FESTA DEL CORPUS DOMINI (2021)

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2021)

Doppio di I cl. con Ottava privilegiata di 2° ordine.

Paramenti bianchi.

Dopo il dogma della SS. Trinità, lo Spirito Santo ci rammenta quello dell’Incarnazione di Gesù, facendoci celebrare con la Chiesa il Sacramento per eccellenza che, riepilogando tutta la vita del Salvatore, dà a Dio gloria infinita e applica alle anime in tutti i momenti i frutti della Redenzione (Or.) ». Gesù ci ha salvati sulla Croce e l’Eucarestia, istituita alla vigilia della passione di Cristo, ne è il perpetuo ricordo (Or.). L’altare è il prolungamento del Calvario, la Messa annuncia « la morte del Signore » (Ep.). Infatti Gesù vi si trova allo stato di vittima; poiché le parole della doppia consacrazione ci mostrano che il pane si è cambiato in corpo di Cristo, e il vino in sangue di Cristo; di modo che per ragione di questa.doppia consacrazione, che costituisce il sacrificio della Messa, le specie del pane hanno una ragione speciale a chiamarsi « Corpo di Cristo», benché contengano Cristo tutto intero, poiché Egli non può morire, e le specie del vino una ragione speciale a chiamarsi « sangue di Cristo », per quanto anche esse contengano Cristo tutt’intero. E così il Salvatore stesso, che è il sacerdote principale della Messa, offre con sacrificio incruento, nel medesimo tempo che i suoi i sacerdoti, il suo Corpo e il suo Sangue che realmente furono separati sulla croce, e che sull’altare lo sono in maniera rappresentativa o sacramentale. – D’altra parte si vede che l’Eucarestia fu istituita sotto forma di cibo (All.) perché possiamo unirci alla vittima del Calvario. L’Ostia santa diviene così il « frumento che nutre le nostre anime » (Intr.). E a quel modo che il Cristo, come Figlio di Dio, riceve la vita eterna dal Padre, così i Cristiani partecipano a questa vita eterna (Vang.) unendosi a Gesù mediante il Sacramento che è il Simbolo dell’unità (Secr.). Così, questo possesso anticipato della vita divina sulla terra mediante l’Eucarestia, è pegno e principio di quella di cui gioiremo pienamente in cielo (Postcom.). « Il medesimo pane degli angeli che noi mangiamo ora sotto le sacre specie, dice il Concilio di Trento, ci alimenterà in cielo senza veli », poiché saremo faccia a faccia nel cielo, Colui che contempliamo ora con gli occhi della fede sotto le specie eucaristiche. – Consideriamo la Messa come centro di tutto il culto eucaristico della Chiesa; consideriamo nella Comunione il mezzo stabilito da Gesù per farci partecipare più pienamente a questo divino sacrifizio; così la nostra devozione verso il Corpo e il Sangue del Salvatore ci otterrà efficacemente i frutti della sua redenzione. Per comprendere il significato della Processione che segue la Messa, richiamiamo alla mente come gli Israeliti onoravano l’Arca d’Alleanza che simboleggiava la presenza di Dio in mezzo a loro.Quando essi eseguivano le loro marce trionfali, l’Arca santa avanzava portata dai leviti, in mezzo a una nuvola d’incenso, al suono degli strumenti di musica, di canti, e di acclamazioni di una folla entusiasta. Noi Cristiani abbiamo un tesoro molto più prezioso, perché nell’Eucaristia possediamo Dio stesso. Siamo dunque santamente fieri di fargli scorta ed esaltiamo, per quanto è possibile, il suo trionfo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXX: 17.
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, allelúia.
Ps 80:2 [Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.]

Exsultáte Deo, adiutóri nostro: iubiláte Deo Iacob.

[Esultate in Dio nostro aiuto: rallegratevi nel Dio di Giacobbe.]


Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, alleluja

[Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis sub Sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti: tríbue, quǽsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári; ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus:

[O Dio, che nell’ammirabile Sacramento ci lasciasti la memoria della tua Passione: concedici, Te ne preghiamo, di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue cosí da sperimentare sempre in noi il frutto della tua redenzione:]

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor XI: 23-29
Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Iesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem.
Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, iudícium sibi mánducat et bibit: non diiúdicans corpus Dómini.

(Fratelli: Io lo appreso appunto dal Signore, ciò che ho trasmesso anche a voi: che il Signore Gesù la notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso le grazie, lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi: fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese il Calice, e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Tutte le volte che Lo berrete, fate questo in memoria di me. Poiché ogni volta che mangerete questo pane, e berrete questo calice, annunzierete la morte di Signore fino a che egli venga. Perciò chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore.)

Né dagli uomini, né dagli altri Apostoli, dice s. Paolo, io so ciò che vi ho insegnato sull’Eucaristia; ma Gesù Cristo stesso me l’ha rivelato. Non lascia la circostanza del tempo; la notte stessa, dice egli, in cui il Salvatore fu tradito da uno dei suoi Apostoli, dato in mano de’ suoi nemici e trattato con la peggior crudeltà, istituì questo divin sacramento, pegno il più prezioso del suo amore, ed attestato il più splendido della sua tenerezza. Colà propriamente fu fatto il testamento di questo amabile Padre, col quale dà tutto se stesso ai suoi figli, poche ore davanti la sua morte. S. Paolo entra quindi in molte particolarità di quanto avvenne in quella sì meravigliosa istituzione. È da osservare che l’Apostolo e tutti gli Evangelisti hanno voluto raccontare fin le minime circostanze di tale istituzione. Il Salvatore prese il pane. Gesù Cristo non poteva prendere che pane senza lievito, il solo di cui era permesso servirsi nel fare la pasqua: onde con ragione nella Chiesa romana si consacra con pane azzimo. Egli ringrazia il Padre suo della potestà che gli ha comunicato; i quali atti di ringraziamento eran sempre il preludio quand’era per operare le meraviglie più straordinarie. Quindi avendo spezzato il pane che teneva in mano, disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Non disse: prendete e mangiate questo pane; ma prendete e mangiate, questo è il mio corpo; la sostanza che Io vi offro sotto queste specie, è il corpo mio, non è più pane. Poiché il Verbo eterno, la stessa verità, dice: Questo è il mio corpo, siamone convinti, dice s. Giovanni Grisostomo, crediamolo senza esitanza, riguardiamolo con gli occhi di una fede viva. Questo è il mio corpo: tale è la virtù e la forza delle parole della consacrazione, di produrre, come causa efficiente, ciò che esse esprimono. Perché tali proposizioni si trovino vere, bisogna solamente che la cosa che esse indicano esista dopo che son pronunziate. Ciò che Gesù Cristo prese in mano, non era che pane; ma appena Egli ebbe pronunziate le parole: Questo è il mio corpo, tutta la sostanza del pane fu annichilata, ed in ciò che Gesù Cristo diede a mangiare ai suoi Apostoli non restò altra sostanza che il suo proprio corpo, il quale indi a poche ore doveva esser dato in mano ai suoi nemici, saziato d’obbrobri, flagellato e crocifisso. Non vi restavan del pane che le sole apparenze, cioè il colore, la figura, peso, il sapore, che si dicono comunemente specie. Nel Nuovo Testamento non abbiamo nulla di più formale, di più preciso, di meglio indicato che questa realtà del corpo? del sangue di Gesù Cristo nell’adorabile eucaristia. Ogni volta che si parla di questo divino mistero, o nel sesto capitolo di s. Giovanni, o in tutti gli altri Evangelisti, od in s. Paolo, sempre vi siparla di una presenza e di un mangiare realmente e corporalmente ilcorpo ed il sangue di Gesù Cristo. Il senso delle figure non vi entra affatto, anzi n’è escluso positivamente, poiché il corpo che Gesù Cristo dette a mangiare a’ suoi Apostoli era il medesimo, secondo la sua parola, di quello che abbandonava alle ignominie della sua passione e alla croce per riscattarci. Questo è il mio corpo, che sarà dato per voi. Ora senz’essere Manicheo, nessuno ardirebbe dire che il corpo del Figliuolo di Dio non è stato dato alla morte che in figura. Dal tempo degli Apostoli fino ai nostri giorni, tutta la Chiesa ha sempre creduto che il corpo di Gesù Cristo è realmente e veramente offerto in sacrifizio, distribuito ai Fedeli nella Comunione, e realmente presente nell’eucaristia; e noi non potremmo parlare della presenza reale di Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento in modo più chiaro, più formale, più preciso di quel che hanno fatto i Padri dei primi secoli. – Voi mi direte forse, dice s. Ambrogio, che questo pane che vi si dà a mangiare nella comunione è pane usuale e ordinario. È vero che prima delle parole sacramentali questo pane era pane; ma dopo la consacrazione, in luogo del pane si trova il corpo di Gesù Cristo. Ecco che deve essere indubitabile per noi. Ma come si può fare, continua il medesimo Padre, che ciò che è pane sia il corpo di Gesù Cristo? E risponde: Per la consacrazione, la quale non contiene, se non che le proprie parole Gesù. Cristo; poiché, prosegue egli, in tutto ciò che precede la consacrazione, il sacerdote parla in suo nome, quando loda e benedice il Signore, ovvero prega per il re e per il popolo; ma quando arriva alla consacrazione, il sacerdote non parla più in suo nome, ma Gesù Cristo medesimo che parla per la bocca del sacerdote. È dunque, a dir propriamente, la parola di Gesù Cristo medesimo che opera questo sacramento; quella parola, io dico, che dal nulla ha create tutte le cose. Egli ha parlato, continua il medesimo Padre, e tutte le cose sono state fatte; ha comandato, ed ogni cosa è uscita dal nulla. Or, prima della consacrazione, non vi era affatto il corpo di Gesù Cristo, non eravi che pane ordinario: ma dopo la consacrazione, io ve lo ripeto, non vi è più pane, ma è il corpo di Gesù Cristo. Se s. Ambrogio avesse avuto a rispondere ai Protestanti dei nostri giorni, avrebbe egli potuto parlare in modo più preciso e più chiaro? – S. Cirillo, patriarca di Gerusalemme, che viveva nel IV secolo, spiegando al suo popolo le principali verità della religione, gli dice: La dottrina di s. Paolo sul divino mistero dell’Eucaristia deve più che bastare a stabilir la vostra credenza circa un sì augusto sacramento. Questo grande Apostolo ci diceva nella lezione che avete udita, come la notte istessa che questo divin Salvatore doveva esser tradito, prese del pane, e rendute le grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate; questo è il mio corpo. E parimente prendendo il calice, disse: Bevete, questo è il mio sangue. Dopo dunque che Gesù Cristo ha detto del pane che aveva preso: Questo è il mio corpo, chi è che oserà di avere il minimo dubbio? E poiché il medesimo Gesù Cristo ha detto così affermativamente: Questo è il mio sangue, chi potrà mai dubitare di questa verità, e dire che non è realmente il suo sangue? E come! dice egli, colui che ha cangiato l’acqua in vino alle nozze di Cana, non meriterà che crediamo che Egli cangi il vino nel suo prezioso sangue? Sotto le specie del pane e del vino, continua il medesimo Padre, il Salvatore ci dà il suo corpo ed il suo sangue; in guisa che noi portiamo veramente Gesù Cristo nel nostro corpo, quando riceviamo il suo: Sic enim efficimur Christiferi, cum corpus ejus et sanguinem in membra nostra recipimus. I pani della proposizione dell’antico Testamento sono aboliti: noi non abbiamo nel Nuovo che questo pane celeste e questo calice di salute, i quali santificano l’anima e il corpo. E perciò, conclude egli, guardatevi bene dall’immaginarvi che ciò che vedete non sia che pane e vino: è realmente il corpo e il sangue di Gesù Cristo: bisogna che la fede corregga l’idea che ve ne danno i sensi. Guardatevi bene dal giudicarne con gli occhi o dal sapore, ma la fede vi renda certa e indubitabile questa verità, essere il corpo e il sangue di Gesù Cristo che voi ricevete. Queste sono le parole di s. Cirillo. Ecco quale è stata la fede dei primi Fedeli sull’eucaristia. Si è sempre creduto nella Chiesa, dal primo giorno della sua nascita fino a noi, che la sostanza del pane e del vino si cangi nella sostanza del corpo e del sangue di Gesù Cristo: ed è ciò che la Chiesa chiama transustanziazione, cioè cangiamento di sostanza; e per la virtù onnipotente delle parole di Gesù Cristo, che il sacerdote pronunzia in nome del Salvatore, si opera questo portento. Se Dio poté cangiare la moglie di Lot in una statua di sale, la verga di Aronne in un serpente, e l’acqua in vino alle nozze di Cana, dicevano i Padri della Chiesa quando istruivano i novelli battezzati per la prima comunione, perché questo medesimo Dio non potrà cangiare il pane ed il vino nel suo sacro corpo e nel suo prezioso sangue nel sacramento dell’eucaristia? – Ogni volta che mangerete di questo pane, dice Gesù Cristo, e berrete di questo calice, annunzierete la morte del Signore, fino a tanto che Egli venga. Il sacrifizio incruento di Gesù Cristo non differendo che nel modo dal sacrifizio cruento del medesimo Salvatore, deve richiamare alla mente di quelli che vi partecipano, la memoria della morte di Gesù Cristo. Con queste parole: Fino a tanto che egli venga, s. Paolo ci mostra che il sacramento dell’eucaristia durerà sino alla fine del mondo. Chiunque, pertanto, mangerà di questo pane o berrà di questo calice indegnamente, dice il s. Apostolo, sarà reo di delitto contro il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Questa espressione prova in modo convincente la presenza reale del corpo e del sangue di Gesù Cristo. Qual orrore non dobbiamo avere del peccato che commettono coloro, i quali fanno comunioni sacrileghe! non è un sacrifizio che essi offrono, dice s. Giovan Grisostomo, è un omicidio che commettono; non è un nutrimento che prendono, è un veleno. Colui che mangia questo pane e beve di questo calice indegnamente, mangia e beve la sua condanna, per la colpa di non discernere il corpo del Signore; cioè egli ha in se stesso la prova visibile del suo peccato; e il suo processo, per così dire, è bell’e fatto. Questo divin Salvatore è il suo giudice, questo pane di vita è il decreto della sua morte. Sacrilegio, tradimento, nera ingratitudine, crudele ipocrisia, quanti delitti in una sola Comunione fatta indegnamente! E quali ne sono gli effetti? Spessissimo l’induramento e l’impenitenza finale.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, 1869).

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno,

[Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore: e Tu concedi loro il cibo a tempo opportuno,]

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne animal benedictióne. Allelúia, allelúia.

[Apri la tua mano: e colma ogni essere vivente della tua benedizione,]


Ioannes VI: 56-57
Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus: qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo. Alleluia.

[La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui. Alleluia.]

Sequentia
Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem,
lauda ducem et pastórem
in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:
quia maior omni laude,
nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,
panis vivus et vitális
hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ
turbæ fratrum duodénæ
datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,
sit iucúnda, sit decóra
mentis iubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,
in qua mensæ prima recólitur
huius institútio.

In hac mensa novi Regis,
novum Pascha novæ legis
Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,
umbram fugat véritas,
noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,
faciéndum hoc expréssit
in sui memóriam.

Docti sacris institútis,
panem, vinum in salútis
consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,
quod in carnem transit panis
et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,
animosa fírmat fides,
præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,
signis tantum, et non rebus,
latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:
manet tamen Christus totus
sub utráque spécie.

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali
sorte tamen inæquáli,
vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:
vide, paris sumptiónis
quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,
ne vacílles, sed meménto,
tantum esse sub fragménto,
quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:
signi tantum fit fractúra:
qua nec status nec statúra
signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,
factus cibus viatórum:
vere panis filiórum,
non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,
cum Isaac immolátur:
agnus paschæ deputátur:
datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,
Iesu, nostri miserére:
tu nos pasce, nos tuére:
tu nos bona fac vidére
in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:
qui nos pascis hic mortáles:
tuos ibi commensáles,
coherédes et sodáles
fac sanctórum cívium.
Amen. Allelúia.

[Loda, o Sion, il Salvatore,  loda il capo e il pastore,  con inni e càntici.
Quanto puoi, tanto inneggia:  ché è superiore a ogni lode,  né basta il lodarlo.
Il pane vivo e vitale  è il tema di lode speciale,  che oggi si propone.
Che nella mensa della sacra cena,  fu distribuito ai dodici fratelli,  è indubbio.
Sia lode piena, sia sonora,  sia giocondo e degno  il giúbilo della mente.
Poiché si celebra il giorno solenne,  in cui in primis fu istituito  questo banchetto.
In questa mensa del nuovo Re,  la nuova Pasqua della nuova legge  estingue l’antica.
Il nuovo rito allontana l’antico,  la verità l’ombra,  la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece nella cena,  ordinò che venisse fatto  in memoria di sé.
Istruiti dalle sacre leggi,  consacriamo nell’ostia di salvezza  il pane e il vino.
Ai Cristiani è dato il dogma:  che il pane si muta in carne,  e il vino in sangue.
Ciò che non capisci, ciò che non vedi,  lo afferma pronta la fede,  oltre l’ordine naturale.
Sotto specie diverse,  che son solo segni e non sostanze,  si celano realtà sublimi.
La carne è cibo, il sangue bevanda,  ma Cristo è intero  sotto l’una e l’altra specie.
Da chi lo assume, non viene tagliato,  spezzato, diviso:  ma preso integralmente.
Lo assuma uno, lo assumino in mille:  quanto riceve l’uno tanto gli altri:  né una volta ricevuto viene consumato.
Lo assumono i buoni e i cattivi:  ma con diversa sorte  di vita e di morte.
Pei cattivi è morte, pei buoni vita:  oh che diverso esito  ha una stessa assunzione.
Spezzato poi il Sacramento,  non temere, ma ricorda  che tanto è nel frammento  quanto nel tutto.
Non v’è alcuna separazione:  solo un’apparente frattura,  né vengono diminuiti stato  e grandezza del simboleggiato.
Ecco il pane degli Angeli,  fatto cibo dei viandanti:  in vero il pane dei figli  non è da gettare ai cani.
Prefigurato  con l’immolazione di Isacco, col sacrificio dell’Agnello Pasquale,  e con la manna donata ai padri.
Buon pastore, pane vero,  o Gesú, abbi pietà di noi:  Tu ci pasci, ci difendi:  fai a noi vedere il bene  nella terra dei viventi.
Tu che tutto sai e tutto puoi:  che ci pasci, qui, mortali:  fa che siamo tuoi commensali,  coeredi e compagni dei santi del cielo.  Amen. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum S. Ioánnem.
Ioann VI: 56-59
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum.

[Gesù disse un giorno alle turbe della Giudea: « La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta .in me, e Io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me, e io vivo per il Padre; così chi mangerà da me, vivrà per me. Questo è il pane che discese dal cielo. Non come i vostri padri, che mangiarono la manna e morirono: chi mangia di questo pane, vivrà in eterno » (Giov. VI, 56-59). ]

OMELIA

(G. Bonomelli, Misteri Cristiani, vol. IV, Brescia. Tip. E Libr. Queriniana, 1896)

La presenza reale. — La parola della $S. Scrittura e la parola della tradizione.

Ragionando della Santa Eucaristia, troviamo sul nostro cammino due sorta di avversari, coi quali ci è forza combattere. Gli uni ci muovono incontro a nome della ragione e, atteggiandosi a vindici de’ suoi diritti imprescrittibili, levano alto la voce e fieramente gridano: – Il vostro dogma della presenza reale di Cristo viola tutte le leggi della natura, è il più manifesto insulto che si possa fare alla ragione: noi non possiamo, non dobbiamo ammetterlo. Per credere a questa vostra dottrina dovremmo cessare d’essere uomini, abdicare alla ragione e fare a Dio, che ce l’la data, il massimo degli oltraggi -. Sono questi i razionalisti antichi e moderni. Gli altri ci muovono incontro a nome della stessa fede e armati della Scrittura e della autorità della tradizione, ci dicono: – Voi non intendete né quella, né questa: voi fate dire a Cristo e alla tradizione ciò ch’essi non insegnarono: voi falsate i Libri Santi; voi fraintendete i Padri e la dottrina della Chiesa antica: la dottrina della presenza reale è dottrina vostra, introdotta più tardi, e come tale vuolsi sbandire -. Ai razionalisti antichi e moderni risponderemo nel Ragionamento seguente colle armi della difesa, che sono bastevoli all’uopo, né altre si possono esigere da noi là dove si tratta d’una dottrina, che eccede le forze tutte della natura e della ragione umana. Agli avversarii, che discendono in campo contro di noi colle armi della Santa Scrittura e della veneranda antichità cristiana, risponderemo usando delle stesse armi, e condizioni pari. Voi ci provocate sul campo della interpretazione biblica e patristica: di buon grado accettiamo la lotta e giudici della stessa siano i nostri lettori, e, osiamo dirlo, gli stessi nostri avversari onesti e leali. –  Vero è che codesti avversarii, che protestano di impugnare le sole armi della Scrittura, se bene sì guarda, sono alleati dei razionalisti e spesso senza confessarlo si schierano nelle loro fila e combattono colle loro armi stesse. Ma checché sia di queste occulte alleanze coi razionalisti, noi qui accettiamo il duello sul terreno, sul quale ci sfidano. Essi dicono: – I Libri Santi del Nuovo Testamento intesi a dovere non istabiliscono la dottrina della presenza reale -. Noi diciamo precisamente il contrario: – I Libri Santi del Nuovo Testamento intesi a dovere stabiliscono ad evidenza la dottrina della presenza reale -. Essi dicono: – I Padri della Chiesa antica stanno per noi -. Noi diciamo: – Essi stano contro di voi e per noi -. Alla prova. È questione di semplice interpretazione e non difficile -. Sono tre Evangelisti, Matteo (XXVI, 26-28), Marco, (XIV, 22), Luca (XXXII, 19 e seg.) e l’ Apostolo Paolo (1° Cor., XI, 23 e seg.), i quali tutti, narrando la cena ultima di Nostro Signore, riferiscono colle identiche parole l’istituzione della Santa Eucaristia: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue ». Sulla autenticità ed integrità di queste parole per noi Cattolici come pei Protestanti di tutte le comunioni non esiste ombra di dubbio: perfettissimo è il consenso. Ciò posto ci sembra di poter ragionare in questa forma: Se le parole pronunciate da Cristo sul pane, che teneva in mano: « Questo è il mio Corpo » e sul vino, ch’era nel calice: « Questo è il mio sangue » si devono intendere nel loro senso proprio e naturale per modo che il corpo significhi il corpo e il sangue significhi il sangue e non altro, è chiaro che la presenza reale è messa fuori d’ogni dubbio. Or bene: il più volgare buon senso vuole che alle parole si dia quel significato che loro è proprio e naturale semprechè non vi sia necessità manifesta di darne uno metaforico e figurato. Qui nostro Signore dice che quel pane è il suo Corpo e quel vino è il suo Sangue: con qual diritto gli muteremo noi le parole in bocca, facendogli dire: – Questo pane è figura del mio corpo – Questo vino rappresenta il mio sangue. – Questo pane contiene la virtù del mio corpo – Questo vino racchiude la efficacia del mio sangue? – Se le parole corpo e sangue usate da Nostro Signore non si doveano prendere alla lettera per Corpo e sangue, perché mai Cristo non lo disse, o almeno non lo lasciò capire in modo indiretto? Perché mai i quattro Scrittori ispirati con un consenso veramente singolare ripetono quelle parole: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue? » Perché l’uno o l’altro per togliere i pericoli dell’errore, per dissipare il dubbio, ch’è troppo naturale in cosa sì nuova e al tutto inaudita e nemmeno immaginabile, non disse: – Questo pane figura il mio corpo – Questo vino è l’immagine del mio sangue? – Ci voleva sì poco per chiarire la verità! La qual cosa, poi era tanto più naturale quantochè non è raro il caso, in cui gli Evangelisti trovano conveniente spiegare il senso di alcune espressioni meno oscure e meno gravi di queste. S. Giovanni dopo aver riferite le parole di Cristo dette agli Ebrei: « Sciogliete questo tempio » crede bene aggiungere: – Ciò diceva del tempio del suo corpo -. Dopo aver riferito quelle altre: « Chi ha sete venga a me e dal suo seno scorreranno rivi » spiega la cosa e dice: – Questo Gesù diceva dello Spirito Santo, che i credenti avrebbero ricevuto -. E un altro Evangelista, riportata la frase di Cristo: « Guardatevi dal lievito dei farisei » la chiarisce, dicendo: – Che è l’ipocrisia -. Perché dunque nessuno dei quattro sacri Scrittori ebbe cura di far capire con una sola parola, con un solo cenno indiretto, che le parole corpo e sangue pronunciate da Gesù doveansi intendere in senso improprio e figurato? Perché questo senso non vi era e doveansi intendere nel loro senso proprio e comune di vero corpo e di vero sangue! – Oltrecchè noi apprendiamo dallo studio degli Evangelii e dalle Lettere di S. Paolo, che sono ben poche quelle verità e quelle istituzioni di Cristo, che siano riferite unanimemente colle stesse parole dagli Evangelisti e da S. Paolo: non lo stesso dogma della Santissima Trinità, non il Battesimo, non il Primato di Pietro, non la Confessione e andate dicendo: la sola istituzione della Santa Eucaristia è narrata da tre Evangelisti e da S. Paolo, senza mutarne una sillaba, e da Giovanni riportata a lungo perché omessa dagli altri. Perché tanta cura e consenso in riferirla con le stesse parole? Certamente perché cosa di suprema importanza. Ora vi domando: se l’Eucaristia non è che il simbolo del corpo e del sangue di Cristo, od una cotal sua virtù, sarebbe essa una gran cosa? Sarebbe meno del Battesimo, meno della Confessione e del Primato di Pietro. Dunque l’Eucaristia non è, non può essere una povera figura del corpo e del sangue di Cristo; ma sì la realtà e verità della sua presenza. Senza di che è da osservare che un linguaggio metaforico e improprio nel parlare comune non si usa, né si deve usare se non si può facilmente intendere, massime se si parla a gente poco istruita e di grosso intendimento: e se pure si vuole usare, ogni ragion vuole che accuratamente si spieghi per non indurre in errore gli uditori. Ora presso gli Ebrei era forse in uso che il pane indicasse il corpo, e che il vino indicasse il sangue? No, per fermo: nessuno pigliava il pane come segno del corpo e il vino segno del sangue. Gesù Cristo adunque non poteva usare quella metafora affatto ignota e meno ancora doveva usarla cogli Apostoli sì tardi ad intendere le cose più comuni fino a confondere il lievito della dottrina con quello del pane; fino a non comprendere; che non sono i cibi presi materialmente quelli che macchiano l’anima e a provocare quel duro rimprovero, che Gesù rivolge loro. La volle usare? Lo poteva, ma a patto di spiegarla in guisa che capissero essere figura e non realtà e per conseguenza dovea dire o far dire agli Evangelisti: – Questo è il mio corpo, cioè figura del mio corpo – Questo è il mio sangue, cioè figura del mio sangue -. Nol disse, non lo fece dire, non lo spiegò, non lo fece spiegare: ragion vuole che pigliamo le sue parole quali sono e che il corpo sia il corpo, e il sangue sia il sangue. – Direte voi che la evidente impossibilità della cosa costringeva gli Apostoli a dare alle parole di Cristo un senso figurato? Rispondo: Gli Apostoli Sapevano che Cristo era Dio; avevano visto tante meraviglie, tanti e sì splendidi prodigi operati da Lui: un anno prima aveano udita dalla sua bocca la promessa di ricevere un giorno la sua carne in cibo e la sua bevanda in sangue: ricordavano lo scandalo suscitato da quella promessa con tanta asseveranza affermata e le proteste di Pietro a nome di tutti di credere alle sue parole: sapevano imminente la morte del divino Maestro e udivano da Lui stesso, essere quello il suo Testamento: come non dovevano credere, essere quello il compimento della promessa avuta, il suggello del suo amore e perciò, non una semplice figura (cosa insignificante), ma la verità del suo corpo? A Lui, che aveva mutato l’acqua in vino, che aveva risuscitato Lazzaro: a Lui questo pure era possibile e perciò potevano, anzi dovevano interpretare il linguaggio di Cristo nel senso che aveva e che importava un grande miracolo. Ma se l’Eucaristia non era che una figura del suo corpo, non era miracolo e si riduceva ad una prova di amore della più lieve importanza di gran lunga inferiore a tante altre per essi ricevute. Ne è da dimenticare il tempo, l’ora, in cui Gesù compiva quell’atto e pronunciava quelle parole. Era quella l’ultima cena, che Gesù faceva co suoi cari: pochi momenti lo separavano dalla sua passione: vedeva i suoi nemici raccolti a consiglio e deliberanti sul modo e sul luogo di impadronirsi della sua Persona: vedeva al suo lato il traditore, che l’aveva venduto: tratto tratto il suo volto si oscurava e una mortale angoscia affannava l’anima sua e non la nascondeva a’ suoi cari: il suo cuore si apriva come un padre amoroso, che sta per abbandonare i suoi figli, e dalle sue labbra cadevano parole d’una confidenza, d’un affetto, d’una tenerezza, che gli stessi Apostoli non avevano mai udito le eguali: essi pure ne erano stupiti. E voi potete immaginare che in quella espansione ineffabile d’una tenerezza ineffabile Gesù pensasse a darne la prova a tutti i secoli venturi con questa espressione inintelligibile: – Sappiate che in questo pane vi lascio il simbolo del mio corpo, e in questo vino il simbolo del mio sangue? -. Si può dare idea più strana, trovato più inesplicabile, e vorrei dire più ridicolo di questo? In quei momenti solenni poteva tenere un linguaggio più oscuro? Eppure era allora che i poveri Apostoli, scossi dalle sue parole sì chiare e sì piene d’amore, esclamavano: « Ecco, ora parli chiaramente e non dici parabola alcuna: ora sappiamo che conosci tutte le cose e non hai bisogno che altri ti interroghi ». (Giov. XVI, 29, 3). Allora adunque il linguaggio di Cristo era chiaro, netto, sciolto da figure e metafore. Come lo sarebbe stato se le parole della consacrazione, senza spiegazione di sorta, intese come una metafora, erano un enigma? E non è tutto: è un fatto storico indubitato che gli Apostoli, i primi Cristiani, la Chiesa tutta fino al secolo XVI intesero le parole di Cristo nel loro senso proprio ed ovvio: appoggiati a quelle parole essi credettero sempre e tutti e fermamente la presenza reale di Cristo nella Eucaristia. (Nel secolo XI, Berengario, forse il primo, intese le parole di Cristo in senso figurato: fu combattuto e condannato e si ritrattò. Da Berengario a Zuinglio nessuno più, che si sappia, pensò a quella interpretazione). Possibile che tanti uomini, sì pii e sì dotti, per tanti secoli, gli stessi Apostoli, che udirono quelle parole dalle labbra di Cristo, non le intendessero e cadessero nell’enorme errore di credere presente Cristo nella Eucaristia, mentre non lo era, di adorare un po’ di pane e di vino in luogo dell’Uomo-Dio? E allora a che si ridusse per tanti secoli l’opera di Cristo? E più ancora. Noi tutti Cattolici e protestanti siamo unanimi nel professare che Gesù Cristo è Dio-Uomo. Come Dio-Uomo, Egli conosceva tutto, non occorre il dirlo. Allorchè adunque sedeva a mensa con i suoi Apostoli, in quell’ultima sera e, porgendo loro il pane e il vino; diceva: « Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue », lo sguardo suo onniveggente penetrava nelle menti loro e spaziava su tutti i milioni e miliardi di credenti futuri: e che vedeva? Vedeva tutti questi credenti, pieni d’amore per Lui, pronti a dare la vita per Lui, e moltissimi l’avrebbero data in mezzo ai tormenti, cader vittime d’un errore grossolano, d’una superstizione incredibile, d’una idolatria, che non ha l’eguale nella Storia dell’umanità, quella di adorare il Pane e il vino! Vedeva che la causa od occasione di tanta aberrazione proveniva da quelle sue quattro parole, intese alla lettera e ciò per la fede smisurata nella sua potenza e per l’ardentissimo amore, che faceva loro credere possibile tanto miracolo: vedeva che sostituendo a quella sola parola, la parola rappresenta o figura, sarebbesi cessato l’immenso errore e la detestabile superstizione: come credere che non l’avrebbe voluto impedire? Come immaginare che non volesse dire quella parola, che spiegava la verità e rendeva facilissima la fede nell’incomprensibile mistero? Per me, lo confesso altamente, non saprei concepire come Gesù, l’amabile maestro, sempre pronto a rischiarare la verità, ad istruire i suoi Apostoli, a togliere ogni dubbio anche in cose di poco momento, potesse permettere col tacere sì falsa e sì empia interpretazione delle sue parole e proprio allora che faceva il suo Testamento ed era per immolare sé stesso a loro salvezza. Dare per essi la vita sulla croce e rifiutare una parola che bastava a dissipare l’errore! è possibile? – S. Luca e S. Paolo alle parole di Cristo: « Questo è il mio corpo » fan seguire quest’altre: « Che è dato per voi – Che si spezza per voi. – Questo è il calice del mio sangue – Che si sparge per voi ». Ora si chiede: se è il pane che si dà o si spezza; se è il vino che sì versa per la salvezza degli uomini, oppure il corpo e il sangue di Cristo? La risposta non può essere dubbia: dunque quel pane che si spezzava e si dava: quel vino, che si porgeva, erano veramente il corpo e il sangue di Cristo. Se così non fosse, le parole di Lui non avrebbero senso, o l’avrebbero sacrilego. – Scorrendo gli Evangeli ci si presenta un fatto degno di considerazione. Delle verità e delle istituzioni capitali si parla più volte e si annunziano prima di proclamarle e stabilirle definitivamente. Così il Battesimo, la fondazione della Chiesa, l’istituzione del Primato di Pietro, la Missione degli Apostoli, la sua passione, la sua morte e la sua risurrezione, Cristo più e più volte annunziò, predisse e promise agli Apostoli chiaramente all’intento di preparare gli animi a credere e disporli alle dure prove, che li attendevano. Ma, non esito ad affermarlo, nessuna verità, nessuna istituzione Egli annunziò, predisse e promise con tanta chiarezza, con tanta forza e direi quasi con tanta durezza quanto l’Eucaristia. E potremo noi credere, dopo sì solenne annunzio e promessa di Cristo, che l’Eucaristia si riduca ad un simbolo, ad una figura, che è la cosa più facile a concepirsi, che esclude ogni mistero ed è priva d’ogni importanza reale? A voi il giudizio. – Intanto consideriamo in ogni sua parte la promessa della Eucaristia, che si legge nel capo VI del Vangelo di S. Giovanni che avvenne un anno circa prima della istituzione. L’Evangelista narra il miracolo della moltiplicazione dei pani, che fu operato il dì innanzi alla promessa. Evidentemente Gesù Cristo fece quel miracolo per aprirsi la via a parlare della Eucaristia e con esso ottener fede al miracolo senza confronto più grande della presenza reale. Seguiamo il discorso di Cristo. Dopo aver inculcata la necessità della fede e di nutrirsi d’un altro pane, migliore della manna del deserto, pane che dà la vita, continua e apertamente dice qual sia codesto pane: « Il pane, che io vi darò, è la mia carne, che dà la vita al mondo ». Gesù parla di pane, che darà: dunque non è la fede, perché questa allora si esigeva e non pel futuro. Che pane è desso? Lo dice Egli stesso in termini: « Il pane che vi darò è la mia carne ». È forse la grazia? No, perché in tutti i Libri Santi non troverete che Gesù Cristo abbia chiamato carne sua la sua grazia. Sarebbe stato un linguaggio non più udito, non inteso, perché oscurissimo e da Lui non ispiegato. Ed è sì vero che quella parola carne pronunciata da Cristo tornava strana e nuova agli uditori tutti, compresi certamente gli stessi Apostoli, che nacque tra loro contesa e dicevano gli uni agli altri: « Come può costui darci a mangiare la sua carne? ». Erano dunque persuasi che Gesù parlava della sua carne, che si doveva mangiare per avere la vita eterna, e non di un pane figurato o di qualsiasi cibo spirituale. Gesù intese che gli uditori suoi contendevano sul significato delle sue parole e precisamente sulla carne, che si doveva mangiare. Che fa egli ogni maestro degno di questo nome, allorché si accorge che le sue parole, o non sono intese, o sono malamente fraintese? S’affretta a spiegarne il senso, e se nol fa, fallisce al suo dovere, incorre giustamente il biasimo delle persone oneste e l’errore dei discepoli a ragione si imputa al maestro. Gesù era il Maestro per eccellenza; il suo linguaggio era sempre d’una semplicità incomparabile: ogni qualvolta i discepoli non lo comprendevano non disdegnava di spiegarsi meglio, adoperando i termini e le immagini più comuni. Il Vangelo è là a provarlo. Che doveva dunque egli fare Gesù allorché udì quel lamento: – Come può Costui darci a mangiare la sua carne? – Essi evidentemente avevano inteso che parlasse, non di fede, non di grazia, non di pane figurato, ma propriamente della sua carne. Come Maestro pieno di bontà, compatendo la loro ignoranza, doveva subito correggere il loro errore e dire: – Voi errate: io non parlo della mia carne, che dovete mangiare, no: io parlo della fede, che dovete avere in me, che deve essere il vostro cibo: parlo del pane, che un giorno vi darò e voi piglierete come figura del mio corpo -. Ogni difficoltà si dileguava dalla mente degli uditori. È così che Gesù parla? Udite. Con atteggiamento pieno di autorità, che non ammette replica, risponde: « In Verità, in verità vi dico, che se voi non mangiate la carne del Figliuolo dell’uomo e non bevete il suo sangue, voi non avrete la vita in voi! » Come, o divino Maestro? Questi uditori e discepoli non sanno comprendere come sia possibile, che voi diate loro a mangiare la vostra carne e ve ne chiedono la spiegazione, e voi raddoppiate la difficoltà, affermando che devono bere il vostro sangue? E voi sapete come la legge Mosaica, di cui sono gelosi osservatori, vieti loro severamente bere il sangue sotto qualsiasi forma? Se questi vostri uditori e discepoli non comprendono il vostro linguaggio, benigno come siete, spiegatelo: se colla parola carne e sangue intendete la figura o la virtù della vostra carne e del vostro sangue, o la grazia, o la fede, o ciò che a voi meglio piace, non vogliate tormentare e quasi opprimere le corte loro menti: parlate, parlate più chiaro: basta una sola parola!…. Nulla di tutto ciò. Gesù ribadisce la stessa cosa e dopo avere affermato con una forma solenne, quasi di giuramento: « In verità, in verità vi dico » continua e dice: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno ». Bastava questa sentenza, che è la ripetizione della antecedente. Eppure a Gesù non basta ancora e prosegue: « Perché la mia carne è veramente cibo ed il mio sangue è veramente bevanda ». La frase è ad un tempo ripetizione e spiegazione delle altre: ripetizione, perché troviamo sempre le parole carne e sangue; spiegazione, perché dice che la sua carne è ordinata ad essere cibo, il suo sangue bevanda e solo chi mangia di questa carne e beve di questo sangue si unisce a Lui, e rimane in Lui. Poteva esprimersi con maggiore chiarezza ed asseveranza? Sei volte Gesù ripete la parola mangiare, cinque volte la parola carne, quattro volte la parola bere, e quattro pure la parola sangue: non una sola volta le parole figura, segno, virtù od altra equivalente, che lasci anche solo da lungi sospettare, non trattarsi veramente della carne e del sangue adorabile del Figliuol di Dio. È dunque ragionevole, è necessario pigliare le parole di Cristo nel loro senso comune e naturale, perché così Cristo volle e non altrimenti: dunque nella Santa Eucaristia è veramente, realmente e sostanzialmente presente il corpo e il sangue di Gesù Cristo. Egli lo disse e come disse deve essere. Né è da omettere un ultimo argomento, che getta una luce ancor più viva sul senso delle parole di Cristo, che avete udite. S. Giovanni, che contro il suo costume si diffonde su questo fatto, scrive: – Che molti dei discepoli, udito il discorso di Gesù, dissero: « Questo parlare è duro; chi può ascoltarlo? » (È noto che S. Giovanni nel suo Vangelo è più sollecito di riferire le parole e la dottrina di Cristo che i fatti: questi sono pochi assai. Eppure su questo fatto, sia nei precedenti, sia nei conseguenti si diffonde. E perché duro? Senza dubbio è duro, perché non sanno comprendere come Gesù possa dare qual cibo la sua carne e qual bevanda il suo sangue. Non vi sarebbe nulla di duro se quel pane e quel vino fossero figura del corpo e del sangue di Cristo, o ne contenessero la misteriosa virtù. Dunque quei discepoli intendevano le parole di Cristo come noi ora le intendiamo. Ponete che tale non fosse il senso vero delle sue parole: non era dovere di Cristo rettificarlo? Che fa Egli? Udendo il bisbiglio de’ suoi discepoli, con accento ancora più risoluto, a Lui insolito co’ suoi cari, dice: « Ciò che vi ho detto vi scandalizza – e non lo potete credere? Che sarà allorché vedrete il Figliuol dell’uomo salire là dov’era prima? Allora sarà anche più difficile il comprenderlo; eppure lo dovrete credere ». A quelle parole alcuni dei discepoli non ressero: gli volsero le spalle e l’abbandonarono. A quella vista Gesù mutò forse linguaggio? Temperò forse le sue espressioni? Disse forse: – Badate ch’io parlo della fede, della figura del mio corpo e del mio sangue. Che difficoltà trovate voi che nell’Agnello pasquale avete già la figura mia? – Nulla di tutto ciò: con volto austero, e parola vibrata si rivolse ai dodici Apostoli, che gli facevano corona, e disse: « Volete andarvene voi pure? – Se non volete credere a ciò che vi ho detto, andatevene: non muto sillaba ». Quelli rimasero e Pietro a nome di tutti uscì in quella nobilissima protesta: « Signore, a chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna ». Fratelli! Un’ultima osservazione, che mi sembra di grandissimo peso. Dopo il discorso di Cristo, avviene una divisione tra’ suoi discepoli, come avete udito. Rimangono fedeli a Lui quelli che credono alle parole sue, quelli cioè che credono doversi mangiare la sua carne e bere il suo sangue per avere la vita eterna: l’abbandonano quelli che non possono e non vogliono ammettere tanto miracolo e che certo non avrebbero avuto difficoltà a rimanere con Lui e credere quando si fosse trattato d’una semplice figura del corpo e del sangue di Cristo. Ora’ se Cristo nelle sue parole non istabiliva la presenza reale del suo corpo, ma solo la figura o la virtù sua, quale ne sarebbe stata la conseguenza? Questa e non altra: Cristo avrebbe ritenuto presso di sé e tenuti come suoi discepoli fedeli quelli, che non comprendevano le sue parole e cadevano in un gravissimo errore e lasciava che da Lui partissero quelli, che avevano compreso il suo linguaggio e se ne andavano per non voler ammettere un errore grossolano, che il Maestro condannava. Possiamo noi dar luogo ad una ipotesi sì assurda ed empia? Eppure, se noi accettiamo l’interpretazione protestante, la conseguenza è inevitabile: rimasero con Cristo gli erranti, lo abbandonarono quelli che respingevano l’errore e Cristo non solo permise, ma volle sì manifesta contraddizione! Ve lo dissi più sopra: quanto alla istituzione della Santa Eucaristia, S. Paolo, quasi dimenticando l’indole d’una lettera, assume il carattere di Evangelista e la narra distesamente colle stesse parole di S. Luca, suo discepolo. Ma, riferito il fatto della istituzione, come voleva il suo scopo, scostandosi dagli Evangelisti, discende alla applicazione morale e scrive: « Chi riceve indegnamente l’Eucaristia si fa reo del corpo e del sangue di Lui ». Reo di lesa maestà è colui che direttamente offende la persona del principe, non mai chi fa ingiuria alla sua immagine: nella Eucaristia adunque si contiene, non la figura o la virtù di Cristo, sebbene la persona sua stessa. E poi i Protestanti condannano il culto delle immagini quasi un ritorno alla idolatria: come dunque nella Eucaristia riconoscerebbero una figura e tal figura del corpo di Cristo, che chi fa onta a questa, la faccia a Cristo istesso? – Vuole l’Apostolo che chiunque mangia del pane Eucaristico e del vino del calice, prima metta a prova se stesso; cioè scruti la sua coscienza e se la trova rea di colpa, o si astenga dalla Eucaristia, o se ne mondi. Se l’Eucaristia non fosse che la figura del corpo di Cristo sarebbe egli necessario premettere l’esame di coscienza e purificarla col dolore? Quando mai si disse non potersi contemplare il Crocifisso da chi si trova in peccato e il contemplarlo in peccato essere sacrilegio? Eppure S. Paolo insegna che chi riceve l’Eucaristia in peccato mangia e beve la sua condanna eterna. E perché? Perché, risponde l’Apostolo, non distingue il corpo del Signore – Non diiudicans corpus Domini -. Dunque vi è pane e pane; il pane comune, e il pane Eucaristico, che è il corpo del Signore. Qual prova che questo pane non è, non può essere una nuda figura, ma la verità del corpo di Cristo? Fratelli! Penso che codesta lunga dimostrazione biblica della presenza reale di Cristo nella Santa Eucaristia vi abbia recato noia e fastidio. Ma poteva io passarmene? Poteva io tenere in nessun conto la interpretazione protestante sopra questo capitolo della nostra fede? La mia sarebbe stata una colpa e quasi dissi una implicita confessione di impotenza in faccia ai nemici della presenza reale, che ci si fanno innanzi coi Libri Sacri alla mano e si vantano di tenerne essi soli la chiave. – Ma la dimostrazione cavata dalla Bibbia, tuttoché perentoria, sarebbe imperfetta quando non fosse avvalorata dalla autorità del Magistero della Chiesa, che ne è il riflesso e l’interprete infallibile. La verità rivelata è simile al seme: deposto nei Libri Santi, cresce e vigoreggia, quasi albero lussureggiante, nella Chiesa. Mi duole, o fratelli, dovervi spiegare sotto gli occhi la fede della Chiesa Cattolica dei primi secoli nel dogma della presenza reale, fede, che si manifesta in mille forme svariatissime: dico, mi duole, perché vi obbligo ad udir cose già conosciute e l’udirle ripetere non è senza molestia. Ma è una necessità dell’ordine ed io mi studierò di rendervi men grave quest’ultima parte colla maggiore brevità possibile e col ridurre a pochi capi tutto l’insegnamento della veneranda antichità cristiana per ciò che spetta alla presenza reale di Cristo nella divina Eucaristia, Svolgiamo i cento volumi, nei quali i Padri della Chiesa da S. Ignazio martire fino a S. Bernardo, nel corso non interrotto di undici secoli deposero il tesoro della fede, che gli Apostoli raccolsero dalla bocca di Cristo stesso: svolgiamo tutti i libri liturgici, la cui origine risale alla culla del Cristianesimo, di tutti i riti, di tutte le Chiese d’Oriente e d’Occidente, non escluse le separate da noi, di tutte le lingue: interroghiamo tutte le memorie cristiane antiche, scolpite sui monumenti in pietra, in cristallo, in bronzo, in argento, in oro, nei templi, sui sepolcri, sulle pareti delle Catacombe; dipinte sulle tavole, sugli indumenti sacri: in una parola interroghiamo tutta l’antichità cristiana in tutti gli angoli della terra, ed essa colle mille sue lingue, colle quali professa la sua fede, ci risponderà, che sempre, dovunque e unanimemente e fermissimamente ha creduto, nella Eucaristia contenersi l’Uomo-Dio, il Figlio di Dio e della Vergine, Gesù Cristo, il Salvatore del mondo. Odo la gran voce dei Padri, che salutano il Sacramento Eucaristico come il Sacramento dell’unione con Dio, della nostra consumazione con Lui, come il Sacramento dei Sacramenti, il mistero santo, il mistero terribile, il mistero tremendo, il mistero adorabile, il mistero dell’amore e della fede, la sorgente della vita, la prova suprema della carità divina, il Sacramento, nel quale Gesù Cristo diè fondo alle ricchezze infinite della sua bontà. — Riducete l’Eucaristia ad una figura, a non so quale comunicazione della virtù propria al corpo di Gesù Cristo: quel linguaggio dei Padri non ha senso, è una esagerazione intollerabile: ammettete la presenza reale e diventa l’espressione rigorosa e propria della verità. – Odo la gran voce dei Padri, che gridano: In questo Sacramento non badate ai sensi: la loro testimonianza vi inganna: ascoltate la fede, la sola fede: essa supplisce agli occhi, al tatto, al gusto: essa è tutto: qui bisogna fermare la nostra mente sulla parola di Cristo. – Perché questo linguaggio si usa dai Padri parlando della sola Eucaristia e sempre a preferenza della sola Eucaristia? Perché l’Eucaristia è il culmine dei misteri cristiani, a tutti sovrasta i Sacramenti e a tutti sovrasta, perché se gli altri racchiudono, conferiscono la grazia di Cristo, questo contiene Cristo stesso. Pensatevi finché vi piace, voi non vedrete altra ragione della sua eccellenza sopra il Battesimo, porta della Chiesa e sulla stessa Ordinazione, partecipazione del sovrano Sacerdozio di Cristo. – Odo la gran voce dei Padri, che mi assicurano, per la Santa Eucaristia, noi, venuti tanti secoli dopo Cristo, essere fatti contemporanei di Cristo, possederlo com’essi lo possedevano, vederlo, toccarlo com’essi lo vedevano e toccavano – Perché nessun Padre mai usò espressioni come queste, ragionando degli altri Sacramenti? A voi la risposta. – Odo la gran voce dei Padri, che mi dicono: nella Eucaristia il pane si muta, si converte, si trasforma, diventa il corpo di Cristo e il vino nel sangue di Lui. Non basta: mi dicono che, come il fango per virtù divina si mutò nel corpo di Adamo e l’acqua alle nozze di Cana fu fatta vino, e il cibo, che noi pigliamo diventa nostro sangue e nostra carne, così il pane ed il vino, posti sull’altare, alla voce del Sacerdote si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo. È egli possibile intendere queste parole tante volte ripetute e inculcate dai Padri, rigettando la presenza reale e la transustanziazione? – Odo la gran voce dei Padri, che predicano, l’Eucaristia essere l’opera della onnipotenza divina: Quegli solo poterla produrre, che disse e tutto fu fatto. Se noi non vi vediamo che un nudo ricordo, una figura di Cristo, dov’è il bisogno della sua onnipotenza? Chi di noi non può creare un simbolo e lasciare dopo di sé una memoria, che rammenti la nostra esistenza, o qualcuna delle opere nostre? – Odo la gran voce dei Padri, che nelle forme più chiare ed energiche insegnano, nella Santa Eucaristia essere veramente, realmente, propriamente, certamente tutto Cristo qual fu sulla terra ed ora è in cielo: non in figura, non in apparenza, non per ombra, ma nel suo vero corpo e sangue: che nella Eucaristia Egli si unisce a noi e noi a Lui: che il suo sangue si confonde col nostro: che le nostre labbra e la nostra lingua rosseggiano di esso; che il nostro corpo si impingua del suo: che Gesù Cristo è lì sull’altare come sulla croce: che l’altare diviene il cielo: che il Sacerdote lo tiene tra le sue braccia come tra le sue lo teneva la Vergine benedetta: che gli Angeli fanno corona all’altare, adorando il loro Re: che in questo Sacramento Gesù fa ciò che non fanno molte madri coi loro bambini, perché queste li danno a nutrire a donne estranee e Quegli ci nutre delle sue carni, ci abbevera del suo sangue. – Odo la gran voce dei Padri, che mi insegna, Gesù aver nascosto il suo corpo sotto i veli eucaristici per esercitare la nostra fede, perché più fidenti ci avviciniamo a Lui, perché lo possiamo ricevere dentro di noi. Se non fosse nascosto sotto le specie del pane e del vino, come potremmo noi avvicinarci a Lui, sostenere il fulgore della sua luce e albergarlo ne’ nostri petti? Odo la gran voce dei Padri, che non esitano ad asserire, che le parole di Cristo: – « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue » – sono chiare, manifeste, indubitate: che non hanno bisogno di spiegazione; che si hanno da prendere come suonano, perché Egli è onnipotente: Egli l’ha detto e basta: che dobbiamo guardarci dallo scrutare tanto mistero: qui la ragione deve tacere, devono ammutolire i sensi e al loro luogo comandare la fede, la sola fede, se non vogliamo errare. Gran cosa! Leggo i Padri e trovo, che mi dicono: – Bada bene: se i Libri Santi insegnano, che Dio sì pente, che Dio si sdegna, che Dio cammina, che Dio ha occhi e orecchi, che Dio odia; tu non devi credere che Dio veramente si penta, che Dio si sdegni, che Dio cammini, che Dio abbia occhi e orecchi, che Dio odii: nulla di tutto questo può essere in Dio, infinita perfezione. I Libri Santi parlano così perché a te, uomo soggetto ai sensi, non possono parlare altrimenti. — Perché questi Padri stessi, parlando dell’Eucaristia e commentando le parole di Cristo: « Questo è il mio corpo – Questo è il mio sangue » non hanno cura di avvertirmi: – Poni ben mente: il corpo di Cristo, di cui qui si parla, non è il suo vero corpo; il sangue non è il suo sangue: ma sono l’uno e l’altro figurati nel pane e nel vino, che vedi -. E sì qui maggiore era la necessità di spiegare la cosa che non là dove si parla di Dio, perché ciascuno intende da sé che quelle imperfezioni disdicono a Dio, natura semplicissima e perfettissima, dovecchè nell’Eucaristia si parla di corpo, sotto corporee specie e questa metafora del pane e del vino significanti il corpo e il sangue di Cristo non s’era udita sulla terra e non ispiegata confondeva necessariamente tutte le menti. –  Finalmente odo la gran voce dei Padri, che a tutti i credenti intimano: – Piegate il ginocchio, chinate la fronte, e nella Santa Eucaristia, nel tempio, sulle vie, in pubblico, in privato, dovunque la trovate, nelle mani del Sacerdote, del Vescovo, del Papa, fosse anche nelle mani d’un laico, non importa, adoratela -. Perché? – Perché in essa è il Figlio di Dio, Gesù Cristo, in corpo, sangue, anima e Divinità -. È a questa voce dei Padri, della Chiesa Cattolica, che riempie i secoli e lo spazio, fanno eco le Chiese, che lo scisma e l’eresia divelsero dalla nostra, la Chiesa Inglese e la Luterana stessa, la Russa e la Foziana, l’Armena e la Nestoriana e la Eutichiana. Quale concento meraviglioso, o fratelli! E tutti costoro, pastori e fedeli, maestri e discepoli, sarebbero caduti nell’errore? Che dico nell’errore! Nella più turpe idolatria? Se così fosse, avrei tutto il diritto di rivolgermi a Cristo e dirgli: – O Figlio di Dio, venisti sulla terra per stabilire il tuo Regno, per fondare la tua Chiesa, e formarti di essa una sposa fedele senza macchia e senza ruga: per essa Tu versasti il sangue e nel suo seno versasti i tesori tutte delle tue grazie: Essa dichiarasti Maestra infallibile e quelli sono tuoi figli ch’Essa ti genera. Ora dov’è questa tua Chiesa? Questa tua sposa? Questa continuatrice dell’opera tua? Questa salvatrice dell’uman genere? Dov’è questa lucerna inestinguibile, che Tu accendesti e collocasti sul monte, perché illuminasse le vie della vita? Essa è spenta: Essa non è più: la tua sposa è infedele: l’opera tua è distrutta, il frutto del tuo sangue è perduto, rovesciato il tuo regno: la tua Chiesa, che dicesti non sarebbe mai vinta dalle porte dell’inferno, orrore! è caduta nella più abbietta idolatria! – Vedila colla fronte nella polvere adorare un po’ di pane e di vino! E Tu lo Potesti permettere? Tu, che con una sola parola potevi impedire tanto vituperio? – Ah, basta, basta, o fratelli. Ciò non è, non può essere: Cristo avrebbe fallito alle promesse! Il ginocchio a terra, o fratelli, e, fissi gli sguardi in quell’Ostia Sacrosanta, cantiamo coll’Angelo della Scuola: – Devoto io ti adoro, o nascosta Divinità, che ti veli sotto queste apparenze: il mio cuore si china innanzi a te, perché, pensando a te, sente d’essere nulla. L’occhio, il tatto, il gusto qui si ingannano: solo alla tua parola sicuramente si affida: credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio: non vi è nulla di più vero della tua parola di verità. Sulla croce la sola Divinità si occultava; qui anche l’umanità si ecclissa -. Credo, o Signore, credo -. Aiuta, sostieni la mia debolezza -. Amen.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Levit. XXI: 6
Sacerdótes Dómini incénsum et panes ófferunt Deo: et ideo sancti erunt Deo suo, et non pólluent nomen eius, allelúia.

