GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (7)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(7)

9. La rettifica dell’intenzione

Per mettere delle solide basi alla nostra personale perfezione occorre studiare il metodo di qualunque atto della nostra vita. Perché le nostre azioni siano veramente valevoli e realizzino a poco a poco uno stato perfetto, bisogna che impariamo a farle tutte, senza distinzione, per quanto ci è possibile, con determinate condizioni. L’attenzione nostra, la volontà, la generosità si misureranno qui attraverso una disciplina, un’insistenza, perché noi dobbiamo acquistare l’abitudine di compiere ogni cosa con talune condizioni. – Quali sono dunque le condizioni che dobbiamo porre perché le nostre azioni siano veramente valevoli? Voi sapete che perché le nostre azioni siano veramente valevoli davanti a Dio e meritino, devono essere fatte in stato di grazia di Dio; se manca questo presupposto, essenziale per l’acquisto di qualunque merito, si potrà ottenere dal Signore grazie per la vita presente e grazie anche per la conversione, ma niente si guadagna per la vita eterna. E perciò è molto importante che questa condizione ci sia. E allora vengo alle altre condizioni. La prima di esse già è stata studiata, ma richiamarla mi dà modo di completarla dal punto di vista pratico. – La prima condizione perché le nostre azioni siano valevoli e raggiungano il massimo della perfezione è la rettitudine dell’intenzione: ne ho già parlato. Ma è opportuno il richiamo per venire a parlare dell’aspetto pratico della rettitudine d’intenzione. Vi ho detto che ci vuole la massima cura per renderla quanto ci è possibile attuale; non accontentarci di quella abituale, e nemmeno restare in quella virtuale, ma arrivare a quella attuale. Tuttavia io non vi ho dato alcun consiglio pratico in merito. Il consiglio pratico è questo: bisogna acquistare l’abitudine di formulare esplicitamente l’offerta a Dio di tutte le azioni della giornata, nessuna esclusa. Quando iniziamo la giornata e diciamo con la mente in stato di coscienza le orazioni del catechismo, questo viene fatto perché nelle orazioni del catechismo c’è l’offerta delle azioni della giornata, c’è la formulazione della intenzione rettissima la quale, se poi non avrà altri soccorsi lungo la giornata, potrà da attuale diventare virtuale o soltanto abituale. Ma almeno una intenzione abituale c’è ed è già qualche cosa. Tuttavia questo non è tutto quello che noi dobbiamo desiderare di fare; è un po’ troppo poco per chi vuol vivere veramente una vita spirituale. – E allora è necessario che vi siano nella giornata dei momenti scaglionati, e più se ne metterà e meglio sarà, nei quali si rinnovi la formulazione dell’intenzione che, notate, ha due aspetti: l’aspetto di offrire a Dio e l’aspetto di dare una direzione superiore alle nostre azioni. – Anche il secondo aspetto è importantissimo agli effetti della sincerità, della umiltà e del valore degli atti nostri, quello di rettificare l’intenzione. Qui è il momento di parlare non della rettitudine, ma della rettifica dell’intenzione. Per la vita spirituale e per il cammino di perfezione, la rettifica di intenzione è una delle cose fondamentali. È facilissimo che con tutta la buona volontà nostra, con tutta l’attenzione e con tutta la meditazione, inoltrandoci nel nostro dovere quotidiano, a un certo momento, per un certo incanto o per una certa attrazione o per una certa fantasia o per una certa distrazione, si finisca col compiere quell’azione buona che si sta facendo con uno scopo diverso da quello che era concepito inizialmente, cioè è possibile che lo si cominci a fare perché agli altri piace o perché si riscuote un omaggio di soddisfazione da parte degli altri. Lì comincia il pericolo. La cosa può avere un tale carattere sornione che non ci se ne avvede