, ricevette la solenne testimonianza dal Padre, che disse: ” Questi è il Figliuolo mio diletto, in cui trovo tutte le mie compiacenze: Lui ascoltate” [Alcuni vogliono intendere quelle parole ” E venuto nell’acqua, pel battesimo, cioè viene in noi col battesimo. Ma le parole del versetto 9° non lo permettono, perché là si parla di testimonianza resa a Gesù, la massima, quella del Padre]. – Testimonianza splendidissima ripetuta colle stesse parole nella Trasfigurazione. Ma Gesù è anche il venuto nel sangue, cioè nella passione e morte, che non si può disgiungere dalla risurrezione, nella quale provò luminosamente ch’ Egli era Dio, signore della morte e della vita. E qui S. Giovanni, quasi per ribadire la cosa, ripete: Gesù è il venuto [È da osservare quel modo di dire assai efficace : “Il Venuto”, come si ha nel greco, che designa Gesù Cristo come il Messia, “Il Venuto” per antonomasia], non nell’acqua soltanto, ma nell’acqua e nel sangue: ha provato ch’Egli era Dio nel suo battesimo di acqua e nel battesimo del suo sangue, coronato dalla sua gloriosa Risurrezione. Alle prime due prove tiene dietro la terza, dicendo: “E lo Spirito attesta, che Cristo è la verità”, cioè è veramente il Figlio di Dio! E che vuol dire in questo luogo S. Giovanni? Nel Vangelo (Cap. XV, vers. 26) S. Giovanni riferisce queste parole dette da Gesù nell’ultima Cena: “e quando verrà il Paraclito, che vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, Egli farà testimonianza di me”, vale a dire, “vi farà conoscere che Io sono il Figlio di Dio”, Gesù Cristo dunque afferma che la venuta dello Spirito Santo sarebbe stata una prova, una solenne testimonianza della sua divinità, ed è quella notata dallo stesso S. Giovanni nella sua lettera. Onde per conchiudere in poche parole le sentenze di S. Giovanni, noi dobbiamo tenere che Gesù Cristo ci mostrò la sua divinità nel suo Battesimo al Giordano, nella sua Passione, morte e risurrezione, e finalmente nella venuta dello Spirito Santo, nella trasformazione degli Apostoli e nella fondazione della Chiesa. E non erano quelli miracoli solenni, strepitosissimi, che mostravano la sua divina potenza? Non cadevano sotto gli occhi di tutti? Non si potevano verificare da tutti colla massima facilità? – S. Giovanni, proseguendo, fa cenno d’una analogia e mette innanzi un paragone per confermare la sua sentenza, e il paragone è questo: “Poiché son tre, che attestano in cielo: Padre, Verbo e Spirito Santo, e questi tre sono una cosa sola; e tre sono quelli che attestano in terra, lo Spirito, 1’acqua ed il sangue, e questi tre riescono ad una sola cosa”, E volle dire: Il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo colle loro manifestazioni esterne dal cielo hanno attestata e comprovata la missione divina di Gesù Cristo, e come le tre divine Persone sono una sola cosa, una sola essenza o sostanza, così la loro testimonianza esterna si unisce e si concentra in una sola, attestando la stessa verità, così le tre grandi manifestazioni esterne, ad intervalli succedute sulla terra e accertate dagli uomini, al Giordano, nella passione, morte e Risurrezione di Gesù Cristo, e nella venuta dello Spirito santo, tornano allo stesso, raffermano la medesima verità, e mettono in luce la divina origine e missione di Gesù Cristo. – Allora si comprende ciò che S. Giovanni soggiunge nel seguente versetto: “Se noi accettiamo la testimonianza degli uomini, maggiore è la testimonianza di Dio: e la testimonianza di Dio è quella, con cui ha attestato intorno al Figliuol suo”. Se noi accettiamo, e dobbiamo accettare, la testimonianza degli uomini degni di fede, e credere quello ch’essi affermano, a maggior ragione dobbiamo accettare la testimonianza stessa di Dio che dal cielo ripetutamente attesta intorno a Gesù Cristo, e ci assicura ch’Egli è il Figlio dell’Eterno. Insomma il sacro Scrittore ci mette innanzi tre Testimoni in cielo e tre sulla terra: i tre Testimoni in cielo sono le tre divine Persone distintamente nominate e che sono una sola cosa o natura; e i tre testimoni sulla terra, pure nominati, spirito, acqua e sangue, siano fatti, siano persone, cospiranti nella stessa cosa e affermanti anch’essi sulla terra ciò che le tre Persone attestano dal cielo. Voi vedete, o cari, che non si poteva esprimere in forma più precisa e più netta il grande mistero della augusta Trinità. S. Giovanni proclama che sono tre le Persone divine, Padre, Figlio, o Verbo, e Spirito Santo, e che queste tre Persone sono una cosa sola od unica essenza. È quel mistero, che abbiamo imparato bambini sulle ginocchia della madre e al catechismo in chiesa; che abbiamo professato la prima volta che facemmo il segno di croce, e nel quale e pel quale fummo rigenerati nel Battesimo e accolti nel grembo della Chiesa. Questo mistero trascende le forze della nostra povera ragione, è vero; ma Dio lo ha rivelato chiarissimamente, la Chiesa lo professa come una delle verità fondamentali della fede, e noi lo dobbiamo tenere con tutta fermezza. Sappiate poi anche, o dilettissimi, che se la sola ragione non può dimostrare e conoscere questa verità colle sole sue forze, nondimeno essa, studiandolo, vi trova tanta convenienza, tanta luce, tante armonie, che per poco ne è rapita ed è costretta ad esclamare: “la santa Trinità delle Persone nella unità della essenza, è mistero, mistero altissimo, ineffabile, ma non solo non offende la ragione, la illumina, armonizza con essa, getta un riverbero di luce su tutto il creato, specialmente sulla natura dell’uomo: la S. Trinità è un mistero per la ragione umana, ma sarebbe più grande mistero il non ammetterlo”. Crediamo adunque, o cari, sì alto mistero, crediamolo colla semplicità, con cui lo credevamo fanciulli, persuasi che, se supera le forze della ragione, ad essa non si oppone, anzi ad essa mirabilmente consuona. – Siamo all’ultima sentenza del nostro commento: “Chi crede nel Figlio di Dio, ha in se stesso la testimonianza di Dio”. Chi legge e medita alcun poco le sante Scritture e particolarmente gli scritti di S. Giovanni, sa bene, che la stessa verità si ripete spesse volte, o, dirò meglio, la si presenta sotto varie forme, sia per inculcarla meglio, sia per farcene vedere tutti i lati, che non sempre si affacciano subito sotto una sola forma. E ciò, se non erro, accade in questo versetto, nel quale conferma e si svolge meglio ciò che sopra è detto. Chi crede nel Figlio di Dio, chi per fede viva, salda ed operosa unisce la sua mente e il suo cuore a Gesù Cristo, Figlio di Dio, forma quasi una cosa sola con Lui, ed ha in sé, come un germe, la verità e la vita eterna, che poi a suo tempo si manifesterà in tutta la sua pienezza; possiede colla grazia e colla fede viva Gesù Cristo stesso, del quale San Paolo ebbe a dire, che, “Cristo abita in noi per la fede”. – Osservate di grazia, o dilettissimi: se voi tenete stretto alla vostra persona, p. es. un corpo qualunque odoroso, un mazzo di fiori, non è egli vero, che voi partecipate della loro fragranza finché ad essi vi tenete uniti? Ciò che avviene del nostro corpo avviene altresì della nostra mente e del nostro cuore. Se noi colla mente ci teniamo fermi alle verità della fede, e colla nostra volontà le veniamo attuando nelle opere, la nostra mente e la nostra volontà si abbelliscono della bellezza di quelle verità, e quasi direi rimangono imbalsamate della fragranza della grazia, e si trovano necessariamente unite a Lui, dal quale vengono la verità e la grazia, che è Gesù Cristo stesso. Allorché voi pensate al padre, alla madre, all’amico lontani e li amate, non è egli vero che in qualche modo il padre, la madre, l’amico sono nella vostra mente e nel vostro cuore? Lo dite voi stessi: “Noi li abbiamo in mente, li teniamo sempre nel nostro cuore”. — È ciò che insegna S. Tommaso. E in questo senso che si dice Gesù Cristo abitare in noi, Dio dimorare in noi e spandersi in noi lo Spirito di Lui, e noi diventare suoi templi, sue membra, e partecipi della divina natura. – Vedete, o cari, un granello, che è affidato alla terra: sembra che voi, possedendo quel piccolo granello, non possediate che quel piccolo corpicciuolo, cosa da nulla per se stesso; ma aspettate alcuni mesi, lasciate compiere alla natura il suo occulto lavorìo. Che è avvenuto? Il granello è cresciuto e, fatto pianta, ha prodotto i suoi fiori e finalmente i suoi frutti che cortesemente ci porge, curvando sotto essi i suoi rami. Eravate possessori d’un solo granello, e più tardi siete possessori d’una pianta e di molti saporosi frutti. Così noi, o dilettissimi: ora, qui in terra possediamo il granello della fede, la radice della carità; un giorno troveremo che il granello è diventato albero carico di frutti di vita eterna. E quando verrà questo giorno? Quando, chiudendo gli occhi a questa luce del tempo, li apriremo alla luce della eternità; quando, addormentandoci la sera qui sulla terra, ci sveglieremo al mattino in cielo!

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII:7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam. [Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.] Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja. [Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen.

Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Gloria tibi, Domine! – Joannes XX:19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – [In quel tempo, la sera di quel giorno, il primo della settimana, essendo, per paura dei Giudei, chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, venne Gesù, si presentò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! E detto ciò mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. Ed egli disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi. E detto questo, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li riterrete, essi saranno ritenuti. E uno dei dodici, Tommaso, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Ora gli altri discepoli gli dissero: Abbiamo visto il Signore. Ma egli rispose loro: Non crederò se non dopo aver visto nelle sue mani la piaga fatta dai chiodi e aver messo il mio dito dove erano i chiodi e la mia mano nella ferita del costato. Otto giorni dopo i discepoli si trovavano di nuovo in casa e Tommaso era con loro. Venne Gesù a porte chiuse e stando in mezzo a loro disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito, e guarda le mie mani; accosta anche la tua mano e mettila nel mio costato; e non voler essere incredulo, ma fedele. Tommaso gli rispose: Signore mio e Dio mio! E Gesù: Tommaso, tu hai creduto perché mi hai visto con i tuoi occhi; beati coloro che non vedono eppure credono. Gesù fece ancora, in presenza dei suoi discepoli, molti altri miracoli, che non sono stati scritti in questo libro. Queste cose sono state scritte, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo, abbiate vita nel nome di lui.] – R. Laus tibi, Christe!

Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

OMELIA

Omelia della Domenica in Albis e I dopo Pasqua

[Canonico G.B. Musso, Ed. napol. 1851, vol. I -imprimatur-]