[I sacerdoti del Signore offrono incenso e pane a Dio: perciò saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il suo nome, allelúia.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, unitátis et pacis propítius dona concéde: quæ sub oblátis munéribus mýstice designántur.

[O Signore, Te ne preghiamo, concedi propizio alla tua Chiesa i doni dell’unità e della pace, che misticamente son figurati dalle oblazioni presentate.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

1 Cor XI: 26-27
Quotiescúmque manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat: itaque quicúmque manducáverit panem vel bíberit calicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini, allelúia.

[Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché verrà: ma chiunque avrà mangiato il pane e bevuto il sangue indegnamente sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Fac nos, quǽsumus, Dómine, divinitátis tuæ sempitérna fruitióne repléri: quam pretiósi Corporis et Sanguinis tui temporalis percéptio præfigúrat:

[O Signore, Te ne preghiamo, fa che possiamo godere del possesso eterno della tua divinità: prefigurato dal tuo prezioso Corpo e Sangue che ora riceviamo].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “IL CORPUS DOMINI”

IL ” CORPUS DOMINI „

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Incola ego sum in terra.

(Ps. CXVIII, 19)

Queste parole, F. M., ci ricordano tutte le miserie della vita, il disprezzo che dobbiamo avere delle cose create e periture, ed il desiderio di uscirne per andare nella nostra vera patria, poiché la nostra patria non è il mondo. Tuttavia, F. M., consoliamoci nel nostro esilio: vi abbiamo un Dio, un amico, un consolatore ed un redentore, che può addolcir le nostre pene, e da questo luogo di miserie ci fa scorgere grandi beni; il che deve portarci ad esclamare, come la sposa dei Cantici: “Avete visto il mio diletto? e se l’avete visto, ah! ditegli che io altro non faccio che languire d’amore. „ — “Ah! sin a quando, Signore, esclama il santo Re profeta nei suoi trasporti d’amore e d’ammirazione; ahi sino a quando prolungherete il mio corpo esilio lontano da voi? (Ps. CXIX, 5)„ Ma, F. M., più felici dei santi dell’Antico Testamento, non solo possediamo Dio nella grandezza di sua immensità per la quale trovasi dappertutto; ma l’abbiamo ancora tal quale fu durante nove mesi nel seno di Maria, e sulla croce. Ancor più felici dei primi Cristiani che percorrevano cinquanta o sessanta miglia per aver la fortuna di vederlo, ogni parrocchia lo possiede, ogni parrocchia può goder quanto vuole della sua dolce compagnia. Ah! popolo felice quello dei Cristiani! E qual è, F. M., il mio proposito oggi? Eccolo. Voglio mostrarvi quanto è buono Iddio nella istituzione del sacramento adorabile della Eucaristia, ed i grandi vantaggi che ne possiamo cavare.

I. – F. M., ciò che forma la felicità d’un buon Cristiano, costituisce la sventura del peccatore. Ne volete la prova? Eccola. Per un peccatore che non vuol uscire dal peccato, la presenza di Dio diviene il suo supplizio: vorrebbe poter cancellare il pensiero che Dio lo vede e lo giudicherà: si nasconde, fugge la luce del sole, si immerge nelle tenebre, ha orrore di quanto può richiamargliene il pensiero: un ministro di Dio gli fa ombra, lo odia, lo fugge: ogni volta che pensa d’avere un’anima immortale, che Dio la ricompenserà o la punirà nell’eternità, a norma di quanto avrà fatto: è per lui uno strazio che lo divora senza tregua. Ah! triste esistenza quella d’un peccatore che vive nel peccato! Invano, amico mio, vorresti toglierti dalla presenza di Dio, non lo potrai! ” Adamo, Adamo, dove sei? „ — ” Ah! Signore, esclama, ho peccato, e temo la vostra presenza! „ Adamo, tutto tremante, corre a nascondersi, e proprio nel momento in cui credeva che Dio nol vedesse, la sua voce si fa sentire: “Adamo, tu mi troverai dappertutto: tu hai peccato, ed Io fui testimonio del tuo delitto: i miei occhi eran fissi su di te. „ — “Caino, Caino, dov’ è tuo fratello? „ Caino, udendo la voce del Signore, fugge come disperato. Ma Dio l’insegue colla spada alle reni: “Caino, il sangue di tuo fratello grida vendetta (Gen. III, 10). „ Oh! è dunque vero che il peccatore è nel timore, nella disperazione continua. Peccatore, che facesti? Dio ti punirà. — No, no, esclama, Dio non mi ha visto, “non vi è Dio „ — Ahi disgraziato, Dio ti vede e ti punirà. Da ciò concludo che un peccatore può ben tentare di rassicurarsi, di dimenticar i peccati, di fuggir la presenza di Dio e procurarsi quanto il suo cuore può desiderare; non sarà che un infelice: trascinerà dappertutto le sue catene ed il suo inferno. Ah! triste esistenza! No, F. M., non andiamo più oltre, questo pensiero è troppo straziante, questo linguaggio non conviene oggi davvero: lasciamo quei poveri sventurati nelle tenebre, poiché vogliono restarvi: lasciamoli dannarsi, poiché non vogliono salvarsi. “Venite, figli miei, diceva il santo re David, venite, ho grandi cose da annunciarvi; venite, e vi dirò quanto è buono il Signore con chi l’ama. Ha preparato ai suoi figli un nutrimento celeste, che produce frutti di vita. Dappertutto lo troveremo il nostro Dio: se andiamo nel cielo, là Egli vi è; se traversiamo i mari, lo vedremo al nostro fianco; se ci nascondiamo negli abissi del mare, ci accompagnerà (Ps. XXXIII, XXXII, CXXXVIII). „ No, no, il nostro Dio non ci perde di vista, come una madre non perde di vista il bambino che incomincia a muovere i primi passi. “Abramo, dice il Signore, cammina alla mia presenza e la troverai dappertutto. „ — “Mio Dio! esclama Mosè, mostratemi di grazia la vostra faccia: avrò quanto posso desiderare.„ (Es. XXXIII, 12). Ah! un Cristiano è consolato da questo caro pensiero che Dio lo vede, che Egli è testimonio delle sue pene e delle sue lotte, che Dio è al suo fianco. Ah! diciamo meglio, F. M., egli stringe Dio continuamente al suo seno. Ah! popolo cristiano, quanto sei avventurato di avere vantaggi che tanti altri popoli non hanno! E non aveva ragione di dirvi che se la presenza di Dio è un tormento pel peccatore, essa però è una felicità ineffabile, un cielo anticipato pel buon Cristiano? Sì, F. M., tutto questo è bello, è vero: ma è ancor poco, per così dire, in confronto dell’amore che Gesù Cristo ci porta nel sacramento adorabile dell’Eucaristia. Se parlassi ad increduli o ad empi che osano dubitare della presenza di Gesù Cristo in questo Sacramento adorabile, comincerei col dar loro delle prove così chiare e convincenti, da morir pel dolore d’aver dubitato d’un mistero basato su ragioni tanto forti e convincenti; io direi loro: Se Gesù Cristo è verace, lo è pure questo mistero, che preso del pane disse ai suoi Apostoli: « Eccovi del pane: ebbene lo cambio nel mio corpo; ecco del vino, lo cambio nel mio sangue: questo corpo è veramente lo stesso che sarà crocifisso, ed il sangue è lo stesso che verrà sparso per la remissione dei peccati: ogni volta che pronuncerete queste parole, voi farete il medesimo miracolo: questo potere voi lo comunicherete gli uni agli altri sino alla consumazione dei secoli „ Ma qui lasciamo da una parte queste prove: questo ragionamento è inutile per Cristiani, che tante volte gustarono le dolcezze che Dio loro comunica nel Sacramento d’amore. S. Bernardo ci dice che vi sono tre misteri ai quali non può pensare senza sentirsi il cuore morir d’amore e di dolore. Il primo è quello dell’Incarnazione, il secondo quello della Passione e Morte di Gesù Cristo, e il terzo quello del Sacramento adorabile dell’Eucaristia. Quando lo Spirito Santo ci parla del mistero dell’Incarnazione, adopera frasi che ci mettono nell’impossibilità di poter comprendere sin dove arriva l’amor di Dio per noi, dicendoci: “Così Dio ama il mondo, „ come se ci dicesse: lascio al vostro spirito, alla vostra immaginazione la libertà di formarvi quelle idee che vorrete: quand’anche aveste tutta la scienza dei profeti, i lumi dei dottori, le cognizioni degli Angeli, vi sarà impossibile comprendere l’amore che ebbe per voi Gesù Cristo in questi misteri. Quando S. Paolo ci parla dei misteri della Passione di Gesù Cristo, ecco come si spiega: “Benché Dio sia infinito in grazia e misericordia, sembra essersi esaurito per l’amor nostro. Eravamo morti, ci ha dato la vita. Eravamo destinati ad essere infelici per tutta l’eternità, e per sua bontà e misericordia cambiò la nostra sorte! (Ef. II, 4-6) „ Infine, quando S. Giovanni ci parla della carità che Gesù Cristo ebbe per noi istituendo il Sacramento adorabile dell’Eucaristia, ci dice « che ci ha amati sino alla fine » (Giov. XIII, 1) , „ cioè ha amato nel corso della sua vita l’uomo d’un amore senza confronto. Dirò meglio, F. M., ci ha amato quanto poteva amarci. O amore, quanto sei grande e poco conosciuto! Ecchè, amico mio! non ameremo un Dio che ha sospirato per la nostra felicità durante l’eternità intera?… Un Dio, che ha tanto pianto i nostri peccati, ed è morto per cancellarli! Un Dio, che volle lasciare gli Angeli del cielo, dov’è amato d’amor sì puro e perfetto, per venire in questo mondo, quantunque sapesse benissimo come sarebbe stato disprezzato. Conosceva anticipatamente le profanazioni di cui sarebbe stato oggetto in questo Sacramento d’amore. Sapeva che gli uni lo riceverebbero senza contrizione; gli altri senza desiderio di correggersi: altri forse col peccato nel cuore, e lo farebbero morire. Ma no, tutto questo non poté arrestare il suo amore. O popolo fortunato quello dei Cristiani!… “O città di Sion, rallegrati, fa conoscere il tuo giubilo, esclama il Signore per bocca del profeta Isaia, perché il tuo Dio abita in mezzo a te „ (Is. XII, 6). Sì, F. M., ciò che il profeta Isaia diceva al suo popolo, posso dirlo a voi, anzi con più verità. Cristiani, rallegratevi! Il vostro Dio vuol comparire in mezzo a voi. Questo tenero Salvatore vuol visitare le vostre piazze, le vostre e vie, le case vostre: dappertutto vuol spargere le sue benedizioni più abbondanti. O case avventurate, davanti alle quali egli passerà! O strade fortunate, che sosterranno i suoi passi santi! Potremo, trattenerci di dire dentro di noi, quando ritorneremo per la medesima via: Ecco dove è passato il mio Dio, ecco la strada che ha preso quando spargeva benefico le sue benedizioni su questa parrocchia. – Oh! quanto è consolante questo giorno per noi! Ah! se è permesso gustare qualche consolazione in questo mondo, non è in questo momento felice? Sì, dimentichiamole è possibile, tutte le miserie. Questa terra d’esilio sta per divenire veramente l’immagine della celeste Gerusalemme, le feste e le gioie del cielo discendono sulla terra. Ah! « se la mia lingua può obliare questi benefici, s’attacchi al mio palato !… „ (Ps. CXXXVI). Ah! se i miei occhi debbono ancor volgere i loro sguardi sulle cose terrene, che il cielo rifiuti loro la luce! Sì, F . M., se consideriamo tutto quanto Dio ha fatto: il cielo e la terra, questo bell’ordine che regna nel vasto universo, tutto ci annuncia una potenza infinita che ha tutto creato, una saggezza ammirabile che tutto governa, una bontà suprema che a tutto provvede con la stessa facilità che se fosse occupata d’un essere solo: tanti prodigi, non possono che riempirci di stupore e di ammirazione. Ma, se parliamo dell’adorabile sacramento dell’Eucaristia, possiamo dire che qui v’è il prodigio dell’amore d’un Dio per noi: qui la sua potenza, la grazia, la bontà sua risplendono in modo al tutto straordinario. Possiamo dire con tutta verità, che qui v’è il pane disceso dal cielo, il pane degli Angeli, che ci è dato per cibo delle anime nostre. E questo pane dei forti che ci consola, ed addolcisce le nostre pene. E qui veramente ” il pane dei viatori; „ diciamo anzi, F. M., la chiave che ci ha aperto il cielo. “Chi mi riceverà, dice il Salvatore, avrà la vita eterna: chi non mi riceverà, morrà. Chi ricorrerà, dice il Salvatore, a questo sacro banchetto farà nascere in sé una fonte che zampillerà sino alla vita eterna(Giov. VI, 54, 55). Ma per meglio conoscere l’eccellenza di questo dono, bisogna esaminare sino a qual punto Gesù Cristo ha spinto il suo amore per noi in questo Sacramento. No, F. M., non bastava al Figlio di Dio l’essersi fatto uomo per noi: per accontentare il suo amore, bisognò che si desse a ciascuno di noi in particolare. Vedete, F. M., quanto ci ama. Nel medesimo istante che i suoi poveri figli si preparavano a farlo morire, il suo amore lo porta a fare un miracolo, per restare in mezzo ad essi. Si vide, si può vedere un amore più generoso e più splendido di quello che ci mostra nel Sacramento del suo amore? Non possiamo dire, come il Concilio di Trento, che in esso la sua liberalità e generosità hanno esaurito tutte le loro ricchezze ? (Sess. XIII, cap. II). Può forse trovarsi qualche cosa sulla terra, ed anche in cielo, capace di essergli messa a confronto? Si vide alcune volte la tenerezza d’un padre, la liberalità d’un re pei suoi sudditi andar sì oltre quanto quella di Gesù Cristo nel Sacramento dei nostri altari! Vediamo che i genitori, nel testamento danno i loro beni ai figli: ma nel testamento che Gesù Cristo ci fa, non ci dà i beni temporali, poiché li abbiamo…, ma ci dà il suo Corpo adorabile ed il suo Sangue prezioso. Oh! felicità del Cristiano, quanto poco sei gustata! – No, F. M., non poteva spingere più lungi il suo amore che dandosi a noi: poiché ricevendolo, lo riceviamo con tutte le sue ricchezze. Non è questa la vera prodigalità d’un Dio per le sue creature? Sì, se Dio ci avesse data la libertà di domandargli quanto desideravamo, avremmo osato spinger sì lontano le nostre speranze? “D’altra parte, Dio stesso, benché Dio, poteva trovare cosa più preziosa da dosarci?„ domanda S. Agostino. Sapete, F . M., che cosa indusse Gesù Cristo ad acconsentire di restar notte e giorno nelle nostre chiese? Ah! F. M., fu perché ogni volta volessimo vederlo, potessimo trovarlo. Ah! tenerezza di padre, quanto sei grande! Può esserci cosa più consolante per un Cristiano, che sa di adorare un Dio presente in Corpo ed Anima!” Ah! Signore, esclama il Re-profeta, un giorno passato vicino a Voi, è preferibile a mille passati nelle adunanze del mondo!„ (Ps. LXXXIII, 11) Che cosa rende le nostre chiese così sante e rispettabili? Non è la presenza di Gesù Cristo? Ah! popolo felice quello dei Cristiani!

II. — Ma, chiederete, cosa dobbiamo fare per testimoniare a Gesù Cristo il nostro rispetto e la riconoscenza nostra? — Ecco, F. M.:

1° Non ci presenteremo davanti a Lui se non col più grande rispetto, e lo seguiremo in processione con gioia tutta celeste, raffigurandoci alla mente il gran giorno di quella processione che si farà dopo il giudizio universale. – Sì. F. M., per penetrarci del rispetto più profondo basta ricordarci che siamo peccatori, che siamo indegni di seguire un Dio così santo e puro. E un padre buono che tante volte abbiam disprezzato ed oltraggiato, che ci ama ancora, e ci dice che è pronto ad accordarci perdono. Cosa fa Gesù Cristo quando lo portiamo in processione? Eccolo. E come un re buono in mezzo ai suoi sudditi, come un buon padre circondato da’ suoi figli, come un buon pastore che vigila il suo gregge. Qual pensiero dobbiamo avere seguendo il nostro Dio? Eccolo. Dobbiamo seguirlo come i primi fedeli lo seguivano quand’era sulla terra, e beneficava tutti. Se avessimo la ventura di accompagnarlo con fede viva, potremmo essere sicuri di ottenere quanto gli domanderemo. Leggiamo nel Vangelo, che due ciechi, trovatisi sulla via seguita dal Signore, si posero a gridare: “O Gesù! Figlio di Davide, abbi pietà di noi! „ Gesù, n’ebbe compassione e domandò loro cosa volessero. “Ah! Signore, gli dissero, fate che noi vediamo. „ — “Ebbene! vedete, „ disse loro il buon Salvatore. (Matt. XX, 30-34).Un gran peccatore, Zaccheo, desiderando vederlo, s’arrampica su d’un albero: ma Gesù Cristo, che non ora venuto che per salvare i peccatori, gli gridò: “Zaccheo, discendi, perché oggi voglio fermarmi in casa tua. „ In casa tua! È come se gli avesse detto: Zaccheo, da lungo tempo la porta del tuo cuore è chiusa pel tuo orgoglio e le tue ingiustizie: aprimi oggi, vengo a darti il perdono. Sull’istante Zaccheo discende, si umilia profondamente davanti al suo Dio, ripara tutte le sue ingiustizie, e non vuol più che la povertà ed i patimenti per sé. O  fortunato momento che gli valse una felicità eterna! Un altro giorno in cui il Salvatore passava per un’altra via, una povera donna, afflitta da dodici anni da una perdita di sangue, lo seguiva. “Ah! diceva tra sé, se avessi la fortuna di toccare anche solo il lembo del suo abito, sono sicura che guarirei. „ (Luc. XIX, 1-10). Piena di confidenza, corre a gettarsi ai piedi del Salvatore, tocca il lembo del suo abito e sull’istante è liberata dal suo male. Sì, F. M., se avessimo la medesima fede, la medesima confidenza, otterremmo le medesime grazie: perché è lo stesso Dio, lo stesso Salvatore, lo stesso Padre, animato dalla stessa carità. “Venite, diceva il Profeta, venite, Signore, uscite dai vostri tabernacoli, mostratevi al popolo vostro che vi desidera e vi ama. „ Ahimè! quanti ammalati da guarire: quanti ciechi, cui render la vista! Quanti Cristiani, che seguiranno Gesù Cristo, e la loro povera anima è ricoperta di piaghe! Quanti Cristiani che sono nelle tenebre, e non vedono che son vicini a cadere nell’inferno! Mio Dio! Guarite gli uni ed illuminate gli altri! Povere anime, quanto siete sventurate! S. Paolo ci dice che essendo ad Atene, trovò scritto sa un altare: “Al Dio ignoto, „ o almeno dimenticato (Act. XVII, 23). Ah! F. M.! io potrei ben dirvi al contrario: vengo ad annunciarvi un Dio che sapete essere il vostro Dio, e non lo adorate e lo disprezzate. Quanti Cristiani che nei giorni di domenica non sanno che fare del loro tempo; che non si degnano neppure di venire per qualche breve momento a visitare il loro Salvatore, che arde di desiderio di vederli a sé vicini, per dir ad essi che li ama e vuol colmarli di benefizi. Oh! qual vergogna per noi!… Succede qualche novità? Si lascia tutto, e si corre. Per Iddio altro non facciamo che disprezzarlo e fuggirlo; il tempo ci pesa alla sua santa presenza; quanto facciamo è sempre lungo. Ah! qual differenza tra i primi fedeli e noi! essi consideravano come il tempo più felice di lor vita quello in cui avevano la fortuna di passare i giorni e le notti intere nelle chiese a cantar le lodi del Signore, od a piangere i loro peccati: ma oggi non è più così. Egli è lasciato, abbandonato da noi, v’è persino chi lo disprezza: la maggior parte ci presentiamo nelle chiese, in questi luoghi sacri, senza rispetto, senza amor di Dio, senza neppur sapere cosa vi veniamo a fare. Gli uni lasciano occupare il loro spirito ed il cuore da mille cose terrestri, e forse anche peccaminose: gli altri vi stanno con noia e disgusto: altri s’inginocchiano a fatica, mentre un Dio sparge il suo sangue prezioso pel loro perdono: altri infine lasciano appena discendere il Sacerdote dall’altare e subito sen fuggono. Mio Dio, come i figli vostri vi amano poco, o piuttosto vi disprezzano! Infatti, quale spirito di leggerezza e dissipazione non mostrate voi, quando siete in chiesa! gli uni dormono, gli altri parlano, e quasi nessuno si occupa di quanto dove fare.

2° F. M., tutti noi, fatti per Iddio, ricolmati di continuo de’ suoi benefizi più abbondanti, tutti dobbiamo testimoniargli la nostra riconoscenza, e affliggerci di vederlo tanto oltraggiato. Dobbiam fare come un amico che si rattrista per la sventura di un amico: così gli mostra sincera amicizia. Eppure, F. M., per quanti servigi abbia quest’amico potuto rendere all’amico, non avrà fatto mai quanto Dio ha fatto per noi. — Ma, chi deve, a quanto pare, dimostrare un amore più grande ed ardente per gli oltraggi che Gesù Cristo riceve da parte dei cattivi Cristiani? — Certamente tutti debbono affliggersi dei disprezzi che gli si fanno, e procurar di risarcirnelo: ma alcuni fra i Cristiani vi sono obbligati in modo particolare; ed eccoli: sono coloro che hanno la ventura d’appartenere alla confraternita del Ss. Sacramento. Dico: “Che hanno la fortuna. „ Ah! può darsi sorte più cara di quella d’esser scelti per far riparazione a Gesù Cristo degli oltraggi che riceve nel Sacramento del suo amore? Ma non illudetevi, F. M; come confratelli, siete obbligati a condurre una vita ben più perfetta che il resto dei Cristiani. I vostri peccati sono assai più sensibili per Gesù Cristo. Miei cari, non basta portare una candela in mano, per mostrar d’essere fra coloro che Dio ha scelto: ma bisogna che ci distingua la nostra vita, come la candela ci distingue da chi non l’ha. Perché, F. M., brillano queste candele? se non perché la vita vostra dev’essere un modello di virtù, e voi dovete gloriarvi d’essere figli di Dio, pronti a dar la vita per sostenere gli interessi del vostro Dio, al quale vi consacraste con grande sincerità? Sì, F. M., affaccendarsi ad abbellir le chiese ed i tabernacoli: sono queste buone e lodevoli dimostrazioni esteriori: ma non bastano. I Betsamiti, quando l’arca del Signore passò per il loro territorio, mostrarono la maggior premura e lo zelo più ardente: appena scortala, il popolo uscì in folla per incontrarla: tutti si affrettarono di uccidere buoi pel sacrificio. Eppure cinquanta mila furon colpiti da morte, perché non era stato abbastanza grande il loro rispetto!. (1 Re, VI). Oh! F. M., ci deve ben far tremare quest’esempio! Cosa rinchiudeva quell’arca? Ahimè! un po’ di manna, le tavole della legge: eppure, perché coloro che vi s’avvicinano non sono abbastanza penetrati della sua presenza, il Signore li colpisce di morte. Ma, ditemi, chi riflettendo alquanto alla presenza di Gesù Cristo, non sarebbe colto da timore? Quanti, F. M., sono così sciagurati da far compagnia al Salvatore, col cuore macchiato di colpe! Ah! disgraziato, potrai ben piegar le ginocchia, mentre Dio si alza per benedire il suo popolo: i suoi sguardi penetranti non lasceranno di vedere gli orrori che sono nel tuo cuore. Ma se l’anima nostra è pura, presentiamoci a seguire Gesù Cristo come un gran re che esce dalla sua città capitale a ricevere gli omaggi dei sudditi, e colmarli di benefici. Leggiamo nel Vangelo, che i due discepoli d’Emmaus camminavano col Salvatore senza conoscerlo: quando lo riconobbero, scomparve. Rapiti di gioia, si dicevano l’un l’altro: “Come mai non l’abbiamo conosciuto? I nostri cuori non si sentivano forse infiammati d’amore quando ci parlava spiegandoci la santa Eucaristia?„ (Luc. XXIV, 13-32) Mille volte più felici, . M., di quei discepoli, che camminavano con Gesù Cristo senza conoscerlo, noi sappiamo che è il nostro Dio ed il nostro Salvatore, che parla in fondo al nostro cuore, e vi fa nascere un numero infinito di buoni pensieri, di buone ispirazioni. “Figlio mio, ci dice, perché non vuoi amarmi? Perché non lasci quel maledetto peccato, che mette un muro di separazione tra noi due? Ah! figlio mio, vuoi dunque abbandonarmi? vorrai costringermi a condannarti ai supplizi eterni? Figlio mio, eccoti il perdono: vuoi tu pentirti? „ Ma che gli dice il peccatore? “No, no, Signore, preferisco vivere sotto la tirannia del demonio ed esser riprovato, anziché domandarvi perdono. „ Ma, mi direte, noi non diciamo questo al buon Dio. — Ed io vi soggiungo, che lo dite continuamente, ogni volta Iddio vi manda il pensiero di convertirvi. Ah! infelice, verrà un giorno che domanderai quanto oggi rifiuti; e forse non ti sarà accordato. È certo, F. M., che se avessimo la fortuna di tanti santi, ai quali Dio si faceva vedere, come a S. Teresa, talora come bambino nella culla, talora confitto sulla croce, avremmo senza dubbio maggior rispetto ed amore per Lui: ma non lo meritiamo; e poi ci crederemmo già santi: il che ci sarebbe argomento d’orgoglio. Ma, sebbene il buon Dio non ci conceda una tal grazia, non è meno presente e pronto ad accordarci quanto gli domanderemo. – Raccontasi nella storia, che un sacerdote, dubbioso di questa verità, dopo aver pronunciato le parole della consacrazione: “Come è possibile, diceva tra sé, che le parole di un uomo facciano un sì gran miracolo? „ Ma Gesù Cristo, per rimproverargli la sua poca fede, fece trasudare sangue all’Ostia santa in grande abbondanza. Ascoltate che cosa ci dice il medesimo autore: essendosi appiccato il fuoco in una cappella, tutta la costruzione fu abbruciata e distrutta: e la santa Ostia restò sospesa in aria, senza appoggio alcuno: venuto il sacerdote a riceverla in un vaso, subito vi discese dentro (È il miracolo delle sante Ostie di Faverney, nella diocesi di Besançon, avvenuto il ’26 Maggio 1608. Mgr de Ségur, La Francia ai piedi del Ss. Sacramento, xv, ricorda alcune particolarità del fatto in modo un po’ differente dal racconto del Beato). . Leggiamo nella storia ecclesiastica (Questo celebre miracolo avvenne in Parigi l’anno 1290. Vedi Rohrbacher, Storia universale…, lib. LXXVI), che la fantesca d’un giudeo, per pura compiacenza verso del padrone, gli portò un’Ostia santa. Dopo ricevutala in bocca, questa disgraziata la prese, la mise nel fazzoletto e la portò al padrone. Questo mostro, ebbro di gioia per aver Gesù Cristo in suo potere, come già i padri suoi quando lo misero in croce, si abbandonò a quanto il furor suo poté ispirargli. Gesù Cristo volle mostrargli quanto vivamente sentisse gli oltraggi che gli faceva. Il disgraziato, messa l’Ostia santa su d’una tavola, la colpì parecchie volte col temperino: l’Ostia si coperse tosto tutta di sangue: il che fece fremere la moglie ed i figli suoi, presenti a così raccapricciante spettacolo. Ripresala, la sospende ad un chiodo, e le dà molti colpi di staffile e di lancia: il sangue usciva in grande abbondanza come prima. La riprende per la terza volta, e la getta in una caldaia d’acqua bollente. Subito l’acqua fu cambiata in sangue: e nello stesso istante Gesù Cristo riprende la forma che aveva sull’albero della croce. In tal modo sembrava volesse Gesù Cristo tentar se poteva di commuoverlo. Ma il disgraziato, simile a Giuda, considera il suo delitto come troppo grande, e, disperando del perdono, fu condannato ad esser abbruciato vivo. F. M., non possiamo udir questi orrori senza fremere. Ahimè! quanti Cristiani lo trattano ancor più crudelmente! Ma, mi direte, come è possibile diportarsi in tal modo? — Ahimè! amico mio, Dio voglia che non vi tocchi mai tale sventura! Ogni volta che acconsentite al peccato!: un pensiero di orgoglio lo calpesta sotto i piedi e gli dà la morte: un pensiero impuro gli squarcia il cuore. — Ahimè! in questa processione raffiguriamoci il Salvatore come se andasse al Calvario: gli uni gli davano dei calci, gli altri lo ricoprivano d’ingiurie e di bestemmie… soltanto alcune anime sante lo seguivano piangendo, e mescolavano le lor lagrime col Sangue prezioso, di cui bagnava la via. Oh! quanti Giudei e carnefici stanno per seguire Gesù Cristo, e non si accontenteranno solo di farlo morire una volta, ma sopra tanti calvari, quanti sono i loro cuori! Ah! è possibile che un Dio che ci ama tanto sia così disprezzato e maltrattato? Sì, F. M., se amassimo il buon Dio, ci faremmo una gioia ed una felicità di venir tutte le domeniche a passar alcuni istanti per adorarlo, domandargli la grazia di perdonarci: considereremmo questi momenti come i più belli della vita. Ah! che gli istanti passati con questo Dio di bontà sono dolci e consolanti! Siete nell’affanno! venite a gettarvi un momento a’ suoi piedi, e vi sentirete consolati. Siete sprezzati dal mondo? venite qua, e troverete un amico che non vi mancherà di fedeltà. Siete tentato? oh! è qui che troverete delle armi forti e terribili per vincere il vostro nemico. Temete il giudizio formidabile che ha fatto tremare i più gran santi? approfittate del tempo in cui il vostro Dio è il Dio della misericordia, ed in cui vi è sì facile ottenere la sua grazia. Siete oppresso dalla povertà? Venite qui,vi troverete un Dio infinitamente ricco, e che vi dirà che tutti i suoi beni sono per voi, non in questo mondo, ma nell’altro. “E là ch’io ti preparo dei beni infiniti; disprezza questi beni perituri, e ne avrai altri che non periranno mai. „ Vogliamo incominciare a gustare la felicità dei santi? veniamo qui, e ne gusteremo il beato inizio. Ah! quanto fa bene, F. M., il godere i casti amplessi del Salvatore! Non li avete mai gustati? Se aveste avuto tal felicità non potreste più abbandonarla. Non meravigliamoci più che tante anime sante abbiano passata la lor vita nella sua casa giorno e notte: esse non potevano più separarsi dalla sua presenza. – Leggiamo nella storia, che un santo sacerdote trovava tante dolcezze e consolazioni nelle chiese, che dormiva sul pavimento dell’altare per aver la fortuna, svegliandosi di trovarsi presso il suo Dio: e Dio, per ricompensarlo, permise che morisse ai piedi dell’altare. Vedete S. Luigi, che nei suoi viaggi, Invece di passar la notte nel letto, la passava aipiedi degli altari, vicino alla dolce presenza del suo Salvatore. Perché, F. M., abbiamo tanta indifferenza e disgusto quando dobbiamo venir qui? Ahimè! perché mai gustammo questi momenti felici. Che dobbiam concludere da tutto ciò? Eccolo. Dobbiam riguardare come il momento più felice di nostra vita quello, in cui possiamo tener compagnia ad un amico sì buono. Seguiamolo in processione con un santo timore: siamo peccatori, domandiamogli con dolore e lagrime il perdono dei nostri peccati e saremo sicuri di ottenerlo… Riconciliati, sollecitiamo il dono prezioso della perseveranza. Diciamogli che piuttosto di offenderlo ancora, preferiamo morire. No, F. M., fin che non amerete il vostro Dio non sarete mai contenti: tutto vi peserà tutto vi annoierà: ma dacché l’amerete, passerete una vita felice, e aspetterete la morte con desiderio… Quella morte avventurata che ci riunirà al nostro Dio!… Ah! felicità! quando verrai?… Quanto è lungo questo tempo! Ah! vieni! tu ci procurerai il più grande di tutti i beni, il possesso di Dio!… Ciò che… vi desidero.

DOMENICA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2021)

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2021)

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O Dio, uno nella natura e trino nelle Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio Redentore e mio Santificatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto il cuore.

Voi nella vostra felicità infinita, preferendo, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.

Dall’abisso della mia miseria vi adoro e vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù; fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino, possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.

[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam orationem pie recitaverint, conceditur: Indulgentia trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. Pæn. Ap.,10 maii 1941).

[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]

Canticum Quicumque


(Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)


Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:
Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit.
Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.
Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes.
Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti:
Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas.
Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus.
Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus.
Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus.
Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus.
Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens.
Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus.
Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus.
Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus.
Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.
Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus.
Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus.
Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.
Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.
Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles.
Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.
Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat.
Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat.
Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.
Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus.
Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens.
Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem.
Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus.
Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum.
Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ.
Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus.
Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis.
Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos.
Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.
Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum.
Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.

MESSA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di I° classe. – Paramenti bianchi.

Lo Spirito Santo, il cui regno comincia con la festa di Pentecoste, viene a ridire alle nostre anime in questa seconda parte dell’anno (dalla Trinità all’Avvento – 6 mesi), quello che Gesù ci ha insegnato nella prima (dall’Avvento alla Trinità – 6 mesi). Il dogma fondamentale al quale fa capo ogni cosa nel Cristianesimo è quello della SS. Trinità, dalla quale tutto viene (Ep.) e alla quale debbono ritornare tutti quelli che sono stati battezzati nel suo nome (Vang.). Così, dopo aver ricordato, nel corso dell’anno, volta per volta, pensiero di Dio Padre Autore della Creazione, di Dio Figlio Autore della Redenzione, di Dio Spirito Santo, Autore della nostra santificazione, la Chiesa, in questo giorno specialmente, ricapitola il grande mistero che ci ha fatto conoscere e adorare in Dio l’Unità di natura nella Trinità delle persone (Or.). — « Subito dopo aver celebrato l’avvento dello Spirito Santo, noi celebriamo la festa della SS. Trinità nell’officio della domenica che segue, dice S. Ruperto nel XII secolo, e questo posto è ben scelto perché subito dopo la discesa di questo divino Spirito, cominciarono la predicazione e la credenza, e, nel Battesimo, la fede e la confessione nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ». Il dogma della SS. Trinità è affermato in tutta la liturgia. È in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo che si comincia e si finisce la Mesa e l’Ufficio divino, e che si conferiscono i sacramenti. Tutti i Salmi terminano col Gloria Patri, gli Inni con la Dossologia e le Orazioni con una conclusione in onore delle tre Persone divine. Nella Messa due volte si ricorda che il Sacrificio è offerto alla SS. Trinità. — Il dogma della Trinità risplende anche nelle chiese: i nostri padri amavano vederne un simbolo nell’altezza, larghezza e lunghezza mirabilmente proporzionate degli edifici; nelle loro divisioni principali e secondarie: il santuario, il coro, la navata; le gallerie, le trifore, le invetriate; le tre entrate, le tre porte, i tre vani, il frontone (formato a triangolo) e, a volte le tre torri campanili. Dovunque, fin nei dettagli dell’ornato il numero ripetuto rivela un piano prestabilito, un pensiero di fede nella SS. Trinità. — L’iconografia cristiana riproduce, in differenti maniere questo pensiero. Fino al XII secolo Dio Padre è rappresentato da una mano benedicente che sorge fra le nuvole, e spesso circondata da un nimbo: questa mano significa l’onnipotenza di Dio. Nei secoli XIII e XIV si vede il viso e il busto del Padre; dal secolo XV il Padre è rappresentato da un vegliardo vestito come il Pontefice.Fino al XII secolo Dio Figlio è rappresentato da una croce, da un agnello o da un grazioso giovinetto come i pagani rappresentavano Apollo. Dal secolo XI al XVI secolo apparve il Cristo nella pienezza delle forze e barbato; dal XIII secolo porta la sua croce, ma è spesso ancora rappresentato dall’Agnello. — Lo Spirito Santo fu dapprima rappresentato da una colomba le cui ali spiegate spesso toccano la bocca del Padre e del Figlio, per significare che procede dall’uno e dall’altro. A partire dall’XI secolo fu rappresentato per questo sotto forma di un fanciullino. Nel XIII secolo è un adolescente, nel XV un uomo maturo come il Padre e il Figlio, ma con una colomba al disopra della testa o nella mano per distinguerlo dalle altre due Persone. Dopo il XVI secolo la colomba  riprende il diritto esclusivo che aveva primieramente rappresentare lo Spirito Santo. — Per rappresentare la Trinità si prese dalla geometria il triangolo, che con la sua figura, indica l’unità divina nella quale sono iscritti i tre angoli, immagine delle tre Persone in Dio. Anche il trifoglio servì a designare il mistero della Trinità, come pure tre cerchi allacciati con il motto Unità scritto nello spazio lasciato libero al centro della intersezione dei cerchi; fu anche rappresentata come una testa a tre facce distinte su un unico capo, ma nel 1628 Papa Urbano VIII proibì di riprodurre le tre Persone in modo così mostruoso. — Una miniatura di questa epoca rappresenta il Padre e il Figlio somigliantissimi, il medesimo nimbo, la medesima tiara, la medesima capigliatura, un unico mantello: inoltre sono uniti dal Libro della Sapienza divina che reggono insieme e dallo Spirito Santo che li unisce con la punta delle ali spiegate. Ma il Padre è più vecchio del Figlio; la barba del primo è fluente, del secondo è breve; il Padre porta una veste senza cintura e il pianeta terrestre; il Figlio ha un camice con cintura e stola poiché è sacerdote. — La solennità della SS. Trinità deve la sua origine al fatto che le ordinazioni del Sabato delle Quattro Tempora si celebravano la sera prolungandosi fino all’indomani, domenica, che non aveva liturgia propria. — Come questo giorno, così tutto l’anno è consacrato alla SS. Trinità, e nella prima Domenica dopo Pentecoste viene celebrata la Messa votiva composta nel VII secolo in onore di questo mistero. E poiché occupa un posto fisso nel calendario liturgico, questa Messa fu considerata costituente una festa speciale in onore della SS. Trinità. Il Vescovo di Liegi, Stefano, nato verso l’850, ne compose l’ufficio che fu ritoccato dai francescani. Ma ebbe vero, principio questa festa nel X secolo e fu estesa a tutta la Chiesa da Papa Giovanni XXI nel 1334. — Affinché siamo sempre armati contro ogni avversità (Or.), facciamo in questo giorno con la liturgia professione solenne di fede nella santa ed eterna Trinità e sua indivisibile Unità (Secr.).

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 

Tob XII: 6.

Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Ps VIII: 2

Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!


[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

 Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. 

[O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI: 33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. 

[O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

DIO É CARITA’.

La gloria del Cristianesimo, della Rivelazione cristiana, che ha per oggetto suo primo Dio, è di aver saputo e di saper parlare alla nostra mente e al nostro cuore, appagando i due supremi bisogni dell’anima, sapere e amare. Ce n’è per le intelligenze più aristocratiche, ce n’è per i cuori più umili, quelle si arrestano pensose, questi si fermano giocondi.  Oggi l’Epistola della domenica ha una parola delle più sublimi e delle più consolanti. Dio è carità: «Deus charitas est». Dio è un fuoco, una promessa, un suono infinito di amore, di bontà, di carità. La carità è il suo attributo, per noi Cristiani più alto, più caratteristico. Vedete, o fratelli, le armonie mirabili del dogma, della morale di N. S. Gesù Cristo. La carità è il grande comandamento della sua Legge, così grande che può parere e dirsi in qualche modo il solo: in realtà riassume, compendia in sé tutti gli altri. È « praeceptum magnum in lege ». Bisogna amar Dio e tutti quelli e tutto ciò che Egli desidera vedere amato da noi. Amare Dio! Che gran parola! Se Dio permettesse all’uomo di amarlo, pensando quanto Egli è grande, quanto noi siamo piccini, dovremmo riguardarlo come una concessione straordinaria da parte di Dio. Ebbene, no, Dio non ci permette: Egli ci comanda di volerGli bene, come figli al Padre, come amici all’Amico. Ma noi Gli dobbiamo voler bene, perché (ecco il dogma) Egli è buono, anzi è la stessa bontà, una bontà non contegnosa, non fredda, una bontà calda, espansiva: è carità. Questo dogma corrisponde a quel precetto: nel precetto si raccoglie tutta la morale, in quel precetto e in questo dogma si compendia la storia dogmatica dei rapporti di Dio con noi. La carità è la chiave della creazione, della Redenzione, della Santificazione. Noi siamo da tanti secoli ormai abituati a sentirci predicare questo ritornello: Dio è carità, che rimaniamo quasi indifferenti. Ma quei primi che raccolsero queste parole dalle labbra di Gesù e poi dagli Apostoli, ne rimasero estatici. Per secoli i Profeti avevano con una commossa eloquenza celebrato la grandezza di Dio e la Sua giustizia. Certo non avevano dimenticato la misericordia, attributo troppo prezioso perché nella sinfonia profetica potesse mancare. Ma la grande predicazione profetica era la predicazione della grandezza e della giustizia: volevano incutere il timore di Dio in quel popolo dalla dura cervice e dal cuore incirconciso. E parve una musica nuova e dolce questa del Figlio di Dio, di Gesù: Dio è bontà, è amore, è carità: vuole essere amato. E lo so, e l’ho detto e lo ripeto: al ritornello ci abbiamo fatto l’orecchio. Ma siamo noi ben convinti di questo dogma? Crediamo noi davvero, crediamo noi sempre alla bontà di Dio? Purtroppo l’amara interrogazione ha la sua ragion d’essere. Perché crederci davvero vuol dire amare Dio fino alla follia come facevano i Santi, e ciò è più difficile in certi momenti oscuri della vita, è un po’ difficile sempre. La carità di Dio è anch’essa misteriosa come sono misteriosi tutti gli attributi di Dio, dato che Dio stesso è mistero. – Oggi la Chiesa ce lo ricorda celebrando la SS. Trinità, il primo mistero della nostra fede, e cantando con le parole di Paolo: « O altitudo divitiarum sapientiæ et scientiæ Dei! » – Dio è un abisso dove la ragione da sola si smarrisce, guidata dalla fede cammina quanto quaggiù è necessario ed è possibile, come chi tra le tenebre ha una piccola, fida lucerna. È un abisso, è un mistero anche l’amore di Dio. Dobbiamo accettarlo, crederlo. Perciò l’Apostolo definisce i Cristiani così: gli uomini che hanno creduto e credono alla carità di Dio. « Nos credidimus charitati ». Ma credendo, e solo credendo a questo mistero della bontà, della carità di Dio per noi, per tutti, ci si rischiara il buio che sarebbe altrimenti atroce della nostra povera esistenza: ci si illumina quel sovrano dovere di amare anche noi il nostro prossimo che renderebbe tanto meno triste il mondo e la vita se noi ne fossimo gli esecutori fedeli. Il Dio della carità accenda nei nostri cuori la Sua fiamma e faccia splendere ai nostri sguardi la Sua luce!

 Graduale 

Dan III: 55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, 

[Benedetto sei Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]

Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, 

[V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III: 52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. Alleluja. 

[Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthæum. Matt XXVIII: 18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. 

« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo ».

OMELIA

[Mons. G. Bonomelli, Misteri Cristiani; vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

RAGIONAMENTO II.

La SS. Trinità secondo il Simbolo – Mistero che trascende la ragione umana – Vestigia della Trinità nel creato.