e a un certo momento ci si trova come inondati dalla dolcezza di fare un’azione buona come se si fosse spalancato il cielo e tutta la luce fosse piovuta giù e ci portasse una grande dolcezza, e se si osserva bene, a un certo momento ci si trova pieni di vana compiacenza. – Credete, chi vuol avere una vita spirituale sul serio, chi vuol camminare speditamente verso Dio, con generosità assoluta, con distacco completo, con dedizione seria all’amore del Signore, deve praticare, se già non lo fa, l’uso della rettifica di intenzione durante la giornata. Al mattino si comincia con la rettitudine d’intenzione, con l’offerta a Dio, ma nel prosieguo la rettitudine, per rimanere tale, ha bisogno di un’altra cosa, ha bisogno della rettifica. Ogni tanto bisogna dire: Signore, qui il mio povero asino sta per andare fuori strada; Signore, io agisco per te; non per me, ma soltanto per te. È una pratica questa che quando fosse consacrata in qualche pia giaculatoria, in qualche cosa che, direi, deve avvenire quasi per regolamento, sarebbe una pratica santissima e del massimo interesse. Per quale motivo tante anime cominciano il mattino benissimo: si levano, pregano, salutano il Signore con la freschezza dei raggi dell’aurora, poi la Comunione, poi tutto bene, l’ardore, la quiete spirituale, la pace, la sicurezza, ma a un certo punto della giornata comincia un dondolio, si comincia a pencolare di qua e di là, per cui alle volte la sera le oche sono lì tutte spennacchiate e hanno bisogno di rifarsi qualche pezzo d’ali perché hanno perduto per la strada metà di sé stesse? Perché è mancata la rettifica d’intenzione. Alle volte si comincia a fare un discorso, e il discorso è giusto, si parla di qualcosa anche di spirituale; ma a un certo momento si deve nominare qualcuno; per la nostra superbia occorre che nel discorso passi qualcuno, siamo come il cacciatore che sta lì da dieci ore ad aspettare che passi un uccello e gli spara subito. Siamo fatti così. La nostra superbia è sempre in agguato; basta che nel discorso passi un nome che, se non si sta proprio attenti, ecco una mossa, una tirata, un giudizio, una schioppettata. – Voi capite, vero, quante volte bisogna fare la rettifica d’intenzione! Ma la rettifica d’intenzione deve essere continua. Concludiamo. La prima caratteristica che rende perfette le nostre azioni è la rettitudine. Ma aggiungo che questa rettitudine d’intenzione, che è da farsi a ogni inizio di giornata, è da rinnovarsi più che si può, legandola a tutte le pratiche di pietà. Bisognerebbe che ogni pratica di pietà cominciasse con la rettifica d’intenzione perché, siccome in una giornata se ne fanno parecchie di pratiche, se si segue la serie di quelle, effettivamente in una giornata si ha la riabilitazione di noi stessi almeno attraverso la rettifica d’intenzione. Se ce la fate fino alla sera, la sera potete cominciare a cantare veramente, perché quando uno è arrivato a mettere insieme in una giornata una perfetta rettitudine d’intenzione in tutto quello che ha fatto, e ciò che ha fatto l’ha fatto perché era il suo dovere, perché lo voleva Dio, perché lo portava a Dio e non per un altro motivo, ed è sempre stato pronto a scacciare anche qualsiasi incosciente sbandamento, arriva alla fine della giornata e può dire: adesso ho diritto di dormire. – Anche quello con rettitudine d’intenzione, e senza essere tenuto a rettificarlo, perché dormendo non si pecca. – La seconda condizione è l’attenzione. Che cosa vuol dire l’attenzione? Vuol dire fare in modo che nell’atto libero umano, umano in quanto c’entra la intelligenza e la volontà, la intelligenza non si offuschi, non si stanchi, cioè inizi con chiarezza; veda quello che fa e poi non s’offuschi, resista tanto quanto occorre per potere in piena chiarezza portare l’atto fino in fondo. L’attenzione è questa. Accendervi la