L’UFFICIO DIVINO -II-

L’UFFICIO DIVINO -2-

J.-J.- Gaume, Catechismo di Perseveranza, vol. IV, Torino 1881]

Alle notti peccaminose del mondo la Chiesa ha contrapposto sante vigilie: i suoi angeli sono stati in adorazione davanti a Dio; hanno chiesto misericordia per i traviati; hanno allontanato dall’ovile addormentato i leoni ruggenti, più formidabili nelle tenebre che nel giorno; hanno a vicenda unito le proprie voci e lacrime a quelle degli Angeli per onorare la nascita e l’agonia del Dio di Betlemme e del Getsemani. Che resta loro da fare? La notte è passata; ecco l’aurora che indora coi primi raggi la sommità delle montagne; ecco gli augelli che salutano con i loro lieti gorgheggi lo spuntare del sole; ecco i fiori che schiudendo i loro calici esalano un profumo delizioso, che la brezza del mattino trasporta verso il cielo: si crederebbero migliaia d’incensieri d’oro e di perle accesi davanti a Dio. La natura è un tempio; ecco i musici, ecco l’incenso del sacrificio; tutto si agita, tutto sembra rinascere. Ma di nuovo, che cosa stanno per fare i figli di Dio, gli Angeli della preghiera? Stanno per mescolare la loro voce a quella della natura: l’uffizio del giorno incomincia. Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta, sono le parti che lo compongono. Il Salvatore del mondo ha contrassegnato ciascun’ora del giorno, come quelle della notte con benefizi inestimabili: quindi nasce l’obbligo di benedirLo. Come quelle della notte, le ore del giorno assegnano all’uomo nuovi doveri, e fa di mestieri sollecitare la grazia per adempirli come si conviene. Tale è, generalmente parlando, lo scopo dell’uffizio del giorno; la sua antichità è la più remota [Durandus, lib. V, c. 5.], come ci accingiamo a dimostrare.

.I. Prima. — È questa la prima ora dell’uffìzio del giorno, ed ha il nome di “Prima” Perché era recitata al cominciare del giorno, cioè verso le sei della mattina, secondo l’antica maniera di dividere il tempo. Quest’ora è stata stabilita: 4° per onorare Nostro Signore coperto d’obbrobri dai Giudei e condotto davanti a Pilato; 2° per memoria del suo apparire ai discepoli sul lido del mare, dopo la risurrezione; 3° per offrire a Dio le primizie della giornata, come i Giudei gli offrivano le primizie della messe e dei frutti, per consacrarisi interamente a Lui. – La parte dell’uffizio che chiamasi Prima si compone dell’invocazione, “Deus in adiutorium”, del “Gloria Patri” seguito dall’Alleluia, d’un inno, di tre salmi, d’un’antifona, e d’un capitolo, d’un responsorìo, e di alcune altre preci. L’inno che noi cantiamo a Prima, e che già si cantava fino dal decimo terzo secolo [Durandus, lib. V c. 5], esprime a meraviglia i sentimenti che la fede deve eccitare in un cuore cristiano al nascere del giorno. Alla vista del sole materiale che viene ad illuminare il mondo fisico, noi supplichiamo il sole di giustizia e di verità a levarsi per noi, affinché camminando con la guida infallibile di sua luce evitiamo le tenebre e le insidie del demonio. Noi preghiamo questo sole divino ad essere Egli stesso il nostro condottiere. « Vedete voi queste pecore, dice uno dei nostri padri nella fede [Amalar. Fortunat., 1. IV, De Eccl. Offic., c. 2], le quali, nel corso della notte ricoverate nell’ovile, domandano di uscire all’aperta campagna sin dalla punta del giorno? Esse reclamano un pastore che le conduca ai pascoli, e le protegga dalle insidie dei lupi. Così noi, allorché l’aurora viene a chiamarci alla santa fatica, ci affrettiamo a domandare un maestro che c’istruisca, e un protettore che ci difenda. Abbiamo bisogno dell’uno e dell’altro, poiché senza di esso il lupo infernale verrebbe a disperdere il gregge in luoghi indifesi, e a sbranare le pecorelle ». – Per sfuggire agli agguati del demonio, la Chiesa ci rammenta ammirevolmente nei salmi di Prima, e nel Simbolo di sant’Atanasio, che bisogna vestire quella stessa armatura, che hanno portata tutti gli eroi cristiani: lo scudo della fede, l’elmo della speranza, la spada della carità. Per animarci con maggior efficacia questa attenta madre ne mette sotto gli occhi i combattimenti e i trionfi dei Santi. A Prima, si legge il Martirologio; esso è la storia cruenta, ma gloriosa dei nostri fratelli, che, essendo stati un giorno soldati come noi, si riposano adesso nel cielo sopra i loro immortali allori. – Dopo la lettura del Martirologio, l’officiante dice: “Ella è preziosa davanti a Dio!” — La morte dei suoi Santi, risponde il Coro; e allora in nome di tutti i suoi fratelli, l’officiante medesimo esprime il seguente piissimo voto: « Che la santa Vergine e tutti i Santi ci aiutino con le preghiere che essi per noi indirizzeranno al Signore, a divenir santi in tutte le cose, come è santo Quegli che ne ha chiamati alla perfezione ». Dopo questa preghiera, l’officiante ripete tre volte: Signore, venite in mio aiuto; e il Coro aggiunge: Signore, affrettatevi a soccorrermi. Questa trina ripetizione è destinata a ottener soccorso contro i nostri tre grandi nemici, il demonio, il mondo, la carne. Essa è seguita dal Gloria Patri, affine di ringraziare in nome di tutti i nostri fratelli l’augusta Trinità, mercé della quale la morte dei Santi divenne preziosa, e preziosa pure diverrà la nostra se vorremo. – Ma ohimè! vi sono delle cadute da temere, poiché la debolezza umana è estrema! Innanzi tutto domandiamo misericordia , e tre volte diciamo: Kyrie eleison, ovvero Christe eleison « Signore, Cristo, abbiate pietà di noi »; e per ottenere questa misericordia più sicuramente, noi recitiamo l’Orazione dominicale. La terminiamo supplicando il Padre celeste di dirigere i suoi figli (e i suoi figli siamo noi), e di eccitarci a dirigere i nostri (e i nostri figli sono i nostri pensieri e le nostre opere).

Terza. — Ella è questa la seconda ora dell’Uffizio diurno, la quale ha ricevuto questo nome perché era recitata alla terza ora del giorno, secondo l’antica maniera di computare. Ai dì nostri, Terza corrisponde alle nove ore del mattino. Prima e Terza son composte delle stesse parti, eccettuate le preghiere finali. – La Chiesa che col mezzo dei suoi sacramenti scolpisce ed imprime in qualche maniera la santità su tutti i nostri sensi, scrive ancora i suoi augusti misteri in ciascuna ora della giornata, e il suo Uffizio li richiama successivamente alla nostra adorazione e al nostro amore. Il Salvatore perseguitato dalle implacabili e sanguinose ostilità dei Giudei, attaccato alla colonna per ordine di Pilato, e crudelmente flagellato; lo Spirito Santo che discende sugli Apostoli, e dà vita alla Chiesa: tali sono gli avvenimenti memorabili che celebriamo con le preghiere di Terza, la quale, quanto all’origine, risale al paro delle altre ai tempi apostolici [Ignat., Epist. ad Trall.]. – In memoria della nuova legge, che fu scritta a caratteri di fuoco nel cuore degli Apostoli, si cantano alcuni salmi che celebrano la dolcezza e la perfezione di questa legge di grazia e di amore. L’inno rammenta eziandio la discesa dello Spirito Santo, al quale si porgono vive suppliche, affinché rinnovi in nostro favore le meraviglie del Cenacolo.

III. Sesta. — È questa la terza ora del l’Uffizio del giorno, e corrisponde al mezzodì. Si compone delle stesse parti e ha la stessa antichità della precedente! [Constit. Apostol., lib. VIII, c. 20]. Vi si ricordano delle grandi memorie, giacché quest’ora memorabile è consacrata da grandi avvenimenti. A Terza la Chiesa ci aveva condotti al pretorio, e in faccia di quella colonna insanguinata ella aveva aperte le nostre labbra a pregare. Qui, prendendoci per la mano, ne conduce al Calvario, e soffermandoci addita uno strumento di supplizio. Gesù pendente in croce, ecco il primo oggetto delle nostre preghiere e delle nostre meditazioni all’ora di Sesta. Cosi la Chiesa, penetrata di riconoscenza, ci fa cantare salmi che spirano un ardente amore. “Gli occhi miei si sono stancati nell’aspettazione della tua salute e delle parole di tua giustizia”.[Salmo CXVII1 in cui parlasi della venuta del Salvatore aspettato. A questo passo campeggia una magnifica armonia, che non è sfuggita alla sagacità dei nostri padri nella fede. Istruiti dalla tradizione, insegnano che fu alla sesta ora del giorno che Adamo si rese colpevole e perì mangiando il frutto dell’albero; sicché, per far coincidere la redenzione con la caduta, Gesù volle essere alzato nell’ora medesima sull’albero della nostra salute 8! [Quo tempore eversio fuit eodem rursus facta reparatio. Cyril. Hierosol., Catech. XVI. Teophilact., in Matth. ad ea verba : A sexta autem hora, etc. Ecco ancora alcune altre armonie: « Propter protoplastum Adam… (Chrislus) sexta hora in crucem ascendit, sexlo die sacculi , in sexta hora eiusdem millenarii, et sexta liebdomadis et sexta bora sexti diei, etc » . S. Anast.]. – E un altro ricordo eziandio è proposto alla gratitudine del cristiano, poiché fu appunto nell’ora di sesta che Pietro ebbe la chiara rivelazione della vocazione dei gentili, e che ricevé l’ordine di portare il Vangelo alle nazioni; benefizio inapprezzabile, del quale noi tutti in oggi esperimentiamo gli effetti preziosi. Forseché il Figlio di Dio confitto in croce, e Pietro che porta il Vangelo alle nazioni, non sono memorie più che bastanti per eccitare il nostro fervore e la nostra riconoscenza durante questa nuova ora?

Nona. — Questa che viene a continuare le riferite ammirabili memorie, è la quarta ora dell’Uffizio del giorno. Per noi è la terza ora di sera, e per gli antichi era la nona del giorno; dal che appunto ha sortito il nome. Ella contiene le stesse parti che le precedenti, e risale alla stessa antichità [Basil., in Regul. interrog. 34]. – La Chiesa si ritiene ancora sul grande teatro dei dolori ; il sole oscurato, la terra vacillante, il velo del tempio squarciato, l’Uomo-Dio spirante, il fianco del nuovo Adamo aperto dalla lancia del soldato, e che dà vita alla nuova Eva, vale a dire la Chiesa cattolica nostra tenera madre: ecco gli avvenimenti che quest’ora ci rammenta. Quali altri sarebbero più idonei a farci versare davanti a Dio lacrime e preghiere? I salmi delle brevi ore della Domenica ci offrono un’armonia sì bella, che non possiamo astenerci dall’esporla alla vostra ammirazione. Essa vi farà conoscere che tutto, tutto fino ad un iota, è disposto negli uffizi della Chiesa con una saggezza e una profondità di disegno che non potranno mai essere abbastanza encomiate. – Tutte le brevi ore di questo giorno son composte di due salmi, di cui il secondo è distribuito a Prima, a Terza, a Sesta e a Nona ; ed ogni divisione di questo salmo contiene sedici versetti. Per qual ragione questi due salmi soli? A che questi sedici versetti? 1 due salmi rammentano le due alleanze di Dio con gli uomini: l’antica e la nuova. I sedici versetti significano gli interpreti di questa doppia alleanza. Per l’antica i dodici minori profeti, e i quattro maggiori: per la nuova i dodici Apostoli e i quattro Evangelisti [Durandus, lib. V, c. 5]. – I salmi e gl’inni di codeste ore sono egualmente in accordo con le differenti ore del giorno nelle quali noi li recitiamo. Al levar del sole il principio; a Terza la continuazione; a Sesta la perfezione ; a Nona la fine della carità e della vita; giacché, pur troppo! la vita non è che un giorno!

  1. I Vespri. — I Vespri sono la quinta ora dell’Uffizio del giorno, e la loro antichità è uguale a quella della Chiesa [Constit. Apost., lib. VIII, c. 40]. – Oh! come a giusta ragione la madre nostra ha consacrato quest’ora alla preghiera! Quante memorie ne rammenta! Primieramente il sacrificio della sera offerto ogni giorno al tempio di Gerusalemme; quindi l’istituzione della santa Eucaristia; infine la deposizione dalla croce, e la sepoltura di Nostro Signore. Tali sono le ragioni, per cui la Chiesa desidera si vivamente che i fedeli stiano pregando durante quest’ora memorabile. – Ma conoscono essi forse il pregio della preghiera, sentono essi battere di riconoscenza il loro cuore quei cristiani di ogni età e di ogni condizione, che sdegnano d’assistere al Vespro? I Vespri, udiamo rispondere con empia leggerezza, i Vespri sono pei preti. Ma non è dunque per tutti i cristiani che è stata istituita la santa Eucaristia? Non dovete voi dunque niente a Dio per questo benefizio? Non è dunque per voi che Gesù Cristo è stato immolato? L’ora, in cui questi grandi miracoli sono stati operati, è dunque muta, insignificante, inefficace sul vostro cuore? Che fate voi dunque durante quest’ora memorabile, in cui lacrime ardenti dovrebbero sgorgare dai vostri occhi, e unirsi a preghiere anche più ardenti ? Ah! se voglio saperlo, interrogo le pubbliche piazze, i pubblici passeggi, le case da giuoco, li passatempi, ed essi mi rispondono pur troppo. E che? Non arrossirete giammai di ferire in tal modo la dignità del cristiano? O nostri padri nella fede! che cosa avreste pensato, se vi fosse stato detto che i tardi nipoti profanerebbero un’ora sì santa, un’ora commemoratrice di tanti benefizi! Vergogna a coloro che sentono la riconoscenza come un peso gravoso e difficile! I cuori che si rendono ingrati son cuori malvagi; e rassomigliano a quei frutti che il sole non può maturare, e che son privi perciò di sapore e di odore. Onta ai cuori servili, a quei pessimi cristiani che non si recano in chiesa alla mattina che spinti dal solo timor servile; mentre alla sera, allorché non vi è anatema e minaccia di peccato mortale, se ne dispensano affatto! – Per noi, cristiani docili, più i vespri sono abbandonati, più dobbiamo farci un dovere di assistervi; le nostre obbligazioni hanno da crescere in proporzione dell’indifferenza dei più. Rechiamoci al piede degli altari a pregare, a gemere, ad adorare, a ringraziare pei nostri ingrati fratelli; e noi fortunati, se potremo compensare colla nostra pietà il loro Salvatore e il nostro! – La bellezza dell’uffizio della sera basterebbe per sé sola a renderci assidui al medesimo. I vespri si compongono di cinque salmi, di cinque antifone, di un capitolo, di un inno, del Magnificat e d’una sola orazione, se per altro non si fa commemorazione di qualche festa speciale. – Questo numero cinque è stato stabilito per onorare le cinque piaghe di Nostro Signore, e per espiare i peccati che abbiamo commessi nel corso della giornata abusando dei nostri cinque sensi. – La tromba della Chiesa militante, la campana, risuonò tre volte: la prima per annunziare l’uffizio; la seconda per dirci che è tempo di partire; la terza per significare che l’uffizio comincia. Arrivati alla chiesa, il clero e i fedeli si raccolgono in sè stessi un breve istante, e preparano la loro anima alla preghiera, recitando il Pater e l‘Ave Maria, le quali due orazioni si dicono in ginocchio e in silenzio. Si dà principio col segno della croce, per invocare il soccorso della santa Trinità, e per confessare i misteri della Incarnazione e della Redenzione. La mano che nel tracciare il segno augusto si porta a quattro parti, ne dice che il Figlio di Dio è venuto a chiamare i suoi eletti, dispersi ai quattro angoli della terra. Quando dunque vedete l’officiante, dall’alto del suo seggio, fare il segno adorabile, rappresentatevi Gesù Cristo sulla croce in vetta al Calvario, colle braccia stese per accogliervi i figli di Adamo divenuti suoi, e tutti chiamare, tutti stringere al suo cuore con questa parola d’ineffabile amore: “Sitio”; Io ho sete, sete di voi ». Facendo il segno della croce, il sacerdote, stando rivolto verso l’altare, dice: “Deus in adiutorium meum intende”: « O Dio, venite in mio aiuto »; e i fedeli egualmente in piedi e volti verso l’altare, per esprimere che la confidenza è tutta intera nei meriti di Gesù Cristo, rispondono con effusione, “Domine, ad adiuvandum me festina”: «. Signore, affrettatevi a soccorrermi ». – Quindi per maggiormente testimoniare la gratitudine, che loro ispira questa celeste protezione, essi cantano con entusiasmo di amore il “Gloria Patri, etc”: «Gloria al Padre, ecc. ». La loro gioia ed il loro ardore nel pubblicare le lodi del loro Padre che è nei Cieli, si manifestano con queste parole: Alleluia, Alleluia: « Allegrezza, felicità ». – Nel corso della quaresima, tempo di digiuno e di penitenza, l’ “Alleluiaè surrogato da queste parole, che hanno lo stesso senso: “Laus tibi, Domine, rex aeternae gloriae”: « Lode a voi, o Signore, eterno re della gloria ». – Detta appena l’antifona, che è destinata a infiammare la nostra carità, un corista intona il primo salmo: “Dixit Dominus Domino meo” « Il Signore, Padre eterno, Dio onnipossente, ha detto a Gesù Cristo, suo Figlio, e mio Signore NEL GIORNO DELLA SUA GLORIOSA ASCENSIONE: Siedi alla mia destra».In questo magnifico salmo la Chiesa canta la generazione eterna del Figlio di Dio, il suo sacerdozio’ egualmente eterno, come anche il suo dominio eterno e assoluto sul mondo, divenuto la conquista della Croce. Ma che? i vespri non son forse destinati ad onorare i funerali di Gesù Cristo? Come avviene dunque che la Chiesa, questa tenera Sposa, inginocchiata, per cosi dire, sulla tomba del suo divino Sposo, fa risuonare soltanto all’orecchio de’suoi figli canti di gioia, ed inni di trionfo e d’immortalità? Ah! ciò avviene perch’ella vede la vita uscire dal seno della morte; vede la vittoria scaturire dai patimenti! E questo nobile pensiero non sarà per tutti noi un’eloquente lezione? Il secondo salmo dei vespri della domenica è il “Confitebor”: « Io vi loderò, o Signore ». Esso è come una continuazione del primo. Per la bocca di David, la Chiesa canta i benefizi che ne procura il regno del suo divino Sposo, e celebra in particolare l’istituzione del divino banchetto, al quale sono invitate tutte le generazioni che vengono in questo mondo!Che cosa rimane adesso, se non che descrivere la felicità di quelli, che si sottomettono all’impero di Gesù Cristo? E ciò fa la Chiesa nel salmo, “Beatus vir qui timet Dominum”: « Felice l’uomo che teme il Signore ». Allato alla descrizione semplice e affettuosa della felicità dell’uomo giusto che teme Iddio e osserva i suoi comandamenti, la Chiesa pone il quadro del peccatore. Durante la sua vita, egli è tristo e disgraziato; al momento della morte, digrigna i denti e irrigidisce per lo spavento; defunto, egli entra nel luogo dei supplizi, alla porta del quale egli lascia la speranza: la speranza di uscirne mai più! La Chiesa nel salmo precedente ha ricordato ai giusti che il Signore li renderà felici, se porteranno il suo amabile giogo. Che di più naturale che l’esortarli adesso a cantare la loro felicità? Ed ecco che questa tenera madre, appropriandosi la voce del Re profeta, li esorta a lodare e a benedire la grandezza, la potenza, e soprattutto l’ammirabile bontà del loro Padre celeste : “Laudate, pueri, Dominum, laudate nomen Domini” : « Miei figli, lodate il Signore, lodate il nome del Signore ». Questo invito provoca uno slancio di amore; e tutte le bocche e tutti i cuori si uniscono per rispondere: «Sì, che il nome del Signore sia benedetto: fin da ora e fin ai secoli dei secoli »: “Sit nomen Domini benedictum, ex hoc nunc et usque in sæculum”; e nel seguito di questo ammirabile salmo ognuno proclama a gara le ragioni particolari che ha di benedire il Dio buono, il Dio che veglia sul povero e sul debole, come sopra la pupilla degli occhi proprii.Dalle ragioni personali che muovono ciascuno di noi, e tutti gli uomini in generale, a benedire Iddio e ad amarLo, la Chiesa passa alle ragioni riguardanti la grande famiglia cattolica. A meno che non si chiuda in petto un cuore di marmo, questi benefizi sono stati tali, che dobbiamo struggerci d’amore al ricordarli. Tale è l’oggetto del quinto salmo: “In exìtu Israel de Ægypto, domus Jacob de popolo barbaro”: « Allorché Israele uscì dall’Egitto, e la casa di Giacobbe si partì da un popolo barbaro ». Qui la Chiesa ne fa risalire più che tremila cinquecento anni addietro, e fermandoci sulle rive del mar Rosso, e nel deserto del Sinai, discopre agli occhi nostri il quadro splendidissimo delle meraviglie e dei prodigi che Dio operò per liberare Israele dall’Egitto, e per farlo entrare nella Terra promessa. E sotto il simbolo di questi miracoli dell’Egitto e del Mar Rosso, del Deserto e del Sinai, essa ce ne fa vedere dei più gloriosi e dei più consolanti, operati in nostro favore; vale a dire la nostra liberazione dal demonio, dal peccato, dalla morte, dall’inferno, mediante il Battesimo. Ella ci mostra, in quelli nascosta, la fede che ne conduce attraverso del deserto della vita, come la colonna conduceva Israele; la legge di grazia discendente dal Calvario, come la legge antica discendeva dal Sinai, il pane degli Angeli, nutrimento dell’anima nostra, come la manna nutrimento degli Ebrei; e questi miracoli della legge nuova ci son presentati essi stessi come un contrassegno dei miracoli più grandi ancora, per mezzo dei quali il Signore vuol condurci dal deserto della vita nella celeste Gerusalemme: tali sono i benefici che la Chiesa ci ricorda. Quindi, come Davide, paragonando Dio onnipotente e forte agli Idoli deboli ed insensati delle nazioni gentili, questa tenera madre ci stimola, con tutto l’affetto e tutta l’estensione della sua carità del suo zelo, ad abiurare il culto degli dei menzogneri per attaccarci irrevocabilmente al Signore, che ci ha dato contrassegni sì luminosi della sua grandezza, della sua potenza e della sua bontà. – Questo salmo, al quale la poesia propina non ha nulla da paragonare, è seguito dall’Antifona e dal Capitolo. Il Capitolo delle domeniche ordinarie è tolto dall’Epistola di S. Paolo agli Efesini: “Bexedictus Deus”, ecc.: « Benedetto Dio e Padre del Signor Nostro Gesù Cristo, il quale: ha benedetti con ogni benedizione spirituale del Cielo in Gesù Cristo, siccome in Lui ci elesse prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi ed immacolati nel cospetto di lui per carità » (Ephes. 1,3,4.). – L’officiante legge in piedi il Capitolo, e li indirizza ai fedeli che hanno cantato le lodi a Dio, affine d’incoraggiare il loro zelo, e di dare alla pietà un nuovo alimento.Questa attitudine, voluta dal decoro, conviene alle sante parole che egli pronunzia, ed esprime il rispetto che porta ai membri di Gesù Cristo che l’ascoltano. L’adunanza ascolta con riconoscenza questa breve esortazione, e risponde: “Deo gratias” : « Sien grazie a Dio »Ciò fatto s’intona l’inno: l’inno, che è espressione di amore, di coraggio, d’incitamento a compiere gli ammaestramenti ricevuti; l’inno è il canto di un esercito che s’incammina alla pugna. Esso varia secondo la festa, affinché sempre appalesi sentimenti analoghi alla circostanza. Il regno di Gesù Cristo cominciato sopra la consumato nel cielo, ecco ciò che la Chiesa canta nella domenica; quindi l’inno dei vespri della domenica è un lungo sospiro verso il cielo. Felice il cristiano che sa penetrarsi dello spirito di questa santa preghiera! Il suo cuore prova una consolazione e una felicità che il mondo e i suoi piaceri non potrebbero dargli! – La Chiesa ha cantato i benefizi del Signore, ha veduto nel passato la sua Ideazione dal demonio, il proprio stabilimento sulla terra, i favori infiniti, di cui è stata oggetto: ha veduto nell’avvenire il cielo schiuso per riceverla e compiere la sua felicità eterna. Come esprimerà tutta la sua riconoscenza? Per non soccombere sotto il peso, cerca un interprete de’ sentimenti che prova; ed eccolo. In luogo di una sua, s’alza una voce, al suono della quale il cielo e la terra debbono far silenzio; una voce sì soave, sì pura, sì melodiosa, e nello stesso tempo sì possente, che rallegra infallibilmente il cuore di Dio; questa voce è quella dell’augusta Maria, della madre dei cristiani. Ecco pertanto la dolce Vergine di Giuda, la madre di Dio, la Vergine per eccellenza, la Vergine del Cielo, che sta per esprimere la riconoscenza della Vergine della terra, la casta sposa dell’Uomo-Dio, la Chiesa cattolica. – S’intona il Magnificat, quel canto sublime, slancio d’ineffabile amore, poema in dieci canti, profezia magnifica, che valse a Maria il titolo glorioso di Regina dei profeti: «La mia anima glorifica il Signore, ecc. ». Si sta ritti durante il Magnificat, per rispetto alle parole di Maria, e perché questa nobile attitudine ben dimostra la gioia e il contento di un cuore colmo di grazie, e disposto a tutto intraprendere per testimoniare al suo benefattore il sentimento della gratitudine. Nel tempo del Magnificat l’officiante esce dal suo posto e va rivestirsi del piviale. Bentosto preceduto da un chierico che porta l’incensiere, egli sale all’altare, prende la navicella dell’incenso, ne mette sul fuoco, e dice le parole: “Ab illo beneficaris, in cuius honore cremaberìs” : « Sii benedetto da Colui, in onore del quale sarai consumato ». Pronunciando tali parole, fa il segno della croce per ricordare che pei soli meriti di Gesù Cristo ogni benedizione si spande sulla terra; quindi egli prende il turibolo dalle mani del chierico; incensa tre volte la croce posta sopra il tabernacolo, prima a destra, poscia a sinistra, infine da ciascuna parte, come per circondare l’altare, figura di Gesù Cristo, col profumo che dal fuoco esala e che è simbolo della fede dei cristiani e del fervore delle loro preghiere. – Terminata questa cerimonia, il chierico incensa il celebrante, e con ciò gli rende onore come al rappresentante di Gesù Cristo. Il prete dice in seguito: “Dominus vobiscum”; « Che il Signore sia con voi »; alle quali parole i fedeli rispondono: “Et cum spiritu tuo”; « E che egli sia col tuo spirito ». Seguita poscia immediatamente l’orazione della messa chiamata Colletta, perché riunisce in qualche modo le preghiere indirizzarte a Dio. Dettosi di nuovo dal sacerdote “Dominus vobiscum”, augurio di pace e di carità, i chierici invitano i fedeli a lodare e a benedire il Signore con queste parole: “Benedicamus Domino”; « Benediciamo il Signore »; e tutti gli assistenti rispondono: “Deo gratias” : « Noi ringraziamo Iddio ». Così termina questa parte dell’uffizio della sera. Si può egli immaginare qualche cosa più bella, più completa, meglio ordinata?

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio d’avermi istruito nelle sante cerimonie del vostro culto ; fate che esse accendano in me lo spirito della fede e della preghiera. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, ed in prova di questo amore io assisterò regolarmente al vespro.

Compieta. — Colmo di benefizi l’uomo ha espresso a Dio la propria gratitudine; egli è animato da ottime disposizioni, la terra gli sembra trista, la vita pesante, i suoi sospiri sono pel cielo; ma il suo esilio non è finito, e più d’una prova gli resta a subire. Ormai il giorno nel suo tramonto annunzia l’avvicinarsi della notte, tempo funesto sotto ogni rapporto; che l’uomo, soldato stanco, va a dormire, ma il demonio non dormirà, ed al contrario moltiplicherà le sue insidie. Egli, leone che rugge, va attorno con maggior furore per rapire e sbranare qualche pecorella. Ecco quale addiviene la posizione dell’uomo al cadere del giorno! Se venisse a domandarvi che cosa deve fare per evitare gli agguati del nemico e conservarsi fedele a Dio fino al ritorno della luce, quale consiglio gli dareste voi? Aspettando la vostra risposta, io vi spiegherò i suggerimenti della Chiesa; poscia voi mi direte se conoscete alcun che di meglio. « Mio figlio, essa gli dice, gettati tra le braccia del tuo Padre celeste; sii sobri, e vigilante; prega il tuo angelo custode e i santi che amano di proteggerti; sopra tutti prega Maria di vegliar su di te come una tenera madre veglia sul suo figlio che dorme: riposa in pace sotto la potente loro protezione, e non potrà nuocerti il demonio ». E per fortificare nel cristiano questi vivi sentimenti di una ingenua confidenza la Chiesa gli fa recitare Compieta. [Compieta significa complemento, poiché quest’Ora compisce l’Uffizio]. – Ecco la prova di ciò che abbiam detto nella spiegazione di questa ultima ora dell’uffìzio. – Compieta comincia con queste parole: Convertiteci, o Dio, voi che siete il nostro Salvatore, e allontanate da noi la vostra collera. La sola cosa che possa far allontanare Dio da noi e impedirgli d’avere pel nostro riposo quella cura paterna che domandiamo, si è il peccato. Ecco perché si comincia dal pregarlo di purificarcene e di convertirci di tutto cuore; noi Gli diamo il più potente motivo a ciò, ricordandogli che è il nostro Salvatore. – Il primo salmo ne fa ricordare il Re- Profeta che esprime al Signore la propria gratitudine, vivamente penetrato da una effusione di carità pei benefizi ricevuti, e che implora il soccorso contro i suoi nemici. – È in Dio riposta la sua fiducia, e sul seno paterno di lui assolutamente si riposa. Qual cantico poteva star meglio sulla bocca del cristiano, di questo nuovo Re-Profeta, il quale dopo aver pugnato contro i suoi nemici e dopo aver terminata la sua giornata con l’aiuto di Dio, cerca in un riposo necessario di prender nuove forze e nuovo vigore per combattere l’insidiatore della sua salute? Tale è il senso del salmo Cum invocarem: « Allorché io ho invocato questo Dio autore della mia giustizia egli mi ha esaudito ». « Miei figli, invocate dunque il Signore, ne dice la Chiesa in questo primo cantico, e la vostra speranza non andrà fallita ». – Volete sapere in qual modo Iddio protegga l’uomo, che spera in Lui? Il secondo salmo ve ne istruisce. Esso ci mostra effettivamente l’uomo che abita sotto la custodia dell’Altissimo e trova quiete inalterabile nella protezione del Dio del cielo; il demonio e i suoi agguati, gli empi e le loro macchinazioni nulla possono a danno del giusto: “Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur”: « Quegli che si appoggia al braccio dell’Onnipotente, vive in pace sotto la protezione del Dio del cielo ». – Ora che resta? Un avviso da darsi a noi, ma un avviso importantissimo; cioè di stare in guardia, e se ci svegliamo nella notte, di volger subito il nostro cuore a Dio. Tale è l’oggetto del terzo salmo: “Ecce nunc benedicite Domino”: « Adesso dunque benedite il Signore ». Se così è, conclude la Chiesa: “Dall’alto della montagna di Sion, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra, vi benedirà”. Tutti i cuori e le voci si riuniscono per cantare l’antifona; per assicurar cioè che saranno fedeli a queste sagge raccomandazioni L’inno che segue è un lungo sospiro verso il cielo, ed è come il principio di quella preghiera notturna che non mancheremo di fare, se siamo colti dalla veglia insonne. L’officiante, recitando il capitolo subito dopo che è cantato l’inno, soggiunge questa bella preghiera tolta dal profeta Geremia: “Tu autem in nobis es Domine, et nomen sanctum tuum invocatum est super nos, ne derelinquas nos, Domine Deus noster”: « Ma tu, o Signore, sei con noi, ed il tuo santo nome fu sopra di noi invocato; non abbandonarci, o Signore Dio nostro ». [4 I Thess. V, 5]. – I fedeli ringraziano il sacerdote, e benedicono il Signore con queste parole: Deo gratias: « Noi ne ringraziamo Iddio ». – Qui comincia tra tutti questi figli della stessa famiglia, riuniti di presente ai piedi del loro Padre comune, e fra poco dispersi nelle loro particolari dimore, un colloquio, una specie d’addio, di buonanotte cristiana, la cui tenerezza e la cui mirabile semplicità non può con parola venire espressa: spetta al cuore di comprenderla. – Un fanciullo del coro canta colla sua voce pura come quella di un angiolo: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum” – « affido l’anima mia ». – I fedeli rispondono: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; « Tra le vostre mani, o Signore, affido l’anima mia ».II fanciullo del coro : “Redemisti me, Domine, Deus veritatis”: « Voi mi avete redento, o Signore, Dio di verità ». L’angiolo della terra espone a Dio i più potenti motivi di proteggerci; noi gli apparteniamo, Egli ci ha ricomprati a prezzo infinito, Egli è il Dio di verità, fedele alle sue promesse; Egli adunque non può mancare di proteggerci. – I fedeli: “Commendo spiritum meum”: « Affido l’anima mia ». – Il fanciullo del coro : “Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto”; « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo ». – I fedeli: “In manus tuas, Dumine, commendo spirito meum”; « Tra le vostre mani, o Signore affido l’anima mia ».Il pensiero dell’esilio e dell’avvicinarsi dei pericoli della notte, diffonde in questa risposta una malinconia che non permette di terminare il Gloria Patri: « Come era al principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli ». Queste parole sono riservate alla vera patria: la Chiesa della terra non le fa udire che nel momento delle solenni allegrezze. Il fanciullo del coro: “Custodi me, Domine, ut pupillam oculi”: « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio ». I fedeli : “Sub umbra alarum tuarum protege me”: « Proteggimi all’ ombra delle tue ali ».Ditemi, per fede vostra, conoscete voi qualche cosa di più bello che questo colloquio? Qualche cosa che meglio dipinga il candore di un fanciulletto tra le braccia del padre suo? Questo figlio prediletto, sicuro che il Dio che regna nel cielo l’ama con la tenerezza di un padre, non ha altro desiderio che di abbandonare questa terra di esilio, questa valle di lagrime, e di giungere a fruire della pace nel seno del Signore. Ed ecco la madre sua, la Chiesa cattolica, sempre così bene ispirata, che gli mette in bocca le parole del vecchio Simeone, il quale dopo aver veduto la salute d’Israele, non domandava altro che la morte: “Nunc dimittis”: « Lascia ora , o mio Dio, partire in pace il tuo servo ». Segue una preghiera, che ammirabilmente riassume le domande indirizzate a Dio nella Compieta. – Ecco dunque la famiglia cristiana sul punto di separarsi. Quegli che sulla terra ne è capo e padre non può lasciare i figli senza augurar loro le più abbondanti benedizioni; quindi il sacerdote non contento dell’ordinario saluto, “Dominus vobiscum”: « Che il Signore sia con voi », ha ricorso ad espressioni più toccanti, e che meglio palesino l’affezione che porta ad essi, non che il desiderio ch’Egli ha di vederli felici. Esso dice : “Benedicat et custodiat nos omnipotens et misericors Dominus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus. Amen”: « Che ci benedica e ci custodisca l’onnipotente e misericordioso Signore, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Così sia ».Prima di partire, tutti insieme salutano un’ultima volta la loro tenera Madre che è in cielo; essi la supplicano di volgere sui figli suoi gli sguardi della sua misericordia, e di aprir loro le sue braccia materne. Qual altro asilo infatti è più sicuro del seno di una madre? E allora voi udite le vòlte del tempio echeggiare a vicenda della Salve Regina, dell’Alma Redemptoris, dell’Ave Regina Coelorum, che gli angioli ascoltano con gioia e vanno a ripetere sulle loro arpe d’oro nella celeste Gerusalemme ai piedi della Vergine piena di grazia, nostra madre e loro regina.Andate adesso, o diletti figli, dormite in pace, il rimorso non turberà il vostro sonno, non angustierà l’anima vostra. « Per tal modo la domenica scorre giuliva per quelli che sanno veramente santificarla! la preghiera, la carità, gioie innocenti, familiari riunioni, diletti pacifici l’hanno abbellita; e quando questa giornata è finita, quando con tutti gli altri giorni va a cadere nell’abisso del passato, vi scende luminosa per le buone opere che ha fatto compire e profumato dall’incenso bruciato davanti agli altari » [Quadro poetico delle Feste Cristiane, del Visconte Walsh]. – Diamo termine a ciò che riguarda la compieta, aggiungendo che questa ultima ora dell’uffizio diurno si trova accennata negli antichi Padri della Chiesa [Basii., in Regul. interr. 37. — Clem. Alex., lib. II io. D. Paedag., c. 4. — Isid., De Offic. Eccles., lib. I , cap. 21]. L’uso di pregare prima di prendere il consueto riposo sembra stabilito dalla natura stessa. – La Chiesa l’ha consacrato, e ordinandoci di ringraziare Dio alla fine della giornata, ella propone alla nostra adorazione il Salvatore messo nel sepolcro, di maniera che nel suo uffizio quotidiano ella onora il suo divino Sposo dalla sua nascita fino alla sua sepoltura. Che bel soggetto di meditazione pei suoi figli! Che mezzo ammirabile di renderli quali devono essere, cioè altrettanti Gesù Cristo [Christianus, alter Christus].