Ci sta dinanzi un essere qualunque, una pietra, un albero, un animale, un uomo. Noi lo vogliamo studiare e conoscere. Qual via terremo per raggiungere l’intento? Se non erro, non vi sono che due vie. Noi possiamo e dobbiamo considerare e studiare la pietra, l’albero, l’animale, l’uomo nelle loro manifestazioni esterne, nelle loro qualità, nei loro effetti, che cadono sotto dei nostri sensi e che possiamo sottoporre alla esperienza. È la prima via, più facile e comune. Ma noi possiamo anche andare più oltre e spingere l’occhio nostro più addentro nella pietra, nell’albero, nell’animale, nell’uomo; possiamo armare la mano e l’occhio di strumenti potentissimi e penetrare l’intima loro natura, scrutarne le fibre più riposte, numerare, misurare e pesare gli elementi, afferrare e stabilire le leggi a cui soggiacciono e ridurle ad un codice sicuro ed invariabile. È  questa la seconda via, più difficile, ma più perfetta e riserbata a pochi. Fratelli dilettissimi! La fede e la ragione ci mettono dinanzi l’Essere degli esseri, Dio infinito. Per conoscerlo noi possiamo tenere le due vie, che vi ho accennate: noi possiamo studiarlo e conoscerlo nelle sue meravigliose ed ineffabili manifestazioni esterne, nelle opere tutte delle sue mani, come Creatore e  conservatore ed anche come Redentore e della bellezza, varietà e grandezza delle medesime assurgere al conoscimento della sua esistenza e delle sue perfezioni divine quali risplendono nell’universo creato e nella economia della Redenzione. È ancora la prima via, rischiarata dalla ragione e dalla fede. Parimenti dinanzi alla maestà di Dio, posti in faccia a questo Essere che è infinito, che tutte le cose produce dal nulla, conserva, regge e penetra, che faremo noi? Ci prostreremo noi tremebondi e in religioso silenzio lo adoreremo? È il consiglio che ci dà il Nazianzeno (Oraz. 35) e potremmo seguirlo. Oseremo noi, tenendo nella destra la face della fede, riverenti e consci della nostra debolezza, entrare nei misteri della vita divina e scandagliare secondo le nostre forze gli abissi della sua essenza e fissare l’occhio in quelle tre Persone, nelle quali essa sì svolge e si appunta? E questo pure possiamo fare ed è bene il fare, seguendo l’esempio dei Padri e camminando sulle loro tracce, Investigare la Trinità è da temerario; crederla è proprio delle anime pie; conoscerla è la stessa vita, ci grida S. Bernardo (Lib. V, de Consid., c. 8). –  Accostiamoci adunque con animo umile a questo mistero dei misteri, addentriamoci in mezzo a questa luce sfolgorante, che per il suo eccesso diventa tenebre per la nostra debolezza, E per non mettere piede in fallo nell’alto cammino, ecco i termini del nostro assunto in questo Ragionamento, che deve essere l’introduzione del prossimo. 1.° Vedremo la dottrina della SS. Trinità quale ci è data dalla Chiesa, Maestra infallibile. 2.° Vedremo come a noi pellegrini sulla terra e contemplanti le eterne verità, quasi in ispecchio e in enigma, non sia possibile dimostrare in se stessa la SS. Trinità. Finalmente 3.° Vedremo nel creato lo ombre, dirò meglio, le vestigia della Trinità. – E dove potremo noi trovare esposta nettamente ed autorevolmente la dottrina della Chiesa cattolica intorno al dogma del SS. Trinità? Senza dubbio ne’ suoi Simboli e nominatamente in quello che più ampiamente la spiega e porta il nome del grande Atanasio. (Il simbolo volgarmente detto Atanasiano non è di S. Atanasio, ma corre sotto il suo nome perché esprime la dottrina di quell’incomparabile campione intorno alla Trinità. Questo simbolo appartiene ad un’epoca Posteriore, perché proscrive gli errori dei Nestoriani, dei Monofisiti, dei Monoteliti e degli Apollinaristi, con una precisione che lo mostra composto dopo di essi, nel 5° secolo. Lo si attribuisce a Virgilio di Tapsa). Lo volto nella nostra lingua parola per parola. « Questa è la fede cattolica, che veneriamo un Dio solo nella Trinità e la Trinità nella Unità; che non confondiamo le persone, né separiamo la sostanza. Perocchè altra è la Persona del Padre, altra quella del Figlio e altra quella dello Spirito Santo; ma una sola è la Divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, eguale la gloria, coeterna la maestà! Qual è il Padre, tale è il Figlio, tale lo Spirito Santo: increato il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo: immenso il Padre, immenso il Figlio, immenso lo Spirito Santo: eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo, e tuttavia non sono tre eterni, ma un solo eterno; come non sono tre increati, né tre immensi, ma un solo increato, e un solo immenso. Similmente onnipotente è il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo; e tuttavia non sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente. Così Dio è il Padre, Dio il Figlio, Dio lo Spirito Santo, e nondimeno non sono tre Dei, ma un solo Dio. Così Signore è il Padre, Signore il Figlio, Signore lo Spirito Santo, e nondimeno non sono tre Signori, ma un solo Signore; perché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è Dio e Signore, così la Religione Cattolica ci vieta di dire che sono tre Dei e tre Signori. Il Padre non è fatto da alcuno, né creato, né generato; il Figlio viene dal solo Padre; non è fatto, né creato, ma generato; lo Spirito Santo viene dal Padre e dal Figlio; non è fatto, né creato, né generato, ma procede. Un solo pertanto è il Padre, non tre Padri; un solo il Figlio, non tre Figli; un solo lo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi. E in questa Trinità non vi è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore; ma tutte tre le Persone sono tra loro coeterne e coeguali, onde per ogni rispetto, come sopra si disse, si ha da venerare l’Unità nella Trinità e la Trinità nella Unità ».  Non sarebbe possibile esprimere con maggior precisione la fede cattolica intorno al dogma fondamentale della Trinità, su cui si impernia l’altro dogma fondamentale della Incarnazione, dal quale poi, come da fonte immediata, scaturiscono tutti gli altri. – La dottrina della Trinità si aggira tutta su due punti, l’unità della natura, o essenza, o sostanza, che dire vogliamo, e la Trinità delle Persone, come chiaramente afferma il Simbolo. E poiché è pur necessario determinare i concetti per sapere ciò che crediamo, non vi sia grave che vi intrattenga qualche minuto sui due concetti di natura, o essenza o sostanza, e su l’altro di Persona. Il concetto di natura, o essenza, o sostanza, che per noi qui non differiscono, sta racchiuso nella risposta alla domanda sì comune: — Che cosa è questa? – Voi rispondete: – Questa è acqua: questa è una pianta: questo è un uomo -. La parola “è” vi dice la natura della cosa, il genere, a cui appartiene, la base, la radice, che sta nel fondo della cosa stessa. La sostanza, o la natura, o essenza, noi non la vediamo; essa si nasconde nella cosa e si invola incessantemente ai nostri sensi. – Ma questa natura si circoscrive, si determina, mi si presenta nelle sue proprietà specifiche, che la distinguono da tutti gli altri esseri, ed allora io dico: Ecco l’acqua, ecco il cedro, ecco il cavallo. Le qualità proprie indicano l’acqua, la vita vegetale specifica il cedro, e la vita animale determina il cavallo. –  Salgo più alto: vedo un uomo: la sua natura si determina in modo incomparabilmente più perfetto, perché intende, ragiona, vuole, è padrone di sé, ed è impossibile confonderla con altra, e giunge a dire: Io esisto, io vivo, io sento, io intendo, io voglio, io sono libero, io sono io, e non posso essere altro che io, io Pietro, io Giovanni, e allora dico: ecco che spunta la persona: ecco la natura pervenuta al supremo suo grado di determinazione e di affermazione coscienziosa dell’essere mio. La persona adunque non è un’altra natura sovrapposta alla natura, ma la natura stessa nella massima sua perfezione ed è per questo che la parola persona non si dice degli esseri inferiori, ma soltanto dell’uomo (S. Tomm. S. Th. Ia, q. 29, a,3). Ora la natura divina, infinita, immensa, tutta e sempre in atto, da cui tutto muove e deriva ogni perfezione, debb’essere sovranamente determinata e perciò il concetto di persona le è proprio come quello di natura. Una sola persona? No: quell’infinita Essenza fiorisce necessariamente in tre Persone. Perché in tre Persone e non in una sola Persona, come una sola è l’Essenza? Perché in Dio tutto è infinito. Mi spiego. Tu, o uomo, sei e pensi e vuoi: sono tre cose, o tre proprietà inseparabili dalla tua natura: nella tua natura spuntano due forze o potenze tra loro distintissime, l’intelligenza e la volontà, e questa emana da quella, come quella emana da chi per essa e con essa intende. Queste tre proprietà, rampollanti tutte dal fondo dell’anima tua in modo che ciascuna tutta la possiede e la comprende, in te, che sei finito, concorrono in una sola persona, in un solo io: in Dio, che è infinito, ciascuna di queste proprietà è infinita ed ecco che ciascuna è una persona, eguali tra loro, perché la natura è comune e da tutte e tre egualmente posseduta. La prima Persona, l’io intelligente, produce la seconda Persona, l’io pensato o inteso, sua Immagine perfetta e sostanziale; e l’io intelligente e l’io pensato, o inteso producono l’eterno e sostanziale Amore, che li congiunge e tu hai il terzo io, o terza Persona. In te stesso adunque, o uomo, hai un riflesso, una pallida immagine delle tre Persone della S. Trinità e dei rapporti loro vicendevoli. Ma di questo profondissimo dei misteri della nostra fede e delle sue convenienze razionali, in altro Ragionamento : per ora è da vedere che la ragione, per sé stessa, è impotente a darcene una rigorosa dimostrazione. – Vi furono alcuni Padri (e dei maggiori) e sulla loro autorità alcuni scrittori ecclesiastici, degnissimi di rispetto, i quali affermarono, Platone e la scuola platonica aver conosciuto la Trinità e questa, almeno dopo la rivelazione evangelica, potersi dimostrare colla ragione, come si dimostrano le altre verità filosofiche. Ma questa affermazione, messa alla prova, non regge e devesi abbandonare. –  La terra, l’universo, l’ordine che vi regna, la ragione, la coscienza, il grido dell’umanità tutta proclamano che vi è Dio; che è l’Essere primo e sovrano, ordinatore Supremo d’ogni cosa, eterno, sapientissimo, giustissimo: chi sia in se Stesso non è facile conoscerlo: sappiamo che vi è: argomentiamo alcune sue perfezioni da ciò che Egli squaderna, come dice il poeta, nell’universo: come sia in se stesso: qual sia la sua vita intima: quali le azioni e le processioni, che si compiono nelle inscrutabili profondità della sua natura, a noi non è possibile saperlo, s’Egli non ce lo dice. – Scorrete col pensiero tutte le creature uscite dalla mano di Dio: fissate l’occhio della mente sopra di esse, ciascuna di esse, studiatele per ogni verso e dovrete confessare, che voi non potete penetrare nell’intima loro natura: che al di là di ciò che conoscete vi è pur sempre qualche cosa che sfugge alle vostre indagini, che si vela al vostro sguardo, che si sottrae a tutti i vostri sforzi e questo qualche cosa inesplorata e inesplorabile è ciò che forma il fondo d’ogni essere, volete materiale, volete spirituale. Ora se le creature tutte nel fondo dell’essere loro sfidano e sfideranno l’occhio più acuto del sapiente, come credere ch’esso possa penetrare nelle profondità dell’Essere divino e vedere e contemplare gli atti ineffabili, che vi si compiono? Più che una presunzione audace e intollerabile sarebbe una follia degna di compassione. Noi non possiamo conoscere Dio che salendo dalle creature, quasi per altrettanti gradini, a Lui, che ne è il Creatore e Conservatore: dal visibile montiamo all’invisibile, dal temporario all’eterno, dall’effetto argomentiamo la Causa, la Causa prima. È questa l’unica via additata e battuta da tutti i filosofi e teologi di tutti i tempi e di tutti i paesi, Cristiani e non Cristiani. Ebbene: le creature tutte vi dicono ch’esse sono effetti e che Dio è loro Causa: vi presentano in sé stesse il suggello della Causa e questa Causa è una sola, Dio, non trino, ma uno. Illustrerò la verità con una similitudine. Voi vedete una statua: che vi dice essa? Vi dice, che vi è uno scultore e che essa è sua creazione. Egli per farla, l’ha pensata e nella sua mente ne ha formata l’immagine: poi colla sua volontà ha determinato di eseguirla nel marmo; poi collo scalpello, colla mano, guidata dall’occhio, l’ha scolpita. Guardando la statua, voi conoscete lo scultore, come unica sua causa, ma non potrete mai neppure immaginare la pluralità di cause, se così posso esprimermi, che concorsero insieme, con unico atto, a produrre la statua. – I teologi cattolici, con a capo S. Tommaso, insegnano che gli atti di Dio, fuori di Dio, cioè che hanno per termine le creature sotto qualsiasi forma, si riferiscono a Dio in quanto è uno nella sua essenza, precisamente come gli atti dell’uomo fuori dell’uomo provengono da lui in quanto è un solo operante, benché vi concorrano l’intelligenza e la volontà. Questi atti fuori di Dio provengono da Dio Padre, da Dio Figlio, da Dio Spirito Santo, ma non in quanto si distinguono, sebbene in quanto sono un solo Dio, una sola Natura e per conseguenza i loro effetti rappresentano Dio come un solo, come una sola Natura, ed è impossibile che lo rappresentino nella Trinità delle Persone. Queste sono prodotte dagli atti interni del conoscere e dall’amare, che rimangono nella essenza divina. È dunque impossibile che l’uomo, salendo dalle creature a Dio, conosca la Trinità delle Persone: potrà averne qualche barlume, qualche conoscenza, come diremo, ma conoscimento chiaro, dimostrazione certa, non mai. – E in vero, se noi sottoponiamo a severo esame le dottrine di Platone e d’altri filosofi antichi e moderni, che parvero mettere il dogma della Santa Trinità nel numero di quelle verità che si dimostrano colla sola ragione, almeno dopo la rivelazione evangelica, troveremo che sono manchevoli, piuttosto ipotesi che tesi, piuttosto analogie, similitudini, verosimiglianze, che verità dimostrate e poste fuori d’ogni controversia. Chi poi afferma che in Platone si trova chiaramente esposta la dottrina cattolica della Santa Trinità, mostra che non ha letto Platone, o, lettolo, non vi ha posto ben mente: giacché la dottrina di Platone su questo capo presenta tali e tante differenze col dogma cattolico, che se quella si accettasse, questo sarebbe non solo alterato, ma totalmente distrutto. Noi dunque, camminando sulle tracce di S. Tommaso e dei grandi teologi, che esprimono il senso della Chiesa, diremo, che la Trinità è il segreto di Dio, è il mistero dei misteri, che dobbiamo credere ed adorare. Ma perché la Trinità Santa è un mistero e mistero dei misteri, non vi sia tra voi chi pensi, esser questo un dogma, una dottrina, che urti e offenda comecchessia la ragione umana. Mistero non vuol dire cosa o dottrina contraria alla ragione, ma cosa o dottrina superiore alla ragione; che certamente esiste, ma che sfugge ai suoi calcoli, e ch’essa non può afferrare nei rapporti intimi e sottoporre al suo sindacato. Fratelli miei! Il mondo materiale e intellettuale, come il mondo morale e sociale, sono pieni di fatti e di fenomeni indubitati, che vediamo co’ nostri occhi e tocchiamo colle nostre mani, e dei quali andiamo ansiosamente cercando le ragioni: noi li chiamiamo misteri di natura, ben differenti senza dubbio dai misteri della fede, perché di quelli si può trovare la spiegazione intrinseca e forse la si troverà, ma di questi sulla terra non si troverà mai; ma pure, almeno per ora, sono misteri: e chi oserebbe negare quei fatti e quei fenomeni, ancorchè l’intima loro ragione di esistere rimanga occulta? Nessuno per fermo, perché un fatto, un fenomeno può essere certo quantunque inesplicato e inesplicabile. L’esistenza d’una cosa può essere fuori d’ogni dubbio, anche quando il modo della esistenza è avvolto tra fitte tenebre. Tali sono: i dogmi della nostra fede, tal è il dogma della Santa Trinità, chiaramente rivelato e imposto da Cristo, ma non spiegato in modo che la ragione lo comprenda e faccia suo. Noi diciamo e professiamo che vi è il mistero d’una sola essenza con tre Persone eguali, perché Dio lo ha rivelato; ma con ciò non diciamo, né professiamo una dottrina, che offenda la ragione, come non offendete la ragione neppur voi allorché riconoscete nell’uomo l’unione d’una sostanza spirituale con una sostanza materiale in un’unica persona e il passaggio della forza da un corpo ad un altro e la sua azione a distanze enormi, benché ignoriate il modo dell’unione, del passaggio e della sua azione, ed ignoriate persino che cosa siano anima e materia e forza in sé stesse. – E non è fare oltraggio alla ragione, ci si dice, quando voi affermate che Dio è un solo e in pari tempo trino? S’Egli è un solo, non può essere trino: se è trino non può essere un solo. Perdono! o fratelli. Noi diciamo che Dio è un solo per ragione della natura, trino per ragione delle Persone, che è ben altra cosa. Io dico: Tu, o uomo, sei un solo: eppure in qualche vero senso tu hai due nature, o sei uno solo in due nature: dico io forse cosa che ripugna alla ragione, o non anzi alla ragione conforme? Io dico: Uomo, la tua anima è una sola, un solo io, semplicissimo io. Tu lo confessi e lo senti: eppure la tua intelligenza non è la tua volontà, e la tua intelligenza e la tua volontà non sono la tua memoria, quantunque la tua intelligenza sia tutta la ripugnanza, perché due cose, o due termini incerti od oscuri mi tolgono di vedere e affermare la conseguenza del loro raffronto e me la devono lasciare incerta ed oscura. È verità che non si dimostra. Ora, parlando della Santa Trinità, i termini che si opporrebbero sarebbero l’essenza, che è una sola, e le Persone, che sono tre. Conosco io che cosa sia l’Essenza divina? So che essa esiste: so che è eterna, infinita, immutabile, che trascende infinitamente la povera mia intelligenza. Dite altrettanto delle Persone, esse pure eterne, infinite, immutabili ed eccedono le forze di qualunque intelligenza creata, fosse pur quella del più sublime degli spiriti celesti. Dunque io non conosco, non posso, non potrò mai conoscere perfettamente i due termini del dogma della Trinità, l’Essenza unica, e la Trinità delle Persone. Se è così, io non potrò mai dire, che codesti termini ripugnano e involgono contraddizione: dal confronto di due termini oscuramente conosciuti traggo una conseguenza chiarissima, dicendo: – si contraddicono -. Questo è offendere le regole della logica. Che dovrò io dire? Non comprendo i due termini e non mi è lecito affermare che si contraddicono. L’astronomo fissa l’occhio sopra una stella, che si perde nella immensità de’ cieli: applica la paralasse: le due linee tirate sopra un lato comune e distanti milioni e milioni di leghe sono parallele, perfettamente parallele ed egli vi dice: – Impossibile misurarne la distanza – ed è vero. Ma dunque quelle due linee sono veramente parallele? – L’occhio, l’esperienza, più scrupolosa vi dicono: si, sono parallele: ma la ragione mi dice con maggiore sicurezza: No; è impossibile che siano parallele; sono impotente a rilevare l’inclinazione. Ma questa vi è. È ciò che dobbiamo confessare noi a maggior diritto, allorché ci pare di scorgere contraddizione tra l’unità dell’Essenza divina e la Trinità delle Persone. L’immensurata e immensurabile distanza tra noi e Dio, crea un’oscurità profonda e attraverso quel buon effetto del nostro corto vedere, ci sembra che l’unità dell’Essere divino non si possa comporre nella Trinità delle Persone. È vera sapienza il dire: Dio ha detto che Egli è uno nella natura e trino nelle Persone: io non lo comprendo, ed è naturale ch’io, essere finito e piccolo, non lo comprenda e mi sembri contrario alla ragione: ma Egli non erra, né può errare, mi basta: credo. Il figlio non crede egli al padre, il discepolo al maestro, il servo al padrone anche in ciò che non intende e che talvolta ripugna alla sua ragione, perché sicuro di non essere ingannato? Si: e questa è pure sapienza. Perché non farò io altrettanto con Dio, mio padre, mio maestro, mio padrone assoluto? Sarei stolto se non lo facessi, e perciò lo faccio. Ma egli è poi vero che la nostra ragione nel mistero della Santa Trinità non vede nulla, che risponda alle sue esigenze? Nulla che la ischiari, e in qualche modo la introduca nei penetrali della sua vita intima? No, essa non ci può dare una formale e perfetta dimostrazione della divina Trinità, ma qua e là nel creato la trova adombrata. Vediamo queste ombre o queste vestigia di Dio uno e trino. – La sapienza greca, rappresentata da Aristotele, poneva quale aforisma, questo motto: – Omne trinum est perfectum -. Essa considerava questo numero come sacro e quel motto ebbe sempre un’eco fedele presso molti popoli antichi e moderni. Quale e d’onde la ragione di questo fatto? Non sembra inverosimile che la si debba ripetere da una antica e venerabile tradizione, che si nasconde nelle tenebre dei secoli, che risale all’origine dell’umanità e che è forse il riverbero d’una divina rivelazione. Nella quale opinione ci conferma un altro fatto anche più degno di considerazione. Noi, e sopra l’abbiamo notato, siamo ben lungi di ammettere in Platone la dottrina della Santa Trinità, quale è insegnata dai Libri Santi, e professata dalla Chiesa Cattolica. Troppe e troppo sostanziali differenze corrono tra le due dottrine perché possiamo menar buona l’opinione di alcuni Padri e dotti scrittori, che in Platone riconobbero per poco un precursore dell’Evangelista S. Giovanni. Ma è pur sempre vero che il sommo Platone in Dio intravvide una cotale Trinità a suo modo: è pur vero, che qualche sprazzo di questo dogma si trova sparso nei poeti e filosofi greci ed anche nella loro mitologia. È anche vero che nei Libri Sacri dell’India e della Persia e in fondo a quasi tutte le credenze religiose dei popoli, sotto forme più o meno esplicite, si incontrano espressioni e simboli che abbastanza chiaramente alludono ad una certa Trinità nell’Essere divino. Ora come Spiegare l’esistenza senza dubbio confusa e talora contradditoria di questa nozione d’una Trinità divina senza ricorrere o ad una tradizione primitiva, poi alterata, o ad un Vago presentimento della natura umana, che scorge il lontano riflesso del Mistero, che Dio nasconde negli abissi dell’essere suo? Quale che ne sia la vera origine, il fatto è indubitato, ed è un vestigio dell’augusto mistero. – E non basta: Scrutate questa materia inorganica e organica che vediamo e tocchiamo. Perché questa pietra, questo cristallo, questo corpo inanimato, è intimamente congiunto nelle singole sue parti, ne’ suoi atomi e mi presenta, la forma, che vedo? Perché in ogni sua parte, ancorchè minima, v’è una forza invisibile, che opera e stringe in uno gli atomi tutti e forma il corpo, che ci sta dinanzi? Questa forza è distinta dalla materia, che essa trae a sé, unisce e condensa in modi sì diversi e mirabili. Qui dunque abbiamo due Principii distinti, materia e forza, o forma, se così vi piace chiamarla. Ma due termini distinti non si possono concepire senza un rapporto, un nesso qualsiasi tra loro; ed eccoci nella stessa materia un’orma, un vestigio, appena visibile, è vero, ma un vestigio d’un essere, che è uno solo e che mi presenta alcun che di trino. La materia! Qualunque sia la sua natura e quali che siano le sue forme, essa non potrà mai avere che tre dimensioni, la lunghezza, la larghezza, la profondità. Trasformate come meglio vi piace la materia; voi la troverete sempre sottoposta a questa triplice dimensione della larghezza, della lunghezza e della profondità: esse sì intrecciano e si fondono tutte insieme nello stesso corpo, formando un solo corpo e rimanendo tra loro sempre distinte in guisa che l’una non è, né può essere l’altra. E nella materia non abbiamo il numero, il peso e la misura, tre cose distinte nella stessa identica cosa? – Vedete (il pensiero lo tolgo da S. Anselmo) l’acqua: essa è sempre la stessa nella sua fonte, nel fiume, che percorre, nel mare dove entra: così è la stessa essenza nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Vedete il sole: esso è un solo corpo immenso, tutto luce e tutto calore; e la luce non è il sole, né il calore, né il calore è il sole e la luce; tre cose distinte in una sola sostanza, e quel che è una è l’altra, inseparabili e distinte ad un tempo. Vedete l’albero: è una sola sostanza, che comincia dalla radice, si svolge nel tronco, si compie nel frutto: sempre tre cose distinte in una sola sostanza. Non fa mestieri il dire che tutte queste sono similitudini tolte dalla materia, la quale per essere l’ultima eco dell’azione creatrice e il punto più lontano da Dio, ne riverbera debolissima l’immagine. – Vedete l’animale: la Vita, la stessa vita, parte dall’uno, si svolge nell’unione col secondo e si compie nella produzione di un terzo; nella distinzione di tre esseri separati esiste la stessa natura. La famiglia umana consta del padre, della madre, del figlio. La società stessa (espansione della famiglia), come la famiglia, domanda un principio organatore, che risiede nella autorità, un principio che vuolsi organare, la moltitudine, e il mezzo che l’uno e l’altro congiunge, che è la forza delle leggi; principe, personale, o collettivo, sudditi e molteplici vincoli, che li collegano. – Vedete l’uomo nella sua parte più nobile, l’anima; essa è una sola e semplicissima sostanza, come sopra accennava, e da essa emanano perennemente due facoltà, intelligenza e volontà, due principii procedenti l’uno dall’altro e che necessariamente suppongono un primo principio, fonte di entrambi e tutti e tre sussistenti nella comune e unica sostanza. Ma di questa immagine della S. Trinità, la più bella e la più perfetta, che sia tra gli esseri creati, ci occuperemo più a lungo nel prossimo Ragionamento. E qui non si vogliono dimenticare altre e pur belle analogie, che effigiano il mistero della S. Trinità. Carattere inalienabile dell’uomo è il ragionare: ora per ragionare è necessario formare il giudizio: e il giudizio, base d’ogni ragionamento, consta di tre termini, non uno più, non uno meno, il soggetto, il predicato e il vincolo, che li unisce: – il cielo è sereno -. Eccovi i due termini, il cielo, soggetto; sereno, il predicato, e il verbo è, che li unisce. Tutti i giudizi possibili si riducono a questi tre termini, che congiunti formano un solo giudizio. L’uomo ragiona e forma giudizi: e due giudizi, raffrontati tra loro, producono una conseguenza, ed eccovi il sillogismo, forma suprema di tutti i ragionamenti: una proposizione generale, una particolare e la conseguenza, che ne scaturisce: tre in uno ed uno in tre! Finalmente considerate la forma di tutti i verbi, di tutti i tempi, di tutti i paesi, di tutte le grammatiche, di tutti i popoli: essa vi presenta costantemente le tre persone, io, tu, quegli, e per tormentarvi il cervello che facciate, non potrete mai aggiungervi una quarta persona. Che è tutto questo, o fratelli miei? Ho io forse dimostrato l’ineffabile mistero della Trinità? No, sicuramente. Vi ho messo innanzi alcune similitudini, alcune vestigia, alcune immagini, che in qualche modo adombrano il dogma cattolico, lo chiariscono, scemano le difficoltà di pensarlo e ce lo rendono, umanamente parlando, concepibile e credibile. E possiamo noi, proseguendo per questa via, sollevarci più in alto, accostarci ancor più a questa luce sfolgorante e affissarvi l’occhio nostro mortale, rischiarato dalla fede? Sì, lo possiamo!

IL CREDO

Offertorium

Orémus

 Tob XII: 6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. 

[Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Præfatio de sanctissima Trinitate

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in unius singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre cotídie, una voce dicéntes:

[ …veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola Persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce: ]…

COMUNIONE SPIRITUALE

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Communio

Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio 

Orémus.

Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.

[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA DI PENTECOSTE (2021)

DOMENICA DI PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Pietro in Vincoli.

Doppio di I Cl. con Ottava privilegiata di I ord. –  Paramenti rossi

Il dono della sapienza è un’illuminazione dello Spirito Santo, grazie alla quale la nostra intelligenza contempla le verità della fede in una luce magnifica e ne prova una grande gioia ». (P. MESCHLER.)

Gesù aveva posto le fondamenta della Chiesa durante la sua vita apostolica e le aveva comunicato i suoi poteri dopo la sua Resurrezione. Lo Spirito Santo doveva compiere la formazione degli Apostoli e rivestirli della forza che viene dall’Alto (Vangelo). Al regno visibile di Cristo succede il regno visibile dello Spirito Santo, che si manifesta scendendo sui discepoli di Gesù. La festa della Pentecoste è la festa della promulgazione della Chiesa; perciò, si sceglie la Basilica dedicata a S. Pietro, capo della Chiesa, per la Stazione di questo giorno. Gesù, ci dice il Vangelo, aveva annunciato ai suoi la venuta del divin Paracleto e l’Epistola ci fa vedere la realizzazione di questa promessa. All’ora Terza il Cenacolo è Investito dallo Spirito dì Dio: un vento impetuoso che soffia improvvisamente intorno alla casa e l’apparizione di lingue di fuoco all’interno, ne sono i segni meravigliosi. — Illuminati dallo Spirito Santo (Orazione) e riempiti dall’effusione dei sette doni, (Sequenza), gli Apostoli sono rinnovati e a loro volta rinnoveranno il mondo intero (Introito, Antifona).E la Messa cantata all’ora terza, è il momento in cui noi pure « riceviamo lo Spirito Santo, che Gesù salito al cielo, effonde in questi giorni sui figli di adozione ». (Prefatio), poiché ognuno dei misteri liturgici opera dei frutti di grazia nelle anime nostre nel giorno anniversario in cui la Chiesa lo celebra. Durante l’Avvento, dicevamo al Verbo: «Vieni, Signore, ad espiare i delitti del tuo popolo»; ora diciamo con la Chiesa allo Spirito Santo: Vieni, Santo Spirito, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in noi il fuoco dell’amor tuo » (Alleluia). È la più bella e la più necessaria delle orazioni giaculatorie, poiché lo Spirito Santo, il « dolce ospite dell’anima », è il principio di tutta la nostra vita soprannaturale.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Sap I: 7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja.

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII: 2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto].

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja

[Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.

Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.

[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.]

Lectio

Léctio  Actuum Apostolórum. Act. II: 1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilæi sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” 

[“Giunto il giorno della Pentecoste, i discepoli si trovavano tutti insieme nel medesimo luogo. E all’improvviso venne dal cielo un rumore come di vento impetuoso, e riempì tutta la casa, dove quelli sedevano. E apparvero ad essi delle lingue come di fuoco, separate, e se ne posò una su ciascuno di loro. E tutti furono ripieni di Spirito Santo, e cominciarono a parlare varie lingue, secondo che lo Spirito Santo dava loro di esprimersi. Ora abitavano in Gerusalemme Giudei, uomini pii, venute da tutte le nazioni che sono sotto il cielo. Quando si udì il rumore la moltitudine si raccolse e rimase attonita perché ciascuno li udiva parlare nella sua propria lingua. E tutti stupivano e si meravigliavano, e dicevano: «Ecco, non son tutti Galilei, questi che parlano? E come mai, li abbiamo uditi, ciascuno di noi, parlare la nostra lingua nativa? Parti, Medi ed Elamiti, e abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle regioni della Libia in vicinanza di Cirene, e avventizi romani, Giudei e Proseliti, Cretesi e Arabi li abbiamo uditi parlare nelle nostre lingue delle grandezze di Dio”. (Atti II, 1-11).]

LINGUE E FUOCO.

Il miracolo delle lingue, il gran miracolo del giorno della Pentecoste, è stato mirabilmente descritto di sul testo sacro del nostro Manzoni.

« Come la luce rapida — piove di cosa in cosa

— E i color varii suscita — Ovunque si riposa;

— Tal risonò molteplice — La voce dello Spiro;

L’Arabo, il Parto, il Siro, — In suo sermon udì ».

Ma quel miracolo ne significava un altro che cominciava da quel giorno a diventar realtà mercè la diffusione, allora inaugurata ufficialmente, del Santo Vangelo, del verbo di Cristo. La divisione delle lingue — la chiamo così per aderire al racconto biblico nella sua integrità e nel suo spirito — fu un castigo non proprio per la materialità delle lingue molteplici che si cominciarono a parlare, ma perché gli uomini, da Babele in poi, non si intesero più, non si capirono, non si amarono, si contrastarono in odî e in guerre fratricide. Si divisero. Era il castigo dell’orgoglio quella divisione delle anime di cui era espressione chiara la varietà delle lingue. Il linguaggio, divinamente dato agli uomini perché intendessero, serviva a confonderli, a separarli. I figli, abbandonando la casa paterna, di fratelli che ivi erano, diventarono stranieri prima gli uni agli altri, per diventare nemici poi. Tutto questo si capovolge a Gerusalemme, nella Pentecoste dello spirito, che continua e suggella e propaga la redenzione di N. S. Gesù Cristo. I figli ritrovano il Padre, imparano di nuovo a parlare con Lui, sentirlo ed esserne sentiti « Loquentes variis linguis », sì, ma « loquentes magnalia Dei ». Non più gli Dei falsi e bugiardi, ma Dio unico, vivo e vero. Non più solo un simbolo ferreo di questa unità divina nell’unico Tempio, come al giorno della legge e dei profeti, ma un unico santuario delle anime, un solo Dio, il Dio predicato, il Dio comunicato da N. S. Gesù Cristo alla umanità, un solo Dio nei cuori. E ciascuno canta nella sua lingua materialmente, o in lingua diversa: «loquentes variis linguis,» ma tutti capiscono. « Audivimus eos loquentes ». «L’Arabo, il Parto, il Siro in suo sermon l’udì. » Mirabile fusione di popoli che comincia attraverso la fusione delle anime, fusione meravigliosa di anime che comincia attraverso la riconciliazione umile e fervente con Dio… E continuerà così di secolo in secolo nella Chiesa e mercè di essa, piena com’è dello Spirito Santo. Un numero crescente di popoli i più diversi, per colpa della vecchia babele, formeranno via via una sola famiglia, un solo popolo: « populus eius, » il popolo di Dio. Parleranno il linguaggio intimo della stessa fede: « una fides ». Il verbo, la parola più vera, più umana, non è quella che suona materialmente sulle labbra; è quella che squilla, che splende nell’intelletto, di cui l’esterna è un’eco, come spiega profondamente San Tommaso. Uniamoci sempre più, in questa lingua interiore con l’accettazione umile della verità rivelata, della verità cristiana, quella verità di cui lo Spirito Santo è maestro intimo a ciascuno di noi, se ciascun di noi accetta il Magistero solenne e autorevole della Chiesa. Parliamo la lingua divina della stessa fede, « una fides » e i nostri cuori batteranno all’unisono della stessa carità. Ci capiremo senza parlare, magari: quelli che si amano davvero si capiscono così. E lavoriamo perché la cerchia dei popoli che in Gesù Cristo e nella Sua Chiesa ritrovano il segreto di una verità, diventi sempre più larga.

(P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. – Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

ALLELUJA

Allelúja, allelúja

Ps CIII: 30 Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja.

[Manda il tuo Spírito e saran creati, e sarà rinnovata la faccia della terra. Allelúia.

[Hic genuflectitur:]

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

[Vieni Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli: ed accendi in essi il fuoco del tuo amore]

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus,

et emítte cælitus lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium.

Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium.

 In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium.

O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium.

Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium.

 Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium.

Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium.

Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

[Vieni, o Santo Spirito,
E manda dal cielo,
Un raggio della tua luce.

Vieni, o Padre dei poveri,
Vieni, datore di ogni grazia,
Vieni, o luce dei cuori.

O consolatore ottimo,
O dolce ospite dell’ànima
O dolce refrigerio.

Tu, riposo nella fatica,
Refrigerio nell’ardore,
Consolazione nel pianto.

O luce beatissima,
Riempi l’intimo dei cuori,
Dei tuoi fedeli.

Senza la tua potenza,
Nulla è nell’uomo,
Nulla vi è di innocuo.

Lava ciò che è sòrdito,
Irriga ciò che è àrido,
Sana ciò che è ferito.

Piega ciò che è rigido,
Riscalda ciò che è freddo,
Riconduci ciò che devia.

Dà ai tuoi fedeli,
Che in te confidano,
Il sacro settenario.

Dà i meriti della virtú,
Dà la salutare fine,
Dà il gaudio eterno.
Amen. Allelúia. ]

Evangelium

 Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XIV: 23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Chiunque mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo da lui, e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole. E la parola, che udiste, non è mia: ma del Padre, che mi ha mandato; queste cose ho detto a voi, conversando tra voi. Il Paracleto poi, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome mio, Egli insegnerà a voi ogni cosa, e vi ricorderà tutto quello che ho detto a voi. La pace lascio a voi; la pace mia do a voi; ve la do Io non in quel modo, che la dà il mondo. Non si turbi il cuor vostro, né s’impaurisca. Avete udito, come io vi ho detto: Vado, e vengo a voi. Se mi amaste, vi rallegrereste certamente perché ho detto, vado al Padre: conciossiaché il Padre è maggiore di me. Ve l’ho detto adesso prima che succeda: affinché quando sia avvenuto crediate. Non parlerò ancor molto con voi: imperciocché viene il principe di questo mondo, e non ha da far nulla con me. Ma affinché il mondo conosca, che Io amo il Patire, e come il Padre prescrissemi, così fo” (Jo. XIV, 23- 31) .

OMELIA

(G. Bonomelli: Misteri Cristiani. Vol. III; Rag. IV. – Ed. Queriniana, Brescia, 1896)

La Pentecoste ed i Vaticini di Cristo.

Tra i Misteri della nostra fede, voi non lo ignorate, o carissimi, tiene un alto posto l’odierno, che chiamasi della Pentecoste, ossia del cinquantesimo giorno dopo la Pasqua. La Chiesa ebbe sempre cura sollecita di celebrarlo colla maggior pompa e circondarlo di tutto quello splendore e di quella sacra magnificenza, di cui ella conosce sì bene il segreto. La Pentecoste giudaica ricordava la legge di Dio, promulgata sul Sinai; legge di timore, scritta sulle tavole di pietra, per un solo popolo, popolo di dura cervice e di cuore incirconciso; la Pentecoste cristiana rammenta la legge divina sancita sul Calvario, uscita dal Cenacolo, compimento dell’antica, legge d’amore, scritta da Dio, non sulla pietra, ma sul cuore stesso dei credenti. A questo giorno la Chiesa ci prepara col digiuno e lo fa seguire da una ottava solenne. Ne’ tempi andati essa volea che questo Mistero fosse festeggiato per tre giorni e che tutti i fedeli si accostassero ai Sacramenti come alla Pasqua: che se, un secolo fa, i tre giorni di festa furono ridotti a due, e se da quasi sette secoli fu tolto il precetto di ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia, ciò fu fatto per acconciarsi ai bisogni dei tempi mutati e per quello spirito sapientissimo di discrezione e di benignità, che informa sempre le sue leggi. E bene a ragione la Chiesa festeggia questo giorno, quasi dissi, non altrimenti che quelli del Santo Natale e della Pasqua di Risurrezione; perché se nel Santo Natale essa celebra il nascimento e nella Pasqua la Risurrezione del suo fondatore e sposo, Gesù Cristo, nella Pentecoste essa ricorda il frutto di quei due Misteri, la sua stessa origine, il felice suo ingresso nel mondo. Perocché oggi la Chiesa, piena di vita immortale, esce dal Cenacolo, come cinquanta giorni prima Gesù Cristo risorto balzò dal sepolcro. Essa in questo giorno discende intrepida per le vie di Gerusalemme: in questo giorno per bocca di Pietro e de’ suoi fratelli Apostoli fa udire per la prima volta la potente sua voce e comincia quella lotta terribile, quella audacissima di tutte le conquiste, che attraverso alle più fortunose vicende deve aver fine coi secoli. In questo giorno Gesù Cristo, di sua mano, stacca dalla sponda questa piccola e fragile barchetta della Chiesa e la lancia sulle onde tempestose di questo mare infido, che è il secolo: sopra di essa pianta l’albero della Croce, spiega le candide vele al soffio dello Spirito Santo; Egli stesso ne affida il timone al pescatore di Betsaida e gli grida: « Non temere: io ho vinto il mondo e sono teco: spingi in alto la prora, calca i superbi flutti del mare e drizza il timone verso le rive tranquille della eternità ». – Il fatto o Mistero della Pentecoste è ricco di molti e sublimi insegnamenti: oggi mi piace metterne in luce due, il primo de’ quali prova come Cristo signoreggi con sicuro sguardo il futuro: il secondo spiega l’enigma della guerra atroce del mondo contro la Chiesa: l’uno e l’altro poi insieme congiunti mostrano la sapienza divina di Cristo e ci devono confortare nelle prove sì aspre della vita, che ci è forza affrontare. Gesù Cristo annunziò in termini chiarissimi molte profezie: voi le trovate registrate nei Vangeli: non ne cadde una sola. Tutte nel tempo e nei modi stabiliti si adempirono esattamente. Io sono d’avviso che fra le profezie annunziate da Cristo non se ne trovi pur una, che sia stata tante volte, con tanta chiarezza e in tante e sì diverse forme annunziata come quella che riguarda le sorti della sua Chiesa sulla terra: ed è di questa che intendo ragionare. – Aprite i quattro Evangeli: scorreteli per ogni verso. Quasi ad ogni pagina Gesù Cristo parla della sorte riserbata agli Apostoli, ai discepoli, ai credenti nel suo nome: parla del suo regno, la Chiesa, e delle vicende che l’aspettano. Che dice? Come descrive le sorti della Chiesa? Come saranno accolti dal mondo i suoi Apostoli e i loro successori? Come tratteggia la storia futura della sua Chiesa? Mirabile a dirsi! Cristo ne parla con una chiarezza e asseveranza spaventosa: si direbbe che prova una misteriosa voluttà nel dipingere il futuro coi più foschi colori, e mentre avrebbe dovuto temperare la frase, attesa la natura timida degli Apostoli, la rende più tagliente, nulla tace, nulla dissimula, tutto predice con una crudezza di linguaggio inaudita. Ascoltatelo: cito le sue parole così come si trovano sparse nei suoi Vangeli, e come mi si affacciano alla memoria. « Vi mando in mezzo al lupi… Vi trascineranno nelle loro radunanze… vi flagelleranno… sarete tratti innanzi ai giudici ed ai re per la mia dottrina… il fratello si farà accusatore del fratello e lo darà a morte… il padre darà in mano ai nemici il figlio e i figli si leveranno contro i padri e li uccideranno… sarete in odio a tutti pel mio nome… perseguitati in una città, fuggite in un’altra,… han chiamato me Belzebub: quanto più voi! Non temete quelli che possono uccidere il corpo, ma non possono uccidere l’anima… vi cacceranno dalle loro assemblee e si verrà a tale, che crederanno di rendere omaggio a Dio, ammazzando… come hanno perseguitato me, perseguiteranno voi ». – E non crediate che questa sia la condizione degli Apostoli, ristretta al primo stabilimento della Chiesa fino al termine dei tempi, perché  Gesù Cristo espressamente afferma, che i suoi discepoli saranno trattati come Lui, loro maestro; perché predice perpetua la esistenza della Chiesa e perpetua altresì la lotta e perché San Paolo, interprete fedele ci fa sapere, che soffriranno persecuzione tutti quelli che vogliono vivere secondo gli insegnamenti del divino Maestro, tantochè essere Cristiano ed essere fatto segno a contraddizioni è la stessa cosa: quanto più la Chiesa, che sotto la sua bandiera raccoglie tutti i seguaci di Cristo! Carissimi! Possiamo noi dubitare che queste parole siano cadute dalla bocca di Cristo prima che dai fatti ricevessero la loro conferma? No: è impossibile dubitarne. Vi può essere un linguaggio più netto, più preciso di questo? No! È simile ad una lama acuta a due tagli, lucida come pulito argento. Ora permettete che vi domandi: Questo vaticinio sì esplicito, sì chiaro, sì ripetuto, sì particolareggiato, che annunzia l’accoglienza che sarà fatta agli Apostoli, che dipinge la sorte riserbata alla Chiesa nel corso dei secoli, era esso umanamente possibile? Rispondeva esso ai calcoli della sapienza umana allorché Cristo lo proferiva? Senza stare in forse un istante rispondo: no. Cristo. giudicando le cose coll’occhio della ragione e della scienza umana, non doveva, non poteva gittare là una profezia come quella che avete udita: anzi predire tutto il contrario. – E in vero: poniamoci a lato di Cristo, in mezzo agli Apostoli, e consideriamo il mondo d’allora, la nuova dottrina da Lui insegnata, la natura, il carattere, l’indole degli Apostoli. Nel mondo, in alto, negli uomini della scienza e del potere, delle arti e delle lettere, del foro e delle ricchezze, troviamo l’indifferenza, lo scetticismo religioso, l’epicureismo; in alcuni pochi uomini, di sensi nobili ed elevati, troviamo le superbe dottrine stoiche o quelle brillanti di Platone: nelle moltitudini vive ancora il paganesimo, non come dottrina (che non lo fu mai), ma come culto, come tradizione, come mezzo per riempire, se era possibile, un bisogno del cuore per quetare un sentimento indistinto dell’infinito e giustificare una condotta, che doveva ripugnare al grido confuso della coscienza, – Il popolo re, in Roma, vedeva sorgere per opera di Agrippa un tempio sacro agli Dei tutti della terra: il suo nome di Panteon era la più solenne professione di tolleranza religiosa universale. L’Areopago d’Atene innalzava allori ad una folla di Numi e perfino al Dio ignoto. L’Egitto poteva liberamente adorare le sue divinità, come i Siri e i Galli le loro. Non una legge che proscriva le Religioni senza numero dell’Impero Romano, non un cittadino molestato pel culto ch’egli presta ai suoi Numi nazionali. E fu politica sapiente dell’antica Roma e non ultima delle cause che spiegano l’ampiezza del suo Impero, il rispetto e l’obbedienza che ottenne da tanti popoli differentissimi. La stessa nazione giudaica non isfuggì a questo soffio di universale infiacchimento del sentimento religioso, a questa tolleranza d’ogni culto. Noi vediamo sedere nel gran Consiglio di Gerusalemme buon numero di Sadducei, gli Epicurei d’Israele, che negavano l’esistenza e la vita futura senza che l’Autorità suprema lì molestasse. Ecco il mondo romano e greco, il mondo gentile ed ebraico al tempo di Cristo. La tolleranza religiosa si apre la via dovunque e discende dall’alto. – Consideriamo la dottrina teorica e morale, che Cristo introduce nel mondo: essa non respinge ma completa e perfezione quella di Mosè: non poteva dunque essere combattuta dai Giudei e da loro più che da tutti gli altri popoli doveva essere accolta, come fioritura del mosaismo. – Che dire del paganesimo di Grecia e di Roma? – L’insegnamento di Cristo per ciò che spetta Dio e la sua natura, la condotta morale dell’uomo, nella classe dotta, informata ai principii filosofici di Socrate, Platone, Aristotele e Zenone, ammirati e seguiti a Roma da Seneca, Cicerone, M. Aurelio ed altri, non poteva non trovare la più cordiale accoglienza. Sovra molti punti teorici e pratici del Vangelo di Cristo e della filosofia platonica e stoica parvero sì grande la somiglianza e l’affinità, che il razionalismo moderno osò ed osa affermare, che il Cristianesimo in sostanza è il frutto della filosofia messa al contatto dell’ebraismo, è il portato naturale della evoluzione scientifica di quell’epoca. Il Cristianesimo, pertanto, non poteva trovare opposizione seria nella classe alta della società, negli uomini della Scienza, e tutti sanno che le moltitudini ignare finiscono sempre col seguire quelli che le guidano. Che se poi finalmente consideriamo gli Apostoli e il loro carattere, sempre più dobbiamo persuaderci che l’opera loro alla peggio doveva passare inosservata come quella di alcuni poveri allucinati e fanatici. Erano ignoranti, rozzi, sprovveduti di beni di fortuna, senza credito, senza protezioni, senza prestigio sul popolo, stranieri, appartenenti alla razza più spregiata di tutto l’Oriente, vivevano di limosine. Predicavano il disprezzo delle ricchezze, degli onori e dei piaceri: esigevano dai seguaci l’amore della umiltà, la purezza del cuore, la temperanza, la mortificazione, l’ubbidienza e il rispetto per coscienza a tutte le autorità: imponevano a nome di Dio il perdono delle offese, la fedeltà coniugale, il dovere della limosina, l’amore non solo dei connazionali, ma di tutti indistintamente gli uomini. Come odiare e perseguitare uomini, che professavano sì sante dottrine, che non facevano male a chicchessia, bene a molti, che desideravano farne a tutti? Si potevano compatire come illusi, non mai porre fuori d’ogni legge e metterli a morte come nemici dello Stato e del genere umano, Dunque Gesù Cristo, mandando gli Apostoli a predicare e a fondare la Chiesa, poteva bene predire loro alcune molestie, alcune vessazioni comuni, la noncuranza, il disprezzo del mondo, ma non poteva, umanamente ragionando, predire loro e ai loro successori tante e sì feroci persecuzioni, quali sono quelle che leggiamo nel Vangelo. Eppure le predisse nei termini più espliciti e ripetutamente, tantoché nulla di più certo e di più chiaro di questo vaticinio. – Che dice la storia? I fatti, ch’essa ci narra, a chi hanno essi dato ragione? Ai calcoli della umana prudenza, o alla parola di Cristo, a quelli interamente contraria? La storia della Chiesa comincia in questo giorno ed ecco ciò ch’essa registra. Appena gli Apostoli sciolgono la lingua e annunziano il Vangelo di Cristo, molti della folla, e secondo ogni verosimiglianza gli uomini della scienza e del potere, in aria di scherno e di compatimento esclamano: – Costoro sono ubriachi -. E poco appresso sono condotti dinnanzi ai tribunali, interrogati, minacciati, battuti con verghe, gettati in carcere, sbandeggiati. Stefano, l’intrepido diacono, è sepolto sotto una gragnuola di pietre: Giacomo ha mozzo il capo: l’altro Giacomo, il minore, è precipitato dal tempio: Pietro e Andrea crocifissi, Paolo decapitato e tutti gli altri Apostoli e discepoli cogli esigli, colle carceri, col sangue suggellano la loro fede. La storia degli Apostoli è la storia della Chiesa: mutano alquanto le forme della lotta per ragione dei luoghi, dei tempi, dei costumi, ma la sostanza è sempre la stessa. La Chiesa trova sempre sulla sua via nemici potenti, che le tendono insidie, che la combattono, che col sofisma o col ferro tentano di ucciderla. – Ora sono popoli, che si scagliano sopra di essa; ora principi, che le stringono i polsi; ora i dotti che la coprono di calunnie e di fango; ora nemici esterni; ora nemici interni: la sua vita è veramente una incessante milizia, una perpetua guerra: ebbe ed ha tregue, ma pace vera e stabile non mai. Scorrete la sua storia dal dì della Pentecoste fino ad oggi e ditemi se vi fu mai regno, impero o repubblica, che avesse sulle braccia tanti e sì formidabili nemici quanti ne ebbe la Chiesa e la lotta anziché mitigarsi o scemare, accenna ad inasprirsi su tutti i punti e l’avvenire si avanza sempre più minaccioso. – I poteri umani dalle altezze monarchiche vanno discendendo nelle moltitudini e in cento modi attuandosi e trasformandosi: ma la diffidenza, l’astio, l’odio, o alla men peggio la più inesplicabile indifferenza verso la Chiesa, trattata come nemica o straniera, perdurano. La scienza, essa pure, va quotidianamente allargando le sue conquiste e diventa sempre più patrimonio comune; ma è pur troppo questa scienza, che male usata e divenuta di fatto monopolio di pochi audaci, fornisce le armi più terribili ai nemici della fede e a viso scoperto combatte la Chiesa. – Né ci sia grave por mente a un fatto, che può sembrare strano. Moltissime sono le religioni, che vissero e vivono sulla terra: sono molte le Chiese, che si gloriano del nome di Cristo e che si sono staccate dal grand’albero della Chiesa Cattolica, in cui solo si concreta perfettamente il Cristianesimo. Vedete la Chiesa greca foziana, la eutichiana o copta, la nestoriana, la russa, la rumena, la bulgara, la serba e tutte le varie Chiese protestanti, quale che ne sia il nome: sono tutti rami, che l’eresia o lo scisma staccarono dall’albero della Comunione Cattolica Romana: abbiamo comune con esse la maggior parte dei dogmi rivelati, comune il Decalogo: tutte queste varie Chiese si accordano perfettamente tra lor o in un solo punto, quello di respingere l’autorità suprema ed infallibile del Romano Pontefice, che è il centro della nostra unità di fede e di governo. Ebbene, o carissimi: tutte codeste Chiese cristiane, separate dalla Cattolica, sono lasciate in pace e popoli e governi le lasciano progredire tranquillamente la loro via. Chi molesta e perseguita la Chiesa Russa? Chi pensa a mettere impacci alle Chiese protestanti d’Inghilterra. di Olanda, di Svizzera e di Germania? Chi aggrava la mano sulle Chiese foziana, nestoriana od eutichiana? Nessuno, ch’io sappia: anzi le veggo protette, favorite, onorate dai governi loro e talor troppo. Generalmente parlando, la sola Chiesa Cattolica fa eccezione: per essa vi sono pressoché dovunque e sempre diffidenze, molestie, impacci ed anche persecuzioni più o meno aperte. Pigliate tutte lo Religioni che esistono sulla terra; paragonatele tra loro e voi troverete, che quella che fu ed è più fieramente combattuta con ogni sorta di armi è la Chiesa Cattolica: è un primato e glorioso che nessuno le può contendere. Per restringerci ai tempi moderni, ditemi: Nel periodo sì tremendo della rivoluzione francese, che cosa soffersero i Protestanti in Francia? Nei giorni nefasti della Comune chi se la pigliò colle Chiese protestanti o colle Sinagoghe giudaiche? Nella fiera lotta del Kulturcamp quali molestie patirono le Chiese luterane, calvinistiche o zwingliane? Non passa un solo anno, e spesso un solo mese, che il vento, che soffia ora da nord, ora da est, ora dal sud, non ci porti le grida dolorose dei fratelli nostri Cattolici perseguitati, imprigionati e uccisi al Tonchino, alla Corea, all’Annam [l’attuale Vietnam – ndr.-], alla Cocincina, in China, sulle rive del Congo, dell’alto Nilo o dei laghi dell’Africa centrale. Di lei a ragione canta il poeta:

“Tu che da tanti secoli / Soffri, combatti e preghi; / Che le tue tende spieghi / Dall’uno all’altro mar.”

