DOMENICA DI SETTUAGESIMA [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Ps 17:2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.

Oratio
Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX:24-27; X:1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

Deo gratias.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli; Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. Torino, 1899 – VOL I. Omelia XXI.]

“Non sapete voi, che coloro, i quali corrono nell’arringo, bensì tutti corrono, ma uno solo riporta il pallio? Correte per modo che lo riportiate. Ora chiunque combatte nella palestra, si contiene in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile, ma noi per una corona incorruttibile. Io pertanto corro per guisa, che non sia come alla ventura: combatto, non quasi battendo l’aria. Anzi reprimo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché dopo aver predicato agli altri, io stesso non diventi reprobo. Perché, o fratelli, io non voglio che ignoriate come i padri nostri furono tutti sotto la nube e tutti passarono il mare, e tutti furono per Mosè battezzati nella nube e nel mare e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale e bevvero tutti la stessa spirituale bevanda: perché tutti bevvero della pietra spirituale, che li seguiva; la pietra poi era Cristo: ma nei più di loro non si compiacque Iddio. „ –

Fin qui l’epistola propria di questa Domenica, detta di Settuagesima. Si chiama Domenica di Settuagesima, perché è la settima Domenica, che precede la Domenica di Passione, con cui si aprono i grandi misteri della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Il tratto che vi ho recitato, si trova in fine del capo nono ed in principio del capo decimo della prima lettera ai Corinti, scritta da S. Paolo la primavera dell’anno cinquantesimosesto dell’era nostra, prima della Pentecoste (capo XVI, 6-8). È una calda esortazione ad assicurare la corona eterna per non essere simili a quegli Israeliti che morirono nel deserto, senza poter entrare nella terra promessa. – Udiamola e facciamone tesoro. “Non sapete voi, che coloro, i quali corrono nell’arringo, bensì tutti corrono, ma uno solo porta il pallio? „ Corinto era la città principale dell’Acaia, fiorente di commerci e di arti e celebre eziandio per dissolutezza di costumi; tantoché era passata in proverbio in tutto l’Oriente. In quel gran centro Paolo aveva fondata una chiesa numerosa e, partitone per la sua missione apostolica e stabilitosi per qualche tempo in Efeso, di là scrisse due lettere ai Corinti. – Presso questa città si celebravano i grandi giuochi, detti istmici, ai quali accorreva pressoché tutta la Grecia. Erano giuochi di corse, comuni in Grecia, nei quali i vincitori ricevevano la corona ed il loro nome era glorioso presso i concittadini. S. Paolo, sì pronto e sì felice nell’approfittare d’ogni cosa per istruire i fedeli e chiarire la verità, coglie il destro da questi giuochi notissimi e sì cari ai Corinti, per inculcare ciò che gli sta a cuore. Voi, così egli, sapete bene che nei vostri famosi giuochi sono moltissimi quelli che discendono nell’arena e si lanciano al corso per toccare la meta: ma quanti sono coloro che colgono la corona? Uno solo: gli altri corrono indarno. Noi pure Cristiani abbiamo il nostro arringo da correre e la nostra corona da guadagnare: il nostro arringo è la vita intera, che la Provvidenza ci accorda quaggiù sulla terra, arena di combattimenti e luogo di prova: la nostra corona è la conquista del cielo, il possesso di Dio stesso. “Correte tutti, esclama S. Paolo, per guisa, che riportiate il pallio. „ Nessuno si arresti, nessuno sia pigro, nessuno venga meno al dovere: corriamo tutti affine di raggiungere la meta. “Ora chiunque combatte nella palestra, si contiene in tutto. „ Quelli che scendevano nella palestra sia per la corsa, sia per battersi col cesto, con le mani o in qualsiasi altro modo, mettevano somma cura in prepararsi alla prova, esercitando le membra, ungendosi, astenendosi da certi cibi e pigliandone altri con non lieve loro sacrificio. Insomma quei lottatori si condannavano a non poche privazioni e a dure fatiche per riportare la corona; una corona corruttibile, di nessuno o poco valore per sé, e uno solo poteva guadagnarla. E sì tanto pativano e tanto facevano per sì povera mercede, argomenta qui l’Apostolo, e noi Cristiani che non dobbiamo fare per cogliere la nostra corona? A differenza di quei lottatori, dei quali un solo poteva averla, noi tutti e ciascuno di noi può e deve averla ed incorruttibile. A somiglianza adunque di quegli antichi atleti e per una causa incomparabilmente più nobile della loro, rifiutiamo al nostro corpo tutto ciò che può impedirgli o rendergli difficile il correre e vincere in questo arringo della vita cristiana: mortifichiamo i nostri occhi, le nostre orecchie, la nostra lingua, la nostra gola, i nostri pensieri, il nostro corpo tutto: stacchiamoci dall’amore sregolato delle cose terrene, affinché leggeri e spediti possiamo correre la via del cielo e vincere i nemici che vi incontreremo: il mondo, la carne, il demonio. “Sei soldato dappoco, grida il Crisostomo, se credi di poter vincere senza battaglia, di trionfare senza combattimento. E ad ogni sforzo, gagliardamente combatti, ti getta intrepidamente nel folto della mischia. Poni mente al patto, bada alle condizioni: ricorda il patto della tua milizia, le condizioni, con le quali vi entrasti „ (Serm. dei Martiri), E qui S. Paolo, con un rapido passaggio, che in lui non è raro, mette innanzi l’esempio di se stesso: “Io corro per guisa, che non sia come alla ventura: combatto, non quasi battendo l’aria. „ È sempre l’immagine dei lottatori istmici od olimpici, che comparisce sotto la penna dell’Apostolo, il quale è lieto di non fare com’essi facevano assai volte, correndo nello stadio e battendosi fieramente tra loro per soccombere senza mercede e senza gloria. Egli, l’Apostolo delle genti, ha uno scopo sicuro, una meta nobilissima, a cui tende, uditelo: “Io reprimo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché dopo aver predicato agli altri, io stesso non diventi reprobo. Egli signoreggia con lo spirito il suo corpo, nel quale si annidano tutte le passioni: lo raffrena, lo punisce col digiuno, con la veglia, con la penitenza, col portare la sua croce per averlo ubbidiente e strumento docile alle opere sante; che se ciò non facesse, egli stesso, ancorché apostolo, non sarebbe senza timore della sua salute e di perdersi dopo aver predicato agli altri (Domandano i teologi, se S. Paolo era certo della sua predestinazione eterna: io lo credo, appoggiato alle sue parole della lettera ai Rom. VIII, 38, 39. Come dunque poté dire che aveva timore d’essere tra i reprobi, se non assoggettava il suo corpo? Si può dire che era certo di essere predestinato, facendo ciò che doveva fare, come condizione richiesta, come esecuzione dei disegni della Provvidenza). – Carissimi figliuoli! se l’Apostolo temeva di essere nel numero dei reprobi se non avesse mortificato il suo corpo e ridottolo a servitù, che dobbiamo noi dire e temere di noi stessi, sì indulgenti con esso e sì facili a secondarne le tendenze! Ohimè! il Vangelo e le Lettere apostoliche, ad ogni pagina, e con le più forti espressioni, ci predicano la gran legge, la suprema necessità della mortificazione del corpo, qual condizione assoluta della salvezza, e pochi sono coloro, che l’intendono, e ciò che più importa, che la praticano! Mettiamoci ben nell’animo questa verità incontrastabile: se vogliamo essere salvi, dobbiamo mortificare il corpo. Prosegue l’Apostolo, confermando la ragionevolezza del suo timore e la necessità di mantenersi fedele alla vocazione cristiana. Noi, par che dica l’Apostolo, siamo stati chiamati alla fede, io poi anche alla gloria dell’apostolato: noi siamo stati battezzati, illuminati, santificati coi Sacramenti, nutriti nel grembo della Chiesa. Sono benefici preziosissimi; ma tutto questo basta ad assicurarci della eterna nostra salvezza? Potremmo ancora dopo tutti questi insigni favori perderci miseramente? Sì, pur troppo, risponde S. Paolo. – Io non voglio che ignoriate, o fratelli, sono sue parole, come i padri nostri furono sotto la nube, e tutti passarono il mare e tutti furono per Mosè battezzati nella nube e nel mare. „ Più ancora, soggiunge S. Paolo: “Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale. „ Eppure non tutti, ma pochissimi, due soli poterono entrare nella terra promessa: il somigliante può avvenire a noi ancora, figliuoli del Vangelo. Non occorre illustrare quelle frasi dell’Apostolo, furono sotto la nube, furono battezzati in Mosè, nella nube e nel mare e mangiarono lo stesso cibo spirituale, perché tutti vi scorgono un cenno alla nube, che il giorno copriva Israele e la notte si mutava in colonna di fuoco: al passaggio del mar Rosso e alla manna, onde si nutrì nel deserto. La nube, che la notte si mutava in fuoco e più ancora il passaggio del mar Rosso, erano simbolo del Battesimo, che è detto il Sacramento della luce: e come Israele passò sano e salvo sulla riva opposta del mar Rosso e l’esercito egiziano con Faraone rimase sepolto sotto i flutti, così dalle acque del Battesimo esce rigenerata l’anima nostra e in essa rimangono sommersi i peccati. Il cibo poi di cui si nutrirono gli Israeliti – che è la manna, si dice spirituale, perché raffigurava il cibo delle anime per eccellenza, la santa Eucaristia. – E non solo gli Israeliti si nutrirono dello stesso cibo, ma “bevvero la  stessa spirituale bevanda, „ ossia la stessa acqua miracolosa, che Mosè fece sgorgare dalla pietra: acqua miracolosa, che figurava la grazia divina, o meglio, la bevanda celeste del sangue adorabile di Gesù Cristo. Quell’acqua, dice l’Apostolo, scaturiva dalla pietra, la qual pietra simboleggiava Cristo, che doveva venire a suo tempo e che a nostro modo di dire pellegrinava col popolo israelitico, da cui traeva la sua origine secondo la carne. Dilettissimi, non lo dimentichiamo giammai: la sola grazia di Dio, i suoi doni più eletti, i suoi favori più insigni, da sé soli, non ci salvano, come i miracoli più strepitosi non condussero il popolo d’Israele nella terra dei suoi padri: ma ci salvano se la nostra corrispondenza a quei doni e favori si unisce costantemente, perché quel Dio che ci ha creato senza l’opera nostra, senza l’opera nostra non vuole salvarci.

Graduale
Ps IX:10-11; IX:19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te. Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Gloria tibi, Domine!

Matt XX:1-16

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia II

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Omelia XXII.]

Questa parabola, d’una naturalezza ammirabile, racchiude uno dei più profondi misteri della nostra fede, qual è la distribuzione della grazia dalla parte di Dio, e la corrispondenza col merito relativo da parte degli uomini. Esporre la parabola versetto per versetto, come siamo soliti fare, richiederebbe troppo tempo: perciò, mutando metodo, oggi esporrò tutta insieme la dottrina nascosta sotto il velame della parabola, riserbando un commento speciale agli ultimi due versetti. E per spianarci la strada alla spiegazione della parabola, ricordatevi che il padre di famiglia rappresenta Iddio, la vigna rappresenta la Chiesa, i lavoratori sono gli uomini, la giornata è la vita dell’umanità sulla terra, od anche la vita di ciascun uomo; la sera è il termine dei tempi; il danaro è la mercede del lavoro, ossia il premio della vita eterna. Ora poniamo mano allo svolgimento della dottrina cattolica, che Gesù Cristo volle insegnarci con questa parabola. – Iddio crea e colloca gli uomini sulla terra e vuole che qui, nel tempo, si santifichino e meritino la vita beata nella eternità. Ma perché gli uomini possano operare la propria santificazione nel tempo e meritare la vita beata nella eternità, che cosa si domanda? Dalla parte di Dio si domanda che conceda ad ogni uomo la grazia, che lo prevenga, che lo illumini, che lo muova e lo trasformi in suo figliuolo adottivo. E dalla parte dell’uomo che cosa si domanda? Si domanda, che accolga questa grazia, la secondi e cooperi fedelmente. Allora Iddio a questo uomo, che ha fatto fruttare la grazia con le opere compiute in vita, perché fedele alle sue promesse e alla sua giustizia, dà la vita eterna con il possesso di se medesimo. Ondeché la vita eterna, il possesso del cielo è frutto della grazia divina, ed insieme delle opere e dei meriti dell’uomo. Ora vi domando, o carissimi: Dio è egli obbligato a dare la grazia all’uomo, senza della quale non può far nulla? Certamente, no. Che  dovere avrebbe egli Iddio di dare la sua grazia all’uomo? Quali meriti vi possono mai esser  in lui, quali diritti da poter dire, a Dio: “Voi mi dovete dare la vostra grazia; io ho il diritto, io, miserabile creatura, d’essere adottato da voi come figliuolo?” Nell’uomo adunque non vi è, né vi può essere diritto o merito di sorta per avere la grazia: la fede e la ragione lo proclamano. Ma se l’uomo non ha diritto di avere la grazia in forza dei suoi meriti, che devono essere effetti della grazia istessa, ha forse diritto di averla appoggiato alle esigenze della sua natura? Posto che Dio ha creato l’uomo col bisogno dell’aria per respirare, del cibo e della bevanda per sfamarsi e dissetarsi e ristorare le forze naturali, ne segue il diritto da parte dell’uomo di avere l’aria, il cibo e la bevanda; diritto non fondato nei meriti, ma nelle esigenze della natura. La cosa corre forse così anche quanto alla grazia? La natura è ella creata per modo che richieda quale elemento necessario la grazia, tantoché, posta la esigenza della natura nostra, ne venga qual conseguenza necessaria il diritto alla grazia? No, no, dilettissimi. Dio poteva creare la natura senza la grazia, perché questa è tal bene a cui la natura non ha, né potrà mai avere, diritto alcuno. Hai tu, uomo, diritto di avere le ali per volare o d’essere re? No, per fermo. Come potresti avere diritto d’avere la grazia, che ti unisce a Dio e d’essere figlio suo adottivo? Non parliamo adunque dei diritti della natura in ordine alla grazia divina, che sta al di sopra d’ogni nostra esigenza. Ma Dio, unicamente per sua bontà, vuol dare agli uomini tutti la sua grazia, e la promette nel modo più solenne. Posta questa promessa solenne di Dio, gli uomini hanno essi il diritto di averla? Sì, l’hanno, appoggiati non ai propri meriti, che non ne hanno; non alla natura, che non ha con la grazia proporzione o nesso necessario, ma alla promessa di Dio, che è fedele, e purché adempiano le condizioni che Egli ha imposte. Dio, che ha promesso a tutti la sua grazia, adempiendo le condizioni da Lui stesso stabilite, è egli forse obbligato a darla a tutti e a ciascuno nella stessa misura, nello stesso tempo e nello stesso modo? No, certo. Egli vuol salvi tutti, e perciò a tutti deve dare la sua grazia, per quanto è da Lui; ma le vie, il tempo, la qualità, l’intensità, tutto è riservato al suo sovrano volere e nessuno ha diritto di chiedergliene ragione. Questo fu e sarà sempre per noi sulla terra un mistero impenetrabile, che umilia il nostro orgoglio, che ci obbliga a maggior gratitudine, se più degli altri abbiamo ricevuto, che non ci dà ombra di ragione di lamentarci, se meno abbiamo ricevuto. Ora potete comprendere il significato della parabola: il padrone di casa o padre di famiglia chiama a lavorare nella sua vigna tutti quelli, senza eccezione, che trova per le vie e per le piazze: non uno è escluso, e a tutti è promessa la mercede. Ma li chiama tutti insieme, alla stessa ora, allo stesso modo? No. Chiama gli uni in sul far del mattino, altri a tre ore, altri a sei ore, altri a nove, a dieci, ad undici ore del giorno, cioè in sul fare della sera. Quegli uomini potevano accusare di ingiustizia il padrone? Potevano dirgli: Dovevi chiamarci tutti all’aprirsi del giorno, alla terza od all’undecima ora? Sarebbe folli a il pensarlo. Egli ha promesso di chiamar tutti, e tutti chiama; ma chiama a quell’ora che gli piace e nessuno può muoverne lamento. Chiama gli Ebrei per i primi; chiama dopo i gentili; chiama Pietro, Andrea e gli altri Apostoli nei primi giorni della sua predicazione; chiama Paolo più tardi, più tardi ancora Cornelio, Timoteo, Dionigi e andate dicendo: questi chiama ancor bambino, quegli fanciullo, quell’altro giovane e adulto e molti perfino quante volte decrepiti, sul letto del dolore, gli ultimi istanti di vita! Egli è padrone della sua grazia; a tutti dà ciò che è necessario; con alcuni largheggia, con altri profonde i suoi tesori; a chi dà cinque talenti, a chi due, a chi uno; questo vuol semplice fedele, quello sacerdote, quell’altro Pontefice; è padrone dei suoi doni e dà a ciascuno, come dice S. Paolo, come vuole: Divìdens singulis prout vult. Chi mai oserebbe chiedergliene il perché? Nessuno. – Dunque, chiamati a qualunque ora, popoli ed individui, in qualunque modo, per qualunque mezzo, rispondiamo sempre: “Eccoci pronti ad entrare nella vigna del Signore”, e, imitando la generosità degli ultimi lavoranti, quanto alla mercede, non patteggiamola e rimettiamoci alla munificenza del padrone. Lavoriamo, ciascuno, secondo i doni ricevuti e il tempo che ci è concesso, anzi, se ne abbiamo perduto, coll’intensità del lavoro riscattiamone la brevità, come insegna S. Paolo, Redìmentes tempus. – Una difficoltà presenta la parabola là dove si dice, che tutti i lavoratori ebbero la stessa mercede, un danaro, quelli che lavorarono un’ora sola, come quelli che lavorarono il giorno intero, portandone il peso e l’arsura. Come ciò? La ragione naturale non vuole che la mercede sia in ragione del lavoro? Lavoro più lungo e più grave domanda maggior mercede. E la Scrittura non insegna che Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue? (Matt. XVI, 27). Come dunque vuolsi intendere questa mercede data a tutti egualmente? Ecco la risposta che mi sembra la migliore, anzi l’unica. — La mercede, che il padre di famiglia dà a tutti eguale, rappresenta la vita eterna. In che sta riposta la vita eterna? Nella visione beatifica di Dio. E questa è data a tutti indistintamente quelli che si salvano? Senza dubbio! Il premio o mercede adunque, in quanto che tutti possiedono lo stesso bene, che è Dio stesso, è eguale per tutti. Ma il modo e la misura di godere di questo bene sarà uguale? No: esso risponderà ai meriti maggiori o minori di ciascuno. Mille persone contemplano quel magnifico edificio, che è il duomo di Milano: l’oggetto contemplato è lo stesso per tutti; ma il conoscimento e il gusto del bello sarà diverso in ciascuno secondo l’ingegno, l’attitudine e la coltura. Il somigliante avverrà a tutti i beati in cielo possessori tutti dello stesso bene, variamente ne godranno. Il Vangelo nella eguaglianza della mercede data ai lavoranti volle esprimere la eguaglianza del possesso di Dio, non la disuguaglianza del goderne. E bene a ragione il padre di famiglia rispose a quelli che si lagnavano: Non vi faccio ingiuria: vi do ciò che vi spetta: a tutti do ciò di cui siete capaci, ciò che basta per essere perfettamente felici; che volete di più? Oltre di che quelli che lavorarono meno poterono benissimo in quel breve tempo coll’intensità del lavoro compensare il tempo e pareggiare i primi e meritare egual mercede. Forse a taluno si affaccerà una difficoltà: se il godimento della felicità eterna sarà diverso in ragione della grazia e della cooperazione alla grazia, non spunterà nell’animo il desiderio di più alto loco e quindi un senso penoso di gelosia e d’invidia? Giammai, carissimi, perché ciascuno avrà tutto ciò che corrisponde alle proprie forze e non potrà nemmeno concepire il desiderio di maggior felicità. Ad una lauta mensa seggono molti convitati e diverso è il bisogno del cibo in ciascuno, in chi più, in chi meno. Quando tutti sono sazi secondo la loro natura, è impossibile il desiderio di maggior cibo o di maggior bevanda e perciò è impossibile nei beati desiderio qualsiasi di maggior godimento. Il Vangelo si chiude con due sentenze, che è prezzo dell’opera sviluppare: ” Così saranno ultimi i primi e primi gli ultimi: che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. „ È chiaro che la prima sentenza, compendio in parte della parabola, si riferisce agli Ebrei ed ai gentili: quelli furono chiamati i primi, perché a loro fu data la legge e i profeti e perché Gesù Cristo e gli Apostoli a loro annunziarono prima la verità; ma, eccettuati pochi, la respinsero: al loro luogo sottentrarono i gentili, che ignoravano la legge ed i profeti, e così quelli che vennero dopo furono i primi: e poiché alla fine dei tempi si convertiranno anche gli Ebrei, così i primi verranno ultimi. Nulla di più chiaro. L’altra sentenza: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti „ è alquanto più difficile. Pensano alcuni che questa sentenza non si leghi con la parabola, e non senza fondamento, perché dalla parabola appariscono non solo chiamati tutti nelle varie ore del giorno, ma anche tutti eletti, perché a tutti, non uno eccettuato, è data la mercede. Come dunque dobbiamo intendere quella sentenza? Molti sono chiamati, cioè tutti, perché tutti sono i molti e perché questa parola è usata anche per significar tutti (Ai Rom. v, 15): tutti sono chiamati, ma gli eletti, cioè le anime privilegiate, più perfette, che si levano alle altezze supreme della virtù e della santità, non sono molte, son poche. Carissimi! Non vogliate turbarvi, udendo queste parole: “Sono pochi gli eletti, „ quasi che siano pochi coloro che si salvano. Noi non sappiamo il numero degli eletti, né ci gioverebbe il saperlo; sappiamo solamente che Iddio vuol salvi tutti, tutti gli uomini, e che volendoli salvi, deve dare loro la grazia necessaria; che non la rifiuta mai a chi dal canto suo fa quel che può fare, e chi si perde, si perde unicamente perché ha voluto perdersi, e ciò ne basti a nostro conforto.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta
Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Communio
Ps XXX:17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

DOMENICA III dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XCVI:7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Saggio di omelie, vol. I, Om. XV, Torino, 1899]

“Non riputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia: procurate il bene non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. Non vi vendicate da voi, o carissimi, ma date luogo all’ira, perché sta scritto: “A me la vendetta; renderò io la retribuzione, dice il Signore. Se dunque il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare: se ha sete, dagli da bere; facendo così, radunerai carboni accesi sul suo capo. Non ti lasciar vincere dal male, ma col bene vinci il male „

Queste stupende sentenze dell’apostolo Paolo sono la continuazione di quelle che udiste nella penultima Omelia, come quelle erano la continuazione dell’altra penultima. La Chiesa nella epistola di queste tre Domeniche dopo la Epifania ci ha messo sotto gli occhi da meditare l’intero capo XII della lettera ai Romani, vero e sublime compendio della dottrina morale del Vangelo. – Io penso che raccogliendo e ordinando insieme tutto ciò che di bello e perfetto dissero sparsamente nei loro volumi tutti i filosofi di Grecia e di Roma intorno ai doveri morali degli uomini, non avremmo la decima parte delle verità morali che S. Paolo ha condensate in questo solo capo. Quanta differenza tra l’insegnamento incerto, diffuso, manchevole, misto ad errori e senza autorità di quelli, e l’insegnamento preciso, breve, compiuto, scevro d’ogni ombra ed autorevole di S. Paolo! È questa dell’Apostolo una pagina che, anche sola, meditata a dovere, ci fa sentire e conoscere quale abisso corra tra la dottrina morale dei sommi sapienti del paganesimo e quella di Gesù Cristo. Ma veniamo al commento. – “Non reputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia. „ Una delle cause più frequenti e più gravi delle nostre colpe e, dirò anche, dei nostri malanni domestici e pubblici, è la soverchia fiducia che riponiamo nella nostra abilità e nelle nostre forze: essa ingenera la presunzione, l’avventatezza nel parlare e nell’operare e l’imprudenza con tutti i suoi effetti. Perciò S. Paolo grida ai suoi figli spirituali: “Non reputate voi stessi sapienti; „ non appoggiatevi soverchiamente a voi stessi, ma rivolgetevi per lumi ad altri più savi di voi e soprattutto appoggiatevi a Dio, da cui viene ogni lume. “Non rendete male per male a chicchessia: „ è una sentenza, che l’Apostolo, nella foga del dire, ha cacciata qui, ma, che tosto ritorna sotto la sua penna e che svolge più ampiamente, onde è bene rimetterla ai versetti seguenti. – “Curate il bene non solo innanzi a Dio. ma anche innanzi a tutti gli uomini. „ Queste parole l’Apostolo le piglia dal libro dei Proverbi capo III, vers. 4, e qui si vogliono spiegare alquanto diffusamente. Noi dobbiamo sempre fare il bene: ma talvolta può avvenire che quello che è bene in sé e dinanzi a Dio, non lo sia egualmente dinanzi agli uomini che giudicano dalle apparenze, od anche secondo le loro passioni od inclinazioni; e noi allora adoperiamoci a raddrizzare i loro giudizi e mostriamo che ciò che facciamo è veramente bene e avremo tolto lo scandalo. Queste parole possono anche intendersi in altro modo e forse migliore: Dio vede la nostra mente, il nostro cuore e la nostra intenzione, e gli uomini vedono e conoscono soltanto le nostre opere e le nostre parole. Ebbene: vediamo di fare ogni cosa, internamente ed esternamente, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, in modo da piacere a Dio ed agli uomini stessi. Anzi tutto dobbiamo fare il bene dinanzi a Dio. Come? avendo sempre un fine retto, quello di adempire il nostro dovere, di ubbidire a Dio, di procurare la sua gloria, il bene dei prossimi, e scacciando qualsiasi altro fine men degno del cristiano, come sarebbe la vanità, il capriccio, l’interesse e andate dicendo. Nel fine specialmente sta la bontà delle opere nostre e questo Dio solo lo vede. Dobbiamo fare il bene anche dinanzi agli uomini, cioè in guisa che non sia offesa la carità, che non sia male interpretato, che giovi, se è possibile, a tutti e tutti ne ricevano edificazione. – “Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. „ Vuole l’Apostolo che abbiamo pace con tutti, quella pace che Gesù Cristo portò sulla terra e tante volte raccomandò ai suoi Apostoli; ma vi mette due condizioni, che sono naturali. La pace è desiderabile e dobbiamo procurarla con ogni studio, ma salvi sempre i diritti della verità e della giustizia. Se gli uomini per accordarci la pace ci domandano il sacrificio della verità e della giustizia, noi dobbiamo rinunciare alla pace e rassegnarci alla lotta, sia quanto si vuole lunga e crudele. Era in questo senso che Gesù Cristo diceva d’essere venuto a portare, non la pace, ma la spada, ossia la guerra, e questa verità accenna l’Apostolo allorché dice: “Se è possibile, siate in pace con tutti. „ Vi è un’altra condizione ed anche questa non infrequente. Noi possiamo volere, desiderare e procurare, la pace, ma gli altri per animo malvagio, possono ricusarla: in tal caso la pace non è possibile. Allora che dobbiamo fare? Che si richiede da noi? Si richiede e basta, che noi dal canto nostro siamo sempre disposti a fare e mantenere la pace, il che S. Paolo ha espresso chiaramente in quelle parole: ” Quanto è da voi. „ Che altri non voglia la pace o la turbi, è male, ma tal sia di loro; ne risponderanno a Dio; ma voi vogliatela sempre e dal lato vostro non la turbate mai. Seguiamo l’Apostolo nelle magnifiche sue lezioni morali. ” Non vi vendicate da voi, o carissimi. „ Gli altri, cosi in sentenza S. Paolo, potranno turbare la pace, offendervi, manomettere i vostri diritti, farvi ingiustamente ogni male. Che farete voi? Potrete voi da voi stessi rendervi giustizia e vendicarvi dei vostri nemici ed oppressori? No, no, grida il grande Apostolo: ciò non è lecito, non è da cristiano, e nemmeno da uomo. “Date luogo all’ira, „ insegna S. Paolo. E che vuol dire dar luogo all’ira ? Se altri vi odia e rompe in ira con voi e vi copre d’ingiurie, voi tacete pazientemente; lasciate che l’ira sua, a guisa di torrente o di nembo impetuoso passi e si dilegui: l’opporvi potrebbe accrescerne il danno, e bisogna ricordarci che una parola benigna e mansueta ammorza l’ira e che un vento procelloso atterra l’albero che sta ritto e resiste, ma non la molle erbetta che si piega e cede. Oh! quante discordie, quante querele, quante risse sarebbero impedite in casa, per le vie, dovunque, se noi dessimo luogo all’ira, frenassimo la lingua ed al fratello che sbuffa d’ira e getta fuoco dagli occhi opponessimo il silenzio tranquillo e senza fiele! Ricordate sempre le parole di S. Paolo: “Date luogo all’ira. „ “Non vi vendicate da voi. „ Se ciascuno volesse vendicarsi da sé per le offese ricevute, che ne avverrebbe? Manifestamente la società intera andrebbe sossopra, anzi sarebbe distrutta. – Se tu vuoi farti giustizia da te stesso, qualunque altro uomo avrebbe egual diritto, e perciò ogni uomo sarebbe giudice e vindice delle offese che ha ricevute, o crede di aver ricevute, e troppe volte il diritto soccomberebbe alla forza e si scambierebbe con la violenza. Dunque non spetta mai all’individuo fare la vendetta per le offese ricevute. A chi spetta? A Dio, solo a Dio, che rende giustizia quaggiù per mezzo della autorità costituita, che mantiene l’ordine e turbato lo ristora, che può e deve rendere a ciascuno secondo le opere sue. – Non occorre il dirlo: in queste parole di S. Paolo: “Non vi vendicate da voi, „ son vietate non solo tutte le vendette private, ma il duello, del quale sì spesso udite parlare e che in sostanza è una vendetta, che uno si prende da se stesso. Uno è offeso in un modo qualunque e sfida a duello l’offensore e scendono sul terreno per decidere con le armi alla mano le loro ragioni, accompagnati dai medici e da quelli che si dicono padrini o testimoni. Nulla di più irragionevole, o cari, di questi duelli, che si osa chiamare partite d’onore, necessità sociali. Tu sei stato offeso ingiustamente? Eccoti il tribunale, eccoti i giudici, e se meglio ti piace, gli arbitri. A loro esponi i tuoi diritti offesi ed essi ti faranno ragione. Ma tu esigi la riparazione con le armi in pugno. Ma così facendo tu rimetti alla forza il giudizio del diritto. Si può fare ingiuria maggiore al buon senso, alla ragione naturale quanto con l’appellare, non alla ragione stessa, alla legge, ma alla forza e talvolta al caso? Quante volte chi aveva ragione nel duello ebbe la peggio ed alla offesa ricevuta aggiunse il danno delle ferite ed anche della morte e la vergogna di soccombere! Qual differenza tra due villani o facchini,, che offesi a vicenda nell’impeto dell’ira si scagliano addosso, si pestano a pugni o danno di piglio ai coltelli, si feriscono od uccidono? Nessuna, anzi, se v’è differenza, essa sta tutta a danno dei duellanti, perché generalmente più istruiti; e perché si battono a sangue freddo ed in modi determinati e con armi scelte e perciò il loro delitto è più inescusabile. E mettono innanzi l’onore offeso! L’onore si ripara col giudizio di uomini competenti, con la sentenza dei giudici, non mai con l’uso delle armi e con l’offesa fatta alle leggi ed all’onore. Il duello, tenetelo ben fermo, o cari, è cosa indegna di uomini ragionevoli, di buoni cittadini, è un avanzo di barbarie, è il diritto della forza, è il giudizio del caso e tutti i sofismi del mondo non varranno mai a giustificarlo. È un delitto nel senso più volgare della parola. – Alla autorità, che è posta da Dio e lo rappresenta sulla terra, sottomettiamoci, come a Dio stesso. Che se ella non può o non vuole renderci giustizia, leviamo gli occhi in alto, a lui che è il Giudice infallibile, al quale nessuno può sfuggire e che ha detto: “A me la vendetta; io renderò la retribuzione. „ Rimettiamo la nostra causa a Dio; Egli, a suo tempo, punirà i nostri offensori e darà loro la mercede secondo le opere loro. Se noi volessimo fare la vendetta per conto nostro, usurperemmo il diritto, che spetta a Dio solo. Ponete che un padre abbia molti figliuoli e che questi vengano a litigio tra di loro e che l’uno se la pigli con l’altro, lo offenda e lo percuota malamente sotto gli occhi del padre suo. Voi che direste? Certamente voi lo condannereste anche nel caso che avesse ragione contro del fratello, e gli direste: “Tu hai il padre tuo, tuo giudice naturale: a lui devi rimettere ogni giudizio: la vendetta che ti prendi da te stesso è una offesa gravissima al diritto paterno, è una brutta usurpazione d’una autorità che non hai. ,, Noi tutti siamo figli del Padre nostro, che è nei cieli: siamo dunque fratelli: che l’uno dunque non si levi mai contro dell’altro, e ne lasci il giudizio a quelli che Iddio ha posto sulla terra a reggere gli uomini e, se questi vengono meno, ne lasci il giudizio a Dio stesso, a cui tutti dovranno rendere ragione delle opere loro. E tu che devi fare intanto col tuo offensore, col tuo nemico? Guardarlo di mal occhio? Serbargli odio in cuore? Fuggirlo come un nemico? Udite, udite, o cari, l’insegnamento di S. Paolo: ” Se il tuo nemico ha fame, dagli a mangiare: se ha sete, dagli a bere. „ È l’insegnamento stesso di Cristo, in altre parole: ” Amate i vostri nemici, diceva Gesù Cristo nel Vangelo (Matt. V, 44), benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per quelli che vi fanno torto e vi perseguitano. „ La carità non può poggiare a maggiore altezza. “Così facendo, prosegue l’Apostolo, tu radunerai carboni accesi sul suo capo. „ Come ciò? Amando chi ti odia, beneficando chi ti perseguita e fa danno, tu lo costringerai a smettere il suo odio, lo forzerai ad amarti, vincendolo a forza di benefici. ” Radunerai, così commenta S. Girolamo, radunerai carboni accesi sul capo di lui, non già a sua maledizione e condanna, come pensano alcuni, ma a sua correzione ed a suo ravvedimento, sinché vinto dai beneficii e conquistato dalla carità, cessi dall’esserti nemico. „ ” Non ti lasciar vincere dal male, è la conclusione di S. Paolo, ma col bene vinci il male. „ Che vuol dire, fa bene a chi ti fa male, e sarà questa la più bella e la più gloriosa delle tue vittorie. – Sono piene le storie ecclesiastiche e le biografie dei Santi di esempi luminosi di tanta carità e non sono rari nemmeno al giorno d’oggi in quelle anime, nelle quali la dottrina di Gesù Cristo non è una semplice professione di fede, ma operosa realtà. Ho conosciuto un negoziante, sorto dal nulla, ottimo marito e padre eccellente di numerosa famiglia: era un cristiano modello. I suoi negozi prosperavano a meraviglia. Se ne rodeva d’invidia un suo vicino, pur esso negoziante: ne parlava male, gettava sospetti sulla sua onestà e spargeva voci sinistre sul suo conto in modo da cagionargli non solo grave dispiacere, ma non lieve danno, scemandogli il credito. Il pio cristiano soffriva e taceva, né mai rifiutava il saluto al suo vicino invidioso e maledico. Gli affari di questo precipitarono: impotente a pagare certe grosse cambiali, il disastro era imminente ed inevitabile. Lo seppe la vittima innocente della sua invidia e della sua maldicenza: senza farne motto a persona corse dai creditori, pagò i debiti dell’emulo suo e suo nemico e lo salvò dalla catastrofe, limitandosi a fargli tenere in bel modo le cambiali soddisfatte. – L’infelice salvato stupì a tanta generosità, pianse, corse dal suo benefattore, gli gettò le braccia al collo, gli chiese perdono e narrò a tutti l’eroica virtù di lui. Ecco, o dilettissimi, un uomo che raduna sul capo del suo nemico carboni accesi e col bene vince il male.