Uso del latino. — La Chiesa offre a Dio tutte le ore del suo uffizio in una lingua ignorata oggi giorno dalla pluralità dei fedeli; ed essa a Lui le indirizza cantando. È conveniente di farvi ammirare in questo doppio uso la profonda sapienza della madre vostra. E primieramente perché si usa la lingua latina nelle pubbliche preghiere? – 1° Per conservare l’unità della fede, colla nascita del Cristianesimo, il servizio divino si faceva in lingua volgare nella maggior parte delle chiese. Ma anche le lingue, come tutte le umane cose, sono soggette a mutazioni. La lingua francese, per esempio, non è più la stessa di quella di duecento anni fa; molte parole sono antiquate, altre han cangiato senso. Il giro delle frasi differisce tanto, quanto le nostre mode differiscono da quelle dei nostri avi . Ma una cosa deve restare immutabile, e questa si è la fede; onde per metterla al coperto da questa perpetua instabilità delle lingue viventi, la Chiesa cattolica impiega una favella costante, una lingua, che, non essendo più parlata, non è più soggetta a cangiarsi. L’esperienza ne mostra che la Chiesa è stata, qui come dappertutto, diretta da una sapienza divina. – Osservate infatti ciò che accade ai protestanti: essi hanno voluto impiegare nelle loro liturgie le lingue viventi, ed ecco che sono incessantemente obbligati a rinnovare le formule, a ritoccare le versioni della Bibbia; ed eccovi alterazioni infinite! Se la Chiesa li avesse imitati sarebbe stato necessario che ad ogni cinquant’anni si riunissero i concilii generali per redigere nuove formule circa l’amministrazione dei sacramenti. – 2° Per conservare la cattolicità della fede. L’unità di favella è necessaria per mantenere un legame più stretto e una comunicazione di dottrina più facile tra le differenti Chiese del mondo, e per renderle più stabilmente attaccate al centro dell’unità cattolica. Togliete la lingua latina, ed ecco che il sacerdote italiano che viaggia in Francia, o il sacerdote francese che viaggia in Italia non può più celebrare i santi misteri, né amministrare i sacramenti. Questo è appunto ciò che accade al protestante; fuori della sua patria, egli non può più partecipare al culto pubblico. – Un cattolico non è fuor di paese in alcuna delle contrade della Chiesa latina. – Sia lode pertanto ai sovrani Pontefici, che non hanno trascurato verun mezzo per introdurre ovunque la liturgia romana; sicché l’uomo imparziale scorge qui pure una prova novella del loro luminoso zelo per la cattolicità, carattere augusto della vera Chiesa. Ohimè! se i Greci e i Latini avessero avuto uno stesso linguaggio, non sarebbe stato sì facile a Fozio e ai suoi aderenti di trascinare tutta la Chiesa greca nello scisma, attribuendo alla Chiesa romana errori e abusi, di cui non fu colpevole giammai! 3° Per conservare alla Religione la maestà che le conviene. Una lingua dotta, e che è intesa soltanto dagli uomini istruiti, ispira più rispetto del gergo popolare. I più santi misteri parrebbero forse ridicoli, se fossero espressi in sermone troppo famigliare. E questo è cosi vero, che gli stessi protestanti, nemici giurati della lingua romana, se ne sono accorti come gli altri; ma piuttosto che rinunziare ai loro anticattolici pregiudizi, han voluto divenire incoerenti a sé stessi, ed hanno fatto tradurre l’uffizio divino in francese. A meraviglia : ma i Bassi-Bretoni, i Piecardi, gli Alvergnesi, i Guasconi non avevano forse egual diritto di udire l’uffizio divino nei loro dialetti, come i Calvinisti di Parigi di udirlo in francese? Perchè mai i riformatori, così zelanti per l’istruzione del basso popolo, non hanno tradotto la liturgia della santa Scrittura in tutti questi dialetti? Non avrebbe ciò a parer loro contribuito a render la Religione più rispettabile? [Bergier, art. Langue]. Al contrario, la lingua greca in Oriente, la lingua latina in Occidente, doppio idioma del popolo-re, conservano qualche cosa della maestà romana, che conviene perfettamente alla maestà molto più grande della Chiesa cattolica. A una Religione padrona del mondo la lingua dei dominatori del mondo, come a una dottrina immortale una lingua invariabile. Ma se la Religione e la ragione debbono ringraziare la Chiesa cattolica per aver adottate le lingue greca e latina, le scienze non le debbono minor gratitudine. Immortalando la loro favella, la Chiesa ha rese immortali le letterature dei Greci e dei Romani, siccome i Papi hanno salvato, santificandoli, i monumenti dei Cesari. Senza la croce che le è soprapposta, da lungo tempo la colonna Traiana non sarebbe più in piedi. – Del resto, non è vero, che per l’uso di una lingua morta i fedeli si trovino privati della cognizione di quello che è contenuto nella liturgia. Anziché interdir loro questa conoscenza, la Chiesa raccomanda ai suoi ministri di spiegare al popolo le differenti parti del santo Sacrificio, e il senso delle pubbliche preghiere. [Conc. Trid., sess. XXII, c. VlII]. – Di più ella non ha assolutamente proibito le traduzioni delle preghiere della liturgia, per le quali il popolo può vedere nella sua lingua quello che i sacerdoti dicono all’altare. Non è dunque vero, come ne l’accusano i protestanti, ch’ella abbia voluto nascondere i suoi misteri: no, ella ha solamente voluto mettersi al coperto dalle alterazioni, conseguenza inevitabile dei cambiamenti di linguaggio [Bona, Rer. Liturg., lib. I , c. V, p. 53].

Uso del canto. — Dall’idioma della Chiesa cattolica passiamo al suo canto ed esponiamone rapidamente l’origine, l’uso, la bellezza. Il canto è naturale all’uomo, e si rinviene presso tutti i popoli; il canto è essenzialmente religioso, e fin dal principio si vede da per tutto impiegato nei culto divino. Quest’accordo universale prova che il canto è gradevole al Signore, e che è un mezzo legittimo di rendergli una parte del culto che Gli dobbiamo. Ma che cosa è il canto? Esso, risponde un antico e pio autore, è il linguaggio degli angeli [Durandus, lib. V, c. 11]; forse è il linguaggio che l’uomo parlava primi della sua caduta. In questa ipotesi, la nostra attuale parola non sarebbe che un avanzamento di quella parola primitiva. * [Annuali di Filosofia Cristiana, an. 1830]. – Essendo l’uomo stato interamente degradato dal peccato originale, si comprende che la sua favella abbia dovuto subire una degradazione corrispondente. Almeno sembra che il canto sarà il linguaggio del cielo, o dell’uomo interamente rigenerato, poiché non parlasi che di canti e d’armonie tra i felici abitanti della celeste Gerusalemme. Checché ne sia di queste congetture, il canto sarà sempre l’espressione viva e misurata dei sentimenti dell’anima: il suo potere è magico, ed è questo un altro mistero. – Per ricordare all’uomo la sua lingua primitiva, o per insegnargli quella che deve parlare in cielo, la Religione ha consacrato l’uso del canto nei suoi divini esercizi. Ella non vuole che gli uomini si adunino al piede degli altari senza parlare il linguaggio degli Angeli, o la lingua dell’innocenza. L’uomo esiliato ri trova nei nostri templi l’idioma e il cammino della sua patria: re decaduto, quivi pure gli è dato di balbettare la lingua che parlò nei giorni della sua felicità. Si può ideare un insegnamento più utile, un pensiero più ammirabile? Il canto arreca ancora altri vantaggi: esso muove il cuore e lo eccita alla divozione [S. Aug., Confess. lib. VI]; scaccia la tiepidezza nelle pratiche religiose, infonde una santa letizia e inspira alacrità nella recita dell’uffizio divino, che senza ciò potrebbe talvolta sembrar lungo, e ingenerare ben anche della noia [S. Basil., In Psal. I. — Lactant., lib. VI, cap. 21. — S. Chrys., In Psal. 41]; egli è come una professione solenne di fede e di amore, mercé della quale ci rechiamo a vanto d’invocare il Signor Nostro, e di celebrare le sue lodi senza tener conto dei sarcasmi e delle bestemmie dell’empietà [Ruff, Hist., lib. X , c. 35, 37. — Theodoret., lib. III, c. I]; finalmente dissipa le suggestioni del demonio, ci merita i favori del cielo, e rende propizio lo Spirito Santo, come apparisce in moltissimi luoghi delle sante Scritture [Reg. passim. — Daniel. III]. – L’uomo dunque canta, e la Chiesa canta con lui, mostrandosi anche in questo l’erede fedele di tutto ciò che vi ha di vero, di bello, di buono, nelle tradizioni dell’universo, poiché tutti i popoli hanno cantato. Noi non parleremo dei pagani: essi avevano pervertito l’uso del canto: in luogo di celebrare il Dio della natura, essi cantavano i delitti e le avventure scandalose delle loro false Divinità. – Gli Ebrei appena furono riuniti in corpo di nazione, seppero abbellire cogli accenti della voce le lodi del Signore. Chi non conosce i cantici sublimi di Mose, di Debora, di David, di Giuditta, dei profeti? David non si limitò a comporre i salmi, ma stabilì cori di cantori e di musici per lodar Dio nel tabernacolo. Salomone suo figlio fece osservare l’uso medesimo nel tempio, ed Esdra lo ristabilì dopo la schiavitù di Babilonia. – Fin dall’origine del Cristianesimo, il canto fu ammesso nell’uffizio divino, quando specialmente la Chiesa acquistò la libertà di dare al suo culto la magnificenza e il lustro conveniente, in ciò autorizzata dall’esempio di Gesù Cristo e degli Apostoli. La nascita di questo divino Salvatore era stata annunziata ai pastori di Betlemme dai cantici degli angioli. Son noti quelli di Zaccaria, della santa Vergine, del vecchio Simeone; e il Salvatore stesso, durante la sua predicazione, gradì che le moltitudini del popolo venissero incontro a Lui e l’accompagnassero nella sua entrata in Gerusalemme, cantando: Osanna! Sia benedetto colui che viene in nome del Signore, benedetto il regno, che viene, del padre nostro Davide: Osanna nel più alto dei Cieli [Marc XI, 10], e continuassero così fino nel Tempio. San Paolo esorta i fedeli a eccitarsi mutuamente alla pietà con inni e cantici spirituali: “Parlando tra di voi con salmi ed inni e canzoni spirituali, cantando e salmeggiando, coi vostri cuori al Signore” [Ephes. V, 19], e cantava egli stesso nella sua prigione di notte con Sila. – I nostri padri nella fede misero in pratica le lezioni del grande apostolo. Plinio il giovane, avendoli interrogati per sapere che cosa operassero nelle loro adunanze, essi gli risposero, che si riunivano la domenica, per cantar inni a Gesù Cristo,come a un Dio [Epist. XCVIl. — Veggansi pure i Concili di Laodicea, c. XV; di Cartagine, IV, can. 10; di Agide, can. 21; di Aix, can. 152, 135, ecc.]. Lo stesso è avvenuto in tutta la serie dei secoli. I più grandi uomini, che la Chiesa abbia prodotto e la terra ammirato, annettevano al canto una tale importanza, che non disdegnavano di regolarlo da loro stessi e d’insegnarlo agli altri; testimoni di ciò noi abbiamo sant’Atanasio, san Crisostomo, sant’Agostino, sant’Ambrogio, san Gregorio papa. Sant’Ambrogio che regolò il canto della Chiesa di Milano in un tempo in cui i teatri del Paganesimo sussistevano tuttavia, evitò accuratamente d’imitarne la melodia, al che egualmente provvide san Gregorio per la chiesa di Roma, benché questi, riformando il canto in un secolo in cui erano scomparsi i teatri pagani, non trovasse veruno inconveniente a introdurre nel canto ecclesiastico melodie più piacevoli, ma tali per altro che non potessero eccitare alcuna pericolosa rimembranza. – Da ciò è derivata la distinzione tra il canto Ambrosiano e il canto Gregoriano. Il primo è più grave, il secondo più melodioso; il primo è tuttora in uso nella Chiesa di Milano, il secondo è diffuso in una gran parte della Cristianità. San Gregorio prese da tutte le Chiese ciò che vi era di meglio, appoggiandosi sopra il canto degli antichi Greci; egli scelse i mottetti che più gli piacquero, li modificò col suo gusto che era squisito, e li rese ad esprimere con maggior leggiadria i misteri lieti o dolorosi, la dolce tristezza della penitenza o la felicità d’una vita piena di virtù. – Ad esempio di David, Pipino re di Francia, ma specialmente Carlo Magno suo figlio, diedero molte cure al canto religioso. Avendo osservato che il canto Gallicano era meno dilettevole di quello di Roma, mandarono in quella capitale del mondo cristiano de’ chierici intelligenti affinché studiassero e imparassero il canto di san Gregorio, cui ben presto introdussero nelle Gallie. Non però tutte le Chiese di Francia l’adottarono uniformemente alcune non ne accolsero che una parte e lo mescolarono con quello che era anticamente in uso. È questa la cagione della differenza che esiste tra il canto delle diverse diocesi ‘ Leboeuf, Trattato storico del canto, c. 3].

Bellezza del canto. — Tuttavia questo canto, quale è oggi, quantunque abbia fatto grandi perdite nel passare pei secoli barbari, conserva tuttora bellezze di primo ordine, ed è, per l’uso cui è applicato, superiore di molto alla musica. Anche non aiutato da ritmo o misura offre agl’intelligenti imparziali un carattere di grandezza, una melodia piena di nobiltà, e una feconda varietà d’inflessioni. Vi ha egli infatti cosa più sublime del canto solenne del Prefazio e del Te Deum? Che di più commovente delle lamentazioni di Geremia, e più giulivo degl’inni di Pasqua? Ove trovare concenti più maestosi del Lauda Sion, o più terribili del Dies iræ? L’uffizio de’ morti è un capo d’opera, e pare di udire il sordo eco delle tombe. Nell’uffizio della settimana santa è notevole la Passione di san Matteo; il recitativo dello Storico, le grida della popolazione Giudaica, la nobiltà delle risposte di Gesù formano un dramma patetico. Pergolesi ha dispiegato bensì nello Stabat Mater la ricchezza dell’ingegno e dell’arte, ma ha egli forse perciò superato il semplice canto della Chiesa? Il carattere essenziale della tristezza consiste nella ripetizione del medesimo sentimento, e per così dire nella monotonia del dolore; e ciò non ostante esso ha variato la musica ad ogni versetto. Diverse cause possono eccitare le lacrime, ma le lacrime hanno sempre un’eguale amarezza; d’altra parte poi raramente si piange ad un tempo stesso per una moltitudine di mali, poiché quando le ferite sono molteplici sempre ve ne ha una più acerba delle altre che finisce per assorbire le minori. Quella uniforme melodia ad ogni strofa, non ostante la varietà delle parole, imita perfettamente la natura; l’uomo, che soffre, fa vagare i propri pensieri sopra diverse immagini, mentre il fondo delle sue afflizioni rimane lo stesso. – Pergolesi ha dunque disconosciuto questa verità, fondata sopra la teoria delle passioni, allorquando non ha voluto che un sospiro dell’anima rassomigliasse ad un altro sospiro che l’aveva preceduto. Egli ha obliato che dovunque è varietà ivi è distrazione, e dovunque è distrazione ivi non è tristezza [Genio del Cristianesimo, t II, c. 11]. – Che diremo dei salmi? La maggior parte sono sublimi per gravità; specialmente il “Dixit Dominus Domino meo”, il “Confitebor tibi”, e il “Laudate pueri”. L’ “In exitu” racchiude un misto indefinibile di gioia e di tristezza, di melanconia e di speranza; il “Kyrie eleison”, il “Gloria in excelsis” e il “Credo” delle Solennità sublimano lo spirito; il “Veni Creator” esprime in guisa ammirabile le ardenti suppliche d’un cuore che brama di venire esaudito. – Qual meraviglia dopo di ciò se il nostro canto sacro fa sì vive impressioni sopra uomini che hanno orecchio e cuore? – « Io non poteva saziarmi, o mio Dio, esclama sant’Agostino, di ammirare la profondità de’ vostri disegni in tutto quello che avete operato per la salute degli uomini, sicché la contemplazione di tante meraviglie riempiva il mio cuore d’inenarrabile dolcezza. Oh! qual pianto mi ha fatto spargere la melodia degli inni e de’ salmi che si cantavano nella vostra Chiesa! e quanto era io vivamente commosso all’udire risuonare nella bocca dei fedeli le vostre lodi! A misura che quelle parole tutte divine colpivano le mie orecchie, le verità da loro espresse s’insinuavano nel mio cuore, e l’ardore dei sentimenti di devozione ch’esse vi eccitavano faceva scorrere dai miei occhi un torrente di lacrime, ma di lacrime deliziose, che formavano allora il maggior piacere della mia vita » [Conf. Lib. 6]. – E per citare un uomo ben diverso da Agostino, è noto come più volte sia stato veduto Gian-Giacomo Rousseau assistere al Vespro in san Sulpizio, per provarvi quel divino entusiasmo da cui un’anima sensibile non può difendersi, quando ella prenda parte con qualche raccoglimento alle ecclesiastiche melodie, che, unite all’accordo di un popolo immenso, e alla maestà dei riti sacri, assumeva in quel superbo tempio un carattere capace di elevare l’anima fino al cielo, e di ammollire il cuore anche di uno scettico. Il semplice recitativo delle nostre preghiere, faceva su quell’uomo una tale impressione, ch’ei non poteva udirlo, senza sentirsi commosso fino alle lacrime. – « Un giorno, scrive Bernardino di Saint- Pierre, essendo io andato a passeggio con Rousseau al Monte-Valeriano, giunti alla sommità formammo il progetto di chieder da pranzo agli eremiti che vi dimoravano. Erano pochi istanti prima che si ponessero a tavola, e secondo il consueto stavano tuttora in chiesa; sicché Gian-Giacomo Rousseau mi propose d’entrare e di farvi noi pure le nostre orazioni, mentre gli eremiti recitavano le litanie della Provvidenza che sono bellissime. Fatta la nostra preghiera in una cappelletta, e quando gli eremiti si furono avviati al refettorio, Gian-Giacomo mi disse con emozione: Ora io sento tutta la verità di quel concetto del Vangelo: «Quando parecchi di voi saranno adunati in mio nome Io sarò in mezzo a loro ». In questo luogo si respira un sentimento di pace e di felicità, che penetra tutta l’anima 2 » [Etudes de la Nature, t. III, p. 508].

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io ringrazio di avere stabilito tanti mezzi di parlarmi al cuore; non permettete che io rimanga insensibile alla vostra voce. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo, come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore, io canterò col cuore e colle labbra le lodi di Dio.

 

L’UFFICIO DIVINO -I-

L’UFFICIO DIVINO -1-

[J.-J. Gaume, Catechismo di Perseveranza, vol IV, Torino 1881]

— Le preghiere in comune dei nostri padri nella fede ci porgono l’opportunità di parlare qui dell’Uffizio divino, vale a dire della vera preghiera in comune del Cristianesimo. Quantunque i Fedeli più non recitino l’uffizio, vi assistono però, una volta almeno nelle domeniche, e ne recitano anche una parte, per esempio il Vespro e qualche volta Compieta. La loro fede, la loro pietà, il loro rispetto per tutte le preghiere e per tutti gli usi della Chiesa non possono fare a meno di guadagnare assai allorché ne conoscano lo scopo, la ragione e il significato.

Origine dell’Uffizio divino. — Tutti gli uomini hanno pregato, e pregato in comune; ma i primi cristiani specialmente si dilettavano di adunarsi per offrire a Dio il sacrificio del labbro. Risuonavano tuttora alle loro orecchie quelle parole del divino Maestro: In qualunque luogo due o tre siano adunati in mio nome, Io sono in mezzo a loro. Perseguitati, inseguiti come pecore innocenti da lupi feroci, essi attingevano la forza e la costanza necessaria, mettendo il loro cuore, i loro voti e le loro preghiere in comune coi loro fratelli, siccome dividevano con essi le sostanze e i pericoli. – La notte come il giorno avevano certe ore determinate per attendere alla preghiera. Le Costituzioni apostoliche comandano ai fedeli di pregare alla mattina, alla terza ora, alla sesta, alla nona, la sera e a mezza notte, [Precationes fìant mane, tertia hora , sexta, nona et véspere, atque ad galli cantum. Lib. VIII, c. 54. — Purandus, lib. III, c. 41, p. 735], e san Girolamo scrivendo a una pia gentildonna intorno l’educazione della sua figlia, le dice: “Affidatela all’esperienza di una donzella di età provetta, che sia specchio di fede e di castità, che le insegni, e con l’abitudine e con l’esempio, a levarsi la notte a pregare e a cantare i salmi; la mattina, gl’inni sacri; a Terza, a Sesta, a Nona a proseguire il combattimento come un’eroina di Gesù Cristo; e verso il cader del sole ad accendere la sua fiaccola come una vergine saggia, e ad offrire il sacrificio della sera [Ad Laetam., Epist. VII, de Instit. Filiae]. – Il medesimo Santo ci assicura nelle sue epistole che il mietitore cristiano accompagnava i suoi lavori col canto de’salmi, e il vignaiuolo che potava la sua vigna ripeteva i cantici di Davide [Ad Marcell.]. I monaci dell’Egitto e della Tebaide, i solitari dell’Oriente, della Palestina e della Mesopotamia, si adunavano nei loro monasteri più volte al giorno per recitare i salmi e cantare inni in lode del Signore. – Né solo i Religiosi pregavano in tal guisa nelle diverse ore del giorno e della notte, ma in pratica sì devota erano ben anche imitati da gran parte dei fedeli. Sant’Agostino nell’istruire i l suo popolo cosi si esprime: «Miei cari fratelli, levatevi, ve ne prego, di buon’ora per attendere alle veglie; assistete specialmente agli uffizi di Terza, di Sesta e di Nona; nessuno si esenti da quest’opera santa, quando non ne sia impedito da qualche infermità, da qualche pubblico incarico, o da una grande necessità » [Serm. I . Feriae quartae, LVI de Tempere. — Vedi pure S. Basilio, Homil in Martyr. Julittam. — E così pure S. Agust., Epist., 109, etc.]. – La riunione di tutte queste preci si chiama uffìzio divino, perché è un dovere che si presta a Dio per adorarlo, placarlo, ringraziarlo e richiederlo delle sue grazie; per lo che è agevole dedurre che l’uffizio, tal quale è presso a poco oggidì, risale alla più remota antichità. Erede delle tradizioni primitive, la Chiesa lo ha stabilito sì per perpetuare quei sacri cantici di cui risuonarono e il Tempio di Gerusalemme e i gioghi del Sinai, e le spiagge del Mar rosso, e sì pure per facilitare con tal mezzo ai cristiani l’esercizio della preghiera.

Diverse ore dell’Uffizio. — E in questo proposito eziandio ci soccorre una tradizione di tremila anni. David diceva al Signore : « Io canto le vostre lodi sette volte al giorno »; e l’uffizio divino si divide in sette parti, chiamate ore, perché si recitano a sette ore diverse della notte e del giorno. Ecco il nome delle medesime: Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro e Compieta. Questa divisione ascende alla più alta antichità. [Isid., lib. de Eccles. offic. Raban. Maur., lib. II, de Instit, cleric. Basil., lib. I de Instit, monach. Hieron., in exposit. Psal. CXVIII. Cassian., lib. III, de lnst. coenobit., c. 4. — Ci piace di riferir qui alcuni versi antichi i quali spiegano la ragione delle diverse ore dell’Uffizio, indicando i Misteri che si onorano in ciascuna delle medesime: “Matutina ligat Christum, qui crimina purgat: Prima replet sputis; causam dat Tertia mortis; Sexta cruci neetit; latus eius Nona bipertit; Vespera deponit; tumulo Completa reponit].Le Lodi che si cantano talvolta per un’ottava ora, fanno parte del mattutino, ossia dell’uffizio della notte. Laonde, come si è detto, la divisione dell’uffizio divino in sette ore, adottata dalla Chiesa, è stabilita sopra la incontrastabile autorità d’una tradizione di tremila anni. Ma in che cosa è poi fondata questa sì antica tradizione? Sopra le prodigiose armonie del numero sette con Dio, con l’uomo e col mondo.

1° Il numero sette è quello dei doni dello Spirito Santo. « L’antico serpente, dice a questo proposito san Girolamo, scacciato dal cuore umano, torna con sette demoni più malvagi di lui, e sarebbe impossibile la resistenza quando non si fosse assistiti dai sette doni dello Spirito Santo; quindi preghiamo sette volte al giorno per ottenerli [Jeron. In Job. XXXVIII] . 2° Il numero sette è il numero de’ sette peccati capitali. Per evitarli, o per liberarcene se vi siamo caduti, noi preghiamo sette volte al giorno. 3″ Tutti i bisogni spirituali o temporali del genere umano sono in numero di sette, contenuti nelle sette domande del Pater. Quindi noi preghiamo sette volte al giorno per ottenere l’obbietto di ciascuna di queste domande. 4° Il numero sette è quello dei giorni della creazione e del riposo di Dio; e noi preghiamo sette volte al giorno per rammentare quella grande settimana, che vide sorgere il mondo dal nulla, e per eccitarci nello stesso tempo a ringraziare Iddio delle diverse opere fatte in ciascun giorno, affinché facendo buon uso delle creature, noi arriviamo al santo riposo dell’eternità. I motivi di questa divisione settenaria della preghiera esistevano già da tremila anni: ed ecco il fondamento di quella venerabile tradizione, e la prova della profonda sapienza della Chiesa cattolica. – Sogni, fantasie, diranno forse gli uomini leggieri, incapaci di meditare!… Ebbene, siano sogni, se cosi vi piace; ma noi preferiamo di sognare con san Girolamo, san Basilio, sant’Agostino, Varrone, anziché vegliare in vostra compagnia. [Vedi inoltre sulle altre armonie del numero sette san Basilio, Homil. II, in Hexaem. -— Greg. Naz. Orat. XCIV, in Sanct. Pentecost. — S. Aug., de Civit. Dei, lib. II, c. 57, de Gen. ad lit. I: confr, Manich., lib. i. — Varro, lib. I. Eorum qui inscribuntur hebdomades, etc.].

Bellezza dell’Uffizio. — Per meglio mostrare l’eccellenza dell’Uffizio divino, basterà il sapere di che cosa sia composto. – È un compendio [Per questo si chiama breviario] di quanto vi ha di più bello nel più bello di tutti i libri, l’antico cioè, e il nuovo Testamento; di quanto la storia de’ Santi ci presenta di più affettuoso e di più sublime; di quante preghiere siano uscite dal cuore ardente dei più grandi intelletti, e nel tempo medesimo de’ più grandi Santi che il mondo abbia conosciuti; di quanti devoti cantici finalmente siano stati dalla fede inspirati alla cristiana pietà. Che cosa può dirsi di più? Esso racchiude per intero quegl’inni inimitabili, quelle poesie immortali del Profeta reale , in cui il cuore, lo spirito, l’immaginazione trovano sempre un oceano di bellezze senza pari, di pensieri sublimi, di sentimenti divini. Dove trovare un più bel breviario di cose più belle? Chi saprebbe insegnare una più efficace preghiera?Un monarca vuol colmare di favori la diletta sua sposa, ma ama che essa glieli dimandi: ed ecco ch’egli stesso le traccia la supplica, le indica le parole di cui desidera che si valga, poi a lei la consegna giurando solennemente di concedere quanto le ha promesso tosto ch’ella si presenterà con la supplica alla mano, sulle labbra, e nel cuore; ecco Dio, ecco la Chiesa; ecco il breviario.Oh! qual forza aver debbono sul cuore di Dio quei tre o quattrocento mila sacerdoti cattolici, che ogni giorno si presentano sette volte dinanzi al trono dello Sposo della Chiesa, per domandargli nel modo che gli è più accetto i favori da Lui stesso promessi, e di cui abbisogna questa Sposa diletta! E pensare che a ciascun’ora del giorno e della notte parecchie migliaia di preti son occupati in questa sublime funzione; che l’Oriente prega quando l’Occidente riposa, di maniera che la voce della orazione non resta giammai interrotta, non vi par forse di essere nella Gerusalemme celeste, ove i beati ripetono continuamente i l cantico dell’eternità: Santo, Santo, Santo, il Signore Dio degli eserciti? [Apoc. IV, 8]Qual fiume di benedizioni non debbe attirar sulla terra questa supplica potente Mondo ingrato! mondo reo! mondo cieco! a lei soltanto tu sei debitore della tua conservazione e puoi obliarlo? Che cosa potrei aggiungere? Tutti i secoli, tutte le nazioni, tutte le favelle si accordano con noi quando cantiamo i salmi di Davide. Mentre noi ne facciamo risuonare le volte delle nostre chiese, quelle liriche immortali sono ripetute a Roma, a Gerusalemme, a Pekino, al Messico, a Pietroburgo, al Cairo, a Costantinopoli, a Parigi, a Londra. Il tempio di Salomone, le pianure di Babilonia e di Memfi, le spiagge del Giordano, i deserti della Tebaide, le catacombe di Roma, le basiliche di Nicea, di Corinto e d’Antiochia le hanno a loro volta ascoltate. Oh! per quante bocche più pure della mia sono esse passate! Tobia nel suo letto di dolore, Giuditta nel campo d’Oloferne, Ester alla corte d’Assuero, Giuda Maccabeo alla testa dei guerrieri d’Israele le hanno ripetute; Antonio le sospirava nel deserto, Crisostomo ad Antiochia, Atanasio ad Alessandria, Agostino ad Ippona, Gregorio a Nazianzo, Bernardo a Chiaravalle, Saverio al Giappone!E dopo tanti secoli, e dopo avere espresso tanti sentimenti diversi, quei cantici inimitabili sono nuovi come al primo giorno, e come la prima volta che Davide li faceva risuonare sull’arpa profetica! E ciò nulla dice al vostro cuore? E ciò non ingrandisce le vostre idee? E ciò non vi farà comprendere tutto l’incanto di questo nome incomunicabile della Chiesa vostra madre. . . cattolica?

Mattutino. — La prima ora dell’Uffizio si chiama Mattutino, Vigilia, Notturno, ovvero Ore della mattina, perché nel tempo andato erano recitate di notte, come si pratica tuttora per Natale, e perché nei Capitoli si recitano ancora di buon mattino. Il Mattutino è diviso in tre notturni o parti, composti di tre salmi, di tre antifone, di tre lezioni, precedute da una benedizione e seguite da un responsorio. Le prime lezioni sono estratte dalla Scrittura Santa, le seconde dalle opere de’ Padri, o dalle leggende de’ Santi di cui si celebra la festa, e le terze servono di commento al Vangelo del giorno, di cui si canta qualche versetto. – E primieramente i l mattutino si divide in tre notturni. La parola Notturno significa Uffìzio della notte. Si sa come gli antichi dividessero la notte in quattro parti, di tre ore ciascuna; la prima dalle sei fino alle nove, la seconda dalle nove fino a mezza notte, la terza da mezza notte fino alle tre e la quarta dalle tre fino alle sei del mattino. Ogni parte si chiamava vigilia o fazione, e si diceva prima vigilia, seconda vigilia, ecc. Questa denominazione è presa dal linguaggio militare, poiché i soldati vegliavano o stavano in fazione tre ore per ciascuno [Vegetius, De Re militari, c. VIII. – Pari alle legioni dei Cesari, l’esercito di Gesù Cristo, la Chiesa, sempre in armi, ordina agli ecclesiastici di vegliare a vicenda a custodia del campo, specialmente in tempo di notte, perché è quello il tempo del pericolo, dicono i Padri, il tempo in cui circuisce il tentatore, il tempo del peccato [Hilar. in Psalm. CXVI1I. — Ambros., lib. VII, in Lucam]. – Laonde nei primi secoli i notturni si recitavano separatamente; il primo durante la prima vigilia, il secondo nella seconda, il terzo nella terza, e le lodi nella quarta. I fedeli vi assistevano, ma al fine di ogni notturno, erano in libertà di andare al riposo, fino al notturno seguente. Tutti per altro, sebben gracili e delicati, si facevano un obbligo d’intervenirvi. Abbiamo veduto che san Girolamo, scrivendo alla figlia de’ Paoli Emili e de’ Scipioni, le insinuava di uniformarsi all’uso di alzarsi la notte due o tre volte per cantare gl’inni ed i salmi [Noctibus, bis, terque surgendum; Ad Eustoch. epist. XXII]. – In progresso di tempo la Chiesa, avendo riguardo alla umana fralezza, concesse di recitare i tre notturni con le laudi, in una medesima vigilia della notte, i suoi disegni non vennero con ciò punto alterati. – Ella vuole, mediante ciascuna ora dell’Uffizio, onorare i principali misteri della Passione del Salvatore, darci ad ogni istante del giorno e della notte le più utili lezioni, e procurarci le grazie adattate a ciascuno de’ nostri bisogni. Svolgeremo più minutamente codesti argomenti allorquando spiegheremo ciascuna ora in particolare. – Ma intanto potrebbe chiedere qualcuno: perché mai il Mattutino, che è la prima parte dell’Ufficio, incominci alla sera? Al che risponderemmo: perché il giorno ecclesiastico incomincia la sera; uso venerabile che ci rammenta l’antichità, imperocché anche presso i Giudei il giorno incominciava la sera. Erede della Sinagoga, la Chiesa cattolica ha conservato quest’uso pieno di memorie e di misteri. – Il Mattutino si recita nella notte: 1° perché in tempo di notte furono uccisi dall’Angelo sterminatore i primogeniti degli Egiziani; avvenimento per sempre memorando, che produsse la liberazione del popolo d’Israele, antica figura della Chiesa; 2° perché in tempo di notte nacque il Liberatore del mondo; 3° perché in tempo di notte compì una parte dei misteri della sua dolorosa Passione. In memoria di questi grandi, ineffabili avvenimenti, in rendimento di grazie di quei benefici, e in espiazione delle colpe de’ Giudei e di tante altre che si commettono nella notte, la Chiesa ha voluto che i sacerdoti e i Religiosi, tutti questi angeli della preghiera, fossero in adorazione e pagassero il debito dell’universo. Non vi sembra codesta una bella idea? Com’era men bello infatti il vedere, appena la campana faceva udire i suoi rintocchi, quei sacerdoti, quei Religiosi, quei vegliardi accorrere alla Chiesa! Si sarebbe detta una schiera che dà di piglio alle armi al primo invito della tromba. – « Giunti al tempio, scriveva un veterano di Gesù Cristo, noi cadiamo a ginocchi davanti l’altare, salutiamo il nostro Condottiero, gli rinnoviamo le proteste della nostra obbedienza, e gli confessiamo che senza il suo divino soccorso ci sarebbe impossibile di sperare e di ottenere vittoria contro l’infernale nemico ». [Durandus, lib. V.]. – Incomincia l’uffizio; ma in quale maniera? Al modo con cui deve incominciare ogni opera soprannaturale, vale a dire, dalla professione della nostra debolezza. Il sacerdote traccia su le proprie labbra il segno della croce, e dice: Apritemi le labbra, o Signore, affinché la mia bocca possa cantare le vostre lodi. Ma mentre il sacerdote domanda a Dio la grazia e la facoltà di poterne esaltare demonio raddoppia gli sforzi per renderne inutile la pietà; e perciò il sacerdote stesso, appena ottenuta la chiesta licenza, tosto soggiunge, armandosi dell’usbergo della croce: Venite, o Signore, in mio aiuto; alle quali parole tutto il coro, penetrato egli pure della propria debolezza, risponde ad alta voce: Affrettatevi, o Signore, a soccorrermi. – Poscia il sacerdote soggiunge immediatamente: Sia gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo; e il coro risponde: com’era in principio, com’è adesso, e come sarà per tutti i secoli: vale a dire, sia gloria eterna al Dio dell’eternità. E perché dunque s’innalza quest’inno di gloria e di gratitudine tosto dopo il grido di angoscia? Eccone la ragione: « Non appena avrai finito d’invocarmi, io sarò teco 1 » [“Adhuc te loquente ecce adsum” Isai. LVI1I, 9], ha detto il Signore per bocca di un Profeta; sicché la Chiesa fidando interamente iella promessa del divino suo Sposo che ha assicurato di esaudirla si studia di dar gloria alla santa Trinità. Il Gloria Patri fu composto da san Girolamo, e da lui trasmesso a Papa Damaso, il quale, secondando le istanze del santo anacoreta di Betlemme, decretò che questa dossologia venisse cantata in fine dei salmi. [Alcuni pensano che il Gloria Patri abbia origine più antica, e l’attribuiscono al Concilio di Nicea]. – Dalla Pasqua fino alla Pentecoste il Gloria Patri è seguito dall’Alleluia, voce ebraica, e significa gioia, allegrezza; onde è posta dalla Chiesa in principio dei suoi Uffizi per eccitare alla letizia, servendo Iddio conforme alle istruzioni del Profeta: “Servite al Signore nell’allegrezza” [Salmo XC1X]. – In qual altro tempo può essere più contento un fanciullo, qual altra occupazione può essergli più accetta, se non è quella di cantare le lodi del padre suo? – Dopo l’Alleluia segue l’Invitatorio ossia “chiamata”. Il sacerdote non è pago di lodare da solo il nostro Dio; ma come profeta della legge nuova, come inviato dell’Altissimo sollecita i proprii fratelli a lodarlo in sua compagnia. L’invitatorio è una frase che esprime in poche parole le ragioni speciali che noi abbiamo di lodare Iddio nella festa del giorno. Cotale preghiera è seguitata da queste parole: “Venite, adoriamo”, ripetute dal coro fino a sei o sette volte; perché dopo di avere spiegato ai suoi fratelli il motivo particolare ch’essi hanno di ringraziare Iddio nella festa di quel giorno, il celebrante ne enumera loro le ragioni generali ed immutabili che si contengono nel salmo “Venite Exultemus”. Egli dice: «Venite, esultiamo nel Signore, cantiamo le lodi di Dio Salvator nostro. Corriamo a presentarci davanti a Lui coll’orazione, e coi salmi celebriamo le sue lodi ». – Il Coro: « Venite e adoriamo il Signore ». L’Uffiziante: « Imperocché il Signore è un Dio grande, è un re grande sopra tutti gli Dei. Perché l’ampiezza tutta della terra Egli tiene nella sua mano, e a Lui gli altissimi monti appartengono. Perché di lui è il mare, ed Egli lo fece, e dalle mani di Lui fu fondata l’arida terra ». Il Coro: « Venite ed adoriamo il Signore ». L’Uffiziante: « Venite, adoriamolo, e prostriamoci, e spargiamo lacrime dinanzi al Signore, di cui siamo fattura. Imperochè Egli è il Signore Dio nostro, e noi popolo dei suoi paschi e pecorelle di suo governo ». – Il Coro : « Venite ed adoriamo il Signore ». – L’Uffiziante : « Oggi se la voce di Lui udirete non vogliate indurate i vostri cuori, come nel luogo della altercazione al di della tentazione nel deserto, dove tentarono me i padri vostri e fecero prova di me e videro le opere mie ». – Il Coro : « Venite ed adoriamo il Signore ». – L’Uffiziante: « Per quarant’anni fui disgustato altamente con quella generazione, e dissi: Costoro vanno sempre errando col cuore. Ed eglino non han conosciuto le mie vie: ond’Io giurai sdegnato: Non entreranno nella mia requie». – Il Coro: « Venite e adoriamo il Signore ». – Scegliete fra tutti i poeti antichi e moderni, e poi ditemi se voi trovate qualche cosa di più bello, di più sublime, di più affettuoso che questo magnifico dialogo. Questo poetico colloquio sì efficace per infondere nell’animo il vero spirito della preghiera si termina con uno slancio di amore verso la Santissima Trinità, cioè il Gloria Patri.

Preghiera.

“O mio Dio, che siete tutto amore, vi ringrazio di aver instituito il santo giorno di Domenica: ben so che specialmente per mio benefizio questo giorno deve essere consacrato all’orazione: fatemi la grazia ch’io possa degnamente santificarlo. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo, come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore studierò attentamente lo spirito delle cerimonie della Chiesa”.