La vita di Gesù Cristo fu vita di continui dolori e di continue umiliazioni; poteva ella essere diversa quella della sua Sposa e del suo Corpo mistico, la Chiesa? Ora si domanda: Come mai la Chiesa, che non fece, né può far male a persona, che fece e fa bene a tutti, agli individui come alla società, nell’ordine intellettuale, morale e anche materiale, fu ed è sì ferocemente odiata, perseguitata? Egli è come domandare: Perché Cristo fu odiato, perseguitato e sì crudelmente messo a morte, Egli che visse amando beneficando tutti? Le cause vere dobbiamo cercarle, non nella ragione, ma nelle passioni: secondo la ragione doveva essere benedetta e proclamata la grande benefattrice dell’umanità: ma secondo le passioni doveva essere maledetta come la peggior nemica, e se fosse possibile cacciata dal mondo. – La Chiesa leva la sua gran voce ed ammaestra tutti gli nomini; e che cosa insegna? Insegna che vi è Dio, Creatore e Signore d’ogni cosa: che al suo sguardo non isfugge nulla, nemmeno il più occulto pensiero: che ogni uomo a Lui dovrà rendere conto strettissimo d’ogni pensiero, d’ogni affetto, d’ogni parola e d’ogni azione. Insegna che il Figliuol di Dio si fece uomo patì e morì per tutti e costituì Lei stessa, la Chiesa, Maestra infallibile e guida sicura nella via della virtù e della salvezza. Insegna finalmente, che bisogna osservare quella legge eterna, che è scritta nel nostro cuore e che il Vangelo ha rischiarata, confermata e condotta alla più alta perfezione. Ecco l’insegnamento della Chiesa. Si può immaginare scuola più sublime, più popolare e più santa di questa? Vi può essere istituzione di questa più utile, volete al privato, volete al pubblico bene? Perché dunque il mondo e i poteri della terra le mossero e muovono sì aspra guerra? Perché il mondo e troppo spesso ì poteri che lo reggono non amano la luce, ma le tenebre secondo il linguaggio del Vangelo. – O mondo, che importa a te della Chiesa, dei suoi dogmi e delle sue leggi morali? Che importa a te del suo Vangelo e del suo Decalogo? Tu sei libero: tu puoi fare ciò che ti aggrada: a te che fa se la Chiesa co’ suoi figli creda a Dio, a Cristo, alla vita futura? Se la sua fede ti sembra una superstizione, le sue leggi un giogo inutile e funesto, non hai ragione di turbarti e di levarti contro di essa. Infine, Essa non impone la sua fede e le sue leggi colla forza; anzi Essa altamente predica che la Religione sua detesta la forza materiale e domanda la persuasione (È dottrina formale della Chiesa Cattolica, insegnata dai Padri costantemente, come S, Atanasio, S. Ilario ed altri e proposta da Leone XIII nella Enciclica Immortale Dei opus, dove, citando S. Agostino, scrive: – Nessuno è costretto ad abbracciare la fede -. I Cattolici possono usare al bisogno la forza per difendere la Propria fede, non mai per imporla ad altri.). Lasciala dunque in pace: non ti curare di Essa: non fare a te stesso il torto di metterti in guerra contro una società perché non pensa a tuo modo. Tu spieghi la bandiera della libertà di pensare per tutti egualmente: dunque rispetta questa libertà anche nella Chiesa: nella perfetta tolleranza d’ogni credenza e d’ogni opinione tu non puoi odiare la Chiesa, né dilettarti a gettar pietre sul suo cammino e farla segno de’ tuoi assalti e delle tue ire. Se non l’ami, non la voler nemmeno odiare -. Così dovrebb’essere se il mondo ragionasse, se i poteri della terra fossero fedeli ai principii, dei quali si vantano apostoli. Ma in fondo alla natura umana vi è qualche cosa che è più forte di certi principii, ch’essa scrive sui suoi codici e sulle sue bandiere e che assi volte la costringe a rinnegarli anche a costo di infliggere a se stessa l’onta della contraddizione. Fratelli mici! le tenebre saranno sempre nemiche della luce; la vita sarà sempre in lotta colla morte e l’errore à sempre in faccia alla Verità per combatterla. Perché il lupo anche satollo si getta sull’agnello e l’uccide e la tigre anche sfamata si lancia sulla gazzella, che trova sulla sua via? È l’istinto più che il bisogno che spinge l’uno e l’altra alla strage: così l’odio del mondo contro della Chiesa, l’astio di certi poteri pubblici contro di essa è figlio dell’istinto. Sgorga dalla natura delle cose ed opera a dispetto della ragione e della volontà e persino del proprio interesse. –  Conobbi un uomo, cui non facea difetto un ingegno naturale pronto ed acuto, ricco e potente nella società in cui viveva. In lui era profondo l’odio contro la Religione, contro i preti e contro i frati: al solo vederli fremeva. – E che t’han fatto di male, gli dissi, questi frati, la cui sola vista le torna intollerabile? – Non m’han fatto nulla di male -. Perché dunque li odia e li ammazzerebbe se potesse? – Nol so: ma ho qui dentro qualche cosa che mi costringe ad odiarli -. E diceva bene. Come nell’ordine fisico e materiale vi sono elementi e corpi che hanno tra loro una misteriosa affinità e si combinano tra loro e si fondono insieme, e ve ne sono altri che si respingono a vicenda, così è nell’ordine morale. Tra i buoni e i cattivi vi sono talvolta ripugnanze misteriose ed invincibili, che possono giungere fino all’odio più cupo, al parossismo dell’odio, che si manifesta in atti feroci, che sembrano inesplicabili. La storia è piena di questi fenomeni strani e la stessa vita domestica ne offre non rari esempi. Sono antipatie istintive, sono nemici che prima di conoscersi si sentono, e se posso dirlo. Si odorano. Il Paganesimo colle sue superstizioni, colle sue brutture; il giudaismo colle sue idee falsissime sul Messia e sull’opera sua: la scienza pagana col suo orgoglio; in una parola il mondo, quale è dipinto dal Vangelo, si vide innanzi la Chiesa di Cristo colle sue verità, colle Virtù si sublimi, che la rendevano sì bella e veneranda; presentirono in essa la forza divina, che li avrebbe vinti e annientati, o l’istinto della propria conservazione li riempì di odio contro il novello nemico e armò la loro destra a’ danno di Lei. La vista, la presenza, il nome, la vo della Chiesa, di questa Chiesa, debole fin che volete, ma di cui sentivano arcanamente la superiorità, offendeva, feriva il mondo e i poteri del mondo, li provocava all’ira, li spingeva alla guerra più implacabile. Ecco la spiegazione ovvia e naturale di quelle persecuzioni, che a prima fronte sembravano affatto inverosimili. – V’ha di più, o fratelli. In ogni uomo vi è sempre il sentimento indistruttibile della propria indipendenza, che sì facilmente egli confonde coll’amor proprio esagerato. Frugate bene nei penetrali dell’anima sua e troverete l’io, quell’io, che si desta, si inalbera e diventa feroce allorché altri gli intima di piegarsi e arrendersi a discrezione. L’io individuale si trasforma nell’io d’una scuola, di un corpo morale e diviene l’io nazionale, Non vi è nulla di più terribile di questo “io”, in cui si concentra la dignità vera, o falsa, poco importa, la grandezza, la gloria, l’orgoglio d’una nazione. Guai per chi osa affrontarne le ire! Quell’io offeso è come il leone del deserto, che il cacciatore assale nella sua tana e ferisce. La Chiesa fa come Cristo: essa si presenta debole, umile, ma franca, risoluta, colla coscienza dei suoi doveri e diritti. Essa, benché inerme e umanamente debole, a nome di Dio, intima a tutti egualmente le stesse verità, le stesse leggi, gli stessi doveri: non tempera le asprezze di certe verità e di certi doveri, che stringono l’uomo privato come l’uomo pubblico: il suo linguaggio è, come vuole il Vangelo: – È, è; no, no. Credete questo Simbolo, osservate questo decalogo, obbedite a me, come rappresentante di Cristo se volete essere salvi: se ricusate, perirete tutti egualmente, siate ricchi, siate poveri, siate dotti, siate ignoranti, siate sudditi, o siate re. Dinanzi a Dio Siete tutti eguali e chi siede più alto troverà più Severo il giudice – Immaginate voi, carissimi, come i Pagani, gli ebrei, i filosofi, i magistrati, i consoli, i governatori, i re, gli imperatori dovessero accogliere questo insegnamento e quelli che lo annunziavano! Pensate voi come l’orgoglio dei ricchi, dei dotti, dei magistrati, dei re, e degli imperatori ne fosse ferito e ne fremesse! Pensate come, avendo in mano il potere, il Supremo potere, ne dovessero usare contro questi miserabili Galilei, contro questa Chiesa, che avevano l’inaudita audacia di imporsi loro, di chiedere loro l’omaggio della mente e del cuore in modo sì perentorio, senza limite di tempo, senza far distinzione tra classe e classe, tra sudditi e regnanti! La lotta era ed è inevitabile, ha riempito e riempie ancora il mondo. –  Gli uomini della scienza e più ancora gli uomini del potere non solo non sanno rassegnarsi alle parti di discepoli e di soggetti in faccia ad altri uomini. sia pure che si atteggino a mandati del Cielo, ma per un cotale istinto, per un cotale bisogno in essi quasi naturale, e quasi per abitudine, hanno la pretensione, che tutti si pieghino dinanzi a loro, che tutti ubbidiscano ad un loro cenno. È sì dolce cosa il comandare! È sì caro al nostro orgoglio vedere chinarsi dinanzi a noi le fronti dei fratelli nostri e poter loro sovrastare! Ora ponete la Chiesa in faccia ai Re e agli Imperatori pagani e più tardi anche in faccia ai Re e agli Imperatori cristiani, nei quali la fede non estingue, né può estinguere al tutto la malnata radice dell’orgoglio, retaggio comune: voi comprendete che questi uomini del potere debbono sentire prepotente il desiderio e quasi bisogno di assoggettarsi questa Chiesa, che parla a nome di Dio, che proclama i diritti sacri della coscienza ed osa dire loro: – Voi potete arrivare sin qui, sulle soglie della coscienza: ma non potete, non dovete andare più oltre. Qui finisce il vostro impero, qui comincia quello di Dio e il mio. – Ciascuno può comprendere di leggeri come gli uomini del potere non solo pàgani, ma anche cristiani e cattolici, nei quali non raramente vivevano ancora le idee pagane, si adontassero e si mettessero in sull’armi. Tutte le altre religioni per timore, o per isperanza, o per difetto di convinzioni dinanzi all’autorità laica si piegavano, calavano agli accordi e vendevano in tutto o in parte almeno la loro libertà: pur di vivere si rassegnavano a servire; solo la Chiesa Cattolica rispondeva: – Io rendo a Cesare ciò che è di Cesare, ma prima rendo a Dio ciò che spetta a Dio; io ubbidisco in tutto ciò che non offende i diritti di Dio; dove questi sono offesi, non posso, non voglio, non debbo ubbidire. Potete tormentarmi, sbandirmi, gettarmi nelle carceri, tormentarmi, sbandirmi, caricarmi di catene, trascinarmi sul patibolo; ma da me non avrete altra risposta di questa in fuori: Bisogna ubbidire prima a Dio che agli uomini -. Ecco ciò che forma la forza e la grandezza della Chiesa e che naturalmente eccitò contro di Essa i sospetti, le ire e gli odii implacabili di quasi tutti i poteri della terra. Ecco in fondo la vera causa delle lotte tra Chiesa e Stato, che riempiono tutto il medio evo, che sotto altre forme appariscono dal medio evo fino alla rivoluzione francese e dalla rivoluzione francese giungono fino ai nostri giorni. La Chiesa Cattolica prega per Nerone, secondo il precetto di Pietro e Paolo: prega per tutti i poteri pubblici e li onora in Oriente e in Occidente, anche quando la perseguitano: Essa riconosce gli Imperatori di Germania e di Russia anche quando vede i suoi Vescovi, sacerdoti e fedeli multati, imprigionati ed esuli erranti sotto il cielo di Siberia; ma non è mai, che ceda loro un solo punto di dottrina, che tradisca un solo apice delle verità ricevute da Cristo. Tanta costanza e fortezza d’animo dovrebbe colmare di meraviglia il mondo e in quella vece accende le sue ire ed arma il suo braccio. – È ciò che Cristo previde ed annunciò e che ci spiega la storia sempre antica e sempre nuova della sua Chiesa. Noi ti salutiamo, o Chiesa di Dio, specchio fedele del tuo fondatore e sposo, Gesù Cristo. Tu sei veramente segno: “D’inestinguibil odio – E d’indomato amor” – Nelle persecuzioni, che sono tue inseparabili compagne, vediamo adempito il vaticinio di Cristo e troviamo la soluzione naturale di questa lotta che sembra inesplicabile, fra te e il secolo. Noi ci raccogliamo sotto le tue tende, ascoltiamo le tue parole, ubbidiamo ai tuoi cenni, sempre memori di ciò che a te disse il divino Maestro – Ecco io sono con voi fino al termine dei tempi – Ecce ego vobiscum sum usque ad consumationem sæculi -.

IL CREDO

Offertorium

Orémus – Ps LXVII: 29-30

Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja.

[Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quæsumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda.

[Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Acts II: 2; 4

Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja.

[Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

Orémus.

Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet.

[Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia] .

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

DOMENICA FRA L’ASCENSIONE (2021)

DOMENICA FRA L’ASCENSIONE (2021)

Semidoppio. • Paramenti bianchi.

Noi celebreremo l’Ascensione del Signore rettamente, fedelmente, devotamente, santamente, piamente, se, come dice S. Agostino, ascenderemo con Lui e terremo in alto i nostri cuori. I nostri pensieri siano lassù dove Egli è, e quaggiù avremo il riposo. Ascendiamo ora con Cristo col cuore e, quando il giorno promesso sarà venuto lo seguiremo anche col corpo. Rammentiamoci però che né l’orgoglio, né l’avarizia, né la lussuria salgono con Cristo; nessun nostro vizio ascenderà con il nostro medico, e perciò se vogliamo andare dietro il Medico delle anime nostre, dobbiamo deporre il fardello dei nostri vizi e dei nostri peccati » (Mattutino). Questa Domenica ci prepara alla Pentecoste. Prima di salire al cielo Gesù, nell’ultima Cena ci ha promesso di non lasciarci orfani, ma di mandarci il Suo Spirito Consolatore (Vang., All.) affinché in ogni cosa glorifichiamo Dio per Gesù Cristo (Ep.). — Come gli Apostoli riuniti nel Cenacolo, anche noi dobbiamo prepararci, con la preghiera e la carità (Ep.) al santo giorno della Pentecoste, nel quale Gesù, che è il nostro avvocato presso il Padre, ci otterrà da Lui lo Spirito Santo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7, 8, 9

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea: quem timébo?

[Il Signore è mia luce e la mia salvezza: di chi avrò timore?].

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja.

[Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Oratio.

Orémus. – Omnípotens sempitérne Deus: fac nos tibi semper et devótam gérere voluntátem; et majestáti tuæ sincéro corde servíre.

[Dio onnipotente ed eterno: fa che la nostra volontà sia sempre devota: e che serviamo la tua Maestà con cuore sincero].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet IV: 7-11

“Caríssimi: Estóte prudéntes et vigiláte in oratiónibus. Ante ómnia autem mútuam in vobismetípsis caritátem contínuam habéntes: quia cáritas óperit multitúdinem peccatórum. Hospitáles ínvicem sine murmuratióne: unusquísque, sicut accépit grátiam, in altérutrum illam administrántes, sicut boni dispensatóres multifórmis grátiæ Dei. Si quis lóquitur, quasi sermónes Dei: si quis minístrat, tamquam ex virtúte, quam adminístrat Deus: ut in ómnibus honorificétur Deus per Jesum Christum, Dóminum nostrum.”

[“Carissimi: Siate prudenti e perseverate nelle preghiere. Innanzi tutto, poi, abbiate fra di voi una mutua e continua carità: poiché la carità copre una moltitudine di peccati. Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri senza mormorare: ognuno metta a servizio altrui il dono che ha ricevuto, come si conviene a buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come fossero parole di Dio: chi esercita un ministero, lo faccia come per virtù comunicata da Dio: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo nostro Signore.”]

La carità, dice letteralmente la odierna Epistola, copre una moltitudine di peccati: sentenza che ha una notissima parafrasi popolare nella esclamazione posta dal Manzoni in bocca a Lucia di fronte all’Innominato: Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia! Sentenza, che, a voler sottilizzare, presenta, ossia presenterebbe una certa difficoltà. Che cosa significa propriamente? Che cosa vuol dire l’Apostolo? La carità di cui parla che cancella o copre (le due metafore, appunto perché metafore, si possono equivalere) che carità è? La carità verso Dio? E allora la sentenza è una tautologia. Sfido, quando un’anima ha la carità i peccati sono belli e svaniti; come quando uno ha caldo, il freddo se n’è bello e ito. La carità verso il prossimo nei limiti soprattutto pratici, in cui essa è possibile anche senza amor di Dio? Certo bisogna intenderla così, così l’intende il buon senso cristiano. Giacché di fatto ci può essere, c’è un certo amor del prossimo anche là dove e quando ancora non arda completo l’amore verso Dio. C’è della gente che ha cuore e non ha fede. Che ha cuore, ma non osserva ancora tutt’intiera la legge. C’è della gente che ha molto, ha parecchio da farsi perdonare da Dio. – Ebbene l’Apostolo riprende l’insegnamento del Maestro: per essere perdonati (da Dio) bisogna perdonare (agli uomini); perché Dio sia buono con noi, dobbiamo noi essere buoni coi nostri fratelli. I casi son due; e ve li espongo, perché uno dei due può essere benissimo il caso vostro. Il miglior caso è questo: un uomo ha da poco o da molto disertato i sentieri della bontà, della verità forse; ma adesso comincia a rientrare in se stesso, ad accorgersi della cattiva strada, per cui si è messo, a sentirne dolorosamente il disagio… Non parliamo ancora di conversione, ma di un lontano principio di essa. Non parliamo di fuoco, ma la scintilla c’è: un oscuro desiderio della casa paterna improvvidamente abbandonata, del Padre che vi attende il prodigo figlio. Che fare? e che cosa consigliare a quest’anima? Non, s’intende, come mèta integrale e finale, ma come primo avviamento operoso e pratico e profondo? Fa’ del bene al tuo prossimo, tutto il bene che puoi, il maggior bene che ti possa.. Fa’ del bene, fa’ della carità, anche se, per avventura, tu avessi smarrito la fede o l’avessi smozzicata ed informe. Fa’ del bene! Perché, lo ha detto così bene San Vincenzo: è mistero la SS. Trinità, mistero la Incarnazione del Verbo, e davanti al mistero può ribellarsi, orgogliosa la tua ragione, ma non è mistero che un tuo fratello soffra la fame e che tu potresti sfamarlo con le briciole del pane che ti sopravanza. E allora: da bravo, coraggio! Comincia di lì. Dà del pane a chi ha fame. Fa quest’opera buona; esercita questa carità. È carità che farà del bene anche a te, bene materiale, ma anche un po’ spirituale a colui che lo riceve; bene spirituale a te che lo dai. Ti farà del bene, ti renderà più buono, meno cattivo, sarebbe più esatto dire: diminuirà, sia pur di poco, ma diminuirà la tua lontananza da Dio benedetto. Anzi, questo lo farà anche se tu non lo pensi e non ne abbia l’intenzione; come medicina fa del bene anche al malato che la prende senza sapere che è medicina, senza desiderare di guarire. La carità avvicina l’uomo all’uomo e avvicina l’uomo a Dio. Lo rende meno dissimile da Lui, meno difforme da Lui. E Dio ce lo ha detto, ce lo ha detto Gesù Cristo: Vuoi essere perdonato? Perdona. Dio tratta noi nella stessa misura e forma che noi trattiamo i nostri fratelli. Spietati noi coi fratelli? Spietato Dio con noi; tutto giustizia e niente misericordia. Misericordiosi noi coi fratelli nostri? Misericordioso Dio con noi; pieno di misericordia e di perdono. – Non si potevano saldare più nettamente, profondamente le due cause: l’umana e la divina, la filantropia e la carità! E questa saldatura mi permette di dire una parola anche a quelli che fossero o si fingessero buoni Cristiani: siate caritatevoli, fate carità, abbiate misericordia anche voi, perché innanzi tutto non c’è un Cristiano senza torti con Dio; ma se ci fosse, non dovrebbe fare a Dio il torto di essere senza cuore pei figli di Lui, suoi fratelli, di vantarsi o credersi perfetto, senza carità, senza misericordia.

(p. G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Graduale

Allelúja, allelúja.
Ps XLVI: 9
V. Regnávit Dóminus super omnes gentes: Deus sedet super sedem sanctam suam. Allelúja.

[Il Signore regna sopra tutte le nazioni: Iddio siede sul suo trono santo.
Allelúia.]

Joannes XIV: 18
V. Non vos relínquam órphanos: vado, et vénio ad vos, et gaudébit cor vestrum. Allelúja.

[Non vi lascerò orfani: vado, e ritorno a voi, e il vostro cuore si rellegrerà. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XV: 26-27; XVI: 1-4

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum vénerit Paráclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spíritum veritátis, qui a Patre procédit, ille testimónium perhibébit de me: et vos testimónium perhibébitis, quia ab inítio mecum estis. Hæc locútus sum vobis, ut non scandalizémini. Absque synagógis fácient vos: sed venit hora, ut omnis, qui intérficit vos, arbitrétur obséquium se præstáre Deo. Et hæc fácient vobis, quia non novérunt Patrem neque me. Sed hæc locútus sum vobis: ut, cum vénerit hora eórum, reminiscámini, quia ego dixi vobis”.

[In quel tempo: disse Gesù ai suoi discepoli: Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio. Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi. Vi scacceranno dalle sinagoghe; anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio. E faranno ciò, perché non hanno conosciuto né il Padre né me. Ma io vi ho detto queste cose perché, quando giungerà la loro ora, ricordiate che ve ne ho parlato.]

OMELIA

QUANTO SIA GRANDE LA GLORIA DEL CIELO E QUANTO FACILE IL. MERITARLA

[F. M. Zoppi: Omelie, Panegirici e Sermoni. T. II – Milano, Tipog. Di Giuditta Bonardi-Pogliani, MDCCCXLII]

Prossimo il divin Redentore alla sua morte, e dandola Egli come già avvenuta, levati gli occhi al cielo, così andava pregando il suo Padre, come leggiamo nell’odierno Vangelo: Padre, l’ora è venuta; glorificate il vostro Figliuolo, glorificatemi di quella gloria, ch’Io ebbi presso di Voi prima che esistesse il mondo. E volea dire: fate parte all’umana natura ch’Io assunsi, di quella gloria che ebbe sempre la nostra natura divina. Ora poiché Gesù Cristo assumendo la nostra umanità sollevata di tanto, questa è pure la gloria ch’Egli acquistò e andò a preparare per ciascuno di noi. La preghiera di Lui adunque dev’essere la nostra preghiera: perocché dove dev’egli tendere il nostro cuore se non a questa gloria, la gloria eterna del Paradiso? La preghiera di Lui inoltre dev’essere la nostra preghiera d’ogni momento: perocché vorremo noi forse differire a desiderare e chiedere la nostra glorificazione l’ultimo giorno di nostra vita? Differì Egli all’ora sua, perché la sapeva; Venit hora; ma noi non sappiamo la nostra; ogni ora può essere quella della nostra glorificazione, perché ogni ora può essere quella della nostra morte. Sapeva Egli di non poter essere glorificato se non dopo aver resa degna soddisfazione per i nostri peccati alla giustizia del Padre colla sua passione e morte; ma noi incerti dell’ora nostra dovendo sempre vivere in modo che possiamo ogni momento essere glorificati, dobbiamo altresì ogni momento pregare come se fosse quello della nostra glorificazione. Perché dunque, ben lungi dal domandarla ogni momento, o non vi si pensa neppure, o di rado, o freddamente? Perché anzi si pensa e si corre dietro alla gloria del mondo? O perché, pensando pure alla gloria del Paradiso, si reputa cosa troppo ardua e difficile il meritarla? – Ah potessi io in oggi accendere in voi un vivo desiderio della gloria del Paradiso! potessi inspirare in voi un ardente impegno di volerla conseguire! A questo doppio fine salutevolissimo, esaminando io pur solo la preghiera di Gesù Cristo, vi dirò colle sacre Scritture alla mano, e co’ sentimenti del santo padre Agostino, contemplatore ammirabile di quella gloria, ch’essa è gloria somma; e se vi dirò che è cosa giusta che si meriti, vi dirò altresì che non fa d’uopo di molto per meritarla. Così io verrò a recarvi in mezzo alle vostre afflizioni quel conforto, che è il solo degno di un vero Cristiano, e che deve fargli dimenticare qualunque terrena calamità. Io sarei beato appieno e appieno beati farei voi pure, se avessi e dar vi potessi una chiara, perfetta cognizione della gloria che ci sta apparecchiata ne’ cieli. Ma l’occhio umano non ha mai veduta cosa che la pareggi, dice l’Apostolo, l’orecchio non udì giammai meraviglie simili, né mai lo spirito seppe penetrare sì avanti e montare sì alto. Può essere lo scopo de’ nostri desiderj, delle nostre speranze, de’ nostri sospiri, dice sant’Agostino, Desiderari potest, concupisci potest, suspirari potest; ma dessa non si può né raggiungere col pensiero, né dipingere colle parole, Digne cogitari et verbis explicari non potest. Io non ne so altro se non che sarò con Dio, sarò felice, lo sarò per sempre, e che la mia felicità e gloria non può essere che somma, perché costò il prezzo sommo de’ sudori, obbrobrj, patimenti e del sangue e della morte di Gesù Cristo; perché essa è inventata e preparata a premio degli eletti dalla somma sapienza e potenza e dall’amor sommo di Dio; perché sta nella visione e nel possesso del Bene sommo, immutabile, eterno. Questa è l’unica idea ch’io ne abbia e che ve ne possa dare; e dovrebbe pur bastare a non farci bramare più altro; perocché dopo di ciò potremo noi gustare altra cosa o pensare, ad altra gloria? Ciò nullameno, volendo io pure parlarne in qualche modo, non trovo idea migliore di quella che ce ne dà Gesù Cristo nell’atto che la domanda al Padre per l’assunta sua umanità con dire, Glorificatemi di quella gloria ch’Io ebbi presso di Voi, Clarifica me, Pater, apud temetipsum claritate quam habui apud te. Perocché questa, sì, questa stessa sarà anche la gloria nostra; accertandoci Gesù Cristo che ci tiene apparecchiato quel regno medesimo di gloria, che il suo divin Padre ha destinato per Lui: Ego dispono vobis sicut disposuit mihi Pater meus regnum. Egli è dunque presso Dio, apud te; Egli è in Dio, apud te; Egli è a faccia a faccia con Dio, che noi dobbiamo essere glorificati; Egli è della gloria stessa ond’è glorificato Gesù Cristo: Io sono la vostra mercede, Ego merces tua; Egli è della gloria stessa ond’è glorificato Iddio. Ah miei dilettissimi, ella è troppo grande perché possiamo comprenderla! Magna nimis. Mirando noi dunque a faccia scoperta la gloria di Dio, come dice l’Apostolo, Revelata facie gloriam Domini speculantes, che cosa diverremo noi? Saremo interamente trasformati nell’imagine di Dio, In eandem imaginem transformamur. Questo corpo, ora sì debole, infermo, soggetto ai danni dell’età, all’influenza maligna dell’aria, a tanti malori, alla morte, alla corruzione, si cangerà, Immutabimur. Sì, anche questo fango risplenderà del lume della gloria di Dio; parteciperà anch’esso della natura e felicità divina, Consortes divinæ naturæ. Restarono sopraffatti e pieni di pura eviva gioja i tre Apostoli sul Tabor, al vedere il volto del loro divin Maestro splendere come il sole, e le vesti di Lui biancheggiare come la neve. Ora tale sarà pure il nostro corpo in cielo. Deposta la somiglianza d’Adamo peccatore, prenderà quella di Gesù Cristo glorioso: ne spariranno tutte le macchie e le pene del peccato, e coperto di luce come di una veste sarà più puro dell’oro, più chiaro del sole, Amictus lumine sicut vestimento. Più non avrà a soffrire né i morsi della fame, né i rigori del freddo, né le noje del caldo, né i dolori delle malattie, né la stanchezza delle fatiche, né la tristezza delle tenebre, né le grida del pianto, né gli orrori della morte, Mors ultra non erit, neque luctus, neque clamor; perocché corruttibile adesso e mortale, fa d’uopo che si rivesta in allora d’incorruttibilità e di immortalità: Oportet enim corruptibile hoc induere incorruptionem, et mortale hoc induere immortalitatem. Reso quasi spirituale volerà ovunque agile più che il vento; sottile penetrerà ogni cosa più che il fuoco; impassibile reggerà ad ogni onta più che il bronzo. Bello insomma, sano e robusto in ogni suo membro; e pienamente pago in ogni suo senso, imiterà la bellezza, la forza, la beatitudine del suo divin Creatore, In eandem imaginem transformamur. Ah miei dilettissimi, a qual sorte ascriveremmo noi il potere adesso riparare nel nostro corpo le ingiurie degli anni, e rinnovellarlo come all’età della nostra prima gioventù? Qual gioja adunque deve recarci il pensier solo di quella beata eterna trasformazione? Che se tale sarà la somiglianza con Dio del nostro corpo, che ora con Lui non ne ha alcuna, quale sarà poi quella della nostra mente, del nostro cuore, dell’anima creata già ad immagine e somiglianza di Lui? Questa mente, ora sì corta nelle sue viste, sì incerta ne’ suoi giudizj, involta in tante tenebre, che travede appena sì poche cose attraverso delle medesime, illustrata in allora dal lume di quella gloria, diverrà un terso specchio della divina Sapienza, Gloriam Domini speculantes; penserà, giudicherà, ragionerà, come pensa, giudica, ragiona Iddio. Non vi sarà scienza che non conosca, non arcano di natura che non penetri, non mistero di grazia che non veda chiaramente. Quanto apprezzate ora chi parla molti linguaggi? allora li saprete tutti. Quanto vi piacerebbe in adesso di poter penetrare nell’animo altrui e discernere gli spiriti! vedrete in allora il cuore degli altri, come ora ne vedete il volto. Quanto invidiate ora chi mostrasi versato negli studj ed erudito de’ passati avvenimenti! Conoscerete in allora le dottrine di tutti i saggi e le storie di tutti i tempi. Ora vi sorprendono le finezze di certe arti, le sottigliezze di certi ingegni; in allora vi saranno sì note, sì chiare le invenzioni di tutte le mani, le speculazioni di tutte le menti, come se fossero invenzioni, speculazioni vostre. Vi sarà poi tolta quella benda che ora vi pone la fede sopra le più grandi verità. Non crederete più, ma vedrete come Dio sia uno e trino; come Gesù sia Dio e uomo; come Maria sia Vergine e Madre; e quant’altri misteri formano ora il merito della vostra fede, saranno in allora altrettante splendide verità che comprenderete appieno in premio d’averle credute. Se ora tanto godiamo quando ci riesca di penetrare o scoprire cosa che altri non iscorga o non abbia mai scoperta, se un piccolo parto del nostro ingegno ci accontenta tanto; che sarà poi quando sapremo il tutto, il tutto vedremo, come il sa, come il vede Iddio? Ma il contento e la beatitudine, più che del corpo, più che della mente, è propria del cuore. Qui è dove scorrerà quel fiume di pace, dove si verserà quel torrente di piacere, onde sono inebriati i beati della gloria di Dio. Creato il cuor nostro d’una capacità immensa, non trova qui bene che lo riempia e lo appaghi: i tedj, gli affanni, le melanconie fanno qui infelice il cuore di chi pur si vede circondato dalla prosperità e dalla gloria: egli è turbato da’ suoi timori, sconvolto dalle sue passioni, in contrasto continuo co’ suoi affetti, e non mai saziato dalle stesse più sante sue speranze. Ma là, siccome vedremo Dio a faccia svelata, e perciò non avremo più fede; così, vedendolo, lo possederemo, e non avremo perciò più speranza, e vedendolo e possedendolo lo ameremo, e perciò il nostro cuore sarà tutto carità, tutto pieno, tutto pago di santo amore; perocché, dandosi Iddio a vedere a noi, ci fa dono intero di sé stesso, e così strettamente, intimamente, perfettamente si unisce con noi, che noi ci trasformiamo in Lui: Revelata facie gloriam Domini speculantes, in eandem imaginem transformamur. Vedendo quindi, amando, possedendo Iddio, che altro ci resterà a bramare? Sapienza, santità, felicità? Simili saremo a Dio in ogni cognizione, in ogni virtù, in ogni gaudio; saremo saggi, santi, beati al par di Dio: Similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est. Immersi in Dio come goccia in mare, ci confonderemo, ci perderemo in quel pelago immenso di rettitudine, di bontà, di pace, di ogni bene: In eandem imaginem transformamur. Di Dio solo respirerà questo cuore felicissimo, vivrà di Dio solo; amerà solo questo bene infinito, e godrà, come dice sant’Agostino, infinitamente di questo bene che ama e che possiede, e ond’è posseduto, Amat, et fruitur. Aggiunga, se può, gradi al suo amore, dove il bene che ama è infinito; aggiunga, se può, gradi al suo contento, ove ogni bene si trova nel bene che ama. Così dunque tutto il cuore amerà Dio, dice sant’Agostino, che tutto il cuore non basterà alla piena dell’amore; così tutto il cuore godrà di Dio, che tutto il cuore non basterà alla piena della contentezza, o amore, tu sei il più dolce degli affetti, quando non sei che desiderio! che sarai tu quando diverrai godimento? O anime sante, un momento solo di amor di Dio come inonda il cuore di gaudio! che sarà poi quando vivrete di questo amore? Non saremo soli a possedere, a goder Dio, è vero, e vari saranno i gradi di quella gloria beata, come vari sono i nostri meriti. Tutti nondimeno ne parteciperemo in modo che la gloria dell’uno non iscemerà quella dell’altro. Egli è nel mondo ove l’onor di un solo fa spesso la disgrazia di molti, ove v’ha o chi si consola della mia caduta, o chi non sa perdonarmi ch’io sia onorato e felice. Ma là molte saranno le mansioni, ma senza invidia; vi saranno de’ grandi, ma senza fasto od umiliazione, senza gare o rivalità. Ciascuno di quella famiglia beata non brama eredità maggiore di quella che gli assegna il Padre; perocché quella è una eredità, dice sant’Agostino, che non si restringe dal numero degli eredi, ma si comunica a tutti egualmente senza dividersi: ciascuno quindi diverrà felice senza fare degli sgraziati; ciascuno anzi è tanto contento della gloria altrui quanto della propria, e per vicendevole perfettissima carità ciascuno riconosce per proprio il bene altrui, e tutti riconoscono per proprio il bene di tutti. Il bene di tutti è Dio; quanti ivi sono si traformano in Dio, e Dio in essi. Quotquot ibi sunt, dii sunt, dice santo Agostino. Vede dunque ciascuno ne’ suoi compagni l’immagine di Dio e di sé stesso, e come questa il porta ad amar Dio, così quella ad amar gli altri. La varietà della gloria, perciò. non è che una moltiplicazione del loro amore e della loro felicità, e passar di gloria in gloria, sono tutti del pari trasformati nell’istessa immagine di Dio, come dallo spirito del Signore, Revelata facie gloriam Domini speculantes in eandem imaginem trans ormamur de claritate in claritatem tanquam a Domini spiritu. Quindi la società de’ beati, anzichè creare invidia od alterare la loro felicità, oh quanto accresce il loro gaudio! Qual gioja al vederci colà uniti con quei gran Santi, di cui ammiriamo ora la vastità della dottrina, il rigore della penitenza, l’eroismo delle virtù! Qual consolazione al trovarci con i nostri genitori che colla loro cristiana educazione, cogli amici che co’ buoni loro esempi,coi nostri direttori che co’ savj loro consigli ci hanno messi e condotti sulla strada di questa gloria! Vi rammentate, ci diremo in allora, quando ci andavamo confortando colla speranza di rivederci in Paradiso? ci siamo: i nostri voti sono compiuti. Che contentezza il poter dire, Ti ringrazio, Angelo mio; egli è per la tua custodia ch’io mi trovo in questo soggiorno beato: Vi ringrazio, o Santi miei avvocati; egli è perla vostra protezione ch’ora io sono beato: Vi ringrazio, Maria Santissima, egli è per la vostra mediazione ch’io regno con voi.E sino a qual tempo noi godremo di questa gloria beata? Tempo? Ella è la gloria di questo esiglio che ci lascia e convien lasciare al più tardi sul sepolcro: il solo pensiero che un giorno ci potesse mancare, basterebbe a renderla imperfetta e ad amareggiarla. Ma in quella patria beata non v’ha più tempo, Tempus non erit amplius. Epperò quella gloria come è somma nel grado; così lo è nella durata, e come non hamisura, così non ha termine. Ella è la gloria stessa domandata da Gesù Cristo al suo divin Padre per l’assunta sua umanità, la quale come non ebbe principio, così non avrà mai fine, Ea claritate quam habui, priusquam mundus esset, apud te; ella è gloria eterna. Passerà il mondo, passeranno dopo di lui milioni di secoli, e non sarà passato neppur un momento di quella gloria. Oh mio Dio! possedervi senza timore di perdervi; amarvi per sempre e per sempre essere da voi amato; essere salvo, santo, felice con voi, ed esserlo eternamente:qual dolce pensiero! O santa Sionne, ove tutto resta e nulla passa, come dice sant’Agostino, O santa Sion, ubi totum stat, et nihil fluit, al ricordarsi di te chi non sistruggerà in pianto finché siede esule qui sul fiume di questa Babilonia? Se non che, o miei dilettissimi, quella è corona di gloria e di giustizia ad un tempo; conviene perciò meritarla prima di conseguirla; prima di poter dire con Gesù Cristo, Padre, fatemi parte della vostra gloria, Nunc me clarifica tu, Pater, conviene poter dire del pari con Lui, Io vi ho glorificato sopra la terra, Ego te clarificavi super terram. Poteva essere puro dono della sua grazia; ma non è egli giusto che Dio voglia darla a premio del merito? Anche i mondani non acquistano gloria senza qualche sorta almeno di merito; e qual gloria? falsa, passeggera, corruttibile. E la gloria vera, immortale, incorruttibile del cielo, non è giusto che si abbia a meritare? Et illi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant, nos vero incorruptam. – Non pensiate perciò che molto vi voglia a meritarla. Oh a quanto più caro prezzo bisogna comperare la gloria falsa, la vana felicità del mondo! Qui vi vogliono o grandi talenti, o protezioni potenti, o imprese straordinarie, o lunghi servigi, o favorevoli circostanze, o basse e servili strisciature: il merito qui o non è conosciuto, o non è apprezzato, o non è preferito: bisogna qui difenderlo o contro il merito superiore de’ concorrenti, o contro i segreti maneggi degli emuli, o contro la malignità de’ censori, o contro il merito stesso che vi fa più nemici che ammiratori; qui la gloria e la prosperità non è che di pochi, talvolta per azzardo, sempre a poco tempo. Laddove la vera gloria e felicità del Paradiso è per tutti, per sempre, al prezzo il più comodo, I merito il più comune. Il regno de’ cieli, dice sant’Agostino, è di chi lo vuol comperare, Ecce venale est regnum Dei. E quanto vale? Se lo considerate in sé stesso, il valore n’è infinito: no, dice l’Apostolo, le più splendide, le più eroiche virtù di questa vita non hanno confronto colla gloria futura che ci sarà rivelata e comunicata in quel regno, Non sunt condignæ passiones hujus temporis ad futuram gloriam, quæ revelabitur in nobis. Ma se considerate il prezzo che ne esige il celeste Venditore, vale nulla più di quanto potete dare; date ciò che avete, e avete dato ciò che vale, Tantum valet, quantum habes. Potreste aver merito maggiore di quello di compiere i doveri del vostro stato comunque comune? Tanto basta: questo è tutto il travaglio che vi ha dato a compiere il Padrone divino nella sua vigna. Purché possiate dire con Gesù Cristo d’averlo compiuto, Opus consummavi quod dedisti mihi, ut faciam, la mercede non vi può mancare; il regno di Dio è vostro. E a fare pur questo poco, che cosa v’ha che non vi ajuti? Legge, consigli, parola divina, soccorsi della grazia, forza dei Sacramenti, meriti del sangue di Gesù Cristo: tutto vi dà mano o supplemento. Ma forse avete precedenti gravissimi debiti a scontare? Ah quel Padrone non è come il mondo,che si dimentica de’ servigi e non mai de’ torti: egli premia tanto la penitenza di Agostino come l’innocenza di Luigi; voi cominciate appena a piangere le vostre colpe, e già non gli siete più debitore. Forse vi trovate in una situazione difficile? Ma quanti beati trovansi in cielo che furono nella stessa vostra situazione! Qual difficoltà che non sia smentita dal loro esempio; perocchè se essi l’hanno superata, perché non la potete superare voi pure? Le malattie forse, la povertà od altre circostanze vi impediscono di fare ciò che dovreste fare? Il Padrone che vi ha a dare la mercede è tanto buono che non solo tien conto di ciò che fate, ma premia ancora la volontà di fare, come l’opera stessa: Voluisti? dice sant’Agostino, fecisti! E quando pure l’opera che il Signore vi ha dato a fare, vi avesse a costare alcun poco, ve ne costò meno per rendervi o ricco o comodo od onorato nel mondo? E che cosa avete finalmente raccolto? Il travaglio fu molto, scarsa la ricompensa, Seminastis multum et intulistis parum, dice l’Apostolo, e questa pure va quanto prima a restare tutta sulla vostra tomba. Ah se aveste travagliato tanto pel regno di Dio,voi potreste disputarla co’ più gran Santi. E non conveniva il farlo per rendere sommamente glorioso e beato il corpo, la mente, il cuore, e glorioso e beato per sempre? A che dunque, o mio corpo, ti curo tanto e t’accarezzo? Tu t’infermi, t’invecchi e cadi nondimeno: non fia meglio castigarti per riassumerti bello, splendido, immortale? A che mi fate invanire, o miei talenti? Voi non servite che a farmi conoscere sempre più la mia ignoranza: non fia meglio impiegarvi nella scienza de’ santi e per l’acquisto del paradiso ove non v’ha ignoranza? 0 mio cuore, a che ti perdi dietro i beni di questo esiglio? ti turbano presenti, ovvero ti sfuggono, ti solleticano e poi ti amareggiano: non fia meglio sospirare dietro a quell’unico sommo bene che soddisfa appieno e per sempre? O parenti, o amici, a che tanti riguardi tra di noi? Non servono che a tradirci l’un l’altro: non fia meglio correggerci a vicenda liberamente per essercene grati in Paradiso eternamente? O povertà, o malattie, o disgrazie d’ogni sorta, a che mal vi soffro e di voi mi lagno? Voi segnate la strada del crocifisso mio Redentore che conduce alla gloria: non sia meglio sostenervi in pace e nel silenzio, finché mi abbiate condotto a quella meta beata? Lassù portiamo dunque le nostre ricerche; non travagliamo che per lassù; non abbiamo altri sentimenti che di lassù, Quæ sursum sunt, quærite; quæ sursum sunt, sapite. Là sì slancino e si fermino tutti gli affetti del vostro cuore, ove ci sta preparata la gloria vera, la vera felicità: Ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XLVI: 6. Ascéndit Deus in jubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúja.

[Dio ascende nel giubilo, e il Signore al suono della tromba]

 Secreta

Sacrifícia nos, Dómine, immaculáta puríficent: et méntibus nostris supérnæ grátiæ dent vigórem.

[Queste offerte immacolate, o Signore, ci purífichino, e conferiscano alle nostre ànime il vigore della grazia celeste.].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joannes. XVII:12-13; 15 Pater, cum essem cum eis, ego servábam eos, quos dedísti mihi, allelúja: nunc autem ad te vénio: non rogo, ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo, allelúja, allelúja.

[Padre, quand’ero con loro ho custodito quelli che mi hai affidati, allelúia: ma ora vengo a Te: non Ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di preservarli dal male, allelúia, allelúia.]

Postcommunio.

Orémus.

Repléti, Dómine, munéribus sacris: da, quæsumus; ut in gratiárum semper actióne maneámus.

[Nutriti dei tuoi sacri doni, concedici, o Signore, Te ne preghiamo: di ringraziartene sempre.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS; “IL CIELO”

[Discorsi di San G. B. M. VIANNEY, Curato d’Ars, vol. II, IV ed. TORINO – ROMA; Marietti ediz. 1933]

Il Cielo.

(laudate et exultate, quoniam merces vestra copiosa est in cælis).

(MATTH. V, 12).

Queste furono, F. M., le consolanti parole che Gesù Cristo rivolse ai suoi Apostoli per confortarli, ed animarli a soffrire coraggiosamente le croci e le persecuzioni future. ” Sì, figli miei, diceva loro questo tenero Padre, diverrete oggetto dell’ira e del disprezzo dei cattivi, sarete vittime del loro furore, gli uomini vi odieranno. vi condurranno davanti ai principi della terra per essere giudicati e condannati ai supplizi più spaventosi, alla morte più crudele ed ignominiosa: ma, lungi dallo scoraggiarvi, rallegratevi, poiché una gran ricompensa vi è preparata in cielo. „ O cielo bello! chi non ti amerà, poiché tanti beni tu racchiudi? Non è infatti il pensiero di questa ricompensa che rendeva gli Apostoli infaticabili nel loro lavoro apostolico, invincibili contro le persecuzioni che soffrirono dai loro nemici? Non è il pensiero di questo bel cielo che faceva comparire i martiri davanti ai giudici, con un coraggio che meravigliava i tiranni? Non è la vista del cielo che spegneva l’ardore delle fiamme destinate a divorarli, e spuntava le spade che li dovevano colpire? Oh! come erano felici di sacrificare i beni, la vita per il loro Dio, nella speranza di passare ad una vita migliore che non finirebbe mai! O fortunati abitanti della città celeste, quante lagrime avete versate e quanti patimenti sofferto per acquistare il possesso del vostro Dio! Oh! ci gridano essi dall’alto di quel trono di gloria, sul quale si trovano; oh! come Dio ci ricompensa di quel po’ di bene che abbiamo fatto! Sì, noi lo vediamo, questo tenero Padre: sì, lo benediciamo questo amabile Salvatore: sì, lo ringraziamo questo caritatevole Redentore, per anni senza fine. O felice eternità! esclamano essi; quante dolcezze e gioie non ci farai tu provare! Cielo bello, quando ti vedremo noi? O momento fortunato, quando verrai per noi? Senza dubbio, F. M., desideriamo tutti e sospiriamo beni sì grandi: ma per farveli desiderare con maggior ardore, vi mostrerò, per quanto mi sarà possibile:

1° la felicità della quale sono inebriati i santi in cielo;

2° la strada da seguire per andarvi.

È certo che noi siamo fatti per essere felici: ognuno dal più povero fino al più ricco, cerca qualche cosa che l’accontenti e compia i suoi desideri. (Nota del Beato).

I. — Se’ dovessi, F. M., farvi il triste e doloroso quadro delle pene che soffrono i reprobi nell’inferno, comincerei a provarvi la certezza di queste pene: poi spiegherei innanzi ai vostri occhi con spavento, o, a meglio dire, con una specie di disperazione, la grandezza e la intensità dei mali che soffrono, e che soffriranno eternamente. A questo racconto lagrimevole, vi sentireste presi d’orrore; e per farvelo ancor meglio comprendere, vi mostrerei le ragioni per cui quelle anime sono divorate dalla disperazione senza tregua. Vi direi che sono quattro: la privazione della vista di Dio, il dolore che soffrono, la certezza che non finirà mai, ed i mezzi che ebbero, coi quali potevano così facilmente schivarla. Infatti, se un dannato, per mille eternità, quando ve ne potessero essere mille, domandasse con le grida più strazianti e commoventi la felicità di veder Dio per un minuto solo, è certo che giammai gli verrebbe accordata. In secondo luogo, vi dico che ad ogni istante egli soffre da solo più che non abbian mai sofferto tutti i martiri insieme, o, per dir meglio, soffre in ogni minuto dell’eternità tutti i patimenti che deve sentire durante l’eternità. La terza causa dei loro supplizi è che, malgrado il rigore delle loro pene, sono sicuri che non finiranno mai. Ma ciò che metterà il colmo ai loro tormenti, alla loro disperazione, sarà il ricordo di tanti mezzi così efficaci non solo per evitare quegli orrori, ma anche per essere felici per tutta l’eternità: ricorderanno che avevano a lor portata tutte le grazie che offrì loro Iddio per salvarsi: e queste saranno altrettanti carnefici che li tortureranno. Dal fondo di quelle fiamme vedranno i beati seduti su troni di gloria, accesi d’amore sì ardente e tenero da immergerli in una ebbrezza continua: mentre il pensiero delle grazie a loro concesse da Dio, il ricordo del disprezzo fattone farà ad essi emettere urla di rabbia e di disperazione così spaventose che l’intero universo, se Dio permettesse fossero intese, ne morrebbe e cadrebbe nel nulla. E bestemmie orribili lanceranno gli uni contro gli altri. Un figlio griderà che è perduto solo perché i suoi genitori lo vollero, e invocherà la collera di Dio, e gli domanderà colle più orribili grida di concedergli d’essere il carnefice del padre suo. Una giovane strapperà gli occhi a sua madre che invece di condurla al cielo, l’ha spinta, trascinata all’inferno co’ suoi cattivi esempi, colle parole che spiravano solo mondanità, libertinaggio. Quei figli vomiteranno bestemmie orribili contro Dio per non aver abbastanza forza e furore di far soffrire i loro parenti: correranno attraverso l’abisso disperati, prendendo e trascinando i demoni, gettandoli sui padri e sulle madri loro: per fare sentire ad essi che non saranno mai abbastanza tormentati di averli perduti, mentre facilmente potevano salvarli. O eternità infelice! o sventurati padri e madri, quanto sono terribili i tormenti a voi riservati! Ancora un istante, e li proverete; ancora un istante, ed abbrucerete nelle fiamme!… – Ma no, F. M., non andiamo più oltre: non è il momento di trattenerci su un argomento così triste e doloroso: non turbiamo la gioia che abbiamo provato all’avvicinarsi del giorno consacrato a celebrare la felicità di cui godono gli eletti nella città celeste e permanente. – Vi dissi, che quattro cose opprimeranno di mali i reprobi nelle fiamme: lo stesso avviene dei beati. Quattro cose si uniscono insieme per non lasciar loro nulla più a desiderare. Queste cose sono:

1° la vista e la presenza del Figlio di Dio, che si manifesterà in tutto lo splendore di sua gloria, di sua bellezza, e di tutte le sue amabilità; cioè quale è nel seno del Padre suo;

2° il torrente di dolcezze e di caste delizie che godranno, e sarà simile al traboccar d’un mare agitato dal furore della tempesta: esso li travolgerà nei suoi flutti e li sommergerà in una ebbrezza così estasiante che quasi oblieranno di esistere.