Graduale
Ps CI:16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua [V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps 96:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt VIII:1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre.
Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis. Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

[In quel tempo: Essendo Gesù disceso dal monte, lo seguirono molte turbe: ed ecco un lebbroso che, accostatosi, lo adorava, dicendo: “Signore, se vuoi, puoi mondarmi”. Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: “Lo voglio. Sii Mondato”. E tosto la sua lebbra fu guarita. E Gesù gli disse: “Guarda di non dirlo ad alcuno: ma va, mòstrati ai sacerdoti, e offri quanto prescritto da Mosè, onde serva a loro di testimonianza”. Entrato poi in Cafàrnao, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosi e dicendo: “Signore, il mio servo giace in casa, paralitico, ed è malamente tormentato”. E Gesù gli rispose: “Verrò, e lo guarirò”. E il centurione disse: “Signore, non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, sebbene soggetto ad altri, ho sotto di me dei soldati, e dico a uno: va, ed egli va; e all’altro: vieni, ed egli viene; e al mio servo: fa’ questo, ed egli lo fa”. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e a coloro che lo seguivano, disse: “Non ho trovato fede così grande in Israele. Vi dico perciò che molti verranno da Oriente e da Occidente e siederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ove sarà pianto e stridore di denti”. Allora Gesù disse al centurione: “Va, e ti sia fatto come hai creduto”. E in quel momento il servo fu guarito.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Volontà di salvarsi

Un povero lebbroso andava in cerca di Gesù Nazzareno, spinto dal desiderio di ricuperare la perduta sanità. Quando opportunamente lo vede discendere dal declive d’un monte, seguitato da numerosa turba, e fattosi a Lui incontro, proteso a terra profondamente L’adora. Indi alzato il capo, le mani e la voce, “Signore, Gli dice, se Voi volete, io son guarito, il potere non manca: basta un atto di vostra volontà; “Domine, si vis, potus me mundare”. In vista di tanta umiliazione, di tanta fede, stende la mano il pietoso Signore, e “tu, gli risponde, mi chiedi se voglio mondarti, e ciò è appunto che voglio. Orsù resta mondo”, “volo mundare”. E così avvenne sull’istante. “Vattene, soggiunse poi, presentati al sacerdote, ed offerisci al Tempio quel che da Dio vien prescritto nella legge di Mose”. Fin qui un tratto dell’odierno Vangelo, in cui due cose naturalmente si presentano alla nostra riflessione; cioè la volontà del lebbroso in cercar la sua guarigione, e in procurarsela con i modi più moventi ed efficaci, e la volontà dei divin Redentore, manifestata con quell’imperioso “volo”, e compiuta coll’istantaneo prodigioso risanamento di quell’infelice. Da ciò dobbiamo apprendere, uditori miei, che per conseguire la nostra eterna salvezza, sono necessarie due volontà: quella di Dio, e la nostra. Quella di Dio è sempre pronta, la nostra sovente manca. Sono questi i due riflessi, che meritano tutta la nostra applicazione. La volontà di Dio è sempre disposta e pronta a salvarci. Dio vuole che tutti si salvino, “vult omnes homines salvos fieri” (ad Tim. II, 4). Di questa sua volontà ci ha Egli dato prove? Infinite! Noi eravamo per l’originale peccato, figli d’ira, vasi di riprovazione, e secondo la frase di S. Agostino, una “massa dannata”. Dio Padre, mosso a pietà di noi, diede il proprio Figlio riparatore dei nostri mali, e vittima dei nostri falli; ed Egli discese dal cielo per liberarci dalle catene del peccato, e dalla schiavitù del demonio. “Propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de cœlis” (Symb. Nic.). Osservate pertanto quel Dio fatto uomo nella capanna di Bettelemme, quelle lacrime che sparge sono sparse per lavarci dalla lebbra immonda delle nostre colpe; quel sangue che versa fin dai primi giorni nella sua circoncisione, è il balsamo per le nostre ferite. – OsservateLo in Gerusalemme nella Galilea, nella Palestina, ove ammaestra i discepoli, istruisce i popoli, catechizza le turbe, e ovunque sparge con la sua predicazione i semi dell’Evangelica sua dottrina, e con gli stupendi prodigi i lampi della divinità, che in Lui si asconde. E tutto ciò a fine di farsi conoscere per nostro liberatore, maestro e guida; onde seguendo le sue pedate, arriviamo per istrada sicura all’esenta salute. OsservateLo finalmente nell’orto dei suoi languori sudante sangue, nel pretorio da ogni parte grondante sangue, sul Calvario dalle piaghe e dal cuor trafitto versante sangue fino all’ultima stilla, e poi dite, di questo suo sangue Gesù Cristo ha formato un bagno salutare per lavarci dalla macchia dell’originale peccato; ed a riparo dell’innocenza perduta ha aperto un altro bagno dello stesso suo sangue nel Sacramento della penitenza, Battesimo secondo, seconda tavola dopo il naufragio. Che vi pare di queste prove? doveva forse far di più per dimostrarci la volontà che ha della nostra salvezza? – Poco forse vi muovono le indicate prove, perché universali, estese a tutto il genere umano? Seguite ad ascoltarmi. Siete voi nel numero degl’innocenti, o de’ penitenti, o dei peccatori? Se siete innocente, ditemi: “chi vi conservò illibata la candida stola della battesimale innocenza?” Chi vi ha liberato dai tanti pericoli del mondo e della carne? È Dio, che vi fece sortire un’anima buona, un’indole inclinata al bene, un’ottima educazione cristiana; è desso che con le sante ispirazioni, con i lumi della sua fede, con gli aiuti della sua grazia regolò i vostri passi, i vostri affetti, le vostre azioni. Desso è che vi ha tenuto lontano da tante occasioni nelle quali avrebbe fatto naufragio la vostra innocenza. Desso è finalmente che, in mezzo ai lacci e agli scandali d’un secolo così pervertito, vi ha difeso come un giglio fra le spine, come Lot fra le abominazioni di Sodoma: dunque Dio vi vuol salvo! Siete penitente? Or bene chi fu il primo a richiamarvi dalla via di perdizione? chi v’ispirò di tornare ai suoi piedi? chi vi diede forza a risolvervi? Chi vi diede grazia di vomitare il veleno dei vostri peccati ai piedi del confessore? Chi medicò le vostre ferite? Gesù, Samaritano pietoso, col vino della sua sapienza, con l’olio della sua misericordia! Egli vi accolse al suo seno come un altro fìgliuol prodigo, vi diede un bacio di pace, e vi rivestì della stola prima, cioè della grazia santificante. Dunque Dio vi vuol salvo! Se poi siete peccatore non ancor ravveduto, ditemi da chi vengono quelle interne voci che vi chiamano a penitenza? Da chi sono eccitati i rimorsi, che v’inquietano nelle vegliate notti, che vi amareggiano nei tediosi giorni, che vi avvelenano gli stessi vostri piaceri, che vi fan toccar con mano che il peccato non può farvi contento? Dalla divina misericordia partono questi colpi, la quale vi vola d’intorno, come provò S. Agostino, e vi assedia, e amaramente vi affligge con tetre apprensioni, con nere malinconie massime in quel tempo che una sventura vi attrista, che una febbre vi crucia, un dolor vi tormenta, una grave infermità vi minaccia di morte vicina. Son questi finissimi tratti della bontà di un Dio che non vi perde di vista, che tutta adopera i mezzi per farvi uscire dal vostro misero stato e vi molesta per consolarvi, e vi ferisce per risanarvi, perché in fine, sazio e mal contento del mondo, del peccato e di voi stesso, cerchiate in Lui la pace che non avete, la felicità che aver non potete, se non in Lui. Dunque Dio vi vuol salvo! A finirla, siete una pecorella innocente? È Gesù buon pastore, che vi custodì nel suo gregge. Siete pecorella ritornata dai vostri traviamenti? È Gesù buon pastore che sugli omeri suoi vi riportò all’ovile. Siete pecora ancora errante? È Gesù buon pastore, che vi tien dietro, e vi chiama a sé, perché non andiate in bocca al lupo infernale. Dunque, ripetiamolo ancor una volta: Dio vi vuol salvo!

II. “S’è così, ripigliate voi, noi abbiamo in pugno la nostra salvezza. Dio ci vuol salvi, noi vogliamo salvarci, e chi è quello stolto che non voglia salvarsi? … dunque la nostra salvezza sarà sicura”. Sicura sarà se avrete una volontà decisa, efficace, operante. Una volontà astratta, superificiale, oziosa non vi salverà. Siccome vi sono delle monete legittime, e delle false, così v’è una volontà vera, ed una fallace. Come faremo a distinguerle facilmente? L’oro si conosce alla prova del fuoco, la volontà si distingue alla prova del fatto. Perché Iddio ha una vera volontà di salvarci, abbiamo veduto poc’anzi quanto abbia fatto, e quanto fa continuamente per noi. Veniamo dunque all’opere, se ci preme la nostra salute. Voi pertanto, anime innocenti, allontanatevi dai pericoli del tristo mondo, adempite i doveri del vostro stato, frequentate le Chiese e i Sacramenti, regolatevi con le massime della fede, fortificatevi colle incessanti preghiere, perseverate nel bene e vi salverete! Voi penitenti cristiani, piangete i vostri trascorsi, ed il vostro pianto vi accompagni fino all’ultimo dei vostri respiri, fuggite le occasioni pericolose, soddisfate la divina giustizia con le opere di penitenza, mortificate i vostri sensi, raffrenate le vostre passioni, la mutazione del vostro cuore si manifesti col cambiamento dei vostri costumi, perseverate nell’intrapresa via di penitenza, e vi salverete. Voi peccatori, fratelli miei cari, ancor macchiati da colpa, ancor coperti di lebbra, imitate il lebbroso del presente Vangelo, gettatevi ai piedi di Gesù, portatevi ai pie del sacerdote, tuffatevi nel bagno formato dal sangue dell’immacolato Agnello di Dio nella sacramental confessione, e sarete guariti, e Dio vi salverà. Non vi sentite acconci di farlo? Dunque non volete salvarvi! Costantino imperatore, carico di schifosa lebbra, consultò per liberarsene i più valenti medici del suo impero, ed essi gli consigliarono un bagno di sangue di fanciulli lattanti, in cui dovesse immèrgersi, e ricuperare la pristina salute. Questo crudel consiglio, questo crudelissimo bagno, non ebbe effetto; poiché gli apparì S. Pietro, gli propose un bagno migliore nel santo Battesimo, ove acquistò la salute dell’anima e del corpo. Fingete però che si fosse eseguito, immaginatelo presente. Che orrore! Chi può soffrir la vista di quel sangue innocente, caldo, fumante? “Spogliati barbaro imperatore”. Che mi spogli? l’aria fredda, la stagione cruda, non mi sento per ora, più tosto … ah disumano, ah mostro di crudeltà! dunque per così poco tu rendi inutile il dolor di tante madri, il sangue di tanti bambini? Deh cessiamo dalle invettive in un supposto accidente, rivolgiamole contro di noi in un fatto vero. Gesù Cristo ha dato tutto il suo sangue, ne ha formato un mistico bagno nel Sacramento di penitenza per darci vita e salute, e noi per non spogliarci di un abito cattivo, per risparmiare un incomodo, rifiutiamo un tanto e così necessario rimedio? Dunque non vogliamo salvarci! – Se il Signore ci comandasse aspre, difficili cose pure per la salute eterna converrebbe eseguirle. Quanto si soffre per la salute del corpo? Rigorose diete, amare bevande, tagli di membra, dolori di spasimo; e per l’anima si ricusa un rimedio così consolante, qual è chiedere a Dio perdono col cuor contrito, e scoprire le proprie piaghe a chi tiene il suo luogo? “Se il Profeta Eliseo (dissero i cortigiani al loro principe Naaman Siro), se Eliseo per guarirvi dalla lebbra v’avesse ordinato una cura lunga, ardua, penosa, dovreste intraprenderla; ma una cosa sì agevole, qual è il lavarsi nel fiume Giordano, perché non praticarla?” Si arrese il principe al saggio consiglio, e doppiamente fu risanato, nel corpo cioè e nello spirito. Un esito egualmente felice dobbiamo sperare dal Sacramento della penitenza. Più dell’acque del Giordano è salubre il sangue dei Redentore. – Lavati così nei fonti del Salvatore, ecco quel che far ci resta, fedeli amatissimi, apprendetelo dalla bocca di Gesù Cristo. Un certo giovane Gli domandò che far doveva per conseguire la vita eterna, “si vis, gli rispose, ad vitam ingredi, serva mandata” (Matth. XIX, 17). Ponderate bene queste divine parole : “si vis”, se tu vuoi entrare nell’eterna vita, osserva i comandamenti; se tu vuoi, e veramente vuoi, tu mi darai prove del tuo volere con l’osservanza dei divini precetti. – Altrettanto ripete a ciascun di noi. Volete salvarvi? ecco la necessaria condizione, osservate la legge di Dio! Ma se invece bestemmiate il suo santo Nome, se non santificate le feste, se per santificarle vi contentate d’una Messa sentita in piedi, con gli occhi in giro, con la mente altrove, se usurpate la roba d’altri, se non restituite, se odiate il prossimo, se gli togliete la fama, se non lasciate il giuoco, il ridotto, la scandalosa amicizia, non state a dire che volete salvarvi, perché direste bugia, perché smentite col fatto quel che pronunziate con la lingua. La strada non passa. Quel Dio, dice S, Agostino, che ha creato voi senza di voi, non vuol salvare voi senza di voi. “Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”. Iddio per crearvi non ha avuto bisogno di voi, vi ha tratto dal nulla, con un sol atto di sua volontà; ma per salvarvi, e assolutaménte vuole, che alla sua volontà sia unita la vostra, con eseguire in tutto la sua santissima volontà. Non vi sentite, non volete farlo? Dunque non volete salvarvi, non vi salverete! – Concludiamo, e mi sia permesso servirmi d’un detto tratto dalla storia non sacra. Nei passati secoli, e nella nostra Europa eravi forte guerra tra due possenti monarchi; e com’è costume di tutti i tempi, tra i novellisti e geniali si teneva diverso partito, e la futura vittoria chi la voleva per l’uno, chi per l’altro sovrano. Interrogato su di ciò un principe neutrale, qual di quei due credeva sarebbe il vincitore, rispose: “vincerà quegli a cui presterò la mia spada”. Cristiani amatissimi, tra Dio e il demonio, a nostro modo d’intendere, passa una forte guerra contro dell’anima nostra. Iddio la vuole per sé, e come abbiam veduto, ne ha dato i più evidenti contrassegni, il demonio la vuol sua, e fa tutti i suoi sforzi. Chi la vincerà? senza alcun dubbio colui la vincerà, al quale presteremo la nostra spada, a cui uniremo la nostra volontà. – Se unita la volontà nostra è con quella del demonio, volendo persistere nel peccato, noi siam perduti. Sarà unita a quella di Dio con la fedele osservanza della sua santa legge? Noi sarem salvi!

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXVII:16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio
Luc 4:22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio
Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

DOMENICA II dopo EPIFANIA

DOMENICA II dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXV:4
Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV:1-2
Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.
[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]


Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.
[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:6-16
“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes
.”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol. I, Torino – 1899 Omelia XIII]

“Avendo noi doni differenti, secondo la grazia, che ci è stata data, se abbiamo la profezia, adoperiamoci a proporzione della fede; se abbiamo il ministero, attendiamo al ministero; se il magistero, attendiamo ad insegnare. Colui che esorta, attenda ad esortare; chi distribuisce, lo faccia con semplicità; colui che presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere pietose, si presti con ilarità. La carità sia senza simulazione: abborrite il male, attenetevi al bene. Amatevi fraternamente: prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non siate pigri: siate ferventi nello spirito, dedicati al servizio di Dio, allegri nella speranza, costanti nelle afflizioni, perseveranti nell’orazione, partecipi ai bisogni dei santi, facili alla ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benediteli e non vogliate maledirli. “Rallegrate vi con chi è allegro, piangete con chi piange. Abbiate tra voi uno stesso sentimento, non rivolgete l’animo a cose alte, ma acconciatevi alle basse „ (Rom. cap. XII, vers. 6-16).

Questo tratto della epistola ai Romani segue immediatamente a quello che vi spiegai nell’omelia XI e non è che una serie di sentenze morali d’una bellezza veramente stupenda. Esse erompono dall’anima ardente dell’Apostolo con una foga, con una facilità ed efficacia incomparabile. Se queste massime sì sublimi e sì semplici, che rispondono a meraviglia a ciò che vi ha di più intimo e più nobile nella nostra natura, fossero cadute sotto gli occhi di Platone, di Aristotele, di Cicerone e di tanti filosofi pagani, quale stupore ne avrebbero avuto? Con quale entusiasmo le avrebbero abbracciate? Noi le abbiamo sotto gli occhi e negli orecchi ogni giorno e per poco non vi poniamo mente! Nati in mezzo alla luce, non ne comprendiamo il pregio: educati con queste santissime verità, non ne apprezziamo debitamente) l’altezza. Oggi veniamole considerando partitamente e con amore e ne rileveremo la bellezza. – S. Paolo dopo aver fatto osservare, che la Chiesa è somigliante al corpo umano, il quale è uno solo, ma ha molte membra differenti, con differenti uffici, tra loro armonicamente! coordinati, prosegue, e dice: “Avendo noi doni differenti, secondo la grazia, che ci è stata data, se abbiamo la profezia, adoperiamoci a proporzione della fede. „ Il sole è uno solo, eppure crea una varietà sterminata di  colori secondo la natura degli oggetti che illumina: così Dio, che è uno e semplicissimo, produce nelle anime una varietà prodigiosa di doni, che mostrano la grandezza e fecondità inesauribile del donatore. Ciascuno di noi ha i suoi doni particolari? Usiamone. Hai tu il dono della profezia? Qui il dono della profezia non significa propriamente annunziare le cose future, ma la facoltà di parlare delle cose spettanti alla religione. Ebbene: l’adopera nella misura che l’hai ricevuto, secondo le tue forze. “Se abbiamo il ministero, segue l’Apostolo, attendiamo al ministero. „ Abbiamo cioè 1’ufficio di presiedere, di governare? Adempiamolo come si deve. — Se abbiamo il magistero, ossia l’ufficio di ammaestrare, e questo facciamo meglio che per noi si possa. — Colui che esorta, ossia che eccita i fratelli a fuggire il vizio ed a praticare la virtù, vi metta tutto lo zelo. — Chi distribuisce, chi largheggia in elemosine, lo faccia con semplicità, allontanando ogni fine men retto e men nobile, intendendo solo di soccorrere il fratello e far cosa grata a Dio. — Chi presiede e regge altri, faccia il suo dovere con diligenza. — Nella Chiesa vi sono molti ed alti uffici: quelli che li tengono, devono ricordarsi che gli uffici non hanno per scopo di accumulare ricchezze, ricevere omaggi, ritrarne comodi ed onori, ma sì hanno per fine proprio ed immediato il bene delle anime e la salute loro eterna e perciò si vogliono adempire con ogni diligenza. — Chi fa opere pietose, scrive S. Paolo, si presti con ilarità. — Che bella e cara espressione! Soccorri tu il povero? Conforti tu l’afflitto? Ammaestri l’ignorante? Consigli il timido e vacillante? Visiti l’infermo ed eserciti qualunque opera di carità? E a tutto questo col volto ilare e contento, perché così vuole Iddio: Hilarem datorem dilìgit Deus, e perché così l’opera tua sarà più efficace e gradita. Vedi queste Suore di carità che giorno e notte si aggirano per gli ospedali, che vanno da un letto all’altro: che hanno sempre sotto gli occhi lo spettacolo delle miserie umane: esse hanno sempre serena la fronte, il sorriso sulle labbra, la parola soave, l’occhio pieno d’amore: eccovi, o cari, ciò che vuole S. Paolo allorché comanda: “Chi fa opere pietose si presti con ilarità. „ Prosegue l’Apostolo: “La carità sia senza simulazione. Via la finzione, via l’ipocrisia sì nelle parole come negli atti e la nostra carità sia schietta, piena di candore. E qui l’Apostolo, quasi volesse condensare tutto ciò che ha detto e gli resta a dire, esclama: “Abborrite il male, attenetevi al bene. „ Pareva che qui l’Apostolo dovesse por fine alle sue esortazioni ed ai suoi documenti; no. Egli è simile ad un padre amoroso, che non vuole che il bene dei suoi figli ed aggiunge alle esortazioni le preghiere, ai ricordi i comandi e allorché sembra abbia finito, ripiglia da capo: il suo cuore non dice mai: Basta! – E invero qui S. Paolo comincia un’altra esortazione, come se nulla avesse detto. Uditelo: “Amatevi fraternamente. „ È il precetto nuovo, che Gesù Cristo portò sulla terra, Egli, che disse agli apostoli e in loro a tutti gli uomini quella sublime sentenza: ” Vos autem fratres estis — Voi siete fratelli. „ Dunque “come fratelli amatevi. „ Vi furono uomini, che scrissero sulla loro bandiera, come se fosse stata una loro scoperta, questa parola: “Fratellanza,„ imbrattandola tosto di sangue. Ignoravano essi che Gesù Cristo diciotto secoli innanzi l’aveva proclamata: Vos autem fratres, estis, e qui S. Paolo la ripete: Charitate fraternitatis invicem diligentes? Non era possibile. Lo sapevano; ma volevano arrogarsi il vanto d’aver trovata quella sublime dottrina. O cari! più che delle parole e delle vane proteste di fratellanza, siamo solleciti di mostrare le opere della fratellanza, “rispettandoci, amandoci, compatendoci e soccorrendoci a vicenda. „ La carità fraterna è una radice feconda: da essa derivano non solo le opere, ma le parole e perfino quelle convenienze del vivere quieto ed onesto, che alimentano il rispetto reciproco e la mutua benevolenza. Ecco ciò che voleva dire S. Paolo nelle parole sì belle, che seguono: “Prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore. „ Sì; se la carità regnerà nei nostri cuori ed informerà tutti i nostri atti, ci guarderemo da far cosa che spiaccia ai fratelli e faremo ciò che loro torna gradito e sarà una nobile e santa gara in prevenirci, rendendoci onore gli uni gli altri. E ciò che altrove inculca lo stesso Apostolo scrivendo: “Per umiltà, ciascuno di voi pregiando gli altri più che se stesso — Humilìtate… invicem superiores arbitrantes. „ Dite, o carissimi, il codice di Gesù Cristo, che si compendia nella carità, non è desso anche un perfetto codice di educazione e civiltà sociale? “Non siate pigri, „ soggiunge l’Apostolo; s’intende nei vostri doveri, ma ferventi nello spirito, „ pronti, alacri per il fuoco della carità, acceso in voi dallo Spirito Santo, intesi ad una cosa sola, a servire cioè al Signore, fine ultimo di tutte le opere vostre. – Né qui si ferma S. Paolo, ma, trasportato dall’impeto della sua carità, con una rapidità mirabile accumula verità pratiche sopra verità pratiche, con una concisione ben più grande e sostanziosa di quella di Tacito. “Allegri nella speranza, costanti nelle afflizioni, perseveranti nella preghiera. „ La speranza della mercede rallegra il contadino, che suda sul campo, l’operaio che lavora nell’officina, il mercante che viaggia; e la speranza del premio del cielo fa brillare la gioia sulla fronte del cristiano, che soffre nella lotta della vita, lo tiene saldo in mezzo ai dolori. E quando egli sente venir meno le forze (e ciò non è raro), dia di piglio all’arme sì valida e sì sicura della preghiera e in essa perduri, e la vittoria sarà certa. L’Apostolo non dimentica mai che l’uomo non vive, né può vivere quaggiù isolato: che egli ha dei rapporti e continui ed intimi coi suoi fratelli, ed eccolo di nuovo a ricordarli sotto un’altra forma: “Siate partecipi ai bisogni dei santi, facili alla ospitalità. „ Fate che i bisogni, le necessità di tutti siano comuni a voi, siano come se fossero vostre, e particolarmente quelle dei santi, dei vostri fratelli nella fede, chiamati ad essere santi e, se sono pellegrini, offrite loro l’ospitalità. – La facondia santa dell’Apostolo continua: “Benedite quelli che vi perseguitano, e non vogliate maledirli. „ Quale sentenza! Qual precetto! È qui che la carità di Gesù Cristo tocca il sommo della perfezione. Amare operosamente tutti gli uomini; amare gli stranieri, come fratelli, è già gran cosa, ignota a tutto il mondo pagano; ma amare anche i nemici, benedire perfino quelli che ci perseguitano, beneficarli, se è possibile, è cosa che trascende al tutto l’umano comprendimento, e questo solo precetto (giacche l’amore dei nemici non è consiglio, ma precetto) basta a provare l’origine sovraumana del Vangelo. Qualunque uomo, sia pur buono e virtuoso, deve avere più o meno dei malevoli, degli invidiosi, dei nemici. Li ebbero i santi e gli Apostoli: li ebbe il Santo dei santi, Gesù Cristo; qual meraviglia, che li abbiamo noi, pieni di difetti, sì facili ad offendere il prossimo, talvolta senza volerlo? Ameremo dunque tutti i nostri nemici, o fratelli. Che fare? Ciò che qui comanda l’Apostolo: “Benedite quelli che vi perseguitano: benediteli e non vogliate maledirli. „ Gesù Cristo, dall’alto della croce, rivolto al Padre pregava per i suoi carnefici e li scusava, dicendo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno. „ S. Pietro, parlando di Gesù e proponendolo qual modello, scriveva: ” Oltraggiato non oltraggiava, soffrendo non minacciava „ (I. c. II, vers. 23). Perdoniamo le offese, amiamo i nemici, rendiamo bene per male, preghiamo per essi e il buon Dio userà misericordia a tutti. Si sta sì bene, o cari, quando si perdona e si beneficano i nemici! Si gusta tal pace, si sente tal gioia, che la lingua non sa esprimere. È questa tal mercede che anche sola ci compensa ad usura del sacrificio compiuto in far tacere l’amor proprio ferito. – Voi potete scorrere tutti i libri dei sommi filosofi morali del paganesimo, Epitteto, M. Aurelio, Cicerone, Platone, Aristotele: voi potete investigare tutti i codici sacri delle nazioni antiche e moderne fuori del Cristianesimo. Troverete qua e là sentenze belle, ammirabili sull’amore del prossimo, sulla ospitalità, sulla elemosina, sul perdono delle offese: ma non troverete mai queste verità insieme unite, con tanta chiarezza, brevità, sicurezza e perfezione come nel Vangelo e in queste poche sentenze di S. Paolo. E perche? Ah! Perché esse non vengono dagli uomini, ma da Dio. “Rallegratevi con chi è allegro e piangete con chi piange. „ E la conseguenza naturale della carità e delle cose sopra inculcate dall’Apostolo. La carità unisce i cuori per guisa che il bene ed il male è comune, e perciò si gode e si soffre insieme. Se il padre vostro, la vostra madre, i vostri fratelli salgono in onore e abbondano d’ogni cosa, voi che fate? Ne siete lietissimi. Se soffrono infermi, se sono tribolati, perseguitati, che fate voi? Soffrite con essi. Perché? Perché l’amore, che a loro vi lega, fa di voi tutti quasi una sola persona e sentite tutti lo stesso dolore o lo stesso piacere. Se questo amore abbracciasse tutti gli uomini, avremmo lo stesso effetto: ci rallegreremmo con chi è allegro e piangeremmo con chi piange. – “Abbiate, conchiude l’Apostolo, lo stesso sentimento. „ Ripete in altra forma ciò che ha detto nel versetto antecedente. “E non siate con l’animo alle cose alte, ma acconciatevi alle basse. „ Non aspirate a grandezze, ad onori, a ricchezze, a quelle cose, delle quali il mondo è sì ghiotto, e che non possono far pago il nostro cuore: ricevete ciò che Iddio vi dà, e collocati in basso stato, di questo accontentatevi e sarete, per quanto lo possiamo essere quaggiù, tranquilli e felici. – Se noi studiamo la causa vera d’una gran parte dei nostri dolori e delle nostre inquietudini, che troviamo? Troviamo che fonte massima di questi dolori e di queste inquietudini è il desiderio d’aver sempre più di ciò che abbiamo: è questo il pungolo, che ci spinge innanzi e ci tormenta, è questo il nostro implacabile carnefice. I desideri non soddisfatti sono il tormento dei nostri poveri cuori; soffochiamo quei desideri, ed avremo la pace, quella pace che il mondo non conosce.