-Dio si vede-

   Allorché Gesù Cristo risorto, glorioso trionfatore della morte e dell’inferno, apparve a porte chiuse ai suoi discepoli, ove erano congregati, non era con essi Tommaso; ed eglino al suo arrivo presero a narrargli la prodigiosa comparsa del divino Maestro, l’annunzio di pace, la vista delle sue mani e del suo lato, ed il gaudio di cui erano stati ripieni: ed egli, “se non vedrò, disse, nelle sue mani l’apertura dei chiodi, e nel suo lato quella della lancia, ed entro non vi porrò il dito e la mano, alle vostre parole non presterò fede”. Per guarire l’incredulità di Tommaso si degnò comparire per la seconda volta il buon Redentore, ed entrato a porte chiuse, ov’era Tommaso con tutti gli altri discepoli, annunziata di nuovo la pace, rivolto a Tommaso, “ecco, disse, le mie mani, ecco il mio fianco, appressati, e metti pure e dito e mano nelle mani mie, e nel traforato mio petto, e cessa d’essere incredulo, e impara ad essere fedele”. Tommaso allora, “io credo, esclamò, voi siete il mio Signore e il mio Dio”. – “Dominus meus, et Deus meus”. “Ah Tommaso, ripigliò Gesù, tu credi, è vero, ma dopo aver veduto: beati coloro che senza il testimonio de’ sensi credono alla rivelata verità”. Ma l’apostolo Tommaso, entra qui S. Gregorio magno (Hom. 26 in Evang.), non fu del tutto incredulo. Altro fu ciò che vide, altro ciò che credette. Vide e palpò l’umanità del suo Signore, ma confessò credendo la sua divinità, che veder non poteva – qui facciam punto, uditori umanissimi. Qual fu quella di San Tommaso, nel senso del citato Gregorio, tale desiderio che sia la vostra fede. Dalle create cose che sono sotto i vostri occhi, io vorrei che ascendeste a vedere quel Dio che le trasse dal nulla. Questi ingannati figliuoli degli uomini van dicendo, che Dio non si vede! Dio non si vede da chi veder nol vuole; ma dalla vista di tutto il creato si vede Dio, come lo vide Tommaso dalla veduta umanità del Salvatore. Dio dunque si vede, che mi accingo a dimostrarvi, se mi seguite cortesi con tutta attenzione. – Dio si vede! Non parlo d’Abramo, che vide per lume superno nella pienezza dei tempi Iddio liberatore, e il giorno in cui doveva spuntare per la salvezza del mondo. “Vidit et gavisus est” (Ioan. VIII, 56). Non parlo di Isaia, che vide il Signore assiso su di un trono sublime, adorato da tutte le angeliche intelligenze. Non parlo dell’evangelista S. Giovanni, che estatico Lo contemplò nell’isola di Patmos, né di tanti altri profeti che in simboli Lo videro, e in misteriose figure, e perciò si chiamarono veggenti. Cessate son le profezie, i simboli, le figure, Iddio ora in altro modo si vede. Si vede non con gli occhi del corpo, ma con quelli dell’intelletto. Cogli occhi del corpo né si vede, né veder si può, perché Iddio, purissimo spirito, affatto esente dalla materia, non è oggetto proporzionato all’organo materiale degli occhi corporei. Se alcun di noi volesse veder con gli occhi il suon di un musicale strumento, o veder con le orecchio una statua, una pittura, si renderebbe ridicolo. Agli oggetti diversi vanno applicati i diversi sentimenti del corpo, e perciò siccome con l’occhio non può vedersi il suono di una cetra, lo squillo di una tromba; così con l’occhio stesso non si può vedere Dio, perché oggetto non proporzionato a quest’organo, perché spirito affatto immateriale, purissimo, semplicissimo. – Se Dio però è necessariamente invisibile all’occhio corporeo, agli occhi della mente Egli è visibilissimo. Quante cose da noi si vedono coll’intelletto, sebbene non si vedano cogli occhi del corpo! L’anima puro spirito non è visibile agli occhi nostri, e pur si vede cogli occhi dell’intelletto e della ragione. Per adattarmi alla capacità di tutti, portiamoci col pensiero ai piedi del soglio di Salomone. Ecco qui due madri che contrastano per due bambini, uno vivo e l’altro estinto. Ditemi in qual di questi due si trova l’anima? In questo corpicciuolo pallido, freddo, contraffatto? Non già. In quest’altro, voi dite, rubicondo, vezzoso, qui è l’anima che gli dà vita, grazia e movimento. E come osate ciò asserire, se l’anima non è visibile, se non la vedete? La vediamo ben chiaro nel colore del volto, nella vivacità dello sguardo, nel riso, nel moto, nel gesto. – Voi vedete la faccia altrui, dice S. Agostino (Tract. 75 in Joan.), e non vedete la vostra. Per l’opposto voi non vedete l’altrui coscienza, l’intenzione, il pensiero altrui, e pur vedete la coscienza vostra, il vostro pensare, le vostre affezioni, le vostre tendenze, e quanto si aggira nella vostra mente, nella vostra memoria, nel vostro cuore. E come vedete tutto ciò? Colla vista intellettuale della vostra anima ragionevole. Si presenta al vostro sguardo una nave, dice il romano oratore, che in alto mare appena spunta sull’orizzonte: vedete che al variar dei venti, varia le vele, che si tiene salda contro i flutti, i turbini e le procelle, che a tenor dell’arte nautica regola il proprio corso, e voi dite: quella nave è ben governata da bravo nocchiero. Se foste richiesti, come potete asserire, che sta al governo di quella nave un esperto nocchiero che non si vede, e appena da voi si scopre la nave stessa? “Lo veggio, francamente risponderebbe ciascuno di voi, lo vedo con gli occhi di mia facoltà intellettiva, coll’uso della mia ragione, la quale mi insegna essere cosa impossibile, che quella nave fra tanti e così diversi accidenti di mar tempestoso, di fieri contrasti, di minacciose procelle, possa tenersi forte, e così ben regolare il suo corso, senza la mente, la mano, la direzione di un valente pilota”. – Così premesso e ben inteso, ritorniamo al nostro argomento. Sono presso a sei mila anni che esiste questo globo terraqueo, equilibrato sopra se stesso in mezzo all’aere. Sono anni altrettanto che il sole, ogni giorno, secondo la frase dell’Ecclesiaste, spunta dall’oriente, tramonta all’occaso, si aggirano sul nostro capo la luna, le stelle, i pianeti. Or io domando: chi ha dato il moto a questi corpi di mole immensa? La materia per se stessa è inerte, non può mettersi in movimento senza impulso d’un estrinseco agente. Questo agente si deve necessariamente supporre che abbia in sé una innata virtù di dare ai corpi il moto, senza bisogno di altro movente, per non risalire ad una successione infinita, ch’è un assurdo che offende il buon senso, e ripugna alla ragione. Questo libero agente dunque è una prima cagione, eterna, che esiste da sé, che a quei corpi materiali, ai quali è dato l’essere, diede ancora il movimento, e questo primo Agente, e questa causa motrice è Dio. Son presso a sei mila anni che la terra si veste di erbe, si adorna di fiori, biondeggia di spighe, e di tanti frutti è feconda; erbe e frutti che agli uomini, ai quadrupedi, ai volatili, ai rettili, somministrano opportuno alimento; erbe e frutti che in se stessi conservano i semi, onde riprodursi e moltiplicarsi a pro di tutte le creature viventi. Domando or di nuovo: “chi ha introdotto al mondo questa tanto ben ordinata armonia tra cielo e terra, tra elementi e piante, tra stagioni e stagioni, tra uomini ed animali? Chi è l’Autore d’un ordine così sorprendente? Chi lo mantiene con tanta costanza, che il corso di tanti secoli non ha potuto alterare d’un punto?” Se così asserite, perché non affermate altrettanto allorché con stupore ammirate la struttura magnifica d’un superbo palazzo? Perché lodate il saggio architetto? Perché non dite piuttosto che è spuntato da terra a guisa d’un fungo? Perché incontrandovi con un bel quadro encomiate l’eccellente pittore, e non attribuite invece l’egregio lavoro ad un accidentale rovescio di colori, così a caso accozzati? Possibile che in tutte le opere dell’arte si ravvisi un autore, e non si riconosca poi in tante meraviglie, che ci presenta la natura? – Leggete il gran libro del mondo, come lo leggeva un S. Antonio Abate. Nel mare, ne’ fiumi, ne’ monti, nelle piante, ne’ fiori, riscontrava egli le orme parlanti d’una Sapienza creatrice, che il tutto regge, che governa il tutto a benefizio dell’uomo, e che alla sua provvidenza per le necessità dello stesso unisce il comodo che lo solleva, il gusto che lo conforta, il bello che lo ricrea. – Dalla grandezza delle create cose, dice lo scrittore della Sapienza, e dalla loro bellezza è facile conoscere e vedere in quelle il volto e la mano del Creatore che li formò. A magnitudinis speciei, et creaturæ cognoscibiliter poterit Creator horum videri!” (Sap. XIV). L’essenza di Dio, soggiunge S. Paolo, l’onnipotenza, e tutti gli altri suoi infiniti attributi sono al nostro sguardo invisibili, ma dall’uomo ragionevole, per mezzo delle cose create, se ne acquista l’intelligenza, e coll’intelletto si conoscono e vedono. Invisibilia ipsius a creatura mundi, per ea quæ facta sunt, intellecta conspiciuntur(Rom. I, 20). Si conosce da questo, prosegue lo stesso Apostolo, l’eterno potere, e la divinità di Colui che le produsse, sempiterna quoque eius virtus, et divinitas; così che coloro che veder non vogliono si fan rei di una cecità inescusabile, ita ut sint inexcusabiles”. Fin qui l’Apostolo delle genti. Queste divine cose invisibili le conobbe pure col lume della natura e della grazia la verginella e martire S. Barbara. “Per ea – leggiamo nella sua storia – per ea quæ visibilia facta sunt, divina opitulante gratia, ad invisibilia pervenit.” Rapita quest’anima pura dalla beltà, dalla magnificenza, dall’ordine, dal concerto delle visibili creature, da queste, come per via di gradi, salì a contemplare e a conoscere le altissime invisibili divine perfezioni, fino a consacrare a Dio il giglio della sua verginità, eleggendoLo per sposo, fino a tenersi costante nelle più fiere persecuzioni, e nei più atroci tormenti, fino a lasciare il capo e la vita sotto la spada del proprio crudelissimo genitore. – Perché voi dunque, direi a taluni, nello spettacolo meraviglioso della natura non vedete Dio? Quel Dio che le trasse dal nulla? Ecco il perché: “avete – come dice l’Apostolo – l’intelletto oscurato dalle tenebre degli errori, che corrono in questo secolo”. Il peccato, le ree passioni vi han posto una benda che vi acceca: il fuoco dei sensuali piaceri manda un fumo sì denso, che, secondo la frase del reale Profeta, non vi lascia vedere neppur la luce del mezzo giorno. “Supercecidit ignis, et non viderem solem”. Come volete vedere Dio nello specchio delle creature, se le creature da Dio proibite sono il vostro idolo? Se, per far tacere i rimorsi della rea vostra coscienza, dite nel vostro cuore che Dio non esiste? Lo dite nel cuore, lo so, per iniquo desiderio di perversa volontà, dir nol potete per convincimento e persuasione del vostro intelletto. E pur il dite. E perché? È facile il conoscerlo. Perché coll’idea di un Dio per voi chimerico, vorreste sottrarvi alle sue minacce vorreste respirare l’aura lusinghiera di una piena libertà di coscienza: perché questo Dio, che negate, amareggia i turpi vostri piaceri: perché avete tutto il motivo di temerLo nemico, e giusto punitore dei vostri misfatti: ond’è che a vostro dispetto, anche non volendo, Lo conoscete, ma in un’oscura idea tumultuosa, senza merito, e senza profitto. – Cristiani devoti, da questo tratto che non fu per voi, ritorno a voi. Iddio si vede col cuore, dice S. Agostino citando quelle parole evangeliche:Beati mundo corde, quoniam ipsi Deum videbunt (De serm. dom. in mont. c. 2), e come l’occhio corporeo non può distinguere gli oggetti sensibili, se non è purgato dalle fecce e dall’immondezze; così un cuor che dalle macchie del peccato, e da ree affezioni purgato e mondo non sia, non può vedere Dio con merito nella vita presente, e non Lo vedrà per castigo nella vita futura. Volete fin d’ora vedere Dio cogli occhi dell’anima? Conchiude S. Agostino, Lo vedrete, ma prima pensate a purgare il cuore: Deum videre vis? Prius cogita de corde mundando (Serm. 173. De temp.). “Un cuor puro, un cuor mondo” chiedeva al Signore il penitente Profeta. Un cuore puro per battesimale innocenza, o mondato per sacramentale penitenza, egli è come un nitido specchio che vede in sé rappresentata l’immagine di Dio. Iddio che abita in un cuore innocente, o in cuore ravveduto, si fa conoscere colla luce, che gli comunica, colla pace di cui lo riempie. Ah dunque, fedeli amatissimi mundemus, ci esorta l’Apostolo Paolo, mundemus nos ab omni inquinamento carnis, et spiritus(2 ad Cor. VII, 1). Purghiamoci da ogni lordura d’opera carnale, da ogni infezione e traviamento di spirito, e per tal mezzo vedremo Dio in tutto il creato, Lo vedremo rappresentato, dice il citato Apostolo, come in lucido specchio:Videmus nunc per speculum in aenigmate (1 Cor. XIII, 12), Lo vedremo cogli occhi dell’intelletto e della fede, per vederLo poi facie ad faciem nella beata eternità, che Dio ci conceda!

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6. Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja. [Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ. [Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Communio [Joannes XX:27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja. [Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus. Quaesumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Amen.

 

DOMENICA DI PASQUA

DOMENICA DI PASQUA

Introitus Ps CXXXVIII:18; CXXXVIII:5-6. Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.] Ps CXXXVIII:1-2. Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. [O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. [O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor 5:7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” R. Deo gratias. [Fratelli: Purificàtevi dal vecchio liévito per essere nuova pasta, come già siete degli àzzimi. Infatti, il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato. Banchettiamo dunque: non col vecchio liévito, né col liévito della malízia e della perversità, ma con gli àzzimi della purezza e della verità.]

Alleluja Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. [Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. [Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 1 Cor V:7 V. Pascha nostrum immolátus est Christus. [Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” [Alla Víttima pasquale, lodi òffrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontràrono in miràbile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la glória del Risorgente. – I testimónii angélici, il sudàrio e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum. R. Gloria tibi, Domine! Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” [In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperàrono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivàrono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicévano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, vídero che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giòvane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordírono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avévano posto. Ma andate, e dite ai suoi discépoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia

Omelia della Domenica di Pasqua

[del Canonico G.B. Musso, 1851]

-Risurrezione Vera e Costante-

Quanto grande dovett’essere la sorpresa delle sante donne, che si condussero a visitare il sepolcro di Gesù Cristo! Credevano trovarlo chiuso , e lo trovarono aperto, credevano trovarvi il suo corpo, e vi trovarono un angelo. Ma quanto più grande fu la loro allegria in sentire dall’angelo stesso: voi cercate Gesù Nazzareno poc’anzi crocifisso, Lo cercate invano. È questo il luogo ove venne riposto, Egli è risorto, non è più qui. “Surrexit, non est hic”. Per sì glorioso risorgimento la Chiesa è tutta in giubilo, in mille guise festose esprime la sua letizia, e vuole che sia comune a tutti i suoi figli un giorno sì lieto. “Haec dies, quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea.” Esulta la nostra madre perché risorse da morte il divino suo Sposo. Esulta per la speranza, che siano risorti dal peccato i figli suoi. Sarà piena la sua allegrezza, se la nostra resurrezione sarà conforme a quella del Redentore. Quella fu vera e costante. E la nostra, uditori miei, la nostra qual è? Ha queste due qualità, di vera e costante? Vediamolo a nostra consolazione, o nostra riforma colla maggiore brevità.

I. “Surrexit Dominus vere (Luc. XXIV, 34). Fu vera la resurrezione di Gesù Cristo, e i soldati custodi del suo sepolcro ne diedero, anche non volendo, chiara testimonianza con l’infelice astuzia d’asserire che dal sepolcro fu tolto il suo corpo, mentre dormivano, come riflette S. Agostino. Fu cera, e pel corso di giorni quaranta si fe’ vedere alla Maddalena, a Pietro, a Giacomo, a Giovanni, agli Apostoli, ai discepoli in Galilea, al castello di Emmaus, al mare di Tiberiade. Fu vera, e prima di ascendere al cielo si mostrò a cinquecento discepoli. E a togliere ogni dubbio sulla verità del suo corpo risorto, comparso a porte chiuse in mezzo agli Apostoli nel cenacolo congregati, “la pace sia con voi, dice loro, non vi turbate, Io son quel desso che fui tra voi. Accertatevene, miei cari, ecco queste son le mie mani, questi i miei piedi, questo il mio fianco”. “Videte manas meas, et pedes meos, quia ego ipse sum (Luc. XXIV, 39). Se la mia comparsa può parervi un fantasma, appressatevi, e toccata il vero ravvivato mio corpo. Uno spirito non è né carne, né ossa onde si renda palpabile. Fu vera, e rivolse l’incredulità di Tommaso a confermare la fede del suo risorgimento, e, “… vieni, gli dice, e metti il tuo dito nell’apertura delle mie mani, de’ miei piedi traforati dai chiodi, e poni la mano in quella ferita, che nel mio petto ha lasciato la lancia”. Fu vera, finalmente, e gli Apostoli in Gerosolima, nella Giudea, nella Samaria, in tutte le parti dell’universo l’annunziano con fermezza, la predicano con lo zelo più ardente, la confermano con i più stupendi miracoli, la sigillano col proprio sangue; e la verità comprovata di Gesù Nazzareno risuscitato confonde la pagana filosofia, atterra gli idoli, discaccia i demoni, e sulle rovine del gentil esimo fa piantare la croce, e adorare il Crocifisso. – Non si pretende che il risorgimento di un peccatore abbia tutti questi luminosi caratteri di verità; ma è indispensabile una sostanziale somiglianza e conformità tra la Risurrezione del Salvatore, e la nostra. Voi nella presente solennità vi siete accostati al tribunale di penitenza, ed alla sacra mensa colla sacramentale Comunione, avete fatto la Pasqua. Siete con questo veramente risorti dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita? Veniamo ad un troppo necessario confronto. Gesù Cristo, fra le altre prove del suo vero risorgimento, mostra e mani e piedi e costato. Lasciate che io veda le vostre mani, per giudicare se siete veramente risorti. Ritengono queste ingiustamente la roba altrui? Continuano a fare scarse misure, a spogliare i poveri, a falsificare scritture, a scrivere lettere infamanti, a mandar biglietti amorosi, canzoni oscene, ad impiegarsi in azioni indegne? Voi non siete risorti, siete ancor morti! Osserviamo i piedi. Son questi sempre rivolti alle cose sospette, al ridotto, al giuoco, alle pericolose conversazioni? Voi non siete risorti, siete ancor morti! Vediamo il cuore. Se questo è gonfio dalla superbia, infetto dalla lussuria, avvelenato dall’odio, posseduto dall’avarizia, voi non siete risorti, siete ancor morti! Non fu resurrezione la vostra, fu una larva, un’ombra, un’apparenza, che agli occhi del mondo vi fece comparire risorti alla luce di grazia, ma in realtà non va ha cavati dalle tenebre ed ombre di morte. A che giova la Confessione, se non intacca il vostro cuore dal peccato? A che giova la pasquale Comunione per un’anima impenitente? La pelle della pecora nasconde, ma non fa cangiare il lupo. La vera conversione cangia il lupo in agnello, come avvenne a S. Paolo. “Tu sarai convertito davvero, disse S. Remigio a Clodoveo re di Francia, se tu farai tutto l’opposto di quel che già facesti. Adorasti gli idoli, ora devi incenerirli, bruciasti la croce, ora devi adorarla!”- “Adora quod incendisti, incendi quod adorasti.” – La vera conversione di un’anima traviata è abbandonare del tutto la strada dell’iniquità e della perdizione, e d’incamminarvi in quella della penitenza e della salute. Consiste la risurrezione vera in un totale cangiamento di vita, di volontà, di pensieri, di affetti, di azioni, di costumi. Lo Spirito del Signore opera questa gran mutazione in quell’anima che apre gli occhi a’ suoi lumi, che porge orecchio alle sue voci, che ascolta gli impulsi della sua grazia. “Insiliet in te Spiritus Domini … et mutaberis in virum alium” (I Re, X, 6). Senza di questa mutazione, per cui si deponga l’uomo vecchio con tutte le sue viziose abitudini, e si rivesta il nuovo con ricopiare in sé Gesù Cristo per l’imitazione dei suoi esempi, sarà la nostra risurrezione un inganno, una illusione, un fantasma.