3° Altra causa di felicità in mezzo a tutte le delizie sarà la certezza che esse non avranno mai fine, e da ultimo,

4° ciò che li immergerà totalmente in questi torrenti d’amore, sarà che tutti questi beni sono dati loro per ricompensa delle virtù e delle penitenze esercitate. Quelle anime sante vedranno che alle proprie opere buone sono debitrici dei casti amplessi dello sposo. Anzitutto il primo trasporto d’amore che si accenderà nel loro cuore sorgerà alla vista delle bellezze che scopriranno accostandosi alla presenza di Dio. In questo mondo sia pur bello e seducente un oggetto che ci si presenta, dopo un istante di piacere il nostro spirito si stanca e si volge da un’altra parte, per trovarvi di che soddisfarsi meglio; passa da una ad altra cosa senza poter trovare d’accontentarsi: ma in cielo non sarà così: bisognerà anzi che Dio ci partecipi le sue forze, per poter sostenere lo splendore delle sue bellezze, e delle cose dolci e meravigliose che si offriranno continuamente ai nostri occhi. E ciò sprofonderà le anime degli eletti in un abisso tale di dolcezza e d’amore, che non potranno distinguere se vivano o se siano tramutate in amore. O avventurata dimora! o felicità permanente! chi di noi ti gusterà un giorno? Poi per quanto grandi e inebrianti siano queste dolcezze, sentiremo continuamente gli Angeli ripetere che esse dureranno sempre. Vi lascio pensare quanto i beati ne godranno. Notate, P. M., se gustiamo in questo mondo alcuni piaceri, non tardiamo a provare qualche pena che ne diminuisce le dolcezze, sia per il timore che abbiamo di perderli, sia anche per le premure necessarie per conservarli: dal che avviene che non siamo mai perfettamente contenti. In cielo non succederà così: ci troveremo nella gioia e nelle delizie, sicuri che nulla potrà mai rapircele né diminuirle. Finalmente l’ultimo dardo d’amore che colpirà il nostro cuore, sarà il quadro che Dio metterà davanti ai nostri occhi di tutte le lagrime venate e delle penitenze fatte durante la nostra vita, senza lasciare da parte neppure un pensiero o un desiderio buono. Oh! qual gioia per un buon Cristiano, vedere il disprezzo avuto per se medesimo, il rigore esercitato sul suo corpo, il piacere che provava in vedersi disprezzato, vedere la sua fedeltà nel respingere quei cattivi pensieri coi quali il demonio aveva cercato di turbare la sua immaginazione: ricorderà le preparazioni per la confessione, la premura di nutrire l’anima sua alla sacra mensa: avrà davanti agli occhi tutte le volte che si privò degli abiti per coprire il fratello povero e sofferente. “O mio Dio! mio Dio! esclamerà ad ogni istante, quanti beni per così poca cosa!„ Ma Dio, per infiammare gli eletti di amore e di riconoscenza, metterà la sua croce sanguinosa in mezzo alla sua corte celeste, e farà loro la descrizione di tutti i patimenti sofferti per renderli felici, mosso com’era soltanto dal suo amore. Vi lascio immaginare i loro trasporti di amore e di riconoscenza: quali casti abbracci non le prodigheranno durante l’eternità, ricordandosi che questa croce è lo strumento di cui si servì Iddio per donar loro tanti beni! I santi Padri, facendoci la descrizione delle pene che soffrono i reprobi, ci dicono che ognuno dei loro sensi è tormentato, a seconda delle colpe commesse e dei piaceri gustati: chi avrà avuto la sfortuna di essersi abbandonato al vizio impuro sarà coperto di serpenti e dragoni che lo divoreranno per tutta l’eternità: i suoi occhi che ebbero sguardi disonesti, le orecchie che si compiacquero di canzoni impudiche, la bocca che pronunciò quelle impurità, saranno altrettanti canali donde usciranno turbini di fiamme a divorarli: gli occhi non vedranno che oggetti orribili. Un avaro soffrirà tal fame che lo divorerà, un orgoglioso verrà calpestato sotto i piedi degli altri dannati, un vendicativo sarà trascinato dai demoni tra le fiamme. Non vi sarà parte alcuna del nostro corpo che non soffrirà in proporzione dei peccati da essa commessi. O orrore! o sventura spaventevole! Altrettanto sarà della felicità dei beati nel cielo: la felicità, i piaceri, le gioie loro saranno grandi in proporzione di quanto fecero soffrire ai loro corpi durante la vita. Se avremo avuto orrore delle canzoni e dei discorsi disonesti, non udremo lassù che cantici dolci e meravigliosi, di cui gli Angeli faran ripercuotere la vòlta dei cieli: se saremo stati casti negli sguardi, i nostri occhi non saranno occupati che in contemplare oggetti, la cui bellezza li terrà in continua estasi senza potersene stancare: cioè scopriremo sempre nuove bellezze, come ad una sorgente d’amore che scorre senza esaurirsi mai. Il nostro cuore che aveva emesso gemiti, pianto durante l’esilio, proverà una ebbrezza tale di diletto che non sarà più padrone di sé. Lo Spirito Santo ci dice che le anime caste saranno simili ad una persona stesa sopra un letto di rose, le cui fragranze lo tengono in un’estasi continua. In una parola, solo di piaceri casti e puri i santi saranno nutriti ed inebriati per tutta l’eternità. – Ma, penserete dentro di voi, quando saremo in cielo, saremo tutti felici ugualmente? — Sì, amico mio, ma v’è qualche distinzione da fare. Se i dannati sono infelici e soffrono secondo i delitti commessi, parimente non devesi dubitare che più i Santi fecero penitenze, più la lor gloria sarà brillante; ed ecco come avverrà. E necessario, o piuttosto, conviene che Dio ci dia aiuti proporzionati alla gloria della quale vuol incoronarci, perciò ci darà soccorsi in proporzione delle dolcezze che vuol farci gustare. A coloro che fecero grandi penitenze, senza aver commesso peccati, darà delle forze sufficienti per reggere alle grazie che comunicherà loro per tutta l’eternità. È verissimo che saremo tutti completamente felici e contenti, perché troveremo tante delizie quante ce ne occorrerà per non lasciarci nulla a desiderare. – “O mio Dio! mio Dio! esclamava san Francesco in una furiosa tentazione provata, i vostri giudizi sono spaventosi: ma se io fossi tanto sventurato da non amarvi nell’eternità, accordatemi almeno la grazia d’amarvi quanto potrò in questo mondo.„ Ah! poveri peccatori che non volete tornare al vostro Dio, se almeno aveste gli stessi desideri di questo gran santo, amereste il Signore quanto potete in questa vita! O mio Dio! quanti Cristiani che mi ascoltano non vi vedranno mai! O cielo bello! o bella dimora! quando ti vedremo? Mio Dio! sino a quando ci lascerete languire in questa terra straniera? in questo esilio? Ah! se vedeste Colui che il mio cuore ama! ah! ditegli che languisco d’amore, che non vivo più, ma che muoio ad ogni ora!… Oh! chi mi darà ali come di colomba per lasciar questo esilio e volare nel seno del mio diletto?… O città felice! donde sono bandite tutte le pene, e dove si nuota in un torrente delizioso di eterno amore!…

II. – Ebbene! amico mio, vi affliggerà di essere in questo numero, mentre i dannati abbruceranno e manderanno grida orribili senza speranza che ciò debba finire? — Oh! mi direte, non solo non me ne affliggerò, ma vorrei già esservi. — Pensavo bene che m’avreste risposto così: ma non basta desiderare il cielo, bisogna lavorare per guadagnarselo. — E che si deve fare adunque ? — Nol sapete, amico mio? ebbene, eccovi: ascoltate bene, e lo saprete. Bisognerebbe non attaccarvi tanto ai beni di questo mondo, aver un po’ più di carità per la moglie, i figli, i domestici e i vicini: aver un cuore un po’ più tenero per gli sventurati: invece di non pensare che ad accumular denaro, acquistar terreni, dovreste pensare a guadagnarvi un posto in cielo: invece di lavorare la domenica, dovreste santificarla venendo nella casa di Dio per piangervi i vostri peccati, domandargli di non più ricadervi, e di perdonarvi: lungi dal non conceder tempo ai figli ed ai domestici di compiere i loro doveri di religione, dovreste essere i primi ad indurveli colle parole e col buon esempio: invece di incollerirvi alla minima perdita o contraddizione che vi succede, dovreste considerare che essendo peccatore, ne meritate ben di più, e che Dio si diporta con voi nel modo più sicuro per rendervi un giorno felice. Ecco, amico mio, ciò che occorrerebbe per andare in cielo, e che voi non fate. E che sarà di voi, fratello mio, poiché seguite la strada che conduce là dove si soffrono mali sì spaventosi? Ricordatevi, che se non lasciate questa strada, non tarderete a cadervi: fate le vostre riflessioni, e poi mi direte che cosa avrete trovato; ed io vi dirò che cosa bisognerà fare. Non invidiate forse, amico mio, tutti quei felici abitanti della corte celeste? — Ah! vorrei esservi già; almeno sarei liberato da tutte le miserie di questo mondo. — Ed anch’io lo vorrei; ma v’è ben altro da fare e da pensare.  Cosa devesi dunque fare e lo farò? — Le vostre intenzioni sono assai buone: ebbene! ascoltate un istante, e ve lo mostrerò. Non dormite, per favore. Bisognerebbe, sorella mia, essere un po’ più sottomessa al marito, non lasciarvi salire il sangue alla testa per un nonnulla; bisognerebbe avere con lui un po’ più di garbo; e quando lo vedete tornare a casa ubbriaco, ovvero dopo aver fatto un cattivo contratto, non dovreste scagliarvi contro di lui e farlo infuriare tanto che non sappia più trattenersi. Di qui vengono le bestemmie e le maledizioni senza numero contro di voi, e che scandalizzano i figli ed i domestici: invece di girar per le case a riferire quanto vi dice o fa il marito, dovreste occupare questo tempo in preghiere per domandare a Dio di darvi la pazienza e la sottomissione dovuta al marito: domandare che Dio gli tocchi il cuore per cambiarlo. So bene quanto sarebbe ancora oltre a ciò necessario per andare in cielo: madre di famiglia, ascoltatelo e non vi sarà inutile. Sarebbe necessario impiegare un po’ più di tempo nell’istruire i figli e i domestici, nell’insegnar loro ciò che devono fare per andar in cielo: sarebbe necessario non comperar loro abiti così belli, per aver modo di fare elemosina, ed attirar le benedizioni di Dio sulla vostra casa; e fors’anche poter pagare i vostri debiti: bisognerebbe lasciar da parte le vanità; e che so io? Bisognerebbe che non vi fossero nella vostra condotta che dei buoni esempi, l’esattezza nel far le vostre preghiere mattina e sera, nel prepararvi alla santa Comunione, nell’accostarvi ai Sacramenti: sarebbe necessario il distacco dai beni del mondo, un linguaggio che mostri il disprezzo che avete di tutte le cose di quaggiù, ed il conto che fate delle cose dell’altra vita. Ecco quali dovrebbero essere le vostre occupazioni e tutte le cure vostre: se fate diversamente, siete perduta: pensatevi bene oggi, forse domani non sarete più in tempo: fatevi sopra il vostro esame, giudicatevi da voi stessa: piangete i vostri sbagli, e procurate di far meglio; altrimenti non entrerete mai in cielo. Non è vero, sorella mia, che tutte queste meravigliose bellezze di cui i santi sono inebriati vi fanno invidia? — Ah! mi direte, si invidierebbe anche una fortuna meno grande di questa. — Avete ragione, ed anch’io sono del vostro parere: ma m’inquieta il pensiero che non ho fatto nulla per meritare il cielo; e voi? — Qualsiasi cosa occorra fare, pensate voi, la farei se la conoscessi: che cosa non dovrebbesi fare pur di procurarsi un sì gran bene? Se fosse necessario tutto abbandonare e sacrificare, lasciare il mondo per passare il resto dei propri giorni in un monastero, lo farei ben volentieri. — Ecco una bellissima disposizione: questi pensieri sono degni davvero d’una buona cristiana: non credeva che il vostro coraggio fosse così grande: ma vi dirò che Dio non ve ne domanda tanto. — Ebbene! pensate voi; ditemi che cosa bisogna fare, e la farò assai volentieri. — Vel dirò adunque, e vi prego di porvi ben attenzione. Occorrerebbe non prender tanta cura del vostro corpo, farlo soffrire un po’ di più: non temer tanto che questa beltà si perda o diminuisca: non essere così lunga alla domenica mattina in abbigliarvi, osservarvi davanti allo specchio, per aver più tempo da dare al buon Dio. Bisognerebbe avere un po’ più sottomissione ai parenti, ricordandovi che dopo Dio dovete ad essi la vita, e obbedir loro di buon animo e non mormorando. Bisognerebbe anche, invece di vedervi ai divertimenti, ai balli, alle conversazioni, vedervi nella casa del Signore a pregare, a purificarvi dei peccati, e nutrir l’anima vostra col pane degli Angeli. Bisognerebbe anche essere un po’ più riservata nelle vostre parole, nelle relazioni che avete con persone di sesso diverso. Ecco quanto domanda Dio da voi: se lo fate, andrete in cielo. – E voi, fratel mio, che pensate voi di tutto ciò? da qual lato volgete i vostri desideri? — Ahi voi dite, preferirei bene d’andare in cielo, giacche vi si sta così bene, piuttosto che d’esser cacciato all’inferno dove si soffre tanto ed ogni sorta di tormenti: ma v’è molto da fare per andarvi, e mi manca il coraggio. Se un solo peccato ci condanna, io, che ad ogni istante vado in collera, non cerco neanche di incominciare “Voi non osate provare? Ascoltatemi un momento, e vi mostrerò chiaramente che non è tanto difficile come credete: e che fareste meno fatica per piacere a Dio e salvar l’anima vostra, che per procurarvi i diletti e per contentare il mondo. Rivolgete solo a Dio le cure e premure che aveste pel mondo; e vedrete che Egli non ve ne domanda tante quante il mondo. I vostri piaceri sono sempre uniti a tristezza ed amarezza, seguiti dal pentimento d’averli gustati. Quante volte ritornato dall’aver passato una parte della notte all’osteria od al ballo, dite: “Son malcontento d’esservi stato: se avessi saputo quanto vi avviene, non vi sarei andato.„ Ma, invece, se aveste passato una parte della notte in preghiere, ben lungi dall’esser afflitto sentireste dentro di voi una tal gioia, una dolcezza che vi accenderebbe il cuor d’amore. Ripieno di gioia, direste come il santo re David: “Mio Dio! un giorno passato nella casa vostra quanto è preferibile a mille passati nelle riunioni del mondo.„ I piaceri che provate nel mondo vi disgustano: quasi ogni volta che vi abbandonate ad essi, risolvete di non più ritornarvi: spesso anche vi sciogliete in lagrime, sino a disperarvi di non potervi correggere: maledite coloro che incominciarono a sviarvi: ve ne lamentate ad ogni istante: invidiate la fortuna di quelli che ora scorrono tranquillamente i loro giorni nella pratica della virtù, in un intero disprezzo dei piaceri del mondo: quante volte anche gli occhi vostri versano amare lagrime vedendo quella pace, quella gioia che brillano sulla fronte dei buoni Cristiani: che dico? Invidiate sin coloro che hanno la ventura di abitare sotto il vostro tetto. Dissi, amico mio, che quando avete passata la notte negli eccessi del vino, non trovate in voi che agitazione, noia, rimorso, disperazione: eppure avete fatto quanto potevate per accontentarvi, ma senza alcun risultato. Ebbene! amico mio: vedete quanto è più dolce soffrir per Iddio che pel mondo. Quando si ha trascorsa una notte o due in preghiera, lungi dall’esserne annoiati, pentiti e dall’invidiare coloro che passano questo tempo nel sonno e nelle comodità, si piange invece la loro sventura ed accecamento: mille volte si benedice il Signore di averci mandata l’ispirazione di procurarci tante dolcezze e consolazioni: lungi dal maledire chi ci fece abbracciare un tal genere di vita, non possiam vederlo senza la sciare scorrere lagrime di riconoscenza, tanto ci troviamo felici: lungi dal risolvere di non più ritornarvi ci sentiamo decisi di fare ancor più, ed abbiamo una santa invidia di coloro che non sono occupati che a lodare il buon Dio. Se avete speso del danaro per i vostri piaceri, il domani lo piangete: ma un Cristiano che l’ha adoperato per conservare in vita un povero che non poteva sostenersi, un Cristiano che ha vestito uno sventurato ignudo, lungi dal rimpiangerlo, cerca invece di continuo il mezzo di farlo ancor più: è pronto se occorre, a privarsi del necessario, a spogliarsi di tutto, tanta gioia risente soccorrendo Gesù Cristo nella persona dei suoi poveri. Ma, senza andar così lontano, non vi costerà certo di più, amico mio, quando siete in chiesa, lo starvi con rispetto e modestia che non ridere e volger attorno lo sguardo: sareste egualmente comodo avendo le ginocchia piegate a terra quanto tenendone uno levato per aria: quando ascoltate la parola di Dio, sarebbe più penoso ascoltarla con intenzione di approfittarne e di metterla in pratica appena il potrete, oppure andarvene fuori per divertirvi a chiacchierare di cose indifferenti, forse cattive? Non sareste più contenti se la coscienza non vi rimproverasse di nulla, e vi accostaste di tempo in tempo ai Sacramenti, ricevendo così molta forza per sopportare con pazienza le miserie della vita? Se ne dubitate, F. M., domandate a coloro che fecero la loro pasqua, come erano contenti per un po’ di tempo; cioè sino a quando ebbero la fortuna di restare amici del buon Dio. Ditemi, amico mio, vi sarebbe più duro e penoso che i parenti vi rimproverassero perché vi fermaste troppo in chiesa, ovvero vi rinfacciassero d’aver passato la notte negli stravizi? — No, no, amico mio, da qualsiasi lato consideriate quanto fate pel mondo, vi costa più caro che fare ciò che occorre per piacere a Dio e salvare l’anima vostra. Non vi parlerò della differenza, che vi sarà all’ora della morte, tra un Cristiano che servì bene Iddio, ed i rimorsi e la disperazione di chi non seguì che i suoi piaceri, non cercò che d’accontentare i corrotti desideri del cuore: perché nulla è tanto bello quanto il veder morire un santo: Dio stesso si compiace assistervi, come narrasi nelle vite di molti. Si può forse paragonarla agli orrori che accompagnano quella del peccatore, mentre i demoni lo circondano sì dappresso, e si dilaniano gli uni gli altri, per avere la barbara soddisfazione d’essere i primi a trascinarlo negli abissi? Ma, no, lasciamo tutto ciò: consideriamo soltanto la vita presente. Concludiamo, che se faceste per Iddio quanto fate pel mondo, sareste santi. — Oh! soggiungete dentro di voi, ci andate dicendo che non è difficile arrivare in cielo; a me sembra che v i siano molti sacrifici da fare. — Non v’ha dubbio: vi sono dei sacrifici da fare, altrimenti Gesù Cristo, contro verità, ci avrebbe detto che la porta del cielo è stretta, che bisogna sforzarsi per entrarvi, che occorre rinunciare a se stessi, prender la croce e seguirlo, che molti non saranno nel numero degli eletti: perciò ci promette il cielo come una ricompensa che avremo meritata. Vedete quanto fecero i santi per procurarsela. Andate, F. M., in quegli antri in fondo ai deserti, entrate nei monasteri, percorrete quelle rocce, e domandata a tette quelle schiere di santi: Perché tante lagrime e penitenze? Salite sui patiboli, ed informatevi dai martiri che cosa aspettano. Tutti vi diranno che fanno così per guadagnarsi il cielo. O mio Dio! quante lagrime versarono quei poveri solitari durante tanti anni! O mio Dio! quante penitenze e rigori non esercitarono sui loro corpi tutti quegli illustri anacoreti! Ed io non vorrò soffrir nulla! io, che ho la medesima loro speranza, ed il medesimo giudice che mi deve esaminare? O mio Dio, quanto sono neghittoso quando trattasi di lavorare pel cielo! Come mi condanneranno i santi, quando mostreranno tanti sacrifici da loro fatti per piacervi! Voi dite che è faticoso andar in cielo: ma, amico mio, non costò forse nulla a san Bartolomeo il lasciarsi scorticare vivo per piacere a Dio? Nulla a S. Vincenzo martire l’essere disteso su d’un cavalletto, ove gli si abbruciò il corpo con torce accese, finché le sue viscere caddero nel fuoco, e l’essere poi condotto in prigione, ove gli si fece un letto di pezzi di vetro e vi fu steso sopra? Amico mio, domandate a S. Ilarione perché durante ottanta anni visse nel deserto, piangendo giorno e notte. Andate, interrogate S. Girolamo, quel gran santo: domandategli perché si percuoteva il petto con un sasso, fino ad esserne tutto ammaccato. Andate nelle spelonche a trovare il grande Arsenio, e domandategli perché lasciò i piaceri del mondo per venire a piangere tutto il resto dei suoi giorni frammezzo alle belve feroci. Non avrete altra risposta, amico mio, che questa: “Ahi per guadagnar il bel cielo; eppure non ci è costato nulla: oh! queste penitenze sono ben poca cosa, se le confrontiamo alla felicità che ci preparano! „ Non vi è qualità di tormenti che i santi non siano stati pronti a soffrire per guadagnare il cielo. Leggiamo che l’imperatore Nerone, trattò i Cristiani con crudeltà sì spaventose, che il solo pensiero ci fa fremere ancora. Non sapendo con qual pretesto incominciare la persecuzione contro di essi, incendiò la città, per far credere che n’erano stati autori i Cristiani. Vedendosi applaudito dai suoi sudditi, si abbandonò a tutto quanto il furore suo poteva ispirargli. Simile aduna tigre furibonda, spirante strage, faceva uscire gli uni entro pelli di belve, e li gettava nel circo in pasto ai cani: altri faceva ricoprire di vesti intrise di pece e zolfo, poi li appendeva agli alberi delle vie maggiori por servir da torce ai passeggieri durante la notte: egli stesso ne aveva disposti due file nel suo giardino, e di notte li faceva accendere per avere il barbaro diletto di condurre il suo cocchio allo splendore di questo spettacolo triste e  straziante. Non trovandosi ancora soddisfatto il suo furore, inventò un altro supplizio: fece fondere urne di bronzo in forma di toro, nelle quali, arroventate per più giorni, gettava i Cristiani in gran numero e stava a vederli abbrustolire spietatamente. In questa stessa persecuzione S. Pietro fu messo a morte. Essendo in prigione con S. Paolo, al quale fu troncata la testa, trovò S. Pietro il mezzo di fuggire. Sulla strada apparvegli nostro Signore, che gli disse: “Pietro, vado a Roma a morire una seconda volta, „ e scomparve. S. Pietro conoscendo da ciò che non doveva fuggire la morte, ritornò in prigione, e fu condannato a morire in croce. Quando udì pronunciar la sentenza: “O grazia! esclamò: o felicità, il morire della morte del mio Dio! „ Ma domandò un favore ai suoi carnefici, di essere cioè crocifisso con la testa in giù : ” … perché, diceva, non merito la fortuna di morire in modo somigliante al mio Dio. „ Ebbene! amico mio, non è costato nulla ai santi l’andare in cielo? O cielo bello! se deve costare a noi quanto a tutti questi beati, chi di noi vi andrà? Ma no, F. M., consoliamoci Dio non ci domanda tanto. Ma, penserete, cosa bisogna far dunque per andarvi? — Ah! amico mio, lo so ben io cosa bisogna fare. Avete desiderio d’andarvi? — Oh! senza dubbio, voi dite; è ben questo il mio desiderio; se prego, se faccio penitenze è appunto per meritar questa fortuna. — Ebbene! ascoltatemi un istante e lo saprete. Cosa dovete fare? non tralasciar le preghiere mattina e sera: non lavorare in domenica: frequentar di tratto in tratto i Sacramenti: non ascoltare il demonio quando vi tenta, e ricorrere subito a Dio. — Ma, penserete voi, molte cose si possono benissimo fare, ma certe altre, il confessarsi, p. es., non è tanto comodo. — Non è tanto comodo, amico mio? dunque preferite restare in mano al demonio che cacciarlo per rientrare nel seno di Dio, che tante volte vi fece provare quanto è buono? Non considerate adunque come il momento più felice per voi quello in cui avete la fortuna di ricevere il vostro Dio? O mio Dio! se vi si amasse come si sospirerebbe questo momento felice!…Coraggio, amico mio, non disanimatevi: presto sarete al termine delle vostre pene; guardate al cielo, quella dimora santa e permanente; aprite gli occhi,e vedrete il vostro il vostro Dio che vi stende la mano per attrarvi a Lui.  Si, amico mio, tra poco farà con voi ciò che fu fatto con Mardocheo, per celebrare la grandezza delle vostre vittorie sul mondo e sul demonio. Il re Assuero per riconoscere i benefizi del suo generale,volle farlo montare sul suo carro di trionfo, con un araldo che camminava innanzi a lui, gridando: “Così il re ricompensa i servizi a lui resi. „ Amico mio, se adesso Dio presentasse agli occhi nostri uno di quei beati in tutto lo splendore della gloria di cui è rivestito in cielo, e ci mostrasse quelle gioie, quelle dolcezze e delizie delle quali sono inondati i santi nella patria celeste, e gridasse a noi tutti: O uomini! Perché non amate il vostro Dio? Perché non faticate a guadagnare un sì gran bene? O uomo ambizioso, che attaccasti il tuo cuore alla terra, che cosa sono gli onori di questo mondo frivolo e perituro a confronto degli onori e della gloria che Dio ti prepara nel suo regno? O uomini avari che desiderate queste ricchezze periture, quanto siete ciechi a non lavorare per meritarvi ora quelle che non finiranno mai! L’avaro cerca la felicità nei suoi beni, l’ubbriacone nel vino, l’orgoglioso negli onori, e l’impudico nei piaceri della carne. Ah! no, no, amico mio, vi ingannate; alzate gli occhi dell’anima vostra verso il cielo, volgete i vostri sguardi a questo cielo bello e troverete la felicità perfetta: calpestate e disprezzate la terra e troverete il cielo! Fratel mio, perché ti immergi in questi vizi vergognosi? Osserva quali torrenti di delizie Gesù Cristo ti prepara nella patria celeste! Ah! sospira questo felice momento!… „ Sì, F. M., tutto ci predica, tutto ci sollecita di non perdere questo tesoro. I santi che sono in quel bel soggiorno ci gridano dall’alto dei loro troni di gloria: “Oh! se poteste comprendere bene la felicità di cui godiamo per alcuni momenti di combattimento. „ Ma i dannati cel dicono in modo più toccante: “O voi che siete ancor sulla terra, quanto siete fortunati di poter guadagnare il cielo, che noi perdemmo! Oh! se fossimo al vostro posto quanto saremmo più saggi di quello che fummo: abbiam perduto il nostro Dio, e l’abbiamo perduto per sempre! O sventura incomprensibile!… o sventura irreparabile!… cielo bello non ti vedremo mai!… „ F. M., chi di noi non sospira una sì grande felicità?

ASCENSIONE AL CIELO DEL SIGNORE NOSTRO GESÙ CRISTO (2021)

FESTA DELL’ASCENSIONE AL CIELO DEL S. N. GESÙ CRISTO (2021)

ASCENSIONE

I. Commento, dogmatico: Ascensione.

La seconda festa che si celebra nel corso del Tempo Pasquale è l’Ascensione, coronamento di tutta la vita di Gesù Cristo. Era infatti necessario che il divino Risuscitato, cessando di calcare il fango di questa, povera terra, ritornasse al Padre, nel cui seno, come Dio, è fin dall’eternità. Egli accolse la sua umanità, dice S. Cipriano, « con una gioia che nessuna lingua saprebbe esprimere ». Bisognava che Gesù Cristo prendesse possesso del regno dei cieli che si era acquistato con i suoi patimenti e che collocando la nostra fragile natura alla destra della gloria di Dio, ci aprisse la casa del Padre per farci occupare, come figli di Dio, il posto degli Angeli caduti. Gesù entra dunque in cielo, avendo vinto satana e il peccato: gli Angeli acclamano e salutano il loro Re; le anime dei Giusti, liberate del Limbo, formano la gloriosa sua scorta. « Vado a prepararvi il posto », disse ai suoi Apostoli, e San Paolo afferma che Dio ci ha fatti sedere con Gestì in cielo », poiché, « per la speranza siamo già salvi ». « Dove è entrato il capo, dice San Leone, anche il corpo è chiamato ad entrare. Il trionfo di Gesù Cristo è quindi anche il trionfo della sua Chiesa. Come il Sommo Sacerdote, che entrava nel Santo dei Santi per offrire a Dio il Sangue delle vittime sotto l’Antica Legge, Gesù, ci dice l’Apostolo, entrò nel Santo dei Santi della Gerusalemme celeste per offrirvi il suo proprio sangue, il sangue della Nuova Alleanza, e ottenerci i favori di Dio Nel giorno dell’Ascensione. – Gesù, mostrando a Dio le sue piaghe gloriose, comincia il suo celeste sacerdozio. « Egli divenne nostro intercessore perpetuo presso suo Padre » (Heb. VII, 25) e ci ottenne lo Spirito Santo con i suoi doni. – Complemento di tutte le feste di Gesù Cristo, l’Ascensione è il principio della nostra santificazione: « Egli sale al cielo, canta il Prefazio, per renderci partecipi della sua divinità ». « Non basta, dice Don Guéranger, che l’uomo si appoggi ai meriti della passione del Redentore, non basta che Egli unisca a questo ricordo quello della Risurrezione; l’uomo non è salvato e redento che con l’unione di questi due misteri con un terzo mistero, quello cioè dell’Ascensione trionfante di Colui che è morto e risorto. L’opera della Redenzione non sarà perfetta se non quando tutti gli uomini riaccettati saranno entrati nel giorno della risurrezione generale, dietro Gesù e per virtù della sua Ascensione, nel Cielo. Ecco la nostra speranza in questo mondo ».

II. — Commento storico: Ascensione.

Quaranta giorni dopo la Risurrezione di Cristo, il Ciclo Pasquale celebra l’anniversario del giorno che segnò il termine del regno visibile di Gesù Cristo sulla terra. Gli Apostoli, venuti a Gerusalemme prima della Pentecoste, stavano nel Cenacolo quando Gesù apparve loro e prese con essi un ultimo pasto; poi li condusse fuori di città, dalla parte di Betania, sul Monte degli Olivi che è il più alto fra quelli che circondano la capitale; Gesù allora benedisse i suoi Apostoli e ascese al cielo. Mentre saliva, una nube lo nascose agli sguardi e due Angeli annunziarono ai Discepoli che Cristo, risalito al cielo, ne scenderà di nuovo alla fine del mondo. – A Roma per ricordare questo corteo di Gesù e degli Apostoli si soleva fare, verso l’ora di Sesta (mezzogiorno) una solenne processione. Il Papa, celebrata la Messa Pontificale a S. Pietro, si recava, accompagnato, dai Vescovi e dai Cardinali, a S. Giovani in Laterano. – Sant’Elena fece innalzare sul Monte degli Olivi una Basilica sul luogo dove Gesù salì al cielo. La Basilica, sul tipo del Santo Sepolcro, era, con simbolismo felice, aperta in alto.

III. Commento liturgico: Ascensione.

Anticamente la solennità dell’Ascensione si confondeva con quella della Pentecoste, perché il Tempo Pasquale era considerato come una festa che s’iniziava a Pasqua per terminare con la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli. Ma si cominciò presto a celebrare l’Ascensione al quarantesimo giorno dopo la Risurrezione, dandole una Vigilia e un’Ottava. È festa di precetto. Con rito simbolico caratteristico si spegne oggi, il Cero pasquale che con la sua luce rappresentava, durante questa quarantena, la presenza di Gesù fra i discepoli e che si estingue dopo la lettura del Vangelo del giorno dell’Ascensione ove è narrata la dipartita del Signore per il cielo. I paramenti bianchi e l’Alleluia, mostrano l’allegrezza della Chiesa al ricordo del trionfo di Cristo, al pensiero della felicità degli Angeli e dei Giusti dell’Antica Legge che vi parteciparono. – Lo spirito di questa festa è indicato dall’Orazione del giorno dell’Ascensione che ci mostra come, dopo aver seguito finora Gesù nella sua vita mortale, bisogna innalzare lo sguardo verso il cielo e con la fede e la speranza di abitarvi con Lui, poiché quella è la vera patria dei figli di Dio.

ASCENSIONE DEL SIGNORE.

Stazione a S. Pietro,

Doppia di I cl. con ottava privilegiata di III ord. – Paramenti bianchi.

Nella Basilica di S. Pietro, dedicata a uno dei principali testimoni dell’Ascensione del Signore, si celebra oggi (Or.) l’anniversario di questo mistero, che segna il termine della vita terrena di Gesù. Durante i quaranta giorni, che seguirono la sua Risurrezione, il Redentore pose le basi della sua Chiesa, alla quale doveva poco dopo mandare lo Spirito Santo. L’Epistola e il Vangelo di questo giorno riassumono tutti gli insegnamenti del Maestro. Gesù lascia quindi questa terra, e tutta la Messa è la celebrazione della Sua gloriosa elevazione in cielo dove gli fanno scorta le anime liberate, dal Limbo (Ali.) che entrano al suo seguito nel regno celeste, ove partecipano più ampiamente alla sua divinità (Pref.). — L’Ascensione ci predica il dovere di innalzare i nostri cuori a Dio e infatti, l’Orazione ci fa chiedere di abitare in ispirito con Gesù nelle regioni celesti, dove siamo chiamati ad abitare un giorno con il corpo. Durante tutta l’Ottava si recita il Credo: «Credo in un solo Signore Gesù Cristo Figlio unico di Dio… che è asceso al cielo, dove siede alla destra del Padre ». Il Gloria dice pure: « Signore, Figlio unico di Dio Gesù Cristo, tu che siedi alla destra  del Padre, abbi pietà di noi. Nel Prefazio proprio che si recita fino alla Pentecoste, si rendono grazie a Dio pel fatto che « il Cristo risorto, dopo essere apparso a tutti i suoi discepoli, si sia innalzato in cielo sotto i loro sguardi ». Durante tutta l’Ottava si recita ugualmente un Communicantes proprio a questa festa; con esso la Chiesa ci ricorda che « celebra il giorno sacrosanto nel quale Nostro Signore, Figlio unico di Dio, si degnò di introdurre nella gloria e porre alla destra del Padre la nostra fragile carne ». alla quale si era unito nel Mistero dell’Incarnazione. – Ogni giorno la liturgia ci ricorda, all’Offertorio (Suscipe Sancta Trinitas) e al Canone (Unde et memores) che essa, secondo l’ordine del Signore, offre il Santo Sacrificio « in memoria della beatissima passione di Gesù Cristo, della sua risurrezione dalla tomba, e della sua gloriosa Ascensione al cielo ». Infatti l’uomo è salvato solo per l’unione dei misteri della Passione e della Risurrezione con quello dell’Ascensione. « Per la tua morte e per la tua sepoltura, per la tua santa risurrezione, per la tua mirabile Ascensione, liberaci, Signore » (lit. dei Santi). — Offriamo a Dio il sacrifizio divino « in memoria della gloriosa Ascensione del Figliuol Suo » affinché, liberati dai mali presenti, giungiamo con Gesù alla vita eterna (Secr.).

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Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Acta 1:11.
Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in coelum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.


[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps XLVI:2
Omnes gentes, pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exsultatiónis.


[Applaudite, o genti tutte: acclamate Dio con canti e giubilo.]

Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in cœlum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.

[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui hodiérna die Unigénitum tuum, Redemptórem nostrum, ad coelos ascendísse crédimus; ipsi quoque mente in coeléstibus habitémus.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che noi, che crediamo che oggi è salito al cielo il tuo Unigenito, nostro Redentore, abitiamo anche noi col nostro spirito in cielo].

Lectio

Léctio Actuum Apostólorum.
Act I: 1-11

Primum quidem sermónem feci de ómnibus, o Theóphile, quæ coepit Iesus facere et docére usque in diem, qua, præcípiens Apóstolis per Spíritum Sanctum, quos elégit, assúmptus est: quibus et praebuit seípsum vivum post passiónem suam in multas arguméntis, per dies quadragínta appárens eis et loquens de regno Dei. Et convéscens, præcépit eis, ab Ierosólymis ne discéderent, sed exspectárent promissiónem Patris, quam audístis -inquit – per os meum: quia Ioánnes quidem baptizávit aqua, vos autem baptizabímini Spíritu Sancto non post multos hos dies. Igitur qui convénerant, interrogábant eum, dicéntes: Dómine, si in témpore hoc restítues regnum Israël? Dixit autem eis: Non est vestrum nosse témpora vel moménta, quæ Pater pósuit in sua potestáte: sed accipiétis virtútem superveniéntis Spíritus Sancti in vos, et éritis mihi testes in Ierúsalem et in omni Iudaea et Samaría et usque ad últimum terræ. Et cum hæc dixísset, vidéntibus illis, elevátus est, et nubes suscépit eum ab óculis eórum. Cumque intuerétur in coelum eúntem illum, ecce, duo viri astitérunt iuxta illos in véstibus albis, qui et dixérunt: Viri Galilaei, quid statis aspiciéntes in coelum? Hic Iesus, qui assúmptus est a vobis in coelum, sic véniet, quemádmodum vidístis eum eúntem in coelum.

“Io primieramente ho trattato, o Teofìlo, delle cose che Gesù prese a fare e ad insegnare in fino al dì, ch’Egli fu accolto in alto, dopo aver dato i suoi comandi per lo Spirito Santo agli Apostoli ch’Egli aveva eletti. Ai quali ancora, dopo aver sofferto, si presentò vivente, con molte e sicure prove, essendo da loro veduto per lo spazio di quaranta giorni e ragionando con essi delle cose del regno di Dio. E trovandosi con essi, comandò loro che non si partissero da Gerusalemme, ma aspettassero la promessa del Padre, che, diss’Egli, avete da me udita. Perocché Giovanni battezzò con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni. Essi adunque, stando con Lui, lo domandarono, dicendo: Signore, sarà egli in questo tempo, che tu restituirai il regno ad Israele? Ma Egli disse loro: Non spetta a voi conoscere i tempi e le stagioni, che il Padre serba in poter suo. Ma voi riceverete la virtù dello Spirito Santo, che verrà sopra di voi e mi sarete testimoni e in Gerusalemme e in tutta la Giudea e nella Samaria e fino alle estremità della terra. E dette queste cose, levossi a vista loro: e una nuvola lo ricevette e lo tolse agli occhi loro. E com’essi tenevano ancora fissi gli occhi in cielo, mentre se ne andava, ecco due uomini si presentarono loro in candide vesti e dissero loro: Uomini Galilei, perché state riguardando verso il cielo? Questo Gesù che è stato accolto in cielo d’appresso voi, verrà nella stessa maniera che l’avete veduto andarsene in cielo -.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: MISTERI CRISTIANI, Queriniana Brescia, 1896 vol. II, impr.]