Graduale

Ps CVI:20-21
Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum. [Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]
V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum.  [V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja
Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII:2
Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.
[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann 2:1-11
In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi.
Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Gesù onorava di sua presenza un convito di nozze in Cana della Galilea, così ci narra l’odierno Vangelo. Dunque il matrimonio, dice S. Agostino, ha Dio per autore. Dunque il matrimonio, soggiunge S. Paolo, è santo, ed è nella Chiesa di Cristo, un gran sacramento. “Sacramentum hoc magnum est… in Christo et in Ecclesia” (ad Ephes.V, 32). Della santità del matrimonio potrei, uditori amatissimi, tenervi ragionamento, se non credessi più profittevole parlarvi di alcuni obblighi annessi allo stato del matrimonio stesso. E per ciò fare il modo facile a intendersi, e ritenersi da tutti, contentatevi ch’io mi serva di cose sensibili, che fissino l’mmaginativa, e possano ritenersi più agevolmente nella memoria de’ meno istruiti. L’arca del Testamento è un simbolo assai espressivo delle obbligazioni del matrimonio. Su quella stavano due Cherubini d’oro, figura dei due sposi, l’amore e le intenzioni de’ quali devono esser pure come puro è l’oro. L’arca era formata di legni incorruttibili, simbolo della reciproca inviolabile fedeltà. Nel seno dell’arca si conservavano le tavole della legge data da Dio a Mosè sul Sinai, la verga d’Aronne, e un vaselletto di manna, piovuta già nel deserto (ad Heb. IX,4). In questi ultimi abbietti io raffiguro tre principali obbligazioni de’genitori verso i propri figliuoli. Istruzione, correzione e custodia. Ripigliamo: tavole della Legge, ecco l’istruzione: verga d’Aronne, ecco la correzione: vaselletto di manna, ecco la custodia della propria prole. Ciò ch’io passo ad esporvi con la maggiore a me possibile chiarezza.

I . Due erano, come voi sapete, le tavole della divina legge. Conteneva la prima i comandamenti che riguardano Dio, la seconda quei che al prossimo si appartengono. Padri e madri, siccome il grande Iddio impose a Mosè di promulgare al suo popolo i precetti scritti dal suo dito in quelle tavole, così lo stesso Dio comanda a voi di intimarli, e d’istruirne la vostra prole. Questo comando del Signore esattamente adempì il buon Tobia (Tob. IV). “Figliuol mio, diceva sovente all’unico suo figlio, abbi sempre il tuo Dio presente allo spirito, guardati dal trasgredire alcuno dei suoi comandamenti, guardati da qualunque peccato: fa’ volentieri limosina a’ poverelli, e noli far volto duro sopra l’altrui miserie: da’ prontamente agli operai la loro mercede, e non fare ad altri quel male che non vorresti fosse fatto a te”. Oh se i padri e le madri con frequenti esortazioni facessero penetrare queste massime sante nell’animo dei teneri figli, quanto si vedrebbe fiorire nelle città cristiane la Religione e il buon costume! Se tratto tratto dicessero come la madre dei Maccabei: “figliuoli chi vi ha data la vita, non siam in noi precisamente: Dio è l’autore del vostro essere. Da esso venite, a Lui dovete ritornare. Questa terra, su cui vi ha posti, è un esilio, un luogo di prova. Chi opera il bene avrà Iddio per premio, chi fa il male avrà Dio per nemico. Un po’ più presto, o un po’ più tardi io e voi dovremo sloggiare di questo mondo, e comparire al suo tremendo giudizio; il peccato è quel solo, che può trarci addosso una sentenza di eterna morte. Odiate adunque il peccato, o figli, fuggite da questo e da’malvagi compagni come dalla faccia del serpente. Queste e simili debbon essere le istruzioni de’genitori, se bramano salvi i propri figli e sé stessi. Ma i miei figliuoli, dirà alcun di voi, non mi danno ascolto, le mie parole se le porta il vento, ed essi son sempre più perversi. Sentite; le tavole del Decalogo erano di pietra, e il dito di Dio vi scrisse i precetti della sua legge. Quand’anche il cuor de’ figli nostri fosse di pietra, non cessate d’istruire, replicate le ammonizioni, gli avvisi, i buoni consigli, e vi assicuro che essi resteranno impressi nella loro mente. “Gutta cavat lapidem”. Verrà un giorno, che memori delle salutari vostre istruzioni e delle buone massime loro inculcate, diranno: benedetto quel mio padre, egli sempre mi raccomandava il timor santo di Dio. Ora mi leggeva e mi faceva leggere un libro spirituale, ora mi narrava i fatti più celebri della sacra Scrittura. Benedetta quella mia madre, essa m’istruiva nella cristiana dottrina, non ammetteva scuse per dispensarmi dalle quotidiane preghiere, mi voleva sempre sotto i suoi occhi; qualche volta mi sembrava troppo precisa, ora conosco il bene che mi fece , e i pericoli da’ quali mi liberò. Così i vostri ammaestramenti, a guisa di buona semente, produrranno a suo tempo il frutto desiderato. Tantopiù che voi padri e madri, avete per natura e per grazia del sacramento le più idonee disposizioni a muovere il cuore de’vostri figli, a formarne lo spirito, a regolarne i costumi, a riformarne i difetti. È necessario però agli insegnamenti congiungere i buoni esempi. Se raccomandate alla vostra famiglia il timor di Dio, e poi vi fate sentire a nominarLo invano, o a bestemmiarLo col proferire il suo santo nome nell’impeto della vostra collera, se ad essi inculcate la frequenza de’ sacramenti, e voi ne state lontani; se li mandate alla Chiesa e voi vi portate all’osteria; Voi distruggete con le opere quel ch’edificaste con le parole. Sostenete per carità con l’esempio cristiano là cristiana istruzione… la via de’ documenti e de’ precetti è troppo lunga, e il più delle volte senza successo, la più corta ed efficace è il buon esempio. L’intendeva anche un Gentile: “Longum iter per præcepta; breve et effìcax per exempla”.

II. L’istruzione però non basterebbe, se ai dati tempi si escludesse l’opportuna correzione. Deve questa esser simile alla verga di Aronne, che non era un ramo d’albero selvaggio, ma di mandorlo, pianta fruttifera, e perciò la correzione riuscirà vantaggiosa, se sarà figlia della ragione, della prudenza e della carità, carità che finga sdegno per apportare rimedio, come fa il chirurgo che ferisce la piaga a fin di sanarla. – Se per l’opposto il vostro correggere sarà effetto di collera, sfogo di rabbia e di furioso trasporto, non n’aspettate buon esito; mancherete all’avviso che vi dà l’Apostolo, di non provocare i vostri figli a concepir ira contro di voi, “Patres, nolite ad indignationem, provocare filios vestros” (ad COL. III, 21) . La verga d’Aronne era flessibile, e in una notte si coprì prodigiosamente di fiori. Alla qualità della colpa, della persona e dell’età va adattata la correzione. Le mancanze de’ figlioletti meritan verga, ma dolce e flessibile, ma fiorita per discreta moderazione: da queste regole quanto si discostano comunemente i genitori! Quel fanciullo rompe un vaso, versa un liquido: e la madre di esso, lo batte senza riguardo, e lo vuol morto; lo stesso poi proferisce una parola scandalosa, e gli ride in faccia. Che razza di procedere è questo? L’interesse nel primo caso è quel che spinge una correzione ingiusta; nel secondo quel che va corretto si approva col riso. Non si approvano è vero certe colpe più notabili degli adulti, ma la troppa indulgenza, ma la trascuratezza in castigarli ridonda poi in danno de’ figli rei e de’ negligenti genitori. Che disgusto non provò Davide pe’ suoi due figliuoli Ammone e Assalonne? Sa che il primo ha fatto violenza a Tamar sua sorella, e non si legge che aprisse bocca ad un rimprovero. Gli arriva notizia, che il secondo ha ucciso Ammone a tradimento, e non si dà premura d’aver in mano il delinquente; e perciò nella più grande amarezza piange inutilmente uno trucidato in un convito, l’altro trafitto in un bosco: un proporzionato castigo avrebbe impedito la morte d’entrambi. Castigate i figli vostri, o padri e madri, se non volete disgusti, castigateli se volete salvarvi. Dio vel comanda; dovete ubbidire. Non vi lasciate sedurre da natural tenerezza, o da un falso amore. Non è amore, ma odio quel che risparmia al figlio reo il meritato castigo. Lo dice lo Spirito Santo: “Qui parcit virgæ odiit fìlium suum” (Prov. XVIII). Ho detto se volete salvarvi, dal Sacerdote Eli apprendete il vostro obbligo e il vostro pericolo. Riprese egli le scandalose azioni de’ figli suoi, pe’ quali il popolo si allontanava dal tempio e da’ sacrifizi; ma siccome invece d’una giusta severità e rigorosa punizione, si contentò di poche parole, Iddio gli fece intimare dal profeta Samuele la perdita dei propri figli in un sol giorno, e quel che più importa, perdette egli non solo la vita temporale, colpito da subitanea morte, ma secondo l’opinione de’ santi Cirillo e Giovanni Damasceno, anche la vita eterna.

III. Devono finalmente i genitori aggiungere all’istruzione, ed alla correzione l’esatta custodia della loro prole. La manna era custodita nell’arca del Testamento. Pareva dovesse bastare l’essere riposta in una delle sue cassette; no, non bastava, dice S. Paolo (ad Ebr.IX, 4) chiusa in un’urna, e da Dio conservata incorrotta. Usate voi somigliante cautela per custodire la vostra figliolanza? Oh Dio! su questo punto così declamava innanzi al suo popolo di Antiochia S. Giovanni Crisostomo, acceso di santo zelo: dovrò dirlo, o dovrò tacerlo? ma che giova il tacere per non contristarvi, se il mio silenzio vi fosse nocevole? Io vedo in questa vostra città che molti di voi hanno più cura degli asini e dei cavalli, che de’propri figliuoli. Maiorem asinorum et equorum, quam filiorum curam habent (Hom. 60). E forse che non può dirsi lo stesso di noi? Si ha più cura della vacca, della capra, della gallina, dell’uccello di gabbia, che della propria famiglia, che del proprio sangue; ond’è che si lasciano i figli tutto giorno in abbandono, come i cani alla strada; e se questo è un gran delitto riguardo ai figli qual sarà in rapporto alle figlie? Oh la mia figlia è innocente. Se la lascerete in libertà perderà la sua innocenza. La manna nel deserto appena vedeva il sole si dileguava. Io la lascio, è vero, andare a quella campagna, a quel passeggio, a quel festino, ma con persone oneste, buoni amici e stretti parenti. Voi vi fidate troppo, io piango la vostra figlia e voi. Ma io l’ho data in custodia a un mio congiunto, uomo di senno e di tutta probità. Sarebbe stato meglio, che si fosse offerto ad accompagnarla uno scapestrato, chè così non vi sareste fidati, e non fidandovi, voi e la figlia vostra eravate sicuri. Vi fidate? dunque arrischiate. Bisogna dire che voi, o padre, conosciate poco il mondo, e che a voi, o madre, non sia mai occorso di trovarvi in qualche cimento. Possibile che la vostra esperienza non vi faccia aprir gli occhi, e non vi renda più cauti! Con questo di più, che forse nella vostra adolescenza e giovinezza non v’erano tanti lacci, tant’inciampi, tanta dissolutezza come nel secolo presente, secolo presso che somigliante a quel di Noè avanti il diluvio, secolo in cui, rotto ogni freno all’impudenza, si aggirano ingordi avvoltoi intorno alle incaute colombe, lupi rapaci in cerca di agnelle non custodite. – Non volete restar persuasi sul pericolo delle vostre figlie se non avrete cent’occhi? Imparatelo da Dina unica figliuola di Giacobbe. Questa savia donzella si presenta un dì al suo buon genitore dicendogli.- siavi qui nelle vicinanze di Sichem, contentatevi ch’io vada a vedere come sono abbigliate le donne Sichimite. Qual più innocente domanda? Ah Giacobbe, chi presago dell’avvenire avesse potuto dire all’orecchio di questo patriarca: Giacobbe, non accordare questa licenza, che troppo ti costerà d’amarezza, di lacrime e di pericoli. Ma Giacobbe che nulla prevede, consente e permette. Va Dina per vedere ed è veduta, e l’esser veduta, rapita, disonorata fu una cosa stessa. Giunge al padre la contristante notizia, e ne piange, arriva ai fratelli, e van sulle furie, dissimulano per poco la vendetta, armati poi assalgono quella città, e mettono a ferro, a fuoco uomini, donne, bambini, case, campagne. I paesi vicini temono una egual sorte; onde tutti gridano all’armi contro i forestieri assassini. Ed ecco il buon Giacobbe e tutta la famiglia in evidente pericolo della vita, costretto a darsi a fuga precipitosa e notturna per selve, per balze e per dirupi. Che dite ora di quella domanda innocente, e di quella incolpabile licenza? Che avverrà delle figlie vostre, alle quali sì facilmente accordate la conversazione, il passeggio il ballo, il festino, il teatro? Ah per carità aprite gli occhi sulle altrui disgrazie. Tante ne vedete, e ne sapete meglio di me. Che aspettate voi dunque? Deh, ve ne prego, ammaestrare i vostri figli, tenete sempre innanzi agli occhi loro le tavole della divina legge, e datene loro l’esempio con l’osservarla; maneggiate la verga per loro correzione; custoditeli in fine come una manna, come un prezioso deposito che Iddio vi ha affidato, e di cui vi domanderà strettissimo conto. E così voi a’ vostri figli, e a voi medesimi procurerete una temporale ed eterna felicità, ch’ io vi desidero.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps 65:1-2; 65:16
Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja
. [Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta
Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.  [Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

Communio
Joann 2:7; 2:8; 2:9; 2:10-11
Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis. [Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio
Oremus.
Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.
[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

 

 

OMELIA DI NATALE a GRAND STRAND – USA –

“Sulla Natività di Cristo e la verginità della sua Madre Santissima “

Un sermone ai cattolici di rito orientale di FatherUK., sacerdote di Sua Santità, Gregorio XVIII

Santo Natale, 7 gennaio 2018, The Grand Strand, SC, USA

Sia benedetta la Natività del nostro Salvatore.

Questa festa è tanto importante per ogni cattolico, poiché, grazie alla Natività, prendiamo parte al Mistero dell’Incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità, che mediante questo Mistero è diventato così vicino a noi. – Cosa dovremmo ricordare durante la celebrazione della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo? Ebbene, troviamo la risposta nel Santo Vangelo di San Matteo:

Pariet autem filium: et vocabis nomen ejus Jesum : ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum”. (Ella partorirà un figliuolo, cui tu porrai il nome Gesù; imperocchè egli libererà il suo popolo dai suoi peccati.) –  (San Matteo 1:21).

“Ecce virgo in utero habebit, et pariet filium: et vocabunt nomen ejus Emmanuel, quod est interpretatum Nobiscum Deus.” – (Ecco, una vergine sarà incinta e partorirà un figliuolo: e lo chiameranno per nome Emmanuele: che, interpretato, significa Dio con noi) (San Matteo 1:23).

 “Et non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum : et vocavit nomen ejus Jesum.” – (Ed egli non la conosceva fino a quando partorì il suo figliuolo primogenito; e lo chiamò con il nome Gesù)( San Matteo 1:25).

– Innanzitutto dunque vediamo che lo scopo della Natività, o il primo Avvento di Cristo, era quello di “salvare il suo popolo dai suoi peccati” e divenire il “Dio con noi”: Emmanuel.

Sin dal primiero peccato  di Adamo ed Eva, tutta la razza umana è stata contaminata dal peccato originale. A causa del peccato originale, Adamo ed Eva, e tutta l’umanità attraverso di loro, persero la loro “verginità spirituale” e conseguentemente persero il dono della vita eterna con il loro Creatore. I loro corpi  andarono così soggetti alla debolezza e alla decadenza estrema … la loro vita sulla terra divenne triste e difficile:

… maledicta terra in opere tuo : in laboribus comedes ex ea cunctis diebus vitae tuae…pulvis es et in pulverem reverteris. – (maledetto sia il suolo per causa tua: con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita … polvere tu sei e in polvere tornerai!”.)

Ciò accadde perché Adamo ed Eva accettarono volontariamente la menzogna del serpente, cioè del diavolo … essi trasgredirono imprudentemente l’unico comandamento che Dio aveva loro dato: “Di ogni albero del paradiso tu mangerai; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male, non mangerai. Perché in qualunque giorno tu ne mangerai, tu morirai “( Genesi 2: 16-17). [Ex omni ligno paradisi comede; de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas : in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris.]

Essendo giusto Giudice, Dio ha dato loro la punizione, ma allo stesso tempo ha dato loro la possibilità di essere salvati. Dio diede loro il Salvatore, il Quale “salverà il suo popolo dai suoi peccati”. [salvum faciet populum suum a peccatis eorum]. Ogni uomo ha la possibilità di essere salvato, ma sfortunatamente non tutti gli uomini sfruttano questa possibilità. Solo il suo popolo sarà salvato.

Ma chi sono i suoi?

Dio fondò la Sua unica Chiesa su Pietro Apostolo (San Matteo XVI:18); pertanto gli uomini che appartengono alla Sua Chiesa, questi sono il Suo popolo … ed usano prudentemente la possibilità, data loro da Dio.

Quando le persone diventano membri della Chiesa di Dio, fondata su San Pietro, non hanno solo la possibilità, ma la vera opportunità di essere salvati, perché il Fondatore della Chiesa, l’Emmanuel“Dio con noi”, in effetti è sempre con noi, cioè con la sua Chiesa, alla quale ha fornito  numerosi mezzi necessari per la salvezza, specialmente i SS. Sacramenti. Quando il nostro Salvatore disse ai Suoi Apostoli che sarebbe stato con loro “fino al compimento del mondo” ( San Matteo XXVIII: 19-20), lo disse non solo ai suoi Apostoli, sebbene ad essi per primi, ma a tutta la Chiesa, attraverso di loro. – Per essere salvati è assolutamente necessario essere membri della Chiesa di Cristo, non importa che uno sia chierico o laico. E se si vuole essere salvati, non si deve solo essere parte del suo popolo, cioè appartenere alla sua Chiesa costruita su San Pietro, ma si deve fare tutto quanto il nostro Salvatore ha comandato.

(Sulla perpetua verginità della madre di Dio)

In secondo luogo, durante la festa della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, professiamo la nostra fede nella perpetua Verginità di sua Madre, Maria. Il Profeta Isaia e San Matteo Evangelista dicono le stesse parole: “Ecco, una vergine sarà incinta e partorirà un figlio”. Credere nella Verginità Perpetua della Madre di Dio è parte integrante della nostra salvezza. – Molti eretici in tutta la storia del Cristianesimo, fino ai nostri giorni, rifiutano la Verginità perpetua di Maria … e si sottomettono ad una menzogna del diavolo. La “logica” del diavolo è infatti questa: – se la madre è una “non vergine”, allora anche il figlio è un “non-innocente” – ed in tal caso nessuno è obbligato ad osservare i comandamenti di un figlio “peccaminoso”. – Ma la Parola di Dio insegna che la Madre del Salvatore è “la Vergine”, e suo Figlio, il Salvatore, è “l’Innocente”. Lui stesso, essendo l’Innocenza stessa, desiderava che anche sua Madre fosse Vergine. San Giuseppe “non la conosceva” poiché era “un uomo giusto” e obbediva alla volontà ed ai comandamenti di Dio, come sappiamo dalla Sacra Scrittura. – Se qualcuno non crede nella Perpetua Verginità della Madre di Dio, non sarà salvato. Perché? Perché la Volontà di Dio ha comandato che la Beata Vergine Maria fosse uno strumento molto speciale di salvezza … la Chiesa infallibilmente insegna che la Perpetua Verginità di Maria è dottrina “de fide”!

(I tre saggi)

Un’altra lezione molto importante della Natività è la storia dei Tre Saggi che vennero  dall’Oriente a Betlemme. Prima che arrivassero dal Bambino Gesù, essi erano seguaci di un culto pagano, l’astrologia. Uno degli inni natalizi che cantiamo, dice che prima di Cristo adoravano le stelle, ma dopo essere venuti a visitare Cristo, furono convertiti e diventarono seguaci e adoratori dell’unica “Stella, il Sole della Verità”, come la Chiesa chiama metaforicamente Gesù Cristo. – Prima di Cristo essi adoravano le creature. Ma dopo il loro incontro con il Salvatore, adorarono solo il Creatore e non tornarono mai all’adorazione delle creature. – Prima di Cristo erano maghi pagani, ma dopo l’incontro con Gesù Cristo in persona, divennero dei cristiani savi. – Prima di Cristo erano in amicizia con i rappresentanti delle false autorità, come Erode –  questo era normale per loro – per comunicare con coloro che erano del loro circolo … ma dopo aver incontrato il Salvatore, abbandonarono la loro amicizia con le false autorità, iniziando  la loro amicizia esclusivamente con la Vera Autorità: Gesù Cristo. “E avendo ricevuto una risposta nel sonno che non dovevano tornare ad Erode, tornarono indietro nel loro paese” (Et responso accepto in somnis ne redirent ad Herodem, per aliam viam reversi sunt in regionem suam.) (San Matteo II:12).  – Quindi, durante la celebrazione annuale della Natività dovremmo accettare la Verginità della Madre di Dio, come fece San Giuseppe. E poi, proprio come i Re Magi, non dovremmo mai tornare ai culti pagani! Poiché abbiamo trovato Gesù Bambino e lo abbiamo accettato come Vero Dio, non dovremmo tornare mai più dalle false autorità, come Erode allora, Wojtyła, Ratzinger o Bergoglio oggi, perché l’amicizia con loro è inutile e dannosa. – Abbiamo la sempre Vergine Madre di Dio, abbiamo gli Angeli di Dio, abbiamo San Giuseppe, abbiamo i Re Magi: Essi sono tutti membri dell’unica Chiesa di Gesù Cristo, che Egli stesso ha fondata su San Pietro. E tutti loro sono i nostri veri amici e mecenati in preghiera davanti a Dio Salvatore, di cui celebriamo la Natività. –  Imitiamo la loro fede e chiediamo loro di aiutarci a rimanere nello stato di verginità spirituale, che è assolutamente necessario per la salvezza.

Sia benedetta la Natività di Cristo Bambino e la Sua sempre Vergine Madre!

frUK

 

DOMENICA I DOPO L’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Prov XXIII:24;25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gaudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato.]
Ps LXXXIII:2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.
[Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’anima mia nella casa del Signore.]
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gaudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato.]

Oratio
Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cénsequi sempitérnum:
[O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempi della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno:]

Lectio

[Ad Romanos, XII, 1-5]
Obsecro itaque vos fratres per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum. Et nolite conformari huic saeculo, sed reformamini in novitate sensus vestri : ut probetis quae sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta. Dico enim per gratiam quae data est mihi, omnibus qui sunt inter vos, non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem: et unicuique sicut Deus divisit mensuram fidei. Sicut enim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem membra non eumdem actum habent: ita multi unum corpus sumus in Christo, singuli autem alter alterius membra.

Omelia I

[Mons. Bobomelli, Omelie, vol. I, Torino, 1899]

Omelia XI.

– Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole. Non vi conformate a questo secolo; anzi riformatevi, rinnovando il vostro spirito, affinché conosciate quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta. Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede. Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione, così in molti siamo un corpo solo in Cristo, e ciascuno è membro l’uno dell’altro „ (Ai Rom. XII, vers. 1-5).

Così S.Paolo nei primi cinque versetti del capo XII ai Romani. — Nei capi antecedenti il grande Apostolo ha ragionato profondamente e a lungo della grazia di Dio, della sua gratuità e che nessuno può insuperbire dei doni ricevuti: in questi versetti discende alla parte pratica e tocca verità troppo necessarie a qualunque cristiano, qualunque sia il suo stato. Vi piaccia udirle e meditarle. “Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole.„ Due qualità soprattutto brillano nelle lettere dell’Apostolo, che sembrano ripugnanti tra loro, eppure in lui si accoppiano mirabilmente, e sono la forza del dire e la tenerezza dell’affetto, l’intrepidezza dell’Apostolo e il cuore del padre. Egli, come Apostolo, potrebbe comandare; invece preferisce esortare e supplicare, chiamando fratelli i suoi figli spirituali. Egli esorta, supplica, obsecro vos, fratres, per ciò che vi è di più commovente e di più dolce e caro, per la misericordia di Dio, per ciò che Iddio ha di più intimo, per la sua carità sì pietosa per noi. Vi piaccia, o dilettissimi, rilevare la differenza che corre tra l’autorità umana e civile e l’autorità sacra e religiosa. La prima riguarda solo gli atti esterni e si appoggia alla forza: la seconda entra nel santuario delle coscienze e domanda la persuasione e ritrae l’indole della autorità paterna. Perciò l’autorità sacra ed ecclesiastica, benché vera autorità e di tanto superiore alla terrena e civile, in generale rifugge dall’impero, dal costringimento, dal dominio, secondo le parole di Cristo e quelle del suo primo Vicario, che dissero di non esercitare il potere alla foggia dei re signoreggiando, ricordandoci che siamo fratelli e che chi comanda si governi come chi è soggetto. S. Paolo, ripieno di questo spirito di Cristo, scrive: “Fratelli, io vi scongiuro. „ L’Apostolo prega, non comanda! Questa idea sì sublime e sì bella della autorità fu portata sulla terra da Gesù Cristo. – Carissimi! Non sarebbe buona e santa cosa, allorché possiamo comandare ai nostri fratelli, imitassimo l’Apostolo, e invece li pregassimo e supplicassimo? Forse saremmo più prontamente e più soavemente obbediti. – E di  cosa S. Paolo prega e supplica i suoi fratelli? Egli li prega di offrire i loro corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio. Presso gli Ebrei e presso gli stessi Gentili si offrivano moltissimi sacrifici; si svenavano buoi, agnelli ed altri animali. No, no, grida l’Apostolo: non sono questi i sacrifici che dovete offrire a Dio: offrite i vostri corpi stessi, dice S. Paolo. Ma dobbiamo noi uccidere i nostri corpi in onore di Dio? No, non occorre uccidere i nostri corpi, che sarebbe delitto: il nostro sacrificio, a differenza degli antichi, che non piacquero a Dio, deve essere sacrificio vivo. Non dobbiamo ferire od uccidere il corpo per compire questo sacrificio, ma dobbiamo ferire, e se fosse possibile, uccidere le nostre passioni, che si annidano nel corpo. Uccidiamo la superbia, l’avarizia, la lussuria, la gola, l’ira, tutte le malnate tendenze, che militano nel nostro corpo, ed avremo offerto un sacrificio vivo, santo, gradito a Dio. Vi furono e vi sono ancora alcuni, che abusando di alcune sentenze della S. Scrittura, dissero, doversi onorare Dio in ispirito e verità e gli atti esterni del corpo non giovare a nulla, ed essere quasi d’impaccio al culto dello spirito. Voi vedete che l’Apostolo qui vuole che offriamo a Dio i nostri corpi: dunque anche il culto esterno e materiale è gradito a Dio. E in vero: non è esso ancora congiunto allo spirito e da esso inseparabile? Chi offre il corpo e i suoi atti se non lo spirito? E poi il corpo non è esso pure dono di Dio? Perché non lo offriremo a Dio, restituendogli, quasi dissi, lo stesso suo dono? Certo è il sacrificio del cuore, dello spirito, che Iddio vuole principalmente, ma non senza del sacrificio del corpo, che deve seguire quello dello spirito. — Non basta. L’Apostolo vuole un altro sacrificio, “il sacrificio o culto ragionevole. „ Che è questo culto o sacrificio ragionevole? Noi abbiamo il corpo e nel corpo le passioni disordinate: al di sopra del corpo abbiamo l’anima, e il vertice, la punta dell’anima è la ragione, di cui siamo sì teneri e sì superbi. Ebbene anche questa ragione dobbiamo sacrificarla a Dio, che ce l’ha data. In che modo? Con la fede. Allorché ci si presentano i misteri della fede, la nostra ragione ricalcitra, si irrita, vorrebbe ribellarsi, perché non li comprende e si sente umiliata e ferita. Ma i misteri ci sono imposti da Dio, che ci fa udir la sua voce per mezzo della Chiesa: noi li dobbiamo ammettere e credere con tutta la certezza; ancorché in se stessi non li intendiamo. Con uno sforzo supremo, sorretti dalla grazia, noi diciamo a Dio: Non comprendo ciò che mi imponete di credere: sottometto la mia mente, ve ne fo il sacrificio e credo. — Ecco il sacrificio più nobile che l’uomo possa fare dopo quello delle sue passioni e della sua volontà, il sacrificio della mente! — E noi lo facciamo ogni volta, che diciamo il Credo. – Non vi conformate a questo secolo. „ Offrendovi totalmente, corpo ed anima a Dio, è impossibile, soggiunge l’Apostolo, che abbiate a seguire questo secolo. Con la parola secolo, qui come altrove, l’Apostolo, vuol significare il mondo con le sue passioni e con la sua corruzione. Lo storico Tacito prende la parola secolo nel senso di S. Paolo, dove scrive: ” Corrumpere et corrumpi sæculum vicatur — il secolo altro non è che corrompere e corrompersi. „ Magnifica definizione! Ah! no, noi non seguiremo questo secolo, non approveremo le sue massime, non praticheremo i suoi costumi, condannati da Gesù Cristo, “ma ci riformeremo, rinnovando il nostro spirito. „ Con queste parole S. Paolo ci esorta ad ordinare la nostra vita internamente ed esternamente secondo i principii insegnati da Gesù Cristo nel Vangelo. – L’uomo nuovo è Adamo giusto ed innocente; nuovo, perché fatto immediatamente da Dio: ma quell’uomo nuovo si è profondamente alterato e corrotto per il peccato: Gesù Cristo è venuto per rifarlo, per rinnovarlo in se stesso, illuminando la sua mente con la luce della verità, e creando nel suo cuore uno spirito nuovo, lo spirito della grazia. –  Figliuoli dilettissimi! Siamo noi simili al secolo, o siamo conformi a Gesù Cristo? La prova infallibile l’avremo nelle opere nostre: esse diranno se siamo discepoli del mondo o di Gesù Cristo. Se possederemo i principii, le verità predicate dal secondo Adamo, Gesù Cristo, potremo, continua S. Paolo, “giudicare qual sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta.„ Al lume della fede, delle eterne verità insegnateci da Gesù Cristo ci sarà facile distinguere ciò che Dio vuole da ciascuno di noi: conosceremo chiaramente ciò che è bene, ciò che è meglio e ciò che è perfetto od ottimo, giacche sembra che questo voglia dire l’Apostolo con quelle tre parole volontà di Dio buona, accettevole, perfetta. Il Signore non vuole tutto da tutti egualmente: come nell’ordine naturale vi è la varietà dei doni, così vuole la stessa varietà nell’ordine sovrannaturale o della grazia. Questi vuole che vivano nel mondo, quelli chiama al chiostro: vuole che gli uni si santifichino in mezzo alle ricchezze, agli onori, nell’esercizio del potere e del comando; gli altri nella povertà, nelle umiliazioni, nell’ubbidienza; perché Egli, Iddio! è padrone de’ suoi doni e a Lui spetta determinare a ciascuno le vie che deve percorrere! Nostro dovere è quello di conoscere queste vie e metterci animosamente e confidentemente per esse per fare ciascuno la volontà di Dio. – Prosegue S. Paolo e dice: “Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene.,, Sono varie le grazie e vari gli offici che Dio dispensa secondo la sua volontà; a me ha concesso la grazia e il ministero dell’apostolato, e in virtù di questo ministero affidatomi, io dico e comando a voi tutti e singoli, senza distinzione, che cosa? “Di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia, secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede.,, – Questa espressione dell’Apostolo ebbe ed hai molte e varie interpretazioni, tutte buone per se stesse: ma mi sembra più naturale e migliore di tutte questa, che è confortata dall’autorità di S. Basilio e di S. Ambrogio. Sono varie e diverse le grazie di Dio, vari e diversi gli uffici, che affida agli uomini: ebbene! che ciascuno si contenga nel proprio ufficio e si guardi dall’invadere l’altrui. – Onde quella parola “secondo la misura della fede, „ si deve pigliare largamente, come se l’Apostolo dicesse: Ciascuno si contenga entro i limiti dei suoi doni e dell’ufficio suo, quale che esso sia. — Insegnamento fecondissimo di pratiche applicazioni è questo, o fratelli miei. Dio, che è la stessa sapienza e perciò lo stesso ordine, vuole che tutto sia ordinatissimo; perché tutto sia ordinatissimo e la terra rappresenti l’immagine del cielo e gli uomini abbiano in sé la somiglianza di Dio, è necessario che ciascuna creatura e ciascun uomo rimangano al proprio posto e adempiano le loro parti. Quando, o cari, una macchina lavora bene quando i singoli pezzi, ond’è composta, stanno al loro luogo e ciascuno fa la parte sua debitamente. Così la famiglia, la parrocchia, la società si trovano bene allorché i singoli membri stanno al loro posto e compiono a dovere il loro ufficio. Studiamoci, o cari, di mettere in pratica il documento dell’Apostolo e saremo buoni cristiani e buoni cittadini. Questa dottrina sì bella e sì naturale è illustrata dall’Apostolo con una similitudine a lui famigliare e che qualunque persona, anche di corta intelligenza, può facilmente comprendere. Eccovi la similitudine: “Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione,  così in molti siamo uno solo in Cristo; e ciascuno è membro l’uno dell’altro. „ – Vedete il corpo umano, dice S. Paolo: esso è un solo corpo, ma ha molte e varie membra, occhi, orecchie, lingua, capo, mani, piedi, e via dicendo. Ciascun membro poi ha il suo ufficio speciale, di vedere, di udire, di parlare, di reggere, di lavorare, di camminare: un solo corpo, e molte membra, e queste non contrastano tra loro, né l’occhio vuol udire, né l’orecchio vedere, né il capo ubbidire, né le mani camminare, né i piedi sostituirsi alle mani: tutte le membra attendono al loro ufficio e l’uomo se ne trova benissimo. Così, conchiude S. Paolo, debb’essere nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. Ciascun membro, ossia ciascun cristiano, non si consideri come isolato, ma come membro dello stesso corpo, e il bene comune consideri come bene proprio, ed allora nessuno violerà i diritti altrui ed avremo nella Chiesa, nella parrocchia, nella famiglia, nell’individuo l’ordine più perfetto, e nell’ordine la pace, la carità e tutto quel benessere anche materiale, che è possibile su questa terra. Felici le famiglie, felici le parrocchie, felice la società tutta se la gran legge qui stabilita dall’Apostolo fosse debitamente osservata!

Graduale
Ps XXVI:4
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. [Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.]
Ps LXXXIII:5.
Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in saecula sæculórum laudábunt te. Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli.
Allelúja

Allelúja, allelúja,

Isa 45:15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja. [Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc II:42-52
“Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus.
Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.” [Quando Gesú raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che Egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini.]
R. Laus tibi, Christe!

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca II, 42-52)

Perdita di Dio.

Maria e Giuseppe perdono il fanciullo Gesù, giunto all’età di dodici anni. Credevano, come ci narra S. Luca nell’odierno Vangelo, ch’Egli fosse in lor comitiva, insieme con altri molti della Galilea, che discendevano da Gerusalemme dopo la celebrazione d’una festa solenne; ma giunti ad un ospizio sull’imbrunir della sera, si mirano intorno e non veggono il divino Fanciullo. L’attendono ma inutilmente: ne domandano ai compagni del loro viaggio, ma nessuno ne sa dare conto: lo cercano fra gli amici e fra i congiunti, ma tutto è vano: immaginate qual dovett’essere il loro affanno. Pensavano bensì che qualche giusto e ragionevole motivo tratteneva Gesù da essi lontano; ma questo riflesso non era bastevole a consolarli. Oh con quanta amarezza passarono quella notte! Al primo spuntar del giorno si posero a rifare il cammino dall’ospizio a Gerusalemme, e al terzo dì finalmente lo ritrovarono nel Tempio, che in mezzo ai dottori li interrogava con loro stupore, e con meraviglia del popolo circostante. “Eh! figlio, prese a dirgli la Vergine Madre, figlio, io e il vostro nutrizio padre siamo andati in cerca di Voi con la mestizia nel volto e con la doglia nel cuore” : “Fili… pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Maria e Giuseppe perdono Gesù e, come osserva il venerabile Beda con altri sacri espositori, lo perdono senza loro minima colpa, e pure tanto si attristano di questa perdita, e tanto si affannano per ritrovarlo. Quanto è mai diversa la condotta di molti cristiani! Perdono questi Gesù per propria colpa, perdono Dio e la sua grazia per lo peccato, e pur non si commuovono, non si contristano, non se ne pigliano pensiero. Così è: quanto sono sensibili e premurosi per la perdita di cose temporali, altrettanto sono stupidi e indolenti per la perdita di Dio. – E questo è appunto ciò che v’invito a meco compiangere, uditori devoti. Non ha bisogno di prova la prima parte del mio assunto; cioè, che per l’ordinario gli uomini della perdita dei beni terreni son tutti in pena ed in contristamento; pure diamo così di volo uno sguardo alle sacre pagine, per riscontrarne fra molti alcuni esempi. Perde Esaù la primogenitura, e alza clamori, e trae dal petto ruggiti a guisa di leone piagato a morte, “irrugiit clamore magno” ( Gen XXVII, 34) . Perde Cis le sue giumente, spedisce Saul suo figlio ad andarne in cerca. Saul, per quanto si aggiri per valli, per monti e per foreste, non gli vien fatto trovarle; e preso il consiglio del suo servo compagno, va a consultarne Samuele gran profeta in Israele. Perde il suo figliuol prodigo le sostanze assegnategli per sua porzione dal suo buon padre, ed è inconsolabile. Perde quel pastore, descritto in parabola nel santo Vangelo, una pecorella, e lascia nel deserto l’armento intero, e ne va in traccia per balze e per dirupi. Perde, a finirla, quella donna evangelica una dramma, moneta di poco valore, e mette tutta sossopra la casa finche non la ritrovi. Ma a che rammentar cose antiche? Non è questo il naturale effetto che producono nel cuor dell’uomo le cose smarrite? e la pena ordinaria di chi più o meno è attaccato ai beni di questa terra? Compatiamo la misera umanità, qualora per gravi infortuni è posta in cimento, qualora o per naufragio si perdono ricche mercanzie, o per sentenza contraria liti di somma importanza, o per prepotenza pingui eredità. Compatiamo ancora coloro, che per un anello, per un orecchino, per un fazzoletto ricorrono al parroco, acciò avvisi il popolo di quegli oggetti smarriti, e loro ricordi il proprio dovere per la necessaria restituzione. – Non si possono costoro né riprendere, né disapprovare, se usano diligenze, se adoprano mezzi per riavere ciò che hanno perduto. Ma di grazia perché almeno non si tiene questa pratica, quando per grave reato si perde Dio e la sua amicizia? Perché non si fa ricorso alla Vergine Madre, ai Santi del cielo, al confessore, acciò vi aiutino a ricuperare la grazia, e a riconciliarvi con Dio? Perché tanta sollecitudine per le perdite temporali, e tanta indifferenza, tanta freddezza per la perdita di Dio, perdita incalcolabile infinitamente maggiore della perdita d’un mondo intero? – Bramate sapere onde nasce tanta stupidezza? Ecco tre cagioni, alle quali, per ben comprenderle, vi prego porgere l’attento orecchio. La prima cagione, per cui, perduto Dio per lo peccato, non si sente il dolore di perdita, sì grande, è perché non c’è lume, non c’è fede, non c’è cognizione di Dio. Avviene a molti ciò che non di rado accade ad un fanciullo non ancor giunto all’uso di ragione. Perde questi una gemma preziosa, e non la cura, e non vi pensa: perde una carta dipinta, una palla da giuoco, un palco da trastullo, ed è inconsolabile, piange, singhiozza, pesta coi piedi la terra. Ed ecco il nostro caso. Perdiamo i beni fallaci, che un giorno bisogna lasciare, e siamo trafitti; si perde il sommo bene, ch’è Dio, e siamo insensibili. E fino a quando, o uomini già adulti e forse incanutiti, amerete ancora i pregiudizi dell’infanzia?Usquequo… diligìtis infatiam? ( Prov. I. 22) Se conosceste che dir voglia perdere Dio, piangereste a lacrime di sangue. La spada più acuta, che ferisce il cuor d’un dannato, la pena più atroce che lo tormenta, è quel fisso contristante pensiero, quell’interna voce di acerbo rimprovero, che gli dice ad ogn’istante: “ubi est Deus tuus?” dov’è quel Dio che ti creò, quel Dio che ti ha redento, quel Dio che ti voleva salvo? dov’è, infelice, tu l’hai perduto! “Ubi est Deus tuus?” Dov’è quel Dio che nello stato di tua dannazione è l’oggetto dell’odio tuo, e al tempo stesso lo scopo del tuo desiderio, come unico rimedio a’ tuoi tormenti, dov’è? Questo Dio non è più per te, non è più tuo. Conosci ora per tua pena quel che conoscere non volesti per tua malizia. – La seconda cagione dell’umana insensibilità nella perdita di Dio è una fiducia ingannevole, una speranza fallace di riacquistare Iddio perduto con una penitenza futura. È vero, dice colui, dice colei, che sono in disgrazia di Dio, ch’Egli contro di me è giustamente sdegnato; ma voglio ben io riconciliarmi con Lui; non voglio vivere in questo stato, in cui non vorrei morire: perciò dato ch’io avrò compimento ai miei affari, ultimato quel negozio, finita quella lite, collocata la famiglia, quando avrò un tempo più comodo, più quiete, penso ben prevalermene per ricuperare tanto bene perduto, e non perdere me stesso. Ahi miei cari, queste vostre proteste non fan che mitigare il rimorso di vostra coscienza, e il dolore della vostra perdita; vi lusingano, vi addormentano in seno al peccato, con una speranza tanto più traditrice, quanto più lusinghiera. Accade a voi come a quel giocatore, che sente meno la pena del danaro perduto, perché spera in un altro giuoco rifarsi del danno sofferto; e questa speranza per lo più moltiplica le sue perdite, e lo getta in rovina. E poi se in questo tempo che differite la vostra conversione vi cogliesse la morte, che sarebbe di voi? Oh allora presi dallo spavento, chiamato in nostro aiuto un confessore, più facilmente ci volgeremo a Dio con un cuor contrito, e pieni di fiducia nella sua misericordia. Non più, miei dilettissimi, non più: questo è il maggior degl’inganni. Questa, seducente speranza ha popolato l’inferno; Iddio, dice S. Agostino, vi promette perdono, se in tempo vi convertite, non vi promette né tempo, né perdono, se differite. – Ma torniamo al nostro argomento. La terza, forse più forte cagione della nostra insensibilità nella perdita di Dio, è perché, se si perde Dio in questa vita, pure si godè dello stesso Dio. E come? Ecco: tutti i beni, che anche dai peccatori si gustano su questa terra, sono altrettante stille emanate da quell’oceano immenso di bontà ch’è Dio. Il sole che c’illumina, l’aria che ci pasce, i fiori che ci dilettano, le piante che ci ricreano, i frutti che ci nutriscono, tutte insomma le creature, o inanimate o sensibili o ragionevoli, son tutti beni che discendono da Dio sommo bene; ond’è che se il peccatore perde Dio bene infinito, pur gode Iddio ne’ beni sparsi nelle sue creature, e non si avvede della perdita del fonte, perché si disseta ai ruscelli. Ma quando poi l’anima sciolta dai legami del corpo comparirà, spirito ignudo, abbandonato e solo, innanzi a Dio, conoscerà allora che Dio è l’unico bene; l’infinito bene; che fuor di Lui in quel nuovo inondo altro bene non v’è, con cui trattenersi, con cui sfamarsi. E perciò una delle due: o l’anima è amica dì Dio, e troverà in Dio come in suo centro ogni bene, o di Dio nemica, e da Lui ributtata e divisa, non avrà più un attimo, un’ombra di bene. Non più mondo in quel terribile istante, non più corpo, non più creature. Piaceri, onori, gradi, ricchezze, amici, congiunti, tutto è finito; Dio, Dio solo è l’unico eterno, incommutabile bene, e fuori di Lui né si può sperare, anzi né pur si può immaginare, o fingere un altro bene. – Vogliamo noi, uditori carissimi, aspettare al mondo di là a conoscer la perdita del sommo bene, che è Dio? Ah anime mie care non vi sarà allora più riparo all’inganno, più rimedio all’errore, non più tempo a profittevole ravvedimento. Dovremo allora esclamare con quel Sovrano, di cui parla la storia: “Omnia perdidimus”. Sedotto questi da lusinghiera beltà, e da furiose passioni invasato, corse a precipizio le vie del piacere, dell’errore e dell’empietà, e giunse in fine a quel termine da Dio a tutti costituito, al quale non si può passar oltre. Infermo, aggravato, giacente a letto, conobbe, come il grande Alessandro, che bisognava morire; “decidit in lectum, et cognovit quia moreretur” ( Mac. I), e data in giro una mesta occhiata a’ suoi favoriti, ahi me disgraziato! esclamò, che ho perduto la fede, la reputazione, l’amor de’ sudditi, la sanità, e fra poco sarò per perdere la vita, il regno, l’anima e Dio, “omnia perdidimus”. Tanto dovrà ripetere un’anima che abbia perduto Dio per colpa e per pena, “omnia perdidimus”. – Infelice pertanto chi aspetta a conoscere la sua disavventura quando non è più in tempo di ripararla. Infelicissimo chi aspetta a cercare Dio quando non si può più ritrovare. Cari ascoltanti, facciamo senno, ravviviamo la fede, apriamo gli occhi sul massimo nostro interesse. Ora in questo tempo accettevole, che ci accorda il pietoso Signore, andiamo in cerca di Dio, e sarà facile il trovarLo, “Quærite Dominum dum inveniri potest” (Isai. LV, 6). In punto di morte, ahi! che forse Lo cercheremo invano. No, peccatori fratelli miei, con Dio non si burla, “Deus non irridetur”. Cercate Dio in vita, perché in morte non lo troverete! Non son io che vel dico, lo dice a me, lo dice a voi l’infallibile Verità, lo dice Gesù Cristo, “quæretis me, et non invenietis” (Joan. VII, 34). E in un altro luogo ce lo ripete in termini di maggiore spavento: mi cercherete, e morrete in seno al vostro peccato: Quæretis me, et in peccato vestro moriemini (Joan. VIII, 21). – Che facciamo dunque? fino a quando noi stolti figliuoli degli uomini ameremo la vanità, e terremo dietro ai beni fuggevoli e bugiardi di questa terra? Deh! se ci cale l’eterna nostra salvezza, procuriamo essere di quella santa generazione, che altro non cerca, che Dio. Cerchiamo Dio sull’esempio e sulla scorta di Maria Vergine, e di S. Giuseppe, cerchiamoLo nel tempio ai piedi degli altari, a piedi dei suoi ministri; che poi dopo il breve corso di nostra vita Lo vedremo nel tempio della beata eternità, e al primo incontro sarà per noi oggetto di consolazione perpetua, come lo fu di temporanea alla Vergine Madre, ed al suo nutrizio padre. Che Dio ce ne faccia la grazia.

Credo …

Offertorium
Orémus
Luc II:22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino.
[I suoi genitori condussero Gesù a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta
Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas. [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

Communio
Luc II:51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis. [E Gesù se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]
Postcommunio
Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctae Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur: [O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]

MESSA DELL’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Malach 3:1; 1 Par 29:12
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium [Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]
Ps LXXI:1
Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis.
[O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re.]
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium [Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Oratio
Orémus.
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.
[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]
Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum.
R. Amen.

Lectio
Léctio Isaíæ Prophétæ.
Is LX:1-6
Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur.
Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes. [Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Mentre le tenebre si estendono sulla terra e le ombre sui popoli: ecco che su di te spunta l’aurora del Signore e in te si manifesta la sua gloria. Alla tua luce cammineranno le genti, e i re alla luce della tua aurora. Leva gli occhi e guarda intorno a te: tutti costoro si sono riuniti per venire a te: da lontano verranno i tuoi figli, e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Quando vedrai ciò sarai raggiante, il tuo cuore si dilaterà e si commuoverà: perché verso di te affluiranno i tesori del mare e a te verranno i beni dei popoli. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, dai dromedarii di Madian e di Efa: verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Graduale
Isa LX:6;1
Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.
[Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja. [Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te.

Allelúja.

Allelúia, allelúia
Matt II:2.

Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.
[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt II:1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judae: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,”
R. Laus tibi, Christe!

[Nato Gesù, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché così è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i prìncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada.]

Omelia

FESTA DELL’EPIFANIA

Sopra il mistero dello stesso giorno

[Mons. Billot: “Discorsi parrocchiali”; S. Cioffi ed. Napoli, 1840]

 

Vidimus stellam eias,

et venimus adorare eum. Matth. II.

-Appena Gesù Cristo è nato che chiama alla sua culla pastori dalla Giudea e magi dall’oriente, perché viene a salvare tutti gli uomini. Dopo aver fatto annunziare la sua nascita ai pastori con la voce di un Angelo, fa risplendere agli occhi di quei saggi della gentilità una stella miracolosa, la quale li avvisa che un nuovo re è venuto al mondo per riscattarli. Subitamente fedeli alla grazia, abbandonano il loro paese, vengono in Gerusalemme ad informarsi dove è nato il re dei Giudei; apprendono dai dottori della legge che Betlemme, piccola città di Giuda, è il luogo della sua nascita: escono dunque da Gerosolima e col favore della nuova luce che li guida si trasferiscono a Betlemme: vi trovano l’oggetto dei loro desideri, il tesoro che cercano, il loro re; il loro salvatore nella persona di un bambino che è tra le braccia di Maria sua Madre. Senza essere ributtati dal povero apparecchio che lo circonda, penetrano con gli occhi di una viva feda il mistero di un Dio fatto uomo per la loro salute; innanzi a Lui s’inginocchiano, e mettendo ai suoi piedi il loro scettro e la loro corona, gli offeriscono regali insieme col loro cuore; ed avvertiti da un angelo ritornano nei loro paesi per una strada diversa da quella che tenuta avevano: Per aliam viam reversi sunt in regionem suam. Tale è, cristiani, la storia del mistero che celebriamo in questo giorno; mistero di gaudio per la Chiesa, poiché ci rammenta il felice momento della nostra vocazione al Cristianesimo nella persona dei re magi. Benediciamo mille volte la provvidenza che ci ha cavati dalle ombre della morte oveimmersi eravamo , per chiamarci alla luce ammirabile del Vangelo; ma nello stesso tempo profittiamo dell’esempio che ci danno i re magi per cercar Gesù Cristo e conservare la sua grazia nei nostri cuori dopo averla ritrovata. Qual fu dunque la premura dei magi nel cercar Gesù Cristo? Primo punto. Qual fu la loro fedeltà nei conservar la grazia che avevano trovato? Secondo punto. Tale è il modello che noi imitare dobbiamo, ed il soggetto della vostra attenzione.

I.° Punto. Qual differenza, fratelli miei, tra la condotta del re Erode, e quella dei re magi? Erode, che regnava in un paese dove era nato il Salvatore del mondo, accecato dalle sue passioni chiude gli occhi alla luce che lo rischiara. Sebbene convinto dalla testimonianza e dagli oracoli dei profeti che il Cristo è nato in Betlemme, poco distante da Gerosolima, non si degna di fare il minimo passo per rendergli omaggio; e i re che abitano all’estremità dell’ oriente non sì tosto hanno veduto la stella che loro addita la sua nascita che si mettono in viaggio per venirlo ad adorare. Erode non conosce e non cerca Gesù Cristo che per perderlo , e i re magi altra premura non hanno che di sottomettersi a lui e farlo regnare nel loro cuore. Detestiamo la condotta di quel principe cieco e barbaro, ed imitiamo la fedeltà dei re magi in corrispondere alla grazia. – Cercano Gesù Cristo con prontezza, con coraggio e con costanza. in simil guisa dobbiamo noi cercarlo, se ritrovar lo vogliamo. No, i magi non stanno sospesi sul partito che hanno da prendere; non si arrestano a formare lungi progetti né a prendere gran misure per mettersi in viaggio; unicamente attenti alla luce che li rischiara, vanno a cercar Colui ch’essa loro annunzia: premurosi di giunger al termine ove la stella li chiama, sono impazienti di arrivare. Sanno benissimo che, qualora si tratta di cercar il suo Dio e di darsi a lui, non convien arrestarsi, deliberare, discorrere; perché in deliberando, quantunque abbiasi intenzione di trovar Dio, non si trova giammai. Di già lasciato hanno il loro paese; loro sembra d’udire la voce del divin Bambino che a sé li chiama: fedeli a questa voce, affrettano i loro passi e solleciti sono di andar a rendergli i loro omaggi. Giunti a Gerusalemme ed impazienti di sapere il luogo ove è nato il Salvatore, s’indirizzano a coloro che essi credono i meglio informati. Dove è dunque questo nuovo re? Perciocché abbiamo veduta la sua stella e siamo partiti per venirlo ad adorare : Vidimus stellam eius et venimus adorare eum. Qual premura! Qual prontezza! Qual attività! In poco tempo hanno percorsa la strada tutta che il loro paese separa dalla Giudea. Ahi quando si cerca Dio sinceramente, niuna cosa evvi che arrestar possa l’anima fedele. Grazie immortali vi sieno per sempre rendute, o mio Dio, che chiamati ci avete alla fede in quelle nobili primizie della gentilità convertita! Per quanto piccolo comparite, voi già siete il vincitore delle nazioni; Voi in un istante le sottomettete, e senza resistenza voi le abbattete ai vostri piedi con tutta la loro pompa e grandezza. – Imitate voi, fratelli miei, la condotta di questi santi re, voi che, allevati nel Cristianesimo, avete lumi maggiori per camminare nella strada che conduce a Dio? Voi, la cui fede esser deve meglio stabilita e più formata, e a cui la volontà di Dio è più chiaramente manifestata, questa fede è la vostra stella; e perché; come i magi, non ne seguite i movimenti? Oltre la fede che vi rischiara, quanti lumi non ha fatto Dio risplendere alle vostre menti, or con le grazie interiori, or con la divina parola v’istruisce dei vostri doveri, ed or con i buoni esempi che avete avanti agli occhi, i quali vi animano alla pratica della  virtù? Tutte queste grazie interiori ed esteriori sono tanti astri luminosi che vi condurrebbero infallibilmente a Dio, se voi fedeli foste a seguirli.  Con tutto ciò voi rimanete sempre nelle vostre tenebre; immersi nel pantano del peccato, non fate sforzo alcuno per uscirne. Da lungo tempo la voce di Dio vi chiama e vi sollecita di disfarvi di quell’affetto che divide il vostro cuore tra Dio e la creatura; di combattere quell’orgoglio segreto che vi predomina; di restituire quella roba che ingiustamente possedete, di perdonare a quella persona che non volete neppur vedere, di menar una vita più mortificata, più penitente e più regolata; e voi non avete ancor fatto ciò che la grazia da sì lungo tempo vi domanda. Ma non dovete voi temere che la stella che adesso vi illumina non dispaia dagli occhi vostri? Che questa grazia di conversione che Dio vi dà non siavi più accordata, e che l’abuso che voi ne fate seguito non sia dall’accecamento e dall’ostinazione, che vi condurrà all’impenitenza finale? – Osservate la prontezza dei magi nel seguitare la stella che li conduce; partono tosto che 1’hanno veduta: Vidimus et venimus. Ecco ciò che far dovete, e così conchiudere tra voi medesimi: ho veduta la stella che mi conduce a Dio in questo buon pensiero che mi ha ispirato, in questo pio movimento che mi ha toccato il cuore: voglio seguirla; voglio amar il mio Dio meglio che non ho sinora fatto: dandogli la preferenza sopra le creature tutte. Voglio riconciliarmi con quel nemico, restituire quei beni mal acquistati, essere il buon esempio nella mia famiglia, abbandonar quelle occasioni, quei luoghi di dissolutezza che m’hanno perduto, esser assiduo nell’orazione, frequentare i sacramenti, riceverli con migliori disposizioni, osservare la santa legge del Signore; in una parola, vivere in una maniera più regolata: Vidimus, et venimus. – È necessario per ciò fare un gran coraggio, ma i magi ve ne danno ancora 1’esempio. Di qual coraggio, infatti, non fanno mostra in tutti i loro portamenti? Conviene, per obbedire alla voce di Dio che li chiama, abbandonare, come Abramo, il loro paese, le loro case, i loro amici, il loro regno? L’abbandonano generosamente. Bisogna intraprendere un lungo e faticoso viaggio, esporsi a tutti i pericoli, sopportare tutti i travagli che ne sono inseparabili, nella stagione la più rigida dell’anno, sacrificare il loro riposo, la loro tranquillità, rinunziare a tutti gli agi, a tutti i loro piaceri? Rinunziano a tutto, sacrificano tutto; né l’affetto ai loro comodi può ritenerli, né il rigore delle stagioni sgomentarli, né la cura delle loro famiglie e dei loro regni è capace di far loro cangiar risoluzione. Quante ragioni ciò non ostante, quanti pretesti per cuori meno coraggiosi dei loro? Ma no, malgrado tutti gli ostacoli che si oppongono al loro disegno, già sono giunti in Gerusalemme capitale della Giudea, col favore dell’astro che li rischiara. Ma, oh cielo! qual nuova prova per la loro virtù! La luce che li guida s’invola ai loro occhi, la stella sparisce, la loro fede appena nascente non ne resterà forse commossa? Non penseranno forse a ritornar nei loro paesi? No, fratelli miei, no, non temete, non soccombono essi alla tentazione, ed è qui appunto dove ci danno un esempio di coraggio che deve animarci allorché sembra Dio occultarsi a noi ed abbandonarci a noi medesimi. Qui è dove ci apprendono a ricercarlo, in quelle vie tenebrose ove ci ricusa quelle consolazioni sensibili che ci addolciscono il sentiero della virtù. Si è in quel tempo di prove in cui gli piace di metterci che il nostro amore appare più coraggioso e più sincero, perché non cerca Dio che per Dio solo. – Ma ammiriamo ancora il coraggio dei magi in cercare Gesù Cristo: nella città di Gerusalemme, sino nella capitale della Giudea, sino nella corte di un re che regna sopra i Giudei, chiedono dove è nato il re dei Giudei. Che temere non debbono dalla gelosia di Erode, che si offenderà di una simil domanda e soffrire non verrà alcun rivale! Non importa che Erode se ne offenda, che se ne conturbi; vogliono a qualunque siasi prezzo trovar Gesù Cristo e darsi a Lui; né il rispetto umano né la tema dei supplizi e della morte cui si espongono, fa sopra quei generosi cuori impressione veruna. Fate voi così, fratelli miei, allorché, illuminati, tocchi dalle verità della fede, risolvete di abbandonare i vostri disordini e di ritornare a Dio? La minima difficoltà vi spaventa; il più leggiero ostacolo vi sembra insuperabile; la più leggiera tentazione vi fa soccombere. Converrebbe un poco di coraggio per lasciare quell’abito peccaminoso che avete di bestemmiare, di adirarvi, di abbandonarvi agli eccessi dell’ impurità, converrebbe fare un po’ di violenza alla vostra indole, alle vostre passioni, alla vostra inclinazione: ma voi non volete fare alcuno sforzo; non volete in alcun modo incomodarvi né soggettarvi: ora il peso delle vostre propensioni vi strascina, ora il rispetto umano vi abbatte e sconcerta tutti i vostri progetti. Ed in tal modo pretendete voi trovare Iddio? Ed in tal modo aspirate voi al suo regno, il quale non si acquista che con la violenza? Ignorate voi che, per pretendervi, bisogna sacrificare quanto uno ha di più caro, mortificare le proprie passioni, tenerle soggette alla legge, disprezzare gli umani rispetti, in una parola, combattere per guadagnare la corona? Ora tutto ciò suppone in voi una forza ed un coraggio a tutte prove. Non basta dunque aver fatto qualche passo per cercar Gesù Cristo, aver formata qualche buona risoluzione: conviene eseguirla, malgrado gli ostacoli che si presentano; conviene, come i magi, uscire dalla corte di Erode, cioè lasciar quelle compagnie pericolose, quelle occasioni di peccato, dove la stella del Signore non vi rischiarirà più, dove la voce del Signore non si fa intendere: e questa stella, siccome i magi, vi condurrà al presepio del Salvatore. Voi lasciate pur quelle compagnie quando si tratta della vostra fortuna, di un interesse temporale; e quando si tratta della vostra salute, della vostra eternità, il minimo ostacolo vi rattiene. Dove è dunque la vostra fede? Dove è la vostra ragione? Dio non chiede già che, come i magi, voi abbandoniate la vostra patria, i vostri parenti, i vostri amici, quando non sono per voi occasione di peccato: non chiede che intraprendiate lunghi viaggi, che tolleriate fatiche eccessive, ma vi chiede il sacrificio delle vostre passioni; vi chiede il vostro cuore, che gli è già dovuto per tanti titoli, vi chiede un poco di contegno e di violenza per lasciare i vostri agi e i vostri comodi, affine di andare a visitare quel povero infermo o prigioniero; chiede che assidui siate a visitarlo nel suo santo tempio, ad assistere ai divini offizi, ad accostarvi ai sacramenti, a compiere i doveri di buon cristiano, Dio vuol rendervi felici e poco costo, e voi siete si codardi e sì vili di non voler fare quel poco che vi richiede? Ah! non siate cotanto insensibili ai vostri veri interessi! Voi avete in questo nuovo anno formato o dovuto formare la sincera risoluzione d’essere di Dio, di servirlo fedelmente durante quest’anno, e tutto il restante di vostra vita; siate dunque, come i magi, coraggiosi e costanti per eseguire le vostre risoluzioni. – All’uscire da Gerusalemme videro di nuovo i magi la stella che era agli occhi loro sparita; il che fu per essi un gran motivo d’allegrezza: la sua vista non fece che confermarli nel buon disegno che formato avevano di andare ad adorare il nuovo re: continuano dunque il loro viaggio, arrivano a Betlemme, entrano nella casa; ma qual esser deve la loro sorpresa alla vista dell’oggetto che agli occhi loro si presenta! Una povera abitazione ed un bambino povero che è tra le braccia d’una madre povera! Ed è questo dunque, dice debole loro ragione, il re che la stella ci ha annunziato, il Signore del cielo e della terra, il desiderato dalle nazioni, il Messia da tanti secoli aspettato? Qual palazzo! Quali cortigiani! Quale apparecchio di grandezza! Ah! gli è in questo momento che mostrano l’attività tutta e la costanza della loro fede. No, non sono sgomentati né dalla povertà del luogo né da quella del Bambino e della Madre; la loro fede, che s’innalza al di sopra della loro ragione, mostra ad essi un Dio nascosto sotto la debolezza di quel bambino, ed adorano, dice S. Leone, il Verbo nella carne, la sapienza nell’infanzia, la forza nell’infermità, ed il Dio di maestà sotto la forma di nostra natura. Gli danno testimonianza della fede che li anima con i regali che gli offrono; riconoscono il suo regno con l’oro che gli presentano; la sua umanità con la mirra, e la sua divinità con l’incenso: ma l’omaggio ed il regalo il più prezioso che gli fanno si è quello dei loro cuori e delle loro persone. Non contenti di mettere ai suoi piedi il loro scettro e la loro corona, gli fanno omaggio della loro mente con una viva fede, e del loro cuore con l’amor più generoso; si dedicano interamente al suo servizio, sottomettono al suo impero le loro persona e i loro regni. – Tale è, cristiani, il bel modello che noi dobbiamo imitare. Giacché formata abbiamo la risoluzione di donarci a Dio, dobbiamo essere fedeli e costanti nei nostri buoni proponimenti, darci a Lui senza riserva. Non ci chiede egli i nostri beni, non ne ha bisogno; ma ci chiede i nostri cuori. No, non vuole che gli presentiate né oro né mirra né incenso, ma bensì l’amore del vostro cuore rappresentato dall’oro; perché siccome l’oro è il più prezioso di tutti i metalli, cosi l’amor di Dio è la più preziosa di tutte le virtù: la mortificazione dei vostri corpi è rappresentata dalla mirra; perché siccome la mirra preserva i corpi dalla corruzione, così la mortificazione, preserva l’anima dal contagio del peccato. Finalmente, per l’incenso che i magi offrirono a Gesù Cristo, convien presentargli il sacrificio delle vostre menti coll’orazione; perché in quella guisa che l’incenso s’innalza col suo fumo nell’aria, nello stesso modo l’orazione sale al trono di Dio per far discendere su di noi le grazie di cui abbiamo bisogno. Tali sono, fratelli miei, i donativi che Gesù Cristo da voi attende; con quest’offerta acquisterete il suo cuore e regnerà su di voi. Egli è vostro Dio, vostro re, vostro Salvatore; quanti titoli che vi sollecitano a darvi a Lui senza riserva, fargli sacrificio delle vostre menti, dei vostri cuori e dei vostri corpi! Delle vostre menti con una viva fede e con ferventi preghiere; dei vostri cuori con un amore ardente; dei vostri corpi con una mortificazione continua che portar dovete sopra di voi medesimi per essere del numero dei suoi discepoli. In questa guisa convien cercare Gesù Cristo, e così lo troverete. Ma, dopo averlo ritrovato, bisogna, come i magi, conservare sollecitamente la sua grazia ed il suo amore, e con questo finisco in poche parole.

II. Punto. Invano avrebbero i magi fatto tanti passi per cercar Gesù Cristo, invano superato avrebbero tanti ostacoli per ritrovarlo, se non si fossero dati a Lui per sempre! Per esser efficacemente di Dio, non bisogna mai rallentarsi dalle buone risoluzioni che si sono formate: è necessario perseverare nel suo servigio sino alla morte: da questa fedeltà dipende la nostra felicità eterna. Ce ne danno i magi un bell’esempio nel ritorno ai loro paesi. Ben lungi dal ritornare in casa di Erode, come questo principe aveva loro detto, prendono, dice il Vangelo, una altra strada per andarsene a casa loro: Per aliam viam reversi sunt in regionem suam (Matth. II). Sanno che questo barbaro principe va macchinando la morte di Gesù Cristo; la terna che egli non colga il momento di sacrificare al suo furore il nuovo re, fa loro preferire un viaggio più lungo e più difficile per sottrarre Gesù Cristo dalla morte e non espor se stessi al rischio di perdere la vita della grazia.

Pratiche generali. Ecco il modo, fratelli miei, con cui regolar vi dovete, dopo aver pur veduto Gesù Cristo nascere nei vostri cuori; fuggir bisogna le occasioni di offenderlo e di perder la grazia; bisogna aver in orrore la casa di Erode, cioè quelle case di dissolutezza e di libertinaggio ove si trama e si dà la morte a Gesù Cristo, ove si perde la vita della grazia; bisogna fuggire lo stesso Erode, cioè quelle persone scandalose che servono di strumento al demonio per indurre gli altri al peccato. Invano vi lusinghereste voi di conservar la vita della grazia nelle occasioni che altre volte ve l’hanno fatta perdere; se voi vi esponete al pericolo, infallibilmente vi perirete, qualunque buona risoluzione abbiate presa di salvarvi. Conviene, sull’esempio dei magi, seguire una strada diversa da quella che avete sinora seguito. Invece di andare in quelle case, di frequentare quelle persone che sono state per voi pietre d’inciampo, bisogna allontanarvene; frequentare piuttosto dovete i luoghi santi, le persone di pietà, i cui buoni esempi vi animeranno alla virtù. Vegliate su di voi medesimi, abbiate una continua attenzione per scansare le insidie che il mondo ed il demonio vi presentano, se conservar volete la grazia del vostro Dio. Ohimè! Fin adesso voi forse non avete seguite che le vie d’iniquità; abbandonati vi siete al torrente delle vostre passioni; la vostra vita si è forse tutta passata nel peccato e nella disgrazia di Dio; voi non vi siete sforzati di ricuperare la sua amicizia; voi non avete riandati nell’amarezza del vostro cuore gli anni scorsi che avete sì mal impiegati. Ecco un nuovo anno che il Signore vi dà per riparare il passato: forse non avete più che questo a vivere; forse non ne vedrete il fine. Impiegatelo dunque unicamente alla vostra salute; profittatene per accumular tesori per il cielo, vivendo diversamente da quello che avete fatto sino al presente; sicché vi vediamo più assidui ai divini uffizi, più esatti a frequentar i sacramenti, più diligenti, più edificanti nelle vostre famiglie, di modo che voi ne siate gli apostoli, siccome i magi lo furono nei loro regni, dove conoscer fecero il Salvatore a quelli, che l’ignoravano. Fatene altrettanto colle vostre istruzioni, coi buoni consigli, coi buoni esempi. Conservate diligentemente il prezioso deposito della fede; siate fedeli a seguire i lumi di questa celeste fiaccola che vi rischiara; rendete pratica questa fede con le buone opere, e la sua luce vi condurrà al porto della salute eterna.

Pratiche particolari. Venite ad adorare Gesù Cristo nel suo santo tempio con i medesimi sentimenti, con cui i magi l’adorarono nella sua culla; visitatelo nei poveri e negl’infermi, i quali tengono la sua vece; ma le vostre visite non siano sterili: offritegli qualche porzione dei vostri beni nella persona dei suoi poveri; tiene Egli come fatto a sé stesso tutto ciò che si fa per essi. – Ringraziate questo divin Salvatore di avervi chiamati alla fede nella persona dei re magi; producete spesso atti di questa fede, fatela conoscere con le buone opere. – Invece dei tre regali che i magi fecero a Gesù Cristo, offritegli il vostro cuore acceso di carità, si è l’oro che Egli domanda da voi; offritegli la vostra mente applicata all’esercizio, dell’orazione è questo l’incenso ch’Egli esige; offritegli il vostro corpo dedicato alla pratica della mortificazione, è la mirra che Egli da voi attende; in virtù di questa offerta privatevi di qualche agio, evitate soprattutto gli eccessi cui molti si abbandonano in questo santo giorno. Domandate perdono per quelli che offendono il Signore, recitando a tal fine il salmo Miserere! Se vi prendete qualche sollazzo, il Signor ne sia il principio e il fine: Gaudete in Domino. Ricordatevi sempre che ricercar non dovete alcuna vera allegrezza se non nel cielo. Io ve la desidero.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps LXXI:10-11
Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.
[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta
Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster: [Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì, Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore:

Communio
Matt 2:2
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.
[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato.]

DISCORSO PER IL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

DISCORSO PER IL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

[Mons. Billot, “Discorsi parrocchiali”, 2a ediz. S. Cioffi edit. Napoli, 1840]

Sopra il buon impiego del tempo

Renovamini spiritu mentis vestræ et induite

novum hominem, qui secundum Deum

creatus est in iustitia et sanctitate veritatis.

[Eph. 4.]

Per ben cominciare quest’anno, fratelli miei, e procurarvelo felice, voi non potete far meglio che seguire l’avviso che vi dà l’Apostolo s. Paolo. Rinnovatevi dunque nello spirito del cristianesimo, imitando Gesù Cristo vostro modello, cui dovete essere conformi per trovarvi nel numero dei predestinati. Si tratta di spogliarvi dell’uomo vecchio, per servirmi delle parole dello stesso Apostolo, cioè rinunziare a tutte le vostre inclinazioni perverse, e fare a Dio in questo nuovo anno il sacrificio di tutte le vostre passioni. Bisogna che coll’anno che avete finito finisca altresì il regno del peccato: che con lui finiscano l’empietà, l’irreligione, le bestemmie, le imprecazioni, gli odi, le vendette, le ingiustizie, le impurità, le intemperanze, gli scandali, in una parola tutti i delitti che si sono commessi: possano essi rimanere sepolti in un eterno obblio! e che in loro vece rinascere si vedano in questo nuovo anno la pietà, la religione, la temperanza, la modestia, la carità, l’unione dei cuori. Tale è, fratelli miei, il compendio della morale rinchiusa nelle parole del grande Apostolo; Renovamini etc. – Se l’anno che voi cominciate si passa nella pratica delle virtù cristiane; se è un anno santo, egli sarà per voi fortunato. Invano accompagnato verrebbe dalla felicità più perfetta secondo il mondo invano vi presenterebbe tutto ciò che può appieno appagare le vostre brame nei piaceri e negli onori passeggieri; se non è un anno cristiano, sarà egli per voi disgraziato. Se all’opposto voi santamente il passate, fosse ben egli altronde attraversate da qualunque sinistro accidente, egli sarà sempre favorevole, perché vi condurrà alla felicità eterna. Profittatene dunque nel disegno che Dio ve lo dà, cioè per operare la vostra salute; destinatene tutti i momenti a questo beato fine. Per indurvi a questo, voglio proporvi alcune riflessioni sopra il buon impiego del tempo, Quali sono i motivi che debbono indurvi a ben impiegare il tempo? primo punto: come dovete voi impiegarlo? secondo punto. –

I Punto: Quando più prezioso e necessario si e un bene che ci viene offerto, tanto più dobbiamo noi stimarlo. Più è limitato l’uso che ci vien dato, più dobbiamo affrettarci di metterlo a profitto, principalmente quando dopo di averlo perduto non è più in nostro potere ricuperarlo per trarne vantaggio. – Ora tale è la natura del tempo di nostra vita; egli è prezioso, egli è breve, egli è irreparabile: tre ragioni che c’impegnano a ben impiegarlo. – Il tempo è prezioso e per riguardo al fine per cui ci è dato e per riguardo a quel che ne ha costato a Gesù Cristo per procurarcelo. Per qual fine, infatti, Dio vi ha dato, fratelli miei, e vi dà ancora del tempo a vivere sulla terra? È egli forse per accumular ricchezze, innalzarvi agli onori, appagar le vostre passioni? No, fratelli miei, no, ma bensì per guadagnare il cielo. Il tempo deve condurvi all’eternità, e la vostra eternità sarà felice o sgraziata secondo il buono o cattivo uso che avrete fatto del tempo. Voi potete ad ogni istante guadagnare un’eternità di gloria, perché non evvi alcun istante nella vita in cui non possiate entrare in grazia di Dio, se siete peccatori; ovvero, se siete in istato di grazia, meritar potete tanti gradi di gloria, quante buone opere farete: ecco perché dire si può che da un momento l’eternità dipende, perché basta un momento per meritarla o perderla. Se voi passar lasciate questo momento che vi è dato; se voi non profittate del tempo presente, dopo la morte voi non potrete più meritare : Tempus non erit amplius (Apoc. X). Dopo la morte non vi sarà più perdono dei vostri peccati ad ottenere; più opera alcuna che possa essere nel cielo ricompensata. I reprobi nell’inferno non potranno mai, con tutti i pianti che verseranno, con tutti i tormenti che soffriranno, ottenere il perdono di un solo peccato; i santi nel cielo non potranno mai, con tutto l’amore che avranno per Dio, accrescere un solo grado della loro beatitudine perché fuori della vita non avvi più merito. Oh quanto è dunque prezioso il tempo della vita e quanto importa il profittarne! poiché ciascun momento vale, per così dire, il possesso di un Dio, vale una felicità eterna. – Ma quale stima ancora non dobbiamo noi fare del tempo, se consideriamo quanto ha costato a Gesù Cristo per procurarcelo? Gli è per meritarci questo tempo che questo Dio salvatore è nato in una stalla, si è assoggettato ai rigori delle stagioni, agl’incomodi della fame e della sete, ai patimenti e alla morte ignominiosa della croce: gli è per meritarci il tempo di far penitenza ch’Egli si è offerto alla giustizia del Padre suo, il che non ha fatto per gli angeli ribelli, che non hanno avuto un solo istante per rialzarsi dalla loro caduta, nel mentre che il Signore ci dà dei giorni, dei mesi, degli anni per cancellare i nostri peccati, calmare la sua giustizia, meritare i doni della sua misericordia. A chi siamo noi debitori di questo favore? Ai meriti, ai patimenti, ed alla morte di Gesù Cristo. Quante volte Iddio, sdegnato contro il peccatore, ha alzato il braccio della sua giustizia per recidere questo albero infruttuoso, e quanti di questi alberi sterili sarebbero già nel fuoco, se Gesù Cristo, il mediatore supremo, non avesse per essi domandata grazia, pregando suo Padre di aspettare ancora per dar loro tempo di portar frutto? Dimitte illam et hoc anno (Luc. XIII). Ah! Signore, aspettate ancora un anno, che quest’albero produca frutti, e se egli non ne produrrà, voi lo taglierete. Ecco, o peccatori, ciò che domanda Gesù Cristo per voi; e di questo tempo, che è il frutto dei suoi patimenti e della sua morte, quale stima ne fate? in che l’impiegate? Dio ve lo dà per salvarvi, voi ve ne servite per perdervi: questo tempo ha costato la vita di un Dio, e lungi dal metterlo a profitto, voi ne fate un malvagio uso. Gli uni lo passano senza far niente: nihil agentibus. Sono quelle persone oziose e sfaccendate cui fare si può il rimprovero che faceva il padre di famiglia agli operai che se ne stavano in piazza e non si curavano di andare al lavoro: Quid hic statis tota die Matt. XX)? Si passano i giorni, le settimane, i mesi interi senza far nulla per la salute. Non sappiamo che cosa fare, dicono essi, troviamo il tempo ben lungo; bisogna dunque cercare di ricrearsi e sollazzarsi; e a questo fine il passano in divertimenti frivoli, in render visite, in ispacciar novelle, trattenersi in cose vane ed inutili, andar e venir da una compagnia all’altra, giuocare, andar al passeggio; perché, dicono essi, convien poi passar il tempo in qualche cosa. Ah insensati! voi dite di non avere cosa alcuna a fare? Trovate voi il tempo lungo? Oh quanto la discorrete male, dice s. Bernardo, dicendo che convien cercare di passar un tempo che vi è dato per fare penitenza, per ottenere il vostro perdono, per meritare la grazia, per procurarvi una felicità eterna! Ah! che dovete voi fare? — Non bisogna pregare, far delle buone opere, visitar le chiese, gl’infermi, ammaestrarvi con leggere libri di pietà? Non avete voi doveri ad adempire, virtù a praticare? Ah! se voi foste ben persuasi che avete un affare importante, qual è quello della salute, e che non avete se non il tempo della vita per faticarvi intorno, ben lungi dal trovarlo lungo, vi sembrerebbe troppo breve; per assicurarvi la riuscita di questo affare importante, voi ne mettereste sollecitamente a profitto tutti i momenti. Se i dannati dell’inferno avessero, non dico tutto il tempo, ma solamente una parte di quello di cui voi abusate, con qual precauzione non ne userebbero? – Altri si abusano ancora del tempo a fare tutt’altro che ciò che far dovrebbero: aliud agentibus. Moltissimi si occupano nel mondo, l’uno passa tutti i suoi giorni ad avvantaggiare i suoi negozi, l’altro a proseguire le sue liti, questi a condurre affari stranieri, quegli a fare azioni che non sono né del suo stato né della sua professione. Gli uni rovinano la loro sanità coll’applicazione della mente, gli altri coi travagli del corpo; ma quasi nessuno pensa alla sua salute. Ciò non ostante questi giorni sì pieni sono interamente vuoti di buone opere; si fa tutt’altro che quel che far si dovrebbe; e a che serve lavorar per gli altri, se non si lavora per sé? Questo è faticar inutilmente, questo è perdere il suo tempo: aliud agentibus. – Ma 1’abuso peggiore che si fa del tempo, si trova in quelli che lo passano in far del male: male agentibus. Abuso che pur troppo è comune tra gli uomini. Basta vedere quel che passa tra di essi. Gli uni non pensano dalla mattina alla sera che ai mezzi di contentare una rea passione, di mantenere una pratica, di soddisfare la loro cupidigia, la loro sensualità colle delizie e coll’abbondanza del riposo. Gli altri avidi di arricchirsi, commettono tante ingiustizie, quante occasioni trovano di usurpare l’altrui; tutta la loro vita la passano a meditar i mezzi di soppiantar gli uni e d’ingannar gli altri, di distruggere coloro che resister non gli possono. A che si riducono la maggior parte delle conversazioni? A parlar di affari progettati o conchiusi per la soddisfazione delle sue passioni, a spacciar novelle per lo meno inutili, a passar in rivista tutti gli stati, tutte le condizioni, a ricercare scrupolosamente i doveri di ciascuno, fuorché i loro propri; a censurare senza discrezione quei che impiegati sono nelle diverse cariche della società. M’inganno forse? Nulla è di tutto questo? Sarebbero dunque discorsi contro la religione, contro i costumi? Finalmente, per la disgrazia più deplorabile, non si vede, non si ode parlar dappertutto che di scelleratezze e di disordini: male agentibus; cioè, del mezzo che Dio loro dà per santificarsi, per meritar il cielo, se ne servono per consumare la loro riprovazione. Quale accecamento e quale insensibilità per i suoi interessi! Poiché questo tempo sì prezioso che ci vien dato per salvarci è sommamente breve. – Secondo motivo che deve indurci a metterlo a profitto. Infatti, fratelli miei, che cosa è la vita dell’uomo? È un sogno che sparisce nell’istante in cui uno si sveglia; è, dice il santo Giobbe, una foglia che il vento trasporta, un fumo che si dissipa nell’aria. Appena l’uomo è venuto al mondo che conviene pensare a lasciarlo. Non evvi, per così dire, che un passo dalla culla al sepolcro. La maggior parte degli uomini vive poco; e che compaiono alfine della vita gli anni di quei medesimi che vivono lungo tempo? Mille anni, dice il profeta, non sono innanzi a Dio che come il giorno di ieri che è passato: Mille anni tanquam die hesterna quæ præteriit (Ps.LXXXIX). La vita più lunga, a paragone dell’ eternità, è meno che una gocciola d’acqua vi pare, fratelli miei, dei venti, quaranta, sessant’anni che vissuto avete sopra la terra? Che cosa vi sembra dell’anno che ora è passato? É un giorno, è un momento: tutti i vostri anni passeranno nella stessa guisa, e voi vi troverete al fine come se pur allora incominciaste a vivere. Insensato è colui che si attacca alle cose transitorie di questo mondo, che cerca la sua felicità in una vita sì breve e che non se ne profitta per assicurarsi una più durevole felicità. – Dio ci ha dato il tempo della vita come un bene ad affitto, che ci toglierà dopo un certo tempo. I nostri corpi sono case che cadono ogni giorno in rovina e che ci tocca fra poco abbandonare; la nostra vita si accorcia tutti i giorni, di modo che più abbiamo noi vissuto, meno ci resta a vivere. Verrà fra breve l’ultimo giorno, in cui nulla vi sarà più a contare. Affrettiamoci di profittare di un tempo che se ne fugge veloce e la cui perdita è inoltre irreparabile. Ed invero, il tempo perduto non ritornerà più, gli anni che noi abbiamo vissuto sulla terra non sono più in nostro potere. Felici noi, se li abbiamo ben passati, sono altrettanti tesori di merito che abbiamo acquistati e che sussistono: mentre la virtù è il solo bene che sia sicuro dall’ ingiuria del tempo; le nostre preghiere, i nostri digiuni, le nostre limosine, tutto ciò noi troveremo alla morte e nell’ eternità. Ma se noi abbiamo passati male i giorni di nostra vita, la perdita che fatta abbiamo, è senza rimedio. Possiamo, è vero, ricuperar la grazia di Dio che abbiamo perduta nel tempo passato, ma non ricupereremo giammai quei momenti favorevoli cui aveva Iddio annesse certe grazie che forse non ci darà più e che deciso avrebbero di nostra predestinazione. Il nostro fervore può supplire ancora al numero delle buone opere che non abbiamo fatte; noi possiamo ancora, come gli operai della vigna che vennero all’ultima ora, meritare la ricompensa che fu data ai primi; ma non raccoglieremo giammai quell’abbondanza di frutti che tutti i momenti di un costante fervore ci avrebbero prodotti. – Qual sarà dunque alla morte il rammarico di coloro che abusato avranno del tempo? Qual sarà il cordoglio di quei peccatori che vedranno fuggiti quei bei giorni che non dipendeva che da essi l’impiegare pel cielo? Quei bei giorni in cui la grazia li sollecitava a staccarsi dalla creatura, a rompere quegli attacchi illeciti che li soggettavano al loro impero. Vedranno i loro piaceri passati col tempo; desidereranno di aver ancora quel tempo; ma con tutte le loro lagrime e i loro tormenti, non potranno giammai far ritornare un solo di quei momenti che avrebbero bastato per preservarli dall’ eterna disgrazia. – Aspetterete voi, fratelli miei, a questo stesso momento per riflettere sul prezzo del tempo e sospirare quello che perduto avrete? Oimè! di quanti momenti non vi siete voi già abusati? Interrogate su di ciò la vostra coscienza e domandate a voi medesimi: da poi che io sono sopra la terra, che cosa ho fatto per la mia salute? Molto ho lavorato per gli altri, e nulla ho fatto per me; forse che se io dovessi al presente comparire innanzi a Dio, presentargli non potrei una sola azione degna delle sue ricompense: all’opposto tutte le azioni di mia vita non meritano che i suoi castighi. Ah! ormai è tempo che io esca dal letargo in cui ho sin adesso vissuto, che incominci a vagliare per me, e che ripari il passato con un santo uso, del tempo. E qual deve essere quest’uso? Ecco il secondo punto.

  1. II. Punto. Per fare un sant’uso del tempo, dice s. Bernardo, convien considerarlo per riguardo al passato, al presente ed al futuro. Bisogna riparar il passato, regolar il presente, cautelarsi contro l’avvenire e non contarvi sopra. – Quantunque non sia in poter nostro far ritonare il tempo già passato, possiamo nulladimeno ripararlo, o, per servirmi delle parole di s. Paolo, riscattarlo: redimentes tempus etc. Ora che cosa è riscattare un podere nel commercio del mondo? É pagare, per ritirarlo, il prezzo che ne abbiamo ricevuto, è soddisfar un debito che abbiamo contratto, Voi avete venduto, prostituito il vostro tempo al mondo e alle vostre passioni, voi avete alienato questo fondo che Dio aveva confidato alla vostra economia; e per cattivo uso da voi fattone, avete contratto dei debiti verso la giustizia di Dio. Ora quali sono questi debiti? Sono i peccati che avete commessi. Questi peccati sono passati, è vero; i piaceri da voi gustati nel commetterli non sussistono più, ma il vostro delitto sussiste ancora nella macchia che ha impressa nella vostra anima, che la rende difforme agli occhi di Dio e ne fa 1’oggetto delle sue vendette: questa macchia rimarrà sempre, sin tanto che non sia cancellata con le lagrime della penitenza. Alla penitenza dunque convien ricorrere per purificarvi; e a questo fine entrate nei sentimenti di un re penitente, il quale riandava nell’amarezza del suo cuore gli anni della sua vita: Recogitabo Ubi omnes annos meos in amaritudine animæ meæ [Isai. XXXVIII). Oimè! dovete voi dire, sono tanti anni che io vivo alla terra, e nulla ho ancora fatto per la mia salute; a nient’altro ho pensato che a far fortuna in questo mondo, che a soddisfar le mie passioni. Di quei beni che ho ricercato, di quei piaceri che ho gustato,, che cosa mi resta? Una trista rimembranza, che mi trafigge l’anima, ma di pungenti rimorsi. Vane apparenze di dolcezze, che vi siete dileguate come un sogno, voi null’altro più siete che un’ombra che svanì. Ah! tempo infelice in cui vi ricercai! tempo infelice in cui tanto vi amai! O mio Dio, che siete una bellezza sempre antica e sempre nuova, ah quanto sono stato cieco ed insensato a cercare altra contentezza che quella che gustasi nell’amarvi e nel servirvi. Io ne ho il cuor penetrato dal più vivo dolore; e giacché voi mi date ancor tempo di riparare le mie disgrazie, io voglio profittarne per non attaccarmi che a Voi solo e risarcirvi col mio fervore l’ingiuria che vi ho fatta coll’abusarmi del tempo che Voi mi avete dato. – Se voi siete, fratelli miei, in questi sentimenti e li metterete in pratica, voi, meriterete che Dio vi tenga conto di quegli anni che prostituiste al mondo, al demonio e al peccato: Reddam vobis annos quos, comedit locusta, bruchus et rubigo (Joel. 2). Con questo riparerete le vostre perdite, riscatterete il tempo che avete perduto, ma si tratta di fare in primo luogo un santo uso di quello che presentemente si trova in vostra disposizione. Voi dispor più non potete del tempo passato, perché più non esiste; neppure dispor potete del tempo avvenire, perché non esiste ancora e forse voi non l’avrete: non evvi dunque che il tempo presente, che è in vostre mani ed ancora vi fugge nello stesso momento che ne parlate; profittate adunque con diligenza di quel che avete, perché è il solo su cui potete contare, è un talento che Dio vi dà, non lasciatene perdere la minima parte: Particula boni doni non defraudet te ( Ecli. XIV). Può essere che Dio abbia attaccato al momento che è adesso in vostra disposizione certe grazie speciali da cui dipende la vostra eterna salute. – Se voi sicuri foste di non aver più che quest’anno, questo giorno a vivere, come, io vi domando, come lo passereste voi? Non l’impieghereste tutto nella pratica delle buone opere?… Rimarreste voi un sol momento in peccato? Ebbene vivete in questa guisa, e voi farete un santo uso del tempo. Dite a voi medesimi: questo forse è l’ultimo anno di mia vita, convien dunque che lo passi come se lo fosse in realtà; e voi lo passerete santamente. Perciocché finalmente, fratelli miei, ne verrà uno che sarà l’ultimo, e qual è? Potete voi assicurarvi che non sia questo? Quanti ve ne sono stati che. cominciato avendo lo scorso anno in ottima sanità, non ne han veduto il fine! Quanti cominciano questo e non lo vedranno finire! Chi viver crede ancora molti anni forse è colui che morrà il primo e fra poco. Se alcuno avesse detto a quell’uomo, a quella donna, che sono stati sotto gli occhi vostri sepolti nei sepolcri dei loro padri: Voi non avete più che quest’anno a vivere come passato l’avrebbero? Si dice a voi la medesima cosa al principio di questo: egli sarà per qualcheduno l’ultimo, e non evvi alcuno che dir non possa: forse lo sarà per me, forse a me toccherà di andar in quest’anno alla sepoltura; perché posso io lusingarmi di andarvi più tardi che un’altro? Ah bisogna dunque, senza esitare, metter ordine alla mia coscienza, restituire quella roba mal acquistata, riconciliarmi con quel nemico, corregger quel cattivo abito, dire addio al peccato, allontanare quell’occasione pericolosa, quell’oggetto che mi seduce, bisogna finalmente che io faccia tutto il bene che da me dipende, che io fatichi alla mia salute, mentre ne ho il tempo: Dum tempus habemus, operemur bonum (Gal. 6). – Tali sono, fratelli miei, le salutevoli risoluzioni che suggerir vi debbono la brevità del tempo e l’importanza della buona riuscita nell’affare della vostra salute. Voi potete lasciar il restante a terminare ai vostri eredi, lasciar loro quella fabbrica a perfezionare, quella lite a finire, ma non già la vostra salute; se voi non vi ci siete adoperato nel tempo, non potrete più farlo dopo la morte, né altri vi faticherà per voi. Profittate dunque, torno a dirvi, del momento che se ne fugge per non ritornare giammai, ed occupatevi incessantemente nella pratica delle buone opere che vi seguiranno nell’eternità: Quodcumque potest manus tua, instanter operare (Eccl. 9). Distribuite il vostro tempo ad adempiere i doveri del vostro stato, regolate si bene i vostri esercizi di pietà che ciascheduna cosa abbia il suo tempo: che la preghiera, la messa, la lettura di pietà, l’adorazione del Santissimo Sacramento, la visita dei poveri trovino luogo nella distribuzione che voi ne farete. Date pure le vostre attenzioni ai vostri affari temporali, al governo della vostra famiglia: ma la vostra salute tenga sempre il primo posto, e tutti gli altri a lei rapportino. Cosi i vostri giorni si troveranno pieni, la vostra anima sarà carica di meriti pel cielo, e vi precauzionerete per l’avvenire, sul quale voi contar non dovete. E come, infatti, contar si può sopra un tempo che è così incerto? Iddio non ce l’ha promesso, né il vigore dell’età né la forza del temperamento possono assicurarcelo; poiché vediamo sovente persone giovani e robuste colpite dalla morte così presto, come le inferme e le vecchie. Tale che si promette di vivere ancora un gran numero d’anni morrà fra poco: ciò che è ben certo si è che si muore più presto di quel che si pensa. Bisogna dunque preveder l’avvenire ed operare come se non dovessimo averlo. È lo stesso che arrischiare la sua eterna salute, l’esporla all’incertezza di un tempo avvenire. Ah! non fate così, fratelli miei, quando si tratta di affari temporali! Quando trovate l’occasione di arricchirvi, voi la cogliete avidamente, niente vi distoglie dal profittarne; se si presenta un buon acquisto a fare, voi non aspettate all’indomani, per tema che un altro più pronto di voi non vi prevenga. Eh! Perché non fate lo stesso per la vostra salute? Potete voi in quest’oggi convertirvi, riconciliarvi con Dio. Non differite di più; forse non avvi domani per voi. La prudenza richiede che voi pensiate all’avvenire; e perciò voi fate provvisione di quanto vi sarà necessario per sussistere un numero di anni che credete ancora vivere sulla terra e per una stagione in cui non potete più lavorare. Ah! forse non sarete più in quest’anno, per cui fate tanti cumuli e non pensate a far provvisioni per l’eternità, ove sarete per sempre. Qual follìa! Qual accecamento! Al vedervi sembra che abbiate da star sempre sulla terra, e che convenuti vi siate, per così dire, con la morte, affinché ella non vi colpisca se non quando piacerà a voi. Ah! insensati! voi morrete forse prima di aver terminato un solo dei vostri affari, e la vostra gran disgrazia sarà di morire senza aver operato la vostra salute! Imitate un viaggiatore che trattenuto si è nel suo cammino in frivoli divertimenti, e, vedendo il fine del giorno, raddoppia i suoi passi per riparare il tempo perduto e giungere al termine del suo viaggio. Voi arrestati vi siete alle bagattelle del secolo; i beni, i piaceri hanno occupato tutte le vostre sollecitudini; e voi non avete ancora pensato alla soda felicità: nondimeno il sole s’abbassa. Inclinata est iam dies (Luc. XXIV). Eccovi al fine di vostra vita; forse voi toccate, il momento che deve farvi passare dal tempo all’eternità. Profittate dunque del tempo che vi resta, camminate sinché la luce vi rischiara, perché la notte s’avvicina, in cui nulla più potrete operare per la salute; precipitate il vostro corso, poiché vi resta ancora molta strada a fare.