L’inno – Dopo il Gloria Patri, sospiro ardente di amore e plauso di gioia che si solleva alla santa Trinità, dopo la ripetizione dell’invitatorio, canto di allegrezza, o di mestizia secondo la natura del mistero che si commemora, segue subito l’inno, destinato a lodare Iddio, a sublimare i nostri pensieri e i nostri affetti, e a raffermare in noi i sentimenti e le virtù che deve inspirarci la festa del giorno. – Tutti perciò si alzano in piedi, tutti i cuori si accendono, tutte le voci si accordano per cantar l’inno degnamente. « Tre cose, dice sant’Agostino, formano l’essenza dell’inno: 1° la lode; 2° la lode di Dio; 3° il canto. [Aug. Ad Psalm. LXXII. — Greg. Nazianz., Carm. XV.]. – L’uso degli inni risale ai primi giorni del Cristianesimo poiché si cantavano dai padri nostri, giusta il consiglio di san Paolo, nei cenacoli e nelle catacombe [Coloss. lII, 16. — Ephes. V, 19. — Euseb., Hist., 1. II]. Primo a decretare che nell’uffizio della notte si cantassero inni fu S. Giovanni Crisostomo, nell’occasione che gli Ariani si aggiravano di notte per Costantinopoli cantando versi che contenevano le loro empie dottrine. Nell’uscire dalla chiesa i cristiani incontravano quegli eretici ed erano esposti a sentirli; onde per prolungare l’Uffizio fino a tanto che gli Ariani fossero tornati alle loro case, e anche per fortificare la fede dei cattolici, il santo Patriarca aggiunse gl’inni al Mattutino e Laudi. [Socrat., lib. VI].- AI Mattutino l’inno precede i salmi, ma li segue alle Laudi, al Vespro e alla Compieta. – Li precede a mattutino, perché il mattino appartiene ai giusti che fruiscono del gaudio di una buona coscienza, mentre la sera spetta ai penitenti il cui animo è conturbato e sente il pungolo dei rimorsi. – La gioia conduce i primi al lavoro, figurato dai salmi, come diremo fra poco: i secondi debbono giungere al contento e alla letizia per mezzo del lavoro. Gl’inni si cantano in piedi per dimostrare coll’atteggiamento del corpo che i nostri cuori debbono essere innalzati verso Dio mentre la nostra bocca ne canta le lodi. Ogni cosa pertanto nel culto esteriore ci rammenta la necessità del culto interiore; tutto sembra ripeterci quelle parole del divino Maestro: Il Padre cerca adoratori in ispirito e in verità [Giov. IV, 23].

L’antifona. — Finito l’inno, l’ufficiante intona l’antifona. Ma che cosa è l’antifona? Essa è un canto alternativo, un canto eseguito da due cori che si rispondono. L’antifona significa l’amor di Dio, e il salmo la fatica delle opere buone.L’ uffiziante intona la prima parola dell’antifona per animare il salmo, cioè la fatica, per mezzo dello spirito di carità senza del quale la fatica non serve a nulla. Cantato il salmo, tutto il coro ripiglia l’antifona per mescolare costantemente la carità alla fede, di cui le opere non sono efficaci che per mezzo della carità. Perciò queste due grandi virtù del Cristianesimo si potrebbero assomigliare in questo luogo a due sorelle occupate nel medesimo lavoro, che si sostengono e si aiutano scambievolmente. Il sacerdote che da solo intona l’antifona, ne rammenta Gesù-Cristo unico e vero fonte della carità; tutto il coro che la canta alla fine del salmo significa l’effusione della carità di Gesù Cristo in tutti i suoi membri. Il canto delle antifone risale alla più alta antichità, e deriva da un’origine sommamente rispettabile. Sant’Ignazio martire, la gloria dell’Oriente e l’eroe del secondo secolo, avendo udito gli spiriti beati cantare in coro delle antifone nella Gerusalemme celeste, fece palese la sua rivelazione, dal che venne l’usanza di cantare antifone nella Gerusalemme terrestre [Durandus, lib.V].

I salmi. — Dopo l’antifona viene il canto de’salmi, per costume introdotto da Papa Gelasio. Quei cantici divini ricordano i patimenti, le fatiche e i combattimenti di un Re perseguitato; la gioia e la felicità ch’ei raccoglie dalla protezione del cielo; mentre palesano con forza i sensi della più viva gratitudine. Sospiri profetici, essi esprimono le pene, le fatiche, i combattimenti, i trionfo e la gloria del vero David, della Chiesa sua sposa e dell’anima fedele, sua figlia diletta e sua vivente immagine. Per lo che il cristiano ascolta e ritrova nei salmi quattro voci diverse: voce di David, voce di Gesù Cristo, voce della Chiesa, voce del cristiano. – È dunque cosa evidente che i salmi rappresentano la fatica della vita, e il lavoro delle opere buone. La parola salmo significa il canto che si eseguiva sul Salterio, il quale era uno strumento da musica: Lodate il Signore sulla cetra: cantate inni a lui sul Saltero da dieci corde [Psal. XXXII, 3] . Parole misteriose indicanti che noi dobbiamo lodare Dio nell’adempiere i dieci comandamenti, e che soltanto quel cristiano che osserva la divina legge gode degnamente il Signore. – Papa Damaso ordinò che i salmi fossero cantati a due cori. Ammirabile istituzione! Non vi sembra egli di vedere i santi della terra eccitarsi alternativamente al lavoro e alla pratica delle opere buone, comunicandosi le gioie e le speranze, le lacrime e i sospiri, la gratitudine e l’amore, rinviandosi incessantemente le parole ardenti ch’essi volgono a Dio protettore del debole, sostegno dell’orfano, padre del povero, consolatore dell’afflitto e rimuneratore del Giusto? Non vi sembra inoltre di vedere l’adempimento di quel precetto del grande apostolo: Portate gli uni i pesi degli altri; e così adempirete la legge di Cristo? [Galat. VI, 2]. Non vi sembra infine di vedere quei cherubini visti dà Isaia, i quali, collocati davanti al trono di Dio, colla faccia nascosta tra le ali, esclamavano a vicenda : Santo, Santo, Santo il Signore degli eserciti; della gloria di lui è piena tutta la terra [Isai. VI, 3]. – I salmi si cantano in piedi come per esprimere l’ardore del lavoro e lo zelo del bene. Quindi è che si vedono i canonici stare semplicemente appoggiati ai loro stalli, mentre si cantano le diverse ore dell’uffizio, eccettuata Compieta. Diremo ben presto la causa di questa eccezione. – Ogni salmo è seguito dal Gloria Patri; 1° per render gloria a Dio del bene che ci ha fatto; 2° per rammentare all’uomo l’augusta Trinità dalla quale tutto deriva; e alla quale tutto deve tornare; 3° per ripetergli che la fede nella santa Trinità è il fondamento della vita cristiana; 4″ per attestare che in tutte le circostanze, e tanto nella contentezza quanto nell’afflizione, così nel lavoro come nel riposo, noi vogliamo benedire e lodare il Signore.

I versetti. — Dopo ogni notturno vengono tre lezioni, e le lezioni stesse sono precedute da versetti e benedizioni che fa di mestieri primieramente spiegare. Il versetto è una breve sentenza, un concetto vivo, un avvertimento dato per risvegliare l’attenzione. Può infatti accadere che, durante la recita o il canto de’ salmi, che qualche volta dura molto tempo, non ci lasciamo sorprendere dalla distrazione o dalla stanchezza. Il versetto dunque si canta da una voce sola, per ridestare più sicuramente, mercé una tale varietà di tono, tutti gli assistenti, e tenerli occupati di quello che segue. Che ve ne pare? Non è questo un ottimo espediente? La Chiesa nostra madre non conosceva abbastanza la umana fragilità nello stabilire questa regola? Avreste voi saputo immaginare un mezzo migliore per tener viva l’attenzione dello spirito e la divozione del cuore? Al versetto cantato con voce e tono infantile succede il Pater intonato dalla voce grave del celebrante. Si dice il Pater perché è imminente la lezione, e l’uomo abbisogna di saviezza e d’intelligenza per comprendere e per gustare le verità sante, e deve per ottenere tali doti rivolgersi e domandarle a Colui che le concede in abbondanza e senza rimproveri. Si recita il Pater a voce bassa per eccitare il raccoglimento e far osservare che noi parliamo da soli e soli con Dio, e per dimostrare da ultimo ch’Egli intende, senza l’aiuto della parola, la preghiera del nostro cuore. Arrivati a quelle parole : “Et ne nos inducas in tentationem”, « Non vogliate permettere che soccombiamo alla tentazione », il sacerdote alza la voce, per insegnare a tutti perché si recita il Pater, ed impedire al lettore e all’ascoltatore di cedere alle tentazioni del nemico durante la lettura; tentazione di vanità per l’uno, e di negligenza per l’altro.

Le Benedizioni. —Il Pater è seguito da una breve preghiera che si chiama Benedizione, la quale ha per fine di ottenere quello che abbiamo domandato per mezzo dell’orazione Domenicale, e in questa nuova preghiera noi ci rivolgiamo successivamente e per ordine a ciascuna delle tre Persone dell’augusta Trinità. – Altro non rimane adesso, fuorché di sapere chi sarà degno di leggere la parola di Dio. Uno degli assistenti si leva, e voltandosi verso l’ufficiante, che rappresenta Gesù Cristo, gli dice ad alta voce: Iube, Domne, benedicere [La parola Domne è un’abbreviatura di Domine, e risale al nono, o decimo secolo], « Ordinate, Signore, di benedire », cioè ordinate che sia annunziata la vostra parola di benedizione In questa piccola cerimonia si racchiude un avviso di somma importanza, poiché imparasi con ciò che nella Chiesa nessuno deve esercitare il ministero, quando non vi sia chiamato dall’autorità legittima. – Le vocazioni e le missioni dall’alto non sono necessarie soltanto per lo stato ecclesiastico, ma eziandio pei vari stati della civile società. Donde derivano infatti la più gran parte dei mali che ci affliggono, se non da ciò, che quasi nessun individuo è collocato al suo posto o non vuol rimanervi? Ma ripigliamo il nostro ragionamento. – A questa domanda di benedizione che è rinnovata prima d’incominciare ciascuna lezione, l’officiante risponde con preghiere capaci di muovere tutta la celeste Gerusalemme ad interporsi presso il Signore affinché la santa lettura torni proficua; talvolta egli domanda che il Signore si degni aprire il nostro cuore alla sua legge, per timore che la parola santa che siamo per ascoltare non sia come un grano, un seme che gli uccelli divorano, o che le spine soffocano, o che i passeggeri calpestano; tal altra implora che veniamo ammessi alla felicità de’ Santi di cui ci apprestiamo a leggere le virtù. Il sacerdote ci augura tutte queste cose in nome di Dio, e cosi dimostra che non a lui, uomo peccatore, appartiene di benedire, ma a quello bensì che solo è buono, solo perfetto, solo autore di ogni bene.

  1. Le Lezioni. — Destata con ciò la vigilanza, ottenuta la benedizione e implorate previamente le grazie d’intelligenza e di saviezza, incominciano le lezioni. Si compongono queste dell’antico e del nuovo Testamento, de’ commentari de’ Padri e dei Dottori e della vita del Santo di cui si celebra la festa. La Scrittura è la legge; gli scritti de’ Padri la spiegazione; la vita del Santo, l’applicazione. Qual più completa istruzione? Per meglio ascoltarle si sta seduti e in silenzio. Infatti, vi ha egli al mondo una parola che più meriti questa attitudine di raccoglimento e di rispetto? Le lezioni finiscono con queste parole: “Tu autem Domine, miserere nobis”; « Deh! o Signore, abbiate misericordia di noi ». Commovente confessione della nostra miseria! « Sì, mio Dio, dice il lettore, perdonateci gli errori che hanno potuto accompagnare questa lettura; a me i sentimenti di vanità o di negligenza di cui mi sono reso colpevole; ai miei fratelli le distrazioni e il poco fervore con cui forse hanno ascoltato i vostri divini oracoli ». – Tutti gli assistenti rispondono: “Deo gratias”; « Siano rese grazie al Signore ». – Queste parole si riferiscono alla lezione, ed eccone il senso: « Se è un dovere per l’uomo ringraziare Iddio del nutrimento corporale ch’Ei ne concede ogni giorno, quanto più sacro dev’esser l’obbligo di ringraziarlo della manna della sua parola con cui alimenta l’anima nostra! Come figli di Dio, noi ringraziamo il nostro Padre celeste del cibo spirituale che ci ha compartito ». Eccoci ammaestrati ed anche riconoscenti per la dottrina che abbiamo ricevuta. Ora qual mezzo migliore di attestare la nostra gratitudine, che quello di mettere in pratica la parola santa e d’imitare i nobili esempi che ci sono stati posti sott’occhio? A ciò tutti gli assistenti si obbligano mediante i Responsori che si recitano subito dopo la Lezione, e alternativamente dai due cori. I responsori della terza lezione finiscono col Gloria Patri, acciocché rammentiamo che tutte le nostre preghiere e tutte le opere nostre debbono riferirsi al fine supremo di tutte le cose, alla santa Trinità. Ecco come si recita o si canta il primo Notturno, cioè la prima parte del Mattutino. Nei primi secoli si diceva verso le nove della sera, nel momento in cui siamo soliti di andare al riposo; e in molte chiese era senza invitatorio, perché i ministri sacri lo recitavano da soli senza convocare il popolo. Questo primo Notturno si chiamava propriamente veglia, o vigilia, in memoria de’ pastori che custodivano le mandrie nelle vicinanze di Betlemme, la notte in cui nacque il Salvatore del mondo. Quanti misteri ci rammemora questa ora sacra! La veglia de’ pastori, il tenero addio del Salvatore agli Apostoli, la sua agonia nell’orto di Getsemani! Se abbiamo scintilla di fede, quali espansioni di cuore, quali fervorose preghiere si uniranno in questo primo Notturno alle prove di amore e al sangue della gran Vittima che ci riscattava! – Nelle chiese ove il popolo non assisteva al principio dell’uffizio, il secondo Notturno cominciava dallInvitatorio, perché tutti i fedeli, uomini e donne, vi erano convocati. E qui pure noi ci imbattiamo in una nobile tradizione, in una affettuosa armonia. Come angeli della terra, gli ecclesiastici invitavano all’adorazione del Salvatore i cristiani affidati alla loro cura, come gli angeli avevano invitati i pastori di Betlemme. Il secondo Notturno si cantava a mezza notte. Ed anche quest’ora sacra quanti misteri ci ricorda! La nascita del Salvatore, la chiamata degli angeli e l’adorazione de’ pastori, i patimenti del Salvatore davanti ai tribunali di Anna e di Caifa.- Il terzo Notturno si recitava verso le tre ore della mattina, e ciò per tre precipue ragioni: la prima, a fine di onorare il Salvatore nelle ignominie di quella notte orribile, ch’Ei passò in balìa de’ servi e dei soldati; la seconda per chieder perdono della sentenza di morte pronunziata contro di lui verso quell’ora da Caifa; la terza per espiare il rinnegamento di san Pietro. – Nelle domeniche e nelle feste si dicono tre Notturni al Mattutino; in altri tempi non ve n’è che un solo. Donde viene una tal differenza? Essa nasce dalla solennità maggiore o minore della festa. In certi giorni solenni la Chiesa dispiega agli occhi de’ propri figli tutte le sue magnifiche tradizioni, fa loro ammirare tutte le sue belle armonie, rimette sotto gli occhi nostri la storia di sessanta secoli, tutte le auguste memorie di cui è l’erede. – « Ecco, dicono i nostri Padri, la ragione di questa misteriosa distribuzione de’ nostri Mattutini solenni; i tre Notturni rammentano le tre grandi epoche dell’umanità; l’epoca Patriarcale, l’epoca Mosaica e l’epoca Cristiana. Ciascuna di queste tre epoche si divide in tre periodi; perciò in ogni Notturno vi sono tre salmi, tre antifone, tre lezioni: si direbbe quasi un poema diviso in nove canti. » – L’epoca patriarcale ha il suo primo periodo da Adamo fino a Noè; il secondo da Noè fino ad Abramo; il terzo da Abramo fino a Mose. Così pure l’epoca Mosaica ci presenta tre periodi; il primo, da Mose a David; il secondo, da David alla schiavitù di Babilonia ; il terzo, dalla schiavitù di Babilonia al Messia. – Finalmente anche l’e poca Cristiana si divide in tre periodi; il primo, che comprende la fondazione della Chiesa fatta da Nostro Signore, e il suo stabilimento operato dagli apostoli: ed è questo il periodo de’ martiri; il secondo, che abbraccia il tempo delle grandi eresie e de’ grandi campioni dell’Oriente e dell’Occidente: ed è il periodo de’ Padri della Chiesa ; il terzo, che comprende il tempo di pace, che succede all’estinzione delle grandi eresie: ed è il periodo della Chiesa regnante » [Durandus, lib. II, c.7]. Il numero tre tante volte ripetuto è un inno eloquente alle tre adorabili Persone della Trinità, come i nove salmi sono una ricordanza de’ nove cori degli angeli, e di tutte le armonie della Gerusalemme celeste, ai cantici della quale la sua giovine sorella, la Gerusalemme terrestre, invita tutti i propri figli ad accordare le loro voci; di modo che nei nostri giorni solenni si può dire che della voce del cielo e della voce della terra, si forma una sola gran voce la quale intona con esultanza: « Santo, Santo, Santo è il Dio degli eserciti; i cieli e la terra sono pieni dello splendore della sua maestà ». Qual sorgente di pensieri santi e affettuosi pei fedeli istruiti e pii! Quale miniera di sublimi inspirazioni pel poeta cristiano!

VII. Il Te Deum. — Il terzo Notturno finisce col Te Deum. Inno, preghiera, poema epico, il Te Deum è tutto ciò che si può dire, tutto ciò che si conosce di più sublime e di più maestoso in qualunque favella. Sia gloria immortale a voi, Ambrogio e Agostino, poeti inimitabili e santi illustri, che avete saputo spiegare i pensieri della vostra mente e gli affetti del vostro cuore, come i Serafini spiegherebbero i propri, se parlassero i l linguaggio de’ mortali! Il Te Deum è concepimento si perfetto e di tanta eccellenza, che i protestanti sì freddi, sì gelidi nel loro culto, sì nemici della Chiesa romana, l’hanno accuratamente conservato. – Ma perché si recita alla fine del terzo diurno? Ecco la risposta a questa domanda. Tutti i figli di Dio, sacerdoti e fedeli, hanno lodato il Signore; si sono reciprocamente stimolati alla carità, al fervore; hanno ascoltato la lettura della legge che tocca si vivamente il cuore; hanno inteso la storia de’ loro fratelli, già glorificati nel seno del comun Padre; hanno veduto delle palme e delle corone, preparate come ricompensa immortale per una fatica di breve durata: sarebbe mai possibile dopo tanti incentivi, che tutti insieme i cristiani pieni di questi pensieri, non prorompessero in azioni di grazie? Non vi stupite dunque se essi cantano il Te Deum. Il suono delle campane, che altre volte si accoppiava alle loro voci, tra una nuova dimostrazione dell’ allegrezza e dell’ardore universale, era un solenne incitamento ch’essi facevano a tutti i loro fratelli e a tutte le creature di lodare con essi un Padre sì magnifico e sì buono.

Le Lodi. — I tre Notturni costituiscono le tre prime parti del Mattutino, le Lodi la quarta. Questa divisione è stata introdotta, come dicemmo, per sanificare le quattro vigilie della notte, poiché le Lodi si recitavano anticamente, e si dovrebbero, regolarmente parlando, recitare allo spuntar del giorno. Eccone le ragioni: 1° Nostro Signore usci allo spuntare del giorno vittorioso dal sepolcro; 2° allo spuntar del giorno camminò sopra le acque e vi fece camminare san Pietro. La parola Lode significa elogio, encomio, gloria , plauso, ed è infatti, in questa parte dell’Uffizio della notte che noi celebriamo particolarmente le lodi di Dio, e lo ringraziamo : 1° della risurrezione del Salvatore, miracolo fondamentale del Cristianesimo, operato in quel momento; 2° delle grazie che il Signore ci accorda, perché, come san Pietro sulle acque, noi camminiamo durante la notte di questa vita sul mare tempestoso del mondo; 3° della creazione dell’universo di cui il comparir della luce ci offre l’immagine; 4° finalmente della cura paterna con cui Dio ha vegliato sopra di noi pel corso della notte, e della bontà con la quale ci concede un nuovo giorno. – Le Lodi come i Notturni incominciano con l’invocazione “Deus in adiutorium”, accompagnata dal segno della croce, e seguita dal Gloria Patri, dall’Alleluia e dall’apposizione dell’antifona. Alla fine di ciascun salmo si ripete il Gloria Patri per soddisfare ad un debito di gratitudine.Non abbiamo noi forse veduto che i salmi esprimono le opere buone, il lavoro cristiano? Qual cosa è dunque più giusta che ringraziare Dio da cui ogni opera buona deriva, e che merita in conseguenza d’esser lodato e ringraziato come in principio, quando creò il cielo e la terra; e attualmente, perché conserva il mondo materiale e spirituale; e sempre, perché la creazione non sussisterà giammai se non per Lui; e nei secoli de’ secoli, quando vi saranno nuovi cieli e nuova terra, e che Dio sarà tutto in tutte le cose? Alle Lodi si recitano cinque salmi, o a meglio dire quattro salmi e un cantico. Il rinnovamento dei nostri cinque sensi, vale a dire la rigenerazione di tutto il nostro essere in virtù del Cristianesimo, di cui nel corso della notte sono stati celebrati i principali misteri, è appunto la ragione misteriosa di questo numero cinque, e l’importante ammaestramento che la Chiesa ne porge al cominciare del giorno. La domenica, dopo i tre primi salmi, si canta l’inno de’ tre fanciulli nella fornace, col quale la Chiesa ha voluto rammentarci le tribolazioni de’ giusti in ogni tempo, e la loro allegrezza in mezzo alle tribolazioni, e la Provvidenza che veglia su loro. – Sembra ch’essa ci dica: « All’apparire di questo giorno ricordatevi che siete stati rigenerati in Gesù Cristo: vivete dunque santamente, vegliate su i vostri sensi, guardatevi dal contaminarli; aspri combattimenti vi aspettano, ma non temete, poiché finiranno a vostra gloria; il Signore sopra di voi; il cantico che voi recitate ve ne offre una prova ». – Il cantico è seguito dal quinto salmo, di cui è questo il senso ed il motivo del luogo che occupa. I figli della Chiesa rispondono alle promesse di vittoria che poc’anzi ha date loro: « Noi ben sappiamo, le dicono essi, che noi saremo vincitori, e per questo benediciamo il Signore e invitiamo tutte le creature del cielo e della terra ad esaltarlo in nostra compagnia ». Perciò il quinto salmo delle Lodi comincia sempre con queste parole: Lauda ovvero Laudate; « loda, lodate » e questo invito a lodare Dio s’indirizza a vicenda agli Angeli e ai Santi, a tutte le creature inanimate, alla Chiesa, alle nazioni, agli uomini di qualsiasi tribù e di qualsiasi favella. L’uomo riconoscente vuole in tal guisa che tutto ciò che esiste si unisca a lui per benedire il benefattore universale. – Il cantico de’ tre fanciulli nella fornace non è seguito dal Gloria, perché le auguste Persone della santa Trinità vi sono lodate da un capo all’altro.

Il capitolo. — Dopo l’ultima antifona segue il capitolo, parola che altro non significa fuorché piccolo capo, piccola lezione; e si compone di alcuni versetti della Scrittura, analoghi all’uffizio della giornata. Se questa lezione è più breve negli uffizi del giorno che non in quelli della notte, egli è perché le occupazioni diurne domandano il nostro tempo e la nostra presenza. Siccome il capitolo si recita ordinariamente dall’officiante, non è preceduto dall’ “Iube Domine” ossia dalla domanda di benedizione. Oltre l’ammaestramento ch’egli ci dà, il capitolo ha per oggetto di ravvivare il fervore nell’animo degli assistenti; e la Chiesa per tal modo vuol preservarli dal castigo de’ Giudei, che nauseati della manna andarono soggetti in punizione alle morsicature de serpenti. – Alle Laudi particolarmente il capitolo e mirabilmente acconcio ad infiammare il nostro coraggio, tanto nel fare il bene quanto nel combattere il demonio: talvolta vi siamo esortati a rimaner fermi nella fede, talvolta a compiere opere di misericordia, sovente ancora a rivestirci come guerrieri delle armi della luce. Allora il coro, simile ad una schiera animata dall’arringa del suo capitano, si affretta a rispondere con voce unanime: Deo gratias! « Siano grazie a Dio! Tali sono le nostre disposizioni! » E simile ad un esercito di valorosi, che solo chiede di cimentarsi contro il nemico, egli intona l’inno; l’inno, espressione del suo ardore, della sua riconoscenza, della illimitata sua fiducia in Dio, che non la chiama al combattimento, se non per condurla alla vittoria. Finito l’inno, viene il Versetto, ed è questo come un ritornello il cui scopo è di spingere al più alto grado l’entusiasmo del soldato cristiano. Si canta a una sola voce, alla quale rispondono tutte le altre: e ciò avviene non solo per fissar maggiormente l’attenzione, ma eziandio per mostrare l’unanimità di sentimento che domina in tutti i cuori. Al versetto succede l’Antifona; ed oh! quanto è ben collocata questa espressione d’amore dopo l’inno, nel quale abbiamo cantata la vittoria riportata dai Santi, nostri fratelli maggiori, e quella che speriamo riportare noi stessi! L’amore che produce l’unione produce anche la forza.

Il cantico. — Ma l’uomo è fragile, ed è talmente inclinato alla diffidenza, che la Chiesa vuole di nuovo riassicurarlo, e perciò ella pone qui il cantico, “Benedictus” « Sia benedetto il Dio d’Israele». Questo cantico contiene l’adempimento letterale di tutte le promesse che Dio ha fatte ai patriarchi e ai profeti. «Uomini di poca fede, sembra dirci la Chiesa nel farci ripetere questo cantico, perché dubitate, il Signore, per cui vi recate a combattere nel corso di questo giorno, ha Egli mancato mai a veruna delle sue promesse? interrogate i secoli; non lo vedete forse sempre lo stesso, con una mano soccorrere i suoi soldati, con l’altra coronare i vincitori? » – Cantato il Benedictus, assodata la speranza del cristiano in Dio, come àncora fissa alla spiaggia che tien fermo il vascello in mezzo alle tempeste, si rendono grazie alla santa Trinità, dicendo: Gloria Patri. Le si fa nuova protesta del nostro timore senza limiti per mezzo della ripetizione dell’antifona; finalmente Le si domanda l’adempimento di tutte le sue promesse per mezzo dell’orazione che termina l”uffizio. – Ora andate, soldati di Gesù Cristo, magione di Dio, campo d’Israele, andate al combattimento, nulla vi manca per mietere allori. Oh! se noi recitassimo queste nobili preghiere dell’uffizio con quello spirito di fede che le ha disposte, non saremmo noi dopo di esse, secondo il detto di san Crisostomo, simili a leoni spiranti fuoco, e il cui aspetto fa tremare le legioni infernali? E perché non sarebbe così? Da chi dipende l’esser forti? Da noi, unicamente da noi!

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che abbiate istituite tante belle preghiere per mezzo delle quali siamo assicurati di ottenere tutte le grazie di cui abbisogniamo; io vi chiedo perdono della poca fede con cui ho pregato fin ora. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore, io dirò spesso come gli Apostoli: “Signore insegnatemi a pregare”.

 

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. IX-XII]

IX.

VI SONO DEI DOTTI, E DELLE PERSONE D’INGEGNO CHE NON CREDONO PUNTO ALLA RELIGIONE.

R. Che cosa si conchiude da ciò, se non che per essere cristiano, per ricevere da Dio il dono della fede, non basta l’avere la scienza profana, né ingegno; ma che bisogna inoltre avere un cuor retto, puro, umile, ben disposto, pronto a fare i sacrifizi, che imporrà la conoscenza della verità? – Or ecco ciò che manca al piccolo numero de’ dotti che sono irreligiosi. – 1° O essi sono indifferenti, e ignoranti in materia di Religione, assorti nei loro studi matematici, astronomici, fisici, e non pensano né a Dio, né alla loro anima; e allora non fa meraviglia ch’essi non intendano nulla nelle cose della Religione. In riguardo alla Religione, essi sono ignoranti, ed il loro giudizio su di essa non ha più di valore, che quello d’un matematico sulla musica, o sulla pittura. Vi ha tal dotto che è più ignorante in religione di quello che lo sia un ragazzo di dieci anni assiduo al catechismo. – 2.° Ovvero, ciò che accade più sovente, questi tali sono orgogliosi, che vogliono giudicare le cose di Dio, trattare con Lui da pari a pari, e misurare la sua parola colla dimensione della loro debole ragione. – L’orgoglio è il più radicato dei vizi. Cosi sono essi giustamente respinti come temerari, e privati dei lumi, che non si danno se non ai cuori semplici ed umili. Dio non ama chi insorge contro la sua infallibile verità. – 3.° Ovvero, ciò che accade più di sovente ancora e ciò che abitualmente è congiunto a due altri vizi, questi dotti hanno delle malvagie passioni, che non vogliono abbandonare, e che sanno essere incompatibili colla religione cristiana. – Se si vuole inoltre pesare il numero ed il valore delle autorità, la difficoltà scompare interamente. – Si può affermare che dopo diciotto secoli, tra gli uomini eminenti di ciascun secolo, non vi fu un incredulo sopra venti. – E tra questo piccolo numero, d’increduli, si può ancora affermare che la più parte non furono sinceri nella loro incredulità e si rifugiarono avanti la morte nelle braccia di questa religione ch’essi avevano bestemmiata.—Tali furono, tra molti altri, i capi della scuola Volterriana dell’ultimo secolo, Montesquieu, Buffon, la Harpe. – Lo stesso Voltaire, ammalato a Parigi si fece chiamare il curato di s. Sulpizio un mese circa avanti la sua morte.—Il pericolo passò, e col pericolo il timore di Dio. Ma una seconda crisi sopravvenne; gli amici dell’empio accorsero…. Il suo medico testimonio oculare ci attesta che Voltaire richiamò di nuovo i soccorsi della religione… ma questa volta fu invano; non si lasciò penetrare il prete sino al moribondo che spirò in un’orribile disperazione! – D’Alembert volle egualmente confessarsi, e ne fu impedito, come l’era stato il suo maestro, dai filosofi che circondavano il suo letto — «Se noi non fossimo stati là, diceva uno di essi, avrebbe fatto il piagnone come gli altri! » – Quanto a Rousseau, morì pazzo, e si disse essere stato suicida. Qual valore morale hanno questi uomini? E che prova la loro irreligione sopratutto se loro opponete la fede, la pietà dei più grandi sapienti, dei più profondi geni, degli uomini più venerabili che siano comparsi sulla terra? La fede, notatelo bene, loro imponeva come a tutti gli uomini fatiche spiacevoli, doveri umilianti. L’evidenza sola della verità del cristianesimo ha potuto ottenere la loro adesione. – Senza parlare di quegli ammirandi dottori che la Chiesa chiama Padri, e che furono quasi i soli filosofi, i soli sapienti dei quindici primi secoli, come s. Atanasio, s. Ambrogio, s. Gregorio il grande, s. Gerolamo, s. Agostino, s. Bernardo, s. Tommaso d’Aquino (l’uomo più prodigioso forse che sia giammai esistito) quanti grandi nomi la Religione non conta essa tra i suoi figli! – Roggero Bacone, Copernico, Leibnizio, Cartesio, Pascal, Malebranche, d’Aguesseau, Lamoignon, de Maistre, de Ronald , ecc. tra i grandi filosofi e dotti del mondo. – Bossuet, Fénelon, Bourdaloue, Segncrt, Massillon tra i grandi oratori. – Corneille, Bacine, Dante, Tasso, Petrarca , Boileau ecc., ed ai nostri giorni, Chateaubriand, tra i letterati ed i poeti. – E le nostre glorie militari non sono esse per la più parte glorie religiose? Carlo Magno non era egli cristiano? Goffredo di Buglione, Tancredi, Balordo, Giovanna d’Arco, ecc. non chinavano avanti la Religione le loro fronti religiose cinte dagli allori di mille vittorie? Enrico IV, Luigi XIV erano cristiani. Turenne era cristiano, egli aveva ricevuto la comunione il giorno stesso della sua morte.—II gran Condè era cristiano. —E sopra ogni altro s. Luigi, questo vero eroe, quest’uomo si amabile e sì perfetto, la gloria della Francia, parimenti che della Chiesa! Ciascuno conosce i sentimenti del grande Napoleone riguardo al cristianesimo. Nell’ebbrezza di sua potenza, e di sua ambizione egli s’allontanò assai, lo so, dalle regole, e dai doveri pratici della Religione, ma ne conservava sempre la credenza, ed il rispetto. « Io sono cristiano, cattolico, romano, diceva egli; mio figlio l’è pure com’io; avrei gran dispiacere, se non lo potesse essere mio nipote. » – Quando sì trovò solo con se stesso a s. Elena, si diede a riflettere sulla fede della sua infanzia, e nel suo alto ingegno giudicò Napoleone la fede cattolica, vera, e santa. Egli domandò alla Religione i suoi ultimi conforti! Fece venire a s. Elena un prete cattolico, ed assisteva alla Messa celebrata nei suoi appartamenti. Raccomandava al suo cuoco di non servirlo di grasso nei giorni di magro. Faceva meravigliare i compagni del suo esilio per la forza, con cui esso discorreva sulle dottrine fondamentali del cattolicesimo. – Essendo vicino a morire, congedò i suoi medici, chiamò a sé l’abate Vignali suo cappellano, e gli disse «Io credo in Dio; son nato nella Religione cattolica, voglio adempiere i doveri ch’ella impone, e ricevere i soccorsi che somministra. » – E l’imperatore si confessò, ricevette il santo Viatico, e l’estrema unzione — « Io son felice d’avere compìti i mici doveri, disse al generale Montholon. Vi auguro, generale, d’aver alla vostra morte la medesima ventura … Io non li ho praticati sul trono, perché la potenza inebria gli uomini. Ma ho sempre conservata la fede, il suono delle campane mi fa piacere, e la vista d’un prete mi commuove.—Io voleva fare un mistero di tutto questo, ma ciò è debolezza Voglio rendere gloria a Dio!…. ». Poscia ordinò egli stesso che s’innalzasse un altare nella camera vicina per l’esposizione del Santissimo Sacramento e le preghiere delle Quarant’ore. – Così da cristiano moriva Napoleone. – Non temiamo d’ingannarci, seguendo tutti questi grand’uomini, il cui numero, la scienza religiosa, e sopratutto l’autorità morale la vincono mille volte sui pochi, che sconobbero il cristianesimo. – L’orgoglio e la passione di sapere che li assorbe interamente, altre passioni ancora più violente e più vergognose sono ragioni più che sufficienti per spiegare la loro incredulità; mentre che la verità della Religione ha potuto sola, lo ripetiamo, fare chinare la fronte degli altri sotto il sacro giogo del cattolicesimo.

X.

I PARROCI FANNO IL LORO MESTIERE. LASCIATELI DIRE.