In questi primi undici versetti, che leggiamo nel principio del libro degli Atti Apostolici, che la Chiesa oggi fa recitare al sacerdote celebrante la Santa Messa e che ora vi ho riportato parola per parola nella nostra favella, S. Luca ci narra l’Ascensione di Gesù Cristo al Cielo. È il fatto strepitoso, è il mistero che la Chiesa festeggia in questo giorno, col quale si chiude la vita di Gesù Cristo quaggiù sulla terra. Mio compito è quello di ragionarvi di questo fatto: e qual miglior modo di sdebitarmene che quello di commentare la lezione sacra, che udiste? Eccovi il soggetto di questa, anziché Ragionamento, modesta Omelia, a cui vi piaccia porgere benigno l’orecchio. – S. Luca, nato nel gentilesimo, fornito di coltura greca più che comune, fu medico di professione. Abbandonò il paganesimo e abbracciò il Vangelo di Gesù Cristo per opera di S. Paolo, che seguì fedelmente ne’ suoi viaggi di terra e di mare fino a Roma, dove si trovava allorché l’Apostolo scrisse la sua seconda lettera a Timoteo, poco prima della morte. (II Tim. V. 11). S, Paolo si loda di lui e lo chiama carissimo. (Ai Coloss. IV, 12). Egli scrisse il suo Vangelo come l’aveva udito da S. Paolo e lo scrisse in lingua greca, allora abbastanza conosciuta in tutto l’Oriente e a Roma e lo scrisse per uso di quei Cristiani, che prima erano stati gentili. Dopo aver scritto il Vangelo pose mano a scrivere il libro, che porta il titolo Atti o Gesta degli Apostoli, particolarmente di S. Paolo, giacché la seconda metà del libro si restringe esclusivamente a narrare le opere di lui: cosa affatto naturale, essendo egli stato suo discepolo e compagno e testimonio di ciò che narra. Cominciando questo libro, lo lega col Vangelo, che prima aveva scritto e che racchiude per sommi capi la storia di circa trent’anni. Questo libro fa seguito al Vangelo e ci descrive l’origine della Chiesa e, come voleva la natura delle cose, si apre col racconto della Ascensione di Gesù Cristo, accennata appena nell’ultimo capo del Vangelo. Uditene il prologo: Primieramente, o Teofilo, ho ragionato di tutte le cose, che Gesù prese a fare e ad insegnare fino al giorno, nel quale, dati per lo Spirito Santo i suoi comandi agli Apostoli, da Lui eletti, levossi al cielo. S. Luca rivolge la parola a Teofilo. Chi è desso codesto Teofilo, al quale S. Luca si indirizza eziandio a principio nel suo Vangelo? Sembra fuori di dubbio che fosse un personaggio distinto, che aveva dato il suo nome a Gesù Cristo e la cui vita doveva rispondere al nome che portava, e che in nostra lingua significa Amatore di Dio. Gli ricorda il libro del Vangelo, che gli aveva mandato e nel quale aveva compendiato le opere e la dottrina di Gesù Cristo. – Quæ cœpit Jesus facere et docere. Ecco che cosa è il Vangelo: il compendio delle cose fatte e insegnate da Gesù Cristo; dal che è facile inferire che nel Vangelo le opere e la dottrina di Gesù Cristo non sono riferite tutte, ma le principali e per sommi capi. A ragione poi gli interpreti fanno osservare che S. Luca, compendiando la vita di Gesù Cristo nel Vangelo, alle parole di Lui manda innanzi le opere: – Cœpit facere et docere -. Prima fece e poi insegnò! E in vero: le opere sono assai più eloquenti delle parole e gli uomini apprendono più assai da quelle, che da queste: le parole non costano gran sacrificio, ma lo impongono spesso assai grave le opere. E poi, a che valgono le parole se non sono accompagnate dalle opere? Ciò che valgono le fronde senza i frutti; ed è per questo che di Gesù si dice che cominciò a fare e dopo ad insegnare. Imitiamolo, affinché gli uomini vedano le opere nostre e vedendole sollevino la mente a Dio e gli rendano lode. – Io, scrive S. Luca, vi ho narrata nel mio Vangelo la vita di Gesù dal suo miracoloso concepimento fino alla sua dipartita dalla terra, fino a quel dì nel quale, andandosene al Cielo, lasciò i suoi comandi agli Apostoli e li costituì esecutori dei suoi voleri. Quali siano questi comandi e quali i voleri di Gesù Cristo si fa manifesto dal Vangelo istesso, dove sono determinati. E badate bene, soggiunge S. Luca, che questi comandi sono dati da Lui, che come fu concepito per virtù dello Spirito Santo, cosi tutto fa e dice per virtù dello stesso Spirito Santo, di cui possiede la pienezza. I quali comandi e voleri manifestò a quegli Apostoli che elesse Egli medesimo e ammaestrò di sua bocca. Non è senza ragione e profonda che S. Luca, nominati gli Apostoli, volle tosto soggiungere quelle due parole: – Quos elegit – I quali egli elesse -. Scopo del libro è di far conoscere le opere compiute dagli Apostoli e singolarmente da San Paolo e quindi di mettere in rilievo l’organismo della Chiesa primitiva. Importava adunque che si facesse conoscere in chi risiedeva il potere di reggere quella Chiesa e da chi era dato; e S. Luca ce lo mostra negli Apostoli e qui ci dice ch’essi l’ebbero da Cristo, che li elesse. È questa, o cari, una verità che vuolsi spesso ricordare e inculcare in questi tempi, nei quali si tende a collocare la radice del potere nella moltitudine. Checché sia del potere civile, di cui non parlo, il potere della Chiesa viene dall’alto, deriva di Cristo e da Lui passa negli Apostoli e dagli Apostoli nei suoi successori fino al termine dei tempi, perché Egli li elesse ed eleggendoli li investì di quel potere, che non riceve da chicchessia,, ma trae da se medesimo. – Fino al giorno nel quale fu assunto in Cielo – E da chi fu assunto Egli, Gesù Cristo? Non da altri fuorché dalla sua stessa onnipotenza, perché Egli era Dio eguale in ogni cosa al Padre; il perché la frase – Egli fu assunto in Cielo – vuolsi riferire alla natura umana, che aveva assunto, non alla sua divina Persona, che essendo immensa e onnipotente non può né salire, né discendere e per agire non ha bisogno di qualsiasi forza a sé estranea. Il sacro scrittore prosegue e in un versetto solo riassume la vita di Gesù Cristo, dalla sua Risurrezione alla sua Ascensione così: – Ai quali Apostoli, dopo la Passione, si era eziandio mostrato redivivo per lo spazio di quaranta giorni in molte maniere, parlando loro del regno di Dio -. Il punto capitale della vita di Gesù Cristo e la prova massima della sua divina missione, era senza dubbio il fatto della sua Risurrezione e questa, dice S. Luca, non poteva essere più certa e più splendida. Per il periodo di quaranta giorni si mostrò redivivo ai suoi Apostoli e nei modi più svariati per dileguare ogni ombra di dubbio. Si mostrò alle donne, a Pietro, a Giacomo separatamente, a due discepoli lungo la via di Emmaus, a sette sulle rive del lago di Tiberiade, a dieci e poi ad undici insieme raccolti nel Cenacolo di Gerusalemme; poi finalmente allorché salì al Cielo fu visto da circa cento e venti persone [S. Luca, narrata la Ascensione di Gesù Cristo, dice che gli Apostoli (e dà il nome di tutti undici) insieme con Maria e le donne si raccolsero nel Cenacolo in Gerusalemme, e tra parentesi aggiunge: – Che erano circa 120 -. Dal contesto sembra chiaro che questi 120 furono sul colle degli Olivi spettatori della Ascensione di Cristo. Si noti poi che gli Ebrei, allorché danno il numero delle persone, non comprendono mai le donne.], ed altra volta, che San Paolo afferma in modo solenne senza specificare il luogo e il modo, mostrossi insieme a cinquecento fratelli (I. Cor. XV. 6). Con loro parlò, con loro mangiò; volle che gli toccassero le mani e il costato perché si accertassero essere ben Egli il loro Maestro risuscitato, non ombra o spirito. La sua Risurrezione, considerata la lunghezza del tempo, la varietà delle apparizioni e delle prove e tenuto conto del numero dei testimoni, poteva ella essere più manifesta e più accertata? Mi appello a voi. – In tutte codeste apparizioni Gesù Cristo più o meno lungamente si trattenne e naturalmente parlò con gli Apostoli e con quanti erano presenti. E di quali cose parlò Egli con essi? Se noi scorriamo i quattro Evangeli e questo primo capo degli Atti Apostolici, troviamo alcuni cenni intorno alle cose che Gesù disse loro; ma ogni ragione vuole ch’Egli parlasse loro e ampiamente di tutto ciò che loro importava conoscere nell’esercizio dell’altissima missione loro affidata. S. Luca, con due sole parole, accenna il soggetto di queste istruzioni, che Gesù dava agli Apostoli e che dovevano essere la regola della loro condotta privata e specialmente pubblica, dicendo: – Loquens de regno Dei – Parlando del regno di Dio -. Qual regno di Dio? Certamente il regno di Dio sulla terra, cioè la Chiesa, che è la preparazione e il mezzo necessario per entrare nel regno di Dio, il Cielo e la vita beata. Ma se lo Scrittor sacro con estremo laconismo indicò l’argomento dei discorsi di Cristo con gli Apostoli in genere, non li significò in particolare, rimettendosi in questo alla tradizione orale. E qui riceve nuova e gagliarda prova la Dottrina Cattolica, che professa la Scrittura santa non contenere tutto l’insegnamento di Gesù Cristo, ma questo aversi pieno e perfetto nella tradizione orale. Dicano i fratelli nostri protestanti quante e quali furono le cose dette da Gesù Cristo agli Apostoli e comprese in quelle tre parole – Loquens de regno Dei? – E dovevano essere cose d’alto momento e perché venivano da tanto Maestro e perché riguardavano l’opera di Lui per eccellenza, la Chiesa, e perché  erano gli ultimi ricordi che loro lasciava. L’insegnamento orale adunque degli Apostoli e della Chiesa devesi considerare come il complemento non solo utile, ma necessario di. quello che abbiamo nei Libri Santi. – S. Luca nel versetto che segue ci fa sapere qual fu uno degli argomenti di queste conversazioni od istruzioni di Gesù Cristo, scrivendo: – Stando insieme a mensa, comandò loro non si dipartissero da Gerusalemme, ma vi aspettassero la promessa del Padre, che voi avete udito (disse) dalla mia bocca -. Dovevano fermarsi in Gerusalemme finché fosse adempiuta la promessa che Egli stesso aveva fatta a nome suo e del Padre – di mandare loro lo Spirito Santo. E perché  fermarsi in Gerusalemme? Perché là e non altrove, Gesù Cristo vuole che ricevano lo Spirito Santo? Perché là dove Gesù Cristo patì e morì, là se ne vedesse il primo frutto: perché là dove sul vertice della sua croce fu posta per ischerno la scritta: – Questi è il Re dei Giudei -, là cominciasse il suo regno, regno di tutti i secoli. Perché là dove Gesù Cristo lasciava i suoi Apostoli, là ricevessero lo Spirito consolatore, che doveva tenerne il luogo e continuarne l’opera. Perché là dove Gesù Cristo con la sua morte aveva posto fine alla legge mosaica, lo Spirito Santo proclamasse la nuova legge e dal centro della Sinagoga uscisse la Chiesa, che ne era la meta ed il termine. Accennata la promessa dello Spirito Santo che sarebbe disceso sugli Apostoli, Gesù ne tocca gli effetti, chiamando quella comunicazione miracolosa: Battesimo e altrove Battesimo di fuoco – Giovanni battezzò con l’acqua, dice Cristo, e voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni -. – Giovanni, così il divin Salvatore, battezzava il popolo sulle rive del Giordano, e voi ed Io con voi vi andammo. Che Battesimo era quello? Battesimo con acqua: esso, per sé, non mondava l’anima, ma solo il corpo. Per esso voi vi riconoscevate peccatori, bisognevoli di purificazione: esso non infondeva grazia alcuna nelle anime vostre; vi eccitava soltanto a desiderarla, destandovi la fede in Lui, che Giovanni annunziava e che ora vi parla. Voi ora siete mondi in virtù della mia parola: nell’anima vostra alberga la mia grazia e con essa il germe della vita divina. Ma la missione, che siete per cominciare domanda una forza più gagliarda, una vita più potente, un novello Battesimo, non di acqua, ma di fuoco e l’avrete tra pochi giorni -. È chiaro che Gesù Cristo in questo luogo col nome di Battesimo nello Spirito Santo designa la venuta dello Spirito Santo e la trasformazione operata negli Apostoli il giorno delle Pentecoste e la designa con questo nome perché vi è una certa somiglianza col Battesimo di acqua. Questo si riceve una sola volta e una sola volta in modo sensibile lo Spirito Santo discese sugli Apostoli: questo depose nell’anima una vita nuova, che si svolse nella vita cristiana, stampando in essi un segno incancellabile: e lo Spiritò Santo depose in essi una nuova energia, che si svolse nelle opere tutte dell’Apostolato. – Ma ritorniamo alla narrazione di S. Luca, il quale riporta una domanda degli Apostoli a Gesù, la quale se da una parte dimostra la semplicità e, diciamolo pure, la ignoranza degli Apostoli, dall’altra mette in piena luce la divinità del divino Maestro verso di loro e prova insieme l’ammirabile sincerità del sacro scrittore. Uditela: – Intanto i convenuti colà lo interrogarono dicendo: Signore, restituirai tu forse in questo tempo il regno ad Israele? – Per comprendere questa domanda, che sembra a noi molto strana, conviene conoscere le idee che allora fermentavano nel popolo giudaico non meno che nei suoi capi, alle quali naturalmente gli Apostoli non potevano essere estranei. E tanto più conviene conoscere queste idee, delle quali gli Apostoli si fanno interpreti presso del Maestro in quanto che esse ci danno la chiave per spiegare la terribile apostasia della nazione e la catastrofe che ne seguì. Scorrete i libri dell’antico Testamento e particolarmente i Salmi ed i Profeti: in moltissimi luoghi si promette il Messia e sotto le più svariate forme lo si presenta e si descrive. Si predicano, è vero, le sue umiliazioni, i suoi dolori, la sua morte in modo che sembrano una storia piuttostoché una profezia; ma lo si dipinge pure come un re potentissimo, un gran duce vincitore, un conquistatore glorioso, che strapperà il suo popolo dalle mani dei nemici, che lo rivendicherà a libertà e stenderà il suo scettro pacifico su tutta la terra. Che ne avvenne? Ciò che doveva avvenire in un popolo sì fiero della propria indipendenza, orgoglioso, tenacissimo e che dopo le terribili prove, da cui era uscito contro i Babilonesi e contro i re Siri, al tempo dei Maccabei, fremevano sotto il giogo romano. Come gli individui e più degli individui i popoli hanno il loro amor proprio, il loro egoismo nazionale, che può toccare i gradi estremi. Gli Ebrei tenevano salda la speranza del futuro Liberatore, del quale parlavano i profeti, i riti ed i simboli in tante forme rappresentavano; l’aspettavano, lo desideravano ardentemente. Ma la loro natura grossolana, il desiderio ardentissimo di scuotersi dal collo l’abbominata signoria straniera e l’orgoglio nazionale fecero sì che nel Messia promesso, nel Liberatore annunziato dai Patriarchi e dai Profeti, più che il Liberatore delle anime vedessero il liberatore dei corpi, più che il Redentore del mondo aspettassero il vindice della nazione, un Davide glorioso, un Maccabeo restauratore di Israele. Foggiatasi questa idea bizzarra e falsissima del Messia, che accarezzava il loro orgoglio e rispondeva alle condizioni politiche sì dolorose ed umilianti della nazione, è facile immaginare come i Giudei dovessero accogliere Gesù Cristo, che annunziava un regno spirituale, che voleva si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare e che mandava in fumo le speranze di libertà e grandezza temporale, che si aspettavano. È questa la causa precipua della cecità de’ Giudei e del ripudio di Cristo e che trasse in rovina la nazione intera. Terribile lezione. che troviamo ripetuta sventuratamente anche in alcuni popoli cristiani! Perché l’Oriente ai tempi di Fozio e poi di Michele Cerulario si separò da Roma e cadde nello scisma e nella eresia, in cui giace ancora? La causa principale fu l’orgoglio nazionale dei Greci, ai quali pareva una umiliazione ubbidire al Pontefice di Roma e sottostare ai Latini. Perché la maggior parte della Germania consumò la sua separazione dal centro dell’unità cattolica, che risiede in Roma? Vuolsi ascriverne la causa principale alla gelosia nazionale: ai fieri Germani mal sapeva ricevere la legge da Roma, a loro, figli di Arminio. Perché l’Inghilterra ruppe i vincoli, che da secoli la tenevano unita a Roma? Perché le parve a torto minacciata la sua indipendenza nazionale. Se bene si guarda quasi tutti gli scismi e quasi tutte le grandi eresie, che desolarono la Chiesa, ebbero la loro funesta radice nel sentimento esagerato e male inteso della dignità e grandezza nazionale. È una prova tremenda per un popolo il sospetto, il solo timore, che gli interessi religiosi possano offendere il sentimento patriottico: nella lotta vera o immaginaria che sia v’è un grande pericolo, che il popolo agli interessi del Cielo anteponga i terreni e respinga una Chiesa od una Religione che gli sembra domandare il sacrificio della patria e tanto più grande è il pericolo quanto più ardente è l’amore della patria stessa. Ma guai a quel popolo che si lascia accecare! L’esempio d’Israele è là sotto gli occhi del mondo intero. Torniamo al sacro testo. – Gli Apostoli, benché poveri figli del popolo, rozzi pescatori, nati e cresciuti sugli estremi confini della nazione, ai piedi del Libano e lontani dal centro d’Israele, Gerusalemme, dove batteva il cuore della nazione e ardeva il focolare del patriottismo, non erano estranei alle speranze comuni, né insensibili al fremito del popolo. L’uomo nasce e vive patriota e tutto ciò che suona onore, libertà e grandezza della patria, trova sempre aperta la via del suo cuore e se vi è uomo, in cui l’amore della patria non trova eco, dite pure che è un miserabile, un essere degradato. Era dunque naturale che gli Apostoli, anime rette, forti e generose, ancorché prive d’ogni coltura, sentissero vivo l’amore della patria e partecipassero al sentimento comune, spingendolo fino al pregiudizio fatale di assegnare al Messia, e per conseguenza a Gesù Cristo, la missione di liberatore dal giogo straniero. E che gli Apostoli tutti fossero vittima di questo pregiudizio comune, figlio d’un patriottismo male inteso, e ciò fino alla Ascensione di Gesù Cristo al Cielo, apparisce in modo indubitato dalla domanda che ingenuamente e non senza qualche peritanza, gli mossero: – Signore, restituirai tu forse in questo tempo il regno ad Israele? – La domanda è fatta in modo, che sembra deliberata in comune, riserbata in sull’ultimo come cosa gravissima, nella speranza che il Maestro ne parlasse anche non richiesto e concepita in termini che esprimono l’angustia e l’incertezza dell’animo loro. Qual fu la risposta di Gesù? È semplicissima e l’avete udita. Egli, il divino Maestro, li lascia dire e li ascolta. Non una parola di stupore, non un accento solo di rimprovero per tanta ignoranza, dopo sì lungo tempo di scuola avuta da Lui, e tanta ignoranza sopra un punto capitale, che riguardava il fine della divina sua missione. Quanta benignità! Quanta carità con questi suoi cari Apostoli! Egli, vedendo le loro menti ingombre di sì gravi pregiudizi, tace e dissimula e non si prova nemmeno a dissiparli, perché non l’avrebbero compreso. Aspetta che il tempo e la luce che tra breve getterà nelle loro menti lo Spirito Santo, li rischiarino e mettano fine ai loro dubbi. Grande e sublime lezione per tutti e particolarmente per quanti hanno l’ufficio di ammaestrare il popolo! Quante volte accade di trovare persone piene di errori, che non si arrendono alle dimostrazioni più evidenti, che non sanno spogliarsi di certi pregiudizi succhiati col latte, che chiudono gli occhi della mente a verità chiarissime! Che fare? Talvolta sono vittime della educazione, dell’ambiente, come si dice, delle correnti popolari, di passioni per sé non sempre spregevoli. Combatterle risolutamente a viso aperto sarebbe forse cosa vana e talora anche nociva, perché ecciterebbe più vive le passioni facendosi l’amor proprio offeso loro patrocinatore. In molti casi giova tacere, dissimulare, attendere che le passioni sbolliscano, che il tempo ammaestri, e non è raro il caso che le menti si aprano da se stesse alla luce di quelle verità che prima si erano fieramente rigettate. L’esempio di Cristo lo prova. Egli lasciò cadere la domanda; non negò, né affermò; ma, riconducendo la mente dei suoi diletti Apostoli a ciò che maggiormente importava e dalle cose temporali richiamandoli, come sempre soleva fare, alle celesti, rispose: – Non spetta a voi conoscere i tempi e le congiunture, che il Padre ha serbato in sua balìa. – Che fu un dire: a che fermate il vostro pensiero sulle sorti future del regno d’Israele? Voi non potete mutarle; esse sono nelle mani di Dio, che solo le conosce e le regola nella sua sapienza. Ad altra impresa e troppo più alta e importante voi siete chiamati: di questa vi occupate, che è vostra, e quell’altra rimettete al divino volere. – Del resto qual era la sorte riserbata alla nazione giudaica e nominatamente alla sua capitale, Gerusalemme, cinquanta giorni innanzi l’aveva detto e descritto coi colori più vivi e la memoria doveva essere ancor fresca negli Apostoli. Non aveva lor detto, pochi giorni prima della sua passione, che sarebbe scoppiata una guerra sterminatrice con rivolte e tumulti? Non aveva chiaramente annunziato un assedio terribile, la presa della città, la distruzione del tempio, sì che non ne sarebbe rimasta pietra sopra pietra e ammonitili che fuggissero ai monti per non essere involti nella catastrofe? In quella profezia sì chiara e particolareggiata, che non potevano aver dimenticata, perché recentissima, si conteneva la risposta alla domanda: – È questo il tempo, nel quale restituirai il regno ad Israele? – Ma non è inutile il ripeterlo, quando un pregiudizio è profondamente abbarbicato nell’animo non valgono le ragioni più evidenti a svellerlo, ed è saggezza aspettare il beneficio del tempo e della esperienza, come fece Cristo, il quale, messo da banda questo argomento affatto umano e che allora non interessava, continuò, dicendo: – Piuttosto voi riceverete la potenza dello Spirito Santo, il quale verrà sopra di voi -. Ben altro regno che quello temporale d’Israele, del quale mi fate domanda, si deve fondare e tosto e per opera vostra. E come e quando? Appena avrete ricevuto lo Spirito Santo, che vi riempirà della sua forza divina tra pochi giorni e trasformandovi in altri uomini, vi renderà strumenti atti all’ardua impresa; e allora, da Lui supernamente illustrati, comprenderete qual sia il regno, ch’Io sono venuto a stabilire, regno della verità, regno dell’anime, che comincerà qui in Gerusalemme, si allargherà in tutta la Giudea e nella Samaria, che sono i confini del regno d’Israele, di cui parlate, e poi si distenderà fino agli estremi della terra. In tal modo Gesù Cristo accenna alla differenza immensa, che corre tra l’angusto e temporal regno sognato dagli Apostoli e quello senza confini e spirituale, ch’Egli per opera loro avrebbe fondato e implicitamente risponde alla domanda, che gli avevano fatta: – In questo tempo restituirai tu il regno ad Israele? – E qui cade in acconcio toccare alcune verità, che non sono senza importanza. E primieramente osservate tracciato agli Apostoli l’ordine della loro predicazione: essi dovevano cominciare la loro missione in Gerusalemme, poi spandersi nella Giudea, poi portarla in Samaria, che è quanto dire annunziare prima la buona novella ai figli di Abramo disseminati sul territorio delle dodici tribù, pigliando le mosse dalle due rimaste fedeli. Compiuta questa missione presso i figli d’Israele, il muro, che fino allora aveva separato il popolo eletto da tutti gli altri doveva cadere e aprirsi a tutti indistintamente la porta del novello regno, regno universale e duraturo fino al termine dei tempi. Disegno più audace di questo e umanamente di questo più impossibile non s’era mai visto, né mai era caduto in mente d’uomo e direttamente feriva l’orgoglio del popolo ebraico, sì tenace e sì geloso del suo più assoluto isolamento. Il carattere della più vasta universalità per ragione dello spazio e del tempo, che Cristo in questo luogo imprime al suo regno, siffattamente ripugna alle idee del mondo pagano e più ancora del mondo ebraico, che anche solo basta d’avvantaggio a mostrarli in Chi lo concepì e sì chiaramente l’annunzi la coscienza della propria forza al tutto sovra umana e divina. Osservate in secondo luogo che Cristo costituisce gli Apostoli testimoni – Eritis mihi testes – Testimoni di che? Dei fatti e dei miracoli (e per conseguenza della dottrina dai fatti e dai miracoli provata), che avevano veduto coi loro occhi. Ufficio adunque degli Apostoli e dei loro successori è quello di attestare e affermare costantemente e dovunque l’insegnamento di Cristo, la cui certezza poggia sui miracoli da Lui operati. Essi non sono che testimoni e perciò loro ufficio è quello di conservare pura e intatta la Dottrina di Cristo, quale uscì dalle sue labbra, senza aggiungere o levare ad essa pure un’apice. Perciò il ponetevelo bene nell’animo, o dilettissimi, la Chiesa, continuatrice dell’opera degli Apostoli non crea una sola verità nuova, non altera, né dimentica, né omette una sola delle verità caduta dalle labbra di Cristo e degli Apostoli: tutte le conserva e le trasmette fedelmente, come un cristallo tersissimo trasmette i raggi del sole, benché le svolga più largamente e di nuove e più ampie prove secondo i tempi e i luoghi le avvalori. Finalmente non dimenticate mai, o dilettissimi, che questo doppio ufficio di propagatrice e conservatrice infallibile della Dottrina di Cristo la Chiesa lo adempì e adempirà sempre, non per virtù propria, ma sì unicamente per virtù di quello Spirito Santo, che Cristo promise agli Apostoli e che rimarrà nella Chiesa fino all’ultimo giorno de’ secoli, secondo la sua promessa solenne. È bene a credere che Cristo, trattenendosi con gli Apostoli a lungo e più volte per lo spazio di quaranta giorni, altre cose disse loro, che non sono registrate da S. Luca, ma che si conservarono religiosamente nell’insegnamento orale degli Apostoli stessi e della Chiesa. S. Luca, compendiate queste cose, narra che Gesù condusse gli Apostoli fuori, in Betania, il castello di Marta, Maria e Lazzaro, presso Gerusalemme (S. Luca, XXIV, 51) e benedicendoli amorosamente – sotto i loro occhi levossi in alto – Videntibus illis, elevatus est –  Cristo levossi da terra per virtù della sua divina persona e sembra che ciò facesse a poco a poco, volti sempre gli sguardi sorridenti e stese le braccia verso i suoi cari Apostoli e discepoli e sopra tutto verso la Madre sua, che indubitatamente era colà, come si rileva dal versetto quattordicesimo di questo primo capo degli Atti Apostolici. Levossi in alto – Elevatus est – cioè levossi al Cielo. Che vi sia un luogo dove Iddio si manifesta svelatamente nella sua gloria a quelli, che hanno meritato di vederlo e bearsi in Lui e che si dice cielo, non vi può essere dubbio alcuno e la natura stessa degli Angeli e particolarmente degli uomini, che vi sono chiamati, lo esige. Ma dove sia questo luogo e questo Cielo a noi è perfettamente ignoto. Finché gli uomini, giudicando secondo i sensi e perciò seguendo le idee astronomiche di Tolcredevano la terra immobile, centro universale del creato e gli astri e le stelle poste in alto e d’altra natura incomparabilmente più nobile della terra, si comprende come potessero e dovessero collocare il Cielo, questo luogo di delizie, questa dimora gloriosa lassù in alto, negli astri, nelle stelle, nel Cielo immobile, che a tutte le cose sovrasta. L’idea cristiana del Cielo, elevandosi ai sublimi concetti di Dio, della sua immensità, degli spiriti, delle anime e dei corpi gloriosi, conserva pur sempre l’idea d’un luogo particolare, dove Dio mostra la sua presenza e la sua gloria, ma non determinò mai precisamente in qual regione sia posto questo luogo, se sopra o sotto di noi, se ad Oriente od Occidente, a tramontana o mezzogiorno. I Libri Santi tacciono, la tradizione è muta e la Chiesa, che n’è l’interprete, insegna che il Cielo de’ beati, il paradiso vi è, ma dove sia nol disse mai. E perché non potrebb’essere sulla terra istessa? Là dove è Dio svelato alle anime, là può essere il Cielo; e non potrebbe Iddio mostrarsi loro qual è qui sulla terra, campo dei loro combattimenti e delle loro vittorie e perciò anche luogo del loro trionfo? Che importa che noi non vediamo nulla? Chi può vedere Iddio, i puri spiriti, i corpi gloriosi? Cristo non vive sulla terra nel Sacramento dell’altare invisibile? E certo dove è Cristo ivi è altresì il Cielo, di cui è il Re. Disse profondamente il poeta teologo che ogni dove è paradiso ed è questo il vero concetto del Cielo secondo la ragione e secondo la fede e questo teniamo. Ma voi direte: E pur sempre vero che il testo sacro, narrando l’ascensione di Cristo, ce lo descrisse in atto di salire in alto – Elevatus est -; e noi stessi, allorché accenniamo il Cielo, leviamo in alto le mani quasi fosse lassù sopra dei nostri capi. È vero: Cristo, salendo in Cielo, montò in alto, non perché il Cielo sia piuttosto in alto che in basso ma per mostrare che la sua presenza visibile cessava sulla terra e cominciava un’altra maniera differentissima di vita; e poiché le cose più nobili e più eccellenti per noi si dicono metaforicamente alte e ce le rappresentiamo, non in basso, ma in alto; così Cristo per farci conoscere il suo nuovo modo di esistere in Cielo, salì in alto. Per la stessa ragione, allorché noi parliamo del Cielo, leviamo in alto le mani e gli occhi come se il Cielo fosse sopra de’ nostri capi Poiché Gesù fu levato in alto, una nube, dice il sacro scrittore, lo tolse ai loro occhi. Qual nube? Porse fu vera nube, o come inclino a credere e mi sembra più conforme al fatto e alla maestà di Cristo, quella fu uno splendore di luce meravigliosa, che a guisa di nube lo circonfuse e lo rese invisibile agli occhi degli Apostoli, che lo seguivano con ansia amorosa, con gioia ineffabile e dolore vivissimo, come potete immaginare. – Allorché gli Apostoli stavano pur con gli occhi fissi in alto cercando di vedere il Maestro, che si era dileguato in mezzo a quei fulgori celesti, ecco ad un tratto due personaggi bianco vestiti stettero presso di loro, quasi inosservati, perché gli occhi loro erano fermi lassù in alto. S. Luca non dice che fossero Angeli, ma non è a dubitarne dal contesto. Li chiama personaggi (viri), non Angeli, perché apparvero con forme umane e certo non è questo il primo luogo, in cui gli Angeli si chiamano uomini. Essi, riscossi gli Apostoli da quella loro estasi, volsero loro la parola, dicendo: – 0 Galilei, che state a riguardare in Cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi fu assunto in Cielo, verrà al modo istesso, onde lo vedeste andarsene -. Quegli Angeli rammentarono agli Apostoli una verità, che più volte avevano udita dalla bocca di Cristo, cioè la sua venuta gloriosa al termine dei tempi. Vedete somiglianza tra i due fatti della salita di Cristo al Cielo e della futura sua venuta, toccata dal sacro Autore. E sempre sopra una nube, che Gesù si mostra, sia che parta dalla terra, sia che vi ritorni, per indicare la sua maestà e la piena signoria ch’Egli ha sopra ogni cosa. Nella stessa trasfigurazione la voce celeste si fa udire dal seno d’una nube e attraverso ad una nube Mosè intravvede Dio. Con la mente e col cuore abbiamo seguito Cristo, che sale al Cielo: prepariamoci con la mente e col cuore ad accoglierlo nella finale sua venuta per essergli compagni nel suo rientrare nella gloria celeste e vivere beati con Lui per tutti i secoli dei secoli.

Alleluia

Allelúia, allelúia.


Ps XLVI:6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ. Allelúia.

[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Ps LXVII:18-19.
V. Dóminus in Sina in sancto, ascéndens in altum, captívam duxit captivitátem.
Allelúia.  

[Il Signore dal Sinai viene nel santuario, salendo in alto, trascina schiava la schiavitú. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc XVI:14-20

In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit incredulitátem eórum et durítiam cordis: quia iis, qui víderant eum resurrexísse, non credidérunt. Et dixit eis: Eúntes in mundum univérsum, prædicáte Evangélium omni creatúræ. Qui credíderit et baptizátus fúerit, salvus erit: qui vero non credíderit, condemnábitur. Signa autem eos, qui credíderint, hæc sequéntur: In nómine meo dæmónia eiícient: linguis loquantur novis: serpentes tollent: et si mortíferum quid bíberint, non eis nocébit: super ægros manus impónent, et bene habébunt. Et Dóminus quidem Iesus, postquam locútus est eis, assúmptus est in cœlum, et sedet a dextris Dei. Illi autem profécti, prædicavérunt ubíque, Dómino cooperánte et sermónem confirmánte, sequéntibus signis.

“In quel tempo: Gesú apparve agli undici, mentre erano a mensa, e rinfacciò ad essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano prestato fede a quelli che lo avevano visto resuscitato. E disse loro: Andate per tutto il mondo: predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi poi non crederà, sarà condannato. Ed ecco i miracoli che accompagneranno coloro che hanno creduto: nel mio Nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, maneggeranno serpenti, e se avran bevuto qualcosa di mortifero non farà loro male: imporranno le mani ai malati e questi guariranno. E il Signore Gesù, dopo aver parlato con essi, fu assunto in cielo e si assise alla destra di Dio. Essi se ne andarono a predicare per ogni dove, mentre il Signore li assisteva e confermava la loro parola con i miracoli che la seguivano.”

Recitato il Vangelo, viene spento il Cero pasquale, ne più si accende, se non il Sabato di Pentecoste per la benedizione del Fonte.

OMELIA II

[Mons. G. Bonomelli: MISTERI CRISTIANI, Queriniana Brescia, 1896 vol. II, impr.]

FESTA ASCENSIONE – RAGIONAMENTO IV.

Il fatto della Ascensione di Gesù Cristo ci ammaestra e ci conforta.

L’Ascensione di Gesù Cristo, che oggi celebriamo, è l’ultimo dei misteri da Lui compiuti sulla terra e corona degnamente tutta la sua vita. Colla Incarnazione venne dal Cielo sulla terra: colla Ascensione parte dalla terra e ritorna al Cielo, conducendo seco le primizie della umanità redenta e schiudendo a noi fratelli suoi secondo la carne le porte di quella beata dimora. Gesù, dall’alto della croce, abbracciando collo sguardo della mente i giorni di sua vita mortale, le profezie, che si compivano nella sua Persona e vedendo compiuta l’opera della umana redenzione, poté esclamare – Consummatum est -. Tutto è consumato -. Oggi, con maggior verità, se così posso esprimermi, Gesù Cristo può ripetere – Tutto, tutto è consumato; la mia missione sulla terra, missione di maestro coll’opera e colla parola: missione di vittima espiatrice e di redentore di tutti gli uomini, è compiuta e me ne vado al Padre, che mi ha mandato. Ho gittato il seme fecondo della verità e della vita nei cuori de’ miei Apostoli. È necessario, che salga al Cielo e di là mandi lo Spirito Santo, che qual sole vivificatore e qual pioggia fecondatrice, lo faccia crescere e fruttificare: Consummatum est. Mentre Gesù sale al Cielo, benedicendo gli Apostoli, che con occhi pieni d’amore lo seguono, noi, carissimi, raccogliamoci e meditiamo alcune verità, che l’odierno mistero ci mette innanzi; esse saranno lume alle nostre menti e conforto al nostro cuore. – E per dare qualche ordine alle poche parole che sono per rivolgervi, vi mostrerò: 1° la condiscendenza paterna e la squisita bontà di Gesù Cristo verso degli Apostoli prima di separarsi da loro. 2° Vedremo come Gesù ci abbia tracciato la via da seguire se vogliamo essere con Lui, e che è compendiata in quelle parole – Conveniva che Cristo soffrisse e così entrasse nella sua gloria -. 3° Finalmente vi dirò del conforto dolcissimo, che dobbiamo attingere nell’odierno mistero, rammentando le parole dell’Apostolo, che scrisse, il Salvatore essere entrato ne’ Cieli e colà vivere adempiendo l’ufficio di Mediatore. – Semper vivens ad interpellandum pro nobis. Dalle Sante Scritture, e particolarmente dal primo capo degli Atti Apostolici, apprendiamo che Gesù Cristo dopo la sua Risurrezione dimorò sulla terra quaranta giorni. In quel periodo di tempo qual fu la sua vita? Non vi è dubbio, colla Risurrezione comincia la sua vita gloriosa, ma non sempre e in ogni occasione si manifesta come tale. Il suo corpo apparisce fornito delle doti del corpo glorioso entrando nel cenacolo a porte chiuse, dileguandosi agli occhi dei due discepoli in Emmaus, tramutandosi in un istante da un luogo all’altro: talvolta tra il suo modo di vivere e operare dopo la sua Risurrezione e quello che teneva prima non sembra correre differenza o leggera: si trattiene e conversa amichevolmente cogli Apostoli: mangia con essi; li istruisce, li rimprovera, li conforta e si direbbe che nulla di singolare apparisce nel suo corpo e nel suo tenore di vita. Come ciò, o carissimi? Perché Gesù Cristo non si circonda di luce e di gloria come sul Tabor? Perché vela lo splendore, che dovea brillare nella sua umanità risorta e trasformata e si presenta ora come pellegrino, ora come ortolano, ora come un estraneo sulle rive del lago di Galilea, ora come l’antico maestro? Quali le ragioni di questa condotta, che parrebbe al tutto contraria al suo stato di corpo glorioso? Così Egli fece unicamente per i suoi cari Apostoli e discepoli. Ad uomini che viveano ancora nello stato di via e di prova, che aggravati da un corpo mortale erano impotenti a sostenere la luce smagliante dell’umanità sua gloriosa, Gesù doveva mostrarsi in quei modi e sotto quelle forme, che, mostrando pure la verità della Risurrezione, lo rendessero accessibile ai loro sensi infermi. Ecco perché il Salvatore risorto eclissa quasi interamente la sua gloria e assume le forme più semplici. Nell’Incarnazione il Figlio di Dio per avvicinarsi agli uomini e ammaestrarli si fece uomo e nascose la sua gloria infinita nell’assunta natura, lasciandone trasparire a quando a quando alcuni raggi, che mostrassero la sua divina Persona: risorto, tempra gli splendori, onde doveva sfolgorare il suo corpo, perché gli Apostoli potessero avvicinarsi a Lui; ma nello stesso tempo opera tali prodigi, che tolgono ogni ombra di dubbio sulla realtà della Risurrezione. Non è questa una prova della sua bontà verso de’ suoi diletti discepoli? Si fa piccolo coi piccoli e quasi ancora mortale coi mortali per prolungare e compire il suo insegnamento! S’Egli fosse loro apparso sfavillante di luce, librato in alto o in altri modi straordinari, non è egli vero che forse gli Apostoli avrebbero potuto sospettare d’essere vittime di qualche inganno, o di qualche allucinazione? Come avrebbero potuto accostarsi a Lui, udirlo tranquillamente, parlargli, interrogarlo, toccare il suo corpo, palpare le sue mani? A principio, vedendolo, credevano d’avere innanzi a sé un’ombra, un fantasma, uno spirito e tennero in conto di vaneggianti le donne, che affermavano d’averlo veduto (S. Luca, XXIV, II); che sarebbe stato se si fosse mostrato in tutta la maestà e in tutta la gloria d’un corpo glorioso? Se alla vista d’un lampo di gloria, che sfolgorava nel suo corpo ancor mortale sul monte, allorché trasfigurossi, i tre Apostoli abbagliati e sopraffatti caddero colla faccia sul suolo, che sarebbe avvenuto se dopo la Risurrezione si fosse loro svelato qual era glorioso? – Gesù Cristo, se così possiamo dire, dopo la Risurrezione ama ritornare all’antica semplicità coi suoi cari, vuol ripigliare la famigliarità consueta del trattare e conversare e con essi, rivedere quei luoghi e specialmente quei colli ridenti di Galilea e quelle rive incantevoli del suo lago, dove avea cominciato la sua predicazione e formato: il drappello de’ suoi Apostoli. Si direbbe che la compagnia de’ sui fedeli discepoli gli fa dimenticare l’ingresso trionfale in Cielo. – Essi, que’ suoi diletti ondeggiano ancora tra il timore e la speranza: vuole accertarli che è ben Lui l’antico loro Maestro, il crocefisso e il risorto del Golgota e moltiplica le apparizioni e le forme ed i luoghi delle apparizioni e muta talora i testimonî, perché nella varietà delle manifestazioni maggior sia la loro certezza. Non è così che fanno gli uomini allorché vogliono persuadere d’una verità quelli, che ne dubitano? L’annunziano, la ripetono più e più volte mutando le parole e ai vecchi argomenti altri nuovi argomenti aggiungendo, finché veggono dissipato ogni dubbio e la verità nella mente degli oppositori saldamente stabilita. Gli Apostoli e i discepoli, dopo la tremenda tragedia del Calvario, erano come pecorelle che, perduto il pastore, circondate da lupi e sgominate dal nembo, non sanno dove ripararsi e qua e là scorrono per la selva, ignare che sarà di loro. Gesù, il buon pastore per eccellenza, appena risorto, va in cerca di queste pecorelle smarrite e tremanti: or queste or quelle rintraccia separatamente; poi, tutte le raccoglie in vari luoghi e ripetutamente le conforta e le prepara alle prove future. Quando sta in mezzo a’ suoi Apostoli, dopo averli consolati e fatti certi della sua Risurrezione, riduce alla loro memoria le verità che loro aveva insegnate, le spiega meglio – Loquens de regno Dei -, le ribadisce nelle loro menti, parla loro del modo, con cui dovranno governarsi nella grande missione, che loro affida: nettamente predice le lotte, le persecuzioni, che li aspettavano nel mondo; ma non temessero perché lo Spirito Santo li avrebbe ammaestrati in ogni cosa, ed Egli stesso sarebbe sempre con loro fino al termine dei tempi. Egli è simile ad un padre amoroso, che dovendo partire per lontano paese, si chiama intorno i figli, e porge loro i più saggi ammonimenti e non si stanca di ripeterli a questo e a quello in particolare e a tutti insieme, e li va preparando al momento. della separazione in guisa che questa riesca meno dolorosa.Lo so: altri potrebbe dirmi: e non poteva Gesù Cristo nella sua onnipotenza provare in un istante solo la verità della Risurrezione, dissipare tutti i dubbi dalla mente degli Apostoli e inondarla di luce sì che non vi fosse bisogno di tanto tempo per ammaestrarli? Perché non fare in un lampo ciò che ottenne in quaranta giorni? E poi perché non affidare ad altri questo ufficio di Consolatore e di Maestro? Nessun dubbio che Gesù poteva veramente così fare, se così gli fosse piaciuto: ma nol volle e fu prova di sapienza e bontà grande fare come fece.Se voi scorrete la vita di Gesù Cristo, troverete, che Egli si acconcia allo svolgimento delle leggi e delle forze di natura e se coi miracoli talvolta lo sospende e lo muta egli è per provare la sua missione e lo fa, diremmo quasi, con parsimonia, tanto quanto era necessario. Lo sviluppo della sua natura umana segue le leggi naturali:col lavoro suo pane: non mette l’onnipotenza sua a servizio de’ suoi bisogni naturali per risparmiarsi fatiche, stenti o dolori. Avrebbe potuto in un attimo formarsi gli Apostoli e ricolmarli d’ogni scienza: invece travaglia intorno a loro per lo spazio di tre anni e voi non ignorate quale ne fosse il risultato. Perché dopo la Risurrezione avrebbe tenuto altro modo? Non dimenticate lo mai, o dilettissimi; Dio vuole nell’ordine soprannaturale seguire le vie naturali, perché più conformi all’uomo, perché queste domandano il concorso dell’uomo e l’obbligano a spiegare la sua attività. Ponete che Cristo in un istante, usando della sua onnipotenza avesse ammaestrati e trasformati gli Apostoli: quale sarebbe statal’opera loro e quale per conseguenza il loro merito?Sarebbe stata opera totalmente di Dio e nullo il loro merito. A questo ufficio di Consolatore e Maestro degli Apostoli avrebbe potuto deputare gli Angeli od altri uomini. Chi l’ignora? Ma Gesù Cristo volle affermarlo e compirlo Egli stesso perché era conveniente ch’Egli, che aveva incominciato l’opera, Egli stesso la conducesse a termine e perché alle tante altre aggiungeva una novella prova della sua carità e paterna tenerezza verso gli Apostoli. Sia dunque ora e sempre benedetto Gesù Cristo, che, prolungando la sua dimora sulla terra dopo la Risurrezione, quasi fosse ancora pellegrino,ci diede un pegno sì prezioso della sua immensa bontà! – S. Luca (Vangelo XXIV. 50, Atti Apost. I, 12) narra che Gesù condusse Seco presso Betania sul colle degli Ulivi, i suoi Apostoli e discepoli e di là, stendendo le mani e benedicendoli, Sali al cielo! È un fatto, che non deve passare inosservato, o carissimi, e non senza ragione il sacro scrittore notò questo particolare del luogo, donde Gesù si dipartì dalla terra e cominciò il suo trionfale ingresso nel regno de’ Cieli. Sorge naturale nell’anima; perché Gesù Cristo scelse quel luogo per dare l’ultimo addio a’ suoi cari e pigliare le mosse pel Cielo in modo visibile? Là presso Betania, su quel colle degli Ulivi, Gesù avea pregato tante volte nel silenzio della notte: là aveva cominciato, dopo la preghiera, la terribile lotta, che doveva spremere dal suo corpo il sudore di sangue, prova dell’angoscia mortale, ond’era oppresso il suo cuore; là avea cominciato la sua passione. Quegli ulivi avevano visto accostarsi a Lui il traditore a capo degli sgherri della sinagoga; avevano visto il bacio nefando dato al Maestro; l’aveano visto stretto in catene avviarsi fra le tenebre di quella notte fatale verso: Gerusalemme, mentre gli Apostoli si davano alla fuga. Era troppo giusto che quel luogo per Gesù e per gli Apostoli sì memorando, testimonio di tante umiliazioni, di tanti e sì ineffabili dolori, fosse testimonio altresì della loro gioia e del trionfo supremo del divino Maestro. Chi di noi non rivede volentieri nei giorni della felicità quei luoghi dove fummo messi a dure prove e versammo lagrime amare? Il ricordo di quei luoghi per la ragione dei contrasti spande non so qual dolce voluttà negli animi nostri, che ci obbliga a rivederli e ce li rende cari e preziosi. Alla vista di quel luogo io credo che Gesù e gli Apostoli trasalissero di gioia scorrendo col pensiero la sì recente storia de’ loro patimenti, tramutati in tanta felicità. Da quel luogo, abbassando lo sguardo, vedeasi Gerusalemme, il tempio che torreggiava su tutta la città; vedeansi le piazze, le vie per le quali Gesù era stato trascinato in mezzo alle grida selvagge della folla inferocita; vedeasi il pretorio, vedeasi il Golgota, su cui in mezzo a strazi senza nome aveva esalato l’anima, e ai suoi piedi il sepolcro, in cui quel corpo, che ora appariva riboccante di vita e glorioso, per tre giorni era stato deposto. Qual vista! Quali memorie! Quei luoghi, già teatro de’ suoi vituperî e delle sue agonie, dovevano essere spettatori della sua finale vittoria e rendere più bello e più caro il suo trionfo. E chi sono i testimonî della sua Ascensione? Chi son quelli che l’accompagnano sul colle degli Ulivi, che raccolgono le ultime parole cadute dalle sue labbra e ricevono l’ultima sua benedizione? Anzitutto la sua Madre benedetta chiaramente si raccoglie dagli Atti Apostolici (S. Luca – Atti Apost. I, 14 – dice, che subito dopo l’Ascensione gli Apostoli si ritirarono in Gerusalemme e vi stettero insieme riuniti fino alla Pentecoste, cioè per 10 giorni, ed espressamente dice, che con essi era Maria, madre di Gesù. Erano, scrive S. Luca, circa 120 persone. Da ciò si rileva che queste 120 persone con Maria dovevano essere state presenti alla Ascensione di Gesù Cristo.). Poteva Egli mai Gesù Cristo privare la Madre sua di questo onore, di questa gioia suprema, la Madre sua, che più di tutti avea bevuto fino alla feccia il calice de’ suoi inenarrabili dolori? Dopo la Madre venivano gli Apostoli, poi i discepoli e i credenti tutti, che in Gerusalemme formavano la sua Chiesa. E perché questi soli? Perché su quel colle non chiamò l’intero Sinedrio, tutta Gerusalemme, tutti quelli che erano stati testimonî, complici e autori de’ suoi patimenti e della sua morte? Il suo trionfo non sarebbe stato più completo? Sono sempre le nostre vedute umane, che vorremmo adottate dalla infinita sapienza di Dio: senza accorgerci noi prestiamo a Dio le debolezze del nostro amor proprio. Umiliati ingiustamente, perseguitati, traditi, noi vogliamo la rivincita, aneliamo alla vendetta pubblica, solenne, sopra i nostri nemici e vogliamo che il mondo tutto la vegga e così sia riscattato l’onor nostro, o più veramente il nostro egoismo offeso. Non son questi i consigli della sapienza divina. Gesù non si cura di questi piccoli trionfi, di queste piccole vendette, architettate dall’amor proprio e ad esso sì care. Egli vuole ammaestrarci col suo esempio ed a più alti e più nobili ideali solleva le nostre menti. Egli non pensa a schiacciare sotto il peso d’un trionfo teatrale i suoi nemici: Egli lascia che il tempo e la forza della verità aprano la via della loro mente e del loro cuore; sa che ben presto molti di loro verranno a Lui vinti dalla evidenza della verità e attratti dalla sua grazia; Egli non vuole far violenza al libero arbitrio di chicchessia, perché vuole l’ossequio libero delle menti e dei cuori. Egli mette a parte dello spettacolo dolcissimo della sua Ascensione soltanto i suoi cari, quelli soli ch’ebbero parte ai dolori e alle umiliazioni della sua passione e della sua morte: è una ricompensa che dà loro sulla terra pegno di quell’altra pienissima ed eterna, che riserba loro in Cielo. Non ricusa i benefici effetti di questa ricompensa nemmeno a quelli che non ne sono meritevoli, anzi che ne sono indegnissimi; perché i testimonî e gli spettatori della sua Ascensione potranno e dovranno narrare anche a loro ciò che hanno veduto coi loro occhi e in qualche misura renderli pur essi partecipi del beneficio e della gioia di quest’ultimo trionfo ed insieme argomento della divina sua missione. Finalmente l’Ascensione di Gesù Cristo ribadisce quella grande verità, che forma la base della nostra fede e della nostra speranza e che quantunque notissima giova ripetere continuamente per avvalorare la nostra debolezza nelle dure prove della vita ed è quella ricordata da Cristo istesso (Mt. XXIV. 26), cioè, ch’Egli dovea patire e così entrare al possesso della sua gloria. L’Ascensione corona tutta la vita di Cristo; è il trionfo, che segue il combattimento e la vittoria; è il riposo dopo la fatica; è la mercede dopo il lavoro; è la gioia dopo il dolore; è la gloria dopo le umiliazioni. Noi sappiamo che l’anima di Gesù Cristo fin dal primo momento della Incarnazione ebbe la visione immediata di Dio e perciò fu perfettamente beata; ma questa beatitudine e questa gloria era tutta interna; non appariva esternamente e la sua trasfigurazione sul monte, non fu che uno sprazzo momentaneo della felicità e gloria interna, onde colla beatitudine e gloria interna dell’umanità di Gesù Cristo si potevano comporre i dolori e le umiliazioni indicibili, onde esternamente fu coperto ed oppresso. Quella beatitudine e gloria interna, che nell’umanità di Cristo sgorgava necessariamente dall’unione sua intima colla Persona del Verbo non furono, né potevano essere frutto de’ suoi meriti, perché precedettero ogni suo atto; ma la beatitudine e la gloria esterna dell’umanità di Cristo fu mercede dovuta a’ suoi meriti, e perciò questa l’ebbe dopo la morte e apparve nella sua magnificenza il giorno della Ascensione. Ora ciò che avviene nel Capo deve ripetersi nella conveniente misura nelle membra: Gesù ebbe la sua glorificazione esterna dopo averla meritata coi dolori e colle umiliazioni della passione e della morte; così noi pure avremo la felicità e la gloria del Cielo, ma dopo averla meritata colle fatiche e coi dolori della vita presente. – Gesù dal colle degli Ulivi sale al Cielo, ma dopo aver pregato e agonizzato a piè di quel colle, dopo aver portata la sua croce sul Golgota; anche per Lui la gloria dell’Ascensione al Cielo è un premio di ciò che sofferse nei giorni di sua vita mortale. Se così è, dilettissimi, del nostro Capo e modello Gesù Cristo, come non lo sarà per noi? – Noi tutti, quanti siamo figli di Adamo, e credenti in Gesù Cristo, aspiriamo alla felicità, ne sentiamo prepotente il bisogno, è il tormento delle anime nostre. Venuti da Dio a Dio vogliamo ritornare: viventi sulla terra sentiamo la nostalgia del Cielo: gementi su questa terra d’esilio, sospiriamo alla patria, nella quale oggi ci ha preceduto il nostro duce supremo, Gesù Cristo. Ma, non inganniamoci, carissimi; per giungervi non c’è che una sola via, la via battuta da Lui, la via del patire, la via della croce, la via del Calvario. Sperare di giungervi per altra via meno faticosa, è follia, è un insulto a Gesù Cristo, che se vi fosse ce l’avrebbe insegnata colla parola e coll’esempio. Noi dunque che oggi sul colle degli Ulivi cogli occhi della fede abbiamo veduto Gesù Cristo, che col corpo pel primo entra in Cielo e vogliamo lassù seguirlo e con Lui vivere eternamente, cogli Apostoli e coi discepoli discendiamo ancora in questa Gerusalemme terrena, con essi preghiamo nel Cenacolo, con essi e com’essi corriamo le vie dolorose dell’esilio, rifacciamo il cammino percorso dal divino Maestro, affinché, venuta l’ora nostra, come venne la sua, possiamo cantare nel suo regno – Oportuit Christum pati et ita intrare in gloriam suam – Regneremo con Lui, se con Lui avremo patito – “Conregnabimus, si tamen et compatimur”- Vi dissi a principio, che il mistero dell’Ascensione non solo ci ricorda due grandi verità, ci offre un conforto dolcissimo in mezzo alle pene e alle amarezze della vita. È prezzo dell’opera vederlo. Il nostro divino Salvatore in questo giorno ha sottratto la sua visibile presenza alla terra ed ha varcate le soglie del Cielo, dove agli Angeli tutti ed agli uomini, che lo seguirono, spiega la sua gloria in tutta 1a magnificenza che a Lui è dovuta. Rallegriamocene: il trionfo di Gesù Cristo è trionfo nostro. Dove sono i figli, che non godano degli onori che il padre riceve in lontane contrade, ancorché a loro sia tolto di vederli? Dov’è il popolo che non esulti udendo come il suo re sia accolto da altri popoli con feste strepitose? gli onori resi al padre si riflettono sui figli e le feste fatte al re sono fatte al suo popolo. Dove sono quegli uomini, che vedendo il figlio del loro ben amato monarca, che per salvarli da orrida schiavitù e renderli felici ha sfidato tutti i pericoli, ha versato il suo sangue in mezzo a dolori atrocissimi, ha dato la sua vita e ciò che vale più della vita, l’onore, e non gioiscono; vedendolo redivivo e coperto di gloria? Gesù Cristo è nostro padre, il nostro re, il Figlio del Monarca eterno, che patì e morì per noi, che oggi entra trionfante in Cielo. Come non godere ed esultare con Lui? Ma l’Apostolo Paolo ci mette innanzi un altro motivo nobilissimo, che oggi ci deve ricolmare di gioia, uditelo: Gesù Cristo – scrive l’Apostolo, è il vero e sommo Sacerdote, che placa la giustizia del Padre suo nel proprio sangue e a Lui riconcilia tutti gli uomini. Il Sacerdozio di Cristo è eterno, come eterno è Egli stesso: Egli ed Egli solo può salvare tutti quelli che con fede si accostano al Padre suo; gli altri sacerdoti non hanno virtù di salvare chicchessia, perché peccatori essi stessi ed hanno bisogno essi pure d’essere salvati; e se salvano i fratelli, lo possono unicamente nel Nome e nella autorità di Lui. Ebbene; Gesù Cristo, l’eterno sacerdote, santo, innocente, immacolato, che non ha nulla di comune coi peccatori, oggi monta nel più alto de’ cieli per rimanervi eternamente. E qual è l’ufficio, che, cominciato sulla terra, continua lassù? Eccolo: – Vive eternamente, intercedendo per noi – Semper vivens ad interpellandum pro nobis (VII, 25-26) -. Qual conforto! qual gioia per noi! Gesù-Cristo è Dio ed uomo: nell’unica sua Persona divina congiunge le due nature, divina ed umana; rinserra in sè, ponte immenso tra il Cielo e 1a terra, lo due sponde dell’infinito e del finito e per esso Dio con la pienezza de’ suoi beni discende e si comunica agli Angeli e agli uomini e per essa gli uomini e gli Angeli ascendono a Dio e a Lui si uniscono. Gesù Cristo nella natura sua divina certamente non prega, non intercede, perché eguale al Padre e al Santo Spirito e con Essi è padrone d’ogni cosa; ma nella natura umana, nella quale è inferiore al Padre e allo Spirito Santo, e nella quale merita, Egli compie incessantemente l’ufficio di Mediatore e Sacerdote e prega per tutti – Semper vivens ad interpellandum pro nobis (Heb, VII, 25-26). Allorché vivea sulla terra, dal dì che comparve nel seno intemerato della Vergine fino all’istante, in cui dall’alto della croce esalò l’estremo sospiro, Egli esercitò l’ufficio di Sacerdote e Mediatore: lo esercitò soffrendo per gli uomini, sollevando al Padre suo gli occhi e le mani, pregando con alto grido: – Cum clamore valido – spargendo largo pianto – et lacrymis -, aprendo le sue vene e il suo cuore e versando tutto il suo sangue e consumando il sacrificio di tutto se stesso. Contemplato questo Sacerdote incomparabile: Egli ha pigliato la sua santa umanità: l’ha collocatasull’altare: a forza di dolori e di strazi pel corso di trentatré anni ne ha spremuto tutto il pianto fino all’ultimo lacrima, tutto il sangue fino all’ultima stilla; l’ha offerta alla maestà del Padre suo come ostia di espiazione e propiziazione, dicendogli: – Ecco il prezzo del riscatto per i fratelli miei secondo la carne -. La fronte del Padre si rasserenò, un sorriso di gioia lampeggiò nel suo volto e dell’amor suo paterno abbracciò il Figlio e con Lui abbracciò l’umanità tutta quanta a Lui unita e riconciliata. Oggi questo Figlio, nel quale il Padre trova tutte le infinite sue compiacenze, perché a Lui eguale, dopo aver ripigliata l’umanità sua nella Risurrezione e rifattala bella, immortale e gloriosa, la presenta ancora al Padre suo in Cielo: l’esercito sterminato degli Angeli gli muove incontro, lo riconosce e adora come suo Re e del suo Nome fa risuonare le sfere celesti. Il Padre vede il Figliuol suo ammantato dell’umana natura assunta: vede in essa i segni e le cicatrici delle ferite ricevute nel terribile duello, col nemico, scintillanti come rubini e diamanti; vede quegli occhi che tante lagrime versarono: quelle mani che lavorarono sì a lungo in arte abbietta, quella fronte già trafitta dalle spine, quel petto già squarciato da crudel punta, quella umanità tutta già pesta e lacerata per la salvezza di tutti gli uomini e per la gloria sua: se la vede innanzi raggiante sì di luce e di gloria, ma umile, riverente e supplichevole, non per sé, ma pei fratelli erranti sulla terra ed ogni giorno alle prese con quel feroce nemico, ch’Egli ha debellato. In quella umanità gloriosa del Figlio che gli sta innanzi, il Padre vede tutta la storia della sua vita terrestre, legge raccolti in un sol punto tutti gli atti suoi: comprende l’amore, che lo condusse a compire tanto sacrificio: vede che l’onore che gliene viene, è rigorosamente infinito e infinitamente supera l’offesa ricevuta; vede che il trionfo della misericordia sulla giustizia è smisurato, e stringendo al suo seno questo Figliuol suo e Figliuolo dell’uomo, questo Capo e Sacerdote dell’umanità, esclama; – Figlio mio! domanda e ti darò in retaggio le nazioni tutte della terra: i confini del tuo regno saranno i confini dell’universo -. Dilettissimi! Allorchè io mi figuro Gesù Cristo, mio Salvatore, che oggi comparisce dinnanzi alla maestà del Padre, e gli mostra la sua umanità, vittima offerta per me e stende verso di Lui supplichevoli le mani e per me implora misericordia – Semper vivens ad interpellandum pro nobis – io non temo più nulla, tutto io spero, io l’amo con tutta l’anima mia e grido:- A Te, o Agnello di Dio, che siedi sul tuo trono di gloria, a Te sia benedizione, e onore e gloria e potere per tutti i secoli. Amen – (Apoc. V, 13).

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XLVI: 6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúia.

[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Secreta

Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro Fílii tui gloriósa censióne deférimus: et concéde propítius; ut a præséntibus perículis liberémur, et ad vitam per veniámus ætérnam.

[Accetta, o Signore, i doni che Ti offriamo in onore della gloriosa Ascensione del tuo Figlio: e concedi propizio che, liberi dai pericoli presenti, giungiamo alla vita eterna.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps LXVII: 33-34
Psállite Dómino, qui ascéndit super coelos coelórum ad Oriéntem, allelúia.

[Salmodiate al Signore che ascende al di sopra di tutti i cieli a Oriente, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta nobis, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut, quæ visibílibus mystériis suménda percépimus, invisíbili consequámur efféctu.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente e misericordioso, che di quanto abbiamo ricevuto mediante i visibili misteri, ne conseguiamo l’invisibile effetto].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

DOMENICA V DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA V DOPO PASQUA (2021)

Semidoppio. – Paramenti- bianchi.

La liturgia continua a cantare il Cristo risorto e ci invita, in questa settimana delle Rogazioni, ad unirci a quella preghiera con la quale il Salvatore ha chiesto a Dio di far partecipe, con l’Ascensione, la propria umanità di quella gloria che, come Dio, possiede fin dall’eternità (Off.). Anche noi possederemo un giorno questa gloria, poiché ci ha liberati dal peccato con la virtù del Suo Sangue (Intr., Comm.). Poiché Gesù Cristo partendosi da noi ci ha lasciato come consolazione « di poter pregare in nome suo, onde la nostra gioia sia perfetta », cosi domandiamo a Dio « per nostro Signore » di non rimanere senza frutto nella conoscenza di Gesù, affinché, credendo alla sua generazione da parte del Padre, (Vang.) noi meritiamo di entrare con Lui nel Regno di suo Padre.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII: 20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja.

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV: 1-2

Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja

[Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, léadem faciámus.

[O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I: 22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo.

“Carissimi: Siate osservanti della parola, e non uditori soltanto, che ingannereste voi stessi. Perché se uno ascolta la parola e non l’osserva, egli rassomiglia a un uomo che contempla nello specchio il suo volto naturale. Contemplato, se ne va, e subito dimentica come era. Ma chi guarda attentamente nella legge perfetta della libertà, e persevera in essa, diventando non un uditore smemorato, ma un operatore di fatti, questi sarà felice nel suo operare. – Se alcuno crede d’essere religioso, e non frena la propria lingua, costui seduce il proprio cuore, e la sua religione è vana. Religione pura e senza macchia dinanzi a Dio e al Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni, e conservarsi incontaminati da questo mondo”.

STUDIO E CURIOSITA”.

L’esposizione cristiana — ed è il Cristianesimo che noi, sulle orme degli Apostoli veniamo esponendo in queste spiegazioni — oscilla tra le verità più alte, trascendenti addirittura ed i concetti più umili, più pratici. Qualche volta il pensiero apostolico vola, tal altra cammina per vie piane, quasi trite. Abbiamo volato con Paolo, camminiamo oggi con S. Giacomo. Il quale è molto preoccupato dei pericoli della speculazione pura, anche religiosa. È facile illudersi e credere, per illusione, che il parlare molto di una cosa, o il meditarla profondamente, lo specularvi d’intorno voglia dire amarla per davvero. Illusione funesta sempre; ma più funesta quando la materia della illusione, sia religiosa; quando si creda religiosità o religione perfetta la speculazione teologica la più sottile e più alta. La speculazione ci vuole, perché noi uomini, anche nel campo religioso siamo esseri intelligenti, razionali: vogliamo capire. È un bisogno ed un dovere, è un ossequio a Dio: l’ossequio dell’intelligenza. Ma non basta, ma non è la cosa più importante. Perciò l’Apostolo dice ai fedeli: siate osservanti della Legge, non solo curiosi di essa. Mettetela in pratica, non appagatevi di conoscerla a perfezione. E continua osservando che il fare diversamente, il preferire la speculazione curiosa all’osservanza pratica, il guardare e sentire al fare, ancora il separare quello da questo, è un’illusione, un auto inganno. – E dopo avere insistito su questo concetto fondamentale, non con l’abilità del sofista, ma collo zelo dell’apostolo, conclude in un modo e con una formula anche più severamente e modestamente pratica, che per le sue qualità apparenti, può anche scandalizzare, ma che importa rammentare sempre per fare del buon Cristianesimo, fare della religione autentica. La quale consiste, dice l’Apostolo (e adopera la parola « religione pura ed immacolata presso Dio e il Padre ») nel « visitare i pupilli e le vedove tribolate ed oppresse, custodendo il proprio cuore senza macchia fra la corruttela del nostro secolo ». Visitare i pupilli e le vedove tribolate, oppresse; notoriamente i deboli sono stati il bersaglio della perversità vile. E nessuno è così tipicamente debole come la vedova coi suoi orfanelli. Le anime pagane approfittano di queste debolezze per opprimerle e spogliarle ed angariarle: prendono quel poco che c’è, spogliano di quel nulla che è rimasto. Le anime pagane… le quali proprio così, proprio in questo assalto ostile, cupido avido al poco benessere di questi deboli, si rivelano tali: pagane. Ed è inutile che ostentino così facendo, così trattando il prossimo, sentimenti buoni di adorazione, di amore per il loro Dio, per Iddio. L’abito religioso su queste anime egoistiche è una maschera, che non inganna nessuno, certo non inganna Dio. La pietà verso di Lui si rivela e traduce in modo irrefragabile solo nella carità operosa, benefica verso i poveri, anzi verso quei poveri che non sono più poveri, verso quelli dei quali chi fa il bene non ha nulla da umanamente ripromettersi, tanto sono poveri e miseri! I pupilli e le vedove, bersagliati, oppressi. Il linguaggio apostolico è di una singolare chiarezza. Senza questa carità o attuta, o almeno sinceramente voluta, non c’è religione, c’è una lustra di Cristianesimo. Ma basta questa carità, perché si possa dire religiosa un’anima? Basta? Delicato problema, ma a cui si può sicuramente rispondere: Se c’è in un’anima carità sincera, senza secondi fini, senza alterazioni innaturali, c’è la religione, almeno embrionalmente. Non c’è ancora la pienezza, c’è già il principio: non c’è ancora l’albero, c’è già il germe. Non siamo all’arrivo; siamo alla partenza per… verso la religione, verso Dio. Ecco perché noi possiamo predicare a tutti i nostri uditori, a quelli che hanno ancora la fede e a quelli che non l’hanno forse mai avuta, che forse l’hanno disgraziatamente perduta: siate caritatevoli, cioè fate la carità, e avrete nell’anima l’aurora e il meriggio di Dio.