Pratiche. Il più importante ed il più premuroso per voi è di uscire dallo stato del peccato per riconciliarvi con Dio con una buona confessione, che rinnoverà in voi la immagine dell’uomo nuovo: Renovamìni etc. Non potete voi meglio cominciar l’anno che con questa santa pratica. Correggete i vostri cattivi abiti e riformate tutto ciò che conoscete di difettoso nella vostra condotta. Tale è la circoncisione spirituale che Gesù Cristo domanda da voi in questo giorno, in cui ha Egli sofferto la circoncisione corporale per la vostra salute. Dopo aver Egli tanto sofferto per esser vostro Salvatore, non vorrete voi fare cosa alcuna per esser salvi? Giacché si è per voi sacrificato, non dovete voi altresì fargli un qualche sacrificio col troncare tutto ciò che in voi gli dispiace? – Ringraziate Iddio dei beni che vi ha fatti negli anni scorsi; fate a questo fine una visita a Gesù Cristo, offeritegli i pochi anni che vi restano per impiegarli nel suo servizio. Vivete questo anno, questo giorno stesso, come se non aveste più che quest’anno, che questo giorno a vivere; fate ogni mattina questa risoluzione. Ravvivate il vostro fervore nel servizio di Dio con quelle parole di s. Paolo: Dum tempus habemus, operemur bonum (Gal. VI); facciamo del bene mentre ne abbiamo il tempo, per raccoglierne il frutto nell’eternità. Così sia.

 

DOMENICA INFRA OTTAVA DI NATALE

DOMENICA INFRA OTTAVA di NATALE

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 
Sap XVIII:14-15.
Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit [Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale.]

Ps XCII:1
Dóminus regnávit, decórem indútus est: indútus est Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se.
[Il Signore regna, rivestito di maestà: Egli si ammanta e si cinge di potenza.]
Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit [Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale.]

Oratio 
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, dírige actus nostros in beneplácito tuo: ut in nómine dilécti Fílii tui mereámur bonis opéribus abundáre.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, indirizza i nostri atti secondo il tuo beneplacito, affinché possiamo abbondare in opere buone, in nome del tuo diletto Figlio]

Lectio 
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Gálatas.
Gal IV:1-7
Patres: Quanto témpore heres párvulus est, nihil differt a servo, cum sit dóminus ómnium: sed sub tutóribus et actóribus est usque ad præfinítum tempus a patre: ita et nos, cum essémus párvuli, sub eleméntis mundi erámus serviéntes. At ubi venit plenitúdo témporis, misit Deus Fílium suum, factum ex mulíere, factum sub lege, ut eos, qui sub lege erant, redímeret, ut adoptiónem filiórum reciperémus. Quóniam autem estis fílii, misit Deus Spíritum Fílii sui in corda vestra, clamántem: Abba, Pater.
Itaque jam non est servus, sed fílius: quod si fílius, et heres per Deum.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Torino 1899, vol. I, Omelia IX]

“Fratelli, fintantoché l’erede è fanciullo, non differisce punto dal servo, benché sia padrone di tutto: ma sta sotto, tutori ed amministratori fino al tempo stabilito prima dal padre. Così noi pure: mentre eravamo fanciulli, eravamo tenuti in servitù sotto gli elementi del mondo. Ma quando venne il compimento dei tempi, Iddio mandò il Figliuol suo, fatto di Donna, soggetto alla legge, affine di riscattare quelli che erano sotto la legge, sicché fossimo adottati in figliuoli. E poiché siete figliuoli, Iddio ha mandato lo Spirito del Figliuol suo nei vostri cuori, che grida: Abba, Padre „ (Ai Galati, IV, 1-6).

Queste poche sentenze, che avete udite e che l’apostolo Paolo scriveva ai fedeli di Galazia, rispondono a meraviglia al mistero sì sublime e sì dolce, che abbiamo celebrato in questi giorni. Il Figlio di Dio fatto uomo! ecco il mistero del S. Natale, di cui festeggiamo l’ottava. Ora qual è il fine, il frutto principalissimo di questo mistero? Perché il Figlio di Dio si è fatto uomo? Affinché gli uomini diventassero Dei, vi risponde S. Agostino e con lui ad una voce tutti i Padri: affinché gli uomini diventassero figli di Dio, risponde S. Paolo nel testo sopra riportato. Bene a ragione pertanto la Chiesa in questa Domenica ci invita a meditare le parole dell’Apostolo, che vi ho recitate: in esse si chiude il frutto pratico della Incarnazione e del santo Natale; a me lo spiegarvele, a voi l’udirle. – Scopo di tutta la lettera di S. Paolo ai Galati è quello di mostrare che la legge mosaica con tutte le sue cerimonie e tutti i suoi sacrifici doveva cessare per dar luogo alla legge di Gesù Cristo; la legge di Mosè, dice S. Paolo, era il pedagogo, che doveva condurre a Gesù; venuto questo, l’ufficio del pedagogo non aveva più ragione di essere e naturalmente cessava. Per illustrar meglio questa idea fondamentale, Paolo ricorre ad una idea affine e tolta dalla legge stessa civile, evoluzione della legge naturale. Udite l’Apostolo. “Fintantoché l’erede è fanciullo, non differisce punto dal servo, benché sia padrone di tutto; ma sta sotto tutori ed amministratori fino al tempo stabilito prima dal padre. „ Vedete un fanciullo: egli è l’erede del padre suo e perciò veramente padrone di tutta la sua sostanza; ma finché è fanciullo, finché è nella minorità, non differisce dal servo: deve ubbidire all’aio: deve lasciar amministrare la sua sostanza al tutore, ai procuratori e restare in questo stato di dipendenza, lui padrone, finché sia spirato il tempo fissato dalla legge e dal padre ed egli acquisti il pieno e libero esercizio dei suoi diritti di figlio. Fino a quel tempo non vi è differenza tra il servo ed il figlio; tutta la differenza è questa: la condizione del servo è stabile, quella del figlio è temporaria. Noi, così ragiona S. Paolo, noi Ebrei, sotto la legge mosaica, noi Gentili, prima del Vangelo, eravamo come fanciulli, impotenti ad ogni cosa; eravamo tenuti in servitù, sotto gli elementi del mondo; eravamo cioè legati alle prescrizioni sì gravi e sì minute della legge di Mose; eravamo schiavi delle superstizioni gentilesche; eravamo come quei fanciulli, che prima di studiare ed apprendere le scienze, devono imparare le lettere dell’alfabeto. Insomma tutto il tempo, che corse da Adamo a Cristo, è un tempo di preparazione: l’umanità tutta è come un pupillo, un minore, che aspetta il tempo, in cui sarà emancipata: acquisterà la piena libertà di se stessa per opera di Gesù Cristo, sciogliendosi dalle fascio della sinagoga e dalle superstizioni e dagli errori del paganesimo. – E questa emancipazione dell’umanità quando avvenne? “Quando venne il compimento dei tempi, Iddio mandò il Figliuol suo, fatto di Donna, soggetto alla legge. „ Che cosa è questo compimento o pienezza del tempo, come dice il testo latino? Una cosa è piena quand’è compita e perfetta, e allora viene la pienezza dei tempi, quando i tempi sono maturi e compiute le cose: quando son giunti i tempi e i fatti annunziati dai profeti, quando tutto è disposto, Dio manda il Figliuol suo, cioè il Figliuol di Dio si fa uomo. Si dice che Dio, cioè Dio-Padre, che di sé, ab eterno, genera il Figliuol suo, lo manda sulla terra. Non dovete immaginare che il Padre mandi il Figlio, come un padre terreno manda i suoi figli, no; Dio-Padre non si può mai separare dal Figlio, con cui ha comune la natura, come non possiamo separare il pensiero dalla nostra mente; non lo manda con movimento materiale, che in Dio è impossibile: non lo manda a guisa di chi fa un comando: Dio-Padre manda il Figliuol suo, cioè fa sì che il Figliuolo, che ha una sola volontà con Lui, assuma la natura umana, ed essendo Dio eterno ed immutabile, cominci ad essere anche uomo. Il Figliuolo del Padre eterno si fa uomo, pigliando dalla donna la natura umana. E qui badate che S. Paolo dice che Gesù Cristo prese dalla Donna la natura umana per indicare, che non vi ebbe parte l’opera dell’uomo e che perciò Gesù Cristo nacque da una Vergine. — Il Figlio di Dio nacque da una Vergine e fu posto sotto la legge, s’intende, la mosaica. Certamente Gesù Cristo, anche in quanto uomo non era obbligato alla legge mosaica, essendo Egli sopra ogni legge; ma, benché non tenuto alla legge mosaica, volontariamente ad essa si sottopose e ne osservò scrupolosamente tutte le prescrizioni, dalla circoncisione alla celebrazione della pasqua. E per qual motivo Gesù Cristo volle sottoporsi alla legge mosaica, Egli che non ne aveva obbligo alcuno? Risponde S. Paolo: “Affine di riscattare quelli che erano sotto la legge, sicché fossimo adottati in figliuoli. „ Gesù Cristo pigliò sopra di sé tutto il peso della legge mosaica per due motivi secondo san Paolo: perché fossimo liberati noi da quella legge di servi ed acquistassimo tutti i diritti di figliuoli adottivi. — La legge mosaica era una legge di timore; a moltissime delle sue trasgressioni era inflitta la pena di morte: essa riguardava più il corpo che lo spirito, aveva ricompense terrene; era tal giogo che, diceva S. Pietro, non abbiam potuto portare noi, né i padri nostri (Atti, xv, 10). Ebbene Gesù Cristo la tolse sopra di sé, come tolse sopra di sé il peccato, e la chiuse per sempre, a quella sostituendo la sua legge. Quale? “La legge di figliuoli di adozione, „ che è il Vangelo. – Noi per natura siamo creature di Dio e perciò suoi servi, e come servi erano trattati i figli d’Israele, percossi terribilmente ogni qualvolta traviavano. Nella nuova legge, portata da Gesù Cristo, noi siamo elevati alla dignità di figli di Dio, e perciò da noi si esige più l’amore che il timore. – Siamo figli di Dio per adozione! Voi sapete che cosa sia l’adozione e i diritti ch’essa porta seco. Un uomo sceglie un giovane qualunque, lo dichiara suo figlio, lo tiene presso di sé, lo tratta, lo ama come se fosse suo figlio naturale e morendo gli lascia in eredità la sua sostanza e porta il nome del padre, che lo ha adottato. Ecco il figliuolo adottivo ed ecco la nostra dignità, di cui siamo debitori a Gesù Cristo. Egli senza merito nostro di sorta ci scelse di mezzo agli uomini, col santo Battesimo ci fece suoi figliuoli, ci accolse nella Chiesa, che è la sua famiglia ed il suo regno: ci ama come figli, ci fa partecipi di tutti i beni spirituali della sua Chiesa e ci darà l’eredità eterna del cielo. Ecco che cosa vuol dire essere figli adottivi di Dio! Ma non ho detto tutto, o cari. La nostra dignità di figli di Dio per adozione importa tra noi e Dio rapporti senza confronto maggiori di quelli che corrono tra il padre che adotta, ed il figlio che è adottato, e qui vi prego di porre ben mente alla cosa. Un uomo adotta un figlio, e questo si considera come se fosse veramente figlio dell’adottante e ne ha tutti i diritti. Ma ditemi: il padre adottante che cosa mette di proprio nella persona del figlio adottato? Perfettamente nulla. Il padre adottante ami pure il figlio adottato coll’amore più intenso; lo dica pure suo figlio, lo colmi di favori, di ricchezze finché vuole: quel figlio non sarà mai veramente figlio dell’adottante se non per virtù della legge e nell’apprezzamento comune; nelle vene di quel giovane adottato non scorrerà mai una stilla sola di sangue del padre adottante; sarà sempre vero che quel giovane ha avuto la vita da un altro uomo e che il vero padre dell’adottato non è, ne sarà mai colui che l’ha adottato, e forse la fisionomia, l’indole morale, le tendenze, il carattere e le abitudini lo mostreranno a chiare note. – Ben altra è l’adozione che noi abbiamo ricevuto da Dio. Egli nell’adottarci ha posto in noi ciò che ha di più intimo, la partecipazione del suo spirito, della sua vita stessa. Ce lo dice in termini S. Paolo: “E poiché siete figliuoli, Iddio ha mandato lo Spirito del Figliuol suo nei nostri cuori. „ Lo spirito di Gesù Cristo è lo stesso Spirito Santo, l’amore sostanziale del Padre e del Figlio, e Gesù Cristo lo spande nelle nostre anime con la grazia che ci santifica nel Battesimo, che si accresce nella Confermazione e particolarmente nella santa Eucaristia e in tutti i Sacramenti. E che è questa grazia, questo dono dello Spirito Santo? È una forza che emana da Dio stesso, che investe e penetra tutta l’anima, l’abbellisce, la trasforma e la rende simile a Dio. Vedete il ferro messo nel fuoco: esso è tutto penetrato dal fuoco, quasi trasformato nel fuoco, rimanendo pur sempre ferro. È una immagine dell’anima adorna della grazia di Dio. Essa è unita intimamente a Dio; è fatta bella della bellezza di Dio, come il fiore è bello della luce del sole; essa riceve in sé l’influsso della vita stessa di Dio, come il tralcio riceve la sua vita dalla radice e dal tronco della vite; per la grazia l’anima, restando pur sempre anima creata, partecipe della divina natura e porta in se stessa i lineamenti, la somiglianza di Dio e sente di avere tutto il diritto di dire a Dio: Padre nostro! Oh! sì: grida S. Giovanni, non solo possiamo dirci figliuoli di Dio, ma lo siamo realmente: “Ut filii Dei nominemur et simus.,, Quale dignità! quale grandezza, o carissimi! Figli di Dio! Dunque, come figli, dobbiamo rispettarlo, ubbidirlo, onorarlo con la nostra condotta, porre in Lui ogni fiducia, amarlo teneramente e sopra ogni cosa.

 Graduale Ps XLIV:3; 44:2
Speciósus forma præ filiis hóminum: diffúsa est gratia in lábiis tuis.
[Tu sei bello fra i figli degli uomini: la grazia è diffusa sulle tue labbra.]
V. Eructávit cor meum verbum bonum, dico ego ópera mea Regi: lingua mea cálamus scribæ, velóciter scribéntis. [V. Mi erompe dal cuore una buona parola, al re canto i miei versi: la mia lingua è come la penna di un veloce scrivano.]

Alleluja Allelúja, allelúja
Ps 92:1.
Dóminus regnávit, decórem índuit: índuit Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se virtúte. Allelúja.
[Il Signore regna, si ammanta di maestà: il Signore si ammanta di fortezza e di potenza. Allelúja]

Evangelium 
Sequéntia  sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc II:33-40
In illo témpore: Erat Joseph et Maria Mater Jesu, mirántes super his quæ dicebántur de illo. Et benedíxit illis Símeon, et dixit ad Maríam Matrem ejus: Ecce, pósitus est hic in ruínam et in resurrectiónem multórum in Israël: et in signum, cui contradicétur: et tuam ipsíus ánimam pertransíbit gládius, ut reveléntur ex multis córdibus cogitatiónes. Et erat Anna prophetíssa, fília Phánuel, de tribu Aser: hæc procésserat in diébus multis, et víxerat cum viro suo annis septem a virginitáte sua. Et hæc vídua usque ad annos octogínta quátuor: quæ non discedébat de templo, jejúniis et obsecratiónibus sérviens nocte ac die. Et hæc, ipsa hora supervéniens, confitebátur Dómino, et loquebátur de illo ómnibus, qui exspectábant redemptiónem Israël. Et ut perfecérunt ómnia secúndum legem Dómini, revérsi sunt in Galilaeam in civitátem suam Názareth. Puer autem crescébat, et confortabátur, plenus sapiéntia: et grátia Dei erat in illo. [In quel tempo: Giuseppe e Maria, madre di Gesù, restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, sua madre: Ecco egli è posto per la rovina e per la resurrezione di molti in Israele, e sarà bersaglio di contraddizioni, e una spada trapasserà la tua stessa anima, affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, molto avanti negli anni, vissuta per sette anni con suo marito. Rimasta vedova fino a ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. E nello stesso tempo ella sopraggiunse, e dava gloria al Signore, parlando di lui a quanti aspettavano la redenzione di Israele. E quando ebbero compiuto tutto secondo la legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret. E il fanciullo cresceva e si irrobustiva, pieno di sapienza: e la grazia di Dio era con lui.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Gesù posto in rovina e risurrezione di molti.

Ecce positus est hic in ruinam, et resurrectionem Multorum”. Ella è questa una parte della celebre profezia che fece il santo vecchio Simeone alla Vergine Madre allorché, in adempimento della legge di Mose, presentò il suo divin Figliuolo al Tempio, come ci narra San Luca dell’odierno sacrosanto Vangelo. “Questo pargoletto tuo figlio, le disse, sarà per molti causa di risurrezione e di salute, e per altri molti occasione di rovina e di morte” – “positus est hic in ruinam, et resurrectionem multorum”. Ma come, dirà forse alcun di voi, non è Egli Gesù, il nostro Salvatore, la nostra luce, la nostra vita? Come dunque può essere insieme cagion di nostra perdita, e di nostra rovina? A questa interrogazione, a questa difficoltà darò risposta e scioglimento del corso della presente spiegazione, se per poco d’ora mi favorite della gentile vostra attenzione. Gesù adunque è per molti causa di salute, e per molti altri occasione di rovina? Così è! Non sorprenda, uditori miei, che una stessa causa produca effetti diversi. La luce si fa candida nel giglio, pallida nella viola e nella rosa vermiglia, e pur è sempre la stessa luce. L’ape e la serpe da un medesimo fiore suggono l’umore stesso, e pur nel seno dell’ape quel sugo si cambia in miele, nel sen della serpe si cangia in veleno. La manna nel deserto per molti era cibo leggero e nauseante, e per altri era cibo avente in sé ogni squisito sapore. Così Gesù luce del mondo, fior nazzareno, manna dal ciel disceso, sempre buono, sempre uguale in se stesso, per la malizia degli uomini riesce diverso nei suoi effetti, e ciò in speciale maniera, o si riguardi la sua fede, o la sua legge, o i suoi sacramenti. Vediamolo a parte a parte. – La fede in Gesù Cristo è la sola che salva. Questa fede, che ha origine dal principio del mondo, allor che dopo la caduta dei nostri progenitori venne loro promesso un liberatore, fu quella che li salvò con la penitenza di tutta lor vita. Abele innocente, Seth temente Iddio, il giusto Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giobbe, Tobia, Davide, in una parola tutti i patriarchi e profeti e tutti quei personaggi santissimi, i nomi dei quali stanno nel libro della vita, e nell’antico Testamento, si sono salvati per la fede in Gesù Cristo, poiché non vi è altro Nome in cui si possa essere salvezza, e siccome noi ci salviamo per la fede in Cristo già venuto, così si salvarono essi per la fede in Cristo venturo, unendo alla loro fede le più eccellenti virtù. Tale essere deve la nostra fede, fede viva, operante, fede osservatrice della divina legge, seguace degli esempi del Redentore, ed Egli allora si potrà e si dovrà dire esser causa benefica di nostra resurrezione e salvezza, “positus est hic in resurrectionem multorum”. Udite com’Egli medesimo si esprime nel suo santo Vangelo. Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me (e in Cristo non può dirsi che veramente creda chi con la fede non unisce l’opere buone da Lui prescritte) ancorché fosse morto per il peccato, risorga a nuova vita di grazia, e vivrà in eterno. Ego sum resurrectio et vita; “qui credit in me, etiamsi mortuus fuerit, vivet, et omnis qui credit et credit in me, non morietur in æternum” (Io. XI, 25, 26). – Che diremo ora di quelli sconsigliati, che spargono dubbi circa la cristiana credenza, bestemmiano quel che ignorano, e col carattere della fede in Gesù Cristo impresso nell’anime loro nel santo Battesimo, accoppiano vita e costumi da epicurei e da maomettani? Diremo non per insultarli, quel che di ciascun d’essi pronunzia l’Evangelista Giovanni: è già giudicato chiunque non crede, “qui non credit, iam judicatus est” (Io. III, 17): diremo che convien pregare il Padre dei lumi acciò rischiari la mente di quei che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Diremo che un cuor retto, un animo non vizioso, un costumato cattolico, mai si rivolta contro la fede. Solo della fede è nemico un cuor guasto, uno spirito corrotto da ree passioni. E perché? Perché fede e peccato, fede e viziose abitudini, fede e sregolate passioni, sono tra loro in necessaria guerra; onde ne segue che chi non vuol abbandonare il peccato, e del peccato non vuol soffrire i rimorsi, si arma, si scaglia contro la fede, come sua nemica, per tentare se per questa via gli riesca di far tacere i latrati, e mitigare i rimorsi della rea coscienza. Ed ecco in ciò come Gesù Cristo, che per costoro esser doveva, per mezzo della sua fede, pietra fondamentale e causa di salute vien dalla loro incredulità trasformato in pietra d’inciampo ed occasione di rovina: “positus est hic in ruinam”, – va del pari con la fede di Gesù Cristo la santa sua legge. Anch’essa ha il suo principio dall’origine del mondo, anzi da Dio medesimo, che è la legge eterna. Tre leggi, direte voi, son note a tutti, una che chiamasi di natura, l’altra scritta, la terza Evangelica. No, miei carissimi, sono tre nomi diversi, ma una sola è la legge. In quella guisa ch’è sempre lo stesso uomo quel che bambino vagisce in cuna, quel che cresce in giovane adulto, quel che poi nella virilità arriva ad essere uomo perfetto; così la legge di natura scritta da Dio nel nostro cuore fu una legge bambina; passò ad essere una legge adulta quando dal dito di Dio fu scritta sulle tavole a Mosè; e finalmente fu legge perfetta, quando uscì dalla bocca dell’incarnata Sapienza Cristo Gesù, e si promulgò col suo santo Vangelo; ma è sempre una stessa legge nel suo principio, nel suo progresso e nella sua perfezione; ond’è che Gesù Cristo si protestò altamente che non era venuto al mondo per togliere la legge, ma per adempirla e perfezionarla “Non veni volvere legem, sed adimplere” (Io. V, 17). – In questa legge divina, e nell’osservanza della medesima sta la salute e la vita, e perciò a quel giovane, che domandò al redentore per qual mezzo poteva conseguire la vita eterna, rispose: “serva mandata” [osserva i comandamenti] (Matth. XIX, 17). Questi comandamenti li sapete dalla vostra infanzia. Adora ed ama il tuo Dio, non profanare il suo santo Nome, santifica le feste a Lui consacrate, rispetta, ubbidisci, soccorri i tuoi genitori, non togliere ai tuoi simili né roba, né vita, né arma, astieniti dal vizio impuro, dallo spergiuro, e dal desiderio perfino di tutto ciò che non è tuo, ma del tuo prossimo. Ecco la legge, ecco la via per andar salvi. Nella fedele osservanza di questa lege è riposta la nostra giustificazione e salute. “Factores legis iustificabuntur” (Ad Rom. II, 13). Sarà Gesù allora causa propizia del nostro risorgimento e della nostra salvezza, “positus est hic in resurrectionem”. – Or questa legge così cauta e salutare come da noi viene adempiuta? Ohimè un’altra legge regna nel cuore dell’uomo: le legge del peccato e della carnale concupiscenza, … oh quanti conta osservatori questa legge tiranna! Un’altra legge si fa ubbidire con minore efficacia: la legge del mondo perverso e perversore, che consiglia, che comanda odio ai nemici, vendetta degli affronti, oppressione degli umili, disprezzo dei maggiori. Legge del mondo che approva le usure e i monopoli, che autorizza la frode e la bugia nei contratti, che fa prevalere l’impegno alla giustizia, il danaro all’onestà, l’interesse all’anima e a Dio. E non è questo il secolo della pressoché universale depravazione della legge dell’Altissimo? Non sarà iperbole , se noi ripeteremo nell’amarezza dell’animo ciò a Dio rivolto diceva piangendo il Re Profeta: “Tempus faciendi, Domine”. Questo è il tempo, o Signore, in cui per le umane azioni non vi è più né regola né freno, e la vostra legge francamente si disprezza e si calpesta … “tempu faciendi, Domine, dissipaverunt legem tuam” (Ps. CXVIII). Qual meraviglia poi, se per questi prevaricatori della divina legge sia posto Gesù in loro spirituale ed eterna rovina? “Positus est hic in ruinam multorum”. – Finalmente Gesù nei suoi Sacramenti è causa di vita, e occasione di morte. Tra questi per esser breve, mi restringo ai due più frequentati, la Penitenza cioè, e l’Eucaristia. Rapporto al primo vi accostate al tribunale di penitenza in spirito di umiltà, e col cuore contrito (appressatevi pure con fiducia a questa salubre Probatica, e ne uscirete risanati. Sarà Cristo, per mezzo del suo ministro, il pietoso Samaritano, che col vino della sapienza e con l’olio della misericordia medicherà le vostre ferite, se foste morti alla grazia, Egli sarà il vostro risorgimento, “positus est in resurrectionem”. – Ma se invece senza esame, senza dolore, senza sincerità nelle accuse, senza proposito e volontà di lasciare il peccato e l’occasione dello stesso, vi presentaste ai piedi del Sacerdote, voi avrete il mal incontro. Il sangue adorabile di Gesù-Cristo, che con la sacramentale assoluzione s’applica all’anima vostra, si cangerà in materia di dannazione; discenderà sopra di voi questo sangue tremendo come disceso su gl’imperversati Giudei di rovina e di sterminio. – carissimi miei, tenetevi a mente questa figura, che parmi assai spiegante ed istruttiva. Ecco là nella prigione Giuseppe in mezzo a due carcerati: uno è il coppiere, l’altro il panettiere del faraone. Tutti e due han fatto un sogno, e ne domandano a Giuseppe l’interpretazione. Io, dice il primo, sognando premeva a mano un grappolo d’uva nella coppa del mio sovrano. Buon presagio, rispose il divino interprete, tu sarai rimesso in grazia del tuo signore, e ristabilito nel tuo impiego. E a me, soggiunge l’altro, pareva di portare un canestro pieno di pani e di ciambelle per la regia mensa, e mentre mi stava sul capo, una torva di corvi e di altri uccelli rapaci nol lasciarono vuota la cesta. Cattivo pronostico, rispose Giuseppe: tu sarai sospeso ad un legno, ed i corvi e gli avvoltoi si divoreranno le tue carni. Tanto disse e tanto avvenne! Applicate la figura, uditori miei. Siede sul sacro tribunale il sacerdote, interprete della divina volontà, e giudice da Dio costituito, portate ai piedi suoi un cuore come un grappolo del coppiere, premuto dal dolore e mutato in un altro cuore, cioè da cuor peccatore in cuore penitente, come l’uva di grappolo cangiata in vino. Consolatevi, voi avrete buone risposte, sarete ammessi al perdono, ritornerete in grazia del vostro Dio, risorti a nuova vita. – Se per l’opposto accostandovi al sacro ministro porterete solo in mente e nella memoria le vostre colpe, come il canestro sul capo del panettiere tanto da farne al confessore una fredda narrazione, ma senza dolore d’averle commesse, senza proposito di emendarvi, senza volontà di restituire la roba altrui, di abbandonare le occasioni pericolose, di adempiere le obbligazioni del proprio stato, guai per voi! O vi saran date giuste come da giuste ma funeste risposte, o se riceverete la sacramentale assoluzione, vi aggraverete di un nuovo e maggiore peccato e morendo in questo misero stato, i demoni faranno di voi orrido strazio; perché la sacramentale confessione, da Gesù Cristo istituita per salvarvi, l’avete praticata per perdervi, e l’abuso sacrilego che fatto ne avete, ha trasformato Gesù Salvatore in vostro nemico e in vostra rovina. Positus est in ruinam. – Lo stesso avviene nel Sacramento della santissima Eucaristia. Ogni fedele che con cuore e con l’anima monda, almeno da grave peccato, si pasce delle carni dell’Immacolato Agnello di Dio, riceve conforto, ristoro ed aumento di grazia santificante, e Gesù, che è pane di vita, vita gli dà spirituale ed eterna. – Se poi taluno ardisse mangiar questo divin pane con la coscienza rea di colpa mortale, si mangerebbe quest’indegno, dice l’Apostolo, il suo giudizio e la sua condanna. Osservate soggiunge l’Angelico, come lo stesso pane celeste per l’anime buone è cibo di vita, per le malvagie è cibo di morte. “Mors est malis, vita bonis: vide par is sumptionis quam sit dispar exitus”. – Si legge nel libro quinto dei Numeri, che se un marito per ragionevole sospetto temuto avesse della fedeltà della proprii consorte, era autorizzato dalla legge di Mosè a condurla innanzi al sacerdote. Questi, a depurare il dubbio, raccolta dal pavimento del Tabernacolo poca polvere e mescolatala con acqua, la dava a bere alla donna sospetta. Se questa era rea, quella bevanda, come fosse potentissimo veleno, la faceva sull’istante cadere morta ai piedi dei circostanti, se innocente, senza soffrire alcun nocumento ritornava a casa sua fra gli applausi dei congiunti e dei cittadini. Lo stesso, vedete, miei cari, lo stesso avviene, sebbene in modo invisibile, nella santa Eucaristica Comunione. Guai a quell’anima che conscia di peccato mortale dalla man del sacerdote riceve la sacra particola! Sarà questa per lei micidiale veleno. Buon per quell’altra che se ne pasce con cuore innocente e con un cuor purgato da vera penitenza; fra gli applausi degli Angeli avrà vita e salute e pegno di vita eterna: ed ecco come Gesù Cristo positus est in ruinam et resurrectionem multorum”. Ah dunque, miei cari, teniamoci ben stretti alla fede di Gesù Cristo, ch’è la sola che salva: osserviamo la sua legge, che è la necessaria condizione per salvarci: siam peccatori? Andiamo ai suoi piedi al tribunale di penitenza col cuore umiliato e contrito, e saremo giustificati: accostiamoci alla sacra mensa con le debite disposizioni, e Gesù sarà per noi cibo, vita, salute, seme d’immortalità, pegno della futura gloria, che per sua grazia ci conceda.

  Credo …

 Offertorium 
Orémus
Ps XCII:1-2
Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a sæculo tu es.
[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il tuo trono, o Dio, è stabile fin da principio, tu sei da tutta l’eternità.]

Secreta 
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut óculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis piæ devotiónis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che questa offerta, presentata alla tua maestà, ci ottenga la grazia di una fervida pietà e ci assicuri il possesso della eternità beata.]

Communio 
Matt II:20
Tolle Púerum et Matrem ejus, et vade in terram Israël: defúncti sunt enim, qui quærébant ánimam Púeri. [Prendi il bambino e sua madre, e va nella terra di Israele: quelli che volevano farlo morire sono morti.]

Postcommunio 
Orémus.
Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii, et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [Per l’efficacia di questo mistero, o Signore, siano distrutti i nostri vizii e compiuti i nostri giusti desiderii.]

DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE

DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE

Sopra il mistero dì questo giorno.

[Billot: “Discorsi parrocchiali” – 2a Ed. Presso Simone Cioffi, in Napoli, 1840]

Invenietis infantem pannis involutum, et positura in præsepio. Luc. 1.

Strana cosa forse non è che non ci si diano altri segni che una stalla, una mangiatoia e dei pannolini per riconoscer Colui che hanno predetto i profeti, figurato i patriarchi, e le nazioni desiderato di vedere? É possibile che Colui che esser deve il liberatore del suo popolo comparisca legato come uno schiavo; Colui che esser deve la gioia dell’universo nasca in mezzo alle lacrime e al dolore; Colui finalmente che ricolmar ci deve d’ogni sorta di beni prenda la povertà per sua porzione? Non conveniva forse meglio alla sua grandezza comparire fra lo splendore e l’opulenza? Era sotto un’apparenza di possanza e di maestà che il popolo giudeo aspettava il suo Messia. Perciò questa nazione cieca ed incredula fu scandalizzata della povertà e delle umiliazioni di Gesù nascente. Ma quanto diversi sono i disegni di Dio! Se lo stato di Gesù nascente sembrava poco convenire alla sua gloria e alla sua grandezza, era ciò necessario per i nostri propri interessi. L’uomo perduto per lo peccato aveva bisogno di un salvatore: né bastava il riscattar l’uomo, conveniva ancora che 1’uomo imparasse a salvarsi da se stesso, applicandosi i meriti di un Dio salvatore colla pratica delle sue virtù. Il che viene ad insegnarci Gesù Cristo, servendoci di modello sin dalla sua nascita. Or quali esempi ci dà Egli? Esempio di povertà, esempio di patimento e di umiltà. Tali sono i tre rimedi che Gesù nascente oppone alle tre malattie che infetto avevano il genere umano, cioè alle tre cupidigie di cui parla s. Giovanni; la prima, che egli chiama cupidigia degli occhi o amor delle ricchezze -, 1’altra cupidigia della carne o amore dei piaceri; la terza superbia della vita. Gesù Cristo con la sua povertà apprende all’uomo a combattere l’amore delle ricchezze, primo punto; nei suoi patimenti Egli dà un rimedio contro 1’amor dei piaceri, secondo punto; nelle sue umiliazioni Egli insegna a preservarsi dalla superbia della vita, terzo punto.

Punto. Il peccato, che perduto aveva il primo uomo, aveva talmente corrotta la natura umana che con l’andar del tempo il mondo si ritrovò quasi interamente inondato di scelleratezze. L’ignoranza e la concupiscenza, tristi effetti del peccato originale, gettate avevano radici sì profonde che lo spirito dell’uomo, involto da dense tenebre, non seguiva che l’orrore e la menzogna; la volontà, trascinata dalle sue passioni, non cercava la felicità se non in ciò che poteva contentarla. Quindi la gran premura che egli aveva per i beni, i piaceri, gli onori della terra,cui attaccava tutto il suo cuore in pregiudizio dell’amore che doveva al suo Dio. Ma, cercando quei falsi beni, quei vani piaceri e quegli onori caduchi, egli s’allontanava dal bene supremo, che solo poteva renderlo felice. Aveva ei dunque bisogno di una guida che lo disingannasse dei suoi errori e che lo rimettesse nelle vie della giustizia. Or si è ciò che fa Gesù Cristo. Nasce Egli nella povertà per riformar le idee dell’uomo sopra le ricchezze della terra ed indurlo col suo esempio a disprezzarle e a meritare con questo disprezzo i beni eterni che gli sono destinati nel cielo. Ella è una povertà volontaria, una povertà estrema ed universale. No, fratelli miei, la povertà di Gesù Cristo non è 1’effetto del caso o della necessità, ma ella è di sua elezione. Siccome non è stato offerto! In sacrifizio a Dio suo Padre, se non perché l’ha voluto: Oblatus est quia ipse voluti (Imi. 58); così ancora, perché l’ha voluto, è nato in uno stato povero. Signore del cielo e della terra, non era Egli padrone di scegliere un luogo convenevole alla sua grandezza, di nascere in un palazzo magnifico ed in seno dell’opulenza? Colui che dispensa i tesori della terra, che provvede ai bisogni di tutte le creature, non poteva forse sovvenire a quelli della sua santa umanità? Non poteva Egli comandare ai suoi Angeli di servirlo? Sì, senza dubbio; ciò tutto poteva; ma dà la preferenza ad una povera stalla. Scelse la circostanza in cui Maria sul punto di sgravarsi deve trasferirsi a Betlemme in conseguenza degli ordini dell’imperatore, affinché costretta a ritirarsi in un presepio abbandonato vi metta al mondo il Salvatore degli uomini, e noi vedendolo esposto sin dalla sua nascita a tutti i rigori di un’estrema in digenza, imparassimo quale stima egli fece della povertà e quanto dobbiamo noi medesimi stimarla. Così è, o sapienza del mio Dio! ciò che gli uomini riguardano come effetto del caso è stato regolato nei vostri eterni decreti. Così voi censacrate lo stato di povertà con la preferenza che gli date a quello delle ricchezze, e dello splendore, in cui non dipendeva che da voi di nascere; ma, vi ripeto, qual povertà! dissi povertà estrema ed universale. Non uscite, fratelli miei, da Betlemme senza aver esaminate tutte le circostanze del mistero che fa l’ammirazione del cielo e lo stupor della terra. Che cosa vi vedete voi? una vile ed abbietta capanna, ricovero d’animali, esposta alle ingiurie dell’aria, agl’incomodi della stagione. Ecco nulladimeno il palazzo del padrone dei re; l’arbitro dei sovrani vi abita. Si è il soggiorno di colui cui serve la terra di sgabello e che abita nel più alto dei cieli. Una mangiatoia, ecco il trono, ecco la culla dove riposa Colui che prima di tutti i secoli è stato generato nel seno dell’eterno Padre ed assiso sta sopra i cherubini. Un poco di paglia, ecco il letto ove è coricato: una madre povera, che non ha se non alcuni panni per involgerlo, che manca di tutto il restante, che è abbandonata da tutto il mondo, e che non ha che lacrime a dargli per compatire la sua miseria. Qual indigenza! I principi della terra nascono in mezzo dell’opulenza, le loro culle ornate sono di tutto ciò che la natura ha di più magnifico e di più prezioso: sono attorniati da una folla di cortigiani, solleciti di rilevare con elogi pomposi lo splendor della loro nascita; ed il Re del cielo manca di tutto, vien rigettato da ognuno, fuorché da alcuni poveri pastori, che vengono a fargli la corte, non ha neppure i soccorsi che si danno ai fanciulli più poveri degli uomini. Che dico? Gli animali della terra hanno le loro tane, gli uccelli del cielo il lor nido per riposarsi e difendersi dagli incomodi delle stagioni; ed il Figliuol dell’uomo non ha dove riposar il suo capo: Filius hominis non habet ubi caput reclinet (Luc. 9). Che cosa ne pensate, cristiani miei? Non è questo forse un oggetto più che capace di recarci stupore grandissimo? Ma non è altresì una eloquentissima istruzione che vi dà Gesù Cristo nel distacco dai beni del mondo, e dell’amore che aver dovete per le povertà? Imperciocché se Gesù Cristo si è ridotto in questo stato d’indigenza, lo fece non solo per nostra salute, ma ancora per nostra istruzione, dice l’apostolo, affinché rinunciando ai desideri sregolati del secolo, viviamo secondo le regole della temperanza della giustizia e della pietà: Apparuit, gratia Dei salvatoris erudiens nos ut, abnegantes desiderici, saecularia, sorbrie et iuste et pie vivamus in hoc saeculo

( Tit. 2). – Si è questa cupidigia, questo attaccamento ai beni ch’Egli ha voluto sradicare dai nostri cuori: sapeva che le ricchezze erano di grande ostacolo alla salute e che l’uomo il quale erasi già perduto per la ricerca dei beni del mondo, si perderebbe ancora, se non insegnavagli a disprezzarli; e perciò li ha Egli stesso disprezzati, ha abbracciata la povertà, per apprendere all’uomo a stimarla, come la strada più sicura per andare al cielo. Questo Dio salvatore doveva un giorno annunziare un Vangelo tutto ripieno di massime di povertà, doveva dire agli uomini che non v’era beatitudine che per i poveri: Beati pauperes (Matth.V). Ma sapeva ancora che, se insegnava la sua dottrina senza metterla in pratica non 1’avrebbero gli uomini seguita, ben pochi avrebbero voluto mettersi nel numero dei suoi discepoli: la corruzione del cuore avrebbe fatto dare false interpetrazioni alle sue massime, e forse sarebbero state interamente disprezzate. Cosi pratica Egli il primo ciò che insegnar doveva agli uomini: Coepit Jesus facere et docere ( Act. 1). Ora, da che Gesù Cristo ci ha dato l’esempio, possiamo noi ricusare di seguirlo? E non è un volersi smarrire e perdersi il prendere una strada diversa da quella che ci ha Egli indicata? – Avvicinatevi dunque al presepio di Gesù Cristo, voi tutti che mi ascoltate, poveri e ricchi, grandi e piccoli, venite a udir questo divin Signore, che vi predica da quella cattedra di verità; voi v’imparerete da Lui ciò che dovete pensare sopra i beni del mondo, che con tanta ansietà ricercate; voi vi troverete, o ricchi del secolo, di che istruirvi e nello stesso tempo confondervi, e voi, o poveri, vi troverete onde aiutarvi a soffrire lo stato di povertà a cui vi ha la Provvidenza ridotti, – Il bambino coricato in quella mangiatoia è la Sapienza eterna, il Figliuolo di Dio. Egli è incapace d’ingannarsi e d’indurvi in errore; convien dunque ascoltarlo e profittare delle istruzioni che vi dà: Ipsum audite (Matth. XVII), Or che vi dice e quali istruzioni vi dà Egli? Già vi predica quanto vi predicherà un giorno, che non vi è vera felicità se non per i poveri di spirito, che a questi poveri appartiene il regno dei cieli: Beati pauperes spiritu , quoniam ipsorum est regnimi coelorum (Matth. V). Se voi non gli udite pronunziare parola alcuna, tutto ciò che lo circonda vi esprime i suoi sentimenti in un modo molto eloquente; la stalla, il presepio, i panni tengono un linguaggio che assai chiaramente condanna il desiderio insaziabile che avete per le ricchezze: Clamat stabulum, clamat praesepe, clamant panni (S. Bern.). – Ah! potrete voi, ricchi del secolo, resistere a questo linguaggio? Potete non temere, non tremare per la vostra salute, paragonando lo stato di opulenza in cui vivete, all’indigenza estrema cui è ridotto il vostro Dio? Non vi sembra già udire la fulminante sentenza che deve pronunziare nel suo Vangelo: Guai a voi ricchi: Vae vobis divitibus (Luc. VI)! Guai a voi che di nulla mancate, che avete tutti i vostri comodi in questo mondo: Vae vobis! E perchè? perché siete in uno stato tutto opposto a quello che ha scelto Gesù Cristo e che ci ha segnato come la strada sicura per arrivare al porto della salute. Che dovete dunque fare per preservarvi dalle sue minacce e per aver parte alle grazie che ci ha meritate conla sua nascita? Convien forse rinunziare a tutti i vostri beni ed abbandonare tutto ciò che possedete per ridurvi allo stato della miseria! No, cristiani miei, questo da voi non pretende Gesù Cristo. Chiama Egli al suo presepio i ricchi e i poveri, perché viene a salvare gli uomini tutti: vi chiama poveri pastori che custodivano le loro greggi nei contorni di Betlemme; vi chiama altresì dei re, che vennero sin dall’Oriente rendergli i loro omaggi. Ma in quali disposizioni comparvero quei re innanzi a Gesù Cristo? Lasciarono il loro paese e vennero ad offerirgli i loro beni con il loro cuore. Ecco ciò che da voi richiede; si è un distacco di spirito e di cuore dai beni che possedete, è un omaggio che voi far gli dovete pel superfluo di questi beni, soccorrendo i poveri che lo rappresentano, dovendo essere voi persuasi ch’Egli terrà come fatto a sé stesso tutto il bene che voi loro fate. Se Gesù Cristo venendo al mondo vi avesse richiesto qualche soccorso, chi di voi non si sarebbe recato a gran fortuna l’alloggiarlo, il sovvenirgli? Ora voi lo ricevete, il sovvenite, quando ricevete i poveri, quando date loro da mangiare nella loro fame, da bere nella loro sete: quando ignudi li rivestite, quando nelle loro malattie li soccorrete. A questa sola condizione potete voi sperare la beatitudine promessa alla povertà: Beati pauperes (Matth. V). Sì, fratelli miei, nell’opulenza voi potete esser poveri. Staccatevi dai vostri beni, possedeteli come se non li possedeste; fatene un uso santo: meriterete con ciò gli elogi di Gesù Cristo: Beati pauperes. Quanto a voi, o poveri di Gesù Cristo, misero scherno della fortuna, solo consolanti parole ho da dirvi, vedendovi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta: la vostra povertà è un tesoro più stimabile che tutte le ricchezze della terra, se voi ne sapete far buon uso, cioè se voi pazientemente per Dio la sopportate, se voi con quella 1’unite che Gesù Cristo ha per voi sopportata. Ora che cosa evvi di più capace ad indurvi a questa perfetta rassegnazione che il considerare che Gesù Cristo ha preferito il vostro stato a quello dei ricchi; che Egli ha chiamato al suo presepio poveri pastori prima di chiamarvi dei re; in una parola, ch’Egli è nato povero, ha vissuto ed è morto nella povertà? Ma affinché la vostra povertà sia per voi una sorgente di salute, bisogna che sia volontaria come quella di Gesù Cristo. Imperciocché invano sareste voi ridotti all’ultima miseria, se mormorate contro la provvidenza, se siete ricchi di affetto per l’invidia che portate ai ricchi: voi non avrete giammai parte nel regno dei cieli, perché la vostra povertà, non essendo volontaria, è senza merito. Voi dovete all’opposto aspettarvi una povertà eterna che succederà all’indigenza che quaggiù soffrite. Ah! se siete miseri in questo mondo, fate almeno ogni sforzo per essere più felici nell’altro. Gesù Cristo nascendo povero v’insegna col suo esempio la stima che far dovete della povertà; vediamo come anche v’insegna a soffrire.

1° Punto. Gesù, nascendo, soffre nella sua anima e nel suo corpo: nell’anima per la vista degli oggetti che l’affliggono, nel corpo per i rigori cui egli si sottopone. Patimenti interiori, patimenti esteriori di Gesù Cristo; ecco, o cristiani, il nuovo esempio che vi dà il Salvatore ed il rimedio che vi presenta per guarire quest’amor del piacere che vi perde. Non giudichiamo, fratelli miei, di questo bambino appena nato come degli altri fanciulli, la cui anima, involta, per così dire, nella materia, è incapace di conoscenza e di riflessione. – Gesù Cristo viene al mondo con tutte le cognizioni d’un uomo perfetto; dell’infanzia non ha che la piccolezza del corpo, ma la sua anima unita alla divinità è illuminata da una estensione di cognizioni, la quale gli scopre ciò che è, ciò che sarà, il presente, il passato e l’avvenire. Egli sa che è il padrone del cielo e della terra, il Signore di tutti i re, e ridotto si vede all’ultima indigenza, negletto e rigettato dagli uomini; sa che è la santità stessa e si vede rivestito della figura umiliante di un peccatore; quale impressione fare non doveva un tale stato sopra l’anima di Gesù Cristo? Eppure questa non era la maggiore delle sue pene, poiché questo stato di indigenza e di umiliazione era di sua scelta, ed essendo la volontà umana di Gesù Cristo sommessa a quella di Dio, Egli l’accettava volentieri, come un rimedio necessario per guarirci dalle nostre debolezze e dalle nostre infermità; si credeva anzi in qualche modo compensato della sua povertà, delle sue umiliazioni e dei suoi patimenti, se apprendervi poteva la pratica delle virtù,, di cui dava l’esempio. – Ciò che affliggeva dunque il cuore di Gesù Cristo e che faceva l’oggetto del suo dolore, era il peccato degli uomini, che veniva ad espiare; era l’abuso di tante grazie che veniva loro meritare. Imperciocché non c’immaginiamo, osserva qui s. Bernardo, che le lacrime che Gesù Cristo sparge nel suo presepio siano prodotte dalla medesima cagione che quelle degli altri fanciulli. Questi piangono sopra le loro miserie senza conoscerle; Gesù Cristo piange sopra le nostre, e con le sue lacrime vuol lavare i nostri peccati, dice s. Ambrogio: Meæ lacrymae Meæ debita lavarunt. – Le offre a Dio suo Padre, aspettando che il suo sangue siasi formato nelle sue vene per essere sparso per la redenzione degli uomini. Sebbene bambino, penetra all’avvenire il più lontano, vede tutti i peccati degli uomini, le ingiurie fatte al Padre suo, il disprezzo della legge, la perdita delle anime, la sfrenatezza delle passioni, in una parola, tutti i pensieri, le parole, le azioni malvagie di tutti gli uomini che vissuto avevano sin allora, e che vivere dovevano sino alla fine del mondo. Sa che il sangue che deve spargere è più che bastante per riparare tutti questi mali: vede nulladimeno che questo sangue sarà inutile a molti, che i suoi benefizi verranno pagati d’ingratitudine e che sarà costretto a condannare alle fiamme eterne un gran numero di quelli che viene a riscattare. Qual soggetto di dolore per un cuore sì sensibile e sì generoso come quello di Gesù Cristo! Ma qual istruzione cavare noi dobbiamo dalle lacrime di Gesù Cristo, e che cosa vuol Egli insegnarci col dolore cui s’abbandona sin dalla sua entrata in questo mondo? Piangendo sui nostri peccati, vuol insegnarci a piangerli noi medesimi e gemere a somiglianza di Lui e per la medesima cagione; senza questo le sue lacrime, benché efficaci siano per calmare lo sdegno del Padre suo, non ci sarebbero di alcun vantaggio; perché il suo dolore non può esserci salutevole se non con l’unione del nostro col suo. Comprendete, fratelli miei, questo mistero, e la vista di un Dio nascente nelle lacrime e patimenti ci distacchi per sempre dai vani piaceri del mondo; c’inspiri quella santa tristezza che opera la salute, come dice l’Apostolo. Di più Gesù Cristo ci dice: beati quelli che piangono, perché saranno consolati; guai all’opposto a voi che ridete, che avete tutte le vostre contentezze in questo mondo, perché i vostri piaceri si cangeranno in dolori amari, che non finiranno giammai. – Ah! fratelli miei, potremmo noi essere insensibili ad un linguaggio sì penetrante, come le lacrime di Gesù Cristo? Possiamo noi, sapendo di essere peccatori, rallegrarci, mentre vediamo piangere l’innocente? Possiamo noi ricercare le vane allegrezze del secolo , mentre Gesù Cristo le ha espressamente condannate? Imperciocché conviene così ragionare, dice s. Bernardo: o Gesù Cristo s’inganna, o il mondo la sbaglia: ora è impossibile che la divina sapienza s’inganni; dunque è il mondo che è nell’errore; dunque sono quelli che piangono che prendono il miglior partito. Ma, oh durezza del nostro cuore! esclama ancora qui s. Bernardo: ben lungi dal piangere i nostri peccati con Gesù Cristo, noi li richiamiamo con piacere alla memoria, dimoriamo tranquillamente nello stato di peccato, senza cercare di uscirne per mezzo di una sincera penitenza. Che dico? noi diamo a Gesù Cristo nuova materia di piangere aggiungendo nuovi peccati ai nostri antichi mancamenti; inutili rendiamo i patimenti di un Dio nascente, abbandonandoci alle vane allegrezze del mondo, ricercando piaceri da cui Egli ha voluto staccarci. No, mio Dio, non sarà così; io amo meglio gemere e piangere con Voi sopra la terra per aver parte alle delizie del vostro regno che rallegrarmi e godere col mondo per piangere eternamente coi reprobi nell’inferno; amo meglio fare una penitenza che non dura se non qualche tempo e che mi sarà utile, che fare una penitenza eterna, la quale a nulla mi servirà. Io aggiungerò a questa penitenza, a questo dolore interiore dei miei peccati le mortificazioni salutevoli di cui sin dal vostro nascere Voi mi avete dato l’esempio. – Benché il peccato sia perdonato all’uomo per i meriti e patimenti di un Dio Salvatore e per il dolore interiore che l’uomo concepirne deve, la giustizia di Dio esige nondimeno una soddisfazione per la pena che è dovuta al peccato; ed ancorché ciò non fosse, non sarebbe egli necessario all’uomo un preventivo che lo tenesse dal ricadere? Ora questo preventivo si è quella pena del peccato che Gesù Cristo porta sin dalla sua nascita e che vuole che noi portiamo con Lui. Quali pene infatti, quali rigori non sostiene Gesù Cristo nella stalla ove è nato? Un corpo sì delicato e sì tenero come il suo, esposto ai rigori della stagione, tremante di freddo, al mezzo della notte, coricato sopra un poco di paglia, in una mangiatoia, appena coperto di pochi panni in cui sua Madre l’ha involto, e privo d’ogni altro soccorso; ecco come il Figliuolo di Dio ha voluto trattare il suo corpo innocente, perché è rivestito dall’apparenze del peccato. Che ne pensate voi, o cristiani sensuali e delicati, che procurate a vostri corpi tutto ciò che può lusingarli, che inventate ogni giorno mille mezzi per difendere questa carne di peccato da tutto ciò che può incomodarla? Si è dunque l’innocente che de solo soffrire nel mentre che il colpevole è risparmiato? Voi avete mille volte trasgredito la legge del vostro Dio: i vostri corpi sono stati imbrattati con piaceri brutali, con eccessi d’intemperanza, cui vi siete abbandonati; e invece di far loro espiare con la mortificazione i peccati di cui sono stati i complici e gli strumenti, voi li trattate con delicatezza, loro accordate mille superfluità, vi spaventate al solo nome di un digiuno, di un’astinenza che vi è comandata, cercate con vani pretesti di dispensarcene; ben lungi dal dare a Dio qualche soddisfazione volontaria, voi non volete neppur accettare quelle che vi vengono imposte; in una parola, tutto ciò che chiamasi incomodo, raffrenamento, mortificazione, vi fa orrore. – Ah! potete voi senza arrossire avvicinarvi al presepio del vostro Salvatore e sostenere il confronto della vostra morbidezza con i rigori che Egli patisce? Potete voi non conoscere l’estrema opposizione che si trova tra una stalla esposta ai rigori della stagione e quelle abitazioni che sì agiate vi rendete con tanta cura, inaccessibili a tutto ciò che può incomodarvi; tra i poveri panni onde Egli è coperto e il lusso dei vostri abbigliamenti; tra la paglia ov’è coricato e la morbidezza de’ vostri letti; tra la fame ch’Egli dura e la delicatezza ed abbondanza dei vostri banchetti? E se deve esservi conformità tra il discepolo ed il maestro, potete voi lusingarvi della qualità di discepoli di Gesù Cristo? Riconoscete dunque l’estremo bisogno che avete di portare nel vostro corpo la mortificazione di Gesù Cristo, non solamente per espiare i peccati da voi medesimi, ma ancora per preservarvi da nuove cadute; mentre voi ben sapete per una trista esperienza che una delle cagioni più ordinarie dei disordini che regnano nel mondo è la cura eccessiva che si ha del corpo, 1’attenzione a lusingar la carne ed accordarle tutto ciò ch’ella domanda. Ed ecco perché il Salvatore del mondo, che veniva a riscattarci ed istruirci, dichiarossi particolarmente sin dalla sua nascita e in tutto il corso della sua vita contro il viver effeminato e sensuale, che è la cagione della perdita degli uomini. Trattò il suo corpo con rigore per insegnarci a trattar il nostro nello stesso modo e a sottometterlo alla legge di Dio. Non ci chiede, è vero,  di portar la mortificazione a quel grado di rigore cui la portò Egli; ma vuole che facciamo almeno quanto dipende da noi, avuto riguardo al nostro stato e alla nostra fiacchezza: che rinunciamo non solo ai piaceri vietati, ma che ci priviamo ancora di molti di quelli che ci crediamo permessi, per non esporci ad oltrepassare i limiti della temperanza cristiana : Ut, abnegantes sæcularia desideria, sobrie vivamus (Tit.2). – Vuole, in una parola, che noi facciamo penitenza; ma una penitenza severa e proporzionata al numero e all’enormità delle colpe da noi commesse; vuole che soffriamo in ispirito di penitenza le pene annesse al nostro stato, che ci umiliamo alla vista di quanto Egli ha fatto per noi e del poco che noi facciamo per Lui; vuole che noi gli facciamo il sacrificio delle nostre passioni e dei nostri cuori per supplire a ciò che la debolezza non ci permette di fare! Ah! possiamo noi ricusare questi cuori ad un Dio che li ha riscattati a sì caro prezzo, che ce li chiede con i suoi sospiri o con le sue lacrime? Finiamo d’istruirci coll’esempio dell’umiltà che Egli ci dà sin dalla sua nascita. Terzo ed ultimo punto.

III. Punto. Quantunque trovi l’uomo in se stesso il motivo della sua umiliazione, egli è nulladimeno sì gonfio di superbia che non pensa se non ad innalzarsi. Questa brama d’innalzamento che fece cader dal cielo l’angelo ribelle perdette altresì l’uomo nel paradiso terrestre. L’angelo fu precipitato dall’alto del cielo nel profondo dell’abisso perché volle uguagliarsi a Dio. L’uomo altresì fu scacciato dal paradiso terrestre e privato dei doni dell’innocenza perché si lasciò falsamente persuadere dal tentatore che, mangiando del frutto vietato, diverrebbe simile a Dio: Eritis sicut dìi. Questa superbia che impadronissi del cuor e del primo uomo nell’istante di sua caduta, si comunicò altresì ai suoi discendenti: fu per soddisfarla che veduti si sono uomini sì gonfi di sé stessi e sì avidi di gloria che portarono l’accecamento e l’insolenza sino al punto di farsi rendere onori divini. Tale fu l’origine dell’idolatrìa, che sparse sì lungi le sue tenebre nell’universo che il numero degli dei uguagliava quasi quello degli uomini. Fu dunque per riparar un sì gran disordine che Dio formò Egli stesso il disegno di rendersi simile all’uomo, il quale aveva preteso di rendersi simile a Dio, affine di apprendere all’uomo a tenersi nello stato di dipendenza e di abbassamento come gli conviene. – Tale è, fratelli miei, la grand’istruzióne che Gesù Cristo ci dà nel presepio. Ma qual umiltà in questo Salvator bambino! Oh quanto è ella opportuna confondere 1’orgoglio dell’uomo! Io non posso per esprimerla servirmi di parole più energiche di quelle di cui servesi s. Paolo per farci conoscere le umiliazioni del Verbo incarnato. Ascoltiamo parlare su questa materia quel grande apostolo che aveva meditato profondamente questo mistero, e pesiamo ben bene la forza delle sue espressioni. Gesù Cristo, dic’Egli, il quale, essendo l’immagine di Dio , non ha creduto che esser uguale a Dio fosse per Lui usurpazione, si è umiliato: non basta ciò dire, si è annientato sino a prendere la figura di uno schiavo, essendosi fatto simile agli uomini, ed essendosi ritrovato nella condizione dell’uomo: Exinanivit semetipsum, formam servì accìpiens, in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (Philip. 2). Il Figliuol di Dio annientato! qual espressione, fratelli miei! e può dirsi qualche cosa di più forte? Per comprendere questa profonda umiliazione, converrebbe comprendere la distanza infinita che v’era tra Dio e l’uomo; tra Dio, che è la stessa onnipotenza e l’uomo, che non è che fiacchezza; tra Dio , che è il Signore per eccellenza e il padrone dell’universo, e l’uomo, che non è che uno schiavo; tra Dio, che è la sapienza infinita, e1’uomo, che non è che tenebre; in una parola, tra Dio, che è tutto, e l’uomo, il quale è nulla. Venite adunque, uomini vani e superbi, venite a contemplare questo bambino che è nel presepio, venite ad ammirare il mistero che la fede in esso vi scopre: voi vi vedrete la maestà suprema ridotta ad uno stato di schiavo, l’immensità di un Dio rinchiuso nella piccolezza di un bambino, la santità stessa rivestita dell’apparenza di un peccatore, la Sapienza eterna, il Verbo di Dio, che osserva il silenzio Colui che comanda a tutta la natura, fatto ubbidiente ai voleri delle sue creature, che ubbidirà non solamente ad una Vergine Madre, ad un uomo giusto, ma ancora a peccatori, ad empi giudici, a carnefici scellerati. Quale abbassamento, quale umiliazione per un Dio! Evvi Egli niente di più capace per confondere la superbia di quegl’uomini che non cercano che d’innalzarsi su degli altri, ed occultano con tanto artifizio quello che sono per comparir quello che non sono? Come mai osate voi, cenere e polvere, disputare sopra vane precedenze alla vista d’un Dio coricato in un presepio, vestito della forma di schiavo? come osate voi, peccatori ipocriti, adornarvi del manto della virtù per attirarvi gli applausi degli uomini, mentre vedete un Dio, la santità stessa, rivestito delle sembianze di colpevole per venir esposto agli obbrobri e ai disprezzi dei peccatori? Ah! se la vostra superbia non si spezza contro il presepio di un Dio, è un prodigio in qualche modo si incomprensibile, come quegli abbassamenti di cui si stupiscono il cielo e la terra. Imparate a tenervi nel centro del vostro nulla, sappiate che se voi non divenite simili a questo bambino che adorate, non entrerete giammai nel regno dei cieli. Imparate da me, già vi dice, come lo dirà sempre, che sono mansueto ed umile di cuore: Discite a me quia mitis sum et humilis corde. Apprendete che colui che si umilia sarà innalzato , e colui che s’innalza sarà umiliato. Potete voi ricusare di arrendervi ad un esempio sì toccante come quello che egli vi dà ? Si è abbassato per innalzarvi. Non dovete voi altresì abbassarvi per innalzarvi a lui? Ed è in questo che Egli vi permette di diventare a Lui simiglianti; e se il delitto dell’angelo o del primo uomo fu di voler ugualiarsi a Dio, sarà in voi una virtù il diventare simili a Gesù Cristo umiliato. Ecco in che dobbiamo noi, fratelli miei, ammirare la sapienza e la bontà di Dio, il quale si è in tal modo abbassato sino a noi per esser nostro modello. Non è dato all’uomo di arrivare alle perfezioni di Dio, come sono la sua onnipotenza, la sua previdenza, le quali son piuttosto l’oggetto della nostra ammirazione che della nostra imitazione, dice s. Bernardo; ma Dio ha sposata la nostra natura per darci in essa esempi di virtù che fossero proporzionate alle nostre forze, come l’umiltà, la povertà e la pazienza. Entriamo dunque nei sentimenti di questo divin bambino, che è ad uno stesso tempo e nostro salvatore e nostro modello, Hoc sentite in vobis, quod est in Christo Jesu (Philip. 2).

Pratiche. Non contentiamoci di rendergli i nostri omaggi nel suo presepio e di ringraziarlo di esser venuto al mondo per la nostra salute; ma procuriamo di esprimere in noi i tratti di questo divin originale. Il Signore, che altre volte ci ha parlato per i suoi profeti, ci parla in quest’oggi per mezzo del suo proprio Figliuolo: ci mette innanzi agli occhi il Maestro che dobbiamo seguire; rendiamoci docili alle istruzioni che Egli ci dà e che fu il primo Egli stesso a praticare; imitiamo la sua povertà con il distacco dai beni del mondo e con la pazienza a soffrir quella cui ridotti ci ha la previdenza, ed uniamola a quella che Egli ha sofferto per noi. Se noi siamo nell’opulenza, onoriamo la povertà di Gesù Cristo con le nostre liberalità verso i poveri, soccorriamoli contro il rigore della stagione, portiamo su di noi la mortificazione di Gesù Cristo con la rinuncia ai piaceri sensuali e con le pratiche di penitenza che il nostro stato e la nostra fiacchezza permettere ci possono; umiliamoci finalmente ad esempio di Gesù Cristo, reprimendo la brama di comparire e innalzarci, e sopportando pazientemente le umiliazioni e i dispregi. Scacciamo sopra tutto il peccato dai nostri cuori dove chiede Egli di abitare e dove vuole di bel nuovo nascere. Guai a quelli che avranno, come i Giudei, la durezza di non aprirgli la porta; ma felici coloro i cui cuori servirangli di cuna con la santità della loro vita, con la purezza dei costumi e con la pratica delle virtù. Godranno in questo mondo della pace, ch’Egli ha apportato agli uomini di buona volontà e nell’altro della gloria che ha loro meritata.  Così sia.

 

DOMENICA IV AVVENTO

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII:1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio  
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]
Letture della IV di AVVENTO

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV:1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

OMELIA I

Omelia VII.

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia VII; Torino 1899]

“Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto nei dispensatori si richiede che ciascuno sia trovato fedele. Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano; anzi neppur io giudico me stesso. Perchè in coscienza io non mi sento colpevole di cosa alcuna, ma non per questo sono giustificato. Colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore, che metterà in luce le cose nascoste nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, ed allora ciascuno avrà, la sua lode da Dio „ (I. Cor. IV, 1-5).

Sono questi i primi cinque versetti del capo quarto della prima lettera di S. Paolo ai Corinti, che si legge nella Messa di questa Domenica. I fedeli della Chiesa di Corinto, che S. Paolo aveva fondato, erano sossopra per molte cause, come apparisce dalla stessa lettera. Non fate le meraviglie, o cari, che vi fossero dei disordini anche nella primitiva Chiesa: dove sono uomini ivi sono anche le debolezze e le passioni umane. La causa principale dei dissidi della Chiesa di Corinto era il parteggiare che facevano quei fedeli, chi per l’uno e chi per l’altro. Viveva in Corinto un certo Apollo, sacerdote d’ingegno, di molta eloquenza e virtuoso. Alcuni dicevano: Noi stiamo con Apollo; ed altri rispondevano: E noi stiamo con Paolo; ed altri protestavano di seguire Pietro; ed altri infine, quasi a troncare ogni questione, dichiaravano d’essere discepoli di Gesù Cristo. Erano gare deplorevoli, che dividevano gli animi e che non è raro vedere anche ai giorni nostri. Spesso noi vediamo certi fedeli, anche buoni e pii, che, scambiando le persone con la religione, si legano a quelle più che alla religione stessa: seguono l’uomo più che Gesù Cristo, il ministro più che Colui, del quale il ministro non è che ministro. – L’Apostolo per togliere quel disordine, parla del giudizio che si deve fare dei ministri di Dio. L’argomento riguarda noi sacerdoti e voi, laici, e si raccomanda assai alla nostra attenzione. – “Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Dio. „ A Corinto, come or ora vi dicevo, vi era un grave dissidio tra i fedeli, per il diverso apprezzamento che si faceva dei sacri ministri, parteggiando chi per questo e chi per quello. Voi, o Corinti, diceva l’Apostolo, siete divisi a cagione di noi, ministri di Cristo. Ma in nome del cielo, come dovete voi giudicarci? Unicamente per quello che siamo. Considerate in noi, non l’ingegno, non la scienza, non l’eloquenza, non le altre doti naturali, ma solamente l’ufficio e il potere, che teniamo di ministri di Cristo e di dispensatori dei misteri di Dio. Con la parola dispensatori dei misteri di Dio, S. Paolo significa i misteri della fede, le verità sovraumane del Vangelo, o i Sacramenti, fonti della grazia, e più probabilmente l’una e l’altra cosa insieme. Qui ci si porge un grande ammaestramento, che vuolsi attentamente considerare. Assunti all’altissimo onore di annunziarvi le eterne verità, uscite dalla bocca di Gesù Cristo, e di dispensare i santi Sacramenti, mezzi infallibili della grazia divina, nella virtù e nella santità della vita noi dobbiamo camminare innanzi a voi, o fedeli, e rendere rispettabile e venerando l’ufficio che esercitiamo. È nostro dovere, e guai a noi, se veniamo meno; sarà terribile il giudizio che ci attende. Che se per nostra grande sventura nella nostra condotta non rispondiamo all’altezza dell’ufficio che teniamo, voi, o cari, non dovete mai dimenticare, che noi siamo pur sempre ministri di Gesù Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Un liquore prezioso è sempre prezioso, sia che lo teniate chiuso in un vaso di cristallo o in un vaso d’oro, e un diamante è sempre diamante, sia desso legato in oro finissimo o in vile metallo. Quali che siano le nostre doti di mente e di cuore; siamo buoni o cattivi, assai istruiti o poco istruiti, voi dovete sempre ricordare, che siamo ministri di Cristo, e che i nostri difetti e le nostre colpe non possono né togliere, né diminuire la nostra dignità, perché veramente non è nostra, ma di Gesù Cristo. Al di sopra delle nostre povere persone dovete fissare gli occhi in Colui che ci manda e al quale si deve onore, tutto l’onore nei suoi rappresentanti, anche più indegni. Sublime, divina è la nostra dignità; ma noi non siamo Angeli; siamo fratelli vostri, soggetti come voi alle stesse passioni, e se col manto della carità dovete coprir tutti indistintamente, dovete compatire pur noi, perché noi pure ne abbiamo bisogno e siamo fratelli vostri. È verità che facilmente si dimentica dai laici e che li dovrebbe rendere più giusti, più caritatevoli verso dei sacerdoti erranti. È un fatto, che non so spiegare a me stesso: in generale si compatiscono con grande facilità i falli dei laici, e somma è la severità che si usa con i sacerdoti. Lo comprendo, o fratelli: i falli nostri sono assai più gravi dei vostri: ma è pur vero altresì che maggiore è la necessità che noi abbiamo della carità vostra. Come potremo noi con frutto esercitare il nostro ministero se voi senza pietà gettate in pasto ad un pubblico, avido di scandali, le nostre colpe? Se non noi, il ben pubblico esige che maggiore sia la carità vostra col Clero. E fossero almeno sempre vere le colpe che ci si appongono! Quante volte sono a studio ingrandite, anzi inventate per disonorarci! E poi chi non vede un’altra ingiustizia, che si commette sì spesso contro il Clero? Un prete sarà caduto in una colpa, se volete, gravissima: che si fa? che si dice? Subito si grida: “Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi!” La colpa di uno diventa colpa di tutti. Non è questa una imperdonabile ingiustizia? Pecca un prete, hanno peccato tutti i preti! E perché non si adopera la stessa misura con i laici, con ogni altro ceto di persone? E se la colpa d’un uomo di Chiesa la si vuole colpa di tutti gli uomini di Chiesa, perché non si tiene la stessa regola col bene ch’essi fanno? Perché se un prete, un religioso compie un’opera buona e generosa non si dice egualmente: Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi? Ah! il male che si fa da un prete o da un religioso è male di tutto il clero, il bene poi è solo di colui che lo fa! E questa è giustizia? – Del resto, soggiunge S. Paolo, nel dispensatore dei beni altrui, che cosa si richiede? Una cosa sopratutto si richiede e basta, ed è che sia fedele, cioè adempia fedelmente i voleri del padrone. Questa è la sostanza. Dunque, dice S. Paolo, anche in noi, ministri di Cristo, badate a questo, cioè se adempiamo il nostro dovere, annunziando la parola di Dio, dispensando i Sacramenti, visitando gli infermi e compiendo tutti gli altri uffici del ministero: tutto il resto a voi poco importa. Voi avete il diritto di esigere che il sacerdote sia fedele nel suo ufficio verso di voi; quanto al resto non è cosa che vi riguardi, né avete diritto di occuparvene. S. Paolo procede e conferma la stessa verità. – “Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano. „ Voi fate differenza tra ministro e ministro, e questo preferite a quello: di ciò non mi curo, e non mi curo dei vostri giudizi favorevoli o sfavorevoli, o di qualsiasi tribunale terreno. L’Apostolo scrisse, non tribunale terreno, ma “giorno umano”, alludendo al giorno del Signore per eccellenza, che è il giorno del giudizio finale. Continua l’Apostolo: “Sì poco mi curo dei giudizi umani, che non mi do pensiero nemmeno di giudicare me stesso. “Neque meipsum judico”. Quale linguaggio degno dell’Apostolo delle genti! Egli non cura le lodi, né teme i biasimi del mondo: non giudica delle sue doti, delle sue intenzioni; intende ad una sola cosa, ad adempire cioè il ministero ricevuto da Gesù Cristo. Ecco il modello perfetto del sacerdote, che, quando occorra, deve sfidare le ire dei tristi, disprezzare le loro lodi e una sola cosa aver sempre dinanzi agli occhi, l’adempimento del proprio dovere. “Perché in coscienza non mi sento colpevole di cosa alcuna. „ Non mi curo, non mi do pensiero, nemmeno di giudicare me stesso, “perché la coscienza, così l’Apostolo, non mi rimorde di nulla quanto all’esercizio del mio ministero. — Felici quelle anime, che, interrogando diligentemente se stesse, possono rispondere con l’Apostolo: “Non sento in coscienza d’essere colpevole! „ È la più cara testimonianza, il più dolce conforto ohe l’uomo possa avere anche in mezzo alle tribolazioni più gravi. Vediamo di meritare questa, che è la mercede del giusto sulla terra e la forza che ci tiene saldi nelle prove sì amare della vita. Sembra strano ciò che S. Paolo soggiunge: Sento in coscienza di non essere colpevole: “con tutto ciò non sono giustificato. „ – “Il non avere rimorsi, quanto all’esercizio del mio ministero, scrive l’Apostolo, non vuol dire ch’io sia giusto, inescusabile, santo, no”. Ben è vero che non si commette mai peccato se non quando sappiamo, od abbiamo coscienza di commetterlo; è verità chiarissima; ma potrebbe accadere di non porre mente al male che facciamo, e ciò per colpevole negligenza, o di non ricordarci al presente del male già commesso con piena deliberazione, e in tal caso il non avere rimorsi non vorrebbe dire che siamo innocenti e giusti, né ci varrebbe di scusa dinanzi a Dio. Pur troppo moltissimi sono quelli, che vivono immersi in ogni sorta di peccati e non sono molestati dal più lieve rimorso. La distrazione, la trascuratezza, in cui vivono, il callo che hanno fatto ad ogni disordine, l’abitudine inveterata di non ascoltare le grida della coscienza, fanno sì che più non sentono i rimorsi. Forseché costoro, perché non sentono i rimorsi, si potranno dire giusti? Certamente, no. Possiamo essere gravemente ammalati e non sentire dolori; così possiamo essere colpevoli e non sentire rimorsi, e ciò non varrà a scolparci innanzi a Dio. Il nostro giudizio non è sicuro, insegna S. Paolo: il solo giudizio di Dio è infallibile, e a Lui rimettiamoci: “Qui judicat me, Dominus est.,, È questa, o carissimi, una verità di sommo conforto per tutti, ma particolarmente per quelli, i quali, esercitando un ufficio, non raramente sono fatti segno a biasimi ingiusti e ad apprezzamenti erronei. Quante volte gli uomini biasimano a torto quel padre e quella madre, quasi trascurati nella educazione dei loro figli! Accarezzano sospetti ingiuriosi a carico di quella persona, condannano l’opera di quel padrone, di quel servo, la condotta di quel prete, di quel parroco, giudicando dalle apparenze! Spesso chi sta in alto diviene bersaglio delle più gravi accuse, delle più nere calunnie ed è impotente a difendersi. Sono pene acerbe, agonie di spirito, che Dio solo conosce. È pur dolce allora il potersi gittare dinanzi a Lui, che tutto conosce, aprirgli il cuore ed effondere l’anima e dirgli: Signore, Voi conoscete tutto; voi conoscete la mia rettitudine, la mia innocenza; mi abbandono nelle vostre braccia paterne. — “Dominus est qui judicat me.,, Credo che tra di voi, che m’ascoltate, non vi sia pur uno che un giorno non abbia sentito il bisogno di dire: “Il Signore sa ch’io sono innocente; Egli solo mi ha da giudicare”. S. Paolo applica a tutti in genere la dottrina stabilita, e dice a modo di conseguenza: “Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore. „ Noi pure, è vero, possiamo giudicare le cose e le persone in quanto si manifestano con le parole o con le opere e possiamo dire: Questa è buona, questa è cattiva: ma giudicare le cose e le persone in sé, nella loro mente e nella loro coscienza, è riserbato a Dio solo. Quante volte un atto esterno, che giudichiamo buono e lo è in se stesso, è cattivo per l’intenzione di chi lo fa, e quello che reputiamo cattivo, è buono per la retta intenzione dell’operante! Dio solo legge nelle coscienze e perciò non giudichiamo gli altri nel loro interno. Quali veramente siano le opere dell’uomo lo conosceremo allorché verrà Dio e farà il gran giudizio. “Egli illuminerà le cose tenute nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, „ come insegna l’Apostolo. Nel presente ordine di cose noi vediamo solo ciò che apparisce; a nessuno di noi è dato di penetrare nelle menti e nei cuori se non tanto quanto essi si aprono volontariamente mediante la parola; parola che non è sempre mezzo sicuro della verità. – I cuori, le menti, le coscienze umane sono avvolte in fitte tenebre, che saranno pienamente rischiarate soltanto in quel dì, che il Giudice supremo verrà sulla terra. Che avverrà allora, o dilettissimi? Udite. Un valente artefice, chiuso in una stanza a tutti inaccessibile, lavora, ponete, una statua di cristallo; per il corso di molti anni, con pazienza ammirabile, vi si travaglia intorno e non vi è un punto solo della statua, che non sia lavorato. Compiuta l’opera sua in quel recesso impenetrabile, al lume d’una lampada, un bel dì la trae fuori e la espone al pubblico sotto la luce del mezzodì, sotto i fulgori del sole di luglio. Ad un tratto voi vedete quella statua, cesellata in ogni parte, e se vi è un solo punto, in cui il cesello abbia fallito, voi lo rilevate tosto. Non è vero che allora in un istante voi vedete il lavoro di molti e molti anni, compiuto occultamente, ignoto a tutti? Ecco una immagine del giudizio divino. Nel corso della nostra vita, che si svolge nelle tenebre di questo secolo, al fioco lume della ragione, avvalorato dal lume della fede, nel fondo della nostra coscienza, impenetrabile ad ogni occhio mortale, noi abbiamo lavorato la nostra statua, compiuta l’opera nostra, che rimarrà eterna. In quel momento, che avverrà il giudizio, l’opera condotta a termine nel corso di tanti anni, sarà posta sotto la luce infinita, che raggia dal volto di Gesù Cristo, e tutto sarà perfettamente manifesto il nostro lavoro, bello o brutto ch’esso sia. Allora saranno svelate le coscienze, rischiarate tutte le tenebre, fatto il giudizio e data a ciascuno la lode che gli si dee, come dice S. Paolo. E chiaro adunque, o carissimi, che nella presente vita ciascuno di noi va scrivendo sul libro della coscienza la sentenza che Cristo leggerà e pronunzierà nel giorno del giudizio e che con lui leggeremo e pronunceremo noi pure. — Figliuoli carissimi! badiamo bene a tutto ciò che pensiamo, vogliamo, diciamo e facciamo in vita, perché tutto si scrive nel libro indistruttibile della nostra coscienza e tutto rimarrà a nostra gloria od a nostra infamia eterna.

Graduale 
Ps 144:18; 144:21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III:1-6
Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”  [Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, essendo governatore della Giudea Ponzio Pilato, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della regione Traconítide, e Lisània tetrarca di Abilene, essendo sommi sacerdoti Anna e Càifa: la parola del Signore venne nel deserto su Giovanni, figlio di Zaccaria. E costui andò nelle terre intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza in remissione dei peccati, come sta scritto nel libro del profeta Isaia: Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore: appianate i suoi sentieri: saranno colmate tutte le valli, e i monti e i colli saranno abbassati: i sentieri tortuosi saranno rettificati e quelli scabrosi appianati: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca III, 1-6)

Via del Piacere.

L’odierno Evangelio mi porta col veloce pensiero alle sponde del Giordano. Seguitemi, ascoltatori devoti. Ecco innanzi a noi il divin precursore Giovanni, che per comando di Dio predica il battesimo della penitenza per la remissione de’ peccati. Non già che quel battesimo avesse in sé una tale virtù, ma perché era una preparazione per arrivare alla remissione dei peccati, col partecipare de’ meriti del Redentore. Predica dunque la penitenza il Battista, e la predica quasi più con la presenza, che con la voce, più coll’esempio, che con le parole. Osservatelo pallido nel volto, smunto nelle membra, mezzo coperto di rozze spoglie d’agnelli, e di ruvida pelle di cammello: il suo vitto son le locuste del campo e poco miele della selva, la sua bevanda è l’acqua del fiume o del fonte. Comincia la sua predica intimando alle turbe accorse ad ascoltarlo a preparare la via del Signore, “parate viam Domini”. A questo fine fu mandato il Battista nella Giudea, e a questo stesso oggetto io vengo a voi, miei dilettissimi; e vi dico, se volete per la prossima solennità preparare la via del Signore, acciò egli venga a voi, abbandonate le strade del mondo, tornate addietro dalle vie del peccato e del seducente piacere. L’uscir da queste lubriche vie, sarà lo stesso che disporre i retti sentieri, pei quali l’aspettato Salvatore del mondo venga a rinascere nel Vostro cuore: parate, dunque, “parate viam Domini, rectas facite semitas eius”. Per animarvi in questo salutare intraprendimento, io vi farò vedere in una maniera facile e sensibile, quanto la via del mondano piacere sia ingannevole, e quanto dannosa, tanto per la vita presente, che per la vita futura. Se riesco a disingannarvi, io benedirò il Signore, e voi mi saprete grado del vostro disinganno. Di grazia ascoltatemi attentamente. – La via del piacere, (com’io me la figuro) comincia con una porta grandiosa, alta, magnifica, a modo di superbo arco trionfale. La struttura che la rende stupenda è tutta a colonne, a statue vagamente disposte, e a vasi d’ogni forma la più leggiadra. Sull’architrave sui capitelli stanno alati genietti, e di questi chi sparge fiori, chi suona cetre, chi spiega vesti preziose, chi fa le monete d’oro e d’argento, e chi sul limitare di questa porta col riso sulle labbra, col cenno grazioso delle mani invita ad entrare i passeggeri. Entriamo dunque, uditori: la porta è bella, la strada sarà migliore. “Adagio, dite voi, adagio, tanti inviti, tanti allettamenti fan nascere un ragionevole sospetto, che qualche inganno si nasconda sotto così lusinghevoli apparenze”. Ottimamente, queste è pensare e riflettere da uomini prudenti, … facciamo dunque così, vediamo qual sorte hanno incontrata coloro che sono entrati per questa porta, e si sono avviati per questa strada. Si possono questi considerare distinti in due schiere. Molti sono entrati, e non sono più usciti, altri non pochi sono tornati indietro. Quei che sono entrati senza più uscire, sono primieramente tutti gli uomini che passeggiavano su questa terra ai tempi di Noè innanzi il diluvio. Correvano questi velocemente la via del piacere, e del piacere più sordido e più fangoso. “Omnis quippe caro corraperat viam suam” (Gen VI, 12). Gridava intanto Noè dai palchi della sua arca: “ciechi, insensati, tornate indietro, se proseguite, Iddio sdegnato vi coglierà nel più bello del vostro cammino, sarete fra non molto sommersi in un diluvio di acque micidiali; ma gl’ingannati, rapiti dal dolce delle impure loro voglie, sordi al loro bene, sordi al loro male, sordi alle divine minacce, conobbero troppo tardi e senza rimedio il proprio errore, e la fallacia della via da essi battuta. – Spingete ora lo sguardo entro quella porta da noi immaginata: Vedete voi quella lunga, lunghissima strada, che dall’una e dall’altra parte vi presenta un funesto spettacolo di ventiquattromila Ebrei pendenti da altrettanti patiboli? mirateli se potete senza orrore, e poi dite: ecco quanto loro costò un brutale piacere, contro il divieto di Dio e di Mosè, con le donne Madianite “Occisi sunt viginti quatuor millia . . . in patiboli” (Num XXV, 9 e 4). E chi son eglino quegl’infelici stesi su quel campo, sparso di tronche membra e di teste recise, inondato di tanto sangue, ancor tiepido, ancor fumante? Poco avanti fra canti e suoni, sazi dalla crapula ed allegri dal vino, menavano danze e carole intorno a un lido d’oro, ed ora trucidati dalle spade levitiche in numero di quasi ventiquattro mila, c’insegnano che l’allontanarsi da Dio, che il piacer della gola, e gli estremi del gaudio e dell’allegria, vanno a finire in lutto ed in sterminio. – Passeggia per questa strada Sansone allettato dalle lusinghe di Dalila, e sebbene dai propri genitori richiamato ad uscirne, non dà ascolto, persiste nel suo cammino, e i suoi piaceri gli fan perdere la libertà, la vista, la riputazione e la vita. Anche Ammone, figlio di Davide, entra in questo sentiero, rapito dall’avvenenza dì Tamar, e il sozzo incestuoso piacere gli tira addosso un nembo di pugnalate, mentre sedeva a lauto banchetto. Anche i sordidi vecchioni tentatori della casta Susanna corrono la stessa via; e dopo aver sedotte molte figlie d’Israele, s’incontrano finalmente in questa santa matrona, che eroicamente ributtandoli, coll’esecrazione di lutto il popolo, restano sepolti sotto una tempesta di pietre. Di mille altri potrei mostrarvi lo stesso. Per amor di brevità fermiamoci qui, e ditemi uditori miei, non è egli vero che questa strada è fatale per chi vi entra? Le notizie fin qui son molto cattive. Vediamo se si sono trovati contenti almeno quei che ne uscirono! – Il primo che mi viene avanti egli è un re vestito di ruvido cilizio, con un tozzo di pane alla mano, sparso di cenere, e bagnato di lacrime. Ah, sì, lo ravviso, questi è Davide penitente, che abbandonata la via del piacere, si va protestando che odia e abbomina questa strada d’iniquità: “viam iniquam odio habui(Ps. CXVIII, 128). Un altro mi si presenta. È questi un giovane rabbuffato, pallido, smunto, lacero, mezzo ignudo. Nol conoscete? Egli è il Prodigo, che ritorna da quelle remote contrade che ha corso per qualche tempo affianco delle meretrici “vivendo luxuriose”, ed ora a passo avanzato si conduce ai piedi del suo buon padre, a pregarlo che voglia ammetterlo per l’ultimo de’ suoi servitori. E questa donna, nobile all’aspetto e al portamento, che si strappa dal crine le gioie e i vani ornamenti, ella è la Maddalena, che pentita dei suoi traviamenti, corre a lavare di lacrime i piedi al divin Redentore. Una turba immensa, a finirla, sgombra da questa strada, turba di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni clima, ed hanno tutti il pianto sul volto, il digiuno a fianco, il flagello alla mano per vendicare in sé stessi i loro errori nella via seducente dell’iniquità e della perdizione, confessando altamente d’esserne stanchi e pentiti, “lassati sumus in via iniquitatis, et perditionis” (Sap. V, 7). – Che dite ora, miei riveriti ascoltanti? Le notizie da ogni parte son pessime, e senza ricorrere ad antichi esempi, l’esperienza ci fa vedere sovente di queste scene volubili, che dopo una vista dilettevole si cangiano in prospetti di orrore. Voi come più pratici del mondo ne potete narrare a me. Quanti amatori del secolo, gente data al bel tempo, ai giuochi, alle gozzoviglie, agli amori, sono passati dalle delizie alle miserie, dai piaceri agli affanni, dagli onori all’avvilimento, da uno stato comodo allo spedale, o a morir sulla paglia! – Concedo: la strada del piacere è larga, amena, spaziosa, lo dice il Vangelo, “spatiosa est via”, ma dice altresì che conduce alla perdizione. Or se una via piana, fiorita, deliziosa vi portasse ad un precipizio, avreste voi sì poco senno da incamminarvi per quella? E non sapete ch’è proprio dei traditori il far precedere le lusinghe, i vezzi, gli allettamenti per riuscire negl’iniqui disegni, ed ingannare gl’incauti? Caino vuol tradire Abele, ed in aria di buon fratello l’invita a diporto, a spaziarsi in un campo. Gioabbo con un saluto, con una carezza al mento di Amasa gli pianta un pugnale nel fianco. Assalonne per vendicarsi d’Ammone l’invita a sontuoso banchetto. Triffone vuol disfarsi del temuto Gionata Maccabeo, e gli offre il comando della sua armata. Giuda tradisce il suo divino Maestro e si serve d’un bacio. In somma quel che gli uomini praticano cogli uccelli, e coi pesci, usano i traditori a sedurre gl’incauti ad ingannar gl’innocenti. – Ma se voi non siete irragionevoli, non sarà una gran pazzia lasciarvi tirar nella rete per un meschino piacere? – Sarà dunque pazzia per voi, giovane mio, l’associarvi con quella brigata di scostumati compagni, che vi traggono al giuoco per spogliarvi, che vi portano alle crapule, ai furti, alle case sospette, alle ree amicizie per non avere il rossore d’esser soli nei bagordi e negli stravizzi, o per voltarne tutta la colpa a voi. – Sarà pazzia per voi lasciarvi tirar dalla gola e imbandire la mensa de’ rubati polli, vendemmiare l’altrui vigna e bere alla salute di chi in coltivarla vi ha speso danari e sudori, per poi temere e tremare per continua paura, di venir ricercato da ministri di giustizia, d’essere scoperto per ladro, ed in pericolo d’infamia, di prigionia e di galera. – E non sarà maggior pazzia per voi, o figlia incauta se vi lasciate adescare dalle dolci lusinghe, dall’amorose parole, dai seducenti biglietti, dai donativi, dalle promesse anche giurate di matrimonio di quei traditori che insidiano la vostra onestà, ed han per costume vantarsi della vostra debolezza e della loro riuscita? Non sarete la prima, se vi fidate, se vi arrendete, ad essere abbandonata alla vostra confusione, costretta a ritirarvi per nascondere il vostro fallo, a passare i giorni amari in mesta solitudine, a piangere inutilmente la vostra caduta e la vostra stoltezza, e bestemmiare l’empio traditore, che intrepido giura di non conoscervi, insensibile alle vostre lacrime, insultante alla vostra infamia, infamia che porterete fino alla tomba. – Vedete, miei dilettissimi, che non v’ho parlato sin qui se non di temporali infortuni, i quali sono gli effetti infallibili degli smodati piaceri. Or che diremo quando la fede c’insegna che la via del piacere conduce all’eterna perdizione? Così è, miei cari, conviene disingannarsi. Gli amatori del mondo e dei fallaci suoi beni, dopo aver gustato per pochi giorni il dolce delle proprie soddisfazioni, vanno, quando non se l’aspettano, a piombare negli abissi infernali. “Ducunt in bonis dies suos, et in punctu ad inferno, descendant” (Iob. XII, 13). Ci descrive con una ingegnosa parabola la cecità e stoltezza di costoro S. Giovanni Damasceno. – Un cert’uomo faceva viaggio in un deserto, quando all’improvviso si vede venir incontro una feroce pantera. Spaventato a questa vista si dà a precipitosa fuga, e nel fuggire agitato e contuso, cade senz’avvedersene dall’orlo d’un precipizio profondissimo: se non che, com’è proprio di chi cade, stender le braccia, fortunatamente si appiglia ad un albero piantato poco sotto il margine del precipizio stesso. Qui si tiene stretto, e va respirando. Osserva però che la pantera non cessa di minacciarlo, e che l’albero, su cui si è salvato dal peso della persona, va declinando al basso, e gli si stacca da terra or l’una, or l’altra radice. Abbassa finalmente lo sguardo, e mira con raccapriccio in fondo del precipizio un enorme dragone, che a bocca spalancata, e artigli aperti sta aspettando la sua caduta. In questa situazione di tanto orrore, in mezzo a tanti oggetti di spavento, leva gli occhi in alto, e osserva in cima di quella pianta un favo di miele, che per l’abbondanza spande su quelle foglie il dolce liquore. A questa vista esulta di giubilo, e allegro e contento non conosce più il suo pericolo, si dimentica della minacciosa pantera, dell’albero che declina, delle radici che si staccano, del dragone che l’attende, e invece, chi il crederebbe? Col riso in bocca è tutto intento a raccogliere colla punta del dito quelle gocce di miele, e le assapora con gusto, e se ne pasce con gioia, e si stima felice. La parabola, uditori, vi sorprende? Cesserà la sorpresa in sentirne l’applicazione: l’uomo appena comparso in questa valle di pianto, che si può chiamare un deserto, in qualità di viaggiatore, viene minacciato dalla morte come da rabbiosa pantera. Fugge egli in certo modo l’incontro, ma cade nel comune pericolo di morte, che ad ogn’istante può coglierlo. Si salva egli, diciamo così, sull’albero del proprio corpo. Quest’albero, questo corpo in ogni giorno, in ogni stagione va declinando con il peso degli anni. Si staccano le radici con le infermità, col mancar della vista, col cadere dei denti, col debilitarsi le forze. Intanto al fondo dell’abisso lo sta aspettando il dragone infernale, ed egli in mezzo a tanti pericoli dimentico della morte, della caducità della vita, del baratro su cui sta pendente, e del dragone d’inferno, che per le sue colpe ha diritto, e brama d’attenderlo, s’occupa tutto a raccogliere alcune stille di miele or da questo, or da quel sensuale piacere, e solo intento ad appagare i suoi sensi, a soddisfare le sue voglie, si crede al colmo della contentezza e della felicità. – O uomo miserabile, o cieco e insensato figliuolo di questo secolo! Quel che ora non temi, sarà un giorno il soggetto delle tue lacrime e dell’inutile tuo pentimento. Al termine della strada del piacere, sta il letto della tua morte. Dalla sponda di questo darai un’occhiata alla via che hai corsa; pensa se sarai contento d’averla battuta. Deh! per tuo bene intraprendi in questi sacri giorni la via del Signore; questa è la sola che può condurti all’ eterna salvezza.

Credo …

Offertorium

Orémus
Luc 1:28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta
Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Communio
Is VII:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]