IL MESSAGGIO DI FATIMA ALLA LUCE DELLA TEOLOGIA

[da: Attualità di Fatima; Città della Pieve, 1953, impr.]

Un profondo pensatore spagnolo, alludendo all’alto e ricco contenuto teologico del grande Messaggio di Fatima, argutamente scriveva : « La Vergine conosce molto bene la teologia del suo Rosario e del suo Cuore » (Llamera M., O. P., Fatima, Il Rosario e il Cuore di Maria, trad. dallo spagnolo del P. A. Andaloro, O. P., Catania 1949, p. 9) . M a è sommamente opportuno, per non dire necessario, che una tale teologia venga conosciuta anche dai figli di questa Madre celeste, poiché è soltanto alla luce della Teologia che si può scorgere, in tutta la sua ricchezza, il grandioso messaggio di Fatima, e, in modo tutto particolare, quella che si potrebbe chiamare l’anima di un tale messaggio: il suo preciso scopo e i mezzi per ottenerlo.

I – SCOPO DEL MESSAGGIO DI FATIMA

Il Messaggio di Fatima — come si rileva dalla storia delle apparizioni — è la più stupenda rivelazione del Cuore Immacolato di Maria, un Cuore tutto avvolto dalle fiamme d’amore della sua duplice maternità: naturale, verso Dio, spirituale, verso gli uomini. Abbiamo qui la Madonna nell’esercizio — reso visibile, direi quasi, palpabile — della sua Maternità universale, quella Maternità cioè che abbraccia tutti, Creatore e creature, e che costituisce il primo, il supremo principio di tutta la scienza Mariana, la ragione stessa di essere di così eccelsa creatura. Ha insistito infatti la Vergine, in tutte e sei le apparizioni, sopra un fatto dolorosissimo che interessa sia Dio, Figlio suo naturale, sia gli uomini, figli suoi spirituali: « le povere anime peccatrici ». La vita della grazia, questo ineffabile dono della munificenza divina, che unisce, nel modo più ineffabile, Dio agli uomini e gli uomini a Dio, tramite Maria Mediatrice di grazia, viene inesorabilmente soppressa dal peccato. Teologicamente considerato, il peccato è il più grande fra i mali, anzi, l’unico vero male, sorgente di tutti gli altri mali. Il peccato, infatti, mentre oltraggia Dio, di cui si trasgredisce la legge, danneggia indicibilmente l’uomo, poiché provoca la inesorabile giustizia divina con castighi sia temporali (la guerra) sia eterni (l’inferno). Per questo la Madonna di Fatima, dalla prima apparizione fino all’ultima, giustamente preoccupata sia dello oltraggio arrecato dal peccato al Figlio suo naturale — Dio —, e sia dei castighi che ne derivano ai figli suoi spirituali — agli uomini —, chiede, con materna insistenza, riparazione, ossia, « sacrifici » « in riparazione di tanti peccati », specie per i peccati impuri e per le offese arrecate all’Eucarestia e all’Immacolato suo Cuore. Di qui l’accorato grido del suo Cuore materno: « Non offendano più il Signore, che è già troppo offeso! ». L’intima essenza teologica del Messaggio di Fatima è perciò manifesta: la salvezza dell’umanità, compromessa seriamente dal peccato, sommo male sia di Dio, sia dell’uomo, entrambi figli suoi, e perciò entrambi sommamente cari al suo Cuore Immacolato. Per questo la Vergine SS.ma ha voluto rivelare, in modo così meraviglioso, il suo Cuore. – Ma il Cuore materno della Vergine non si è limitato, in questo messaggio di salvezza, a rivelarne lo scopo: si è anche degnato di indicare agli uomini, con sollecitudine squisitamente materna, i mezzi più efficaci per raggiungere la salvezza, ossia, per evitare i castighi sia temporali (la guerra con tutte le sue orribili conseguenze) sia, specialmente, eterni (l’inferno, che Ella si degnò mostrare ai tre fanciulli terrorizzati, onde eccitarli alla « riparazione ») . Questi mezzi si riducono a due: la preghiera ( specie il Rosario) unita al sacrificio, e la Devozione al Cuore Immacolato di Maria nella sua triplice forma: vene razione, riparazione e consacrazione. Considerati attentamente questi due mezzi alla luce della Teologia Cattolica, ci appariscono di una efficacia singolarissima, oggi specialmente, per la salvezza dell’umanità tribolata, e per allontanare da essa i castighi sia del tempo che dell’eternità. La Vergine non poteva scegliere mezzi più efficaci.

II – MEZZI PER L’ATTUAZIONE DEL MESSAGGIO

Preghiere e sacrifici

Nella quarta apparizione, la Vergine SS. Di Fatima, col volto velato da profonda mestizia, esortò vivamente i piccoli veggenti alla pratica della preghiera e del sacrificio, e concluse: « Pregate, pregate molto e fate sacrifici per i peccatori » . Ed aggiunse: « Badate, che molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi sacrifichi e preghi per loro ». I tre pastorelli diedero subito ascolto, in modo esemplare, eroico, a questo invito della Vergine, abbandonandosi ad una vita tutta intessuta di preghiere e di sacrifici. Quante anime saranno debitrici dell’eterna salvezza alle loro preghiere ed ai loro sacrifici! E’ indispensabile, per evitare la suprema iattura a tanti nostri fratelli, che i cristiani votati alla preghiera e ai sacrifici diventino legione. Per comprendere la salutare efficacia della preghiera e dei sacrifici fatti per gli altri, è necessario tener presente la dottrina teologica del mistico Corpo di Cristo, esposta con tanta chiarezza dall’Apostolo Paolo e dalla recente Enciclica « Mystici corporis Christi » del S. P. Pio XII (Cfr. Acta Ap. Sedes 35, 1943, p. 247 ss.). Esiste un’evidente analogia tra il corpo fisico e il corpo morale, ossia, la società, sia di ordine naturale (la società civile), sia di ordine soprannaturale (la società religiosa, ossia, la Chiesa). Come il corpo fisico ha vari membri, con vari uffici, dimodo che pur essendo molti, formiamo un sol corpo in Cristo, ed ognuno è membro dell’altro » (Rom. XII, 4-5). V’è perciò una vera, soprannaturale solidarietà fra i vari membri del mistico corpo di Cristo, ossia, fra i battezzati, di modo che tutti son tenuti ad amarsi e ad aiutarsi scambievolmente, come le membra di uno stesso corpo fisico: « Se un membro soffre — osserva S. Paolo — tutte le membra soffrono con lui; e se un membro è glorificato, tutte le membra godono con lui » (1 Cor. XII, 26). Questa è la ragione per cui tutti i cristiani sono veri fratelli, poiché sono uno solo in Cristo, membri tutti dello stesso mistico corpo di Cristo, figli tutti della stessa madre spirituale, Maria SS. Nessuno perciò può rimanere indifferente, inerte, dinanzi alla eterna dannazione di tanti fratelli. Ciò spiega come la Vergine SS., spinta dalla sua sollecitudine materna, si sia rivolta con tanta insistenza ai piccoli veggenti di Fatima, e per mezzo di loro, a tutti i suoi figli, chiedendo « preghiere e sacrifici per i peccatori », onde impedire che tanti precipitino nell’Inferno. « Preghiera » innanzitutto. « L’inferno! l’inferno!… — esclamava Giacinta — Che pena mi fanno le anime che vanno all’inferno! … E tremando si inginocchiava con le mani giunte e pregava: « — O Gesù mio, perdonate le nostre colpe, preservateci dal fuoco dell’inferno, portate tutte le anime in cielo, specialmente le più bisognose della vostra misericordia —- Rimaneva così a lungo ripetendo la medesima preghiera. Tratto, tratto, come svegliandosi, chiamava gli altri: -— Lucia, Francesco, voi non pregate con me? … Bisogna pregare per liberare le anime dall’inferno. Ve ne cadono tante! … » (Cfr. L. G. da Fonseca, Le meraviglie di Fatima. Roma 1950, p. 125 s.) . L’accorato appello di Giacinta va raccolto da tutti i cristiani. Occorre pregare, pregare molto per la salvezza dei nostri fratelli. Tutti sanno quanto sia efficace questo « gran mezzo » di salvezza — come lo chiama S. Alfonso M. de’ Liguori — per ottenere, non solo per noi, ma anche per gli altri, le grazie necessarie per allontanarci dalla via del male, per perseverare nella via del bene e giungere così alla meta della eterna felicità: « Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, picchiate e vi sarà aperto! » (Matth. VIII, 7). La preghiera — è stato detto arditamente — è la forza dell’uomo e la debolezza di Dio: Dio, Padre amoroso, non sa resistere all’umile supplica dei suoi figli pellegrini in questa valle di lacrime. Fra tutte le preghiere, poi, un vero, innegabile primato spetta al Rosario. Per questo la Madonna di Fatima lo preferì a tutte le altre preghiere, raccomandandone la recita quotidiana in ciascuna delle sei apparizioni. Ma della singolare eccellenza di questa forma di preghiera, vera « arma dei cristiani », scriverà un’altra penna, molto più autorizzata della mia. – Alla « preghiera, la Madonna di Fatima esorta di unire « i sacrifici » . Fin dalla prima apparizione, esortò i veggenti ad « offrire sacrifici per la salvezza dei peccatori » . La Vergine SS. spese tutta la sua vita per l’eterna salvezza dei suoi figli. Dietro l’esempio della Madre, anche i fratelli dovranno sentire l’urgenza del sacrificio per l’eterna salvezza dei loro fratelli. La vista dell’inferno, nel quale vanno a cadere tanti, perché non v’è nessuno che si sacrifichi per loro, aveva talmente terrorizzato i tre piccoli veggenti di Fatima, che tutte le penitenze, tutte le mortificazioni, tutti i sacrifici sembravano loro un bel nulla, pur di preservare con essi una sola anima da quella spaventosa prigione. Alludendo a questi sacrifici, Lucia osservava: « Se volessi raccontarli tutti, non finirei mai » . Giunse a tal punto questa sete di sacrifici per un sì nobile scopo, che la Vergine stessa dovette maternamente intervenire per moderarli. Trovata infatti per la strada, subito dopo la quarta apparizione, una corda ruvida e grossa, la divisero in tre parti, se ne cinsero strettamente i fianchi e la portarono, con indicibile strazio, sia di giorno che di notte, fino a lacrimare per il continuo, insopportabile tormento. Ma nella quinta apparizione, l a Vergine SS. moderò il loro ardore dicendo: « Nostro Signore è molto contento dei vostri sacrifici, ma non vuole che dormiate con la corda. Portatela soltanto durante il giorno » (Da Fonseca, o. c., p. 127.). Mirabile esempio che dovrebbe trascinare innumerevoli altri sulla medesima via! – Il campo per cogliere questi profumati fiori del sacrificio da offrirsi al Signore per la salvezza degli altri è vastissimo: si estende infatti a tutto l’uomo, ai suoi sensi sia interni che esterni, alle sue facoltà sia intellettive che volitive. Nessun palmo di questo vasto terreno è incapace di offrire abbondanti fiori di sacrificio. Basta la buona volontà e la profonda convinzione del dovere, che tutti abbiamo di impedire che un nostro fratello, un membro dello stesso mistico corpo di Cristo, al quale tutti appartengono, sia vittima dell’eterna maledizione. – Preghiera e sacrifici! All’uscio di ogni anima cristiana bussa il lamento di Fatima: « Molte, molte anime vanno all’inferno, perché non vi è chi si sacrifichi e preghi per loro » . Sarà l’amore mariano, sostanziato di preghiera e sacrifici, che arresterà la corsa dei figli di perdizione.

III – LA DEVOZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

Oltre al Rosario, la Madonna di Fatima ha indicato, come mezzo di salvezza, la devozione al suo Cuore Immacolato. In ciascuna delle tre prime apparizioni, la Madonna del Rosario ha parlato ai piccoli veggenti del Suo Cuore Immacolato. Nella seconda disse a Lucia che Ella sarebbe dovuta rimanere ancora sulla terra — a differenza di Giacinta e Francesco, che sarebbero andati presto in cielo — perché Gesù, per salvare i poveri peccatori, intendeva servirsi di lei: « Egli vuole stabilire nel mondo la devozione al m i o Cuore Immacolato ». La Madonna di Fatima, inoltre, ha rivelato i tre atti fondamentali e, direi quasi, connaturali della devozione al suo Cuore Immacolato: la venerazione, l a riparazione e la Consacrazione, tre atti praticati poi in modo esemplare, eroico, dai tre piccoli veggenti di Fatima. – Consideriamo separatamente, alla luce della Teologia, questi tre atti fondamentali del culto al Cuore Immacolato di Maria.

1) La venerazione al Cuore Immacolato di Maria

La venerazione, primo ed essenziale atto di qualsiasi culto, è anche il primo ed essenziale atto del culto o devozione al Cuore Immacolato di Maria. La legittimità teologica di una tale venerazione appare evidente dalla considerazione sia dell’oggetto che della ragione fondamentale di un simile culto.Oggetto mediato del culto al Cuore Immacolato di Maria è, evidentemente, la persona stessa di Maria SS., alla quale il Cuore appartiene. Come allorché si bacia, per esempio, la mano un sacerdote, si compie, evidentemente, un atto di venerazione verso la persona di Lui, così allorché si venera il Cuore Immacolato di Maria, si compie un atto di venerazione verso sua persona. — Oggetto invece immediato di tale venerazione è il Cuore stesso fisico di Maria in quanto simbolo del Cuore simbolico o metaforico, ossia, dell’amore. Ciò risulta dalle rivelazioni e dagli scritti di S. Margherita Maria Alacoque, dai primi scrittori e postulatori di tale culto liturgico ( i PP. Croiset e Gallifet), nonché dai d ocumenti autentici dottrinali e liturgi quali la Messa e l’Ufficio (Cfr. Pujolras E., C.M.F. Cultus Purissimi Cordis B. M. Virginis, ed. Ancora, Milano 1942.) . Il fondamento biblico di tale venerazione possiamo riscontrarlo nel Vangelo, ossia, nelle due aperte allusioni « al Cuore » di Maria SS. (Luc. II, 18, 51.) e nelle sette parole pronunziate dalla Vergine, parole che ci rivelano, in modo meraviglioso, il suo Cuore (Cfr. Peinador M., O.M.F., El Corazon de Maria en los Evangelios, in «Estudios Marianos », 4 (1945) p. 11.58.). La ragione stessa, del resto, ci dimostra la ragionevolezza del culto tributato al Cuore Immacolato di Maria SS., a preferenza di altre parti del suo Corpo verginale, santissimo. Il Cuore, infatti, a differenza di qualsiasi altra parte del corpo, rivendica una particolare eccellenza per il fatto che costituisce il centro di tutta la vita affettiva, per cui il cuore è comunemente ritenuto come il simbolo naturale dell’amore, che è come centro motore della vita fisico-psichica. Ciò posto, l’amore, simboleggiato dal cuore, non solo è il primo e principale fra tutti gli affetti, ma anche il principio e la radice dei medesimi e insieme di tutte le azioni (S. Th. I . H , q. 28, a. 6.). L’amore, perciò riassume tutta la vita psicologica e morale dell’individuo. Che se poi, oltreché sotto l’aspetto naturale, ci spingiamo a considerare l’amore anche sotto l’aspetto soprannaturale, esso, oltreché di tutta la vita naturale, appare anche il centro e la sintesi di tutta la vita soprannaturale, esso oltreché di tutta la vita naturale, appare anche il centro e la sintesi di tutta la vita soprannaturale, secondo quella scultorea espressione dell’Angelico: « La carità è la vita dell’anima, come l’anima è la vita del corpo » ( S. Th., t. II, q. 23, a. 2, ad 2.). Il Cuore della Vergine quindi è la vera sorgente di tutta la sua vita e il compendio dei suoi misteri, fra i quali primeggiano q quelli espressi nel S. Rosario. Di qui la singolare e — direi — trascendente eccellenza di una tale devozione, comprovata anche dai mirabili effetti che essa produce nelle anime che la praticano, primo fra tutti quello di rendere il nostro cuore sempre più conforme a quello di Maria, e perciò anche a quello di Cristo, cuore del cuore di Maria. Il Cuore di Maria è come il luogo di convegno, il punto di incontro di Dio con l’uomo, del cuore di Cristo col cuore di tutti i cristiani, il mezzo più efficace per far palpitare tutti i cuori all’unisono. Non esagerava davvero P. Llamera quando scriveva che « l’oggetto formale principale della devozione al Cuore di Maria (l’amore simboleggiato dal Cuore) è ragione dell’oggetto di tutte le devozioni, che onorano l’eccellenza della perfezione o santità di Maria nelle sue diverse manifestazioni, dato che l’eccellenza del suo amore è causa e ragione della eccellenza della sua vita. In tal senso la devozione al Cuore di Maria è per se stessa la più eccellente, tutte le devozioni, in quanto venerano le virtù e i privilegi della Vergine, sono subordinate ad essa come a causa formale e come a fine » (O. c., p. 98.). Questa singolare eccellenza ci dice eloquentemente perché la Madonna di Fatima abbia voluto che la devozione al suo Cuore Immacolato fosse maggiormente statuita e propagata nel mondo d’oggi, così assetato d’amore, così tormentato dalla tempesta dell’odio.

2) La riparazione al Cuore Immacolato di Maria

Spontanea esigenza dell’amore e sua necessaria scaturigine è la riparazione per le offese arrecate al cuore della persona amata. Logicamente perciò la Madonna di Fatima, oltre a stabilire la devozione al suo Cuore Immacolato, della quale è frutto nativo l’amore, ha chiesto con insistenza la riparazione per gli oltraggi arrecati all’Immacolato suo Cuore. Per questo presentò in visione il suo Cuore Immacolato, circondato da una corona di spine che lo pungevano da ogni parte (Già precedentemente, ad un’altra anima privilegiata, Berta Petit, Terziaria Francescana (+ 1943), fu affidata in visione privata la missione di diffondere la consacrazione del mondo al Cuore Addolorato e Immacolato di Maria. Nella comunicazione celeste dell’8 sett. 1911 Gesù le disse : « Il cuore di mia Madre ha diritto al titolo di Addolorato e io lo voglio anteposto a quello di Immacolato, perché il primo se lo ha acquistato essa stessa ». Delicatezza filiale di Gesù per la Sua e nostra Mamma! Benedetto XV fece menzione del Cuore Addolorato e Immacolato di Maria in una lettera inviata al Cardinale Vannutelli, i l 31 maggio 1914. Il 28 Settembre 1915 lo stesso Sommo Pontefice indulgenziava la seguente giaculatoria: « O Cuore Addolorato e Immacolato di Maria, pregate per noi che ricorriamo a Voi ». – Eminenti diffusori del Culto al Cuore Addolorato e Immacolato di Maria sono stati i Cardinali Bourne, Mercier, Granito Di Belmonte. Il Card. Griffin, successore di Bourne nell’Archidiocesi di Westminster, ha annesso la indulgenza di 300 gg. o. v. alla sopraddetta giaculatoria – 21.VI-1947). Fin dalla prima apparizione, la « bella Signora » chiese sacrifici e penitenze « in riparazione delle bestemmie e di tutte le offese arrecate al Cuore Immacolato di Maria ». Anche nella terza apparizione la Vergine SS. esortò i piccoli veggenti a sacrificarsi « in riparazione delle ingiurie commesse contro il Cuore Immacolato di Maria»; e incominciò a parlare della « Comunione riparatrice nei primi sabati del mese ». Il 10 luglio 1925. la Vergine SS., insieme a Gesù Bambino, apparve a Lucia e, integrando ciò a cui aveva di già accennato nella terza apparizione, mostrava il suo Cuore avvolto dalle spine, e Gesù, additandolo, esortava la veggente « ad aver compassione di quel Cuore continuamente martoriato dall’umana ingratitudine, senza che vi sia chi lo consoli con atti di riparazione ». E la Vergine soggiunse: « Guarda, figlia mia, il mio Cuore circondato dalle spine con cui gli uomini ingrati ad ogni momento 1° trafiggono con le loro bestemmie ed ingratitudini. Tu almeno cerca di consolarmi, e da parte mia annuncia che io prometto di assistere, nell’ora della morte, con le grazie necessarie alla salvezza delle loro anime, tutti quelli che nel primo sabato di cinque mesi consecutivi si confesseranno, riceveranno la Santa Comunione, diranno una corona del Rosario e mi faranno compagnia durante quindici minuti, meditando i misteri del Rosario, col fine di offrirmi riparazione ». – La riparazione al Cuore Immacolato di Maria è del tutto analoga alla riparazione al S. Cuore di Gesù. Ne segue dunque che, sia L’una che l’altra, ha analoghi fondamenti teologici. Ha lumeggiato egregiamente i fondamenti teologici generali della riparazione il S. P. Pio X I nella Enciclica « Miserentissimus Redemptor » del 9 Maggio 1928. Dopo aver rilevato come la « riparazione » o « espiazione » è l’ovvia conseguenza dell’amore che si porta alla persona amata, allorché si vede oltraggiata, asserisce che « al debito particolarmente della riparazione», oltreché dall’amore, « siamo stretti da un più potente motivo di giustizia e di amore: di giustizia, per espiare l’offesa recata a Dio con le nostre colpe e ristabilire con la penitenza l’ordine violato; di amore, per patire insieme con Cristo paziente e saturato di obbrobri, e recargli, secondo la nostra pochezza, qualche conforto. » – Giustizia ed amore: ecco i due titoli generici della riparazione al Cuore Immacolato di Maria. Ho detto: titoli generici, poiché non mancano titoli specifici che reclamano, in particolare, una adeguata riparazione alle offese che pungono di continuo, come spine, il Cuore Immacolato di Maria. Questi titoli di riparazione sono tanti quanti sono quelli della sua grandezza e della sua gloria, ed i nostri doveri di figli, di sudditi, di beneficati. La nostra qualità di figli affettuosi ci vieta di rimanere indifferenti dinanzi agli oltraggi, dei quali è continuamente il bersaglio una Madre sì dolce; la nostra qualità di sudditi fedeli ci spinge a risarcire le offese rivolte ad una così amabile Regina; la nostra qualità di beneficati verso Colei che, quale Corredentrice del genere umano, ha cooperato col Redentore all’acquisto di tutte le grazie, e coopera di continuo alla distribuzione delle medesime, non può non stimolarci a risarcire tanti affronti ricevuti da tanti, in compenso di innumerevoli benefizi. Che se si riflette, inoltre, alla singolare, impareggiabile grandezza della persona offesa, — l’Augusta Madre di Dio — e alla sua esimia santità, sia negativa (la perfetta immunità da qualsiasi macchia di colpa sia originale che attuale), sia positiva (la pienezza di grazia e di tutte le virtù), è impossibile non sentire, in tutto il suo vigore, l’impellente invito della Madonna di Fatima al dovere della riparazione mariana.

3) La consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Il terzo, supremo atto della devozione al Cuore Immacolato di Maria, conseguenza anche esso dell’amore, è la consacrazione al medesimo Cuore. « Verrò a chiedere — così disse la Madonna di Fatima nella sua terza apparizione — la consacrazione del mondo al mio Cuore Immacolato », particolarmente della Russia. Il 31 Ottobre 1942, e poi, solennemente, nella Basilica Vaticana, l’8 Dicembre dello stesso anno, il S. P. Pio XII, nella pienezza del suo potere, consacrava la Chiesa e tutto il mondo al Cuore Immacolato di Maria. Recentissimamente poi, con la lettera Apostolica « Anno vergente Sacro » del 7 luglio 1952, consacrava in modo particolare i popoli della Russia allo stesso Cuore Immacolato. [In realtà la Consacrazione della Russia al Cuore Immacolato di Maria, così come richiesto dalla Vergine a Fatima, cioè con la formulazione esatta e precisa, venne fatta da S. S. Gregorio XVIII, successore, canonicamente eletto, di Gregorio XVII G. Siri, il 13 maggio del 1991, come primo atto ufficiale del suo Pontificato “il esilio” – ndr.- ]. Il Vicario di Cristo — com’è noto — non regola mai la sua attività di Pastore supremo della Chiesa in base a rivelazioni particolari, ma è mosso sempre da soli motivi teologici, senza escludere con ciò che la prima idea o l’ultima spinta a compiere un atto, teologicamente giustificabile e praticamente opportuno, possa essere anche qualche rivelazione di carattere puramente privato, sufficientemente accertata. Questo, precisamente, ci sembra il caso del grandioso gesto della Consacrazione, sia del mondo, in genere, sia della Russia, in particolare, al Cuore Immacolato di Maria SS. Ho detto: gesto grandioso. Io stesso, infatti, durante un’indimenticabile udienza privata concessami qualche giorno dopo, mi permisi di dire all’Augusto Pontefice, che con tale sublime gesto Egli aveva raggiunto il vertice del culto mariano. La giustificazione teologica di questa mia modesta valutazione del grandioso gesto, compiuto dal S. P. Pio XII, va ricercata nella natura stessa della Consacrazione e nelle sue basi dogmatiche. Proietta molta luce su questo fondamentale argomento l’Enciclica « Annum sacrum » (De hominìbus Sacratìssimo Cordi Jecu devovendis.), di Leone XIII (25 Maggio 1899), e l a già citata Encìclica « Miserentissimus Redemptor », di Pio XI (8 Maggio 1927), in quella parte che riguarda la Consacrazione al Cuore Sacratissimo di Gesù, alla quale è perfettamente analoga la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Con la « Consacrazione » — rileva Pio XI — offriamo al Cuore di Gesù noi e tutte le cose nostre, riconoscendo le ricevute dalla eterna carità di Dio » . Questa dedizione totale (di noi e di tutte le cose nostre in forza della quale diventiamo « sacri a Dio » ) è anche perenne, a causa appunto di quella nota di stabilità che — come rileva lo stesso Pontefice — è propria, secondo lo Angelico (S. Th., t. II q. 81, a. 8. c.) della « Consacrazione » . Ha riunito felicemente questo duplice concetto proprio della « consacrazione » a Maria SS. (quello cioè di una dedizione totale e perenne) il S. P. Pio XII nel suo discorso ad un gruppo di partecipanti francesi al « Grand Retour » (23 Novembre 1946): « la Consacrazione è un dono intero di sé, per tutta l’eternità; è un dono non di pura forma o di puro sentimento, ma effettivo, compiuto nell’intensità della vita cristiana e mariana ». La Consacrazione, in breve, non è un chiedere, ma un dare; non è solo un dare in custodia, ma è un dare in proprietà; non è un dare in proprietà per qualche tempo, ma per sempre. Il fondamento dogmatico perciò della Consacrazione a Maria è — evidentemente — il dominio o regalità che Ella, insieme con Cristo, ha sopra di noi, dominio o regalità che noi, con l’atto di Consacrazione, liberamente riconosciamo. E’ quanto espone Leone XIII nell’Enciclica « Annum Sacrum ». Dopo aver rilevato « come tutto il genere umano è sotto il potere di Cristo », espone come per tre titoli (naturale, acquisito e di libera elezione) convenga a Cristo il dominio, ossia, la regalità universale. Cristo, infatti, « essendo Figlio del Re di tutti, è erede di tutto il suo potere (diritto naturale); avendo « dato se stesso per la redenzione di tutti », tutti « sono diventati il suo popolo d’acquisto » (diritto acquisito). Non basta: « Benignamente Cristo lascia che a questo duplice titolo ( naturale ed acquisito) di podestà e di regalità si aggiunga liberamente, da parte nostra, il titolo di una consacrazione volontaria » (« Imperator Christus non iure tantum nativo, quippe qui Dei Unigenitus, sed etiam quæsito… Ad istud potestatis dominationisque suæ fundamentum duplex, benigne ipse sinit ut accedat a nobis, si libet, devotio voluntaria ».). – Quello che ci ha insegnato Leone XIII, intorno al fondamento dogmatico della Consacrazione al Cuore Sacratissimo di Gesù, va ripetuto analogamente, del1a Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Se Cristo, infatti, è nostro Re, Maria SS. è nostra Regina. Se triplice è il titolo di Cristo alla Regalità, ossia, al dominio sopra di noi, e perciò al nostro pieno assoggettamento a Lui, triplice ancora è il titolo di Maria SS. alla Regalità e al nostro assoggettamento a Lei mediante la « Consacrazione », ossia: per diritto naturale (quale Madre del Re dei Re), per diritto di conquista (quale Corredentrice, ossia, quale cooperatrice, con Cristo, al nostro riscatto dalla schiavitù del demonio), e per libera nostra elezione, permettendoci anche Lei — come Cristo suo Figlio —, di offrire noi stessi al suo Cuore, come se appartenessimo a noi, umilmente supplicandola a volersi compiacere di ricevere da noi ciò che già (per un duplice titolo) le appartiene. Non occorre spendere molte parole per rilevare la singolare eccellenza della Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. Leone XIII, nell’Enciclica « Annum Sacrum », parlando della Consacrazione al Cuore Sacratissimo di Gesù, non esita a qualificarla come « il più ampio e il più grande atto di ossequio e il coronamento e il perfezionamento di tutti gli onori soliti a tributarsi al Sacratissimo Cuore » (« Amplissimum… maximumque obsequii testimonium », « honorem omnium, quodquot Sacratissimo Cordi haberi consueverunt, velut absolutio perfectioque ».) . Anche il S. P. Pio XI asserisce che « fra tutte le pratiche riguardanti il culto del Sacratissimo Cuore, primeggia… la Consacrazione ». Altrettanto, parallelamente, si può e si deve dire della Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria. E’ il più alto, il più ampio attestato di ossequio, poiché è la dedizione totale e perenne di noi stessi alla Vergine, fatta in uno slancio di amore. Con la Consacrazione alla Vergine, sintesi e coronamento di tutte le devozioni mariane, il culto mariano raggiunge il suo vertice. Effettivamente non si può andare più in là nell’onorare Maria. Con essa, debitamente compiuta e intensamente vissuta, è suonata sul mondo l’ora di Maria, ora di salvezza e di pace, preannunziata dal Messaggio di Fatima.

P. Gabriele M. Roschini, O. S. M.

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (9)

CAPITOLO XIX

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA RELIGIONE

Allorquando il nemico vuol impadronirsi d’una fortezza, ei comincia dal prendere una posizione favorevole e dal distruggere le opere avanzate che proteggono il cuore della fortezza. Tale è la tattica seguita dal paganesimo, bramoso di pigliare la sua rivincita sul Cristianesimo. Stabilito sul terreno il più favorevole, l’educazione, noi lo vedemmo battere in breccia la letteratura, le arti, la filosofia, le scienze; poscia, sotto colore di rigenerazione, animarle del suo spirito, arruolarle sotto le sue bandiere, e con loro procedere contro il Cristianesimo stesso, il quale è il cuore della piazza ed il vero punto di mira di tutti i suoi attacchi. Dimostrare a questo riguardo i progressi del nemico e provare ai più ciechi che il paganesimo classico tende all’intera rovina del Cristianesimo, tale è il grave argomento che ci occuperà. Ora il paganesimo classico rovina il Cristianesimo perché lo condanna all’oblio, al disprezzo, all’alterazione.

All’oblio. Pigliamo le cose quali esse sono. Uscito da una famiglia in cui, generalmente parlando, non riceve oggidì che un’istruzione cristiana molto superficiale, il fanciullo giunge in uno stabilimento di pubblica istruzione: quivi rimane sette od otto anni. Se non il primo, almeno il secondo libro latino o greco che gli si pone in mano, è un libro pagano; il terzo è un libro pagano; il quarto è un libro pagano; sempre libri pagani, sino alla fine dei suoi studi. La sua occupazione d’ogni giorno, d’ogni ora è di leggerli, di tradurli, d’impararli a memoria, e d’imparare in egual tempo tutti i fatti del paganesimo, dalle azioni degli Dei sino a quelle dei guerrieri, degli oratori, e dei filosofi di Roma e di Atene. – Nelle scuole non sente risuonare che i nomi dei Romani e dei Cartaginesi. Per identificarlo meglio coi suoi modelli, si divide la scuola in due campi, ed egli è Romano o Cartaginese, Scipione od Annibale. Le spiegazioni del professore non gli somministrano mai o quasi mai nozioni cristiane. Egli vive frammezzo al paganesimo, il suo orizzonte non si estende, se non per circostanza, al di là dei limiti della Grecia e dell’Italia. Il Monte Sacro, il Palatino, Sparta, Tebe, Maratona, le Termopili, la tribuna delle arringhe, il Campidoglio, l’Aeropago, il Foro, sono i soli luoghi abitati dal suo pensiero, dalla sua immaginazione, dalla sua memoria. Ma nei collegi, come nei piccoli seminari, nelle case tenute dai secolari, come nelle case tenute dai religiosi e dagli ecclesiastici, non vi sono cappellani e maestri che insegnino la religione? Lo so, la religione figura come ogni altra scienza nei programmi di studio. So che ogni collegio ha un cappellano incaricato di dire la Messa e di fare il catechismo; so che questo cappellano dice Messa due volte per settimana, e che altrettante volte, forse più spesso, fa un catechismo più o meno ragionato, più o men filosofico. Con questo corredo di cui si mena gran vanto, la religione è essa insegnata? È essa salvata dalla indifferenza e dalla dimenticanza? Niente affatto. Prima di dirne il motivo, mi affretto di dire che gli uomini non ne hanno colpa, ma bensì il sistema. Saturato di deismo, per nulla dire di più, l’attuale sistema d’insegnamento non ravvisa nella religione che una scienza a parte, circoscritta in una sfera determinata, e non già, come dovrebbe essere, e come non sarà mai con classici pagani, una scienza universale, la scienza delle scienze che, trovandosi ogni giorno, ogni ora in tutti i libri che il fanciullo studia, ne deve uscire naturalmente, come l’aroma si esala dal fiore. Infatti, non è solo da un libro, ma da tutti i libri, non è solo dalla bocca d’un maestro, ma da tutti i maestri che la religione deve uscire, ora per raccontare uno dei fatti della sua storia, una virtù dei suoi grandi uomini, una massima dell’Evangelio; ora per formare il cuore del fanciullo, correggere un errore della sua giovine intelligenza, sviluppare il germe nascente di una nobile disposizione; ora per rivelargli il motivo nascosto d’una rivoluzione o d’un avvenimento importante; e sempre per mostrargli ch’essa è la sorgente unica del bello, del bene, del vero, l’anima, l’occhio, la regola, il profumo di tutte le scienze ch’essa vivifica, che essa nobilita, ch’essa coordina, ch’essa spiega e guida allo scopo finale d’ogni cosa: la gloria di Dio e la salute dell’uomo. – Ecco ciò che deve essere, ed ecco ciò che non è. Si può egli allora sconoscere il vizio radicale che condanna, e che condannerà sempre la religione alla dimenticanza nel nostro sistema pagano di educazione? II catechismo del cappellano non vi cangerà nulla. Le sue istruzioni saranno lezioni che si ascolteranno come altre lezioni, forse con un po’ meno di attenzione e con un poco più di ripugnanza. Agli occhi del fanciullo la religione continuerà ad essere una scienza astratta, isolata dagli altri suoi studi, e che si è liberi d’imparare o di dimenticare, senz’altra conseguenza che il merito d’esser più istrutto, o il demerito di esserlo meno. Ciò vuol dire che ei conoscerà la religione quasi come l’inglese od il tedesco, di cui ogni settimana gli si danno una o due lezioni, senza essere, dopo cinque anni di studio, nel caso di leggere un libro, ed ancor meno di sostenere una conversazione in inglese od in tedesco. La prova palpabile di quanto asserisco si è che le generazioni universitarie e le classi della società ch’esse alimentano, conoscono molto meno la religione, e ne ragionano molto peggio delle donne e delle classi popolari. In ogni caso, l’insegnamento religioso di alcune ore per settimana, in concorrenza con un insegnamento pagano di ogni giorno e d’ogni ora del giorno, non sarà mai capace di formare generazioni solidamente religiose. Che sono mai alcune gocce di vino puro, grida il padre Possevino, per addolcire una botte di aceto? (Quanto vi pare che quadri che in una botte sincera s’infonda un bicchier di vino dolce, puro, defecato, cioè un poco di catechismo la settimana, e ad un tempo vi si versino dentro i barili interi d’aceto, di liquore, di muffa ed ogni altra sorte di vino putrido? Cioè ogni giorno i Terenzi e l’altre empietà! Tale è oggi il costume del mondo. Ragion., p. 2 ]. Oltre l’esperienza dell’Europa da tre secoli, me ne appello, sul valore di un tale insegnamento, al giudizio di un uomo, la cui opinione non è sospetta. « Non dobbiamo ingannarci, dice il signor Kératry; non è certo la presenza nelle scuole, a giorno fisso, di un ecclesiastico, per quanto rispettabile sia supposto, quella che inculcherà ai giovinetti uno spirito religioso di qualche durata. Questo non si acquista se non colla continuità di un insegnamento, in cui la legge divina si trovi come infusa. Gli studi, fossero anche meramente letterari, se ne devono risentire. Che cosa sarebbe se il dogma diventasse mai un oggetto di dubbio? Bisognano alla gioventù verità non contestate in fatto di religione; per essa ogni fede posta in controversia è ben tosto una fede morta ». – Queste osservazioni sull’insegnamento della religione negli stabilimenti secolari si applicano, lo dico con dispiacere, con alcune restrizioni tuttavia, alle case tenute da religiosi o da ecclesiastici, e nelle quali il paganesimo classico regna. Qui ancora la religione non esce naturalmente, direttamente, come il profumo dal fiore, né dai libri, né dai doveri, né dagli studi ordinari del giovinetto, né dalle spiegazioni del professore. Farla talvolta scaturire da ciò indirettamente, penosamente, e per così dire pervia di contrasto e di antitesi, ecco quanto può fare un maestro pio ed abile. Quindi ne viene questo fatale rovescio, che il paganesimo compone il festino di cui il Cristianesimo non è se non il dessert. Quindi ne viene ancora una conoscenza più o meno avanzata del paganesimo, ed un’ignoranza molto più grande che non si crede, del Cristianesimo. – Rendendo piena giustizia allo zelo ed alla virtù dei nostri maestri, noi non possiamo qui trattenerci dal protestare con energia contro il sistema d’insegnamento pagano che formò la nostra infanzia, e dal deplorare l’ignoranza in tatto di religione, che ne fu conseguenza obbligata. Uscendo di collegio noi sapevamo sulle dita i nomi, la storia, gli attributi, le avventure degli dei e delle Dee della favola; noi conoscevamo le Danaidi e le Parche, Isione e la sua ruota, Tantalo ed il suo supplizio, le oche del Campidoglio e le galline di Claudio. Senza il più piccolo sbaglio noi avremmo potuto fare la biografia di Minosse, di Baco e di Radamanto, di Codro e di Tarquinio, d’Epaminonda, di Scipione e di Annibale, di Cicerone e di Demostene, senza contare quella d’Alessandro, di Cesare, di Ovidio, di Sallustio, di Virgilio e di Omero. Noi conoscevamo Licurgo, Socrate, Platone, i Flamini, i Giuochi del Circo e dell’Anfiteatro, i sacrifici, le feste, i comizii del popolo-re. In una parola, noi possedevamo tutto il sapere desiderevole in onesti giovani di Roma e di Atene, rampolli dei Bruti o dei Gracchi, candidati delle glorie del Foro, adoratori o sacerdoti futuri di Giove e di Saturno. Ma se per disgrazia fossimo stati trasportati sul terreno del Cristianesimo, e se fossimo stati pregati di dire il nome dei dodici Apostoli, il numero delle loro Epistole; se fossimo stati interrogati sui nostri Santi e sui nostri Martiri, sui nostri eroi e sulle nostre glorie, sui Crisostomi, sugli Agostini, sugli Atanasi, sugli Ambrogi, sui re dell’eloquenza e della filosofia cristiana; sui Padri del mondo moderno, sui nostri maestri nella scienza della vita; se a noi, loro figliuoli, figliuoli della Chiesa e dei Martiri, fosse stato chiesto quale fu il tempo di loro nascita, quali combattimenti essi ebbero a sostenere, quali opere composero, quali azioni meritarono loro l’ammirazione dei secoli ed il culto dell’ universo, ci si sarebbe parlato un linguaggio sconosciuto. Il rossore della nostra fronte e l’umiliante immobilità delle nostre labbra, eccitando la pietà dell’uomo sensato, avrebbero posto a nudo il controsenso mostruoso dei classici nostri studi. Tale si è la nostra storia e quella forse di molti altri. – Si dirà forse che questa ignoranza deplorabile in fatto di religione sarà dissipata più tardi? Davvero! Quanti giovani, quanti uomini di matura età, nelle differenti cognizioni della vita, conoscete voi, i quali dopo la loro uscita di collegio abbiano seriamente consacrato ventiquattr’ore allo studio della religione? Quanti, all’ opposto, non se ne potrebbero citare, i quali, lungi dallo sviluppare le religiose loro cognizioni, perdettero (e da gran tempo) le più elementari nozioni del catechismo! Il paganesimo classico condanna dunque fatalmente l’immensa maggioranza delle persone istruite ad una eterna ignoranza in fatto di religione.