II. Io voglio credere però che la risurrezione vostra sia vera, che siate passati da morte a vita, e lasciato il vecchio fermento, gustiate degli azzimi della sincerità e della purezza. Ma per essere somigliante a quella de Gesù Cristo fa d’uopo che sia costante. Egli è risorto da morte, dice l’Apostolo, ed alla morte non è più soggetto. “Christus resurgens ex mortuis iam non moritur, mors illi ultra non dominabitur(Rom. VI, 9). Ecco il modello del vostro risorgimento. Cristo è risorto per non morire mai più; voi, risorti con Cristo, non dovete più spiritualmente morire. – Fu vera, fu stupenda la risurrezione di Lazzaro quatriduano già fetido, ma non fu permanente. Vivo uscì dal sepolcro, ma dopo alcuni anni tornò morto nel sepolcro. Ah! Miei direttissimi, non avvenga a voi per mutazione di volontà, ciò che a lui avvenne per necessità di natura. Mantenete la grazia ricevuta, conservate la vita riacquistata. M’interrogate dei mezzi da adoperarsi per rendere costante il vostro risorgimento? Seguite ad ascoltarmi, ed osservate la facile maniera per riuscirvi. Fate per l’anima quel che fate pel corpo. Col cibo si mantiene la vita del corpo, col cibo si mantiene la vita dell’anima. Cibo dell’anima è la parola di Dio o udita, o letta, o meditata. Lo dice in termini espressi il nostro divin Salvatore, “Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo quod procedit de ore Dei” (S. Matt. IV, 4). L’uomo non vive solamente di pane, o di qualunque altro cibo che viene sotto di questo nome, ma del cibo vivifico di quella parola, che esce dalla bocca di Dio. La parola di Dio ha creato il mondo, la parola di Dio ha convertito il mondo, la parola di Dio mantiene nella fede e nella grazia il cattolico mondo. Chi non si pasce di questo cibo, non può conservare la vita dell’anima. “Iustus ex fide vivit” (Rom. I, 17). Il giusto vive di fede, e la fede è per fondamento la divina parola. Cibo dell’anima è altresì la santa Comunione Eucaristica, ricevuta con mondezza di cuore, con frequenza discreta. Cibo dell’anima è l’orazione mentale, è la preghiera, colla quale si ottiene il pane quotidiano della divina grazia. – Per mantenere la vita del corpo, si ripara dall’inclemenza delle stagioni, dal freddo, dal caldo eccessivo, dalla furia dei venti, dalle arie infette. L’aria infetta per l’anima è quella che si respira nei teatri, nei festini, nelle bettole, nelle conversazioni licenziose. Venti furiosi sono le tentazioni, che assaltano per la via dei sensi non custoditi. Freddo, l’accidia, la vita oziosa, l’omissione dei propri doveri. Caldo eccessivo, il fuoco dell’ira, il fuoco della libidine. Tutto ciò conviene riparare, se come la salute del corpo vi preme quella dell’anima. – Se il corpo cade infermo, quanto si fa per risanarlo? Medici, medicine, consulti, tutto si adopera, nulla si omette per ristabilirlo, l’anima anch’essa è soggetta ad infermità. La sua medicina è il Sacramento della Penitenza. A questa probatica fa d’uopo accostarsi frequentemente, acciò le vostre piaghe non si convertano in cancrene, acciò le spirituali malattie non rechino la morte. – Ditemi in grazia, uditori umanissimi, vi si domanda troppo, se vi si chiede che abbiate un’ugual cura a mantenere la vita dell’anima come l’avete a conservare la vita del corpo? In un secolo così delicato siamo ridotti a discendere a patti sì dolci, a condizioni così limitate. Ma si adempiano almeno con quell’impegno che vi assicuri d’una resurrezione vera, d’una risurrezione costante e permanente come fu quella di Gesù Cristo, glorioso ed eterno trionfatore della morte, del peccato, e dell’inferno.

 Credo…

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps. LXXV:9-10. Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. [La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. [O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medésimi, consacrati dai misteri pasquali, ci sérvano, per òpera tua, di rimédio per l’eternità.] – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio 1 Cor 5:7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. [Infondi in noi, o Signore, lo Spírito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unànimi con la tua pietà.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

S. S. GREGORIO XVII (G. Siri): Omelia della DOMENICA DELLE PALME -1970-

S. S. GREGORIO XVII [G. Siri]

Con le letture dalla Sacra Bibbia, in particolare quelle tratte dal Vangelo, col Santo Sacrificio, comincia la grande settimana, la Settimana Santa, nella quale i fedeli sono chiamati a ricordarsi di essere stati redenti e di avere una speranza al di sopra della loro talvolta misera vita unicamente perché Gesù Cristo è andato in Croce ed è risorto. – Il primo brano del Vangelo, cantato prima della processione delle palme, ha ricordato l’ingresso solenne di Gesù in Gerusalemme. Questo ingresso è avvenuto pochi giorni prima della Sua Passione; l’ha voluto Lui. È stata un’affermazione perché il Messia era anche Re, era il successore di Davide, non per esercitare un potere nell’ordine politico, ma perché raccoglieva un’eredità su un piano ben più alto, ad un livello divino. Volle gli onori reali, perché usare quella cavalcatura era allora privilegio dei re; che si stendessero i mantelli per terra, era cosa che accadeva pei re o pei grandi trionfatori. Il canto dei fanciulli: chi mai li aveva insegnato loro? Chi mai? Eppure i fanciulli soprattutto cantarono per Lui. E così il corteo si mosse e così entrò in Gerusalemme. Se qualcheduno aveva da lamentarsi di questo, aveva risposto colle parole del Profeta: “Se qualcheduno tacerà, saranno le lingue degli infanti ad aprirsi” (cfr. Mt XXI, 16). Insomma, ha voluto che esternoamente ci fosse un trionfo. Dopo sarebbe rientrato subito nell’umiltà della Sua evangelica vita e avrebbe salito il Calvario, il vero grande trionfo, del quale aveva detto poc’anzi: “Quando sarò innalzato sul legno, allora trarrò tutto a me stesso” (Gv XII,32). Vi prego di notare questo: Gesù Cristo ha voluto il trionfo, ha voluto gli onori regali, ha voluto la acclamazione, ed è evidente che anche tutte queste cose hanno una funzione nella realizzazione del piano del Dio. – L’ultima lettura è stata lunga, perché si letto tutto il racconto della Passione secondo Marco (XIV, 1-15, 47), non, come accadeva prima, secondo Matteo. E la narrazione più breve quella di Marco. Ma io non richiamo la vostra attenzione sui particolari, perché tutta questa narrazione si stende tra l’uno e l’altro dettaglio, però si compone tutta intorno ai dolori del Cristo paziente e morente in Croce. E allora vi invito ad una considerazione di carattere generale che è questa: per riparare i peccati degli uomini è occorso tanto. Sì, la Croce! Badate bene che sarebbe occorsa anche ci fosse stato un solo peccato tra gli uomini. Non è che questa sovrabbondanza di dolore sia legata al fatto dei molti peccati, ma è legata all’entità del peccato in se stesso, e pertanto la ragione non avrebbe cambiato se il peccato fosse stato uno solo. E allora ritorniamo in noi per accogliere con umiltà, con pazienza, coll’amore, il riflesso che tutto questo deve disegnare nell’anima nostra. Vuol dire che gli atti nostri sono importanti, e forse un atto della vita, un atto di fede che manca a molti di noi nella loro vita, è quello di renderci conto che i loro atti sono importanti, anche se questo piccolo mondo per gli stessi atti non ha che il silenzio e l’oblio. Perché se a ripagare un peccato, atto di volontà, c’è voluta la Morte del Figlio di Dio, vuol dire che il peccato è una cosa grave, ma prima ancora del peccato, che un atto umano è una cosa grave davanti a Dio e cioè davanti a Colui per il Quale soltanto le cose contano. – Il riflesso che accogliamo nella nostra anima, come vedete, è semplice, è apodittico, ma è tremendo: con che sorta di prudenza, di riflessione noi dobbiamo pensare ed agire. Naturalmente tra l’uno e l’altro ci sta di mezzo il parlare, che talvolta sostituisce l’uno e l’altro a torto, perché gli atti dell’uomo prendono sempre la loro potenza da una folgorazione intellettuale interna e da un atto di volontà. Ecco, cari, la prudenza, il ritegno, la riflessione su tutti i nostri atti. Sembra che le cose colino come l’acqua, fluiscano per disperdersi nel gran mare e non è vero. I nostri atti sono importanti. Stiamoci attenti bene. E quando pensiamo, non crediamo di essere autorizzati a pensare come a noi comoda, e quando parliamo, non crediamo di essere autorizzati a parlare come a noi piace, e quando agiamo, non crediamo di essere autorizzati ad agire come a noi porta benessere e gaudio. Davanti a Dio queste cose che noi dimentichiamo, prendono dimensioni alle quali la nostra stessa intelligenza non sa arrivare e allora sia per il peccato a evitarlo, anche piccolo, sia per la virtù, anche piccola da compiere, pensiamoci bene!

DOMENICA DELLE PALME

Benedictio Palmorum

Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis.

V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Deus, quem dilígere et amáre justítia est, ineffábilis grátiæ tuæ in nobis dona multíplica: et qui fecísti nos in morte Fílii tui speráre quæ crédimus; fac nos eódem resurgénte perveníre quo téndimus: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

LECTIO Léctio libri Exodi.

In diébus illis: Venérunt fílii Israël in Elim, ubi erant duódecim fontes aquárum et septuagínta palmæ: et castrametáti sunt juxta aquas. Profectíque sunt de Elim, et venit omnis multitúdo filiórum Israël in desértum Sin, quod est inter Elim et Sínai: quintodécimo die mensis secúndi, postquam egréssi sunt de terra Ægýpti. Et murmurávit omnis congregátio filiórum Israël contra Móysen et Aaron in solitúdine. Dixerúntque fílii Israël ad eos: Utinam mórtui essëmus per manum Dómini in terra Ægýpti, quando sedebámus super oílas cárnium, et comedebámus panem in saturitáte: cur eduxístis nos in desértum istud, ut occiderétis omnem multitúdinem fame? Dixit autem Dóminus ad Móysen: Ecce, ego pluam vobis panes de coelo: egrediátur pópulus, et cólligat quæ suffíciunt per síngulos dies: ut tentem eum, utrum ámbulet in lege mea an non. Die autem sexto parent quod ínferant: et sit duplum, quam collígere sciébant per síngulos dies. Dixerúntque Móyses et Aaron ad omnes fílios Israël: Véspere sciétis, quod Dóminus edúxerit vos de terra Ægýpti: et mane vidébitis glóriam Dómini.

[In quei giorni: giunsero i figliuoli d’Israele ad Elim, dov’erano dodici fontane d’acqua, e settanta palme: e posero gli alloggiamenti vicino alle acque. E si partirono da Elim, e giunse tutta la moltitudine dei figliuoli di Israele nel deserto di Sin, che è tra Elim e Sinai, al quindici del secondo mese dopo la loro partenza dalla terra d’Egitto. E tutta la turba dei figliuoli d’Israele mormorò contro Mose ed Aronne in quella solitudine. E dissero loro i figliuoli d’Israele: Fossimo rimasti estinti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando sedevamo sopra le caldaie piene di carni, e mangiavamo il pane a sazietà: perché ci avete condotti in questo deserto per far morire tutti di fame? Ma il Signore disse a Mosè: ecco che io pioverò a voi pane dal cielo: vada il popolo e raccolga quanto basta per ogni di: onde io faccia prova di lui, se cammini o no secondo la mia legge. Ma il sesto dì ne prendano da serbare, e sia il doppio di quel che solevano pigliare per ciascun giorno. E Mosè ed Aronne dissero a tutti i figliuoli d’Israele: Questa sera riconoscerete che il Signore vi ha tratti dalla terra d’Egitto: e domattina vedrete la potenza del Signore.]

Graduale

R. Collegérunt pontífices et pharisaei concílium, et dixérunt: Quid fácimus, quia hic homo multa signa facit? Si dimíttimus eum sic, omnes credent in eum:

R. Et vénient Románi, et tollent nostrum locum et gentem.

V. Unus autem ex illis, Cáiphas nómine, cum esset póntifex anni illíus, prophetávit dicens: Expedit vobis, ut unus moriátur homo pro pópulo, et non tota gens péreat. Ab illo ergo die cogitavérunt interfícere eum, dicéntes.

R. Et vénient Románi, et tollent nostrum locum et gentem. R. In monte Olivéti orávit ad Patrem: Pater, si fíeri potest, tránseat a me calix iste. R. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma: fiat volúntas tua.

V. Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem.

R. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma: fiat volúntas tua.

Evangelium Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

R. Glória tibi, Dómine.

In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini.

In quel tempo: Avvicinandosi a Gerusalemme, arrivato a Bètfage, vicino al monte degli ulivi, Gesù mandò due suoi discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio dirimpetto a voi, e subito vi troverete un’asina legata con il suo puledro: scioglietela e conducetemela. E, se qualcuno vi dirà qualche cosa, dite; – il Signore ne ha bisogno; e subito ve li rilascerà». Ora tutto questo avvenne perché si adempisse quanto detto dal Profeta: «Dite alla figlia di Sion : Ecco il tuo Re viene a Te, mansueto, seduto sopra di un’asina ed asinello puledro di una giumenta». I Discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro detto. Menarono l’asina ed il puledro, vi misero sopra i mantelli e Gesù sopra a sedere. E molta gente stese i mantelli lungo la strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano sulla via, mentre le turbe che precedevano e seguivano gridavano: «Osanna al Figlio di Davide; benedetto Colui che viene nel nome del Signore».]

R. Laus tibi, Christe! – S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Benedictio palmorum

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. 