(G. Semeria: Epistole della Domenica – Milano – 1939)

Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja.

[Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI: 28

Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja.

[Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

[“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: In verità in verità vi dico, che qualunque cosa domandiate al Padre nel nome mio, ve lo concederà. Fino adesso non avete chiesto cosa nel nome mio: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia compito. Ho detto a voi queste cose per via di proverbi. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per via di proverbi, ma apertamente vi favellerò intorno al Padre. In quel giorno chiederete nel nome mio: e non vi dico che pregherò io il Padre per voi; imperocché lo stesso Padre vi ama, perché avete amato me, e avete creduto che sono uscito dal Padre. Uscii dal Padre, e venni al mondo: abbandono di nuovo il mondo, e vo al Padre. Gli dissero i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente, e non fai uso d’alcun proverbio. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno t’interroghi: per questo noi crediamo che tu sei venuto da Dio”].

Omelia

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla preghiera.

“Amen, amen dico vobis si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis.”

(JOAN. XVI, 23).

Fratelli miei, nulla è più consolante per noi quanto la promessa che Gesù Cristo ci fa nell’Evangelo, assicurandoci che qualunque cosa domanderemo in nome suo al Padre, Egli ce la concederà. E non solo ci permette di domandargli ciò che vogliamo: ma ce lo comanda, ce ne prega. Egli diceva ai suoi Apostoli:  « Son già tre anni che mi trovo con voi, e voi non mi domandate nulla. Domandate dunque, affinché la vostra gioia sia piena e perfetta. » E questo ci mostra come la preghiera sia la sorgente di tutti i beni e di tutta la felicità che noi possiamo sperare sulla terra. Perciò, o F. M., se siamo così poveri, così privi della Luce e dei beni della grazia, questo avviene perché non preghiamo o preghiamo male. Ahimè! diciamolo piangendo: una gran parte di voi non sa nemmeno che cosa sia pregare, ed altri non hanno che una grande ripugnanza per un esercizio, che è sì dolce e sì consolante per un buon Cristiano. Alle volte vediamo alcuni che pregano, ma che non ottengono nulla; vuol dire ch’essi pregano male: cioè, senza prepararsi, e senza sapere nemmeno ciò che domandano a Dio. Ma per meglio farvi sentire, F. M., la grandezza dei beni che la preghiera attira su di noi, vi dirò che tutti i mali che ci colpiscono sulla terra, non vengono se non da ciò che noi non preghiamo, o preghiamo male; e, se volete saperne la causa, eccola. Se avessimo la fortuna di pregare il buon Dio come si deve, ci sarebbe impossibile cadere nel peccato; e se fossimo esentati dal peccato, ci troveremmo, per così dire, come Adamo prima della sua caduta. Per eccitarvi, F. M., a pregare spesso e a pregar bene, vi mostrerò: 1° che senza la preghiera è impossibile salvarsi; 2° che la preghiera è onnipotente presso Dio; 3° vi dirò quali sono le qualità che deve avere la preghiera per essere accetta a Dio e meritoria per chi la fa.

I. Per mostrarvi, F. M., il potere della preghiera e le grazie ch’essa attira dal cielo, vi dirò che, solo per la preghiera i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che è la pioggia per la terra. Concimate un terreno quanto volete, se manca la pioggia, il vostro lavoro servirà a nulla. Così, fate opere buone quante volete; se non pregate spesso e come si deve, non vi salverete mai; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di ricorrere a Dio e la fa temere per la sua debolezza. Il Cristiano fa conto su Dio solo e niente su se stesso. Sì, F. M., per la preghiera tutti i santi hanno perseverato. Infatti, chi ha spinto i santi a fare grandi sacrifici, abbandonare tutte le loro ricchezze, i parenti, le comodità, per andar a finire la vita nelle foreste a piangere i loro peccati? F. M., fu la preghiera che accese nel loro cuore il pensiero di Dio, il desiderio di piacergli, e di vivere unicamente per Lui. Vedete Maddalena, qual è la sua occupazione dopo la sua conversione? Non è la preghiera? Vedete san Pietro; vedete ancora S. Luigi, re di Francia, che nei suoi viaggi, invece di passare la notte in letto, la passava in chiesa a pregare, domandando a Dio il prezioso dono della perseveranza nella grazia. Ma senza andare così lontano, F. M., non vediamo noi stessi che quando trascuriamo la preghiera perdiamo subito il gusto delle cose celesti: non pensiamo più che alla terra; e, se riprendiamo la preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero ed il desiderio delle cose celesti? Sì, F. M., se abbiamo la ventura d’essere in grazia di Dio; o ricorriamo alla preghiera, o siamo sicuri di non perseverare lungamente nella via del cielo. In secondo luogo, affermo, o F. M., che tutti i peccatori devono, senza un miracolo straordinario, il quale non avviene che rarissimamente, la loro conversione alla preghiera. Vedete che cosa fa S. Monica, per domandare la conversione del figlio: ora ai piedi del suo crocifisso prega e piange; ora a persone dabbene domanda il soccorso delle loro preghiere. Vedete S. Agostino stesso, quando volle seriamente convertirsi; vedetelo in un giardino che attende alla preghiera e si abbandona alle lagrime per commuovere il cuore di Dio e cambiare il suo. Sì, F. M., per quanto peccatori noi siamo, se ricorressimo alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che Dio ci perdonerebbe. Ah! F. M., non stupiamoci perché il demonio fa ogni sforzo per non farci fare le nostre preghiere o per farcele far male; egli sa meglio di noi quanto la preghiera sia terribile per l’inferno, e che è impossibile che Dio possa rifiutarci ciò che gli domandiamo colla preghiera. Oh! quanti peccatori uscirebbero dal peccato se avessero la fortuna di ricorrere alia preghiera! – In terzo luogo, affermo, che tutti i dannati si sono dannati perché non hanno pregato o hanno pregato male. E da questo concludo, F. M., che senza la preghiera ci perderemo irreparabilmente per tutta l’eternità, mentre colla preghiera ben fatta siamo sicuri di salvarci. Sì, F. M. tutti i santi erano così convinti che la preghiera era assolutamente necessaria per salvarsi, che non si accontentavano di passare i giorni a pregare, ma vi passavano altresì le notti intere. E perché, F. M., noi abbiamo tanta ripugnanza per un esercizio così dolce e confortante? Ahimè! o  F.M., è perché facendolo male, non abbiamo mai provato le dolcezze che provavano i santi. Vedete sant’Ilarione, che pregò senza cessare per cent’anni, e i suoi cento anni di preghiera furono così corti che la vita gli sembrò passata come un baleno. Infatti, F. M., una preghiera ben fatta è un olio imbalsamato che si spande sulla nostra anima, e che sembra farle pregustare la felicità che godono i beati nel cielo. E questo è sì vero, che leggiamo nella vita di S. Francesco d’Assisi che, spesso, quando pregava, cadeva in estasi al punto che non si poteva distinguere se egli era sulla terra o coi beati in cielo. E questo perché egli era infiammato dal fuoco divino che la preghiera accendeva nel suo cuore, fuoco che gli comunicava un calore sensibile. Un giorno trovandosi in chiesa provò uno slancio d’amore così violento che si mise ad esclamare ad alta voce: “Mio Dio, non posso più reggere.„ — Ma, penserete in cuor vostro, questo va bene per quelli che sanno pregar bene e dire delle belle preghiere. F. M., Dio non guarda alle preghiere lunghe né alle preghiere belle; ma a quelle che son fatte col cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Lui. Eccone un bell’esempio. Si narra nella vita di S. Bonaventura, che era un grande dottore della Chiesa, che un religioso, uomo semplicissimo, gli disse: “Padre, pensate voi, che io sì poco istruito, possa pregar bene Iddio ed amarlo?„ S. Bonaventura gli rispose: “Ah! amico, sono principalmente coloro che somigliano a voi quelli che il buon Dio ama di più e che gli sono assai cari… Il buon religioso, stupito d’una sì buona notizia, si mise alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: « Ascoltate, amici, ho una buona notizia da darvi: il dottor Bonaventura m’ha detto che noi, sebbene ignoranti, possiamo amare Dio come i sapienti. Che felicità per noi poter amare Dio e piacergli anche senza essere istruiti!„ E dopo questo, F. M., vi dirò che niente è più facile quanto il pregare Dio, e che non vi è nulla di più consolante. La preghiera è un’elevazione del cuore a Dio. Dirò meglio, F. M., è una dolce conversazione del figlio col padre, del suddito col re, del servo col padrone, dell’amico coll’amico in seno al quale depone i suoi affanni e le sue pene. Per spiegarvi ancor meglio questa felicità: è una vile creatura che il buon Dio riceve nelle sue braccia per prodigarle ogni sorta di benedizioni. E che vi dirò di più, o F. M.? È l’unione di tutto ciò che vi è di più umile con tutto ciò che vi è di più grande, di più potente, di più perfetto. Ditemi, F. M., ci occorre di più per farci sentire la gioia della preghiera e la sua necessità? Vedete dunque, che se vogliamo piacere a Dio e salvarci, ci è assolutamente necessaria la preghiera. D’altra parte, noi sulla terra non possiamo trovare altra felicità che amando Dio, e non possiamo amarlo che pregandolo. Vediamo che Gesù Cristo per incoraggiarci a ricorrere spesso alla preghiera, ci promette che nulla mai ci rifiuterà, se lo preghiamo come si deve. Ma, senza tanti giri di parole, per intendere che dobbiamo pregare spesso, non avete che da aprire il vostro catechismo, e vi vedrete che il dovere di un buon Cristiano è quello di pregare alla mattina ed alla sera e spesso durante il giorno: vale a dire sempre. Alla mattina, un Cristiano che desidera salvare la propria anima, deve, appena svegliato, fare il segno della santa croce, dare il suo cuore a Dio, offrirgli tutte le sue azioni, disporsi a fare la sua preghiera. Non bisogna mai mettersi al lavoro prima di aver fatto orazione e sta bene farla in ginocchio, dopo aver preso l’acqua santa, e davanti al crocifisso. Non perdiamo mai di vista, F. M., che è alla mattina che il buon Dio ci prepara tutte le grazie che ci sono necessarie per passare santamente la giornata; poiché il buon Dio conosce tutte le occasioni di peccare che ci si presenteranno, tutte le tentazioni che il demonio durante il giorno ci muoverà; e, se preghiamo in ginocchio e come si deve, ci dà tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per non soccombere. E per questo che il demonio fa ogni sforzo per farcela tralasciare o per farcela far male; convintissimo, come confessò un giorno per bocca d’un ossesso, che se può avere il primo momento della giornata, è sicuro d’avere tutto il resto. Chi di noi, F. M., potrà udire senza piangere di compassione, quei poveri Cristiani che osano affermare di non aver tempo per pregare? Non avete tempo! poveri ciechi; qual è l’azione più preziosa: lavorare per piacere a Dio e salvare la propria anima, ovvero andare a dar da mangiare alle bestie che sono nella stalla, oppure chiamare i figli od i servi per mandarli a smuovere la terra od il letame? Dio mio, quanto è cieco l’uomo!… Non avete tempo! ma, ditemi, ingrato, se Dio questa notte vi avesse fatto morire, avreste lavorato? Se Dio vi avesse mandato tre o quattro mesi di malattia avreste lavorato? Via, miserabile, meritate che il Signore vi abbandoni al vostro accecamento e che vi lasci perire. Ci par troppa cosa concedere a Lui qualche minuto per ringraziarlo delle grazie che ci concede ad ogni momento! — Bisogna attendere al proprio lavoro, mi dite. — Ma, amico, v’ingannate grandemente, non avete altro lavoro che procurar di piacere a Dio e salvare la vostra anima, tutto il resto non è vostro lavoro: se non lo fate voi, lo faranno altri; ma se perdete la vostra anima, chi la salverà? Andate, siete un insensato: quando sarete nell’inferno imparerete ciò che avreste dovuto fare; e che, disgraziatamente, non avete fatto. – Ma, mi direte, quali sono dunque i vantaggi che ricaviamo dalla preghiera che dobbiamo sì spesso fare? F. M., eccoli. La preghiera fa che le nostre croci siano meno pesanti, essa mitiga le nostre pene, e ci fa meno attaccati alla vita, attira su di noi lo sguardo della misericordia di Dio, fortifica la nostra anima contro il peccato, ci fa desiderare la penitenza e ce la fa praticare con piacere, ci fa sentire e comprendere quanto il peccato oltraggia il buon Dio. Dirò di più, F. M., colla preghiera piacciamo a Dio, arricchiamo le nostre anime e ci assicuriamo la vita eterna. Ditemi, F. M., occorre ancor di più per indurci a far sì che la nostra vita non sia che una preghiera continua per la nostra unione con Dio? Quando si ama uno, si ha bisogno di vederlo per pensare a lui? No, senza dubbio. Così, se amiamo il buon Dio, la preghiera ci sarà familiare come il respiro. Tuttavia, F. M., vi dirò che per pregare in modo d’attirare su di noi tutti questi beni, non basta impiegarvi un momento, o farla in fretta, e con precipitazione. Dio vuole che vi impieghiamo un tempo conveniente, quanto basta per domandargli le grazie che ci sono necessarie, per ringraziarlo dei benefizi ricevuti e per piangere i nostri falli passati domandandogliene perdono. – Ma, mi direte, come possiamo dunque pregare senza cessare mai? F. M.,niente di più facile: occupiamoci di Dio, di quando in quando durante il nostro lavoro; ora con un atto d’amore, per testimoniargli che l’amiamo perché è buono e degno d’essere amato; ora con un atto d’umiltà, riconoscendoci indegni delle grazie di cui Egli ci ricolma continuamente; ora con un atto di confidenza, perché, sebbene miserabili, sappiamo ch’Egli ci ama e che vuol renderci felici. Talvolta pensiamo alla morte od alla passione di Gesù Cristo, seguendolo in ispirito nell’orto degli Olivi, quando è incoronato di spine, quando porta la croce, quando su di essa viene crocifisso; oppure ripensiamo la sua incarnazione, la sua nascita, la sua fuga in Egitto; oppure riflettiamo alla morte, al giudizio, all’inferno e al cielo. Facciamo qualche breve orazione prima e dopo il pasto: quando suona la campana, che ci ricorda la fine che ci attende, risuoni sulle nostre labbra l’Angelus e riflettiamo che ben presto non saremo più sulla terra. Questo vi porterà a non attaccarvi troppo il cuore e a non restare nel peccato, per timore che vi colga la morte. Ecco, F. M., quanto è facile pregare incessantemente. Ecco, in che modo i santi pregavano sempre.

II. — Un secondo motivo che deve indurci a ricorrere alla preghiera, è che il vantaggio è tutto nostro. Dio vuole la nostra felicità, e sa che solo colla preghiera possiamo procurarcela. D’altra parte, F. M., quale grande fortuna per una vile creatura, come noi, che Dio voglia abbassarsi fino ad essa e con lei intrattenersi come fa un amico coll’amico? Vedete la sua bontà per noi concedendoci di metterlo a parte dei nostri affanni, delle nostre pene. E questo buon Salvatore si dà premura di consolarci, di sostenerci nelle prove. Ditemi, F. M., non è lo stesso che voler rinunciare alla nostra salute ed alla nostra felicità sulla terra, il rinunciare alla preghiera? giacché, senza la preghiera non possiamo essere che disgraziati, e colla preghiera siamo sicuri di ottenere tutto quanto ci è necessario per il tempo e per l’eternità? Miei cari, tutto è promesso alla preghiera; la preghiera ottiene tutto, quand’è ben fatta. È questa una verità che Gesù Cristo ci ripete ad ogni pagina dell’Evangelo. La promessa che Gesù Cristo ci fa è formale: « Domandate ed otterrete, Egli dice: cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Tutto ciò che domanderete al Padre mio in mio Nome, se lo fate con fede, l’otterrete ». – Gesù Cristo non si accontenta di dirci che la preghiera ben fatta ottiene tutto. Per meglio ancora convincercene, ce rassicura con giuramento: « In verità, in verità vi dico, tatto ciò che domandate al Padre mio in mio Nome, l’otterrete. » Dopo le parole di Gesù Cristo, mi sembra, F . M. che sarebbe impossibile dubitare del potere della preghiera. Del resto, di dove potrebbe venire la nostra diffidenza? Forse dalla nostra indegnità? Ma Dio sa che noi siamo peccatori e colpevoli, e che contiamo unicamente sulla sua bontà che è infinita, e che preghiamo in suo Nome. E la nostra indegnità non è forse coperta, e come nascosta dai suoi meriti? Forse perché i nostri peccati sono troppo orribili e troppo spaventosi? Ma a Lui non è ugualmente facile perdonare mille peccati come uno solo? Non ha Egli dato la vita principalmente per i peccatori? Ascoltate ciò che ci dice il santo Re-profeta: « Si è mai visto alcuno che abbia pregato il Signore, e la sua preghiera non sia stata esaudita ? (Questo testo non è tolto dai Salmi, ma dall’Ecclesiastico: Quis invocavit eum, et despexit illum? (Eccl.. II, 12). « Sì, egli soggiunge, tutti quelli che invocano il Signore, e che ricorrono a Lui, hanno provato gli effetti della sua misericordia. » Vediamolo con degli esempi, il che vi persuaderà di più. Vedete, Adamo dopo il suo peccato domanda misericordia. Non solo il Signore perdona a lui, ma altresì a tutti i suoi discendenti; gli promette che il suo Figlio s’incarnerà, soffrirà e morirà per riparare il suo peccato. Vedete i Niniviti, tanto colpevoli che il Signore mandò loro il profeta Giona per avvertirli che li avrebbe fatti perire nel modo più spaventoso piovendo su di loro fuoco dal cielo (Giona, predicando a Ninive diceva: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta…” senza indicare per qual castigo (Jon. III, 4). Forse il Beato confonde la distruzione di Ninive con la rovina di Sodoma annunciata da un angelo a Lot e che è così descritta nella Genesi: « Il Signore fece cadere dal cielo una pioggia di zolfo o di fuoco su Sodoma e Gomorra » – (Gen. XIX, 21). Essi si danno alla preghiera, ed il Signore perdona. Anche quando Dio era disposto a sommergere la terra nelle acque del diluvio universale, se quei peccatori avessero ricorso alla preghiera, sarebbero stati sicuri del perdono del Signore. Continuando, vedete Mosè sulla montagna mentre Giosuè combatte i nemici del popolo di Dio. Finché egli prega, gli Israeliti sono vittoriosi; ma quando cessa di pregare, essi sono vinti. Vedete ancora lo stesso Mosè che domanda grazia al Signore per trentamila colpevoli che Dio aveva risoluto di far perire: colle sue preghiere, obbligò, per modo di dire, il Signore a perdonar loro. « No, o Mosè, non domandar grazia per quel popolo, non voglio perdonargli. » Mosè continua, ed il Signore è vinto dalle preghiere del suo servo e perdona. Che fa Giuditta per liberare la sua patria dall’odiato nemico? Si mette a pregare, e, piena di confidenza in Colui che pregava, va da Oloferne, gli taglia la testa e salva così la patria sua. Vedete il re Ezechia, al quale il Signore manda il suo profeta per avvertirlo di mettere in ordine le sue cose giacché deve presto morire. Egli si prostra davanti al Signore pregandolo di non toglierlo allora da questo mondo. Il Signore commosso dalla sua preghiera gli dà ancora quindici anni di vita. Andate più innanzi, vedete un pubblicano che, riconoscendosi colpevole, va nel tempio a pregare il Signore perché gli perdoni. E Gesù Cristo stesso ci dice che i suoi peccati gli furono perdonati. Vedete la peccatrice che, ai piedi di Gesù Cristo, lo prega con lagrime. Gesù Cristo non le dice: « Ti son rimessi i tuoi peccati? » Il buon ladrone, sebbene carico dei più enormi delitti, prega sulla croce: non solo Gesù Cristo gli perdona; ma, per di più, gli promette che quel giorno stesso sarà con Lui in paradiso. Sì, F. M., se occorresse citarvi tutti coloro che per la preghiera sono stati perdonati, bisognerebbe ricordarvi tutti i santi che sono stati peccatori; poiché solo per la preghiera hanno avuto la fortuna di riconciliarsi con Dio, che si lasciò commuovere dalle loro preghiere.

III. — Ma voi, forse, pensate: Perché dunque, malgrado tante preghiere, siamo sempre peccatori e mai progrediamo? Amico, la nostra disgrazia nasce da questo, che non preghiamo come si deve, cioè preghiamo senza prepararci e senza il desiderio di convertirci; spesso anche senza sapere ciò che vogliamo domandare al buon Dio. È veramente così, F. M., poiché tutti i peccatori che hanno domandata al buon Dio la loro conversione l’hanno ottenuta, e tutti i giusti che hanno domandato a Dio la perseveranza, hanno perseverato. — Ma forse mi direte: Siamo troppo tentati. — Siete troppo tentato, amico? Potete pregare e siete sicuro che la preghiera vi darà la forza di resistere alla tentazione. Avete bisogno di grazia? Ebbene! la preghiera ve l’otterrà. Se ne dubitate, ascoltate ciò che ci dice S. Giacomo, che colla preghiera comandiamo al mondo, al demonio ed alle nostre inclinazioni. Sì, F. M., in qualunque pena ci troviamo, colla preghiera, avremo la fortuna di sopportarla con rassegnazione alla volontà di Dio; e per quanto forti siano le nostre tentazioni, se ricorriamo alla preghiera, le vinceremo. Ma che fa il peccatore? Ecco. È persuasissimo che la preghiera gli è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male, e per uscire dal peccato, quando ha la disgrazia d’esservi caduto; ma, intendete, se lo potete, il suo accecamento: o non fa quasi mai preghiera o la fa male. Non è vero forse? Vedete come il peccatore fa la sua preghiera, dato che la faccia: poiché la maggior parte dei peccatori non ne fanno; ahimè! si alzano e si coricano come le bestie. Ma esaminiamo quel peccatore mentre fa la sua preghiera: Vedetelo appoggiato ad una sedia o contro il letto; prega vestendosi o spogliandosi, camminando o vociando, e fors’anche bestemmiando coi suoi servi o coi suoi figli. Che preparazione vi reca egli? Ahimè! nessuna. Spesso o quasi sempre, questi uomini finiscono la loro pretesa preghiera, non solo senza sapere ciò che hanno detto, ma anche senza pensare davanti a chi si trovavano e che cosa avevano fatto e domandato. Osservateli nella casa di Dio; fanno morire di compassione! Pensano essi che sono alla presenza del Signore? Niente affatto: guardano chi entra e chi esce, parlano l’un l’altro, sbadigliano, dormicchiano, s’annoiano, fors’anche si arrabbiano perché le funzioni, secondo loro, sono troppo lunghe. Attingendo l’acqua santa mostrano, press’a poco la stessa devozione di quando prendono nel secchio acqua per bere. Appena piegano il ginocchio a terra, e sembra loro gran cosa curvare un poco la testa durante la Consacrazione o la Benedizione. Vedeteli vagare i loro sguardi per la chiesa anche su oggetti che possono portarli al male; e non sono appena entrati che vorrebbero esserne già fuori. Quando escono li sentite gridare come persone tolte di prigione e messe in libertà. I bisogni del peccatore sono grandi, voi lo sapete, M. F. Ma egli prega al modo che v’ho detto: dobbiamo dunque stupirci se resta sempre nel suo peccato, e per di più, se vi persevera? Ho detto, che i vantaggi della preghiera derivano dal modo in cui s’adempie questo dovere:

1° Perché una preghiera sia accetta a Dio e vantaggiosa per chi la fa, bisogna che chi la compie sia in istato di grazia od almeno in una buona risoluzione di uscire prontamente dal peccato; perché la preghiera d’un peccatore che non vuol uscire dal peccato è un insulto fatto a Dio. Poi, perché una preghiera sia buona, bisogna che chi la fa sia preparato. Ogni preghiera fatta senza preparazione è una preghiera mal fatta; e questa preparazione consiste, nel pensare almeno un momento a Dio prima di mettersi in ginocchio, pensare a ciò che dovete dire, a ciò che dovete domandargli. Ahimè! quanto è scarso il numero di coloro che vi si preparano, e per conseguenza quanto pochi pregano come si deve, cioè in modo d’essere esauditi! D’altra parte, F. M., che cosa volete che Dio vi conceda, se non volete nulla e non desiderate nulla? Dirò di più: chi prega così somiglia ad un povero che non vuol elemosina, ad un ammalato che non vuol guarire, ad un cieco che vuol restare nel suo accecamento; ad un dannato, finalmente, che non vuol il cielo ed acconsente di andare all’inferno.

2° In secondo luogo ho detto, che la preghiera è l’elevazione del nostro cuore verso Dio, è un dolce e caro colloquio della creatura col suo Creatore. Dunque, F. M., non preghiamo Dio come si deve, se durante la preghiera pensiamo ad altre cose. Non appena ci accorgiamo che il nostro spirito si distrae, dobbiamo subito ritornarlo alla presenza di Dio, umiliarci davanti a Lui, e non lasciar mai la preghiera anche se nel farla non sentiamo alcun gusto; dobbiamo anzi riflettere che più ne proviamo disgusto e più la nostra preghiera è meritoria davanti a Dio, se continuiamo sempre nel pensiero di piacere a Lui. Si racconta nella storia che un giorno un santo diceva ad un altro santo: « Perché mai quando si prega il buon Dio, il nostro spirito si riempie di mille pensieri estranei, ai quali, spesso, se non si fosse occupati nella preghiera non si penserebbe? » E l’altro gli rispose: « Amico, non c’è da stupirsi: prima di tutto il demonio prevede le grazie abbondanti che colla preghiera possiamo ottenere, e per conseguenza dispera di guadagnare una persona che prega come si deve; e poi, più noi preghiamo con fervore e più lo rendiamo furibondo. » Un altro a cui apparve il demonio, gli domandò perché era continuamente occupato a tentare i Cristiani che stanno pregando. Il demonio, di sua bocca, rispose che egli non poteva tollerare che un Cristiano, tante volte peccatore, potesse colla preghiera ottenere il perdono; e che egli perciò fin che vi sarebbero Cristiani dediti alla preghiera, li avrebbe tentati. Chiese poi come li tentava:ecco ciò che il demonio rispose: « Ad alcuni metto un dito in bocca per farli sbadigliare; altri li addormento; di altri faccio correre la fantasia di città in città. » Ahimè! F. M., questo pur troppo è vero: noi proviamo ogni giorno tutto questo ogni volta che ci troviamo alla presenza di Dio per pregarlo. Si racconta che il superiore d’un monastero vedendo uno dei suoi religiosi che prima di cominciare le preghiere, faceva certi movimenti e sembrava parlare con qualcheduno, gli domandò di che s’occupasse prima di cominciare le sue preghiere. « Padre, rispose, prima di cominciare le mie preghiere, chiamo tutti i miei pensieri ed i miei desideri dicendo loro: Venite tutti, ed adoreremo Gesù Cristo nostro Dio. » — « Ah! F. M., ci dice Cassiano, com’era bello veder pregare i primi fedeli! Essi avevano un sì grande rispetto della presenza di Dio, che sembravano morti, tant’era grande il silenzio; in chiesa tremavano; non vi erano né sedie né banchi; stavano prostrati come colpevoli che aspettano la loro sentenza. Ma come il cielo si popolava presto, e come si viveva bene sulla terra! Ah! immensa felicità di quelli che vissero in quei tempi beati! »

3° In terzo luogo ho detto che le nostre preghiere devono esser fatte con confidenza, e colla ferma speranza che il buon Dio può e vuole accordarci ciò che gli domandiamo, se lo domandiamo come si deve. In tutti i luoghi in cui Gesù Cristo ci promette di accordare tutto alla preghiera, mette sempre questa condizione: « Se la fate con fede. » Quando qualcheduno gli domandava la sua guarigione od altre cose, non mancava di dir loro: « Vi sia dato secondo la vostra fede. » Del resto, F. M., che cosa potrà farci dubitare, giacché la nostra confidenza è appoggiata sull’infinita onnipotenza di Dio, sull’illimitata sua misericordia e sugli infiniti meriti di Gesù Cristo, in nome del quale preghiamo? Quando preghiamo in nome di Gesù Cristo, non siamo noi che preghiamo, ma è Gesù Cristo stesso che prega il Padre suo per noi. L’Evangelo ci dà un bell’esempio della fede che dobbiamo avere pregando, nella donna soggetta a perdite di sangue. Essa diceva tra se: « Se io arrivo anche solo a toccare l’orlo della sua veste io sono guarita. » Vedete com’essa credeva fermamente che Gesù Cristo poteva guarirla: aspettava con grande confidenza una guarigione che ardentemente desiderava. Infatti, passando il Salvatore vicino a lei, si gettò ai suoi piedi, gli toccò la veste, e sull’istante fu guarita. Gesù Cristo vedendo la sua fede, la guardò con bontà dicendole: « Va in pace, la tua fede t’ha salvata.  Sì, M. F., tutto è promesso a questa fede, a questa confidenza.

4° In quarto luogo dico che quando si prega, bisogna avere purità d’intenzione in tutto ciò che domandiamo, e non domandar nulla che non possa tornare a gloria di Dio e a salute nostra. « Potete domandare cose temporali, ci dice S. Agostino; ma sempre col pensiero che ve ne servirete per la gloria di Dio e per la salute della vostra anima, o per quella del vostro prossimo: altrimenti, le vostre domande non nascono che dall’orgoglio e dall’ambizione: e se, in questo caso, il buon Dio rifiuta di accordarvi ciò che gli domandate, è perché non vuol contribuire alla vostra rovina spirituale. Ma che facciamo nelle nostre preghiere? Ci dice ancora S. Agostino. Ahimè! domandiamo una cosa e ne desideriamo un’altra. Recitando il Pater, diciamo: Padre nostro, che siete nei cieli; cioè: Dio mio, distaccateci da questo mondo; fateci la grazia di disprezzare tutto ciò che appartiene alla vita presente; concedetemi che tutti i miei pensieri e tutti i miei desideri non siano che pel cielo ! „ Ahimè! saremmo invece ben dolenti se il buon Dio ci facesse questa grazia; certamente un gran numero di noi lo sarebbe, confessiamolo! – Dobbiamo pregare spesso, F. M., ma dobbiamo raddoppiare le nostre preghiere nelle prove e nelle tentazioni. Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che al tempo dell’imperatore Licinio, si volle che tutti i soldati sacrificassero al demonio. Fra questi ve ne furono quaranta che si rifiutarono, dicendo che i sacrifici sono dovuti solo a Dio e non al demonio. Si fece loro ogni sorta di promesse. Vedendo che nulla poteva vincerli, dopo molti tormenti, furono condannati ad esser gettati nudi in uno stagno d’acqua gelata, di notte, nel rigore dell’inverno; affinché morissero pel freddo. I santi martiri, vedendosi così condannati, si dissero l’un l’altro: « Amici, che ci resta ora, se non abbandonarci nelle mani di Dio onnipotente, da cui solo dobbiamo aspettare la forza e la vittoria? Ricorriamo alla preghiera, e preghiamo senza interruzione per attirare su di noi le grazie del cielo: domandiamo a Dio d’avere la bella sorte di perseverare tutti. „ Ma per tentarli si mise là vicino un bagno caldo. Disgraziatamente uno d’essi, perdendo il coraggio, abbandonò il combattimento, e andò a mettersi nel bagno caldo; ma, entratovi appena, vi perdette la vita. Colui che li custodiva, vedendo trentanove corone discendere su di essi dal cielo, ed una sola restar sospesa: « Ah! esclamò, è di quell’infelice che ha abbandonato gli altri! » E si mise al suo posto, ricevette la quarantesima corona e fu battezzato nel proprio sangue. Il giorno dopo, siccome respiravano ancora, il governatore ordinò che fossero gettati nel fuoco. Vennero posti tutti su di un carro, ad eccezione del più giovane, che si sperava di poter guadagnare. La madre, che era presente, esclamò: “Ah! figlio mio, coraggio! un momento di dolori, ti varrà un’eternità di gioie. „ Preso il figlio, lo collocò sul carro cogli altri: e piena di gioia, lo condusse come in trionfo, alla gloria del martirio. Per tutto il tempo del loro martirio non cessarono di pregare, tanto erano persuasi che la preghiera è il mezzo più potente per attirare su di noi gli aiuti del cielo. – Sappiamo che S. Agostino, dopo la sua conversione, si ritirò per lungo tempo in un luogo romito, per domandare la grazia di perseverare nelle buone disposizioni. S. Vincenzo Ferreri, che ha convertite tante anime, diceva che nulla è tanto potente per convertire i peccatori, quanto la preghiera; essa è simile ad un dardo che ferisce il cuore del peccatore. Sì, F. M, possiamo dire che la preghiera fa tutto: ci fa conoscere i nostri doveri, lo stato miserabile della nostr’anima dopo il peccato, ci dà le disposizioni che ci sono necessarie per ricevere i Sacramenti: ci fa comprendere quanto la vita ed i beni del mondo siano poca cosa, il che ci porta a non attaccarvici; imprime vivamente il timore salutare della morte, dell’inferno e della perdita del cielo. Ah! F. M., se avessimo la fortuna di pregare come si deve, saremmo ben presto santi penitenti! Vediamo che S. Ugo, vescovo di Grenoble, nella sua malattia, non si stancava di ripetere il Pater noster. Gli si disse che ciò poteva contribuire ad aggravare il suo male. « Ah! no – rispose loro – invece mi solleva. » – Ho detto, F. M., che la terza condizione, perché la nostra preghiera sia gradita a Dio, è la perseveranza. Vediamo spesso che il Signore non ci accorda con prontezza ciò che gli domandiamo: lo fa per farcelo desiderare di più, o per meglio farcelo apprezzare. Questo ritardo non è un rifiuto, è una prova che ci dispone a ricevere con più abbondanza ciò che domandiamo. Vedete S. Agostino che per cinque anni domanda a Dio la grazia della sua conversione. Vedete S. Maria Egiziaca che, per diciannove anni, domanda al buon Dio la grazia di liberarla da cattivi pensieri. Ma che hanno fatto i santi? Sentite. Hanno sempre perseverato nel domandare, e per la loro perseveranza hanno sempre ottenuto ciò che avevano domandato. Noi, invece, che siamo coperti di peccati, quando il buon Dio non ci accorda subito ciò che gli domandiamo, pensiamo che Egli non vuol esaudire le nostre domande, e, subito, lasciamo la preghiera. No, F. M., i santi non si comportavano così quanto al perseverare: essi hanno sempre pensato ch’erano indegni d’essere esauditi, e che, se Iddio lo faceva, ascoltava la sua misericordia e non i loro meriti. Io dico dunque che quando preghiamo, sebbene sembri che il buon Dio non ascolti le nostre preghiere, non bisogna tralasciar di pregare; ma anzi continuare sempre. Se il buon Dio non ci concede ciò che gli domandiamo, ci concede un’altra grazia che ci è più vantaggiosa di quella che noi domandiamo. Abbiamo un esempio del modo con cui dobbiamo perseverare nella preghiera nella persona di quella donna cananea, che si indirizzò a Gesù Cristo per domandargli la guarigione di sua figlia. Vedete la sua umiltà e la sua perseveranza… Ecco un altro a mirabile esempio della potenza della preghiera. Leggiamo nella storia dei Padri del deserto, che i Cattolici erano andati a vedere un santo la cui riputazione si spargeva molto lontano, per pregarlo di venir a confondere un certo eretico, i cui discorsi seducevano molta gente; essendosi il santo messo in disputa con quell’infelice, senza poterlo convincere che aveva torto e ch’era un disgraziato, nato soltanto per rovinare le anime; e vedendo che colle sue lungaggini, voleva far credere che non aveva torto; gli disse: « Disgraziato, il regno di Dio non consiste in parole, ma in opere: andiamo tutti e due con tutta questa gente, che testimonierà, andiamo al cimitero, là invocheremo il buon Dio sul primo morto che ivi troveremo, e le nostre opere faranno vedere la nostra fede. » L’eretico sbigottì a questa proposta, e non osò accettare l’invito: domandò al santo d’aspettare fino al giorno seguente: il santo vi acconsentì. Il dì dopo, il popolo che desiderava ardentemente sapere come finirebbe la cosa, venne in gran folla al cimitero. Si attese l’eretico fino alle tre di sera; ma si annunciò al santo che il suo avversario durante la notte aveva preso la fuga e s’era ritirato in Egitto. Allora S. Macario condusse al cimitero tutto quel popolo che aspettava l’esito della loro conferenza, e soprattutto quelli ingannati da quel disgraziato. Fermatosi su di una tomba, in loro presenza s’inginocchiò, pregò per qualche tempo, e volgendosi al cadavere che da maggior tempo era sepolto in quel luogo, disse: « O uomo! ascoltami: se quell’eretico fosse venuto con me, e, davanti a lui, avessi invocato il nome di Gesù Cristo mio Salvatore, non ti saresti alzato per testimoniare la verità della mia fede? » A quelle parole, il morto si alzò ed in presenza di tutti, disse che, come lo faceva adesso, l’avrebbe fatto anche presente l’eretico. S. Macario gli disse: « Chi sei? in quale anno hai vissuto? Conosci Gesù Cristo? » Il morto risuscitato rispose che aveva vissuto al tempo degli antichi re; e che non aveva mai sentito il nome di Gesù Cristo. Allora Macario, vedendo che tutti erano convintissimi che quel disgraziato eretico era un impostore, disse al morto: « Dormi in pace fino all’universale risurrezione. » E tutti si ritirarono lodando Dio, che aveva sì bene fatto conoscere la verità della nostra santa Religione. S. Macario poi ritornò nel suo deserto a continuarvi la penitenza (Vita dei Padri del deserto, vol. III – S. Macario d’Egitto). Vedete, F. M., la potenza della preghiera, quando è ben fatta? Non riconoscerete dunque con me che se non otteniamo ciò che domandiamo al buon Dio, è perché non preghiamo con fede, con un cuore abbastanza puro, con una confidenza abbastanza grande, o che non perseveriamo abbastanza nella preghiera? No, F. M., Dio non ha mai rifiutato e non rifiuterà mai nulla a quelli che gli domandano, come si deve, qualche grazia. Sì, la preghiera è la sola via che ci resta per uscire dal peccato, per perseverare nella grazia, per commuovere il cuore di Dio, per attirare su di noi ogni benedizione del cielo, per l’anima ed anche per le cose temporali. – Di qui concludo che se restiamo nel peccato, se non ci convertiamo, se ci troviamo così disgraziati nei dolori che Dio ci manda, è perché non preghiamo o preghiamo male. Senza la preghiera, non possiamo frequentare degnamente i Sacramenti. Senza la preghiera, non conosceremo mai lo stato a cui Dio ci chiama. Senza la preghiera non può toccarci che l’inferno. Senza la preghiera, non gusteremo le dolcezze che possiamo gustare amando Dio. Senza la preghiera le nostre croci sono senza merito. Oh! quante dolcezze, F. M., proveremmo pregando, se avessimo la ventura di pregare come si deve! Non preghiamo dunque mai senza pensar bene a Chi parliamo e a ciò che vogliamo domandare a Dio. Preghiamo soprattutto con umiltà e confidenza, e con questo, avremo la bella sorte d’ottenere ciò che desideriamo, se le nostre domande sono secondo ciò che Dio vuole da noi. È quello che vi auguro…

Credo …

IL CREDO

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps LXV: 8-9; LXV: 20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

[Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad cœléstem glóriam transeámus.

[Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XCV: 2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere.

[Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

TUTTA LA MESSA (L’UNICA “VERA” CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (1)

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULLA PREGHIERA”

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; C. Ed. Marietti, 1933)

Sulla preghiera.

“Amen, amen dico vobis si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis.”

(JOAN. XVI, 23).

Fratelli miei, nulla è più consolante per noi quanto la promessa che Gesù Cristo ci fa nell’Evangelo, assicurandoci che qualunque cosa domanderemo in nome suo al Padre, egli ce la concederà. E non solo ci permette di domandargli ciò che vogliamo: ma ce lo comanda, ce ne prega. Egli diceva ai suoi Apostoli:  « Son già tre anni che mi trovo con voi, e voi non mi domandate nulla. Domandate dunque, affinché la vostra gioia sia piena e perfetta. » E questo ci mostra come la preghiera sia la sorgente di tutti i beni e di tutta la felicità che noi possiamo sperare sulla terra. Perciò, o F. M., se siamo così poveri, così privi della Luce e dei beni della grazia, questo avviene perché non preghiamo o preghiamo male. Ahimè! diciamolo piangendo: una gran parte di voi non sa nemmeno che cosa sia pregare, ed altri non hanno che una grande ripugnanza per un esercizio, che è sì dolce e sì consolante per un buon Cristiano. Alle volte vediamo alcuni che pregano, ma che non ottengono nulla; vuol dire ch’essi pregano male: cioè, senza prepararsi, e senza sapere nemmeno ciò che domandano a Dio. Ma per meglio farvi sentire, F. M., la grandezza dei beni che la preghiera attira su di noi, vi dirò che tutti i mali che ci colpiscono sulla terra, non vengono se non da ciò che noi non preghiamo, o preghiamo male; e, se volete saperne la causa, eccola. Se avessimo la fortuna di pregare il buon Dio come si deve, ci sarebbe impossibile cadere nel peccato; e se fossimo esentati dal peccato, ci troveremmo, per così dire, come Adamo prima della sua caduta. Per eccitarvi, F. M., a pregare spesso e a pregar bene, vi mostrerò: 1° che senza la preghiera è impossibile salvarsi; 2° che la preghiera è onnipotente presso Dio; 3° vi dirò quali sono le qualità che deve avere la preghiera per essere accetta a Dio e meritoria per chi la fa.

I. Per mostrarvi, F. M., il potere della preghiera e le grazie ch’essa attira dal cielo, vi dirò che, solo per la preghiera i giusti hanno avuto la fortuna di perseverare. La preghiera è per la nostra anima ciò che è la pioggia per la terra. Concimate un terreno quanto volete, se manca la pioggia, il vostro lavoro servirà a nulla. Così, fate opere buone quante volete; se non pregate spesso e come si deve, non vi salverete mai; perché la preghiera apre gli occhi della nostra anima, le fa sentire la grandezza della sua miseria, la necessità di ricorrere a Dio e la fa temere per la sua debolezza. Il Cristiano fa conto su Dio solo e niente su se stesso. Sì, F. M., per la preghiera tutti i santi hanno perseverato. Infatti, chi ha spinto i santi a fare grandi sacrifici, abbandonare tutte le loro ricchezze, i parenti, le comodità, per andar a finire la vita nelle foreste a piangere i loro peccati? F. M., fu la preghiera che accese nel loro cuore il pensiero di Dio, il desiderio di piacergli, e di vivere unicamente per Lui. Vedete Maddalena, qual è la sua occupazione dopo la sua conversione? Non è la preghiera? Vedete san Pietro; vedete ancora S. Luigi, re di Francia, che nei suoi viaggi, invece di passare la notte in letto, la passava in chiesa a pregare, domandando a Dio il prezioso dono della perseveranza nella grazia. Ma senza andare così lontano, F. M., non vediamo noi stessi che quando trascuriamo la preghiera perdiamo subito il gusto delle cose celesti: non pensiamo più che alla terra; e, se riprendiamo la preghiera, sentiamo rinascere in noi il pensiero ed il desiderio delle cose celesti? Sì, F. M., se abbiamo la ventura d’essere in grazia di Dio; o ricorriamo alla preghiera, o siamo sicuri di non perseverare lungamente nella via del cielo. In secondo luogo, affermo, o F. M., che tutti i peccatori devono, senza un miracolo straordinario, il quale non avviene che rarissimamente, la loro conversione alla preghiera. Vedete che cosa fa S. Monica, per domandare la conversione del figlio: ora ai piedi del suo crocifisso prega e piange; ora a persone dabbene domanda il soccorso delle loro preghiere. Vedete S. Agostino stesso, quando volle seriamente convertirsi; vedetelo in un giardino che attende alla preghiera e si abbandona alle lagrime per commuovere il cuore di Dio e cambiare il suo. Sì, F. M., per quanto peccatori noi siamo, se ricorressimo alla preghiera e se pregassimo come si deve, saremmo sicuri che Dio ci perdonerebbe. Ah! F. M., non stupiamoci perché il demonio fa ogni sforzo per non farci fare le nostre preghiere o per farcele far male; egli sa meglio di noi quanto la preghiera sia terribile per l’inferno, e che è impossibile che Dio possa rifiutarci ciò che gli domandiamo colla preghiera. Oh! quanti peccatori uscirebbero dal peccato se avessero la fortuna di ricorrere alia preghiera! – In terzo luogo, affermo, che tutti i dannati si sono dannati perché non hanno pregato o hanno pregato male. E da questo concludo, F. M., che senza la preghiera ci perderemo irreparabilmente per tutta l’eternità, mentre colla preghiera ben fatta siamo sicuri di salvarci. Sì, F. M. tutti i santi erano così convinti che la preghiera era assolutamente necessaria per salvarsi, che non si accontentavano di passare i giorni a pregare, ma vi passavano altresì le notti intere. E perché, F. M., noi abbiamo tanta ripugnanza per un esercizio così dolce e confortante? Ahimè! o  F.M., è perché facendolo male, non abbiamo mai provato le dolcezze che provavano i santi. Vedete sant’Ilarione, che pregò senza cessare per cent’anni, e i suoi cento anni di preghiera furono così corti che la vita gli sembrò passata come un baleno. Infatti, F. M., una preghiera ben fatta è un olio imbalsamato che si spande sulla nostra anima, e che sembra farle pregustare la felicità che godono i beati nel cielo. E questo è sì vero, che leggiamo nella vita di S. Francesco d’Assisi che, spesso, quando pregava, cadeva in estasi al punto che non si poteva distinguere se egli era sulla terra o coi beati in cielo. E questo perché egli era infiammato dal fuoco divino che la preghiera accendeva nel suo cuore, fuoco che gli comunicava un calore sensibile. Un giorno trovandosi in chiesa provò uno slancio d’amore così violento che si mise ad esclamare ad alta voce: “Mio Dio, non posso più reggere.„ — Ma, penserete in cuor vostro, questo va bene per quelli che sanno pregar bene e dire delle belle preghiere. F. M., Dio non guarda alle preghiere lunghe né alle preghiere belle; ma a quelle che son fatte col cuore, con un grande rispetto ed un vero desiderio di piacere a Lui. Eccone un bell’esempio. Si narra nella vita di S. Bonaventura, che era un grande dottore della Chiesa, che un religioso, uomo semplicissimo, gli disse: “Padre, pensate voi, che io sì poco istruito, possa pregar bene Iddio ed amarlo?„ S. Bonaventura gli rispose: “Ah! amico, sono principalmente coloro che somigliano a voi quelli che il buon Dio ama di più e che gli sono assai cari… Il buon religioso, stupito d’una sì buona notizia, si mise alla porta del monastero, dicendo a tutti quelli che vedeva passare: « Ascoltate, amici, ho una buona notizia da darvi: il dottor Bonaventura m’ha detto che noi, sebbene ignoranti, possiamo amare Dio come i sapienti. Che felicità per noi poter amare Dio e piacergli anche senza essere istruiti!„ E dopo questo, F. M., vi dirò che niente è più facile quanto il pregare Dio, e che non vi è nulla di più consolante. La preghiera è un’elevazione del cuore a Dio. Dirò meglio, F. M., è una dolce conversazione del figlio col padre, del suddito col re, del servo col padrone, dell’amico coll’amico in seno al quale depone i suoi affanni e le sue pene. Per spiegarvi ancor meglio questa felicità: è una vile creatura che il buon Dio riceve nelle sue braccia per prodigarle ogni sorta di benedizioni. E che v i dirò di più, o P. M.? E l’unione di tutto ciò che vi è di più umile con tutto ciò che vi è di più grande, di più potente, di più perfetto. Ditemi, F. M., ci occorre di più per farci sentire la gioia della preghiera e la sua necessità? Vedete dunque, che se vogliamo piacere a Dio e salvarci, ci è assolutamente necessaria la preghiera. D’altra parte, noi sulla terra non possiamo trovare altra felicità che amando Dio, e non possiamo amarlo che pregandolo. Vediamo che Gesù Cristo per incoraggiarci a ricorrere spesso alla preghiera, ci promette che nulla mai ci rifiuterà, se lo preghiamo come si deve. Ma, senza tanti giri di parole, per intendere che dobbiamo pregare spesso, non avete che da aprire il vostro catechismo, e vi vedrete che il dovere di un buon Cristiano è quello di pregare alla mattina ed alla sera e spesso durante il giorno: vale a dire sempre. Alla mattina, un Cristiano che desidera salvare la propria anima, deve, appena svegliato, fare il segno della santa croce, dare il suo cuore a Dio, offrirgli tutte le sue azioni, disporsi a fare la sua preghiera. Non bisogna mai mettersi al lavoro prima di aver fatto orazione e sta bene farla in ginocchio, dopo aver preso l’acqua santa, e davanti al crocifisso. Non perdiamo mai di vista, F. M., che è alla mattina che il buon Dio ci prepara tutte le grazie che ci sono necessarie per passare santamente la giornata; poiché il buon Dio conosce tutte le occasioni di peccare che ci si presenteranno, tutte le tentazioni che il demonio durante il giorno ci muoverà; e, se preghiamo in ginocchio e come si deve, ci dà tutte le grazie di cui abbiamo bisogno per non soccombere. E per questo che il demonio fa ogni sforzo per farcela tralasciare o per farcela far male; convintissimo, come confessò un giorno per bocca d’un ossesso, che se può avere il primo momento della giornata, è sicuro d’avere tutto il resto. Chi di noi, F. M., potrà udire senza piangere di compassione, quei poveri Cristiani che osano affermare di non aver tempo per pregare? Non avete tempo! poveri ciechi; qual è l’azione più preziosa: lavorare per piacere a Dio e salvare la propria anima, ovvero andare a dar da mangiare alle bestie che sono nella stalla, oppure chiamare i figli od i servi per mandarli a smuovere la terra od il letame? Dio mio, quanto è cieco l’uomo!… Non avete tempo! ma, ditemi, ingrato, se Dio questa notte vi avesse fatto morire, avreste lavorato? Se Dio vi avesse mandato tre o quattro mesi di malattia avreste lavorato? Via, miserabile, meritate che il Signore vi abbandoni al vostro accecamento e che vi lasci perire. Ci par troppa cosa concedere a Lui qualche minuto per ringraziarlo delle grazie che ci concede ad ogni momento! — Bisogna attendere al proprio lavoro, mi dite. — Ma, amico, v’ingannate grandemente, non avete altro lavoro che procurar di piacere a Dio e salvare la vostra anima, tutto il resto non è vostro lavoro: se non lo fate voi, lo faranno altri; ma se perdete la vostra anima, chi la salverà? Andate, siete un insensato: quando sarete nell’inferno imparerete ciò che avreste dovuto fare; e che, disgraziatamente, non avete fatto. – Ma, mi direte, quali sono dunque i vantaggi che ricaviamo dalla preghiera che dobbiamo sì spesso fare? F. M., eccoli. La preghiera fa che le nostre croci siano meno pesanti, essa mitiga le nostre pene, e ci fa meno attaccati alla vita, attira su di noi lo sguardo della misericordia di Dio, fortifica la nostra anima contro il peccato, ci fa desiderare la penitenza e ce la fa praticare con piacere, ci fa sentire e comprendere quanto il peccato oltraggia il buon Dio. Dirò di più, F. M., colla preghiera piacciamo a Dio, arricchiamo le nostre anime e ci assicuriamo la vita eterna. Ditemi, F. M., occorre ancor di più per indurci a far sì che la nostra vita non sia che una preghiera continua per la nostra unione con Dio? Quando si ama uno, si ha bisogno di vederlo per pensare a lui? No, senza dubbio. Così, se amiamo il buon Dio, la preghiera ci sarà familiare come il respiro. Tuttavia, F. M., vi dirò che per pregare in modo d’attirare su di noi tutti questi beni, non basta impiegarvi un momento, o farla in fretta, e con precipitazione. Dio vuole che vi impieghiamo un tempo conveniente, quanto basta per domandargli le grazie che ci sono necessarie, per ringraziarlo dei benefizi ricevuti e per piangere i nostri falli passati domandandogliene perdono. – Ma, mi direte, come possiamo dunque pregare senza cessare mai? F. M.,niente di più facile: occupiamoci di Dio, di quando in quando durante il nostro lavoro; ora con un atto d’amore, per testimoniargli che l’amiamo perché è buono e degno d’essere amato; ora con un atto d’umiltà, riconoscendoci indegni delle grazie di cui Egli ci ricolma continuamente; ora con un atto di confidenza, perché, sebbene miserabili, sappiamo ch’Egli ci ama e che vuol renderci felici. Talvolta pensiamo alla morte od alla passione di Gesù Cristo, seguendolo in ispirito nell’orto degli Olivi, quando è incoronato di spine, quando porta la croce, quando su di essa viene crocifisso; oppure ripensiamo la sua incarnazione, la sua nascita, la sua fuga in Egitto; oppure riflettiamo alla morte, al giudizio, all’inferno e al cielo. Facciamo qualche breve orazione prima e dopo il pasto: quando suona la campana, che ci ricorda la fine che ci attende, risuoni sulle nostre labbra l’Angelus e riflettiamo che ben presto non saremo più sulla terra. Questo vi porterà a non attaccarvi troppo il cuore e a non restare nel peccato, per timore che vi colga la morte. Ecco, F. M., quanto è facile pregare incessantemente. Ecco, in che modo i santi pregavano sempre.