CAPITOLO XX

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Al disprezzo! Condannare la religione alla dimenticanza, lasciandola ignorare alla gioventù, tale si è il primo effetto del paganesimo nell’educazione. Esso ne produce un altro molto più grave: abbandona la religione al disprezzo. Non ci dimentichiamo di quanto abbiamo detto, che la religione è la scienza universale, l’alfa e l’omega d’ogni cosa. Ad essa si applicano letteralmente le parole di san Tommaso parlando della teologia. « La scienza della religione, egli dice, comanda a tutte le altre scienze, perché essa è la più alta di tutte: essa le fa tutte lavorare sotto i suoi ordini, le tiene tutte al suo servizio, perché è incaricata di adoprarle; talché il fine, lo scopo, 1’oggetto di ogni scienza, essendo contenuti nel fine della religione e coordinati per relazione a questo fine, la scienza della religione dee dominare tutte le altre scienze e mettere in opera tutti i loro insegnamenti. Ne segue che la religione non può avere nel pensiero, nello studio, nella stima, nell’ammirazione d’alcun uomo né un superiore, né un rivale; che le sue ispirazioni, i suoi insegnamenti, i suoi fatti, i suoi combattimenti, i suoi trionfi, i suoi uomini, le sue glorie, i suoi capi d’opera sono al disopra d’ogni paragone. Solo una parte sovrana a lei si confà: qualunque altra parte la degrada. Essa è regina o è nulla : aut nihil, aut Cæsar. Ora, porre il paganesimo ed il Cristianesimo letterario, artistico, storico, scientifico e filosofico sulla stessa linea, egli è un dividere fra loro il regno delle idee e collocarli nello stesso grado nell’estimazione della gioventù. Porre il paganesimo letterario, artistico, storico, scientifico, filosofico al disopra del Cristianesimo, si è un dargli lo scettro delle idee e collocarlo nel posto d’onore, nella estimazione della gioventù: si è un degradare il Cristianesimo, si è un annientarlo, per quanto si può, per le generazioni nascenti, le cui prime impressioni costituiscono 1’essere morale sino alla morte. Posti tali principi, entrate con me in qualsiasi scuola di qualsiasi collegio d’Europa, dal secolo XVI sino a questo giorno. Qualunque sia la sua veste, il professore, dall’alto della sua cattedra, così parla ai suoi giovani uditori: « Miei amici, vi furono nell’antichità due contrade privilegiate, nelle quali il genio dell’ eloquenza, della poesia, della storia, della filosofia, dell’ architettura, della scultura, di tutte le arti e di tutte le scienze pose lungo tempo ed esclusivamente il suo soggiorno. In quei paesi nacquero i più grandi uomini che il mondo abbia mai conosciuto. Roma ed Atene furono la patria degli eroi i più celebri; la Grecia e l’Italia furono il doppio teatro dei fatti i più memorabili e i più degni del vostro studio: qui, uomini e cose, tutto è meraviglia. « Per citarvi solo alcuni nomi: Omero, Sofocle, Pindaro, Senofonte, Tucidide, Esopo, Demostene, Socrate, Platone, Aristotele, Epaminonda, Alessandro, Virgilio, Orazio, Tito Livio, Ovidio, Svetonio, Sallustio, Cicerone, Seneca, Plinio, Scipione, Fabio, Mario, Cesare, Pompeo, Augusto e una folla di altri sono i re del genio, della scienza, del valore e della gloria. Al loro confronto impallidiscono tutti gli altri uomini che li precedettero o che li seguirono. Ecco qui le loro opere e le loro azioni: voi avrete la fortuna di studiare le une; voi vi farete un dovere d’imitare le altre. Imparate a pensare, a sentire, a parlar come quelli, se volete pensar bene, sentir bene e parlar bene. Debbo solo avvisarvi che quei grandi uomini non erano cristiani: ma ciò nulla toglie ai loro capi d’ opera, né alle loro leggiadre azioni ». – Ed i giovinetti sbalorditi credono alla parola del maestro, ammirano perché 1’ha detto il maestro, e, sempre stando alla parola del maestro, cominciano tosto a sdegnare quanto nella letteratura, nella poesia, nella filosofia, nella storia, nelle scienze e nelle arti non ha il conio pagano. Tale è, meno un gran numero di lodi iperboliche, il modo con cui il paganesimo nella educazione viene applicato alla mente del fanciullo, cotanto impressionabile. E siffatta applicazione entusiasta si ripete ciascun giorno, per sette anni! E questi sette anni sono quelli in cui si forma l’uomo per la vita! Quale può mai essere, rispetto alla religione, i l risultato di un simile sistema? Sentiamo la risposta di un dotto vescovo: « Noi non giudichiamo e soprattutto noi non condanniamo alcuno; noi gemiamo sui traviamenti dell’umano spirito, e facilmente crediamo che se fossimo vissuti un secolo prima, avremmo sgraziatamente partecipato per sempre noi pure ai traviamenti che ora deploriamo. Ma noi vogliamo, o signori, farvi notare quanto avvenne allora, pur troppo! E quanto avviene ancora quasi dappertutto. « Durante quasi trecento anni fu detto a tutta la gioventù studiosa, cioè a quella che governare doveva la società: « Formate il vostro gusto collo studio dei buoni modelli; ora, i buoni modelli greci e latini sono esclusivamente gli autori pagani di Roma e d’Atene. Quanto ai Padri, ai Dottori ed a tutti gli scrittori della Chiesa, il loro stile è difettoso ed il loro gusto è alterato: uopo è dunque guardarsi ben bene dal formarsi alla loro scuola ». Ecco ciò che fu detto e specialmente ciò che si fece praticare a tutti gli studiosi in quella età, in cui è rigorosamente vero che le abitudini diventano una seconda natura. « Quindi, o signori, che ne avvenne? Quello che di necessità doveva avvenire: dapprima tutta quella gioventù si appassionò per lo studio delle produzioni del paganesimo, e dall’ammirazione delle parole giunse a quella dei pensieri e delle azioni. « Infatti, non fu forse allora che si cominciò ad inchinarsi innanzi ai sette saggi della Grecia, quasi altrettanto quanto innanzi ai quattro Evangelisti? Ad andare in estasi pei pensieri di un Marco Aurelio e per gli scritti filosofici di un Seneca, in modo da lasciar credere che nulla vi fosse di più profondo nei libri sacri? finalmente a vantare le virtù di Sparta e di Roma a segno da far quasi impallidire le virtù cristiane? – « Credete voi, o signori, che somiglianti insegnamenti, diventati unanimi e continui, non dovessero alla fin fine indebolire il sentimento della fede e far crescere fuori modo l’orgoglio dell’umana ragione? E sarebbe forse una temerità il dire che facendo così spiccare da per tutto le opere dell’uomo a gran detrimento della rivelazione, che è l’opera di Dio per eccellenza, si preparavano le vie al regno di questo razionalismo sfrontato che giunse pubblicamente a non adorar che se stesso (Lettera di monsignor vescovo di Langres al superiore ed ai direttori del suo piccolo seminario.)? » – Se tale risposta vi pare insufficiente, me ne appello a voi stessi. Io suppongo che nei giorni della Chiesa primitiva, i pagani, non ascoltando se non un preteso zelo per la letteratura, per la scienza e per le arti, avessero preso i nostri libri cristiani per base dell’istruzione dei loro figliuoli; che avessero pagato migliaia d’abili maestri per eccitare ogni giorno durante sette anni il loro entusiasmo pei nostri apostoli, pei nostri martiri, pei nostri oratori, pei nostri storici, pei nostri artisti, pei nostri filosofi, dicendo loro su tutti i tuoni ch’essi sono i re dell’eloquenza e del genio; che nulla fra i pagani può esser loro paragonato; che le nostre istituzioni e le nostre leggi sono il capo d’opera della sapienza e dell’equità. L’uomo fornito del più volgare buonsenso non avrebbe forse detto, e con ragione, che i pagani avevano perduto il cervello? Che essi distruggevano con le proprie loro mani i loro templi ed i loro altari? che lo spirito cristiano penetrerebbe di necessità nella letteratura, nella filosofia, nelle scienze, nelle arti, nei costumi, nelle credenze, nella società tutta quanta? che, ammiratori esclusivi degli uomini e delle cose del Cristianesimo, i loro figliuoli disprezzerebbero senza fallo gli uomini e le cose pagane? che abbraccerebbero tosto o tardi la religione del genio, e volgerebbero per sempre le spalle a quella che non aveva prodotto se non mediocri uomini e mediocri cose? Se più tardi i pagani avessero gemuto; se meravigliati si fossero del dispregio dei loro figliuoli pel culto paterno e della loro propensione al Cristianesimo, quale nome avreste voi dato ai loro lagni ed al loro stupore? Ebbene, questa è la nostra storia. Da tre secoli il paganesimo è nell’educazione, e voi vi meravigliate che si trovi nelle idee e nei costumi! Voi gemete oggidì più amaramente che mai nel veder la religione abbandonata, spregiata, e nel vedere con essa sparire l’ultimo argine opposto al torrente che minaccia di lutto trascinar via, l’ultima colonna della libertà umana, l’ultimo limite dei vostri campi, l’ultimo chiavistello dei vostri cofani. – Se i vostri lamenti sono sinceri, aiutateci a mutare sistema: chi respinge l’effetto deve far sparire la cagione. Il disprezzo della religione, conseguenza inevitabile del paganesimo classico, non aspetta gli anni della età matura per prodursi. Lo si scorge manifestarsi nel collegio stesso colla totale mancanza di pietà, colla profonda nausea per i dov’eri del Cristianesimo e della istruzione religiosa, colla incredulità e colla corruzione: doppia lebbra che divora insino alle midolle le generazioni imbevute del latte pagano. Si manifesta specialmente nelle disposizioni dei maestri e dei discepoli verso l’uomo, nel quale la religione si personifica. Ai loro occhi il cappellano, quali si siano le sue virtù ed il suo ingegno, non è più l’uomo necessario, l’uomo le cui lezioni devono eccitare il massimo ardore, la cui parola deve ottenere il massimo rispetto ed il massimo amore. Egli è un non so che, senza nome nel linguaggio dell’ammirazione, ancor meno nel linguaggio del cuore, poiché l’idea stessa, della quale è il rappresentante, non tiene se non un posto assai secondario nella stima e nessun posto nell’affetto di coloro che lo circondano. Per gli uni il cappellano è un mercenario che istruisce a tanto per giorno; per gli altri, è un professore di religione, ufficiale di morale che ne dà lezioni ad ore fisse, e che si prova di generare negli animi, non già la fede delle verità sante, ma non so quale convinzione secca e sterile, quasi come quella che genera un professore di algebra dimostrando problemi.

All’alterazione. Il paganesimo classico non solo ha per effetto di condannare la religione all’oblio ed al dispregio; ma il suo influsso è più fatale ancora, giacché l’altera profondamente. Che cosa è il Cristianesimo? È la religione dello spirito, la religione della eternità. Timore, disprezzo, distacco dalle ricchezze, dagli onori, dai piaceri della terra; abnegazione di se stesso, mortificazione della carne, con lo scopo di rendere all’anima il legittimo suo dominio: ecco ciò che il Cristianesimo predica dalla culla sino al Calvario, dalle fasce sino alla tomba, dalla prima pagina all’ultima dell’Evangelio. Beati gli umili, beati i poveri, beati quelli che soffrono; guai ai ricchi, guai ai potenti, guai ai felici di questo mondo! Tali sono le sue massime. Di nuovo, che cos’è il Cristianesimo? È una religione sovrannaturale che rigetta come insufficienti tutte le ragioni umane, tutte le intenzioni puramente naturali, e per conseguente tutte le virtù che non sono inspirate da vedute attinte all’ordine della grazia. « Non fate le vostre buone opere, le vostre belle azioni innanzi agli uomini per essere notato da loro; altrimenti voi non riceverete alcuna ricompensa dal vostro Padre che è nel Cielo. Rimanete congiunti con la carità al divin vostro Mediatore, come il tralcio della vite è congiunto col ceppo che la nutrisce e la sostiene; altrimenti i vostri meriti saranno nulli; voi sarete alberi sterili, servi inutili che sarete gettati con i piedi e con le mani legate nelle tenebre esteriori. » La purezza d’intenzione e la grazia santificante, ecco pel Cristianesimo le due condizioni indispensabili delle vere virtù: senza di esse, il Cristianesimo non ne conosce, non ne remunera alcuno. – Che cos’è finalmente il Cristianesimo? La religione della carità; per conseguenza è la religione della libertà e della vera eguaglianza fra tutti gli uomini; è la religione della abnegazione affettuosa del ricco al povero e del povero al ricco; è il rispetto religioso dell’uomo per l’uomo, e specialmente per l’essere debole, per il fanciullo, per la donna, per il povero, per l’infermo, per il prigioniero, per il servo. «Voi amerete il vostro prossimo come voi stesso. Si riconoscerà che voi siete miei discepoli se vi amate gli uni gli altri, non solo di bocca ed a parole,”ma in verità e con opere reali. » Tale è lo spirito del Cristianesimo.

Ed ora, che cos’è il paganesimo? È l’antipode del Cristianesimo, è la religione dei sensi, la religione del tempo, è l’adorazione della materia, l’amore delle ricchezze, 1’amore degli onori, l’amore dei piaceri. Beati i ricchi, beati i potenti, beati coloro che nuotano in seno ai godimenti: ecco ciò che il paganesimo canta, ciò ch’egli ama, ciò ch’ei preconizza coll’esempio dei suoi uomini e dei suoi dei, con lla voce dei suoi storici, dei suoi poeti, dei suoi oratori, dei suoi artisti, di tutti coloro che sono dati per modelli ai nostri figliuoli. Di nuovo, che cos’è i l paganesimo? È il naturalismo in fatto di virtù. Virtù ispirate da viste umane, dal desiderio di farsi una rinomanza, dall’umore, dal carattere, dal temperamento; virtù senza la grazia santificante che sola può renderle vantaggiose al fine eterno dell’uomo; virtù di mostra, delle quali si ha poi cura d’indennizzarsi segretamente. Quindi ne vengono storici, oratori, moralisti, i Sallusti, i Senechi, i Ciceroni, che parlano eloquentemente della temperanza, che declamano contro l’ambizione e contro l’immoralità, ed i quali nel segreto di loro particolare condotta non rifiniscono dall’oltraggiare il pudore, la temperanza e tutte quante le virtù. Che cos’è finalmente il paganesimo? È la religione dell’odio universale, la religione della schiavitù e del profondo disprezzo per l’umanità: disprezzo dell’uomo per l’uomo e soprattutto per l’essere debole, ch’essa calpesta sotto i piedi, o di cui fa lo strumento dei più brutali godimenti; pel fanciullo, ch’essa lascia uccidere, vendere, esporre; per la donna, di cui consacra la vergognosa schiavitù; pel povero, ch’essa perseguita col suo disprezzo e che chiama un animale immondo; per l’ammalalo, ch’essa abbandona sul suo letto di dolore alle cure immaginarie di Esculapio; per il prigioniero, che scanna; per lo schiavo, di cui fa minor conto che non del cane che trastulla il suo padrone o della bestia da soma che trasporta i suoi pesi. Ecco il paganesimo nelle sue massime, nel suo spirito, nei suoi atti. In due parole, il Cristianesimo è la glorificazione dello spirito; il paganesimo è la glorificazione della carne; spiritualismo da un lato, sensualismo dall’altro: ecco il fondo opposto delle due religioni. Ora, egli è il paganesimo che educa i nostri figliuoli. – Il suo insegnamento è altrettanto più efficace in quanto parla su tutti i tuoni, riveste tutte le forme, s’insinua di per sé; poiché esala per natura, come il profumo dal fiore, da ogni libro, da ogni pagina, da ogni frase; che il giovinetto è obbligato ad ammirare, a leggere, a studiare, a capire, a tradurre, ad imparare sulle dita, in una parola, a mutare in sua propria sostanza, e questo in ogni dì ed in ogni ora del giorno, durante sette anni! Sotto somigliante influsso, che mai può diventare lo spirito cristiano? Pur troppo! esso si altera, s’indebolisce, si estingue. L’ordine soprannaturale dispare, il naturalismo solo rimane. L’uomo diventa quale l’educazione lo forma; diventa carne, diventa pagano. Osservale piuttosto: non è egli vero che il sensualismo e l’egoismo straripano sull’Europa? Non è egli vero ch’essi penetrano più o meno in tutte le anime, in tutte le arti, in tutte le scienze, in tutte le vite, da quella che comincia a quella che termina? Ascoltiamo un uomo che non sarà punto sospetto. « La è una ingrata cosa l’educazione della gioventù borghese. Terreno logoro, arido, sterile, in cui più non germoglia altra cosa, tranne i consigli dell’interesse. Io li conosco questi figliuoli della borghesia; la giovinezza è sul loro viso, ma non nel loro cuore. Speculano ancor collegiali. Quello che cercano meno è il bello e il vero; poco sensibili ci sono alle attrattive delle amene lettere ed alla luce delle scienze. La loro ambizione prossima si concentra tutta nell’ottenere un grado universitario, che aprirà loro ciò che si suole chiamare una carriera; la loro ambizione la più lontana non giunge al di là d’uno studio di notaio o di procuratore, d’un diploma d’avvocato o di medico, d’una spallina o d’un abito gallonato; e sotto queste forme diverse ciò che tutti scorgono e bramano, si è il ben essere materiale, sì è una buona mensa, begli abiti, buon letto ed il rimanente in proporzione. La loro virtù dominante è la virtù dei vecchi, la prudenza. La gloria è per essi un vano fumo, cui gli sciocchi soltanto vanno dietro; il merito è un lusso che non vale gli sforzi che costa; ben minchione chi gli sacrificasse un piacere. – « Si occupano eglino, a caso, delle cose politiche? Sono conservatori sotto la monarchia e reazionari sotto la repubblica. Appartengono al gran partito dell’ordine; stimano che la religione sia necessaria per il popolo, sebbene non credano già più a nulla; difendono la famiglia in generale, salvo poi ad affliggere la loro colla loro pigrizia, ed a minarla più tardi con le loro prodigalità; difendono anche e soprattutto amano la proprietà, ma senza il lavoro. Vi sono delle eccezioni, lo so; esse d’ordinario non fanno nascere altro che il riso. Nella più alta scuola dell’Università, alla scuola Normale, l’insegnamento della filosofia era, ora sono quindici anni, l’oggetto di tutte le ambizioni; spregiato adesso, vien reclutato difficilmente e male. E d’onde questo? Altre volte simile insegnamento era scelto come altrettanto sicuro e più lucroso di un altro; eccolo pericoloso e perseguitato; se ne allontanano. Ah! miei giovani amici, è appunto per ciò che dovrebbe avere le vostre preferenze (Il signor Jacques, professore di filosofia in Parigi) ». – Questo dipinto colpisce per la sua rassomiglianza. Uscite di collegio, entrate nella società. Dove troverete voi oggi lo spirito cristiano di sacrificio e di abnegazione? Dov’è mai il disprezzo solenne e solido delle ricchezze, degli onori e dei piaceri? In qual tempo mai le tre grandi concupiscenze regnarono esse più dispoticamente, più universalmente sul mondo? Forse che l’oro non è il dio di questo secolo? Forse che il piacere non è l’unico paradiso che si ambisce? Forse che il dogma pagano della felicità sulla terra, della felicità mediante la ricchezza, non diventò la base delle selvagge teorie che di presente acquistano un sì formidabile favore? Che dirò di più? Il mondo attuale non è forse pieno d’oratori, di scrittori, d’uomini di tutte le classi letterate, i quali, ad esempio dei loro modelli classici, parlano eloquentemente della virtù, alla quale la loro sporca condotta fa testimonianza che punto non credono? Finalmente, per ultimo tratto di rassomiglianza, non giungiamo forse a vedere una società tutta quanta educarsi a noi d’intorno, e proclamare come facevano i pagani, che basta essere onest’uomo, e che si può essere virtuosi senza il Cristianesimo? Cercate ora da quale epoca cominciò in Europa quest’abbassamento spaventoso dello spirito cristiano? Ricordatevi che tutto deriva dall’educazione; e, ne sono persuaso, voi indicherete ad occhi chiusi l’epoca del Rinascimento del paganesimo classico. Né si dica, per attenuare la potenza accusatrice di questo fatto, che i classici pagani furono corretti e purgati; non si dica nemmeno, per negare la riforma che noi chiediamo, che si potrà correggerli ancora e purgarli con cifra più grande: vane pretese! Le correzioni, le espurgazioni, le soppressioni tolsero e toglieranno al più le immoralità grossolane, gli errori palpabili; ma non muteranno per nulla lo spirito pagano, che respira necessariamente, inevitabilmente nelle opere pagane. Ecco però dov’è il pericolo. – Ecco quello che i Padri della Chiesa e tutto quanto il medio-evo avevano benissimo capito. Quando i Gerolami, gli Agostini, i Gregorii proscrivevano con tanta energia il paganesimo classico; quando ne indicavano con tanta eloquenza l’immenso pericolo, credete voi sul serio ch’eglino fossero ispirati dalla tema di vedere il mondo cristiano ritornare al culto di Giove, di Venere o di Mercurio? No, gli Dei dell’Olimpo erano caduti dai loro altari per non più riascendervi. Il paganesimo nella sua forma materiale era morto, ben morto; ma esso viveva nel suo spirito, e questo spirito si conservava nei libri pagani; e questi libri pagani, messi in mano ai giovinetti, sono onnipotenti per infonderlo nel cuore delle generazioni cristiane, e per mezzo di esse nella società. Ivi era il pericolo, ivi è ancora, ivi sarà sempre. Vi si faccia bene attenzione; verrà un istante, se forse non è già venuto, in cui sarà impossibile lo scongiurarlo. « Dalla questione del Paganesimo o del Cristianesimo nell’ educazione dipende la salvezza del mondo ». Ecco quello che proclamava in faccia all’Europa uno dei veggenti del secolo XVI. Ora fa quindici anni, un uomo dei più notevoli per l’altezza del suo sapere e per la sicurezza del suo colpo d’occhio, ci scriveva: « Ancora trent’anni di paganesimo nella educazione, ed è finita per la religione in Europa ».

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (8)

CAPITOLO XVII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLE SCIENZE

Incertezze, tenebre, materialismo, errori mostruosi, caos intellettuale, ecco ciò che la filosofia moderna guadagnò facendosi discepola del paganesimo, malgrado il divieto sì positivo dei Padri della Chiesa e la riserva così eloquente dei secoli di fede. Ora, la filosofia è per eccellenza la cultura dell’idea, e l’idea governa il mondo. La filosofia esercita dunque un influsso inevitabile sulla scienza in generale, sulle arti, sulla letteratura, su tutte le manifestazioni del pensiero. Diventando pagana, essa dovette imprimere a tutte queste cose i suoi vari caratteri. Fatti costanti, universali, rendono palpabile la verità di questa induzione, incontestabile a priori. Cominciamo dalla storia. – Il primo carattere della moderna filosofia, figliuola della filosofia pagana, si è l’incertezza. Gli innumerevoli sistemi da essa generati, e che anche ogni giorno va generando, ne sono la prova. Un tal carattere fu dalla medesima comunicato alla storia. La storia è la scienza dei fatti, delle cagioni loro, delle loro relazioni, del loro scopo particolare e della tendenza loro verso un fine generale e supremo. Ora, i fatti della storia sono dovuti ad una doppia cagione: l’azione di Dio e la libertà dell’uomo, come essi sono coordinati a un doppio scopo: la gloria di Dio e la salute dell’uomo. Quindi, un doppio elemento nella storia: l’elemento divino e l’elemento umano. La cognizione di questo doppio elemento e della sua azione combinata nei fatti che empiono gli annali del mondo, è la filosofia o l’occhio della storia. È evidente che tutta questa filosofia dipende dall’idea che serve di punto di partenza. Arte monotona di registrare date e nomi propri, ecco la storia se questa idea non esiste; menzogna, sogni, se tale idea è falsa; delizioso studio, fonte dei più preziosi insegnamenti, se tale idea è vera. – Ma questa idea rivelatrice, chi mai la può comunicare all’uomo? Nessun altro che Quegli che può rivelare 1’umanità a se stessa, la sua origine, i suoi doveri, i suoi destini. È dire abbastanza che non appartiene che a Dio ed alla religione il darci la vera filosofia della storia. Ora, diventando pagana, la storia cessò di cercare la sua bussola nella religione: essa avrebbe arrossito, come la filosofia stessa, di chiedere lumi a colei che non si cessava dal rappresentare come la madre dell’ ignoranza e la regina della barbarie. Che dico! Non solo la storia lasciò repentinamente la scuola della fede, ma ancora tolse a sé la possibilità di rientrare nella medesima, declamando su tutti i tuoni e ad ogni proposito contro la Chiesa. A tale che, secondo la giusta osservazione del conte de Maistre, dopo il Rinascimento la storia è una permanente cospirazione contro la verità. D’ allora in poi, non più alcuna filosofia della storia; ogni storico si arrogò il diritto di scrivere sotto l’ispirazione delle sue opinioni, dei suoi pregiudizi, delle sue antipatie e delle sue simpatie personali. Quindi quella confusione veramente filosofica nello estimare i fatti i più volgari; quindi quelle riabilitazioni scandalose dei più grandi colpevoli; quindi, infìne, quelle condanne, più scandalose ancora, dei più grandi uomini e delle più belle azioni. Spogliata della sua maestà, la storia non fu troppo spesso che una cornice per mettere in mostra un sistema preconcetto od una tesi in favore di un interesse di setta e di partito. Nella semplice esposizione dei fatti, essa si mostra 1’eco fedele del paganesimo. Essa ci parla sul serio dello stato di natura; essa ci racconta che vi fu un tempo in cui gli uomini vivevano dispersi nelle selve, in cui si cibava di ghiande, in cui non avevano altra lingua se non un piccolo numero di segni per indicare i primi bisogni della vita materiale. Che bella idea questo ci dà della dignità umana e della bontà di Dio! Che mezzo eccellente di confermare fede alla verità del racconto Mosaico, base stessa della storia! Non basta il distruggere; su questi dati assurdi si fondano sistemi sovranamente avversi alla religione e all’ ordine sociale. Si sostiene, per esempio, che Dio non si è rivelato all’ uomo; che la religione, la società sono 1′ opera dell’uomo e del tempo. – Non solo una tale filosofia della storia copia il paganesimo, ma da figliuola bennata prende la difesa di suo padre. Essa pretende che i cristiani hanno calunniato Nerone, Decio, Diocleziano e gli altri persecutori; accusa le vittime dei delitti dei carnefici; pone a carico del Cristianesimo (che essa chiama fanatismo) una gran parte degli eccessi di cui il Cristianesimo ebbe a soffrire; accusa i sommi Pontefici, quei medesimi che salvarono 1’Europa dalla barbarie, d’ ambizione e di crudeltà. Su molti punti, la Chiesa non merita né la fiducia, né il rispetto, né la gratitudine delle nazioni: tale si è la conclusione di questo insegnamento filosofico della storia. Al carattere d’incertezza e di pirronismo universale si aggiunge il materialismo. Quelle magnifiche viste del genio cattolico che si trovano nei Padri della Chiesa , soprattutto in Sant’Agostino, quelle viste di complesso che incatenando gli avvenimenti gli uni agli altri, spiegano tutta un’epoca, disparvero dalla storia collo spirito che le inspirò. Dopo il Rinascimento, nessuno, tranne Bossuet, si alzò o seppe mantenersi alle cagioni supreme degli avvenimenti, a quel Moderatore supremo che nelle sue mani tiene le redini di tutti gli Imperi, che li innalza o che li abbassa a suo grado, e che guida il mondo mentre l’uomo si agita. Tito Livio, Sallustio, Tacito, Senofonte, Erodoto sono divenuti, e per lo spirito e per la lettera, modelli obbligati. Quindi, silenzio assoluto sull’azione della Provvidenza negli avvenimenti di questo mondo. – Scartato sistematicamente l’elemento divino, la storia riapparve sotto la penna degli autori cristiani, ciò ch’essa fu sotto la penna dei pagani, una lettera morta. Gli annali del genere umano, aperti a tutti gli occhi, cessarono di dare all’uomo la conoscenza di Dio e di se stesso, l’intelligenza della sua missione e della sua condizione sulla terra. Quali furono i risultati di questo ritorno al paganesimo? Per la storia, la degradazione; per l’uomo, il materialismo ed il fatalismo. Le altre scienze non furono guari più felici. Ostilità contro la religione e materialismo, tali sono i caratteri che esse rivestirono, i vantaggi che esse acquistarono diventando pagane. Superflua cosa sarebbe il verificare con lunghi particolari questo fatto evidente: contentiamoci di alcune osservazioni generali. Dapprima, chi di noi non udì il rumore dei sarcasmi lanciati da tre secoli contro la religione ed il medio-evo da tutte le bocche dotte d’Europa? Cotali sarcasmi, misti di sofismi, non formavano forse, nell’Enciclopedia e nella più parte delle opere moderne, come un’ immensa montagna innalzata contro il cielo dai moderni Titani? Oggigiorno ancora non è forse dall’alto di tale montagna che parlano il più gran numero dei dotti e dei maestri della gioventù? Non è forse di là che incessantemente discende quel1’odio cordiale dei letterati contro il Cattolicesimo, o il disprezzo, più insultante dell’odio? Non è forse di là che viene l’opinione ancor sì accreditata, che la fede non si può trovare negli animi se non in ragione inversa dei lumi? la superba pretesa di non mai chiedere alla religione lo scioglimento d’alcun problema? L’affettazione sostenuta di non mai pronunciare il suo nome nella esposizione delle scientifiche teorie? – Che cosa guadagnò la scienza con questa pagana ostilità? Privo della fede che sola può rivelargli i segreti del mondo morale, 1′ umano spirito si trovò inabile a tutte le scienze di un ordine superiore: alla scienza delle sue relazioni con Dio; alla scienza delle sue relazioni coi suoi simili, sì nell’ordine civile che nell’ordine domestico. Chi non arrossirebbe vedendo l’ignoranza funesta in cui l’Europa è caduta, di tutte le cognizioni veramente degne dell’ uomo? Quale scioglimento seriamente accettevole sa essa dare da tre secoli in qua a tutti i grandi problemi, dai quali dipende la pace delle nazioni ed il solido progresso del genere umano? Non fa egli pietà il vedere le questioni le più semplici di religione, di libertà religiosa, civile, domestica, di patriottismo cristiano, (questioni elementari nei secoli di fede), oltrepassare le nostre sommità intellettuali e mettere in fallo le capacità dei nostri moderni Licurghi? – Il discredito delle scienze le più nobili e le più necessarie ecco il primo frutto del paganesimo classico. La profanazione di queste stesse scienze ne è un secondo. Altre volte, tale era la potenza dello spirito cristiano, ch’esso spiritualizzava in qualche modo le scienze materiali facendole volgere all’avanzamento della religione. Noi vedemmo ciò, parlando delle celebri scuole d’Inghilterra e d’Irlanda; noi lo vediamo ancora nell’ordine gerarchico indicato da San Tommaso e generalmente seguito in Europa prima del Rinascimento. Oggidì tale si è la potenza dello spirito pagano, ch’esso fa servire anche le scienze morali a raffermare il materialismo ed a propagare il suo regno. – Ad esempio, che di più morale nella sua essenza e nel suo scopo quanto la scienza di governare le nazioni? Ebbene! Osservate ciò che avviene in Europa da tre secoli. La legislazione non spogliò essa forse il suo carattere religioso? La scienza del diritto non cessò forse affatto di appoggiare le sue basi sul diritto primordiale, la volontà suprema di Dio, manifestata nella Scrittura e nelle decisioni della Chiesa? Quale relazione vi è mai tra le Carte moderne ed i Capitolari dei nostri antichi re o le Costituzioni degli imperatori cristiani? La politica non è forse ridotta all’arte di materializzare i popoli? Non la udite voi, d’accordo colla sua moderna compagna, la scienza economica, proclamare che un popolo nulla ha a desiderare dacché può dormire tranquillo, dacché ha pane da mangiare, vino da bere, letto da riposarsi, teatri per divertirsi, strade ferrate per trasportarsi, macchine per vestirsi a buon prezzo e gas per rischiararsi? – Non è forse a procurargli questi vantaggi che tendono esclusivamente i suoi sforzi ed i suoi calcoli? Se essa insegna la morale alle popolazioni, non è forse ancora nell’interesse dell’ordine materiale e della tranquillità dei suoi godimenti? Essa può applaudire ai suoi propri successi, poiché sotto l’influsso di questa politica tutta pagana, i popoli cristiani sono giunti a credere che difatti l’uomo non viva se non di pane; che ogni scienza la quale non si traduce in godimenti materiali sia una chimera; che ogni insegnamento che non rende onore e vantaggio sia un inganno; che la felicità sia tutta quanta quaggiù. Ed i popoli non sanno più chiedere se non ciò, non sanno più lavorare se non per ciò, non sanno più combattere se non per ciò!

CAPITOLO XVIII

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Parlerò io delle scienze fisiche e naturali? Qui soprattutto si fa sentire, in tutta la sua estensione, la funesta influenza del paganesimo classico. L’universo è un magnifico specchio in cui si riflettono sotto mille sembianze diverse le perfezioni di Dio che sfuggono all’occhio umano. Il firmamento con i suoi innumerevo lisoli, la terra con le sue infinite ricchezze sono due predicatori eloquenti, la cui lingua, intelligibile a tutti i popoli, annunzia incessantemente la gloria del Creatore. Sulla fronte dei cieli, come sulla superficie del grano di sabbia, Dio impresse in caratteri scintillanti la prova della sua esistenza, della sua potenza, della sua saggezza e della sua bontà. Ecco perché, girando uno sguardo scrutatore sulla creazione tutta quanta che Dio aveva tratta dal nulla, il supremo Artefice disse che tutte le cose erano buone. Ecco perché i saggi d’Oriente dicevano: L’universo è una lira di cui Dio è il musico. Chi oserà negare che il vero scopo delle scienze fisiche sia di ricercare nella natura ciò che l’occhio divino vi ha veduto? che la loro gloria sia quella di trovarlo, ed il progresso dell’uomo di servirsene come d’una scala per innalzarsi alla cognizione più perfetta ed all’amore più fedele del Creatore, sua felicità e suo fine? O, per parlare come la teosofia indiana: chi oserà negare che la felicità dell’uomo sia quella d’essere iniziato ai segreti divini di questa misteriosa armonia? Poiché l’uomo pure non è egli forse, in un senso, il dio e quindi il musico dell’universo? Non bisogna forse, quindi, che le corde armoniche d’una tale lira, accordata dal Creatore medesimo, fremano sotto la dotta sua mano? Cercare il mondo spirituale nel mondo materiale, tale è lo scopo principale cui bisogna correr dietro leggendo il gran libro della natura; scoprirvi dei mezzi di guarigione e di benessere materiale non è che il secondo. L’ordine provvidenziale consiste nello armonizzare questo doppio scopo; il disordine consiste nel dimenticare il primo per non occuparsi che del secondo: è ciò il materialismo, è ciò la profanazione della scienza, poiché è la schiavitù della natura alla iniquità, e la degradazione della intelligenza. Docili alla voce del Creatore medesimo, così compresero lo studio della natura ed i Profeti ed i Padri della Chiesa, ed i secoli di fede. Nulla è paragonabile alle sublimi lezioni di Giobbe e d’Isaia, ai trattati immortali di S. Basilio, di Sant’Ambrogio, di San Gregorio da Nissa, di San Crisostomo e di Sant’Agostino sull’opera delle Sei Giornate. Oltre lo scopo altissimo della scienza, ch’essi stupendamente raggiunsero, essi diedero ai più difficili problemi soluzioni che la scienza moderna è ben obbligata di ammettere sotto pena di sragionare perpetuamente. Così la capirono nei tempi moderni alcuni geni abbastanza forti per resistere al fascino del materialismo pagano. « La maggiore utilità, dicono eglino, che trarre si possa dallo studio della natura, si è di eccitarsi alla pietà. Non vi è soggetto di riflessione più desiderabile dei fenomeni della natura, quando sono riferiti ad un autore intelligente. Egli è un vedere l’universo come un tempio in cui noi siamo in adorazione permanente. Invece di non pensare a Dio se non di rado, come ciò avviene a coloro che non vi sono avvezzi, ci diventa in qualche guisa impossibile il non legare le idee di Dio con tutti gli oggetti che colpiscono i nostri sguardi. Non un solo corpo organizzato esiste, che, nei mezzi che ha di conservarsi e di riprodursi, non dimostri la cura particolare che il Creatore gli concesse sotto questi riguardi. La è dunque una stessa intelligenza che ha tutto ordinato; la stessa intelligenza s’interessa a tutti gli esseri creati. Sotto le leggi di questo Essere noi viviamo; la nostra esistenza, la nostra felicità sono in sue mani, e quanto noi abbiamo a sperare deve venire da Lui. Nell’immenso quadro che ci offre la natura, noi vediamo che nulla fu tralasciato, e che lo stesso grado di attenzione e di cura fu concesso ai più piccoli oggetti. Come potrebbe mai venirci in mente che noi saremo dimenticati o negletti giammai (Linneo, Saggio, etc.)? ». – Dal canto suo, trattando di una sciènza particolare, della quale il paganesimo moderno lungo tempo e crudelmente abusò, Cuvier seppe indicare lo scopo al quale bisognava ricondurla. Ei stabilì che la geologia dimostra che gli annali della terra s’accordano cogli annali dei popoli e meravigliosamente confermano il racconto di Mose. « È questo, dice Cuvier, uno dei risultati i meglio provati insieme ed i meno aspettati di questa scienza; risultato tanto più prezioso, in quanto lega con una catena non interrotta la storia naturale e la storia civile. Io penso dunque coi sig. Deluc e Dolomieu, che se v’ha qualche cosa dimostrata in geologia, sia questa, che la superficie del nostro globo fu vittima d’una grande e subitanea rivoluzione, la cui data non può rimontar guari al di là di cinque a sei mila anni; che tale rivoluzione ascose e fece sparire il paese abitato prima dagli uomini e dalle specie di animali i più conosciuti in oggi; ch’essa, all’opposto, pose a secco il fondo dell’ultimo mare e ne formò i paesi ora abitati; che dopo tale rivoluzione il piccolo numero d’individui dalla medesima risparmiati si sono sparsi e propagati sui terreni nuovamente messi a secco, e per conseguente che dopo simile epoca soltanto le nostre società ripigliarono il progressivo loro cammino, ch’essi formarono stabilimenti, raccolsero fatti naturali e combinarono sistemi scientifici ». Far servire la natura alla gloria del suo Autore ed al bene spirituale dell’uomo, senza escludere alcuno dei risultati materiali dell’investigazione, tale è l’ordine, tale è, sotto l’ispirazione del Cristianesimo, la magnifica missione della scienza. Chi dirà la parte vergognosa alla quale il paganesimo moderno l’ha condannata? Sta scritto che i Filistei, dopo essersi impadroniti di Sansone, gli recisero i capelli, gli strapparono gli occhi e Io condannarono a far girare innanzi loro una macina da mulino per divertirli sino al giorno che il forte d’Israello li seppellì sotto le mine del loro tempio, trasformato in teatro. Ecco quello che il paganesimo fece delle scienze fisiche. Esso se ne impadronì, le spogliò della forza e della luce poste in quelle acciò rendessero testimonianza al Creatore; le torturò in ogni guisa per strappar loro delle bestemmie, e vietò alle medesime di pronunziare mai il nome di Dio, in luogo del quale pose sulle loro labbra la parola NATURA: la natura fece quanto noi vediamo; la natura pose l’istinto nelle sue creature; la natura impose l’immobilità ad alcune delle sue creature: la natura dovunque, la natura sempre, senza mai dire che cos’è questa donna. Dopo avere degradato le creature, le costrinse, con lunghi e perseveranti sforzi, a rivelargli i loro segreti, ad aprirgli le loro viscere, e si servì degli uni ed esplorò le altre per procurarsi grossolani godimenti, e se ne inebbriò, e ne inebbriò la società tutta quanta, la quale vacilla sulle sue basi aspettando di trovare una tomba in questa orgia senza nome, in cui l’ateismo forzato della creazione va unito all’incredulità degli animi ed al sensualismo dei cuori. – Degradare la natura, condannarla a tacersi sulla religione e ricondurre il mondo moderno al sibaritismo del secolo di Tiberio, ecco ciò che il paganesimo classico fece delle scienze fisiche. È tutto? Non ancora. Invece di lasciar loro, per esprimersi, parole cristiane ed intelligibili, compose ad esse un inintelligibile gergo che non è di alcun paese, ma che ha il vantaggio di portare il doppio suggello del paganesimo greco e del paganesimo latino. Come non protestare, in nome del buon senso e del buon gusto, nonché in nome della scienza medesima, contro la terminologia barbara, introdotta dal Rinascimento nel nostro linguaggio scientifico? Lo faremo per mezzo d’uomo non sospetto. « Certo, una scienza non potrebbe limitarsi ai termini volgari: essa è costretta ad averne di particolari. Le parole hanno d’uopo di essere definite, cioè semplicemente spiegate con altri termini più volgari e più semplici, e la sola regola di queste definizioni è quella di non introdurvi alcun termine che abbia d’uopo esso stesso di essere spiegato, cioè che non sia chiaro di per sé o già prima spiegato. « I termini scientifici non essendo inventati se non dalla necessità, egli è chiaro che non si deve così a caso caricare una scienza di termini particolari. Sarebbe pertanto a desiderare che si abolissero quei termini scientifici, e per così dire barbari, che non servono se non ad abbagliare; che in geometria, ad esempio, si dicesse semplicemente proposizione invece di teorema; conseguenza invece di corollario; osservazione invece di scholio, e così degli altri. La più parte delle parole delle nostre scienze sono tratte dalle lingue dotte in cui erano intelligibili al popolo stesso, poiché non erano spesso se non se termini volgari o derivati da essi termini. Perché non conservare loro un tal vantaggio? Le parole nuove, inutili, bizzarre o tratte troppo da lontano sono quasi così ridicole in materia di scienza che in materia di gusto. Non si può mai rendere il linguaggio di ogni scienza troppo semplice, e per così dire troppo popolare; non solo è questo il mezzo di facilitarne lo studio, ma è eziandio un togliere un pretesto di screditarla al popolo, il quale s’immagina o vorrebbe persuadersi che il linguaggio particolare d’una scienza ne fa tutto il merito, e che è un baluardo inventato per impedirne gli accessi (D’Alembert, Enciclop., art. Elementi.) ». Forse il popolo non si è sempre ingannato. Checché ne sia, sinché le scienze parleranno francese od italiano o tedesco od inglese, in greco ed in latino, o piuttosto un idioma barbaro, miscuglio bizzarro di due lingue morte, esse non diventeranno mai popolari. La più graziosa di tutte, la botanica, rimarrà soffocata sotto il peso della sua non intelligibile nomenclatura. È questo un novello benefizio di cui esse vanno debitrici alla nostra fanatica ammirazione per i pagani. Ve n’ha un altro. Diventando pagana, la scienza diventò affatto materiale, o, come si dice, affatto positiva. La sua gloria consistette nello studiare la materia, niente altro che la materia; essa moltiplicò le osservazioni e le esperienze, ed accumulò fatti numerosi. Lo ripeto, è questa la sua gloria; essa non ne rivendica alcun’altra. Ma i fatti soli sono essi la scienza? No: non più di quello che il corpo senz’anima non è l’uomo, non più di quello che i materiali accumulati confusamente qua e là sul suolo non sono un edificio; non più di quello che i colori, per ricchi che siano, gettati senz’ordine sulla tela, non sono un quadro. Ciò che manca alla scienza attuale, si è la vita; si è un pensiero fecondo che l’animi, che ne armonizzi, ne coordini tutte le parti: e ciò manca alla scienza perché la fede manca alla agione. In una parola, finché la scienza, diventata pagana con il Rinascimento, non sarà di nuovo diventata francamente cristiana, non sarà se non un cieco che senza guida percorre paesi sconosciuti, un ignobile meccanico condannato a strappare con pena dal seno della terra le pietre del fabbricato che la sua mano non edificherà: il genio che crea è figlio della fede.Da questa mancanza della fede derivano ancora e l’impotenza assoluta di innalzarsi ad alcuna vista complessiva, e la strettezza, l’individualismo in qualche modo, che pone il suo triste conio su tutti i lavori attuali dell’intelligenza. Le divisioni, le sotto-divisioni, vera epidemia della scienza, hanno invaso ogni parte delle cognizioni umane. Quindi ne viene che gli uomini i più distinti sono condotti a questa notevole confessione, che le scienze le più in onore di presente non fecero un passo dopo Aristotele. « La fisiologia comparata, dice il signor Bourdon, è rimasta tale, quasi, quale la troviamo nelle immortali opere di Aristotele, senza accrescimento, senza nuova luce. A forza di distinguere ogni cosa sino a gradi quasi infiniti, le generalità che formano le scienze furono quasi generalmente neglette. Ad eccezione di tre o quattro naturalisti, le cui opere fanno la gloria delle scienze moderne, la più parte di coloro che si occuparono della storia della natura ne fecero una scienza piena di puerilità (Principri di fisiol. Comp., p. 45) ». Buffon tiene lo stesso linguaggio: « La storia degli animali di Aristotele, dice, è forse ancora oggidì ciò che noi abbiamo di meglio fatto in tal genere… Dal suo lavoro sembra ch’ei li conoscesse meglio forse, e sotto viste più generali che non si conoscano di presente (Modo di studiare la stor. natur., t. 1, p. 43, 44.) ». A queste testimonianze facil cosa sarebbe aggiungerne ben altre. I progressi nelle scienze fisiche, presentano il lato bello della storia della ragione, diventata incredula diventando pagana. A Dio non piaccia che noi le disputiamo alcuno dei successi reali di cui essa si glorifica; ma questi medesimi successi, lo diciamo arditamente, furono funesti al vero progresso dell’umano spirito, cioè al suo cammino progressivo verso la verità: la verità, cioè Dio, ed essi l’hanno allontanato da Dio.Né solamente inclinarono lo spirito umano verso la materia presentandogliela come l’unica fonte dei suoi godimenti e della sua gloria, ma ancora esagerando ai suoi occhi l’importanza delle scienze naturali e di tutte quelle che vi si connettono. Vedendo le innumerevoli opere scientifiche di fisica, di storia naturale, di geologia, di matematica, pubblicate da un secolo in ispecie; vedendo i viaggi intrapresi per terra e per mare, le spese prodigiose fatte dai particolari e dai governi; vedendo gli onori concessi a coloro che effettuarono qualche progresso, gli elogi dati a codeste scienze ed il posto ch’esse occupano nell’insegnamento, non si direbbe forse che l’uomo non è creato se non se per conoscere le proprietà della materia, e che un tale conoscimento è il primo fra tutti per la sua dignità, pel suo vantaggio, e per la sua certezza? Qui traspare il pensiero che anima, forse a loro insaputa, i continuatori del Rinascimento. Ei decorarono del titolo esclusivo di scienze esatte le matematiche, introduzione alle scienze fisiche, e dissero: « Fatti semplici, ben veduti e ben confessati, ecco il punto di partenza necessario d’ogni scienza. Seminate geometri, e da questa semente feconda nasceranno dovunque filosofi (Encicl., art. Elementi e Geometria) ». Difatti il mezzo non è mal trovato. Quando voi sarete riusciti a persuadere che nulla v’ha di esatto, cioè di vero, se non ciò che si può toccare colla mano, vedersi coll’occhio, provarsi con A più B, egli è evidente che non avrete più se non uomini empi e scettici. Tutte le verità che non saranno suscettibili di questo genere di prova, non innalzandosi più ai vostri occhi al disopra della verisimiglianza o della probabilità, cesseranno di essere per l’uomo illuminato punti di credenza e regole obbligatorie di condotta. Creare il materialismo in morale, il pirronismo in religione, in istoria ed in filosofia, ecco l’ultima parola delle scienze naturali diventate pagane. Se questo è un progresso, omaggio al Rinascimento!

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (7)

CAPITOLO XV

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA FILOSOFIA

Mentre il paganesimo classico si formula nell’ordine artistico col naturalismo e col sensualismo, esso si fa sentire nell’ordine puramente intellettivo mediante un influsso forse più funesto, sebbene meno palpabile. In nessun luogo fece più strage che nella filosofia. Chiamo filosofìa quell’ ardente ricerca della verità su Dio, sull’uomo, sul mondo, sul complesso degli esseri, sulla loro natura e sulle relazioni che li congiungono. Per spiegare questo immenso dominio, la ragione, (si capisce) ha qui d’uopo più che altrove, d’ un punto di partenza certo, d’una bussola affatto sicura e d’una pietra di paragone infallibile, che l’aiuti a distinguere il vero dal falso. Sotto l’impero del Cristianesimo, tutte queste condizioni di successo erano messe a sua disposizione. – Figliuola docile della fede, la ragione cominciava ad ascoltare le lezioni della madre. Poscia, prendendo per punto di partenza le verità ch’essa aveva imparato a sì infallibile scuola, ne ricercava le relazioni nascoste, ne dimostrava la ricchezza e la varietà, ne faceva applicazioni feconde d’ utili risulta menti. Aveva dubbi? Consultava la genitrice, paragonando le scoperte da lei fatte agli insegnamenti che aveva ricevuti, e sempre, da figliuola bennata, faceva ridondare i suoi trionfi a gloria della religione. In altri termini, e per parlare la lingua del più grande filosofo che il mondo abbia conosciuto nel sistema scientifico creato dal Cristianesimo e sì ben capito dal medio-evo, le scienze somigliavano ad una famiglia ottimamente ordinata. La teologia era la madre, tutte le scienze erano sue figliuole; la madre dava gli ordini, imprimeva la direzione; le figliuole lavoravano, ognuna nella sua orbita, per il bene comune. Lo scopo ultimo di tutti gli sforzi era la glorificazione ed il servizio della loro regina, la quale poneva in opera, pel bene fisico e morale dell’uomo, i risultamenti ottenuti da ogni scienza e dalla filosofia stessa, sua figliuola primogenita [“Theologia imperat omnibus aliis scientiis tamquam principalis, et utitur in obsequium sui omnibus aliis scientiis, quasi usualis … ita ut, cum finis totius philosophiæ sit intra finem theologiæ et ordinatus ad ipsum, theologia debeat omnibus aliis scientiis imperare, et uti iis quæ in eis traduntur.] D. TH. in lib.l, Sentent. Prolog. —“Non accipit sua principia ab aliis scientiis, sed immediate a Deo per revelationem. Et ideo non accipit ab aliis scientiis langua a superioribus, sed utitur eis tanquam interiorìbus, et ancillis.” [Id. S. Theol., p. l, q . 1, art. V.]. – Dalla certezza del punto di partenza, dalla direzione infallibile nella investigazione, dalla convergenza universale di tutte le scienze verso lo stesso scopo erano derivate e quell’assenza d’ ogni grave errore, e quella lucidità nelle definizioni, e quella ricchezza di vedute, e quella fecondità nelle applicazioni, e quel carattere d’unità e d’universalità nella scienza, e quella profonda intelligenza della verità, e quelle magnifiche speculazioni che riunendosi nelle opere di Sant’Agostino, di Sant’Anselmo, d’Alberto il Grande, d’Alessandro d’Ales, di San Bonaventura e di San Tommaso, come in un vasto specchio, illuminavano coi loro immortali splendori tutte le questioni le più astratte dell’ ordine religioso, politico, civile, domestico ed anche materiale. Sì splendori immortali, poiché i mille sistemi filosofici nati da tre secoli in qua, lungi dall’oscurarne la purezza, non fecero se non renderla più vivace; immortali, poiché ivi ancora bisogna ricorrere per ricercare lo scioglimento di tutti i problemi che tormentano il mondo. « Erede della filosofia dei Padri della Chiesa, la filosofia del medio-evo, dice il signor Moeller, appoggiandosi a credenze incrollabili, rimase sempre la stessa quanto ai principii; ed essa guadagnò così, con lavori secolari, una grandezza ed una estensione che mai fu eguagliata da verun’altra filosofia (Moeller, Stato della filosof. modem, in Alemagna, p. 4.) ».Ma le cose cangiarono affatto col Rinascimento. In tale età mille voci s’innalzarono d’ogni parte d’Europa per proclamare i sistemi filosofici della Grecia, il vero tipo della filosofia, il modello della libera discussione ed il vasto campo in cui la ragione doveva entrare se voleva giungere alla scoperta della verità. La prima cosa da fare in questo scopo era di persuadere alla ragione di cercare in se stessa il suo punto di appoggio e di cessare di pigliare l’insegnamento della Chiesa per base delle sue investigazioni filosofiche. E siccome la si era persuasa di finirla col suo passato letterario ed artistico, rappresentandoglielo quale il tipo dell’ignoranza e della barbarie, mille avvocati sostennero che la filosofia cattolica del medio-evo era la compressione dello spirito umano ed il tipo della servilità. E perché, ve ne prego? Perché essa pigliava per suo punto di partenza, per sua bussola e per sua pietra di paragone le verità indimostrabili della Fede.Dite dunque che la geometria, la chimica, tutte le scienze, di qualsiasi natura, sono la compressione della intelligenza, poiché tutte senza eccezione partono da assiomi o da principii indimostrati e indimostrabili. Voi pretendete che la Chiesa ostasse alla libertà del pensiero e che i dogmi da essa imposti alla ragione inceppassero il libero muoversi degli spiriti. Per provare che siffatti gravami addotti contro la filosofia cattolica sono fondati, voi dovreste anzi tutto dimostrare che i dogmi della Chiesa non sono verità le quali, come tali, formano le basi di ogni verace filosofia. Infatti, se i nostri dogmi sono verità, dov’è il motivo di ammettere che la filosofia la quale cerca la verità, possa trovarsi imbarazzata accettando una verità qualunque? Ora, sin qui, nessuno poté provare che i dogmi cattolici non siano verità. Sono ignorati, respinti; ma è sopra le umane forze il dimostrare che la fede della Chiesa sia un errore.Si poteva andare più lungi e chiedere agli avvocati del paganesimo rinascente, ai panegiristi della pretesa emancipazione intellettiva, se una filosofia che accetta per punto di partenza le verità della fede cattolica, sia più ristretta, meno libera di quella che prende per sola ed unica base la ragione umana? Egli è evidente per ogni uomo ragionevole, che una idea, quale essa sia, non potrebbe limitare l’esercizio della ragione se non in quanto è essa stessa limitata. Se dunque i dogmi cattolici non erano superiori all’umana intelligenza, il rimprovero degli apostoli della filosofia indipendente sarebbe stato fondato. Ma le verità religiose hanno un senso sì profondo, sì inesauribile, che nessuno spirito creato è capace di abbracciarle in tutta la loro estensione e di darne una spiegazione compiuta. Perciò, le rivelazioni divine, invece di limitare le facoltà della ragione umana, le offrono di continuo nuovi punti di veduta e danno sempre nuovo alimento al pensiero (V. Moeller, ib., p. 4). Queste così semplici osservazioni, che bastavano per ridurre al nulla le pretese dei nuovi venuti, o non furono fatte, o non furono ascoltate. D’ogni parte si accorse alla scuola dei filosofi pagani. Per entrarvi, bisognava soscrivere a questo adagio di Epicuro: che la vera filosofia non poteva nascere se non fra i Greci, poiché in ogni altra parte la tradizione regnava, e vi si soscrisse. La tradizione cattolica, l’insegnamento della Chiesa furono rigettati come ostacoli, e la sufficienza dell’umana ragione fu solennemente proclamata. Un tal principio preparava la conseguenza finale che fu dedotta ai dì nostri. « Concludiamo. Il Cristianesimo ha perduto il suo antico dominio sulle anime; la fede se n’è ritratta. Abbandonato dalla pubblica opinione, convinto d’inferiorità dalla moderna ragione, avverso al principio delle nostre istituzioni e delle nostre leggi, esso non può più, esso non deve presiedere alla educazione nazionale. Esso non lo può più, perché le sue lezioni non sono più ascoltate; esso non lo deve, perché scopo della prima educazione si è di formare cittadini, esercitati dall’infanzia all’intelligenza, all’amore ed alla pratica delle leggi del paese….« Il Cristianesimo non è più. Abbiamo d’uopo d’una religione; chi la farà? La mia risposta è prevedibile: la ragione ha vinto il Cristianesimo oltrepassandolo; tocca alla ragione di surrogare ciò ch’essa ha distrutto (1) ». Ben tosto i due grandi sistemi filosofici dell’antichità, quello di Platone e di Aristotele, cioè l’idealismo e l’empirismo, riunirono sotto le loro opposte bandiere tutti i professori di filosofia ed i loro scolari. Sotto la bandiera di Platone si schierò l’Italia, diretta dai Medici di Firenze, da Marsilio Ficino,da Andrea Porta e da altri distinti personaggi. Aristotele attrasse al suo vessillo prima l’Inghilterra, poscia l’Alemagna e la Francia. Cominciate al rinascere del paganesimo, queste due linee filosofiche parallele ed opposte si prolungano sino ai dì presenti. Cosa notevole! Le superbe pretese e l’impotenza assoluta, gli eterni tentennamenti, le fluttuazioni, le contraddizioni, gli errori mostruosi, le applicazioni formidabili di questa filosofia pagana nell’Europa moderna, sono esattamente le medesime che sorsero in seno all’antica Grecia. Oggidì come altre volte, essa può scrivere sulla porta delle sue scuole: Qui è l’officina di tutte le assurdità (“Nihil tam absurdi quod non dicatur ab aliquo philosopho”. Cicer.]. Ebbra di se stessa, cade da un estremo all’estremo opposto, senza poter mai tenere quel giusto mezzo in cui si trova la verità. Dal materialismo corre all’idealismo, dal panteismo allo scetticismo per riuscire adesso, come altre volte, all’abisso incommensurabile del razionalismo universale ed alla mina della società. Con Talete di Mileto, suo primo organo nell’antichità e fondatore della scuola ionia, essa proclama l’acqua e l’umido, cioè la materia, qual principio di tutte cose. La scuola italica e Pitagora suo fondatore, le danno una smentita e sforzansi di far regnare lo spiritualismo. Cinquantanni dopo, comparisce la scuola eleatica, i cui principali organi, Senofonte da Colofone, Parmenide e Melisso, professano il panteismo idealista e su vari punti giungono sino allo scetticismo. Colla scuola atomistica, fondata da Leucippo, il materialismo risale sul trono. Dalla contraddizione dei sistemi e dalle stragi del dubbio, sempre crescenti, le quali ne sono conseguenza inevitabile, nasce la scuola sofistica. A volte campioni del prò e del contro, i suoi discepoli si fanno un giuoco ed un’industria di sostenere e di combattere le proposizioni le più contraddittorie. Ancora alcuni anni, e la società greca, già sì caduca, si sfascerà sotto i loro colpi. Socrate giunge ed imprende ad opporre un argine al torrente del dubbio. Ei prende per oggetto la filosofia morale, e forma alcuni discepoli di cui il più celebre è Platone. Padre della scuola accademica, Platone dispiega tutti i mezzi del suo genio per rendere lo scettro allo spiritualismo. Aristotele suo discepolo glielo strappa e fa regnare l’empirismo, che, legato ai peripatetici, non tarda a riaccostarsi al materialismo. Epicuro ve lo fa entrare a piene vele. Discepolo dei successori di Aristotele, ei cava l’ultima conseguenza pratica dalla filosofia del maestro di Stagira. Il suo sistema è l’immoralità; il piacere è il bene supremo dell’uomo. Fondatore della scuola stoica, Zenone viene ad opporsi all’epicureismo. Il corpo è tutto, diceva Epicuro; il corpo è nulla, rispondeva Zenone; il piacere è l’unico bene, continuava Epicuro; il dolore stesso il più vivo non è un male, replicava Zenone. – Dopo cadute più o meno numerose, dopo resistenze più o meno impotenti, giunge, verso il finire del secondo secolo, Sesto Empirico. Relatore accanito di tutte le querele e di tutte le assurdità filosofiche, egli deduce la conclusione finale da questi dibattimenti di mille anni. La prima parola che cade dalla sua penna è contraddizione; l’ultima, scetticismo. Tale è il termine vergognoso a cui riesce la pagana filosofia. Durante il lungo periodo di sua esistenza, qual progresso ha essa effettuato? Quale verità ha essa scoperto? Quale virtù ha essa fatto praticare? Quale società ha essa resa migliore e più durevole? Un uomo non sospetto risponderà: « La storia della filosofia, dice il signor Ancillon, non offre se non un vero caos. Le nozioni, i principi, i sistemi vi si succedono, si combattono e si cancellano gli uni gli altri, senza che si sappia il punto di partenza e lo scopo di tutti questi movimenti, ed il vero oggetto di codeste costruzioni tanto audaci quanto poco solide. » Se essa fu impotente pel bene, chi dirà la sua potenza pel male? « 1 grandi errori della mente erano quasi sconosciuti nel mondo prima della greca filosofia. Essa li fece nascere, o per lo meno li sviluppò, indebolendo il rispetto per le tradizioni e sostituendo il principio dell’esame particolare al principio di fede (Saggio sull’indiff., t. III, p. 58) ». I sofisti prepararono la strada ai barbari.

CAPITOLO XVI

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Risuscitata alla metà del secolo decimoquinto, la filosofia pagana dà una seconda volta lo spettacolo della sua impotenza nello scoprire la verità, e della sua onnipotenza nell’ingenerare l’errore. Non è questa un’accusa volgare che noi ripetiamo per ripeterla dopo mille altri; la è una innegabile verità che non bisogna cessar di ridire. Il paganesimo filosofico ci uccide. Senza parlare degli errori mostruosi su Dio, sull’uomo, sul mondo, di cui macchiò la storia d’Europa da tre secoli in qua, il razionalismo attuale, il razionalismo dissolvente che minaccia la società d’un prossimo ritorno alla barbarie, non ne è se non l’ultima parola. – Infatti, rigettata la tradizione cattolica come un ostacolo e l’infallibilità della ragione posta in assioma; come impedire che il razionalismo in tutte le sue formidabili applicazioni alla religione, alla società, alla famiglia, alla proprietà, non diventi un articolo di fede, qualora salti in capo alla filosofia di proclamarlo? Ora, l’abbiamo visto, la sufficienza assoluta della ragione fu realmente, sebbene tacitamente, stabilita in principio sin dal primo giorno del Rinascimento. Tutte le investigazioni filosofiche ebbero luogo sotto il suo occulto influsso. Bentosto fu gettata via la maschera, e col mezzo di Lutero la ragione fu proclamata sovrana in materia di religione. – Cartesio stese il di lei impero e formulò chiaramente l’universalità de’suoi diritti (Roma condannò la logica di Cartesio nel 1613. Il protestantismo stesso l’anatematizzò nel sinodo di Dordrecht nel 1656; talmente il dubbio cartesiano minacciava il poco di credenza che rimaneva nella Riforma!). – Sentiamo i suoi ammiratori e gli organi suoi fedeli: « Spirito indipendente, novatore ardito, genio di singolare potenza, Cartesio amava troppo di farsi egli stesso le sue idee, di confidare a sé l’intimo suo sentire, perché ei non riconoscesse l’autorità della ragione individuale, e il diritto ch’essa ha di esaminare e di giudicare ogni specie di dottrina. È gloria di Cartesio l’aver proclamato e praticato questi principii, e di essere l’autore di quella intellettuale riforma che recò il suo frutto nel XVII e nel XVIII secolo, e che, oggi più che mai, esercita il suo influsso nel mondo filosofico. Oggi di fatto, grazie a Cartesio, siam tutti protestanti in filosofia; a quel modo che, grazie a Lutero, slam tutti filosofi in religione…. Noi non vogliamo credere che all’evidenza della verità (Globe, n. 147) ». Vediamo ora all’opera la filosofia nuovamente fatta pagana: con Platone essa professa lo spiritualismo puro, e non tarda a cadere nel panteismo idealista con Spinoza. Alla scuola di Aristotele essa si appassiona per l’empirismo: e Bacone da Verulamio insegna che la materia è la cagione delle cagioni, essa stessa senza cagione; Locke trova nella sensazione l’unica fonte delle idee; Condillac inventa l’uomo statua; Maillet giunge all’uomo-pesce, e il barone di Holbach, riassumendo nel famoso Sistema della natura il principio e le conseguenze di questa scuola, ci dà qual manuale della ragione e della condotta il complesso mostruoso di tutte le assurdità e di tutte le turpitudini del materialismo e dell’ateismo tanto antico quanto moderno. Hobbes, Hartley, Barclay, Priestley, Elvezio, Lamétrie, tutte le sommità filosofiche d’Inghilterra, di Francia e d’Europa, applaudirono al coraggio del loro confratello che diceva forte quanto essi pensavano piano. La società medesima, fatta incredula e materialista alla scuola dei moderni pagani, rispose a coro come la società antica nutrita delle medesime dottrine: « La verità è una chimera; il piacere è l’unica legge, l’unico dovere ». – Gli antichi sofisti avevano aperto la via ai barbari: i loro moderni discepoli consegnarono la società ai distruttori del 93: Il pensiero dei saggi aveva preparato la Rivoluzione, il braccio del popolo la eseguì. Tanto predicata da tre secoli, insegnata con tanta cura alla gioventù, spiegata con tante fatiche dai forti cervelli d’Europa, la filosofia pagana era oramai giudicata. Ma, devesi pur dirlo, malgrado questa spaventosa esperienza, l’umana ragione non fu guarita. Il suo divorzio con la fede, l’amore appassionato della sua pretesa emancipazione avevano lasciato sussistere in essa il germe del male. Sulle reliquie ancor fumanti dell’ordine sociale, essa spiegò le stesse pretese alla direzione intellettuale del genere umano. Qui ancora, come nell’antichità, l’ultima sua parola fu il dubbio universale e l’epicureismo. Cabanis osò dire a questa società coperta di sangue e di sozzure: « I nervi sono il principio del pensiero, la cagione dell’idea; l’effetto è di necessità quale è la cagione; dunque il pensiero, dunque l’idea è materiale: dunque l’uomo non è che una macchina, senza altra differenza tra lui ed il suo cane, tranne la grandezza dell’angolo facciale. » Sistema abbietto, al quale Destult di Tracy prestò il soccorso dell’arida sua ideologia. Se Cabanis fu il fisiologo e Destult di Tracy il metafisico del materialismo nel XIX secolo, Volney ne fu il moralista. « Conservarsi, ed a tal fine tutto tentare e tutto fare, ecco, secondo Volney, la grande legge dell’umana natura. Allora, che cos’è il bene? Che cos’è il male? La risposta è facile: Il bene è quanto tende a conservare, a perfezionare l’uomo; il male è quanto tende a deteriorarlo e a distruggerlo. Il maggior bene è la vita, il maggior male si è la morte: nulla v’ha al di sopra del bene fisico, nulla di peggio della sofferenza del corpo: il bene supremo è la sanità (Storia della filosofìa nel secolo deèimonono, t. Il, p. 119). – Carità, abnegazione, fede, speranza, sagrificio dell’interesse personale al pubblico bene sono le virtù degli imbecilli a prò dei bricconi. L’assassinio è un dovere ogniqualvolta è utile. Io, cioè il mio corpo, e poi nulla, ecco tutta la religione; non vi sono se non gli stupidi che possano averne un’ altra. Tale si è la filosofia di Volney. Ora, quando si pensa che tali massime sono state sparse per quindici anni con una spaventosa profusione; quando si pensa ch’ esse penetrarono in tutte le classi della società; che le grazie e la semplicità dello stile han fatto del catechismo di Volney il libro dei salons e delle capanne: si ha forse a stupire del carattere profondamente epicureo dell’età nostra? – In questo sistema, Dio è evidentemente nulla, l’anima è nulla: tutto è materia. Però la nostra filosofia pagana intraprese una reazione spiritualistica contro il moderno Epicuro, come lo aveva di già fatto contro l’antico. I signori Royer-Collard, Cousin, Jouffroy, ed il Globe, si.assunsero la missione di ristaurare lo spiritualismo. Ma priva di base e di bussola, la loro filosofia è caduta nel panteismo e nello ecletticismo senza esautorare il sensualismo di Volney. Il panteismo si trova a grandi caratteri nelle opere di Cousin. Quanto all’ecletticismo, ei non è altra cosa, sotto un nome diverso, se non se lo scetticismo ed il razionalismo assoluto. Uno de’suoi più fervidi apostoli, Jouffroy, è morto nelle angosce di un dubbio orrendo. Tutte le generazioni attuali che ne sono imbevute, sono profondamente incredule: ecco quanto allo scetticismo. Che l’ecletticismo sia pure il razionalismo al suo più alto grado, eccone la prova. – Il pensiero confessato altamente, insegnato chiaramente dai suoi organi, si è che la verità compiuta, la verità tale quale deve essere conosciuta per soddisfare a tutti i bisogni della ragione, è ancora da trovare: nessun sistema filosofico, nessuna religione, nemmeno il Cristianesimo, ne è l’espressione adeguata. Quindi per essi la necessità d’una ricerca universale in tutti i sistemi ed in tutte le religioni, affine di prendervi ciò che è vero, e con tutte queste verità sparse formare un simbolo totale. Ma quale sarà la loro pietra di paragone per distinguere la verità dall’errore? La ragione forse di ogni individuo, o di un solo individuo, riconosciuto per maestro infallibile? Nell’uno e nell’altro caso, voi deificate la ragione e create il più vasto razionalismo che mai si sia visto. Essi ne convengono: « Poiché, dicono, appartiene alla ragione individuale il diritto di esaminare e di giudicare ogni specie di dottrina (Globe, n. 147) ». Ma almeno, sanno essi quali nuove dottrine sostituiranno alle vecchie? Non ancora; essi le cercano. La loro risposta merita d’essere conosciuta: « Le dottrine che devono presiedere alla nostra vita morale, religiosa, politica, letteraria, sta a noi il farle, poiché i nostri padri non ce ne legarono se non delle sterili e logore…. Bisogna dunque fabbricarne delle nuove. Questa necessita dell’età nostra è compresa o piuttosto è sentita da tutti gli animi (ib. n. 56). » È chiaro: il razionalismo non spiegò mai pretese più orgogliose; giammai la ragione, emancipata dalla tutela della fede mediante la filosofia pagana, si mostrò più stupidamente superba; giammai il mondo fu più vicino a nuove e spaventose catastrofi, inevitabili castighi della rivolta spinta sino all’imitazione di satana. Ciò che v’ha di più spaventoso, ciò che mostra sino a quale profondità il paganesimo filosofico sia entrato negli animi, si è che i sapienti del secolo soscrivono senz’altro a queste altiere pretese. Ei chiamano la ragione una rivelazione permanente di Dio, i cui diritti a nessun riguardo si devono sacrificare (Discorso del sig. Di Lamartine, nov. 1843). Credono mostrarsi assai generosi e ben meritare dei cattolici permettendo alla religione di trattare da eguale a eguale colla ragione, di dividere con essa l’impero dell’uomo, dando all’una la sovranità dello spirito ed all’altra la direzione del cuore. « La, religione e la filosofia sono due sorelle immortali, che non possono perire. La religione e la filosofia nacquero lo stesso giorno, il giorno che Dio pose la religione nel cuore dell’ uomo e la filosofia nel suo spirito; bisogna che esse vivano insieme, immortali, l’una a fianco dell’altra, che non si separino, e che nei tempi di prova cerchino d’avvicinarsi anziché di distruggersi (Il sig. Thiers, Discorso sull’istruzione pubblica, 18 gen. 1850). – Ma già i laici del paganesimo negano questa pretesa eguaglianza della religione e della ragione: ei dicono senza velo che la religione non è che un principio di oscurantismo e di corruzione, che la ragione sola è sovrana. « Io proverò, scriveva poco fa un discepolo del signor Cousin (Il sig. Jacques nella Libertà di pensare.), che il catechismo imbestialisce l’infanzia; proverò quindi che la corrompe… bisognava che la ragione si stabilisse al fine sovrana nel suo dominio. Ciò accade nel XVII secolo; Cartesio proclama l’affrancamento definitivo del pensiero, e, nel rispetto ch’egli esprime ancora per la Chiesa e per la teologia, è facile ravvisare un po’ d’ironia e molta prudenza… È egli d’uopo rammentar qui Voltaire e Rousseau? è egli d’uopo aggiungere che le loro dottrine, inspirate dallo spirito del secolo, si sono impadronite della società francese abbastanza fortemente per realizzarsi in qualche guisa nell’ordine dei fatti politici, sostituendovisi con violenza allo spirito del passato, mediante la gran rivoluzione dell’89? Così la ragione, che ancora non era se non se affrancata, è oramai sovrana. La sua volta è venuta di organizzare la società e di governare lo Stato. Divinizzate anche dal popolo, la ragione e la libertà surrogano gli Dei scaduti del Cristianesimo sugli altari donde le passioni popolari li precipitarono. La Convenzione decreta, in nome della ragione, l’esistenza dell’Essere supremo; non vi è più altro culto, altra religione che la religione della ragione ed il culto della libertà. Ecco la storia ».Sì, ecco la storia della filosofia moderna sotto l’influsso del paganesimo classico, non solo in Francia, ma in tutta Europa. Avrei potuto mostrare questa filosofia producente ovunque e soprattutto in Alemagna gli stessi errori, preparando gli stessi delitti, producendo le stesse calamità che in Francia. Basterà dire ch’essa vi giunse non solo in pieno paganesimo, ma sino a quelle regioni vicine all’inferno in cui la ragione, profondamente pervertita, non sa più se non bestemmiare Iddio ed invocare il nulla. Per giustificare la nostra asserzione, ci si permetta di citare le opinioni attuali dei suoi rappresentanti i più accreditati, col giudizio dei loro discepoli. « Vi sono quattro cose, diceva Goethe, che io egualmente detesto: il tabacco e le campane, le cimici ed il Cristianesimo. » Questa spaventosa bestemmia è, secondo la Libertà di pensare, « l’espressione la più ingenua dell’invincibile ripugnanza che il Giove Olimpico dei tempi moderni provava per l’estetica cristiana. Si è per istinto che Goethe odiava la rivoluzione morale che sostituì la Vergine pallida ed infermiccia all’antica Venere, ed alla perfezione ideale del corpo umano rappresentato dagli Dei della Grecia, la magra immagine d’un crocifisso stiracchiato da quattro chiodi. Dopo ciò non fa più meraviglia vederlo porre innanzi al suo letto, esposta a levante la testa colossale di Giove, acciò ei possa al suo svegliarsi rivolgergli la sua preghiera del mattino. Inaccessibile al timore ed alle lacrime, Giove era veramente il Dio di quel grand’uomo. – « Hegel non si pronunciò meno decisamente per la superiorità dell’ideale religioso degli Elleni e contro l’intrusione degli elementi siriaci o galilei. La leggenda del Cristo gli sembra concepita nello stesso sistema della biografia alessandrina di Pitagora; essa ha luogo nel dominio della realtà la più volgare, e non già in un mondo poetico; è un miscuglio di semplicità meschina, di pallide chimere, come se ne in contrano fra le persone fantastiche che non hanno una bella e forte immaginativa. L’Antico ed il Nuovo Testamento non hanno, ai suoi occhi, alcun valore estetico.« Codesta è la stessa tesi che tante volte eccitò il brio spiritoso e la fantasia umoristica di Enrico Heine: ma il signor Luigi Feuerbach, capo della giovine scuola alemanna, è forse l’espressione la più compiuta e la più sviluppata di questa antipatia contro il Cristianesimo; e se il secolo XIX dovesse vedere il finimondo, certo sarebbe lui che bisognerebbe chiamare l’Anticristo ». – Per poco ei non definisce il Cristianesimo un pervertimento della natura umana « Non vi sono che degli ignoranti o degli spiriti superficiali che indirizzar possano all’antichità il rimprovero di materialismo. – L’antichità rappresenta la natura ed il finito; falsati quali noi siamo dalle nostre idee soprannaturali e dalla nostra sete d’infinito, quell’Arte così limitata, quella morale sì semplice, quel sistema di vita sì bene fissato d’ogni parte, ci sembrano una realtà circoscritta. Castore e Polluce, Diana e Minerva sono per noi freddi e senza ideale, perché rappresentano la natura sana e normale. Ma lo spiritualismo cristiano è, nel fondo, ben più materiale … Tutte le false idee che vi sono nel mondo in fatto di morale e di estetica sono derivate dal Cristianesimo. La Grecia, con un tatto divino, aveva afferrato in tutto la perfetta misura, fuggitiva ed inafferrabile gradazione che si intravede per istinto, ma in cui uno non può mantenersi….» – « Non è solamente il sovrannaturale che cade sotto la critica della nuova scuola alemanna: il signor Feuerbach e tutti i filosofi di questa scuola riconoscono senza esitare, che il teismo, la religione naturale, ogni razionalismo che ammette qualche cosa di trascendente, deve essere posto sullo stesso piede del sovrannaturale. Credere a Dio ed all’immortalità dell’anima è ai suoi occhi altrettanto superstizioso quanto il credere alla Trinità ed ai miracoli. La critica del cielo non è più se non la critica della terra; la teologia diviene l’antropologia. « La scienza che un uomo ha del suo Dio non è che un altro nome per indicare la scienza ch’egli ha di se stesso, la coscienza ch’egli ha del suo io ». Ogni considerazione del mondo superiore, ogni sguardo gettato dall’ uomo al di là di se stesso e del reale, ogni sentimento religioso, sotto qualsiasi forma si manifesti, non è che un’illusione (Libertà di pensare, 20 novembre 1850) ». Per coronare questo spaventoso sistema d’empietà, Feuerbach termina la sua Tanatologia dichiarando ch’egli ama meglio tuffarsi nel niente, che non incontrare nella sfera delle ombre Socrate, Sant’Agostino e tanti altri eroi. Poi, come conclusione finale di ogni sua filosofia, invita i suoi adepti ad adorare la morte! – Facile sarebbe moltiplicare le citazioni. Quelle che precedono sono più che bastevoli per dimostrare gli eccessi inauditi, l’influsso disastroso e sempre attuale del paganesimo filosofico, nonché l’indispensabile necessità di ritornare senza indugio alla filosofia cristiana, se vogliamo prevenire un nuovo e forse ultimo cataclisma

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (6)

CAPITOLO XII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA LINGUA

Se è cosa innegabile che il paganesimo introdotto nella educazione della gioventù modificò profondamente i pensieri, e, in qualche guisa, l’essere dei popoli moderni, è pure innegabile che la forma del pensiero, cioè la parola e l’Arte, deve portare tracce non meno profonde di simile influsso. A quanto abbiamo detto della poesia e della letteratura aggiungiamo una parola sulla lingua ordinaria, la quale riceve più direttamente l’influsso della letteratura o della lingua dotta. Parleremo poscia dell’Arte. – Tutti sanno che lo stile è l’uomo; che la lingua di un popolo altro non è se non la forma esterna del suo pensiero, dei suoi gusti, del suo modo di giudicare e di sentire. Se un tal popolo è cristiano, la sua lingua sarà cristiana; se un tal popolo è profondamente cristiano, la sua lingua sarà profondamente cristiana. All’opposto, se un tal popolo è pagano, la sua lingua sarà pagana; s’esso è profondamente pagano, la sua lingua sarà profondamente pagana. Egli è questo un infallibile termometro per giudicare che fatta d’idee regni in un popolo egualmente che in un uomo. – Ora abbiamo veduto che da secoli il paganesimo, cioè il naturalismo ed il sensualismo, giungendo incessantemente per la grande strada dell’educazione alla radice stessa della società, penetrò profondamente fra i popoli d’Europa. Che la loro lingua portar ne debba l’innegabile suggello, il solo enunciare così fatta proposizione si è un dimostrarla: tuttavia, stabiliamola con fatti. Nel medio-evo, la lingua delle nazioni d’Europa è affatto calcata sulla lingua religiosa: essa ne è, per dir così, profumata. Lo spiritualismo ed il sovrannaturale si rinvengono d’ogni parte; le parole cristiane, i nomi sacri escono naturalmente d’ogni labbro: il sugo cristiano anima la parola e vivifica il pensiero. La parola, a volte grave, semplice, nobile, viva, abbondante, naturale, affettuosa e sempre vera, comunica tutte codeste qualità al pensiero. Nulla di più agevole a provare. Basta, per questo, aprire i Capitolari dei nostri re e le carte degli antichi tempi; di consultare i nostri storici, quali Joinville, Froissard o Davila; di leggere i discorsi dei cancellieri delle nostre Università, le Mercuriali dei presidenti dei nostri Parlamenti, ed altri documenti pubblici od ufficiali. – Giunge il paganesimo classico: tosto la lingua muta carattere. Essa comincia dal perdere la sua abbondanza e la sua semplicità. Fénélon medesimo non poté non farne l’osservazione. « La nostra lingua, egli dice, manca di un gran numero di parole e di frasi: mi sembra anzi che sia stata imbarazzata ed impoverita da cento anni in qua volendola purificare. È vero che era ancora un po’ informe e troppo verbosa. Ma la vecchia lingua si fa desiderare quando la troviamo in Marot, in Amyot, nel cardinale d’Ossat, nelle opere le più gaie e nelle più serie: essa possedeva non so che di breve, d’ingenuo, di ardito, di vivo, di appassionato (Lettera sull’eloquenza.). » Quindi il sugo cristiano diminuisce; il sovrannaturale diventa più raro; le antiche formule che l’esprimevano sì bene o spariscono del tutto, o sono notevolmente alterate. Se ancor ne rimangono vestigie, nella lingua del popolo fa mestieri cercarle: la lingua dei letterati ne è sprovveduta. Per lei, le parole cristiane paiono anticaglie. Essa non le pronuncia più se non se di raro e come a malincuore.Quindi l’adorabile nome di Nostro Signor Gesù Cristo non si trova una sola volta scritto in tutte lettere nei discorsi del mondo legale da più di sessant’anni in qua. Mentre l’uomo del mondo si fa una gloria di citare Orazio e Virgilio, non gli avviene mai di citare una massima dell’antico o del nuovo Testamento. I nomi dei filosofi pagani gli spuntano naturalmente sulle labbra; quelli degli Apostoli o dei Profeti mai o quasi mai. S’egli vuol fare l’elogio di una virtù, non dice già una virtù cristiana, ma sì una virtù antica; s’egli vuol offrirci il tipo di un grande carattere, non dice già un carattere cristiano, ma sì un carattere antico. Dovunque può, sostituisce parole pagane o profane, parole di significazione meramente naturale alle parole di significazione sovrannaturale. Per dire Iddio, dice Divinità, Essere supremo, Natura; per dire religione, culto; per dire fede, convinzioni od opinioni religiose; per dire carità, filantropia, umanità; per dire elemosina, assistenza. Sull’orlo della tomba, il requiescat in pace cattolico dà luogo alla formula pagana: la terra ti sia leggera. Facile cosa sarebbe il citare una quantità di altre sostituzioni, testimonio manifesto dell’alterazione del pensiero cristiano. Non parlo di un grandissimo numero di parole o di formule della lingua religiosa, che mai non si trovano in certi scritti, in certe storie, in certe opere sulle scienze fisiche o politiche, se non forse con accompagnamento di dispregio e di bestemmia. Ciò è così vero, che voi potete conversare a lungo con un letterato, non importa su quale argomento, sènza riconoscere al suo linguaggio s’egli è ebreo, protestante o seguace di Budda. Lo stesso ne è della maggior parte delle moderne scritture: l’impronta cattolica ne è talmente dileguata, che quasi sempre si può chiedere se l’autore ha una religione e se lo scritto vien da Parigi, da Ginevra o da Costantinopoli. Ora, tutto ciò è ad un tempo una ridicolezza, una vergogna ed uno scandalo; ma è il frutto legittimo del paganesimo classico. È una ridicolezza, poiché vi è lo strano contrasto delle parole pagane e delle anime battezzate; è una vergogna, perché vi è un sintomo dell’indebolimento e della perdita totale della fede; è uno scandalo, perché le nazioni non più potendo distinguere ciò che noi siamo in fatto di religione, vuoi al nostro linguaggio, vuoi ai nostri pubblici costumi, non sanno qual posto assegnarci fra i popoli. Questa ridicolezza, questa vergogna, questo scandalo, diventarono nel calendario repubblicano la lingua ufficiale della nazione, la quale, nutrita di paganesimo, cioè di sensualismo e di naturalismo, trovava affatto logico conformarsi ai suoi modelli così nel suo linguaggio come nelle sue istituzioni e nei suoi costumi. Pronta giustizia, è vero, fu fatta di una tale prova prematura. Nondimeno, se vogliamo sapere a qual grado di profondità il paganesimo sia penetralo nello spirito pubblico, con quanta forza si sia fermato nelle nostre idee, e quale immensa via ci abbia fatto fare, basta un semplice confronto, il cui profondo significato non potrebbe essere negato.Oltre l’interesse morale ch’esso offre, un tal confronto ha un interesse di curiosità altrettanto più vivo, in quanto che a mia saputa non fu mai fatto. Io lo rinvengo nel nome del vascelli, a tre secoli di distanza. Scelgo questo punto di confronto, perché gli elementi ne son certi; perché i due fatti paragonati sono una manifestazione autentica del pensiero dominante nelle due età; finalmente perché il fatto contemporaneo è talmente accettato, che non si potrebbe tentare di nulla cambiarvi senza cagionare un immenso stupore e senza suscitare una infinità di reclamazioni e di sarcasmi.Nel 1571 dunque, i vascelli delle grandi potenze marittime d’Europa si trovavano riuniti nel golfo di Lepanto, in cui dovevano riportare la celebre vittoria che annientò nelle onde la potenza invaditrice dell’Islamismo. In allora, sebbene il paganesimo classico fosse in tutto il suo fervore, non si trovavano ancora in una flotta di 204 navi se non due nomi pagani, quelli di Diana e di Sirena, mentre quella ci offre sessantotto nomi di santi o di sante. Ecco ora il secondo termine di paragone. Il quadro generale della marineria francese, pubblicato nel 1846, offre 371 navi di ogni grandezza. Di queste 371 navi non una sola porta un nome di santo (bisogna eccettuare il Santi-Petri che non è d’origine francese), mentre ottantacinque hanno nomi pagani, e quanto v’è di più pagano.—Questo confronto prova certamente qualche cosa, poiché il linguaggio, massime poi il linguaggio ufficiale, esprime le idee dominanti in un popolo, a quella guisa che il termometro è l’indicatore fedele dei gradi della temperatura. Ma se vogliamo sapere tutto ciò che prova, bisogna ricordarsi non solo che quei nomi pagani furono imposti ai nostri vascelli da uomini letterati, ma eziandio ch’essi non sono disapprovati da nessuno: bisogna ricordarsi inoltre, che, in tutto il rimanente la lingua seguì lo stesso moto, cosicché la nomenclatura pagana della marineria non è già un fatto isolato, ma semplicemente un punto di vista di un fatto universale. Ciò posto, per misurare con esattezza, se non matematica, almeno approssimativa, la strada percorsa dal paganesimo in Europa da tre secoli, bastano (sembra) le regole di proporzione seguenti: Nel secolo decimosesto, il paganesimo stava alla società come due sta a duecento quattro. Trecent’anni più tardi, oggidì, il paganesimo sta alla società come ottantacinque sta a trecento settantuno. Checché ne sia del valore assoluto di siffatto calcolo, non è però nien vero che, per nominare le più magnifiche opere del suo genio, di quel genio ch’ei ricevette da Dio e per la gloria di Dio; che, per porre i suoi vascelli sotto la protezione celeste; che per ispirare ai suoi marinai perduti frammezzo l’Oceano, lontani dalla patria, esposti a formidabili pericoli, consolanti e salutari pensieri, il Regno Cristianissimo non seppe pronunciare una volta sola il nome di un santo, non seppe volgere una sola volta i suoi sguardi verso il ciclo! In cambio seppe percorrere tutte le contrade pagane, rammentare tutti i nomi pagani, evocare tutti gli Dei celesti, terrestri e infernali per battezzar le sue navi e loro affidare i suoi naviganti! È un’altra Firenze, la regina della pittura, la quale colloca ogni sala della sua Galleria sotto il vocabolo di una divinità pagana. Dovunque, lo stesso linguaggio; dunque da per tutto la stessa idea.

CAPITOLO XIII

INFLUSSO BEL PAGANESIMO CLASSICO SULLE ARTI

L’influsso pagano, che abbiamo provato sulla lingua, dovette di necessità pesare sulle arti, nuova manifestazione del pensiero. Ora, vi è un’Arte cristiana, come vi è una letteratura cristiana. Nata il primo giorno che il cristianesimo celebrò gli augusti suoi misteri, vuoi nel cenacolo di Gerosolima, vuoi nelle catacombe di Roma, cotale Arte lasciò da per tutto tracce di sua esistenza. Sviluppatasi cogli anni, essa aveva, molto tempo prima del secolo decimoquinto, raggiunto un alto grado di perfezione. – Il medio-evo aveva veduto il più prodigioso progresso artistico, di cui la storia d’un popolo faccia menzione. – Cominciando il secolo undecimo, il mondo cristiano pressoché tutto, ma specialmente l’Italia e le Gallie, preso ad un tratto da un divino entusiasmo, si pose a rinnovare le sue antiche basiliche, quantunque la maggior parte fossero in condizioni convenevole in ricchezza e di conservazione. Una sublime rivalità nacque tra i popoli a chi ergerebbe i più magnifici monumenti. Le flotte dei Pisani, dei Genovesi e dei Veneziani solcavano tutti i mari, visitavano tutte le isole per toglierne l’alabastro, il porfido ed i marmi i più rari. Non mai i Romani fecero scorrere, per edificare i giganteschi loro monumenti, le loro strade, i loro acquedotti, le loro naumachie, ì loro circhi ed i loro anfiteatri, fiumi d’oro sì abbondanti come quelli che i religiosi nostri antenati scorrer fecero per costruire le loro cattedrali e per ornarle. Detto sarebbesi che il mondo medesimo, scuotendo le vecchie sue vesti, avesse fretta di coprirsi, come di un manto di gloria, di chiese, di basiliche sfolgoreggianti d’azzurro, d’oro e di porpora. Lo stesso progresso continuò nei tre secoli seguenti. Sul finire di sì glorioso periodo, l’Europa apparisce agli occhi stupefatti risplendente di capi d’opera d’architettura, di scultura, di mosaico, di pittura e di cesellatura che noi possiamo bensì ammirare, eguagliare non mai. Infatti, mentre il genio della Fede, personificato in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Alemagna, in una quantità di grandi uomini sconosciuti, lanciava negli spazii quelle cattedrali a proporzioni gigantesche e perfettamente armoniche, esso animava del divin suo soffio lo scultore che tagliava in merletto le miriadi di guglie, la cui punta slanciata sembrava recare la preghiera sino al cielo; poscia faceva uscire dalla pietra e dal marmo quei popoli interi di statue, i quali, per ammaestrare della vita il pellegrino, gli riponevano solt’occhio le auguste e formidabili reatà del mondo futuro, le battaglie ed i trionfi di coloro che preceduto l’avevano nel pellegrinaggio dal tempo alla eternità. – Guidato dalla mano immortale di Cimabue, di Pisano, di Giotto e di altri molti, il pennello cattolico scriveva sulle muraglie delle basiliche, e talora sulle pareti delle più umili cappelle, la meravigliosa epopea del Cristianesimo, ed innalzava l’arte ad una perfezione da far disperare i meno valenti. Il mosaicista smaltava, come un pavimento, lo spazzo e la volta del tempio di fiori immortali e di disegni a mille colori; il cesellatore incideva sui vasi sacri o i misteri dell’Uomo-Dio, o le vite dei santi, o gli emblemi delle Virtù: il vetraio, l’orefice, il ricamatore gareggiavano di zelo e di fortuna, in guisa che appena era dato d’incontrare un umile tempio, un povero monastero che non contenesse qualche prezioso oggetto d’arte. In una parola, grazie al cristianesimo, che in allora operava nella pienezza del suo potere, l’Europa fu un vero museo, ma un museo casto, morale, nel quale l’Arte, diventata ciò che esser deve, un sacerdozio, aveva tradotto in capi d’opera d’ogni genere il principio spiritualista che la inspirava. – A tale punto si era quando il paganesimo classico invase l’Europa. Ora egli è nella natura delle cose che le arti ricevano l’impulso dalla letteratura e camminino nella sua via. Diventata pagana, la letteratura comunicò dunque alle arti una direzione pagana. La pittura fu la prima a prestare il suo concorso a questa felice restaurazione del paganesimo in seno delle genti cristiane. A questa età, per la prima volta il pennello del pittore, che la religione consacrato aveva presso che esclusivamente a esprimere le cose sacre, fu prostituito a riprodurre le divinità e i fatti mitologici sulla tela, sulle pareti e persino sulle volte dei palazzi. Dalle dimore dei grandi si videro sparire i quadri religiosi per dare luogo alle infamie della favola. Per avere un’idea della licenza e dell’impudente oscenità delle pitture fatte a quest’epoca, basti dire che gli Dei e le Dee d’Olimpo, in uno stato di nudità totale e nelle più lubriche attitudini, ornano le gallerie delle case principesche, così che gli occhi i meno casti non le possono mirare senza che la fronte arrossisca. Si è senza dubbio per questo, che l’accesso a tali gallerie non è lecito a tutti, ma solo alle persone d’una classe elevata, e solo nei giorni di ricevimento; certo, in quei giorni, e per tali persone, quei quadri non hanno nulla che offender possa il pudore! Non bastò il riempiere le case di Veneri, di Ninfe, di prostitute; la licenza dell’Arte, fatta pagana, giunse sino a macchiare la santità dei templi del vero Dio. L’antichità cristiana aveva sempre abbigliato di vesti e di eleganti drappi gli angeli, rappresentati nell’atteggiamento d’un pudore tutto celestiale; in questo secolo furono affatto svestiti, e presentati agli occhi dei fedeli sotto la forma di Genii pagani. Si andò anche più lontano, dipingendo i santi e le virtù. Uomini e donne per metà nude, tali furono i santi, le sante e le virtù che furono offerte alla venerazione dei cristiani. Fra mille esempi, ne citerò un solo, il Giudizio finale di Michelangelo. In questo quadro, in cui la carne domina ben più che non lo spirito, in cui la nudità delle membra cancella l’idea cristiana, si ammirano la perizia del pittore, il vigore del suo pennello, la possanza del suo genio: ma il sentimento cristiano non vi si trova quasi, e la pietà ancora meno. Come, per esempio, sopportare l’idea che il supremo Giudice dei vivi e dei morti abbia l’aria irritata d’un semplice mortale, l’atteggiamento convulsivo di Giove che lancia il fulmine, o di Nettuno che biasima i flutti? In questa mancanza di verità traspare l’influsso del mito olimpico sovra il genio dell’artista cristiano. Raffaello medesimo fu trascinato dal torrente. Il mirabile ingegno ch’egli aveva ricevuto dal cielo per predicare lo spiritualismo cristiano, fu da lui prostituito troppo spesso al sensualismo pagano. Primieramente ei non arrossì dal riprodurre, non so quante volte, la più infame delle Dee; poscia dal macchiare i suoi quadri religiosi, anche i più pregiati, colle figure di meretrici. Lo stesso ne è del Tiziano, di Giulio Romano e di tutti gli altri pittori, discepoli del Rinascimento. Per giudicare d’un solo colpo d’occhio la fatale influenza del paganesimo sulla pittura, basti visitare la galleria del palazzo Pitti a Firenze. Qui comincia il pagano sensualismo; qui, per consacrare in qualche guisa le rimembranze della sua culla, esso riunisce la più parte delle opere capitali dovute alla sua ispirazione. Vi si vede cogli occhi, vi si tocca colle mani questa verità, che il Rinascimento fu in pittura ciò che esso fu in letteratura: il culto della forma e l’apostolato del sensualismo. Questo tempio della pittura si divide in quindici cappelle o sale. Non una ha ricevuto una denominazione cristiana; tre hanno nomi insignificanti: sale della Stuffa, dei Ragazzi, dei Poccetti. Le altre dodici hanno il nome di una divinità pagana o d’un semideo: sala di Venere, sala d’Apollo, sala di Marte, sala di Giove, sala di Saturno, sala dell’ Iliade, sala dell’Educazione di Giove, sala di Ulisse che ritorna in Itaca, sala di Prometeo, sala della Giustizia, sala di Flora, sala della Musica. Per tema che non si capisca il pensiero che presiedette a tali disposizioni ed a tali denominazioni, le ultime sale sono le più magnifiche, quella di Venere è la prima. Ogni divinità tutelare è dipinta sul soffitto della sua sala coi suoi casti attributi, ossia nello adempiere qualche azione mitologica; azioni, l’una più dell’altra capace di ispirare celesti pensieri!! Al disotto, sulle quattro pareti del santuario, voi vedete brillare i quadri dei grandi maestri del Rinascimento. Si direbbero degli ex voto che testifichino la gratitudine degli artisti per il Dio o per la Dea alla cui ispirazione essi sembrano dichiararsi debitori delle opere del loro pennello. – Oso sfidare di trovare una traduzione più letterale del pensiero artistico nel secolo sedicesimo, che non tutto questo spettacolo così perfettamente pagano; una testimonianza più irrecusabile dell’alleanza adultera della pittura e del paganesimo, avvenuta a questo tempo. La Galleria di Firenze non dice forse al giovine artista costretto di visitarla, come il tirone è costretto di fare il suo giro della Francia: « Innalza gli occhi al soffitto delle mie sale; ecco gli Dei della pittura, ecco quelli che ispirarono i capi d’opera che brillano ai loro piedi. Tu non devi cercare nel cielo dei cristiani ispirazioni e modelli: l’Olimpo ti basta, la strada ti è aperta dalle luminose tracce dei grandi maestri: lavora, imita, spera ». E che mai deve egli imitare? Ciò che ha sotto lo sguardo? E che cos’ha egli sotto lo sguardo? Quadri che si dividono in due grandi classi: gli argomenti profani e gli argomenti religiosi. – I primi sono trattati dai maestri con una perfezione che rammenta certi affreschi di Pompei; si vede che furono dipinti con entusiasmo. Ve qualche figura innanzi alla quale il chirurgo può fare un corso di anatomia. La dolcezza, la forza, lo splendore, le più delicate gradazioni della carnagione; le fibre, i nervi, i muscoli, i più piccoli tendini; il complicato congegno degli organi, la loro dilatazione o la loro contrazione, secondo l’impressione naturale del piacere o del dolore, nulla vi manca. A tutte queste doti vanno congiunte la regolarità delle proporzioni, l’esatta naturalezza delle posizioni, la bellezza del colorito che rapisce. La forma materiale e la sensazione fisica si trovano espresse con una indicibile perfezione. – Quanto agli argomenti religiosi, s’indovina ciò ch’ei possono essere: il pittore li fece a sua immagine com’ei medesimo si era fatto a immagine dei modelli pagani e profani. La forma materiale nulla e quasi nulla lascia a desiderare. Voi avete begli uomini e belle donne, delle Grazie, delle Ninfe, delle Dee; ma di santi e di sante poco o niente. Voi scoprite, anche senza volerlo, nei santi, nelle sante, nei martiri, negli angeli, un’aria di famiglia con Apollo, con Giove, colle Muse, cogli eroi e colle eroine dell’antichità, la quale vi rende palpabile la pagana ispirazione. Si cerca il cielo, non si trova se non l’Olimpo: l’occhio ammira, ma il cuore non prega. Un intero ordine di sentimenti, d’idee, d’immagini, deposto in noi dalla religione e che compone il fondo del nostro essere sovrannaturale, rimane senza traduzione. Il pittore non ci capisce; il suo linguaggio non è il nostro: egli parla di carne, e noi parliamo di spirito. Essere muta per lo spiritualismo è la prima disgrazia della pittura discepola del Rinascimento; come il primo rimprovero che le si deve fare, si è di esser diventata il più pericoloso apostolo del sensualismo. Essa ne merita un altro, molto più grave. Prima del suo divorzio, essa non dipingeva il nudo. Ciò per due motivi; il primo, perché la religione cristiana, essenzialmente spiritualista e morale, lo vieta. Ora la pittura, docile figliuola della sua casta madre, prendeva se stessa in considerazione, e considerava sé come un sacerdozio destinato a tradurre un ordine d’idee, di sentimenti e di bellezze, superiore ai sensi; il secondo motivo, conseguenza del primo, perché la pittura del nudo non era per nulla necessaria alla perfezione dell’Arto cattolica. Si procurava esclusivamente di rendere la bellezza spirituale, la cui sola vista innalza al disopra dei sensi. Ora, cotale bellezza si riflette unicamente negli occhi e nei lineamenti del viso. Quindi l’incomparabile purezza delle figure ed il tipo veracemente divino, che distinguono le opere dei grandi maestri anteriori al Rinascimento. Si vede che questa parte assorbiva le loro cure ed il loro ingegno. Tutto il rimanente, riguardato quale un accessorio, è trattato con una certa negligenza, diventato il soggetto eterno di rimproveri spinti sino all’ingiustizia. Questa dignità, questa santa missione dell’Arte fu sconosciuta dai nuovi artisti. Formati alla scuola del paganesimo, essi non videro abitualmente se non se la beltà materiale, e, per farla spiccare, dipinsero il nudo, e, infelici! lo dipinsero con un’abbondanza e con frontatezza tale che fa abbassare gli occhi alla virtù, e che coprirà per sempre di rossore la fronte la meno pudica. È egli questo un progresso? È egli questo l’uso legittimo dell’arte? Non ne è forse la profanazione? Dio ha Egli dato all’uomo il genio per corrompere con maggiore perizia? – Sotto l’influsso del paganesimo la pittura cessa dunque, tranne sempre onorevoli eccezioni, di essere la lingua dello spiritualismo, per diventare la lingua del sensualismo. Pel fondo, essa ha perduto infinitamente di più che non abbia guadagnato nel rivolgimento del quindicesimo secolo. Quanto alla forma, si potrebbe egli provare che, rimanendo cattolica, l’Arte non avrebbe raggiunto quella correzione di disegno, quella regolarità di lineamenti, quella perfezione di posizioni, di drappi ed altri accessori che il Rinascimento si vanta di averle dato, e che l’esperienza le avrebbe dato senza di quello? Colui che può il più, può il meno. L’arte cattolica si era innalzata sino alla bellezza ideale e sovrannaturale: un po’ di pratica le avrebbe dato il segreto della bellezza sensibile, i cui modelli sono palpabili. Si possono allegare per prova i capi d’opera di Giotto, del Beato Angelico, del Gaddi e di altri molti. La Cappella degli Spagnuoli, in Roma, possiede varie figure antiche così belle di stile e di espressione come quelle di Raffaello, e i cui pensieri sono più profondi ed i concetti più vasti. La Madonna di Santa Maria in Cosmedin; Nostra Signora, nella Chiesa dei santi Cosma e Damiano sul Foro, sono per ogni verso ammirabili: tale si è la maestà delle figure che Michelangelo, Raffaello e tutti i pittori che li hanno seguiti non poterono mai raggiungerla.

CAPITOLO XIV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Sebbene la pittura si sia troppo spesso prestata, dal principio della Rinascenza, a secondare il sensualismo pagano, bisogna riconoscere ch’essa non s’allontanava ldalla religione se non a malincuore. La scuola fondata da fra Bartolomeo e dal Beato Angelico lottò a lungo contro l’invasione, e ottenne magnifici trionfi. Altrettanto non si può dire della scultura. Appena il culto del paganesimo fu inaugurato, gli scultori ed i loro patroni si lasciarono trascinare ad un fanatismo, e quasi ad un delirio incredibile per gli antichi modelli. Dapprima, non si ebbe risparmio né a spese, né a lavori, per scoprire le statue delle divinità dell’Olimpo e dei grandi uomini dell’antichità: gli scavi furono coronati dal successo. Mentre i secoli cristiani riserbavano l’entusiasmo loro per la scoperta di qualche celebre martire ed il loro oro per ergere templi agli eroi della Fede, si vide, oh tempi! oh costumi! l’entusiasmo, riserbato solo per gli Dei della favola, manifestarsi con feste e pubbliche allegrezze, e l’oro cristiano consacrato a edificare sontuosi palazzi per albergarvi le divinità e gli uomini del paganesimo. Si trovava egli una statua di Venere, di Giove, di un Satiro, che dico io? una statua! un frammento di statua, un braccio, un piede, un torso, una mano, un naso? e tosto voi avreste visto le accademie adunarsi, e con grandissima serietà ordinare investigazioni. Commentari apparivano d’ogni parte, e le intere città, percorse in ogni verso dagli amatori, passavano dall’agitazione all’allegrezza, come se la scoperta di tali oggetti avesse assicurato la salvezza della repubblica. Quindi esse statue di Dei e di personaggi del paganesimo, le iscrizioni, i vasi, le urne, le tombe ed i monumenti di ogni genere, andavano a popolare non solo i musei (il che era permesso, e sino ad un tal punto, degno di elogio), ma i palazzi e le case. Da quanto avveniva in Roma stessa, si giudichi di ciò che altrove si faceva. Un giorno si annunzia che operai hanno trovato nei dintorni di Sette-Sale un gruppo in marmo d’un ammirabile scalpello greco. A questa notizia , gli artisti e i dotti accorrono ai Giardini di Tito. Essi hanno riconosciuto il Laocoonte quale Plinio Io ha descritto: l’entusiasmo è al colmo. – La sera, tutte le campane delle chiese suonano per annunziare la felice scoperta. I poeti non dormono di notte; essi preparano, per salutare il ritorno del capo d’opera antico alla luce, sonetti, inni, canzoni: alla domane tutta Roma è in festa. La statua, ornata di fiori e di verzura, attraversa la città a suon di musica; le signore sono ai veroni, e applaudono colle mani; i sacerdoti, schierati d’ambo i lati si scoprono alla vista del capo d’opera; tutto il popolo è nelle vie, accompagnando cogli allegri suoi canti il Laocoonte, che fece il suo trionfale ingresso nel Campidoglio. Collocata la statua sul suo piedestallo, Giulio II si ritrae nelle sue stanze, ed allora una nuova festa incomincia, in cui il cardinale Sadoleto, col capo coronato di edera, canta il felice avvenimento in un’ode che tutti gli umanisti sanno a memoria (Ecce alto terra e tumulo, etc.). La sera, il Sadoleto trova nella sua camera un bel manoscritto di Platone: era un dono del Papa. Quanto a Felice de Fredis, che aveva scoperto la preziosa statua, il sommo pontefice gli diede parte delle entrate della gabella di Porta San Giovanni in Laterano e lo creò notaio apostolico. Non fa mestieri aggiungere che i fanatici partigiani del Rinascimento abusarono nel più strano modo di questi pontificii incoraggiamenti. – Infatti per timore che il popolo non fosse privo della vista dei casti oggetti, di cui la scoperta era stata cagionata dagli scavi, vennero essi esposti nei quadri vii e sulle pubbliche piazze; si posero sulle facciate dei palazzi e delle case, colà ove la pietà degli antichi cristiani collocava l’augusto segno della croce e le immagini dei santi. Ma, da una parte, queste reliquie della superstizione pagana non erano tanto a buon mercato, e pochi potevano procurarsele; d’altra parte, non un solo onest’uomo, non una famiglia agiata che non ne volesse avere. Perciò, come si erano tradotte in volgare, per bene del popolo, le più oscene opere della antichità, gli scultori cristiani riprodussero a gara le antiche statue di tutti gli Dei e di tutte le Dee dell’Olimpo, gli uni in marmo ed in bronzo, gli altri in terra cotta, in gesso ed in pietra. Le incisioni le moltiplicarono all’infinito, e spesso ancora aggiunsero alla oscenità del modello. Con questo mezzo, tutte le infamie mitologiche diventarono sì comuni che ogni cristiano, per quanto povero ei fosse, si vide in stato di potersi procurare, invece dei ritratti di nostro Signore e della Santa Vergine, l’incisione o la statua di Giove, di Venere, di Cupido, di Diana e degli altri. Allora il sensualismo, scorrendo a piena onda dallo scalpello dello scultore, dal bulino dell’incisore e dal pennello del pittore, inondò delle sue onde impure tutta quanta l’Europa cristiana. Dai palazzi, ove essi avevan preso il luogo del Salvatore, di Maria, dei Martiri e dei Santi; Giove, Giunone, Apollo, Venere, le Grazie, le Ninfe, i Satiri, gli Dei e i semi-dei discesero trionfanti sulle piazze delle città, ornarono le fontane, popolarono i pubblici passeggi ed abbellirono i parchi e i giardini delle case di campagna, dando a tutti, e ad ogni ora, le più eloquenti lezioni di oscenità. Il fanciullo stesso trovò nel domestico focolare, od almeno non ne poté uscire, senz’incontrare immagini che macchiando la sua giovine immaginazione, volgevano il cuor suo verso la terra e i sensi: meno felice del fanciullo del medio-evo, il quale nella paterna dimora e nelle vie delle città o sull’orlo delle strade, era certo di incontrare le sante immagini, le ingenue statue di Gesù e di sua Madre o degli antichi patroni dell’Europa cattolica. E facile il capire quanto questa continua visione del mondo superiore, predicando lo spiritualismo il più elevato, nobilitasse il cuore ed incoraggiasse la virtù. Tuttavia non bastava al sensualismo pagano d’avere macchiato i luoghi e gli edifici profani; esso osò penetrare persino nei templi del vero Iddio. Le tombe, che sino a questa età la pietà degli antichi artisti aveva abbellite di figure, di emblemi e d’ornamenti cristiani, cominciarono ad essere edificate nel gusto pagano. Statue indecenti vi rappresentarono le Virtù cristiane. Da principio, lo scandalo fu spinto sì lungi, che invece di onorare la memoria dei morti, le figure erano molto più proprie ad eccitare le passioni dei vivi, e si fu più tardi obbligati di coprirle con una veste di bronzo. Quindi si fecero sparire dai mausolei tutti gli emblemi cristiani, per surrogarli con emblemi o pagani o profani. Così che se non era il tempio in cui sono posti, meno assai per abbellirlo che per macchiarlo, nulla in somiglianti monumenti potrebbe far ravvisare tombe cristiane. Altre volte (ciò che non è meno sacrilego sebbene più ridicolo) si fece un bizzarro miscuglio del Cristianesimo e del Paganesimo. La Religione ed il Tempo, la Speranza e l’Amore, uniti insieme, ciascuno coi suoi attributi cristiani o mitologici, ridussero i mausolei a un non so che senza nome. Fra mille esempi citerò la tomba del Delfino, posta in mezzo del coro della metropolitana di Sens. Ma, siavi o no miscuglio sulle tombe come ai tavoli degli altari o altrove, tutte le figure sono eseguite secondo il tipo pagano. I Genii diventano gli Angeli; Diana, la Santa Vergine; Endimione od Apollo, Mostro Signore e i Santi; Cesare e Nettuno, Mose; i filosofi, San Giuseppe ed i Profeti. – Diciamo tuttavia, per esser giusti, che la scultura come la pittura, conservò qualcosa di cristiano, anche dopo la generale invasione del paganesimo: ma l’architettura, nulla affatto. Dal principiare del sedicesimo secolo, essa si allontanò affatto dal tipo cristiano. Partendo da tale età, l’opinione pubblica dichiarò che non solo i palazzi, le case, i teatri e tutti gli edifici profani, ma ancora le chiese, dovevano essere costrutte nello stile greco e romano. Il che era diametralmente contrario all’uso costante della Chiesa. È ben vero che quando i cristiani d’altre volte non avevano né i mezzi né il tempo necessario per erigere una chiesa, ei si servivano, per adorare il vero Iddio, dei templi delle false divinità dopo di averli purificati e spogli d’ogni vestigio d’idolatria. Ma quando loro fu dato di costruire nuove chiese, giammai un architetto cristiano prese a modello un tempio pagano. Perciò, dalla visita dei monumenti cristiani che ci rimangono, risulta questo fatto innegabile, che dall’origine della Chiesa sino al sedicesimo secolo, veruna chiesa nuova fu creata nello siile pagano. Non lo si attribuisca né a mancanza di danaro, né a mancanza di modelli. Da un lato, i Cesari furono non prima cristiani che non risparmiarono a spese per dare alla religione templi magnifici; dall’ altro, i più celebri templi pagani di Grecia e d’Italia sussistevano ancora in tutta quanta la loro interezza. Ma gli architetti cristiani li sdegnarono con ragione poiché trovavano lo stile pagano improprio al culto ed opposto al genio cattolico. Sotto il nome di architettura bizantina si stabilì pertanto un nuovo modo di ergere le chiese. Da Costantinopoli, ove esso era nato, passò in Occidente. Modificata dallo studio profondo delle relazioni tra l’Arte e la Fede, aiutata in ispecie dai consigli dei Vescovi, che accuratamente esaminavano il disegno dei nuovi edifici e spesso lo davano ei medesimi, questa architettura giunse, sotto il nome di architettura gotica, al più alto grado di perfezione. A lei si devono le immense, magnifiche, meravigliose cattedrali di Francia, d’Inghilterra e d’Alemagna, in cui l’eleganza, la grazia, la ricchezza, la brillante varietà delle forme vanno unite alla maestà del complesso, e fanno risplendere in tutta la sua gloria il genio della Fede che le ispirò. Ma quando, sul finire del secolo quindicesimo, si cominciò a ripetere che le opere de’ pagani erano il tipo del bello in ogni genere, non solo nelle lettere, ma anche nelle arti; che elleno dovevano essere i soli modelli degni dell’ artista e del letterato; 1’architettura cristiana, consacrata dall’ uso di quindici secoli, illustrata da innumerevoli capi d’opera, fu subito trattata di barbara ed esiliata dalle città cristiane. Acciocché non rimanesse vestigia delle sue opere, si videro gli architetti, o piuttosto i Vandali di quell’età insensata, trasportati dal cieco furore che aveva spinto i barbari del quindicesimo e del sedicesimo secolo a rovesciare gli osceni templi del paganesimo, sforzarsi di distruggere i pii, i venerabili Santuari delle età cristiane. Così, per non citare che un solo esempio, l’antichissima e venerabilissima basilica di San Pietro in Vaticano, monumento incomparabile non solo della religione dell’intera Europa, della pietà dei fedeli, della munificenza dei papi e dei re, ma eziandio, a giudizio dello stesso Bramante, vero museo e capo d’opera unico dell’Arte cristiana, fu senza pietà rovesciato da capo a fondo per dar luogo all’edificio greco-romano che il Rinascimento gli ha sostituito. Né le grida, né le collere di quel grande artista poterono fermare il martello distruttore. Lo stesso vandalismo stese dovunque le sue rovine. Chi conterà le antiche chiese, le cappelle, le torri, le tombe od affatto distrutte, o sepolte nelle viscere della terra, o sfigurate da mutilazioni più indegne ancora, acciocché l’Europa intera più non contasse alcun edificio antico o moderno, che non fosse nello stile greco, e coll’impronta del paganesimo? Ben di più; nel medio-evo, l’architettura civile stessa aveva preso un carattere religioso e prodotto superbi edifici, come si può vederlo ancora a Venezia in particolare, ed in alcune città di Francia, del Belgio e dell’Inghilterra. Ora, il sedicesimo secolo imprese a rinnovare od a restaurare anche le chiese nello stile pagano. Il fanatismo giunse a tale, che senza la viva opposizione dell’ autorità ecclesiastica, gli antichi monumenti cristiani, che erano sfuggiti al furore dei barbari, sarebbero caduti sotto i colpi dei cristiani medesimi. Questa opposizione, la quale, devesi confessarlo, non durò sempre, fu lungi dal salvare tutti i nostri edifici. « Durante i secoli 17° e 18°, il fanatismo per uno stile di architettura recentemente adottato, era tale, che il sistema di restaurazione applicato agli antichi nostri edifici religiosi, fu per essi una disgrazia, non solo sotto il punto di veduta dell’arte, ma eziandio sotto quello della loro solidità. Essi furono trattati a dispetto del principio di loro costruzione; loro si rimproverava di non essere in armonia con ciò che allora si riguardava come il bello in architettura, e venivano torturati per sottoporli al gusto del giorno ». E v’è da meravigliarsi di tanti atti di vandalismo, che ci fanno gemere oggidì? E v’ ha parimenti da meravigliarsi che il divorzio tra 1′ architettura e la religione si sia mantenuto sino ai dì nostri con una specie di buona fede e frammezzo un concerto di lodi che saranno uno dei maggiori stupori dell’avvenire? E v’è insomma da meravigliarsi dell’aberrazione a cui esso trascinò lo spirito pubblico, quando si sentono gli uomini i più celebrati per senno e per buon gusto, dire, quasi un doppio assioma, che1’architettura pagana è il tipo del bello, e 1’architettura cristiana il tipo del brutto? – Dopo di avere citato un pomposo elogio del nuovo tempio di San Pietro in Vaticano, in cui la più avida curiosità e la più dotta trova di che soddisfarsi; in cui gli artisti in ogni genere i più critici ed i più esperti vengono ad ammirare e ad istruirsi, Feller termina così il suo articolo su Giulio II: « Egli incoraggiò la pittura, la scultura, l’architettura; ed ai suoi tempi le arti belle incominciarono ad uscire dalle macerie della gotica barbarie ». Ma ecco un’altra autorità. Parlando dell’ architettura cristiana, Fénélon si esprime così: « Gli inventori dell’architettura che dicesi gotica, e che è , dicesi, quella degli Arabi, credettero senza dubbio di aver sorpassato i greci architetti. Un edificio greco non ha ornamento alcuno che non serva che ad ornare l’opera; i pezzi necessari per sostenerlo o per porlo al coperto, come le colonne e la cornice, si volgono solo in grazia colle loro proporzioni: tutto è semplice, tutto è misurato, tutto è limitato all’uso: non vi si vede né ardire, né capriccio che impongano agli occhi; le proporzioni sono sì giuste che nulla sembra troppo grande, sebbene tutto lo sia; tutto si limita a contentare la vera ragione. All’opposto, l’architettura gotica innalza, su pilastri assai piccoli, un’immensa volta che sale sino alle nubi; si crede che tutto sia per cadere, ma tutto dura per molti secoli; tutto è pieno di finestre, di rosoni e di punte; la pietra sembra intagliata come cartone; tutto è a giorno, tutto è nell’aria. Non è egli naturale che i primi architetti gotici si siano lusingati d’aver sorpassato col loro vano raffinamento la semplicità greca? Cangiate solo i nomi, ponete i poeti e gli oratori in luogo degli architetti: Lucano doveva naturalmente credere d’essere più grande di Virgilio; Seneca il Tragico poteva pensare ch’egli spiccava ben più di Sofocle ; il Tasso poté sperare di lasciarsi indietro Virgilio e Omero. Questi autori, così pensando, si sarebbero ingannati ». – Voi lo sentite; quanto l’arte cristiana ha mai prodotto di più perfetto non è se non un’opera di cattivo gusto, che non può sostenere il paragone delle opere del paganesimo. Architetti e poeti cristiani non sono al confronto dei pagani se non ciò che Lucano è al confronto di Virgilio, e Seneca di Sofocle! – Riassumendo quanto precede ed applicando all’architettura ed alla scultura le riflessioni che facemmo sulla pittura, noi diciamo che, ogni cosa esaminata a sangue freddo e senza passione, il Rinascimento altro non fu se non il risorgimento del Paganesimo nell’arte, come pure nelle lettere, e la distruzione del Cristianesimo nell’arte, come pure nelle lettere; la rivincita del sensualismo pagano, vinto già dallo spiritualismo cristiano; un immenso passo retrogrado e non un immenso progresso; una fonte d’errori e di vergogna per 1’Europa e non già un principio di luce e di gloria. Tali sono i grandi vantaggi che noi abbiamo raccolto, e che ancor raccogliamo dal paganesimo classico. Altri ve ne sono, che faremo conoscere nei Capitoli seguenti.

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (5)

CAPITOLO X

TESTIMONIANZA DEI FATTI. —

INFLUSSO DEL PAGANESIMO

CLASSICO SULLA LETTERATURA

Dalla testimonianza degli uomini, passiamo a quella dei fatti. Ora, con maggior eloquenza ancora, se è possibile, degli uomini, i fatti depongono in favor mio. Il paganesimo nella educazione è distruttore della letteratura, delle arti, della filosofia, delle scienze, della religione, della famiglia, della società; ecco quanto essi dicono, ecco quanto essi provano.– Distruttore della letteratura; questa proposizione soprattutto, me l’aspetto, sarà notata di paradosso. Infatti è cosa convenuta di ripetere nel mondo dotto che lo studio dei modelli pagani, ripigliato sulla metà del decimoquinto secolo, fu il risorgimento della letteratura in Europa. – Intendiamoci, esaminiamo e ripigliamo la storia del Rinascimento, sbozzata precedentemente. Dopo la caduta originale, due opposte potenze si disputano la signoria dell’umanità al pari del cuore di ciascuna persona: il sensualismo e lo spiritualismo, o, per parlare l’energico linguaggio della Scrittura, la carne e lo spirito, il vecchio uomo e 1’uomo nuovo. Durante tre mila anni, il mondo visse sotto la signoria della carne, ed il mondo ebbe una lingua, una letteratura, una poesia, espressione fedele del principio in cui egli si era trasformato, per il quale solo viveva, ch’egli andava cercando ovunque, ch’egli amava in tutto, ch’egli adorava appassionatamente in tutte le sue forme. Diventato carne, il mondo parlava il linguaggio della carne e delle sue tre grandi concupiscenze: orgoglio, cupidigia, piacere. Essenzialmente sensualista, la sua letteratura e la sua poesia rivestirono forzatamente, secondo l’ispirazione sovrana della carne e delle sue tre potenze, forme dure, superbe, fredde, ipocrite, ma il più spesso eleganti e voluttuose, sia per palliare la turpitudine del fondo, sia per dare nuovi allettamenti all’idolo, ai piedi del quale tutti i cuori desideravano segretamente di vedersi incatenati. – Pure, un giorno giunse nel quale la signoria della carne fu distrutta, e l’uomo, libero dalla sua tirannide, visse felice sotto l’impero dello spirito. Il Cristianesimo operò siffatto benedetto rivolgimento, o, per meglio dire, fu esso stesso un tale rivolgimento, o per meglio dire, fu esso stesso un tale rivolgimento. Re del mondo per mille anni, esso ebbe di necessità un linguaggio, una letteratura, una poesia, espressione fedele del suo pensiero. Ora, il pensiero cristiano è l’antipode del pensiero pagano. L’uno è essenzialmente spiritualista, l’altro sensualista. Inoltre, per ciò stesso ch’esso è divino, il pensiero cristiano è il più ricco, il più semplice ed il più sublime, il più elevato ed il più profondo, il più casto ed il più bello, in una parola, sotto qualsiasi punto di vista la letteratura cristiana partecipa per forza di tutte queste sode e splendide qualità. A volte, come il pensiero ch’essa rendeva sensibile, ricca, spiritualista, semplice, sublime, vera, dolce, casta, grave, sobria d’ornamenti, era dessa l’incessante predicatrice dello spiritualismo, come la letteratura pagana era stata l’organo vivente del sensualismo. Un tratto essenziale soprattutto la distingue: mentre la letteratura pagana è il culto della forma, che sfoggia dovunque lusso ed abbondanza per mascherare l’ignominia e la povertà del fondo; nella letteratura cristiana, la forma sparisce il più che si può, al fin di lasciare comparire nella sua splendidezza la bellezza maestosa del fondo. – Il mondo conobbe pertanto due letterature, perché fu inspirato da due pensieri: la letteratura pagana, espressione del pensiero pagano, e la letteratura cristiana, espressione del pensiero cristiano. Negare un tal fatto, è un non capire nemmeno il senso dei termini che si adoprano. Nel lungo periodo che era scorso dalla predicazione del Vangelo sin verso il finire del quindicesimo secolo, l’Europa aveva acquistato un modo di giudicare e di sentire, conforme all’insieme delle cagioni che sovr’essa avevano operato. « Se nei progressivi sviluppi del pensiero e della immaginazione, scrive un uomo non sospetto, l’Europa fosse rimasta abbandonata ai suoi soli elementi di cultura, se veruno straniero influsso non ne avesse modificato 1’azione, sì sarebbe veduta nascere ovunque sul suo suolo una letteratura veracemente nazionale, come quella degli antichi, e nella quale si sarebbero rinvenuti, senza aggiunta e senza confusione, tutti i lineamenti della sua civiltà ». – Invece di dire che si sarebbe veduta nascere cotale letteratura, l’autore avrebbe dovuto dire che era nata. Infatti, i Padri della Chiesa avevan rivestito della vera sua forma il pensiero cristiano nelle varie sue manifestazioni. Successore di tanti luminari, San Gregorio il Grande l’aveva stabilito. Formati alla sua scuola, Sant’Anselmo, Beda il Venerabile, Lanfranco di Cantorbery, San Bernardo, San Francesco di Assisi, San Tommaso, San Bonaventura, Sant’Antonio da Padova, San Bernardino da Siena, Sant’Antonino da Fiorenza ed una folla d’altri avevano reso popolare in Italia, in Francia, in Inghilterra, in tutta Europa, la forma perfetta del pensiero cristiano nelle lettere, nell’eloquenza, nella filosofia, nella teologia, nella storia. Per parlare della letteratura in un senso più ristretto: Dante aveva cantato, Petrarca aveva scritto. La Francia stessa non era rimasta indietro dopo sì begli esempi. « Le poesie dei suoi Trovatori, i suoi antichi fabliaux, i suoi antichi romanzi di cavalleria vi componevano, molto prima del quindicesimo secolo, una letteratura basata su tradizioni popolari, sulla pittura degli usi nazionali Se, correggendo le sue mende senza mutare il suo principio, fosse rimasta la Francia fedele a quei primi saggi del suo letterario ingegno, essa godrebbe oggi i vantaggi, ben poco intesi, di una letteratura nata e perfezionata sul patrio suolo. Sgraziatamente, così non avvenne. – Si studiarono, si commentarono senza posa le opere della Grecia e di Roma Si adottarono i loro principii, si bevette il loro spirito. Si trattarono di gotici e di anticaglie i pochi scritti che erano stati prodotti da una ispirazione attinta alle sorgenti nazionali. Insomma, una grande rivoltura ebbe luogo nei pensieri. La Francia vi prese parte forse più che non verun altro paese d’ occidente ». Vediamo ora che cosa vi guadagnò la letteratura sì per la forma che pel fondo. Non contenti d’avere infettato l’Alemagna, e con essa metà d’Europa colle loro eresie filosofiche e teologiche, i Greci fuggiaschi da Costantinopoli infettarono colla loro eresia letteraria la patria delle lettere e delle arti, l’Italia, e con essa le altre genti latine. Alla loro voce se vide l’Europa cristiana, l’Europa letteraria, rinunciando a sè, prendere per modelli esclusivi i pagani d’Atene e di Roma, imprigionare nelle forme studiate del loro linguaggio, freddo come la cenere delle loro tombe, la sua parola sì ingenua, sì forte, sì libera, sì viva: alla inspirazione del sovrannaturale cristiano preferire la falsa inspirazione del naturalismo pagano ; in una parola, farsi, per quanto in lei stette, greca e romana nella sua composizione, e pagana nel suo linguaggio. Poco a poco, il ricco capitale di nobili pensieri, di generosi sensi, esclusivamente prodotto dalla Fede, andò diminuendo, mentre il culto della forma, col suo lusso, colle sue ricercate andature, con i suoi gingilli e colla sua eleganza affettata, diventò il grande scopo dell’arte letteraria. Non s’accorgevano che il pensiero moderno, vestito con forma pagana non era meno ridicolo che un francese del sedicesimo secolo, in toga romana, o coperto il capo del frigio berretto. – Non si ristette alla risurrezione della forma pagana; ben presto una voce cristiana, la voce del legislatore del Parnasso, osò dire al mondo: — Volgi i tuoi sguardi verso l’Olimpo; colà vi sono i tuoi Dii; soli, il cui nome abbellire possa le tue opere; soli, i cui misteri e il cui intervento convengano alle opere della sapienza. La storia nazionale altro non è che un capitale sterile e prosaico; 1′Evangelio è troppo austero: i suoi formidabili misteri ucciderebbero 1’entusiasmo. — « La favola offre alla mente mille variati piaceri; ivi, tutti i nomi fortunati paiono nati pel verso…. I terribili misteri della fede d’un cristiano non sono suscettibili d’ornamenti allegri; l’Evangelio non offre d’ogni parte ai nostri occhi se non penitenza a fare e tormenti meritati Oh bizzarro disegno d’un poeta da ciabatte, il quale fra tanti eroi sceglie Childebrando! (art. poet. Di Boeleau, c. III)) ». Così fu reciso il filo che univa la nostra poetica cultura alla cultura poetica dei padri nostri. Noi diventammo infedeli al loro spirito per darci senz’altro ad uno spirito straniero che noi capivamo male, che non aveva relazione di sorta colla nostra vita reale, con la nostra religione, coi nostri costumi, con la nostra storia. L’Olimpo, con i suoi idoli, surrogò il cielo dei cristiani La musa dei moderni, sottoposta a siffatta trasfusione, ricevette nelle sue vene un sangue straniero che non potè mai identificare interamente colla sua vita…. Il mondo della poesia diventò un tutt’altro mondo che il mondo volgare; non vi si sentì parlare se non di Troia e e Tebe, di Roma e degli Dei stranieri. « La nostra natura propria ed originaria combatte sempre tacitamente codesta vita artificiosa che ci si costrinse a vestire. Noi non siamo più di un solo getto: l’unità della nostra esistenza è turbata, e noi somigliamo al mostro d’Orazio. E chi vi guardasse da vicino troverebbe forse che a lungo andare nacque di colà cotesto raffreddamento dei cuori per la religione, per la semplicità e per la santità dell’Evangelio, per tutto ciò che è veracemente grande, nobile ed umano, il cui luogo fu usurpato dal gigantesco, dall’ampolloso e dall’ammanierato. Non già che somiglianti vizi abbiano in veruna guisa appartenuto agli antichi, ma perché appartengono alla falsa strada da noi presa, volendo diventare altra cosa che ciò a cui ci destinava la saggia natura nel mondo moderno e cristiano ». « Gli scrittori di un gran popolo, soggiunge il giudizioso editore di Bouterweck, debbono essere gli emuli, non già le scimmie dei grandi modelli stranieri, dei quali essi procurano di appropriarsi le bellezze. Se i creatori delle letterature moderne non avessero troppo perduto di vista questo principio, esse si uniformerebbero di più ai costumi, ai sensi, alle istituzioni degli avi nostri, ai nostri usi, alla nostra religione; e noi non avremmo letterature ibride o scolorate, ora composte di elementi eterogenei e peccanti per la base di loro instituzione, ora formate da un tipo estraneo ai nostri pensieri ed al nostro modo di essere; non presentanti, in una parola, se non una letteratura greca in caratteri occidentali, una cattiva litografia della letteratura degli antichi ». Cessando di essere indigena, cioè religiosa e nazionale, la nostra letteratura non solo perdette la sua forma naturale; essa perde la sua popolarità. « La poesia francese essendo diventata, sotto l’influsso del paganesimo, la più classica di tutte le moderne poesie, è la sola che non sia sparsa nel popolo ». « Invece di porre al servigio del genio cristiano, soggiunge un celebre scrittore, i progressi dell’antichità nello studio del bello, noi ponemmo il genio cristiano alla coda della letteratura e della estetica pagane. Che ne è nato? Una letteratura neutra, servile, la quale esercitò influsso il più triste sugli ingegni e sui costumi. Essa degradò l’ingegno abbassandolo alla parte di copista. Essa pervertì i costumi, poiché invece di darsi a coltivare e ad abbellire i costumi cristiani, si fece interprete ed ammiratrice delle puerili idee e dei dissoluti costumi dell’ antichità. – « Di nuovo, che ne è nato? Lo sbiadimento della poesia, della musica, della pittura, della scultura, dell’architettura, le quali non vivono se non delle ispirazioni del pensiero religioso e nazionale. Perciò noi vediamo i grandi artisti uscir dalla trista carreggiata aperta nell’epoca detta del Rinascimento , e fra breve sarà chiamata l’epoca della degradazione. Costretti a ripigliare i nostri studi ed a ritornare alle tradizioni della scuola del medio-evo, la nostra adorazione per l’Arte antica ci ritardò di tre secoli. – « Le nostre prove di restaurazione pagana furono, nell’ordine politico, ancor più disastrose. L’idea romana, di creare nazioni di soldati regnanti sulle altre per il diritto del brando, non generò altro che guerre sanguinose. L’idea greca, di fare nazioni di legislatori e di funzionari, produsse il dispregio delle leggi, del potere, e ci ha resi non governabili. – « Insomma, i nostri moderni educatori nulla tralasciarono per farci indietreggiare di venti secoli e per astringere i popoli cristiani a ripigliare il misero andamento d’una misera antichità (Il signor Martinet, Dell’ Educazione dell’uomo) ».

CAPITOLO XI

SEGUITO DEL PRECEDESTE

L’alterazione della sua forma, la perdita delle sue bellezze e della sua popolarità, non è se non il più piccolo dei danni recati alla moderna letteratura dal paganesimo classico: esso la viziò profondamente nel suo spirito. Di spiritualista che essa era, la rese sensualista. Sentiamo la storia. È vero: nel secolo decimoquarto, il Boccaccio aveva rialzato il macchiato vessillo del paganesimo. Essendosi nutrito ei medesimo degli autori antichi, sovrattutto di Omero e di Menandro, aveva imparato alla loro scuola a vivere da pagano. Boccaccio sparse a fiotti nei suoi scritti la corruzione ch’egli aveva attinto nelle sue letture. Ma tale si era in allora l’influsso generale dello spirito cristiano che Boccaccio, tocco dal pentimento, bruciò ei medesimo in pubblico il suo Decamerone e gli altri suoi scritti licenziosi. I germi funesti ch’egli aveva seminati, appena conosciuti di qua dai monti, non diventarono un albero e non produssero frutti mortali, se non quando i Greci giunsero a Firenze. Giovanni Argiropolo, Andrea Lascaris, Isidoro Gaza, capi dell’ emigrazione, accolti e colmati d’onori dai Medici, ottennero il permesso d’insegnare pubblicamente. Essi ne profittarono non solo per impiegare, per commentare, per esaltare la letteratura pagana, ma eziandio per appassionare tutti gli animi in suo favore. L’Argiropolo, diventato precettore dei figliuoli di Cosimo de’ Medici, li rese deliranti per le greche lettere;.il Gaza tradusse in greco le principali opere degli antichi autori latini, ed in latino gli autori greci; il Lascaris, mandato più volte in Grecia, ne riportò i manoscritti degli oratori, dei filosofi e dei poeti, attalchè, grazie agli sforzi riuniti di questi tre personaggi, 1’amore dei pagani eccedette i limiti della ammirazione, e diventò una specie di culto. – Educati alla loro scuola, Marsiglio Ficino restaurò la filosofia pagana; il Poliziano, la letteratura pagana. Sotto la guida di Andronico da Tessalonia, il Poliziano, iniziato a tutti i segreti delle lettere pagane, non istimò e non insegnò per tutto il corso di sua vita se non il puro paganesimo. Prima dei quindici anni, cantò in un poema latino i giuochi che, alla guisa dei pagani, i Medici diedero in Firenze; tradusse in latino gli storici greci; celebrò in lirici versi le lodi di Orazio, di cui fece quasi un Dio; compose epigrammi affatto pagani e pel fondo e per la forma; scrisse in versi italiani canzoni lubriche e tragedie di gusto pagano, che vennero stampate in Firenze con grandissimo lusso. Non pago al corrompere i suoi contemporanei, il Poliziano trasmise ai posteri il veleno del suo insegnamento. Ei fondò una scuola, alla quale ebbe furia di accorrere tutta la gioventù illustre di Toscana e d’Italia. Da tale scuola uscì fra gli altri il Machiavelli, il quale pieno, come i suoi condiscepoli, d’amore e d’ammirazione per i pagani, compose, in ricordanza di Luciano e d’Apuleio, l’Asino d’ oro, poema osceno, preludio di commedie più oscene di quelle di Plauto e di Terenzio. Fra tutte si distingue per questo titolo, quella che è chiamata la Mandragola: componimento infame, che possentemente contribuì alla corruzione dei costumi. Dallo studio dei poeti passò il Macchiavelli allo studio degli storici pagani, e specialmente di Tito Livio. Preferendo i loro principi politici e le dottrine sociali a quelle dell’Evangelio, egli compose il suo famoso libro Del Principe, giustamente chiamato il codice della ipocrisia, della frode e della empietà, poiché esso crolla tutte le fondamenta della buona fede, della virtù, della giustizia e della religione fra gli uomini. Il Poliziano formò ancora Pietro Bembo e Giovanni Della Casa, ambi ellenisti e latinisti pagani molto esperti, ma ambi fedeli imitatori dei loro modelli, affatto corrotti di costumi, e non meno corruttori negli scritti loro. Tutti e due piansero i loro traviamenti; ma è però vero che loro aveva bastato, come bastò ai condiscepoli loro, d’aver bevuto alla fonte del paganesimo per diventare 1’onta della loro patria ed il flagello dei pubblici costumi. Tali sono alcuni dei frutti recati sul finire del decimo quinto secolo dal rinascente paganesimo. Mentre esso invadeva Firenze, si estendeva ognor più, sul cominciare del secolo decimosesto, in tutte le contrade d’Europa: Roma stessa provò il suo letale influsso. Ivi, sotto la ispirazione di Pomponio Leto, un troppo gran numero di animi si lasciarono andare alla febbre da cui era egli stesso divorato. Siffatto era il suo entusiasmo, che non voleva leggere se non gli autori profani; celebrava devotamente la festa della fondazione di Roma, e giunse persino ad erigere altari a Romolo. La conseguenza di codesto appassionato amore del paganesimo fu quale doveva essere, quale sarà sempre, il disprezzo per la cristiana religione. Pomponio diceva che essa non era buona se non per uomini barbari: le scritture e gli scritti dei Padri non ottenevan da lui se non sarcasmi: insomma la sua vita privata era degna dei suoi modelli. L’empietà e l’ateismo ne diventarono il carattere, in guisa che si fu costretti ad imprigionarlo. Fortunatamente Pomponio Leto ne uscì per morire da cristiano allo spedale. Tuttavolta, la febbre accesa da Pomponio s’era comunicata alla gioventù. Sin dalla mezzanotte assediava essa la porta della scuola di lui per assistere alle lezioni, le quali avevano principio solo allo spuntare del giorno. Nella stessa guisa che Pomponio aveva tributato un culto a Romolo, si videro uomini animati dal medesimo spirito stabilir feste in onore di Platone, ed erigere santuari a Catullo. Fuvvi un istante in cui più di cento ottanta poeti facevano risuonare gli echi di Roma cristiana degli accordi del loro liuto pagano! Rallentatosi qualche tempo a cagione degli sforzi d’Innocenzo VIII, d’Alessandro VI e d’Adriano VI, l’ andazzo pagano ripigliò il suo correre con rapidità maggiore. Già aveva invaso Francia, in cui il Mureto, diventato, senza maestro, discepolo fanatico di Anacreonte, di Orazio, di Catullo e di Terenzio, aveva ridotto a pratica nei suoi costumi gli insegnamenti dei suoi prediletti autori: in Parigi, in Tolosa, in Italia, in Venezia medesima egli fece pompa dello scandalo, e finalmente venne a fermarsi a Roma. Ivi si pentì del male immenso ch’egli aveva fatto; ma, lungi dal diminuire, il suo amore della letteratura pagana non fece se non crescere. Prova ne sono i suoi Juvenilia Carmina, e le sue annotazioni ad Orazio, a Catullo, a Tacito, a Cicerone, a Sallustio, ad Aristotele, a Senofonte: opera dell’intera sua vita. Signora dei pensieri con l’educazione, la reazione pagana doveva di necessità penetrare nei pubblici costumi. L’antica Roma aveva avuto poeti prima d’avere teatri: ma i primi produssero i secondi. Lo stesso avvenne nel tempo del Rinascimento. I teatri, che tutti i Padri della Chiesa, tutti i Concilli, tutti i Sommi Pontefici avevano con voce unanime esiliato dalle città cristiane, ricomparvero in Firenze dapprima, poscia nel rimanente d’Europa. Ovunque, vi erano teatri permanenti; e, ciò che non si era veduto da quindici secoli, le genti cristiane occuparono in folla i gradini dei teatri, degli anfiteatri, poscia dei circhi, degli ippodromi, applaudendo con pagano furore a spettacoli interamente pagani. Quello che esse fecero lo fanno ancora, e Dio sa con quanto vantaggio dei pubblici costumi! Sicché si recitarono da principio sulle scene d’Italia le commedie greche di Aristofane e di Menandro e le commedie latine di Terenzio, le une e le altre nella loro nativa nudezza. Dappoi, affinchè il popolo e le donne poco versate nella conoscenza del latino potessero prender parte ai piaceri della rappresentazione, il Macchiavelli, l’Ariosto, e più tardi il Metastasio, il Casti, ed una folla d’ altri discepoli de’ pagani, composero in idioma volgare componimenti nei quali respirano il sensualismo e l’oscenità dei loro modelli. Ben presto le accademie, i palazzi dei nobili, le case dei semplici privati risuonarono dei versi dei poeti pagani. Non si ebbe più gusto se non pei libri dell’antichità: essi soli diventarono 1′ oggetto di uno studio ardente. Sullo scrittoio del dotto, sul tavolo dello scolare, sulla cattedra del professore e sulla dorata suppellettile della gran dama, Virgilio aveva occupato il luogo della Scrittura; Cicerone, quello di san Paolo e di sant’Agostino; Orazio, quello di Davide; Plauto, Aristofane e Catullo, quello degli Atti dei martiri e delle Vite dei Santi. – Un somigliante andazzo manifestossi nel rimanente d’Europa ed in ispecie in Francia. I nostri più grandi poeti francesi, Corneille e Racine, ricollocarono sulla scena, ed offrirono all’ammirazione della società i principali componimenti del teatro pagano, od argomenti presi dal paganesimo. Gli Orazi e i Curiazi, Cesare, Britannico, Ifigenia, e che so io? tutto il mondo pagano, terrestre ed olimpico, fece pompa agli sguardi di un popolo cristiano, di sensi, di pensieri e di affetti che non sono nella nostra natura né nei nostri costumi, e del tutto opposti ai dettami di nostra religione. Che mai di più sensualista di certi componimenti che è inutile il nominare, ed i quali fecero versare lacrime di pentimento ai loro autori medesimi? Che mai di più forzato, di più feroce, di più antisociale e di più anticristiano dei seguenti sensi espressi in altre composizioni non meno applaudile: « Ma voler immolare al pubblico ciò che si ama, ma voler combattere un altro sé stesso… cosiffatta virtù a noi soli apparteneva… Roma ha scelto il mio braccio: io nulla esamino, e combatterò il fratello con allegrezza così piena e sincera come quando ne sposai la sorella. » – A fortiori, qual uomo, qual cristiano, non risponderà coi Curiazii: « Io ringrazio gli Dei di non essere Romano, per conservare ancora qualche cosa d’umano! » – Nel secolo decintottavo, il teatro continuò a trar partito dal paganesimo. Quando la miniera fu esaurita, o che l’ingegno mancò, si composero tragedie, commedie, vaudevilles, drammi, melodrammi che del paganesimo non ritennero più se non ciò che ne è il fondo, il sensualismo. Ben tosto la forma stessa fu negletta, per meglio lasciar scorgere la schifosa nudità della passione. Di caduta in caduta il teatro, la letteratura, la poesia giunsero alle nauseabonde produzioni di Parny, di Pigault-Lebrun, di Vittore Ugo, di Scribe, di Soulié, d’Eugenio Sue e de fogliettonisti; a quest’ultimo punto si trovano! – Da siffatta unione di tutte le forze intellettuali per far risorgere in Europa il paganesimo letterario, e per farlo comparire agli occhi della gioventù e della società risplendente d’ogni genere di bellezza, nacque naturalmente che i Padri della Chiesa, dei quali il medio-evo si era così gloriosamente occupato, rimasero sepolti nei polverosi scaffali delle biblioteche. Appena se in quest’epoca si vede tradotto qualche discorso, qualche trattato di quei grandi uomini, i cui scritti sparsi in volgare idioma, avrebbero così potentemente contribuito a risvegliare la Fede ed a proteggere i costumi. All’opposto, Cicerone ha per traduttore il Manuzio; Tito Livio, il Nardi; Virgilio, il Caro; Ovidio, l’Anguillara, e così degli altri in tutto il restante d’Europa. – La stampa medesima negli Stati i più cattolici, la stampa di fresco inventata, non dà se non le lettere di San Gerolamo ed alcune altre opere cristiane che essa sembra pubblicare con rincrescimento, mentre lascia ai torchi di Amsterdam, di Ginevra e di Basilea, diretti da Erasmo e dai protestanti, la cura di pubblicare o piuttosto di corrompere i grandi monumenti dell’antichità cristiana, le opere dei santi Padri. Così, il primo libro greco stampato in Italia è la grammatica greca di Costantino Lascaris, e il Pindaro in-quarto è la prima opera che comparve in Roma, stampata a spese del famoso banchiere Chigi. Si vede Aldo Manuzio, il principe dei tipografi italiani lasciando in disparte quasi tutte le opere cristiane, consacrare il suo ingegno e la sua vita a riprodurre gli autori pagani, in ispecie, Virgilio, Luciano, Orazio, Giovenale, Lucano, Cicerone, Demostene, Omero e Sofocle. Non si direbbe forse che l’arte tipografica fosse stata data agli uomini solo per propagare il regno del paganesimo, o piuttosto non sembra forse che la stampa preludesse sin dal suo nascere a quanto avrebbe fatto ai dì nostri? – Tuttavia l’invasione pagana proseguiva il suo cammino. I modelli dell’antichità non erano più proposti soltanto all’ammirazione come tipo del bello e regola esclusiva del gusto: si davano quali regolatori dei costumi, come se l’Evangelio fosse sparito. – Non parlo dell’insegnamento classico, di cui si servivano per formare lo spirito e il cuore della gioventù; vengo ad una prova più diretta: Erasmo la somministra. Questo principe dei letterati del suo secolo, il cui gusto era legge all’intera Europa, Erasmo dice con una serietà in cui la demenza e l’empietà disputano con la ridicolezza: « Ho io fatto qualche progresso invecchiando? lo ignoro. Quello che so si è, che Cicerone non mi è mai tanto piaciuto quanto nella mia vecchiezza. Non solo la sua divina eloquenza, ma ancora la sua santità inspirano la mia anima e mi rendono migliore che io non sono. Perciò io non esito punto ad esortare la gioventù a consacrare i suoi begli anni, non dico già a leggere ed a rileggere le sue opere, ma ad impararle a menadito. Per me, che sono già al declinare de’miei giorni, sono felice e superbo di rientrare in grazia del mio Cicerone, e di rinnovare con esso lui un’antica amicizia, da troppo lungo tempo interrotta (1 Prœm. in XXII Tuscul.). – Questa sola dichiarazione basta per dimostrare a qual segno il fanatismo pagano erasi impadronito degli animi. Certo, in ogni altro tempo, un cristiano, un sacerdote, un religioso, (ed Erasmo era cristiano, sacerdote e religioso) avrebbe arrossato di dire ch’egli era diventalo migliore leggendo non già l’Evangelio, ma Cicerone; che nel punto di morte egli era felice e superbo di rientrare in grazia non già d’Iddio, ma di Cicerone; egli avrebbe arrossato di scrivere cotali pazzie a sacerdoti, a prelati romani alto locati in dignità, se le medesime pazzie non avessero avuto seguaci in tutti gli Stati ed in tutte le condizioni. Affinché la gioventù stessa, secondo il precetto di Erasmo potesse diventare più virtuosa, leggendo non già la Scrittura o le opere dei Padri, ma i maestri del paganesimo, si composero ciò che chiamansi i classici morali. Come capi d’opera del genere, citerò il Selectœ e profanis, in cui i pagani sono presentati quali i modelli finiti delle quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la forza,la temperanza. Ora, questi modelli non si confessavano, non si comunicavano, non andavano a messa, non erano cristiani. Dunque il cristianesimo, coi suoi obblighi imbarazzanti per le passioni, non è punto necessario per essere virtuoso: tale si è agli occhi del giovinetto la conseguenza inevitabile di cosiffatto insegnamento. Che la cosa stia così, e che tale conseguenza sia diventata una massima nella pratica della vita, giammai la prova non ne fu più lampante che ai dì nostri. Quale è mai la filosofia dominante dell’età nostra? Non è egli forse l’eclettismo, il razionalismo? E tale filosofia non assevera forse che la religione altro non è se non un piedestallo, un orlo, un fabbricato che deve ben presto cadere? Non insegna forse di presente, che il mondo ha veduto una folla d’ uomini celebri per la virtù e formati solo dalla filosofia: Pitagora, Antistene, Socrate, Platone, gli stoici Catone, Condorcet, Deslutt de Tracy, Cabanis, ecc.? E tutti, da quei che abitano nei salons insino all’abitatore delle capanne, non ripetono forse in coro: « Si può essere virtuosi senza religione? » Mi sarà egli permesso di dire di passaggio, che, senza addarsene, Fénélon mena alla stessa conseguenza, dando a Telemaco tutti i sensi e tutte le virtù che solo il Cristianesimo può inspirare? Lo stesso principio ci valse un nuvolo d’altri scritti, quelli di Berquin in ispecie, in cui s’insegna ai fanciulli l’arte d’essere virtuosi senza religione; in cui i sensi naturali, i vantaggi umani tengono il luogo dei Sacramenti, dei precetti, delle promesse e delle minacce della Fede. Se altre prove abbisognassero di sì perniciosa invasione del paganesimo, aggiungerei che i letterati spinsero il culto per l’antichità pagana al punto di non più nominare le stesse cose religiose se non con nomi pagani, e di non temere di macchiare la santità del Cristianesimo colle ridicole favole della mitologia. Il Bembo, nelle sue lettere, fa dire a Leone X, ch’egli è diventato sommo pontefice pei decreti degli Dei immortali: se deorum immorlalium decretis factum esse pontificem. Altrove, chiama Nostro Signor Gesù Cristo un eroe, heroem, e la Santa Vergine la dea di Loreto, deam Lauretanam; la Fede, la persuasione, persuasionem; la scomunica, l’interdizione dall’acqua e dal fuoco, interdictionem aques et ignis. Per lui e per i suoi simili, non una parola era latina se non si rinveniva in Cicerone. Questa testimonianza è loro resa da Giovanni Lami, seguace della medesima opinione. Altri chiamano l’augusta Maria speranza degli Dei, spes Deorum; il Cielo, l’Olimpo, Olympum; l’inferno, l’Èrebo, Erebum; le anime dei giusti, manes pios; i sacerdoti, flamini, flamines; i vescovi archiflamini, archiflamines; le grandi solennità religiose, leclisternia; il sacro collegio, il Senato del Lazio, Latii Senatus; la tiara, Romulea infida. Invece di dire con tutti i cristiani « se piace a Dio » essi dicono « se piace agli Dei » si Diis placet. La gerarchia ecclesiastica è l’opera degli Dei, vario quos ordine Divum mancipal; la messa, il culto sacro degli Dei, sacra Deorum; l’acqua benedetta, l’acqua lustrale, lustrali bus undis, e le statue dei santi, simulacri degli Dei, simulacra sancta Deorum. Nulla sarebbe sì facile come il trovare nelle opere meramente letterarie una quantità d’altri esempi di somigliante pedanteria non men pericolosa che ridicola. Aggiungerò (ciò che diventa più grave) che l’eloquenza sacra, sdegnando la Scrittura e i Padri, sorgente feconda dei casti suoi ornamenti, tolse a prestito quasi tutti i suoi colori, i suoi esempi, le sue testimonianze alla storia pagana, e talvolta anche alla mitologia. Lo stesso avvenne dei libri ascetici. Pressoché ogni pagina offerse in greco ed in latino, quali esemplari di virtù o suggelli della verità, i fatti, le parole, i grandi uomini del paganesimo. Aggiungerei che la poesia non trattò più argomenti, anche cristiani, se non nello stile, nel metro, e cogli ornamenti pagani: dirò alcuni esempi tra mille. Il Sannazzaro e il Vida sono i due più famosi letterati di questa età, i quali impresero a cantare i misteri della religione. Ora, il primo, nel suo poema De partu Virginis, fa una mescolanza, che direi ridicola, se indecente non fosse, delle più auguste verità della Fede e delle inezie della favola. Tutto vi è pieno di Dei e di Dee, di Driadi e di Nereidi. Il nome del Nostro Signor Gesù Cristo non vi si rinviene una volta sola. Per cantare la Santa Vergine e Nostro Signore, vincitore della idolatria, il Sannazzaro comincia con invocare le Muse: O Musæ…quandoquidem genus e cœlo deducitis. Ciò non bastando implora la Vergine Santa, ch’ egli chiama la ferma speranza degli uomini e degli Dei, spes fida hominum, spes fida Deorum, alma Parens, e della quale fa una Dea e una regina degli Dei: Diva more, reginamque Deorum de more salutat. Il Padre Eterno annunzia l’intenzione sua di ricollocare gli uomini nel soggiorno degli Dei, Divum potius revocentur ad oras. L’angelo Gabriele trova la Vergine Santa a leggere, secondo il suo costume, non già Isaia, non già i Salmi, ma le Sibille, atque illi veteres de more sibyllæ in manibus; ei la saluta col nome di Dea e le dice di nulla temere, exue, Dea, metus animo. La notizia dell’incarnazione giunge agli Inferni; allora le anime dei giusti, le anime d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe esultano d’allegrezza. Perchè? Perché lasceranno le tenebrose rive d’Acheronte, e cesseranno di sentire 1’abbaiar di Cerbero, qui tristia linquant Tartara, et evectis fugiant Acheronta tenebris, immanemque ululatum Tergemini canis. Quanto segue oltrepassa qualsiasi immaginazione. Il poeta personifica il Giordano, e gli fa annunziare il mistero dell’Incarnazione, il Battesimo di Nostro Signore e i suoi miracoli. Ma da chi? da Proteo! Cœruleus Proteus…. hoc effudit Carmine voces : « Adveniet tibi, Jordanes, properantibus annis, adveniet, mi crede », inquit. Il secondo, non meno gran fabbricatore di versi, non pensa, non parla se non con Virgilio ch’ei sapeva egregiamente. Vescovo dotto, senza macchie, il Vida fu uno degli uomini posti nelle più favorevoli condizioni per ostare all’andazzo del suo secolo. Per tale riguardo, egli merita uno studio speciale: l’influsso del paganesimo sovr’esso ci dà la misura, a minima, di quello che fu sugli animi di men forte tempra. Ora, il dotto, il grave, il degno vescovo di Cremona ci rimane quale una viva prova che il Rinascimento, ripudiando l’eredità letteraria dei secoli di Fede, più non permetteva di scrivere sovra alcun argomento, grave o frivolo, religioso o profano, senza adoprare il linguaggio del paganesimo, senza porre di mezzo i suoi uomini e i suoi Dei. La Poetica del Vida, scritta in centoni virgiliani, non parla se non di Febo, delle Muse, del Parnasso e di Minerva. Più spesso forse che non in verun autore pagano, vi si trovano i nomi degli Dei e delle cose del paganesimo. Nel suo fanatismo, il Vida giunge perfino a fare di Virgilio una specie di Dio per l’eloquenza e per la santità: Verba Deo similis; nil mortale sonas. Salve, sanctissime vates; un Dio ch’egli onora; un Dio al quale promette, per sempre, corone, incensi, altari ed un culto sacro; un Dio insomma che il poeta deve invocare. Te colimus: tibi serta damus, tibi thura, tibi aras, et tibi rite sacrum semper dicemus honorem. Nos aspice, prassens, pectoribusque tuos casus infunde calores, adveniens pater, atque animis lete insere nostris. Lo stesso prelato compone gravemente un poema sul Giuoco degli scacchi. Non crediate mica che i giocatori sieno semplici mortali: sono re, imperatori, personaggi storici d’Oriente e d’Occidente. La partita è impegnata tra Apollo e Mercurio: essa si gioca nelle nozze dell’Oceano colla Terra. Giove è giudice del combattimento; sono spettatori Venere, Marte e Vulcano. La lotta si compie frammezzo i tiri da baro degli Immortali, e termina con vantaggio dei soldati neri, i quali trionfano con la inspirazione di Mercurio!! Dopo essersi esercitato sovra letterarii argomenti, il Vida tratta argomenti cristiani. La sua più importante opera si è la Cristiade. Litografia dell’Eneide, con interminabili discorsi, ecco che cos’è questo poema, quanto al disegno generale. San Giuseppe, poi San Giovanni, raccontano a Pilato, nel momento della Passione, tutta la storia di Nostro Signore. Lascio da parte l’anacronismo; altri vedrà se mi sia permesso di non parlare della mancanza di naturalezza e di a-tempo che riscontrasi in discorsi senza fine, rivolti a un giudice premuroso di farla finita e sopra pensiero per la sommossa che mugge nelle vie chiedendo la morte della vittima. Vengo alla forma tutta pagana, data ad un soggetto che sì poco la comporta. Dio Padre si rivela in tutti i nomi dati a Giove: egli è il padre degli Immortali, il possente signore della procella, del tuono e della pioggia, il monarca d’Olimpo: Superém sator, Superum pater nimbipotens, allisonans, imbripotens, regnator Olympi. Nostro Signore è sempre un Eroe: l’Eroe rimprovera Pietro perché gli vuole vietar di morire, increpuit dictis quem talibus heros; l’Eroe cammina circondato dai suoi compagni, multìs comitantibus heros instat; l’Eroe immobile sulla tomba di Lazzaro, prega suo padre, immobìlis heros orabat ; l’Eroe, entrato nel tempio, vede i profanatori, heros ingressus vidit; l’Eroe giunto al giardino degli Olivi, si trova accasciato da affligenti pensieri, curis confectus tristibus heros; l’Eroe è senza paura alla vista degli Ebrei che lo vengono a prendere, his nil trepidus compellans vocibus heros; l’Eroe pronuncia parole che convertono San Pietro, tmn monitus verborum, heros quæ extrema canebat, ingemuit; l’Eroe muore insultalo dal cattivo ladrone, ipse edam verbis morientem heroa superbis stringebat. Non è solo dalla sua penna episcopale che il Vida lascia cadere ad ogni momento il nome di Eroe per indicare l’Uomo Dio; egli pone questo nome profano sulle labbra di S. Giovanni. Narrando a Pilato le azioni del Divin Maestro, il prediletto discepolo gli dice : « L’Eroe, traversando una campagna fece seccare un fico sterile, heros qui hac forte tenebat; l’Eroe, alzando le mani al cielo, libera un ossesso, heros palmas in cœlum sustulit ambas; l’Eroe erasi ritirato nel deserto, se ciani subduxerat heros cœtibus; l’Eroe, assalito dal demonio rivela la sua divinità, ed elude tutti gli artifizi dell’ inimico: quale un corsiero, libero del morso, si slancia nella pianura e si ride dell’inseguirlo che fanno i servi mandati sulle sue orme; « Se protinus heros ipse Deum claro confessus numine coram irrita furia dolosque exibat semper apertos. Qualis, ubi excussis per plana evasit habenis, liber equus ludit famulos hinc inde sequentes». E San Giovanni Evangelista quegli che dice tutte queste cose! E ne dice ben altre. Per conoscerle, ei comincia con essere trasportato nel soggiorno degli Dei ; penetralia Divum mente subit. Ritornato in terra e narrando a Pilato il miracolo della moltiplicazione dei pani, dice che il popolo da cui il suo maestro era seguito nel deserto, si trovava privo da tre dì dei benefìzii di Cerere: eos tenia namque muneris expertes Cereris lux acta videbat. Finalmente accusa le Eumenidi d’ aver acceso 1’odio degli Ebrei contro di lui: Eumenides… circumeunt… agitantque furentes. – Sino al sedicesimo secolo nessuno aveva mai saputo che San Giovanni Evangelista avesse imparato mitologia nelle sue estasi; ma che sapevano i secoli barbari? Però il discepolo prediletto non ha detto tutto. Il poeta ci indica coi loro nomi, con le forme loro, tutti gli spiriti delle tenebre che spinsero gli Ebrei all’uccisione del Figliuolo di Dio: il primo è il re dell’Èrebo; vengono quindi le Gorgonidi, poscia le Siingi, seguite dai Centauri, dalle Idre e dalle Chimere; al retroguardo camminano le Scille e le sporche Arpìe. Arbiter ipse Èrebi… Gorgonas hi, Sphingesque obsceno corpore reddunt; Centaurosque, Hydrasque illi, ignivomasque Chimæras; centum olii Scyllas, ac fesdificas Harpyas. Ecco dunque una cosa che è sempre buona a sapersi. Ciò che non lo è meno, si è che la Maddalena deve attribuire le sue colpe a Venere ed alle Furie discese nella sua anima dietro l’infame Dea: sensibus illapsa est Veneris malesuada cupido, qua; mentem immutans Furiis subirci iniquis. Una di queste Furie aveva sette teste; è dessa che tormentava la sgraziata, quella che fu cacciata da Nostro Signore e ch’ei designa col suo nome mitologico: hæc Deus, hæc, inquit, capitum fœdissima septem, correptam misera; mentem vexabat Erinnis. – Quanto segue è ben altramente serio. La Fede ci insegna che è Dio il quale affidò a San Giuseppe la custodia della Santa Vergine, dandogliela per isposa. Il Vida ci dice che è la volontà degli Immortali, ei olim alma Parens fuerat Superém concredita iussis. Volete sapere che è mai la Vergine stessa? è una ninfa, Regia progenies, nymphœ dignatae superbo coniugio; la più bella delle ninfe, nympharum pulcherrima; è qualcosa di più, è una Dea, sub pedibusque Dece lumen dare candida luna. Si è a nome degli Dei che San Gioacchino ordina alla figliuola sua di maritarsi, iussa docens Superém. Sant’Anna, diventata simile ad una Baccante, in preda ad un delirio sacro, e, gettando urli, le indica il suo sposo: In medio Anna parens, subilo correpta furore, piena Deo tota, visu venerabile, in cede bacchatur, tollitque ingentem calo ululatum. – La poesia del Rinascimento si guarda bene (spregiando la semplicità dell’ Evangelio ) dal dire che Nostro Signore mutò 1’acqua in vino alle nozze di Cana; è necessario che il racconto de’ miracoli sia smaltato di qualche bellezza pagana, e 1′ acqua diventa il succo di Bacco: fontis aquam latices Racchi convertit in atros; è eziandio la tazza di Bacco quella che è presentata a Nostro Signore sulla croce: corrupti pocula Bacchi inficimi felle. Il pane azimo, il pane della Eucaristia, è chiamato Cerere senza mescolanza: sinceram Cererem. Finalmente, sia traviamento poetico, sia impotenza di rendere colla lingua latina pagana i misteri del Cristianesimo, sia insomma un fanatico desiderio di richiamare ovunque la forma virgiliana, il Vida si fa lecito di raccontare in questi termini l’istituzione della Santa Eucaristia : « Già l’Eroe prende il pane senza lievito in fretta preparato, lo rompe e lo divide fra tutti; poscia, empie una coppa di vino e d’acqua fresca, benedice la divina mescolanza ch’essa contiene, e la presenta spumeggiante ai suoi compagni dicendo : « Questa è la vera immagine del nostro corpo, la vera immagine del nostro sangue, che, vittima devota a mio padre, io spargerò solo per tutti gli uomini. – Io non voglio accusare il Vida di eresia; suppongo che il suo verso abbia un senso ortodosso, ma confesso di non saper come provare che queste parole: vera imago corporis, significhino « questo è il mio corpo ». Quanto io so, si è che San Tommaso parla ben altrimenti, e si può affermare ch’ei non avrebbe mai parlato così. Non sarebbe guari difficile il trovare nelle pagane espressioni del Vida molte altre inesattezze teologiche: tanto è vero ciò, che vedremo più lungi, che l’uso della lingua pagana, impotente ad esprimere le cristiane verità, è oltremodo acconcio a spianare la via all’ eresia. Aggiungiamo che dopo avere, secondo la moda dell’età, dato un calcio a tutta quanta la letteratura dei secoli di fede, il degno vescovo finì per pentirsene. Tormentato dal rimorso di avere impiegato parte di sua vita in opere profane, ei disapprova tutti gli errori che avrebbero potuto sfuggirgli e chiede perdono d’avere consacrato alle lettere profane un tempo ch’egli doveva a Dio. – Tali sono il Sannazzaro e il Vida, i due principi della poesia del Rinascimento. Ambedue, cristiani per il loro soggetto, sono affatto pagani per i ragionamenti, per 1’ordinatura, per i mezzi, per le massime, per il metro, per lo stile, per la elocuzione; e tutte e due spesero una grandissima copia di poesia e d’immaginazione in comporre elegantissime frivolezze. – D’ altra parte, il male non fu grande; poiché tale è la noia che i loro lavori inspirano, che non si possono leggere sino alla fine. Tuttavolta il loro esempio diventò funesto. Una folla di pretesi poeti si posero all’opera ed in Francia ed in Italia per rifare gl’inni della Chiesa. Agli occhi di codesti Vandali d’un novello genere, gli inni sacri, i quali, se ne togli qualche eccezione, sono capi d’opera di poesia cristiana, degni dei profondi studi e di tutta l’ammirazione degli uomini di gusto, non erano buoni se non ad essere rigettati fra la mondiglia, come cose barbare. Furono pertanto veduti costoro sostituire ai cauti sacri, scritti nello stile di Sant’Ambrogio, di San Gregorio, d’Innocenzo III, di San Bonaventura e di San Tommaso, nuovi componimenti elaborati nello stile e secondo il metro d’Orazio. Qui ancora, il Vida, precursore di Santeuil e di Coffin, spinto da uno zelo molto più grammaticale che episcopale, compose, per le solennità di Nostro Signore e dei Santi che si celebrano nel corso dell’anno, inni che sono vere odi di Orazio, meno l’ispirazione poetica. A parte la scelta delle parole e la misura , nulla vi si rinviene di grande, nulla di santo, nulla di pio; e leggendoli, il cuore si raffredda ben più che non si riscaldi per le cose celesti. – Finalmente, cosa deplorabile, si videro secolari, i quali insino allora avevano impiegato i loro ingegni nello scrivere in favore della religione; ecclesiastici, religiosi, vescovi eziandio, dimenticando e la dignità del loro carattere e i doveri della loro carica, consacrare a gara gli ingegni loro e le loro veglie nello spiegare, commentare, annotare gli autori pagani; spendere tesori di erudizione per far valere, come se si fosse trattato della Sacra Scrittura, ciascuna delle loro parole, per giustificare una variante in un epigramma di Marziale, in una commedia di Terenzio o di Aristofane; per celebrare le ricchezze d’un periodo di Cicerone, o per fare risaltare le infinite bellezze del Quadrupedante putrem di Virgilio e del Procumbit humi bos. Ciò che è viepiù deplorabile, furono visti dare un esempio, sgraziatamente troppo bene seguito dopo la loro età; furon visti tradurre nella loro integrità le opere le più licenziose del paganesimo, e spendere molto più tempo in cantare in poesie fuggitive o di polso, Giove, Venere, Marte, Minerva, Apollo, Diana e soprattutto Cupido, che non in difendere la religione e la società, le credenze ed i costumi cristiani, in allora cotanto violentemente assaliti. Ma un male forse maggiore di quelli che io ho indicato fu il discredito in cui essi gettarono la lingua e la letteratura cristiana. Si fu in allora, grazie a costoro, che quelle vennero chiamate barbare, e come tali considerate. Non uno di tal uomini, il quale non proclamasse come un assioma, che il genio, l’eloquenza, la poesia, la storia, la filosofia, non abitarono mai altri luoghi eccetto il Foro od il Pireo; non un solo, il quale non dicesse collo Scaligero, ch’egli amerebbe meglio aver composto l’ode d’ Orazio: Quem tu, Melpomene, semel, che non l’essere re di Francia. Taluno persino giunse ad un tale eccesso di dispregio per la lingua, per la poesia e per 1’eloquenza cristiana, ed a sì grande fanatismo per la lingua, per la poesia e per l’eloquenza pagana, che oltrepassa tutti i limiti conosciuti del ridicolo. Citerò tra gli altri il dotto religioso, l’ottimo padre Maffei, il quale, come ci racconta uno dei suoi confratelli, chiese sul serio al sommo pontefice il permesso di dire il suo breviario in greco, per tema di guastarsi il linguaggio leggendo il latino della Volgata e del Breviario romano. Se un uomo d’una pietà eminente, se un religioso esemplare poté giungere a tanto, giudichisi dei sensi di tanti altri i quali non avevano né la stessa scienza né la stessa pietà? Da questo rapido abbozzo, chiaro risulta che, sotto l’influsso del paganesimo classico, la moderna letteratura perdette il suo vero carattere, il carattere cristiano e nazionale; che invece di essere originale e indipendente, essa diventò imitatrice servile; invece di essere un prodotto del suolo, essa non è se non una produzione fittizia senza sapore e senza forza, come quei frutti esotici che si educano nelle nostre serre; che invece d’essere l’organo dello spiritualismo, essa è troppo sovente l’apostolo svergognato del sensualismo. Cesserà ella alfine questa parte indegna? Spoglierà essa la toga antica, uscirà essa dal mondo delle ombre e delle favole per entrare in quello delle realtà e della fede? Dio lo sa. Quello che noi sappiamo, si è che tutto è crollato intorno al suo trono; questo trono non può da solo rimanere ritto fra tante rovine. Bisogna che il mondo perisca, o bisogna che simil trono crolli alla sua volta, e che sui suoi frantumi s’innalzi il trono di una nuova letteratura, espressione vera della società restituita a se medesima, cioè diventata cattolica di nuovo,

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (4)

CAPITOLO VII

TERZA EPOCA.

Siffatto ordine, cosi perfettamente logico agli occhi della ragione e della fede, ebbe la disgrazia di spiacere alle persone, che, sapendolo o senza saperlo, ricondussero il paganesimo in Europa ed inaugurarono la terza epoca della nostra pubblica educazione. Ecco in brevi accenti la storia di sì inaudito rivolgimento, del quale noi proviamo anche ai dì nostri le conseguenze perniciose. Costantinopoli era caduta sotto i colpi di Maometto II: ciò fu nel 1453. Tristi reliquie d’una nazione dispersa ai quattro venti per aver tradito la fede dei suoi padri, i Greci fuggiaschi giungono in Occidente. Nel loro fardello gli esuli recan seco le opere dei filosofi, dei poeti, degli oratori, degli artisti pagani, di cui eglino sono ammiratori pazzi. Accolti dai Medici, i Greci pagano la gentile accoglienza ricevuta spiegando le opere dei loro antichi concittadini ed esaltando la gloria di quanto fu inspirato dal genio pagano. A sentirli, l’Europa non conobbe insino allora la letteratura, l’eloquenza, la filosofia, la poesia, le belle arti. « Barbaro, istruisciti: non cercar più i tuoi modelli né le tue ispirazioni nei tuoi pretesi grandi uomini, nei tuoi annali, nella tua religione. Roma pagana, la Grecia pagana soprattutto possono sole offerirli, in tutti i generi, capi d’opera degni delle tue meditazioni. Colà fuvvi il monopolio dell’ingegno, del sapere e dell’eloquenza; colà vissero gli uomini che tu devi imitare, ma che tu non eguaglierai mai. Fia tua gloria l’appressarti loro; non ti lusingare di andare più lungi: essi posero le colonne d’Ercole dell’umano sapere ». Ecco quanto si disse su tutti i tuoni dai nuovi maestri. Occultamente rosa dallo spirito di ribellione, triste frutto del grande scisma d’Occidente, l’Europa presta attento orecchio a questi discorsi: essa vi ravvisa un biasimo, un’ingiuria per il Cattolicesimo. Con tutto l’ardore d’un astio a lungo compresso, essa afferra l’occasione d’infrangere l’autorità letteraria di quello, aspettando di poter infrangere apertamente la sua autorità religiosa. Un eco immenso risponde alla seducente voce dei novelli dottori. Non si hanno più innanzi gli occhi se non i pagani di Roma e d’Atene; si divorano le loro opere, si esaltano alle nubi; non si conoscono più per l’umanità se non due secoli di luce, quello d’Augusto e quello di Pericle: tutti gli altri sono ascosi dal Carlo Dupin di allora sotto larghe zone di nero inchiostro. Nulla è bello, nulla è tollerabile nelle diverse forme dell’umano pensiero, nel linguaggio, nella poesia, nell’eloquenza, nella pittura, nella scultura, nell’architettura, tranne quanto reca il suggello del paganesimo. Gli uomini arrossano di non lo avere saputo più presto: se ne fa ammenda onorevole ingegnandosi di modellarsi sull’antichità. – Tanto per risparmiare all’infanzia una tale fatica quanto per assicurare il buon esito del felice Rinascimento, si prepara frettolosamente uno stampo perfettamente pagano, e vi si gettano le giovani generazioni. – Via i classici cristiani, via gli Atti dei martiri, le Scritture, i Padri della Chiesa che avevano formato i loro avi! La storia degli Dei dell’Olimpo, le favole di Fedro e di Esopo, Quinto Curzio, Ovidio, Virgilio, Orazio, Omero, Senofonte, Demostene, Cicerone, Aristofane; ecco oramai i soli modelli della gioventù cristiana, dei figliuoli dei cavalieri e dei martiri: « Stupiranno gli avvenire, dice un grave protestante dei nostri giorni, di sapere che una società la quale si diceva cristiana dedicò i sette od otto più begli anni della gioventù dei suoi figliuoli all’esclusivo studio dei pagani « Eppure è così. Sì, egli è un fatto che nell’età di cui parliamo vi fu una totale rottura della tradizionale catena dell’insegnamento, una esorbitante deviazione nel processo dello spirito umano; in una parola, un radicale cambiamento nella educazione della gioventù. Si ebbe un altro libro più classico ancora, e, se possibile è, più popolare delle opere stampate o manoscritte: voglio dire dell’arie in generale. Esclusivamente consacrata alla religione, l’Arte spiegava agli occhi dei dotti e degli ignoranti gli Atti dei martiri, i fatti della Scrittura e le storie de’santi: le pagine sì variate, sì intelligibili di questo nuovo libro si trovavano dovunque, nelle chiese e perfino nel focolare della capanna la più umile. Tale era il secondo libro classico, il secondo stampo cristiano delle giovani generazioni. – Ora, quanto si era fatto per la letteratura, si affrettarono a fare per le arti. Al tipo cristiano succede un tipo perfettamente pagano, e vi si riconduce la gioventù. Via tutte le glorie artistiche delle età di fede! Via i magnifici monumenti d’architettura, di pittura, di oreficeria, di cui l’Europa è coperta. I templi mutilati della Grecia e dell’Italia, le statue, i vasi, i resti di colonna, gli archi di trionfo, gli edifici per metà rovinati del paganesimo, gli affreschi dei suoi palazzi, le nudità delle sue ville e delle sue terme: ecco pel pittore, per lo scultore, per l’architetto, pel disegnatore, per l’orefice i veri libri classici ed il tipo esclusivo del bello. Qui, come per la letteratura, l’entusiasmo fu spinto sino al delirio: esso diventò una epidemia che invase l’intera Europa. – Voi avete veduto in qual modo fu rotto lo stampo in cui l’Europa era stata raffazzonata durante quindici secoli, e donde era uscita sì eroica, sì cavalleresca, sì forte, sì grande in ogni modo, in una parola, sì cristiana. Io vi rammemoro ora la vostra prima obbiezione e vi chiedo: Vi sembro io ancora troppo assoluto? Il cambiamento di stampo è egli stato meno assoluto di quanto io avevo detto? Raccogliete la vostra memoria e paragonate. Durante le due prime età, i classici, cioè i libri e le arti insieme, presentate come modelli all’infanzia, sono esclusivamente cristiane. Durante la terza età, sono esclusivamente pagane. Durante le due prime età, i classici propriamente detti sono: gli Atti dei martiri, la Sacra Scrittura, i Padri della Chiesa; gli autori pagani non sono studiati se non di seconda mano, e solo nell’adolescenza. Durante la terza età, i libri classici propriamente detti, sono: le Storie degli Dei del paganesimo, le favole del paganesimo, i libri dei grandi uomini del paganesimo; essi sono studiati principalmente, esclusivamente, e questo sin dalla prima infanzia. – Durante le due prime epoche, i giovinetti rimangono a lungo in seno alla loro famiglia, in cui sono potentemente nutriti del puro latte delle verità cristiane; ei non entrano nelle scuole se non per ricevere un alimento più sostanzioso, ma non meno cristiano. Durante la terza epoca, i fanciulli abbandonano di buon’ora il focolare domestico, in cui hanno già ricevuto un nutrimento metà cristiano, metà pagano: poscia entrano nelle pubbliche scuole, ove non trovano più se non un cibo esclusivamente pagano. Nelle due prime epoche i pagani non sono studiati se non con un’intenzione religiosa, e non già quali modelli di pensare, di sentire e di parlare. Nella terza epoca i pagani non sono per nulla studiati con religiosa intenzione, ma sì come modelli esclusivi della perfezione nell’arte di pensare, di sentire e di parlare. La mutazione di sistema, di forma, di stampo, può ella essere più compiuta?

CAPITOLO VIII

RISPOSTA ALLA SECONDA OBBIEZIONE

TESTIMONIANZA DEGLI UOMINI.