  1. Volete voi dire con ciò che i preti sono impostori? Che essi adempiono al loro ministero, predicano, confessano, battezzano, celebrano la messa ecc., senza credere né a ciò che dicono, né a quel che fanno ? Che essi non cercano in tutte queste grandi funzioni che un sordido interesse?—Se è cosi vi do la più formale smentita. Non solamente voi ingiuriate grossolanamente il prete, ma lo calunniate! – I preti di Gesù Cristo impostori! Eh! Che ne sapete voi? Come potete leggere nel fondo del loro cuore se essi credono o non credono al loro sacerdozio? Sta all’accusatore provare ciò che asserisce, provate questa accusa? Io vi sfido. – Mi darete a mo’ di prova il nome di qualche prete malvagio? Ma non vedete che l’eccezione prova la regola? Non si segnalerebbe un cattivo prete, se l’immensa maggioranza non fosse santa; pura e veneranda. – Una macchia d’inchiostro comparisce vivamente sopra un abito bianco; la si vedrebbe appena se l’abito fosse nero e imbrattato. – Cosi è pure del sacerdozio cattolico a cui l’empietà rende qui un involontario omaggio. – Non è cosa strana che vi siano malvagi preti: ricordatevi che vi fu un Giuda tra gli apostoli!—A quella guisa che gli apostoli, primi preti, primi vescovi della Chiesa rigettarono l’apostolo infedele, e non furono responsabili del suo delitto, cosi la Chiesa condanna essa pure con più d’energia, più orrore che non facciate voi, i preti colpevoli, disertori dei loro sublimi doveri! Essa cerca sulle prime dì ricondurli colla dolcezza e col perdono: il prete come gli altri uomini ha dritto alla misericordia; ma se non si correggono, se perseverano nella loro vita malvagia, essa li stacca dal suo seno, li colpisce coi suoi anatemi, e loro interdice tutte le sacre funzioni. Qual interesse d’altronde ha il vostro parroco a confessarvi, a riprendervi dei vostri vizi, a predicarvi, a catechizzare i vostri ragazzi, a nutrire i poveri, a dare a questo un consiglio, a quello una consolazione, a un altro del pane? – Si toglierebbe forse un centesimo dalla piccola prebenda e dai casuali del prete s’ei si tacesse sopra i disordini della sua parrocchia, se ammettesse tutti ai sacramenti senza darsi l’incomodo d’esaminar le coscienze, se abbreviasse di metà il suo catechismo ecc.? Vi sarebbero sempre dei neonati da battezzare, giovani a maritare, morti a seppellire, e il signor parroco avrebbe sempre il conto del suo casuale. – Qual interesse ha egli dunque a ben adempiere al suo ministero? No, no, il prete, non è ciò che gli empi vorrebbero che fosse; ed è perché essi sanno ciò, che detestano il prete. – Essi vedono in lui il rappresentante dì Dio che condanna i loro vizi, l’inviato di Gesù Cristo che essi bestemmiano e che Egli giudicherà! Essi vedono in lui una personificazione di questa legge di Dio che essi violano incessantemente; ed è perché non vogliono saperne del Signore, che non vogliono il suo ministro. I parroci fanno il loro mestiere! a Sì, certo, i preti di Gesù Cristo fanno il loro mestiere, e ammirabile e sublime mestiere, procurando di salvare le anime dei loro fratelli! Il prete è chiamato operaio evangelico, perché infatti la missione che ha ricevuto dal Salvatore l’obbliga a un duro e difficile lavoro. – L’operaio lavora la materia; il prete lavora l’anima. Quanto l’anima è al disopra della materia, tanto l’opera de! prete è superiore a tutti i lavori della terra. Così è una parola ben sconveniente, ben empia, chiamare mestiere un sì sublime ministero. – Il prete continua sulla terra la grande opera della salute del mondo; Gesù Cristo suo Dio e suo modello l’ha incominciata per il primo; i preti continuano la sua opera nel corso de’ secoli. – A suo esempio, il prete passa la vita nel fare il bene. Egli è l’uomo di tutti; il suo cuore, il suo tempo, la sua sanità, le sue cure, il suo danaro, la sua vita appartengono a lutti ed specie ai fanciulli, ai poveri, agli abbandonati, a quelli che piangono e non trovano amici. Egli nulla attende in ricambio di questo sacrificio; il più delle volte non riceve che insulti e cattivi trattamenti. Egli non vi risponde che continuando a fare il bene. Quale vita! abnegazione sovraumana! – Nelle pubbliche calamità, nelle guerre civili, nelle malattie contagiose, nel colera, quando i ministri protestanti e i filantropi se la svignano, si vedono esporre la loro sanità, la loro vita per sollevare e salvare i loro fratelli. Tale fu Monsignor Àffre sulle barricate di Parigi; tale Belzunce, e s. Carlo Borromeo nelle pestilenze di Marsiglia, e di Milano; tale nel colera del 1832, e 1849 tutto il clero di Parigi e di tant’altre città, che s’era fatto come il servitor pubblico di tutto il popolo. – Ecco qual mestiere fanno i parroci! Io vorrei sapere se quei che li calunniano ne fanno uno migliore. Ingrati! Essi non cessano d’opprimere d’amarezza coloro che chiameranno poscia al loro capezzale nei giorni d’infortunio, coloro che hanno benedetta la loro infanzia, e mai cessano di pregare per essi. – Tutte le disgrazie del nostro paese provengono da ciò, che non si pratica ciò che insegna il prete. E la nostra patria straziata dalle discordie civili, dagli sconvolgimenti politici può applicare a sé la parola che indirizzava al cappellano d’una delle prigioni di Parigi un povero condannato a morte ritornato a Dio di tutto cuore. II prete gli aveva dato un piccolo manuale del cristiano, a « Ah! mio Padre, gli disse un giorno mostrandogli quel libro, se io avessi conosciuto ciò che quivi sì contiene, e se l’avessi praticato in tutta la mia vita, non avrei fatto ciò che ho fatto, e non sarei dove sono ! » – Se la Francia avesse conosciuto, se essa conoscesse ciò che insegna il prete, se avesse fatto, se facesse ciò che gli dice di fare, essa non sarebbe stata sconvolta da tre o quattro rivoluzioni in cinquant’anni, e non sarebbe in oggi al punto di domandare a se stessa nella sua fiacchezza: Vado io a perire ? Posso io ancora essere salvata ? Sì; lo può essere, se vuole ritornare cattolica! Sì ella può esserlo, se vuole ascoltare i ministri di colui che salva il mondo. – I preti sono la salute della Francia; senza la Religione la società è perduta. – Più che giammai si deve onore, riverenza, riconoscenza al prete. Chi lo respinge non conosce il nostro secolo, né la Francia. – Lungi da noi dunque tutti i nostri vecchi pregiudizi 1 Lungi da noi queste grossolane, e ingiuriose derisioni di cui la cieca empietà del Volterianismo aveva vituperato il sacerdozio cattolico. – Rispettiamo i nostri preti: se noi vediamo in essi delle imperfezioni, anche dei vizi, ricordiamoci che bisogna concedere all’uomo il retaggio della sua debolezza. – Cerchiamo allora di non osservare l’uomo, e di non vedere che il prete; in quanto a prete egli è sempre rispettabile, ed il suo ministero sempre santo, perché egli continua l’opera di Gesù Cristo, primo prete, nel corso dei secoli, ed è di lui, che il Salvatore ha detto: « Chi v’ascolta, mi ascolta, chi vi disprezza , disprezza me. »

XI

IO NON CREDO SE NON CIÒ CHE INTENDO: UN UOMO RAGIONEVOLE PUÒ EGLI CREDERE I MISTERI DELLA RELIGIONE ?

R. Se è così, dunque non credete niente, niente affatto, né anche che vivete, che vedete, che parlate, che intendete, ecc. ecc., perché io vi sfido a comprendere alcuno di questi fenomeni. – Infatti che cosa è la vita? Che cosa è la parola ? Che cosa è il suono? Che cosa è il rumore, il colore, l’odore, ecc.? Che cosa è il vento? Donde viene? Dove e perché e come cessa? Che cosa è il freddo e il caldo? Che cosa è il dormire? Come avviene che durante il sonno le mie orecchie restando aperte perfettamente come quando sono svegliato, non sento alcuna cosa? Perché, come mi sveglio? E cosa accade in allora? Che cosa è la fatica, il dolore, il piacere, ecc.? – Che cosa è la materia, questo non so che, il quale prende tutte le forme, tutti i colori ecc.? Chi comprende ciò che sia? Come può accadere che coi miei occhi, che sono due piccoli globi tutti neri al di dentro, vedo tutto quello che mi circonda e sino a milioni di leghe (le stelle ad esempio)? – Come avviene che la mia anima si separerebbe dal mio corpo se regolarmente io non facessi entrare in questo corpo, mediante il nutrimento, brani di bestie morte, di piante, di legumi ecc.? Tutto è mistero in me sino alle cose le più animali le più volgari [Un “Mistero” è una verità di cui possiamo conoscere con certezza l’esistenza, ma che non possiamo comprendere in se stessa che di una maniera imperfetta. – Tutto é mistero, per chi sa riflettere, nella natura come nella religione. È l’impronta delle opere di Dio]. – Chi è quel dotto che ha compreso il come e il perché dei fenomeni della natura? Chi è colui che ne ha compreso un solo? Che misteri !!… Ed io voglio comprendere Colui che ha fatti tutti questi esseri i quali non posso comprendere? Io non comprendo la creatura, e voglio comprendere il Creatore? Io non comprendo il finito, e voglio comprendere l’infinito? Io non comprendo una ghianda, una mosca, un ciottolo, e voglio comprendere Dio e tutti i suoi insegnamenti !!… – Ma ciò è assurdo! Non avvi altro a rispondere. I misteri della Religione sono come il sole impenetrabile in se stessi, essi rischiarano e vivificano quelli che camminano con semplicità al loro lume; essi non accecano che l’occhio audace che vuole fissarli. – I misteri sono al di sopra della ragione, e non contrari alla ragione. Il che è ben differente.—La ragione non vede colle sole sue forze la verità, ch’essi esprimono; ma non vede però l’impossibilità di questa verità. – Così il mistero dell’eternità; dell’infinità di Dio.—Non comprendo come un essere possa non aver principio, e trovarsi in ogni luogo, tutt’intero. Ma io non vedo punto che ciò sia impossibile, contraddittorio nei termini. – Parimenti per il mistero della Trinità.— Non comprendo come una sola natura infinita, una sola e medesima divinità possa appartenere allo stesso tempo a tre Persone distinte; ma non vedo che ciò sia evidentemente contrario alla verità, impossibile in sé. —Il dire «Tre persone non fanno che una sola persona, » sarebbe evidentemente falso ed assurdo; ma non già: Tre persone hanno la medesima, ed unica natura divina, e per conseguenza non sono che un solo Dio. » – Così ancora, i misteri dell’incarnazione, della redenzione, dell’eucaristia, dell’eternità, dei premi e delle pene, e tutti gli altri, che insegna la Chiesa cattolica.—Non comprendo l’unione della natura divina alla natura umana in Gesù Cristo.—Non comprendo come Gesù Cristo, Dio, e uomo ha espiato colla sua morte tutti i nostri peccati, e come calla sua grazia, ch’Egli ha unita ai sacramenti applica questa santificazione alle nostre anime.—Io non veggo come il suo corpo glorificato sia presente nell’eucaristia, come la sostanza del pane, e del vino sia cambiata per la consacrazione del sacerdote nella Messa nella sostanza del corpo e del sangue adorabile del Salvatore.—Io non veggo, come una felicità ed una pena eterna siano la giusta ricompensa, e la giusta punizione di azioni temporali buone o ree, ecc. Ma non posso dire a me stesso, né altri il può dire più di me: « Ciò è evidentemente contrario alla verità , evidentemente, ed assolutamente impossibile. » – Dunque i misteri della religione sono al di sopra della ragione, e non ad essa contrari. – No la fede non è contraria alla ragione. Ben lungi da ciò, essa è sua sorella, e suo aiuto. È una luce più viva, che si aggiunge ad una prima luce. – La fede è alla ragione ciò che è il Telescopio all’occhio nudo. L’occhio col Telescopio vede ciò che non può vedere da solo. Penetra nelle regioni, che gli sono inaccessibili senza questo soccorso. Direte voi che il Telescopio è contrario alla vista? – Tale è la fede. Essa non fa che regolare, ed estendere la ragione. Essa la lascia applicare a tutto ciò che è di sua spettanza; e colà dove mancano le forze naturali, essa la prende, la solleva, e la fa penetrare verità nuove, soprannaturali, divine, sino i segreti di Dio. – Io credo dunque ì misteri della religione come credo quelli della natura, perché so che esistono. – Io so che i misteri della natura esistono perché testimoni irrefragabili me l’attestano: i miei sensi ed il senso comune. – Io so che i misteri della religione esistono, perché testimoni più irrefragabili ancora me l’attestano. Gesù Cristo e la sua Chiesa. La mia ragione mi serve per esaminare e pesare il valore della loro testimonianza. Ma una volta che colla luce della filosofia, della critica, e del buon senso, io esaminai i fatti che mi provano la verità, la divinità, l’infallibilità di queste testimonianze, la mia ragione ha terminata la sua opera; la fede le deve succedere, la ragione mi condusse alla verità. Essa parla, io non ho più che ascoltarla, che aprire la mia anima a credere, ad adorare! – La mia fede ai misteri cristiani è dunque sovranamente ragionevole. Essa prova uno spirito fermo e logico. La mia ragione mi disse: « Questi testimoni non possono ingannarti, nè ingannarsi. Essi ti apportano dal cielo la verità! » — Io mancherei alla mia ragione se non credessi alla loro parola. È una miserabile debolezza di spirito il non volere credere se non quello che si comprende.

XII.

VORREI BEN VOLENTIERI AVER LA FEDE MA NON POSSO.

R. Pura illusione che non vi scuserà al tribunale del tremendo Giudice che ci dichiarò che « a colui che crede in Esso ha la vita eterna, e che quello che non crede in Lui è già condannato. » – « Voi non potete credere? » E quali mezzi avete presi per arrivare alla fede? Chi vuole il fine vuol pure i mezzi, chi non cura i mezzi mostra evidentemente che non si prende pensiero del fine. – Ora è questo il vostro caso se non avete la fede. O non avete preso i mezzi per ottenerla, ovvero lì avete presi malamente; ciò che torna presso a poco allo stesso. – 1.° Avete pregato? Questa è la prima condizione di tutti i doni di Dio, per conseguenza anche della fede che è il dono il più prezioso, il più fondamentale. Avete domandato a Dio questa grazia della fede? — Come l’avete chiesta ? — Non forse alla sfuggita senza troppo curarvene, una volta di passaggio e senza perseveranza? — Avevate pregando, ed avete attualmente un profondo, sincero, e vivo desiderio di credere e di essere cristiano? Vi sono alcuni che domandano le virtù con grande paura di ottenerle. – 2.° Avete studiato la religione con un amore sincero della verità?— Siete stato a trovare un prete istruito, o almeno un cristiano illuminato nella sua credenza per esporre e sciogliere le vostre difficoltà? L’orgoglio è quello che sovente ne trattiene. – 3.° Vi siete deciso, se Dio vi concedeva la fede, a vivere secondo le sue sante ed austere massime, a combattere le vostre passioni, a travagliare alla vostra santificazione, a fare a Dio i sacrifici che vi domanderà? – Ecco, nella maggior parte degli increduli la vera ragione del loro stato. In sostanza è il cuore, è la passione che respinge la fede come troppo penosa e troppo incomoda. « La luce è venuta nel mondo, disse » Gesù Cristo, e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie. » Il cuore trasporta la testa. Allora i ragionamenti non giovano più a niente, non se ne vuole sapere della verità. Non avvi sordo peggiore di chi non vuol sentire. – Questo accecamento è volontario e colpevole nella sua causa, ecco perché nostro Signor Gesù Cristo dichiara che un incredulo è già giudicato: esso resisté alla verità. Siate di buona fede nella vostra ricerca della verità religiosa; domandale a Dio la luce con sincerità e perseveranza; esponete i vostri dubbi a un prete caritatevole ed illuminato: siate disposto a vivere secondo la fede, dopo che la sua luce divina schiarirà la vostra anima, ed io vi assicuro in nome di Gesù Cristo, che voi non tarderete a credere e ad essere un buon cattolico.

 

TEMPO DI QUARESIMA [3]

Capitolo III

PRATICA DELLA QUARESIMA

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I

Il timore salutare.

Dopo avere impiegato tre intere settimane a riconoscere le malattie della nostra anima e ad approfondire le ferite che ci ha fatte il peccato, ora dobbiamo sentirci preparati alla penitenza. Conosciamo meglio la giustizia e la santità di Dio ed i pericoli ai quali s’espone l’anima impenitente; per operare nella nostra anima un ritorno sincero e durevole, abbiamo abbandonato le vane gioie e le futilità del mondo; fu cosparsa di cenere la nostra testa, ed il nostro orgoglio si dovette umiliare sotto la sentenza di morte che si compirà in ciascuno di noi. Ma nel corso della prova che durerà quaranta giorni, così lunghi alla nostra debolezza, non saremo privati della presenza del nostro Salvatore. Sembrava ch’egli si fosse nascosto ai nostri occhi durante queste settimane, che risuonavano delle maledizioni pronunciate contro l’uomo peccatore; ma la sua assenza ci era salutare: era bene, per noi, imparare a tremare al tuono delle vendette divine. – « Principio della sapienza è il timor di Dio » (Sal. CX, 10); ed è perché siamo stati presi dal timore, che s’è risvegliato nelle nostre anime il sentimento della penitenza.

L’esempio affascinante di Cristo.

Ora, apriamo gli occhi e vediamo. È lo stesso Emmanuele che, raggiunta l’età dell’uomo, si mostra di nuovo a noi, non più sotto le sembianze del dolce bambino che adorammo nella culla, ma simile a un peccatore, tremante e umiliato dinanzi alla suprema maestà che noi abbiamo offesa, ed ai piedi della quale egli s’è offerto in nostra cauzione. Nell’amore fraterno che ci porta, è venuto ad incoraggiarci con la sua presenza ed i suoi esempi. Noi ci dedicheremo per lo spazio di quaranta giorni al digiuno ed all’astinenza: e Lui, l’innocente, consacrerà lo stesso tempo ad affliggere il suo corpo. Ci allontaneremo per un po’ di tempo dai rumorosi piaceri e dalle riunioni mondane: ed Egli si apparterà dalla compagnia e dalla vista degli uomini. Vorremo frequentare con più assiduità la casa di Dio e darci con più ardore alla preghiera: ed egli passerà quaranta giorni e quaranta notti a conversare col Padre, nell’atteggiamento d’un supplicante. Penseremo agli anni trascorsi, nell’amarezza del nostro cuore, e gemeremo a causa delle nostre iniquità: ed Egli le espierà con la sofferenza e le piangerà nel silenzio del deserto, come se le avesse commesse Lui. – È appena uscito dalle acque del Giordano, or ora da Lui santificate e rese feconde, e lo Spirito Santo Lo conduce verso la solitudine. – È giunta l’ora, per Lui, di manifestarsi al mondo; ma prima ha un grande esempio da darci: sottraendosi alla vista del Precursore e della folla, che vide la divina Colomba posarsi sopra di Lui e intese la voce del Padre celeste, si dirige là, verso il deserto. A breve distanza dal fiume s’eleva un’aspra e selvaggia montagna, chiamata in seguito dalle età cristiane la montagna della Quarantena. – Dalla sua ripida cresta si domina la pianura di Gerico, il corso del Giordano e il Mar Morto, che ricorda la collera di Dio. Là, nel fondo d’una grotta naturale approfondita nella roccia, si viene a stabilire il Figlio dell’Eterno, senz’altra compagnia che le bestie, che hanno scelta in quei luoghi la loro tana. Gesù vi penetra senz’alcun alimento per sostenere le sue forze umane; in quello scosceso ridotto manca perfino l’acqua per dissetarlo; solo la nuda pietra si offre a dar riposo alle sue membra spossate. Non prima di quaranta giorni gli Angeli s’avvicineranno e verranno a porgergli il nutrimento. – È così che il Salvatore ci precede e sorpassa nella via della santa Quaresima: provandola e adempiendola prima di noi, per far tacere col suo esempio tutti i nostri pretesti, tutti i nostri ragionamenti, e tutte le ripugnanze della nostra mollezza e della nostra superbia. Accettiamo quest’insegnamento in tutta la sua estensione e comprendiamo finalmente la legge dell’espiazione. Il Figlio di Dio, disceso da quell’austera montagna, apre la sua predicazione con questa sentenza, che indirizza a tutti gli uomini: «Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino » (Mt. IV, 17). Apriamo i nostri cuori a quest’invito del Redentore, affinché non sia obbligato a destarci dal nostro sonno con quella terribile minaccia che fece intendere in altra circostanza: « Se non farete penitenza, perirete tutti » (Lc. XIII, 3).

La vera penitenza.

Ora, la penitenza consiste nella contrizione del cuore e nella mortificazione del corpo: due parti che le sono essenziali. È stato il cuore dell’uomo a volere il male, e spesso il corpo l’ha aiutato a commetterlo. D’altra parte, essendo l’uomo composto dell’uno e dell’altro egli li deve unire entrambi nell’omaggio che rende a Dio. Il corpo avrà parte o alle delizie dell’eternità o ai tormenti dell’inferno; non c’è, dunque, vita cristiana completa, e neppure valida espiazione, se nell’una e nell’altra esso non si associa all’anima.

La conversione del cuore.

Ma il principio della vera penitenza sta nel cuore: lo impariamo dal Vangelo negli esempi del figliuol prodigo, della peccatrice, di Zaccheo il pubblicano e di S. Pietro. Perciò bisogna che il cuore abbandoni per sempre il peccato, che se ne dolga amaramente, che lo detesti e ne fugga le occasioni. A significare tale disposizione la Sacra Scrittura si serve di un’espressione ch’è passata nel linguaggio cristiano, e ritrae mirabilmente lo stato dell’anima sinceramente ravveduta dal peccato: essa lo chiama Conversione. Il cristiano, durante la Quaresima, deve esercitarsi nella penitenza del cuore e considerarla come il fondamento essenziale di tutti gli atti propri di questo santo tempo. Ma sarebbe sempre illusoria, se non aggiungesse l’omaggio del corpo ai sentimenti interni ch’essa ispira. Il Salvatore, sulla montagna non s’accontenta di gemere e di piangere sui nostri peccati: li espia con la sofferenza del proprio corpo; e la Chiesa, ch’è la sua infallibile interprete, ci ammonisce che non sarà accolta la penitenza del nostro cuore, se non l’uniremo all’esatta osservanza dell’astinenza e del digiuno.

Necessità dell’espiazione.

Come s’illudono, dunque, tanti onesti cristiani che si credono irreprensibili, specialmente quando dimenticano il loro passato e si paragonano agli altri, e, pienamente soddisfatti di se stessi, non riflettono mai ai pericoli d’una vita comoda ch’essi contano di condurre fino all’ultimo momento! A volte essi credono di non dover più pensare ai loro peccati: non li hanno confessati sinceramente? La regolarità con la quale conducono ormai la vita non è prova della loro solida virtù? Che hanno ancora da fare con la giustizia di Dio? E li vediamo puntualmente sollecitare tutte le dispense possibili, nella Quaresima: perché l’astinenza sarebbe loro d’incomodo, e il digiuno non è più conciliabile con la salute, con le occupazioni e le abitudini di oggi. Non pretendono affatto di essere migliori di questi e quelli che non digiunano e non fanno astinenza; e siccome non sono neppure capaci di avere il pensiero di supplire con altre pratiche di penitenza, quelle prescritte dalla Chiesa, è chiaro che, senza accorgersi e insensibilmente, finiranno col non essere più cristiani. – La Chiesa, testimone di questa spaventevole decadenza del senso soprannaturale, temendo una resistenza che accelererebbe ancora di più le ultime pulsazioni d’una vita moribonda, continua ad allargare la via delle mitigazioni; nella speranza di conservare una scintilla di cristianesimo, in un avvenire migliore, essa preferisce affidare alla giustizia di Dio i figli che non l’ascoltano più, quando indica loro i mezzi di propiziarsi quella giustizia fin da questo mondo. – E quei cristiani s’abbandonano alla massima sicurezza, senza darsi mai il pensiero di paragonare la loro vita con gli esempi di Gesù Cristo e dei Santi, e con le norme secolari della penitenza cristiana.

Dispense e tiepidezza.

Vi sono senza dubbio delle eccezioni ad un simile pericoloso rilassamento, ma quanto sono rare, specialmente nelle nostre città! Quali pregiudizi, quali vani pretesti e quali infausti esempi contribuiscono a guastare le anime! Quante volte, dalla bocca di quegli stessi che si gloriano della prerogativa di cattolici, si sente pronunciare l’ingenua scusa che non fanno astinenza e non digiunano, perché l’astinenza e il digiuno li mettono a disagio e li affaticano troppo! come se l’astinenza e il digiuno non avessero precisamente lo scopo d’imporre su questo corpo di peccato (Rom. VI, 6) un giogo penoso! Veramente costoro sembrano aver perduto il senno. Ma quanto sarà grande la loro meraviglia quando il Signore, nel giorno del suo giudizio li metterà a confronto con tanti poveri musulmani che, in seno ad una religione tanto sensuale e depravata, pure sanno trovare in sé ogni anno, il coraggio d’adempiere le due privazioni dei trenta giorni del loro Ramadan! – Ma è proprio necessario confrontarli con altri quelli che si dicono incapaci di sopportare le astinenze e i digiuni così ridotti di una Quaresima, quando Dio li vede ogni giorno sovraccaricarsi di tante e ben più penose fatiche nella ricerca degli interessi e dei godimenti di questo mondo? Quanta salute sciupata nei piaceri, almeno frivoli, e sempre pericolosi! l’avessero invece mantenuta in tutto il suo vigore, e fosse stata la loro vita regolata e dominata dalla legge cristiana, piuttosto che dal desiderio di piacere al mondo! Ma la rilassatezza è tale, che non si concepisce nessun turbamento e nessun rimorso; si rimandala Quaresima al Medio Evo, senza osservare che la remissività della Chiesa ha sempre proporzionato le osservanze alla nostra debolezza fisica e morale. S’è conservata o riconquistata, per la misericordia divina, la fede dei padri; e non ci si è ancora ricordati che la pratica della Quaresima è un indice essenziale di cattolicesimo, e che la Riforma protestante del XVI secolo ebbe come una delle sue principali finalità, scritta pure sulla sua bandiera, l’abolizione dell’astinenza e del digiuno.

Dispensa legittima e necessità del pentimento.

Ma, si dirà, non vi possono essere delle legittime dispense? Sicuramente ve ne sono, e, in questo secolo di svigorimento generale, ben di più che nei secoli precedenti. Però stiamo bene attenti a non equivocare. Se tu hai forze per tollerare altre fatiche, perché non ne avrai per compiere il dovere dell’astinenza? Che se ti arresta il timore d’un lieve incomodo, hai dimenticato che i peccati non saranno rimessi senza espiazione? L’opinione dei medici che presagiscono un indebolimento delle tue forze, in seguito al digiuno, può avere una fondata ragione; ma la questione è di sapere, se questa mortificazione della carne, la Chiesa non te la prescrive. appunto nell’interesse della tua anima. Ma ammettiamo pure che la dispensa sia legittima, che la tua salute incorrerebbe un vero pericolo, e che, se osservassi alla lettera le prescrizioni della Chiesa, ne soffrirebbero i tuoi doveri essenziali; in questo caso, pensi di sostituire con altre opere di penitenza quelle che le tue forze non ti permettono di praticare? chiedi a Dio la grazia di potere, un altr’anno, partecipare ai meriti dei tuoi fratelli, adempiendo con essi quelle sante pratiche che devono essere il motivo della misericordia e del perdono? Se è così, la dispensa non ti nuocerà; e quando la festa di Pasqua inviterà i figli fedeli della Chiesa alle sue ineffabili gioie, anche tu potrai unirti fiducioso a quelli che avranno digiunato; perché, se la debolezza del tuo corpo non t’avrà permesso di seguirli esteriormente, il tuo cuore sarà rimasto fedele allo spirito della Quaresima.

Beneficio dell’istituzione del digiuno.

Scrivendo queste pagine, abbiamo di mira solo i lettori cristiani che ci hanno seguiti fino a questo punto; ma che sarebbe, se dovessimo considerare il risultato della sospensione delle sante leggi della Quaresima sopra la massa delle popolazioni, specialmente delle città? Perché i nostri scrittori cattolici, i quali hanno illustrate tante questioni, non hanno insistito sui tristi effetti che produce nella società la cessazione d’una pratica che, mentre ricorda ogni anno il bisogno dell’espiazione, conserverebbe più d’ogni altra istituzione il sentimento del bene e del male? Non occorre riflettere a lungo, per comprendere la superiorità di un popolo che s’impone, per quaranta giorni all’anno, una serie di privazioni, allo scopo di riparare le violazioni da esso commesse nell’ordine morale, sopra un altro che in nessun periodo dell’anno pensa alla riparazione ed all’emendaménto

Coraggio e confidenza.

Si rianimino di coraggio, dunque, i figli della Chiesa, ed aspirino a quella pace della coscienza ch’è solo assicurata all’anima veramente penitente. L’innocenza perduta si riacquista con l’umile confessione della colpa, quando è accompagnata dall’assoluzione del sacerdote; ma il fedele si guarderà bene dal pericoloso pregiudizio, che non ha più niente da fare dopo il perdono. Ricordiamo l’avvertimento così grave dello Spirito Santo nella Scrittura : « Del peccato perdonato non essere senza timore » (Eccli. V, 5). La certezza del perdono è in ragione del mutamento del cuore; e tanto più uno si può abbandonare alla confidenza, quanto più costante ha in sé il dispiacere dei peccati e la premura di espiarli per tutta la vita. « L’uomo non sa se sia degno di amore o di odio » (Eccli. IX, 1), aggiunge la Scrittura; e può sperare d’essere degno di amore colui che sente in sé di non essere abbandonato dallo spirito di penitenza.

La preghiera.

Entriamo dunque risoluti nella santa via che la Chiesa apre davanti a noi, e fecondiamo il nostro digiuno con gli altri due mezzi che. Dio ci indica nei Libri sacri: la Preghiera e l’Elemosina. Come con la parola digiuno la Chiesa intende tutte le opere della mortificazione cristiana, così con quella della preghiera essa comprende tutti quei pii esercizi, per mezzo dei quali l’anima s’indirizza a Dio. – La frequenza più assidua alla chiesa, l’assistenza quotidiana al santo Sacrificio, le devote letture, la meditazione sulle verità della salvezza e sui patimenti del Redentore, l’esame di coscienza, la recita dei Salmi, l’assistenza alla predicazione particolare di questo santo tempo, e soprattutto il ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Eucaristia, sono i principali mezzi coi quali i fedeli possono offrire al Signore l’omaggio della loro Preghiera.

L’elemosina.

L’elemosina contiene tutte le opere di misericordia verso il prossimo; e i santi Dottori della Chiesa l’hanno all’unanimità raccomandata, come il complemento necessario del Digiuno e della Preghiera durante la Quaresima. È una legge stabilita da Dio, alla quale Egli stesso ha voluto assoggettarsi, che la carità esercitata verso i nostri fratelli, con l’intenzione di piacere a Lui, ottiene sul suo cuore paterno lo stesso effetto che se fosse esercitata direttamente verso Lui; tale è la forza e la santità del legame col quale ha voluto unire gli uomini fra di loro. E, come Egli non accetta l’amore di un cuore chiuso alla misericordia, così riconosce per vera, e come diretta a sé, la carità del cristiano che, sollevando il proprio fratello, onora quel vincolo sublime, per mezzo del quale tutti gli uomini sono uniti a formare una sola famiglia, il cui Padre è Dio. Appunto in virtù di questo sentimento, l’elemosina non è semplicemente un atto di umanità, ma s’innalza alla dignità d’un atto di religione, che sale direttamente a Dio e ne placa la giustizia. – Ricordiamo l’ultima raccomandazione che fece l’Arcangelo San Raffaele alla famiglia di Tobia, prima di risalire al cielo : « Buona cosa è la preghiera col digiuno, e l’elemosina val più dei monti di tesori d’oro, perché l’elemosina libera dalla morte, purifica dai peccati, fa trovare la misericordia e la vita eterna » (Tob. XII, 8-9). Non è meno precisa la dottrina dei Libri Sapienziali: « L’acqua spegne la fiamma, e l’elemosina resiste ai peccati » (Eccli. III, 33). « Nascondi l’elemosina nel seno del povero, ed essa pregherà per te contro ogni male » (Ibid. XXIX, 15). Che tali consolanti promesse siano sempre presenti alla mente del cristiano, e ancor più nel corso di questa santa Quarantena; e che il povero, il quale digiuna per tutto l’anno, s’accorga che questo è un tempo in cui anche il ricco s’impone delle privazioni. Di solito una vita frugale genera il superfluo, relativamente agli altri tempi dell’anno; che questo superfluo vada a sollievo dei Lazzari. Niente sarebbe più contrario allo spirito della Quaresima, che gareggiare in lusso e in spese di mensa con le stagioni in cui Dio ci permette di vivere nell’agiatezza che ci ha data. È bello che, in questi giorni di penitenza e di misericordia, la vita del povero si addolcisca, a misura che quella del ricco partecipa di più a quella frugalità ed astinenza, che sono la sorte ordinaria della maggior parte degli uomini. Allora, sia poveri che ricchi, si presenteranno con sentimento veramente fraterno a quel solenne banchetto della Pasqua che Cristo risorto ci offrirà fra quaranta giorni.

Lo spirito di raccoglimento.

Finalmente, v’è un ultimo mezzo per assicurare in noi i frutti della Quaresima, ed è lo spirito di raccoglimento e di separazione dal mondo. Le abitudini di questo santo tempo devono distinguersi sotto ogni rapporto da quelle del resto dell’anno; altrimenti l’impressione salutare che abbiamo ricevuta nel momento che la Chiesa c’imponeva la cenere sulla fronte, svanirà in pochi giorni. Perciò il cristiano deve far tregua coi vani divertimenti del secolo, con le feste mondane e coi trattenimenti profani. Quanto agli spettacoli perversi e svenevoli, o alle veglie di piacere, che sogliono essere lo scoglio della virtù e il trionfo dello spirito del mondo, se in nessun tempo è lecito al discepolo di Gesù Cristo comparirvi, se non per una situazione particolare o per pura necessità, come potrebbe intervenirvi in questi giorni di penitenza e di raccoglimento, senza rinnegare in qualche maniera il suo nome di cristiano, e senza rinunciare a tutti i sentimenti di un’anima penetrata del pensiero delle sue colpe e del timore dei giudizi di Dio? La società cristiana oggi, purtroppo, non ha più, durante la Quaresima, quella gravità esteriore di austera tristezza che abbiamo ammirato nei secoli di fede; ma fra Dio e e l’uomo, e l’uomo e Dio, nulla è mutato; e rimane sempre la grande parola: «Se non farete penitenza, perirete tutti». Oggi sono molto pochi a dare ascolto a quella parola, e per questo molti periscono.Ma coloro nei quali essa cade, devono ricordarsi degli ammonimenti che dava il Salvatore nella Domenica di Sessagesima: egli diceva che parte della semente viene calpestata dai passanti, o divorata dagli uccelli dell’aria; parte è seccata dall’aridità dei sassi che la ricevono; e parte, infine, è soffocata dalle spine. Perciò, non risparmiamo cure, affinché diventiamo quella buona terra, che non solo riceve la semente, ma ne centuplica i frutti per la raccolta del Signore che s’avvicina.

L’attraente austerità della Quaresima.

Leggendo queste pagine, nelle quali ci siamo sforzati d’esprimere il pensiero della Chiesa così come ci viene significato, oltre che nella Liturgia, anche nei santi canoni dei Concili e negli scritti dei santi Dottori, forse più d’uno dei nostri lettori avrà rimpianto la dolce e graziosa poesia, di cui si mostrava ricco l’anno liturgico nei quaranta giorni che celebrammo la nascita dell’Emmanuele. Già il Tempo della Settuagesima venne a stendere un mesto velo su quelle sorridenti immagini; ed ora siamo entrati in un deserto arido, irto di spine e privo d’acque zampillanti. Ma non dobbiamo dolercene, perché la Chiesa conosce i nostri veri bisogni e li vuole appagare. – Per avvicinarci al Bambino Gesù, essa non ci chiese che una leggera preparazione, con l’Avvento, perché i misteri dell’Uomo-Dio erano ancora all’inizio. Molti vennero al presepio con la semplicità dei pastori betlemiti, non conoscendo ancora abbastanza né la santità del Dio incarnato, né la precaria e colpevole condizione della loro anima; ma oggi che il Figlio dell’Eterno è entrato nella via della penitenza, e fra poco Lo vedremo in preda a tutte le umiliazioni e a tutti i dolori, sull’albero della croce, la Chiesa ci fa uscire dalla nostra sciocca sicurezza, e vuole che ci percotiamo il petto, che affliggiamo le nostre anime e mortifichiamo i nostri corpi, perché siamo peccatori. La penitenza dovrebbe essere il retaggio dell’intera nostra vita; le anime ferventi non l’interrompono mai; è quindi giusto e salutare per noi, che una buona volta ne facciamo almeno la prova, in questi giorni che il Salvatore soffre nel deserto, in attesa del momento in cui spirerà sul Calvario. Raccogliamo ancora dalle sue labbra le parole che rivolse alle donne di Gerusalemme che piangevano al suo passaggio, il giorno della sua Passione: « Ché se si tratta così il legno verde, che sarà del secco?» (Lc. XXIII, 31). Ma, per la misericordia del Redentore, il legno secco può riprendere la linfa e sfuggire al fuoco. Tale è la speranza e il desiderio della santa Chiesa, ed è per questo che ci impone il giogo della Quaresima. Percorrendo costantemente questa via faticosa, i nostri occhi a poco a poco vedranno brillare la luce. Se eravamo lontani da Dio col peccato, questo santo tempo sarà la nostra via purgativa, come dicono i mistici dottori; e i nostri occhi si purificheranno, perché arrivino a contemplare il Dio vincitore della morte. Se poi camminiamo già nei sentieri della via illuminativa, dopo aver approfondito così vantaggiosamente la bassezza dalle nostre miserie, nel Tempo della Settuagesima, ritroveremo ora Colui ch’è la nostra Luce; infatti, se abbiamo saputo vederlo sotto le sembianze del Bambino di Betlem, Lo riconosceremo anche, senza fatica, nel divino Penitente del deserto e presto nella vittima sanguinante del Calvario.

TEMPO DI QUARESIMA [2]

Capitolo II

MISTICA DELLA QUARESIMA

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico vol I]

Non ci si deve meravigliare se un tempo così sacro come quello della Quaresima sia così pieno di misteri. La Chiesa, che la considera come la preparazione alla più gloriosa delle sue feste, ha voluto che questo periodo di raccoglimento e di penitenza fosse caratterizzato dalle circostanze più idonee a risvegliare la fede dei cristiani ed a sostenere la loro costanza nell’opera dell’espiazione annuale. – Nel Tempo della Settuagesima riscontrammo il numero settuagenario, che ci richiamava i settant’anni della cattività in Babilonia, dopo i quali il popolo di Dio, purificato dalla sua idolatria, doveva rivedere Gerusalemme e celebrarvi la Pasqua. Ora è il numero quaranta che la santa Chiesa presenta alla nostra religiosa attenzione, il numero che, al dire di S. Girolamo, è sempre quello della pena e dell’afflizione (Comm. d’Ezechiele, c. XX).

Il numero 40 e il suo significato.

Ricordiamo la pioggia dei quaranta giorni e delle quaranta notti, causata dai tesori della collera di Dio, quando si pentì d’aver creato l’uomo (Gen. VII, 12) e sommerse nei flutti il genere umano, ad eccezione d’una sola famiglia. Pensiamo al popolo ebreo che errò quaranta anni nel deserto, in punizione della sua ingratitudine, prima di poter entrare nella terra promessa (Num. XIV, 33). Ascoltiamo il Signore, che ordina al profeta Ezechiele (IV, 6) di starsene coricato quaranta giorni sul suo lato destro, per indicare la durata d’un regno al quale doveva seguire la rovina di Gerusalemme. Due uomini, nell’Antico Testamento, hanno la missione di raffigurare nella propria persona le due manifestazioni di Dio: Mosè, che rappresenta la Legge, ed Elia, nel quale è simboleggiata la profezia. L’uno e l’altro s’avvicinano a Dio; il primo sul Sinai (Es. XXIV,18), il secondo sull’Oreb (III Re XIX, 8); ma sia l’uno che l’altro non possono accostarsi alla divinità, se non dopo essersi purificati con l’espiazione in un digiuno di quaranta giorni. – Rifacendoci a questi grandi avvenimenti, riusciremo a capire perché mai il Figlio di Dio incarnato per la salvezza degli uomini, avendo deciso di sottoporre la sua divina carne ai rigori del digiuno, volle scegliere il numero di quaranta giorni per quest’atto solenne. – L’istituzione della Quaresima ci apparirà allora in tutta la sua maestosa severità, e quale mezzo efficace per placare la collera di Dio e purificare le nostre anime. Eleviamo dunque i nostri pensieri al di sopra dello stretto orizzonte che ci circonda, e vedremo lo spettacolo di tutte le nazioni cristiane del mondo, offrire in questi giorni al Signore sdegnato quest’immenso quadragenario dell’espiazione; e nutriamo la speranza che, come al tempo di Giona, egli si degnerà anche quest’anno fare misericordia al suo popolo.

L’esercito di Dio.

Dopo queste considerazioni relative alla durata del tempo che dobbiamo passare, apprendiamo ora dalla Chiesa sotto quale simbolo essa considera i suoi figli durante la santa Quarantena. La Chiesa vede in essi un immenso esercito, che combatte giorno e notte contro il nemico di Dio. Per questa ragione il Mercoledì delle Ceneri essa ha chiamato la Quaresima la carriera della milizia cristiana. – Per ottenere infatti quella rigenerazione che ci farà degni di ritrovare le sante allegrezze dell’Alleluia, noi dobbiamo aver trionfato dei nostri tre nemici: il demonio, la carne e il mondo. Insieme al Redentore che lotta sulla montagna contro la triplice tentazione e lo stesso Satana, dobbiamo essere armati e vegliare senza stancarci. Per sostenerci con la speranza della vittoria ed animarci a confidare nel divino soccorso, la Chiesa ci presenta il Salmo XC, che colloca fra le preghiere della Messa nella prima Domenica di Quaresima, e del quale attinge quotidianamente molti versetti per le diverse Ore dell’Ufficio. Con la meditazione di quel Salmo vuole che contiamo sulla protezione che Dio stende sopra di noi come uno scudo; che attendiamo all’ombra delle sue ali; che abbiamo fiducia in lui, perché Egli ci strapperà dal laccio del cacciatore infernale, che ci aveva rapita la santa libertà dei figli di Dio; che siamo assicurati del soccorso dei santi Angeli, nostri fratelli, ai quali il Signore ha dato ordine di custodirci in tutte le nostre vie, e che, testimoni riverenti della lotta sostenuta dal Salvatore contro Satana, s’avvicinarono a Lui dopo la vittoria per servirLo e rendere i loro omaggi. Entriamo nei sentimenti che la santa Chiesa ci vuole ispirare, e durante questi giorni che dovremo lottare ricorriamo spesso al bel canto che essa ci indica come l’espressione più completa dei sentimenti che devono animare, in questa santa campagna, i soldati della milizia cristiana.

La pedagogia della Chiesa.

Ma la Chiesa non si limita a darci una semplice parola d’ordine contro le sorprese del nemico; per occupare tutta la nostra mente ci mette davanti tre grandi spettacoli, che si svolgeranno giorno per giorno fino alla festa di Pasqua, e ciascuno dei quali ci procurerà delle pie emozioni insieme alla più solida istruzione. Gesù Cristo perseguitato e mandato a morte. Prima assisteremo alla fine della congiura dei Giudei contro il Redentore: congiura che si inizia ora per esplodere il Venerdì Santo, quando vedremo il Figlio di Dio inchiodato sull’albero della Croce. Le passioni che si agitano in seno alla Sinagoga si manifesteranno di settimana in settimana, e noi le potremo seguire in tutto il loro svolgersi. La dignità, la pazienza e la mansuetudine dell’augusta vittima ci appariranno sempre più sublimi e più degne di un Dio. Il dramma divino che vedemmo aprirsi nella grotta di Betlem continuerà fino al Calvario; e per seguirlo, non abbiamo che da meditare le letture del Vangelo che la Chiesa ci presenterà giorno per giorno.

La preparazione al Battesimo.

In secondo luogo, ricordandoci che la festa di Pasqua è per i Catecumeni il giorno della nuova nascita, riandremo col pensiero a quei primi secoli del Cristianesimo, quando la Quaresima era l’ultima preparazione dei candidati al Battesimo. La sacra Liturgia ha conservata la traccia di quell’antica disciplina, di modo che, mentre ascolteremo le splendide letture dei due Testamenti, con le quali terminava l’ultima iniziazione, ringrazieremo Dio, che si degnò di farci nascere in tempi, nei quali il bambino non deve più attendere l’età dell’uomo per esperimentare le divine misericordie. Penseremo pure a quei nuovi Catecumeni che, anche ai nostri giorni, nei paesi evangelizzati dai nostri moderni apostoli, aspettano, come nei tempi antichi, la grande solennità del Salvatore che vince la morte, per discendere nella sacra piscina ed attingervi un nuovo essere.

La pubblica penitenza.

Finalmente durante la Quaresima dobbiamo richiamare alla memoria quei pubblici Penitenti che, espulsi solennemente dall’assemblea dei fedeli il Mercoledì delle Ceneri, formavano in tutto il corso della santa Quarantena un oggetto di materna preoccupazione per la Chiesa, che doveva ammetterli, se lo meritavano, alla riconciliazione, il Giovedì Santo. Una serie ammirabile di letture destinata alla loro istruzione e ad interessare i fedeli a loro favore, scorrerà sotto ai nostri occhi; poiché la Liturgia non ha perduto niente di quelle solide tradizioni. Ci ricorderemo allora con quale facilità sono state a noi perdonate le iniquità, che forse nei secoli passati non ci sarebbero state rimesse, se non dopo dure e solenni espiazioni; e, pensando alla giustizia del Signore, che non muta mai, qualunque siano i cambiamenti che l’accondiscendenza della Chiesa introdusse nella sacra disciplina, ci sentiremo tanto più portati ad offrire a Dio il sacrificio d’un cuore veramente contrito e ad animare con un sincero spirito di penitenza, le piccole soddisfazioni che presenteremo alla sua divina Maestà.

Riti e Usanze Liturgiche.

Per conservare al sacro tempo della Quaresima il carattere di austerità che gli conviene la Chiesa, per moltissimi secoli, si mostrò molto riservata nell’ammettere feste in questo periodo dell’anno, perché esse recano sempre con sé dei motivi di gioia. Nel IV secolo, il Concilio di Laodicea già mostrava tale disposizione nel suo Canone, là dove permetteva di celebrare la festa dei Santi solo i sabati e le domeniche. La Chiesa greca si mantenne in questo rigore, e solo parecchi secoli dopo il Concilio di Laodicea permise, per il 25 marzo, la festa dell’Annunciazione. – La Chiesa Romana conservò per lungo tempo questa disciplina, almeno all’inizio; però ammise molto presto la festa dell’Annunciazione, ed in seguito quella dell’Apostolo S. Mattia, il 24 febbraio e in questi ultimi secoli aprì il suo calendario a diverse altre feste nella parte corrispondente alla Quaresima, ma sempre però con limitata misura, per rispettare lo spirito dell’antichità. – La ragione per cui la Chiesa Romana ammise più facilmente le feste dei Santi nella Quaresima è che gli Occidentali non ritengono la celebrazione delle feste incompatibile col digiuno; mentre i Greci sono persuasi del contrario, tanto che il sabato, considerato sempre dagli Orientali un giorno solenne, non è mai per loro, giorno di digiuno, a meno che sia il Sabato Santo. Per lo stesso motivo essi non digiunano il giorno dell’Annunciazione, per riguardo alla solennità di tale festa. – Questo modo di pensare degli Orientali diede origine, verso il VII secolo, ad un’istituzione ch’è loro particolare, chiamata da essi la Messa dei Presantificati, cioè delle cose consacrate in un Sacrificio precedente. Ogni domenica di Quaresima il celebrante consacra sei ostie, di cui una la consuma nel Sacrificio, le altre cinque sono riservate per una semplice comunione da farsi in ciascuno dei cinque giorni seguenti, senza Sacrificio. La Chiesa latina pratica questo rito una sola volta l’anno, il Venerdì Santo, e per una ragione profonda che spiegheremo a suo tempo. – Il principio di tale usanza presso i Greci è scaturito evidentemente dal 49.0 Canone del Concilio di Laodicea, che prescrive di non offrire il pane del Sacrificio in Quaresima, se non il sabato e la domenica. Nei secoli seguenti i Greci conclusero da questo canone che la celebrazione del Sacrificio non si poteva conciliare col digiuno; e da una loro controversia avuta nell’XI secolo col legato Umberto (Contro Niceta, t. IV), sappiamo, che la Messa dei Presantificati, che ha in suo favore un canone del famosissimo concilio chiamato in Trullo, tenuto nel 692, era giustificata dai Greci da ciò che in quel Canone si affermava e cioè che la comunione del corpo e del sangue del Signore rompeva il digiuno quaresimale. – I Greci celebrano detta cerimonia la sera, dopo l’Ufficio dei Vespri; in essa il solo celebrante si comunica, come da noi il Venerdì Santo. Però da molti secoli, fanno eccezione per il giorno dell’Annunciazione, nella quale solennità, siccome è sospeso il digiuno, celebrano il Sacrificio e i fedeli si comunicano. La norma del Concilio di Laodicea pare non sia stata mai accolta dalla Chiesa d’Occidente, e non troviamo, a Roma, nessuna traccia della sospensione del Sacrificio in Quaresima. – La mancanza di spazio ci obbliga a non accennare che leggermente a tutti i dettagli di questo capitolo. Se non che ci resta ancora da dire qualche cosa circa le consuetudini della Quaresima in Occidente. – Già ne abbiamo fatte conoscere e spiegate parecchie del Tempo della Settuagesima. La sospensione dell’Alleluia, l’uso del colore violaceo nei paramenti sacri, la soppressione della dalmatica del diacono e della tunica del suddiacono; i due inni gioiosi “Gloria in excelsis” e “Te Deum laudamus”, entrambi proibiti; il Tratto, che supplisce nella Messa il versetto alleluiatico; l’ “ite, Missa est”, sostituito da un’altra formula; l’Oremus della penitenza che si recita sul popolo a fine Messa, nei giorni della settimana in cui non si celebra la festa d’un Santo; i Vespri sempre anticipati prima di mezzogiorno, eccetto le Domeniche: sono diversi riti già noti ai nostri lettori. Quanto alle cerimonie attualmente in uso, rimangono da notare le preghiere che si fanno in ginocchio alla fine d’ogni Ora dell’Ufficio, nei giorni feriali, ed anche la consuetudine in virtù della quale nei medesimi giorni, tutto il Coro rimane genuflesso durante l’intero Canone della Messa. – Ma le nostre Chiese d’Occidente praticavano ancora in Quaresima altri riti, che da parecchi secoli sono caduti in disuso, sebbene alcuni di essi si siano conservati, in talune località, fino ai nostri giorni. Il più imponente di tutti era quello di stendere un gran velo, ordinariamente di colore violaceo, chiamato cortina, fra il coro e l’altare, così che né il clero né il popolo potevano più vedere i santi Misteri che vi si celebravano dietro. Il velo simboleggiava il dolore della penitenza, al quale si deve sottoporre il peccatore, per meritare di contemplare di nuovo la maestà di Dio, il cui sguardo fu oltraggiato dalle sue iniquità [«Sappiamo dall’antica disciplina della Chiesa, che i pubblici penitenti erano sottoposti, durante la santa Quarantena, ad un regime speciale di penitenza, che cominciava in Quaresima con l’imposizione delle ceneri e l’espulsione dalla chiesa, e terminava il Giovedì Santo con la pubblica riconciliazione. Ora, a mano a mano che lo stretto regime della penitenza pubblica andò scemando, l’idea della pubblica penitenza si estese alla generalità dei fedeli. Cosi noi vediamo il clero e i fedeli chiedere ben presto spontaneamente l’imposizioni delle ceneri e, con ciò stesso, riconoscersi, in qualche maniera, pubblici penitenti: è come se l’intera comunità dei fedeli passasse la Quaresima nella pubblica penitenza. « Ma. benché considerati come peccatori e penitenti, non potevano evidentemente tutti i fedeli esser cacciati fuori dalla chiesa; si doveva, allora, assolutamente rinunciare a ricordar loro alcune grandi verità che la Liturgia inculcava ai pubblici penitenti? I peccatori meritavano d’essere esclusi dalla Chiesa, come Adamo era stato cacciato dal paradiso a causa della sua colpa; senza penitenza non era possibile raggiungere il regno del cielo e la visione di Dio. Quindi, non ha forse cercato la Liturgia di ribadire questa verità in una maniera sensibile, nascondendo alla loro vista l’altare, il santuario, l’immagine di Dio e quella dei Santi uniti a lui nella gloria celeste? » – C. Callewaert, Sacris erudit., p. 699]. – Esso significava anche le umiliazioni di Cristo, che furono scandalo alla superbia della Sinagoga, ma poi scomparvero tutto ad un tratto, come un velo che in un attimo si toglie, per dar luogo agli splendori della Risurrezione (Onorio d’Autun, Gemma animæ, 1. III, c. XVI). La medesima usanza, fra gli altri luoghi, è rimasta anche nella Chiesa metropolitana di Parigi. In molte Chiese c’era anche la consuetudine di velare la croce e le immagini dei santi fin dall’inizio della Quaresima, per ispirare una più viva compunzione ai fedeli, i quali si vedevano così privati della consolazione di posare lo sguardo sopra gli oggetti cari alla loro pietà. Però questa pratica, che s’è pure conservata in alcuni luoghi (come nel Rito Ambrosiano) è meno giustificata di quella della Chiesa Romana, la quale copre i crocifissi e le immagini solo nel tempo di Passione, come a suo luogo spiegheremo. Apprendiamo dagli antichi cerimoniali del Medio Evo, che si solevano fare durante la Quaresima numerose processioni da una chiesa all’altra, particolarmente i mercoledì e i venerdì; nei monasteri queste processioni si facevano attraverso i chiostri, ed a piedi nudi (Martène, De antiquis Ecclesiae ritibus, t. III, c. XVIII). Erano un’imitazione delle stazioni di Roma, che in Quaresima sono giornaliere, e che, per molti secoli, cominciavano con una processione solenne alla chiesa stazionale. – Finalmente, la Chiesa ha sempre moltiplicato le sue preghiere durante la Quaresima. Fino a questi ultimi tempi la disciplina voleva che nelle chiese cattedrali e collegiali, purché non esenti da una consuetudine contraria, si doveva aggiungere alle Ore Canoniche: il lunedì l’Ufficio dei Morti, il mercoledì i Salmi Graduali, e il venerdì i Salmi Penitenziali. Nelle Chiese di Francia, nel Medio Evo, si doveva aggiungere un Salterio intero, ogni settimana, all’Ufficio ordinario (Martène, ivi, t. III, c. XVII

TEMPO DI QUARESIMA [I]

 

TEMPO DI QUARESIMA [I]

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol I]

 

Capitolo I

STORIA DELLA QUARESIMA

Chiamiamo Quaresima quel periodo di preghiera e di penitenza, durante il quale la Chiesa prepara le anime a celebrare degnamente il mistero della Redenzione.

La preghiera.

A tutti i fedeli, anche i più ferventi, essa offre questo tempo come ritiro annuale, che loro offre l’occasione di riparare le negligenze passate e ravvivare la fiamma del loro zelo. Offre ai catecumeni, come nei primi secoli, l’istruzione e la preparazione alla fede battesimale; richiama ai penitenti la gravità del peccato, per eccitarli al pentimento ed ai buoni propositi, e promette loro il perdono del Cuore di Nostro Signore. – Nel 490 capitolo della sua Regola, S. Benedetto raccomanda ai suoi monaci che si applichino, durante questo santo tempo, ad una preghiera « accompagnata da lacrime », siano esse del pentimento o dell’amore.

Nella Messa di ciascun giorno il cristiano, a qualsiasi stato appartenga, troverà le più belle formule di preghiere, con le quali si rivolgerà a Dio. Antiche spesso di quindici e più secoli, s’adattano sempre alle aspirazioni d’ognuno ed ai bisogni di tutti i tempi.

La penitenza.

La penitenza s’esercita, o meglio s’esercitava, principalmente mediante la pratica del digiuno. Le temporanee dispense concesse dal Sovrano Pontefice alcuni anni fa non costituiscono per noi una ragione sufficiente di sottacere un dovere così importante, al quale fanno incessante allusione le Orazioni d’ogni Messa di Quaresima, e di cui tutti devono almeno conservare lo spirito, qualora la durezza dei tempi che si attraversano o la gracilità della salute non ne permetterà l’osservanza in tutta la sua estensione e il suo rigore. Essa risale ai primi tempi del cristianesimo, ed è anche anteriore. La pratica del digiuno fu osservata dai Profeti Mosè ed Elia, i cui esempi ci saranno esposti il mercoledì della prima settimana di Quaresima; per quaranta giorni e quaranta notti fu osservata da Nostro Signore in modo assoluto, senza prendere il minimo alimento; e sebbene egli non abbia voluto farne un precetto, che non sarebbe stato più suscettibile di dispense, pure tenne a dichiarare che il digiuno, spesso comandato da Dio nell’Antica Legge, sarebbe stato anche osservato dai figli della Nuova Legge. – Un giorno i discepoli di Giovanni s’avvicinarono a Gesù e gli dissero: « Per qual motivo, mentre noi e i Farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiunano ? E Gesù rispose loro: Com’è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora digiuneranno » (Mt. 9, 14-15). – I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciarono molto presto a passare nel digiuno assoluto i tre giorni (che per loro era uno solo) del mistero della Redenzione, cioè dal giovedì Santo al mattino di Pasqua. Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si digiunava il Venerdì e il Sabato Santo e S. Ireneo, nella Lettera al Papa S. Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante l’intera Settimana Santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un periodo di crescente aumento, divenne di quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima. – La più antica menzione della « Quarantena », in Oriente, si riscontra nel V can. del Concilio di Nicea (325). Il Vescovo di Tmuis, Serapione, attesta a sua volta, nel 331, che la « Quaresima » era al suo tempo una pratica universale, sia in Oriente che in Occidente. I Padri, come S. Agostino (Discorso 210) dicono antichissima tale pratica; e S. Leone (Discorso 6) arriva a pensare, però a torto, che risaliva ai tempi apostolici. I primi a parlarci del digiuno quaresimale furono i Padri, e tra loro S. Ambrogio e S. Girolamo. I Sermoni di S. Agostino dimostrano che la Quaresima cominciava sei domeniche prima di Pasqua. Siccome la domenica non si digiunava, non rimanevano che 34 giorni, 36 col Venerdì e il Sabato Santo; tuttavia la Quaresima restava sempre una « quarantena » di preparazione alla solennità della Pasqua. Difatti anche allora, e come adesso, non era il digiuno l’unico mezzo per prepararsi alla Pasqua. – S. Agostino insiste che al digiuno vada aggiunto: il fervore della preghiera, l’umiltà, la rinuncia dei desideri meno buoni, la generosità nell’elemosina, il perdono delle offese e la pratica d’ogni opera di pietà e di carità. – Della medesima durata consta in Ispagna nel VII secolo, nella Gallia e a Milano. Per S. Ambrogio il Venerdì Santo è la grande solennità del mondo: la stessa festa di Pasqua, comprende il triduo della morte, della sepoltura e della Risurrezione di Cristo (Lettera 23.a). La domenica s’interrompeva il digiuno, ma non s’abbandonava mai, grazie alla Liturgia, il colore penitenziale. – Anche S. Leone afferma che la Quaresima è un periodo di quaranta giorni che termina il Giovedì Santo sera; e, come S. Agostino, dopo aver insistito sui vantaggi del digiuno corporale, raccomanda energicamente l’esercizio della mortificazione e della penitenza, e sopra tutto l’aborrimento del peccato e la pratica fervente delle opere buone e di tutte le virtù.

Necessità della penitenza.

La necessità della penitenza è sempre attuale. Nell’epoca nostra di sensualità, in cui sembra caduta in disuso la mortificazione corporale, non crediamo sia inutile spiegare ai cristiani l’importanza e l’utilità del digiuno. A favore di questa santa pratica stanno le divine Scritture, sia del Vecchio che del Nuovo Testamento; anzi si può dire che vi si raggiunge la testimonianza della tradizione di tutti i popoli; infatti, l’idea che l’uomo possa placare la divinità con opere di espiazione del suo corpo, è costante presso tutti i popoli della terra e la troviamo in tutte le religioni, anche le più lontane dalla purezza delle tradizioni patriarcali.

Il precetto dell’astinenza.

Il precetto cui furono sottoposti i nostri progenitori nel paradiso terrestre, osservano S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Girolamo e S. Gregorio Magno, era un precetto di astinenza, e per non aver essi rispettata questa virtù precipitarono nell’abisso del male, trascinando seco tutta la discendenza. La vita di privazioni, alla quale il re decaduto della creazione si vide condannato sulla terra, che doveva produrgli solo triboli e spine, giorno per giorno giustificò tale legge d’espiazione, che il Creatore impose alle membra ribelli dell’uomo peccatore. – Fino all’epoca del diluvio i nostri antenati si sostentarono unicamente dei frutti della terra, che ricavavano con sudato lavoro. In seguito, per supplire in qualche maniera all’indebolimento delle forze della natura. Dio permise che si nutrissero della carne degli animali. – Ugualmente Noè, forse per ispirazione di Dio, cominciò a spremere il succo della vite; e così un altro alimento venne a soccorrere la debolezza dell’uomo.

Astinenza dalla carne e dal vino.

La natura del digiuno fu quindi determinata in base ai diversi elementi che servivano al sostentamento dell’uomo. A principio dovette solo consistere nell’astinenza dalla carne degli animali, essendo meno indispensabile alla vita tale alimento, dono dell’accondiscendenza di Dio. Per molti secoli, come anche oggi nelle Chiese d’Oriente, erano proibite le uova e tutti i latticini, per essere sostanze ricavate dagli animali; ed anche nelle Chiese latine non erano permesse, fino al XIX secolo, se non in virtù di un’annuale dispensa più o meno generale. Il rigore dell’astinenza dalla carne era tale, che a principio non veniva sospesa neppure la domenica di Quaresima, quando invece s’interrompeva il digiuno; e quelli che erano dispensati dal digiunare durante la settimana, rimanevano sempre tenuti a detta astinenza, salvo una dispensa particolare. – Nei primi secoli del cristianesimo il digiuno comprendeva anche l’astinenza dal vino: lo afferma S. Cirillo di Gerusalemme (IV Catechesi), S. Basilio (X Omelia sul Digiuno), S. Giovanni Crisostomo (IV Omelia al popolo d’Antiochia), Teofilo d’Alessandria, ecc. Ma questo rigore scomparve ben presto fra gli Occidentali, mentre durò più a lungo fra i cristiani d’Oriente.

Unico pasto.

Da ultimo, per essere completo, il digiuno doveva limitare anche la misura dei cibi, fino alla privazione dell’alimentazione ordinaria: in tal senso non tollera che un solo pasto quotidiano. Ciò si deduce e risulta da tutta la pratica della Chiesa, sebbene molteplici modifiche vennero a prodursi, di secolo di secolo, nella disciplina della Quaresima.

Il pasto dopo i Vespri.

La costumanza giudaica, che nel Vecchio Testamento era di posticipare al tramonto del sole l’unico pasto consentito nei giorni di digiuno, passò nella Chiesa cristiana e fu seguita anche dai paesi occidentali, ove venne conservata a lungo immutabile. Però dal IX secolo essa cominciò a mitigarsi lentamente nella Chiesa latina, come risulta, a quell’epoca, da un Capitolare di Teodolfo, Vescovo d’Orléans, nel quale il prelato protesta contro coloro che si credono in diritto di pranzare all’ora di Nona, cioè tre ore dopo mezzogiorno. Ma il rilassamento, a poco a poco, insensibilmente, si estese; infatti nel secolo successivo abbiamo la testimonianza del celebre Rathier, Vescovo di Verona, il quale, in un Discorso sulla Quaresima, riconosceva ai fedeli la facoltà di rompere il digiuno dopo Nona. Si trovano ancora tracce di richiami e contestazioni dell’XI secolo, in un Concilio di Rouen, che proibiva ai fedeli di pranzare prima che non fosse cominciato in chiesa l’Ufficio dei Vespri, terminata l’Ora di Nona: ma si trova qui già l’uso di anticipare l’ora dei Vespri, per dar modo ai fedeli di consumare prima i loro pasti. Fino quasi a quest’epoca era infatti rimasta in vigore la costumanza di non celebrare la Messa, nei giorni di digiuno, se non dopo aver cantato l’Ufficio di Nona, che aveva inizio alle tre pomeridiane, e di non cantare i Vespri se non dopo il tramonto del sole. – Ma se andava sempre più mitigandosi la disciplina del digiuno, mai la Chiesa credette giusto d’invertire l’ordine delle Ore, che risaliva alla più remota antichità. Successivamente, essa anticipò prima i Vespri, poi la Messa, infine Nona, per far sì che i Vespri terminassero prima di mezzogiorno, dato che l’uso aveva autorizzati i fedeli a fare i loro pasti a metà del giorno.

Il pasto dopo Nona.

Sappiamo da un passo di Ugo di S. Vittore, che nel XII secolo l’uso di rompere il digiuno all’ora di Nona era divenuto generale (Della Regola di S. Agostino, c. 3); pratica che fu consacrata nel XIII secolo dall’insegnamento dei teologi scolastici. Alessandro di Ales, nella sua Somma, lo insegna formalmente (P. 4, Quest. 28, art. 2), e S. Tommaso d’Aquino non è meno esplicito (2, 2, Quest. 147, art. 7).

Il pasto a mezzogiorno.

Ma questa mitigazione doveva ancora allargarsi, perchè sappiamo che alla fine del medesimo XII secolo il teologo Riccardo di Middleton, celebre francescano, insegnava non doversi considerare violatore del digiuno chi pranzava all’ora di Sesta, cioè a mezzogiorno perché, dice, quest’uso è ormai prevalso in moltissimi luoghi, e l’ora nella quale si può mangiare non è così essenziale al digiuno quanto l’unicità del pasto (Nella 4.3 Dist. 15, art. 3, quest. 8). Il XIV secolo sancì con una pratica ed un insegnamento formale l’opinione di Riccardo di Middleton. Citeremo a testimonianza il famoso teologo Durando di Saint-Pourcain, domenicano e Vescovo di Meaux, il quale senz’alcuna difficoltà fissa all’ora di mezzogiorno il pasto dei giorni di digiuno; perché questa è, dice, la pratica del Papa, dei Cardinali e anche dei Religiosi (Nella 4.a Dist. 15, quest. 9, art. 7). Non ci sorprenderà più, quindi, di vedere tale insegnamento sostenuto nel XV secolo dai più gravi autori, come S. Antonino, Stefano Poncher, Vescovo di Parigi, il Card. Gaetano, ecc. Invano Alessandro di Ales e S. Tommaso cercarono di riportare all’ora di Nona la cessazione del digiuno; furono gli ultimi scogli da superare; poi l’attuale disciplina s’impose, per così dire, fin dai loro tempi.

La « colazione ».

A causa d’essere stata anticipata l’ora del pranzo, il digiuno, che consiste essenzialmente nel mangiare un unico pasto, era divenuto difficile a praticarsi, a motivo del lungo intervallo di tempo fra un mezzogiorno e l’altro. Per cui bisognò venire incontro ancora una volta all’umana debolezza, autorizzando la cosidetta « colazione ». – L’origine di questo uso è pure antichissima e deriva dalle costumanze monastiche. La Regola di S. Benedetto prescriveva una quantità di altri digiuni, oltre a quello della Quaresima ecclesiastica; ma ne temperava il rigore permettendo un pasto all’ora di Nona: il che rendeva quei digiuni meno penosi di quello della Quaresima, perché a questo erano tenuti tutti i fedeli, secolari e religiosi, fino al tramonto del sole. Per altro, siccome i monaci dovevano sostenere le dure fatiche dei campi, nell’estate e nell’autunno, quando i digiuni fino all’ora di Nona erano così frequenti da diventare giornalieri, a partire dal 14 settembre, gli Abati, usando d’una facoltà contemplata nella Regola, permisero ai religiosi di bere verso sera un bicchiere di vino prima di Compieta, per ristorare le forze stanche delle fatiche del giorno. Tale ristoro si prendeva in comune, mentre si faceva la lettura della sera chiamata Conferenza, in latino Collatio, e che consisteva per lo più nel leggere le famose Conferenze (Collationes) di Cassiano: da qui derivò la parola colazione data a quel piccolo sollievo del digiuno monastico. – Nel IX secolo l’Assemblea d’Aquisgrana (817 – Labbe, Conciles t. VII) estende ugualmente tale facoltà al digiuno della Quaresima, per la straordinaria fatica che sostenevano i monaci nell’assolvere ai divini Uffici di questo sacro tempo. Ma in seguito si accorsero che il solo uso di quella bevanda poteva nuocere alla salute, se non vi si aggiungeva qualche cosa di solido; e dal XIV al XV secolo s’introdusse la consuetudine di distribuire ai religiosi un pezzettino di pane, che mangiavano nella « colazione » della sera quando bevevano quel bicchiere di vino. – Naturalmente, introdottesi nei chiostri mitigazioni del genere sul digiuno primitivo, si estesero ben presto anche a vantaggio dei secolari; il che avvenne a poco a poco, con la facoltà di bere fuori dell’unico pasto; e nel XIII secolo S. Tommaso stesso, studiando il caso se il bere rompesse il digiuno, concluse negativamente (4.a Quest. 147, art. 6); ma continuò ad ammettere che invece lo rompeva l’aggiunta di qualsiasi nutrimento solido. Quando alla fine del XIII secolo e durante il XIV fu, definitivamente, anticipato il pranzo a mezzogiorno, non poteva più bastare, alla sera, una semplice bevuta di vino, a reggere le forze del corpo; di conseguenza s’introdusse, prima nei chiostri, e poi fuori, la consuetudine di prendere, oltre quella bevanda, pane, verdura e frutta, sempre a condizione d’usare di quegli alimenti con tale moderazione da non trasformare mai la « colazione » in un secondo pasto.

Astinenza dai latticini.

Tali furono le conquiste che ottennero sull’antica osservanza del digiuno, sia il rilassamento del primitivo fervore, sia l’indebolimento generale delle forze fisiche, presso i popoli occidentali. Ma non sono questi gli unici temperamenti che dobbiamo rilevare. Per molti secoli l’astinenza dalla carne comprendeva la proibizione di tutto ciò che proveniva dal regno animale, escluso il pesce, per diverse misteriose ragioni fondate sulle sacre Scritture. I latticini d’ogni sorta furono per molto tempo proibiti; a Roma fino a pochi anni fa erano proibiti il cacio e il burro tutti i giorni nei quali non si poteva mangiar carne. – L’uso dei latticini in Quaresima si andò affermando dal ix secolo in poi nell’Europa occidentale, specialmente in Germania e nelle regioni settentrionali. Invano cercò di eliminarlo, nell’xi secolo, il Concilio di Kedlimbourg, (Labbe, Conciles, t. x) di modo che, dopo aver legittimata la pratica mediante dispense temporanee che ottenevano dai Sommi Pontefici, quelle Chiese finirono per usufruirne pacificamente per l’inveterata consuetudine. Le Chiese di Francia mantennero l’antico rigore fino al xvi secolo, anzi sembrò non cedere del tutto fino al xvu secolo; tanto che, per riparare alla breccia fatta all’antica disciplina, e quasi a compensare con un atto pio e solenne il rilassamento circa l’articolo dei latticini, d’allora in poi tutte le parrocchie di Parigi, alle quali si univano i Domenicani, i Francescani, i Carmelitani e gli Agostiniani, si recavano in processione alla Chiesa di Notre-Dame la Domenica di Quinquagesima; nello stesso giorno il Capitolo Metropolitano, col clero delle quattro parrocchie dipendenti, andava a fare una stazione nel cortile della Curia e a cantare un’Antifona davanti alla Reliquia della vera Croce, che si esponeva nella Cappella Santa. Queste belle tradizioni, aventi Io scopo di tenere impressa nella memoria l’antica disciplina, durarono fino alla Rivoluzione.

Astinenza dalle uova.

La facoltà di usare dei latticini non comprendeva l’uso delle uova in Quaresima. Su questo punto rimase per molto tempo in vigore l’antica norma di concedere questo cibo solo se compreso nella dispensa che si soleva dare annualmente. Fino al XIX secolo a Roma non si potevano mangiare le uova nei giorni in cui non era stata concessa la dispensa dell’uso della carne; altrove, le uova in certi giorni erano permesse, in altri no, specie durante la Settimana Santa; mentre l’attuale disciplina non conosce più tali restrizioni.- Se non che la Chiesa, sempre preoccupata del bene spirituale dei suoi figli, e nel loro interesse, ha cercato di mantenere in vigore tutto ciò ch’è stato possibile delle osservanze salutari che li devono aiutare a soddisfare la giustizia divina. In virtù di questo principio Benedetto XIV, allarmato fin dal suo tempo dell’estrema facilità con cui si moltiplicavano da per tutto le dispense circa l’astinenza, con una solenne Costituzione, in data io giugno 1745, rinnovò la proibizione, oggi nuovamente abolita, di mangiare nello stesso pasto pesce e carne nei giorni di digiuno.

Enciclica di Benedetto XIV.

Fin dal primo anno del suo pontificato, il 30 maggio 1741, lo stesso Pontefice indirizzò una Lettera Enciclica a tutti i Vescovi del mondo Cattolico, esprimendo il suo vivo dolore nel costatare rilassamento che s’introduceva ovunque con indiscrete e ingiustificate dispense. – « L’osservanza della Quaresima, diceva il Pontefice, è il vincolo della nostra milizia; con quella ci distinguiamo dai nemici della Croce di Gesù Cristo; con quella allontaniamo i flagelli dell’ira divina; con quella, protetti dal soccorso celeste durante il giorno, ci fortifichiamo contro i prìncipi delle tenebre. Se ci abbandoniamo a tale rilassamento, è tutto a detrimento della gloria di Dio, a disonore della religione cattolica, a pericolo per le anime cristiane; né si deve dubitare che tale negligenza non possa divenire sorgente di sventure per i popoli, di rovine nei pubblici affari e di disgrazie nelle cose private » (Costituzione « Non ambigimus »). Sono passati due secoli dal solenne monito del Pontefice, ma purtroppo quel rilassamento che egli volle frenare andò sempre più crescendo. Nelle nostre città, quanti cristiani si possono contare fedeli all’osservanza quaresimale? Ora dove ci condurrà questa mollezza che aumenta senza limiti, se non al decadimento universale dei costumi e perciò allo sconvolgimento della società ? Già le dolorose predizioni di Benedetto XIV si sono visibilmente avverate. Le nazioni che conobbero l’idea della espiazione sfidano la collera di Dio; per loro non resta altra sorte che la dissoluzione o la conquista. Per ristabilire l’osservanza domenicale in seno alle popolazioni cristiane asservite all’amore del danaro e degli affari sono stati compiuti coraggiosi sforzi, coronati da insperati successi. Chissà che il braccio del Signore, alzato a percuoterci, non s’arresti alla vista d’un popolo che comincia a ricordarsi della casa di Dio e del suo culto! Dobbiamo sperarlo: ma questa speranza sarà più solida quando vedremo i cristiani della nostra società rammollita e degenerata rientrare, come gli abitanti di Ninive, nella via da tempo abbandonata dell’espiazione e della penitenza.

Le prime dispense.

Riprendiamo ora la narrazione storica e segnaliamo ancora alcuni tratti della fedeltà degli antichi cristiani alle sante osservanze della Quaresima. Non sarà qui fuori proposito richiamare la formalità delle prime dispense il cui ricordo è conservato negli Annali della Chiesa; vi si attingerà un salutare insegnamento.

Ai fedeli di Braga (Portogallo).

Nel XIII secolo l’Arcivescovo di Braga fece ricorso al Romano Pontefice, allora Innocenzo III, per fargli presente che la maggior parte del suo popolo era stato costretto a mangiar carne durante la Quaresima a causa d’una carestia che aveva privata la provincia di tutte le ordinarie provvigioni; il prelato chiedeva al Papa quale riparazione poteva imporre ai fedeli per questa violazione forzata dell’astinenza quaresimale. Inoltre consultava il Pontefice sulla condotta da tenere riguardo ai malati, che chiedevano la dispensa per l’uso degli alimenti grassi. La risposta d’Innocenzo III, ch’è inserita nel Corpo del Diritto (Decretali, 1. 3 sul digiuno, tit. xlvi), è piena di moderazione e di carità, com’era da attendersi. Ma da questo fatto noi comprendiamo ch’era tale allora il rispetto della legge generale della Quaresima, da riconoscere che solo l’autorità del Sommo Pontefice poteva sciogliere i fedeli. I secoli successivi non intesero diversamente il caso delle dispense.

Al re Venceslao.

Venceslao, re di Boemia colpito da un’infermità che gli rendeva nociva alla salute l’alimentazione quaresimale, si rivolse nel 1297 a Bonifacio VIII, per ottenere il permesso di mangiare carne. Il Papa incaricò due Abati dell’Ordine dei Cistercensi per informarlo sullo stato reale della salute del monarca; e dietro loro favorevole rapporto, accordò la dispensa richiesta, ma ingiungendo le seguenti condizioni: si sincerassero che il re non si fosse imposto con voto di digiunare a vita durante la Quaresima; i venerdì, i sabati e la vigilia di S. Mattia erano esclusi dalla dispensa; finalmente il re doveva prender cibo privatamente, e farlo con sobrietà.

Ai re di Francia.

Nel secolo xiv abbiamo due Brevi di dispensa, indirizzati da Clemente VI, nel 1351, a Giovanni re di Francia ed alla regina sua sposa. Nel primo il Papa, avuto riguardo al fatto che il re, durante le guerre di cui si occupa, si trova spesso in luoghi dov’è raro il pesce, concede al suo confessore il potere di permettere a lui ed al suo seguito l’uso della carne, fatta riserva, però, dell’intera Quaresima, dei venerdì e di certe Vigilie dell’anno; assodato inoltre, che né il re né i suoi si fossero legati con voto all’astinenza per tutta la vita (D’Achery, Spicilegium, t. iv). Col secondo Breve Clemente VI, rispondendo alla domanda che gli era stata presentata dal re Giovanni per essere esentato dal digiuno, incarica ancora il confessore del monarca e coloro che gli succederanno in quell’ufficio, di dispensarlo insieme alla regina, dall’obbligo del digiuno, dopo aver consultato i medici (Ibid.). – Alcuni anni più tardi, nel 1376, Gregorio XI emanava un altro Breve in favore del re di Francia Carlo V e della regina Giovanna sua sposa, col quale delegava al loro confessore il potere d’accordare l’uso delle uova e dei latticini durante la Quaresima, sentito il parere dei medici e gravatane la loro coscienza, come anche quella del confessore che ne avrebbe risposto davanti a Dio. Il permesso si estendeva ai cuochi ed ai camerieri, ma solo per assaggiare le vivande.

A Giacomo III re di Scozia.

Il XV secolo continua a fornirci esempi di simili ricorsi alla Sede Apostolica per la dispensa dalle osservanze quaresimali. Citiamo particolarmente il Breve che Sisto IV, nel 1483, indirizzò a Giacomo re di Scozia, col quale permette a questo principe di fare uso della carne nei giorni d’astinenza, sempre col consiglio del confessore. – Nel XVI secolo vediamo Giulio II accordare una simile facoltà a Giovanni, re di Danimarca, ed alla regina Cristina sua consorte; e qualche anno più tardi. Clemente VII elargiva il medesimo privilegio all’imperatore Carlo V, e poi in seguito anche ad Enrico II di Navarra ed alla regina Margherita sua sposa. – Tale era la gravità, con la quale si procedeva, ancora qualche secolo fa, a sciogliere gli stessi prìncipi da un obbligo, che è quanto di più universale e di più sacro ha il Cristianesimo. Da questo si può giudicare il cammino seguito dalla moderna società nella via del rilassamento e della indifferenza. Si paragonino quelle popolazioni, che per il timore di Dio e la nobile idea dell’espiazione si imponevano tutti gli anni così lunghe e rigide privazioni, con la nostra tiepida e rammollita generazione, il cui sensualismo della vita va sempre più estinguendo il senso del male, che si commette così facilmente, che così prontamente viene perdonato e così debolmente riparato. Dove sono ora le gioie dei nostri padri nella festa di Pasqua, quando, dopo una privazione di quaranta giorni, riprendevano i cibi più nutrienti e graditi che s’erano interdetti durante questo lungo periodo? Con quale attrattiva e con quale serenità di coscienza essi tornavano alle abitudini d’una vita più facile, che avevano sospesa per affliggere l’anima nel raccoglimento, nella separazione dal mondo e nella penitenza! Ciò c’induce ad aggiungere ancora una parola, con l’intento d’aiutare il lettore cattolico a ben rilevare l’aspetto della cristianità nei periodi della fede, durante il tempo della Quaresima.

Vacanza dei tribunali.

Immaginiamoci dunque un tempo in cui, non solo erano interdetti dalle pubbliche autorità [Secondo Pozio, Giustiniano aveva introdotto una simile legge – Nomocanone. tit. VII, c. 1], i divertimenti e gli spettacoli, ma rimanevano vacanti anche i tribunali, affinché non fosse turbata quella pace e quel silenzio delle passioni così favorevoli al peccatore per approfondire le piaghe della sua anima e prepararla a riconciliarsi con Dio. Fin dal 380, Graziano e Teodosio avevano dettata una legge che ordinava ai giudici di soprassedere a tutte le procedure ed istanze quaranta giorni prima di Pasqua (Cod. Teodos. 1. ix, tit. xxxv, l. 4). Il Codice Teodisiano contiene parecchie altre disposizioni analoghe; e sappiamo che i Concili di Francia, ancora nel IX secolo, si rivolsero ai re Carolingi per reclamare l’applicazione di quella misura ch’era stata sanzionata dai canoni e raccomandata dai Padri della Chiesa (Concilio di Meaux, dell’845. Labbe, / Concili, t. VII. Concilio di Tribur, dell’895, Ivi, t. ix). La legislazione d’Occidente ha lasciato cadere da molto tempo quelle cristianissime tradizioni; mentre costatiamo, a nostra umiliazione, ch’esse sono tuttora rispettate dai Turchi, i quali sospendono ogni azione giudiziaria durante i trenta giorni del Ramadan.

Divieto della caccia.

La Quaresima fu per molto tempo considerata incompatibile con l’esercizio della caccia, a motivo della dissipazione e del tumulto che porta con sé. Nel IX secolo, durante questo sacro tempo, fu interdetta dal Papa S. Nicolò I ai Bulgari (Ad consultat. Bulgarorum Ivi, t. VIII), che s’erano riconvertiti al cristianesimo. E anche nel XIII secolo S. Raimondo di Pennafort, nella sua Somma dei casi penitenziali, insegna che non si può durante la Quaresima, senza commettere peccato, esercitare la caccia rumorosa e col concorso dei cani e dei falchi (Summ. cas. Poenit., I, III, tit. XXIX, De laps. Et disp. § 1). Tale ordinanza è fra quelle cadute in disuso; ma S. Carlo la riportò in vigore nella provincia di Milano in uno dei suoi concili. – Dal resto non avremo più da meravigliarci nel vedere interdetta la caccia durante la Quaresima, quando sappiamo che nei secoli passati del cristianesimo anche la guerra cessava le sue ostilità, s’era necessaria al sollievo ed al legittimo interesse delle nazioni. Nel IV secolo Costantino aveva ordinato la cessazione delle operazioni militari i venerdì e le domeniche, in segno di omaggio a Gesù Cristo, che in tali giorni patì e risuscitò, e per non distogliere i cristiani dal raccoglimento che si richiede per celebrare quei misteri. Nel IX secolo la disciplina ecclesiastica d’Occidente esigeva universalmente la sospensione delle armi durante l’intera Quaresima, eccetto il caso di necessità, come risulta dagli atti dell’assemblea di Compiègne, nel1’833, e dai concili di Meaux e d’Aquisgrana, della stessa epoca. – Le istruzioni del Papa S. Nicolò I ai Bulgari esprimono lo stesso pensiero; e da una lettera di S. Gregorio VII a Desiderio, Abate di Montecassino, consta che tale norma era ancora rispettata nell’XI secolo (Labbe, / Concili, t. VII, VIII e x). La vediamo ancora osservata fino al XII secolo in Inghilterra, come c’informa Guglielmo di Malmesbury, da due armate schierate di fronte: l’una dell’imperatrice Matilde, contessa d’Angiò, figlia del re Enrico; l’altra del re Stefano conte di Boulogne, che nel 1143 stavano per cozzare a causa della successione alla corona.

La tregua di Dio.

È nota a tutti i nostri lettori la mirabile istituzione della Tregua di Dio, per mezzo della quale la Chiesa, nell’XI secolo, riuscì ad arrestare in tutta l’Europa lo spargimento del sangue col sospendere l’uso delle armi quattro giorni ogni settimana, dal mercoledì sera fino al lunedì mattina, per tutta la durata dell’anno. Tale regolamento, sanzionato dall’autorità dei Papi e dei Concili con concorso di tutti i prìncipi cristiani, non era che l’estensione ad ogni settimana dell’anno di quella disciplina, in virtù della quale rimaneva sospesa in Quaresima ogni azione militare. Il santo re d’Inghilterra Edoardo il Confessore migliorò ancora questa sì preziosa istituzione, emanando una legge che fu confermata dal suo successore Guglielmo il Conquistatore, e in merito alla quale la Tregua di Dio doveva essere inviolabilmente osservata dall’apertura dell’Avvento fino all’ottava dell’Epifania, dalla Settuagesima fino all’ottava di Pasqua e dall’Ascensione fino all’ottava di Pentecoste; in più, tutti i giorni delle Quattro Tempora, le Vigilie di tutte le Feste, e finalmente ogni settimana nell’intervallo fra il sabato dopo Nona e il lunedì mattina (Labbe, I Concili, t. ix). – Urbano II, nel Concilio di Clermont (1095), dopo aver regolato tutto ciò che concerneva la spedizione della Crociata, intervenne anche con la sua apostolica autorità ad estendere la Tregua di Dio, prendendo a base la sospensione delle armi osservata durante la Quaresima, e stabilì, con un decreto che fu rinnovato nel Concilio tenuto a Rouen l’anno appresso, che dovevano rimanere interdette tutte le azioni di guerra dal mercoledì delle Ceneri fino al lunedì successivo all’ottava di Pentecoste, e in tutte le Vigilie e Feste della S. Vergine e degli Apostoli: tutto senza pregiudicare quanto stabilito in precedenza per ogni settimana, cioè dal mercoledì sera fino al lunedì mattina (Orderico Vitale, Storia della Chiesa, 1. ix).

Il precetto della continenza.

Così la società cristiana testimoniava il suo rispetto verso le tante osservanze della Quaresima e prendeva dall’anno liturgico le sue stagioni e le sue feste per inserirvi le sue più preziose istituzioni. Anche la vita privata ne risentiva la salutare influenza, e l’uomo v’attingeva ogni anno un rinnovamento di forze per combattere gl’istinti sensuali e risollevare la dignità della propria anima mettendo a freno l’attrattiva del piacere. Per molti secoli si richiese dagli sposi la continenza in tutto il corso della santa Quarantena; e la Chiesa, nel Messale (Missa prò sponso et sponsa), ha conservato la raccomandazione di questa salutare pratica.

Usanza delle Chiese d’Oriente.

Interrompiamo qui l’esposizione storica della disciplina quaresimale, col dispiacere d’avere appena sfiorata una materia così interessante (1). Avremmo voluto fra l’altro dilungarci sulle usanze delle Chiese d’Oriente, che meglio di noi hanno conservato il rigore dei primi secoli del cristianesimo; ma ce ne manca assolutamente lo spazio. Ci limiteremo, perciò, ad alcuni sommari dettagli. (1) Quanto alla storia, alla durata, al carattere dell’antica Quaresima, si potranno consultare gli studi di Mons. Callewaert, Sacris erudlrl, p. 449-533: «Il significato della Quaresima» l’opuscolo del Rev. Flicoteaux (Bloud et Gay, 1946). – In altra parte della nostra opera il lettore ha potuto osservare, che la Domenica che noi chiamiamo di Settuagesima, presso i Greci è chiamata Prosfonesima, per annunciare imminente l’apertura del digiuno quaresimale. Il lunedì appresso viene contato per il primo giorno della seguente settimana, chiamata Apocreos, dal nome della Domenica con la quale essa termina e che corrisponde alla nostra di Sessagesima; la parola Apocreos è un avvertimento per la Chiesa greca, che fra poco si dovrà sospendere l’uso della carne. Il lunedì seguente apre la settimana chiamata Tirofagia, la quale termina con la Domenica che ha questo nome, cioè la nostra Quinquagesima; durante questa intera settimana sono ancora permessi i latticini. Finalmente, il lunedì che segue è il primo giorno della prima settimana di Quaresima, il cui digiuno comincia fin da questo lunedì in tutto il suo rigore, a differenza dei Latini che lo aprono il mercoledì. Durante tutto il periodo della Quaresima propriamente detta, i latticini, le uova e anche il pesce sono proibiti; l’unico nutrimento possibile col pane sono i legumi, il miele e, per chi abita vicino al mare, le diverse conchiglie ch’esso fornisce loro. L’uso dei vini, per tanto tempo proibito nei giorni di digiuno, ha finito per introdursi anche in Oriente, come pure la dispensa di mangiare il pesce il giorno dell’Annunciazione e la Domenica delle Palme. – Oltre poi la Quaresima di preparazione alla festa di Pasqua, i Greci ne celebrano ancora altre tre nel resto dell’anno: quella che chiamano degli Apostoli che va dall’ottava di Pentecoste fino alla festa dei Ss. Pietro e Paolo; quella della Vergine Maria, che comincia col primo agosto e finisce con la vigilia dell’Assunta; e finalmente la Quaresima di preparazione al Natale, che dura quaranta giorni interi. Le privazioni che i Greci osservano durante queste tre Quaresime sono simili a quelle della grande Quaresima, però non così rigorose. – Le altre nazioni cristiane dell’Oriente pure celebrano diverse Quaresime e con un’austerità anche maggiore di quella osservata dai Greci. Ma tutti questi particolari ci porterebbero troppo lontani. Perciò concludiamo qui tutto quello che dovevamo dire della Quaresima dal punto di vista storico, per passare ad esporre i misteri che questo sacro tempo contiene. [contin.]

Due campioni dell’empietà: Voltaire e Rousseau

Due campioni dell’empietà: Voltaire e Rousseau

[J. –J. Gaume: Catechismo di perseveranza, vol. III, Torino, 1881]

Sdegnato dalle conquiste che il Cristianesimo faceva alle estremità del mondo, l’inferno raddoppiò i suoi sforzi per spegnere la fede in Europa e specialmente in Francia. Una congiura di letterati conosciuti sotto il nome di filosofi formò l’orribil trama di schiacciare la Religione di Cristo. Grandi e piccoli si accingono all’opera; gli uni scavano le viscere della terra, gli altri interrogano gli astri: questi consultano gli annali degli antichi popoli, quelli fanno dei calcoli; tutti si sforzano di dare una smentita alla Religione, e di metterla in contraddizione colle scienze naturali, colle tradizioni dei popoli e coi monumenti della storia. Si spande una farragine di libelli, si predica su tutti i tuoni l’incredulità ed il libertinaggio, l’uomo si fa carnale, e come al tempo che precedette il diluvio, lo spirito di Dio più non potendo in esso riposare sta per ritirarsi. – Fra questi uomini il cui nome non si può pronunziare senza orrore avendo colla loro malizia attirato sul nostro capo innumerevoli flagelli, ve ne sono due specialmente che debbono essere conosciuti affinché persino i fanciulli imparino a temere il veleno delle loro dottrine: Voltaire e Rousseau, doppiamente colpevoli, perché furono apostati della fede, e profanatori del genio. Del resto la loro vita doveva formarne co’ suoi scandali gli avversari della Religione e gli apostoli della incredulità: poiché, non bisogna dimenticarcene mai, l’incredulità nasce sempre dalla corruzione, e non è mai patrocinata che dal libertinaggio: vergogna eterna dell’incredulità! Ma onore a Te, o Religione cattolica che mai non avesti altri nemici che quegli uomini a cui niuno vorrebbe rassomigliare! – Giovani, voi che giurate sulla parola di Voltaire e di Rousseau, uomini di età matura che ne serbate a gran cura le opere nelle vostre librerie, venite, io vi svelerò le ignominie dei vostri maestri, le vergogne dei vostri idoli! Francesco Maria Arouel, detto di

Voltaire,

nacque a Chàtenay presso Parigi, nel 1694. Suo padre era un antico notaio. Venne educato a Parigi nel collegio dei Gesuiti. La temerità de’ suoi giudizi spaventò ben tosto i suoi maestri; ed uno di loro disse un giorno che sarebbe stato in Francia il gonfaloniere dell’empietà; gli eventi giustificarono pur troppo questa predizione. All’età di sedici anni il giovane Arouet uscì di collegio, e visse, giusta le sue inclinazioni in mezzo alle compagnie più eleganti e più corrotte della capitale. – Le molte contese ch’egli ebbe con suo padre lo decisero a passare in Olanda in qualità di segretario d’ambasciata; giunto appena alla Haye, il dabben giovane si fece rimandare a casa pel suo libertinaggio. – Esso non poté riconciliarsi col padre che mettendosi a lavorare presso un procuratore; ma la sua negligenza, e la sua avversione per le scienze legali non tardarono guari a farlo rimandare. – Voltaire fu cattivo cittadino del pari che cattivo figlio. Nel 1715 egli si attirò coi suoi motteggi più che leggieri uno schiaffo da un vecchio autore nelle stanze di un teatro; qualche tempo dopo si ebbe uno sfregio da un ufficiale da lui calunniato: cattivo figlio, malvagio cittadino, Voltaire fu ancora un tristo suddito. Dopo la morte di Luigi XIV si videro comparire a varie riprese delle vili e sconcie satire contro questo monarca: essendo il sospetto caduto sopra Voltaire, fu chiuso nella Bastiglia; appena uscito di prigione, si vide forzato a lasciar Parigi, perché, essendosi collegato cogli autori di una congiura che si era scoperta, venne accusato di avervi preso parte; quindi si ritirò al castello di Sully, ove ben presto si manifestò il suo libertinaggio. – Partito poscia per l’Olanda, e dimoratovi qualche tempo il torbido suo genio lo ricondusse alla capitale. I motti pungenti che si permise contro un giovane signore gli meritarono da parte dei domestici una buona dose di bastonate, e dalla parte delle autorità sei mesi di Bastiglia, con ordine di lasciar la Francia, scontata la sua pena. – Per tal modo Voltaire all’età di trentun anno era stato cacciato di casa paterna, dall’uffizio del procuratore, rimandato dall’Olanda, schiaffeggiato da un comico, castigato anche più severamente da un ufficiale, messo alla Bastiglia, esiliato di Parigi, battuto dai domestici per aver insultato il loro padrone, rinchiuso di bel nuovo nella Bastiglia e sbandito dalla Francia. Filosofi, ammirate la santa vita del vostro Apostolo. – Uscito dalla Bastiglia, Voltaire passò in Inghilterra popolata allora di liberi pensatori, che lavoravano di concerto per scalzare le basi del cristianesimo. A Londra, esso pubblicò l’Enriade ed ingannò il suo libraio, il quale rinnovò sulle spalle del poeta la correzione amministrata tre anni prima dai servitori del cavaliere di Bohan. – Questo spiacevole accidente fece sollecitare a Voltaire la permissione di ritornare in Francia, e l’ottenne. Alloggiato in un sobborgo di Parigi, vi condusse per qualche tempo una vita oscura e quasi nascosta occupandosi ora di lavori letterari, ed ora di faccende finanziarie. Essendosi associato ai provveditori dell’armata d’Italia, il filosofo si fece una rendita di cento sessanta mila lire: il poveretto! – Essendo poi stato denunziato al guardasigilli in proposito di una commediante di cui aveva fatto l’apoteosi, la quale altro non è che una serie di attacchi contro la Religione ed i suoi ministri, e contro la nazione in generale, Voltaire si rifugiò a Rouen, ove visse sette mesi nascosto in casa di uno stampatore, che ridusse poco tempo dopo in rovina con una truffa degna della galera. A questi principi corrisponde il restante della sua vita, la quale non offre altro che un lungo tessuto di libertinaggio, d’empietà, di basse adulazioni pei grandi, d’ipocrisia e di sacrilegio, e termina con una morte spaventevole. Il colpevole scrittore erasi ritirato a Ferney vicino a Ginevra; di là esso lanciava contro i suoi nemici, contro la Religione ed il Governo una quantità di libelli e di diatribe, nelle quali non sapresti ciò che riesca più odioso tra il fanatismo furibondo del patriarca della moderna filosofia, e la sua impudenza cinica e ributtante. – « Mentite, mentite arditamente, scriveva esso a’ suoi accoliti, qualche cosa vi resta sempre… m’importa assai di esser letto, e pochissimo di essere creduto». – Nel 1778 Voltaire ottenne il permesso di venire a Parigi. La sua entrata in questa città fu un vero trionfo. Il trionfo di Voltaire! Queste due parole fanno tremare ed arrossire; il trionfo di Voltaire vuol dire il trionfo del cinismo, dell’empietà e di tutti i vizi personificati, e ci dà un’idea della società francese di quel tempo; mentre presagiva la inaudita catastrofe che quindici anni più tardi doveva insanguinare la nostra patria, e quella degradazione senza esempio che doveva mostrare al mondo la prima delle nazioni in atto di prostituire i suoi incensi al rifiuto degli scellerati, ad un Marat,!!! Ma il Dio vivente oltraggiato per settant’anni dal più ingrato fra gli uomini, doveva ben tosto pigliar le sue vendette. – Era Voltaire giunto all’anno ottantesimo quarto del viver suo, quando pochi giorni dopo il suo ingresso nella capitale, fu assalito da un vomito di sangue; il che però non gl’impediva di farsi aggregare alla frammassoneria. Ma la misura era alla fine ricolma, e stava per suonare l’ora della divina giustizia. Osservisi primamente come la fine del corifeo dell’empietà è tanto più singolare, in quanto che lo colpiva precisamente una mortal malattia nel tempo in cui egli si prometteva il trionfo dell’ateismo. I suoi stessi partigiani hanno pubblicato la lettera nella quale egli scriveva al d’Alembert in questi termini : « Fra vent’anni, Dio sarà spacciato». Questa predizione blasfema porta la data del 25 febbraio 1758; ora il giorno appunto del 25 febbraio 1778 esso venne colpito dal vomito di sangue che lo condusse al sepolcro; a vent’anni d’intervallo il giorno preciso! La violenza del male gli fece ben tosto smentire la sua professione d’incredulità: esso fa chiamare uno di quei sacerdoti che aveva cotanto oltraggiato e calunniato nei suoi scritti, ed era questi l’Abbate Gauthier vicario di San Sulpizio. – Dinanzi a lui confessa in ginocchio le sue colpe, e gli consegna in mano la ritrattazione autentica delle sue empietà e dei suoi scandali. – In essa dichiarava di morire in seno della cattolica Religione. Questa professione di fede parendo molto sospetta da parte di un uomo che ne aveva già fatto delle somiglianti, il curato di San Sulpizio volle presentarsi in casa di Voltaire; ma i suoi amici avevano preso le loro precauzioni per impedirgli, come si esprime uno di loro, di fare un altro capitombolo. Costoro non lo abbandonarono un solo istante, e resero cosi inutile lo zelo e la carità del curato di San Sulpizio. – Intanto il vecchio peccatore si avvicinava alla sua eternità! Forse si era lusingato di recare a compimento la grande opera della sua riconciliazione con Dio, ma la morte prevenne gli estremi soccorsi. – Ecco che il filosofo si trova assalito da orrenda paura, e grida con voce spaventevole: « Io sono abbandonato da Dio e dagli uomini ». Esso invoca il Signore che aveva bestemmiato, ma un mezzo secolo di sarcasmi vomitati contro la Religione pare che abbia stancato la pazienza dell’Eterno; il sacerdote non giunge, ed il malato entra nelle convulsioni e nei furori della disperazione. Torbido il guardo, smorto e tremante dallo spavento egli si agita e si volge da tutti i lati, squarcia le sue carni, e divora…. i suoi escrementi: esso vede aprirsi dinanzi a sé quell’inferno di cui si era cotanto beffato, freme d’orrore a questa vista, ed il suo ultimo sospiro era quello di un riprovato. “Io sono abbandonato da Dio e dagli uomini”. Queste parole tremende, l’aria, l’accento onde furono pronunziate agghiacciarono di spavento il celebre Tronchin, che aveva curato Voltaire nella sua ultima malattia. « Immaginatevi tutta la rabbia ed il furore di Oreste, dice questo medico protestante testimonio dell’orribile morte, voi non avrete che una languida idea della rabbia e del furore di Voltaire nella sua ultima malattia. Sarebbe a desiderare, ripeteva esso sovente, che i nostri filosofi fossero stati testimoni dei rimorsi e dei furori di Voltaire, è questa la lezione più salutare che avrebbero potuto ricevere coloro ch’egli aveva corrotto coi suoi scritti. Il Maresciallo di Richelieu aveva veduto con i suoi occhi questo spettacolo spaventoso e non aveva potuto fare a meno di esclamare: «In verità, questo è troppo forte, è impossibile di resistere ». Cosi moriva il patriarca dell’incredulità i l 30 maggio 1778. Mentre Voltaire corrompeva la gioventù e parlava agli spiriti superficiali,

Gian Giacomo Rousseau

si volgeva agli uomini che si piccano di riflessione, e che allora s’intitolavano pensatori o spiriti forti. Rousseau, essendo protestante, sviluppò ed applicò alla società i pericolosi principii della Riforma. Empio, incredulo e vizioso, esso era degno di figurare tra i nemici di una religione che condanna tutti i vizi, e prescrive tutte le virtù. Gian-Giacomo Rousseau nacque a Ginevra nel 1712. Egli passò la prima sua infanzia nella lettura dei romanzi. Suo padre, di professione orologiere, lo mise in pensione da un ministro protestante; ma tutto il frutto che ne ricavò l’allievo, si fu d’imparare un po’ di latino, e di contrarre delle tristissime abitudini. Collocato in qualità di scrivano presso il Cancelliere di Ginevra fu trovato inetto, e rimandato. Dopo qualche mese di tirocinio in casa di un incisore, dove l’ozio, la menzogna ed il furto divennero i suoi vizi favoriti, come confessa egli stesso, passò in Savoia; un caritatevole ecclesiastico di questo paese gli forni i mezzi per recarsi a Torino, dove si fece ammaestrare intorno alla Religione cattolica, e due mesi di poi abiurò il protestantismo. Non avendo ricavato che venti franchi della sua pretesa conversione, entrò in qualità di lacchè nella casa della Contessa di Vercelli; ma messo ben tosto alla porta per un furto commessovi, e di cui aveva ingiustamente accusato una giovane fantesca, passò al servizio del Conte di Govone primo scudiere del Re di Sardegna. Alle amorevolezze del nuovo suo padrone Rousseau corrispose con una condotta ed un’insolenza che lo fecero congedare. – Senza mezzi, senza protezione, egli si mette a simular la pietà, si volge ad una gentildonna che lo accoglie e gli prodiga tutte le cure di una madre. Dietro i suoi consigli esso entra in un seminario per abbracciare la carriera ecclesiastica, ma ne vien rimosso non essendo buono a nulla. Più non sapendo che far di sé stesso, si mette a percorrere la Svizzera con un preteso vescovo greco che faceva delle collette pel Santo Sepolcro; questi due onesti viaggiatori si fecero arrestare a Solura e mettere in prigione. – L’ambasciatore di Francia mosso a pietà del giovane vagabondo, gli dà i mezzi di tornare a Parigi, dove prova tutti gli orrori della miseria. Finalmente venuto a Lione entra in qualità di precettore nella casa del signor di Mably gran rettore di questa città; gli ruba il suo vino d’Arbois, e se lo beve deliziosamente leggendo dei romanzi. Dopo vari fatti del pari onorevoli, ai quali tenne dietro un viaggio in Italia, Rousseau ritorna a Parigi nel 1745, e si abbandona ad un pubblico libertinaggio e mena una tal vita scandalosa per bene venticinque anni agli occhi di tutta Europa. Al libertinaggio egli unisce l’empietà, e se già aveva abiurato la setta di Calvino per abbracciare la Religione cattolica, eccolo ben tosto, tornato a Ginevra, abiurar la Religione cattolica per la setta di Calvino. La principale sua opera intitolata l’Emilio fu censurata dalla Sorbona, condannata dall’Arcivescovo e dal Parlamento di Parigi, poi arsa pubblicamente a Ginevra per mano del boia. Inseguito dalle autorità di Francia e di Svizzera Rousseau passa in Inghilterra; ma essendovi male accolto, ed abbeverato di amarezze domanda ed ottiene a forza d’i stanze il permesso di fissarsi a Parigi a condizione che non iscrivesse più nulla né sulla Religione né sulla politica. Un ultimo tratto farà conoscere appieno questo patriarca della filosofia. forza sulla tenerezza materna e sui doveri dei genitori verso dei loro figli, metteva con fredda crudeltà i proprii suoi figli all’ospedale dei trovatelli. – Qual vita, tal morte; secondo ogni probabilità, Rousseau si tirò un colpo di pistola, ed avendo preso il veleno mori nel 1778.

  • Voltaire e Rousseau i più abbietti fra gli uomini, tranne coloro che li stimano, tali sono, o filosofi del giorno, uomini irreligiosi di tutti i colori e di tutte le condizioni, i vostri due apostoli, i vostri due evangelisti, i vostri due santi, gli autori di quanto noi abbiam veduto, e di quanto veggiamo. [Voltaire non ha veduto tutto ciò che ha fatto, ma ha fatto quanto noi veggiamo; cosi scriveva il filosofo Condorcet, ammiratore e discepolo di Voltaire frammezzo alle insanguinate rovine dei troni e degli altari. Qualche mese dopo egli avrebbe potuto scrivere questa frase dall’alto del patibolo, dove le dottrine del suo maestro lo avevano condotto con molti altri].

– Imitate pur dunque i vostri padri, prostratevi dinanzi a codesti dati uomini, e poi, se osate, dite pure: io vorrei essere simile a loro!!! Del resto, prima di pronunziare, è bene che li conosciate non dietro quanto si dice di loro, ma dietro le stesse loro parole. Venite dunque a Ferney ed a Ginevra, ascoltate le gentilezze che si dicono a vicenda, e regolate la vostra stima per loro su quella che l’uno professa per l’altro. Voltaire scrive a Rousseau ch’è uno scappato di Ginevra; un certo messere che ne ha fatto delle sue; un mariuolo, un furfante, un ciarlatano selvaggio che raduna i passeggeri sul Ponte Nuovo; un matto villano che scrive delle impertinenze degne di Bicétre: un giovinastro di una ciarla insopportabile che le donnicciuole scambiano per eloquenza: un ipocrita, un nemico del genere umano, un botolo ringhioso e stizzoso: un cupo energumeno impastato di orgoglio e pieno di fiele, un vile, un empio, un ateo, un miserabile che potrebbe assai bene arrampicarsi sopra una scala, che avrebbe meritato di essere appeso per aver fatto dei libri abominevoli, un uomo senza fede, senza religione. – Ecco Rousseau; la sua moglie poi è una vecchia infame, le cui mani adunche furono morsicate dai cani dell’inferno. – Bravo, signor Voltaire! Ecco un bel panegirico: ma intanto non siete voi, o illustre scrittore, modello di civiltà e di gusto, che dicevate: « Nella conversazione » delle persone dabbene ciascuno dice il suo parere, ma niuno ingiuria la sua brigata; si discute, ma non s’insulta? – Ora voi ingiuriate, voi insultate, voi non siete dunque un…. Dispensatemi dal terminar la frase. – Meno abile nell’arte d’ingiuriare, Rousseau risponde a Voltaire attaccandone gli scritti; anima abbietta, tu cerchi invano di avvilirla; è solo la tua trista filosofia che ti rende simile alle bestie, ma il tuo genio è una protesta contro i tuoi principii, e lo stesso abuso delle tue facoltà prova la loro eccellenza a tuo dispetto. – Se voi dunque chiedete a Voltaire chi è Rousseau, vi dice ch’esso è « un mascalzone, un furfante, un cane, un ciarlatano selvaggio ». – Se domandate a Rousseau chi è Voltaire, vi dice ch’è « un’anima abbietta, simile alle bestie ». – Ma eccovi qualche cosa di meglio e di meno sospetto; si è lo stesso Voltaire, lo stesso Rousseau che rendono giustizia a se stessi ed ai loro scritti: volete voi sentirli? – Ascoltate Voltaire : Io sprecai il tempo della mia esistenza a comporre guazzabuglia di cui la metà non avrebbe mai dovuto veder la luce. – Ascoltate Rousseau: Dire e provare del pari il prò ed il contro, persuader tutto e non credere a nulla, è stato sempre mai il favorito trastullo del mio ingegno, io non osservo alcuno de’ miei libri senza fremere; invece d’istruire, io corrompo; invece di nutrire, io avveleno: ma la passione mi trascina, e con tutti i miei bei discorsi io non sono che uno scellerato. Io non desidero altro che un angolo di terra per poter morire in pace senza toccare né carta né penna. – Voltaire e Rousseau, ecco dunque quanto la filosofia ha di meglio da opporci. Gran Dio! Dio di santità, Dio di purità, Dio di tutte le virtù! sarebbero mai costoro quelli che voi sceglieste per vostri rappresentanti sulla terra, gl’interpreti delle vostre sante verità, i maestri del genere umano, mentre avete condannato all’errore tutto ciò che v’ebbe tra gli uomini di più virtuoso, di più illuminato, di più somigliante a Voi stesso! Ed ora a chi mi domandasse come si possano spiegare gli elogi e l’ammirazione fanatica di cui Voltaire e Rousseau furono obbietto, sarebbe agevole il rispondere: « Essi dicevano ad alta voce ciò che il loro secolo pensava in segreto: l’impura loro voce era l’eco di tutti i loro cuori corrotti di cui era pieno il mondo ».

 

De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. V-VIII]

Mons. G. De Sègur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CHE SI FANNO PIU’ FREQUENTEMENTE CONTRO LA RELIGIONE -2-

V.

LA RELIGIONE È BUONA PER LE DONNE.

  1. R. E perché dunque non per gli uomini? O essa è vera o è falsa. Se è vera, è anche vera (e perciò anche buona) per gli uomini come per le donne. Se essa è falsa non è migliore per le donne che per gli uomini; perché la menzogna è buona per nessuno. Sì certo « la religione è buona per le donne » ma anche ed assolutamente per le stesse ragioni è buona per gli uomini. – Come le donne, gli uomini hanno delle passioni sovente molto violente a combattere; e come le donne, gli uomini non le possono vincere senza il timore e l’amore di Dio, senza i mezzi potenti, che la religione sola lor dona. – Per gli nomini come per le donne, la vita è piena di doveri difficili e penosi: doveri verso Dio, doveri verso la società, doveri verso la famiglia, doveri verso se – Per gli uomini, come per le donne vi ha un Dio da adorare e da servire, un’anima immortale da salvare, dei vizi ad evitare, delle virtù a praticare, un paradiso a guadagnare, un inferno a schivare, un giudizio a temere, una morte sempre minacciosa a cui è d’uopo prepararsi. – Per gli uni come per le altre Gesù Cristo è morto sulla croce, e i suoi comandamenti riguardano tutti. La Religione dunque è cosi buona per gli uomini come per le donne; e se vi ha una differenza, si è ch’essa è ancora più necessaria agli uomini, che alle donne, specialmente agli uomini giovani. Essi sono infatti esposti a maggiori pericoli; essi possono fare il male più facilmente, e sono più circondati da cattivi esempi, principalmente in ciò, che riguarda i cattivi costumi, l’intemperanza, e la negligenza dei doveri religiosi. Essi hanno dunque ancora più bisogno di preservativo, perché il male che li minaccia è più grave, e più imminente.

VI.

BASTA ESSERE ONEST’UOMO; CIÒ È LA MIGLIOR RELIGIONE:

CIÒ BASTA.

R. Sì per non essere mandato alle forche; ma non per andare al cielo. — Sì, avanti agli uomini; no avanti Dio, il Giudice Supremo. « 1.° Basta essere onest’uomo?» Dite voi. — Sia; ma intendiamoci. Chi chiamate voi onest’uomo? Ecco una parola, che mi sembra molto elastica, molto comoda, e che si presta a tutti i gusti. Domandate infatti a questo giovane di costumi sregolati, se colla condotta più che leggiera che tiene, si può essere onest’uomo?— « Ah, qual domanda! » vi risponderà; Delle follie di gioventù non impediscono per nulla d’essere un onest’uomo. Ho certamente la pretensione d’esserlo: o vorrei vedere che qualcuno venga a contestarmi questo bel titolo! » – Domandate in seguito a questo avido negoziante che apparecchia le sue stoffe di qualità inferiore, e le vende quasi fossero di prima qualità; a quell’operaio che lavora la metà di meno, quando si paga a giornata, che quando è pagato a fattura; a quel padrone, che abusa della miseria dei tempi per carpire ai suoi operai il riposo necessario della Domenica. Domandate loro, se ciò che fanno l’impedisca d’essere persone oneste? e ciascun d’essi non esiterà a rispondervi, ch’egli è un onest’uomo, e che queste taccherelle, queste destrezze, non fanno alla bisogna. -Domandate altresì a quel dissipatore, se la sua prodigalità; a quel vecchio, se la -sordida sua avarizia; a quell’abituato all’osteria, se l’ubriachezza distruggano la loro onestà? E ciascuno domanderà scusa per la sua passione favorita nel tempo stesso che si proclamerà onesto anzi onestissimo uomo! – Così per confessione delle stesse persone oneste di cui qui si parla, un uomo sfrenato, ingannatore, dato all’ubriachezza, avaro, usuraio, prodigo e libertino, può essere un onest’uomo, e nessuno può negargli questo titolo a condizione che non abbia rubato o assassinato!! – Non trovate voi forse questa morale molto comoda? Chiunque non ha questione a sbrigare avanti tribunali criminali, avrà a rendere nessun conto a Dio. — Perciò non più al cuore, ma alle spalle ormai abbisognerà guardare per giudicare le persone; e chi non avrà il L. F. o il L. P. [ L. F. Lavori forzati; L. P. Lavori forzati perpetui] sarà riputato buono per il cielo! Quale religione è la religione dell’onest’uomo!—e voi dite che quella è la vostra religione? Che è la migliore delle religioni? Una religione che permette tutto fuori del furto e dell’assassinio!! Ma voi non ci pensate? È una perversione, una abominevole dottrina e non una religione. – 2.° « Ma, dite voi, intendo allora per uomo onesto, più di quello che s’intende comunemente. Chiamo onesto uomo quello che adempie tutti i suoi doveri, che fa il bene e fugge il male. » – Ed io allora vi rispondo e sostengo appoggiato sull’esperienza, che se voi siete tal quale vi dite senza l’aiuto potente della religione, voi siete l’ottava meraviglia del mondo; ma vi ha cento a mettere contro uno che voi non lo siete punto. – Perché voi non mi farete credere, che non abbiate passioni ed inclinazioni sregolate; ogni uomo ne ha molte. — Se dunque voi siete proclive al libertinaggio, alla cupidigia, ai piaceri del senso, chi vi regolerà?— Se voi siete portato alla violenza o alla pigrizia, o all’orgoglio, chi dominerà queste passioni ? Chi arresterà il vostro braccio? Chi la vostra lingua? — Il timore di Dio? — Ma non se ne parla in questa religione dell’onest’uomo.— La voce della ragione? — Ma noi sappiamo che valga il ragionamento alle prese con una passione violenta. — Chi dunque? Io non vedo altra cosa che il timore della polizia, la forza brutale. Ma allora quale nobile religione!… ve ne faccio i miei complimenti. — Amo meglio la mia. – Sola la religione cristiana offre dei rimedi efficaci alle nostre passioni, e oppone un freno sufficiente alla loro veemenza. — A meno d’ammettere che un uomo è impeccabile, che egli è un angelo (ciò che non è) è necessario conchiudere che senza i potenti soccorsi che ci somministra il Cristianesimo noi non possiamo essere costantemente fedeli a tutti i grandi doveri, l’adempimento dei quali costituisce il vero onest’uomo. Senza il Cristianesimo noi non possiamo soprattutto adempierli con quella sincerità d’intenzione che ne forma tutta la bellezza morale. – I cristiani più virtuosi (tanto è grande questa debolezza umana da cui voi vi pretendete esente!) mancano essi stessi alle volte ai loro doveri, malgrado la forza sovrumana che attingono dalla fede. E voi privo di questo freno onnipotente, abbandonati le inclinazioni della natura, esposto a mille pericoli del mondo, pretenderete voi essere sempre fedele? – Io vi affermo con certezza, che colui, il quale non essendo cristiano, sì dice onest’uomo (nel senso che or ora abbiamo indicato) o fa a se stesso una grande illusione, oppure mente alla sua coscienza. – 3.° Ma io vado più lungi. Quand’anche vi vedessi adempiere perfettamente i vostri doveri di cittadino, di padre, di sposo, di figlio, d’amico, in una parola i doveri che fanno l’onest’uomo secondo il mondo, io vi direi ancora : « Ciò non basta ! ». No, ciò non basta. — E perché? — Perché vi ha un Dio, che regna nei cieli, che vi ha creato, che vi conserva, che vi chiama a sé, che v’impone una legge. — Perché voi avete verso questo gran Dio dei doveri di adorazione, di ringraziamento, di preghiera, così stretti, così necessari, e nello stesso tempo più essenziali, più imprescrittibili di quello che siano i nostri doveri in riguardo ai vostri simili. — Questi ultimi doveri potrebbero infatti cessare, se voi veniste ad essere separato dal rimanente degli uomini, mentre che in ogni luogo e sempre sussisteranno le vostre obbligazioni verso Dio; in ogni luogo, e sempre vi sarà per voi obbligo di credere in Lui, di amarLo, di adorarLo, di pregarLo. – Un ingrato può dire a se stesso: « Io son buono; non ho niente a rimproverarmi? » — No, certamente! — Or bene! voi siete un ingrato, voi, onest’uomo del mondo, che dimenticate Iddio! — Egli è vostro Padre; voi Gli dovete l’esistenza, la vita, l’intelligenza, la dignità morale, la sanità, i beni, tutto; Egli ha creato il mondo per voi, per vostra utilità, per vostro piacere. — Egli vi prepara nel cielo un’immensa felicità. — Egli è vostro Signore; vostro Padrone; Egli vi benedice, vi perdona, v’ama, v’aspetta! – E voi qual cosa gli rendete in cambio? Quale amore, qual rispetto, qual omaggio? Voi discutete freddamente i pretesti, ch’inventano i suoi nemici per sottrarvi al suo servizio! Voi forse non avete che sarcasmi, odio, disprezzo per tutto ciò che riguarda il suo culto! Voi non Lo pregate. Voi non L’adorate. Voi non Lo ringraziate. Voi vi beffate della fede alla sua parola, della pratica della sua legge! ! . . . Ingrato! E voi non avete niente a rimproverarvi? E voi adempite tutti i vostri doveri? – Credetemi, cessate di farvi quest’illusione! a che ingannar se stesso? a che dissimular i propri falli? Riconosciamo piuttosto, che il giogo della religione, cioè del dovere ci ha spaventati, e che si è per scaricarcene senza troppa impudenza, che noi abbiamo immaginato questa Religione dell’onest’uomo. – Non solamente essa non basta, ma a dir vero non è che una sonora ciancia, vuota di senso, destinata a coprire agli occhi del mondo, ed ai nostri propri, dei disordini, delle debolezze, di cui la pratica del Cristianesimo è il solo rimedio.

VII.

PER ME LA MIA RELIGIONE È DI FAR DEL BENE AGLI ALTRI.

R. Nulla di meglio, che amar gli altri, e fare loro del bene. È ciò altresì, che la Religione cristiana ci ordina con maggiore insistenza, essa giunge persino ad assomigliare questo dovere al grande, e fondamentale dovere d’amar Dio: « Tu amerai, essa ci dice, il Signore Dio tuo di tutto il tuo cuore; » questo è il primo comandamento. Ed ecco il secondo, che è simile al primo: « Amerai il tuo prossimo come te stesso. » Queste sono le parole di Gesù Cristo (Ev. di s. Matt. c. XXII); ma aggiunge qualche cosa a cui non ponete troppo mente: « In questi due comandamenti consiste tutta la legge ». Voi, la cui Religione a vostro dire, consiste solo nel far del bene agli altri, voi sopprimete uno dei due comandamenti, il principale, quello che ordinariamente fa nascere l’altro, che lo sviluppa, l’alimenta, fa ascendere sino all’eroismo, quello che l’innalza all’altezza di un dovere religioso Il comandamento dell’amor di Dio, e l’obbligo di servirlo. Bisogna avere queste due gambe per camminare, non è egli vero? Parimenti per compiere il nostro destino sulla terra, e arrivare al cielo abbisogna la pratica dei due grandi comandamenti: 1.° Tu amerai il tuo Dio, 2.° Amerai i tuoi fratelli come te stesso. Così il secondo esiste raramente colà dove il primo non regna; l’esperienza di diciannove secoli è là per attestarlo. I cristiani che appoggiano l’amore dei loro simili sopra l’amore di Dio sono i soli che amino veramente, efficacemente, puramente c – Quali sono stati i più grandi benefattori dell’umanità sofferente? I Santi, cioè, gli nomini accesi dell’amor di Dio. – Per contarne un solo tra tutti, osservate S. Vincenzo de’ Paoli, quest’eroe della carità fraterna, questo padre di tutti gl’infelici, che ancora adesso fa del bene in tutta la terra per mezzo delle opere benefiche che ha fondate! Chi era Vincenzo de Paoli? Un prete, un uomo di Chiesa! Dove attingeva egli questo sacrificio di sé per i suoi simili? Nell’amore di Dio, nella pratica della religione di Gesù Cristo. – Quali sono le instituzioni di beneficenza che prosperano di più? (per non dire che prosperano le sole). – Quali sono quelle che vivono, che si sviluppano, che sussistono attraverso dei secoli? Quelle che fonda la Chiesa; quelle che riposano su di un pensiero religioso; quelle che corona la croce di Gesù Cristo! Chi ha fondati gli ospìzi? La Chiesa! – Chi ha sovvenute in tutti i tempi, chi nei nostri giorni ancora, a dispetto degli ostacoli che ricchi governi le frappongono, sovviene tutte le miserie sia dell’anima, sia del corpo, sia dell’infanzia, sia dell’età virile, sia della vecchiezza ? La Chiesa. – Chi, per sollevare ciascuna di queste miserie, ha creato gli ordini religiosi degli uomini e delle donne, occupati gli uni per i piccoli ragazzi abbandonati, altri nell’educazione dei poveri, altri alla cura degli ammalati, questi alla cura dei pazzi, quelli alla redenzione degli schiavi, all’ospitalità dei viaggiatori ecc., ecc.? La Chiesa e la Chiesa sola! – È dessa che produce i più grandi benefici all’umanità, è dessa che, fa la suora di carità, come ella fa il missionario e il monaco di S. Bernardo! Sempre l’amor di Dio come fondamento il più solido dell’amor degli uomini! – Ai nostri tempi più che mai sì parla molto di umanità, di fraternità, d’amor dei poveri. Si fantasticano sistemi; le belle parole non costano niente: si fanno dei libri e dei discorsi. Perché tutto ciò ottiene cosi piccolo risultato? Perché la religione non vivifica i suoi sforzi. Un effetto non può sussistere senza la sua causa; la causa, il principio più fecondo della carità fraterna è la carità divina, o l’amor di Dio. – Diffidatevi dunque dei bei sistemi di fraternità, che fanno astrazione dalla Religione. Senza nostro Signor Gesù Cristo non vi ha amor degli uomini efficace, puro, solido e durevole.

VIII.

LA RELIGIONE INVECE DI PARLAR TANTO DELL’ ALTRA VITA, DOVREBBE PIUTTOSTO OCCUPARSI DI QUESTA, DISTRUGGERE LA MISERIA, E DARCI LA FELICITA’.

R. Sotto quest’irragionevole accusa è nascosta una delle più grandi questioni sempre del giorno, sempre accese, che riguardano a ciò che vi ha di più intimo in noi: la questione della felicità. – Voi cercate la felicità; voi volete esser felice. — Voi avete ragione. Dio nella sua paterna bontà non ha potuto crearvi che per rendervi felice. Cercate dunque la felicità …. ma guardatevi di non ingannarvi nella scelta de’ mezzi ! Molte sono le vie aperte avanti a voi: Una sola è la vera …. Infelice chi ne prende una falsa!… Quest’errore è più facile che mai ai nostri giorni; perché giammai, io penso, il nostro paese fu più inondato di dottrine menzognere su quest’argomento. —Uomini colpevoli, o sviati spandono da ogni parte e per le mille maniere che fornisce la stampa, dottrine che adescano tutte le passioni, penetrano facilmente nello spirito delle popolazioni. – Essi vogliono persuaderci, che non siamo sulla terra che per godere, che le speranze della vita futura sono chimere; che la felicità consiste nella prosperità materiale, nel denaro, e nei piaceri che procura il denaro. — Alcuni più audaci e più logici, aggiungono, che per procurarsi questo denaro e questi piaceri, tutti i mezzi sono buoni, e che quand’anche avesse a perire la società, la famiglia, la Religione, bisogna che tutto il mondo arrivi a questa perfetta felicità terrena. Lo stato attuale della società umana è vizioso, dicono essi; bisogna distruggere tutto, tutto cambiare; bisogna che la terra muti aspetto; allora tutto il mondo sarà felice. Questa dottrina voi non la conoscete che troppo. È il Comunismo (Si chiama ancora fourierismo, socialismo, sansimonismo ecc. La sostanza di questi sistemi è la stessa: quanto olla morale, essi non differiscano chi nei particolari poco essenziali d’applicazione. Pei dotti questa dottrina sì chiama Panteismo. La morale del Panteismo è la stessa che quella del Comunismo, è il Comunismo, che parla latino, ed abbigliato da Pedagogo e da Pedante.). – Io non vi farò l’ingiuria di provarvi, che questa felicità di piaceri avvilisce. Ciò salta agli occhi. Esso annulla ciò che ci distingue dalle bestie, il bene, la virtù, il sacrificio, l’ordine morale. L’uomo non differisce più dal suo cane che per la pelle, e la figura; la felicità è la stessa per l’uno come per l’altro, la soddisfazione delle sue inclinazioni, il piacere! – Ma ciò di cui non si è appieno convinti, e ciò sopra cui voglio richiamare la vostra attenzione, è l’impossibilità pratica della dottrina comunista, l’assurdità della sua felicità universale. – Vorrei farvi toccar con mano la sua opposizione assoluta con la natura delle cose, coi fatti esistenti che nessuno può cangiare; convincervi che ella non è che un sogno, una dannosa e ridicola utopia, e che sotto le grandi parole colle quali si presenta avvi un niente. – Se vi è un fatto accertato, cosi chiaro come il sole, è senza dubbio la triste necessità in cui noi siamo tutti quaggiù di soffrire e morire; è la condizione umana in ciò che le è essenziale sulla terra; è Io stato in cui io sono, in cui voi siete, in cui sono stati i nostri padri, in cui saranno i nostri figli, da cui nessuno umano sforzo ci può sottrarre. – Avvi, io domando, sulla terra e non vi saranno per sempre, sempre, sempre, malattie, pene, dolori? Vi sono e non vi saranno sempre vedove ed orfani? Madri piangenti inconsolabilmente davanti la culla vuota del loro bambino? Vi sono, e non vi saranno sempre conflitti di caratteri, opposizioni di volontà, inganni maligni? Nulla potrà cambiare questo stato di cose. Una nuova organizzazione della società qual ella siasi, impedirà essa che noi abbiamo delle malattie, dei dolori, delle flussioni al petto, la febbre, la gotta, il colerà? che noi perdiamo quelli che amiamo?… Impedirà essa le intemperie così spiacevoli delle stagioni, il rigore del freddo d’inverno, l’ardore bruciante del sole d’estate?.. Impedirà essa che l’uomo abbia dei vizi? ch’esso abbia orgoglio, egoismo, violenza, odio? Impedirà essa soprattutto di morire? Tutto ciò è vero, o non é vero? E non è parimente tanto certo ed indubitabile che ciò è, quanto è certo che ciò sarà sempre? Bisognerebbe aver perduta la testa per negarlo. – Cosa diventa, ditemi, in presenza di questo fatto, cosa diventa in mezzo di tanti mali inevitabili questo piacere costante, questa perfetta felicità terrena, che ci promette il Comunismo?—Il solo avvicinarsi d’una malattia, d’un dispiacere della morte basta per annientarlo!… e questi terribili nemici sono continuamente alla nostra porta. – Dunque il vostro Comunismo, il vostro Socialismo (chiamatelo come volete) è un sogno, una vana utopia contraria alla natura delle cose. Dunque egli s’inganna, o egli m’inganna, quando mi prometto la felicità sulla terra dove non vi può essere, e quando la fa consistere in uno stato impossibile di piaceri. – Dunque bisogna che la cerchi altrove, perché io so che in qualche parte si trova: la sapienza, la bontà, la potenza di Dio me ne sono certo pegno. Dove adunque? Là dove me la fa vedere il Cristianesimo, in germe sulla terra,,perfetta nel Cielo. – Il Cristianesimo si accorda perfettamente col gran fatto della nostra condizione mortale. Esso ci spiega il terribile problema del dolore e della morte. – Esso ci fa vedere la punizione del peccato. Esso ci mostra nelle pene inevitabili della vita delle afflizioni passeggere destinale, nei disegni del nostro Padre Celeste, a provare la nostra fedeltà, a purificarci dalle nostre mancanze, a renderci più simili al nostro Salvator Crocifisso, a farci meritare una più grande felicità nella Patria eterna! Esso ce le fa sopportare con pazienza, talvolta ancora con gioia, esso ci fa amare la mano paterna, che non ci percuote se non per salvarci. – Esso prende l’uomo tutto intero, e tale quale egli è; esso tiene conto dei fatti, che dimentica il Comunismo (il peccato originale, la condanna alla penitenza, la redenzione di Gesù Cristo, la necessità d’imitare il Salvatore per aver parte alla sua redenzione, la vita eterna, che ci aspetta, ecc.). Esso non ragiona in aria, come il Comunismo, e sopra supposizioni chimeriche. – Tutti gl’interessi dell’uomo gli sono presenti il suo corpo, la sua anima, la sua vita in questo mondo, la sua vita futura, esso non dimentica niente! – Il Comunismo non vede in noi che la scorza, esso dimentica il midollo, l’anima. — Il Cristianesimo non dimentica punto la scorza, il corpo, ma vede altresì il midollo, e trova che il midollo vale ancor più che la scorza. — Esso riferisce tutto all’anima, all’eternità, a Dio. – Per un’azione altrettanto dolce, che potente, esso purga a poco a poco l’anima del suo orgoglio, delle sue cupidigie, della sua concupiscenza, del suo egoismo, dei suoi eccessi, in una parola di tutti i suoi vizi; esso va ancora alla radice più profonda della maggior parte di questi mali che noi continuamente sentiamo. – Quasi sempre infatti, i nostri mali vengono dalle nostre passioni, e queste passioni il Cristianesimo le calma, le trattiene, le doma. – Esso dà al nostro cuore questa gioia e pace sì dolce che produce la purità della coscienza. – La fede ci mostra chiaramente la via che conduce alla felicità, e a quale felicitai! … La speranza e l’amore ci fan correre in questa via, e rendono dolce ed amabile il giogo del dovere. – Se il Cristianesimo fa tanto per l’anima, come abbiamo detto, non oblia il corpo. Esso lo venera come il tempio di questa anima immortale che é essa stessa il tempio vivente di Dio. Esso si studia incessantemente a sollevarla, a guarirla, e a prevenire anche tutti i dolori coi suoi caritatevoli istituti, i suoi ospizi, ecc. – Dovunque la sua voce è ascoltata, la miseria va scemando, il ricco diventa l’amico, il fratello, sovente il servo del povero. Esso versa il suo superfluo nel seno degli infelici; e la povertà se non può esser distrutta diventa almeno sopportabile (La povertà non può essere distrutta, perché le sue cause non possono essere tolte. La prima è l’ineguaglianza delle forze fisiche, della sanità, dell’ingegno, dell’intelligenza, dell’attività ecc. tra gli uomini. È egli possibile rendere tutti gli uomini eguali in forza, talento e buona volontà?… La seconda causa della miseria, non meno profonda che l’alita, sono i vizi della nostra povera natura corrotta dal peccato: la pigrizia, la dissolutezza l’ubriachczza, la prodigalità ecc. La miseria è una delle punizioni del peccato. È impossibile distruggerla ma è possibile scemarla, sollevarla, addolcirla, santificarla. Ciò fa la religione. I ricchi adunque divengano buoni cristiani e caritatevoli, ed i poveri buoni cristiani e pazienti. Qui sta tutto il mistero). – Il Cristianesimo s’occupa del corpo, non come di principale e di padrone (ciò sarebbe un disordine), ma come di accessorio e di compagno. Esso lo conserva colla sobrietà e castità ; lo santifica col culto esteriore, colla partecipazione dei sacramenti, e soprattutto per l’unione al corpo sacrato di Gesù Cristo nell’Eucaristia…. – Esso raccoglie i suoi ultimi sospiri; l’accompagna con onore sino all’ultima sua dimora; e là ancora non gli dice un eterno addio! … Esso sa che un giorno questo corpo cristiano, purificato dal Battesimo della morte, sorgerà raggiante dalla sua polvere, risusciterà nella gloria, sarà riunito alla sua anima, e gusterà con essa nel paradiso ineffabili delizie…. Tale è il Cristianesimo.- Esso conosce, promette, concede la felicità. Esso dà sulla terra ciò che è possibile. Se non concede tutto, si è perché tutto né deve né può essere concesso sulla terra. Esso appoggia le sue promesse con prove le più irrefragabili. Ciò che non ha ancora, il Cristiano sa, è sicuro che l’avrà un giorno. – Così ogni vero cristiano è felice. Egli ha dei dispiaceri, dei dolori… egli è impassibile il non averne, ma il suo cuore è sempre soddisfatto, sempre calmo e contento. – Il Comunismo tratta egli così i poveri sviati che egli incanta colle sue chimere? Esso promette ciò che nessuna potenza umana può dare; promette l’impossibile … Esso non ha altra prova che l’affermare audace dei suoi capi! E i suoi capi son essi atti ad inspirare confidenza? – Il mondo sarà felice, dicono essi, quando tutto vi sarà cambiato »—Sì; ma quando sarà tutto cambiato?—Se, come crediamo averlo provato, questo cambiamento è contrario alla natura delle cose, il mondo corre gran rischio di giammai conoscere la felicità. Il Comunismo fa come quel parrucchiere della Guascogna, che metteva sulla sua insegna: « Qui per nulla si rade alla dimane ». La dimane resta sempre la dimane, e l’oggi non arrivava mai. – Il comunista vuole la ricompensa senza il lavoro; il cristiano vuole la ricompensa dopo il lavoro. L’uno parla come il cattivo operaio, l’altro come il buono. Così ogni ozioso, ogni pigro accetta volentieri le dottrine del Comunismo , e respinge per istinto la voce della religione. – Si guardi la nostra patria dunque da queste promesse vuole, ma seducenti, di cui i suoi nemici riempiono i loro giornali, i romanzi, libelli; che essa li respinga, ch’essa col suo disprezzo giudichi uomini, che non arrossiscono di proporre ai loro fratelli la vile felicità delle bestie, il piacere. Solleviamo la testa! Rianimiamo l’addormentala nostra fede; siamo, ritorniamo cristiani. Colà solamente è il rimedio ai nostri mali, istruiamoci in questa religione cattolica, che ha creato la nostra Patria! Penetriamone il nostro spirito, il nostro cuore, le nostre abitudini, le nostre istituzioni, le nostre leggi!…. Noi avremo la felicità possibile in questo mondo, e la felicità perfetta nell’altro mondo. Chi pretende di più è un insensato che non avrà né l’una, né l’altra.

CATTEDRA DI S. PIETRO

22 FEBBRAIO

CATTEDRA DI S. PIETRO IN ANTIOCHIA

Festa della Cattedra di Antiochia.

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol I]

 

Per la seconda volta la santa Chiesa festeggia la cattedra di Pietro; ma oggi, siamo invitati a venerare non più il suo Pontificato in Roma, ma il suo Episcopato ad Antiochia. La permanenza del Principe degli Apostoli in quest’ultima città fu per essa la più grande gloria che conobbe dalla sua fondazione; pertanto, questo periodo occupa un posto tanto rilevante nella vita di S. Pietro da meritare d’essere celebrato dai cristiani.

Cristianesimo ad Antiochia.

Cornelio aveva ricevuto il battesimo a Cesarea dalle mani di Pietro, e l’ingresso di questo Romano nella Chiesa preannunciava il momento in cui il Cristianesimo doveva estendersi oltre la popolazione giudaica. Alcuni discepoli, i cui nomi non ci furono tramandati da Luca, fecero un tentativo di predicazione in Antiochia, ed il successo che ne riportarono indusse gli Apostoli ad inviarvi Barnaba. Giunto questi colà, non tardò ad associarsi un altro giudeo convertito da pochi anni e conosciuto ancora col nome di Saulo, che, più tardi, cambierà il suo nome con quello di Paolo e diventerà oltremodo glorioso in tutta la Chiesa. La parola di questi due uomini apostolici suscitò nuovi proseliti in seno alla gentilità, ed era facileprevedere che ben presto il centro della religione di Cristo non sarebbe stato più Gerusalemme, ma Antiochia. Così il Vangelo passava ai gentili e abbandonava l’ingrata città che non aveva conosciuto il tempo della sua visita (Lc. XIX, 44).

Pietro ad Antiochia.

La voce dell’intera tradizione c’informa che Pietro trasferì la sua residenza in questa terza città dell’Impero romano, quando la fede di Cristo cominciò ad avere quel magnifico sviluppo che abbiamo qui sopra ricordato. Tale mutamento di luogo e lo spostamento della Cattedra primaziale stanno a dimostrare che la Chiesa s’avanzava nei suoi destini e lasciava l’augusta cinta di Sion, per avviarsi verso l’intera umanità. – Sappiamo dal Papa S. Innocenzo I ch’ebbe luogo in Antiochia una riunione degli Apostoli. Ormai il vento dello Spirito Santo spingeva verso la gentilità le sue nubi sotto il cui emblema Isaia raffigura gli Apostoli (Is. LX, 8). S. Innocenzo, alla cui testimonianza si unisce quella di Vigilio, vescovo di Tarso, osserva che si deve riferire al tempo di questa riunione di S. Pietro e degli Apostoli ad Antiochia, quanto S. Luca scrive negli atti, là dove afferma che alle numerose conversioni di gentili, si incominciò a chiamare i discepoli di Cristo con l’appellativo, di Cristiani.

Le tre Cattedre di S. Pietro.

Dunque Antiochia è diventata la sede di Pietro, nella quale egli risiede, e dalla quale partirà per evangelizzare le diverse province dell’Asia; qui farà ritorno per ultimare la fondazione di questa nobile Chiesa. Sembrava che Alessandria, la seconda città dell’impero, volesse rivendicare a sé l’onore della sede del primato, quando piegò la testa sotto il gioco di Cristo. Ma ormai Roma, da tempo predestinata dalla divina Provvidenza a dominare il mondo, ne avrà maggior diritto. Pietro allora si metterà in cammino, portando nella sua persona i destini della Chiesa; si fermerà a Roma, ove morirà e lascerà la sua successione. Nell’ora segnata, si distaccherà da Antiochia e stabilirà vescovo Evodio, suo discepolo. Questi, quale successore di Pietro, sarà Vescovo di Antiochia; ma la sua Chiesa non eredita il primato che Pietro porta con sè. Il principe degli Apostoli designa Marco, suo discepolo, a prender in suo nome possesso di Alessandria; la quale sarà la seconda Chiesa dell’universo e precederà la stessa sede di Antiochia, per volontà di Pietro, che però non ne occupò mai personalmente la sede. Egli è diretto a Roma: ivi finalmente, fisserà la Cattedra sulla quale vivrà, insegnerà e governerà nei suoi successori. – Questa l’origine delle tre grandi Cattedre Patriarcali così venerate anticamente: la prima, Roma, investita della pienezza dei diritti del principe degli Apostoli, che gliele trasmise morendo; la seconda, Alessandria, che deve la sua preminenza alla distinzione di cui volle insignirla Pietro adottandola per sua seconda sede; la terza, Antiochia, sulla quale si assise di persona, allorché, rinunciando a Gerusalemme, volle portare alla Gentilità le grazie dell’adozione. – Se dunque Antiochia cede in superiorità ad Alessandria, quest’ultima le è inferiore rispetto all’onore d’aver posseduta la persona di colui che Cristo aveva investito dell’ufficio di Pastore supremo. E’ dunque giusto che la Chiesa onori Antiochia per aver avuto la gloria d’essere temporaneamente il centro della cristianità: è questo il significato della festa che oggi celebriamo (i).

Doveri verso la Cattedra di S. Pietro.

Le solennità che si riferiscono a S. Pietro devono interessare in modo speciale i figli della Chiesa. La festa del padre è sempre quella dell’intera famiglia, perché da lui viene la vita e l’essere. Se ‘è un solo gregge, è perché esiste un solo Pastore. Onoriamo perciò la divina prerogativa di Pietro, alla quale il Cristianesimo deve la sua conservazione; riconosciamo gli obblighi che abbiamo verso la Sede Apostolica. Il giorno che celebravamo la Cattedra Romana, apprendemmo come viene insegnata, conservata e propagata la Fede dalla Chiesa Madre nella quale risiedono le promesse fatte a Pietro. Onoriamo oggi la Sede Apostolica, quale unica sorgente del legittimo potere, mediante il quale vengono retti e governati i popoli in ordine alla salvezza eterna.

Poteri di Pietro.

Il Salvatore disse a Pietro: « Io ti darò le Chiavi del Regno dei cieli » (Mt. XVI, 19), cioè della Chiesa; ed ancora: « Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle» (Gv. XXI, 15-17). Pietro dunque è principe, perché le Chiavi, nella Sacra Scrittura, significano il principato; e Pastore, Pastore universale, perché non vi sono in seno al gregge che pecore ed agnelli. Ma ecco che, per divina bontà, in ogni parte incontriamo Pastori: i Vescovi, « posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio » (Atti XX, 28), che in suo nome governano le cristianità, e sono anch’essi Pastori. Come mai le Chiavi, che sono eredità di Pietro, si trovano in altre mani, che non sono le sue? La Chiesa cattolica ce ne spiega il mistero nei documenti della sua Tradizione. (1) Facemmo osservare il 18 gennaio che, secondo l’antica tradizione romana, conservata inalterata sino al XVI secolo, oggi si celebrava la festa della Cattedra romana di S. Pietro, senza il menomo cenno di Antiochia, perché ci si limitava a venerare la Cattedra vaticana, simbolo del primato universale di S. Pietro e dei suoi successori. Le Chiese delle Gallie, escludendo qualsiasi solennità in Quaresima, avevano trasferita tale festa al 18 gennaio. Da tre secoli a questa parte, fu la pietà verso il Principe degli Apostoli che suggerì di estendere gli onori dovuti alla sua parola anche alla Cattedra di Antiochia. – Ecco Tertulliano affermare che « il Signore diede le Chiavi a Pietro, e per mezzo suo alla Chiesa » (Scorpiaco, c. 10); S. Ottato di Milevi, aggiungere che, « per il bene dell’unità, Pietro fu preferito agli altri Apostoli, e, solo, ricevette le Chiavi del Regno dei cieli per trasmetterle agli altri » (Contro Parminiano, 1. 8); S. Gregorio Nisseno, dichiarare che « per mezzo di Pietro, Cristo comunicò ai Vescovi le Chiavi della loro celeste prerogativa» (Opp., t. 3); e infine S. Leone Magno, precisare che « il Salvatore diede per mezzo di Pietro agli altri prìncipi della Chiesa tutto ciò che ha creduto opportuno di comunicare » (Nell’anno della sua elevazione al Sommo Pontificato, Discorso 4, P. L., 54, c. 150).

Poteri dei Vescovi.

Quindi l’Episcopato rimarrà sempre sacro, perché si ricollega a Gesù Cristo per mezzo di Pietro e dei suoi successori; ed è ciò che la Tradizione cattolica ha sempre affermato nella maniera più imponente, plaudendo al linguaggio dei Pontefici Romani, che non hanno mai cessato di dichiarare, sin dai primi secoli, che la dignità dei Vescovi era quella di compartecipare alla propria sollecitudine, “in partem sollicitudinis vocatos”. Per tale ragione S. Cipriano non ebbe difficoltà d’affermare che, « volendo il Signore stabilire la dignità episcopale e costituire la sua Chiesa, disse a Pietro: Io ti darò le Chiavi del Regno dei cieli; e da ciò deriva l’istituzione dei Vescovi e la costituzione della Chiesa » (Lettera 33). – La stessa cosa ripete, dopo il vescovo di Cartagine, S. Cesario d’Arles, nelle Gallie, nel V secolo, quando scrive al Papa S. Simmaco: « Poiché l’Episcopato attinge la sua sorgente nella persona del beato Pietro Apostolo, ne consegue necessariamente che tocca a Vostra Santità prescrivere alle diverse Chiese le norme alle quali esse si devono conformare » (Lettera 10). Questa fondamentale dottrina, che S. Leone Magno espresse con tanta autorità ed eloquenza, e che in altre parole è la stessa che abbiamo ora esposta mediante la Tradizione, la vediamo imposta a tutte le Chiese, prima di S. Leone, nelle magnifiche Epistole di S. Innocenzo I arrivate fino a noi. In questo senso egli scrive al concilio di Cartagine che « l’Episcopato ed ogni sua autorità emanano dalla Sede Apostolica » {Ibid. 29) ; al concilio di Milevi che « i Vescovi devono considerare Pietro come la sorgente del loro appellativo e della loro dignità » {Ibid. 30) ; a San Vitricio, Vescovo di Rouen, che « l’Apostolato e l’Episcopato traggono da Pietro la loro origine » (Ibid. 2). – Non abbiamo qui l’intenzione di fare un trattato polemico; il nostro scopo, nel presentare i magnifici titoli della Cattedra di Pietro, non è altro che quello di alimentare nel cuore dei fedeli quella venerazione e devozione da cui devono essere animati verso di lei. Ma è necessario ch’essi conoscano la sorgente dell’autorità spirituale, che nei diversi gradi di gerarchia li regge e li santifica. Tutto passa da Pietro, tutto deriva dal Romano Pontefice, nel quale Pietro si perpetuerà fino alla consumazione dei secoli. Gesù Cristo è il principio dell’Episcopato,lo Spirito Santo stabilisce i Vescovi, ma la missione, l’istituzione che assegna al Pastore il suo gregge ed al gregge il proprio Pastore, Gesù Cristo e lo Spirito Santo le comunicano attraverso il ministero di Pietro e dei suoi successori.

Trasmissione del potere delle Chiavi.

Com’è sacra e divina questa autorità delle Chiavi, che, discendendo dal cielo nel Romano Pontefice, da lui, attraverso i Prelati della Chiesa, scende su tutta la società cristiana ch’egli deve reggere e santificare! Il modo di trasmissione attraverso la Sede Apostolica ha potuto variare secondo i secoli; ma mai alcun potere fu emanato se non dalla Cattedra di Pietro. A principio vi furono tre Cattedre: Roma, Alessandria, Antiochia; tutte e tre, sorgenti dell’istituzione canonica per i Vescovi che le riguardano; ma tutte e tre considerate altrettante Cattedre di Pietro da lui fondate per presiedere, come insegnano S. Leone (Lettera 104 ad Anatolio), S. Gelasio (Concilio Romano, Labbe, t. 4) e S. Gregorio Magno (Lettera ad Eulogio). Ma, delle tre Cattedre, il Pontefice che sedeva sulla prima aveva ricevuto dal cielo la sua istituzione, mentre gli altri due Patriarchi non esercitavano la loro potestà se non perché riconosciuti e confermati da chi era succeduto a Roma sulla Cattedra di Pietro. Più tardi, a queste prime tre, si vollero aggiungere due nuove Sedi: Costantinopoli e Gerusalemme; ma non arrivarono a tale onore, se non col beneplacito del Romano Pontefice. Inoltre, affinché gli uomini non corressero pericolo di confondere le accidentali distinzioni di cui furono ornate quelle diverse Chiese, con la prerogativa della Chiesa Romana, Dio permise che le Sedi d’Alessandria, d’Antiochia, di Costantinopoli e di Gerusalemme fossero contaminate dall’eresia; e che divenute altrettante Cattedre di errore, dal momento che avevano alterata la fede trasmessa loro da Roma con la vita, cessassero di tramandare la legittima missione. Ad una ad una, i nostri padri videro cadere quelle antiche colonne, che la mano paterna di Pietro aveva elevate; ma la loro rovina ancora più solennemente attesta quanto sia solido l’edificio che la mano di Cristo fondò su Pietro. – D’allora, il mistero dell’unità s’è rivelato in una luce più grande; e Roma, avocando a sé i favori riversati sulle Chiese che avevano tradita la Madre comune, apparve con più chiara evidenza l’unico principio del potere pastorale.

Doveri di rispetto e sudditanza.

Spetta dunque a noi, sacerdoti e fedeli, ricercare la sorgente dalla quale i nostri pastori attinsero i poteri, e la mano che trasmise loro le Chiavi. Emana la loro missione dalla Sede Apostolica ? Se è così, essi vengono da parte di Gesù Cristo, che, per mezzo di Pietro, affidò loro la sua autorità, e quindi dobbiamo onorarli ed esser loro soggetti. – Se invece si mostrano a noi senza essere investiti del Mandato del Romano Pontefice, non seguiamoli, ché Cristo non li riconosce. Anche se rivestono il sacro carattere conferito dall’unzione episcopale, non rientrano affatto nell’Ordine Pastorale; e le pecore fedeli se ne devono allontanare.Infatti, il divino Fondatore della Chiesa non si contentò d’assegnarle la visibilità come nota essenziale, perché fosse una Città edificata sul monte (Mt. V, 14) e colpisse chiunque la guardasse; Egli volle pure che il potere divino esercitato dai Pastori derivasse da una visibile sorgente, affinché ogni fedele potesse verificare le attribuzioni di coloro che a lui si presentano a reclamare la propria anima in nome di Gesù Cristo. Il Signore non poteva comportarsi diversamente verso di noi, poiché, dopo tutto, nel giorno del giudizio Egli esigerà che siamo stati membri della sua Chiesa e che abbiamo vissuto, nei suoi rapporti, mediante il ministero dei suoi Pastori legittimi. Onore, perciò, e sottomissione a Cristo nel suo Vicario; onore e sottomissione al Vicario di Cristo nei Pastori che manda.

Elogio.

Gloria a te, o Principe degli Apostoli, sulla Cattedra di Antiochia, dall’alto della quale presiedesti ai destini della Chiesa universale! Come sono splendide le tappe del tuo Apostolato! Gerusalemme, Antiochia, Alessandria nella persona di Marco tuo discepolo, e finalmente Roma nella tua stessa persona; ecco le città che onorasti con la tua augusta Cattedra. Dopo Roma, non vi fu città alcuna che ti ebbe per sì lungo tempo come Antiochia ; è dunque giusto che rendiamo onore a quella Chiesa che, per tuo mezzo fu un tempo madre e maestra delle altre. Ahimè! oggi essa ha perduto la sua bellezza, la fede è scomparsa nel suo seno, e il giogo del Saraceno pesa su di lei. Salvala, o Pietro, e reggila ancora; assoggettala alla Cattedra di Roma, sulla quale ti sei assiso, non per un limitato numero di anni, ma fino alla consumazione dei secoli. Immutabile roccia della Chiesa, le tempeste si sono scatenate contro di te, e più d’una volta abbiamo visto coi nostri occhi la Cattedra immortale essere momentaneamente trasferita lontano da Roma [come pure è attualmente in esilio . ndr. -]. Ci ricordavamo allora della bella espressione di S. Ambrogio: Dov’è Pietro, ivi è la Chiesa, e i nostri cuori non si turbarono; perchè sappiamo che fu per ispirazione divina che Pietro scelse Roma come il luogo dove la sua Cattedra poggerà per sempre. Nessuna volontà umana potrà mai separare ciò che Dio legò; il Vescovo di Roma sarà sempre il Vicario di Gesù Cristo e il Vicario di Gesù Cristo, sebbene esiliato [come è oggi appunto – ndr. – ] dalla sacrilega violenza dei persecutori, rimarrà sempre il Vescovo di Roma.

Preghiera.

Calma le tempeste, o Pietro, affinché i deboli non ne siano scossi; ottieni dal Signore che la residenza del tuo successore non venga mai interrotta nella città che tu eleggesti ed innalzasti a tanti onori. – Se gli abitanti di questa città regina hanno meritato d’essere castigati perché dimentichi di ciò che ti devono, risparmiali per riguardo dell’universo cattolico, e fa’ che la loro fede, come al tempo in cui Paolo tuo fratello indirizzava la sua Epistola, torni ad essere famosa in tutto il mondò (Rom. I, 8).

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Rileggendo questo notevole scritto di dom Guéranger si possono chiarire e comprendere meglio tante cose che riguardano i nostri tempi circa l’importanza della figura del Pontefice romano, oggi tanto bistrattata dagli eretici “falsi tradizionalisti” sedevacantisti, e dagli “adepti della setta modernista” guidata dagli antipapi marrani che dal 1958 occupano indegnamente e fraudolentemente la gloriosa Cattedra di Pietro. Soprattutto significativo, e fondamentale per la salvezza dell’anima, è il passaggio ove precisa: “Se invece si mostrano a noi senza essere investiti del Mandato del Romano Pontefice, non seguiamoli, ché Cristo non li riconosce. Ma, come da promessa evangelica e da infallibile Magistero ecclesiastico, il successore di Pietro [quello vero] c’è, anche se non a Roma, e si avvia a compiere [il 3 maggio] il suo 26° anno di Pontificato, uno dei più lunghi della storia della Chiesa, dopo S. Pietro, Pio IX e Gregorio XVII. Lunga vita al nostro Santo Padre, GREGORIO XVIII, con la speranza che possa nuovamente occupare, e quanto prima, la Cattedra usurpata, … o almeno il suo prossimo successore …

Dal Divinum Officium:

I lett. di S. Pietro

Pietro, Apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli esuli sparsi per il Ponto, per la Galizia, la Cappadocia, l’Asia e Bitinia, Eletti, secondo la prescienza di Dio Padre, ad essere santificati dallo Spirito, ad essere sudditi di Gesù Cristo, e ad essere aspersi dal suo sangue: Grazia e pace scendano in abbondanza su voi. Benedetto Dio, Padre di nostro Signor Gesù Cristo, che, nella sua grande misericordia, ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo da morte, alla viva speranza di possedere Una eredità incorruttibile, e incontaminata, e immarcescibile, riservata nei cieli per voi che dalla potenza di Dio siete custoditi, mediante la fede per la salvezza, che è pronta a manifestarsi colla fine del tempo. In questo (pensiero) voi esulterete, sia pure che dobbiate essere ora per poco afflitti da diverse prove: affinché la prova della vostra fede molto più preziosa dell’oro (che pur si prova col fuoco) torni a lode, a gloria e ad onore quando si manifesterà Gesù Cristo: che voi amate senza aver veduto: in cui anche adesso credete senza vederlo: e, credendo così, esulterete di gioia ineffabile e beata perché conseguirete il fine della vostra fede, la salvezza delle anime. 10 Salvezza che ricercarono e scrutarono i profeti, che predissero la grazia che voi dovevate ricevere; 11 E siccome essi indagavano il tempo e le circostanze che lo Spirito di Cristo, ch’era in essi, andava rivelando intorno alle sofferenze di Cristo e alle glorie susseguenti, 12 Che prediceva loro, fu ad essi rivelato che non per sé ma per voi essi erano dispensatori delle cose che ora vi sono state annunziate da quelli che vi hanno predicato il Vangelo, mercé lo Spirito Santo mandato dal cielo, e che gli Angeli bramano di contemplare.

Sermone di sant’Agostino Vescovo

Sermone 15 sui Santi

L’istituzione dell’odierna solennità ricevé dai nostri antenati il nome di Cattedra, perché è tradizione che Pietro, principe degli Apostoli, prendesse possesso quest’oggi della sua sede episcopale. I fedeli perciò, con ragione, celebrano l’origine di quella Sede onde l’Apostolo fu investito per la salute delle chiese con quelle parole del Signore: «Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa» (Matth. XVI, 18). – Il Signore dunque ha chiamato Pietro il fondamento della Chiesa: ed è perciò che la Chiesa venera giustamente questo fondamento sul quale poggia tutto l’edificio ecclesiastico. Quindi ben a ragione si dice nel Salmo ch’è stato letto: «Lo esaltino nell’adunanza del popolo, e lo lodino nel consesso dei seniori» (Ps. 106, 32). Benedetto Dio, che prescrive d’esaltare il beato Pietro Apostolo nell’adunanza del fedeli; è giusto infatti che la Chiesa veneri questo fondamento per cui si sale al cielo. – Celebrando dunque quest’oggi l’origine della Cattedra, noi onoriamo il ministero sacerdotale. Le chiese si rendono questo mutuo onore, comprendendo esse che la Chiesa tanto più cresce in dignità, quanto più viene onorato il ministero sacerdotale. Avendo dunque una pia usanza introdotto giustamente nelle chiese questa solennità, mi meraviglio delle grandi proporzioni che ha preso oggi un pernicioso errore tutto pagano, di portare cioè sulle tombe dei defunti dei cibi e del vino, come se le anime, che hanno abbandonato i loro corpi, reclamassero questi cibi propri della carne.

Omelia di san Leone Papa

Sermone 3 nell’anniversario della sua elezione, dopo il principio

Il Signore domanda agli Apostoli, chi dicesse la gente ch’egli sia: e la loro risposta è comune finché essi esprimono l’incertezza dello spirito degli uomini. Ma appena interroga i discepoli sul proprio sentire, il primo in dignità fra gli Apostoli è il primo ancora a confessare il Signore. Ed avendo egli detto: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); Gesù gli rispose: «Beato te, Simone, figlio di Giona, perché non te l’ha rivelato la natura e l’istinto, ma il Padre mio ch’è nei cieli» (Matth. 16, 17). Vale a dire: Perciò tu sei beato, perché te l’ha insegnato il Padre mio; non sei stato ingannato dall’opinione terrena, ma te l’ha dichiarato l’ispirazione celeste: e non la natura e l’istinto mi ti han fatto conoscere, ma colui del quale sono il Figlio unigenito. – «E io, continua, ti dico» (Matth. XVI, 18); cioè: Come il Padre mio ti ha manifestato la mia divinità, così io pure ti faccio conoscere la tua propria eccellenza. Perché tu sei Pietro: cioè: Mentre io sono la pietra inviolabile, la pietra angolare che di due (popoli) ne faccio uno, io il fondamento all’infuori del quale nessuno può porne altro; tuttavia anche tu sei pietra, essendo confermato dalla mia virtù, così che quanto m’appartiene di proprio, quanto al potere, ti sia comune per la mia partecipazione. «E su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei» (Matth. 1XVI 18): Su questa fortezza, dice, edificherò un tempio eterno; e la sublimità della mia Chiesa, che deve penetrare il cielo, si eleverà sulla fermezza di questa fede. – Le porte dell’inferno non impediranno mai questa confessione (di Pietro), né la legheranno punto le catene della morte; poiché questa parola è parola di vita. E come essa innalza al cielo i suoi confessori, così ne sommerge nell’inferno i negatori. Perciò dice al beatissimo Pietro: «Ti darò le chiavi del regno dei cieli: e qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche nei cieli; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli» (Matth. 1XVI, 19). Certo, questo potere fu comunicato anche agli altri Apostoli, e questo decreto costitutivo riguarda egualmente tutti i principi della Chiesa; ma confidando questa prerogativa, non senza motivo il Signore s’indirizza a uno solo, benché parli a tutti. Essa è affidata particolarmente a Pietro, perché Pietro è stabilito capo di tutti i pastori della Chiesa. Il privilegio dunque di Pietro sussiste in ogni giudizio portato in virtù della sua legittima autorità. E non c’è eccesso né di severità né di indulgenza, dove non si lega né si scioglie se non ciò che il beato Pietro avrà sciolto o legato.

 

Hymnus

“Beate Pastor, Petre, clemens accipe Voces precantum, criminumque vincula Verbo resolve, cui potestas tradita Aperire terris caelum, apertum claudere. Sit Trinitati sempiterna gloria, Honor, potestas, atque jubilatio, In unitate, quae gubernat omnia, Per universa aeternitatis sæcula. Amen.”

[Beato Pietro Pastore, accogli clemente le voci dei supplicanti, e spezza con una parola le catene dei peccati, tu cui fu dato il potere di aprire il cielo alla terra, e di chiuderlo se aperto. Alla Trinità sia sempiterna gloria, onore, potere e giubilo, la quale nella (sua) unità governa ogni cosa, per tutti i secoli eterni. Amen.]

Hymnus [ai Vespri]

Quodcumque in orbe nexibus revinxeris, Erit revinctum, Petre, in arce siderum: Et quod resolvit hic potestas tradita, Erit solutum caeli in alto vertice; In fine mundi judicabis sæculum. Patri perenne sit per ævum gloria, Tibique laudes concinamus inclytas, Aeterne Nate, sit superne Spiritus, Honor tibi, decusque: sancta jugiter Laudetur omne Trinitas per sæculum. Amen.”

[Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato, o Pietro, nella rocca celeste: e tutto ciò che scioglierà quaggiù il potere concessoti, sarà sciolto nelle altezze del cielo: alla fine del mondo tu giudicherai il secolo. Al Padre eterno sia perenne gloria; e a te, Figlio eterno, noi cantiamo insigni lodi; a te, Spirito Santo, sia onore e splendore: la santa Trinità sia ognor lodata per tutti i secoli Amen.]

… et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam

I PROTESTANTI, “FRATELLI” [di loggia?] DEGLI APOSTATI MODERNISTI

I PROTESTANTI, “FRATELLI” [di loggia?] DEGLI APOSTATI MODERNISTI

Un tempo nemmeno troppo lontano, venivano chiamati eretici e scismatici. Oggi i modernisti li chiamano “fratelli separati”, e dicono che hanno in comune con loro l’eredità spirituale. A pensarci bene è proprio vero, perché questa eredità a ben vedere, è il … satanismo! Ecco qui, brevemente tratteggiati da par suo dall’Abate J. J. Gaume, i figuri che i più accesi tra i modernisti vorrebbero addirittura canonizzare, … d’altra parte che c’è di strano, visto che ne hanno già falsamente canonizzati diversi ancor peggiori di questi! Il bianco burattino ultramodernista del b’nai b’rith è corso già ad osannare, a prostrarsi, a partecipare ai festeggiamenti del V centenario dell’istituzione turpe, blasfema ed apostatica del luteranesimo. Ma si sa, il patrimonio spirituale oramai è il medesimo: il satanismo di matrice massonica!

Protestanti

[J.J- GAUME: Catechismo di Perseveranza, Vol. 3 – Torino tip. G. Speirani e f., 1881]

Noi siamo sul punto di assistere al più grande combattimento che siasi dato alla Chiesa nostra madre dall’Arianesimo in poi; nel corso del sedicesimo secolo sembra che l’inferno abbia schierato tutte le sue forze. Quattro giganteschi settari si presentano con lo stendardo alla mano della rivolta. Non attaccano essi più un domma, un sacramento, una pratica particolare della Religione, ma l’autorità medesima della Chiesa, base del domma e della morale. Il loro grido di guerra sono quelle parole diaboliche che rovinarono la stirpe umana: Spezzate il giogo dell’autorità e diventerete come Dei. E gl’ingrati popoli si credettero abbastanza forti, abbastanza illuminati per bastare a se stessi, e accorsero in folla sotto le bandiere della ribellione, e assalirono con furore quell’antica Chiesa, alla quale erano debitori della educazione, della libertà, de’ costumi, delle leggi, della civiltà, della superiorità e perfino dell’esistenza. – Alcuni abusi veri o supposti servirono di pretesto alla loro defezione: ma non era questa la vera cagione; l’orgoglio umano era intollerante del freno dell’autorità, e si ribellò. Fu questa l’origine del Protestantesimo: lo indica abbastanza lo stesso nome. Il cristianesimo, al suo nascere, aveva dovuto sostenere la ribellione della forza materiale, personificata negli imperatori romani: sei secoli dopo dovette sostenere la ribellione de’ sensi, personificata in Maometto; mille anni dopo ei doveva sostenere la ribellione dell’orgoglio, personificato in Lutero. Quindi l’ambizione, la voluttà, l’orgoglio furono in tutte le epoche i tre nemici del Cristianesimo, e tali saranno eternamente. Or è d’uopo conoscere i campioni dell’orgoglio sedizioso, cioè del protestantismo: son essi ben degni della causa che difendono!

Lutero.

Lutero nacque in Germania nel 1484. Essendo stato un suo compagno ucciso dal fulmine mentre passeggiavano insieme, ei rimase talmente colpito da tale sinistro che si fece Agostiniano. Quivi nel leggere gli scritti dell’eretico Giovanni Hus, concepì un odio implacabile contro la Chiesa Romana; e ardente, impetuoso, orgoglioso esalò ben presto la bile ed il veleno in alcune tesi sostenute nel 1516. Avendo il Pontefice Leone X fatta pubblicare una indulgenza a favore di coloro che contribuivano all’ultimazione della chiesa di san Pietro di Roma, Lutero si levò la maschera e attaccò le indulgenze, poi la libertà dell’uomo, quindi la confessione, in seguito il primato del Papa, e per ultimo i voti monastici. Il Sommo Pontefice condannò i costui errori con Bolla del 1520: ma per risposta il frate apostata la fece ardere pubblicamente a Wittemberga. – Allora egli pubblicò il suo libro Della schiavitù di Babilonia. Dopo aver confessato ch’ei si pente di essere stato sì moderato, ammenda il proprio fallo con tutte le ingiurie che il delirio più avventato può somministrare a un eretico. Egli esorta i principi a scuotere il giogo del Papismo, e abolisce ad un tratto quattro sacramenti. E siccome questi audaci tentativi eccitavano vivi reclami, Lutero, per darsi una sembianza di ragione, prese a giudice la facoltà di teologia di Parigi, di cui aveva sempre venerato la profonda dottrina. La facoltà lo condannò ad una voce, onde il monaco eretico entrò in furore, e vomitò contro di lei le ingiurie le più grossolane. – Contemporaneamente Enrico VIII re d’Inghilterra pubblicò contro di lui un’opera che dedicò al Pontefice Leone X. Quello scritto fruttò al monarca inglese il titolo di « Difensore della fede » che i suoi successori hanno conservato e impresso su le loro monete. Lutero furioso ebbe ricorso alle ingiurie, sua ordinaria risposta. Eccovi un saggio delle leggiadrie e delle lepidezze che uscivano dalla sua penna : « io non so se la follia stessa, egli diceva, può essere così insensata quanto la mente del povero Enrico: oh! quanto volentieri coprirei quella inglese maestà di fango e di sozzure, e ne avrei ben diritto: venite a me, Ser Enrico, ed io v’ammaestrerò 1 ». [“Veniatis, Domine Henrice, ego docebo vos.”]. Al qual proposito Erasmo non ha potuto a meno di osservare, che Lutero avrebbe almeno dovuto parlar latino, e non aggiungere i solecismi alle villanie. Ritirato in un castello, sotto la protezione di Federico, Elettore di Sassonia, l’ardente apostata scriveva tutte le stravaganze che gli passavano per la testa. Fra le altre cose ei disse di avere avuto un colloquio col diavolo, e avergli questo manifestato che se voleva salvarsi doveva abolire tutte le messe non solenni, ed egli infatti scrisse contro le medesime. Tuttavia per Lutero diveniva, a lungo andare, troppo angusto il castello in cui dimorava; quindi percorse la Germania, e per avere più seguaci dispensò i sacerdoti, i monaci e le monache dal voto di castità, e ciò in un’opera, in cui la modestia è offesa in mille maniere. Dopo aver fatto un appello alla impudicizia, ei ne fece uno all’avarizia, e quindi pubblicò nel 1522 un’opera intitolata, Trattato del fisco comune. In essa invitava i regnanti ad impossessarsi delle rendite di tutti i monasteri, abbazie, vescovadi, e in generale di tutti i benefizi ecclesiastici. L’esca del guadagno produsse a Lutero più proseliti che non i suoi scritti; e il suo partito s’impinguò ben presto di quanti vi avevano uomini incontinenti e principi ambiziosi, estendendosi in gran parte della Germania. – Il predicatore del nuovo Vangelo lasciò in quel tempo l’abito agostiniano, e l’anno di poi, cioè 1525, sposò una monaca che aveva fatto uscire dal suo convento; e poco dopo diede al mondo cristiano uno spettacolo anche più strano, permettendo pubblicamente a Filippo, Landgravio di Assia, di prendere due mogli. – L’imperatore Carlo V, dolente di quegli scandalosi eccessi, convocò una Dieta o assemblea di principi Tedeschi a Spira nel 1529. Da essa i Luterani presero il nome di Protestanti per aver protestato contro i l decreto della Dieta, che ordinava dovessero attenersi alla religione della Chiesa cattolica. – Lutero non ne fu che maggiormente irritato. Ogni anno pubblicava un nuovo libello contro il Sommo Pontefice o contro ì principi o i teologi cattolici. Ecco un nuovo saggio del suo stile : ei chiamava Roma la feccia di Sodoma, la prostituta Babilonia; il Papa, uno scellerato che sputava diavoli; i Cardinali, miserabili che bisognava distruggere. « S’io ne avessi il potere, ei diceva, io farei un solo fardello del papa e de’ cardinali per gettarli unitamente in mare; questo bagno li guarirebbe, ve lo giuro, e ne do per mallevadore Gesù Cristo». Parla con la stessa dolcezza de’ teologi cattolici, e le sue più gentili parole sono: bestia, porco, epicureo,ateo, ecc. Co’ suoi stessi seguaci era sdegnoso egualmente che coi cattolici; li minacciava, se continuavano a contraddirlo o ricredersi di quanto egli aveva insegnato: minaccia ben degna dì un apostolo di menzogna! Avendo gli Zuingliani, di cui parleremo tra poco, avuto la disgrazia di offenderlo prorompe: « Il diavolo si è impossessato di loro; sono persone indiavolate, sopraindiavolate, perindiavolate; il loro linguaggio non è che un linguaggio di menzogna, messo in moto a talento di Satana, infuso e soprainfuso del suo veleno infernale ». Finalmente nel suo furore ei scagliava ingiurie a se stesso; diceva di esser pieno di diavoli, di esser satanizzato, soprasatanizzato. È questo forse il linguaggio di un apostolo di verità? – Dacché si fece apostata, la sua vita si consumò in furibonde declamazioni e in dissolutezze. Si conserva tuttavia una Bibbia, in fine della quale si legge una preghiera in versi tedeschi e scritta di mano di Lutero, il cui senso è questo: « Mio Dio, per vostra bontà, provvedeteci di vesti, di cappelli, di cappe e di mantelli, di vitelli ben grassi, di capretti, di bovi, di montoni, di giovenche e di quanto abbisogna per soddifare a’ nostri gusti . . . bever bene e mangiar bene è il vero mezzo di non annoiarsi ». [Cristiano Juncker, Vita Lutheri , pag. 225.] – Questa preghiera, in cui l’indecenza, l’empietà, la lussuria, la gola si contendono la palma, dà una giusta idea del Capo della pretesa Riforma. Egli morì nel 1546, in età di sessantadue anni, per aver troppo mangiato e troppo bevuto com’era suo costume. Monaco apostata e seduttore di una monaca, amico della taverna e della gozzoviglia; buffone empio e lubrico, che per primo pose in fuoco la Chiesa sotto pretesto di riformarla, e che in prova della sua strana missione, che certamente chiedeva miracoli i più luminosi, offerse, come Maometto, i successi della spada, il progresso del libertinaggio, gli eccessi della discordia, della ribellione e della crudeltà, del sacrilegio e della malvagità: ecco qual fu Lutero [Vedi Viaggio d’un Gentiluomo Irlandese in cerca d’una Religione. — Vite di Lutero, di Juncker e di Audin.]

Zuinglio.

Curato di Santa Maria degli Eremiti in Svizzera, poi predicatore a Zurigo, Zuinglio, avendo letto le opere di Lutero, si mise a dommatizzare, il che significa, ch’egli attaccò quanto la Chiesa aveva insegnato e praticato fino allora; cioè le indulgenze, l’autorità pontificia, il sacramento di penitenza, i voti monastici, il celibato de’ preti e l’astinenza dalla carne. Lo strano apostolo, profittando della libertà che predicava agli altri, sposò una ricca vedova; perché il matrimonio fu lo scioglimento ordinario di tutte le commedie de’ Riformatori. La sua dottrina scosse tutta la Svizzera sì pacifica e sì felice fino a quell’epoca; i Cantoni protestanti sorsero in armi contro i cattolici. Zuinglio fu costretto di condurre i suoi seguaci al combattimento, in cui, malgrado la sua predizione, essi perderono la battaglia, ed egli stesso rimase morto nel 1531 [Storia della Riforma nella Svizzera occidentale di Haller].

Calvino.

Questo nuovo corifeo della pretesa Riforma nacque nella diocesi di Noyon nel 1509; e venne provvisto d’un benefizio, quantunque non sia stato mai prete. Pel disordine de’ suoi costumi fu bollato sopra la spalla con un ferro rovente [Vedasi M. Jaques nella sua Teologia]. – Lasciò la patria e dopo aver vagato per diverse città della Francia predicando gli errori di Lutero, ai quali aveva aggiunto le proprie stranezze, si recò a Basilea, ove pubblicò il suo libro dell’Istruzione cristiana. Al paro di Lutero e di Zuinglio ei fa man bassa della dottrina, della morale e del culto nel quale era nato. Non vuol ammettere né culto esteriore, né invocazione dei Santi, né Capo visibile della Chiesa, nè Vescovi, né sacerdoti, né feste né croce, né alcuna di quelle cerimonie sacre, che la Religione riconosce essere tanto utili al culto di Dio, e la filosofia tanto necessarie ad uomini materiali e rozzi, che non s’innalzano per così dire che per mezzo de’ sensi alla contemplazione delle cose spirituali. Dopo diversi viaggi in Svizzera ed in Italia, questo preteso riformatore prese stanza in Ginevra, dove quel desso che non ammetteva Papa nella Chiesa, divenne non già il Papa ma il despota di Ginevra. – La minima obiezione, la più leggiera opposizione che gli venisse fatta, era sempre un’opera di Satana, un delitto meritevole del fuoco. Essendo stato contraddetto dal giovine medico spagnolo Michele Serveto, ei Io fece ardere vivo; ed esortava i suoi discepoli a trattare egualmente tutti quelli che si opponessero ai progressi della propria dottrina. Scriveva a Du Poét, ch’egli chiama Generale della Religione nel Delfinato: « Dà opra costante a purgare il paese da quei cialtroni, che coi loro discorsi persuadono il popolo ad opporsi a noi, screditando la nostra condotta, e vogliono far passare per sogno la nostra credenza. Simili mostri debbono essere soffocati come è avvenuto di Michele Serveto ». – Tale era la mansuetudine di quest’uomo evangelico. – Eccovi un saggio della costui urbanità: Porco, asino, cane, cavallo, toro, ubbriaco, erano i complimenti ch’ei dirigeva à’ suoi avversari. Esortava i propri partigiani ad impossessarsi di tutte le ricchezze de’ Cattolici; « e ciò, diceva egli, per amore di » Dio, affinché possiamo metterci in grado di sostentare il piccolo gregge: senza mèzzi grandi e potenti la buona volontà riuscirebbe inutile ». Orgoglioso, impudico, crudele, Calvino morì disperato e di una malattia vergognosa, che agli occhi stessi de’ suoi discepoli passò per un visibile castigo di Dio [“Calvinus in desperatione finiens vitam obiit turpissimo et medissimo morbo, quem Deus et rebellibus maledictis comminatus est, prius excruciatus et consumptus. Quod ego verissime attestari audeo, qui funestum et tragicum illius exitum et exitium his meis oculis praesens aspexi”. Joan. Haren. Apud- Peti: Cutsemium. Vita di Calvino di Audio.]. – Il tristo suo fine lo colse a Ginevra l’anno 1564.

Enrico VIII

Il quarto riformatore della Religione fu Enrico VIII re d’Inghilterra, che da principio aveva scritto contro Lutero. Finché si mantenne casto, Enrico rimase cattolico; ma volendo soddisfare le sue passioni, pregò papa Clemente VII a sciogliere il suo matrimonio. E siccome quel matrimonio era più che legittimo, il Sommo Pontefice gli rispose che non era in sua facoltà di separare ciò che era stato unito da Dio. Enrico allora ruppe i l freno, ripudiò la moglie e sposò Anna Bolena : onde il Papa lo scomunicò. Per sottrarsi ai fulmini della Chiesa, l’impudico principe si fece dichiarare Protettore e Capo sapremo della Chiesa d’Inghilterra. Divenuto papa, nulla cambiò Enrico alla dottrina; ma ben presto lo scisma conduce all’eresia. – I nuovi errori non potevano non essere bene accolti in un paese tanto disposto alla rivolta. Vivente tuttavia Enrico, il Luteranismo cominciava ad introdursi colà senza sua saputa e suo malgrado. Dopo ch’ei fu morto, Eduardo VI abolì totalmente la religione cattolica. -Più occupato di soddisfare alle proprie passioni che di stabilire la sua Chiesa, Enrico sposò cinque mogli, che ripudiò l’una dopo l’altra, facendole poscia trarre al patibolo. Si narra che vicino a morire esclamasse guardando coloro che circondavano il suo letto: « Amici miei, abbiamo perduto tutto: il regno, la fama, la coscienza e il cielo». Morì l’anno 1547. Se adunque ci facciamo a considerare il Protestantismo, che oggidì per tanti sforzi si cerca d’introdurre tra noi:

Negl’individui che lo hanno stabilito;

noi vediamo aver esso avuto per autori quattro sfacciati libertini, quattro individui, a’ quali nessun uomo onesto vorrebbe somigliare. E siete voi, o mio Dio, Dio di tutta santità, che avreste scelto simili ministri per riformare la Chiesa, la vostra sposa, e insegnare agli uomini la verità e la virtù? Lo creda chi vuole!

Nelle sue cagioni; eccole: l’orgoglio, l’amore delle ricchezze e de’ piaceri sensuali. « Lutero e Calvino, diceva Federico re di Prussia, protestante e filosofo, erano due miserabili ». Non bisogna pensare, soggiunge un altro scrittore, che i settari del sedicesimo secolo fossero vasti intelletti: no, i capi-setta sono come gli ambasciatori, fra’ quali spesso riescono meglio gli spiriti mediocri, purché le condizioni che offrono sieno vantaggiose. La sete de’ beni ecclesiastici fu il principale stimolo della Riforma in Germania; in Francia fu l’amore della novità; in Inghilterra l’amore della dissolutezza.

Nel suo dogma. Il Simbolo de’ Protestanti si riduce ad un solo articolo: Io credo tutto quello che voglio. – Infatti, il principio fondamentale, unico, universale del protestantesimo, si è che ogni individuo deve cercare la propria religione nella Bibbia, né deve ammettere se non ciò che vi trova egli stesso, non già un altro. Il protestantismo dunque dice ai popoli nel presentare loro la Bibbia: «La verità, tutta la verità si contiene in questo libro. Ma che cos’è la verità? Che cos’è il Cristianesimo? Nol so, risponde, e tocca a voi a cercarlo nella Bibbia ». Cercate dunque voi tutti, uomini, donne, fanciulli, dotti e ignoranti, cercate. Ora ditemi: trovate voi nella Bibbia il mistero della Trinità? Vi credete? voi siete cristiano. Non vi credete? voi siete cristiano. Credete voi alla divinità di Gesù Cristo? voi siete cristiano. Non vi credete? Voi siete cristiano. Credete voi alle pene eterne? voi siete cristiano. Non vi credete? voi siete cristiano. Quali che siano le vostre opinioni, tosto che voi pretendete trovarle nella Bibbia, tanto basta, e voi siete cristiano. Tuttavia ciò che voi credete, altri lo negano; ciò che a voi sembra vero, ad altri sembra falso. Chi di voi ha ragione? Inutile il chiederlo; rimanete soltanto tranquilli nella vostra incertezza, e assicuratevi che si può esser buon cristiano senza sapere ciò che bisogna credere per esser cristiano. Tale è, alla lettera, la dottrina del pròtestantismo. Ora, che ne avvenne? Accadde che sorsero tra i protestanti tante religioni quanti individui. L’uno credè trovare nella Bibbia che cinque sono i Sacramenti; l’altro che son quattro; quegli due; questi, nessuno; attalché, vivente ancora Lutero, si contavano già tra i suoi discepoli trentaquattro religioni diverse, che si combattevano, che si denigravano, che si anatematizzavano, unite soltanto nel loro odio contro la vera Chiesa. Da quell’epoca le sètte protestanti si sono moltiplicate all’infinito. Ogni giorno ne sorgono delle nuove: nella sola città di Londra e nelle adiacenze se ne contano più di cento 1[Ecco i nomi delle principali (nomi bizzarri al pari de’ loro principii). Anglicani, Collegiani, Facienti, Lacrimanti, Indifferenti, Moltiplicanti, Impeciatiti, Quaccheri, Schakeri , Giumperi, Groanneri, Metodisti, Weslejani, Wifeldiani, Miilenarj, Adamiti, Razionalisti, Generazionisti, Sontostisti, Anabattisti, Adiaforisti, Enslusiasti, Pneumatici, Brownisti , Interimitii , Monnoniti, Berboriti, Calvinisti, Evangelisti, Labadisti, Luterani, Lutero-Calvinisti, Battisti, Lutero-Battisti, Universali-Battisti, Meinseriani, Sabbatariani, Puritani, Armcniani, Sociniani, Zuingliani, Presbiteriani, Anti-Presbiteriani, Lutero-Zuingliani, Calvino-Zuingliani, Osiandriani, Lutero-Osiandriani, Staneriniani, Sincretiniani, Sinerginiani, Ubiquisteni, Pietisti, Bunakeriani, Versecoriani, Latitudinariani, Cecederiani, Burrignoniani, Camisariani, Glassimiani, Sademaniani, Ercionsiniani, Cameroniani, Filistei, Marescialliani, Hopkinsiniani, Necessariani, Edwariani, Priestliani, Relief-Cecedriani, Burgeriani, Anti-Burgeriani, Bereaniani, Ambrosiani, Moravi, Monasteriani, Antimoniani, Anomeani, Munsteriani, Mamilarj, Clancularj, Grubenarj, Staberi, Baeolarj, Nupwrali, Sanguinarj, Confcssionarj, Unitarj, Trinitarj, Anti-Trinitarj, Convulsionarj, Anti-Convulsionarj, Impeccabili, Apostolici, Spirituali, Taciturni, Demoniaci, Piagnoni, Liberi, Concubinarj, Allegri, Rustici, Vasaj. Pastoricidi, Conformisti, Non-Conformisti , Episcopali, Mistici, Coscienziosi, Socialisti, Puiseisti. In tutto 110 (Estratto dall’opera inglese intitolata: La guida per condurre alla verità e alla felicità, pag. 85). – [Non è ella, questa una pagina curiosa da aggiungere alla Storie delle Variazioni?]; e in ciascuna setta le professioni di fede germogliano come le foglie sugli alberi. « La Religione protestante, così scriveva ultimamente un professore protestante, è totalmente disciolta per la moltiplicità delle confessioni e delle sètte che si sono formate durante e dopo la Riforma… Non solamente l’apparenza esteriore della nostra Chiesa ha subito innumerabili suddivisioni, ma ella è anche disunita e divisa interiormente nelle sue massime e nelle sue opinioni ». [Vette: I Protestanti, 1828.]. Un altro scriveva nel 1835. « La Riforma somiglia nelle sue Chiese separate, e nel suo potere spirituale, ad un verme tagliato in piccolissime parti, che tutte si seguitano a muoversi finché conservano una certa vitalità, ma che perdono finalmente a grado a grado il moto e la facoltà del moto che avevano conservata » [Le Chiede cristiane, 1835]. – Un altro aggiunge : « Se Lutero uscisse oggi dalla tomba, gli sarebbe impossibile riconoscere come suoi e perfino come membri della società da lui instituita, quegli apostoli che nella nostra Chiesa sono attualmente riguardati come suoi successori 3 ». [Reinhard, Discorso sulla Chiesa, 1800]. – E un terzo prosegue così: « La disunione de’ Pastori fa nascere nella mente e nel cuore de’ popoli la più grande confusione. Essi ascoltano, essi leggono, ma non sanno più ove sono, né a chi debbono credere, né chi debbono seguire » [Ludke, Ministro]. – La confusione è tale da far esclamare un protestante in un’opera recente, che ei s’impegnava di scrivere su l’unghia del suo pollice le dottrine credute ancora generalmente tra i protestanti [Harms, Ministro a Kiel]. Finalménte un altro conclude: « A forza di riformare e di protestare, il protestantismo si riduce a una fila di zeri senza unità » [Schmaltz, giureconsulto Prussiano]. – E ci si vorrebbe dare il protestantismo per religione! Meglio è dire che col protestantismo si vorrebbe abbattere ogni ombra di religione! Noi non faremo osservare le perpetue inconseguenze de’ protestanti. Essi ricusano qualunque autorità, e di tradizione in materia di religione; or come sanno essi dunque essere la Bibbia un libro divino? Non è forse per l’autorità della tradizione? Se la tradizione sembra loro infallibile quando dice Che la Bibbia viene da Dio, perché nol sarebbe quando insegna loro tutte le altre verità che rigettano? Quando cesserete voi di avere due pesi e due misure? Quando sarete coerenti a voi stessi? Voi osservate la domenica; ma, di grazia, come sapete voi esser questo il giorno del Signore? Forseché noi sapete per tradizione? Perché dunque avete voi abolito le feste? Perché non osservate l’astinenza in quaresima, nelle vigilie, ne’ venerdì e ne’ sabati secondo la tradizione e l’uso antico della Chiesa? E dove avete voi pure imparato se non nella tradizione, che il battesimo per infusione è valido, al paro di altre pratiche che voi riguardate come sacre?

Nella sua morale. Il decalogo de’ protestanti si riduce ad un solo precetto: Tu praticherai tutto ciò che credi. I protestante può praticare ciò che vuole, cioè, tutto ciò che sembra vero alla sua ragione; può dunque fare tutto ciò che vuole, restando sempre protestante e senza che veruno altro prestante possa nulla rimproverargli. Ciò è quanto abbiamo veduto e quanto vediamo anche oggigiorno. Lutero per parte sua stabilì qual fondamento della sua morale che le opere buone sono inutili e anche nocive alla salute; che l’uomo non è che una semplice macchina senza libertà morale, incapace di virtù e vizi. Calvino dice, che l’uomo, una volta giustificato per mezzo della fede, è certo della sua salute, quand’anche si abbandonasse in seguito a tutti i disordini; e Lutero e Calvino pretendevano trovare queste abominevoli massime chiaramente nella Bibbia! – Gli Anabattisti alla loro volta dicevano. Noi abbiamo trovato nella Bibbia, che per eseguire gli ordini del Cielo, dobbiamo trucidare gli empi e confiscare i loro beni, affine di stabilire un nuovo mondo: e furono infatti veduti con la Bibbia in una mano, una torcia nell’altra e una spada al fianco, bruciare, uccidere, saccheggiare, devastare tutta la Germania. [Vedi le vite di Giovanni di Leida e di Munzer]. – Agli Anabattisti tennero dietro i Familisti, che insegnavano, e sempre a tenore della Bibbia: Che è ben fatto perseverare nel peccato affinché la grazia possa abbondare; in seguito gli Antimoniani i quali apertamente predicarono: Che l’adulterio e l’omicidio ci rendono più santi in terra e più beati in cielo. – Se voi studiate le innumerabili sètte protestanti, troverete non darsi verun precetto di morale che non sia stato negato da qualcuna di loro. Il protestantismo non può, secondo il proprio sistema, dire di alcuna massima morale: A cotesta è necessario d’uniformare la propria condotta; per la ragione ben semplice che non vi è alcun domma del quale ei possa accertare, esser necessario crederlo o soggettarvi la propria ragione. In conclusione, nel modo stesso che il simbolo del protestantismo può ridursi a questo solo articolo: Io credo tutto ciò che mi sembra vero, cosi il suo codice di morale può ristringersi a questo: Io debbo fare tutto ciò che mi sembra buono; Corniola di morale, da cui ogni uomo, qualunque siano le sue passioni, può trarre suo profitto; siccome si accontenterà, qualunque siano i suoi errori, della formula di fede corrispondente.

Nel suo culto. Il culto è l’espressione della fede e della morale; ora, tra i protestanti non vi ha fede, non morale obbligatoria e uniforme; dunque non vi ha né può esservi culto obbligatorio e uniforme. – I1 vuoto della Riforma, per difetto di fede e di amore, si manifesta sensibilmente ne’ suoi templi: essi sono muti, vuoti, squallidi; non vi ha cosa più fredda più melanconica d’un sermone protestante, poiché, dalla continua mobilità delle opinioni emerge la mobilità de’ segni destinati ad esprimerle. Perciò tra i protestanti gli uni riguardano la predica come un atto religioso, gli altri come un atto civile; taluni considerano il battesimo come un rito inutile, tali altri lo stimano necessario. – Ma ecco ciò che sorpassa l’immaginazione. Avendo ultimamente i Luterani e i Calvinisti di Germania formata una riunione, i ministri annunziarono che amministrerebbero la realtà o la figura del corpo di Gesù Cristo nella comunione, secondo la volontà e la credenza di ciascheduno. – Così quando i fedeli si presentavano per ricevere la comunione, i ministri dicevano: Credi tu di ricevere il corpo di Gesù Cristo? si, rispondevano i Luterani: — dunque ricevi il corpo di Gesù Cristo. — Credi tu di ricevere la figura del corpo di Gesù Cristo? sì, rispondevano i Calvinisti: — dunque ricevine la figura. . Che cosa è ciò, se non è sacrilega ciurmerla, ed una pubblica dichiarazione che sull’articolo dell’Eucaristia, come su tutto il resto, e che l’azione più augusta del culto cristiano non è ai suoi occhi che una cerimonia qualunque, di cui nulla più intende? – Vi sarà dunque luogo a meravigliarsi se tanti protestanti mostrano una invincibile ripugnanza per quel culto vuoto di fede? Nullameno quel culto ancor si sostiene; ma come le forme d’un corpo esanime che rimangono ancora qualche tempo dopo che l’anima lo ha abbandonato, e pronte al sopravvenire della putrefazione a dissolversi in polvere.

6° Ne’ suoi effetti. Il protestantismo è la principale cagione di tutte le calamità che hanno oppresso l’Europa da trecento anni [Grozio, famoso protestante, diceva: « Ubicumque invaluere Calvini discipuli, imperia turbavere »]; e lo provano i fatti. Appena ebbero i primi suoi apostoli sparso le loro massime tra il popolo, un vasto incendio divampò in Germania, Svizzera, Francia, Inghilterra, ed una guerra di trent’anni, il sacco di cento mila monasteri, sacri asili della scienza e monumenti della carità de’ nostri avi, la devastazione e lo spogliamene) delle chiese, fiumi di sangue da settentrione a mezzo giorno, delitti inauditi, odii mortali, spergiuri, scandali da fare arrossire la stessa depravazione, furono questi gli effetti immediati del protestantismo! Ed esso sarebbe la verità? « No, dice un famoso empio; la verità non è mai dannosa » [J. J. Rousseau]; ed è questa la miglior prova per noi che il protestantismo non è la verità. – Di questi fatti lacrimevoli la logica inesorabile vien a renderci ragione e a porli a carico eh’ riformatori del secolo decimosesto. Che cos’è infatti il protestantismo agli occhi dell’osservatore imparziale? Un invito energico alle grandi passioni, che nelle diverse epoche della storia hanno sovvertito il mondo! « L’appetito dei beni ecclesiastici, dice un autore non sospetto, fu il principal motore della Riforma in Germania; in Francia fu l’amore di novità: in Inghilterra l’amore impudico». – Che cosa è il protestantismo, se non la deificazione della ragione individuale, e quindi la sanzione del dubbio universale come principio in materia di religione, ed in seguito in tutto il resto? Ora, non vi ha società senza religione, non religione senza credenza; non credenza senza fede, non fede col dritto di dubitare di tutto, vale a dire col protestantismo. Dunque col protestantismo non vi ha religione, e quindi non società, ma rivoluzioni sempre rinascenti e sanguinose catastrofi come ne vediamo nella storia dell’Europa e del mondo da più di tre secoli. – Se pertanto si potè con tutta verità dire di Voltaire, ch’esso non era che un logico del protestantesimo; « Voltaire non ha veduto tutto ciò che ha fatto, ma ha fatto tutto ciò che noi vediamo »; a più forte ragione possiamo dire di Lutero, padre del dubbio: « Lutero non ha veduto tutto il male che ha fatto, ma ha fatto tutto quel male che noi veggiamo ». Andate, ed osservate le nazioni che hanno adottato il protestantismo: da per tutto in presenza dell’orrido caos di opinioni, fra cui sono immerse, e dello spaventevole dubbio che li consuma, la coscienza universale pronunzia contro la Riforma questo tremendo anatema: “Uccidendo la fede, ella ha ucciso il Cristianesimo e la società.” – Lutero, Zuinglio, Calvino, Enrico VIII, voi tutti, che vi arrogaste di proprio capriccio la vostra missione di riformare arbitrariamente la Chiesa, udite quanto avete fatto: Tosto che, rigettando l’autorità cattolica, aveste proclamato l’indipendenza di ciascun individuo in materia di fede, altri riformatori sorsero sotto i vostri occhi stessi per continuare la vostra impresa. Essi riformarono i vostri insegnamenti, come voi riformaste quelli della Chiesa. Voi avevate detto: Noi rigettiamo i tali dommi, perché urtano la nostra ragione; essi hanno detto: Noi rigettiamo tali altri dommi perché la nostra ragione non può ammetterli. Voi avevate domandato loro: Chi siete voi? Ed essi vi hanno domandato alla loro volta: Chi eravate voi per contraddire la Chiesa? A ciò voi non avete potuto rispondere. – Spaventati della stessa opera vostra al suo nascere, ne prevedeste fino d’allora i funesti progressi, scorgeste con terrore nell’avvenire quelle guerre interminabili di opinioni, quella immensa confusione di dottrine, quella graduale distruzione della fede che lasciavate in retaggio alla posterità. Ohimè! i sinistri vostri presentimenti erario ben lungi dall’uguagliare la realtà; voi non avete veduto tutto ciò che avete fatto, ma avete fatto tutto quello che noi vediamo. Appena eravate scesi nel sepolcro, che nuove sètte svegliandosi alla tremenda parola di rivolta che voi avevate proferito, lacerarono i brani della fede da voi risparmiati, e distrussero successivamente tutto il Simbolo della Religione, fino a tanto che finalmente i vostri ultimi discepoli sono giunti al punto di rinnegare la divinità stessa di Gesù Cristo; e questa solenne apostasia che avrebbe strappato alla Riforma un grido d’indignazione, s’ella fosse stata tuttora cristiana, è stata ratificata dallo scandalo del suo silenzio. Allora tutto è stato per lei consumato; l’opera del protestantismo è giunta al suo termine, e nulla più le rimane da riformare nel Cristianesimo, dappoiché finalmente è scesa a riformare lo stesso Dio. Ed ecco qual è la Religione, che oggi per tante vie si tenta propagare![Ma mons. Gaume ha avuto la fortuna di non conoscere la peste nera del modernismo ecumenico dei marrani, somma vergognosa di incredibili ed assurde eresie, alle quali i falsi prelati del post-conciliabolo si sono rapidamente assoggettati senza difficoltà, pur di mantenere le poro prebende, gli onori, le ricchezze e giustificare i vizi impuri che li caratterizzano- ndr.-].

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio di averci fatti nascere nel grembo della vera Chiesa ; fateci grazia che la consoliamo con la santità della nostra condotta. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amore di Dio, e in prova di questo amore, io pregherò spesso per la conversione degli eretici [… e dei blasfemi modernisti – ndr. – ].