Orémus. Auge fidem in te sperántium, Deus, et súpplicum preces cleménter exáudi: véniat super nos múltiplex misericórdia tua: bene dicántur et hi pálmites palmárum, seu olivárum: et sicut in figúra Ecclésiæ multiplicásti Noë egrediéntem de arca, et Móysen exeúntem de Ægýpto cum fíliis Israël: ita nos, portántes palmas et ramos olivárum, bonis áctibus occurrámus óbviam Christo: et per ipsum in gáudium introëámus ætérnum: Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus. Per omnia sǽcula sæculórum. R. Amen.

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

V. Sursum corda. R. Habémus ad Dóminum.

V. Grátias agámus Dómino Deo nostro.

R. Dignum et justum est. Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, æterne Deus: Qui gloriáris in consílio Sanctórum tuórum. Tibi enim sérviunt creatúræ tuæ: quia te solum auctórem et Deum cognóscunt, et omnis factúra tua te colláudat, et benedícunt te Sancti tui. Quia illud magnum Unigéniti tui nomen coram régibus et potestátibus hujus sǽculi líbera voce confiténtur. Cui assístunt Angeli et Archángeli, Throni et Dominatiónes: cumque omni milítia cæléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cóncinunt, sine fine dicéntes. Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Orémus. Pétimus, Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: ut hanc creatúram olívæ, quam ex ligni matéria prodíre jussísti, quamque colúmba rédiens ad arcam próprio pértulit ore, bene dícere et sancti ficáre dignéris: ut, quicúmque ex ea recéperint, accípiant sibi protectiónem ánimæ et córporis: fiátque, Dómine, nostræ salútis remédium tuæ grátiæ sacraméntum. [Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, noi ti supplichiamo che ti degni di bene ☩ dire e santi ☩ ficare questi germogli d’olivo, che facesti germinare dal legno e che la colomba al suo ritorno nell’arca portò nel becco; in guisa che chiunque ne riceverà, ottenga protezione per l’anima e per il corpo; e questo segno della tua grazia divenga, o Signore, rimedio della nostra salute.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Orémus. Deus, qui dispérsa cóngregas, et congregáta consérvas: qui pópulis, óbviam Jesu ramos portántibus, benedixísti: béne dic étiam hos ramos palmæ et olívæ, quos tui fámuli ad honórem nóminis tui fidéliter suscípiunt; ut, in quemcúmque locum introdúcti fúerint, tuam benedictiónem habitatóres loci illíus consequántur: et, omni adversitáte effugáta, déxtera tua prótegat, quos rédemit Jesus Christus, Fílius tuus, Dóminus noster. [Preghiamo. O Dio, che raduni le cose disperse e conservi quelle radunate; che benedicesti il popolo uscito incontro a Gesù con rami in mano; degnati di bene ☩ dire anche questi rami di palma e di olivo, che i tuoi servi prendono con fede in onore del tuo nome; affinché rechino la tua benedizione a quanti abitano nei luoghi in cui sono portati; e, allontanata cosi ogni avversità, la tua destra protegga coloro che sono stati redenti da Gesù Cristo, tuo Figlio, Signore nostro.] Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Orémus. Deus, qui miro dispositiónis órdine, ex rebus étiam insensibílibus, dispensatiónem nostræ salútis osténdere voluísti: da, quǽsumus; ut devota tuórum corda fidélium salúbriter intéllegant, quid mýstice desígnet in facto, quod hódie, coelésti lúmine affláta, Redemptóri óbviam procédens, palmárum atque olivárum ramos vestígiis ejus turba substrávit. Palmárum igitur rami de mortis príncipe triúmphos exspéctant; súrculi vero olivárum spirituálem unctiónem advenísse Quodámmodo clamant. Intelléxit enim jam tunc illa hóminum beáta multitúdo præfigurári: quia Redémptor noster, humánis cóndolens misériis, pro totíus mundi vita cum mortis príncipe esset pugnatúrus ac moriéndo triumphatúrus. Et ídeo tália óbsequens administrávit, quæ in illo ei triúmphos victóriæ et misericórdiæ pinguédinem declarárent. Quod nos quoque plena fide, et factum et significátum retinéntes, te, Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus, per eúndem Dóminum nostrum Jesum Christum supplíciter exorámus: ut in ipso atque per ipsum, cujus nos membra fíeri voluísti, de mortis império victóriam reportántes, ipsíus gloriósæ resurrectiónis partícipes esse mereámur. [Preghiamo. O Dio, che per meraviglioso ordine della tua Provvidenza, anche delle cose insensibili usi per esprimere l’economia della nostra salute, illumina, te ne preghiamo, i cuori dei tuoi servi, onde con frutto intendano il mistero significato nel fatto di quel popolo, che oggi per ispirazione celeste andò incontro al Redentore stendendo rami di palma e d’ulivo sul suo passaggio. I rami di palma designano i trionfi sul principe della morte; i rami d’ulivo indicano la spirituale unzione che era per venire. Quell’avventurata moltitudine presenti allora che il nostro Redentore mosso dalle miserie dell’umanità era per entrare in battaglia col principe della morte per la vita di tutto il mondo e che avrebbe trionfato con la sua stessa morte. E perciò gli presentò tali oggetti dei quali gli uni esprimessero il trionfo della vittoria, gli altri l’effusione della misericordia. Noi dunque, riconoscendo pienamente nell’avvenimento il fatto e il significato simbolico, Signore santo, Padre onnipotente, eterno Dio, umilmente ti supplichiamo per lo stesso Signor nostro Gesù  Cristo, di cui siamo membra, a farci trionfare in Lui e per Lui della morte e partecipare della sua gloriosa risurrezione.]

Orémus. Deus, qui, per olívæ ramum, pacem terris colúmbam nuntiáre jussísti: præsta, quǽsumus; ut hos olívæ ceterarúmque arbórum ramos coelésti bene dictióne sanctífices: ut cuncto pópulo tuo profíciant ad salútem. Per Christum, Dóminum nostrum. [Preghiamo. O Dio, che volesti che una colomba annunziasse alla terra la pace per mezzo di un ramo d’ulivo, degnati di bene ☩ dire questi rami d’ulivo e di altri alberi, perché siano al tuo popolo utili e salutari. Per Cristo nostro Signore.] R. Amen.

Orémus. Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum seu olivárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. [Preghiamo. Degnati, Signore, di bene ☩ dire questi rami di palma e d’ulivo e fa che il tuo popolo compia spiritualmente con vera devozione quanto oggi esteriormente fa in tuo onore: che esso riporti vittoria sul nemico e corrisponda con amore alla tua opera misericordiosa..] R. Amen.

Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Deus, qui Fílium tuum Jesum Christum, Dóminum nostrum, pro salute nostra in hunc mundum misísti, ut se humiliáret ad nos et nos revocáret ad te: cui etiam, dum Jerúsalem veniret, ut adimpléret Scripturas, credentium populorum turba, fidelissima devotione, vestimenta sua cum ramis palmarum in via sternébant: præsta, quæsumus; ut illi fídei viam præparémus, de qua, remoto lápide offensiónis et petra scándali, fróndeant apud te ópera nostra justítiæ ramis: ut ejus vestigia sequi mereámur: [Preghiamo. O Dio, che per la nostra salvezza mandasti nel mondo il tuo Figliuolo Gesù Cristo nostro Signore, onde abbassandosi sino a noi ci riportasse a te; e hai voluto che quando Egli entrò in Gerusalemme per compiere le Scritture, una turba di popolo credente gli stendesse sul cammino le sue vesti e rami di palme; fa che noi pure gli prepariamo, per mezzo della fede, la via dalla quale rimossa ogni pietra d’inciampo e di scandalo, le nostre opere gettino rami di giustizia, per così meritare di seguire le orme di Colui: …] Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Pueri Hebræorum Ant. Pueri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsis. Ant. Pueri Hebræórum vestiménta prosternébant in via et clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, qui Dóminum nostrum Jesum Christum super pullum ásinæ sedére fecísti, et turbas populórum vestiménta vel ramos arbórum in via stérnere et Hosánna decantáre in laudem ipsíus docuísti: da, quǽsumus; ut illórum innocéntiam imitári póssimus, et eórum méritum cónsequi mereámur. [Preghiamo. Onnipotente eterno Dio, che per glorificare il Signor nostro Gesù, montato sull’umile giumenta, gli mandasti incontro una moltitudine festosa, ispirandole di gettargli ai piedi vestimenti e rami di ulivo cantando Osanna in sua lode, concèdici, ti preghiamo, di imitare la loro innocenza e di aver parte anche noi al loro merito.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Procedámus in pace.

R. In nómine Christi. Amen. Cum appropinquáret Dóminus Jerosólymam, misit duos ex discípulis suis, dicens: Ite in castéllum, quod contra vos est: et inveniétis pullum ásinæ alligátum, super quem nullus hóminum sedit: sólvite et addúcite mihi. Si quis vos interrogáverit, dícite: Opus Dómino est. Solvéntes adduxérunt ad Jesum: et imposuérunt illi vestiménta sua, et sedit super eum: alii expandébant vestiménta sua in via: alii ramos de arbóribus sternébant: et qui sequebántur, clamábant: Hosánna, benedíctus, qui venit in nómine Dómini: benedíctum regnum patris nostri David: Hosánna in excélsis: miserére nobis, fili David. Cum audísset pópulus, quia Jesus venit Jerosólymam, accepérunt ramos palmárum: et exiérunt ei óbviam, et clamábant púeri, dicéntes: Hic est, qui ventúrus est in salútem pópuli. Hic est salus nostra et redémptio Israël. Quantus est iste, cui Throni et Dominatiónes occúrrunt! Noli timére, fília Sion: ecce, Rex tuus venit tibi, sedens super pullum ásinæ, sicut scriptum est, Salve, Rex, fabricátor mundi, qui venísti redímere nos. Ante sex dies sollémnis Paschæ, quando venit Dóminus in civitátem Jerúsalem, occurrérunt ei pueri: et in mánibus portábant ramos palmárum, et clamábant voce magna, dicéntes: Hosánna in excélsis: benedíctus, qui venísti in multitúdine misericórdiæ tuae: Hosánna in excélsis. Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes praedicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: Hosánna in excélsis. Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: Hosánna in excélsis. Alia Antiphona. Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis. Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis.

[V. Procediamo in pace. R. Nel nome di Cristo. Amen. [Avvicinandosi il Signore a Gerusalemme, spedì due discepoli, dicendo loro: « Andate nella borgata che è dirimpetto a voi; troverete ivi legato un asinelio sul quale nessuno è montato sinora; scioglietelo e menatemelo. Se alcuno vi dirà qualche cosa, risponderete che il Signore ne ha bisogno”. I discepoli andarono, sciolsero l’asinelio e messivi sopra i loro mantelli, lo portarono a Gesù, che vi si pose a sedere. Gli uni stendevano le loro vesti sulla via; altri gettavano rami d’alberi, e quelli che seguivano gridavano: Osanna, benedetto Colui che viene nel nome del Signore, benedetto il regno del nostro padre David. Osanna nel più alto dei cieli! O Figlio di David, pietà di noi. Avendo sentito il popolo che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palma e gli andò incontro. I fanciulli gridavano: Ecco Colui che deve venire per salvare il popolo. Egli è la nostra salvezza e la redenzione d’Israele. Quanto Egli è grande ! I Troni e le Dominazioni gli vanno incontro ! Non temere, figliuola di Sion: ecco il tuo re che viene a te, assiso sopra un asinello, come è stato predetto. Salve, o Re creatore del mondo, che sei venuto a riscattarci. Sei giorni prima di Pasqua, quando il Signore venne a Gerusalemme, i fanciulli gli andarono incontro recanti in mano rami di palme e gridavano ad alta voce dicendo: Osanna nel più alto dei cieli ! Benedetto tu che sei venuto nella pienezza della tua misericordia: Osanna nel più alto dei cieli ! Una turba di popolo, recante palme e fiori, esce incontro al Redentore e rende un degno omaggio a questo vincitore trionfante. Le genti acclamano al Figlio di Dio, e in lode di Cristo fanno risuonare per l’aria un cantico: Osanna nel più alto dei cieli. Uniamoci, fedeli, alla voce degli Angeli e dei fanciulli; cantiamo al vincitor della morte: Osanna nel più alto dei cieli. Gran turba, convenuta al giorno festivo, gridava al Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli!]

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium. Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent. R. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.

Responsorium Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes, R. Cum ramis palmárum: Hosánna, clamábant, in excélsis.

V. Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.

R. Cum ramis palmárum: Hosánna, clamábant, in excélsis.

Introitus Ps XXI:20 et 22. Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.] Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti. Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [ Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

LECTIO  Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II:5-11

Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris. [Fratelli: Abbiate in voi gli stessi sentimenti dai quali era animato Cristo Gesù: il quale, essendo nella forma di Dio, non reputò che fosse una rapina quel suo essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso, prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto quale uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte e morte di croce. Perciò Dio stesso lo esaltò e gli donò un nome che è sopra qualunque nome: qui si genuflette onde nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli abissi; e affinché ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre.]

Deo gratias.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

V. Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus Ps. XXI:2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

V. Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

V. Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

V. Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

V. In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

V. Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

V. Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

V. Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

V. Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

V. Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

V. Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

V. Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

V. Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

V. Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum. Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66. In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturae Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc coepit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:


 Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum. Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum. Munda cor meum ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. D. Jube, domne, benedicere. S. Dóminus sit in corde tuo et in lábiis tuis: ut digne et competénter annúnties Evangélium suum: In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen. Altera autem die, quæ est post Parascéven, convenérunt príncipes sacerdótum et pharisaei ad Pilátum, dicéntes: Dómine, recordáti sumus, quia sedúctor ille dixit adhuc vivens: Post tres dies resúrgam. Jube ergo custodíri sepúlcrum usque in diem tértium: ne forte véniant discípuli ejus, et furéntur eum, et dicant plebi: Surréxit a mórtuis; et erit novíssimus error pejor prióre. Ait illis Pilátus: Habétis custódiam, ite, custodíte, sicut scitis. Illi autem abeúntes, muniérunt sepúlcrum, signántes lápidem, cum custódibus. R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

[In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

OMELIA

Omelia della Domenica delle Palme

[del Canonico G.B Musso -Vol I., 1851]

-Gesù conosciuto e sconosciuto-

Dopo lo stupendo miracolo operato da Gesù Cristo in richiamare a vita Lazzaro già da quattro giorni putrido, e fetente nel suo sepolcro, miracolo di tanta evidenza e di tanta fama in Gerosolima, che non poteva né mettersi in dubbio, né tenersi occulto, si presenta Gesù alle porte di questa città, sedente sopra un giumento, in aria, come già predisse un dei suoi profeti, ed in contegno di re pacifico e mansueto. Ed ecco tutto il popolo uscirgli incontro, memore di tanti altri veduti prodigi, ed accoglierlo colle più vive rimostranze di applauso, di ossequio e di trionfo. Con palme alla mano, con ispiegar lungo la via le proprie vesti, con giulive acclamazioni Lo festeggiano, Lo riconoscono figliuol di Davide, re d’Israele, e come da Dio mandato Lo colmano di benedizioni: “Hosanna filio David: benedictus qui venit in nomine Domini”. Ma oh dell’umana incostanza condizion deplorabile! Dopo tre giorni si cangia la scena. Gesù non è più conosciuto, che sotto le nere sembianze di malfattore, e reo di morte. Questo tragico avvenimento volesse il cielo che non si rinnovasse anche al presente. Da tutte le creature è stato riconosciuto Gesù per Figlio di Dio, come son per dimostrarvi; si riconosce tuttavia per tale da’ suoi cristiano, e pure in pratica viene sconosciuto ed oltraggiato da molti, massime in quel Sacramento, ove dimora realmente presente. Gesù dunque riconosciuto in sua vita da tutte le sue creature per vero Dio, sarà la prima parte della nostra spiegazione, diretta a ravvivare la nostra fede. Gesù nella SS. Eucaristia non conosciuto, ed oltraggiato da molti suoi cristiani, sarà la seconda, diretta a compungere il nostro cuore, e a riformare la nostra condotta in un punto di tanta importanza. Incominciamo.