II. — Un secondo motivo che deve indurci a ricorrere alla preghiera, è che il vantaggio è tutto nostro. Dio vuole la nostra felicità, e sa che solo colla preghiera possiamo procurarcela. D’altra parte, F. M., quale grande fortuna per una vile creatura, come noi, che Dio voglia abbassarsi fino ad essa e con lei intrattenersi come fa un amico coll’amico? Vedete la sua bontà per noi concedendoci di metterlo a parte dei nostri affanni, delle nostre pene. E questo buon Salvatore si dà premura di consolarci, di sostenerci nelle prove. Ditemi, F. M., non è lo stesso che voler rinunciare alla nostra salute ed alla nostra felicità sulla terra, il rinunciare alla preghiera? giacche, senza la preghiera non possiamo essere che disgraziati, e colla preghiera siamo sicuri di ottenere tutto quanto ci è necessario per il tempo e per l’eternità? Miei cari, tutto è promesso alla preghiera; la preghiera ottiene tutto, quand’è ben fatta. È questa una verità che Gesù Cristo ci ripete ad ogni pagina dell’Evangelo. La promessa che Gesù Cristo ci fa è formale: « Domandate ed otterrete, Egli dice: cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Tutto ciò che domanderete al Padre mio in mio nome, se lo fate con fede, l’otterrete ». – Gesù Cristo non si accontenta di dirci che la preghiera ben fatta ottiene tutto. Per meglio ancora convincercene, ce rassicura con giuramento: « In verità, in verità vi dico, tatto ciò che domandante al Padre mio in mio nome, l’otterrete. » Dopo le parole di Gesù Cristo, mi sembra, F . M. che sarebbe impossibile dubitare del potere della preghiera. Del resto, di dove potrebbe venire la nostra diffidenza? Forse dalla nostra indegnità? Ma Dio sa che noi siamo peccatori e colpevoli, e che contiamo unicamente sulla sua bontà che è infinita, e che preghiamo in suo nome. E la nostra indegnità non è forse coperta, e come nascosta dai suoi meriti? Forse perché i nostri peccati sono troppo orribili e troppo spaventosi? Ma a Lui non è ugualmente facile perdonare mille peccati come uno solo? Non ha Egli dato la vita principalmente per i peccatori? Ascoltate ciò che ci dice il santo Re-profeta: « Si è mai visto alcuno che abbia pregato il Signore, e la sua preghiera non sia stata esaudita ? (Questo testo non è tolto dai Salmi, ma dall’Ecclesiastico: Quis invocavit eum, et despexit illum? (Eccl.. II, 12). « Sì, egli soggiunge, tutti quelli che invocano il Signore, e che ricorrono a Lui, hanno provato gli effetti della sua misericordia. » Vediamolo con degli esempi, il che vi persuaderà di più. Vedete, Adamo dopo il suo peccato domanda misericordia. Non solo il Signore perdona a lui, ma altresì a tutti i suoi discendenti; gli promette che il suo Figlio s’incarnerà, soffrirà e morirà per riparare il suo peccato. Vedete i Niniviti, tanto colpevoli che il Signore mandò loro il profeta Giona per avvertirli che li avrebbe fatti perire nel modo più spaventoso piovendo su di loro fuoco dal cielo (Giona, predicando a Ninive diceva: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta…” senza indicare per qual castigo (Jon. III, 4). Forse il Beato confonde la distruzione di Ninive con la rovina di Sodoma annunciata da un angelo a Lot e che è così descritta nella Genesi: « Il Signore fece cadere dal cielo una pioggia di zolfo o di fuoco su Sodoma e Gomorra » – (Gen. XIX, 21). Essi si danno alla preghiera, ed il Signore perdona. Anche quando Dio era disposto a sommergere la terra nelle acque del diluvio universale, se quei peccatori avessero ricorso alla preghiera, sarebbero stati sicuri del perdono del Signore. Continuando, vedete Mosè sulla montagna mentre Giosuè combatte i nemici del popolo di Dio. Finché egli prega, gli Israeliti sono vittoriosi; ma quando cessa di pregare, essi sono vinti. Vedete ancora lo stesso Mosè che domanda grazia al Signore per trentamila colpevoli che Dio aveva risoluto di far perire: colle sue preghiere, obbligò, per modo di dire, il Signore a perdonar loro. « No, o Mosè, non domandar grazia per quel popolo, non voglio perdonargli. » Mosè continua, ed il Signore è vinto dalle preghiere del suo servo e perdona. Che fa Giuditta per liberare la sua patria dall’odiato nemico? Si mette a pregare, e, piena di confidenza in Colui che pregava, va da Oloferne, gli taglia la testa e salva così la patria sua. Vedete il re Ezechia, al quale il Signore manda il suo profeta per avvertirlo di mettere in ordine le sue cose giacché deve presto morire. Egli si prostra davanti al Signore pregandolo di non toglierlo allora da questo mondo. Il Signore commosso dalla sua preghiera gli dà ancora quindici anni di vita. Andate più innanzi, vedete un pubblicano che, riconoscendosi colpevole, va nel tempio a pregare il Signore perché gli perdoni. E Gesù Cristo stesso ci dice che i suoi peccati gli furono perdonati. Vedete la peccatrice che, ai piedi di Gesù Cristo, lo prega con lagrime. Gesù Cristo non le dice: « Ti son rimessi ituoi peccati? » Il buon ladrone, sebbene carico dei più enormi delitti, prega sulla croce: non solo Gesù Cristo gli perdona; ma, per di più, gli promette che quel giorno stesso sarà con lui in paradiso. Sì, F. M., se occorresse citarvi tutti coloro che per la preghiera sono stati perdonati, bisognerebbe ricordarvi tutti i santi che sono stati peccatori; poiché solo per la preghiera hanno avuto la fortuna di riconciliarsi con Dio, che si lasciò commuovere dalle loro preghiere.

III. — Ma voi, forse, pensate: Perché dunque, malgrado tante preghiere, siamo sempre peccatori e mai progrediamo? Amico, la nostra disgrazia nasce da questo, che non preghiamo come si deve, cioè preghiamo senza prepararci e senza il desiderio di convertirci; spesso anche senza sapere ciò che vogliamo domandare al buon Dio. È veramente così, F. M., poiché tutti i peccatori che hanno domandata al buon Dio la loro conversione l’hanno ottenuta, e tutti i giusti che hanno domandato a Dio la perseveranza, hanno perseverato. — Ma forse mi direte: Siamo troppo tentati. — Siete troppo tentato, amico? Potete pregare e siete sicuro che la preghiera vi darà la forza di resistere alla tentazione. Avete bisogno di grazia? Ebbene! la preghiera ve l’otterrà. Se ne dubitate, ascoltate ciò che ci dice S. Giacomo, che colla preghiera comandiamo al mondo, al demonio ed alle nostre inclinazioni. Sì, F. M., in qualunque pena ci troviamo, colla preghiera, avremo la fortuna di sopportarla con rassegnazione alla volontà di Dio; e per quanto forti siano le nostre tentazioni, se ricorriamo alla preghiera, le vinceremo. Ma che fa il peccatore? Ecco. È persuasissimo che la preghiera gli è assolutamente necessaria per fare il bene e fuggire il male, e per uscire dal peccato, quando ha la disgrazia d’esservi caduto; ma, intendete, se lo potete, il suo accecamento: o non fa quasi mai preghiera o la fa male. Non è vero forse? Vedete come il peccatore fa la sua preghiera, dato che la faccia: poiché la maggior parte dei peccatori non ne fanno; ahimè! si alzano e si coricano come le bestie. Ma esaminiamo quel peccatore mentre fa la sua preghiera: Vedetelo appoggiato ad una sedia o contro il letto; prega vestendosi o spogliandosi, camminando o vociando, e fors’anche bestemmiando coi suoi servi o coi suoi figli. Che preparazione vi reca egli? Ahimè! nessuna. Spesso o quasi sempre, questi uomini finiscono la loro pretesa preghiera, non solo senza sapere ciò che hanno detto, ma anche senza pensare davanti a chi si trovavano e che cosa avevano fatto e domandato. Osservateli nella casa di Dio; fanno morire di compassione! Pensano essi che sono alla presenza del Signore? Niente affatto: guardano chi entra e chi esce, parlano l’un l’altro, sbadigliano, dormicchiano, s’annoiano, fors’anche si arrabbiano perché le funzioni, secondo loro, sono troppo lunghe. Attingendo l’acqua santa mostrano, press’a poco la stessa devozione di quando prendono nel secchio acqua per bere. Appena piegano il ginocchio a terra, e sembra loro gran cosa curvare un poco la testa durante la Consacrazione o la Benedizione. Vedeteli vagare i loro sguardi per la chiesa anche su oggetti che possono portarli al male; e non sono appena entrati che vorrebbero esserne già fuori. Quando escono li sentite gridare come persone tolte di prigione e messe in libertà. I bisogni del peccatore sono grandi, voi lo sapete, M. F. Ma egli prega al modo che v’ho detto: dobbiamo dunque stupirci se resta sempre nel suo peccato, e per di più, se vi persevera? Ho detto, che i vantaggi della preghiera derivano dal modo in cui s’adempie questo dovere:

1° Perché una preghiera sia accetta a Dio e vantaggiosa per chi la fa, bisogna che chi la compie sia in istato di grazia od almeno in una buona risoluzione di uscire prontamente dal peccato; perché la preghiera d’un peccatore che non vuol uscire dal peccato è un insulto fatto a Dio. Poi, perché una preghiera sia buona, bisogna che chi la fa sia preparato. Ogni preghiera fatta senza preparazione è una preghiera mal fatta; e questa preparazione consiste, nel pensare almeno un momento a Dio prima di mettersi in ginocchio, pensare a ciò che dovete dire, a ciò che dovete domandargli. Ahimè! quanto è scarso il numero di coloro che vi si preparano, e per conseguenza quanto pochi pregano come si deve, cioè in modo d’essere esauditi! D’altra parte, F. M., che cosa volete che Dio vi conceda, se non volete nulla e non desiderate nulla? Dirò di più: chi prega così somiglia ad un povero che non vuol elemosina, ad un ammalato che non vuol guarire, ad un cieco che vuol restare nel suo accecamento; ad un dannato, finalmente, che non vuol il cielo ed acconsente di andare all’inferno.

2° In secondo luogo ho detto, che la preghiera è l’elevazione del nostro cuore verso Dio, è un dolce e caro colloquio della creatura col suo Creatore. Dunque, F. M., non preghiamo Dio come si deve, se durante la preghiera pensiamo ad altre cose. Non appena ci accorgiamo che il nostro spirito si distrae, dobbiamo subito ritornarlo alla presenza di Dio, umiliarci davanti a Lui, e non lasciar mai la preghiera anche se nel farla non sentiamo alcun gusto; dobbiamo anzi riflettere che più ne proviamo disgusto e più la nostra preghiera è meritoria davanti a Dio, se continuiamo sempre nel pensiero di piacere a Lui. Si racconta nella storia che un giorno un santo diceva ad un altro santo: « Perché mai quando si prega il buon Dio, il nostro spirito si riempie di mille pensieri estranei, ai quali, spesso, se non si fosse occupati nella preghiera non si penserebbe? » E l’altro gli rispose: « Amico, non c’è da stupirsi: prima di tutto il demonio prevede le grazie abbondanti che colla preghiera possiamo ottenere, e per conseguenza dispera di guadagnare una persona che prega come si deve; e poi, più noi preghiamo con fervore e più lo rendiamo furibondo. » Un altro a cui apparve il demonio, gli domandò perché era continuamente occupato a tentare i Cristiani che stanno pregando. Il demonio, di sua bocca, rispose che egli non poteva tollerare che un Cristiano, tante volte peccatore, potesse colla preghiera ottenere il perdono; e che egli perciò fin che vi sarebbero Cristiani dediti alla preghiera, li avrebbe tentati. Chiese poi come li tentava:ecco ciò che il demonio rispose: « Ad alcuni metto un dito in bocca per farli sbadigliare; altri li addormento; di altri faccio correre la fantasia di città in città. » Ahimè! F. M., questo pur troppo è vero: noi proviamo ogni giorno tutto questo ogni volta che ci troviamo alla presenza di Dio per pregarlo. Si racconta che il superiore d’un monastero vedendo uno dei suoi religiosi che prima di cominciare le preghiere, faceva certi movimenti e sembrava parlare con qualcheduno, gli domandò di che s’occupasse prima di cominciare le sue preghiere. « Padre, rispose, prima di cominciare le mie preghiere, chiamo tutti i miei pensieri ed i miei desideri dicendo loro: Venite tutti, ed adoreremo Gesù Cristo nostro Dio. » — « Ah! F. M., ci dice Cassiano, com’era bello veder pregare i primi fedeli! Essi avevano un sì grande rispetto della presenza di Dio, che sembravano morti, tant’era grande il silenzio; in chiesa tremavano; non vi erano né sedie né banchi; stavano prostrati come colpevoli che aspettano la loro sentenza. Ma come il cielo si popolava presto, e come si viveva bene sulla terra! Ah! immensa felicità di quelli che vissero in quei tempi beati! »

3° In terzo luogo ho detto che le nostre preghiere devono esser fatte con confidenza, e colla ferma speranza che il buon Dio può e vuole accordarci ciò che gli domandiamo, se lo domandiamo come si deve. In tutti i luoghi in cui Gesù Cristo ci promette di accordare tutto alla preghiera, mette sempre questa condizione: « Se la fate con fede. » Quando qualcheduno gli domandava la sua guarigione od altre cose, non mancava di dir loro: « Vi sia dato secondo la vostra fede. » Del resto, F. M., che cosa potrà farci dubitare, giacché la nostra confidenza è appoggiata sull’infinita onnipotenza di Dio, sull’illimitata sua misericordia e sugli infiniti meriti di Gesù Cristo, in nome del quale preghiamo? Quando preghiamo in nome di Gesù Cristo, non siamo noi che preghiamo, ma è Gesù Cristo stesso che prega il Padre suo per noi. L’Evangelo ci dà un bell’esempio della fede che dobbiamo avere pregando, nella donna soggetta a perdite di sangue. Essa diceva tra se: « Se io arrivo anche solo a toccare l’orlo della sua veste io sono guarita. » Vedete com’essa credeva fermamente che Gesù Cristo poteva guarirla: aspettava con grande confidenza una guarigione che ardentemente desiderava. Infatti, passando il Salvatore vicino a lei, si gettò ai suoi piedi, gli toccò la veste, e sull’istante fu guarita. Gesù Cristo vedendo la sua fede, la guardò con bontà dicendole: « Va in pace, la tua fede t’ha salvata.  Sì, M. F., tutto è promesso a questa fede, a questa confidenza.

4° In quarto luogo dico che quando si prega, bisogna avere purità d’intenzione in tutto ciò che domandiamo, e non domandar nulla che non possa tornare a gloria di Dio e a salute nostra. « Potete domandare cose temporali, ci dice S. Agostino; ma sempre col pensiero che ve ne servirete per la gloria di Dio e per la salute della vostra anima, o per quella del vostro prossimo: altrimenti, le vostre domande non nascono che dall’orgoglio e dall’ambizione: e se, in questo caso, il buon Dio rifiuta di accordarvi ciò che gli domandate, è perché non vuol contribuire alla vostra rovina spirituale. Ma che facciamo nelle nostre preghiere? Ci dice ancora S. Agostino. Ahimè! domandiamo una cosa e ne desideriamo un’altra. Recitando il Pater, diciamo: Padre nostro, che siete nei cieli; cioè: Dio mio, distaccateci da questo mondo; fateci la grazia di disprezzare tutto ciò che appartiene alla vita presente; concedetemi che tutti i miei pensieri e tutti i miei desideri non siano che pel cielo! „ Ahimè! saremmo invece ben dolenti se il buon Dio ci facesse questa grazia; certamente un gran numero di noi lo sarebbe, confessiamolo! – Dobbiamo pregare spesso, F. M., ma dobbiamo raddoppiare le nostre preghiere nelle prove e nelle tentazioni. Eccone un bell’esempio. Leggiamo nella storia che al tempo dell’imperatore Licinio, si volle che tutti i soldati sacrificassero al demonio. Fra questi ve ne furono quaranta che si rifiutarono, dicendo che i sacrifici sono dovuti solo a Dio e non al demonio. Si fece loro ogni sorta di promesse. Vedendo che nulla poteva vincerli, dopo molti tormenti, furono condannati ad esser gettati nudi in uno stagno d’acqua gelata, di notte, nel rigore dell’inverno; affinché morissero pel freddo. I santi martiri, vedendosi così condannati, si dissero l’un l’altro: « Amici, che ci resta ora, se non abbandonarci nelle mani di Dio onnipotente, da cui solo dobbiamo aspettare la forza e la vittoria? Ricorriamo alla preghiera, e preghiamo senza interruzione per attirare su di noi le grazie del cielo: domandiamo a Dio d’avere la bella sorte di perseverare tutti. „ Ma per tentarli si mise là vicino un bagno caldo. Disgraziatamente uno d’essi, perdendo il coraggio, abbandonò il combattimento, e andò a mettersi nel bagno caldo; ma, entratovi appena, vi perdette la vita. Colui che li custodiva, vedendo trentanove corone discendere su di essi dal cielo, ed una sola restar sospesa: « Ah! esclamò, è di quell’infelice che ha abbandonato gli altri! » E si mise al suo posto, ricevette la quarantesima corona e fu battezzato nel proprio sangue. Il giorno dopo, siccome respiravano ancora, il governatore ordinò che fossero gettati nel fuoco. Vennero posti tutti su di un carro, ad eccezione del più giovane, che si sperava di poter guadagnare. La madre, che era presente, esclamò: “Ah! figlio mio, coraggio! un momento di dolori, ti varrà un’eternità di gioie. „ Preso il figlio, lo collocò sul carro cogli altri: e piena di gioia, lo condusse come in trionfo, alla gloria del martirio. Per tutto il tempo del loro martirio non cessarono di pregare, tanto erano persuasi che la preghiera è il mezzo più potente per attirare su di noi gli aiuti del cielo. – Sappiamo che S. Agostino, dopo la sua conversione, si ritirò per lungo tempo in un luogo romito, per domandare la grazia di perseverare nelle buone disposizioni. S. Vincenzo Ferreri, che ha convertite tante anime, diceva che nulla è tanto potente per convertire i peccatori, quanto la preghiera; essa è simile ad un dardo che ferisce il cuore del peccatore. Sì, F. M, possiamo dire che la preghiera fa tutto: ci fa conoscere i nostri doveri, lo stato miserabile della nostr’anima dopo il peccato, ci dà le disposizioni che ci sono necessarie per ricevere i Sacramenti: ci fa comprendere quanto la vita ed i beni del mondo sono poca cosa, il che ci porta a non attaccarvici; imprime vivamente il timore salutare della morte, dell’inferno e della perdita del cielo. Ah! F. M., se avessimo la fortuna di pregare come si deve, saremmo ben presto santi penitenti! Vediamo che S. Ugo, vescovo di Grenoble, nella sua malattia, non si stancava di ripetere il Pater noster. Gli si disse che ciò poteva contribuire ad aggravare il suo male. « Ah! no – rispose loro – invece mi solleva. » – Ho detto, F. M., che la terza condizione, perché la nostra preghiera sia gradita a Dio, è la perseveranza. Vediamo spesso che il Signore non ci accorda con prontezza ciò che gli domandiamo: lo fa per farcelo desiderare di più, o per meglio farcelo apprezzare. Questo ritardo non è un rifiuto, è una prova che ci dispone a ricevere con più abbondanza ciò che domandiamo. Vedete S. Agostino che per cinque anni domanda a Dio la grazia della sua conversione. Vedete S. Maria Egiziaca che, per diciannove anni, domanda al buon Dio la grazia di liberarla da cattivi pensieri. Ma che hanno fatto i santi? Sentite. Hanno sempre perseverato nel domandare, e per la loro perseveranza hanno sempre ottenuto ciò che avevano domandato. Noi, invece, che siamo coperti di peccati, quando il buon Dio non ci accorda subito ciò che gli domandiamo, pensiamo che Egli non vuol esaudire le nostre domande, e, subito, lasciamo la preghiera. No, F. M., i santi non si comportavano così quanto al perseverare: essi hanno sempre pensato ch’erano indegni d’essere esauditi, e che, se Iddio lo faceva, ascoltava la sua misericordia e non i loro meriti. Io dico dunque che quando preghiamo, sebbene sembri che il buon Dio non ascolti le nostre preghiere, non bisogna tralasciar di pregare; ma anzi continuare sempre. Se il buon Dio non ci concede ciò che gli domandiamo, ci concede un’altra grazia che ci è più vantaggiosa di quella che noi domandiamo. Abbiamo un esempio del modo con cui dobbiamo perseverare nella preghiera nella persona di quella donna cananea, che si indirizzò a Gesù Cristo per domandargli la guarigione di sua figlia. Vedete la sua umiltà e la sua perseveranza… Ecco un altro a mirabile esempio della potenza della preghiera. Leggiamo nella storia dei Padri del deserto, che i Cattolici erano andati a vedere un santo la cui riputazione si spargeva molto lontano, per pregarlo di venir a confondere un certo eretico, i cui discorsi seducevano molta gente; essendosi il santo messo in disputa con quell’infelice, senza poterlo convincere che aveva torto e ch’era un disgraziato, nato soltanto per rovinare le anime; e vedendo che colle sue lungaggini, voleva far credere che non aveva torto; gli disse: « Disgraziato, il regno di Dio non consiste in parole, ma in opere: andiamo tutti e due con tutta questa gente, che testimonierà, andiamo al cimitero, là invocheremo il buon Dio sul primo morto che ivi troveremo, e le nostre opere faranno vedere la nostra fede. » L’eretico sbigottì a questa proposta, e non osò accettare l’invito: domandò al santo d’aspettare fino al giorno seguente: il santo vi acconsentì. Il dì dopo, il popolo che desiderava ardentemente sapere come finirebbe la cosa, venne in gran folla al cimitero. Si attese l’eretico fino alle tre di sera; ma si annunciò al santo che il suo avversario durante la notte aveva preso la fuga e s’era ritirato in Egitto. Allora S. Macario condusse al cimitero tutto quel popolo che aspettava l’esito della loro conferenza, e soprattutto quelli ingannati da quel disgraziato. Fermatosi su di una tomba, in loro presenza s’inginocchiò, pregò per qualche tempo, e volgendosi al cadavere che da maggior tempo era sepolto in quel luogo, disse: « O uomo! ascoltami: se quell’eretico fosse venuto con me, e, davanti a lui, avessi invocato il nome di Gesù Cristo mio Salvatore, non ti saresti alzato per testimoniare la verità della mia fede? » A quelle parole, il morto si alzò ed in presenza di tutti, disse che, come lo faceva adesso, l’avrebbe fatto anche presente l’eretico. S. Macario gli disse: « Chi sei? in quale anno hai vissuto? Conosci Gesù Cristo? » Il morto risuscitato rispose che aveva vissuto al tempo degli antichi re; e che non aveva mai sentito il nome di Gesù Cristo. Allora Macario, vedendo che tutti erano convintissimi che quel disgraziato eretico era un impostore, disse al morto: « Dormi in pace fino all’universale risurrezione. » E tutti si ritirarono lodando Dio, che aveva sì bene fatto conoscere la verità della nostra santa Religione. S. Macario poi ritornò nel suo deserto a continuarvi la penitenza (Vita dei Padri del deserto, vol. III – S. Macario d’Egitto). Vedete, F. M., la potenza della preghiera, quando è benfatta? Non riconoscerete dunque con me che se non otteniamo ciò che domandiamo al buon Dio, è perché non preghiamo con fede, con un cuore abbastanza puro, con una confidenza abbastanza grande, o che non perseveriamo abbastanza nella preghiera? No, F. M., Dio non ha mai rifiutato e non rifiuterà mai nulla a quelli che gli domandano, come si deve, qualche grazia. Sì, la preghiera è la sola via che ci resta per uscire dal peccato, per perseverare nella grazia, per commuovere il cuore di Dio, per attirare su di noi ogni benedizione del cielo, per l’anima ed anche per le cose temporali. – Di qui concludo che se restiamo nel peccato, se non ci convertiamo, se ci troviamo così disgraziati nei dolori che Dio ci manda, è perché non preghiamo o preghiamo male. Senza la preghiera, non possiamo frequentare degnamente i Sacramenti. Senza la preghiera, non conosceremo mai lo stato a cui Dio ci chiama. Senza la preghiera non può toccarci che l’inferno. Senza la preghiera, non gusteremo le dolcezze che possiamo gustare amando Dio. Senza la preghiera le nostre croci sono senza merito. Oh! quante dolcezze, F. M., proveremmo pregando, se avessimo la ventura di pregare come si deve! Non preghiamo dunque mai senza pensar bene a Chi parliamo e a ciò che vogliamo domandare a Dio. Preghiamo soprattutto con umiltà e confidenza, e con questo, avremo la bella sorte d’ottenere ciò che desideriamo, se le nostre domande sono secondo ciò che Dio vuole da noi. È quello che vi auguro…

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2021)

DOMENICA IV DOPO PASQUA (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la giustizia di Dio (Intr., Vang.) che si manifesta col trionfo di Gesù e l’invio dello Spirito Santo. « La destra del Signore ha operato grandi cose risuscitando Cristo da morte » (All.) e facendolo salire al cielo nel giorno dell’Ascensione. È bene per noi che Gesù lasci la terra, poiché dal cielo Egli manderà alla sua Chiesa lo Spirito di verità (Vang.), per eccellenza, che viene dal Padre dei lumi (Ep.). Lo Spirito Santo ci insegnerà ogni verità (Vang., Off., Secr.), esso « ci annunzierà » quello che Gesù gli dirà e noi saremo salvi se ascolteremo questa parola di vita (Ep.). Lo Spirito Santo ci dirà le meraviglie che Dio ha operate per il Figlio (Intr., Off.) e questa testimonianza della splendida giustizia resa a Nostro Signore consolerà le anime nostre e ci sarà di sostegno in mezzo alle persecuzioni. Siccome, secondo quanto dice S. Giacomo, «la prova della nostra fede produce la pazienza e questa bandisce l’incostanza e rende le opere perfette », noi imiteremo in tal modo la pazienza del nostro Dio « e del Padre nostro », nel quale « non vi è né variazione né cambiamento » (Ep.), e « i nostri cuori saranno allora là dove si trovano le vere gioie » (Or.). Lo Spirito Santo convincerà inoltre satana e il mondo del peccato che hanno immesso mettendo a morte Gesù (Vang., Comm.) e continuando a perseguitarlo nella sua Chiesa.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCVII:1; 2
Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.

]Ps XCVII: 1
Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus.

[Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja.

[Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod prǽcipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia.

[O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli
Jas I 17-21
Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.


[Caríssimi: Ogni liberalità benéfica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con ànimo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.]

L’Apostolo S. Giacomo, detto il Minore, era venuto a conoscere che tra i Cristiani convertiti dal Giudaismo e disseminati fuori della Palestina serpeggiavano gravi errori, nell’interpretazione della dottrina loro insegnata, specialmente rispetto alla necessità delle buone opere. Inoltre, in mezzo alle tribolazioni cui andavano soggetti, c’era pericolo che riuscissero a farsi strada le vecchie abitudini. Per premunire contro l’errore questi suoi connazionali dispersi, e per richiamarli a una vita più austera, S. Giacomo scrive loro una lettera. In essa si insiste sulla necessità che alla fede vadano congiunte le buone opere. Si danno, poi, varie norme, perché tanto nella vita privata, quanto nelle relazioni sociali siano guidati da uno spirito veramente cristiano; e vengono confortati nelle loro tribolazioni. L’Epistola è tolta dal cap. 1 di questa lettera. Da Dio deriva ogni bene. Da Lui abbiamo avuto il dono inestimabile della vita della grazia, per mezzo della predicazione del Vangelo, parola di verità. Questa parola di verità ciascuno deve accogliere con prontezza, con semplicità, con spirito di mansuetudine.

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXVII:16.
Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja.

[La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.]
Rom VI:9
Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja.[Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem

Joannes XVI: 5-14

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille, árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis.

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il príncipe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.]

OMELIA

(OMELIE PANEGIRICI E SERMONI DEL PREVOSTO PAROCO IN SANTO STEFANO DI MILANO FRANCESCO MARIA ZOPPI – Томо II. – MILANO – TIPOGRAFIA DI GIUDITTA BONARDI – POGLIANI MDCCCXLII.)

VANTAGGI CHE APPORTO’ AL MONDO LA PARTENZA DI GESÙ CRISTO.

Ogni volta che il divin Redentore parlava a’ suoi discepoli della sua partenza, questi si mostravano curiosissimi di sapere dove egli se ne andasse, non avendo essi ancora inteso che volesse significare la misteriosa partenza di Lui. Quindi allorché disse loro, Figliuoli miei, mi resto ancora un poco con voi, ma poi mi cercherete, e dove Io vo, voi non potete venire; l’apostolo san Pietro si fece tosto ad interrogarlo, dicendo, Signore, dove andate? E quando tornò a dir loro, Io vo a prepararvi il luogo, e dove Io vado, voi lo sapete, e non ne ignorate la strada; l’apostolo s. Tommaso gli rispose subito, Signore, noi ignoriamo dove ve ne andate, e come possiamo saperne la strada? Ma poiché ebbero inteso che la partenza del divin Maestro volea significar prima la morte, indi l’ascensione di Lui al cielo; poiché ebbero pensato che così sarebbero rimasti orfani e privi dell’amata presenza di Lui; poiché ebbero ascoltato dalla sua bocca medesima, che dopo di Lui sarebbero stati essi pure com’Egli aspramente perseguitati, fu sì grande la tristezza onde sono stati compresi, che più non lo interpellarono ove se ne andasse. Tanto è vero, o miei dilettissimi, che sono ben rari coloro che amino la croce, o che non si rattristino quando se la vedono avvicinare. Epperò Gesù Cristo, quasi rimproverandoli dolcemente, disse loro, come si legge nell’odierno Vangelo: Ora Io me ne vado a chi mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda, dove Io me ne vada? ma perché  vi ho detto queste cose, vi lasciate occupare il cuore dalla tristezza. Nunc vado ad eum qui misit me, et nemo ex vo bis interrogat me, Quo vadis? sed quia hæc locutus sum vobis, tristitia implevit cor vestrum. Ma il divin Maestro non si lagna così della tristezza de’ cari suoi discepoli, che loro non ne porga prontissima e molta la consolazione. Vi dico la verità, così prosegue a parlar loro, torna bene per voi ch’Io me ne vada; perché se Io non me ne vo, non verrà a voi il Consolatore; che se io me ne andrò, ve lo manderò: Sed ego veritatem dico vobis: expedit vobis ut ego vadam; si enim non abiero, Paraclitus non veniet ad vos; si autem abiero, mittam eum ad vos. – Ecco come li consola, riflette s. Giovanni Crisostomo: Non vi parlo in modo lusinghiero, e quantunque vi rattristiate fuor di modo, fa d’uopo che ascoltiate ciò che è espediente; ed è proprio di chi ama veramente, il non aver riguardo al desiderio degli amati, quando così conviene, ma l’essere piuttosto sollecito di ciò che può tornare a loro vantaggio. Quando Egli sarà venuto, prosegue a dire Gesù Cristo, convincerà il mondo, Arguet mundum; insegnerà a voi tutte le verità, Docebit vos omnem veritatem; e glorificherà me stesso Ille me clarificabit. Eccovi tre vantaggi: l’uno del mondo, l’altro degli Apostoli e il terzo di Gesù Cristo; ed eccovi tutto il Vangelo d’oggi. Sarebbe di troppo il volere in oggi parlare di tutti partitamente: lasciando dunque per ora quello degli Apostoli e di Cristo, accontentiamoci di esaminare sulle tracce del santo Vangelo in che consista quello del mondo che ci riguarda. – Venuto che sarà il Paraclito, convincerà il mondo, Cum venerit ille, arguet mundum. Intorno a che cosa il convincerà, o dilettissimi? Il convincerà intorno al peccato ed alla giustizia ed al giudizio, Arguet de peccato et de justitia et de judicio. Di quale peccato, di quale giustizia e di qual giudizio? chi sia il peccatore, chi il giusto, chi il giudicato, onde qui parla Gesù Cristo, varii essendo i sentimenti de’ santi Padri, a quello mi attengo che sembrami il più conveniente ed il più utile a nostra istruzione. Il mondo tutto era in peccato anziché Gesù Cristo venisse a liberarnelo: tutti aveano peccato in Adamo, ed al peccato di origine quant’altri ne aggiungevano enormissimi de’ proprj e personali? Fa orrore il leggere nelle sacre Scritture a quale eccesso fosse arrivata la universale corruzione degli uomini: fa orrore il pensare che per punire i peccati degli uomini ha dovuto Dio Creatore, quando o colle guerre o colla peste o colla fame distruggere intere nazioni, quando col fuoco consumare città popolatissime, quando sommergere nell’acque il mondo tutto, e pentirsi d’aver fatta la migliore delle sue creature: fa orrore l’ascoltare l’apostolo s. Paolo, che dichiara, essere stati allora gli uomini ripieni d’ogni iniquità, di malizia, di fornicazione, di avarizia; pieni d’invidia, di omicidio, d’inganno; maligni, seminatori di falsi rapporti, detrattori e nemici di Dio; contumeliosi, superbi, altieri, inventori di sempre nuove maniere di far male; indocili, insensati, senza regola e senza affezione; senza patti, senza sentimento di compassione e di umanità: il quadro è tutto dell’Apostolo. Ma pure quanto erano più perversi di cuore, erano altrettanto più ciechi di mente; e mentre erano pieni di delitti da capo a piedi, non sapevano persuadersi d’essere in peccato, e ricusavano di riguardarsi come peccatori. E così pur troppo avviene tuttavia di chiunque è guasto di cuore. Al venire di Gesù Cristo doveansi poi diradare queste nubi, doveano questi ciechi aprire gli occhi alla luce vivissima che Gesù Cristo veniva a spargere per tutto il mondo: l’esemplare santità della sua vita, l’alta sapienza di sua dottrina, la luminosa evidenza de’ suoi miracoli doveano finalmente disingannarli. Ma quanto pochi furono coloro che siansi dati convinti delle loro colpe, e, credendo in Gesù Cristo, lo abbiano riguardato come il loro liberatore! Voi sapete che per lo contrario il tradussero per un indemoniato, per un impostore, per un peccatore, per un trasgressore della legge, e lo trattarono quale il più perverso ed il più infame de’ malfattori. È d’uopo adunque ch’egli si tolga dagli occhi di questi uomini materiali e carnali, e mandi lo Spirito Santo a convincerli del loro peccato. Erano allora sufficienti le opere di Lui a chiuder loro la bocca – dice san Giovanni Crisostomo – ma quanto più convinti saranno e condannati, quando vedranno rinnovarsi le opere stesse dallo Spirito Santo, e rendersi più perfetta e chiara la dottrina, ed operarsi miracoli più strepitosi, e tutte e sì grandi cose farsi in nome di Lui, ch’essi hanno sì barbaramente trattato! Quanto più manifesta si renderà la gloriosa risurrezione di lui! Finora, prosegue lo stesso santo Dottore, potevano riguardarlo come il Figliuolo del falegname, come quello di cui conoscevano il padre e la madre, e non curarlo, vilipenderlo anzi e maltrattarlo: ma quando vedranno sciogliersi i vincoli della morte, sanarsi le malattie, mandarsi in fuga i demonj, emendarsi i vizj della natura e diffondersi un’immensa pienezza di spirito, e tutte queste cose operarsi coll’invocare soltanto il nome di Gesù, che cosa diranno, Quid dicent? Come il Padre (è sempre lo stesso santo Dottore che parla) ha reso testimonianza di Lui, così la rende lo Spirito Santo; e sebbene l’abbia resa sino dal principio, or pure la renderà, e convincerà il mondo di peccato, Arguet de peccato: non gli lascerà cioè alcun appiglio, e dimostrerà che ha peccato senza che v’abbia luogo a scusa alcuna: Hoc est, omnem auferet excusationem, et sine venia peccasse demonstrabit. Al vedere pertanto le opere meravigliose dello Spirito Santo, forz’è che il mondo si riconosca legato ancora dai vincoli antichi del suo peccato; forz’è che confessi, che non poteva essere sciolto fuorchè dalle mani di Gesù Cristo; forz’è che pianga di non esserne stato da lui liberalo per non avere creduto in Lui: Arguet de peccato, quia non cre diderunt in me. Non tardò diffatti il mondo a darsi per convinto e per colpevole. Investito appena l’apostolo s. Pietro dello Spirito Santo, insegna altamente e pubblicamente a tutta la casa d’Israele, che Cristo, quello stesso ch’essi hanno poco prima messo in croce, è il solo . Salvatore, il vero Messia. Un siffatto parlare dovea concitargli contro l’odio di tutti: tutte le passioni de’ Giudei ne venivano fortemente irritate,e si sarebbe creduto che Pietro dovesse restar vittima di quell’odio stesso che di fresco avea sacrificato il suo divin. Maestro. Ma no, dilettissimi: parla Pietro, ma non è Pietro che parla, è lo Spirito Santo che parla in Lui, e talmente illumina e muove chi lo ascolta, che già si danno per rei, e computi nel cuore e premurosi di riparare il loro delitto, e a Lui e agli altri Apostoli si rivolgono affannosi, dicendo, Fratelli, fratelli, che cosa abbiamo a fare: Quid faciemus, viri Fratres? Predica Pietro per la prima volta, e predica la penitenza e predica il battesimo in nome dell’odiato Gesù; ma non è Pietro che predica, è lo Spirito santo che predica in Pietro, e porta a’ piedi di lui ben tremila persone, che, sinceramente pentite, domandano é ricevono il santo battesimo nel nome di Gesù. Predica Pietro per la seconda volta, e la parola di lui diviene più feconda di prima, ma è lo Spirito Santo che dà la forza e l’efficacia alla parola di Pietro, e penetrando nel cuore di altre ben cinquemila persone, le fa credere in quel Gesù ch’elleno stesse hanno crocifisso.Ma non erano queste che le prime prove della vittoria che lo Spirito Santo anto riportava sul cuore degli uomini: non meno efficace della predicazione di Pietro fu la predicazione di tutti gli altri Apostoli ripieni dello stesso divino Spirito. Si sparsero questi per tutto il mondo, e dappertutto predicarono la stessa fede, lo stesso Vangelo, Gesù Cristo, e questo crocifisso; ed a fronte di ostacoli e molti e fortissimi ei insormontabili, la fede e la religione di Cristo si sparse, si stabilì dappertutto rapidamente, e tutto il mondo confessò il suo peccato di non aver creduto in Gesù Cristo, riconobbe in lui il suo liberatore, e rese pienissima testimonianza col fatto siccome allo Spirito Santo che operava questo grandissimo prodigio, così a Gesù Cristo che lo avea predetto: Arguet de peccato, quia non crediderunt in me. Che se lo Spirito santo così convince il mondo intorno al suo peccato, perché non ha creduto in Gesù Cristo, il convince nello stesso tempo e per la stessa ragione intorno alla santità e giustizia di Gesù Cristo, nel quale non hanno creduto: Arguet de justitia. E qual prova può aggiungere più convincente di quella di andarsene egli al Padre suo e togliersi per sempre agli occhi loro? Quia vado ad Patrem, et jam non videbitis me. Imperciocchè, come osserva il nostro santo Padre, erano soliti i Giudei di accusare Gesù Cristo,che non venisse da Dio, e che fosse però un peccatore, un trasgressore della legge, e tale il credevano, e così bassamente pensavano di Lui, perché il vedevano affatto simile ad ogni altro uomo, vestito della stessa carne, soggetto alle stesse infermità, perché conversavano con ogni confidenza con Lui,e trattavano con Lui come con chicchessia: avranno quindi detto fra loro … Possibile che costui, in tutto simile a noi, sia il Figliuol di Dio, il Salvator del mondo, il vero Messia? Ma ascendendo egli ne’ cieli, e togliendosi per sempre agli occhi loro, conviene che ogni calunnia sia rimossa e confusa: Hinc omnis calumnia amovebitur. – Perocchè, così continua ragionando il santo Padre, se per ciò il credono trasgressore della legge, perchè non sia egli da Dio, quando lo Spirito Santo avrà dimostrato che se ne è da qui partito ed è asceso al cielo non già per un’ora, ma per rimanervi per sempre, come il significa con quelle parole, Già più non mi vedrete, Jam non videbitis me; che cosa mai diranno? Quidnam dicent? Può egli un peccatore restarsene per sempre con Dio Padre? Ecco come con questi due argomenti si toglie dall’animo de’ Giudei ogni mal concepito sospetto. Imperciocchè un peccatore non può operare miracoli a suo capriccio; i miracoli sono un effetto soltanto della virtù di Dio, della quale non vuole e non può usarne ad inganno degli uomini: un peccatore non può restarsene per sempre appresso Dio; anzi non può essere con Lui neppure per un momento, essendo riservata la beata presenza di Lui ad essere il premio e la felicità eterna de’ giusti: Ne que enim peccator miracula facere, neque esse apud Deum perpetuo protest. Dunque lo Spirito Santo li convincerà chi io mi sia, né possono più chiamarmi peccatore, e dirmi ch’io non venga da Dio: Quare non possunt me amplius peccatorem et a Deo non esse dicere: li convincerà ch’Io sono l’Agnello di Dio, l’Agnello senza macchia, quale sono stato loro predicato dal mio precursore Giovanni; che sono il Figliuol di Dio, il Salvatore del mondo, quale Io stesso mi sono dichiarato e confermato sempre sino sulla croce; li convincerà ch’egli stesso è mandato da me di là, dove sono ritornato, e ch’Io siedo alla destra di mio Padre; li convincerà finalmente ch’Io sono il santo, il giusto, la santità, la giustizia stessa; e non solo il santo, il giusto, ma la sola sorgente d’ogni santità e giustizia, Arguet de justitia. Imperciocchè non mi vedranno essi più; e tolta sarà dagli occhi loro quella carne inferma, di cui hanno voluto prendersi scandalo, Jam non videbitis me; ma dalle opere dello Spirito santo che io manderò, conosceranno ch’io non sono, quale appariva agli occhi loro, uomo infermo e peccatore, ma Dio onnipotente e giusto, quale il Padre appresso cui sono asceso, Arguet de justitia, quia vado ad Patrem. Vedranno rozzi pescatori parlare le lingue tutte e confondere i saggi del secolo; uomini timidi ed inermi affrontare l’alterigia e le minacce de tiranni, e farli impallidire; uomini deboli ed impotenti comandare alla natura, cangiarne le leggi a loro arbitrio ed operare non mai più veduti prodigi. Ma per virtù di chi, o dilettissimi, se non per virtù di Lui, che prima di ascendere al cielo, già li avea mandati per il mondo a predicare il Vangelo, e muniti d’ogni sua podestà, e costituiti a stabilire il suo regno e la sua fede sulle rovine di tanti imperi e di tanti errori? Vedranno il mondo tutto cangiare in breve tempo maniera di pensare, cangiare costume e abbracciare la religione di Cristo , cui, siccome contraria ai pregiudizi dell’educazione, agli impegni del partito, alle mire della prudenza carnale e a tutte le passioni, avea prima sommamente abborrita e contraddetta. Ma per forza di chi? se non per forza di Lui che già avea predetto, che non lo avrebbero più veduto, ma spedito avrebbe il suo Spirito a rinnovare la faccia della terra? Arguet de justitia, quia vado ad Patrem, et jam non videbitis me. S’alzerà questo mondo e il principe di lui; s’alzerà quel mondo, come riflette sant’Agostino, di cui sta scritto che non lo conobbe, Et mundus eum non cognovit, gli infedeli, cioè, onde tutto il mondo è pieno, hoc est, homines infideles, quibus toto orbe terrarum mundus est plenus: s’alzerà il principe di questo mondo, che dall’Apostolo S. Paolo si appella il principe di queste tenebre, cioè degli infedeli: Princeps tenebrarum harum, hoc est, infidelium: il demonio, in una parola, si alzerà contro questi alti disegni della divina Sapienza. E quanto già prevalse la forza e l’insidia di lui contro Gesù Cristo! Ei gli sovvertì un apostolo e glielo cangið in un traditore; ei gliene avvilì un altro e lo rese uno spergiuro; egli pervertì il cuore de’ sacerdoti, de’ seniori, de’ Giudei, e li rese ingiusti contro di lui e sacrileghi violatori delle leggi e della religione; egli concitò contro Lui l’odio ed il furore del popolo, che poc’anzi lo avea proclamato suo Re, e lo convertì in carnefice, in crocifissore di Lui; egli finalmente arrivò a conficcarlo su di una croce. Poteva sopra di Lui dimostrare potenza maggiore e menare maggior trionfo? Ma ora appunto che sembra giunto al colmo del suo potere e delle sue vittorie, lo Spirito Santo convincerà il mondo intorno al giudizio, alla condanna pronunziata contro di Lui, Arguet de judicio, e dimostrerà ch’Egli è debellato, vinto, giudicato: Arguet de judicio, quia Princeps hujus mundi jam judicatus est. Imperciocchè al solo segno di quella croce, che già fu il grande trofeo di Lui, non daranno più risposta gli idoli, muti si renderanno gli oracoli, e fugati saranno i demonj non solo da’ corpi degli ossessi, ma fuori da tutta la terra, e cacciati negli eterni abissi; e la voce sola di un discepolo di Gesù crocifisso farà rovinare i tempi, rovesciare gli altari degli déi fallaci, e più non si rammenterà l’impero del principe di questo secolo che con fremito e con orrore. Egli si opporrà alla forza ed alla sapienza dello Spirito Santo vincitore, e contro Lui dai profondi abissi, ov’egli è irrevocabilmente cacciato, adoprerà potere ed arte; userà della propria seduzione, userà del ministero di quanti seguaci egli ha nel mondo, ma vani saranno gli sforzi, inutili gli attentati di lui: contro tutte le passioni del cuore, ch’egli risveglierà e ravviverà più che mai, si promulgherà e si abbraccerà la morale evangelica di Gesù Cristo, che ne impone il freno e la mortificazione: sotto la spada onde armerà egli i tiranni per sacrificare nella sua culla, dirò così, la Chiesa di Cristo ancor bambina, crescerà questa vigorosa, e moltiplicherà i suoi figliuoli senza numero: la violenza di ostinate fierissime persecuzioni, colle quali egli si sforzerà di distruggere ne’ suoi principj la Religione di Gesù Cristo, gioverà anzi a stabilirne e dilatarne l’impero; e la crudeltà de’ persecutori, di cui egli si servirà a terrore de’ Cristiani, diverrà pe’ Cristiani – come dice Tertulliano – un allettamento: In christianis crudelitas illecebra facta est; e quanto più ne mieterà colla falce dei tiranni dal campo della Chiesa, diverrà questo tanto più fertile e coperto di messe sempre più abbondante: Quo plures metimur, eo plures efficimur. Stabilita così e dappertutto estesa la santa Chiesa di Gesù Cristo per virtù dello Spirito Santo da dodici pescatori, contro gli sforzi di questo mondo congiurato, e del principe di lui, resterà convinto il mondo, che il demonio co’ suoi seguaci già è giudicato, condannato, e, come dice sant’Agostino, irremissibilmente destinato al giudizio del fuoco eterno, Judicio ignis æterni irrevocabiliter destinatus est; che ogni potere di lui è distrutto, annientato ogni impero, e che verificandosi va la promessa di Gesù Cristo a Pietro, che le porte dell’inferno non prevaleranno giammai contro la sua Chiesa: Arguet de judicio, quia princeps hujus mundi jam judicatus est. Ormai l’opera grande dello Spirito Santo è compiuta. Siamo noi, o dilettissimi, convinti di tutto ciò di cui venne Egli a convincere il mondo? Io non dubito che alcuno di noi non lo sia. Ma dimostriamo poi tutti di esserlo coi fatti? Ahi! che forse non pochi sono bensì convinti e confessano, come dice l’Apostolo, di conoscere Dio, ma lo negano co’ fatti, e colla vita loro smentiscono la loro fede, la loro persuasione: Confitentes se nosse Deum, factis autem negant. Guardinsi costoro, conchiude sant’Agostino, guardinsi dal giudizio che li aspetta, perché, imitando essi il principe di questo mondo già giudicato, devono a tutta ragione temere di non essere con lui condannati: Caveant futurum judicium, ne cum mundi principe damnentur, quem judicatum imitantur.

IL CREDO

Offertorium


Orémus.
Ps LXV:1-2; LXXXV:16
Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja.

[Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’ànima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur.

[O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann XVI:8
Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja.

[Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur.

[Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA