L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (5)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (5)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE SECONDA

Unione della vita attiva e della vita interiore

4.

Vita interiore e vita attiva si chiamano a vicenda

Come l’amore di Dio si rivela con gli atti della vita interiore, così l’amore del prossimo si manifesta con le operazioni della vita esteriore e perciò, non potendosi separare l’amore di Dio e l’amore del prossimo, ne risulta che queste due forme di vita non possono stare l’una senza l’altra (vitam diligendus est proximus, ac per hoc, sic non possuinus sine utraque esse vita, sicut et sine utraque dilectione esse nequaquam possumus – S. IBID., Different, lib. II, XXXIV, n. 135). Perciò, dice il Suarez, non vi può essere uno stato correttamente e normalmente ordinato per giungere alla perfezione, il quale non partecipi in una certa misura dell’azione e della contemplazione (Concedendum ergo est nullum esse posse vitæ studium recte institutum ad perfectionem obtinendam, quod non aliquid de actione et de contemplatane participet – SUAREZ, de Relig. trac., 1. I, cap. V, n. 5). L’illustre gesuita non fa altro che commentare l’insegnamento di san Tommaso. Coloro che sono chiamati alle opere della vita attiva, dice il Dottore Angelico, avrebbero torto a credere che questo dovere li dispensi dalla vita contemplativa; questo dovere non ne accresce e non ne diminuisce la necessità. Perciò le due vite non solo non si escludono a vicenda, ma si chiamano, si suppongono, si mescolano e si completano, e se si deve dare una parte maggiore all’una delle due, bisogna darla alla vita contemplativa che è la più perfetta e la più necessaria (GOFFREDO, Vita S. Bern., I, c. V e III). Perché sia feconda, l’azione ha bisogno della contemplazione; questa quando giunge a un certo grado d’intensità, diffonde sulla prima qualche cosa della sua sovrabbondanza, e così l’anima va ad attingere direttamente nel cuore di Dio le grazie che razione deve distribuire. – Perciò nell’anima di un santo, l’azione e la contemplazione, fondendosi in perfetta armonia, danno alla sua vita una meravigliosa unità. Tale era, per esempio, san Bernardo, l’uomo più contemplativo e inpari tempo più attivo del suo secolo. Di lui unsuo contemporaneo fa questa magnifica descrizione: in lui l’azione e la contemplazione si accordavano così bene, che egli pareva nel tempo stesso tutto dedito alle opere esteriori e intanto tutto assorto nella presenza e nell’amore del suo Dio(S. TOMM., 2a 2æ, q. 182, a. 1 ad 3).  Commentando quel testo scritturale: Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum – Mettimi come un sigillo sul tuo cuore, come un sigillo sul tuo braccio – Cant. VIII, 6), il F. Saint-Jure descrive molto bene i rapporti tra le due vite; riassumiamo le sue riflessioni. Il cuore significa la vita interiore, contemplativa; il braccio, la vita esteriore, attiva.  Il sacro testo nomina il cuore e ilbraccio per mostrare che le due vite possono allearsi e andare perfettamente d’accordo nella medesima persona.  Il cuore è nominato per il primo, perché è un organo più nobile e più necessario che il braccio; così pure la contemplazione è assai più eccellente e più perfetta, e merita più stima che non l’azione. – Il cuore batte notte e giorno, e un momento di fermata in questo organo essenziale porterebbe alla morte. Il braccio invece che è soltanto parte integrante del corpo umano, si muove solo a intervalli. Così noi dobbiamo di tanto intanto dare un po’ di tregua al nostro lavoro esteriore, ma non sospendere mai la nostra applicazione alle cose spirituali.  Il cuore dà la vita e la forza al braccio, per mezzo del sangue che gli manda, altrimenti questo membro si paralizzerebbe. Così la vita contemplativa, vita di unione con Dio, con i lumi e la continua assistenza che l’anima riceve da questa intimità, vivifica le occupazioni esteriori ed essa sola ècapace di comunicare loro, insieme con un carattere soprannaturale, una reale utilità. Senza di essa, tutto è languido, sterile, pieno d’imperfezioni.  L’uomo disgraziatamente troppo spesso separa quello che Dio ha unito, perciò questa perfetta unione è molto rara, e poi per effettuarsi esige un complesso di precauzioni che spesso si trascurano: non intraprendere nulla di superiore alle proprie forze; vedere in tutto abitualmente, ma semplicemente, la volontà di Dio; non impegnarsi nell’azione se non quando Dio lo  vuole e nella misura esatta in cui lo vuole da noi, e con il solo desiderio di esercitare la carità; offrirgli fin dal principio il nostro lavoro e durante il lavoro ravvivare spesso con santi pensieri e con ardenti giaculatorie la nostra risoluzione di agire soltanto per Lui e per mezzo di Lui; ancora durante il lavoro, qualunque sia l’attenzione che si richiede da noi, conservarci sempre nella pace, perfettamente padroni di noi medesimi; per la riuscita, rimetterci unicamente a Dio e non desiderare di essere liberati dalla fatica se non per ritrovarci soli con Gesù Cristo. Tali sono i sapientissimi consigli dei maestri della vita spirituale, per giungere a questa unione. Qualche volta le occupazioni si moltiplicheranno tanto, da richiedere tutte le nostre energie, senza che possiamo in nessun modo liberarci dal nostro peso e neppure alleggerirlo. La conseguenza ne potrà essere la privazione, per un tempo più o meno lungo, del godimento dell’unione con Dio, ma questa unione non ne soffrirà, se noi non lo vogliamo. Se tale stato si prolunga, BISOGNA SOFFRIRNE, GEMERNE E SOPRATTUTTO TEMERE CHE DIVENTI ABITUDINE. L’uomo è debole e incostante; trascurata la sua vita spirituale, ben presto ne perde il gusto; assorbito dalle occupazioni materiali, finisce con sentirne piacere. Invece se lo spirito interiore esprime la sua vitalità latente con gemiti e sospiri, questi continui lamenti che vengono da una ferita la quale non si chiude nemmeno in mezzo ad un’attività assorbente, costituiscono il merito della contemplazione sacrificata, o meglio l’anima mette in effetto quella meravigliosa e feconda unione della vita interiore e della vita attiva. Stimolata da questa sete di vita interiore, che essa non può soddisfare a suo agio » ritorna con ardore, appena lo può, alla vita di orazione. Il Signore le prepara sempre alcuni istanti di conversazione; Egli vuole però che essa vi sia fedele e le concede di poter compensare eoi fervore la brevità di quei momenti felici.  In un testo le cui parole sono tutte degne di essere meditate, san Tommaso riassume molto bene tale dottrina: Vita contemplativa, ex genere suo, maioris est meriti quam vita activa. Potest nihilominu8 uccidere ut aliquis plus mereatur aliquid exter-num agendo: pitta si propter abundantiam divini amoris, ut Eius voìuntas impleatur, propter Ipsius gloriam, interdum sustinet a dulcedine divinæ contemplationis ad tempus separati (La vita contemplativa è in sé più meritoria che la vita attiva. Può tuttavia accadere che un uomo meriti di più, facendo un atto esteriore: per esempio se per causa dell’abbondanza di amore, per compiere la volontà di Dio, per la sua gloria, si tollera qualche volta di stare privo, per qualche tempo, della dolcezza della divina contemplazione – 2a 2æ, q. 18, a. 2).  Notiamo l’abbondanza di condizioni che il santo Dottore suppone, perché l’azione diventi più meritoria della contemplazione. La molla interna che spinge l’anima all’azione non è altro che la sovrabbondanza della sua carità: Propter abundantiam divini amoris; non si tratta dunque né dell’agitazione né del capriccio né del bisogno di espandersi. E difatti è un dolore per l’anima: Sustinet, per essere privata delle dolcezze della vita di orazione (Dolcezza che avendo la sua sede soprattutto nella parte superiore dell’anima, non sopprime punto le aridità, perciò: Exsuperat omnem sensum. La logica della fede pura, arida e fredda in sé, basta alla volontà per infiammare il cuore con una fiamma soprannaturale con l’aiuto della grazia.  Sopra il suo letto di morte, a Moulins, santa Giovanna di Chantal, ima delle anime più provate nell’orazione, lasciava alle sue figliuole, come testamento, il principio di cui essa era vissuta per logica della fede: la maggiore felicità quaggiù è di potersi trattenere con Dio.), a dulcedine divinæ contemplationis… separati. Perciò essa sacrifica soltanto provvisoriamente: Accidere… interdum… ad tempus, e per un fine affatto soprannaturale: ut Eius voluntas impleatur, propter Ipsius gloriam, una parte del tempo riservato all’orazione.  – Quanta sapienza e quanta bontà nelle vie del Signore! Che meravigliosa direzione Egli dà all’anima con la vita interiore! Conservata in mezzo all’azione e intanto generosamente offerta, questa pena profonda di dover consacrare tanto tempo alle opere di Dio e così poco al Dio delle opere, trova il suo conforto. Per lei infatti scompaiono tutti i pericoli di dissipazione, di amor proprio, di affezioni naturali; invece di nuocere alla libertà di spirito e all’attività, questa disposizione di animo dà loro un carattere più serio. Essa è la forma pratica dell’esercizio della presenza di Dio, perché l’anima trova nella GRAZIA DEL MOMENTO PRESENTE, Gesù vivo che si offre a lei, nascosto sotto il lavoro da compiere: Gesù lavora con  lei e la sostiene. Quante persone sotto il peso del lavoro dovranno a questa pena salutare ben compresa, a questo desiderio sacrificato, eppure mantenuto, di avere più tempo di stare presso il santo Tabernacolo, a quelle comunioni spirituali quasi continue, dovranno, dico, la fecondità della loro azione e nel tempo stesso la sicurezza dell’anima loro e il progresso nella virtù!

5.

Eccellenza di questa unione

L’unione delle due vite, contemplativa e attiva, costituisce il vero apostolato, opera principale del Cristianesimo, come dice san Tommaso: Principalissimum officium (3a p. q. 67, a. 2 ad 1).  L’apostolato suppone anime capaci di entusiasmarsi per un’idea, di consacrarsi al trionfo di un principio. Se l’effettuazione di questo ideale diventa soprannaturale per lo spirito interiore, se il nostro zelo, nel suo scopo, nel suo focolare e nei suoi mezzi, è animato dallo spirito di Gesù, noi avremo la vita in sé più perfetta, la vita per eccellenza, poiché i teologi la preferiscono anche alla semplice contemplazione: Præfertur simplici contemplationi (San Tommaso). L’apostolato dell’uomo di orazione è la parola conquistatrice, col mandato di Dio, con lo zelo delle anime, col frutto delle conversioni: Missio a Deo, zélus animarum, fructificatio auditorum (San Bonaventura). È il vapore della fede, dalle salutari esalazioni: Zélus, id est vapor fidei (Sant’Ambrogio).  L’apostolato del santo è la semina del mondo. L’apostolo getta alle anime il frumento di Dio (P. Leon, passim, op. cit.). È l’amore in fiamme che divora la terra, l’incendio della Pentecoste irresistibilmente propagato attraverso i popoli: Ignem veni mittere in terram (Io sono venuto a gettare il fuoco sulla terra – S. Luc. XII, 19).  – La sublimità di questo ministero consiste nel provvedere alla salute degli altri, senza pregiudizio per l’apostolo: sublimatur ad hoc ut aliis provideat. Trasmettere le verità divine alle intelligenze, non è questo un ministero degno degli Angeli? Contemplare la verità è cosa buona, ma il comunicarla agli altri è meglio ancora; riflettere la luce è qualche cosa di più che il riceverla; rischiarare è meglio che risplendere sotto il moggio. Con la contemplazione l’anima si nutre, con l’apostolato si dà: Sicut maius est illuminare quam lucere solum, ita maius est contemplata aliis tradere quam solum contemplari (S. TOHM., 2a 2æ, q. 188, a. 6). – Contemplata aliis tradere: in questo ideale di apostolato, la vita di orazione resta la sorgente: tale è il pensiero evidente di san Tommaso. Questo testo, come pure le parole dello stesso santo Dottore citate alla fine del capitolo precedente, condanna chiaramente l’americanismo i cui partigiani sognano una vita mista in cui l’azione soffocherebbe la contemplazione.  Esso infatti suppone due cose: 1° che l’anima viva già abitualmente di orazione e ne viva abbastanza da dover dare soltanto il superfluo; 2° che l’azione non debba sopprimere la vita di orazione, e che, pure dandosi agli altri, l’anima debba praticare la custodia del cuore, in modo da non correre nessun serio pericolo di sottrarre l’esercizio della sua attività all’influenza di Gesù Cristo.  La parola scultoria del P. Matteo Crawley, l’apostolo della Consacrazione delle famiglie al Sacro Cuore di Gesù, traduce esattamente il pensiero di san Tommaso: L’apostolo è un calice pieno fino all’orlo, della vita di Gesù Cristo e la cui sovrabbondanza si riversa sulle anime.  Questa unione dell’azione, con tutto il suo dispendio di zelo, e della contemplazione, con le sue sublimi elevazioni, produsse i più grandi Santi, san Dionigi, san Martino, san Bernardo, san Domenico, san Francesco d’Assisi, san Francesco Saverio, san Filippo Neri, sant’Alfonso, tutti ardenti contemplativi e in pari tempo grandi apostoli.  Vita interiore e vita attiva! Santità nelle opere! Unione potente, unione feconda! quanti prodigi di conversione voi operate! O Dio, date alla vostra Chiesa molti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore, infiammato dal desiderio di sacrificarsi, una sete ardente della vita di orazione. Date ai vostri operai questa azione contemplativa e questa contemplazione attiva; allora l’opera vostra si compirà, i vostri operai evangelici riporteranno quelle vittorie che voi annunziaste loro prima della vostra gloriosa Ascensione.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (4)

R. P. CHAUTARD D. G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (4)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALE

TORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA

NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE SECONDA

Unione della vita attiva e della vita interiore

1.

Preminenza, riguardo a Dio, della vita interiore sulla vita attiva.

In Dio vi è la vita, ogni vita; Egli è la stessa vita. Ora l’Essere Infinito non manifesta questa vita nel modo più intenso nelle sue opere esteriori, come per esempio nella creazione, ma in quelle che la teologia chiama operazioni ad intra, in quell’attività ineffabile il cui termine è la generazione eterna del Figlio e la continua processione dello Spirito Santo: qui vi è per eccellenza la sua opera essenziale ed eterna.  – Consideriamo la vita mortale di Gesù Cristo, esecuzione perfetta del disegno divino: trent’anni di raccoglimento e di solitudine, poi quaranta giorni di ritiro e di penitenza preludono alla sua breve carriera evangelica; e quante volte ancora noi lo vediamo, nelle sue corse apostoliche, ritirarsi sulla montagna o nel deserto per pregare: Secedebat in desertum et orabat(Si ritirava nel deserto e pregava – S. Luc. V, 16), oppure passare la notte nell’orazione: Pernoctans in oratione Dei(Si ritirò sulla montagna per pregare e passò tutta la notte in orazione di Dio – S. Luc. VI, 12). Cosa più significante ancora, Marta desidera che il Signore, condannando il preteso ozio di sua sorella, proclami la superiorità della vita attiva; ma la risposta di Gesù: Maria optimam partem elegit(Maria ha scelto la parte migliore – S. Luc. X, 42), consacra la preminenza della vita interiore. Che cosa ne dobbiamo conchiudere, se non il proposito ben fermo di farci sentire la preponderanza della vita di orazione sulla vita attiva?  – Dopo il Maestro, gli Apostoli, fedeli al suo esempio, si riserveranno dapprima l’ufficio della preghiera e poi, per darsi al ministero della parola, lasceranno ai diaconi le occupazioni  più esteriori: Nos vero orationi et ministerio verbi instantes erimus (E noi ci dedicheremo interamente alla preghiera e al ministero della parola – Atti VI, 4). – I Pontefici alla loro volta, i santi Dottori, i Teologi affermano che la vita interiore è in sé superiore alla vita attiva.  Pochi anni fa, una donna di gran fede, di virtù e di carattere, Superiora generale di una delle più importanti Congregazioni insegnanti dell’Aveyron, fu invitata dai suoi superiori ecclesiastici a favorire la secolarizzazione delle sue religiose. Bisognava sacrificare le opere alla vita religiosa, oppure abbandonare quelle per conservare questa? Perplessa, non sapendo come conoscere la volontà di Dio, parte segretamente per Roma, ottiene un’udienza da Leone XIII, gli espone i suoi dubbi e l’insistenza che le viene fatta a favore delle opere. L’augusto vegliardo, raccoltosi per qualche momento, le dà questa risposta categorica: «Prima di tutto il resto, prima di tutte le opere, conservate la vita religiosa a quelle tra le vostre figliuole che posseggono davvero lo spirito della loro vocazione e l’amore della vita di orazione. Se non potete conservare insieme con questo anche le opere, Dio saprà suscitare in Francia altre operaie, se occorre. In quanto a voi, con la vostra vita interiore, soprattutto con le vostre preghiere e con i vostri sacrifizi, sarete più utili alla Francia restando davvero religiose, anche lontane da lei, che non rimanendo in patria prive dei tesori della vostra consacrazione a Dio».  – In una lettera indirizzata a un Istituto esclusivamente insegnante, Pio X espresse chiaramente il suo pensiero con queste parole: Sappiamo che va diffondendosi un’opinione secondo la quale voi dovreste dare il primo posto all’educazione dei fanciulli e il secondo posto soltanto, alla professione religiosa: così vorrebbero lo spirito e i bisogni del tempo. Noi NON VOGLIAMO ASSOLUTAMENTE che tale opinione abbia il più piccolo valore per voi e per gli altri Istituti religiosi che, come il vostro, hanno per scopo la rieducazione. Resti dunque stabilito per quanto vi riguarda, che la vita religiosa importa assai più che la vita ordinaria, e che se avete gravi obblighi verso il prossimo per il dovere di i/nse* gnare, ben più gravi sono gli obblighi che vi legano a Dio (Il lasciare l’abito religioso per continuare un’istituzione, non è cosa biasimata da Pio X, purché si mantengano 1 mezzi per conservare in tutto lo spirito religioso). – La ragione di essere della vita religiosa, il suo scopo principale, non è forse l’acquisto della vita interiore?

Vita contemplativadice san Tommaso – simpliciter melior est… et potior quam activa(La vita contemplativa è migliore della vita attiva e le è preferibile.).  – San Bonaventura accumula i comparativi per mostrare l’eccellenza della vita interiore: Vita sublimior, securior, opulentior, suavior, stabilior (Vita più sublime, più ricca, più sicura, più soave e più stabile.).

Vita sublimior.

La vita attiva si occupa degli uomini, la vita contemplativa invece ci fa entrare nel dominio delle più sublimi verità, senza distogliere i suoi sguardi dallo stesso principio di ogni vita: Principium quod Deus est quæritur. Essendo più sublime, essa ha un orizzonte e un campo di azione assai più esteso: Martha in uno loco torpore laborabat circa aliqua, Maria in multis locis caritate circa multa. In Dei enim contemplatione et amore videi omnia; dilatatur ad omnia, eomprehendit et complec-titur omnia, ita ut eius comparatone Martha sollicita dici possit circa panca (Marta in un solo luogo si dedicava corporalmente a poche cose. Maria con la carità lavorava in più luoghi e in diverse occupazioni. Contemplando e amando Dio, essa vede tutto, si estende a tutto, comprende e abbraccia tutto. Si può dunque dire che, in confronto di Maria, Marta si turba per poche cose – RICCARDO DA S. VITTORE, in Cant., 8).

Vita securior.

In essa vi sono meno pericoli. Nella vita quasi esclusivamente attiva, l’anima si agita, diventa febbricitante, disperde le sue energie e con ciò s’indebolisce. Vi è un triplice difetto: Sollicita es(Marta, Marta, tu ti affanni e t’inquieti per molte cose; eppure una sola è necessaria – S. Luc. X, 41, 42).): sono le sollecitudini del pensiero, sollicitudinis in cogitata; Turbaris: ecco i turbamenti che nascono dalle affezioni, turbationis in affectu; finalmente Erga plurima: moltiplicazione di occupazioni, e perciò divisione nello sforzo e nelle azioni, divisionis in actu. — Una sola cosa invece s’impone per formare la vita interiore, cioè l’unione con Dio: Porro unum, est necessatium. Il resto è e non può essere che secondario e si fa soltanto in virtù di questa untone e per rafforzarla di più.

Vita opulentior.

Con la contemplazione si trovano tutti i beni. Venerunt mini omnia bona pariter eum illa (Con essa mi sono venuti tutti i beni – Sap. VII, 11).). Essa è la parte più eccellente di tutte: Optimam partem elegit(Essa ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta – S. Luc. X, 42). 2). In essa si fanno più meriti, perché essa aumenta nello stesso tempo lo slancio della volontà e il grado dì grazia santificante, e fa agire l’anima per un principio di carità.

Vita suavior.

L’anima che vive davvero di vita interiore, si abbandona al beneplacito di Dio, accetta con lo stesso cuore paziente tanto le cose piacevoli quanto le penose e arriverà fino al punto di mostrarsi lieta nelle afflizioni, fortunata di portare la sua croce.

Vita stabilior.

La vita attiva, per quanto sia intensa, termina quaggiù; predicazioni, scuole, lavori di ogni sorta, tutto finisce alle porte dell’eternità. La vita interiore invece non ha tramonto: Quæ non auferetur ab ea. Per lei la dimora su questa terra non è altro che una continua ascesa verso la luce, ascesa che la morte rende immensamente più radiosa e più rapida.  – Per riassumere tutte le eccellenze della vita interiore, possiamo applicarle queste parole di san Bernardo: « In essa l’uomo vive più puro, cade più di rado, si rialza più prontamente, cammina più sicuro, riceve più grazie, riposa più tranquillo, muore più fiducioso, è purificato più presto e riceve una ricompensa più grande» (S. BERNARDO, Hom. Simile est.. De bono relig.).

2.

L’azione dev’essere soltanto l’effusione della vita interiore

Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste (S. Matt. V, 48). Fatte le debite proporzioni, il modo di agire di Dio dev’essere il criterio e la regola della nostra vita esteriore e interiore.  Ora sappiamo che è proprio della natura di Dio il dare, ed è un fatto constatato, che Egli sparge a profusione i suoi benefici su tutti gli esseri e più particolarmente sulla creatura umana. Così da migliaia, se non da milioni di secoli, tutto l’universo è oggetto di quella inesauribile prodigalità che si espande continuamente in benefizi. Dio intanto non s’impoverisce mai, e la sua inesauribile munificenza non può per nulla diminuire le sue infinite ricchezze. – Ma all’uomo, Dio non si accontenta di concedere beni esteriori, gli manda il suo Verbo. E anche qui, in questo atto di somma generosità che è il dono di se stesso, Dio non abbandona nè può abbandonare nulla dell’integrità della sua natura. Dandoci suo Figlio, Egli lo conserva sempre in se stesso: Sume exemplum de summo omnium Parente Verbum suum emittente et retinente (Prendete esempio dal Creatore di tutte le cose, il quale manda il suo Verbo e nel tempo stesso lo tiene con sé – S. BERNARDO, lib. II de Consid,, e. III).  Per mezzo dei Sacramenti, e specialmente per mezzo dell’Eucaristia, Gesù Cristo viene ad arricchirci delle sue grazie; Egli le versa su noi senza misura, perché è un oceano sconfinato che ribocca su noi, senza mai esaurirsi: De plenitudine eius nos omnes accepimus (Noi tutti abbiamo ricevuto dalla sua pienezza – Giov. I, 16).  Cosi, in un certo modo, dobbiamo essere noi, uomini apostolici, che abbiamo il nobile compito di santificare gli altri: Verbum tuum considerano tua, quæ si proceda, non recedat(Il vostro Verbo è la vostra considerazione; essa si allontani da voi senza uscirne – S. BERNARDO, Hb. II de Consid., c. III).; il nostro verbo è lo spirito interiore che la grazia ha formato nelle nostre anime. Questo spirito dunque dia vita a tutte le manifestazioni del nostro zelo, ma come continuamente viene speso a vantaggio del prossimo, così viene continuamente rinnovato con i mezzi che Gesù ci offre: la nostra vita interiore sia il tronco pieno di buon succo, e le nostre opere ne siano la fioritura. Un’anima di apostolo dev’essere essa per la prima inondata di luce e infiammata di amore, affinché riflettendo questa luce e questo calore, possa illuminare e riscaldare gli altri. Quello che essi videro, che contemplarono con i loro occhi, quello che quasi toccarono con mano, lo insegneranno agli uomini (I S. Giov. I, 1). La loro bocca verserà nei cuori l’abbondanza delle dolcezze celesti, dice san Gregorio.  Possiamo intanto stabilire questo principio: LA VITA ATTIVA  DEVE PROCEDERE DALLA VITA CONTEMPLATIVA, TRADURLA E CONTINUARLA DI FUORI E DISTACCARSENE IL MENO POSSIBILE.  – I Padri e i Dottori proclamano tale dottrina.  Priusquam exserat proferenlem linguam, dice sant’Agostino, ad Deum levet animam sitientem ut eructet quod biberit, vel quod impleverit fundat(Prima di permettere alla sua lingua di parlare, l’apostolo deve innalzare a Dio la sua anima assetata, per poter poi esalare ciò che ha bevuto e diffondere quello di cui si sarà riempito – S. AGOSTINO, Doct. Christ. I, IV). – Prima di comunicare, dice lo Pseudo-Dionigi (PSEUDO-DION., Cæl. hier,, c. III), bisogna ricevere, e gli Angeli superiori trasmettono agli inferiori soltanto quei lumi di cui ricevettero la pienezza. Il Creatore ha stabilito quest’ordine universale riguardo le cose divine: colui che ha la missione di distribuirle, vi deve partecipare per il primo e riempirsi prima abbondantemente delle grazie che Dio vuol dare alle anime per mezzo suo; allora, e soltanto allora, a lui sarà permesso di farne parte agli altri. Tutti conoscono quell’avviso che san Bernardo dà all’uomo apostolico: [Se sei saggio, sii un serbatoio e non un canale: Si sapis, concham te exhibebis, non canaìem (S. BERNARDO, Serm. 1 8 in Cant.). Il canale lascia scorrere l’acqua che riceve, senza serbarne una goccia; il serbatoio invece si riempie, poi senza vuotarsi versa il di più che  sempre si rinnova, nei campi che rende fertili. Quanti sì dedicano all’azione e non sono mai altro che canali! e mentre si sforzano di fecondare i cuori, essi restano all’asciutto! Canales multos hodie habemus in Ecclesia, conchas vero perpaucas (Vi sono oggi nella Chiesa molti canali, ma pochissimi serbatoi (S. BERNARDO, ibid.), soggiungeva con amarezza il santo Abate di Chiaravalle. – Ogni causa è superiore al suo effetto, perciò si richiede maggior perfezione per poter perfezionare gli altri, che non per poter semplicemente perfezionare se stesso (S. TOMM., Opusc. de perf, vit. Spirt.).  Come la madre non può allattare il bambino se non nella misura in cui alimenta se stessa, cosi i confessori, i direttori spirituali, i predicatori, i catechisti, i professori, devono prima assimilare la sostanza con cui nutriranno poi i figli della Chiesa (Oportet quod prædicator sit imbutus et dulcoratus in se, et post aliis proponat – S. BONAVENTURA, Illus. EccL, Serm. 17). La verità e l’amore divino sono elementi di questa sostanza, e soltanto la vita interiore può fare della verità e della carità divina un nutrimento capace di dare la vita.

3.

La base, il fine e i mezzi di un’istituzione devono essere penetrati dalla vita interiore

Dobbiamo dire un’Istituzione degna di questo nome, perché certune ai nostri giorni non meritano tale titolo: sono opere organizzate con un’apparenza di pietà, ma con lo scopo reale di procurare ai loro fondatori, con gli applausi del pubblico, una fama di capacità non comune, e per la cui riuscita sarebbero adoperati, all’occorrenza, tutti i mezzi, anche quelli meno giustificabili. Altre opere meritano certamente maggiore stima; esse vogliono il bene; il loro fine e i loro mezzi sono irreprensibili. Eppure, perché i loro organizzatori avevano poca fede nella potenza di azione della vita soprannaturale sulle anime, nonostante mille sforzi, i loro risultati furono nulli o quasi. Per precisare quella che dev’essere un’istituzione, sarà meglio lasciare la parola ad un uomo il quale con il suo apostolato illustrò un’intera regione, e ricordare la lezione che ricevetti da lui negli inizi del mio ministero sacerdotale. Volevo fondare un patronato per i giovani e, dopo di aver visitato i Circoli cattolici di Parigi e di alcune altre città della Francia, le Opere cattoliche di Val-des-Bois ecc., andai a Marsiglia per studiare le istituzioni per la gioventù del santo sacerdote Allemand e del venerando canonico Timon-David. Mi piace ricordare con quale commozione il mio cuore di sacerdote novello accolse le parole di quest’ultimo. – « Banda, teatro, proiezioni, cinematografo ecc., io non biasimo nulla di tutto questo. Da principio anch’io avevo creduto tali cose indispensabili: ma sono soltanto stampelle che si adoperano in mancanza di meglio; più vado avanti, e più diventano soprannaturali il mio fine e i miei mezzi, perché vedo sempre più chiaramente che qualunque istituzione costruita su ciò che è umano, è destinata a morire, e soltanto l’istituzione che mira ad avvicinare gli uomini a Dio mediante la vita interiore, è benedetta dalla Provvidenza.  « Gli strumenti musicali da molto tempo sono sul solaio, il teatro mi è diventato inutile, eppure l’istituzione è più prospera che mai. Perché? Perché i miei sacerdoti e lo vediamo, grazie a Dio, molto meglio che da principio, e la nostra fede nell’azione di Gesù e della grazia è centuplicata.  – «Credetemi, non esitate a mirare in alto più che sia possibile, e sarete meravigliato dei risultati. Mi spiego: Non abbiate soltanto come ideale l’offrire ai giovani un certo numero di distrazioni oneste che distolgono dai piaceri illeciti e dalle relazioni pericolose, e neppure il verniciarli semplicemente di Cristianesimo col farli assistere macchinalmente alla Messa e con far loro ricevere qualche volta, e in modo appena passabile, i Sacramenti.  « Duc in altum(Avanzate in alto mare – Luc. V, 4). Abbiate prima di tutto la nobile ambizione di ottenere, a qualunque costo, che un certo numero di giovani prendano la risoluzione energica di vivere da Cristiani ferventi, cioè con la pratica della meditazione del mattino, con l’abitudine della Messa quotidiana se è possibile, con una breve lettura spirituale e, naturalmente, con frequenti e fruttuose Comunioni. Mettete tutte le vostre cure per infondere in questo gregge scelto un grande amore di Gesù Cristo,  lo spirito di preghiera, di sacrificio, di vigilanza sopra se stessi, insomma, di sode virtù. Sviluppate con la stessa cura nelle loro anime la fame dell’Eucaristia; poi eccitate questi giovani all’azione sui loro compagni. Formatene degli apostoli franchi, generosi, ardenti, buoni, seri, senza devozione gretta, pieni di tatto e che non cadano mai, col pretesto di zelo, nel brutto sbaglio di spiare i compagni. Prima di due anni voi mi direte se vi è ancora bisogno della banda e del teatro per ottenere una messe copiosa ».  – « Comprendo, — risposi io; — questa minoranza dev’essere il fermento; ma che cosa si dovrà fare per gli altri che non si possono portare a questo livello? per la maggioranza, per quei giovani di ogni età e anche per gli uomini ammogliati che apparterranno al circolo progettato, che cosa si dovrà fare? ».  – « Dare loro una fede salda con corsi di conferenze preparate seriamente, le quali occuperanno parecchie delle loro serate invernali. I vostri Cristiani ne usciranno abbastanza armati non solo per rispondere vittoriosamente ai loro compagni di lavoro, ma anche per resistere all’azione più perfida del giornale o del libro. Il far nascere nei giovani convinzioni incrollabili che essi all’occorrenza sapranno affermare senza rispetto umano, sarà già un risultato molto apprezzabile: però bisognerà condurli più lontano, fino alla pietà, a una pietà vera, fervorosa, convinta e illuminata ». – « E dovrò fin da principio aprire la porta a chiunque si presenti?». – « Il numero è da desiderarsi soltanto se gli elementi raccolti sono bene scelti. L’aumento del vostro circolo deve risultare soprattutto dall’influenza di quel nucleo di apostoli dei quali Gesù, Maria e voi, come loro strumento, sarete il centro ».  – « Il locale sarà modesto; dovrò dunque aspettare che i nostri mezzi ci permettano di fare di più?». – « Da principio le sale spaziose e comode possono, come un tamburo, attirare l’attenzione sulla nascente istituzione; ma vi ripeto, se sapete mettere, come base della vostra società, la vita cristiana ardente, integrale, apostolica, il locale strettamente necessario basterà sempre per dare posto anche a tutti gli accessori voluti dal funzionamento di un Circolo. Oh! come potrete allora constatare che il rumore fa poco bene e che il bene fa poco rumore! come vedrete allora che il Vangelo ben compreso fa diminuire la lista delle spese senza pregiudicare i risultati, anzi! Ma prima di tutto, dovrete pagare di vostra persona, ma non tanto per preparare faticosamente recite per il teatro o accademie ginnastiche, quanto piuttosto per accumulare in voi la vita di orazione; poiché dovete persuadervi bene, che la misura con cui voi per il primo vivrete di amore di Gesù Cristo, è la stessa misura con cui potrete accenderlo negli altri ». – «Insomma, voi basate tutto sulla vita interiore!»  – « Sì, mille volte sì; perché così invece di lega si ottiene oro fino. Del resto credete alla mia esperienza: a ogni istituzione, parrocchia, seminario, catechismo, scuola, circolo militare ecc., si può applicare ciò che dico per le istituzioni giovanili. Quanto bene produce in una grande città un’associazione cristiana la quale viva davvero nel soprannaturale! Essa agisce come un lievito potente, e soltanto gli Angeli possono dire quanto essa sia feconda di frutti di salute! – «Ah! se tutti i sacerdoti, i religiosi e anche le persone di azione conoscessero la potenza della leva che tengono nelle loro mani, e prendessero come punto di appoggio il Cuore di Gesù e la vita di unione con questo divin Cuore, solleverebbero la nostra patria: sì, la solleverebbero nonostante gli sforzi di Satana e dei suoi satelliti» (Lo zelante canonico che così mi parlava e della cui conversazione ho voluto conservare un esatto ricordo, sviluppò il suo pensiero in alcuni dei suoi bellissimi libri: Méthode de direction (les ceuvres de jeunesse, 2 voll.; Traité de la confession des enfants et des jeunes gens, 3 voll.; Souvenirs de l’oeuvre ou vie et mori de quelques Congréganistes, in vendita presso l’Oeuvre de la jeunesse, Timon-David, 30, e du Canuta, Marsiglia; oppure presso i Fratelli Mignar, rue Saint-Sulpice, Parigi.).

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (3)

R. P. CHAUTARD D . G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (3)

Traduzione del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PARTE PRIMA

5.

Risposta a una prima obbiezione: la vita interiore è oziosa?

Questo libro è indirizzato soltanto agli uomini di azione o animati da un desiderio ardente di dedicarsi al bene, ma esposti al pericolo di trascurare i mezzi necessari perché il loro sacrificio riesca fecondo per le anime, senza che sia per loro stessi la perdita della vita interiore. Non è affatto nostro scopo stimolare i pretesi apostoli amanti del riposo, destare le anime illuse dall’egoismo che fa loro vedere nell’ozio un mezzo di favorire la pietà, scuotere l’indifferenza degli indolenti e degli addormentati i quali, con la speranza di vantaggi e di onori accettano di dare il loro nome a qualche opera, purché non ne siano turbati nella loro quiete e nel loro ideale di tranquillità; questo compito richiederebbe un libro a parte.  Perciò, lasciando ad altri la cura di far capire a questa categoria di apatici la responsabilità di un’esistenza che Dio voleva attiva e che il demonio, d’accordo con la natura, rende infeconda per mancanza di attività e di zelo, ritorniamo ai nostri cari e venerati confratelli ai quali specialmente sono dedicate queste pagine. – Nessun termine di confronto ci può rappresentare l’intensità infinita dell’attività che si svolge in seno a Dio: la vita interiore del Padre è tale, che genera una Persona divina; dalla vita interiore del Padre e del Figlio procede lo Spirito Santo.  La vita interiore comunicata agli Apostoli nel Cenacolo accese subito in essi lo zelo. La vita interiore, per qualunque persona istruita che non voglia studiarsi di snaturarla, è un principio di abnegazione. – Quand’anche essa non si rivelasse affatto con manifestazioni esteriori, la vita di orazione, in se stessa e intimamente, è una SORGENTE DI ATTIVITÀ alla quale nessun’altra si può paragonare. Non vi è nulla di più falso che il considerarla come una specie di oasi dove uno si possa rifugiare per trascorrere in pace la vita: basta che essa sia la strada che conduce più direttamente al regno dei cieli, perché le si possa applicare in modo speciale il testo: Regnum cœlorum vim patitur, et violenti rapiunt illud (Il regno dei cieli si acquista con la forza ed è preda di coloro che usano violenza – MATT. XI, 12).  – Don Sebastiano Wyart che aveva provato le fatiche dell’asceta e quelle della vita militare, il lavoro degli studi e le cure inerenti all’uffizio di superiore, soleva ripetere che vi sono tre sorta di lavoro:

1° Il lavoro quasi interamente fisico di coloro che esercitano un mestiere manuale, di operaio, di artigiano, di soldato; questo lavoro, egli diceva, comunque si pensi, è certo il meno duro.

2° Il lavoro intellettuale dello studioso, del pensatore alla ricerca, spesso difficile, della verità, il lavoro dello scrittore, del professore i quali fanno ogni sforzo per far penetrare la verità in altre intelligenze, il lavoro del diplomatico, del negoziante, dell’ingegnere ecc., gli sforzi mentali del generale durante la battaglia per prevedere, dirigere e decidere. Questo lavoro in se stesso è più penoso del primo, come lo conferma il proverbio che LA LAMA LOGORA IL FODERO.

3° Finalmente il lavoro della vita interiore; di tutti e tre, egli non esitava a proclamarlo, questo è il più pesante quando vien preso sul serio (Maior labor est resistere vitiis et passionibus, quam corporalibus insudare laboribus – S. Gregorio). Ma è pure quello che ci offre quaggiù maggiori consolazioni, come pure è anche il più importante, perché esso non forma più la professione dell’uomo, ma forma l’uomo stesso. Quanti si gloriano di essere coraggiosi nei due primi generi di lavoro che portano alla fortuna e alla gloria, e poi sono inerti, pigri e vili quando si tratta di lavorare per la virtù! Sforzarsi di dominare continuamente se stesso e le cose esteriori, per cercare in tutte le cose soltanto la gloria di Dio, è l’ideale dell’uomo risoluto ad acquistare la vita interiore, e perché il suo ideale diventi realtà, egli si sforza di restare unito a Gesù Cristo in ogni circostanza e perciò di tenere fisso lo sguardo al fine che deve raggiungere e di considerare tutte le cose alla luce del Vangelo. Egli ripete con sant’Ignazio: Quo vadam et ad quid? (Dove vado e a che cosa?) In lui dunque tutto dipende da un principio, intelligenza e volontà, memoria, sensibilità, fantasia e sensi. Ma quanto deve affaticarsi per giungere a tale risultato! Sia che si mortifichi o che si conceda qualche onesto piacere, che pensi o che agisca, che lavori o che riposi, che ami il bene oche senta avversione per il male, che desideri o che tema, che accetti la gioia o la tristezza, pieno di speranza o di tristezza, sdegnato o tranquillo, in tutte le cose e sempre egli si sforza di dirigere il suo timone verso il BENEPLACITO DIVINO. Nella preghiera, e soprattutto vicino all’Eucaristia, egli si apparta ancora di più dalle cose visibili per poter trattare con Dio invisibile come se lo vedesse (Invisibilem enim tamquam videns sustinuit – Ebr. XI, 2). Anche in mezzo alle sue fatiche apostoliche egli tende a tradurre in pratica quell’ideale che san Paolo ammirava in Mosè.  – Né avversità della vita, né tempeste delle passioni non lo possono far deviare dalla linea di condotta che si è imposta; se per caso vien meno un momento, subito si rianima e riprende con maggior vigore il suo cammino. Quale lavoro! E come si comprende come Dio ricompensi anche quaggiù con gioie speciali colui che accetta gli sforzi che simile lavoro richiede!  Oziosi, concludeva Don Sebastiano, oziosi i veri religiosi, i Sacerdoti di vita interiore e zelanti! Via! Vengano pure i mondani più affaccendati e verifichino se il loro lavoro si può paragonare al nostro!  Chi non l’ha provato? Qualche volta sarebbero preferibili lunghe ore di un’occupazione faticosa, a una mezz’ora di orazione ben fatta, all’assistenza seria di una Messa, alla recita attenta dell’Ufficio (« Qualunque siano le difficoltà della vita attiva, soltanto gli inesperti osano negare le prove della vita interiore. Molte persone attive, pure sinceramente pie, confessano che molto spesso ciò che a loro costa di più nella loro vita, non è l’azione, ma la parte obbligatoria dell’orazione, e si sentono sollevate quando arriva l’ora dell’azione »(D. Festugière, O. S. B.). 3). Il P. Faber constata con amarezza, che per certuni « il quarto d’ora che segue la Comunione è il quarto d’ora più noioso della giornata ». Se si trattasse di un breve ritiro di tre giorni, quanta ripugnanza ne proverebbero certuni! Appartarsi per tre giorni dalla vita facile, benché molto occupata, e vivere nel soprannaturale e farlo penetrare, durante quel tempo di ritiro, in tutti i particolari della propria vita, sforzare la mente a vedere tutte le cose, per quel breve tempo, alla sola luce della Fede, sforzare il cuore a dimenticare tutto per respirare soltanto Gesù e la sua vita, rimanere a discutere con se stessi e scoprire le proprie infermità e debolezze spirituali, gettare l’anima nel crogiuolo senza sentire pietà alle sue proteste, tutto questo è una prospettiva che fa indietreggiare molte persone che pure sarebbero disposte a qualunque fatica, finché si tratta di spendere un’attività puramente naturale. – Ma se tre giorni di tale occupazione sembrerebbero già tanto penosi, che cosa proverà la natura all’idea di sottoporre gradatamente una vita intera al regime della vita interiore? Certamente in questa vita di spogliamento la grazia ha molta parte e rende soave il giogo e leggero il peso; ma quante occasioni di sforzi vi trova l’anima! È per essa sempre uno sforzo il rimettersi sulla retta via e ritornare al Conversatio nostra in cælis est(La nostra conversazione è nei cieli – Filipp. III, 20). San Tommaso lo spiega molto bene: L’uomo – egli dice – è collocato tra gli oggetti della terra e i beni spirituali nei quali si trova l’eterna felicità; quanto più aderisce agli uni, tanto più si allontana dagli altri (Est homo constitutus inter rea mondi huius et bona spiritualia in quibus æterna beatitudo consistiti, ita quod, quanto plus inhaeret uni eorum, tanto plus recedit ab altero, et e contrario – la 2ae, q. 108, a. 4). Nella bilancia se si abbassa uno dei piatti, l’altro s’innalza altrettanto. – Ora la catastrofe del peccato originale che sconvolse l’economia del nostro essere, ha reso penoso questo doppio movimento di adesione e di allontanamento, e per stabilire e conservare, mediante la vita interiore, l’ordine e l’equilibrio in questo «piccolo mondo» che è l’uomo, si richiede fatica, pena e sacrificio. Si tratta di ricostruire un edificio in rovina e di difenderlo poi da un nuovo crollo. – Strappare continuamente dai pensieri terreni, per mezzo della vigilanza, della rinunzia e della mortificazione, questo onere aggravato da tutto il peso della natura corrotta, gravi corde(Salmo IV), riformare il proprio carattere particolarmente nei punti in cui è più dissimile dalla fisionomia dell’anima di Gesù Cristo, nella dissipazione, nei trasporti d’ira, nella compiacenza in sé e fuori di sé, nelle manifestazioni della superbia o delle miserie della natura, come la durezza, l’egoismo, la mancanza di bontà ecc., resistere alle attrattive del piacere presente e sensibile con la speranza di una felicità spirituale che si avrà soltanto dopo una lunga attesa, staccarsi da tutto ciò che ci può far amare la terra, fare un olocausto completo di tutto, delle creature, dei desideri, delle passioni, delle concupiscenze, dei beni esteriori, della propria volontà e del proprio giudizio… quale lavoro! – Eppure questa è soltanto la parte negativa della vita interiore. Dopo questa lotta a corpo a corpo che faceva gemere san Paolo (Condelector enim legi Dei secundum interiorem hominem: video autem aliam legem in membris mela repugnantem legi mentis meæ et captivantem me in lege peccati, quae est in membris meis. Infelix ego homo; quis me liberabit de corpore mortis huius? – Rom. VII, 22-24), e che il P. Ravignan esprimeva con queste parole: «Mi domandate che cosa ho fatto nel mio noviziato?Eravamo in due; ne buttai uno dalla finestra e sono rimasto solo»; dopo questa lotta senza tregua contro un nemico sempre pronto a rinascere, bisogna proteggere da ogni assalto dello spirito della natura un cuore che, purificato con la penitenza, si strugge dal desiderio di riparare gli oltraggi fatti a Dio, spiegare tutta l’energia per tenerlo attaccato unicamente alle bellezze invisibili delle virtù che si devono acquistare per imitare quelle di Gesù Cristo, sforzarsi di conservare anche nei più minuti particolari della vita un’assoluta confidenza nella Provvidenza; questo è il lato positivo della vita interiore. Chi può immaginare l’immensità di questo campo di lavoro! È un lavoro intimo, assiduo, costante; eppure proprio con tale lavoro l’anima acquista una meravigliosa facilità e rapidità di esecuzione per i lavori apostolici. Soltanto la vita interiore possiede questo segreto. Le opere immense compiute, nonostante una salute precaria, da un Agostino, da un Giovanni Crisostomo, da un Bernardo, da un Tommaso d’Aquino, da un Vincenzo de’ Paoli, ci fanno sbalordire. Ma più ancora ci fa meraviglia il vedere questi uomini, con tutte le loro fatiche quasi ininterrotte, mantenersi nella più costante unione con Dio. Questi Santi che per mezzo della contemplazione si dissetavano di più alla sorgente della vita, ne attingevano più abbondante capacità di lavorare. È questa la verità che un gran Vescovo, sovraccarico di lavoro, esprimeva ad un uomo di Stato, anch’egli oppresso dagli affari, il quale gli domandava il segreto della sua inalterabile serenità e della meravigliosa riuscita delle sue opere: « Caro amico, a tutte le vostre occupazioni aggiungete una mezz’ora di meditazione ogni mattina: non solo sbrigherete i vostri affari, ma troverete anche il tempo per nuove imprese».  – Finalmente noi vediamo il santo re Luigi IX il quale, nelle otto o nove ore che consacrava ogni giorno agli esercizi della vita interiore, trovava il segreto e la forza di applicarsi con tanta sollecitudine agli affari di Stato e al bene dei sudditi, che mai, come confessò un oratore socialista, neppure ai nostri giorni, non si è fatto tanto in favore delle classi operaie, quanto sotto il regno di questo principe.

6.

Risposta ad un’altra obbiezione: la vita interiore è egoistica?

Non parliamo del pigro né del goloso spirituale i quali fanno consistere la vita interiore nelle gioie di un piacevole ozio e cercano assai più le consolazioni di Dio, che non il Dio delle consolazioni: costoro hanno una falsa pietà. Ma colui che leggermente, oppure per partito preso, dice che la vita interiore è egoistica, non la capisce meglio di quegli altri. Già abbiamo detto che questa vita è la sorgente pura e abbondante delle opere più generose della carità verso le anime e della carità che conforta i dolori di quaggiù; esaminiamo ora l’utilità della vita interiore sotto un altro aspetto. Si dirà dunque che fu sterile ed egoistica la vita interiore di Maria e di san Giuseppe! Che bestemmia e che assurdo! Eppure non è loro attribuita nessuna opera esteriore: la sola irradiazione di una intensa vita interiore sul mondo, i meriti delle preghiere e dei sacrifizi applicati all’estensione dei benefizi della Redenzione, bastarono a costituire Maria regina degli Apostoli e Giuseppe patrono della Chiesa universale (In un altro capitolo si vedrà qual è questa vita interiore che dà alle opere la loro fecondità). Soror mea reliquit me solam ministrare(Mia sorella lascia me sola a servire  – Luc. X, 40), dice con le parole di Marta, lo sciocco presuntuoso il quale vede soltanto le sue opere esteriori e i loro risultati.  La sua sciocchezza e la sua poca intelligenza delle vie di Dio non arrivano al punto di fargli supporre che Dio non sappia quasi fare a meno di lui; ma intanto ripete volentieri con Marta, incapace di apprezzare l’eccellenza della contemplazione di Maddalena: Dic illa ut me adiuvet, (Dille dunque che mi aiuti – Luc. X, 40)., e arriva persino a dire: Ut quid perditio hæc (Perché questa perdita? – MATT. XXIV, 8), rimproverando come una perdita dì tempo i momenti che i suoi fratelli di apostolato, che fanno vita interiore più di lui, si riservano per assicurare la loro intima unione con Dio. Io santifico me stessa per loro, AFFINCHÈ essi pure siano santificati nella verità (Pro eis ego sanctifico meipsum ut sint et ipsi sanctificati in veritate – Giov. XVII, 19), risponde l’anima che ha inteso tutta la forza di questa parola del Maestro, AFFINCHÈ, e che conoscendo il valore della preghiera e del sacrifizio, unisce alle lacrime e al sangue del Redentore le lacrime dei suoi occhi e il sangue di un cuore che si va purificando sempre più di giorno in giorno. Con Gesù, l’anima che fa vita interiore, sente la voce dei delitti del mondo salire verso il Cielo e chiedere sui loro autori un castigo del quale essa ritarda la sentenza con l’onnipotenza della supplica capace di fermare la mano di Dio pronta a scagliare i fulmini.  « Coloro che pregano – diceva dopo la sua conversione l’insigne statista Donoso Cortes – fanno per il mondo assai più di quelli che combattono, e se il mondo va di male in peggio, è perché vi sono più battaglie che preghiere».  « Le mani alzate – dice Bossuet – sbaragliano più battaglioni che non le mani che colpiscono ». I solitari della Tebaide in mezzo ai loro deserti avevano spesso in cuore il fuoco che animava san Francesco Saverio. «Sembrava – dice sant’Agostino – che avessero abbandonato il mondo più del bisogno: Tidentur nonnullis res humanas plus qua ni oportet deseruisse: ma non si riflette che le loro preghiere, rese più pure dal loro grande distacco dal mondo, erano più efficaci e più NECESSARIE per questo mondo corrotto». Una breve ma fervida preghiera ordinariamente affretterà una conversione più che le lunghe discussioni e i bei discorsi. Colui che prega, tratta con la CAUSA PRIMA e agisce direttamente su essa. Egli ha pure in sua mano tutte le cause seconde, perché queste ricevono la loro efficacia unicamente da questo principio superiore. Perciò l’effetto desiderato si ottiene allora più sicuramente e più presto. Secondo una rispettabile rivelazione, diecimila eretici furono convertiti da una sola ardente preghiera della serafica santa Teresa la cui anima, infocata per Gesù Cristo, non poteva comprendere una vita contemplativa, una vita interiore la quale non partecipasse alle ardenti sollecitudini del Salvatore, per la salvezza delle anime. « Io accetterei, essa diceva, il purgatorio fino al giorno del Giudizio, per liberare una sola di esse. Che cosa m’importa la lunghezza dei miei patimenti, se così potessi liberare una sola anima, e meglio ancora parecchie anime, per la maggior gloria di Dio!» E alle sue religiose diceva: « Figlie mie, riferite sempre a questo fine tutto apostolico le vostre orazioni, le vostre discipline, i vostri digiuni e i vostri desideri». Così infatti fanno le Carmelitane, le Trappiste, le Clarisse: esse seguono i passi degli Apostoli e li sostengono con la sovrabbondanza delle loro preghiere e delle loro penitenze. Le loro preghiere scendono dall’alto e giungono fin dove cammina la Croce e splende il Vangelo, sulle anime, su queste prede del Signore. O meglio, è il loro amore nascosto, ma attivo, che risveglia dovunque, nel mondo dei peccatori, le voci della misericordia. Nessuno quaggiù conosce il perché di quelle lontane conversioni di pagani, della resistenza eroica di quei Cristiani perseguitati, della gioia celeste di quei missionari martirizzati: tutto questo è invisibilmente legato alla preghiera di quell’umile claustrale. Con le dita sulla tastiera dei perdoni divini, la sua anima silenziosa e solitaria dirige la salvezza delle anime e le conquiste della Chiesa (Lumière et flamme: P. LEON, O. M.). – Monsignor Favier, Vescovo di Pechino, diceva: «Io voglio dei Trappisti in questo Vicariato apostolico; desidero anzi che si astengano da ogni ministero esteriore, affinché nulla li distragga dal lavoro della preghiera, della penitenza e degli studi sacri; perché conosco quanto aiuto darà ai missionari l’esistenza di un monastero fervoroso di contemplativi in mezzo ai nostri poveri Cinesi ». E più tardi diceva: «Siamo finalmente riusciti a penetrare in una regione finora inaccessibile: io attribuisco questo fatto ai nostri cari Trappisti».  Un Vescovo della Cocincina diceva al Governatore di Saigon: «Dieci Carmelitane che pregano, mi daranno aiuto più che venti missionari che predicano». Sacerdoti secolari, religiosi e religiose, dedicati alla vita attiva, ma anche alla vita interiore, hanno sul cuore di Dio la stessa potenza che hanno le anime claustrali. Un Padre Chevrier, un Don Bosco, un Padre Maria Antonio ne sono magnifici esempi. Sant’Anna Maria Taigi, nelle sue funzioni di umile massaia, era un apostolo, come pure san Benedetto Giuseppe Labre che schivava le vie battute. Dupont, il santo di Tours, il colonnello Paqueron ecc., divorati dallo stesso ardore, erano potenti nelle loro opere perché facevano vita interiore; il generale de Sonis, tra una battaglia e l’altra, trovava il segreto del suo apostolato nell’unione con Dio. Chi oserà chiamare egoistica e sterile la vita di un Curato d’Ars? Tale affermazione non meriterebbe risposta. Qualunque mente giudiziosa attribuisce appunto alla sua intimità con Dio, lo zelo e i meravigliosi risultati di questo Sacerdote non ricco d’ingegno ma che, contemplativo come un certosino, sentiva una gran sete di anime, resa inestinguibile dai suoi progressi nella vita interiore, e riceveva da Gesù di cui viveva, una certa partecipazione della potenza divina per convertire i peccatori. Si oserà dire che fu infeconda la sua vita? Ma supponiamo che in ogni diocesi vi fosse un santo Curato d’Ars; in meno di dieci anni l’intera nazione sarebbe rigenerata e assai più  profondamente che non da moltitudini di opere cattoliche non abbastanza fondate sulla vita interiore, e alla cui organizzazione concorressero con i molti mezzi pecuniari, l’ingegno e l’attività di migliaia di apostoli. Noi riteniamo che il motivo principale di sperare bene per la resurrezione della Francia, è che in nessun altro tempo forse non vi furono, come da alcuni anni possiamo constatare, anche tra i semplici fedeli, tante anime così ardentemente desiderose di vivere unite al Cuore di Gesù e di estendere il suo regno, facendo germogliare intorno a sé la vita interiore. Queste anime elette sono un’infima minoranza: sia pure; ma che cosa importa il numero se vi è l’intensità? Il risorgere della Francia dopo la Rivoluzione si deve attribuire a quel gruppo di Sacerdoti maturati nella vita interiore dalla persecuzione; per mezzo loro una corrente di vita divina venne a riscaldare una generazione che l’apostasia e l’indifferenza sembravano aver votato a una morte che nessuno sforzo umano avrebbe potuto scongiurare. Dopo cinquant’anni di libertà d’insegnamento in Francia, dopo questo mezzo secolo che vide fiorire istituzioni innumerevoli e durante il quale noi abbiamo avuto in mano nostra tutta la gioventù del paese e l’appoggio quasi totale dei governanti, come mai, nonostante risultati apparentemente gloriosi, non abbiamo potuto formare nella nazione una maggioranza abbastanza profondamente cristiana che potesse lottare contro la lega dei ministri di satana!  Certamente contribuirono a tale impotenza l’abbandono della vita liturgica e la cessazione del suo irradiare sui fedeli: la nostra spiritualità è divenuta gretta, arida, superficiale, esterna o puramente sentimentale, e non ha più quella penetrazione e quel fascino sulle anime, che suole dare la liturgia, questa grande forza di vitalità cristiana. Ma non vi è forse un’altra causa in questo fatto che, mancando di una intensa vita interiore, noi, Sacerdoti ed educatori, non abbiamo potuto generare altro che anime di una pietà superficiale senza forti ideali, senza sode convinzioni? Come professori, non abbiamo noi rivolto il nostro zelo più al conseguimento delle licenze e al buon nome dell’Istituto, che nell’infondere una soda istruzione religiosa nelle anime! Non abbiamo forse speso l’opera nostra senza avere di mira  soprattutto la formazione della volontà per scolpire l’impronta di Gesù Cristo su caratteri ben formati! E questa mediocrità non è molte volte effetto della meschinità della nostra vita interiore?  A un Sacerdote santo – si dice – corrisponde un popolo fervoroso; a un sacerdote fervoroso, un popolo pio; ad un sacerdote pio, un popolo onesto; ad un sacerdote onesto, un popolo empio: in quelli che sono generati spiritualmente, vi è sempre un grado di vita di meno. – Non accetteremo certamente a occhi chiusi tale affermazione, ma consideriamo che le seguenti parole di sant’Alfonso esprimono abbastanza LA CAUSA a cui bisogna dare la responsabilità della nostra condizione attuale:  « I buoni costumi e la salvezza delle popolazioni dipendono dai buoni pastori; se alla testa di una parrocchia vi è un buon parroco, ben presto si vedrà in essa fiorire la divozione, i Sacramenti frequentati e l’orazione mentale in onore. Di qui il proverbio: Qualis pastor, talis parœcìa, secondo il testo dell’Ecclesiastico (X, 2): Qualis est rector civitatis, tales et inhabitantes in ea» (Homo Apostolicus, VII, 16).

7.

Obbiezione tratta dall’importanza della salvezza delle anime

Ma, dirà l’anima di vita tutta esteriore, in cerca di pretesti contro la vita interiore, come oserò io mettere un limite alle mie opere di zelo! Posso io fare troppo, soprattutto quando si tratta della salvezza delle anime! La mia attività non sostituisce forse, e con vantaggio, tutto il resto, con il sublime esercizio dell’abnegazione! Chi lavora prega, e il sacrifizio vale più che la preghiera. San Gregorio non dice forse che lo zelo è il sacrifizio più gradito che si possa offrire a Dio! Nullum sacrificium est Deo magis acceptum quam zelus animarum– s. GREGORIO, Homilia 12 in Ezech.).  Prima di tutto precisiamo il vero significato del testo di san Gregorio, con le parole del Dottore Angelico. Offrire spiritualmente a Dio un sacrifizio – egli dice – vuol dire offrirgli qualche cosa che lo glorifica; ora, fra tutti i beni, il più gradito che l’uomo possa offrire al Signore, è certamente la salvezza di un’anima. Ma ciascuno deve prima offrire la sua anima, secondo le parole della Scrittura: Se volete piacere a Dio, abbiate pietà dell’anima vostra. Compiuto questo primo sacrifizio, ALLORA ci sarà permesso di procurare anche ad altri la stessa felicità. Quanto più STRETTAMENTE l’uomo unisce a Dio prima la sua anima e poi quella di un altro, tanto più gradito è il suo sacrifizio; ma questa unione intima, generosa e umile, non si può fare SE NON PER MEZZO DELL’ORAZIONE. Applicare se stesso o altri alla vita di orazione, alla contemplazione, piace dunque al Signore PIÙ che il dedicarsi o l’impegnare altri all’azione, alle opere esteriori. Perciò – egli conchiude – quando san Gregorio afferma che il sacrifizio più grato a Dio è la salvezza delle anime, egli non intende di dare alla vita attiva la preferenza sulla contemplazione, ma vuol dire che l’offrire a Dio una sola anima, è per Lui infinitamente più glorioso e per noi assai più meritorio, che l’offrirgli quanto ha la terra di più prezioso (S. TOMM., 2a 2æ, q. 182, a. 2 ad 3.). – La necessità della vita interiore non deve affatto distogliere dalle opere di zelo le anime generose, se la manifesta volontà di Dio vuole questo da loro; che anzi il sottrarsi a tale lavoro o il farlo male, l’abbandonare il campo di battaglia col pretesto di coltivare meglio l’anima propria e di giungere ad una più perfetta unione con Dio, sarebbe una vera illusione e, in certi casi, una sorgente di pericoli. Væ mihi, diceva san Paolo, si non evangelizavero(Guai a me se non annunzio il Vangelo – I Cor. IX, 16). – Ma, fatta questa riserva, diciamo subito che il darsi alla conversione delle anime dimenticando se stessi, produce un’illusione più grave. Dio vuole che noi amiamo il prossimo come noi medesimi, ma non più che noi medesimi, cioè non mai fino al punto di nuocere a noi stessi personalmente, e questo in pratica è lo stesso che esigere una maggior cura dell’anima nostra, che non di quella altrui, perché il nostro zelo dev’essere regolato dalla carità, ed è pur sempre un assioma teologico che Prima sibi charitas(Prima di tutto carità per sé). – « Io amo Gesù Cristo – diceva sant’Alfonso de Liguori – e perciò ardo dal desiderio di dargli delle anime, PRIMA LA MIA, poi moltissime altre ». Questa è la pratica del Tuus esto ubique(Sii dappertutto di te stesso – S. BERNARDO, Hb. II de Consid., cap. III) di san Bernardo: «Non è saggio colui che non appartiene a se stesso».  Il santo Abate di Chiaravalle, vero portento di zelo apostolico, seguiva questa regola, e Goffredo, suo segretario, così lo dipinge: Totus primum sibi et sic totus omnibus(Prima di tutto di se stesso, e così tutto per gli altri – GOFFREDO, Vita S. Bernardi). – Non vi dico già, scrive lo stesso santo al papa Eugenio III, di sottrarvi interamente alle occupazioni secolari; soltanto vi esorto a non abbandonarvi totalmente ad esse. Se siete l’uomo di tutto il mondo, siate dunque anche di voi stesso; altrimenti che cosa vi gioverebbe guadagnare tutti gli altri, se doveste perdere voi stesso? Riserbate dunque qualche cosa anche per voi, e se tutti vengono a bere alla vostra fontana, non dovete astenervi dal bervi anche voi; dovreste dunque voi solo restare assetato!? Cominciate sempre con pensare a voi: INVANO VI DARESTE AD ALTRE CURE, SE VENISTE A TRASCURARE VOI STESSO. Tutte le vostre riflessioni INCOMINCINO DUNQUE CON VOI E FINISCANO CON VOI; siate per voi il primo e l’ultimo e ricordatevi che nell’affare della vostra salute nessuno vi è più prossimo che il figlio unico di vostra madre (S. BERNARDO, Ub. II de Consid., cap. III). – Èmolto eloquente questo appunto di un ritiro spirituale, scritto da Mons. Dupanloup: «Io ho un’attività terribile che mi rovina la salute, disturba la mia pietà e non serve affatto alla mia scienza: bisogna regolarla. Dio mi ha fatto la grazia di riconoscere che ciò che soprattutto si oppone in me, a una vita interiore tranquilla e fruttuosa: è l’attività naturale e la smania delle occupazioni. Inoltre ho riconosciuto che questa MANCANZA DI VITA INTERIORE è la causa di tutte le mie cadute, dei miei disturbi, della mia aridità, dei miei disgusti, della mia cattiva salute. Risolvo dunque di rivolgere tutti i miei sforzi all’acquisto della vita interiore che mi manca, e per questo fine, con la grazia di Dio stabilisco questi punti:

1° Mi prenderò sempre più tempo di quanto è necessario per fare ogni cosa: è questo il mezzo di non essere mai né frettoloso né sopraffatto.

2° Siccome avrò sempre più cose da fare, che non tempo di farle, e siccome questo mi preoccupa e mi trascina, non penserò più alle cose da fare, ma al tempo che devo impiegarvi. Impiegherò il tempo senza perderne nulla, cominciando con le cose più importanti, e non mi inquieterò per quello che non avrò potuto fare ecc. »  – Il gioielliere preferisce a parecchi zaffiri, la più piccola scaglia di diamante: così, secondo l’ordine stabilito da Dio, la nostra intimità con Lui lo glorifica più di tutto il bene possibile da noi procurato a molte anime, ma con danno del nostro progresso. Il Padre nostro celeste il quale si applica di più nel governare un cuore in cui regna, che non nel governo naturale di tutto l’universo e al governo civile di tutti i regni (P. LALLEMANT, Doc. Spirit.), vuole nel nostro zelo quest’armonia. Egli preferisce talora lasciar scomparire un’opera, se la vede diventare un ostacolo allo sviluppo della carità dell’anima che ad essa attende. satana invece non esita a favorirne i risultati superficiali, se può, purché riesca a impedire all’apostolo di progredire nella vita interiore, tanto la sua rabbia sa indovinare dove si trovano i veri tesori per Gesù Cristo: per sopprimere un diamante, volentieri concede qualche zaffiro.

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L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (2)

R. P. CHAUTARD D . G. B .

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (2)

TRADUZIONE

del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B.

8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

3.

Che cosa è la vita interiore?

Le espressioni vita di orazione, vita contemplativa, adoperate in questo libro, si riferiscono, come nell’Imitazione di Gesù Cristo, allo stato delle anime le quali si danno sul serio a una vita cristiana non comune, eppure accessibile a tutti e, in sostanza, obbligatoria per tutti (Pure, prescindendo sempre dai fenomeni che accompagnano certi stati straordinari di unione con Dio, siamo persuasi che Dio spesso concede, all’infuori di tali fenomeni, grazie speciali di orazione alle anime generose che bramano di vivere in intimità con Lui). Non è nostra intenzione fermarci qui in uno studio di ascetismo, ma ci limiteremo a ricordare in breve quello che CIASCUNO è obbligato ad accettare come assolutamente certo, per il governo intimo dell’anima sua.

I. VERITÀ. La vita soprannaturale è in me, la Vita di Gesù Cristo medesimo, per mezzo della Fede, della Speranza e della Carità, perché Gesù è la causa meritoria esemplare e finale e, come Verbo, è col Padre e con lo Spirito Santo la causa efficiente della grazia santificante nell’anima nostra.  La presenza di Gesù per mezzo di questa vita soprannaturale non è la presenza reale propria della santa Comunione, ma una presenza di AZIONE VITALE, come l’azione della testa o del cuore sulle altre membra; azione intima che Dio per lo più nasconde all’anima mia, per accrescere il merito della mia fede; dunque azione abitualmente insensibile alle mie facoltà naturali, che soltanto la fede mi obbliga a credere formalmente; azione divina che non distrugge il mio libero arbitrio e che si serve di tutte le cause seconde, fatti, persone e cose, per farmi conoscere la volontà di Dio e per darmi occasione di acquistare o di accrescere la mia partecipazione alla vita divina.  – Questa vita cominciata col Battesimo con lo stato di grazia, perfezionata con la Cresima, ricuperata con la Penitenza, mantenuta e arricchita con l’Eucarestia, è la mia VITA CRISTIANA.

II. VERITÀ. Per mezzo di questa vita, Gesù Cristo mi comunica il suo Spirito; così Egli diventa un principio di attività superiore il quale, se non vi metto ostacolo, mi fa pensare, giudicare, amare, volere, soffrire e lavorare con Lui, in Lui, per mezzo di Lui, come Lui. Le mie azioni esteriori diventano la manifestazione di questa vita di Gesù in me, e così io tendo ad effettuare l’ideale della VITA INTERIORE formulato da san Paolo: Non sono più io che vivo, ma è Gesù che vive in me. – Vita cristiana, Pietà, Vita interiore, Santità non sono cose essenzialmente diverse, ma sono i gradi diversi di un medesimo amore: sono il crepuscolo, l’aurora, la luce, lo splendore di un medesimo sole.  – Quando in questo libro adoperiamo l’espressione Vita interiore, non intendiamo tanto la vita interiore abituale, cioè, se così possiamo esprimerci, « il capitale di vita divina » che possediamo per la grazia santificante, quanto piuttosto la Vita interiore attuale, ossia il buon uso di questo capitale per mezzo dell’attività dell’anima e della fedeltà alle grazie attuali. Possiamo dunque definirla lo stato di attività di unanima che REAGISCE per DOMINARE le sue inclinazioni naturali e si sforza di acquistare L’ABITUDINE di giudicare e di regolarsi IN TUTTO secondo la luce del Vangelo e gli esempi di Gesù Cristo.  Vi sono dunque due movimenti: col primo, l’anima si ritrae da ciò che il creato può avere di contrario alla vita soprannaturale, e cerca di essere sempre presente a se stessa: Aversio a creaturis; col secondo, l’anima si porta verso Dio e si unisce a Lui: Conversio ad Deum.  – Quest’anima vuole perciò essere fedele alla grazia che Nostro Signore le offre in ogni momento; insomma, essa vive unita a Gesù e avvera in se stessa la parola di Lui: Qui manet in Me et Ego in eo Me fert fructum multum – Chi si tiene in me, e in chi io mi tengo, questi porta gran frutto (Giov. XV, 5).

III. VERITÀ. Mi priverei di uno dei mezzi migliori per acquistare questa vita interiore, se non mi sforzassi di avere una fede PRECISA E CERTA di questa presenza attiva di Gesù in me e soprattutto di ottenere che tale presenza sia per me una realtà viva, ANZI VIVISSIMA, la quale penetri sempre più nella cerchia delle mie facoltà. Così, divenendo Gesù la mia luce, il mio ideale, il mio consiglio, il mio appoggio, il mio rifugio, la mia forza, il mio medico, il mio conforto, la mia gioia, il mio amore, insomma la mia vita, io acquisterò tutte le virtù. Soltanto allora potrò recitare con sincerità la bella preghiera di san Bonaventura, che la Chiesa mi propone come ringraziamento dopo la Messa: Transfige, etnicissime Domine Jesu..,

IV.VERITÀ. In proporzione dell’intensità del mio amore per Dio, la mia vita soprannaturale può crescere ogni momento per una nuova infusione della grazia della presenza attiva di Gesù in me, e questa infusione è prodotta:

1° Da ATTI MERITORI (virtù, lavoro, patimenti nelle loro varie forme, privazione di creature, dolore fisico o morale, umiliazione, abnegazione: preghiera, Messa, atti devoti verso Maria santissima ecc.) —

2° Dai SACRAMENTI e soprattutto dall’Eucaristia.

Dunque è cosa certa — e questa conseguenza mi schiaccia con la sua sublimità e con la sua profondità, ma più ancora mi rallegra e m’incoraggia — è dunque cosa certa che in ogni avvenimento, persona o cosa, siete Voi, o Gesù, proprio Voi che vi presentate a me e in ogni minuto! Sotto quelle apparenze Voi nascondete la vostra sapienza e il vostro amore e sollecitate la mia cooperazione, per accrescere in me la vostra vita! – O anima mia, è sempre Gesù che ti si presenta per mezzo della GRAZIA DEL MOMENTO PRESENTE, della preghiera che devi dire, della Messa che devi celebrare o ascoltare, della lettura che devi fare, degli atti di pazienza, di zelo, di rinuncia, di lotta, di confidenza, di amore che devi fare, e tu oseresti voltare la faccia o nasconderti?

V. VERITÀ. La triplice concupiscenza causata dal peccato originale e accresciuta da ciascuno dei miei peccati attuali, produce in me ELEMENTI DI MORTE, opposti alla vita di Gesù. Ora nella stessa misura con cui tali elementi si sviluppano, diminuiscono l’esercizio di tale vita e possono purtroppo anche arrivare a sopprimerla.  Tuttavia né inclinazioni, né sentimenti contrari a tale vita, né tentazioni anche violente e prolungate, non le possono nuocere finché la mia volontà vi si oppone; e in tal caso — oh! verità consolante! — essi contribuiscono anzi ad aumentarla,in proporzione del mio zelo, come qualunque elemento di lotta spirituale.

VI.VERITÀ. Se non faccio uso continuo di certi mezzi, la mia intelligenza si accecherà, e la mia volontà diventerà troppo debole per cooperare con Gesù ad accrescere ed anche a mantenere la sua vita in me; allora avviene una diminuzione progressiva di questa vita in me e io cammino verso la TEPIDEZZA DELLA VOLONTÀ (Questa tepidezza è ben diversa dall’aridità e anche dal disgusto che provano talvolta, loro malgrado, i fervorosi. Le colpe veniali che sfuggono alla fragilità e che sono combattute e subito detestate appena commesse, non rivelano neppur esse la tepidezza della volontà. L’anima che ha questa tepidezza, ha due volontà opposte, una buona e l’altra cattiva; una calda e l’altra fredda. Da una parte vuole la salute e perciò evita i peccati mortali e manifesti; d’altra parte non vuole le esigenze dell’amor di Dio, vuole invece le comodità di una vita libera e facile e perciò si permette peccati veniali deliberati… Quando questa tepidezza non è combattuta, per ciò stesso vi è nell’anima cattiva volontà, non totale, ma parziale; vi è cioè una parte della volontà che dice a Dio: « Su questo o su quel punto, non voglio cessare di dispiacervi » – P. DESURMONT, C. SS. R., Le Retour continuel à Dieu). Per dissipazione, per vigliaccheria, per illusione o per accecamento, vengo a patti col peccato veniale e per conseguenza divento incerto della mia salute, essendo quella una disposizione facile al peccato MORTALE.  – Se avessi la disgrazia di cadere in questa tepidezza, e tanto più se avessi la disgrazia di cadere anche più in basso, dovrei tentare ogni mezzo per uscirne, 1° con ravvivare il mio timor di Dio, rappresentandomi al vivo il mio fine, la morte, i giudizi di Dio, l’inferno, l’eternità, la malizia del peccato ecc.; 2° col ravvivare la mia compunzione per mezzo della scienza amorosa delle vostre Piaghe, o misericordioso Redentore, e portandomi in ispirito al Calvario, mi prostrerò ai vostri piedi santi, affinché il vostro Sangue vivo, scorrendo sulla mia testa e sul mio cuore, dissipi il mio accecamento, sciolga il ghiaccio dell’anima mia e desti dal torpore la mia volontà.

VII. VERITÀ. Devo seriamente temere di non avere il grado di vita interiore che Gesù esige da me:

1° Se tralascio di accrescere in me la SETE di vivere di Gesù, sete che mi dà il desiderio di piacere in ogni cosa a Dio e il timore di dispiacergli in qualche cosa; ora questo avviene necessariamente se non adopero più i mezzi che sono le preghiere del mattino, la Messa, i Sacramenti e l’Uffizio, gli esami particolare e generale, la lettura spirituale; oppure se per colpa mia tali mezzi non hanno effetto.

2° Se non ho almeno il puro necessario del RACCOGLIMENTO che mi permetta, durante le mie occupazioni, di custodire il mio cuore in una purezza e in una generosità sufficienti perché non venga soffocata la voce di Gesù che mi avverte degli elementi di morte che si presentano, e m’invita a combatterli. Ora quel tanto di raccoglimento mi mancherà, se trascuro i mezzi che me lo possono assicurare, cioè Vita liturgica, giaculatorie soprattutto in forma di suppliche, comunioni spirituali, esercizio della presenza di Dio ecc.  – Senza quel raccoglimento, i peccati veniali verranno a pullulare nella mia vita, e io non potrò forse neppure dubitarne; per nasconderli e anche per non lasciarmi vedere uno stato più deplorevole, l’illusione si gioverà dell’apparenza di pietà più speculativa che pratica, di zelo per l’azione ecc. Ma intanto il mio accecamento sarà colpevole, perché ne avrò messa o mantenuta la causa, con la mancanza di quel raccoglimento indispensabile.

 VIII. VERITÀ. La mia vita interiore sarà quale è la mia Custodia del cuore: Omni custodia serva cor tuum, quia ex ipso vita procedit (Prima di tutto custodisci il tuo cuore, perché da esso viene la vita (Prov. IV, 23).  La custodia del cuore altro non è che la sollecitudine ABITUALE o almeno frequente per preservare tutte le mie azioni, man mano che si presentano, da tutto ciò che potrebbe viziarle o nel loro MOTIVO o nella loro ESECUZIONE.  

Sollecitudine calma, tranquilla, senza sforzo, ma però forte, perché fondata sul filiale ricorso a Dio. È questo un lavoro del cuore e della volontà più che della mente la quale deve restare libera per compiere i suoi doveri. La custodia del cuore non solo non disturba l’azione, ma la perfeziona, perché la regola secondo lo spirito di Dio e l’aiuta nei doveri del proprio stato.  – Questo esercizio si può fare ogni momento; è come uno sguardo del cuore sulle azioni presenti a un’attenzione tranquilla sulle diverse parti di un’azione che si sta facendo; è la perfetta osservanza dell’Age quod agis. L’anima come una sentinella attenta esercita la sua vigilanza su tutti i movimenti del cuore, su tutto ciò che avviene nel suo interno, intenzioni, impressioni, passioni, inclinazioni, insomma su tutti i suoi atti interni ed esterni, pensieri, parole e azioni.  Per la custodia del cuore si richiede un certo raccoglimento, e un’anima dissipata non ne è capace. – Con la frequenza di questo esercizio, a poco a poco se ne acquista l’abitudine.

Quo vadam et ad quid? Che cosa farebbe Gesù, come si comporterebbe al mio posto! Che cosa mi consiglierebbe? Che cosa chiede da me in questo momento? Ecco le domande spontanee che vengono all’anima avida di vita interiore.  Per l’anima che va a Gesù per mezzo di Maria, la custodia del cuore prende un carattere ancora più facilmente affettivo, e per il suo cuore diventa un continuo bisogno il ricorrere a questa buona Madre.

IX. VERITÀ. Gesù Cristo regna nell’anima quando questa vuole imitarlo sul serio, in tutto e con affetto. In questa imitazione vi sono due gradi:

1° L’anima si sforza di divenire indifferente alle creature considerate in se stesse, siano esse conformi oppure contrarie ai suoi gusti. Come Gesù, non accetta altra legge che la Volontà di Dio in tutte le cose: Descendi de cœlo non ut faciam voluntatem meam, sed voluntatem eius qui misit me (Sono disceso dal Cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato  – Giov. VI, 38).  —

Christus non sibi placuit (Rom. XV, 3. Il Cristo non ebbe compiacenza per se. ). L’anima tende più volentieri a ciò che è contrario e ripugna alla natura. Essa allora mette in pratica l’Agendo contra di cui parla sant’Ignazio nella sua celebre meditazione del Regno di Gesù Cristo; è l’azione contro la natura per dare la preferenza a ciò che imita la povertà del Salvatore e il suo amore dei patimenti e delle umiliazioni. Allora l’anima, secondo l’espressione di san Paolo, conosce davvero il Cristo: Didicistis Christum (Efes. IV, 20.).

X. VERITÀ. Qualunque sia il mio stato, se  voglio pregare ed essere fedele alla grazia, Gesù mi offre tutti i mezzi per ritornare ad una vita interiore che mi restituisce la sua intimità e mi permette di sviluppare in me la sua vita. Allora, nel suo progredire, l’anima possederà la gioia, anche in mezzo alle prove, e si avvereranno per lei le parole d’Isaia: Allora splenderà la tua luce come l’aurora, e la guarigione presto verrà; la tua giustizia camminerà dinanzi a te; la gloria del Signore ti seguirà. Allora invocherai il Signore, ed Egli ti esaudirà; tu griderai, ed Egli dirà: Eccomi… E il Signore sarà la tua guida; sazierà l’anima tua nei luoghi aridi e darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino bene irrigato, come una sorgente le cui acque non vengono mai meno (Is. LVIII, 8, 9).

XI. VERITÀ. Se Dio vuole da me che io esplichi la mia attività non soltanto per la mia santificazione, ma anche per le opere di zelo, devo anzitutto formare nell’anima mia questa convinzione ferma: Gesù deve e vuole essere la vita di queste opere. – I miei sforzi da soli non sono nulla, assolutamente nulla: Sine me nihil potesti facete (Senza di me, voi non potete fare nulla  – Giov. XV, 5); non saranno né utili né benedetti da Dio, se non li unisco continuamente all’azione vivificatrice di Gesù, con una vera vita interiore; saranno invece onnipotenti, se così farò: OMNIA possum in eo qui me confortat (Io posso tutto in Colui che mi conforta – Filipp. IV, 13). Ma se derivassero da presunzione orgogliosa, dalla fiducia nella mia capacità, dal desiderio di una bella riuscita, i miei sforzi sarebbero rigettati da Dio: non sarebbe infatti una stoltezza sacrilega la mia, se volessi rubare qualche cosa alla gloria di Dio, per farmene bello? Tale convinzione non solo non mi renderà pusillanime, ma sarà la mia forza. Come mi farà sentire il bisogno della preghiera per ottenere questa umiltà che è tesoro per l’anima mia, assicurazione dell’aiuto di Dio e pegno di buona riuscita per le mie opere! – Ben convinto dell’importanza di questo principio, mi esaminerò seriamente nei giorni di ritiro, per vedere – se la mia convinzione della nullità delle mie azioni quando è sola, e della sua forza quando è unita all’azione di Gesù, non si è indebolita; – se escludo inesorabilmente la compiacenza, la vanità e la personalità nella mia vita di apostolo; – se conservo un’assoluta diffidenza di me stesso; – se prego Dio di dare vita alle opere e di difendermi dall’orgoglio, che è l’ostacolo principale al suo aiuto.  – Questo CREDO della vita interiore, quando è per l’anima la base della sua esistenza, le assicura fino di quaggiù una partecipazione alla felicità del cielo. 

La vita interiore è la vita dei predestinati.

Essa corrisponde al fine propostosi da Dio nel crearci (Ad contemplandum quippe Creatorem suum homo conditus fuerat eius semper speciem quæreret atque in noi idi tate amorfa illius habitaret (S. GREG., Moral. VIII, cap. XII). Essa corrisponde al fine dell’Incarnazione: Filium suum Unigenitum misit Deus in mundum ut vivanvus per eum (Dio mandò il suo Figlio Unigenito nel mondo, affinché noi viriamo per Lui  – I Giov. IV, 9).  È uno stato felice: Finis humanæ creaturæ est adhærere Deo: in hoc enim felicitas eius consistit (Il fine della creatura umana è di unirsi a Dìo; qui sta tutta la felicità (S. Tommaso). All’opposto delle gioie del mondo, se fuori vi sono spine, dentro vi sono rose. Come sono da compiangere i poveri mondani! dice il santo Curato d’Ars; essi portano su le spalle un mantello foderato di spine e non si possono muovere senza pungersi; invece i veri Cristiani portano un martello foderato di pellicce. Crucem vident, unctionem non vident (Si vede la croce, ma non se ne vede l’unzione – S. Bernardo).  – È uno stato celeste: l’anima diventa un cielo vivente (Semper memineris Dei, et cœlum mens tua evadit (S. Efrem). — Mens animæ paradisus est, in qua, dum cœlestia meditatur, quasi in paradiso voluptatis delectatur (Ugo da San Vittore). – Come santa Margherita Maria, essa canta: « Io posseggo in ogni tempo e porto in ogni luogo il Dio del mio cuore e il cuore del mio Dio ». – È il principio della beatitudine: Inchoatio quœdam beatitudinis (S. TOMM., 2a 2æ, q. 180, a. 4): la grazia è il Cielo in germe.

4.

Come è conosciuta male questa vita interiore

San Gregorio Magno, il quale fu esperto amministratore e apostolo zelante e nel tempo stesso un gran contemplativo, con questa semplice espressione Secum vivebat (Egli viveva con se stesso), caratterizza lo stato d’animo di san Benedetto il quale a Subiaco gettava le fondamenta della sua Regola, divenuta poi una delle più potenti leve di apostolato, di cui Dio si sia servito sulla terra. Della maggior parte dei nostri contemporanei bisognainvece dire il contrario; vivere con se stesso, in se stesso, voler governare se stesso e non lasciarsi governare dalle cose esteriori, obbligare la fantasia, la sensibilità, e anche l’intelligenza e la memoria a fare la parte di serve della volontà e conformare sempre la propria volontà a quella di Dio, è un programma che si accetta sempre di meno in questo secolo di agitazione, il quale vide nascere un ideale nuovo, cioè l’amore dell’azione per l’azione.  Per evitare questa disciplina delle facoltà, si prende per buono ogni pretesto; gli affari, le cure della famiglia, l’igiene, la buona fama, lo spirito di corpo, la pretesa gloria di Dio vanno a gara per non lasciarci vivere in noi stessi; questa specie di delirio della vita esteriore arriva anche ad attrarci irresistibilmente.Allora che meraviglia se la vita interiore è mal conosciuta? Dire che è mal conosciuta è anzi troppo poco; essa è spesso disprezzata e messa in ridicolo proprio da quelli che dovrebbero stimarne di più i vantaggi e la necessità. Per protestare contro le funeste conseguenze di un’ammirazione esclusiva per l’azione, ci voleva la memorabile lettera di Leone XIII al Cardinale Gibbons, Arcivescovo di Baltimora.  – L’ecclesiastico, per schivare la fatica della vita interiore, arriva al punto di non riconoscere l’eccellenza della vita con Gesù, in Gesù, per mezzo di Gesù,, di dimenticare che, nel disegno della Redenzione, tutto si fonda sulla vita eucaristica, come tutto è costruito sulla rocca di Pietro. Mettere in second’ordine quello che è ESSENZIALE, è appunto quello a cui tendono inconsciamente i partigiani di quella spiritualità moderna detta AMERICANISMO; per costoro la Chiesa non è ancora un tempio protestante, il santo tabernacolo non è ancora vuoto, ma la vita eucaristica, a loro giudizio, non può adattarsi né, molto meno, bastare alle esigenze della civiltà moderna, e la vita interiore la quale deriva necessariamente dalla vita eucaristica, ha fatto il suo tempo. Per le persone, purtroppo assai numerose, le quali sono imbevute di queste teorie, la Comunione non ha più il vero significato che in essa trovavano i primi Cristiani; esse credono all’Eucaristia, ma non vedono in essa un elemento di vita così necessario, tanto per loro che per le loro opere. Non fa perciò meraviglia che, non esistendo quasi più per loro l’intimità con Gesù, la vita interiore venga considerata come un ricordo del Medioevo.  – Davvero che al sentire questi uomini di azione a parlare delle loro imprese, sembrerebbe che il Creatore, il quale creò i mondi scherzando e per il quale l’universo è polvere e nulla, non possa fare a meno del loro concorso! Molti fedeli, e persino sacerdoti e religiosi, arrivano insensibilmente, con il culto dell’azione, a farsene una specie di dogma che ispira la loro condotta, le loro azioni, e li spinge ad abbandonarsi sfrenatamente alla vita esteriore. La Chiesa, la diocesi, la parrocchia, la congregazione, l’Azione Cattolica hanno bisogno di me; volentieri si vorrebbe poter dire… Io sono molto utile a Dio!… E se non si osa dire simile sciocchezza, stanno però nascoste in fondo al cuore la presunzione, che ne è la base, e la diminuzione di fede, che l’ha prodotta. Spesso si prescrive al nevrastenico di astenersi, talvolta anche per molto tempo, da qualunque lavoro; ma è questo un rimedio per lui insopportabile, perché appunto la sua malattia lo mette in una agitazione febbrile che diventa come una seconda natura e lo spinge a cercare continuamente nuovi sperperi di forze e nuove emozioni che aggravano il suo male.  Lo stesso avviene spesso all’uomo di azione, riguardo alla vita interiore; egli la sdegna, anzi sente di essa tanto maggiore ripugnanza appunto perché nella sua pratica soltanto si trova il rimedio al suo stato morboso; peggio ancora, cercando di stordirsi sempre più in un cumulo di lavori nuovi e non bene diretti, perde ogni possibilità di guarire. La nave corre a tutto vapore; ma mentre chi la guida ne ammira la velocità, Dio giudica che, per mancanza di un saggio pilota, quel bastimento va alla ventura e corre pericolo di perdersi. Dio vuole prima di tutto adoratori in ispirito e verità: l’americanismo invece pensa di dare grande gloria a Dio, mirando principalmente ai risultati esteriori.  Questo modo di pensare ci spiega come ai nostri giorni, se si fa un gran conto delle scuole, dei dispensari per i poveri, delle missioni, degli ospedali, sia invece sempre meno compresa l’abnegazione nella sua forma intima, cioè nella penitenza e nella preghiera. Chi non sa più credere al valore dell’immolazione nascosta, non si accontenta di trattare da vili e da illusi coloro che la praticano nella solitudine del chiostro, senza cederla, nell’ardore per la salute delle anime, ai più infaticabili missionari, ma metterà anche in ridicolo le persone di azione le quali credono cosa indispensabile il rubare qualche momento alle occupazioni più utili, per andare a purificare e a riscaldare il loro zelo dinanzi al Tabernacolo, per ottenere dall’Ospite divino migliori risultati alle loro fatiche.

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L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (1)

R. P. CHAUTARD D. G. B.

L’ANIMA DELL’APOSTOLATO (1)

TRADUZIONE del Sac. GIULIO ALBERA, S. D. B. 8a EDIZIONE

SOCIETÀ EDITRICE INTERNAZIONALETORINO MILANO GENOVA PADOVA PARMA ROMA NAPOLI BARI CATANIA PALERMO

VISTO: Nulla osta alla stampa.

Torino: 22 giugno 1922.

Can. CARLO FRANCO – Rev. Arciv.

VISTO: Imprimatur.

C. FRANCESCO DUVINA – Provic. gen.

PREPAZIONE

Perché la versione di questo libro?

Datomi all’Azione Cattolica fin dai primi anni della mia vita ecclesiastica, notai ben presto che il piò, valido aiuto mi veniva da coloro che, sebbene laicierano stati formati nello spirito da un vecchio Sacerdote, il quale non aveva molta coltura, ma aveva però molta pietà, e passava tutto il suo tempo in una piccola chiesa, ove, con istruzioni sacre in forma molto semplice, e col promuovere la frequenza dei Sacramenti, lavorava con zelo in prò delle anime. Alla scuola di quel pio Sacerdote imparai anch’io la necessità che avevo di ritemprare spesso lo spirito con gli Esercizi Spirituali, e di ricorrere frequentemente air orazione per raccogliere dall’operosità quel frutto che ardentemente bramavo. Capii quindi fin d’allora che l’Azione Cattolica, mentre è commendevole sotto molti rispetti, può tuttavia divenire facilmente per tutti (anche pei Sacerdoti) sorgente di dissipazione, se chi la esercita non attende seriamente a coltivare anzitutto lo spirito in sé e negli altri.  Divenuto poi Vescovo, nel governo della Diocesi questa verità mi apparve sempre più evidente, e deplorai che, per non avere tenuto nel debito conto un principio così essenziale, fossero le tante volte e in tanti luoghi riuscite sterili le fatiche ed inutili i vari mezzi adoperati per dar vita o incremento all’Azione Cattolica. Mi provai quindi a manifestare questa mia convinzione desiderosissimo di rimuovere la causa di sì funesta sterilità, ma mi parve die pochi mi volessero dare ascolto, ed i più avessero invece una specie di compatimento per me, quasi che io non conoscessi le anime moderne e l’azione che deve spiegarsi ai giorni nostri dai cattolici. Avrei desiderato che su tale argomento vi fosse qualche libro per diffonderlo largamente, e dissipare con siffatto  mezzo i pregiudizi che offuscano le menti, ma non ne conoscevo alcuno.  Gesù buono seppe rimediare a tutto, ed un bel giorno, per le mani di uno zelante Religioso della Società di Maria, mi fece capitare il libro che da tanto tempo sospiravo.  Io non sto a lodare il libro presente, perché le cose belle come le cose buone, bisogna gustarle per apprezzarle convenientemente. Dirò soltanto che in Francia è giunto in breve alla settima edizione, e se ne sono già pubblicati 70.000 esemplari, e spero che in Italia sì diffonderà così da emulare anche in questo la Francia cattolica. Per conto mio, faccio voti che vada in mano a tutti i Parroci ed a tutti i Sacerdoti della mia Diocesi, né manchi a nessuno di quelli che fanno parte delle Associazioni Cattoliche della Diocesi di Arezzo.

All’ardente ed umile solitario, che tra i rigori della troppa scrisse, pregando, questo libro, in cui si rispecchia al vivo il suo animo di apostolo, conceda il Maestro Divino copiose benedizioni e quell’approvazione che Egli già fece sentire ad altri, i quali coi loro libri dettero a Lui gloria ed alle anime luce e pascolo salutare.

Arezzo, dall’Episcopato, 7 giugno 1918, festa del Sacro Cuore di Gesù.

GIOVANNI VOLPI, Vescovo d’Arezzo

INTRODUZIONE

Ex quo omnia, per quem omnia, in quo omnia.

O Dio infinitamente grande e buono, le verità che la Fede ci rivela sulla nostra vita intima, sono ammirabili e stupende.  O Padre santo, Voi vi contemplate eternamente nel Verbo, vostra perfetta immagine; il vostro Verbo trasalisce rapito dalla vostra Bellezza; e dalla vostra comune estasi divampa un fuoco di amore, lo Spirito Santo.  O adorabile Trinità, voi sola siete la vita interiore perfetta, sovrabbondante e infinita.  Voi, bontà infinita, volete diffondere fuori di voi la vostra vita intima; Voi parlate, e le vostre opere si slanciano dal nulla, per manifestare le vostre perfezioni, per cantare la vostra gloria.  Tra Voi e la polvere animata dal vostro soffio, corre un abisso che il vostro Spirito di amore vuole colmare: così potrà soddisfare l’immenso suo bisogno di amare e di darsi.  Egli dunque, nel vostro Seno, provoca il Decreto della nostra divinizzazione, e questo fango plasmato dalle vostre mani potrà, o meraviglia!, essere deificato e partecipare alla vostra eterna felicità!  Per compiere quest’opera, si offre il vostro Verbo: Egli si fa carne, affinché noi diventiamo Dèi (Factus est homo, ut homo fieret deus – S. AGOSTINO, Serm. 9 de Nativ.). Voi intanto, o Verbo, non lasciate il Seno di vostro Padre: là è la vostra vita essenziale, e da quella sorgente sgorgheranno le meraviglie del vostro Apostolato.  O Gesù, Emanuele, Voi affidate ai vostri Apostoli il vostro Vangelo, la vostra Croce, la vostra Eucaristia, e date loro la missione di andare a generare figli di adozione al Padre vostro. – Poi risalite al Padre. O Spirito divino, ora tocca a Voi il compito di santificare e dì governare il Corpo mistico dell’Uomo-Dio (Deus cujus Spiritu totum corpus sanctificatnr et regitur… – Liturgia). Perché dal Capo scenda nelle membra la vita divina, Voi vi degnate di scegliere dei collaboratori all’Opera Vostra; accesi del fuoco della Pentecoste, essi andranno per tutto il mondo a seminare nelle intelligenze il verbo che illumina, e nei cuori la grazia che infiamma, e a comunicare cosi agli uomini quella vita divina di cui Voi siete la Pienezza.  O fuoco divino, destate in tutti coloro che partecipano al vostro Apostolato, quegli ardori che trasformarono i felici congregati del Cenacolo: essi saranno allora non più semplici predicatori del dogma e della morale, ma organi viventi della trasfusione del Sangue divino nelle anime.  O Spirito di luce, scolpite a caratteri indelebili nelle loro intelligenze questa verità, che cioè il loro apostolato sarà efficace soltanto in quella misura in cui essi stessi vivranno di quella vita intima soprannaturale di cui Voi siete il primo PRINCIPIO e di cui Gesù Cristo è la SORGENTE.  O Carità infinita, accendete nella loro volontà una sete ardente della vita interiore: penetrate il loro cuore con i vostri soavi e potenti effluvi, fate sentire loro che anche quaggiù non vi è vera felicità fuori di quella vita che è imitazione e partecipazione della vostra e di quella del Cuore di Gesù nel seno del Padre di tutte le misericordie e di tutte le tenerezze. O Maria Immacolata, Regina degli Apostoli, degnatevi di benedire questo modesto libro. A tutti quelli che lo leggeranno, ottenete la grazia di comprendere bene che, se Dio si vuole servire della loro attività come di uno strumento ordinario della Provvidenza, per diffondere nelle anime i suoi beni celesti, tale attività, per dare buoni risultati dovrà partecipare in qualche modo della natura dell’Uomo divino, quale Voi lo contemplavate nel Seno di Dio, quando nelle vostre viscere verginali s’incarnò Colui al quale dobbiamo la fortuna di potervi chiamare nostra Madre.

PARTE PRIMA

Dio vuole le opere e la vita interiore

1.

Le opere, e perciò anche lo zelo sono voluti da Dio

È proprio della natura divina l’essere sommamente liberale. Dio è Bontà infinita, e la bontà tende a diffondersi e a comunicare il bene di cui essa gode.  La vita mortale di Gesù Cristo non fu altro che una continua manifestazione di questa inesauribile liberalità: il Vangelo ci presenta il Redentore che sparge a piene mani i tesori di amore di un Cuore avido di attirare gli uomini alla verità e alla vita.  Gesù Cristo comunicò quella fiamma di Apostolato alla Chiesa che è dono del suo amore, diffusione della sua vita, manifestazione della sua verità, splendore della sua santità; e la Sposa mistica di Gesù, animata dello stesso ardore, continua attraverso i secoli l’opera di apostolato del suo divino Modello.  – È un magnifico disegno, una legge della Provvidenza, che per mezzo dell’uomo, l’uomo debba conoscere la via della salute (Ad communem legem id pertinet qua Deus Providentissimus, ut homines plerumque fere por homines salvandos decrerlt… ut nlmirum, quemadmodum Chrysostomus ait, per homines a Deo discamus – Lettera di LEONE XIII, 22 gennaio 1899, al Card. Gibbons). Soltanto Gesù versò il sangue che redime il mondo, perciò Egli solo ne potrà applicare la virtù e agire direttamente sulle anime, come fa per mezzo dell’Eucarestia. Egli però volle avere dei cooperatori nel distribuire i suoi benefizi; e perché! Certamente cosi voleva la Maestà divina, ma ve lo spingevano anche le sue tenerezze per l’uomo. Se è conveniente per il più grande dei monarchi, che in via ordinaria governi per mezzo di ministri, quale condiscendenza da parte di un Dio, che egli si degni di associare povere creature al suo lavoro e alla sua gloria! La Chiesa, nata sulla Croce, uscita dal fianco ferito del Salvatore, continua col ministero apostolico l’azione benefica e redentrice dell’Uomo-Dio; e tale ministero voluto da Gesù, diventa il fattore essenziale della diffusione della Chiesa in mezzo alle nazioni e lo strumento più ordinario delle sue conquiste.  Per tale apostolato vi è in prima fila il clero, la cui gerarchia forma i quadri dell’esercito di Gesù Cristo; clero illustrato da tanti Vescovi e Sacerdoti santi e pieni di zelo, e onorato gloriosamente dalla recente beatificazione del Curato d’Ars. – Accanto al clero ufficiale, fin dall’origine del Cristianesimo, sorsero compagnie di volontari, veri corpi scelti la cui continua e rigogliosa vegetazione sarà sempre uno dei fenomeni più manifesti della vitalità della Chiesa. Sono anzitutto, nei primi secoli, gli Ordini contemplativi la cui preghiera continua e le dure macerazioni contribuirono tanto alla conversione del mondo pagano. Nel Medioevo sorgono gli Ordini predicatori, gli Ordini mendicanti, gli Ordini militari, gli Ordini dedicati all’eroica missione della redenzione dei prigionieri in potere degli infedeli. Finalmente i tempi moderni vedono nascere una moltitudine di Milizie insegnanti, Istituti, Società di missionari, Congregazioni di ogni specie, la cui missione è quella di diffondere il bene spirituale e corporale sotto tutte le forme. La Chiesa inoltre, in ogni epoca della sua storia, ha trovato preziosi collaboratori nei semplici fedeli, come quei ferventi Cattolici che oggi sono legione, persone di azione — secondo l’espressione di uso — cuori ardenti che sanno unire le loro forze e mettono interamente a servizio della nostra Madre comune, tempo, capacità, averi, sacrificando spesso la loro libertà e talora il loro sangue.  – È davvero uno spettacolo ammirabile e confortante questa provvidenziale fioritura di opere che spuntano a tempo opportuno e così adatte alle circostanze. La storia della Chiesa dimostra che ogni nuovo bisogno, ogni pericolo da scongiurare, vide sempre apparire l’istituzione richiesta dalle necessità del momento. Così vediamo ai nostri giorni opporsi a mali di particolare gravità, una moltitudine di opere che prima appena si conoscevano: Catechismi di preparazione alla prima comunione, Catechismi di perseveranza, Catechismo per i fanciulli abbandonati, Congregazioni, Confraternite, Riunioni e Ritiri per uomini e per giovani, per signore e per fanciulle, Apostolato della Preghiera, Apostolato della carità, Leghe per il riposo festivo, Patronati, Circoli cattolici, Opere di assistenza per i soldati, Scuole private, Buona stampa ecc., forme tutte di apostolato suscitate da quello spirito che infiamma l’anima di un san Paolo: Ego autem libentissime impendam et superimpendar ipse prò animabus vestris(Assai volentieri spenderò il mio e spenderò di più me stesso per le anime vostre – II Cor. XII, 15), e che vuol diffondere dappertutto i benefizi del sangue di Gesù Cristo.  Vadano queste umili pagine ai soldati che, tutto zelo e ardore per la loro nobile missione, si espongono, appunto per la loro attività, al pericolo di non essere prima di tutto uomini di vita interiore e che, se un giorno venissero puniti con insuccessi in apparenza inesplicabili, come pure da gravi danni spirituali, si sentirebbero tentati di abbandonare la lotta e di rientrare scoraggiati sotto la tenda.  I pensieri sviluppati in questo libro hanno aiutato anche me a lottare contro la dissipazione prodotta dalle opere esteriori. Possano essi evitare a qualcuno le delusioni e guidare meglio il loro coraggio, mostrando loro che il Dio delle opere non deve mai essere abbandonato per le opere di Dio e che il Væ mihi si non evangelizavero (Guai a me se non evangelizzerò – 1 Cor. I X , 16). non ci dà il diritto di dimenticare il Quid prodest Uomini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur (Che giova all’uomo il guadagnare tutto il mondo, se poi perde l’anima? – MATT. XVI, 26).  – I padri e le madri di famiglia, a cui non sembra ancora un libro troppo vecchio l’Introduzione alla vita divota, gli sposi Cristiani che si credono obbligati vicendevolmente ad un apostolato che essi esercitano nel tempo stesso verso i loro figli per formarli all’amore e all’imitazione del Salvatore, possono anche essi applicare a sé medesimi l’insegnamento di queste modeste pagine. Possano essi meglio comprendere la necessità di una vita non solo pia, ma interiore, per rendere efficace il loro zelo e per imbalsamare la loro casa con lo spirito di Gesù Cristo e con quella pace inalterabile che, nonostante le prove, sarà sempre il retaggio delle famiglie profondamente cristiane.

2.

Dio vuole che Gesù sia la vita delle opere

La scienza, e non a torto, va superba dei suoi immensi risultati; però una cosa le fu fino a oggi e le sarà sempre impossibile, cioè il creare la vita, il far uscire dal laboratorio di un chimico un chicco di grano, una larva. Le clamorose sconfitte dei difensori della generazione spontanea ci dicono qualche cosa su tale pretesa. Dio riserva per sé il potere dì creare la vita. Nel regno vegetale e animale, gli esseri viventi possono crescere e moltiplicarsi, ma la loro fecondità si esplica soltanto nelle condizioni stabilite dal Creatore. Quando però si tratta della vita intellettuale, Dio la riserva a sè, ed è lui che crea direttamente l’anima ragionevole. Vi è tuttavia un dominio di cui è ancora più. geloso, quello della Vita soprannaturale, perché questa è un’emanazione della vita divina comunicata alla Umanità del Verbo incarnato.  L’Incarnazione e la Redenzione stabiliscono Gesù Cria io Sorgente, e Sorgente unica, di quella vita divina alla cui partecipazione sono chiamati tutti gli uomini. Per Dominum nostrum Jesum Christum; Per ipsum, et curri ipso et in ipso (Per mezzo di Nostro Signor Gesù Cristo. — Per mezzo di Lui, con Lui e in Lui – Liturgia). L’azione essenziale della Chiesa consiste nel diffonderla per mezzo dei Sacramenti, della Preghiera, della Predicazione e di tutte le opere che vi si riferiscono.  Dio fa tutte le cose per mezzo di suo Figlio: Omnia per Ipsum facta sunt et sine Ipso factum est nihil – Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e non fu fatto niente senza dì Lui  – Giov. I, 3). Questo è vero nell’ordine naturale, ma quanto più nell’ordine soprannaturale, dove si tratta di comunicare la sua vita intima e di fare gli uomini partecipi della sua natura, per renderli figli di Dio! Veni ut vitam habeant; — In Ipso vita erat;— Ego sum vita (Io sono venuto affinché abbiano la vita (Giov. X, 10). — In Lui era la vita (Giov. I, 4). — Io sono la vita (Giov. XIV» 6). Quanta precisione in queste parole! Quanta luce nella parabola della vite e dei tralci, nella quale il Maestro svolge questa verità! Con quanta insistenza Egli vuole scolpire nella mente dei suoi Apostoli questo principio fondamentale, che Egli solo, Gesù, è la Vita, e questa conseguenza che, per partecipare a tale Vita e per comunicarla agli altri, essi debbono essere innestati su l’Uomo-Dio! – Gli uomini chiamati all’onore di collaborare col Salvatore per trasmettere alle anime questa Vita divina, debbono dunque considerare se stessi come modesti canali incaricati di attingere a questa unica Sorgente.  L’uomo apostolico il quale non riconoscesse questi princìpi e credesse di poter produrre la più lieve traccia di vita spirituale senza attingerla totalmente da Gesù, ci farebbe credere che la sua ignoranza di teologia è uguale alla sua sciocca presunzione. Se pure riconoscendo teoricamente, che il Redentore è la causa prima di ogni vita divina, l’apostolo, nella sua azione, dimenticasse tale verità e, accecato da una stolta presunzione che è ingiuriosa per Gesù Cristo, non facesse assegnamento che sulle sue forze, sarebbe questo un disordine meno grave dell’altro, ma però sempre insopportabile agli occhi di Dio. Il respingere la verità o il fare astrazione da essa nell’azione, è sempre un disordine intellettuale, o dottrinale o pratico; è la negazione di un principio che deve informare la nostra condotta. Il disordine sarà ancora più grave se la verità, invece di risplendere, trova nell’uomo di azione un cuore che per il peccato o per la tepidezza abituale sia in opposizione col Dio della luce.  Ora la condotta pratica di chi si occupa delle opere come se Gesù non fosse il solo principio di vita, è chiamata dal cardinale Mermillod ERESIA DELL’AZIONE. Con tale espressione egli condanna l’aberrazione di un apostolo il quale dimenticando che la parte sua è secondaria e subordinata, attendesse la buona riuscita del suo apostolato unicamente dalla sua attività personale e dalla sua capacità. E non è forse, praticamente, la negazione di una gran parte del Trattato della Grazia? È vero che tale conseguenza a prima vista ripugna, ma se vi si pensa un poco, essa è purtroppo vera.

Eresia dell’Azione! L’attività febbrile che si sostituisce alla azione di Dio; la grazia disconosciuta; l’orgoglio umano che vuole detronizzare Gesù; la vita soprannaturale, la potenza della preghiera, l’Economia della Redenzione collocate, almeno praticamente, nel numero delle astrazioni, sono un caso tutt’altro che immaginario, che lo studio delle anime mostra anzi come assai frequente, benché in gradi diversi, in questo secolo di naturalismo, in cui l’uomo giudica soprattutto dalle apparenze e agisce come se il risultato di un’opera dipendesse principalmente da una buona organizzazione. Anche prescindendo dalla Rivelazione, alla sola luce della sana filosofia, ci farebbe pietà la vista di un uomo fornito di belle doti, il quale non volesse riconoscere Dio come il principio delle buone qualità che si vedono in lui.  Che cosa deve dire un Cattolico istruito nella Religione, alla vista di un apostolo il quale mostrasse, almeno implicitamente, la pretesa di fare a meno di Dio, per comunicare alle anime anche solo il minimo grado di vita divina? Noi chiameremmo insensato l’operaio evangelico che osasse dire: «Mio Dio, non mettete ostacoli alle mie imprese, non venite a intralciarle e io m’incarico di condurle a buon termine! ».  – Il nostro sentimento non sarebbe che un riflesso dell’avversione che prova Dio alla vista di un simile disordine, alla vista di un presuntuoso il quale spinge il suo orgoglio fino alla pretesa di dare la vita soprannaturale, di produrre la fede, di far cessare il peccato, di spingere alla virtù, di infervorare le anime con le sole sue forze e senza attribuire tali effetti all’azione diretta, costante, universale e sovrabbondante del Sangue divino il quale è il prezzo, la causa e il mezzo di ogni grazia e di ogni vita spirituale. – Perciò, per riguardo all’Umanità di suo Figlio, Dio deve confondere questi pseudocristi col paralizzare le loro opere di superbia o col permettere che esse non producano altro che un miraggio effimero.  Eccetto quello che agisce sulle anime ex opere operato, Dio, per riguardo dovuto al Redentore, deve privare l’apostolo presuntuoso delle sue migliori benedizioni, per darle al tralcio che umilmente riconosce di trarre dalla Vite divina ogni suo vigore. Ma se Dio benedicesse con risultati seri e durevoli un’attività infetta dal veleno chiamato Eresia dell’Azione, sembrerebbe incoraggiare quel disordine con permetterne il contagio.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/08/19/lanima-dellapostolato-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (123)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO II.

La necessità dì una scuola per la vera fede.

I. Vi ha una fede al mondo? Dunque havvi parimente una scuola dov’ella insegnisi dai mortali. Altrimenti non volendo Iddio farsi a tutti, come ad alcuni, immediato maestro di verità soprannaturali, avverrebbe di leggieri nelle cose udite quello che avviene nell’udito medesimo, che tra i sensi è il più difficile a perfezionarsi, ed è il più facile a perdersi (Arist. Probl., sec. 11. n . 11). 0 non si conseguirebbe mai la dottrina celeste, o si perderebbe di breve per lo mescolamento di vari errori su lei trascorsi. E pure chi può dire quanto rilevi serbarla intatta? Senza di essa qualunque scienza è una totale ignoranza: Et si quis erit consummatus inter filios hominum, si ab illo abfuerit sapientia tua, Domine, in nihilum computabitur (Se anche uno fosse il più perfetto tra gli uomini, mancandogli la tua sapienza, sarebbe stimato un nulla.- Sap. VIII. 6). Ora questa scuola, con termine più usuale è detta Chiesa: e quei che apprendono in essa la verità sono intitolati fedeli, tanto più scelti, quanto più disposti ad apprenderla facilmente: Erunt omnes docibiles Dei (Iob. VI. 45). E perché il maestro primario di questa scuola è l’istesso Dio, conviene che ella abbia in sé di legittima conseguenza questi tre pregi: che sia antichissima di tempo: infallibilissima d’insegnamenti: apertissima a chi che sia che desideri quivi luogo.

I.

II. E primieramente, antichissima ella è di tempo. Il paradiso terrestre, avanti ch’egli servisse, con una specie di antiperistasi tormentosa a rincrudelire le nostre piaghe, qual più nobile uso ebbe in terra, che l’essere la prima scuola apertasi dall’Altissimo per addottrinare in Adamo tutti i mortali? Non prima Adamo ebbe l’essere, che comparvegli quivi Dio a manifestargli i suoi disegni segreti, fermando quasi con esso lui questo patto da tramandarsi a’ suoi posteri: Che Dio all’uomo desse l’aiuto della sua grazia bastevole ad operare, e la rimunerazione della sua gloria: l’uomo a Dio rendesse vicendevolmente l’ossequio del culto impostogli, e l’ubbidienza alle leggi che a tempo a tempo ne venisse a ricevere. Tale fu la prima lezione necessarissima. Altrimenti come avrebbe l’uomo potuto mai indovinare quelle verità che sono sopra di lui, e singolarmente la norma di una religione vera e valevole, se Dio stesso non gliele avesse amorevolmente date a sapere? Può forse vedersi il sole, senza il sole medesimo che apparisca, o possono scoprirsi i suoi raggi, senza che la sua luce benefica sia la prima, la quale venga ad incontrar le pupille di lei mancanti?

III. E quindi e l’antichità della fede (L’uomo primo fu creato intelligente e credente ad un tempo, ed il suo Creatore gli apparve insiememente oggetto della sua intelligenza e della sua fede, nel duplice ordine della ragione e della rivelazione, della natura e della grazia) che, coetanea del mondo, nacque con esso ad un parto: in quanto Quegli che fu il creator delle cose, con fabbricar l’universo, intese di fabbricare ancora un liceo, dov’Egli fosse maestro di verità: non potendo avvenir di meno, che se la sua somma bontà lo aveva indotto a formare l’uomo, così la sua somma sapienza non lo inducesse ancora ad ammaestrarlo. Tanto è vaga la sapienza di diffondere se medesima, quanto ne sia la bontà. Onde, siccome a questa par che disdica lo starsene sempre oziosa, senza operare mai nulla in altrui servizio; così a quella par che disdica lo starsene sempre muta senza dir nulla.

IV. È dunque un discorrere da ignorante distinguere tre vere religioni, corrispondenti alle tre leggi di natura, di Mosè, del Vangelo. Un medesimo sole non può mai fare, salvo che un medesimo giorno, quantunque in esso distinguansi rettamente i chiarori dell’alba dagli splendori del sol nascente, e gli splendori del sol nascente dalla luce perfetta del mezzodì.

V. Dopo le tenebre della prima colpa sorsero quei crepuscoli fortunati della promessa di un redentore, ristoratore a suo tempo delle umane rovine, e ristoratore vantaggiosissimo: nella fede di cui si compiacque Dio che Adamo rimanesse giustificato dalla sua colpa, conforme a quello: Eduxit illum a delicto suo (Sap. X. 2). E il credere in questo Redentore il desiderarlo, il domandarlo, il valersi de’ suoi meriti con offerta sì anticipata a salute propria, fu la religione de’ primi secoli.

VI. Seguì Mosè con bell’ordine di profeti, i quali, a guisa degli altissimi monti, scorgendo dalle lor vette i primi raggi del venturo Messia, prima che egli spuntato al nostro emispero si facesse universalmente vedere anche ai piani bassi della gente più comunale, l’additarono con l’ombra delle figure e con l’oscurità delle forme, come si fa nel favellar delle cose che son da lungi.

VII. Finalmente giunta la pienezza de’ tempi comparve il Redentore stesso in persona, compiendo tutti i presagi e tutte le promesse del suo venire, fece di chiaro, e colmò tutto il mondo a un’ora di luce (Così Cristo appare l’alfa e l’omega della vera religione, la pienezza dei tempi, il centro in cui s’appunta ogni “ubi”, ed ogni quando della credente umanità: Ipso res. Quæ nunc religio Christiana nuncupatur, erat et apud antiquos, dice sant’Agostino (L. 1. Retr., c. 12): Nec defiut uti ab initio generis humani, quousque ipse veniret in carne; unde vera religio, quæ itimi erat, cœpit appellavi Christiana. Ecco dunque dal principio de’ secoli sino ad oggi una medesima religione insegnata da un sol maestro. Ecco una medesima verità, ma sempre più dichiarata: ecco una medesima scuola, ma sempre più alta (S. Th. 2. 2. q. 1. art. 7). La distinzione è solo ne’ tempi, nella dottrina è la connessione: Divina eloquia, etiamsi temporibus distincta. sunt tamen sensibus unita. Così anche egli il pontefice s. Gregorio ce lo conferma (In Ezech. hom. 6).

II.

VIII. Che poi questa scuola sia nelle sue dottrine infallibile, non sarà punto malagevole a credere, se si miri, che per maestro ell’ha Dio: Ponam universos filios tuos doctos a Domino (Is. LIV, 13). Pertanto la sapienza di tutte le scuole aperte dai Platoni, dai Socrati, dai Senofonti, dagli Aristoteli e da qualunque altro sia de’ savi terreni, è sottoposta ad errare. L’acque loro sono come l’acque che scorrono sulla terra: tutte però capaci d’intorbidarsi. Ma la sapienza di sì nobile scuola, qual è la chiesa, non erra mai. Le sue acque sono come l’acque riposte sul firmamento, tutte purissime, come son purissimi i cieli dove hanno il letto: Principium verborum tuoruni veritas (Ps. XVIII). La prima Verità, non soggetta né a macchinare inganno né a riportarlo, è il fondamento di ciò che insegna la Chiesa: e però come volete che ella sia soggetta ad errore? Questo è quel padiglione fortunatissimo dove Dio per gran sorte nostra promette di custodirci dalle contraddizioni delle varie lingue che ci assaliscono a guisa di tanti dardi: Protege eos in tabernaculo tuo a contradictione linguarum. I maestri della terra ci pongono tutto in lite, fino se ci moviamo, come Zenone; e fino se vegliamo o se vaneggiamo in guisa di addormentati, come gli scettici. E quel che è più, non fanno altro che dirci cose contrarie, senza convenire neppure in un punto massimo, qual è quel dell’ultimo fine. Chi potrà pertanto sperare d’imparar mai nulla di vero fra le contraddizioni di tante lingue? (Come al di sopra della molteplicità delle dissi leali e fallaci sette filosofiche sta immutabile e sempre vero il lume di ragione, fonte del senso comune, cosi sopra delle molteplici ed erronee religioni umane sta la vera religione, figlia del cielo, e madre della retta umanità). Eccovi chi, ripiglia sant’Agostino. Chiunque se n’entri in questa scuola autorevole della chiesa, dove Dio parla, e ponga mente a ciò che si approvi in essa, o che si ripruovi: Diversæ doctrinæ personant, d.iversæ hæreses oriuntur. Curre ad tabernaculum Dei, id est ccclesiam catholicam, ibi protegeris a contradictione linguarum (S. Aug. conc. 1. in Ps. XXIX).

IX. Ha poscia Iddio, per giunta de’ suoi favori, dato a questa scuola un tal libro, presso cui gli altri libri possano dirsi tante fiaccole spente, se alla fiamma di quello non piglian lume. Tal è la divina scrittura, compresa ne’ due testamenti, vecchio e nuovo, che si riguardano insieme, come i due cherubini su l’istess’arca. concorrendo ambo d’accordo a beneficarci. Mentre noi diveniamo dal vecchio dotti, dal nuovo anche doviziosi. Erudimur prædictis. et ditamur impletis (S. Leo ser. 11): possedendo in virtù del nuovo, ciò che in virtù del vecchio ci fu annunziato. Leggansi ambedue di proposito: e si vedrà, che il testamento vecchio promette il nuovo, il testamento nuovo dichiara il vecchio (S. Greg. hom. 6. in Ez.).

X. So non esser mancati, singolarmente tra’ maomettani, certi uomini di mezza testa, che questo divin volume hanno detto di ripudiare, perché egli falsificato da’ Cristiani, non sia più quello (Chi dice falsificato col tempo il divino volume, suppone di necessità, che esso fosse verace e degno di fede nella sua prima origine; e per di più deve riconoscerne anche di presente l’esistenza, a fine di paragonarne il vero col falsificato): ma sia quel rio che dal lungo correre l’atto sopra la terra abbia a poco a poco perduta la limpidezza donata a lui dalla vena.

XI. Ma io dico in prima, secondo tutte le leggi (Bal. in rub. de fide instrum.), che per togliere fede ad un istrumento ricevuto per vero da lungo tempo, non basta l’asserire animosamente che sia falsato, convien provarlo. Potranno gli avversari provare ne’ libri sacri il falsificamento da loro opposto? Su quali autori lo fondano? su che testi? Su che tradizioni, o di qual maniera possono i meschini affermar che egli succedesse?

XII. Anzi, ripiglio io, che da’ nostri non solamente non è stato adulterato mai questo libro dalla prima sua dettatura, ma che nemmeno era possibile adulterarlo.

XIII. Pruovo che non fu adulterato: altrimenti quella parte in cui fosse avvenuto un tale adulteramento non corrisponderebbe più con l’altre, come era innanzi, ma ne discorderebbe. E pure tutte le corde di un istrumento, il più armonico che si trovi, non concordano mai tra sé tanto giustamente, quanto giustamente concordano tutte le pagine e tutte le proposizioni di questo gran volume, puro affatto da ogni contraddizione, benché lievissima: di modo che questo solo argomento dovria bastare a qualunque sano intelletto. Per fargli credere, che se de’ vari libri, onde vien formata la bibbia sacra, furon diversi i secoli e gli scrittori, l’autore nondimeno ne fu sempre uno, cioè Colui che è sopra tutti i tempi o tutte le teste, né mai si muta.

XIV. Pruovo che non fu né anche possibile adulterarlo: attesoché gli esemplari, tanto del vecchio testamento, quanto del nuovo, furono fin dai principii della Chiesa divulgati per tutto il mondo, per l’Europa, per l’Asia, per l’Africa, e in ogni parte allor conosciuta. Furono trasportati in tutte 1e lingue, nella caldaica, nella greca, nella latina, nell’arabica, nell’armena, nell’etiopica, nella schiavona. nella siriaca. Furono del continuo letti pubblicamente, nelle occasioni che i Cristiani concorrevano insieme alle lor vigilie devote, a stazioni, a salmeggiamenti. Come sarebbe però potuto riuscire, né ad un uomo privato, né ad una setta falsificare tutte le copie di ciò ch’era in man di tanti?Non fiorirono sempre tra’ Cristiani uomini eminentissimi, che non avrebbero mai, come dotti ignorato un tale adulteramento, né mai, come zelanti dissimulatolo? per non ricorrere ora alla provvidenza, la quale, se in tante vicende di questo basso mondo non ha lasciato mai perire una specie di creature, per minima ch’ella fosse, come poteva lasciar perire la verità di quei libri, nei quali ella ci aveva dettata di bocca propria la via che dovevamo tenere nel venerare il nostro padron Sovrano sopra la terra, e nell’incamminarci a goderlo in cielo? Possiamo noi sospettare, ch’ella sia vaga di un culto falsificato, e che s’ella è curante de’ nostri affari minori, trascuri il sommo, sino al permettere che tante migliaia di persone piissime, le quali giorno e notte meditano la legge divina attentissimamente su questo libro, abbiano ad abbracciare una vana larva, invece di una solida verità? Non possono queste cose cadere in capo, se non a chi vi falsifichi il suo cervello, per poter con più libertà tener chi gli piace in conto di falsatore (Che non fosse possibile adulterare il divino volume, io ne scorgo un nuovo argomento in questo che Dio non può fallire al suo scopo provvidenziale: e fallito avrebbe, se, dopo di avere largito all’uomo il libro delle verità religiose, avesse poi permesso, che venisse adulterato a segno da non potersi più riconoscere la sua divina impronta).

XV. Ma ciò che ha più da stimarsi, è che Iddio insieme col libro ha data alla sua Chiesa la mente sì per intenderlo e sì per interpretarlo. Altrimenti a che gioverebbe quello, senonché a rendere gli errori più perniciosi? Come non v’è cicuta la più nocevole di quella che si beve nella malvagia; così non vi sarebbe inganno più pestilente di quello che si bevesse nella parola divina intesa a capriccio. E pure chi può dire per altro quanto sia facile, ora il cavar da esso gli errori, ora il confermarli, all’usanza di tanti eretici abusatori del sacro testo, sol perché ciascuno si arroga una stessa miniera si cava e terra e metallo e medicamenti e veleni. Ora su questo affare è così protetta e così privilegiata da Dio la Chiesa, che un Agostino protestò ad alta voce che non crederebbe neppure al Vangelo stesso, se l’autorità della Chiesa Cattolica non fosse quella che glielo porgesse in mano, con accertarlo, che quella è dettatura di Dio. Ego evangelio non crederem, nisi me catholicæ ecclesiæ eommoveret auctoritas (Cont. ep. fond. c. 5. 6). E perché ciò, se non perché ad essa da Dio fu conferito lo spirito necessario a discerner bene qual sia la parola di Dio, e quale non sia? Per questa prerogativa si mostra ella degna del titolo più sublime di cui l’ornò l’Apostolo, ove chiamolla colonna e fermamento di verità: Ecclesia Dei vivi, columna et firmamentum veritatis (1. Tim. III. 13. s. Th. ib.) Colonna per la saldezza ch’ella ha in se stessa: fermamento per lo sostegno che dà ad altrui. Non è adunque la interpretazione delle scritture quella che rende ferma la Chiesa, ma è la Chiesa quella che rende ferma la interpretazione delle scritture, come non è l’edifizio quello che rende stabile la colonna, ma la colonna quella che rende stabile l’edifizio. Né da ciò ne vien che la Chiesa si arroghi superbamente d’esser da più delle scritture divine (come i suoi calunniatori tentarono fin di apporle), ma d’ essere bensì da più di quegli uomini particolari e privati, i quali espongono le scritture divine.

III.

XVI. E pur tutti questi pregi sarebbero, per dir così, un tesoro nascosto, e conseguentemente di nessun prò, so con essi non andasse congiunto l’essere questa scuola una scuola pubblica che sta sempre aperta a ciascuno. Se ella fosse scuola ignota, o invisibile, ne seguirebbero que’ medesimi sconci i quali avverrebbero, se o non fosse al mondo questa comunanza di uomini da Dio retta con certezza infallibile nel suo culto; o se, essendovi, non fosse discernevole agevolmente dalle altre comunanze che non son tali. Rileverebbe per ventura gran fatto, che non mancasse al mondo il vero sentiero dì andare a Dio, quando questo fosse sì inospito o sì intralciato, che non si potesse discernere dai sentieri al tutto contrari? In tal caso quella provvidenza medesima che si stende a fornire i vermicciuoli più vili di conoscimento bastevole a rintracciare con sicurezza i mezzi proporzionati a trovar i lor cari pascoli, avrebbe poi lasciati gli uomini in una ragionevole dubbietà di ciò che sia d’uopo al conseguimento del loro ultimo fine. Proposizione che da nessuna bocca può vomitarsi senza appestar tutta l’aria. Il che per più forte ragione hanno da concedere ancora lo tanto sette de’ Cristiani, che, o per l’eresie o per lo scisma, si son divise dalla comunione cattolica. Conciossiaché, avendo il Figliuolo di Dio comandato sì espressamente a’ propri seguaci, che ne’ loro dubbi faccian ricorso alla chiesa, die ecclesiæ, sotto pena che sia contato tra gl’infedeli chi contumace ricusi di accertarne le decisioni: Si ecclesiam non audierit. sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matt. XVIII); qual dubbio c’è che evidentemente si debba poter discernere quale sia questa Chiesa ornata da Dio di tanto incontrastabile autorità? da che più d’una (come sopra mostrammo) non può mai essere: onde chi da lei si diparte, non può non perdersi, quasi fuori dell’arca, in un generale diluvio che non ha scampo.

XVII. Oltre a che, se tutti i Cristiani hanno un precetto sì rigoroso di amarsi scambievolmente, con un amore più nobile e più notabile di quello che regni in altri: In hoc cognoscent omnes, quia discipuli mei estis, si dilectionem habueritis ad invicem (Io. XIII, 35): come potrebbero essi adempire sì bel precetto, se non si distinguessero apertamente i fratelli dagli inimici, i fedeli dagli increduli, e i confederati dagli stranieri?

XVIII. Finalmente questa Chiesa, che in riguardo agli uomini è scuola di verità, in riguardo a Cristo è suo regno. E però quale onore, o quale ossequio ritrarrebbe egli mai da questo suo dominio sopra la terra, se fosse, dirò così, una terra incognita, e non avesse altri vassalli, che alcuni uomini, o smarriti o sepolti? Infino la sinagoga da lui distrutta lo potrebbe insultare di miserabile, con dimostrarsi ella più nota nelle sue sconfitte medesime che non sarebbe il reame di Cristo nei suoi trionfi.

XIX. Però la Chiesa non è invisibile ad altri, che a chi (come disse sant’Agostino) vuol chiudere apposta gli occhi per non vederla: Hanc ignorare nulli licet (Tr. 2. in ep. Io). E Chiesa? Dunque è congregazione, mentre tal è la forza del suo vocabolo. E s’ella è congregazione, come almanco non è ella visibile ai congregati? Né poteva da Cristo venire paragonata, or ad aia, or a cena, or a convito, ora greggia, se uno che è quivi non sapesse nulla dell’altro. Che più? Non è ella quella città, non posta al piano, ma posta sulla montagna? Civitas super montem posita (Is. XVI. 18). Adunque non solo è nota a chi dentro v’abita, ma ancora a chi ne sta fuori. Ben ha da stimarsi cieco chi non arriva a scorgerla fin da lungi. Tanto più che Isaia la chiamò la città del sole, civitas solis vocabitur; e però niun potrà dire che non la scorse, perché egli si abbatté a passarvi di notte.

IV.

XX. Tale adunque è la scuola, maestra di fede alle genti, antichissima di tempo, infallibilissima negl’insegnamenti, apertissima a chi brami di entrarvi qual suo scolaro. Solo qui si vuole avvertire, com’ella ha una porta bassa per cui non è permessa l’entrata che a capo chino (Qui ci soccorrono alla mente quei versi manzoniani del Cinque maggio: » Che più superba altezza » Al disonor del Golgota » Giammai non si chinò). Certe menti orgogliose non v’hanno luogo: Non est fides ruperborum, sed humilium (S. Aug. ser. 36. de verb. Dom.). Iddio è un sole, ma non già un sole simile al materiale, il quale illumina di necessità da per tutto: Sol iliuminans per omnia (Eccli. 42. 15): né è mai padrone di ritirare i suoi raggi quando a lui piaccia. E sol volontario, che se diffonde la luce, la diffonde per elezione. Onde, invece d’illustrar maggiormente le cime più rilevate, ritira da esse i suoi splendori ad un tratto e le lascia nelle tenebre folte da loro elette. Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Iac. 1. 21).

SACRO CUORE DI GESÙ (33): CONSACRAZIONE AL CUORE DI GESÙ

Sac. Prof. Albino CARMAGNOLA: La vittima della carità ossia IL SACRO CUORE DI GESÙ; Società Editrice Internazionale, TORINO, 1920

DISCORSO XXXIII.

Consacrazione al S. Cuore di Gesù.

Una sera gelata d’inverno un uomo si aggirava solingo e pensieroso in luogo alquanto remoto della vicina città. Egli era un genio, ma accasciato sotto il peso di gravi sventure. Dopo di avere camminato alquanto, lo ferisce all’orecchio il suono della campana d’un vicino convento. A quel suono, come alla voce d’un amico, che lo chiamasse per consolarlo, quell’uomo volge ad un tratto i suoi passi frettolosi a quel convento e ne batte alla porta. Un frate si avanza, ed aprendo, così saluta: La pace sia con te, o pellegrino; che cerchi tu? — Che cerco io? Cerco appunto la pace che tu mi auguri, ma che finora non ho trovato. Cerco la pace! Miei cari, questo anelito così ardente di Dante Alighieri è l’anelito di tutta l’umanità. Pace, pace si cerca da tutti; pace, pace da tutti si invoca. Ciascuno vuol pace nel suo cuore; ogni famiglia vuol pace nel suo seno; ogni società vuol pace tra i suoi membri; e tutto il mondo vuol pace fra i suoi stati. E per avere, per mantenere, per promuovere la pace si istituiscono dei comitati, si fanno dei congressi, si diramano circolari, si fanno proposte, si suggeriscono mezzi, si danno delle norme; e ciò si fa dagli stessi più grandi sovrani del mondo. Tanto è vero che la pace è uno dei maggiori beni che si possa godere quaggiù dall’umanità. Ma con questa brama irrefrenabile, che da tutti si ha della pace, con questa aspirazione sì infuocata di tutti gl’individui, di tutte le famiglie, di tutti gli stati, di tutto il mondo si cerca davvero la pace là dove essa esiste? La pace, ha detto il più grande dottore, S. Agostino, è la tranquillità dell’ordine. Ma la base, il principio, la radice di ogni ordine serbato e tranquillo è la conoscenza, l’amore, il servizio di Gesù Cristo, la totale consacrazione della nostra vita a Lui. Senza la nostra vita in Cristo è scossa, è tolta anzi la base di ogni ordine, ed allora non più pace, ma agitazione, scompiglio e guerra. Sì, Gesù Cristo è la nostra pace: ipse est pax nostra; (Eph. II, 14) Gesù Cristo è colui che la può far regnare in mezzo al mondo, perché Egli è il principe della pace: princeps pacis; (Is. IX, 6) Gesù Cristo è colui che la dona, perché è il Dio della pace: Deus pacis. (Hebr. XIII, 20) Appena nato sopra questa terra la fece annunziare agli uomini per mezzo degli Angeli: Et in terra pax hominibus; (Luc. II) prima di andare a morire per noi la lasciò come in retaggio a’ suoi apostoli: Pacem relinquo vobis; (Io. XXI) e dopo la sua risurrezione, il primo saluto, il primo augurio, la prima promessa, che fece ai discepoli, fu la pace: Pax vobis. (Luc. XXIV, 36). È da Lui pertanto, da Lui solo, che ci può venire la pace, opperò è in Lui, in Lui solo che dobbiamo ricercarla. E chi fra di noi, riconoscendo dove stia la pace, non vorrà recarsi lì a farne l’acquisto? Miei cari, siamo arrivati al termine del mese consacrato al Cuore di Gesù. In questo mese ci siamo studiati di conoscere questo Cuore più intimamente che ci fu possibile, ed abbiamo cercato di metterci innanzi i motivi più grandi che devono spronarci a crederlo, ad amarlo e servirlo fedelmente. Ora che altro ci rimane se non risolvere di mantenere costantemente il frutto di queste sante cognizioni? A tal fine non dobbiamo far altro quest’oggi che consacraci interamente a Lui. Ma intendiamoci bene, o miei cari. Invitandovi io quest’oggi, a fare la vostra consacrazione al Cuore Santissimo di Gesù, non crediate, che io vi inviti ad una funzione religiosa vaga e indeterminata, ad un’espansione passeggera di una tenerezza sensibile verso di Lui: no affatto. Io vi invito a fare una consacrazione soda, totale e costante di voi medesimi al Cuore di Gesù Cristo, a prendere cioè una risoluzione decisiva di vivere d’ora innanzi unicamente in Lui, con Lui e per Lui, nella fede ferma alla sua dottrina, nella pratica esatta della sua legge, nel servizio fedele della sua Persona; giacché, orMai lo abbiamo ben inteso, dire Cuore di Gesù è dire Gesù Cristo Figliuolo di Dio fatto uomo per nostro amore e per nostra salute è sempre la stessa cosa. E la salute nostra non sta in altri che in Lui: Non est in alio aliquo salus.(Act. IV, 12) Non altro Nome vi è sotto il cielo, che possa essere il segno della nostra elezione divina; Gesù Cristo principio di tutte le cose ne è pure il fine; tutto da Lui procede e tutto mette capo a Lui. Nessuno va al Padre se Egli non lo conduce colla grazia, con quella grazia che ha la sorgente nel suo Sacratissimo Cuore: Gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum.- (Rom. VII, 25) Se noi pertanto cercassimo la verità fuori di Lui, non la troveremmo che incompleta e mutilata, perché è Egli la verità; se noi camminassimo verso i nostri destini lontani da Lui, noi ci perderemmo, perché Egli è la via unica e sicura: se noi pretendessimo di vivere senza di Lui, noi resteremmo mai sempre in potere della morte, perché Egli è la vita. Ego sum via, veritas et vita. (Io. XIV, 17) Insomma pensieri, affetti, nobili e sante abitudini, buone opere tutto sarebbe inutile, tutto andrebbe irrimediabilmente perduto, se noi non ci unissimo a Lui, se non ci dessimo a Lui del tutto, se a Lui non ci consacrassimo, giacché senza di Lui non possiamo far nulla: Sine me nihil potestis facere. Tutto per Lui, tutto con Lui, tutto in Lui: Per ipsum, cum ipso et in ipso! Oh quanto importa adunque che noi ci consacriamo con una consacrazione vera, soda, decisiva al Cuore SS. di Gesù: Egli ne ha tutti i titoli e noi ne abbiamo tutto l’interesse. Ed ecco appunto ciò che vi dirò in quest’oggi: —O Cuore adorabile di Gesù, dona oggi tale forza alla mia parola che valga ad ottenere davvero che tutti questi cuori si rifuggano per sempre dentro di te.

I. — Il primo titolo che il Cuore SS. di Gesù ha alla nostra consacrazione si è l’essere Egli il Cuore del nostro Maestro divino, sia perché come tale fu veramente mandato da Dio, sia perché è Dio Egli stesso. No, in Gesù Cristo non abbiamo soltanto uno di quei grandi sapienti e profeti, quali furono quelli che Iddio inviò nell’antica legge; in Lui non v’ha soltanto un semplice riflesso della luce eterna, ma è il sole medesimo sorto nel inondo per inondarlo della sua luce, penetrarlo del suo calore, è la Sapienza divina incarnata, è il Verbo, la Parola divina fattasi vivente in un corpo e in un’anima umana, è insomma il Maestro supremo, il Maestro dei maestri. Se adunque Gesù Cristo è il Maestro nostro per eccellenza, non dovremo noi consacrarci del tutto al Cuore divino per accettare e credere tutti gl’insegnamenti e per osservare tutti i precetti che ne ha fatto uscire per la salvezza nostra? Oh! sì, senza dubbio. Che importa adunque che Egli ci apprenda delle verità che noi colla sola nostra ragione non possiamo né presentire, né penetrare? Che importa che egli ci ammaestri intorno a misteri inscrutabili e superiori al nostro intendimento? Le verità non lasciano di essere verità dal momento che partono dalla bocca di un Maestro divino, che le vede e le afferma. Vi sono stati, vi sono tuttora dei maestri dotati di gran genio, che si impongono per tal guisa alle menti dei loro discepoli da ingenerare in essi una sicurezza la più grande della loro dottrina; sicurezza tale per cui questi discepoli a qualsiasi obbiezione, a qualsiasi difficoltà fosse loro fatta contro la dottrina del maestro rispondono decisamente: L’ha detto il nostro maestro : Magister dixit. Ma questa fiducia così imprudente, che non tiene conto della debolezza che trovasi nella mente umana, fosse pure la più elevata, la più nobile, a quanti sbagli, a quanti errori può andare incontro! Or si potrà dire la stessa cosa di noi quando noi prestiamo fede a Gesù Cristo, ancorché Egli ci insegni cose incomprensibili alla mente nostra? No, non mai, perché se noi a qualsiasi obbiezione o difficoltà che alla dottrina di Gesù si affacci alla mente nostra sia per parte della nostra ragione riottosa, sia per parte dei falsi maestri del mondo, se noi, dico, a qualsiasi obbiezione o difficoltà rispondiamo: Magister dixit, è lo stesso che rispondere: Deus dixit: l’ha detto Iddio, quel Dio che è di una scienza infallibile e di una veracità suprema, ragione per cui noi saremmo del tutto colpevoli se gli rifiutassimo la perfetta sommissione del nostro spirito. Dunque fede piena e totale a tutto ciò che Gesù Cristo ci insegna intorno alla natura di Dio, alla vita delle tre Persone divine, alla sua eterna generazione, alla sua propria Persona, al valore delle sue azioni, all’estensione de’ suoi meriti, alla comunicazione della sua vita, a’ suoi santi Sacramenti, alla virtù della sua grazia, alla nostra origine, ai nostri destini. Sì, fede piena e totale, senza riserva alcuna, senza alcuna restrizione. È vero, oggi non è più la sua bocca divina quella che direttamente ci ammaestra intorno a tutto ciò che dobbiamo credere, ma è la sua Chiesa docente, quella Chiesa che Egli ha costituita a tenere le sue veci, che ha fatta depositaria sicura della sua dottrina, che ha resa infallibile nella promulgazione della medesima, ed alla quale perciò dobbiamo quella medesima fede che si deve a Gesù Cristo, avendo Egli detto alla Chiesa: Qui vos audit me audit; chi ascolta voi, ascolta me, (Luc. x, 16) e chi disprezza voi, disprezza me, e chi disprezza me, disprezza Colui che mi ha mandato: Qui vos spernit, me spernit. Qui autem me spernit, spernit eum qui me misit. (Ib.) Ma il nostro divino Maestro Gesù non solamente ci insegna le verità che dobbiamo credere, ma eziandio le opere che dobbiamo compiere, e non solo ce le insegna, ma ce le comanda. Propriamente perché Egli è il Maestro divino, perciò ancora è il precettore, quegli cioè che ci dà dei precetti e ci ordina di eseguirli, e se noi ci sottraessimo alla sua indiscutibile autorità, se noi non lo volessimo obbedire, se noi avessimo la stolta pretesa di obbedire a Lui ed obbedire alle nostre passioni, alle massime del mondo, ai suggerimenti di satana, guai! noi saremmo perduti, perché è solo nell’obbedir a Gesù Cristo e nell’obbedire a Lui unicamente che siamo certi di far sempre il bene, evitar sempre il male, ed operare la nostra salvezza. La legge di Gesù è una legge che non soffre rivalità di sorta, avendo detto Egli stesso apertissimamente, che nessuno può servire a due padroni ad un tempo: nemo potest duobus domini servire. Sarà vero adunque che per osservare i precetti di Gesù Cristo noi dovremo fare violenza a noi stessi,giacché regnum Dei vim patitur et violenti rapiunt illud: il regno di Dio patisce forza e solamente quei che si fanno violenza riescono a guadagnarlo; sarà vero che perciò dovremo rassegnarci a sacrificare il nostro orgoglio, il nostro amor proprio, il nostro io; sarà vero che dovremo mortificare i nostri sensi, contenere le nostre ambizioni, moderare le nostre cupidigia, regolare i nostri affetti, vegliare sui pensieri della nostra mente, comprimere i traviamenti dell’immaginazione, soffocare i desideri malnati del nostro cuore, distaccarci dai beni miserabili e caduchi del mondo per attaccarci unicamente ai beni veri ed imperituri del cielo; sarà vero in una parola che dovremo rinunciare all’amore di noi per crocifiggere la nostra carne con quella di Gesù Cristo: ma questo è tutto ordinato e voluto da Lui. È Egli che ci comanda di essere mansueti ed umili di cuore, come lo è Lui; è Egli che ci ordina di essere casti e mortificati; è Egli che ci impone di essere benefìci, misericordiosi,generosi nel perdonare; è Egli che ci intima di pregare,di onorarlo sempre, ma specialmente nei giorni a Lui consacrati;è Egli che vuole che noi andiamo a gettarci ai piedi del sacerdote suo rappresentante per confessargli e piangere i nostri peccati, Egli che ci chiama ad accostarci a riceverlo nei nostri cuori colla santa Comunione, Egli! E siccome Egli continua ad esercitare il suo impero sopra di noi in modo visibile per mezzo della sua Chiesa, alla quale ha dato la facoltà di prescriverci tutto ciò che ella crede più conveniente, più utile, più necessario per ottenere da noi l’adempimento vero e perfetto dei precetti di Lui, perciò è anche ai precetti della Chiesa, che dobbiamo assolutamente obbedire per poterci dire veri obbedienti di Gesù Cristo in tutto e per tutto. Ecco, o miei cari, il primo titolo che Gesù Cristo ha alla consacrazione nostra al suo Sacratissimo Cuore, e che cosa importa per questo riguardo la nostra consacrazione: il Cuore di Gesù è il cuore del nostro Maestro e noi dobbiamo credere tutti i suoi insegnamenti e praticare tutti i suoi precetti. -Ma a questo primo titolo un altro se ne aggiunge anche più toccante per il nostro cuore. Gesù Cristo non è solo il nostro Maestro, ma è pure il nostro amico. Sì, incredibile a dirsi, ma pur vero. Gesù è il nostro amico. Egli non fa come i maestri e precettori di questo mondo, che tolta qualche rarissima eccezione, pur prendendo a nutrire dell’affetto ai loro discepoli, difficilmente li ammettono a godere della loro intima amicizia, troppo temendo che questo sentimento che conduce alla famigliarità riesca di danno al rispetto che desiderano mai sempre ottenere. No, Gesù Cristo non fa così; Egli si sbriga da questi riguardi e costumanze umane, perché  Egli sa che quanto più noi diventeremo famigliari con Lui, quanto più ci stringeremo a Lui intimamente e teneramente, tanto più diventerà profonda in cuor nostro la riverenza per Lui e tanto più affettuosi e perfetti saranno i servigi che gli renderemo. Epperò fin dal tempo della sua vita mortale Egli ha preso a nutrire verso tutti coloro che lo volevano corrispondere il sentimento della più tenera amicizia. E non si rivelò egli il più affezionato degli amici verso de’ suoi Apostoli, e non li riguardò, essi, come amici suoi? Ah! udite le commoventi parole che loro indirizza: Voi siete gli amici miei. No, non vi chiamerò Io col nome di servi, perché il servo non sa quello che faccia il padrone; ma vi chiamerò con quello di amici, perché Io non tengo con voi segreto alcuno, e tutto quello che Io intesi dal Padre mio, tutto ve lo feci sapere. (Io. XV, 14, 15). E in conformità a questa professione di amicizia Gesù vuole gli Apostoli sempre con sé, e non ostante che siano sì rozzi, sì difettosi, sì meschini, li compatisce nei loro difetti, li avvisa dei loro mancamenti, li assiste nei loro bisogni, li difende nei loro pericoli, li anima nelle difficoltà, li premunisce contro le persecuzioni,nulla, assolutamente nulla risparmia di fare per rendere onore alla sua parola, per dimostrare che Egli è veramente il loro amico e che essi sono gli amici suoi. Ma quella bontà e tenerezza di amicizia che Gesù Cristo ha dimostrato durante la sua mortal vita, ritenetelo bene, non è venuta meno presentemente per nessuno di noi. Basta che noi rispondiamo all’amor suo perché anche a noi Egli faccia il grande e affettuosissimo onore di averci per amici suoi e di far sentire a noi tutti gli effetti dolcissimi della sua amicizia,per largire cioè e comunicare anche a noi nella massima abbondanza quei tesori di grazie che egli ha fatto scaturire dal Cuore suo durante la sua vita e’ soprattutto durante la sua passione e morte. Sì, il Cuore di Gesù sarà sempre anche per noi il cuore del vero amico, dell’amico per eccellenza, dell’amico potente ed amoroso al quale attingeremo a piene mani tutti i beni di cui abbiamo bisogno. Siamo noi nella nostra intelligenza offuscata da dubbi, da incertezze, da esitazioni intorno alla fede? Rechiamoci al Cuore dell’amico Gesù, ed egli spanderà nel cuor nostro la luce. Vogliamo noi essere diretti sapientemente nei nostri studi, ne’ nostri lavori, nelle nostre imprese, nei nostri interessi sì temporali che eterni affine di non giovare soltanto a noi, ma anche ai nostri prossimi? Andiamo al Cuore dell’amico Gesù, ed Egli verserà nel cuor nostro il dono del Consiglio.Ci sentiamo freddi nell’adempimento dei nostri doveri, soprattutto nell’adempimento di quelli che abbiamo con Lui, ci sentiamo freddi nella divozione, nella pietà, nella pratica della Religione? presentiamoci al Cuore dell’amico Gesù ed egli è la fornace dell’amore. Ci sentiamo assaliti dalle tentazioni terribili di satana, dalle lusinghe prepotenti del mondo, dalle punture stimolanti delle nostre passioni? Corriamo al Cuore dell’amico Gesù: Egli è la forza dei deboli. Abbiamo l’anima lacerata pei dispiaceri avuti dagli uomini, pei tradimenti che ne abbiamo patito, per le calunnie di cui ci hanno oppressi, per la guerra che ci hanno fatto, pel disonore che ci hanno causato, per la rovina che ci han procacciata, per la miseria a cui ci hanno ridotti? Oh! non tardiamo un istante ad appressarci al cuore dell’amico Gesù, ed egli verserà nel cuor nostro il balsamo della consolazione. Finalmente siamo noi oppressi dalle colpe della nostra vita passata, gemiamo noi sotto il peso di tanti peccati? Ebbene anche allora rechiamoci al Cuore dell’amico Gesù, perché neppur allora Gesù, se noi lo vogliamo davvero, neppur allora Ei ci rifiuta la sua misericordia;anzi è allora che più particolarmente ce la farà sentire,perché anche allora continua ad essere l’amico nostro.Non di meno, o miei cari, non dimentichiamoci che la vera amicizia non è riposta nello sfruttare l’altrui cuore per sé, no; essa suppone e vuole reciprocanza di affetti, scambio di doni,serie non interrotta di generosità. È vero, noi siamo poveri,pur tuttavia Gesù si accontenta che noi gli diamo quel poco che noi abbiamo; si accontenta del nostro cuore per quanto meschino, si accontenta della nostra buona e risoluta volontà di amarlo, si accontenta del nostro impegno costante per non offenderlo, si accontenta della nostra compassione e della nostra riparazione per gli oltraggi che Egli riceve, massimamente nel Sacramento d’amore; si accontenta delle nostre preghiere, delle nostre pratiche devote, delle nostre comunioni, delle nostre mortificazioni; si accontenta dell’offerta delle opere nostre e noi diamogli volentieri tutto questo. Che anzi diamogli qualche cosa di più. Giacché con satanico furore si fa di tutto per togliere Gesù di mezzo alla società, di mezzo alla scienza, di mezzo alle lettere, di mezzo alle arti, di mezzo alla scuola,di mezzo all’officina, di mezzo alla famiglia, e noi pieni di zelo lavoriamo per quanto possiamo ad impedire sì esecrando e sì fatale delitto; lavoriamo a mantenere Gesù dappertutto, lavoriamo a rimetterlo in onore ed in amore per ogni dove. Lavoriamo colla preghiera, lavoriamo col buon esempio, lavoriamo coll’impiego del denaro alla sua santa causa, lavoriamo col partecipare vivamente e seriamente all’Azione Cattolica, lavoriamo col sacrificare perciò generosamente lo nostre mire personali e le nostre comodità. Oh allora sì, Gesù sarà sempre l’amico nostro e noi saremo sempre gli amici suoi: e sempre ci farà risuonare all’orecchio questa dolce parola: vos amici mei estis.Ma un terzo titolo che ha Gesù Cristo alla nostra consacrazione al suo Santissimo Cuore si è che desso è vita della nostra vita.Ego sum vita, Egli ha detto, e per questo sono venuto al mondo, perché gli uomini abbiano per me la vita e l’abbiano abbondantemente: Ego veni in mundum ut vitam habeant et abundantius habeant. (Io. x, 10) Né crediate che quando Gesù asserisce di essere la nostra vita adoperi un linguaggio poetico e figurativo, no; Egli adopera un linguaggio vero, reale, profondamente vero e reale. Egli è anzitutto vita della nostra stessa vita fisica, giacché questa vita corporea che noi abbiamo è Egli che come Dio ce l’ha data, Egli che come Dio cela conserva, Egli che come Dio è padrone di togliercela quando gli pare e piace. Ma soprattutto Egli è vita della nostra vita spirituale, vita dell’anima nostra elevata all’ordine soprannaturale. Questa vita è vero noi l’avevamo perduta per il peccato del nostro primo padre. Ma Gesù venendo sopra di questa terra a patire e morire per noi ce l’ha sovrabbondantemente riacquistata. Epperò questa ce l’ha ridonata, a ciascuno di noi, quando l’acqua salutare del santo Battesimo discendendo esteriormente sul nostro corpo purificò interiormente l’anima nostra per mezzo della grazia. Questa vita fu rafforzata in noi in quel dì, in cui lo Spirito Santo, che Gesù Cristo ha mandato, è disceso nell’anima nostra per mezzo della santa Cresima, apportandoci insieme con un’altra grazia abbondantissimi tesori. Da ultimo questa vita fu resa più ricca, più feconda, più gloriosa ogni qual volta noi ci siamo accostati alla mensa eucaristica a nutrirci delle carni immacolate di Cristo e a bere il suo preziosissimo Sangue. Ora, dopo tutto ciò, essendo stati noi pienamente vivificati da Gesù Cristo,non è Egli in diritto, nell’assoluto diritto che noi ci consacriamo a Lui, al suo Sacratissimo Cuore, e che prendiamo pur noi a vivere della vita sua? Sì certamente; ognuno di noi dobbiamo vivere in guisa da poter dire ognuno: Mihi vivere Christus est. (Philipp, I, 21) Vivo ego, iam non ego, vivit vero me Christus.Ma poniamo ben mente che vivere della vita di Gesù Cristo, menar davvero vita cristiana non importa soltanto una certa conformità dei pensieri nostri coi pensieri suoi, di affetti co’ suoi affetti, di azioni colle, sue azioni, ma soprattutto una penetrazione permanente della vita di Gesù Cristo in noi, un’abitazione continua sempre più attiva della sua grazia per modo che le nostre opere, le nostre parole, i nostri pensieri, i nostri affetti siano impregnati di questa grazia e di questa vita di Gesù Cristo e in tutto quel che facciamo, in tutto quel che diciamo, in tutto quel che pensiamo, in tutto abbiamo a farci dei meriti innanzi a Dio per Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo. Ahimè! quanti vi sono che si credono vivi della vita di Gesù Cristo e invece sono morti!quanti vi sono che meritano ciascuno quel rimprovero dell’Apocalisse; Nomen habes quod vivas, et mortuus es! Non parlo no, di coloro, i quali rinnegando il loro battesimo e la loro educazione cristiana ricevuta sulle ginocchia della madre-Chiesa e della Chiesa-madre vorrebbero ora se fosse possibile cancellare dall’anima loro l’indelebile carattere del battesimo. Ah!costoro non ignorano di essere morti alla vita di Gesù Cristo e forse anche son arrivati a tal punto di irreligiosità e demenza da farsene vanto. Io parlo invece di coloro che conservano la fede, che pregano ben anche, che frequentano le Chiese, che si sottomettono volentieri e persino con ostentazione alla legge del magro e del digiuno, che accorrono sollecitamente ad ascoltare la parola di Dio, che si consolano della pietà delle loro mogli, che esigono le pratiche religiose nei loro figli, che mirano con spavento i progressi dell’irreligione, che provano sdegno contro ogni pubblica dimostrazione dell’empietà,che quando si parla di Cristiani Cattolici, servi ed amici di Gesù, si fanno anche arditamente innanzi per dire: noi siamo del loro numero; ma che intanto sono morti alla vita di Gesù Cristo, perché resistono alla sua volontà dichiarata, perché rimangono da anni e da anni schiavi del peccato, perché da anni e da anni non vanno più a gettarsi ai piedi di un confessore per riacquistare la grazia divina, perché da anni e da anni non si accostano più alla sacra mensa. Ah! miei cari, che gran pena al cuore il pensare a costoro! Perciocché sia pure che costoro per non avere totalmente abbandonato Gesù Cristo possono sperare che Gesù Cristo non abbandoni totalmente essi, ma intanto se essi continuano in questo stato di morte non si va sempre più aggravando sopra il loro capo lo sdegno del cielo? e non potrà essere che in quel dì istesso a cui han rimandato la loro risurrezione alla vita cristiana,in quel dì istesso, prima che’ essi la compiano, siano chiamati dallo stesso Gesù Cristo a render conto dell’abuso continuato che fecero delle sue misericordie? Ah! miei cari, se mai vi fosse tra di voi qualcuno di questi sventurati, si decida ormai a risorgere e a riacquistare la vita di Gesù Cristo, non rimandando neppur più a domani quello che potrà fare ancor oggi. Tutti poi dandoci alla vita veramente cristiana, facciamo di essere perseveranti in essa; no, non più infedeltà; non più ricadute, non più ingratitudini. Che ciascuno di noi possa sempre ripetere in fondo dell’anima sua con tutta verità: Ho trovato alfine chi ama l’anima mia, ho trovato il cuore di un Maestro divino, di un amico divino, di una vita divina; ho trovato il Cuore SS. del mio Gesù, al quale mi dono e mi consacro per tutta la vita senza più mai separarmi da lui: Inveniquem diligit anima mea, tenui eum nec dimittam. (Cant. III, 4)

II. — Ed è questo il nostro supremo interesse: l’unico mezzo, col quale potremo godere la pace in vita, in morte e dopo morte. Taluni pensano che la pace consista nel possesso delle ricchezze, epperò si danno a ricercarne l’acquisto con un ardore di passione. Ah! esclama qualcuno, se io arriverò a possedere qualche centinaio di migliaia di lire sarò felice. E perciò va, viene, compra, vende, si agita, si sacrifica… e poi? Il denaro, miei cari, non dà la pace; quanto più se ne ha, tanto più se ne vorrebbe; e per poco che se ne abbia, sempre si sta in agitazione per la paura di perderlo. Gesù Cristo ha chiamato le ricchezze spine, e le spine, tutt’altro che contentare il cuore dell’uomo, lo pungono e lo fanno soffrire. Perché nelle ricchezze l’uomo trovasse la pace, bisognerebbe che queste fossero il suo ultimo fine. Ma è forse così? L’oro e l’argento, secondo il piacevole modo di esprimersi di S. Bernardo non è altro che terra rossa e terra bianca, terra rubra et terra alba; e l’uomo creato da Dio, ad immagine e somiglianza di Dio, avrà per suo ultimò fine la terra che calpesta co’ suoi piedi? Il pretenderlo sarebbe un avvilire la nostra natura e rendere il nostro cuore schiavo miserabile della materia. – Tali altri credono trovare la pace nei godimenti e vi si abbandonano senza tregua. Festini, balli, teatri, gozzoviglie, piaceri del senso, si succedono, si avvicendano, si intrecciano del continuo nella loro vita gaudente. Ma sono essi felici? No, certamente. È questo il caso di dire col poeta:

Se a ciascun l’interno affanno – Si leggesse in fronte scritto, – Quanti mai che invidia fanno – Ci fariano pietà. – Si vedria che i lor nemici – Hanno in seno, e che consiste – Nel parere a noi felici – Ogni lor felicità. Rincasando la sera, o dirò meglio il mattino, dalle ore del piacere, cotesti bruti non possono tuttavia aver perduto ogni avanzo della loro grandezza per non sentire in fondo all’anima un vuoto e più ancora un rimorso, che li strazia o li getta per lo meno nella più cupa malinconia. No, noi non siamo fatti per contender le ghiande dei sensuali diletti agli animali immondi. Se fosse così non capirei più perché Dio mi abbia dato l’intelligenza ed il cuore. Se fosse così, dignità, onore, virtù, dovere, sacrifizio sarebbero parole da stupido.Non pochi altri sperano trovar pace negli onori. – La bramosia della gloria li punge, e lavorano a tutta possa per conseguirla.Ma quando pure siasi conseguita per vie onorate,senza averla vilmente comprata col denaro o col sacrificio della propria libertà, si avrà trovato in essa il pieno appagamento del proprio cuore? No, neanche allora. Ogni gloria dicono le Sacre Scritture, è come un fiore, che in uno stesso giorno si chiude e cade a terra avvizzito: Omnis gloria… sicut flos agri. (Is. XL, 6) E la storia dei più grandi uomini è lì ad attestarlo: oggi il Campidoglio e domani la Rupe Tarpea: oggi viva! e domani morte! E quando la gloria non avesse nemico né il tempo, né lo spazio, avrebbe pur sempre nemica l’invidia, che nasce insieme con lei, con lei vive per tormentarla e solo con lei morirà. – Adunque non denari, non piaceri, non onori danno all’uomo la pace. Tutto ciò, se anche si potesse sommare insieme e riunirlo nella vita di un sol uomo, sarebbe sempre troppo meschino e troppo indegno della sua grandezza; il mondo intero non arriverebbe a soddisfarlo.Dove adunque si trova la pace? Dove? La pace risulta dall’armonia delle parti, che compongono un tutto, dall’equilibrio degli elementi, che si incentrano in un punto, a cui tendono di lor natura. Se nel cielo, ad esempio, è pace, ciò proviene dall’ammirabile armonia degli Astri i quali con quella duplice forza di attrazione e di ripulsione, di cui sono dotati, si equilibrano perfettamente tra di loro,aggirandosi gli uni attorno agli altri e tutti intorno al centro, che Dio ha loro fissato. Così se vi ha pace nel seno di un popolo, ciò accade, perché tutti gli elementi che lo compongono, letterati, filosofi, poeti, artisti, operai, soldati, magistrati, ricchi, poveri, tutti di comune accordo convergono verso uno stesso ideale, che li soddisfa, la prosperità della patria. E se tutte le nazioni, per quanto diverse per clima, per indole, per bisogni, per industrie, per cultura cercano tuttavia ciascuna nella sua sfera ciò che può formare l’ideale completo del genere umano, la ricchezza, la grandezza, la sicurezza dell’intera umanità, allora nell’accordo di queste forze molteplici,nel loro equilibrio allo scopo ad esse proporzionato si ha la pace nel mondo. Ma se invece nel cielo, per ipotesi, un qualche astro volesse, rompendo l’ordine stabilito, deviare dalla sua orbita per non più aggirarsi intorno al suo centro;se presso un popolo taluno degli elementi, che lo compongono, si fa a scindere il comune accordo e diverge dal comune scopo; se nel mondo un qualche stato trasmoda nelle relazioni, che lo congiungono agli altri stati, e volge le sue forze aduna mira, che non è quella dagli altri stati voluti, allora la pace vien meno e vi sottentra il disordine, la lotta e la guerra.Così pure, perché vi sia pace nell’uomo, fa d’uopo che tutti gli elementi, che la compongono, in perfetta armonia tra di loro, tendano tutti a quel punto, cui devono tendere di lor natura; solamente per tal guisa vi può essere nell’uomo la tranquillità dell’ordine, ossia la pace. L’intelligenza umana fu da Dio creata con una capacità infinita di conoscere; epperò per quanto vaste siano le cognizioni che acquista, non dice mai basta. Sempre vuole acquistarne delle altre, sempre vuol andare più innanzi in ciò, che le è ancora incognito,essa tende insomma a conoscere la Verità influita, la Verità assoluta, che è Dio. Epperò è Dio solo che può contentarla e darle pace. Così si dica del cuore. Anch’esso fu da Dio creato con una capacità infinita di ricevere il Bene. E per quanto siano numerosi e grandi i beni di questo mondo non lo sazieranno mai. Egli griderà sempre: Ancora! Ancora! Di più! Di più. Perché esso vorrebbe possedere tutto, godere tutto, possedere e godere insomma il bene infinito ed assoluto, che è ancora Dio. Epperò è anche Dio solo che può contentare il cuore umano e dargli pace. Dirò di più. Siccome l’uomo non è solo spirito, ma è anche carne, così non è soltanto col suo spirito, che tende a Dio, ma vi tende altresì colla sua carne, colle sue ossa, co’ suoi sensi. Senza dubbio la pace materiale.de’ suoi sensi, delle sue ossa, della sua carne esiste, quando gli elementi, che lo compongono, essendo tra di loro giustamente equilibrati, lo tengono in sanità. Ma per rapporto alla vita, che il corpo deve menare in unione collo spirito, solamente allora vi ha pace per la stessa carne, quando può esultare al cospetto di Dio, pura dalla macchia del peccato. Che importerà che materialmente non sia in pace, perché informa o ben anche travagliata da luride piaghe? Vivente per Iddio, off 5therta e sacrificata a Lui, troverà ne’ suoi patimenti una ragione di più per poter dire col santo Re Davide: Cor meum et caro mea exsultaverunt in Deum vivum:(Ps. LXXXIII, 3) Exsultabunt Domino ossa humiliata. (Ps. L, 10) Ecco adunque l’Uno necessario, a cui è di mestieri che l’uomo rivolga e consacri tutto se stesso, la sua mente, il suo cuore, gli stessi suoi sensi per stabilire l’ordine e l’armonia della sua natura e conseguentemente godere la pace. Ma appunto perché non solo colla mente e col cuore, ma eziandio coi sensi noi dobbiamo volgerci e consacrarci a Dio per godere la pace, anche per ciò Iddio si è manifestato agli uomini e si è messo in comunicazione con loro per mezzo di Gesù Cristo, suo Divin Figliuolo Incarnato. Ed è perciò ancora,che secondo il detto dell’Apostolo è Gesù Cristo la nostra pace: ipse est pax nostra. Sì, Gesù Cristo solo, via, verità e vita di quanti uomini vengono al mondo, può dare la pace alla nostra mente, la pace al nostro cuore, la pace ai nostri sensi, la pace a tutto il nostro essere: ipse est pax nostra, purché noi con tutto il nostro essere a Lui solo tendiamo, e Lui crediamo, Lui amiamo, Lui serviamo fedelmente. Colui pertanto che non dà a Gesù Cristo la sua mente, che cioè non s’applica alla sua scienza, non crede alle sue dottrine, non si affida del tutto a’ suoi santi insegnamenti,che non ha la fede in Lui, ancorché ricco di ogni genere di cognizioni umane, sarà sempre agitato, incerto ed infelice. Perciocché quest’uomo scompiglia l’ordine di sua natura. In lui non è più Iddio che pasce e nutre la sua intelligenza della sua divina verità, ma è la creatura che si forma la scienza,scienza terrena e vana, incapace di contentarla.Così è di colui che a Gesù Cristo nega il suo cuore, che non segue la sua legge e i suoi esempi, che non pratica le sue virtù, che in fatto di morale prende per unica sua norma i suoi istinti e le sue passioni, che non pensa che alle creature, che le idolatra e non vive che per esse. Anche costui diverge una delle sue forze dal centro che le è proprio, rompe l’armonia voluta dalla sua natura ed invece del riposo della pace, della vera felicità, non trova sul suo cammino che il dolore e la tortura del cuore istesso: Contritio et infelicità in viis eorum, et viam pacis non cognoverunt. (Ps. XIII, 3) Che anzi, il suo cuore, come ha detto Isaia, sarà simile ad un mare, perpetuamente in preda alle più furiose tempeste: Cor impii, quasi mare fervens, quod quiescere non potest- (LXXVII, 20). E così è infine di chi a Gesù Cristo nega l’omaggio de’ suoi sensi, della sua stessa carne. Giacché essendo essa destinata,conforme alla bella dottrina di S. Paolo, a portare e glorificare Iddio in se stessa, non può fare a meno che trovare il tormento nel rendersi carne di peccato. E qui, bisogna pur dirlo, quando è la carne che si strappa dalla mortificazione di Gesù Cristo per abbandonarsi in preda al disordine, all’ebbrezza, allo stravizio, al piacere infame, non è più la pace morale soltanto che si perde, ma è pur anche la pace materiale del corpo, la sanità e la bellezza. L’estasi dei sensi tramonta ben presto. Il voluttuoso a forza di godere distrugge se stesso e non tarda a sorgere per lui il giorno, in cui sentirà alle spalle il passo del becchino, che viene a coprire di terra i suoi scomposti e ignominiosi avanzi. « Tant’è – esclama S. Agostino – e così hai stabilito, o Signore, che ogni animo disordinato sia pena a se stesso. E gira e rigira, tutto è duro,tutto è aspro, tutto è penoso, e tu solo sei pace. »Or ecco adunque perché Gesù Cristo che tanto ci ama e che altro non desidera che di vederci nella pace, con parole così tenere, con espressioni così calde, con accenti così insistenti ci invita e ci sprona a recarci a Lui, a consacrarci alla sua fede, al suo amore, al suo servizio, a dedicarci massimamente al suo Cuore Sacratissimo, fonte di ogni conforto e di ogni felicità. Auditis ut suavissimis invitet omnes vocibus? « Venite a me, o voi tutti, che siete affaticati e vi curvate sotto il peso della miseria della vita, ed Io vi ristorerò. Prendete sopra di voi il giogo della mia fede, del mio amore, del mio servizio, ed imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore, e troverete il riposo alle anime vostre: poiché il mio giogo è soave ed il mio peso è leggiero. Venite ad me omnes qui laboratis et onorati estis, et ego reficiam vos. Tollite iugum meum super vos et discite a me, quia mitis sum et humilis corde, et invenietis requiem animabus vestris. Iugum enim meum suave est, et onus meum leve. » (MATTH. XI, 28, 29). -Ed, oh fortunato colui, che ascoltando questo affettuosissimo invito farà davvero una totale consacrazione di se stesso a Gesù Cristo, al suo Sacratissimo Cuore. Egli avrà eletto davvero optimam partem, la parte migliore, cioè la migliore ricchezza, la migliore felicità, la migliore gloria, la migliore pace, quella pace che al dir di S. Paolo supera tutti i godimento sensibili: Pax Dei exsuperat omnem sensum, (Phil. IV, 7), quella pace che conforme al Salmista, non si perde per alcun inciampo: Pax multa diligentibus legem tuam, et non est illis scandalum; (CXVIII, 165) né per l’ingiustizia degli uomini,né per la perdita dei beni terreni, né per quella della sanità,della libertà, dell’onore, né per qualsiasi altro male del mondo che possa incorrere, quella pace insomma, che qui in terra è pregustazione dolcissima della pace che si godrà in cielo.

III. — Ma se bella è la pace in vita, più bella ancora è la pace a quel punto di morte, da cui dipende la eternità. Ah! miei cari. Dibattiamoci pur fin che vogliamo: facciamoci pure un nome grande nella politica, quella scienza, nell’arte, nell’industria nel commercio; sudiamo pure da mane a sera a conquistar tesori e raccogliamone anche dei mucchi smisurati; incoroniamoci pur di rose e inebriamoci di ogni piacere; con tutto ciò non varremo giammai e rattenere la vita. Essa va, essa corre, essa precipita e in un baleno si trova a quel giorno, in cui è giocoforza si estingua. E allora… quello è il giorno del conoscimento: In die cognitionis (Eccl., XXVIII VII, 9) il morente si trova ad un supremo convegno colla verità: ed alla luce che questa gli sfavillerà alla mente, lo sciagurato che è vissuto lontano dalla fede, dall’amore e dal servizio di Gesù Cristo, dovrà pure suo malgrado riconoscere lo sbaglio spaventoso che egli ha commesso. Egli non credeva a Gesù Cristo, non l’amava, avrebbe fatto per sempre senza di Lui … ed ora sta per presentarsi al suo divin tribunale, sta per essere colpito dall’ira sua. E come mai a questo pensiero non si sentirà schiantare l’anima dal petto! E che cosa gli gioverà ora l’essersi fatto un nome grande, anche come quello di Cesare o di Napoleone? l’essersi ingolfato in ogni sorta di godimenti, anche come un Tiberio nell’isola di Capri? l’aver ammassate tante ricchezze, anche come un Creso o un Saladino? Tutto ciò non gli gioverà ad altro che a rendere più triste e più agitato il suo passaggio dalla vita alla morte. Avrà un bel ricercare la pace, un beli’ invocarla a gran voce, ma indarno, perciocché non potrà sfuggire il tormento della sua mala coscienza. Tant’è: lo Spirito Santo lo ha detto, e la sua parola si va pur troppo ogni giorno avverando: Angustia surperviente, pacem requirente et non erit: conturbati!) super conturbationem veniet. (EZECH. VII, 25) Ben diversamente invece coloro che avranno creduto, amato e servito Gesù Cristo, che si saranno consacrati al suo Cuore Sacratissimo ed in Lui saranno vissuti, moriranno un giorno nella più bella pace: Iustorum animæ in manu Dei sunt; non tanget illos tormentum mortis  autem sunt in pace. (Sap. III, o) Il padre Suarez morì con tanta pace, che morendo giunse a dire: Non mi sarei mai creduto che fosse così dolce il morire. S. Luigi Gonzaga al ricevere l’annunzio della sua prossima morte, proruppe giubilando in quelle .parole del Salmo: Lætatus sum, in his, quæ dieta sunt mihi, in domum Domini ibimus. (CXXXI) S. Francesco di Assisi morendo cantava allegramente ed invitava gli altri al canto, tanta era la consolazione che provava. E l’invitto Cardinal Roffense condannato da Enrico VIII ad essere decollato, perché  non aveva voluto sottoscrivere alle sue ingiustizie ed empietà, uscì dalla prigione squallido, dimagrato e che stentava a dare un passo per la podagra. Ma a vista del ceppo su cui doveva lasciare il capo, riempitosi di brio e di gioia, buttato via il bastone disse: Suvvia, piedi miei, suvvia, fate bene il vostro ufficio, il Paradiso non è lontano. E prima di morire intonò il Te Deum. Ma non crediate da questi esempi che la pace in morte sia privilegio soltanto dei servi famosi di Gesù Cristo, no. Essa è propria di ogni Cristiano timorato, che assecondando la grazia di Dio, in qualsiasi condizione, in qualsiasi stato, in qualsiasi età abbia fatto quanto gli era concesso dalle suo deboli forze “per conoscere, amare e servire Gesù Cristo. È bensì vero, che questo cristiano, gettando lo sguardo sulla vita passata, vedrà egli pure dei giorni, dei mesi e forse degli anni senza Dio, senza fede, senza Cristianesimo, e tale vista dovrebbe riempirlo di amaritudine e di spavento. Ma se egli ricorda i suoi trascorsi, ricorda pure quel giorno sì bello, in cui tocco dalla grazia di Gesù Cristo ha detto con fermezza: Nunc cœpi! Ora comincio davvero ad essere quel che devo essere, buon Cristiano! Ricorda pure quelle lagrime di pentimento, colle quali a somiglianza di Pietro e di Maddalena ha lavato le sue colpe; ricorda pure quel distacco dalle cose terrene, in cui d’allora in poi è vissuto; ricorda quelle preghiere, quelle visite a Gesù in Sacramento, quelle Comunioni, quelle pratiche ad onore del Cuore di Gesù Cristo fatte ogni anno, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno… E a questi soavi ricordi gli pare di sentirsi a ripetere in fondo all’anima: Pax tecum: ego sum, noli timere: Pace, pace a te, mio amico fedele: sono io, Gesù Cristo, che te l’auguro, che te la voglio, che te la dono: non avere alcun timore: io ti ho perdonato, io più non ricordo le tue passate colpe, io non vedo più altro in te che gli anni della tua vita cristiana: pax, pax tecum! E pace gli darà Gesù Cristo pel sacerdote che verrà ancor una volta nel Sacramento della Penitenza ad assolverlo dalle sue colpe; pace gli darà nel Sacramento dell’Estrema Unzione, con cui gli toglierà dall’anima ogni avanzo di peccato; pace gli darà nel Sacramento dell’Eucaristia, per cui anche lì, sul letto di morte, Gesù Cristo verrà ad unire il suo Cuore adorabile al cuore del suo amante per accompagnarlo nel gran viaggio dal tempo all’eternità; pace nel Santo Crocifisso che bacerà con tutto il cuore sulle labbra; pace nell’immagine del Sacratissimo Cuore che gli starà appesa innanzi e gli ricorderà la divozione per esso avuta, pace negli stessi parenti Cristiani, che sebbene gravemente afflitti per la sua morte imminente, lo aiuteranno tuttavia coi loro santi suggerimenti a ben morire; pace insomma, giocondissima pace, sicché potrà ben ripetere col Santo re Davide: In pace idipsum dormiam et requiescam: (VI, 9) Io muoio in Dio, nel Cuore di Gesù Cristo, e muoio in pace. Ma non finisce lì la ricompensa della nostra vera e totale consacrazione al Cuore di Gesù Cristo. Se Egli ha promesso di portare in sé scritti i nomi de’ suoi devoti, non è in certa guisa, se non per ricordarli nel giorno della retribuzione, e dopo la pace in vita ed in morte donare agli stessi la pace del cielo. L’infelice, che vive lontano dalla fede, dall’amore e dal servizio di Gesù Cristo, comincia ora a menare giorni di angoscia e di agitazione; al termine della vita farà una morte piena di spavento; e poi… dopo morte cadrà nella disperazione eterna. La disperazione!… E che cosa è la disperazione se non la suprema convulsione di un’anima, che invoca la pace, ed a cui nessuno risponde, nemmeno la propria illusione? La disperazione eterna! E che cosa è questa eterna disperazione se non la eterna negazione della pace? Sventurato peccatore! Eccolo, lì per sempre a soffrire, per sempre in pianto, per sempre in rimorsi, per sempre in imprecazioni, in maledizioni, in lotta con se. stesso, per sempre senza pace. Ah! davvero che egli ha guadagnato assai nel fidarsi di sua ragione, nel vivere a suo capriccio. Ma, oh sorte al tutto contraria e felicissima di chi è vissuto nella fede, nell’amore e nel servizio di Gesù Cristo! Ricordando le tendenze della nostra natura, noi abbiamo conosciuto che l’uomo cerca e attende la felicità, che la vuole piena ed immutabile, quella sola che vale a saziarlo, che le viene dall’unico Vero, dall’unico Bene, dall’unico Necessario, da Dio. E sarà appunto questo il gran premio, che nell’altra vita toccherà a ohi avrà amato davvero Gesù Cristo e sarà vissuto consacrato al suo servizio. Ah! udite questa parola adorabile dello stesso Dio: Ego merces tua magna nimis; (Gen. XV, 1) Io stesso sarò la tua ricompensa: Io, senza immagini, senza velo, senza distanza, ma ricolmando d’ogni bene l’abisso de’ tuoi desideri, e donandoti perciò la pace suprema, che accheterà le voglie tutte della tua mento, del tuo cuore, della tua carne, di tutto il tuo essere: Ego merces tua magna nimis. Sì, lassù in cielo nell’ordine perfetto di tutto ciò che lo forma, nell’armonia ammirabile di tutti gli esseri che vi appartengono, nell’intimità dolcissima di tutti gli eletti e soprattutto nella visione incessante, nell’amore imperituro, nel possesso indefettibile di Dio, di Gesù Cristo, del suo Cuore Sacratissimo, fonte di ogni gaudio, il Cristiano che lo ha creduto, che lo ha amato, che lo ha servito in vita, godrà la pace senza fine. O pace ultima, o pace suprema, o pace inalterabile, o pace che cominci quaggiù nell’intelligenza per la fede alla parola di Gesù Cristo e discendi nel cuore per la pratica de’ suoi divini precetti, e circoli nelle nostre membra per la cristiana mortificazione, e ne consoli al punto di morte per la vita passata nel divin servizio, o pace che ti fai piena e perfetta in tutto il nostro essere e per tutta l’eternità lassù in cielo, tu sarai sempre il nostro ideale, la nostra mira, l’oggetto continuo delle nostre brame. È vero hl, noi dovremo interrompere vane amicizie, dovremo troncare relazioni peccaminose, dovremo vincere cattive abitudini, dovremo frenare impeti malvagi, dovremo scuoterci dalla nostra indifferenza, dovremo credere fermamente, dovremo operare in conformità alla nostra fede, dovremo praticare i doveri religiosi, pregare, confessarci, comunicarci, ascoltar Messa, frequentar la Chiesa, vivere insomma uniti a Gesù Cristo, nascosti nel suo Cuore Divino, ma tutto è poco per noi che siam risoluti di possederti in vita, in morte e in cielo! – Se è adunque così, o miei cari, non tardiamo più un istante a gettarci ai piedi di Gesù Cristo per fare al suo Cuore Sacratissimo la nostra Consacrazione. Vengano gli Angeli e i Santi del Paradiso ad essere testimoni del grande atto, che stiamo per compiere; venga Maria, la Madre Santissima di Gesù e nostra a darci il suo aiuto e la sua assistenza; venga Santa Margherita Alacoque, l’apostola della divozione al Sacro Cuore a suggerirci ella medesima la formula, con cui dobbiamo esprimere i nostri sentimenti ed i nostri propositi. Io intanto andrò innanzi a voi nel recitarla, parola per parola, e ciascuno di voi la ripeterà dopo di me a voce alta e con tutto l’affetto.

Formula di consacrazione al Divin Cuore

COMPOSTA DA SANTA MARGHERITA ALACOQUE

Io consacro e dono al santissimo Cuore del nostro Signore Gesù Cristo la mia persona, la mia vita, le mie pene, i miei patimenti, per dedicarmi in avvenire interamente alla sua gloria ed al suo amore. È mia ferma ed irrevocabile intenzione di darmi perfettamente a Lui, di compiere ogni cosa per amor suo, e con tutta l’anima mia rinunziare a quanto può dispiacere a questo Divin Cuore. – Perciò io Vi eleggo, o Sacratissimo Cuor di Gesù, ad unico oggetto del mio amore, a sostegno della vita mia, a sicurezza della mia salute, ad appoggio della mia debolezza. O Cuore della bontà e della mansuetudine, siate Voi il mio sicuro rifugio anche nell’ora della morte, siate Voi la mia giustificazione innanzi a Dio, e da me allontanate i castighi della giusta sua collera. O Cuore di amore, io ripongo in Voi tutta la mia speranza. Dalla mia malizia io temo tutto, dalla vostra bontà tutto io spero. Togliete da me quanto Vi dispiace, e quanto Vi è contrario. Imprimete così profondamente nel mio cuore l’amor vostro, che non mai Vi dimentichi, non mai da Voi ini separi. O Divin Cuore, io Vi scongiuro per l’infinita vostra bontà, che il mio nome sia scritto dentro di Voi, poiché nel vostro servizio io voglio vivere e morire. Così sia.

SACRO CUORE DI GESÙ (32): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA MORTE

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

DISCORSO XXXII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua morte.

Vi ha una specie di morte, che il mondo grandemente ammira e per la quale non di raro nutre sentimenti di invidia: è la morte dell’eroe. Oh sì! il soldato, che ha compreso il gran dovere di esporre, se è necessario, la propria vita per la salvezza della patria, il soldato che nel dì della battaglia, nel furor della mischia, dopo di avere strenuamente combattuto, atterrando un gran numero di nemici, alfine cade ancor egli colpito da una palla improvvisa è un eroe, che muore di una morte degna di ammirazione e di gloria. Tuttavia vi ha un’altra specie di morte, che le Sacre Scritture apprezzano anche maggiormente e dichiarano preziosa, non già al cospetto del mondo soltanto, ma al cospetto dello stesso Dio: è la morte dei santi Pretiosa in conspectu Domini mors Sanctorum eius. (Ps. CXV) E ben a ragione! Perciocché la morte dei santi non è solamente un atto isolato di eroismo, ispirato dall’amore della patria terrena, ma è il coronamento finale di una serie lunghissima di atti eroici, compiuti nell’esercizio delle più eroiche virtù, ed inspirato dall’amore stesso di Dio e della patria celeste. Ma pure nella storia del mondo vi ha una morte, infinitamente superiore, non solo a quella degli eroi, ma anche a quella dei santi, ed è la morte di un Dio. Sì o miei cari, se tutte le morti degli uomini, per quanto belle e preziose, rivelano l’umanità, la morte di Gesù Cristo rivela la divinità; la rivela nella sua sapienza, e nella sua potenza, giacché è solo la sapienza di un Dio che poteva scegliere una morte così ignominiosa, ed è solo la sua potenza che poteva accompagnarla con tanti e sì strepitosi miracoli: ma la rivela soprattutto nella sua carità, perché è solamente l’amore di un Dio per gli uomini, che poteva spingere Gesù Cristo a sacrificarsi in tal guisa per essi. Amore, amore di Dio per l’uomo, ecco il carattere supremo, che manifesta la morte di Gesù Cristo morte di un Dio, e che la pone al disopra delle morti anche più sublimi e più ammirande di tutti gli eroi e di tutti i santi: Christus dilexit nos et tradidit semetipsum prò nobis! Che anzi essendo giunto ormai per Gesù Cristo quel tempo funestissimo, che Egli aveva chiamato « l’ora sua » e stando per consumare del tutto il grande mistero della sua umiliazione, come lo chiama S. Paolo, quando dice che « Gesù Cristo si è umiliato sino alla morte e morte di croce; » la sua carità infinita per noi si dava a conoscere nella sua massima vivezza, nella sua estrema tenerezza, nella sua somma ed immensa generosità: Cum dilexisset suos, in finem, dilexit eos. E d in vero se, come già abbiamo considerato ieri, Gesù Cristo, confitto sopra della croce, in mezzo a due ladroni, attorniato da un popolaccio, che lo insulta e lo bestemmia, affogato in un mar di tormenti, dimentica del tutto se stesso per non pensare che a noi e darci prove supreme del suo amore; e in quelle tre sue parole, che abbiamo ricordate, egli ha implorato perdono per i poveri peccatori, ha assicurato il paradiso ai veri penitenti ed ha animato tutti a non mai abbandonarlo, nelle tre ultime parole che ha pronunziato prima di esalare l’ultimo respiro, e che considereremo oggi, Egli mostrando una sete ardente della nostra salute, ci ha animati a compierne la grande opera.

I. — Sembrava che ornai al Divin Redentore e Maestro più nulla rimanesse a dire, più nulla a fare per noi. Già ci aveva assicurato il perdono dei nostri peccati, ci avea promesso il paradiso, ci aveva donata per madre la sua Madre istessa Maria e ci aveva animati a non mai abbandonarlo: che altro dunque gli restava a dire? che altro gli restava a fare? Lo stesso S. Giovanni osserva, che Gesù Cristo dopo di avere pronunziate le sue prime quattro parole vide che tutte le profezie a suo riguardo erano state compiute; Sciens Iesus quia omnia consummata sunt. (Io. XXI, 28) Tuttavia intorno alla sua morte vi era ancora una piccola circostanza, che i profeti pur avevan predetto e che ancora non si era compiuta; la circostanza cioè che egli avrebbe avuto sete e che allora lo avrebbero abbeverato di aceto: In siti mea potaverunt me aceto. (Ps. LXVIII) E nemmeno questa circostanza, per quanto possa parere da poco, doveva lasciare di avverarsi; anche qui la divina Scrittura doveva avere il suo compimento: Ut consummaretur Scriptum. (Io. XIX, 28) E lo ebbe. Il benedetto Gesù, condotto da questo a quel tribunale, orribilmente flagellato, coronato di spine, obbligato a portare sopra le sue spalle la croce, e sopra di essa inchiodato, si trovava mai colle vene vuote di sangue, sommamente affaticato e con un’arsura sì terribile, che secondo la profezia, il suo vigore era inaridito come un vaso di creta esposto al fuoco, e la sua lingua stava attaccata alle fauci: Aruit tamquam testa virtus mea, adhæsit lingua mea faucibus meis. (Ps. XXI) Chi può dunque immaginare la sete che aveva il divin Redentore ed il travaglio acerbissimo che perciò ne provava? Lo spasimo della sete è senza dubbio uno dei più crudeli tormenti, a cui possa essere assoggettata la nostra natura. La povera Agar vedendo che ella e il suo Ismaele stavano per venir meno dalla sete, dava nelle smanie più affannose. Sansone, dopo di aver ucciso mille Filistei, travagliato dalla sete gridava: Io muoio, io muoio. Un intero esercito, come narra Quinto Curzio, anziché sopportare più a lungo le agonie della sete; preferì di bere nel deserto delle acque avvelenate dal nemico e morire. Il ricco Epulone, sepolto nell’inferno, secondo la divina parabola, non d’altra cosa supplicava il padre Abramo che di mandare laggiù Lazzaro, il quale intinta nell’acqua la punta del dito gliene lasciasse cadere una goccia sola sulle aride labbra. Tale adunque essendo il tormento della sete, e da questo tormento essendo pur assalito Gesù Cristo, affinché quelle sole parti del corpo che non erano state ferite, non lasciassero tuttavia di avere il loro martirio, gridò ancora dall’alto della croce: Sitio! (Io. XIX, 28): ho sete! Ah! che a questo grido avrebbe dovuto commuoversi il cielo, ed esso che versa copiosamente piogge e rugiade per fecondare la terra, per dar vita alle piante ed ai fiori, per rinverdire i prati e i campi, avrebbe pur dovuto lasciar cadere alcune stille d’acqua sulle labbra di Gesù Cristo! A questo grido avrebbe pur dovuto commuoversi la terra, ed essa che si aperse nella solitudine di Bersabea per ristorare il giovanetto Ismaele; che si spaccò nel deserto per soccorrere il popolo giudeo, che tante volte lasciò sgorgare delle fonti prodigiose per la salute degli uomini, avrebbe pur dovuto aprirsi per farne uscir fuori una fonte di refrigerio all’assetato Gesù! A questo grido avrebbero dovuto commuoversi quegli stessi Giudei che stavano attorno alla croce, e ponendo fine agli oltraggi ed ai martirii, che usavano contro di lui, per non essere più feroci di una tigre avrebbero dovuto porgergli tosto un poco di acqua per dissetarlo. Ma no ! né il cielo né la terra, né gli uomini si commuovono a questo grido di Gesù Cristo; che anzi i suoi nemici ne pigliano argomento per incrudelire contro di Lui ancor una volta. Ed in vero uno de’ suoi più barbari crocifissori, all’udire che Egli era tormentato dalla sete, prende in fretta una spugna, la infonde in un vaso pieno di aceto,, che secondo l’uso, ma più ancora per disposizione divina, là si trovava, ed impregnatala ben bene di quell’aspro umore, la colloca sulla punta di una canna insieme con un po’ d’erba di amarissimo isopo, gliel’avvicina alla bocca. Oh crudeltà inaudita! oh barbarie senza esempio! A questo caro Gesù, cui non resta più altro che esalare l’estremo fiato nel martirio terribile della croce, non solo si nega un po’ di acqua, ma a tormentarlo maggiormente gli si dà a bere dell’asprissimo aceto? Eppure Gesù stende a quella spugna le arse sue labbra e succhia e prende di quell’aceto, che gli viene offerto: Curri accepisset acetum. (Io. XIX, 30) E così si adempiva alla lettera la sovradetta profezia: Et in siti mea potaverunt me aceto. Ma prendendo di quell’aceto il nostro divin Redentore non lo fece unicamente per adempiere una profezia e per ristorare l’arsura della sua lingua, ma lo fece altresì per compiere in nostro vantaggio un mistero di amore. Non potendo egli prendere realmente sopra di sé l’agrezza delle nostre impazienze, dei nostri astii, dei nostri rancori, la prese nel simbolo dell’aceto e si dispose in quella vece a trasfondere nel cuor nostro la dolcezza della sua grazia. E quello che dice S. Ambrogio: Bibit Christus amaritudinem meam, ut mihi refunderet suavitatem gratiæ suæ!(Cristo ha bevuto la mia amarezza per darmi la soavità della sua grazia). Tuttavia, o miei cari, coll’avere Gesù manifestata la sua sete non ha voluto soltanto darci questa prova di amore, ma ha voluto darcene un’altra assai più grande, manifestando altresì e più di tutto la sete ardente di nostra salute. Un giorno, durante le sue pellegrinazioni nella Palestina, Gesù, stanco dal viaggio, si fermava presso ad un pozzo di Sichar. Egli che nulla faceva a caso, ma tutto dirigeva a nobilissimo fine, stava là attendendo che venisse ad attingere acqua una povera peccatrice. E la Samaritana venne, e s’intese a dire da Gesù: Donna, dammi un po’ da bere: Mulier, da mihi bibere. (Io. IV, 7) Ma non è già, osserva S. Agostino, che con quella domanda ricercasse da quella povera donna dell’acqua, ma bensì la sua fede e la conversione dell’anima sua. Or bene, la stessa sete, che Gesù manifestò alla Samaritana, è pur quella sete, che come Dio avendo avuto da tutta l’eternità, e come uomo avendo. cominciato a provare fino dal primo istante del suo concepimento, per somma convenienza di tempo e di luogo manifestò morente su della croce; è pur quella sete, che tuttora sul trono della sua gloria, tra gli splendori dei santi, nella sua felicità infinita continua a sentire per tutti gli uomini. – Sì, anche ora dall’alto dei cieli continua a ripetere: « Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o poveri popoli, che ancor giacete nelle tenebre e nelle ombre di morte: deh! Arrendetevi alla predicazione del Vangelo, che vi vanno facendo i miei Apostoli, abbracciate la mia fede, seguite la mia legge e salvatevi. Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o scismatici ed eretici, che vi siete staccati dalla mia Chiesa e vivete negli errori: deh! aprite una buona volta gli occhi vostri alla luce di verità, che vado facendovi balenare dinnanzi, rientrate nel mio ovile a far parte del mio gregge, sotto la guida del vero Pastore, e salvatevi. Sitio: ho sete. Ho sete delle vostre anime, o Cristiani Cattolici, che, pur professando di nome la mia fede e la mia legge, non la professate tuttavia di fatto, vivendo nell’indifferenza, nella colpa e persino nella incredulità: deh! ascoltate la voce de’ miei ministri, che vi invitano alla penitenza, assecondate quelle ispirazioni, che vi mando al cuore, togliete dal vostro animo quei timori, quelle pene, quei disgusti, onde vado amareggiando la vostra colpevole felicità, spegnete del tutto quei rimorsi, che fo sentire alla vostra coscienza, ritornate pentiti al mio seno, e salvatevi. » È a queste voci amorose, con cui Gesù Cristo continua a manifestare tuttora la sete della nostra salute, qual è la risposta, che si dà dagli uomini? Ahimè, che molti tra i gentili si ostinano nel loro culto a satana, e proseguono tuttavia a rifiutarsi di abbracciare la fede di Gesù Cristo e coll’odio ai missionari, colle persecuzioni atroci con cui si scagliano contro di essi, col sangue che ne vanno spargendo-costringono lo stesso Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che asprissimo aceto. Ahimè che molti tra gli eretici e tra gli scismatici stanno fermi nella loro avversione alla vera Chiesa e negli errori che professano non ostante gli esempi ammirabili di tanti loro confratelli, che nella loro patria, nella loro stessa famiglia si convertono, e continuando a vivere nella loro superbia e diserzione costringono essi pture Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che asprissimo aceto. Ahimè ancora, che molti Cristiani Cattolici perseverando nella loro indifferenza, nelle loro colpe e nella loro incredulità, e molti altri non danno altro a Dio che qualche preghiera fatta con distrazione, qualche atto di religione compiuto per ipocrisia, qualche elemosina distribuita per vanità, qualche messa ascoltata per costumanza, qualche confessione fatta senza dolore, qualche comunione ricevuta per umani interessi, e pur mantenendo nel cuore l’affetto al peccato, ai piaceri disonesti, ai vizi, alle turpitudini, e l’odio e le inimicizie col prossimo, e l’attacco al denaro e la bramosia degli onori, costringono ancor essi Gesù a ripetere: In siti mea potaverunt me aceto: nella mia sete non mi diedero altro che aceto. E noi, o miei cari, che faremo, che risponderemo a Gesù che ci dice: Sitio: ho sete? Ahi mio amato Gesù, mio Salvatore e mio Dio, se io mi incontrassi in un uomo che non conosco, e che stando per morire mi chiedesse da bere, mi rifiuterei forse di dargliene? Ed avrò ancora l’ardire di negar da bere a voi? No, no, o Gesù amantissimo. Per estinguere la sete misteriosa che vi tormenta, voi volete l’anima mia; prendetela, è cosa vostra. Io sono pieno di commozione e di angoscia nel vedervi soffrir tanto nel vostro sì prolungato supplizio, e san certo che questo popolo che mi circonda divide con me gli stessi sentimenti. Prendete adunque tutte le anime nostre, dacché ne avete sete; fatele entrare nel vostro Cuore adorabile e dateci persino la grazia di potere ancor noi, sul vostro esempio, sentir sete delle anime. Sì, che tutti e ciascuno .di noi andiamo ripetendo efficacemente: Sitio, ho sete dell’anima di mio padre e di mia madre; ho sete dell’anima dello sposo; ho sete dall’anima dei figliuoli; ho sete dell’anima dei fratelli; ho sete dell’anima degli amici; ho sete dell’anima dei poveri peccatori: ho sete, ho sete, ho sete : Sitio, sitio, sitio!

II. — Ma l’ultimo istante si avvicina. Maria, sorretta da S. Giovanni, ha gli occhi fissi sul figlio morente; Maddalena disfacendosi in lacrime se ne sta inginocchiata ed abbracciata alla croce, e Gesù benedetto ha tutto il suo corpo adorabile inondato di un freddo sudore. Ma sebbene vicino a trarre l’ultimo respiro, la sua mente è placida e serena. E con tale placidezza e serenità percorrendo tutti i secoli passati e futuri, vede che tutto è compiuto per gli uni e per gli altri, che il suo sacrifizio è ormai giunto alla perfezione e la sua grande opera di salute è terminata. Ora, non vi ha alcuno, che giunto al termine di difficile e gravosa impresa non n’esprima in qualche modo la soddisfazione e la compiacenza, come non v’ha alcuno che giunto al termine delle sue pene non tragga un sospiro di consolazione e di gioia. Il capitano che ha sconfitto il nemico, nel rimettere entro il fodero la spada sanguinosa, dice esultante in suo cuore: Ho vinto, ho compiuto il mio trionfo. Il pellegrino, che tocca le soglie della patria amata, ripete giulivo: Son giunto, ecco la mèta del mio cammino. L’artefice, che ha dato l’ultimo tocco al suo lavoro, esclama: Ho finito, ecco condotto a perfezione la mia opera. Il carcerato che sente spezzarsi i suoi ceppi e vede aprirsi la porta della sua prigione per riavere la libertà; la vittima infelice della calunnia, che, riconosciuta alfine innocente, riacquista il suo onore ed i suoi beni, respirano dalle subite oppressioni, ed esclamano ancor essi: È finita quella vita sventurata! Non altrimenti fece il divin Redentore, e poiché, dice S. Giovanni, ebbe preso l’aceto che gli fu offerto, gridò: Tutto è consumato: Cum accepisset acetum, dixit: « Consummatum est. » Sì, per Gesù tutto èveramente, interamente, perfettamente consumato. Consummatum est, è consumata, adempiuta la volontà del Divin Padre, che volle la sua Incarnazione, la sua vita di trentatrè anni passata nel lavoro, nell’oscurità, nei travagli e nelle persecuzioni ed il termine di essa con una morte ignominiosa e crudele. Questo comando, benché ampio e difficile, è stato eseguito esattamente, in tutte le parti più minute: Omnis consummationis vidi finem; latum mandatum tuum nimis. (Ps. CXVIII). – L’umiliazione richiesta a cagion del peccato è giunta sino al suo profondo abisso: ed ora é compiuta: Consummatum est! Tutto è consumato, vale a dire tutto quello che è stato scritto e figurato del Messia ha ricevuto il suo compimento: tatto quello che è stato predetto dai Profeti, rappresentato dai grandi personaggi, simboleggiato dai segni, tutto si è ormai realizzato. Il figlio della donna ha schiacciato la testa dell’infernale serpente; il Desiderato delle genti è venuto quando lo scettro era caduto dalle Mani di Giuda; il vero Piglio di Davide è comparso a rialzare l’onore della sua casa; la Sapienza divina si è incarnata ed è stata veramente l’Emanuele, Dio con noi; il profeta e il taumaturgo più grande di Mosè ha fatto udire fra le genti la sua celeste dottrina e l’ha confermata coi più strepitosi miracoli; il vero Davide ha sostenuto gl’insulti e le calunnie de’ suoi più fieri nemici, il vero Giuseppe è stato tradito e venduto per trenta danari, il vero Isacco ha portato Egli stesso il legno del sacrifizio sulla cima del monte, il vero Agnello senza macchia, caricato dei peccati di tutti gli uomini è stato condotto all’uccisione, il vero serpente di bronzo, sola medicina al piagato Israele è stato innalzato sull’albero della croce, il vero Abele sta per cadere estinto, il vero Sansone sta per morire trionfando de’ suoi nemici: Consummatum est. – Tutto è compiuto, vale a dire il sacrifizio della nuova legge, che da solo doveva bastare a riparare tutti i mali, ed apportare tutti i beni, a convertire tutti i peccatori, a santificare tutti i giusti, è fatto; la sentenza di dannazione fu cancellata e così appesa alla croce; la legge di grazia fu sostituita alla legge di terrore, l’uomo fu riconciliato con Dio, fu chiuso l’inferno, fu aperto il cielo, furono vinti i demoni, fu meritata la grazia agli uomini, la Religione cristiana fu fondata, la gran casa di Dio, la Chiesa Cattolica, fu innalzata sopra incrollabile base, la terra fu fecondata e resa atta a produrre fiori eletti di virtù; qui da queste fonti già partono i sacramenti, come fiumi di sangue divino a fertilizzare il mondo e a farlo germinare in ogni luogo e in ogni tempo degli Apostoli, dei Martiri, dei Vergini, dei penitenti, dei Santi, a medicare le piaghe della povera umanità, a recar loro la benedizione e la vita:

Consummatum est. Tutto è compiuto, vale a dire ancora, ogni cosa fu condotta alla sua ultima perfezione, per modo che più nulla, veramente più nulla rimane da fare a Gesù Cristo prima di morire; più nulla gli rimane da patire, le sue acerbissime pene devono aver fine, quanto prima deve cominciare la sua vita di gioia, di gloria, di trionfo immortale, consummatum est! E dove il tutto si è compiuto? Sulla croco, che di infame patibolo diventerà d’ora innanzi strumento di potenza, simbolo di fortezza, vessillo di vittoria: sulla croce, che, inalberata un giorno dal gran Costantino sulle alture di Roma, manderà in polvere gl’idoli infami, farà crollare i templi pagani, porrà termine a bestiali costumi, romperà le catene degli schiavi, mostrerà l’eguaglianza, la fratellanza, la vera libertà; sulla croce che farà sante le nozze, mitigherà la podestà dei mariti e dei padri, apprenderà a tutti l’utilità, la necessità e l’eroismo del patire, sulla croce che divenuta stendardo e speranza dei popoli o sulle spiagge dei mari, o nel cuore delle foreste, o sulle porte delle metropoli arretrerà le barbarie, dileguerà le superstizioni, sfavillerà la luce del vero; sulla croce dinanzi alla quale ogni popolo, ogni regno, ogni nazione, ogni età, ogni stato, ogni sesso, ogni condizione: re e sudditi, nobili e abbietti ricchi e poveri, padroni e servi, dotti e idioti chineranno rispettosa la. fronte; sulla croce divenuta conforto del debole e dell’afflitto, rifugio dell’oppresso e del languente, consolazione della vedova e dell’orfano, refrigerio dell’infermo e del morente, ombra tutelare delle spoglie dei trapassati! Sulla croce, sì, sulla croce… tutto è compiuto, consummatum est. Ma ahi pensiero funesto! ahi vergognosa contraddizione! Perciocché a che giova, o miei cari, che Gesù Cristo abbia per parte sua compiuto tutto ciò che era necessario alla nostra eterna salute, se noi forse da parte nostra non l’abbiamo neppur cominciato? I migliori anni della nostra vita sono trascorsi: noi abbiamo faticato tanto per procacciarci anche non troppo onestamente delle ricchezze, abbiamo tanto sudato per farci un nome grande e riempirci di fumo, abbiamo logorato la sanità per accontentare le nostre passioni, abbiamo gittate insomma la nostra vita per perderci, e nulla, forse meno che nulla abbiamo fatto per salvarci. E quando facciamo conto di pronunziare una volta la gran parola: Nunc cœpi? Ora comincio? Quando ci risolveremo davvero di por fine ad una vita di peccato per cominciare una vita di santificazione? Ci lusinghiamo forse di dover campare cent’anni? E non ci può cogliere da un momento all’altro quella notte di sterili desideri, di inutili rimpianti, in cui più nessuno può operare? E quando pure avessimo a vivere la vita dei più longevi patriarchi, vorremmo continuare così scientemente a disprezzare Iddio, Gesù Cristo, il suo sacrifizio, la sua grazia! E pretenderemmo al termine di una vita scellerata, nel momento stesso cita sta per cominciare l’eternità, aborrire il vizio, praticare la virtù, riparare gli scandali, rifare le confessioni mal fatte, correggere le ingiustizie, troncare gli attacchi, far tutto insomma ciò che appena si può fare in molti anni di vita? Ah! ciò che più facilmente potrebbe accaderci allora sarebbe di gettare lo sguardo sopra la nostra vita passata del tutto nella colpa e coll’accento del rammarico, e Dio non voglia, con quello della disperazione, andar anche noi ripetendo: Consummatum est! Consummatum est! Ahimè, che tutto è finito. Son finiti i piaceri, gli onori, le ricchezze, i divertimenti, i balli, i teatri, i conviti, il lusso, tutto è finito. E che mi resta di tutto ciò? Nient’altro che il rimorso. Ah miserabile che fui! non mi sono attaccato che ai beni del corpo e del tempo, ma ora il tempo è passato, il corpo si dissolve e non mi rimane che l’anima e l’eternità! Dio mio! Dio mio! Tutto è finito! Tutto è finito! Consummatum est! Ah! miei cari, se non vogliamo andar incontro ad una fine così spaventosa, cominciamo senz’altro ad operare il bene. E poiché il buon Gesù nulla tralasciò di fare da parte sua per condurci a salvezza, deh mettiamoci anche noi a compiere la parte nostra per ottenere davvero quel regno che egli a sì caro prezzo ci ha ricomprato. Rammentiamoci bene, che questo regno patisce forza, e che i violenti soli lo rapiscono. Sia dunque fine alla nostra freddezza, alla nostra indifferenza, alla nostra codardia. Convertiamoci tosto e diamoci subito a vivere da veri Cristiani, combattendo da forti ogni difficoltà che a ciò si frapponga; vinciamo ogni umano riguardo, confessiamo e pratichiamo coraggiosamente la nostra fede e la nostra legge dinanzi a tutti e à costo di qualunque sfregio; ed allora potremo ancor noi al punto estremo della vita ripetere con vera soddisfazione, con vera gioia: Consummatum est: tutto è compiuto: ho consumato il mio corso, ho serbata la mia fede, altro non mi rimane che ricevere la corona di giustizia, quella corona che Iddio giusto giudice mi darà nel gran giorno per l’eternità: Cursum consummavi, fidem servavi, in reliquo reposita est mihi corona iustitiæ, quam reddet mihi Dominus in illa die iustus iudex. (II Tim, IV, 7).

III. — Ma ecco che Gesù è giunto all’estremo sfinimento. Già cominciano a mancare le forze ; già il sangue non esce più dalle ferite che a stilla a stilla, già si avanza silenziosa la morte, già è pronta per dargli l’ultimo colpo. Ma sebbene Gesù nella sua carne sia arrivato a questo estremo di debolezza, nel suo spirito conserva tutta la gagliardia e la forza, della quale valendosi manda un nuovo altissimo grido, che lo manifesta Dio, perciocché mentre noi uomini in sul morire perdiamo la voce, Egli che è Dio, sul punto stesso di morire la conserva e la innalza come gli piace. E che esprime egli mai con questo grido? Padre, dice Egli, nelle tue mani raccomando il mio spirto: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. (Lue. XXIII, 40) Oh tenere parole! Oh parole sublimi! Oh parole preziosissime! Con queste parole, che Gesù pronuncia colla testa sollevata e cogli occhi rivolti al cielo, chiamando Dio non più col nome augusto e terribile di Dio, come aveva fatto poco innanzi, ina col nome dolcissimo di Padre, si dichiara sino all’ultimo per suo divin Figliuolo; e rimettendo nelle mani di Lui il suo spirito rivela la pienezza di confidenza, la uguaglianza di potere, la infinità di amore, che tra di loro esiste. Padre, voleva dire, quando senza lasciar la tua destra, Io discesi in terra e presi questa vita mortale, di pieno accordo fra noi si stabiliva che Io la dessi per la salute del mondo; ed essendo giunto l’istante di adempire questo nostro accordo divino, Io lascio che la morte venga a togliermi la vita separando lo spirito dal mio corpo; e poiché il mio corpo su questa croce, già tutto te l’ho offerto, a rendere perfetto il sacrificio ti offro ancora il mio spirito e lo depongo nelle tue mani: Pater, in manus tua commendo spiritum meum. – Ma certamente non è questo solo che Gesù Cristo ha voluto significare con questa così bella parola. Come in tutte le altre precedenti ha voluto darci sempre altrettante prove di amore, così ha voluto fare in questa. Epperò, siccome nella penultima parola ci ha efficacemente animati a consumare l’opera della nostra santificazione, con questa ultima ha voluto metterci chiaramente d’innanzi il premio che a tal fine ci riserba, una morte cioè in cui il nostro spirito sarà consegnato nelle mani di Dio. Perciocché, dice S. Atanasio, raccomandando Egli il suo spirito al suo Divin Padre, intese particolarmente di raccomandargli al punto di morte tutti gli uomini che per la bontà della vita avrebbero appartenuto non solo al suo Corpo, ma eziandio al suo Spirito. – Animo adunque, o veri Cristiani, che col vero amore di Gesù Cristo, colla imitazione fedele delle sue virtù, coll’esecuzione costante de’ suoi precetti ed insegnamenti, formate con Lui uno stesso spirito. Giungerà pure per voi l’estremo istante della vita; ma all’avvicinarsi di quel momento, da cui dipende la eternità, di quel momento in cui il demonio, sapendo che gli rimane poco tempo, discenderà con grande ira a darvi l’ultimo assalto, di quel momento in cui dovrete separarvi da tutto e non vi resterà più nelle mani che un santo Crocifisso, voi non avrete a temere, perché colla sua estrema preghiera siete stati raccomandati da Gesù Cristo al suo divin Padre, siete stati deposti nelle sue braccia, siete stati affidati al suo amore. Ei fu lo stesso come se avesse detto: Padre, rimetto nelle tue mani lo spirito dei giusti, essi mi appartengono, sono miei veri fratelli, hanno vissuto della mia vita, hanno formato con me una cosa sola; voglio adunque o Padre che dove sono Io, ivi siano i miei servi, i miei ministri fedeli: Volo, pater, ut ubi ego gum, illic sii et minister meus. (Io. XII, 26) Deh! Accogli il loro spirito, abbraccialo, serralo al tuo cuore come lo spirito mio: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Oh bontà, oh amore di Gesù Cristo per noi! Ma avremo noi, o miei cari, avremo noi la bella sorte di essere nel novero di questi giusti che muoiono placidamente addormentando il loro spirito nelle mani del Signore? Certamente nessuno degli uomini conosce la fine della sua vita: Nescit homo finem suum (Eccl. IX, 12) Ma è pur vero tuttavia che per mezzo delle buone opere possiamo rendere sicura la nostra vocazione ed elezione al cielo. Su, adunque, uniamoci del tutto a nostro Signor Gesù Cristo, uniamoci nei pensieri, negli affetti, nei sentimenti, nelle parole, nelle opere, aderiamo a Lui interamente, e giacché colui che aderisce a Dio diviene di un solo spirito con Lui: qui adhæret Deo unius spiritus est, (I Cor. VI) potremo così avere certa fiducia di pronunciare anche noi al termine della vita, non solo con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, ma per la bocca istessa di Gesù Cristo: Pater, in manus tuas commendo spiritum meum. Ben cara adunque, ben preziosa, ben consolante è quest’ultima parola pronunciata sulla croce dal divin Redentore. Con essa non ha posto termine soltanto alla sua mortal carriera, ma nel suo infinito amore per noi ha messo ancora a noi innanzi il magnifico premio, la dolcissima morte che coronerà una santa vita! Ma poiché Egli l’ebbe pronunziata, con un estremo atto che l’indicava padrone supremo della vita e della morte, chinò dolcemente sul petto il suo divin capo. Et inclinato capite. (Io. XIX, 30) Oh misterioso chinar del capo! Ancor una volta con esso esprime la sua totale ubbidienza al suo divin Padre, la intera sommissione alla sua volontà; obediens usque ad mortem, mortem autem crucis; (Philipp, II, 8) ancor una volta con esso dimostra a noi quanto brami che a Lui ci appressiamo, chiamandoci, invitandoci, attirandoci a gettarci tra le sue braccia, al suo seno, nel suo amorosissimo Cuore. Ancor una volta con esso chiama la morte; che ritrosa non osava di avvicinarsi, e la incoraggia, e la provoca a venire, e a quest’ultima chiamata la morte viene e mena il colpo fatale. Ahi! che il cielo si fa più oscuro, la terra trema, le rocce si spezzano, le tombe si aprono, le pallide ombre ne escono gemendo, il velo del tempio si squarcia in due parti, gli angeli della pace piangono amaramente, le sante donne svengono, la moltitudine tremante e pentita si picchia il petto, Giovanni dà in iscoppio di pianto, Maria rimane come impietrita! Che è accaduto? Ah, l’ultima fiamma d’amore, che doveva consumar Gesù Cristo, è divampata. Gesù è impallidito, ha chiuso gli occhi, ha versato ancor una lagrima, ha dato ancor un sospiro di carità ed è morto: Et inclinato capite tradidit spiritum. (Io. XIX, 9). Gesù adunque è morto, ed è la carità infinita del Cuor suo che l’ha ucciso! In hoc apparuit charitas Dei in nobis. (Io. iv, 9) E chi mai al mondo, o padre, o sviscerato amico, è giunto a farsi uccidere per amor del figlio o dell’amico? Se mai vi fosso stato, per attestazione medesima di Gesù, egli avrebbe dato prova del più grande amore: Maiorem dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis prò amicis suis. (Io. XV, 13) Ma Gesù Cristo è morto per amore di noi, che non eravamo suoi amici, ma suoi nemici a cagione del peccato. Oh carità infinita! oh amore senza pari e senza misura! Ben avevano ragione Mosè ed Elia discorrendone con Lui sul monte Tabor di chiamarlo un amore eccessivo: Dicebant excessum eius. (S. Luc. IX, 31). E dinnanzi a tanto eccesso di carità potremo noi, o miei cari, mostrarci indifferenti, insensibili? Gli stessi feroci crocifissori del divin Nazareno al funereo spettacolo della morte di Gesù, conobbero alla fine il loro gravissimo errore, e discendendo dal monte insanguinato si percuotevano il petto ed esclamavano: Vere Filius Dei erat iste! E noi avremmo assistito a quest’Agonia e Morte acerbissima senza aver provato nell’animo un sentimento di commozione, senza aver concepito un pensiero di piangere le nostre colpe e di riformare la nostra vita? Oseremmo forse noi di credere di non aver avuto parte alla morte di Gesù? Oseremmo, stendendo la mano sopra l’affranto suo cadavere, oseremmo giurare che noi non siamo colpevoli? Ah! no che noi possiamo! Quella testa insanguinata dalle spine, quella fronte imperlata di freddo sudore, quel volto impallidito e pendente, quelle labbra violacee e stirate, quelle mani e quei piedi traforati dai chiodi, quel corpo ignudo, straziato, inanimato è l’opera nostra, è il nostro delitto. E dunque resteremo noi col cuore di sasso? Ah no! che tanta non è la nostra durezza. Eccoci, o caro Gesù ai vostri piedi, umiliati e piangenti. Vi adoriamo umilmente come nostro Dio e nostro redentore. Ammiriamo l’infinita vostra carità e misericordia, che vi ha spinto a morire per noi miserabili peccatori fra i più atroci tormenti, e vi ringraziamo senza fine di un beneficio così immenso! Ah! che queste pene e questa morte è a noi che erano dovute. E poiché voi le voleste subire in vece nostra, dateci ora altresì la grazia di pentirci dei maledetti peccati che ve l’hanno cagionate. Sì, perdono, o Gesù, perdono e pietà! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che finora non vi hanno creduto, e che per eccesso di malvagità vi hanno combattuto e bestemmiato, perdono. Perdono e pietà di coloro tra di noi, che interessati unicamente delle cose del mondo, del denaro, dell’onore e del piacere vi hanno dimenticato e messo da parte, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che sposi e genitori vi hanno disprezzato colle loro infedeltà e cogli scandali che hanno dato ai loro figli, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che nel fiore della gioventù vi hanno insultato col darsi in preda alle turpi passioni e col seguire ciecamente le più ree dottrine, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che maestri, professori e scrittori, vi hanno ferito nella pupilla degli occhi, corrompendo la povera gioventù coi loro abbietti insegnamenti e coi sarcasmi sacrileghi contro la vostra fede, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che ricchi, potenti e magistrati vi hanno conculcato colle ingiustizie, coi furti, colle oppressioni, colle persecuzioni, cogli oltraggi alla cristiana libertà, perdono! Perdono e pietà di coloro tra di noi, che sacerdoti e religiosi vi hanno disonorato con una vita indegna della loro grandezza e colla loro negligenza hanno rattenuto l’impeto della vostra misericordia sopra gli uomini, perdono! Gesù, Crocifisso nostro bene, noi ci rifugiamo nel vostro Cuore Sacratissimo, e d’ora innanzi non ce ne dipartiremo più mai. Ma voi usateci pietà, dateci il perdono. Perdono e pietà! pietà e perdono!

SACRO CUORE DI GESÙ (31): IL SACRO CUORE DI GESÙ E LA SUA ESTREMA AGONIA

[A. Carmignola: Il sacro Cuore di Gesù; S. E. I. Torino, 1929]

IL SACRO CUORE DI GESÙ

DISCORSO XXXI.

Il Sacro Cuore di Gesù e la sua estrema agonia.

Su, o miei cari, su ascendiamo al monte santo di Dio, ascendiamo al Calvario, e contempliamo il Crocifisso Gesù sull’altare del suo sacrifizio. Oh Dio! che spettacolo si presenta ai nostri occhi! In che stato è ridotto l’amabile Gesù e quali sofferenze lo aggravano nel corpo e nell’anima! Eccolo sospeso tra cielo e terra, ritenuto da grossi chiodi su d’un infame patibolo, coperto di sangue e di piaghe dalla testa ai piedi. Egli soffre, e senza aicun sollievo. Se cerca riposarsi sui piedi, ohimè! non ha per appoggiarli se non il ferro, che li trapassa; se vuole riposarsi sulle mani, non fa che allargarne le piaghe e produrre una dolorosa tensione alle sue braccia; se egli abbassa la testa, accresce il peso del suo corpo, e il petto si gonfia, e la respirazione gli si fa più penosa; se Ei la solleva, la corona di spine incontra il legno della croce e le spine penetrano più addentro. Così non vi ha parte alcuna del suo Corpo adorabile, che non soffra un indicibile tormento. – Ma ben più gravi sono i tormenti della sua anima. Quando un uomo sta agonizzando, si vede circondato dalle persone più care, che gli prodigano le tenerezze più affettuose, e gli recano ogni possibile sollievo, gli porgono qualche stilla di consolazione. Per Gesù non è così. Tutto ciò che lo circonda è per Lui cagione di pena, tutto contribuisce a schiacciare il suo tenero Cuore ed a generargli nello spirito i più accascianti pensieri. Ai piedi della croce vede la sua Madre, S. Giovanni, e le pie donne, immerse nella più grande afflizione; dintorno alla croce vede una soldatesca insolente ed un vile popolaccio, che lo insulta e lo maledice; accanto alla croce, a destra ed a sinistra, vede crocifissi due ladroni per sua maggior ignominia. Oh se almeno lanciando lo sguardo nell’avvenire vedesse la croce tornare di salute a tutti gli uomini! Ma invece Egli ha pur dinnanzi questa dolorosissima vista, che la croce sarà di scandalo pei Giudei, e quale stoltezza ai Gentili. Povero Gesù! quanto soffre per ciò nell’anima sua! Eppure in mezzo a sì terribili sofferenze Egli apre ancora il suo labbro divino per parlare. E per quale ragione? Forse per maledire a’ suoi patimenti? per imprecare a’ suoi crocifissori? per scatenare i fulmini delle sue vendette?… Ah! no, certamente. In quegli estremi istanti della sua agonia Egli sembra dimenticare affatto le pene atrocissime che soffre e non ricordare ed aver presente altro, se non che Egli è un padre, che muore. E come ogni padre di famiglia che sta per morire si dà tosto la più viva sollecitudine di dichiarare a’ suoi figli le sue ultime volontà e di fare in loro vantaggio il suo testamento, così a questo stesso fine Gesù Cristo apre ancora il suo labbro divino e per ben sette volte ancora Egli parla. Per tal modo facendo uscire dal suo Cuore agonizzante sette parole, e compendiando con esse tutte le sue lezioni, tutti i suoi esempi, tutte le prove del suo amore infinito per noi, ci fece sempre meglio toccare con mano, che la causa vera, che lo ha confitto come vittima sull’altare della croce, più assai che non la perfidia de’ Giudei, è stata la carità immensa che nel Cuor suo ci ha portato. Raccogliamoci adunque anche noi presso la croce di Gesù Cristo per intendere le sue parole, ed ascoltandone oggi le tre prime, riconosciamo come per esse questo Padre e maestro divino ci abbia animati a confidare tutti nella sua infinita misericordia e a darci a Lui senza più mai abbandonarlo.

I. — Miei cari! Quale lo avevano descritto i profeti, Gesù Cristo ora veramente sulla croce l’uomo dei dolori, vir dolorum. Eppure a quei dolori atrocissimi, che già pativa nelle sue piaghe, veniva ad aggiungersi in questo momento un altro dolore, ancor più crudele per le anime delicate e sublimi, quello cioè degli insulti e delle derisioni. Benché dinnanzi all’estremo supplizio di un uomo, per quanto scellerato e odiato, sogliano spegnersi gli odii e cader le ire, e non sia mai lecito ad alcuno di compiacersi delle sue pene, di oltraggiare la sua persona e d’insultare al suo dolore, tuttavia per Gesù non accade così. A Lui è negato ogni riguardo. Al vederlo in quel misero stato pendente fra due malfattori, i Giudei esultano di gioia infernale e privi di ogni senso di umanità si fanno a recargli le più orribili ingiurie. Chi lo guarda e lo beffeggia, chi batte palma a palma e lo bestemmia, chi fa fischiate o digrigna i denti, chi crolla il capo e sogghignando esclama: « Va! Suvvia! Tu, che distruggi il tempio di Dio e lo rifabbrichi in tre giorni, salva ora te stesso! Se sei figliuolo di Dio discendi dalla croce! » Ma più empi e protervi di questa vile plebaglia, i sacerdoti, i maggiorenti e i maestri della legge scagliano contro del Giusto inverecondi motti e feroci bestemmie. « Cotesto maliardo, dicono quei tristi, ha salvato gli altri, salvi ora se stesso, se gli basta il vigore. Ei si disse re d’Israele, via! discenda dalla croce sotto gli occhi nostri e non tarderemo a credere nel regno suo. Si è vantato Figliuolo di Dio: vediamo come Dio si affretti a liberarlo. » Oh scellerati Giudei! E non vi basta l’essere venuti a capo delia vostra impresa? Gesù voleste confitto in croce, ed ecco Egli è in croce confitto; a vista delle sue piaghe rimanetevi almeno dall’amareggiarlo con nuovi obbrobri! Ma no! Con delitto più esecrando nel mirare le ambasce del Salvatore più inacerbano la loro collera e più aggravano il loro disprezzo. E Gesù? … Il profeta Isaia, che già molti secoli innanzi aveva descritte e piante le pene destinate al sospirato Redentore, erasi piaciuto dipingerlo a sé e agli altri in sembianza di mite ed innocente agnello, che condotto ad essere ucciso non apre il suo labbro al menomo lamento. Ed invero Gesù, satollo di ogni maniera di obbrobri e di patimenti, da crudi carnefici flagellato e coronato di spine, caricato di pesante croce, e con calci e percosse spinto e trascinato per l’erta di un monte, ed ivi disteso, inchiodato ed innalzato su d’un infame patibolo, mai non aperse la bocca; e a tanti clamori levati contro di Lui non mai altro oppose che un generoso silenzio. – Ma caro Gesù! egli è tempo, che parliate. La vostra dignità fa oltraggiata; il vostro Padre fu offeso; e ciò che è, più ributtante, s’insulta all’innocenza, nella quale voi state per spirare, su, su parlate! Una sola vostra parola sarà bastante a far di tutti questi miserabili un mucchio di cenere! Parlate, che lo aspetta il cielo, che impaziente si è coperto di tenebre.. Parlate … lo aspetta la terra, che trema inorridita bevendo il vostro sangue, parlate… lo aspetta fremendo tutta la natura … parlate, lo aspettano istupiditi gli Angeli … parlate… lo aspettano pieni di rabbia e d’invidia i demoni… parlate… lo aspetta il vostro stesso Padre celeste, che stringe ormai i suoi fulmini per vendicarvi … parlate… Sì, parla Gesù, parla! … ma ben diversamente, da quello che noi aspettiamo. Quanto più forti s’innalzano le voci del cielo e della terra, degli angeli, degli uomini e degli stessi demoni a chiedere vendetta, tanto più forte innalza Gesù il grido dell’amore; e rompendo alla fine i suoi silenzi, rivolti in alto gli oscurati suoi occhi : Padre, esclama, perdona loro, perché non sanno quel che si facciano:

Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt! (Luc. XXIII, 34) Oh parole! oh preghiera! oh misericordia infinita di Gesù Cristo! questo Agnello divino ha interrotto al fine il suo silenzio, ma non per altra ragione che per domandar grazia e perdono a’ suoi crudeli nemici. Ed in qual modo! Con quale efficacia! Quando si farà a lagnarsi del suo abbandono, l’ascolteremo rivolgersi al suo Padre celeste col nome di Dio: Deus, Deus meus; ma ora trattandosi di assicurare a’ suoi crudeli nemici il perdono, lo chiama col nome più dolce che vi sia, col nome di padre, quasi per dirgli: Ricordatevi che Voi siete padre, il più tenero, il più amoroso, il più misericordioso, e che io vi sono il figlio più umile, più sottomesso, più ubbidiente, sino al punto da sacrificare la mia vita fra i più atroci tormenti per compiere la vostra volontà: obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Per le qualità adunque, che adornano la paternità vostra e la mia figliolanza, voi dovete passar sopra al delitto, che costoro han commesso e perdonarli: Pater, dimitte illis. Inoltre ad ottenere più sicuramente l’effetto della sua preghiera, con somma premura si fa ancora in essa a scusare l’enormità del delitto de’ suoi crocifissori, e dice: Non conoscono quello che fauno: Non enim sciunt quid faciunt. Come per dire: Non hanno conosciuto abbastanza che Io sono il Re della gloria, il Salvatore del mondo, il Figlio di Dio; ed è perciò che nel loro furore si sono scagliati a far scempio di Colui, che dovrebbero amare, lodare, benedire, adorare. Sebbene adunque sia grande la loro malizia nell’imperversare che fanno così crudelmente contro di me, abbi tuttavia riguardo, o mio Padre celeste, alla loro ignoranza ed al loro accecamento: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ah! ben a ragione osserva S. Agostino, non mai vi è stato un avvocato così sollecito, così abile, così efficace a perorare la causa del suo cliente, quanto lo è stato Gesù Cristo nel perorare quella degli stessi suoi crocifissori; perciocché con una prece piena di misericordia infinita allontana da essi la condanna eterna. Per tal guisa mentre i suoi nemici Io provocavano insolentemente a comprovare la sua divinità col discendere dalla croce e salvare se stesso, Egli diede loro una prova di gran lunga  maggiore di quella che chiedevano, e pur rimanendo sulla croce si manifestò Dio nel modo più splendido e più degno, col fare una preghiera, come nota S. Bernardo, non mai intesa per lo innanzi, e che solo un Figlio di Dio, un Dio Egli stesso, poteva fare. Ma perché mai nostro Signor Gesù Cristo ha voluto fare questa preghiera non già in silenzio, nel secreto del suo Cuore Santissimo, ma bensì ad alta voce da essere intesa da tutti coloro, che stavano intorno alla sua croce? Per due principali ragioni. La prima si fu, perché Gesù Cristo divenuto sull’altare della croce vittima di salute per noi, volle continuare, tuttavia sopra di essa, come sopra la cattedra più degna di lui, ad essere il nostro divino maestro e modello. E poiché già più volte nel corso della vita ci aveva ripetuta la legge del perdono, volle ancora ripetercela un’altra volta ed animarci alla sua pratica con queste sublimi parole, e confermarla con questo ammirabile esempio. Dopo di che, chi vi sarà ancora tra di noi, che al più piccolo affronto, che gli sia fatto, vada tosto in collera, e risponda colle ingiurie, coi giuramenti di odio e di vendetta, colle sfide ingiuste e scellerate? Vi sarà ancora tra di noi, chi avendo ricevuto una qualche offesa la covi e l’ingrandisca nel suo cuore, senza volerla affatto perdonare? Ah! si ricordi il misero, che lo stesso Gesù Cristo in altra circostanza ha solennemente dichiarato, che con la stessa misura, con cui avremo misurato gli altri, saremo misurati pur noi, vale a dire che se noi non perdoneremo agli altri le ingiurie, che ci avessero fatte, Iddio non perdonerà neppure a noi i nostri peccati, e che un giudizio senza misericordia è preparato a colui, che non usa misericordia; ma che il vero Cristiano invece, che docile alla dottrina di Gesù Cristo, e imitatore esatto del suo esempio, non concepirà, né conserverà ira od odio per le offese ricevute, che anzi ricambierà le medesime coll’amore, col benefizio e colla preghiera, sarà certamente da Dio perdonato delle sue colpe e premiato largamente delle sue buone opere. Animo adunque, o miei cari, non rendiamo inutile quella divina condotta, che Gesù Cristo ha tenuto in questa circostanza, per nostro ammaestramento ed esempio, ma a sua somiglianza siamo generosi del perdono anche al nostro più fiero nemico. – Ma la seconda ragione, per cui Gesù Cristo ha fatto ad alta voce questa preghiera di perdono, si fu perché conoscessimo, che colla stessa preghiera Egli chiedeva la stessa grazia non solo per coloro che direttamente lo avevano crocifisso, ma ancora per tutti i peccatori, di ogni tempo e di ogni luogo, i quali ancor essi coi loro peccati hanno cooperato alla passione e morte di Gesù Cristo. Ed in vero il divin Redentore rivoltosi al suo Padre celeste non gli disse: Padre, perdona ai Giudei; ma disse: Padre, perdona loro, volendo dire con questa espressione, come ne insegna S. Giovanni Crisostomo: Padre, perdona ai Giudei, perdona ai gentili, perdona agli estranei, perdona ai barbari, perdona al primo uomo, perdona alla sua posterità, perdona, perdona a tutti. Oh pensiero consolantissimo per noi: Tra i patimenti così atroci, che egli soffriva sopra la croce per cagion nostra, Gesù Cristo non ci ha dimenticati; e sebbene vedesse come anche noi colle nostre iniquità ci univamo ai crudeli Giudei per disprezzarlo e dargli la morte, sebbene conoscesse che in noi vi è maggiore malizia, perché peccando sappiamo di offendere il più grande dei sovrani, il più tenero dei padri, il più affettuoso tra gli amici, tuttavia pure di noi ha sentito pietà, pure per noi ha implorato perdono, e noi pure ha scusati col dire: Non sanno il male che fanno: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Certamente Gesù Cristo non poteva far uscire dal suo Cuore pieno di amore per noi, una preghiera di più grande misericordia. Ma ciò, che più di tutto ci deve consolare si è, che come tutte le preghiere di Gesù Cristo furono sempre dal suo celeste Padre esaudite, così pure fu esaudita questa. Alla voce potente con cui il Salvatore implorava perdono per i suoi crocifissori e per tutti gli uomini del mondo, Iddio si mosse a pietà, e spense la sua collera, colla penna intinta nel sangue istesso del suo Figlio cancellò il funesto decreto che ci condannava alla morte. Da quell’istante adunque fu stabilito che i nostri peccati per i meriti di Gesù Cristo ci siano perdonati, a sola condizione che col suo divin Sangue facciamo scorrere altresì le lagrime di una vera penitenza. Se è così, o miei cari., non tardiamo più un istante a spezzare le pesanti catene del peccato, veniamo tosto correndo a gettarci anche noi ai pie’ della croce di Gesù Cristo, e al suo Sangue prezioso congiungendo le lacrime nostre, meritiamo davvero che il Padre celeste ci perdoni, e non indarno per alcuno di noi Gesù Cristo abbia detto: Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt. Ma passiamo alla seconda parola.

II. — I profeti della passione e morte di Gesù Cristo, tra le molte circostanze, che ne predissero, vi fu anche questa: che Egli sarebbe stato annoverato fra i scellerati : Et cum sceleratis reputatus est. (Is. xxxv) E lo stesso divin Redentore nell’orto del Getsemani, avendo rivolto la parola a’ suoi discepoli, asserì che era necessario che questa profezia si adempisse: Hoc quoque oportet impleri in me: et cum iniquis deputatus est. (Luc. XXII, 3) E questa profezia ancor essa si adempì.Ed in vero mentre Egli era condotto sulla cima del Calvario,insieme con Lui furono condotti due ladroni, al par di Lui condannati alla morte; e come Lui furono crocifissi, l’uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Ora, uno di essi,quello che stava alla sinistra, aveva preso egli pure a bestemmiare Gesù, e gli andava dicendo: « Su, se tu sei veramente il Messia, dammelo a conoscere col salvare te stesso e noi!Ma al contrario il ladro che si trovava alla destra e che fino

allora era stato uno scellerato egli pure, inorridito all’udire il compagno del suo supplizio ad insultare così il moribondo Signore, gli volge tosto questo giusto rimprovero: « E come? nemmeno tu, che pur stai sulla croce, temi la collera di Dio, che ti unisci a questo popolo scellerato per insultare un innocente? Noi, sì che soffriamo le pene giustamente dovute ai nostri delitti, ma questi che cosa ha fatto di male? » Rivoltosi quindi al divin Redentore con un’aria tutta umile, con voce supplichevole e col cuore spezzato dal dolore delle sue passate colpe: Signore, gli disse, ricordati di me, quando sarai giunto nel tuo regno: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum. (Luc. XXIII, 42) Oh fede meravigliosa di questo buon ladrone! Oh mutamento ammirabile del suo cuore! Oh conversione portentosa sopra ogni altra! Fu grande, senza dubbio, la conversione di Maria Maddalena, perciocché una giovane ricca e peccatrice per eccellenza tutto ad un tratto vincendo le inveterate abitudini della colpa, sinceramente pentita andò a gettarsi ai piedi di Gesù Cristo per darsi interamente al suo amore; ma alla fin flne ella si convertiva, quando alla parola di Gesù Cristo i ciechi riacquistavano la vista, i sordi l’udito, i muti la loquela, i lebbrosi e gli infermi la guarigione, e i morti stessi la vita, allora insomma che Gesù comprovava coi miracoli che Egli era veramente Dio.. Così pure fu grande la conversione di Paolo, perché nell’atto stesso che questo fiero persecutore dei novelli seguaci del Nazareno si scagliava a ricercarli per incatenarli e farli condannare, fu di repente tramutato in un vaso di elezione e in un apostolo delle genti; ma egli si convertiva, quando una subita luce si faceva ad investirlo, quando un colpo ignoto lo balzava da cavallo e quando una voce poderosa risuonava per l’aria gridando: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Ma questo ladro invece si convertiva allora, che Gesù Cristo pendeva dalla croce egli pure, come un vil malfattore, quando era svillaneggiato non solo dalla plebe, ma dagli stessi sacerdoti e maggiorenti, quando appariva agli occhi di tutti come un prodigio di umiliazione e di miseria. Sì, fu allora, che quest’uomo, sino a quel punto ostinato nel delitto, in un istante si converte, e benché vegga Gesù Cristo in mezzo a tanto obbrobrio, crede fermamente, che Egli sia l’innocente, il santo per eccellenza, il sovrano padrone del regno celeste, il Salvatore divino del genere umano; e fu allora che, rimproverato acerbamente il suo compagno degli insulti, che gli profferiva contro, a lui si rivolse, e colla fede più viva, coll’umiltà più profonda, colla contrizione più perfetta gli disse: Signore, ricordati di me, quando entrerai nel tuo regno: Domine, memento mei, cum veneris in regnum tuum. Ma tutto ciò, o miei cari, non fu che un miracolo della potenza della grazia, della bontà di Gesù Cristo. Fu Egli, che sebbene come uomo stesse soffrendo ogni sorta di ludibri, di scherni e di tormenti, come Dio dispiegò ed esercitò in questo ladro quella forza ineffabile, che penetra nelle menti più ottenebrate e le illumina, che tocca i cuori anche più duri e li muta, che comanda alle volontà anche più ribelli e le doma. Fu Egli che commosse quest’uomo sino a quel momento indurato nella colpa, fu Egli che lo animò di una fede sì viva, di una umiltà sì profonda, di una contrizione sì perfetta; fu Egli che gli ispirò e gli suggerì quella bella preghiera; fu Egli che in un attimo, di questo scellerato fece un penitente, un profeta, un evangelista, un martire, un confessore, un predicatore pubblico e coraggioso della sua innocenza, della sua potenza, del suo regno, della sua divinità e della sua redenzione. E così, mentre i Giudei, stupidi e maligni, collocando Gesù tra due ladroni, non avevano pensato ad altro che a maggiormente avvilirlo, beffati da Dio nella loro stupidità e malizia, non servirono invece che a renderlo più glorioso, dandogli agio anche qui di esercitare la sua misericordia, di manifestarsi Dio e di acquistare un nuovo adoratore. Ma se la conversione repentina di questo ladro fu anzitutto l’opera della grazia di Gesù Cristo, non lasciò di essere da parte del ladro una pronta e fedele corrispondenza alla medesima. Epperò questa condotta così ammirabile non poteva rimanere senza premio. Che farà adunque Gesù Cristo? Che cosa gli risponderà? Ah! Gesù Cristo, ascoltata l’umile e confidente preghiera, piega amorosamente verso di lui il suo capo, e con somma dolcezza gli risponde: « Te lo assicuro, oggi sarai meco in paradiso: » Amen dico Ubi: hodie mecum eris in paradiso. (Luc. XXIII, 43) Oh parola! oh risposta degna, d’immortale memoria! Oh prontezza della misericordia divina nel muovere incontro al peccatore penitente ed assicurarlo non solo del perdono, ma della eterna beatitudine. « Oggi sarai meco in paradiso, » vale a dire: Tu chiedi che Io mi ricordi di Te entrato che sarò nel mio regno, ma Io ti dono assai più di quello che chiedi; oggi stesso, prima che il giorno finisca, tu, benché sia stato ladro, sarai in mia compagnia; oggi stesso ti mostrerò agli Angioli come primo trofeo della mia grazia, come primo frutto della mia redenzione; oggi stesso insieme coi giusti che mi attendono nel limbo ti darò a vedere la mia essenza divina, in cui propriamente consiste la vera gloria del paradiso: Hodie meoum eris in paradiso. È dunque vero! L’uomo può ancora allargare alla speranza il suo cuore, quando pure ha passato una vita intera nelle abominazioni del peccato? Sì, o miei cari, nella sua infinita misericordia Iddio è pronto sempre ad accogliere nelle sue braccia il povero peccatore, anche allora che da lunghissimi anni sta lontano da lui. Forse vi saranno qui tra voi di coloro, che da dieci, venti, trenta, quarant’anni accumulano iniquità sopra iniquità, miserie sopra miserie, delitti sopra delitti, e che in questo istante medesimo all’udire il miracolo della grazia del Crocifisso sentono in fondo all’anima un salutare risveglio, che li fa esclamare: Oh se anch’io … Deh! assecondino essi il primo impulso della divina misericordia; non si spaventino al pensiero delle infinite colpe passate; non rispondano alla brama di convertirsi: Per noi è inutile; Dio non ci perdonerà più; no, o dilettissimi, ma, contemplando il buon ladrone accanto a Gesù Cristo, come lui percuotano il Cuore amoroso, come lui gli dicano contriti ed umiliati: Domine, memento mei: Signore, ricordati di me, volgimi il tuo sguardo amoroso; miserere mei; abbimi compassione. E d ancor essi potranno sentirsi ripetere questa consolante parola: Oggi sarai meco in Paradiso: Hodie mecum eris in paradiso. Sì, oggi, perché per la grazia di Dio, l’anima del peccatore può essere spezzata da un dolore sì grande delle proprie colpe, da ricolmare in un istante gli abissi, che la separano da Dio. Senonché, o miei cari, imitando la illimitata fiducia, con cui questo ladro corrispose alla grazia divina, guardiamoci bene dal differire come lui sino agli estremi della vita la nostra conversione. È vero, questo ladro si convertì e si fece santo, direi in quel momento medesimo, in cui l’anima gli fuggiva dal corpo; ma ben diversamente il cattivo ladrone in quel momento istesso si ostinava nella sua colpa, nella sua cecità, nella sua malizia; e propriamente vicino a Gesù Cristo, mentre il sangue di Lui si versa per la salute degli uomini, mentre le sue piaghe stanno aperte per riceverli, mentre insomma la grand’opera della redenzione si compie, egli, il disgraziato, si perde e si avvia con precipizio all’inferno. Ah ciò vuol dire adunque che il divin Redentore, nella misericordia infinita del Cuor suo, assicura il paradiso ai veri penitenti, che docili all’azione della sua grazia prontamente vi corrispondono, ma che d’ordinario abbandona alla loro trista sorte quegli uomini superbi ed ostinati che respingono le misericordiose sue chiamate. Ciò vuol dire che ad ottenere la salute non basta esser vicini alla Croce di Gesù Cristo, frequentando la chiesa, ascoltando anche ogni giorno la messa, intervenendo a processioni e ad altre pratiche devote, se per siffatto modo stando presso alla stessa croce pur si continua ad essere nemici di Gesù Cristo tenendo nell’animo il peccato e nutrendo perciò una profonda inimicizia con Lui. Ciò vuol dire che se si può perire sullo stesso Calvario presso alle piaghe ed al sangue del divin Redentore, vi è ben da tremare per coloro che se ne vivono lontani nei teatri, nei balli, nei ridotti, nei conviti, nelle conversazioni, negli scandali e nella corruzione del secolo. Ciò vuol dire insomma che la misericordia divina non manca a chi prontamente la vuole, la cerca, la invoca, ma che può mancare in eterno a chi ne abusa, a chi non la cura, a chi volontariamente la sfugge. Deh! o miei cari, se oggi la voce di. Gesù Cristo agonizzante, sprigionandosi dal suo Cuore divino ha ferito le nostre orecchie, non vogliamo indurare i cuori nostri. La gioventù, la sanità, il tempo potrebbero sul più bello mancarci, perché la morte propriamente come un ladro può coglierci quando meno si aspetta. Diciamo dunque ancor noi a Gesù Cristo con prontezza e con sincerità: Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno; perché a tutti Gesù Cristo risponda: Oggi sarai meco in paradiso: Hodie mecum eris in paradiso.

III. — Ma ecco che Gesù apre un’altra volta il suo labbro divino e pronunzia un’altra parola, la più dolce, la più tenera, la più consolante di tutte, quella parola con cui ci diede Maria SS. per Madre. Ma perché questa parola è così grande, che basta da se sola a costituire una delle prove supreme dell’amore di Gesù Cristo per noi, dobbiamo senza dubbio riservarla da sola e per altro giorno alle nostre considerazioni. Passiamo ora adunque a meditare la quarta parola, che il divin Redentore profferisce. Gettando lo sguardo sopra la terra sembra di non vedere altro che pene, guai e dolori; tendendo l’orecchio a noi d’intorno sembra non udire altro che lamenti, gemiti e pianti! Tant’è! Dopo la caduta del nostro progenitore il soffrire è divenuto legge universale per tutti gli uomini. Noi cominciamo a piangere appena nati, e il dolore, fattosi compagno del nostro viaggio attraverso a questa valle di lagrime, più non ci lascia sino al termine. Vi ha forse alcuno tra di voi, sebbene entrato da pochi anni per questo cammino della vita, che ignora ancora l’amarezza del pianto! Vi è stato o condizione che si possa sottrarre al dolore? Soffre il povero, ma non soffre meno il ricco; soffre il suddito, ma soffre pure il sovrano. Tutti, tutti soffrono; e in quanti modi diversi! Ma per quanto gravi siano tutto le sofferenze, a cui variamente sono gli uomini assoggettati, forse non ve n’è alcuna maggiore di quella, che opprime un’anima innocente, destinata ingiustamente al supplizio e per essere creduta rea, abbandonata persino dalle persone a lei più care. Io me la immagino quest’anima infelice in un giovane sventurato, che lanciatagli contro la falsa accusa di aver cospirato contro la patria, caricato di ferri vien gettato nel fondo di tetra prigione, perché ivi aspetti il giorno, in cui sarà tratto alla morte. Gli amici, anziché pigliar le sue difese, per timore di essere trascinati nella stessa iniqua sentenza, si sono nascosti. Ognuno tra gli stessi parenti lo aborre, ognuno lo abbandona al suo destino; nessun lo compiange, lo soccorre. Lo stesso suo vecchio padre, quel padre che prima tanto lo amava, ora ritenendolo egli pure colpevole, e costringendo al silenzio ogni affetto di natura, non ricorda il figlio che per far pesare sul suo capo tremendo la sua maledizione! Ah! dite: vi può essere afflizione più grave di questa? Morire innocente e abbandonato maledetto dallo stesso padre! Ahimè! o miei cari, che questa è propriamente la condizione di Gesù Cristo! Anche questa terribile parola: Maledictus, qui pendet in ligno! doveva per Lui essere adempiuta. Gesù Cristo, vero Figliuolo di Dio, innocente, senza macchia, segregato dai peccatori, colmo di tutte le ricchezze della grazia e della santità, non per necessità, ma per amore venuto sulla terra ad operare la nostra salute, si è rivestito di tutti i peccati degli uomini affine di espiarli. Ma da quell’istante medesimo che Egli fece sue tutte quante le nostre iniquità, il suo divin Padre lo riguardò come reo delle medesime, e senza punto risparmiarlo prese a percuoterlo terribilmente. Lo percosse nella sua nascita, e Gesù patì la povertà, il freddo, la miseria; lo percosse nella sua vita privata e Gesù patì l’esiglio, l’indigenza, la fatica; lo percosse nella sua vita pubblica e Gesù patì l’ingratitudine, gl’insulti e le maledizioni; lo percosse nella sua passione e Gesù patì l’abbandono dei discepoli, il tradimento di Giuda, la cattura, gli obbrobri, la flagellazione, la coronazione di spine, la condanna a morte, il portar la croce, l’esservi sopra confitto; lo percosse sulla croce istessa e in mezzo a quegli atroci tormenti, che andava soffrendo, lo lasciò nel più desolante abbandono. Non già, o miei cari, che il divin Padre abbandonasse Gesù Cristo in quanto alla natura divina, per cui sono tra di loro una cosa sola ed inseparabile, ma lo lasciò tuttavia in abbandono coll’esporre la sua umana ed inferma natura alle potestà delle tenebre, col lasciarlo in balìa de’ suoi nemici, in preda al furore degli nomini e dei demoni, a tutte le ignominie, a tutti gli insulti, a tutte le pene e a tutti gli orrori della croce; col sottrargli ogni protezione, col negargli ogni stilla di consolazione e di refrigerio, e qualunque siasi di quelle dolcezze, con cui confortando poscia i martiri li rendeva contenti e giulivi negli stessi più atroci tormenti, col lasciarlo insomma come immerso ed affogato in un mare di amarezza, anzi col gettarvelo Egli stesso: Proprio filio non pepercit, ned prò nobis tradidit illum. A questo colpo non poté più resistere l’agonizzante Gesù, e raccolto sulle labbra quel misero avanzo di fiato che gli era rimasto, si lamentò d’un sì doloroso abbandono, esclamando a tutta voce: Dio, Dio mio, perché mi hai Tu abbandonato? Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? (MATT. XXVII, 46). Oh parole da far tremare la terra, da ecclissare il sole, da sbalordire tutta la natura! Certo è, che non vi era cosa più famigliare a Gesù Cristo, quando parlava a Dio o di Dio, che chiamarlo col nome di Padre! Eppure in così grande occasione, in tanta necessità di conforto, dimenticato questo dolce nome, lo chiama col nome augusto e terribile di Dio! Deus, Deus meus! Ah! queste non furono certamente le voci della natura divina, ma bensì le voci della inferma umanità, che vedendosi dall’Eterno Padre trattata come se non fosse quella del suo Figliuolo, non ebbe più l’ardire di chiamarlo Padre, e lo chiamò Dio. E volle dire : « Mio Dio, che io chiamo con questo nome, perché sembra che Tu stesso abbia dimenticato di essermi Padre; lasciandomi a soffrire in questo mare di amarezze senza una stilla sola di quella consolazione, che neppure negasti ad un ladro, che per enormi delitti mi pende su d’un patibolo qui vicino; Dio, Dio mio, perché, mi hai così abbandonato: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? » Oh parole! Oh lamento da impietosire un cuore di sasso! Ma di queste parole, di questo lamento noi siamo stati le causa coi nostri peccati. Questa è la conseguenza, questo l’effetto di quell’ingrato abbandono, che noi tante volte adoprammo con Dio. Sì, egli è per te, o superbo sapiente del mondo, perché abbondonasti le verità della fede, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o magistrato iniquo, perché abbandonasti la giustizia, che Dio ha abbandonato Gesù, egli è per te, o vile schiavo degli umani rispetti, perché abbandonasti la pratica della santissima Religione, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o miserabile assetato dei beni della terra, perché abbandonasti l’equità ne’ tuoi guadagni e il rispetto alle altrui sostanze, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, o sacrilego infame, perché abbandonasti la santità nei sacramenti, che Dio ha abbandonato Gesù! Egli è per te, scellerato marito, perché abbandonasti la tua sposa, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o padre snaturato, perché abbandonasti la cura de’ tuoi figli, che Dio ha abbandonato Gesù; egli è per te, o donna vana e superba, perché hai abbandonato la modestia e l’umiltà; per te, o donzella scandalosa, perché abbandonasti il pudore; per te, o giovane dissoluto, perché abbandonasti l’onestà; per te, figliuolo ingrato, perché abbandonasti l’onore a’ tuoi genitori; per me, sacerdote e religioso indegno, perché abbandonai la santità ed il fervore; egli è per tutti noi, perché tutti abbiamo abbandonato Gesù che Gesù fu abbandonato da Dio! E perché lo abbandonammo? Oh stolti che fummo, Gesù stesso lo dice: « Abbandonarono me, fonte di acqua viva per scavarsi delle sozze pozzanghere! Dereliquerunt me, fontem aquæ vivæ, et fonderunt sibi cisternas… dissipatas. Per un capriccio, per un puntiglio, per una vendetta, per uno sfogo di carne, per un umano riguardo, per una lettura cattiva, per un discorso disonesto, per un piacere da nulla, che non ci ha fruttato che amari rimorsi. Se adunque Gesù Cristo ha sofferto l’abbandono del suo divin Padre per cagion nostra e di questo abbandono gliene ha mosso lamento, non fu già una lagnanza delle pene, che soffriva Egli stesso, ma piuttosto una lezione sensibile delle pene, cui andiamo incontro noi a cagione de’ nostri peccati. Vox istadice S. Agostino – doctrina est, non querela. I peccatori, che si danno con tanta licenza a contentar le passioni, a seguire il vizio, a commettere la colpa, abbandonano violentemente Iddìo, e si allontanano da lui: Elongaverunt a me; (GER. II, 5) ma il Signore abbandona alla sua volta questi peccatori e si fa lontano da essi: Longe est Dominus ab impiis. (Prov. xv, 29) Allora poi soprattutto, quando gli sciagurati si sono ostinati nella via dell’impenitenza e han fatto i sordi ai non pochi richiami della divina misericordia, allora Iddio pronunzia per essi la sentenza dell’eterno abbandono: Curavimus Babylonem, et non est sanata, derelinquamus eam. (GER. LI, 9) Ed allora effettuandosi questa feribile sentenza, verrà giorno, in cui i peccatori grideranno come Gesù Cristo: Deus, Deus meus, ut quid dereliquisti meiE questa straziante elegia del loro cuore, affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della loro eternità. Ecco la pena terribile, che Gesù Cristo ci ha posto innanzi in quel suo grido. E tutto ciò non fu un’altra prova della sua Carità infinita per noi? Non ha voluto per tal guisa animarci quanto più gli era possibile a non voltargli più mai le spalle, a non volerlo più. abbandonare? Ah! che le mire caritatevoli del Cuore di Gesù Cristo non siano frustrate! Che tutti abbiamo pietà dell’anima nostra! Che tutti prontamente risolviamo di unirci a Gesù Cristo per non abbandonarlo più mal e per non esserne più mai abbandonati. Sì, o Cuore Santissimo, noi ci stringiamo in questo momento alla vostra croce, e confidati nei meriti infiniti del vostro Sangue e delle vostre Piaghe, noi giuriamo solennemente di star sempre d’ora innanzi a voi uniti colla grazia vostra, di seguirvi dappertutto, in tutta la vostra dottrina e in tutti i vostri esempi, per meritarci un giorno la felicissima sorte di unirci a voi con un nodo indissolubile e godere della vostra beata compagnia per tutti i secoli.

LO SCUDO DELLA FEDE (113)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIV.

L’astrologia giudiziale non ha ragione su cui si fondi.

I . Se i genetliaci hanno a risaper dalle stelle qualche poco degli eventi futuri, o liberi, o casuali, convien di necessità, che le stelle ne sieno, o segni, o cagioni; non avendo esso altre voci da palesarli. Ma le stelle non sono né cagioni, né segni di tali eventi; adunque è manifesto, che i genetliaci non possono dalle stelle risaper nulla degli eventi futuri, o liberi, o casuali, neppur da lungi. Tutta la difficoltà si riduce a mostrar per vera la minore proposizione; non si potendo contendere la maggiore, se non da chi non la intenda. Dunque mostriamola con levar prima alle stelle la virtù loro attribuita di sogni, giacché la godono a torto.

I.

II. E qui addimando: Se elleno sono segni delle vicissitudini umane, che segni sono i segni naturali, quale è l’iride della serenità, o segni, come dicono, a piacimento, quali sono la tromba e il tamburo della battaglia? Naturali non sono, perché, se fossero tali, non potrebbe non avvenire tutto ciò che da loro è significato. Ed ecco tolta in tal caso la contingenza, e con la contingenza il libero arbitrio, (mentre all’uomo tanto sarebbe il divertire ciò che di lui dicono i cieli, quanto il distogliere i cieli da’ loro corsi); eccovi l’uomo, non più uomo, ma bruto, e bruto guidato con freno d’oro bensì, ma però più forte: onde possa un puledro sperar di rompere quella cavezza che il priva di libertà, ma non lo possa già sperare un mortale, nato al comando: eccovi il destino funesto: eccovi il diamante fatale: eccovi tutte a terra le leggi più venerabili, come inette: ed eccovi alla giustizia cadute da una mano le bilance che ci ha, dall’altra la spada: le bilance, come inutili a pesare i meriti proceduti da forza; la spada, come iniqua a punire i falli. E però chiaro a chi ritiene scintilla ancor di discorso, che le stelle non possono essere segni naturali de’ fatti umani. E se non sono qual dubbio v’è, che non possono ne meno dirgli in confidenza agli astrologi, checché questi si vantino di saperli sì per minuto?

III. Saranno dunque segni imposti da libera istituzione: Sicché quel Dio, che antivede le cose prima che avvengano, abbia congegnati i pianeti con sì bell’arte, che questi col fuggirsi, coll’incontrarsi, coll’intrecciarsi, e col muoversi in tante guise, formino un’istoria del vivere di ciascuno in quel vasto cielo, che egli però distese a guisa di pelle: Extendens cælum sicut pellem (Ps. 103,2). Così le stelle non inducono alcuna necessità, ma sono meri interpreti del futuro, come sono i profeti: onde a saper ciò che dicano, basta intenderli.

IV. Un tal rispondere non può in prima valere per gli ateisti, perché essi negano la cura a Dio delle cose. Per quelli poi che l’ammettono, non può stare, perché se le stelle sono segni istituiti dalla provvidenza divina a farci antivedere sì il nostro male, come dunque Dio non c’invita a una scuola riguardevole di prudenza, con esortarci a leggere in quel suo libro continuamente, o a cercare chi vi legga per noi se non lo intendiamo? Anzi Egli non fa altro che ritirarci da tale studio, con metterlo in derisione. A chi sperava assai dalle stelle (e fu Babilonia) Stent, disse egli, stent, et salvent te augures cœli, qui contemplabantur siderei, et supputabant menses, ut ex eìs annuntiarent ventura tibi – si presentino e ti salvino gli astrologi che osservano le stelle, i quali ogni mese ti pronosticano che cosa ti capiterà.(Is. XLVII. 13). Ed a chi ne temeva (ed era Gerusalemme) A signis, disse, a signis cæli nolite metuere, quæ timent gentes – … e non abbiate paura dei segni del cielo, (Ier. X, 2). Se dunque per avviso di Dio medesimo non dobbiamo noi regolarci da tali segni, né a sperar bene, né a temer male, che segni sono? Sicuramente non sono segni da Dio istituiti a significarcelo, ma segni finti dagli uomini a lor piacere; onde che resta a noi far più di quei libri, i quali ci dichiarano tali segni? Resta gettarli sul fuoco. Tanto fecero quei gentili, convertiti già in Efeso dall’Apostolo, e tanto abbiamo a far noi: Multi autem ex eis, qui fuerant curiosa sentati contulerunt libros, et combusserunt coram omnibus – … e un numero considerevole di persone che avevano esercitato le arti magiche portavano i propri libri e li bruciavano alla vista di tutti.  (Act. XIX. 19). E che quei fossero libri di astrologia, ne fa fede sant’Agostino (In Ps. 61) . L’avere però Dio steso il cielo a guisa di pelle, fu solo per denotarci, averlo steso con tanta facilità con quanta da noi suole stendersi un padiglione (Bellar. i n Ps. 103. 2). Ma se egli è padiglione, conviene adunque, che qualcuno ce l’alzi, a volere entrarvi col guardo.

V. E vaglia la verità, se in cielo fosse cosi descritta l’istoria dell’ avvenire, come pur si divisano tali astrologi, chi mai di loro potrebbe aspirare ad intenderla, senza Dio che gli porgesse quasi in mano le chiavi di sì gran cifera? Potrebbe forse una chiave tale porgersi dall’inferno? Ma come dall’inferno, se quegli spiriti non l’hanno sicuramente nemmen per sé ? Quinci è, che negli antichi oracoli sì famosi di Delfo, di Didone, di Delo, aveano i demoni per uso di dare risposte sì artifiziose. sì ambigue, che del pari valessero ad ogni evento: Ibis redibis non morieris in bello. Che accadeva loro però lavorar questi, come specchietti a più facce, se le verità contingenti stanno là sui cieli descritte a sì chiare note? Non hanno i demoni all’ingegno più forti l’ale, di quelle che abbiavi verun astrologo sommo? Ora come dunque non potevano essi poggiar tant’alto da leggere quei caratteri i n vicinanza, ed esporli poi, con gloria tanto maggiore, alla vista de’ riguardanti in uno specchio pianissimo di parole sincere e schiette? So non lo fecero, segno dunque è, che non lo potevano fare: e posto ciò, convien dire, che il futuro accidentale e arbitrario non è da Dio registrato in que’ vasti fogli. E quando volessimo violentar la ragione a credere, che vi fosse, non v’è registrato di modo che possa leggersi da nessun occhio creato, se Dio non glielo discopra. Ma con chi Egli ciò fece mai, se piuttosto egli divietò qualunque spezie di auguri, con dichiararsi, che sue parti sono renderli tutti vani? Ego sum Dominus, irrita faciens signa divinorum – Io sono il Signore, … Io svento i presagi degli indovini (Is. XLIV, 25). Forse. Dio scrisse tali cose in cielo per gli Angeli dell’empireo, a cui le può tanto meglio mostrare in se medesimo quando voglia?

VI. Senonché i moti degli aspetti celesti ci danno chiaro a veder, che non ve lo scrisse. Perché tali moti sono uguali, uniformi, e regolatissimi, come moti ordinati dalla natura: laddove gli eventi umani, come dipendenti dalla libertà, sono irregolari, e tutti differenti fra loro, e tutti difformi. Come dunque è possibile, che questi eventi siano mai per quei moti significati, se quelli e questi sono quasi due linee che non han misura comune? Non l’hanno nella qualità pur ora accennata, non l’hanno nel numero; essendo i moti degli aspetti celesti, secondo sé, di numero certo, e gli eventi umani più e più sempre movibili in infinito: onde que’ moti potrebbero al più spiegare alcune universalità corrispondenti al numero che ebber essi dalla natura, ma non potrebbero discendere a mille individualità particolari e precise che non han fine.

II.

VII. Ed ecco tolto alle stelle l’essere segni degli eventi futuri, di cui si disse. Ma né  anche ne son cagioni, né possono essere, che è l’altra parte che rimane a provarsi. E prima è certo, che non sono esse cagioni necessitanti: altrimenti urteremmo di subito nello scoglio, da noi scorto di sopra per troppo infame, qual è, che l’arbitro riconosciuto nell’uomo da tutti i teologi, da tutti i filosofi, da tutti i fisici, da tutti i giureconsulti, anzi da tutti i popoli ad una voce, per padrone di sé, sia ristretto in ceppi. Eppure in ceppi egli saria più che mai, quando a lui si assegnasse una cagion necessaria, da cui dipenda. Ma appunto tali a lui sarebbon le stelle, che, a guisa di tutti gli altri agenti naturali, sono costantemente determinate agli stessi corsi: Omnis naturæ actio terminatur ad aliquid unum (S. Th. 1. p. q. 96. a. 1. in c). Così cesserebbe ogni considerazione, ogni consiglio, ogni elezione di mezzi, ogni politica, ogni prudenza; anzi cesserebbe ogni virtù fra gli uomini, ed ogni vizio; mentre non si dovrebbe ad un uomo più maggior lode, dì quella che si meriti il ferro, quando si lascia tirare dal polo amico della sua calamita; nè ad un uomo empio dovrebbesi maggior biasimo di quello che si meriti il ferro stesso, quando dal polo avverso della medesima calamita si lascia mandar lontano.

VIII. Che se, conforme abbiam già veduto, Dio è l’architetto di questo tutto, chiamato mondo, come può egli averne mai disposte le parti sì malamente, che la natura inferiore, qual è la materiale, regga la superiore, qual è l’intellettuale? quella che è cieca, guidi la veggente? quella che è insensata, governi la ragionevole? Ogni dominio naturale è fondato sulla eccellenza della natura, dice Aristotile; (L. 3. de anima tex. 57) che però l’uomo naturalmente comanda alla donna, perché dentro la medesima spezie egli è un individuo più perfetto di lei; e però molto più signoreggia anche gli animali, e gli sferza ritrosi, e li sottomette ribelli, perché è molto più perfetto di loro ancor nella spezie. Pertanto, come hanno i cieli a dominare le nostre menti, se quanto sono a noi superiori di sito, tanto sono inferiori di dignità? Se le loro combinazioni e i loro contrasti sono la cagiono del nostro operare, converrà che si disordini il tutto con ritornare nell’antico suo caos, mentre le sostanze perfette sono tiranneggiate dalle imperfette, le spirituali dalle corporali, le semplici dalle composte; e l’uomo, in una parola che è il fine dell’universo, vien sottoposto alla natura incapace di proprio bene (Arist. 1. 4 phys. test. 34).

IX. E notisi il dir che è fine: perché se l’uomo fosso soggetto alle stelle nell’operare, l’uomo dunque sarebbe fatto per le stelle, o non le stelle per l’uomo. Ma come ciò? Non è l’uomo quegli, in grazia di cui fu da Dio già creato tutto il visibile? Non ve ne ha dubbio: mercecchè l’uomo è l’ottimo che vi sia. Se però le stelle sono fatte anch’esse per l’uomo come dunque l’uomo ha da dipendere dalle stelle nelle opere che egli fa? Chi da un altro non è dipendente nell’essere, né anche n’è dipendente nell’operare, dice l’Angelico (Contra  gentes!.. 2. c. 8), perché l’operare seguita in tutti la condizione dell’essere.

X. Ma che stancarsi in tal cosa? Non prova ciascuno in sé, che la ragione domina il corpo e che il corpo non domina la ragione? Per quanto la fame mi stimoli, se io mi risolva di anteporre il diletto stabile della temperanza al diletto de’ cibi, che è sì fugace, la mano mia non si stende a prenderli da veruna mensa più lauta cui sia presente. Se mi sollecita l’appetito inferiore, non mi violenta: ed io ho la gloria di levarmi digiuno da quel convito, che darebbe alla gola si grato pascolo. Adunque la mente comanda al corpo, non il corpo alla mente. Onde, a conchiuderla, quantunque l’uomo non abbia podestà sopra i cieli, perché non li può volgere a suo talento; non però è loro soggetto in veruna azione, ma egli è padrone di sé, ed ha le redini in mano del suo volere, senza che tutti i moventi sì rapidi delle sfere possano violentarlo a dare neppure un passo se a lui non piace.

XI. Né sia chi dica, che non i corpi celesti ma le intelligenze motrici di tali corpi (Come ancora oggi ritengono i neo platonici cabalisti della massoneria mondiale, che adorano il sole e l’inventato assurdo sistema eliocentrico – ndr.-) son quelle, cui l’uom soggiace; perché le intelligenze, a muovere l’uomo, non possano valersi d’ogni istrumento, quantunque improporzionato. Come lo scultore non può mai col pennello far la sua statua, o come il dipintore non può mai fare il suo quadro con lo scalpello; così le intelligenze non possono muover mai l’arbitrio dell’uomo coi giri di verun corpo. Convien che il muovano con rappresentargli alla mente il bene che a lui ridondi dalla tal opera, che è quanto dire, convien che il muovano a modo di chi consiglia e di ehi conforta, non di chi trascina in catene. Ma ciò non ha che far punto col caso nostro: perché  i consigli e i conforti lasciano l’uomo indifferente ad ammettergli, o a ributtarli: e però da’ giri de’ cieli non sarà mai possibile antivedere di lui ciò che sia per farsi.

XII. Senonchè quanto si è divisato finora vale a provar, che le stelle non abbiano che far colle sorti umane, quali cagioni diretto (secondo che gli antichi le veneravano, fino ad adorarle però, come loro numi); ma non vale a provar, che non vi abbiano almeno a fare, quali cagioni indirette, che è il ricovero sotto il quale i moderni astrologi si fan forti, affermando, più cauti, se non più casti, che i cieli non influiscon nell’animo de’ mortali di primo lancio, ma di rimbalzo, in quanto alterando gli organi delle potenze sensitive, il temperamento, i fluidi, le flemme, e le qualità tanto a lui necessarie nell’operare, possono fare, che egli operi di un modo più che di un altro. E fin qui dicono bone: ma con ciò confessano insieme, che né sanno né possono saper nulla di quanto pronosticano intorno al tempo della vita e della morte dell’uomo, intorno alle ricchezze e alla povertà, intorno alla prosperità e alle disgrazie, che pur sono tutto quel fondo su cui lavorano i ricami delle loro fole. E che sia vero, osservate, che se nell’astrologia vi ha nulla di sodo, è questo discorso. Il temperamento dell’uomo dipende dalle stelle; l’indole, le inclinazioni, ed i costumi di lui dipendono dal temperamento; dunque altresì l’indole, le inclinazioni ed i costumi di lui dipendono dalle stelle, indirettamente, sì, ma pur quanto basti a formarne un giudizio retto. Ora un tale discorso è tutto fallace. Se però traballa sì forte la prima pietra, che sarà della mole, che su vi sorge?

XIII. Ma su, esca pure in luce il bambino sotto un oroscopo il più fortunato a dar buono il temperamento: se s’incontra in una balia mal atta a cooperarvi, io veggo le stelle in un labirinto grandissimo, senza filo da giungere a mantenere ciò che promisero. Conciossiachè tutti i filosofi e tutti i fisici son d’accordo, che il latte della nutrice, giovane o vecchia, gagliarda o vizza, porti al temperamento divario grande: e che il latte congenito della madre sia sempre migliore alla prole che quello di una straniera: la quale, ove pure ammettasi, vogliono che sia scelta anche di costumi, mentre le istorie romane tutt’ora piangono il loro Romolo, allattato da una lupa crudele, un Comodo ed un Caligola, abbeverati di sangue più che di latte; ed un Tiberio, allattato da una levatrice intemperantissima.

XIV. Spoppato quinci il bambino, ecco che egli incomincia a nutrirsi di cibo sodo, e con ciò cresce l’impegno alle stelle, e l’impossibilità di mantenersi veridiche, benché vogliano. Perciocché chi non sa quanto possa nel nostro corpo la qualità del nutrimento quotidiano? Basta leggere i trattati che ci hanno sopra ciò lasciati i medici più famosi, tanto benemeriti del genere umano, quanto ne sono traditori gli astrologi. Fino i poeti intesero questo vero: ond’è che Omero, formando nel suo Achille l’idea di un eroe magnanimo, lo finse nutrito colle midolle dei leoni, per figurarlo robusto di forze insieme e di cuore. Fate però, che il garzoncello, mirato sì benignamente da’ luminari celesti ne’ suoi natali, si dia tosto in preda ai banchetti, ai bagordi, all’intemperanza; con quale stame le stelle sue natalizie potranno allungargli la vita? Plures occidit gula, quam gladius. E il simile dite se egli nasca in luogo d’aria insalubre, o vada a soggiornare per accidente in valli palustri, umide, uliginose, e non dominate da venti, fuorché nocevoli. Vinceranno le stelle la qualità di quel suolo infausto? E finalmente, se egli, caduto infermo a cagione de’ suoi disordini, si abbatta in un di quei medici che si fanno pagare per ammazzarvi, con quale scudo il ripareranno da questo colpo i pianeti promettitori?

XV. Direte forse, che se egli nacque sotto buono ascendente, non ha da temere di quegli incontri sinistri da me accennati? Ma perché non ha da temerne? Perché le stelle che lo tolsero in cura gli abbiano per ventura a tenere indietro quali protettrici amorevoli? Ma ciò sarebbe altro che farle operare da cagioni particolari e parziali, influitrici nel solo temperamento. Sarebbe farle operare da cagioni universalissime, anzi vive, veggenti, e piene in sé di perfetta divinità, la qual disponesse dì tante varie creature a bacchetta per giungere al fine inteso. E poi, se le stelle potranno provvedere il lor caro allievo di medico ottimo, quando egli sarà in pericolo di morire: come potranno, quando egli ancora non nacque, provvederlo di ottimi genitori, se i genitori non poté veruno sortire fuorché nascendo? Non vedete voi, che coteste sono follie da contarsi per ridere in su le veglie? A voler però, che l’astrologo possa farci promessa di lunga vita a nome delle stelle, da lui considerate al nostro natale, converrà prima che egli conosca assai bene il temperamento di quei che ci generarono, e poi che da quelle stelle medesime egli risappia ad uno ad uno gl’innumerabili casi i quali, nel temperamento nostro influendo più da vicino, avranno sempre possanza somma a rifrangere e ripercuotere quegli influssi che sì da lungi mandino a noi le costellazioni celesti per nostro prò. Ma chi può ridir tali casi, se, come innumerabili, sono ignoti a qualsivoglia altra mente, che alla divina? Nè anche gli Angeli, motori dello stelle, potrian ridirli, se non fossero interrogati.

XVI. Certo è, che Sisto di Eminga, dopo di avere, in questa scuola de’ pianeti, consunti poco men che tutti i suoi giorni, confessa che gli astrologi, per quanto studio si facciano sopra l’oroscopo di un bambino nascente, non potranno mai risaper dalle pure stelle se egli sia nato vivo, o sia nato morto (In Genitura Caroli a Brimeu); giudicate poi se ne potran risapere (come si vantano), se egli sarà per vivere molto o per viver poco ? E forse che tal prova non è stata già fatta più d’una volta con gran piacere, chiedendo la natività di un bambino estinto, come s’egli fosse anche vivo, e ricevendola tuttavia dall’astrologo felicissima?

XVII. Mi giova riferire una beffa, anche più piacevole, che un principe italiano si fè di sì vana scienza, affine di schernire, come a lui parve giusto, frode con frode (Millet. prop. 19): Questi avvisato del nascimento di un mulo nelle sue stalle, ne fece dare all’astrologo il punto esatto, sotto un nome di un bastardo nato in palazzo. E l’astrologo di ciò ignaro, postosi lungamente a studiare su quell’oroscopo, per la speranza di ottener tanto più di vantaggio alla sua fortuna, quanto più egli ne presagisse all’altrui, trovò subito in cielo due luminari ne’ segni maschi, assistiti da cinque pianeti mattutini in riguardo al sole, e vespertini in riguardo alla luna; e conchiuse che il cielo non poteva essere mai più bello, e che però non potendo quel bambino essere re, come ad ogni patto volevate Tolomeo sotto quegli aspetti (L. 4. de iudic. c. 3), conveniva per necessità che fosse sollevato alle prime dignità, ancora sacre, di cui capaci si fossero i suoi natali. Questi furono i vaticini che, recati al principe e letti da lui pubblicamente a’ suoi cavalieri, empirono tanto il volto di rossore a quel valent’uomo, quanto credea che gli dovessero empire le mani d’oro. Pertanto converrà dire che se le stelle mandano su tutti i viventi gli stessi raggi, una bestia nata sotto i più favorevoli che vi sieno dovesse andar per lo meno libera da ogni soma per tutta la vita sua, o che se alcuna ne avesse pure a portar mai, come l’altre, dovesse puramente, qual mulo illustre, sottoporgli omeri a qualche lettiga reale.

XVIII. Non è di poi meno falsa, l’altra proposizione, su cui si appoggia l’astrologia giudiziaria per tenersi in piedi, ed è, che le volontà degli uomini seguano per lo più il temperamento de’ corpi subordinato alle stelle: ond’è, che per esso può verisimilmente congetturarsi ciò che quegli sian per volere. Sì, se null’altro ostasse a tal congettura.  Conciossiachè quanto importa primieramente a variar l’indole, l’inclinazione, i costumi, la buona e rea educazione che sortisca? Su ciò si fonda principalmente la stima in che tutte le genti han tenuta sempre la nobiltà de’ natali: su la presunzione, che reca seco di andar congiunta con educazione più onorevole, attesi gli stimoli che di più lo porgono al fianco le operazioni degli antenati, in virtù di cui, quasi a generoso corsiere, se le raddoppi la necessità  di portarsi più risoluta in cima alla gloria. Onde in ordine ad un allevamento tale (stimato da’ legislatori la base potissima dell’umana felicità), che parte hanno le stelle? Se non vogliam delirare, nessuna affatto: mentre ciò non dipende da alcuna qualità corporea, cui solo può stendersi l’efficienza de’ cieli. Tanto più, che questa medesima educazione riceve gran vantaggi e gran varietà dal governo de’ dominanti, dalle pene, da’ premi e dalle leggi da loro tenute in vigore. Vogliamo noi credere, che le stelle influissero diversamente in Atene, in Sibari, in Sparta, situate in distanza nulla considerabile quanto agli astri? Eppure gli ateniesi erano sì ingegnosi di spirito, i sibariti sì femminili, gli spartani sì forti. La diversità non veniva però dal cielo, ma dal governo. Quel bracco di buona razza, che, se da piccolo fosse stato avvezzato a latrare intorno alla morta pelle di un orso, avrebbe animo di sfidar le fieranche vive nella lor tana; perché all’incontro fu avvezzato in cucina da un guattero poltroncello a covar la cenere, appena da lontano lo mira, che fugge in salvo.

XIX. Medesimamente il vivere in compagnia de’ cattivi, chi non sa, forse anche a suo costo, quanto pregiudichi alla sincerità de’ costumi? Un cedro marcio è men abile ad ammorbare quel sano, cui sta vicino, che un reo compagno quel buono: Sumuntur a conversantibus mores, diceva Seneca (De ira 1. 3. c. 8), et ut quædam in contactos. corporis vitia transiliunt. ita animus mala sua proximistradit.

XX. Cosi anche il rimprovero interno della coscienza, quanto vale a ridurci sul buon sentiero? quanto l’avviso di un consigliere fedele? quanto l’ambizion di una carica fruttuosa? Il timore di non rovinare i figliuoli, non è bastante a rattenere da più vendette anche un animo pronto all’ira? Quanti disordini viene a distornar nelle case una moglie saggia, coll’autorità che le danno le sue maniere? quanti raffrena la dignità del suo grado? quanti ritiene il detto delle sue genti? E con ciò, che hanno a fare giammai le stello? Anzi tanto meno vagliono queste di tutto ciò, che non v’è tra’ saggi chi esse chiami più volentieri a consulta sui propri affari, con persuadersi, che esse li guidino meglio. Ne’ matrimoni, ne’ cambi, nelle compere, ne’ litigi da imprendersi che si fa? Si pesano le ragioni, non si va di notte, neppur dagli astrologi, a interrogare i pianeti apparsi.

XXI. Però, quando ben per via delle stelle potesse risapersi il temperamento di verun uomo (che neppur si può risapere), il volere tuttavia dal temperamento raccorre in altri le propensioni che egli abbia, e dalle propensioni indovinare le operazioni libere che abbia a fare, è molto più temerario, che se entrando nelle stanze di Apelle, volessero altri indovinar le figure ch’egli formerà sulla tela che ha quivi all’ordine. Perché in fino né Apelle, né Protogene, né Parrasio, né Raffaello, indettati insieme, sapranno mai rimenare sì variamente, e rimescolare le loro tinte, che non sia sempre più varia la combinazion che può fare l’arbitrio umano de’ suoi pensieri, nelle risoluzioni a cui vuole apprendersi.

XXII. Replicheranno gli astrologi che essi non pronosticano ciò che assolutamente sia per succedere dalle volontà de’ mortali, ma ciò che succederebbe, se le inclinazioni impresse dalle stelle nel temperamento de’ corpi non fossero disturbate. Bellissimo sotterfugio. Ma se è cosi, pronosticano dunque essi ciò che non sanno, né possono sapere, se sarà mai. Perciocché queste inclinazioni verranno sempre variate dalle cagioni mentovate di sopra, che sono inescogitabili; ed affinché non si varino, converrà ritrovare un uomo, che viva fuori del mondo o non v’entri mai. Che se, al detto dell’Angelico (1. p. q. 57. art. 5), quelle verità contingenti, che accadono rade volte, non possono mai sapersi da verun uomo prima che accadano, bisognerà pure confessar, che l’astrologia giudiziale non è scienza, ma ciurmeria.

XXIII. E che sia così, non ha dubbio, che ad arrivare le inclinazioni degli uomini molto più dovrebbon valere le regole della fisonomia, la quale si fonda sul temperamento già lavorato dalla natura nel corpo umano, di quelle che ci porga l’astrologia, la quale si fonda sul temperamento che ancora ha da lavorarsi (Arist. Prior, 1. 2. e ult. phys. c. 1. etc.). Il curatore de’ cani, all’aspetto sa riconoscere il cane ardito: il cozzon de’ cavalli, all’aspetto sa ravvisare il cavallo altero. Così il fisonomista, all’aspetto sa raffigurare se l’uomo sia forte o timido, verecondo o sfacciato, umile o superbo, ingegnoso o goffo; mercecché convenendo in quei segni tutti gli animali sottoposti a tali affezioni, e non vi convenendo alcuno degli altri non sottoposti, giustamente egli ne deduce, che siano segni da poterle indicare al pari negli uomini anch’essi, benché superiori agli altri per la ragione. Eppure da que’ segni di forte, di timido di verecondo, di sfacciato, di umile, di superbo d’ingegnoso, di goffo, anzi neppure dalle inclinazioni già comprovate per tali segni, può mai sapersi, come Aristotile afferma (Physon. c. 2. n. 11), se uno sia soldato, sia musico, sia medico, sia architetto, e per aggiungere ancora ciò, sia prelato di santa chiesa. E come dunque da’ segni di quelle inclinazioni, anzi da quelle inclinazioni medesime può dedursi che egli sarà? E la ragione fondamentale si è, perché ad essere, a cagion d’esempio, prelato di santa chiesa, non basta l’inclinazione della natura data allo studio, alla pietà, alla prudenza, alla rettitudine, ci vuole di più chi ti ammaestri a proposito, chi ti porti, chi ti promuova, e chi al confronto di mille competitori, non meno di te meritevoli, elegga te. E ciò si può inferir dalla inclinazione che in te prevalga?

XXIV. Divinamente insegnò Aristotile (L . 2. phys. c. 7. text. 53), esser la fortuna, sì prospera come avversa, ignota ad ogni uomo, perché gli effetti, separati e sconnessi, a cui ella può stendersi, non han fine: e l’infinito, come infinito, non abita nella mente di alcun mortale. Eppure la fortuna, sì prospera come avversa, è quella che si arrogan gli astrologi di mettere alla tortura tra le lor sèste, perché confessi loro tutto ciò che ella sia per fare.