I. Sta Gesù ancora nascosto nell’utero materno, ed è riconosciuto da Giovanni, racchiuso anch’esso nel seno materno. Lo conosce Elisabetta, e se ne congratula con Maria, sua Vergine Madre. Lo conosce Zaccaria, e Lo benedice per la sua discesa dall’alto a visitare e a redimere il popolo suo, e tutta l’umana generazione, come già fu predetto per bocca dei suoi santi profeti. Nasce Gesù in Betlemme, e discendono gli angeli a cantarne le glorie, ed accorrono i pastori ad adorarLo bambino. Una stalla, che stella chiamasi di Giacobbe secondo il linguaggio delle divine scritture, Lo da a conoscere ai re dell’oriente, che sotto la sua scorta vengono a prostrarsi ai suoi piedi, e coi misteriosi loro doni Lo riconoscono vero Dio, vero uomo, re d’Israele, re del cielo e della terra. Erode, Erode anch’egli colla crudelissima strage di tant’innocenti fanciulli, promulga la fama del suo regal nascimento in tutto l’impero romano, ed in tutte le più remote nazioni. Fa così servire l’Altissimo l’empietà dei suoi nemici alla manifestazione di sua gloria. Che dirò di Simeone? Questo santo vecchio, assicurato dallo Spirito Santo che non avrebbe la morte, se prima non vedeva con gli occhi propri l’unto del Signore, Lo prende tra le sue braccia, se Lo stringe al seno, e Lo chiama Salvatore, da Dio mandato per la salute dei popoli, lume a diradare gli errori del gentil esimo, e la gloria di Israele. Si aggiunse a Simeone Anna la profetessa, e anch’essa ne parla a tutti gli astanti, che aspettavano la redenzione di Israele, come già cominciata nel fanciulletto Gesù. Cresce Egli in età, e fin dai dodici anni cominciano a vedere in lampo di sua divina sapienza gli stupefatti dottori. Ammirano in seguito, i sacerdoti e scribi, e i saggi dell’ebraismo l’incomparabile dottrina, in Chi non mai apprese lettere, o veduto maestro, e come sapeva leggere nella loro mente i pensieri, e scoprire nel loro cuore l’invidia, l’ipocrisia, ed ogni più maliziosa intenzione. Così a questi lumi non avessero chiusi gli occhi con ribelle superba volontà! – Sentono la virtù dell’uomo-Dio le creature insensate, “quae faciunt verbum ejus. Nelle nozze di Cana in Galilea l’acqua si cangia in vino. Si fa solido sotto i suoi piedi il mare. Ubbidiscono al suo comando il mare, i venti e le procelle. Ad una sua imprecazione inaridisce sull’istante la sterile ficaia. Al tocco delle sue mani vedono i ciechi, parlano i muti ad un atto di sua volontà, ed esaltano la sua beneficenza, son raddrizzati gli storpi, son mondati i lebbrosi, sono prosciolti gli ossessi. Gli infermi di ogni genere, di ogni età, di ogni sesso, ravvisano in Lui un potere sovrumano ed esaltano la sua beneficenza. Per la moltitudine dei pani nel deserto, le turbe saziate s’invogliano di farlo re. Che più? Lo conoscono, Lo temono gli stessi demoni, e usciti dai corpi invasati ad alta voce Lo confessano Figliuol di Dio. Lo conosce la morte, e vivi Gli abbandona il figlio della vedova di Naim, la figlia del principe della Sinagoga, e Lazzaro quatriduano. – Più chiara ancor risplende la luce, e la cognizione del divin Salvatore nelle tetre e dolorose vicende della sua passione e della sua morte. Sentirono pure le turbe, ad arrestarLo nell’orto, la forza di una sua parola, che le gettò rovesciate a terra; sentì pure l’iniquo discepolo Giuda il pungente rimorso, e confessò traditore se stesso, e Gesù sangue innocente. Provvidenza superna guida la man di Pilato a scrivere l’elogio di Lui crocifisso, Lo chiama re dei Giudei e per conseguenza Lo dà a conoscere pel Messia da noi aspettato, e da tutte le genti. L’invoca dalla sua croce Disma il buon ladro col nome di suo Signore, e Lo prega di aver memoria di sé, all’entrar nel suo regno. Sente quella gran voce il Centurione, impossibile a tramandarsi da un Crocifisso nell’atto del suo spirare, e Lo dichiara altamente vero Figliuol di Dio, “vere filius Dei erat iste. Il sole che nel suo morire si oscura per un non naturale eclisse, le tenebre che si spargono sulla faccia dell’universo, il gran tremuoto che scuote orribilmente la terra, le pietre che si spezzano, il velo del Tempio che si squarcia, i sepolcri che si aprono, i morti che risorgono e si fan vedere nella santa città, non dan forse manifeste prove di conoscere e di compiangere il loro Creatore? Lo conoscon le turbe che discendono dal Calvario battendosi il petto. E Nicodemo, che Lo conobbe vivente, Lo riconosce defunto. Si aggiunge ad esso Giuseppe d’Arimatea (l’un principe, l’altro senatore) e con santo ardimento chiede a Pilato il corpo di Gesù Nazareno, ed entrambi rendono segnalata la loro fede con deporLo di croce, e darGli onorevolissima sepoltura. – A finirla, tutte le nazioni dell’uno e dell’altro emisfero han piegato la fronte al Figliuol di Dio crocifisso. Tutti i fedeli han detto, e dicono tuttora con Pietro, “Tu es Christus filius Dei vivi, tutti L’adorano, e Lo riconoscono vivo e vero nell’augustissimo Sacramento, ove Egli volle restar con noi fino alla consumazione dei secoli. Si avverò quel che predisse Malachia Profeta, che dall’oriente all’occaso grande è il suo nome, ed ad onor del suo nome si offre in ogni luogo sacrificio ed oblazione immacolata. “Ab ortu solis, usque ad occasum, magnum est nomen meum in gentibus, et in omni loco sacrificatur et offertur nomini meo oblation munda (Malac. I, 11).

II. Ora chi il crederebbe? Quest’Uomo-Dio così palese, così manifesto è un Dio ignoto ad una gran parte dei suoi cristiani. Vide S. Paolo nei contorni di Atene un altare, in fronte al quale leggevasi questa iscrizione, “Ignoto Deo”: ed entrato nell’Areopago alla presenza di quei sapienti: “quel Dio, cominciò il suo discorso, quel Dio che onorate senza conoscerLo, son qui ad annunziarvi”.- “Quod ignorantes colitis, hoc ego annuntio vobis (Act. XVII, 23). Oh per quanti e quanti cristiani si potrebbe scrivere la stessa epigrafe sui tabernacoli, ove Gesù Cristo realmente dimora! Questo Dio, questo gran Dio, è un Dio ad essi affatto conosciuto, “Ignoto Deo”. Dio sconosciuto, perché entrano in Chiesa per tutt’altro fine che per adorarLo. “Dio sconosciuto”, perché della sua casa fan meno conto che di una sala profana, perché in quel luogo santo alle preghiere sostituiscono le ciarle, alla devozione lo svagamento, alla pietà il libertinaggio, alla modestia l’inverecondia e lo scandalo: perché lasciano correre gli anni e le Pasque senza accostarsi a riceverLo; perché assistono al Sacrificio tremendo o in piedi, come i Giudei sul Calvario, insultando Gesù sulla croce, o con piegar un ginocchio, come i soldati nel Pretorio, disprezzatori di Gesù coronato di spine. A rivederci al suo tribunale! Questo Dio ignoto si farà ben conoscere nel finale giudizio a chi non Lo conobbe, e a chi non volle conoscerLo, “cognoscetur Dominus iudicia facies (Ps. IX). – Ma per noi, diran taluni, per noi non è un Dio ignoto. Noi Lo crediamo realmente presente nell’adorabile Sacramento, e ci disponiamo a riceverLo alla sacra mensa nella prossima Pasqua. Vi risponde l’evangelista Giovanni: voi dite di conoscere Dio, ma se non osservate i suoi comandi, siete mentitori, siete bugiardi. “Qui dicit se nosse eum, et mandata eius non custodit, mendax est(I Giov. II, 4). Dite di conoscere Dio, e volete disporvi a riceverLo nella pasquale Comunione; conoscerete ancora la dignità, la grandezza, il merito di un tanto Ospite. Or bene, qual luogo Gli preparate? Il vostro cuore? Ma se il vostro cuore non è retto con Dio, se il vostro cuore per l’ingiustizia è una spelonca di ladri, se per la disonestà una cloaca di immondezze, se per l’odio è un covile di serpenti, se vi abita il peccato mortale, se lo possiede il demonio, vorrete in questo albergare l’Agnello di Dio senza macchia, il Santo dei santi, l’Autore di ogni santità? Dirò che conoscete Dio quando a Lui vi appresserete con un cuore mondo per l’innocenza o mondato e lavato con lagrime di contrizione sincera. Quando un sincero dolore delle vostre colpe sarà accompagnato da ferma, stabile ed efficace risoluzione di non più peccare, e per più non peccare, porrete in pratica i mezzi necessari che vi allontanino dal peccato, quali sono la custodia dei sensi, la fuga delle occasioni, l’uso della preghiera, la lettura dei libri devoti, la frequenza dei Sacramenti, la memoria dei novissimi e delle massime eterne. Dirò che conoscete Dio quando, oltre le indicate disposizioni, prima di accostarvi all’altare di Dio, vi sarete riconciliati con i vostri fratelli, quando avrete dato la pace ai vostri nemici, quando avrete restituito la fama, e, potendo, la roba altrui; quando una fede viva, un’umiltà profonda, un amore, un desiderio ardente di unirvi a Dio, vi accompagneranno all’eucaristico divino convito. Questo sì che sarà conoscere Dio in spirito e verità! Sarà questo un segno, fedeli miei, un segno di gran consolazione per voi, segno che vi caratterizzerà pecorelle del gregge di Gesù Cristo. Io, dice Egli, conosco le mie pecore, ed esse conoscono me, loro buon Pastore: “Ego cognosco oves meas, et cognoscunt me meæ” (S. Giov. X, 14); e siccome Io veggo che da esse veramente sono conosciuto, così ora do loro in pegno, e darò poi il premio dell’eterna vita, et Ego vitam æternam do eis” (S. Giov. X, 28): ove la sua grazia ci conduca.

Credo

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Communio Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

PRIMA DOMENICA DI PASSIONE

Introitus Ps XLII:1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in

montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebraeos.

Hebr IX:11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

[Fratelli: Cristo, venuto quale pontéfice dei beni futuri, attraversò un più grande e più perfetto tabernàcolo, non fatto da mano d’uomo, e cioè non di questa creazione. Né per mezzo del sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, avendo ottenuto una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei tori, e la cenere di vacca, sparsa su quelli che sono immondi, li santífica, dando loro la purità della carne, quanto più il sangue del Cristo, che in virtù dello Spírito Santo offrí sé stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle òpere di morte, onde serviamo il Dio vivente? Appunto per questo egli è il mediatore di un nuovo patto; affinché, morto per la remissione dei trascorsi commessi sotto l’antico patto, i chiamati ricévano l’eterna eredità loro promessa in Cristo Gesù nostro Signore.]

Deo gratias.

Graduale Ps 142:9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII:48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me. Tractus Ps CXXVIII:1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. V. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen

V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Gloria tibi, Domine!

Joann VIII:46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judaei et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et júdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” [In quel tempo: Gesù disse alla folla dei Giudei: Chi di voi può accusarmi di peccato? Se vi dico la verità perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta la parola di Dio. Per questo voi non l’ascoltate: perché non siete da Dio. Ma i Giudei gli rispòsero: Non abbiamo forse ragione di dire che sei un Samaritano e un posseduto dal demònio? Gesù rispose: Non sono posseduto dal demònio, bensí onoro il Padre mio e voi mi insultate. Io non cerco la gloria per me, c’è chi la cerca e giúdica. In verità, in verità vi dico: chi osserverà la mia parola non vedrà la morte in eterno. I Giudei gli díssero: Ora sappiamo per certo che sei posseduto dal demònio. Abramo è morto e pure i profeti, e tu dici: Chi osserverà la mia parola non vedrà la morte in eterno. Sei forse più grande del nostro padre Abramo, che è morto, o dei profeti, che sono pure morti? Chi pretendi di essere? Gesù rispose: Se mi glorífico da me stesso, la mia gloria è nulla; chi mi glorífica è il Padre mio che voi dite essere vostro Dio. Voi non lo conoscete, ma io lo conosco, e se dicessi di non conòscerlo sarei un bugiardo, come voi. Ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, agognò di vedere il mio giorno: lo vide e ne gioí. I Giudei gli díssero: Non hai ancora cinquantanni e hai visto Abramo? Gesù rispose: In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, io sono. Allora raccòlsero delle pietre per scagliarle contro di lui, ma Gesù si nascose ed uscí dal tempio.]

Laus tibi, Christe!

Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia

Omelia della DOMENICA I DI PASSIONE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. GIOV. VIII,46-59)

Rispetto alle Chiese

Bisogna ben dire che sia un gran peccato il poco rispetto alla casa di Dio, mentre Gesù Cristo in due occasioni diverse lo punisce con severi ed esemplari castighi. L’odierno Vangelo ci presenta il divino Maestro che istruisce nel Tempio una turba di Ebrei. I malvagi invece di trarre profitto L’insultano con ingiurie e Lo minacciano con pietre: Lo chiamano Samaritano ed indemoniato, e si armano per lapidarLo. Ecco il delitto, Gesù nascondendosi agli occhi loro, esce dal Tempio. “Jesus autem ascondit se, et exivit de Templo”. Ecco il castigo, castigo di abbandono, castigo di privazione della perfida Sinagoga, castigo di ogni altro il maggiore, espresso nel ritiro liturgico di questa Domenica, in cui si velano le sacre immagini. In altro tempo vede Gesù il Tempio santo di Dio convertito in piazza di negoziazione e, come Egli si espresse, in una “spelonca di ladri”. Ecco il delitto. E acceso in volto di santo zelo, con flagello alla mano discaccia i sacrileghi profanatori. Ecco il castigo. Su questo, uditori, come più sensibile, facciamo due riflessioni. Perché il Figliuolo di Dio di propria mano, e perché con un flagello prende vendetta della violazione del sacro luogo? Tutto ciò che nei sacri libri sta scritto, dice l’Apostolo, a nostra istruzione sta scritto. Ecco dunque il perché. Castiga Cristo Gesù di propria mani i profanatori del Tempio, per farci conoscere la gravità di questo peccato. Adopera un flagello per indicarci i molti castighi che trae addosso quest’istesso peccato. In questi due aspetti, trattiamo, fideli miei, l’importante argomento e rimedio se ci troviamo colpevoli, a preservazione se siamo innocenti.