Voi non vi considerate per sconfitto, ed aggiungete: « Ammettendo la mutazione totale da voi indicata, io trovo che voi attribuite una esagerata influenza ad una semplice forma. Ora, il Rinascimento non è insomma altro che una nuova forma, data al pensiero ». Io non disputerò con voi per sapere se il Rinascimento fu una semplice forma o qualche cosa di più. Io parto dal fatto che voi non negate punto, cioè che il Rinascimento si fu l’introduzione del paganesimo nella educazione, Ora, io sostengo che, se ciò non è guari che una semplice forma, la forma reca seco il fondo, e che non esagero per nulla l’influenza da me attribuitale. Per sostenere il mio asserto, ho due sorta di testimonianze: gli uomini ed i fatti. – Gli uomini. Accusandomi di esagerare l’influenza disastrosa del paganesimo nella educazione, sapete voi chi è che accusate? Voi accusate uomini la cui autorità non è discutibile;uomini che dalla loro probità sono esclusi da ogni sospetto; uomini che dalla loro celebrità sono resi rispettabili ed ai loro amici ed ai nemici loro; uomini, cui la loro condizione pose più che altri mai in caso di portare una testimonianza irrecusabile su fatti ch’essi osservarono a lungo,ch’essi toccarono con mano, ch’essi videro con i loro occhi, e di cui parecchi furono vittime. Ho nominato i Padri della Chiesa, i Padri dell’Europa cristiana, le guide le più illuminate delle nazioni, i principi della virtù e della sapienza. Forse che Origene non ravvisava nel paganesimo classico se non una nuova forma data al pensiero, un modo d’istruzione senza pericolo pei giovinetti cristiani? Origene, il quale, parlando degli scrittori e soprattutto dei poeti profani, non teme dire che le opere loro, anche le più celebrate, sono tazze i cui orli sono dorati e il cui fondo è pieno d’un veleno mortifero? (Homil. 2, in Hier). Felice lui stesso, se, tenendosi sempre in guardia contro le opere di cui indicava con tanta eloquenza il pericolo, saputo avesse schivare il veleno dei filosofi pagani con tanta cura con quanta quello dei poeti! Ma no; il grande Origene, ingannato dalla filosofia di Platone, si lasciò trascinare da una folla di errori che scandalizzarono la Chiesa, ed i quali lasciano ancora dubbio a molti circa la sua eterna salvezza. – Il suo commilitone nella lotta in favore del Cristianesimo nascente, l’immortale Tertulliano, avrebbe forse considerato come cosa innocente lo studio dei pagani per parte dei giovinetti cristiani, egli che con tanta verità chiama i filosofi pagani « Patriarchi degli eretici, corruttori della dottrina della Chiesa? (Apud S. Hier; ad Clesiphont.) ». – Sant’Ireneo, il sapiente apologista della religione, da lui segnata col proprio sangue, è più formale ancora. È noto il celebre motto, con cui condannando tutta quanta la filosofia pagana nella persona del suo rappresentante il più accreditato, definisce Platone « artigiano di tutte le eresie (“Doleo Platonem fuisse omnium hæsereseon condimentarium”. De hæres.) ». Ecco qui un testimonio non meno irrecusabile. Lattanzio, che aveva studiato a lungo le belle lettere, ed il quale meglio che altri conosceva il segreto influsso dei libri classici, afferma, come cosa conosciuta ai suoi dì, che la fede in nessun uomo era tanto debole quanto in coloro che erano dediti alla letteratura pagana (homines litterali minus credunt”.). Confermando il pensiero di Lattanzio, Sant’Ambrogio sorge con energia contro coloro i quali, per darsi allo studio degli autori pagani, negligono le Sacre Scritture. « Non vi è pericolo mediocre nel tralasciare la parola di Dio per quella del secolo (“Non est mediocre periculum, cum habeas tanta eloquia Dei, illis prætermissis, loqui quæ sæculi sunt”. Sermo. XXII, in Ps. CXVIII) ». Se tale era siffatto pericolo per uomini maturi d’anni, quanto grande ei non sarebbe agli occhi di sì grande Dottore per giovinetti la cui tenera anima, e senza difesa, tutte le impressioni riceve con una facilità eguale alla fedeltà con cui essa le conserva? Vi citerò io San Giovanni Grisostomo, il quale così si esprime : « Non voglio che si diano ai giovinetti, per prime lezioni, le favole della mitologia…. Cominciate con l’imprimere nell’anima loro i principi della vera sapienza: voi non guadagnerete mai tanto ad insegnar loro le scienze profane che li condurranno alla fortuna, quanto ad insegnar loro la scienza che farà ad essi disprezzar la fortuna (Homil. xxi, in epist. ad Ephes.) ». – Alcune famiglie, allontanandosi da tali regole fortunatamente rispettate dal gran numero, il Santo Dottore le avverte in questi termini: « La prima età, voi dite, è quella dell’ignoranza; sì, e non vedete voi che ciò che la rende più profonda e più pericolosa, si è l’uso che avete di darle per suoi primi libri le storie di quegli eroi antichi che le si insegna ad ammirare, sebbene fossero ingolfati in tutte le passioni? Noi raccogliamo il frutto di simile educazione, la quale tende a popolare la società d’uomini sbrigliati; senza freno e senza costumi, avvezzi a trascinarsi nel fango del vizio (In epist. ad Eph. Homil. xxi, a. 1 et 2 opp,, t. xi, p. 183.)». San Basilio è ancor più formale di San Crisostomo. Egli vuole che i giovani prendano per punto di partenza i principi cristiani, onde giudicare sanamente delle parole, degli atti e delle massime dei pagani; il che suppone evidentemente una grande cognizione della religione, anteriormente acquistata. Soggiunge che la lettura degli autori profani è supremamente pericolosa, perché essa predica il sensualismo ed insegna ad ammirare uomini virtuosi soltanto in parole.Ma la testimonianza di San Gerolamo è più esplicita e più grave di tutte quelle che avete sentite. Insieme con Sant’Agostino egli è forse il Padre della Chiesa che ha maggiormente studiato, che ha meglio conosciuto e più giustamente apprezzato le opere pagane, nonché il pernicioso influsso che esse possono esercitare. Scrivendo al Papa San Damaso, esso pure molto versato nelle lettere latine, gli cita il testo di San Paolo: Non abitate nel tempio degli idoli; poi grida: « E non sentite voi il gran Paolo che vi dice in altri termini: « Non leggete né i filosofi, né gli oratori, né i poeti pagani; non vi riposate in su lo studio delle loro opere. Non ci rassicuriamo pel motivo che non crediamo punto alle cose che leggiamo. Egli è un delitto il bere ad un tempo al calice di Gesù Cristo ed al calice dei demoni (Epist. ad Damas. De duobus filiis.) ». In altri termini, il paganesimo ed il Cristianesimo sono inconciliabili: l’uno si è il sensualismo, l’altro lo spiritualismo; l’uno predica tutto quello che l’altro condanna. Nulla esser vi può di comune tra Gesù Cristo e Belial (Id. ad Eustoch. Oc custodiend. virginit., opp. t. IV, Ep. xvm, p. 12.).« Io stesso ho voluto fare, dice altrove, questa pericolosa prova, ed ecco gli amari frutti che ne raccolsi. Da vari anni avevo lascialo la paterna casa, mi era privato della società dei miei parenti, di mia sorella e dei miei amici; e, ciò che è più difficile, avevo rinunciato all’uso dei cibi delicati; tutto questo per guadagnarmi il Cielo. Avendo l’intenzione di recarmi a Gerusalemme per combattere le battaglie del Signore, non potevo far senza la biblioteca che mi avevo composto in Roma con estrema cura e con pena infinita. Perciò, disgraziato ch’io sono! mi privavo di tutto, digiunavo per leggere Cicerone. Dopo le frequenti veglie delle mie notti, dopo abbondanti lacrime versate in ricordanza dei miei passati errori, prendevo Plauto tra mani. Se talvolta, ritornando in me, provavo a leggere i Profeti, il loro stile incolto mi faceva orrore: e siccome i miei occhi infermi non scorgevano la luce, io credeva che la colpa non fosse dei miei occhi, ma sì del sole. « Mentre ero per tal guisa lo zimbello dell’antico serpente, fui di repente rapito in spirito e trascinato al tribunale del Supremo Giudice. Tale era la purezza della luce che usciva dalla sua Persona, nonché dagli Angeli dai quali Egli era circondato, che io rimasi prostrato contro terra senza osare di alzare gli occhi. Interrogato sulla mia condizione, risposi che ero cristiano. « Tu mentisci, replicò il Giudice; tu sei ciceroniano, e non cristiano; poscia ché colà dove è il tuo tesoro, ivi pure è il tuo cuore. » A queste parole, io mi tacqui, e il Giudice ordinò fossi percosso, ed i colpi che riceveva mi erano meno crudeli dei rimorsi dai quali era la mia coscienza lacerata. Mi rammentai di questa parola del profeta: Chi potrà lodarvi nell’inferno? Tuttavia co- minciai a gridare e a dire singhiozzando: « Signore, abbiate pietà di me! » Finalmente coloro che attorniavano il tribunale gittaronsi ai piedi del Giudice e Gli chiesero grazia per la mia giovinezza, e tempo per fare penitenza del mio errore, dicendogli che mi sottometteva al supplizio se mai ritornassi alla lettura degli autori pagani. Io stesso, in quella estremità, faceva promesse ancora più grandi; giurai, invocando il nome di Dio, che se mai m’accadesse di conservare libri pagani, volevo esser tenuto quale un apostata.« Appena pronunciato questo giuramento sono rilasciato, e ritorno in me stesso. Con grande stupore di quei che mi attorniavano apro gli occhi talmente molli di pianto, che ciò solo bastava a provare agli increduli la violenza del dolore che avevo sofferto. Non fu già quello un sogno od un vano parossismo, come quelli che talvolta si provano. Ne prendo a testimonio quel tribunale innanzi cui ero prostrato, ne prendo a testimonio la formidabile sentenza che mi agghiacciò di spavento. Perciò non mi accadrà mai più di espormi a subire una simile tortura, in cui mi ebbi le spalle afflitte da colpi dei quali provai a lungo il dolore, e dopo la quale studiai le Sacre Scritture con altrettanto ardore quanto n’avevo impiegato a studiare prima le opere profane (“Nec vero sopor il le fuerat, aut vana somnia, quibus sæpe deludimur. Testis est tribunal illud, ante, quod jacui; testis iudicium triste, quod limui: ita mihi uunquam contingat in lalem incidere quaestionem , liventes habuisse scapulas, plagas sensisse post somnum, et tarilo dehinc studio divina legisse, quanto non ante mortalia legeram”. Ad Eustoch., De custod. virginit., cp. XVIII, opp. IV, p. 43. Prolegom, in Daniel., et ad Pammach.) ». – Il santo Dottore fu fedele al suo giuramento. Non solo non gli accadde più di leggere alcun autore pagano, ma ei temette eziandio di citarne i passi che gli ritornavano naturalmente alla memoria. A coloro che gli dicevano ciò che oggidì si ripete, cioè che senza la cognizione di quegli autori, non si potrebbe ben parlare né ben scrivere, ei rispondeva: « Quanto voi ammirate, ed io lo disprezzo; e lo disprezzo poiché gustai la follia di Gesù Cristo: e la follia di Gesù Cristo, sappiatelo bene, è più sapiente di tutta quanta l’umana sapienza ».

CAPITOLO IX

SEGUITO DEL PRECEDENTE .

Sentiamo ora Sant’Agostino. Verun Padre della Chiesa adoprò mai tanìa forza e perseveranza a combattere il deplorando uso dei classici pagani quanto codesto ammirabile Dottore, il cui cuore così bello come l’ingegno voleva ad ogni costo preservare i giovanetti da un pericolo in cui ei medesimo aveva trovato miseramente la propria perdita. Ei comincia con indicare il motivo pel quale i suoi parenti gli facevano studiare i pagani autori; è esattamente lo stesso motivo che è allegato oggidì. « Mi si diceva, ei scrive, è colà che s’impara il bel parlare; è colà che si attinge l’eloquenza sì necessaria per persuadere e per esporre vittoriosamente i l proprio pensiero (1Conf., lib V) ». Ora ci dimostra con un esempio non solo la frivolezza, ma eziandio il pericolo di simile motivo. « E che! dice, non conosceremmo noi queste parole pioggia d’oro, girone, belletto, se Terenzio non ci parlasse d’un giovine dissoluto che si proponeva lo stesso Giove per modello di un’infamia? No, non è coll’imparare siffatta turpitudine che noi impariamo tali parole, ma con tali parole s’impara a commettere con maggiore coraggio simile infamia ». – Quindi, pieno di dolore e di indignazione, grida: « Guai a te, torrente del costume! Chi arresterà i i tuoi guasti? Quando sarai tu disseccato? E sino a quando trascinerai tu i figliuoli di Eva in quel mare immenso, formidabile, che appena traversano i meglio armati? Non è forse questa bella scienza della fàvola quella che ci mostra un Giove tuonante e adultero? È una finzione! gridano tutti i maestri. Finzione sinché vi piacerà; ma questa finzione fa che i delitti non sono più delitti, e che commettendo simili infamie si ha aria d’imitare non già uomini perversi, ma gli Dei immortali. « Eppure, oh fiume infernale! Si è coll’esca delle ricompense che s’imbarcano i figliuoli degli uomini sulla corrente dei tuoi fiotti per fare imparar loro di tali cose! lo non accuso le parole che sono vasi preziosi ed innocenti, ma sibbene il vino dell’errore e del vizio che ivi ci era presentato da maestri ubriachi; e se noi non bevevamo, eravamo percossi senza che ci fosse stato permesso di richiamarcene ad un giudice sobrio…. e poiché io imparava di tali cose con piacere, chiamavanmi giovinetto di grandi speranze (Conf. Lib. I c. 16) ». – Virgilio stesso, il più casto dei poeti latini, fece profonde ferite alla sua anima. « Io imparai, dice, studiandolo, molte utili parole che avrei altrettanto bene imparato leggendo cose men vane; ma inoltre imparai le avventure di non so quale Enea, e dimenticai i miei propri errori. Imparai a compiangere Didone, che s’era uccisa per aver troppo amato; ed io stesso, trovando la morte nel leggere quelle colpevoli follie, non avevo per me alcuna lacrima negli occhi. Quale deplorabile induramento! Se si voleva privarmi di cosiffatta lettura, piangevo di non aver nulla a piangere; ed una tale demenza chiamavasi le belle lettere! (“Talis dementia honestiores et uberiores littere putantur. Ibid. ib. c. 13.) ». – E voi, o maestri, professori, reggenti, i quali, anche ai dì nostri fate un caso capitale dello studio di ciò che voi chiamate la bella latinità; i quali non temete punto di proporre qual modelli Orazio, Catullo, Terenzio, ben più pericolosi che Virgilio non è; i quali date nota di barbaro a quanto non reca il suggello del loro linguaggio, sentite come Sant’Agostino giudica la vostra condotta: « Mi si faceva tenere quale una cosa capitale, a cui ero forzato applicarmi colla speranza delle ricompense o col timore dei castighi, l’imparare le parole piene di dolore e di collera di Giunone, impossente ad impedire Enea di approdare in Italia. Eravamo obbligati a dire in prosa alcune delle cose che il poeta aveva detto in verso: ed il più applaudito era colui che meglio avesse finto la collera ed il dolore di quella Dea immaginaria. Guardate, o Signore, mio Dio, guardate quale importanza i figliuoli degli uomini danno a sillabe e a lettere, ed ei dimenticano i vostri precetti! Di tal che biasimano più volentieri colui che avrà mancato di emettere un’aspirazione nel pronunciare una parola, che non colui che non avrà temuto di infrangere la vostra legge. Ve egli a stupirsi che tutte queste vanità mi abbiano allontanalo da voi, o mio Dio? Poiché non si cessava di proporre alla mia imitazione uomini che non si tralasciava di coprire di ridicolo, se, nel riferire le azioni loro, d’altra parte irreprensibili, essi avevano la disgrazia di commettere un barbarismo od un solecismo; mentre essi erano colmati di lodi allorché avevano l’ingegno di raccontare le infamie loro in un idioma corretto ed elegante? (Ibid. c. XVIII) ». – Quali furono pel giovine Agostino i frutti di questa educazione, così perfettamente simile alla nostra? Quelli che esser dovevano, quelli che saranno sempre: il predominio del sensualismo, l’indebolimento dello spiritualismo; in altri termini, l’immoralità precoce e il disgusto delle cose di Dio. « Quando io fui più innanzi negli anni, dice ei medesimo, mi proponeva di leggere le Scritture affin di sapere che si fossero. Ma io non era capace di penetrarne il senso; il mio orgoglio non si voleva sottomettere alle loro lezioni. Lo stile, i pensieri, tutto mi sembrava indegno d’essere paragonato alla maestà di Cicerone. La gonfiezza del mio spirito non poteva affarsi al loro linguaggio; il mio occhio non penetrava la profondità dei loro pensieri. La sapienza che vi si fa sentire è quella che si compiace coi pusilli; ed io non voleva essere pusillo: ed ebbro di me stesso, mi credeva qualche cosa ben grande (lib. III, c. 5). – Non dimentichiamo, la Storia d’Agostino è più o meno la storia di tutti i giovani; la storia del suo cuore è la storia del cuore umano. Dovremo dunque stupirci se sentiamo un sì grand’uomo alzare la sua voce possente e gridare a tutti i secoli: « Istruire i giovinetti con libri pagani non è solamente un insegnar cose inutili, ma eziandio un toglierli al Cielo e sacrificarli al demonio. Che sono mai tutte queste cose, se non vento e fumo? Non v’ha dunque altro modo di coltivare lo spirito e di formarlo all’eloquenza? Le vostre lodi, o Signore, con tanta eloquenza cantate nelle Scritture, avrebbero innalzato, raffermato il mio debole cuore, e l’avrebbero trattenuto dal diventare preda degli augelli impuri. Ah! vi è più di un modo di sacrificare l’uomo ai demoni. È dunque così che ei conviene educare i giovani? Sono eglino questi i modelli che loro si debbono presentare? Così operando, voi non offrite già né augelli, né animali, e nemmeno sangue umano; ma, ciò che è ben più abominevole, si è l’innocenza della gioventù che voi immolate sugli altari di Satana (Ib., et Epist. Ad Nectarium.) ».Poi, ad un tratto, vedendo la triste condizione dei giovinetti, che sì crudelmente vengono rapiti a Dio, prende a piangere, e grida: « Voi vedete ciò, o Signore, e Voi vi tacete, Voi che siete pieno di longanimità, di misericordia e di verità. Ma tacerete voi sempre? Non ritrarrete voi da questi pozzi dello abisso anime che sono fatte per voi e che han sete del vostro amore? ». Aggiungiamo che uno dei più amari rimorsi di sì gran Santo quello si fu d’avere ei medesimo insegnato retorica conforme al metodo pagano, e d’aver corrotto così, materializzandolo, il cuore dei suoi discepoli.Per evitare le ripetizioni, io non ritornerò sul proposito delle autorità del medio-evo. Noi abbiamo veduto che durante cotale età la solenne proscrizione dei classici pagani era una legge generale e fedelmente osservata. Citerò solo la lettera di San Gregorio il Grande a Desiderio, vescovo di Vienna nel Delfinato. Dimenticando la proibizione fatta dall’immortale pontefice a tutti i vescovi d’insegnare ai giovani la pagana letteratura, Desiderio aveva infranto quell’ordine che a ragione riguardavasi come importantissimo. Gregorio, avendolo saputo, gli scrisse nei termini seguenti: « Ci fu fatto sapere (il che non possiam rammentarci senza arrossire) che Vostra Fraternità insegna la grammatica a taluno. Simile cosa ci cagionò tanto dolore ed eccitò nell’anima nostra un così profondo disgusto, che le buone notizie che avevam ricevuto di voi si sono mutate in gemito e in dolore; poiché le lodi di Giove non potrebbero trovarsi nella bocca stessa colle lodi di Gesù Cristo. Considerate quale delitto, quale mostruosità non è mai il rinvenire in vescovi ciò che non si addice nemmeno ad un laico religioso. Ora, sebbene il nostro carissimo figliuolo, il sacerdote Candido, sia qui venuto dopo che ci fu annunziata tale nuova, e quantunque essendo egli stato accuratamente interrogato, abbia negato il fatto, e cercato di scusarvi eziandio, noi continuiamo tuttavia ad essere inquieti; e quanto più ella è cosa orribile il narrare tali cose di un sacerdote, tanto più noi amiamo sapere di certa scienza se elleno sono vere o no. Se dunque ci sarà dimostrato che quanto ci fu riferito è falso, e che voi non sciupate il tempo nell’occuparvi di bagattelle e di lettere profane, noi renderemo grazie a Dio il quale non ha permesso che il cuor vostro fosse macchiato dalle lodi blasfematorie d’uomini indegni di questo nome (Epist., lib. XI, cp. 54, opp. t. III, p. 1171, edit. novis.) ». In questa sì energica lettera, è l’insegnamento degli autori pagani ai giovani, quale è dai Padri della Chiesa indicato, che è condannato? No, poiché San Gregorio stesso lo approva altrove e poiché esso era praticato, come vedemmo, nelle scuole del medio-evo. Ciò che è condannato si è l’insegnamento della letteratura pagana, dato da un vescovo e dato ai fanciulli; il che è inescusabile, soggiunge il Pontefice, anche in un laico sinceramente religioso, cioè che capisce e la santità del cristiano e l’influsso fatale degli studi pagani sovra anime senza esperienza.A questa lunga catena tradizionale aggiungiamo un ultimo e brillante anello. Verso la metà del sedicesimo secolo, nel momento in cui il paganesimo risuscitato nella educazione invadeva Europa, uno di quegli uomini sapienti, quali l’illustre Società di Gesù non cessò mai dal produrre, il Padre Possevino, tremante per lo avvenire, faceva sentire queste energiche parole: « Un antico ha détto: « l’educazione non è poca cosa, essa è tutto; essa è l’uomo, la società, la religione ». E questo ha detto in un libro in cui egli rivela alle nazioni il segreto di loro grandezza e di loro rovina (Non parum sed totum est, qua quisque disciplina imbiutar a puero. Arist. Politic.). Infatti, noi vediamo che gli Ebrei, sebbene abitanti in mezzo di Roma, sebbene per la loro stessa dispersione siano vivente prova dello adempimento delle profezie e delle minacce di Nostro Signore contro Gerusalemme e contro la Sinagoga; sebbene abbiano tutto dì sotto gli occhi gli archi di trionfo di Tito e di Vespasiano, monumenti eterni di loro rovina; sebbene siano convinti da ogni sorta di prova dell’abolizione della legge loro, non si convertono. E perché? Perché sino dalla fanciullezza essi hanno ricevuto col latte il veleno dell’errore. Lo stesso vediamo nei Turchi, quali tutti rimangonsi ostinati nella loro superstizione e nelle loro insostenibili credenze. Ancora, perché? Perché l’educazione ha, per dir così, ribadito loro nel capo le false opinioni dei padri loro. « Quale pensate voi dunque essere la cagion formidabile che oggi precipita gli uomini nello abisso del sensualismo, della ingiustizia, della bestemmia, dell’empietà, dell’ateismo? Si è, nonne dubitate, che sin dalla fanciullezza si insegnò loro di tutto, eccetto la religione; si è che nei collegi, semenzaio degli Stati, loro si fece leggere e studiare di tutto, eccetto gli autori cristiani. Se vi si parla di religione, codesto insegnamento va unito coll’insegnamento impuro del paganesimo, vera perdita dell’ anima. A che mai può servire, io vi chiedo, il versare in una vasta botte un bicchiere di vino puro, delizioso, ben fatto, ed il versarvi in egual tempo torrenti di aceto e di vino guasto? In altri termini, che significa egli un po’ di catechismo per settimana coll’insegnamento giornaliero delle impurità e delle empietà pagane? Ecco però quanto si fa nel secolo nostro da un capo d’Europa all’altro! « Volete voi salvare la vostra repubblica? Mettete senza ritardo la scure alla radice del male; esiliate dalle scuole vostre gli autori pagani, i quali, col vano pretesto di insegnare ai figliuoli vostri la bella lingua latina, insegnano loro la lingua dell’inferno. Li vedete! Appena usciti di fanciullezza essi si danno allo studio della medicina o delle leggi, od al commercio, e ben presto dimenticano il po’ di latino che hanno imparato. Ma non dimenticano già i fatti, le massime impure da loro lette nei profani autori e da essi imparate egregiamente. Così fatte rimembranze rimangono loro talmente scolpite nella memoria, che per tutta la loro vita amano meglio leggere, dire, sentire cose vane e disoneste che non cose utili ed oneste: somiglianti a stomachi infermi, essi tosto rigettano i salutiferi insegnamenti della parola di Dio ed i sermoni e le religiose esortazioni che più tardi loro sono indirizzate (Ragionamento del modo di conservare lo Stato e la libertà ai Lucchesi.) ». L’eloquente scrittore chiede indi che cosa bisogni sostituire agli autori pagani, e risponde che fa d’uopo ritornare all’antico uso dei classici cristiani, uso praticato nelle università e nelle scuole del medioevo; uso approvato, comandato da Dio stesso, dai Padri, dai Concili e da mille altre ragioni; uso che consiste nel porre tra mano ai giovinetti gli Atti dei martiri, le Vite dei santi, la Scrittura e i Padri; dopo di che, sotto la direzione di maestri illuminati e cristiani, potrà la gioventù non solo senza pericolo, ma ancora con profitto studiare gli autori profani e giudicar sanamente delle loro dottrine, paragonandole alle dottrine cristiane delle quali sarà stata nutrita. Per rendere pratici questi salutari consigli e per opporre un argine qualsiasi al torrente del male, un confratello del Padre Possevino, il venerabile Canisio, fece stampare le lettere di San Gerolamo, ad uso delle scuole. Bisogna dirlo; questa raccolta, adottata in un grandissimo numero di ginnasi e di collegi sì in Alemagna sì nel resto d’Europa, ritardò l’invasione del paganesimo.Che dirò ancora? La Chiesa stessa fece sentire la sua gran voce e vietò espressamente di porre tra mano a giovanetti i libri pagani. A questo nuvolo di testimonianze, facil cosa sarebbe aggiungerne altre molte. Quelle che hanno deposto sembra che bastino per darmi diritto di chiedere se v’ha nella storia un fatto meglio provato della riprovazione quindici volte secolare del paganesimo nella educazione; se non v’ha presunzione né imprudenza nel non far caso alcuno degli avvertimenti solenni della sapienza, del senno, dell’ esperienza e della virtù; se agli occhi dei Padri della Chiesa e dei Pontefici il paganesimo classico non è se non una semplice forma, una forma innocente, una forma la quale non ha alcun sinistro influsso sulla gioventù, e dalla gioventù sulla letteratura, sulle arti, sulla filosofia, sulle scienze, sulla religione, sulla famiglia, sulla società; in una parola, sull’universo procedere delle cose umane?

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (3)

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE

ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE

(3)

[Mons. J. J. Gaume, trad. dal francese di A.V. – Napoli 1854]

Cap. VI

SECONDA EPOCA.

Abbiamo veduto quale fu il sistema di letteraria educazione seguito dai cristiani durante la prima epoca, cioè durante i primi cinque secoli della Chiesa. Noi lo studieremo nella seconda epoca, che comprende tutta la durata del medio-evo. – Interrogando ben bene i monumenti che ci rimangono, noi troviamo lo stesso metodo, se non che gli autori pagani sono ancor meno letti, se non che eglino spariscono anche interamente dal novero dei classici. Difatti, il motivo di studiarli, non ha più, a gran pezza, lo stesso valore. – Il paganesimo greco-romano è vinto, vinto nei suoi tiranni e nei suoi filosofi, vinto nelle idee e nei fatti. Il motivo cristiano di leggere i suoi autori è sparito: il mondano pretesto di studiarli non è peranco inventato. Padrona del campo di battaglia, la Chiesa può oramai adempiere in tutta la sua pienezza la grande missione che le fu assegnata, di rinnovare la faccia del mondo. Intorno ad essa si stringono i robusti figliuoli del settentrione, vincitori semi-selvaggi del vecchio mondo. Bisogna tagliare e pulire questo duro granito: bisogna rendere pieghevoli ed incivilire quei fieri Sicambri: tale si è la sua unica cura, tale sarà la sua gloria. – Ora, essa sa che lo incivilimento non è se non il Cristianesimo applicato alle società; essa sa che tale applicazione, acciò sia reale e duratura, deve prima raggiungere l’infanzia; sa che l’infanzia è segnata o piuttosto formata, irrevocabilmente formata dall’educazione; sa che l’educazione dipende dallo stampo in cui sono gittate le generazioni, le quali sono pagane o cristiane, secondo che lo stampo stesso è pagano o cristiano; sa finalmente che il rozzo elemento a cui essa deve dar forma noi può essere se non per l’azione esclusiva, cioè forte e costante del Cristianesimo. – Il pensiero dominante in quei grandi secoli trovasi per intero nelle notevoli parole di un santo che esercitò grande influenza sul procedere degli animi: si direbbe una nuova promulgazione delle costituzioni apostoliche. Nella vita di Sant’Eligio, il suo collega nell’episcopato, Sant’Oven, vescovo di Roano, così dice: « Qual profitto ricaviamo noi, ve lo chiedo, dalla lettura dei vari grammatici, i quali sembrano piuttosto rovesciare che fabbricare? A che cosa ci servono, in filosofia, Pitagora, Socrate, Platone ed Aristotele? Di qual utile sono ai lettori i tristi canti dei poeti colpevoli, come Omero, Virgilio e Menandro? Quale vantaggio può egli ridondare alla cristiana famiglia da quei facitori di storie pagane, Sallustio, Erodoto e Livio? Qual’arte oratoria di Lisia, di Gracco, di Demostene e di Tullio può essere paragonata alle pure e belle dottrine del Cristo? Di quale utile ci sarà mai l’abilità di Fiacco, di Solino, di Varrone, di Democrito, di Plauto, di Cicerone e d’altri che credo inutile di qui enumerare? » [Vit. B. Elig. Prol. vers. fin.] Durante questa seconda epoca, tutti i classici sono cristiani. Si pensa, così poco a negare questo fatto importante, ch’esso servì d’eterno testo agli innumerevoli rimproveri che si fanno da tre secoli agli avi nostri. Cotal testo sarà esaminato più tardi: prosieguo. – La lingua latina rimase, almeno durante una parte del medio-evo la lingua volgare degli antichi abitanti d’Europa; nel nono secolo, il greco stesso sembra stato generalmente conosciuto.Grazie a questa felice circostanza, l’infanzia poté essere custodita all’ombra del tetto paterno molto più a lungo che non ai dì nostri. Colà, come nei primi secoli, essa veniva sodamente nutrita dalla lettura dei Libri Sacri, degli Atti de martiri, delle opere dei Padri, dalle leggende dei santi, dei racconti a volte così ingenui e così perfettamente epici delle grandi azioni dei cavalieri, dei crociati, dei pellegrini, degli illustri fondatori di tutti gli ordini religiosi, il cui nome era così popolare come le loro opere sono sublimi. Ecco quanto consta da tutti i monumenti contemporanei; ecco ciò che prova il religioso suggello cosi profondamente improntato nel linguaggio, e perfino nei più semplici usi degli abitanti di campagne, del pari che degli abitanti di città. – Né solo presso il domestico focolare il fanciullo leggeva quei classici meravigliosi. Ei li trovava scritti in caratteri fiammeggianti nelle vetrate di tutte le chiese e nei dipinti che ne coprivano le pareti Sicché come i quei dì tutti andavano in chiesa, e spesso; così cotale lettura era veramente la lettura classica e popolare. Quindi, l’usanza consacrata anche ai dì nostri in un gran numero di famiglie d’insegnare a leggere ai fanciulli nella Bibbia a figure. Quindi ancora l’altra usanza non meno religiosamente conservata in certe parti di Francia e d’Europa di leggere, ogni sera almeno nell’inverno, gli Atti dei martiri e le Vite dei santi, in presenza della famiglia adunata. Lasciando la famiglia, la gioventù destinata alla chieresia entrava nelle pubbliche scuole. Si sa infatti che in quel tempo, preteso barbaro, il suolo d’Europa, la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, l’Irlanda, l’Italia, era coperto di scuole poste vuoi nei presbiterii di contado, vuoi nei monasteri, vuoi nelle cattedrali, vuoi nelle case episcopali. Ivi riunivansi spesso in un’età ancor tenera i ragazzi delle varie classi della società; tutti vi ricevevano una educazione comune, quale si fosse la differenza delle carriere ch’eglino intendevano abbracciare. Volete conoscere i libri che loro ponevansi fra mano? Leggete le belle lettere di San Gerolamo a Leta e ad Eustachio: esse erano il direttorio degli studi, e voi vedrete con quale ammirabile fedeltà il medio-evo conservasse le regole pedagogiche deprimi secoli della Chiesa. Si cominciava, o piuttosto si proseguiva l’educazione cominciata presso il domestico focolare, colla letteratura ecclesiastica, cioè con quanto spetta alla religione, alla sua storia, alle sue glorie, alla sua dottrina. I principali classici erano gli Atti dei martiri, o, come allora dicevasi, il Libro delle passioni, liber passionum; libro più alto di alcun altro a sviluppare energicamente nell’anima dei giovinetti tutti i nobili sensi di fede, di distacco, di generosità, di coraggio, che formano i grandi caratteri ed i grandi popoli. Quindi quell’ aureo libro si procurava a grandi spese e collocavasi in capo alle più ricche biblioteche. Questa testimonianza di rispetto era una conformità di più all’usanza de’primi cristiani, i quali non si sgomentavano per spesa di sorta, per pericolo alcuno, affine di ottenere gli Atti dei martiri, di cui essi facevano la loro assidua lettura. Una delle glorie della Gran-Brettagna, Acca, successore dell’illustre Wilfrido, arcivescovo di Canterbury, si rese celebre per la magnifica biblioteca da lui composta. Sapete voi qual è il primo libro citato dall’immortale suo storico? Gli Atti de’martiri. Al Libro delle passioni aggiungevasi la Sacra Scrittura, e sovrattutio i Salmi, che in generale si facevano imparare a menadito, come si usa fra di noi le favole di Fedro o l’Arte poetica di Orazio. La storia minuta di certe educazioni non lascia verun dubbio sulla universalità del sistema. Limitiamoci a qualche esempio, preso a caso fra i vari popoli di Europa. San Bonifacio, scrivendo la vita e il martirio di San Livino, così narra il modo col quale ci fu educato nei suoi primi anni: « Codesto fanciullo, dice, dotato di egregie disposizioni, scelse la vita contemplativa e visse con San Benigno, sacerdote scozzese, uomo di nascita illustre. Volendo essere istruito da tale sacerdote nella melodia dei Salmi, nella dolce lettura dei santi Evangeli ed in altri divini esercizi, la sua tenera età trascorse secondo i suoi desideri, in guisa, che, come se stato egli fosse in un immenso giardino di una bellezza tutta celestiale, procedeva innanzi ogni di più, passando per tutti i gradi della virtù. La sottigliezza del suo intelletto era mirabilmente sviluppata, e, colla cooperazione alla grazia, ei non rinveniva difficoltà veruna nello studio di tante cose divine, né nella pratica degli esempli de giusti (Vita B. Livio) ». Narrasi di San Patrizio, che la madre del giovine Lanano, avendogli condotto il figliuol suo acciocché egli lo ammaestrasse nelle lettere, il santo uomo lo affidasse al beato Cassano, ed il giovinetto apprendesse in poco tempo tutto quanto il Salterio, e diventasse poscia uomo di una vita edificantissima. Parlando del giovine Leobardo, d’una illustre famiglia, San Gregorio di Tours dice che, giunto il tempo, ei fu inviato a scuola, ove apprese a memoria tutto il Salterio. Lo stesso raccontasi di San Nizerio, vescovo di Lione, il quale rese il servigio medesimo ad altri giovinetti. Nello studio dei Libri Sacri adopravasi quella saggia prudenza di cui San Gerolamo dà le regole scrivendo a Leta. Piena di reverenza pel fanciullo , laChiesa allontanava da esso, anche nei Libri Sacri, quanto avrebbe potuto porre in pericolo la sua innocenza o stancare la sua immaginazione; le opere dei padri servivano ad un tempo di modelli d’eloquenza e di commenti ai Libri Sacri. Qui pure v’era lo stesso metodo che nei primi secoli della Chiesa, in cui lettura delle lettere dei supremi pontefici e dei Vescovi era il cibo dei fedeli. – I trattati delle scienze e delle arti si spiegavano poscia. Ma secondo quel gran principio di ordine e di luce, che la religione è nel mondo ciò eh’è il sole nel firmamento, il centro intorno a cui tutto gravita, le scienze e le arti si studiavano non già come scopo, ma sì come mezzo, non già di benessere, ma di perfezionamento spirituale e temporale, e di utilità per la religione. Perciò vediamo che nelle dotte scuole d’Inghilterra, stabilite dall’illustre Teodoro, arcivescovo di Cantorbery, la geometria, l’astronomia, le matematiche in generale, erano per tal guisa insegnate sotto il riguardo religioso, ch’elleno portano il nome di geometria, d’astronomia di matematiche ecclesiastiche. Lo stesso avveniva della pittura, della scultura, dell’architettura, della poesia; poiché tutte codeste cose furono stabilite per servire alla gloria del loro Autore. Insegnavano pure le lingue straniere, sia per trarre profitto dai tesori di scienza religiosa dei vari popoli, sia per poter predicare l’Evangelio all’Oriente ed all’Occidente. Erano esse, per questa doppia cagione, cosa di cura speciale. Infatti noi reggiamo che un gran numero le parlavano come loro lingua materna. La storia consegnò questo fatto, che il re Gontrano fu ricevuto in Orleans da una compagnia di persone che cantavano le sue lodi gli uni in siriaco, gli altri in latino, e parecchi in ebraico. – Il latino si parlava in Roma soprattutto, nel palazzo di San Gregorio, con ammirabile perfezione. Vedremo più tardi il concilio di Vienna ordinare solennemente l’erezione delle cattedre di tutte le orientali nelle varie università dell’Europa. Nulla dico delle scienze morali e della filosofia soprattutto, poiché è cosa troppo evidente ch’esse erano tutte considerate come serve della teologia. Così le chiama San Tommaso, le cui opere, non meno di quelle dei dottori del medio-evo, sono una prova solenne di quella magnifica definizione. Ecco del resto il programma degli studi in quei secoli che vogliono barbari. Scritto da Marciano Capella, retore africano del quinto secolo, e venendo dalle più alte tradizioni dell’antichità, siffatto programma rimase invariabile per dodici secoli. « A dieci anni cominciavano gli studi in regola; essi si dividevano in due periodi di cinque anni ciascheduno. Durante il primo, si percorreva il Trivium, che corrispondeva la grammatica, la Dialettica, e la Retorica. Per assai tempo cotali studi non arrossivano di essere modestamente chiamati Triviali. Alla grammatica apparteneva lo studio delle lingue. Si trovano sulle rive della Loira, in Angers, in Orléans, in Poitiers, tutte le lingue dotte coltivate, senza eccettuare le lingue orientali. La dialettica precedeva saggiamente la retorica, la quale quindi non era più ciò che poscia diventò, un fuor d’opera tra la grammatica e la filosofia, un’arte di esprimere pensieri che si avranno più tardi. – « Secondo l’attitudine e i progressi dei discepoli succedeva al Trivium il Quadrivium, il quale li iniziava alle nozioni più alte dell’aritmetica, della geometria, dell’astronomia e della musica. Ora, tutti siffatti elementi sparsi si riunivano col mezzo di una possente ed armonica sintesi. Noi useremo, per esporla, i termini proprii degli antichi. Secondo essi, l’ educazione dell’uomo, come la formazione del mondo, a due cose si riduceva: alla parola ed al numero, e a due fini che tutto abbracciano, l’eloquenza e la sapienza. – « Tre vie menavano all’eloquenza: l’arte di parlare correttamente, di pensar giusto e di ben dire; ovvero, la parola elaborata dalla grammatica, aguzzata dalla dialettica, espressa ed abbellita dalla retorica: il verbo nella sua purezza, nella sua forza e nella sua bellezza, tale si era l’eloquenza. – « Era necessario un cammino più lungo e più arduo per giungere alla sapienza od alla scienza, cose identiche. Tuttavolta, tutto comprendevasi nel numero; ma v’era il numero che si moltiplicava o che si decomponeva in infinite combinazioni, l’aritmetica rappresentata dall’unità; v’era il ninnerò astratto assoluto, immutabile nell’ estensione ideale, ovvero la geometria, che aveva per emblema il binario; v’era il numero moventesi attraverso gli spazi creati, e recante seco i corpi celesti e il mondo nei giri di un immenso vertice; l’astronomia, di cui una sfera era il simbolo. Finalmente, alle sette corde della lira, una mancava ancora. Sicché quando tutti codesti accordi risuonavano insieme, l’armonia sveglia vasi nell’anima, la musica appariva, come quei concerti che Pitagora sentiva in lontananza dal mondo e nelle profondità del suo spirito. Questo era il compimento dell’uomo, la consumazione della sapienza. Così formavasi quella scala dell’umano sviluppo i cui due segni erano la parola e la saggezza; ed i sette gradini, quelle arti liberali che formavano 1’uomo innalzato al vero suo valore, il saggio eloquente: Vir bonus dicendi peritus. – Che sono essi mai, quanto a profondità e ad armonia, i moderni sistemi rispetto a quello? Tuttavolta, quello non era se non lo stampo uniforme in cui passavano tutti gli intelletti. Venivano poscia le cognizioni speciali ad ogni situazione della vita: esse davansi nelle università. Finalmente, perfino la letteratura pagana, conforme allo spirito dei Padri della Chiesa ed alle regole di prudenza dettate da quegli uomini immortali, era studiata nella età conveniente, acciò le spoglie d’Egitto servissero all’ornamento del Santuario. Così, da una parte, l’adolescenza, e mai l’infanzia, toccava quel vaso i cui orli sono dorati, ma la cui coppa contiene veleno. D’altra parte, l’adolescenza medesima, che dico! i maestri stessi nol toccavano se non di passaggio e colle maggiori precauzioni. Se in qualche luogo taluno si allontanava da queste regole, delle quali, i mali che noi soffriamo non permettono a nessuno di revocare in dubbio la grandissima sapienza, tosto lagni e grida di pericolo si fanno sentire. Il supremo pontefice, la grande scolta d’Israele, era avvisato: tutto rientrava nell’ordine, e l’Europa proseguiva ad attingere il bello alla stessa sorgente a cui attingeva il vero, il buono, il giusto. – Terminiamo con alcuni particolari utili a conoscersi specialmente ai dì nostri. Le persone di chiesa, i buoni monaci, dediti in generale all’educazione della gioventù, adempievano all’ufficio loro con un fervore che ne assicurava il buon esito ed al quale punto non rassomiglia la condotta degli uomini di mestiere che speculano sull’insegnamento ufficiale. Fervore nell’istruirsi. La vita dell’ ecclesiastico, ovvero del religioso destinato all’insegnamento, era vita di studi. Nessun pensiero di famiglia, nessuna cura dei bisogni del vivere, nessuna ansia per le agitazioni del di fuori distraeva il suo pensiero: pregare ed istruirsi per santificare ed ammaestrare i suoi discepoli, quest’esse erano tutte le sue sollecitudini. I sacri canoni, le regole dei monasteri glie ne facevano un dovere di coscienza. In mancanza di altre prove, ciò solo dimostrerebbe l’immensa superiorità del loro insegnamento. – Zelo nel conservar l’innocenza de’discepoli loro. Qui pure qual differenza tra la condotta dei religiosi d’allora e quella dei professori d’oggidì! Ai dì nostri, tutta l’educazione è abbandonata all’influsso dei maestri di studi. Altre volte, i maestri non lasciavano i loro fanciulli né il dì né la notte. Nulla io conosco di più commovente e di più istruttivo delle seguenti prescrizioni dei concili di Tours e di Toledo: « I religiosi e i chierici, dicono essi, ai quali l’educazione dei giovanetti è affidata, abbiano cura che i giovani di quindici anni e più in là, dimorino insieme e dormano in una sala comune, senz’essere abbandonati, nemmeno un sol momento, dal loro direttore o dal loro maestro. Di notte uno succeda all’altro per fare una lettura, affinché le medesime precauzioni che si prendono per conservare la purezza del corpo loro servano eziandio a rischiarar le loro anime ». – Zelo nell’alleviare i loro bisogni. Di questi tempi non si può entrar nei luoghi d’insegnamento se non a prezzo di danaro. Nei secoli barbari del medio-evo, la scienza non costava nulla. Essa si impartiva gratis, e quei religiosi sì avidi davano ancora ai giovinetti poveri e libri e cibo corporale, senza di che quelli non avrebbero potuto proseguire i loro studi. – Uscendo dalle scuole poste nei presbiterii, nei monasteri, nelle cattedrali, nell’abitazione stessa dei vescovi, la gioventù portavasi alle università. In quei grandi centri di luce, dei quali la religione aveva cotanto dotato 1’antica Europa, lo spirito d’insegnamento era lo stesso che presso il focolare domestico e nelle scuole elementari: uomini e libri, tutto vi era cristiano. Aristotele solo, perdonatemi l’espressione, ebbe il diritto di venire ammesso a libera pratica, ed ottenne il privilegio d’una grande popolarità. Ma, da un lato, questo filosofo non era posto tra mano ai giovanetti; dall’ altro, nol si studiava né pel fondo dei pensieri, né per la forma oratoria dello stile suo; egli era letto soltanto a cagione del suo metodo dialettico. L’interesse della religione ispirava i nostri Padri, e nessuna persona sagace vorrà negare ch’ei fossero ben ispirati. A rischio di scandalizzarvi, dirovvi che la dialettica ha vari titoli alla mia speciale estimazione. Il primo si è il male che ne dissero gli eretici ed i novatori, e ne dissero molto. Il secondo, si è l’immenso servigio da quella reso all’ umano spirito ed alla verità. Lo spirito umano le deve quel cammino fermo e quella possanza di deduzione che lo rattiene dal perdersi nel vago, e che comunica alle moderne nostre lingue la più preziosa di loro doti, la precisione: immenso beneficio non mai posseduto dalle lingue antiche. Di vero, essa somministrò armi sicure, vuoi per respingere gli assalti dell’errore, vuoi per smascherare l’errore medesimo, ed irretirlo nei suoi propri lacci, riducendo le sue divagazioni e la sua ciancia alla forma chiara e inesorabile di un sillogismo. Tuttavolta le opere d’Aristotele non furono senza pericolo; esse diedero luogo a più errori giustamente condannati dal vescovo di Parigi, Stefano Tempier, nel 1277: « Abbiamo udito, ei dice, che alcuni studiosi delle arti (di filosofia) eccedendo i limiti della loro facoltà, osano sostenere errori manifesti, o piuttosto chimere stravaganti. Eglino trovano queste proposizioni nei libri dei pagani, e loro sembrano cotanto dimostrative, che non sanno rispondere alle stesse. Volendo palliarle, cadono in un altro scoglio; poiché dicono che sono vere, secondo il filósofo, cioè secondo Aristotile, ma non secondo la fede cattolica. Come se due verità che si contraddicono esistessero! ». – Ricapitoliamo brevemente quanto precede. Da questa concisa esposizione emana il fatto che noi vogliamo stabilire, cioè: che durante il periodo del medio-evo i libri classici furono esclusivamente cristiani. Dal principio della Chiesa sino al decimo sesto secolo, l’opinione invariabile dei Padri e dei saggi, fu che la letteratura pagana non si rifaceva né allo spirito, né all’indole della religione cristiana; che perciò era necessario di studiar quella che naturalmente nasceva dal Cristianesimo, che era la sua espressione e che respirava il suo spirito. « La nostra vera latinità, dice S. Prospero, si è, se male io non mi appomgo, quella la quale, ritenendo solo la proprietà dei termini dell’antica latinità, esprime le cose brevemente e semplicemente, e non quella che si compiace della bellezza della forma.» – La gloria eterna di San Gregorio il Grande si è d’aver fissato con i suoi scritti quella lingua latina cristiana, della quale i Padri avevan posto le fondamenta; lingua sì ammirabile di lucidità, di ricchezza, di semplicità, d’ unzione, di eleganza, e così differente dalla lingua latina pagana quanto il giorno differisce dalla notte, od il cristianesimo stesso dal paganesimo. L’illustre pontefice non ristette a ciò; unendo i suoi sforzi a quelli di Sant’Isidoro di Siviglia, nulla omise acciò i giovinetti imparassero le lettere latine unicamente nei cristiani autori, la qual cosa ebbe luogo infatti, siccome vedemmo. In mancanza delle prove qui sopra riferite, si può questo evidentemente conchiudere dalla semplice osservazione seguente: nostro malgrado, noi conserviamo nell’età matura lo stile, i pensieri, l’elocuzione degli autori dei quali fummo nutriti nella infanzia; il vaso ritiene a lungo l’odore del primo liquore da esso ricevuto: quo semel est imbuto, recens servabit odorem testa diu. – Quindi ne viene che San Gerolamo e Sant’Agostino, benché ambedue abbiano efficacemente condannato i classici pagani, lasciano nel loro stile trasparire qualcosa del numero e del giro degli autori profani con i quali la loro infanzia aveva stretta famigliarità; all’opposto, da San Gregorio sino a San Bernardino da Siena, a Sant’Antonino da Firenze, ed a San Lorenzo Giustiniani, scrittori del quindicesimo secolo, egualmente celebri per la loro eloquenza e per la sapiente gravità delle opere loro, verun autore cristiano lascia scorgere nei suoi scritti cosa che senta lo stile, 1’eloquenza profana, la tazza dei pagani scrittori. La è questa la provala più evidente che tutti avevano appreso nella loro infanzia il latino, non già negli autori profani, ma negli autori cristiani. Quindi ne derivava quel gusto, quell’ardente amore per la Sacra Scrittura e per gli antichi Padri ch’ei conservavano tutta la loro vita, e che rinviensi non solo negli ecclesiastici, ma ancora nei laici ed anche nelle donne. Quanto alle opere pagane, essi non concedevano a quelle se non un’attenzione secondaria, e non le leggevano se non nell’età matura; questo non già per formarsi lo stile, ma unicamente, secondo 1’esempio dei primi cristiani, per cercare quanto servir potesse a confermare e ad illegiadrire la verità cristiana. – Cosiffatta fu l’economia degli studi dal principio della Chiesa, sino al finire del secolo decimo quinto. Per conseguenza la filosofia, la letteratura, le scienze, avendo lo stesso spirito della teologia, procedevano insieme sulla stessa via della verità cristiana, di cui essi continuavano lo sviluppo ciascuno a guisa sua e con mezzi esclusivamente cristiani. Infatti, noi vediamo che tutti i libri di quell’epoca, e soprattutto quelli che i Trecentisti han pubblicato (ad eccezione del Boccaccio), hanno per scopo storie cristiane od argomenti cristiani, poiché amare la propria patria, procurare la sua gloria è un dovere del Cristianesimo. – Le arti ci offrono il medesimo spettacolo. A mia saputa, non avvi pittore, non scultore di quell’età che abbia preso a trattare un soggetto mitologico, pagano, osceno o anche esclusivamente profano. Il viaggiatore attento che passa per Venezia può anche di presente acquistare con i suoi occhi la certezza di quanto io dico. Venezia può esser estimata come il più vasto museo dell’arte cristiana. Percorrendo gli innumerevoli suoi monumenti dei secoli decimoterzo, decimoquarto e decimoquinto, nulla vi si rinviene che si riferisca alla mitologia, né che abbia odore di paganesimo; nulla di osceno, né di turpe, né di profano. Che dico mai! Il bronzo, il marmo, i magnifici quadri che rammentano le grandi imprese dei Veneziani contro i Turchi, bastano soli per provare che quegli eroici fatti d’arme si compierono dai cristiani ed appartengono ad una repubblica cristiana. – Perciò, i moderatori e le guide di quell’età si indegnamente calunniata sapevano, come i Padri della Chiesa, che 1’unico mezzo di aver generazioni cristiane sì era di gettarle in uno stampo cristiano. Non già che quegli uomini, cui non si temé di chiamar barbari, non abbiano potuto far uso, per l’educazione della gioventù, degli autori profani. Essi li possedevano, poiché ce li han conservati. Essi li leggevano, poiché li hanno copiati migliaia di volte; ora, poiché essi li hanno e letti e trascritti, pare eziandio li capissero. – Inoltre, li sapevano apprezzare. Per conservarli facevano sacrifici che ci farebbero indietreggiare. Così, nell’ottavo secolo, un povero monaco, Lupo, abate di Ferrières, scrive in tutta Europa per chiedere manoscritti, affine di farli copiare e di servirsene per correggere quelli ch’ei possiede: « beninteso, aggiunge, che tutte le spese saranno a mio carico. » A quando a quando egli scongiura Eginardo di mandargli i manoscritti dell’Oratore di Cicerone, delle Notti attiche d’Aulo Gellio; prega il vescovo di mandargli i Commentari di Cesare. Ad Ausbaldo chiede il manoscritto delle Lettere di Cicerone, a Marquado, abate di Prom, il manoscritto di Svetonio per farlo copiare: a Papa Benedetto III, i Commentari di San Gerolamo, le Istituzioni di Quintiliano, i Commentari di Donato sovra Terenzio, Sallustio, i Discorsi contro Verre ed altri in gran copia. – Nel decimo secolo, il celebre Gerberto, prima umile monaco di Aurìllac, poscia arcivescovo di Ravenna, e finalmente Papa col nome di Silvestro II, non dimostra minor desiderio di conservare e di moltiplicare i manoscritti degli autori profani. Vescovi, religiosi, in Francia. in Italia, in Alemagna, nel Belgio, sono posti a contribuzione, ed il generoso pontefice compra a peso d’ oro quelle opere, le quali, così facilmente come gli autori cristiani, si sarebbero potute dare, e non si diedero, qual classici alla gioventù. Nei secoli seguenti, noi ravvisiamo lo stesso zelo perpetuarsi in tutta Europa sia in Lanfranco, arcivescovo di Cantorbery, sia in Desiderio, abate di Montecassino, poscia Papa col nome di Vittore III, e in molti altri il cui novero empirebbe intere pagine. I dotti conoscendo dunque nel medio-evo gli autori pagani, e studiandoli, ed apprezzandoli, chi oserà sostenere ch’essi non avrebber potuto proporli per modelli alla gioventù, ed essi medesimi imitarli? Che mai mancava loro per ciò? Le opere di quegli autori? ma le possedevano. Il buon gusto necessario per ammirarle? E che! tutti quegli ingegni di prima riga, i quali nel medio-evo e prima tennero sì alto e sì fermo lo scettro del sapere e della eloquenza, non avrebbero forse potuto, se voluto l’avessero, imitare il linguaggio dei pagani, l’architettura pagana, altrettanto bene e molto meglio che nol fecero i personaggi d’ogni fatta che da tre secoli se ne arrogano il privilegio? Né Sant’Agostino, né San Gerolamo, né San Crisostomo, né San Bernardo, né Alberto il Grande, né Dante, né Petrarca, né San Bonaventura, né San Tommaso, né mille altri non avrebber potuto copiare nel loro linguaggio la forma pagana, non meno di quello che gli architetti delle nostre immortali cattedrali avrebbero potuto copiare nei loro lavori le linee rette ed il pien sesto d’Atene e di Roma? No; se nol fecero, si è perché nol vollero fare; e nol vollero fare perché troppo buon gusto avevano per commettere simile stranezza, troppa ragione per risuscitare una forma logoratasi col pensiero ch’essa aveva rivestito, troppa altezza per abbassarsi, come fu fatto dipoi, alla parte d’imitatori servili e sgraziati. – Né solo le sommità del tempo conoscevano gli autori profani. Come nei primi secoli della Chiesa, lo studio ne era permesso quando cessava d’essere pericoloso. Ora, siffatto studio aveva luogo, e, ciò che forse vi meraviglierà, esso era, sino ad un tal quale punto popolare. Non citerò se non un esempio che da tutti gli altri dispensa. Ricordatevi dei bei versi dell’immortal cantore della Divina Commedia, in cui il venerando Cacciaguida, bisavolo di Dante, narra che le dame del suo tempo favellavano dei fatti di Troia, delle antichità di Fiesole e delle eroiche gesta dei Greci e de’Romani, filando la loro rocca o cullando i loro bimbi. – Confrontando le date, voi troverete che questo avveniva nell’undecimo secolo. Voi vedete pertanto che il Rinascimento non inventò, come se glie ne fa l’onore, i Greci ed i Romani. Prima del Rinascimento essi godevano, presso i nostri buoni avi, una onorata ospitalità. Solo il medio-evo aveva avuto il buon senso ed il buon gusto di porre ogni cosa a suo luogo: il Cristianesimo in prima fila, il paganesimo in seconda; il Cristianesimo come base e come corpo dell’edificio, il paganesimo come ornamento accessorio; il cristianesimo come modello, il paganesimo come cesellatura; il cristianesimo come l’essenziale, il paganesimo come forma secondaria di cui si poteva benissimo far senza, non recando nocumento di sorta né alla sodezza, né alla beltà dell’ordine sociale, né ai progressi della mente umana.

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (2)

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE

ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE

(2)

[Mons. J. J. Gaume, trad. dal francese di A.V. – Napoli 1854]

CAPITOLO IV

RISPOSTA ALLA PRIMA OBBIEZIONE — STORIA DEI LIBRI

CLASSICI: PRIMA EPOCA

Voi dite, in primo luogo, che io sono troppo assoluto e che il cambiamento di stampo non fu sì compiuto come io pretendo. Per rispondervi, voi mi obbligate a narrare rapidamente la storia dei libri classici dallo stabilimento del Cristianesimo ai dì nostri: lo farò. Questa storia si divide naturalmente in tre epoche ben distinte. – 1) La prima si estende dalla predicazione degli Apostoli sino alla fine del quinto secolo. – 2) La seconda comincia nel sesto secolo e termina col decimo quinto: esso comprende il medio-evo propriamente detto. – 3) La terza parie dal sedicesimo secolo, e giunge sino a noi. Distinguendo accuratamente l’infanzia dall’adolescenza, noi diciamo: durante la prima epoca, i libri classici dell’ infanzia sono esclusivamente cristiani. Tutti sanno che le lingue da noi ora chiamate classiche o morte erano allora le lingue viventi di Roma e d’Atene, nonché di tutti i popoli inciviliti. I fanciulli le imparavano non nelle scuole, ma nel domestico focolare; non da maestri stranieri, ma dai loro parenti e dalle loro nutrici; non da regole, ma dall’uso, come noi stessi impariamo la nostra lingua materna. Ora, quella infanzia si prolungava molto. Non era infatti necessario di applicare così di buon’ora la gioventù allo studio della grammatica e di ritenervela, come si fa di presente, per tanti anni. Rimane a sapere quali racconti risuonassero di continuo alle orecchie dei fanciulli cristiani, in seno alla famiglia; quali libri essi maneggiassero esclusivamente colle innocenti loro mani; quali canti essi ripetessero in comune. La risposta non è dubbia: ognuno conosce l’estrema cura dei primi cristiani di nutrirsi e di nutrire esclusivamente la loro giovine famiglia della lettura de Libri Santi, degli Atti dei martiri e delle Lettere dei sovrani pontefici; di insegnarle sulle dita e di farle cantare con loro i salmi di Davide, di istruirla a fondo nei dogmi, nei precetti, negli usi della religione, acciò quei giovani atleti avessero all’occasione ed il coraggio di confessare la fede in mezzo ai supplizi, e la capacità necessaria per vendicarla dai sofismi e dalle calunnie de’pagani. Questo genere di istruzione non era nuovo. Lo si trova tra gli Ebrei, in ogni antichità e ad esclusione di ogni altro. Allontanare dai loro figliuolini ogni altro libro tranne i Sacri Annali della nazione, non far loro imparare e cantare se non i Canti religiosi di Mosè e dei profeti: tale fu, nessuno lo ignora, l’uso invariabile dei discendenti d’Abramo e di Giacobbe. Ebrei di origine, eredi dell’ antica Chiesa, gli apostoli formarono l’educazione dei fedeli sul tipo dell’educazione in uso nella nazione santa. – Le prove di questa asserzione si offrono in copia. L’esclusione degli autori profani è comandata , in termini oltre ogni dire formali, dalle Costituzioni apostoliche. In questo monumento, che Sant’Atanasio chiama la dottrina degli apostoli raccolta da San Clemente, e Sant’Epifanio, il riassunto, senza corruzione, delle regole di condotta, si legge: « Astenetevi da tutti i libri de’Gentili. Che ve ne fate voi di quelle dottrine, di quelle leggi straniere e di quei falsi profeti? Quelle letture han fatto perdere la fede ad alcuni uomini leggieri. Che vi manca egli nella legge di Dio, perché ricorriate a quelle favole? Se volete leggere storia, avete i libri dei re; se vi abbisogna filosofia o poesia, ne troverete nei profeti, in Giobbe, nell’autore dei Proverbi, e con maggior perfezione ed altezza che non in verun altro di quei sofisti e di quei poeti. Infatti, la sola parola di Dio è sapiente. Volete voi la lirica? leggete i salmi; origini antiche, forse? leggete il Genesi; leggi, precetti di morale? prendete il divin codice del Signore. Astenetevi dunque assolutamente da tutte quelle opere profane e diaboliche (Costit. Apost. Lib. I, c. 6) ». Quanto all’ assidua lettura della Sacra Scrittura per parte dei giovinetti, penetriamo nell’interno di alcune di quelle antiche famiglie d’Oriente e d’Occidente, il cui esempio fa testimonio dello spirito generale, e vedremo che il libro sacro era il primo classico dell’infanzia. « Non prima Origene uscì dalla culla, Leonida suo padre impresse nel suo spirito le lettere divine. Ei non si contentava già di dare a questo studio alcuni istanti rubati all’insegnamento ciclico: questo studio, ei l’aveva posto in prima fila. Ogni giorno ei faceva imparare al ragazzo alcuni passi delle Scritture, e il giovine Origene vi prendeva piacere maggiore che non a studiare gli autori greci ». Nella famiglia così cristiana e così illuminata dei Gregori, l’educazione si praticava nella stessa guisa. – La Sacra Scrittura era insinuata nello spirito dei fanciulli con i loro primi pensieri, per prendervi in qualche guisa posto del primo occupante. Così furono allevati i Santi Basilio e Gregorio di Nissa, i loro fratelli, le loro sorelle, Gregorio di Nazianzo e Cesario. Macrina una delle loro sorelle, divenuta istitutrice, senza essere madre, fece ancor più che non i suoi parenti ed i maestri suoi. Avendo essa fatto voto di verginità, prodigò al più giovine dei suoi fratelli, da lei veduto nascere, tutta quella materna tenerezza che le donne hanno naturalmente in cuore. Essa prese il fanciullo nella culla e lo volle essa allevar bene, secondo le sue idee. Ora, le sue idee non potevano non essere quelle da lei ricevute nella sua propria educazione. Sentiamo ora il suo illustre fratello, San Gregorio di Nissa, a farci conoscere quale era stata l’educazione di Macrina: « Appena Macrina uscì d’infanzia, egli dice, mostrò essa la più felice facilità nel1’imparare. Sua madre stessa aveva voluto essere la sua istitutrice; essa medesima studiava per istruirsi. Essa si guardò bene dallo insegnarle le finzioni dei poeti, di cui è vezzo imbevere i giovani animi. Sembrava a quella poco decente ed anche pericoloso il rappresentare all’immaginazione di sua figlia quei quadri, quei moti appassionati, pennelleggiati dai tragici poeti; ancor più le debolezze che si attribuiscono alle donne nelle commedie: era questo, a suo avviso, un infettare ed un corrompere, sin dalla più tenera età, un’anima ben nata. – « Essa pertanto aveva amato meglio fare una scelta dei tratti i più edificanti, delle massime le più segnalate dei nostri libri santi, e la sua figliuolina le imparava. Il libro della Sapienza le aveva somministrato una moltitudine di sentenze e di riflessioni proprie a formare il cuore ed a rischiarare lo spirito, per tutta la condotta della vita. Celesta madre egregia aveva estratto dai Salmi certe invocazioni ch’essa acconciava a tutti gli esercizi, in guisa che sia che sua figlia si alzasse, o si vestisse, o prendesse il suo cibo, essa aveva sempre qualche versetto di un salmo appropriato alla circostanza, e lo cantava come una graziosa canzone. Nel tempo stesso che Emilia coltivava così lo spirito della sua fanciulla esercitava le sue mani ai lavori del suo sesso e le insegnava a maneggiare abilmente la lana ed il fuso ». – Tale si fu 1’educazione di Macrina, e tale si fu quella del suo giovine fratello Pietro, di cui essa erasi incaricata. Lo studio delle lettere profane fu assolutamente esiliato dalla sua istruzione. La sua dolce istitutrice seppe adoperare e distribuire il suo tempo in modo, che non gliene rimase punto da dare alle vane scienze. – Questa educazione era ovunque la stessa. San Gerolamo, scrivendo a Gaudenzio e a Leta sull’educazione dei loro figliuoli, vuole che la giovine Pacatula, per prima istruzione, sin dal suo settimo anno, prima che i suoi denti siano forti abbastanza per far sua un’alimentazione soda, incomincia a tappezzare la sua memoria colle belle ispirazioni del re profeta, e che sino a quattordici anni essa faccia dei libri di Salomone, dell’Evangelio, degli apostoli e dei profeti. il tesoro del suo cuore. – « Si è dalla scrittura stessa, dice egli a Leta, che la vostra fanciulla comincerà a leggere, a scrivere, a parlare. La sua giovane lingua impari a ridire le soavi cantiche del re profeta. Non le si permetta di formare accozzamenti di parole prese a caso; si sceglieranno queste parole nelle sante lettere, e i primi che essa saprà pronunciare saranno i nomi degli apostoli, dei patriarchi e dei profeti. Il primo libro che essa imparerà sarà il Salterio: questi cantici divini, essa li canterà al suo svegliarsi. Nei Proverbi di Salomone, imparerà a vivere con saggezza; nell’ Ecclesiaste, a calpestare sotto i piedi le cose del mondo; in Giobbe, la virtù della pazienza e del coraggio. Passerà quindi all’Evangelio, per non più lasciarlo; essa si identificherà con gli Atti e con le Epistole degli Apostoli, ogni giorno ve ne reciterà alcuni passi che saranno come un mazzetto di fiori colti nelle Scritture … Tenetela lungi da tutte quelle letture che introducono un linguaggio pagano nel seno stesso del Cristianesimo. Che mai vi può essere di comune tra i canti profani del paganesimo e i casti accordi della lira de profeti? In quai modo amicare Orazio con Davide? Virgilio con l’Evangelio? Si ha bel volere salvarsi con l’intenzione; egli è sempre uno scandalo il vedere un’anima cristiana in un tempio d’idoli ». – Non si dica che qui si tratta dell’educazione delle giovinette. Noi abbiamo già veduto che la Scrittura era il libro classico dei fanciulli dell’uno e dell’altro sesso. Se ciò non basta, sentiamo ancora i Padri, regolatori e storici della famiglia primitiva. « Guardatevi, aggiunge San Crisostomo, dal tenere per superfluo lo studio dei nostri santi libri. La Scrittura insegnerà ai vostri figli ad onorare il loro padre e la loro madre: voi vi guadagnerete quanto essi stessi. Non dite che ciò non è buono se non per le persone separate dal mondo. Certo, io non pretendo fare di voi de’ solitari: diventasse pur tale il vostro figlio, ei non ci perderebbe nulla; ma no, basta che egli sia cristiano. Egli è destinato a vivere in mezzo al mondo; egli è nei nostri libri santi ch’esso imparerà la sua regola di condotta. Ma per questo fa d’uopo ch’egli se ne imbeva sin da’suoi giovani anni (Hom. XXI in ep. Ad Thes.) ». – Quando la comunità fu sostituita alla famiglia per l’educazione della gioventù, San Basilio scriveva: « lo studio delle lettere deve essere accomodato allo spirito dell’educazione dei fanciulli, le Sacre Scritture serviranno ad essi di vocabolario. Si racconteranno loro, invece di favole, le ammirabili storie della Sacra Bibbia; essi impareranno a meraviglia le massime del libro dei Proverbi; si proporranno loro ricompense, sia per le esercitazioni di memoria, sia per le loro composizioni, acciò si rechino allo studio come ad una ricreazione dell’animo senza noia di sorta, senza ripugnanza alcuna. – Ma evvi un fatto che dispensa da tulle le testimonianze. Ogni discorso degli antichi Padri della Chiesa, ogni pagina della storia di quei tempi eroici offre luminosa prova che la Scrittura era pure il libro classico di tutte le famiglie in Oriente e in Occidente. Origene, Sant’Atanasio, San Basilio, San Crisostomo,   Sant’Agostino e tanti altri non mancavano certo né di tatto, né di zelo, né di scienza, né d’eloquenza. In che modo dunque codesti grandi uomini avrebbero essi trattato innanzi ai fedeli le più alte questioni della Teologia, e della Scrittura, se essi non avessero saputo che i loro uditori, istruiti su queste cose fin dall’ infanzia, erano appieno in stato di capirle? – Si ignora forse che parola per un’altra, in una citazione dell’Evangelio, bastava per mettere in rumore tutta quanta un’assemblea? Si ignora forse che Sant’agostino non ardiva far leggere in chiesa la versione di San Girolamo, sebbene affatto ortodossa, temendo di sembrar proporre qualche cosa nuova e di scandalizzare i popoli avvezzi ad un’altra traduzione? Si ignora forse finalmente, che San Girolamo stesso, incaricato dal Papa San Damasti della correzione dei Libri Sacri, esita ad imprenderla, prevedendo che egli farà insorgere i reclami di tutti i fedeli? « Qual è mai, dice egli, il dotto o l’ignorante, il quale, pigliando in mano la mia traduzione, ed accorgendosi della differenza tra quanto ei leggerà e quanto egli ha, per dir così, succhiato col latte, non gridi tosto, e non mi tratti di falsario e di sacrilego, accusandomi d’aver osato fare qualche cambiamento, qualche aggiunta e mutilazione negli antichi esemplari? (Præf. In quatuor Evang.) ». La Scrittura era adunque il primo libro classico dell’infanzia ne’ secoli che toccano alla culla del Cristianesimo. Ai Libri Santi si univano gli Atti dei martiri, di cui i primi sono contemporanei degli Apostoli. Non solo nelle pubbliche assemblee e nelle chiese essi si leggevano; ogni fedele ne faceva in particolare la sua più ordinaria lettura: essi erano il libro della famiglia. I più grandi santi non cessavano di raccomandarne lo studio, e tale era la venerazione e 1’amore dei padri nostri per questi sacri monumenti, che molti li portavano indosso, non polendosene separare nemmeno nei loro viaggi. Quindi non risparmiavano spesa alcuna, non s’atterrivano a nessun pericolo per procurarseli. Lo stesso era delle lettere de’ sovrani pontefici. Lette nelle sinassi, commentate e rilette nel domestico focolare, diventavano esse per i padri e per i figlioli una regola viva di condotta e di fede, ed una fonte di consolazioni. Più tardi vi si aggiunsero le opere dei primi santi e dei primi difensori della religione. Così durante i primi cinque secoli, classici esclusivamente cristiani ammanivansi all’infanzia cristiana, e l’infanzia rimaneva molto più lungo tempo all’ombra tutelare del focolare domestico: tale sì è il doppio fatto che risulta dai primi monumenti dell’oriente e dell’Occidente. – La frequentazione delle scuole pagane, la lettura delle opere pagane non cominciavano se non in una età più inoltrata e dopo che il fanciullo era munito degli antidoti migliori. A questo proposito, i particolari che precedono e la storia dei più illustri Padri della Chiesa non permettono alcun dubbio. San Basilio e San Crisostomo erano adolescenti quando ascoltavano le lezioni del retore Libanio; San Gregorio di Nazianzo non era più giovine quando fu mandato a Cesarea dapprima, poscia ad Alessandria e finalmente ad Atene; San Girolamo aveva diciotto anni quando andò a Roma a studiare grammatica sotto Donato. Per gli adolescenti, e solo per gli adolescenti, classici pagani, scuole pagane. E come sarebbe stato altrimenti? Il Cristianesimo, privo, nel suo nascere, d’ogni umana letteratura, trovò la società pagana in possesso della letteratura e della scienza. Ai maestri pagani apparteneva esclusivamente il diritto d’insegnare dalle pubbliche cattedre. Se qualche cristiano imprendeva a farlo, era forzato a servirsi di autori pagani. Tali autori infatti erano considerati da tutti siccome i modelli finiti dell’eloquenza, della poesia e delle umane lettere. Se i maestri cristiani proibito avessero ai loro discepoli lo studio di quelle opere, se essi stessi proscritte le avessero dalle loro scuole, qual mezzo v’era d’iniziare i giovani cristiani alle scienze umane? Quale specioso pretesto non avrebbero avuto i pagani di calunniare il Cristianesimo? Avrebbero essi forse tralasciato, come non arrossirono di fare i pagani di questi ultimi tempi, di accusarlo d’oscurantismo e di barbarie? Gli epiteti ingiuriosi di setta d’idioti, di setta nemica dei lumi, ch’essi gli prodigarono senza fondamento, con quanta apparenza di ragione non gli sarebbero stati applicati, se il Cristianesimo chiuso avesse ai suoi discepoli le sole fonti in allora note della scienza, della eloquenza e della filosofia? Cosiffatta opinione avrebbe evidentemente rovinato le scuole dei maestri cristiani, e costretto la gioventù ingenua a volgersi solo ai dottori del paganesimo. Bisogna confessarlo, nulla era più triste di somigliante condizione dei giovani cristiani. Tuttavolta essa era parimenti esente da pericolo e da errore. – Da pericolo; soltanto, come abbiamo veduto, dopo essersi affatto premuniti contro il veleno delle opere e dei maestri pagani, essi si servivano delle une e degli altri. Tertulliano, testimonio oculare di sì saggia condotta, le rende testimonianza colle parole seguenti: « I nostri giovani sono egualmente sicuri che colui, il quale, conoscendo il veleno offerto da chi noi conosce , lo riceve e non lo beve. La necessità li scusa, poiché non hanno altro espediente per istruirsi ». Da errore; poiché non la curiosità, non il piacere, ma solo la necessità li spingeva a leggere le opere e ad ascoltare i maestri pagani. San Girolamo parla di tale necessità, quando, condannando i cristiani ed in ispecie gli ecclesiastici che leggevano gli autori pagani solo per piacere, scusa i giovani costretti a ciò fare. « Ciò che è, egli dice, una necessità per la gioventù, ei lo mutano in delitto, per puro genio ». – Ma qual era dunque questa necessità? Si resterà ben meravigliati al sapere ch’essa differisce essenzialmente dal motivo che dopo il Rinascimento serve di pretesto allo studio degli autori pagani. Si è, dicesi, per insegnarci a ben pensare, a ben sentire e a scrivere bene che ci fanno studiare Virgilio e Cicerone, Omero e Demostene. Nel suo complesso, un tale scopo sarebbe stato riguardato dai padri nostri come un insulto alla religione e come una specie di apostasia. « Che mai vi può egli essere di comune, grida San Gerolamo, tra la luce e le tenebre? Tra Gesù Cristo e Belial? Tra 1’Evangelio e Virgilio? Tra San Paolo e Cicerone? Non è forse uno scandalo pel vostro fratello il vedervi nel tempio degli idoli? Ci è vietato di bere in egual tempo al calice di Gesù Cristo ed ai calice dei demoni ». Era forse, come si pratica da tre secoli, per fare ammirare dai giovani cristiani le ricchezze della filosofia pagana e farne loro adottare qualche sistema? Ma eglino chiamavano i filosofi, animali di gloria, patriarchi degli eretici; e colui al quale noi non temiamo di dare il nome di divino, il grande artista di tutti gli errori che desolavano la Chiesa. Essi andavano anche più lungi; componevano opere a bella posta per abbandonar quelli e i loro sistemi alla pubblica derisione. Simile linguaggio in bocca ai padri prova forse l’intenzione di far dei giovani cristiani i discepoli dei filosofi? – Era forse almeno, come ci si raccomanda di fare, per copiare i loro oratori, per appropriarsi le forme della loro eloquenza, le qualità del loro linguaggio? Nessuno vuol negare che gli antichi Padri della Chiesa non abbiano imparato nei libri pagani le parole, le espressioni, lo stile; sia perché, prima di aver essi stessi composto libri sulle cose umane non ne esistevano che potessero servire di modelli; sia perché la maggior parte erano nati nel paganesimo e non si erano convertiti se non in un’ età già inoltrata. V’è egli a meravigliarsi che, figliuoli di pagani, e pagani essi stessi per una parte di loro vita, abbiano imparato la lingua pagana ed anche la retorica pagana, che molti insegnarono con rinomanza? Quanto all’eloquenza che forma ancora la loro gloria, non ne attinsero quelli per nulla negli autori pagani il fondo e nemmeno la forma; ma si nei Libri Sacri, nei profeti soprattutto, con i quali, secondo San Gerolamo, una meditazione continua li aveva identificati. – La prova luminosa ne è che 1’eloquenza dei Padri differisce dall’eloquenza dei pagani oratori quanta è la distanza che separa il cielo dalla terra. Come l’ultima si distingue per l’arte del retore, per la scelta delle parole e per 1’eleganza delle frasi, così la prima per la spontaneità delle espressioni, per la sodezza dei pensieri, per la vivacità de’ sensi, per la forza e per l’abbondanza delle prove. Così, le sparse membra di Cicerone, disjecta Tullii membra, che agevolmente si riconoscono in Quintiliano, esempio, indarno le cerchereste in Sant’Ambrogio, in San Massimo, in Sant’Agostino, in San Cipriano, in San Leone, in San Pietro Crisologo, in San Gregorio. Lo stesso dicasi di Demostene o d’Isocrate per Sant’Atanasio, per San Basilio, per San Crisostomo, per San Gregorio di Nazianzo, per San Cirillo d’Alessandria. – Nulla negli immortali loro discorsi che senta l’imitazione del paganesimo. Tutto vi è primitivo, archetipo ed ispirato dalla forza invincibile della fede e dall’ardente zelo della salvezza del mondo. Quanto dissi dell’eloquenza, si attaglia a tutti i generi di stile storico, epistolare, filosofico. La frase di Eusebio, di Sulpizio-Severo, di Giulio Africano, di San Cipriano, di San Paolino, di San Giustino, d’Origene e degli altri scrittori del Cristianesimo, a volte storici, epistolografi, filosofi, non rassomiglia per nulla al modo di Senofonte, di Svetonio, di Cicerone, di Plinio, di Seneca. Se, come pretendesi, i Padri leggevano e facevano leggere gli autori pagani per imitarli, bisogna confessare eh’ ei furono bene sgraziati. Pure non mancavano né di studio, né di sapere, né di genio. Che dico mai? Eglino li imitavano a pennello quando volevano. Sant’Agostino ne cita un esempio solenne, tratto da San Cipriano; poscia soggiunge. « Pel numero, per l’eleganza, per l’abbondanza, quella frase è ammirabile; ma la sua ricchezza stessa non è conforme alla gravità cristiana. Coloro che amano tal modo di scrivere accusano quelli che non l’adoprano di non poterlo adoprare: ei non sanno, che per ragione e per buon gusto se ne astengono. San Cipriano dimostrò dunque ch’egli poteva adoperare simile linguaggio, poiché il fece: e dimostrò che nol voleva, poiché nol fece più. – San Gerolamo, giudice non meno preclaro in simile materia di Sani’Agostino, fa pure testimonianza che Lattanzio imitò affatto Cicerone, e Sant’Ilario lo stile di Quintiliano. Codesta imitazione era essa una gloria? Niente affatto; Sant’Agostino ce lo fece sentire, e San Gerolamo dice chiaramente: « Quanto voi ammirate, e noi lo disprezziamo ». I Padri greci opinano come i Padri latini. Certo se i giovani cristiani avessero dovuto studiare i profani autori per formarsi stile e gusto, sotto pena di non possedere mai né 1’uno né l’altro, come non si rifinisce da tre seco, si ritroverebbe senza fallo questo precetto in San Basilio, il quale compose un’opera speciale a prò dei giovani, per servire loro di guida nello studio degli autori pagani. Ebbene, il grande dottore non ne dice molto, non una sola parola! Conoscete voi cosa più eloquente di un tale silenzio? – Ma insomma, voi dite, qual era dunque lo scopo che raggiunger si voleva permettendo ai giovani cristiani di leggere le opere dei pagani e di frequentare le loro scuole? Quale vantaggio pretendevasi ricavarne? Voi converrete dapprima, che agli occhi d’uomini sì gravi e sì religiosi come i padri nostri, lo scopo doveva essere serio e il vantaggio tale da compensare i pericoli molto gravi che lo studio dei libri pagani poteva, malgrado tutte le cautele, far correre all’innocenza e alla fede dei figli loro. Meno una necessità imperiosa, un padre non abbandona il figliuolo della sua tenerezza ai pericoli di un mare tutto sparso di scogli. La è una prova di più, che si trattava per quelli di cosa ben altra che non del fanciullesco profitto di formare retori od accademici. Si trattava per i loro figliuoli: 1° Di conoscere la storia della patria loro e degli altri popoli i cui archivi, scritti da mani pagane, erano esclusivamente in potere de’pagani: 2° Di apprendere le arti, le scienze fisiche, naturali, mediche, il cui monopolio apparteneva egualmente al paganesimo: 3° Di restituire al Cristianesimo, erede di tutto, le verità che il paganesimo, usurpatore audace, erasi appropriato e che, depositario infedele delle tradizioni prime, aveva sfigurato: 4° Di servirsi, ad esempio di San Paolo, delle massime, degli esempi, dell’autorità dei poeti, de’saggi e dei filosofi pagani, sia per infervorarsi alla pratica di qualche virtù, sia per rendere più accessibili alla ragione le verità e i precetti della fede, o, come dice Sant’Agostino, di pigliare agli Egizii i lor vasi d’oro e d’argento, e di darli agli Israeliti, per farli servire all’ornamento del Tabernacolo: 5° Di ben conoscere gli errori dei pagani, i loro pregiudizi contro il Cristianesimo, i loro argomenti in favore dell’idolatria, le obbiezioni e i sistemi dei filosofi, per confutarli sodamente e spesso anche per sconfiggerli con le proprie loro armi. Infatti, qual mezzo evvi per vincere un nemico, di cui non si sa né il modo di guerreggiare, né le forze, né le armi, né le fortezze? Tale si era il grande, l’unico interesse dei cristiani illuminati. Posti, sino dalla culla, in faccia ai nemici instancabili di loro religione, non si vedevano obbligati a combattere notte e giorno per sé e per i loro fratelli? Ora, per raggiungere questo scopo, diciamo meglio, per adempiere questo grande dovere, indispensabile cosa era il conoscere non solo la scienza de pagani, ma eziandio la loro lingua, e di parlarla con una certa purezza, per tema d’essere tacciati da quelli d’ignoranza o di barbarie, e di non ottenerne attenzione di sorta. – Sui motivi di fare studiare alla gioventù gli autori pagani nei primi secoli della Chiesa, voi avete udito San Basilio, Sant’Agostino, San Giustino, Taziano, Clemente d’Alesandria, Ermias, San Gerolamo, e con essi tutte le più sagge dei giovani cristiani. – Dal loro unanime insegnamento risulta questa inattaccabile conclusione, cioè; che i primi cristiani studiavano il paganesimo nelle lettere e nelle scienze, non già per imitarlo, cioè per perpetuarlo quanto al fondo o quanto alla forma, ma per attingervi quanto vi era di proficuo sia alla gloria, sia alla difesa della religione. In tal guisa la Chiesa studiò il paganesimo nell’arte, non per perpetuarlo nel fondo o nella forma, ma sì per impadronirsene e per farlo servire, trasformandolo, di elemento all’arte cristiana; in tale guisa ancora essa lo studiò nei suoi sistemi religiosi e filosofici, non per esaltarli, ma per ridurli in polvere.

CAPITOLO V

SEGUITO DEL CAPITOLO PRECEDENTE.

Nulla di più serio delle ragioni allegate dai Padri per far studiare all’ adolescenza cristiana gli autori del paganesimo e permetterle di frequentare le sue scuole. Tuttavolta, cosa degna della più grande attenzione, i Padri stessi non si accordano, su questo punto, tra di loro. Conforme allo spirito delle Costituzioni apostoliche, il maggior numero si pronunciò formalmente contro siffatto genere d’insegnamento, a cagione del pericolo ch’ei faceva correre alla fede ed ai costumi. Gli altri pensano che gli adolescenti vi si possano dare, ma con riserva e con grandi cautele. In nome di coloro che lo permettono, sentiamo Tertulliano, San Gregorio di Nazianzo e San Basilio; sentiremo più tardi quei che lo vietano: « Quando un fanciullo, dice Tertulliano, allevato nella fede, imbevuto dei suoi principii, va a scuola (d’un maestro pagano , egli deve essere avvertito e premunito contro l’errore. Esso se ne preserverà, imparerà la lettura che gli è utile, e disprezzerà una dottrina empia e menzognera, su cui egli sa già a che attenersi » . – « Gli è avviso comune di tutte le persone di buon senso, dice alla sua volta San Gregorio di Nazianzo, che in prima fila fra i beni ricevuti da un uomo in sorte, bisogna collocare l’istruzione. Non parlo soltanto delle cognizioni in un ordine di cose sovrannaturale, cognizioni che possono ben essere estranee a tutte le grazie, a tutti gli ornamenti del linguaggio … Io ho in vista eziandio quell’istruzione che è oltre la fede e i suoi dogmi, quelle cognizioni che la più parte dei cristiani considerano come vane e illusorie, piene di pericoli, proprie solo ad allontanare le anime da Dio, e che per tale titolo coloro disprezzano ed abborriscono. – La divergenza d’opinioni che noi indichiamo va diminuendo a misura che il Cristianesimo stende il suo impero, e che i suoi libri si moltiplicano; per conseguente, a misura che i motivi di studiare il paganesimo e di toglierne a prestito qualcosa perdono del loro valore. Perciò noi scorgiamo lo stesso San Gregorio di Nazianzo, che s’era dimostrato sì favorevole allo studio delle lettere pagane, modificare la propria opinione e, verso la fine del viver suo, scrivere in questi concetti ad uno dei suoi amici, Adamanzio, il quale gli chiede libri di letteratura: « I libri che tu mi chiedi, ridiventato fanciullo per studiare retorica, io li posi in disparte dal giorno in che, obbedendo all’ ispirazione divina, rivolsi gli occhi verso il cielo. Bisognava bene che tutti gli scherzi della fanciullezza avessero un termine; bisognava cessar di balbettare per aspirar finalmente alla vera scienza, e sacrificare al Verbo tutti questi discorsi frivoli, con quanto aveva formato sino allora la gioia dei miei ozi. Ma, giacché hai deciso di dare la preferenza a ciò che occupar deve il secondo posto; poiché nulla di quanto ti si potrebbe dire ti svolgerebbe da questo disegno, eccoti i miei libri. Ti invio tutti quelli che sono sfuggiti ai vermi e che il fumo non ha anneriti, a quegli uncini a cui io li avevo sospesi, al disopra del mio focolare, come il nocchiere che si ritrasse dal navigare sospende il suo timone. Io t’invito però a studiare i sofisti ampiamente e con ardore. Acquista tutte le cognizioni necessarie e farne partecipe la gioventù, purché il timore di Dio domini tutte queste vanità (1) »[Ep. 199]. – Ma ecco qualcosa più grave dello stesso Padre. Nell’elogio di Sant’Atanasio, Gregorio, trascinato da una giusta ammirazione pel generoso difensore della fede, loda senza restrizione d’avere di buon’ora lasciato la coltura delle lettere e delle scienze umane. « Ei fu allevato, dice, nei buoni costumi ed iniziato alle scienze ed alle lettere; ma non prima ne seppe abbastanza per non parere affatto incolto ed ignorante in quest’ordine di cose, si dedicò affatto alla meditazione dei libri Sacri ». Quale differenza tra questo linguaggio del santo dottore e certi passi delle sue lettere! Il suo amico Basilio subisce la stessa influenza. Dopo il suo battesimo, ei si mette a piangere qual sogno tutto il tempo di sua vita da lui consumato negli studi letterari e filosofici: « Io mi svegliai, dice, come da un sonno profondo; e, come la luce dell’Evangelio rischiarò i miei occhi, riconobbi la vanità della scienza e dell’umana sapienza. Dacché mi trattengo con Mose e con Elia, scrive a Libanio, e dacché ricevo dalla loro barbara lingua le lezioni che trasmetter debbo ai miei fratelli, ho dimenticato del tutto quanto imparai alla vostra scuola (Ep. 339). » Dall’influenza che godevano nella Chiesa uomini come Atanasio, Basilio e i due Gregorii, si può giudicare della disposizione generale degli animi prima della fine del quarto secolo. Sino dal principio del quinto, l’umanità regnò su questa grande questione. Si erano alla perfine aperti gli occhi sui pericoli dell’insegnamento profano: le ripugnanze della più parte dei cristiani, come dice San Gregorio erano riconosciute ben fondate. Si capiva oramai « che sperar non si poteva il compiuto trionfo dell’Evangelio e dei cristiani costumi sull’idolatria e sui costumi così corrotti dei Greci e dei Romani, infino a che la gioventù delle scuole attingesse le sue idee, alimentasse la sua immaginazione, prendesse la regola de suoi giudizi nello studio delle opere dell’antichità. Una nuova morale, nuove leggi, un nuovo mondo uscir non potevano, colla educazione, se non da una nuova letteratura. » – « Come era possibile, dice un moderno filosofo, combinare il Cristianesimo colla eredità degli antichi popoli? Le tradizioni antiche, la ricordanza delle grandi azioni passate, quella degli antenati che procacciato avevano una così grande rinomanza, una sì grande potenza ai loro nipoti, tutto questo attraeva gli animi in un senso, ed il Cristianesimo colle sue promesse in un altro ». – Tre grandi atleti, San Crisostomo, San Gerolamo, Sant’Agostino, sono suscitati da Dio per chiudere le discussioni, per finirla colla scuola pagana e per aprire un’era nuova. Tutti e tre assalgono il paganesimo classico, precisamente sotto gli stessi riguardi che lo fanno tanto stimare dopo il Rinascimento. Inutile come filosofia, vano come letteratura, pericoloso come morale: ecco il triplice marchio ch’essi gli imprimono sulla fronte. – « Da qual male, grida il primo, siamo noi dunque minacciati se ignoriamo le belle lettere (cioè la letteratura profana)? Non solo fra noi, i quali ridiamo di tutta questa vana sapienza, di tutta quest’arte che ci è straniera, le lettere non hanno alcun pregio. Filosofi che non sono dei nostri non ne hanno fatto verun caso Il che non gli impedì d’acquistare una giusta celebrità…. Quanto dunque non saremmo noi da biasimare, noi illuminati dalla fede, se tanto caso facessimo di un ingegno spezzato da coloro stessi che non si nutrono se non di vento; e se per l’acquisto di cosa sì vana corressimo rischio di sacrificare ciò che solo è necessario….? Gli Apostoli, ed un gran numero di santi personaggi che non avevano studiato questa letteratura, non convertirono meno il mondo; mentre nessun filosofo è giunto finora a convertire un tiranno. Dopo avere esposto tutti i pericoli di questo studio, soggiunge: « Non sarebb’egli l’ultimo grado della crudeltà il gettare nell’arena, in mezzo a tanti nemici, i poveri fanciulli che non sono nemmeno capaci di difendersi contro loro stessi? ». – Il secondo sembra avere scritto il suo ammirabile trattato De doctrina cristiana per far venire a nausea per sempre ai giovani cristiani il paganesimo classico. « Infatti, dice il signor Lalanne, frammezzo agli egregi consigli che il santo dottore dà sull’eloquenza, si è meravigliati dapprima della sua riservatezza nel non citare e nel non nominare alcuno scrittore profano … Invece di consigliare, come lo fanno ancora i nostri retori, le opere di Cicerone, di Demostene, di Tito Livio, egli li passa affatto sotto silenzio, e soggiunge: « Noi non manchiamo di scrittori ecclesiastici, indipendentemente da quelli che lo Spirito Santo ispirò, nelle cui opere un uomo ingegnoso saprà attingere senza sforzo veruno, solo leggendole attentamente, modelli di eloquenza, e non avrà più se non a ben esercitarsi sia a scrivere, sia a dettare, e finalmente a parlare come gli sarà dalla pietà inspirato (lib IV n. 4-7) ». – Quanto a San Gerolamo, ei fu, come è noto, l’Origene del suo tempo, il dotto in cui tutta la scienza ecclesiastica dei secoli passati si riassumeva in qualche modo. Egli aveva fatto prestanti studi sotto maestri pagani, ed era già molto istruito quando si diede tutto al servigio della religione. Nella forza degli anni e frammezzo agli scritti letterari i più severi, egli scrisse al papa Damaso, sopra un versetto della parabola del Figliuolo Prodigo, in cui è detto che quel giovine bramava, per attutire la sua fame, i bricioli che si gettavano ai maiali: « Si può capire pel cibo dei maiali la poesia, la falsa filosofia del mondo, la vana eloquenza degli oratori. La loro grata cadenza e la dolce loro armonia, lusingando l’orecchio, s’impadroniscono dell’animo ed ammaliano il cuore; ma, dopo che simili opere si sono lette con molta attenzione, non troviamo in noi se non il vuoto ed una specie di capogiro. E non ci illudiamo dicendo che noi non prestiamo fede alle favole di cui quegli autori empierono gli scritti loro. – Onesta ragione non ci scusa punto, giacché noi scandalizziamo gli altri, i quali credono che noi approviamo quanto essi ci vedono leggere. » Nel processo di quest’opera noi citeremo altri giudizi dello stesso santo dottore, parimenti precisi e molto più severi. – Per compendiare in poche linee tutta questa discussione sul paganesimo classico nei primi secoli, diremo col sapiente scrittore, da noi sopra menzionato: « Dopo questo grande e mirabile rivolgimento, operato da uomini tali che dir si potè: “Infirma mundi elegit Deus, ut confundat fortia”, il Cristianesimo si presenta nella persona dei suoi propagatori con tutto il prestigio, con tutta la pompa delle lettere e delle scienze ammirate dal paganesimo. Gli era il vincitore il quale impadronivasi e rivestivasi delle armi del suo nemico disfatto; ei ne ebbe d’uopo un istante per la difesa e per l’assalimento. Ei se ne servì ed esortò i suoi a rendersi capaci di impugnarle. Ma bentosto, sentendo che quella straniera armatura, la quale non era fatta per esso, lo feriva e gli si attagliava male, se ne spogliò pezzo a pezzo: oppure, non facendone più guari caso, cessò di cercarla. Al cospetto del colosso della barbarie, il Cristianesimo entrò in lizza con le sue vestimenta le più semplici, con la sola arma della croce, come quel pastorello che armato solo di fionda recavasi ad atterrare un gigante: ambi avevano riposto in Dio la loro fiducia ». Partendo dal sesto secolo sino alla metà del decimoquinto non si adoperarono più, generalmente parlando, o solo in modo molto secondario, autori pagani nella educazione della gioventù. « Al cominciare del quinto secolo, noi ci imbattemmo in tre grandi uomini, discepoli del quarto secolo, eredi di tutta quanta la sua scienza filosofica e letteraria, degni di essere gli ultimi di quella splendida legione di scelti intelletti, dai quali la Chiesa era stata cotanto illustrata. Noi li vedemmo dare, in qualche guisa, alla posterità il segno della grande diserzione dai templi letterarii della Grecia e del Portico, e dell’Accademia, e di Atene, e del Museo, del pari che di Corinto e di Pafo; e, con coraggiosa mano, precipitare il mondo in una oscurità momentanea per fargli perdere di vista le false luci che lo traviavano ». – La Provvidenza secondava la loro azione coi grandi avvenimenti che allora si compierono. L’Impero Romano, coi suoi monumenti e colle sue arti, e con i suoi libri, periva sotto i colpi dei barbari. Nel tempo stesso, un Pontefice grande fra tutti diventava il creatore di una letteratura e di una lingua nuova, espressione affatto pura della cristiana società, rimasta sola in piedi fra le rovine. Questo pontefice è San Gregorio, del quale avremo più fiate occasione di parlare nel procedere delle nostre ricerche.

[2 – Continua …]

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (1)

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE

ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE

(1)

[Mons. J. J. Gaume, trad. dal francese di A.V. – Napoli 1854]

LETTERA

Di Sua Eminenza monsignor cardinale Gousset, arcivescovo di Reims, al signor Abate G. Gaume, vicario generale di monsignor vescovo di Nevers.

SIGNOR VICARIO GENERALE,

Ho letto le bozze del libro che voi vi proponete di pubblicare sotto il titolo: IL VERME RODITORE DELLE SOCIETÀ MODERNE, Ovvero IL PAGANESIMO NELL’EDUCAZIONE. La lettura di quest’opera mi ha vivamente interessato pel modo con cui voi vi trattaste questioni della massima importanza. Mi pare che voi abbiate perfettamente dimostrato che, da vari secoli, lo studio pressoché esclusivo degli scrittori pagani nelle scuole secondarie, godette sulla educazione della gioventù e sull’animo delle società moderne una funesta influenza. Il perché gli amici della religione e dell’ordine sociale capiranno agevolmente, come voi stesso capiste, la necessità di modificare, nei luoghi di pubblico insegnamento la direzione degli studi in quanto riguarda la scelta dei classici autori, in guisa da farvi predominare gli scrittori cristiani, greci e latini, le cui opere sono sì acconce ad ispirare ai giovani la pratica delle virtù evangeliche ed a rimettere in tutto il loro vigore i principii costitutivi della società. Questo pensiero può ancora trovar contraddittori: ma ho motivo di sperare che il vostro libro avrà tosto o tardi felici risultati, e non posso non rallegrarmi con voi sinceramente di tale pubblicazione. – Ricevete, signor Vicario generale, l’espressione dei miei sensi devoti ed affezionati.

Parigi, ad giugno 1831.

Cardinale GOUSSET, Arcivescovo di Reims.

PRŒMIO

Che fa egli il medico al vedere l’infelice alle prese con un morbo che d’ora in ora minaccia di precipitarlo nella tomba? Sei non è cieco o colpevole, sua prima cura si è il ricorrere non ai palliativi, non ai rimedi ordinari, ma agli ultimi mezzi dell’arte per produrre una salutifera crisi: se uopo è, si adopereranno il ferro ed il fuoco, malgrado le resistenza e le grida dell’ammalato. – La società è inferma, molto inferma. Sintomi ognora più spaventevoli non permettono ad alcuno di dubitare della gravità del male. Per scongiurare una inevitabile morte, i palliativi, i rimedi ordinari bastano essi? No. Tal è il vostro avviso, e tale è pure il mio. Un rimedio efficace è dunque necessario. – Bisogna produrre un rivolgimento profondo, compiuto, e subito, perché il tempo stringe, ed ogni ora di ritardo può divenire fatale. – Ma dov’è la sede del male? Oggigiorno più che mai essa è negli animi. Gli animi si guariscono non con leggi, ma con costumi. I costumi si formano coll’educazione. L’educazione colpisce non già l’età matura, ma l’infanzia. Rimedio lento, direte voi: rimedio impotente adesso. È vero, noi scriviamo fra il muggire della burrasca. Secondo ogni apparenza, il fulmine sarà scoppiato prima che il parafulmine abbia potuto scaricare la nube. Ma la tempesta passerà, e bisogna che sul terreno sconvolto l’infanzia trovi aperta la pura sorgente della verità, se non si vuole sin dal domani dell’uragano prepararne un nuovo. Sia pure, come voi pensate, che l’intero edificio non possa essere conservato; date dunque la sua parte al fuoco: coloro che vogliono correre a morte, corrano a morte. Se il presente è condannato, salviamo l’avvenire. Su questo punto si deve concentrare tutta la possa dei nostri sforzi; su questo punto deve operarsi il rivolgimento che solo può strappare l’infermo alla morte. – Di tale rivolgimento molti parlano e pochi lo capiscono; vari lo hanno tentato, nessuno vi è riuscito. Proverò di dirne la ragione, dicendo come debba essere. – In codesti ultimi tempi molto si discusse sulla liberta dell’insegnamento; essa venne chiesta con energia, con perseveranza, e come una necessità e come un diritto. Onore al coraggio, onore all’ingegno, sì nobilmente consacrato al buon esito di questa grande causa! Pure, per grave ch’essa sia, la questione di libertà è dominata da un’altra ancora più grave. La libertà non è uno scopo; essa è un mezzo. Il punto essenziale non è già di rendere liberò l’insegnamento, ma sì di renderlo cristiano. Altrimenti la libertà non servirà se non ad aprire un maggior numero di fonti avvelenate, alle quali la gioventù andrà a bere la morte. Rendere cristiano l’insegnamento, ecco l’ultima parola della lotta, ecco quello che bisogna intraprendere, che bisogna realizzare ad ogni costo. Ciò vuol dire anzi tutto: sostituire il Cristianesimo al paganesimo nella educazione. Bisogna ribadire la catena dell’insegnamento cattolico, manifestamente, sacrilegamente, sgraziatamente infranta in tutta Europa da quattro secoli. – Bisogna ricollocare presso la culla delle nascenti generazioni la pura sorgente della verità invece dalle impure cisterne dell’errore; lo spiritualismo invece del sensualismo; l’ordine invece del disordine; la vita invece della morte. – Bisogna di nuovo informare del principio cattolico le scienze, le lettere, le arti, i costumi, le istituzioni, onde guarirle dalle vergognose infermità che le divorano, ed affine di sottrarle alla dura schiavitù sotto cui gemono. Bisogna cosi salvare la società, se essa può ancor essere salvata, od impedire almeno che tutta la carne non perisca nello spaventoso cataclisma che ci minaccia. – Bisogna così secondare i manifesti disegni della Provvidenza sia temprando come l’acciaio coloro che sostener devono l’urto della grande lotta, verso la quale noi ci incamminiamo rapidamente, sia conservando alla religione un piccolo numero di fedeli, destinati a divenir la semenza di un regno glorioso di pace e di giustizia, od a perpetuare fino al fine, fra prove gloriose, la visibilità della Chiesa. Tale è la rivoluzione di cui si tratta. Questa rivoluzione è gigantesca e l’uomo è nulla. Questa rivoluzione incontrerà resistenza di più d’una sorta; essa forse susciterà opposizioni appassionate; pure è possibile: più possibile oggi che altre volte. Giudicatene. Ora fa sedici anni, l’autore del CATTOLICISMO NELLA EDUCAZIONE dimostrò pel primo, ex professo, il verme roditore della moderna Europa. Collo scopo confessato di distruggere l’impero usurpato dal paganesimo sulla educazione dei popoli cristiani, ei predicò la guerra santa. Senz’essere profeta, non gli fu difficile di annunziare che la società giungerebbe in breve alla propria rovina, ov’essa non s’affrettasse a mutare sistema. Ma da una parte, intaccare il paganesimo classico era in allora una bestemmia; d’altro lato la società ebbra di sensualismo non prestava l’orecchio se non alle sirene, i cui perfidi canti attraevano verso l’abisso. Per questo doppio motivo, la sua voce non ebbe guari eco; e, meno felice dell’Eremita del medio-evo, ei trovò a mala pena alcuni cavalieri disposti alla battaglia. Isolato sotto i fuochi incrociati dei nemici ed anche degli amici, egli fu giocoforza abbandonare il campo di battaglia. Egli aveva avuto ragione troppo presto; ei si ritirasse aspettando che tempo venisse di avere ragione. Onesto tempo è giunto, o non giungerà; poiché la società muore, e poi le circostanze sono cangiate d’assai. Agli accenti delle sirene è succeduto il rumore del tuono, l’ebbrezza della prosperità si è dissipata ai colpi delle catastrofi; i solenni avvertimenti della Provvidenza non andarono perduti per tutti. Gli uni per tema, gli altri per convinzione, si sforzano di operare una reazione cattolica sopra la società. Essi applaudono agli sforzi che si fanno in questo senso. Certo, la reazione del Cattolicismo sull’educazione, senza la quale tutte le reazioni, tutte le ristorazioni riusciranno a nulla, non poteva continuare ad esser riguardata come cosa indifferente. Infatti, sotto l’influsso di queste cause e d’altre ancora, il rivolgimento camminò: esso conta di presente numerosi ed illustri sostegni (Il mio pensiero si volge in questo momento alla lettera cosi notevole di monsignor vescovo di Langres, di cui avrò occasione di citare qualche passo). Riprodotti da loro, gli argomenti contro il paganesimo classico non cadono più, come sedici anni fa, sepolti sotto una gragnuola di sofismi e di ingiurie. Dagli uni, essi sono applauditi; agli altri, fanno paura: per nessuno, eccetto per gli Dei Termini, sono oggetto di disprezzo. – Alle parole succedono gli atti. Rientrato trionfante nel dominio dell’architettura religiosa, il Cattolicesimo sviluppa il suo movimento e comincia ad introdursi nell’educazione, vestibolo della onnipotenza. Di già su vari punti della Francia e dell’Europa, la storia, la filosofia, la letteratura gli aprono i loro santuari, sì lungo tempo chiusi. In un cerio numero di stabilimenti, lo studio delle lingue antiche si fa in parte almeno, coll’aiuto di classici cristiani, e poi il monopolio è scosso. Evidentemente, la breccia è aperta: più non si tratta che di allargarla, ed il rivolgimento vittorioso entrerà sino nel cuor della piazza. Riconosciamo qui, benedicendola, l’opera della Provvidenza. Ora la Provvidenza non tentenna mai. Il rivolgimento è dunque possibile, più possibile oggi che altre volte. Che il rivolgimento sia necessario, di una necessarietà attuale e suprema, lo scopo di questo libro si è di dimostrarlo, indicando inoltre ed i caratteri di tal rivolgimento, ed i mezzi di assicurarne il successo.

CAPITOLO I

POSIZIONE DEL PROBLEMA

Per rendere palpabile la verità della mia proposizione, lascio da parte tutti i ragionamenti astratti, tutte le teorie metafisiche; mi contento d’invocare un piccolo numero di fatti clamorosi e di un incontestabile significato. Primo fatto. —Ad eccezione di alcuni atti di disobbedienza, inevitabili anche in giovani ben nati, si vede l’Europa in tutta la durata del medio-evo mostrarsi pieno di rispetto e di sommissione Cristiana nella sua fede, nei suoi costumi pubblici, nelle sue leggi, nelle sue istituzioni, nelle sue arti, nel suo linguaggio, la società sviluppava tranquillamente quelle belle e forti proporzioni, che 1’avvicinavano ogni giorno alla misura del Cristo, tipo divino d’ogni perfezione. Secondo fatto. — Col secolo decimoquinto, l’impero sovrano del Cattolicesimo s’indebolisce. L’antica unione della religione e della società è scossa. Sino allora così venerata, la voce paterna dei pontefici romani diventa sospetta; la maestà del loro potere sparisce come una grande ombra; la sommissione figliale del re e dei popoli diminuisce; la società sente nascere nel suo cuore un funesto desiderio d’indipendenza: tutto annunzia una rottura. – Terzo fatto. — Il sedicesimo secolo è appena incominciato che dalla cella d’un frate alemanno una voce si innalza, possente organo dei colpevoli pensieri che fermentano nei cuori: quella voce dice: « Nazioni, separatevi dalla Chiesa Cattolica, fuggite Babilonia; popoli, rompete i vincoli della vostra lunga infanzia; d’ora in poi voi siete forti abbastanza, abbastanza illuminati per condurvi di per voi. » La voce è ascoltata con un favore che stupisce anche oggidì. Nella maggior parte d’Europa si vide la società accusar la sua madre di superstizione e di barbarie, abiurare le sue dottrine, spregiare i suoi più grandi uomini, bruciare quanto portava l’impronta della sacra sua mano, e rovesciare o mutilare come monumenti d’ignoranza, di schiavitù e d’idolatria, i templi e gli edifici ove i secoli precedenti avevano con tanta magnificenza custodito la loro fede, immortalando in pari tempo le loro scienze ed il loro genio. Quarto fatto. — Questa incredibile rottura non fu un accesso passeggero di vertigine: essa dura tuttora. Né le angosce, né le umiliazioni, né i disinganni, né le catastrofi, né le calamità d’ogni specie poterono ricondurre il Figliuol Prodigo al materno girone. Luugi da questo, il suo allontanamento per la Chiesa andò aumentando; esso mutossi in odio, in odio sempre vivo, sempre operante, talché, dopo tre secoli, l’Europa non sembra saper fare che tre cose, ma essa le fa con una perfezione da disperare: spogliare la Chiesa, incatenare la Chiesa, schiaffeggiare la Chiesa. Di presente, giunta al parossismo della passione, l’antica figliuola del Cattolicesimo non ha più altro grido di riscossa se non queste orribili parole, ripetute su tutti i tuoni, dall’Adriatico all’Oceano, e dal Mediterraneo al Baltico: II Cristianesimo ci pesa, noi non vogliamo ch’esso regni su di noi; lo si tolga; la sola sua vista ci è insopportabile. Quarto fatto. — Dacché questo traviamento dura, la Chiesa non ha cangiato. Prima come dopo, essa è la stessa: così buona. così saggia, così rassegnata. In faccia ai dolori della società, essa non rimase né oziosa né muta. Giammai, forse, la sua materna tenerezza dispiegò una sollecitudine più universale, uno zelo infaticabile. Dal suo seno perpetuamente fecondo, uscirono nel decimoquinto secolo trentacinque ordini o congregazioni religiose; nel sedicesimo , cinquantadue; nel decimo settimo, novanta. Tutti questi grandi corpi, manovrando come un solo uomo, rendevano incessante la sua azione sulla famiglia e sulla società, dal settentrione al mezzodì dell’Europa. Da San Vincenzo Ferrero a San Francesco da Paola, numerosi santi meravigliarono il mondo coll’eroismo delle loro virtù, e mostrarono ai più ciechi che la Chiesa romana non cessò di essere l’incorruttibile sposa del Santo dei santi, la madre di tutti gli uomini veramente degni del nome di grandi: alma parens, alma virum. – Dal canto loro, i suoi ammirabili dottori, da Bellarmino sino a Bossuet, han provato ch’essa è sempre la sorgente della luce e del sapere. Continuato in tutta la maestà della sua forza dai sovrani pontefici e dai concili, l’insegnamento cattolico ha da lungo tempo ridotto in polvere ed il principio protestante, ed i vani motivi che servirono di pretesto alla rottura, e tutti quelli che, più tardi, furono inventati per mantenerla. Ora, né le dimostrazioni, né gli avvertimenti, né i benefizii, né le supplicazioni, né le lagrime, né gli sforzi di ogni genere han potuto toccare la società europea, né ribadire l’antica alleanza che univa alla madre la figliuola. Da questi fatti, che nessuno negherà, risulta evidentemente la conclusione seguente: « Da quattro secoli, evvi in Francia un elemento nuovo, un elemento di più od un elemento di meno che non nel medio-evo; e questo elemento forma un muro di separazione sempre sussistente tra il Cristianesimo e la società. » Qual è codesto elemento ? Ov’ è? È ciò che cercheremo.

CAPITOLO II

STUDIO DEL PROBLEMA

L’investigazione alla quale noi ci daremo è di altissima importanza. Temendo di forviarci, cominciamo dal segnare la nostra strada, posando alcuni principi d’una evidenza incontestabile.

Primo principio. — Ogni effetto ha una cagione; ogni effetto permanente ha una cagione permanente.

Secondo principio. — Ogni parola, ogni azione umana, pubblica o privata, è l’effetto del libero arbitrio o di una volontà dell’anima. Le volontà, o, come dice la filosofia, le voluzioni dell’anima presuppongono l’idea o la nozione della cosa voluta, poiché è impossibile di voler ciò che non si conosce, ciò di cui non si ha idea: Ignoti nulla cupido; nihil colitum nisi prœcognitum.

Terzo principio. — Innate o no, le idee vengono o dipendono dall’insegnamento, il quale le risveglia o le da. L’insegnamento fa dunque l’uomo.

Quarto principio. — L’insegnamento che fa l’uomo, che forma per la vita il suo animo ed il cuore, si compie nel periodo che separa la culla dall’adolescenza, secondo la parola, cotanto vera che era già proverbiale or fanno tremila anni: Quale ei fu nei di della sua adolescenza, tale l’uomo sarà nei dì di sua vecchiezza, e non cambierà (Prov. XXII, 6).

Quinto principio. — La vita dell’uomo si divide in due epoche ben distinte: l’epoca di ricevere e l’epoca di trasmettere. La prima comprende il tempo dell’educazione, cioè dello sviluppo e dell’insegnamento; la seconda, il restante dell’esistenza fino alla morte. Non avendo l’essere da se stesso, l’uomo riceve tutto; tanto nell’ordine intellettuale e morale, quanto nell’ordine fisico. – Dopo aver ricevuto egli trasmette, e non può trasmettere se non quanto ha ricevuto. Trasmettendo quanto ha ricevuto, egli forma la famiglia, la società ad immagine sua. La verità o la bugia, il bene od il male, l’ordine od il disordine realizzati nei fatti esterni della famiglia e della società, non sono se non il riflesso e il prodotto della verità o della bugia, del bene o del male, dell’ordine o del disordine che regnano nella sua anima.

Sesto principio. — Pel bene come pel male, l’influsso viene dall’alto e non dal basso. Le opinioni e i costumi dei parenti formano le opinioni e i costumi dei figliuoli. Le opinioni e i costumi delle classi letterate formano le opinioni e i costumi di quelle che non lo sono.

Settimo principio. — Le opinioni e i costumi delle classi letterate derivano soprattutto dalla loro educazione letteraria. Cotale educazione si fa principalmente coi libri che si pongono tra le mani della gioventù durante i sette od otto anni che uniscono l’infanzia all’adolescenza. E ciò per tre motivi: il primo, perché quegli anni sono gli anni decisivi della vita. Il secondo, perché quei libri sono il nutrimento giornaliero della gioventù ed il suo nutrimento obbligato; perché essa li deve studiare con cura, perché li deve imparare con fervore; perché se ne deve imbevere pel fondo e per la forma. Il terzo perché siffatto studio assiduo è accompagnato da spiegazioni e da commenti, nello scopo di far ben capire il senso di essi libri, di farne ammirare lo stile, i pensieri, le bellezze d’ogni genere, di esaltare le azioni, i fatti, le parole, le istituzioni degli uomini e dei popoli di cui narrano la storia; finalmente, e soprattutto, di offrire all’ammirazione della gioventù gli autori di tali opere come i re , senza paragone, dell’ ingegno e del genio. Dunque in diritto, tutto proviene dalla educazione. Dunque in fatto, 1’educazione delle classi superiori fa l’educazione delle inferiori, l’opinione, i costumi, la società. – Siffatta conseguenza non è meno inattaccabile che i principi stessi da noi rammentati, e dai quali essa scaturisce necessariamente come il fiume dalla sua sorgente. I saggi di tutti i tempi 1’hanno proclamata. Ai nostri occhi l’unico mezzo di riformare l’uman genere si è quello di riformare l’educazione della gioventù. L’educazione è la sola leva colla quale sollevare si possa il mondo. L’educazione è l’impero, perché l’educazione è l’uomo, e l’uomo è la società. – Qualora i saggi non avessero reso quest’omaggio un anime alla non peritura verità che noi indichiamo, basterebbe per non dubitarne, lo scorgere l’ostinato accadimento col quale in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, le due potenze del bene e del male si disputano l’impero della educazione. Sotto la questione, in apparenza molto secondaria, di sapere chi s’accosterà al al fanciullo per insegnargli la lettura, la scrittura, il calcolo, il greco od il latino, si nasconde in ultima analisi, una questione di sovranità: la verga del maestro è la scettro del mondo. da tutto ciò, che concluderemo riguardo al problrema che ci occupa? La risposta non è dubbia: si è nell’educazione che noi siamo forzati di cercare la cagione prima e sempre sussistente della rottura quattro volte secolare da noi constatata. – In ogni altra cosa, almeno mi sembra, voi non troverete se non cagioni occasionali, indirette e passeggere; ma queste cagioni esterne ed accidentali, le quali avranno forse potuto affrettare e raffermare lo scisma, non sono maggiormente il principio del male, di quello che gli affluenti siano la sorgente dei fiumi ch’ essi fanno straripare. Qual è di presente, nella educazione pubblica d’Europa, questa cagione o questo elemento di più o di meno che da quattrocent’anni scava tra il Cristianesimo e la società un abisso che nulla ha potuto colmare e che ogni giorno più si va allargando? Qui io invoco tutta la sagacia del filosofo e la suprema imparzialità del giudice. – Lungo tempo prima della rottura, io vedo in tutta l’Europa l’educazione pubblica riposare sul seguente organismo: le università ed i ginnasi o collegi. Dopo la rottura, io rinvengo lo stesso organismo. In Francia, il medesimo sussistette in tutta la sua integrità sino alla fine dello scorso secolo; esso sussiste ancora generalmente in tutte le altre parti d’Europa. Sotto questo primo punto, nulla di nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, io vedo che nelle università e nei ginnasi si insegnano: il latino, il greco, le lingue viventi e le lingue orientali, la grammatica, la filosofia, la retorica, le scienze fisiche e matematiche. Dopo la rottura, trovo che s’insegnano le stesse cose. Sotto questo secondo punto, nulla di nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, vedo che s’insegnano con particolare cura le verità della religione; che i maestri ed i discepoli. tranne poche eccezioni, ne adempiono fedelmente i doveri. Dopo la rottura, trovo che non si insegna meno fedelmente la religione; che i maestri ed i discepoli, io generale, continuan fino all’ultimo secolo ad adempierne esattamente i precetti. Sotto questo terzo punto, nulla di nuovo; e quanto al fondo, nulla di più. nulla di meno. – Prima della rottura, vedo l’insegnamento posto fra le mani del clero e degli ordini religiosi. Dopo la rottura. trovo che ne è lo stesso in tutti i paesi ed anche in Francia sin verso la metà dello scorso secolo. Sotto questo quarto punto, nulla di Nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, vedo seduti sulle cattedre e delle università maestri senza macchia, pii, zelante, dottori illustri ed in gran numero, e ciò in tutte le scienze. Dopo la rottura trovo la stessa cosa. Sotto questo quinto punto, nulla di nuovo; e, al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Prima della rottura, vedo l’insegnamento affatto libero: il monopolio non era ancora inventato. Dopo lo scisma, trovo per quasi tre secoli la stessa libertà: il dogma pagano del monopolio è nato ai dì nostri. Sotto questo sesto punto, nulla di nuovo; e, quanto al fondo, nulla di più, nulla di meno. – Tali sono, salvo errore, i punti di paragone i più notevoli sotto cui si presenta, nelle due epoche, la pubblica educazione. Ora, prima e dopo lo scisma, questi punii di paragone si rassomigliano in modo che testimoniano l’identità della istituzione: la stessa organizzazione, lo stesso insegnamento, gli stessi uomini, lo stesso spirito, lo stesso scopo, la stessa libertà. – Donde viene che i risultati si rassomiglino sì poco? Donde viene che la stessa sorgente abbeverando le generazioni nascenti comunichi alle une la vita cattolica in tutto il suo vigore, mentre le altre non vi attingono se non un languore mortale? Donde viene che la stessa educazione, la cui azione onnipotente diede alla società del medio-evo quella forza di coesione contro cui s’infransero gli assalti dell’eresia, del sensualismo e del dispotismo, si trovò tutto in una volta senza forza per proteggerla contro gli stessi tentativi: in modo che l’eresia, il sensualismo ed il dispotismo non ebbero che a presentarsi, per entrare a gonfie vele nel cuore dell’Europa e fermarvisi da sovrani padroni cui nulla poté detronizzare? – Si dirà forse che questo risultato si debba attribuire alle circostanze esterne in cui 1’educazione si è compiuta dopo il quindicesimo secolo? Io chiederò dapprima in qual guisa tali circostanze esterne han potuto nascere ed acquistare tanta influenza al di fuori e a dispetto dell’educazione? Dirò poscia che queste circostanze esterne, ossia questo nuovo mezzo, si è innanzi tutto il protestantismo. Ora, il protestantismo non è altro se non il principio di ribellione contro la Chiesa. Questo principio non nacque nel secolo decimosesto; esso ha sempre esistito nel mondo: il primo protestante fu Lucifero. Dopo la ribellione del paradiso terrestre, ed in più di una epoca della Chiesa, egli ebbe organi non meno possenti di Lutero, agenti non meno formidabili di Enrico Ottavo. La questione è di sapere in qual modo l’educazione, la quale, durante mille anni, lo aveva potuto neutralizzare, siasi d’improvviso trovata senza forza forza contr’esso; e ciò non solo nei luoghi ov’esso fu con violenza stabilito, ma eziandio nelle contrade ove non fu mai ufficialmente ricevuto, come lo dimostra l’indebolimento della fede in tutta l’Europa. – Rinane dunque a cercare la vera cagione, la cagione generale e permanente del male nell’educazione. Qui sta la difficoltà; poiché vedemmo che prima e dopo lo scisma, l’educazione offre gli stessi caratteri. Ove trovare il cambiamento? Qual è il cancro sconosciuto, che da quattro secoli rode l’albero nella sua radice e ne vizia il crescere? Qual è finalmente il novello elemento, la cui formidabile potenza, rendendo inutili, per un ravvicinamento e le dure lezioni ricevute dalla società, e le tenere proposte della Chiesa, condanna la madre alle lacrine, e la figliuola alla morte? Acciò evitiamo ogni rimprovero di esagerazione,dichiariamo prima di rispondere, che non è nostra intenzione di dare alle nostre parole un senso esclusivo. Noi riconosceremo volentieri nel moto anticristiano il quale trascina l’Europa, cagioni estranee a quella che stiamo per indicare. Ma insieme con tutti gli uomini riflessivi che seriamente studiarono la questione, noi ci crediamo fondati a considerar questa cagione siccome la più influente: non ci vuole di più per giustificare il rigore morale della nostra affermazione; inoltre, noi protestiamo contro ogni interpretazione delle nostre parole personalmente ostile a chicchessia. Noi non intacchiamo, né vogliamo intaccare nessuno: né il clero secolare, né l’Università, né gli ordini religiosi addetti all’insegnamento. Noi attacchiamo solo il paganesimo. Ciò posto, ecco la risposta.

CAPITOLO III

SOLUZIONE DEL PROBLEMA

Un fonditore di Firenze esercitava da lunga pezza con esito mirabile 1’arte sua. Il secreto della sua gloria consisteva nel preparare maestrevolmente lo stampo in cui egli versava a volta a volta l’oro, l’argento, il bronzo. Un giorno, il municipio di Firenze gli comanda di fare la statua d’uno dei grandi uomini della repubblica, e l’arcivescovo un bassorilievo per una delle cappelle del celebre Duomo. La gloria della patria e l’amor della religione comunicano all’artista un nuovo ardore: sotto questa doppia inspirazione, il suo genio concepisce un capo d’opera. Sgraziatamente, ei non aveva allora nel suo studio se non lo stampo d’un cavallo. Poco monta, pensò l’artista: combinerò sì bene i metalli, che riparerò codesto guaio. Di fatto, l’argento e l’oro, sapientemente mescolati, sono versati insieme nello stampo. Si aspetta un eroe dalle forme antiche: l’artista infrange lo stampo e ne cava fuori un cavallo! « Quanto sbaglio! dice egli: ma conosco il mio errore. Io non ho adoperato i miei metalli in proporzioni convenienti. » Tosto si rimise all’opera, forma una nuova lega e rifà uno stampo simile al primo. Pochi giorni dopo, nuova fusione. Questa volta l’artista lavora per l’arcivescovo il quale aspetta il suo bassorilievo. Lo stampo è aperto, e dà di nuovo un cavallo simile al primo! – « La è cosa imperdonabile! grida 1’artista picchiandosi la fronte. E come ho io potuto dimenticare che 1′ oro e l’argento non sono i veri metalli del fonditore? Il vero metallo del fonditore è il bronzo. Con esso, non vi sarà più errore possibile; io lo conosco, esso mi conosce, noi siamo vecchi amici. » – Ei ci prepara il suo bronzo con grande cura, e ripara il suo stampo, guardandosi bene dal cambiarlo, e lungamente studia le condizioni del problema. Quando esse sono risolute, egli accende i suoi fornelli; ben tosto il metallo della più bella gradazione scorre in getti abbaglianti nello stampo, il quale dà un … superbo cavallo di bronzo, ma sempre un cavallo! Allora 1″infelice artista si dà alla disperazione, se la prende con tutti ma non con sè, pel suo infortunio, e muore senza aver potuto capire che per cambiare una forma, uopo è cangiare lo stampo. – Popoli d’Europa, voi siete il fonditore di Firenze. Dopo il secolo decimoquinto, voi versate i vostri figli in uno stampo pagano, e vi stupite di non ritrarne dei cristiani. Ascoltate la vostra storia. Durante tutto il medio-evo, l’educazione fu esclusivamente cristiana. I libri pagani non erano mai posti come classici fra le mani della gioventù. Essa non li toccava se non nell’età in cui lo spirito, il cuore, l’immaginazione, l’anima insomma, versata nello stampo del Cristianesimo, aveva preso la sua forma assoluta; in cui, per conseguenza, il paganesimo non poteva più imprimere all’infanzia se non una forma secondaria, senza influire sul fondo dell’essere morale. Allora il Cristianesimo era nell’educazione ciò che sono nei nostri banchetti i piatti sostanziosi che attutiscono la fame dei convitati; ed il paganesimo era ciò che sono le bagattelle che compongono i nostri desserts. – Che nasceva da questo? Ciò che sempre nascerà dall’educazione, cioè che sin dalla culla le giovani generazioni nutrite di Cristianesimo, imbevute di Cristianesimo, allevate nella conoscenza, nell’amore, nell’ammirazione del Cristianesimo, nell’entusiasmo delle sue glorie e delle sue opere, trasmettevano alla società quanto esse avevano ricevuto. E la società era cristiana, profondamente cristiana. E questa società cristiana creò un’Europa meravigliosa di grandezza, di forza, di virtù eroiche, e la coprì di monumenti prodigiosi, le cui inimitabili bellezze non formano se non la minima parte della sua gloria. Verso la fine del secolo decimoquinto, voi rompeste lo stampo cristiano, e poneste in sua vece uno stampo pagano. Le giovani generazioni vi furono dentro gettate, e questa cera molle prese la forma dello stampo, e ne avvenne quello che di necessità ne doveva avvenire: le giovani generazioni nutrite di paganesimo, tirate su nell’ammirazione del paganesimo, cominciarono a mostrarsi pagane, ed a trasmettere alla società quanto esse avevano ricevuto. Se, nella prima fusione, esse non furono del tutto pagane, attribuitelo all’azione del Cristianesimo, il quale, dominando ancora nella famiglia e nella società impedì una trasformazione totale e subitanea. – Nondimeno tale fu l’influenza di questa prima prova, che si videro, cosa profondamente degna di osservazione! Tutti i capi della grande ribellione del decimosesto secolo brillare fra i più ardenti discepoli del paganesimo classico, gloriarsi d’essere stati gettati nello stampo pagano, esaltare coloro che ve li avevano messi. tuffarvisi ogni giorno più, invitando tutti ad imitarli, e facendosi della loro nuova forma un’arma loro contro la Chiesa, la cui lingua, le cui scienze e le cui arti incominciarono quelli ad accusare di barbarie. – Il pericolo diventava vieppiù serio: la religione e la società perdevano terreno manifestamente. Si pose mano di nuovo all’opera, e si tentò di formare una nuova generazione la quale, profondamente cristiana, equilibrerebbe l’azione disastrosa di quella che cessava di esserlo, o non lo era di già più: la grande reazione cattolica del secolo decimosesto incominciò. Chiamati a concorrervi, i dottori i più sperimentati, gli ordini religiosi i più dotti raddoppiarono d’attività. Il più abile di questi grandi corpi, l’immortale Compagnia di Gesù, sembrò creata a bella posta per venire in aiuto alla Chiesa ed alla società nella educazione. Essa vi si addisse affatto, adottando, come i suoi compagni d’armi, lo stampo pagano. Cosi voleva l’opinion pubblica, la quale ormai non conosceva più altra forma del bello. – Nessuno ignora infatti che il sedicesimo secolo fu età dell’oro del Rinascimento, l’epoca per eccellenza del culto dell’antico in letteratura, in poesia,, l’epoca degli artisti, dei grecisti, degli umanisti pagani che soprabbondavano in ogni parte d’Europa, i cui echi non cessavano di ridire i loro ditirambi in onore dei Greci e dei Romani. Bentosto i collegi dell’illustre Compagnia coprirono il suolo d’Europa. Una gioventù numerosa, e soprattutto la gioventù appartenente alle classi le più alte, si strinse intorno alle cattedre degli illustri religiosi. La scienza, la virtù, l’abnegazione, la paternità dei maestri, l’ortodossia della loro dottrina, la varietà e lo sfarzo delle cerimonie religiose praticate nelle loro case, tutto sembrava riunito per far rivivere e perpetuare nella società in generale, e soprattutto nelle condizioni elevate, la vigorosa fede del medio-evo. – Parallelamente ai Padri Gesuiti, i Benedettini, i Preti dell’Oratorio ed altri in buon dato rivaleggiavano di scienza e di zelo, mentre le università, ricche di professori non meno distinti pel sapere che per la virtù, concorrevano alla restaurazione universale coronando, nelle loro dotte lezioni, l’edificio così fortemente concepito, in apparenza, del cattolico insegnamento. – Quale fu il risultato finale di quest’azione sì generale e sì ben combinata? Lo stesso che aveva ottenuto il fonditore di Firenze. Le generazioni erano state gettate nello stampo del paganesimo, e si ebbero generazioni pagane. Conforme alla grande legge che presiede alla vita umana, tali generazioni non tardarono a trasmettere ciò ch’esse avevano ricevuto, e il paganesimo straripò sull’ Europa. Pur troppo! sì, la storia, la triste storia lo dice: invece di rianimarsi, lo spirito cristiano andò indebolendosi, e indebolendosi soprattutto nelle classi letterate, fra le quali ei dovea, grazie allo zelo di tanti eccellenti maestri, risvegliarsi con novello vigore. La cosa procedette siffattamente, e tutti lo sanno, che alla fine del decimosettimo secolo e in principio del decimottavo, nulla vi era in tutta Europa meno cristiano di costumi e di credenze, che coloro che avevano il più largamente partecipato al pubblico insegnamento. – Che questi amari frutti siano stati, salvo forse un piccolo numero e dei meno cattivi, prodotti dall’albero pagano ripiantato in seno all’Europa e coltivato con tanta cura pel nutrimento della gioventù, un’osservazione di un altr’ordine lo conferma. Da un lato, le donne, nella cui educazione non entra, o non entra se non in ben piccola dose 1’elemento pagano, si sono sempre mostrate molto più cristiane degli «nomini: d’altra parte, le classi popolari, preservate dallo stesso flagello, rimasero fedeli alla fede antica e non divennero ostili alla religione se non sotto l’influsso due volte secolare, delle classi educate alla scuola dei Greci e dei Romani. – Fonditore di Firenze, né la tua arte né la tua intenzione possono cambiare la natura delle cose: sinché tu verserai i tuoi metalli in uno stampo di cavallo, tu avrai un cavallo. – Popoli d’Europa, sinché voi getterete la gioventù nello stampo del paganesimo, voi avrete generazioni pagane: né le vostre leggi sull’insegnamento, per quanto esser possano liberali, né l’ingegno dei vostri professori né le vostre intenzioni cambieranno in nulla la cosa. – Pensare l’opposto è un errore. Questo errore voi lo commetteste; lo commettete ogni giorno, da più di tre secoli: ecco il verme che vi rode. Tale è lo scioglimento del problema. – Per le formidabili conseguenze di cui essa minaccia il mondo europeo di presente, l’aberrazione che noi descrivemmo finì di divenire così evidente, che le persone le meno sospette di parzialità non possono trattenersi dallo indicarla ad alta voce. Sotto pena di una catastrofe inevitabile e forse fatale, essi scongiurano la società di mutare sistema. Basti riferire, fatta d’altronde ogni riserva, le parole così piene di buon senso d’un membro dell’Assemblea nazionale, in occasione dell’ ultima legge sull’insegnamento: « Dopo il principio di questa discussione, dice esso, l’Università e il Clero si rimandano le accuse come palle da schioppo. Voi pervertite la gioventù col vostro razionalismo filosofico, dice il Clero. Voi l’abbrutite col vostro dogmatismo religioso, risponde l’Università. Sopraggiungono i conciliatori, i quali dicono: la religione e la filosofia sono sorelle. Fondiamo insieme il libero esame e l’autorità. Università e Clero, voi avete avuto, ciascuno alla vostra volta, il monopolio; dividetelo e sia finita. – « Noi udimmo il venerabile vescovo di Langres apostrofare in tal guisa l’Università: « Siete voi che ci avete data la generazione socialista del 1848! ». – « Ed il signor Cremieux si affrettò a ritorcere l’apostrofe in questi termini; « Siete voi che avete educata la generazione rivoluzionaria del 1793 ». « Se vi ha del vero in somiglianti allegazioni, che se ne deve conchiudere? Che i due insegnamenti sono stati funesti non per ciò che li differenzia, ma per ciò che loro è comune. Sì, questa è la mia convinzione: vi è tra questi due generi di insegnamento un punto comune, cioè l’abuso degli studi classici, ed è con esso che Università e Clero han pervertito il giudizio e la moralità della nazione. Essi differiscono in quanto l’uno fa predominare l’elemento religioso, l’altra l’elemento filosofico; ma siffatti elementi, lungi dall’aver fatto quel male, come si rimproverano a vicenda, lo hanno attenuato. Noi dobbiamo loro di non essere così barbari come i Barbari proposti di continuo dal latinismo alla nostra imitazione. – « Mi si permetta un supposto un po’ forzato, ma che farà capire il mio pensiero. Suppongo dunque che in qualche luogo, agli antipodi, esista una nazione la quale, odiando e spregiando il lavoro, abbia fondato tutti i suoi mezzi d’esistenza sul saccheggio successivo di tutti i popoli vicini e sulla schiavitù. Questa nazione si è fatta una politica, una morale, una religione, una opinione pubblica conformi al principio brutale che la conserva e la sviluppa. La Francia avendo dato al Clero il monopolio dell’educazione, quando non trova di meglio a fare se non d’inviare tutta la gioventù francese da quel popolo a vivere della sua vita, ad inspirarsi dei suoi sensi, ad entusiasmarsi de’suoi entusiasmi, ed a respirare le sue idee come l’aria. Però, esso ha cura che ogni scolare parta munito d’un piccolo libro, chiamato l’Evangelio. Le generazioni in tal modo allegate ritornano nel suolo patrio; una rivoluzione scoppia: lascio pensare la parte ch’esse vi rappresentano. – « Il che vedendo, lo stato strappa al Clero il monopolio dell’insegnamento e lo rimette all’Università. Questa, fedele alle tradizioni, manda essa pure la gioventù agli antipodi presso il popolo saccheggiatore e possessore di schiavi, dopo averla però provvista d’un libriccino intitolato: Filosofia. Cinque o sei generazioni così educate hanno appena riveduto il suolo natio, che una seconda rivoluzione scoppia. Formate alla stessa scuola delle generazioni che le han precedute, esse se ne mostreranno le degne rivali. Allora viene la guerra tra i monopolisti. Il vostro libriccino è quello che ha fatto tutto il male, dice il Clero. È il vostro, risponde l’Università. «Eh! no, signori, i vostri libricini non entrano per nulla in tutto questo. Chi ha fatto il male, è la bizzarra idea, da voi due concepita ed eseguita, di mandare la gioventù francese, destinata al lavoro, alla pace, alla libertà, ad impregnarsi, ad imbeversi ed a saturarsi dei sensi e delle opinioni d’un popolo di banditi e di schiavi. Affermo questo, che le dottrine sovversive, alle quali si diede il nome di socialismo o di comunismo, sono il frutto dell’insegnamento classico, sia esso impartito dal Clero o dall’Università. Aggiungo che il baccalaureato imporrà per forza l’insegnamento classico anche a quelle pretese scuole libere che, dicesi, debbon sorgere dalla legge. – Ma sento gridare e dire: 1° voi siete troppo assoluto; il cambiamento di stampo, per rammentare la vostra espressione, non fu sì totale come voi dite; 2° quando ciò fosse, voi attribuite ad una semplice forma una esagerata influenza: ora, il paganesimo classico od il Rinascimento, non è altra cosa se non una forma nuova, data al pensiero; 3° ammettendo questa influenza, voi dovete riconoscere ch’essa era, se non assolutamente necessaria, per lo meno molto utile per trarre l’Europa dalla barbarie.

[1- Continua]