I. Dalla qualità della pena si può argomentare la gravezza della colpa. Se si eccettui il già indicato avvenimento, non si legge in alcun luogo dell’antico Testamento, e nel nuovo, che Iddio per qualunque misfatto abbia di propria mano puniti i delinquenti. Scacciò dal terreno paradiso i rei nostri progenitori, ma si valse d’un angelo, esecutore del meritato esilio. Per mezzo di un angelo percosse tutte le famiglie di Egitto colla prodigiosa uccisione di tutti i loro primogeniti. Per mezzo di un angelo fece strage del numeroso esercito dell’empio Sennacherib. Per mezzo dei serpenti ferì a morte nel deserto i mormoratori di Dio e di Mosè. Per mezzo dei leoni afflisse i popoli prevaricatori della desolata Samaria. In somma a castigare i trasgressori della sua legge, si serve Iddio sdegnato delle ragionevoli o insensate sue creature. Solo quando trattasi di punire i sacrileghi profanatori della santa sua casa vuol adoperare la vendicatrice sua destra. – Si diportò il divin Signore in quest’azione, come un principe sovrano, che i violatori della sua legge fa punire dai suoi ministri con le pene imposte dalla medesima legge. Ma se avvenga mai che vassallo indegno abbia l’ardire di tentare l’onore della sua Sposa, più non si contiene, e omessa ogni formalità di giudizio, impugna la spada, e di sua mano si vendica dell’iniquo attentato. Infatti finché il regnante Assuero udì le accuse fatte da Ester contro il fellone Aman, non parlò di castigo, solo con ciglio torbido e pensoso si tolse a lui davanti; ma ritornando, al veder lo scellerato star supplichevole a pie’ della regina, preso da geloso precipitato sospetto, “Oh! Il perfido, esclamò, il temerario! Anche il presenza mia , nella mia reggia, un tanto ardimento?” Etiam Reginam vult opprimere me praesente in domo mea” (Est. VII, 8). Su, si sospenda ad un’altissima trave: un patibolo è poca pena a tanto eccesso. Tanto è vero, che la colpa di chi pecca in casa, e sotto gli occhi del suo sovrano, è immensamente più mostruosa e più grave. – Dite ora argomentando così: come, Gesù Cristo, pastore buono, agnello mansueto, che tutto dolcezza e misericordia accoglie i peccatori, siede a mensa coi pubblicani, loda le Maddalene, sottrae dalle pietre le donne adultere, ora cangiato in leone di Giuda, armata la destra di flagello, acceso di giusto inusitato furore, rovescia le tavole dei banchieri, scompiglia le gabbie delle colombe, e fuor discaccia i mercatanti e gli avventori? Convien concludere che enorme sia il reato, che a tanto lo spinge. Così è, ma quanto maggiore sarà il delitto di noi cristiani, se oseremo perdere il rispetto per la casa di Dio! Furon colpevoli, è vero, gli Ebrei profanatori, ma quel Tempio solo adombrava la maestà di Dio invisibile. Non era in quello, come nelle chiese nostre un Dio realmente presente sotto l’eucaristico velo. E poi quei trafficanti sembrano degni di qualche scusa, poiché le pecore e le colombe, da loro esposte in vendita, erano secondo il rito mosaico, da Dio prescritte nei diversi sacrifici. Ora quale scusa o pretesto potranno addurre gli irriverenti cristiani per i loro cicalecci, sogghigni, prolungati discorsi, occhiate libere, gesti licenziosi, azioni sconvenevoli, scandalosi amoreggiamenti? E tutto ciò davanti a Dio vivente, innanzi a Dio presente, in faccia ai suoi altari, al cospetto degli Angeli suoi adoratori? E che strana cosa è mai questa? Se ne lagna l’oltraggiato Signore per bocca del suo profeta Geremia, che strana cosa ed empia, che il mio popolo dalla mia dilezione favorito e distinto, venga con tanta scelleratezza ad insultarmi in casa mia? “Quid est, quod dilectus meus in domo mea fecit scelera multa? Sono dunque così venuto a vile, che nessun riguardo si abbia, né all’abitazione mia, né alla mia presenza? Saprò ben Io vendicarmi del disprezzo sacrilego. Darò di mano a un più tremendo flagello, che quello adoperato nel Tempio: “Mea est ultio, et ego retribuam” (Deut. XXXII, 35).

II Questo minacciato flagello, come riflette S. Tommaso, è composto da tre specie di mali, e sono: i castighi privati, i castighi pubblici, e la permission dei peccati, Flagellum de funicoli. E primieramente castighi privati. Padri e madri, vi lagnate sovente che i vostri figliuoli alzino contro voi la testa, la voce e le mani, e disprezzino i vostri comandi e la vostra persona, esaminate voi stessi. Avreste mai perduto il rispetto a Dio ed alla sua casa? Se è così, Iddio permette che vi si renda la pariglia, disprezzo per disprezzo, oltraggio per oltraggio. Scuotono i figli vostri il giogo della paterna autorità, sono discoli, non vi danno che disgusti, han fatto pessima riuscita. Colpa vostra! Fra le altre non avete fatto alcun conto delle loro insolenze in Chiesa. Essi a certe ore si servono della Chiesa come di una piazza da giuoco; nelle loro risse si perseguitano fino in Chiesa colle sassate. E guaio se un chierico, o un sacerdote si facesse a discretamente correggerli. Chi sa come l’intenderebbero certi padri alteri, certe madri arroganti? Caricherebbero, come più volte è avvenuto, di ingiurie e di contumelie il ministro di Dio per aver fatto il proprio e loro dovere. In certe case tutto è scompiglio, tutto è disordine, vi abita il demonio della discordia, v’è una lite che snerva, la malattia che consuma, la povertà che attrista, l’infamia che accora, la disperazione che infuria, tristi effetti, dice l’Apostolo, delle irriverenze, delle sacrileghe profanazioni della casa di Dio. Si quis domum Dei violaverit, disperdet illum Deus (I Cor. III, 17). – Così fu sempre, così sempre sarà. I disprezzatori del luogo santo, non fuggiranno dall’ira di Dio. Vedetene gli esempi funesti nelle divine Scritture. Eccovi Antioco, roso in tutto il corpo da vermi schifosi, perché spogliò il Tempio di Dio. Eccovi Ozia, coperta da fetida lebbra, perché stese la destra profana al sacro incensiere, ecco Manasse, carico di catene, chiuso in tetra prigione, perché collocò nel Tempio un idolo abominevole. Ecco Eliodoro, flagellato dagli angeli, perché violò i sacri depositi e l’altare del Dio di Israele. Ecco Oza Levita, colpito da subitanea morte, perché irriverente stese le mani all’arca del Testamento. Ecco Baldassarre scannato nel proprio letto, perché profanò i vasi del Santuario. Così fu, così sarà sempre. Si quis domum Dei violaverit, disperdet illum Deus. La sentenza è data, ne sarà la vittima chi non la teme. – Se tanto atterriscono i particolari castighi, quanto dovranno spaventarci i pubblici? Escono dalla porta della Chiesa profanata i fulmini della divina vendetta, a difendere il proprio onore, a riparare i ricevuti oltraggi. Iudicium a domo Dei (I Piet. IV, 17). Escono le guerre che fanno strage dei popoli, che atterrano le intere città. Così avvenne per le iterate violazioni del Tempio santo all’infelice Gerusalemme messa a sacco a ferro, a ferro, a fuoco, a ruina dall’armi romane: Ultio Domini, ultio Templi sui (Ger. LI, 11.). Escono gli elementi a sconcertar le stagioni, onde non dian pioggia le nuvole, inaridiscan le biade. Steriliscano le piante; e le calamità, la miseria, la fame puniscano le irriverenze sacrileghe fatte al Creatore nella propria casa. Così ei se ne protesta pel suo profeta Aggeo: “Quia domus mea deserta, propter hoc prohibiti sunt coeli, ne darent rorem suum” (Agg. I, 9). Così per nostra colpa proviamo di frequente. “Ultio Domini est, ultio Templi sui”. E da che vennero le contagiose epidemie degli anni scorsi che portarono il lutto in tante case, che desolarono tante famiglie? “Ultio Domini est, ultio Templi sui”. E quando mai si sentirono fra noi tante e sì fiere scosse di terremoti, e così frequenti, e così durevoli? E quando mai si udirono di tristi novelle di pestilenza di qualità strana, esecutiva, immedicabile, che assale chi per vigor di forza meno la teme, ed in poche ore l’uccide e va serpeggiando di regno in regno? “Ultio Domini est, ultio Templi sui”. – Ma quello è il meno, rispetto al terzo castigo della permission dei peccati. Sarebbe meglio che in una città entrasse la peste, e passeggiasse la morte, più tosto che nelle sue contrade il peccato andasse in trionfo. Il colmo dell’ira di Dio non è quando temporalmente castiga, ma quando abbandona. “Exacerbavit Dominum peccator” (Sal. IX, 1), dice il Re Profeta. Il peccatore è arrivato a tal segno da esacerbare il cuor di Dio? Che ne avverrà? Sarà forse da Lui punito con malattie, amareggiato con perdite, percosso con disgrazie? Non già, non già! Sarebbero questi castighi, colpi per svegliarlo, ferite per guarirlo, avvisi per salvarlo. Ma no: nella moltitudine dei motivi dei motivi che accendono la giusta sua collera, Iddio più nol cerca, In moltitudine irae suae non quaere. Comprendetene uditori la terribilità e la conseguenza. Quando il medico dice agli assistenti ad un infermo, gli dian tutto quel che desidera, che segno è questo? Dobbiam dunque noi dare al nostro malato le cose da voi poc’anzi proibite e da voi chiamate nocive? Date, date, non v’è più rimedio, il caso è disperato, egli è perduto! – Ah Signore, castigateci pure colla sferza da padre, colla verga da pastore, col ferro e col fuoco da medico severo insieme e pietoso; ma non ci abbandonate al reprobo senso, non ci abbandonate a noi stessi. Se contro di noi si armeranno i ministri del vostro sdegno, la fame, la guerra, la peste, la morte, questi stessi flagelli ci daran la spinta a portarci ai vostri pie’ ed implorare pietà. Disingannati delle terrene cose ci volgeremo alle eterne, disperati della vita presente, penseremo alla vita futura. Ma se voi ci voltate le spalle, se voi ci abbandonate, si alzerà un muro tra Voi e noi, che ci dividerà in eterno. – Ad evitare somigliante castigo, massimo ed ultimo di tutti i castighi, rispettiamo, fedeli miei, la casa di Dio, accostiamoci al luogo santo con un timore reverenziale che ci contenga nella più modesta compostezza, che ci avvisi a non dir parola, a non azione che possa offendere gli occhi di sua divina maestà. Ce l’impone Dio stesso nel Levitico: Pevete ad sanctuarium meum (XXVI, 2). Che se noi, non curando la santità del luogo, imiteremo quegli empi veduti nel Tempio dal Profeta Ezechiele, vòlto il tergo all’altare, porgere incenso agli idoli, e con mille altre abominazioni contaminare il santuario; se le adorazioni a Dio dovute saran rivolte a qualche idolo di carne, se le mode scandalose saranno d’inciampo agli incauti, se la Chiesa per diabolica libertà diverrà un teatro, Iddio ci abbandonerà al suo giusto furore, si ritirerà dal luogo santo e da noi, com’Egli stesso se ne protesta col citato Profeta: “Recedam a santuario meo” (Ezech. VIII, 9). Così fece con la perfida Sinagoga. Gesù si nascose, ecco estinto nei figli suoi il lume della fede, Gesù uscì dal Tempio, eccoli segregati dalla sua alleanza, dispersi sulla faccia della terra, portar in fronte il marchio del deicidio, e della loro riprovazione, in odio a Dio e a tutte le nazioni. Guai a voi se in pena della violata religione, e del disprezzo della sua casa Gesù si nasconde! Resteremo in tenebre ed ombre di morte, cadremo nei precipizi degli eccessi più enormi. Guai a noi se Gesù si parte dalle nostre Chiese, come si partì da quelle dell’Asia, dell’Africa e dell’Egitto, divenute moschee maomettane; privi allora d’altare, di sacramenti, di sacrifizi e di ogni altro spirituale aiuto: per pochi giorni passeggeremo la via del libertinaggio, e gustati alcuni frutti di avvelenato piacere, coronati di rose piomberemo nell’inferno prima provato, che da noi temuto. Che Dio ci liberi!

 

Credo

 Offertorium V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps CXVIII:17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

 Communio 1 Cor XI:24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

 Dóminus vobíscum.

Et cum spíritu tuo.

Orémus. Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA

Introitus Is LXVI:10 et 11.

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI:1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus. Concéde, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV:22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”. [Fratelli: Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla líbera. Ma quello della schiava nacque secondo la carne, mentre quello della líbera in virtú della promessa. Cose queste che sono state dette per allegoria. Poiché questi sono i due testamenti. Uno dal monte Sínai, che génera schiavi: esso è Agar: il Sínai infatti è un monte dell’Arabia, che corrisponde alla Gerusalemme presente, la quale è serva insieme coi suoi figli. Ma quella Gerusalemme che è lassú, è líbera, ed è la nostra madre. Poiché sta scritto: Rallégrati, o sterile che non partorisci: prorompi in lodi e grida, tu che non sei feconda, poiché molti piú sono i figli dell’abbandonata che di colei che ha marito. Noi perciò, o fratelli, come Isacco siamo figli della promessa. E come allora quegli che era nato secondo la carne perseguitava colui che era secondo lo spírito, cosí anche al presente. Ma che dice la Scrittura? Metti fuori la schiava e suo figlio: poiché il figlio della schiava non sarà erede col figlio della líbera. Per la qual cosa, o fratelli, noi non siamo figli della schiava, ma della líbera: e di quella libertà a cui Cristo ci ha affrancati.]

R. Deo gratias.

Graduale Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus Ps. CXXIV:1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Gloria tibi, Domine!

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.” [In quel tempo: Gesú se ne andò di là del mare di Galilea, cioè di Tiberiade, e lo seguiva una gran folla, perché vedeva i miràcoli da lui fatti a favore dei malati. Gesú salí quindi sopra un monte: ove si pose a sedere con i suoi discépoli. Ed era vicina la Pasqua, festa dei Giudei. Alzando gli occhi, Gesú vide che una gran folla veniva da lui, e disse a Filippo: Dove compreremo pane per cibare questa gente? E lo diceva per métterlo alla prova, perché egli sapeva cosa stava per fare. Filippo gli rispose: Duecento danari di pane non bàstano per costoro, anche a darne un píccolo pezzo a ciascuno. Gli disse uno dei suoi discépoli, Andrea fratello di Simone Pietro: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma che è questo per tanta gente? Ma Gesú disse: Fate che costoro si méttano a sedere. Vi era molta erba sul posto. E quegli uòmini si mísero a sedere, ed erano quasi cinquemila. Gesú prese dunque i pani, rese grazie, e li distribuí a coloro che sedevano: e cosí fece per i pesci, finché ne vòllero. Saziati che fúrono, disse ai suoi discépoli: Raccogliete gli avanzi, onde non vàdano a male. Li raccòlsero ed empírono dòdici canestri di frammenti dei cinque pani di orzo, che érano avanzati a coloro che avévano mangiato. E questi, quindi, veduto il miràcolo fatto da Gesú, díssero: Questi è veramente quel profeta che doveva venire al mondo. Ma Gesú, sapendo che sarébbero venuti a prénderlo per forza, per farlo re, fuggí di nuovo da solo sul monte.]

Laus tibi, Christe! – S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

OMELIA

Omelia della DOMENICA IV DI QUARESIMA

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. GIOV. VI,1-15)

– Parola di Dio. –

La parola di Dio, chiamata dal savio onnipotente, operò cose grandi tanto nell’ordine di natura, quanto in quel della grazia. Nell’ordine di natura chiamò dal sen del nulla e sole e luna e stelle e mare e terra, e quanto vi ha di creature nell’universo, “Ipse dixit, et facta sunt(Ps. XLVIII). Nell’ordine della grazia sparsa per mezzo di poveri pescatori, convertì e riformò tutto il prevaricato mondo. La stessa divina parola attirò sempre le turbe a seguitar Gesù Cristo, e nel Vangelo odierno in numero di quasi cinquemila lo seguono in solitario deserto, dimentiche di ogni cibo, e di ogni ristoro; onde meritarono d’essere saziate dal pietosissimo Salvatore colla celebre prodigiosa moltiplicazione di pochi pani. Ora perché la medesima parola in una gran parte dei fedeli non produce gli stessi effetti? Perché non crea in noi un nuovo cuore, perché non riforma il nostro costume, perché non ci spinge a seguitar Gesù Cristo, ad imitarne suoi esempi e ad osservare i suoi precetti? Ecco, s’io ben m’avviso, il perché. Credesi da taluni che l’udir la partita di Dio sia cosa di supererogazione, così che l’ascoltarla sia bene, e non sia male il non ascoltarla. Errore egli è questo, dannevole errore. La parola di Dio o udita, o letta, o meditata è di assoluta indispensabile necessità. – Di questa necessità io spero convincervi, se mi degnate della solita cortese vostra attenzione. – Non si può meglio approvare la necessità della divina parola, che dall’oracolo dell’incarnata sapienza Cristo Gesù. L’uomo, dice Egli, non vive di solo pane, ma vive di quelle parole che escono dalla bocca di Dio. “Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod precedit de ore Dei” (Matth. IV, 4), e vuol dire: l’uomo è composto d’anima e di corpo; acciò egli viva della vita naturale e sensitiva, gli è necessario il pane, o qualunque altro cibo, che va inteso sotto di questo nome: e affinché viva della vita dell’anima, è necessario si pasca di un cibo confacente all’anima, ch’è puro spirito, di cibo cioè spirituale, qual è precisamente la parola di Dio. Da ciò ne segue che, siccome mancando al corpo il materiale alimento, perde le forze, e vien meno, così mancando all’anima l’alimento spirituale della divina parola, conviene che perda forza, vigore e la vita di grazia.Ma noi, potete qui interrompermi e dire, noi frequentiamo la divina parola, noi accorriamo alle prediche, ai catechismi, alla spiegazione del Vangelo, e pure ci troviamo sempre deboli, incostanti nel bene, facili al male, vuoti di virtù, pieni di difetti e di peccati. Onde viene, che da questo cibo dell’anima, l’anima non ne riporti alcun giovamento?” Potrebbe darsi, che ne fosse la causa quella che passo ad indicarvi. Altro è vedere una mensa imbandita di squisite vivande, altro è pascersene e ristorarsene. Se venite alla spiegazione del santo Vangelo, se vi conducete alla predica per mera curiosità, per semplice intrattenimento, se udite con gusto il sacro oratore sol quando vi diletta con bei concetti, con sublimi pensieri, con i tratti di fina eloquenza, voi in tal caso cogli occhi della mente vedete il cibo bensì, ma non lo tramandate allo stomaco, pascete l’intelletto, ma il cuore resta digiuno. E che giova portare il pane sul capo, e non servirsene per nutrimento? Rammentatevi il panettiere di Faraone. Sì sognò costui, e destato cercava un interprete che gli spiegasse il suo sogno. Lo aveva seco nella medesima carcere, cioè il giovanetto Giuseppe. Ad esso dunque rivolto, “mi pareva, gli disse, di portar sul capo tre canestri ripieni di lavori di finissimo pane per fornirne la mensa reale. Mentre m’incammino alla reggia, ecco una torma di rapaci avvoltoi, che via mi porta il lavorato pane, e vuoti mi lascia i canestri”. “Infelice, rispose Giuseppe, ti sei sognata la tua morte. Dopo tre giorni sarai decapitato, e il tuo corpo sospeso ad un legno sarà pasto dei corvi e degli sparvieri”. Chiunque ascolta la parola di Dio, per genio di curiosità, o per prurito di critica, chiunque la legge per passatempo, o per pura applicazione di studio, costui porta il pane sulla testa, come il servo del Faraone, sopravvengono poi distrazioni, affari, pensieri, che come avvoltoi si portano via la memoria dell’udita o letta divina parola. Passa la cosa come un sogno fuggiasco, ma è indizio di morte. Sarà dunque per noi inutile il mistico pane della divina parola, se giusta la frase del magno Gregorio “cibus mentis est sermo Dei: et quasi acceptus cibus stomacho languente reiicitur, quando auditus sermo, in ventre memoriæ non tenetur” (Hom. 15 in Evang.), non si manda allo stomaco se non si ritiene nel cuore e nella memoria, acciò sia di conforto e di alimento allo spirito.Parliamo fuor di figura, uditori miei. La divina parola, perché sia vantaggiosa, dev’essere applicata a noi stessi ed ai nostri spirituali bisogni. Iddio ci fa sentire per mezzo dei suoi ministri, che il peccato sarà la nostra rovina temporale ed eterna; bisogna lasciarlo; che una vita da buon cristiano ci assicurerà il premio di vita eterna: bisogna abbracciarla; che quell’amicizia strascina all’inferno: bisogna troncarla; che l’odio a quel nemico ci fa nemici di Dio, bisogna deporlo; che colla roba di altri non si entra in cielo: bisogna restituirla. E così andate dicendo di tutti gli altri doveri da osservarsi, consigli da seguirsi, mezzi da praticarsi per la nostra salvezza che Dio ci propone per mezzo della sua parola. – Conferma lo Spirito-Santo la necessità di questa parola. “La celeste Sapienza, dice Egli, pascerà l’uomo giusto col pane della vita e dell’intelletto”, “cibabit illum panæ vitæ, et intellectus(Eccl.). Che la parola di Dio si chiami pane di vita, è facilmente intesa l’allegoria, come abbiamo veduto dal bel principio. Ma come si spiega, ch’ella anche sia pane d’intelletto?Seguite ad ascoltarmi. La nostra volontà, insegnano i Teologi, per naturale necessaria prudenza è portata a cercare in tutte le cose il proprio bene, la propria felicità. Ma dessa è cieca. Chi le presta gli occhi, chi le serve di guida? L’intelletto … Se questo è illuminato dalle verità della fede, dalla luce dell’Evangelio, guida la volontà nella via retta, nella strada della salute; se è abbagliato da un falso lume, tira la cieca volontà nel proprio inganno; ond’ella a guisa di fanciullo stringe un ferro arroventato, perché lo vede lucente. Egli è dunque della massima ed estrema importanza, che l’intelletto sia fornito di quei lumi, che discendono dal Padre dei lumi, che non soggiacciono ad errore , che si contengono nella divina parola. – Volete vedere la differenza che passa tra un intelletto illuminato dalle verità della divina parola, ed un altro cui manca la luce delle medesime verità? Uditemi, e vie più ne comprenderete la necessità.Dalla parola di Dio ha origine la fede, “Fides ex auditu, auditus autem per verbum Christi” (Ad. Rom. X, 17). Un intelletto illuminato dalla fede per mezzo di questa parola va talora pensando, e pensar deve così: “io son posto da Dio su questa terra. Ed a che fine? Il mio fine non può essere cosa terrena. Me lo dice l’esperienza, poiché niun bene terreno può contentar il mio cuore. Me lo dice la morte, che fra non molto mi spoglierà di tutto. Col taglio suo fatale manderà il corpo alla tomba, l’anima all’eternità. Il primo passo è ad un tribunale tremendo, ove si deve decidere della mia eterna sorte. Chi mi potrà far buona causa a quel tribunale? Non l’oro, non il grado, non le scienze, non il mondo tutto: solo l’opere buone colà mi seguiranno: solo il peccato verrà meco, e solo il peccato può farmi avere il mal incontro. Il peccato dunque è quel nemico che debbo unicamente temere. Ma questo nemico con quali armi potrò vincerlo, e tenerlo da me lontano?” Coll’armatura di Dio, mi dice l’Apostolo (Ad Eph. VI), collo scudo della fede, colla spada della divina parola, coll’usbergo della giustizia, con l’esercizio delle cristiane virtù. – Ecco come pensa l’uomo cristiano illuminato, e pasciuto del pane di vita e d’intelletto. – Per l’opposto un intelletto digiuno di questo cibo, privo di questa luce, oscurato dalle tenebre, come dice S. Paolo, non distingue il falso dal vero, chiama bene il male, e male il bene, e a guisa di un fanciullo corre dietro ad una lucciola, perché la vede risplendere. Qual meraviglia se un cieco inciampa, se urta in un muro, se cade in una fossa? Giuseppe, perché à sana la vista dell’intendimento, teme Iddio, ha in orrore il delitto, e fugge dall’ impudica padrona. Sansone, perché ha la benda agli occhi, cade nelle reti di Dalida traditrice. Zaccheo, perché illuminato da Gesù Cristo, restituisce il quadruplo del mal tolto. Giuda, perché accecato dall’avarizia, vende per pochi denari il suo divino Maestro. Tutto dipende dal lume dell’intelletto. Senza di questo, dice Davide, l’ uomo è simile ai più stolidi giumenti, “sicut equus et mulus, quibus non est intellectus(Ps. XXXI, 9). E per ciò convinto lo stesso, e persuaso della necessità di questa luce suprema, “Signore, dice, voglio che la vostra parola, come un’accesa lucerna vada innanzi a’ piedi, e sia di fida scorta a’ passi miei, “lucerna pedibus meis verbum tuum, et lumen semitis meis(Ps. CXVIII, 103). – E nel Salmo centesimo decimo ottavo ripete più volte, datemi il dono dell’intelletto, o mio Dio, se volete che osservi i vostri precetti, se volete che io viva della vita della vostra grazia: “Da mihi intellectum, et discam mandata tua. Intellectum da mihi, et vivam”. – “Ma che vuol dire, voi ripigliate, che al sentire, o leggere la parola di Dio, restiamo benissimo penetrati da quelle luminose Verità; ma poco dopo svanisce il lume, e ci lasciamo abbagliare dal falso splendore, delle umane apparenze?” Vi risponde S. Giovanni Grisostomo, che su quelle parole del re Salmista, “lucerna pedibus meis verbum tuum”, riflette così: “In due modi si estingue una lucerna,o per mancanza di olio, o perché si tiene esposta al vento di rincontro a porte e finestre: “Spiritus æque ac lucerna extinguitur, si aut olei parum habueris, vel ostium non occluseris (Ap. Corn. In I ad Thessal., cap. 5, n. 52).Non altrimenti nella lettura di libri divoti, in ascoltar prediche vi sentite accesi in ispirito di fervore, una luce rischiara la vostra mente, una fiamma accende il vostro cuore. Ma se a questa fiamma lasciate mancar l’alimento, se non seguite a nutrirla con assidue letture, con meditazioni frequenti, con frequenza alle prediche, alle spiegazioni, verrà meno la fiamma, sparirà la luce, resterete all’oscuro. Se poi con tutto lo studio, l’applicazione, e l’assiduità alla parola di Dio, lascerete aperte le finestre dei vostri sensi a tutto vedere, a tutto udire, e di tutto parlare, si estinguerà in voi la fiamma e la luce, camminerete in mezzo alle tenebre, e non potrete aspettarvi se non cadute e precipizi. – Udite su quest’ultimo, come in epilogo, le verità che vi venni esponendo. Udite la risposta, che Gesù Cristo diede ad una certa donna, che dal mezzo della turba alzò la voce esclamando: “Beato il ventre che vi portò, e il seno che vi diede nutrimento”, “anzi, le disse, beati coloro che ascoltano e custodiscono la divina parola”, “Beati qui audiunt verbum Dei, et custodiunt illud(Luc. XI, 28). Tre brevi riflessioni su queste parole dell’incarnata Sapienza. Beati, non quei che hanno ascoltata, o che ascolteranno, ma quei che ascoltano; quei cioè, che per una continua frequenza di leggere, di meditare, di udire la divina parola, sono come in attuale esercizio di ascoltarla: “Beati qui audiunt”. Beati in secondo luogo quei che l’ascoltano non come parola dell’uomo, vale a dire che non riguardano il sublime o l’infimo del canale, da cui deriva, ma unicamente come parola di Dio: “Beati qui audiunt verbum Dei”. Beati finalmente quei che la custodiscono, che se ne pascono come d’ un pane, vivifico, e la tramandano al cuore, e la convertono in propria sostanza. Ella è una fiamma lucente, beati quelli che porgono costante alimento, e con gelosa custodia la conservano, nella mente e nel cuore: “Beati qui custodiunt illud”. Praticate voi così, uditori miei cari, e sarete beati nel tempo e nell’eternità, come io vi desidero.

CREDO

 Offertorium

V. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps CXXXIV:3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Communio Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. – R. Amen.

 

TERZA DOMENICA DI QUARESIMA

Introitus Ps XXIV:15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego.

[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio V. Dóminus vobíscum. – Et cum spiritu tuo.

Orémus. Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.  – Amen. 

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes V:1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.” [Fratelli: Siate imitatori di Dio, come figli diletti: e camminate nell’amore, così come il Cristo ha amato noi, e si è sacrificato egli stesso per noi, quale offerta e vittima in odore di soavità. Non si possa dire che tra voi si pràtica la fornicazione o qualsiasi impurità o avarizia, siate irreprensíbili come si addice ai santi: non risuònino tra voi oscenità, né sciocchi discorsi, né scurrilità o cose indecenti: ma piuttosto i rendimenti di grazia. Poiché, sappiàtelo bene, nessun fornicatore, o impudico, o avaro, che vuol dire idolatra, sarà erede del regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con vane parole: poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli ribelli. Non vogliate dunque avere società con essi. Infatti una volta eravate ténebre, ma ora siete luce nel Signore. Camminate da figli della luce: poiché il frutto della luce consiste in ogni specie di bontà, di giustizia e di verità.]

Deo gratias.

 Graduale Ps IX: 20; 9:4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

Voltano le spalle i miei nemici: stramàzzano e períscono di fronte a Te.]

Tractus Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in coelis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[V. Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi.

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis.

Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. [Luc XI:14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

[In quel tempo: Gesù stava liberando un indemoniato che era muto. E non appena cacciò il demonio, il muto parlò e le turbe ne rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: Egli caccia i démoni in virtù di Belzebùl, il príncipe dei démoni. Altri poi, per tentarlo, Gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorto i loro pensieri, disse loro: “Qualunque regno diviso in partiti contrarii va in perdizione, e una casa rovina sull’altra. Se anche satana è in discordia con sé stesso, come sussisterà il suo regno? Giacché dite che Io scaccio i démoni in virtú di Belzebù. Se io scaccio i demoni in virtú di Belzebù, in virtú di chi li scacciano i vostri figli? Per questo saranno essi i vostri giudici. Se Io col dito di Dio scaccio i démoni, certo è venuto a voi il regno di Dio. Quando il forte armato custodisce il suo àtrio, è al sicuro tutto quello che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui lo sovrasta e lo vince, porta via tutte le armi in cui egli poneva la sua fiducia e ne spartisce le spoglie. Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde. Quando lo spírito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti, cercando réquie, e, non trovandola, dice: ritornerò nella mia casa, donde sono uscito. E, venendo, la trova spazzata e adorna. Allora va, e prende con sé altri sette spíriti peggiori di lui, ed éntrano ad abitarvi, e la fine di quell’uomo è peggiore del principio. Ora avvenne che, mentre diceva queste cose, una donna alzò la voce di tra le turbe e gli disse: Beato il ventre che ti ha portato e il seno che hai succhiato. Ma Egli disse: Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano”.]

Laus tibi, Christe! – Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia

Omelia della DOMENICA III di QUARESIMA

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca, XI-14,28)

Contro la Disonestà.

L’Evangelio di questa domenica ci presenta il divin Salvatore, che dal corpo di un energumeno discaccia un demonio, il quale muto si appella dal sacro Testo, perché legata teneva la lingua del povero ossesso; ma, uscito appena lo spirito invasatore, parlò all’istante il non più muto, e ne restarono da meraviglia sorprese le astanti turbe. Non si legge però, che fosse più per ritornare quel demonio ad invadere l’uomo prosciolto. Parlando invece in questo istesso Vangelo Gesù Cristo di un altro demonio, che da Lui si chiama spirito immondo, ci fa intendere, che se avvenga di cacciar via dall’uomo un tale spirito, ei contristato ed inquieto per aver abbandonato il luogo di sua dimora, fa ogni sforzo per ritornarvi, e se gli riesce, non viene più solo, ma porta seco sette altri spiriti di sé più maligni; onde lo stato di quell’uomo stesso diventa peggiore del primo; Dio ci guardi, uditori amatissimi, da questo spirito immondo, che rende l’uomo carnale, che lo fa schiavo della disonestà: vizio, dice S. Tommaso, che più d’ogni altro fa strage, vizio il più difficile a sradicarsi, vizio che più d’ogni altro colpisce l’anima di penale cecità, cecità per cui l’uomo imbrattato da questo fango, attaccato da questa pece, arriva a tal segno, che più non conosce Dio, e più non conosce sé stesso. Due proposizioni, che passo a dimostrarvi, pregandovi che alla gravità ed importanza dell’argomento sia corrispondente la vostra attenzione.

I. L’uomo disonesto arriva per l’ordinario a tal estremo di accecamento, che non conosce più Dio. I pagani, è riflessione di S. Agostino, per togliere il naturale ribrezzo all’opere più vergognose, e trovare impunità alle proprie sregolatezze, si finsero dèi infetti delle stesse loro sozzure, e perciò adoravano un Giove adultero, una Giunone incestuosa, una Venere impudica. I cristiani però, che sanno per fede che il Dio che adorano è un Dio santo, puro, perfetto, anzi la stessa santità, e la stessa purezza, sono ridotti a questo bivio, o di lasciar l’impudicizia, abbominata e punita da Dio, o rivoltarsi contro lo stesso Dio. E a questo eccesso purtroppo si arriva dall’uomo disonesto. A misura che il suo cuor si corrompe per questa passione brutale, si alza una nube sì fosca all’intelletto, che si perde la vista e la cognizione di Dio. Si va più innanzi. Cresce la corruzione del cuore, e crescono vieppiù e si condensano neri vapori, che oscurano e fan languire il lume della fede, nascono dubbi sulle verità della religione, e quanto essa c’insegna si critica, si dileggia; si giunge finalmente a dir coi deisti, che non c’è provvidenza, che Iddio si aggira sui cardini del cielo senza curarsi di noi; o cogli atei, che non v’è Dio “non est Deus(Ps. XIII, 1). So che questo nol dice, che dire nol può con persuasione d’intelletto, ma lo dice con tutto il desiderio d’un cuore, che così vorrebbe per non sentir rimorso de’ suoi delitti, per non aver da temere un giudice, che lo condanna e lo minaccia d’eterni castighi; stolto perciò vien chiamato dal re Profeta, perché si sforza a dire colla brama del cuore quel che credere non può col convincimento della mente: “dixit ìnsipiens in corde suo, non est Deus(Ps. XIII, 1) . – Qualora dunque io ascoltassi un giovane, che muove dubbi sulle cattoliche verità, che mette la lingua in cielo, che sprezza con un’aria imponente quanto v’à di più sacro nella religione e nella Chiesa, “Ah! figliuol mio, dirgli potrei, voi non parlavate così quando andavano del pari l’innocenza del vostro cuore e la probità dei vostri costumi. Avete mutato linguaggio perché in voi si è cangiato cuore. Il fiato che puzza è mal indizio d’interno guasto: chi sputa marcia ha infetto il polmone. La vostra incredulità non cominciò dalle letture di libri di empietà, o dai discorsi dei miscredenti, ma dalla corruzione del vostro cuore ammalato e sedotto dalla tiranna passione dei piaceri carnali. L’ateismo, diceva sensatamente il celebre Pico della Mirandola, non è il padre della disonestà, ma la disonestà è madre dell’ateismo. Un tal accecamento, che porta al desiderio che Dio non esista, ed alla stolta bravura di negare la sua esistenza, egli è in un senso peggiore di quel dei dannati, e degli stessi demóni. Degli uni e degli altri si legge nel santo Vangelo, che sono gettati nelle tenebre, e tenebre esteriori, “eiicite in tenebras extcriores” (Matt. XXV, 30). – Tutti avvolti in orride caligini nell’esterno, pur con un lume interiore conoscono Dio: Lo conoscono come vendicatore dei loro misfatti, conoscono che il possederlo sarebbe il rimedio a tutti i loro mali, e che l’esserne privi forma tutto il loro tormento. Credono finalmente, come attesta S. Giacomo, credono Dio, e ne tremano per l’orrore, “dæmones credunt, et contremiscunt” [Cap. II, 19]. – Per l’opposto i sensuali, in mezzo ad una luce che esteriormente li circonda, son tutti tenebre nell’interno. Luce esteriore sono: i cieli e le creature tutte, che predicano il lor Facitore, luce: i princìpi dell’avuta cristiana educazione, luce: gli esempi degli uomini virtuosi, i saggi consigli, i salutari avvisi , le prediche, le sante immagini, i riti della Chiesa, i morti, i sepolcri. Lampi son questi di luce vera, che annunziano un Dio, il culto a Lui dovuto, il dominio supremo sulla vita e sulla futura sorte delle sue creature. E pur in mezzo a tanta luce hanno, dice l’apostolo, l’intelletto oscurato dalle più dense tenebre, “tenebris obscuratum habentes intellectum(Ad Eph. IV. 18). E perché? Risponde lo stesso apostolo, “semetipsos tradiderunt impudicitiæ”. Si sono dati in braccio all’impudica passione!

II. Qual meraviglia poi che i disonesti perdendo la cognizione di Dio perdono altresì la cognizione di sé stessi? L’uomo si può considerare secondo questi due aspetti, in genere cioè come uomo, ed in ispecie riguardo ai suoi uffizi nell’umana società. Or mirate come il vizio impuro arriva ad accecarlo secondo l’uno e l’altro rispetto. In ordine al primo, un uomo immerso nel fango della disonestà più non sa d’esser uomo, degrada la sua natura, avvilisce la sua condizione, ch’è poco minor dell’angelica: e l’avvilisce per modo, che da S. Pietro si assomiglia all’animale immondo, che gode rivoltolarsi nella più sozza lordura, “sus lota in volutabro luti” (Pet. II. 22). L’uomo, dice S. Bernardo, l’uomo superbo pecca, non ve n’ha dubbio, ma pecca da angelo prevaricatore, perché il suo peccato procede dal disordine del suo spirito. L’avaro usurpatore dell’altrui roba pecca anch’egli, è cosa certa, ma pecca da uomo; poiché l’uomo naturalmente è portato a provvedere ai suoi bisogni, o ad ingrandirsi. L’uomo sensuale però pecca, e pecca da bestia, pecca da animale irragionevole, “sicut equus et mulus. quibus non est intellectus(Ps. XXXI, 9), e supera sovente gli stessi animali per l’obbrobriosa malizia, con cui tutte calpesta le leggi della verecondia e della natura. E che di più umiliante per l’uomo, quanto il divenir animale, e perdere la cognizione di sé stesso? Così è, dice l’Apostolo,animalis homo non percipit(ad Cor. 2). Deplora questo abbassamento e questa cecità il reale profeta, Homo cum in honore esset”. Creato l’uomo ad immagine e similitudine di Dio, innalzato pel dono della ragione al grado di padronanza su tutti gli animali, non ha voluto far uso dei lumi di questa sua facoltà intellettiva, non intellexit, e per la più sordida delle passioni si è fatto simile agli insensati giumenti, onde da essi più non si distingue, “comparatus est iumentis insipientibus, et similis factus at illis (Ps. XLVIII, 13);animalis homo non percipit”.E se più non conosce sè stesso l’uomo carnale in qualità di ragionevole, qual cognizione avrà poi di sé medesimo in quei diversi uffizi che lo costituiscono membro dell’umana società? Ponete un uomo di grado qualunque e di autorità, se arde del fuoco impuro, il fumo gli darà agli occhi, e non avrà più vista per conservarne il decoro. Fatevi tornare a mente i due vecchioni tentatori della casta Susanna. Si avviliscono questi a sorprenderla in luogo, donde la decenza doveva tenerli lontani; si abbassano a domandarle un delitto; trovano generosa ripulsa, si appigliano all’iniquo e vile partito delle minacce e della calunnia. Erano pur giudici della loro nazione, possedevano coll’onore della carica la stima di tutto il popolo; ma la brutta passione gli acceca per modo, che tentano da sfacciati, minacciano da furfanti, non sanno sostener l’impostura, si confondono, cadono in contraddizione, si fa manifesta linfame calunnia, perdono la carica, lonore, la vita sotto una tempesta di pietre. Rammentate Salomone; finché temé Dio è l’oracolo dei suoi tempi, la sua sapienza incomparabile va del pari con la stima e meraviglia dell’universo; ma appena si accende in suo cuore l’amor delle donne straniere, eccolo ridotto a tal cecità, che porge l’incenso agli idoli insensati, e colla perdita del suo buon nome lascia in dubbio quella di sua eterna salvezza. Ma non abbisogniamo d’esempi antichi. Un padre di famiglia preso dal desiderio dell’altrui donna non sa più d’esser marito, e tratta da schiava la sua consorte, non sa più d’esser padre, e toglie crudelmente il pane di bocca ai suoi figli per pascerne una lupa. Quella figlia dominata da cieco e forsennato amore calpesta l’onor di sua persona, della sua famiglia, del suo parentado, e con l’obbrobrio che l’accompagna, porta in trionfo il frutto vituperevole del suo peccato. Quel nobile non arrossisce in coltivare le più abbiette della plebe. Quel giudice non si vergogna in sacrificare all’idolo della disonestà e la giustizia e la propria reputazione. – Insomma la sfrenata passione della libidine è come il fuoco cresciuto in un incendio, che tutto distrugge, che si appiglia del pari alle materie più vili e più preziose, alle profane, alle sacre, ai mobili più necessari, al tetto, alle porte, alla paglia, al letame. – Or qual rimedio a questo vizio tirannico? Rimedio? Oh Dio! Se ad un cieco si mettesse la spada al petto, se si portasse sull’orlo d’un precipizio, si commoverebbe egli? Pensate; non vede né la spada minaccevole, né il precipizio vicino, e perciò non può sentirne spavento. Tal è la misera condizione degli accecati dalla passione sensuale. Dite a costoro che, se non si convertono, la spada della divina giustizia li ferirà d’un colpo mortale “nisi conversi feriti gladium suum vibrabit(Ps. VII), dite che tanto sono lontani dal precipitar nell’inferno, quanto da loro è lontana la morte. Seguite a dire che Iddio, tocco intimamente e ferito nel cuore dalla malizia di questo peccato, “tactus dolore cordis intrinsecus(Gen VI, 6), sommerse nell’acque dell’universale diluvio tutta l’umana generazione, a riserva di Noè e della sua famiglia; aggiungete che fece piovere fuoco dal cielo ad incenerire le infami città e tutti i nefandi abitatori di Sodoma e di Gomorra: dite, esponete quanto di più terribile narrano le storie e minaccia la fede, essi impediti da vergognosa benda non vedono, e veder non vogliono il proprio pericolo, non si risentono, perciò non si commuovono. Giusto castigo di Dio sdegnato, che sparge, secondo la frase di s. Agostino, sopra le illecite carnali cupidigie le tenebre di penale accecamento: “Sparget poenales cæcitates super illicitas cupiditates”. – Dunque non vi sarà rimedio a tanto male? Vi è sicuramente, e ne abbiamo l’esempio e la norma nel cieco di Gerico. Egli conosceva il male della sua cecità, e n’era dolente. Se voi, peccatori fratelli miei, se pur qui siete, cominciate a comprendere la miseria del vostro stato, e ne provate tristezza, se ne sentite rimorso, fate cuore, confidate, e disponetevi ad un secondo passo. Quel cieco al sentire il calpestìo della turba che cogli apostoli accompagnava il Salvatore, interrogò che cosa fosse. Fate altrettanto voi, interrogate, chiedete ai ministri di Dio, che cosa è mai, che con tutt’i piaceri di senso il vostro cuore non è mai contento? Domandate come potreste uscire dal vostro stato infelice. Il cieco, all’udire ch’era Gesù Nazzareno che di là passava, alzò gridando la voce: Gesù figliuol di Davide, abbiate pietà di me. Alzate anche voi clamori e preghiere a Gesù, ed implorate la sua pietà. Il cieco venne ripreso dal suo gridare, ed egli gridò a più forte voce, “Jesu fili David, miserere mei”. Se nel volgervi a Dio con umili istanze sentirete i reclami delle vostre passioni, i rimproveri dei complici de’ vostri disordini, non vi lasciate arrestare, chiedete con maggior forza e con più viva fede a Gesù pietà e misericordia. Il cieco finalmente condotto ai pie’ del Redentore, interrogato che cosa domandava un povero cieco, rispose, che altro può domandare che la vista? Domine, ut videam”. Chiedete ancor voi a Gesù, luce del mondo, che risani la vostra cecità, che rischiari il vostro intelletto, “Domine, ut videam”. Aprirete allora, come il mendìco di Gerico, gli occhi alla verità, avrete in orrore il vizio che vi accecò, e una vita nuova e tutta pura vi farà goder la pace vera, che può solo dar Dio, e che supera ogni piacere di senso: Pax Dei, quæ exsuperat omnem sensum(Ad, Phil. IV, 7) .

Credo

Offertorium

Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps XVIII:9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Amen. 

Communio

Ps LXXXIII:4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Dóminus vobíscum. – Et cum spíritu tuo.

Orémus. A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.