luce sopra, in modo che non se ne vada in crepuscolo, in incoscienza, ma sia chiaro. Siccome il valore dell’atto, a parte la grazia di Dio che è sempre la radice soprannaturale prima delle nostre azioni, inizia da quando c’entra la nostra intelligenza e la nostra volontà, è molto importante che l’intelligenza non si oscuri. E questo si chiama attenzione, fare caso a quel che si fa. Badate che quando si accende l’intelligenza, quella muove la volontà. Ma è la intelligenza che deve essere tenuta accesa contro la forza dell’abitudine che, ripetendo gli atti, può far sì che noi ci dispensiamo dal metterci l’attenzione. Sono le abitudini le tentazioni contro questa seconda caratteristica che rende gli atti perfetti. Come vedete, non occorrono molte disquisizioni per parlare della seconda caratteristica, l’attenzione. Ma è evidentissimo che questa caratteristica decide proprio del valore dell’atto perché tiene accesa la sorgente di luce che, per quanto riguarda noi, dà valore all’atto. E se quella si estingue, a un certo momento si estingue anche il valore dell’atto. – Io non parlo degli effetti buoni che ne vengono in campo umano, perché voi sapete che il lavoro rende in quanto si fa con attenzione. Ma io non sono qui per difendere la dottrina della produttività, a me interessa una dottrina più grande che è quella della santità. Ed è certo che è proprio da questa attenzione che deriva tutta l’efficacia del nostro lavoro. L’abitudine e la fantasia sono due grandi nemici dell’attenzione. – Lasciamo stare la fantasia e parliamo dell’ abitudine. Vi sono degli atti e, manco a farlo apposta, sono i più grandi, i più santi, che vengono ripetuti continuamente nella nostra vita, da farci cascare, nolenti o volenti, in una certa abitudine. E allora la forza dell’attenzione va portata là. Sono gli atti più grandi. Noi sacerdoti diciamo la S. Messa tutti i giorni; e proprio perché la diciamo tutti i giorni, siamo nel pericolo, tutt’altro che lieve, di finire col fare forse bene tutto meno che dire la S. Messa. Perché l’abitudine dispensa dalla attuale attenzione. E se non c’è una ripresa di volontà quanto mai energica, impegnata e assoluta, si finisce col fare tutto sul tapis roulant, senza nemmeno muovere un passo. – Voi avete delle adorazioni, degli atti comuni, delle preghiere da dire, e io osservo che le dite bene, non ve le mangiate, non precipitate; osservo che cantate bene i Salmi, fate bene le genuflessioni. Per carità, difendete quanto potete questo modo di pregare. Lo so che si può fare anche esternamente tutto bene e poi con la testa essere a caccia; però, se anche l’atto esterno è fatto bene, non c’è dubbio è sollecitato anche l’ordine interno. Attenti perché le cose che si fanno tutti i giorni sono quelle che vengono massacrate quando l’attenzione se ne va, perché l’attenzione, andandosene estingue la sorgente del merito. Non che manchi totalmente il merito, perché per quel poco che l’attenzione sarà rimasta accesa, qualche cosa avrà fatto; ma come quella si estingue, dove va a finire il merito? Rimarrà semmai il merito dell’intenzione virtuale, in quanto essa ha spinto all’azione, e la sequenza è ancora sotto la prima spinta; ma è finita con la perfezione. La perfezione domanda l’attenzione. Age quod agis. – La terza è la diligenza. È una cosa diversa dall’attenzione, anche se la può comprendere. Perché, mentre l’attenzione consiste in un fenomeno intellettuale, che tiene accesa la lampadina elettrica e non permette che s’entri in ombra crepuscolare, la diligenza è piuttosto una funzione della volontà. La diligenza sovvenziona continuamente con la forza di volontà, e sovvenziona in modo da arrivare al dettaglio dell’azione, alla sfumatura dell’ azione e, attraverso il dettaglio e la sfumatura, alla perfezione e perfino all’imponderabile dell’azione. – È chiaro che se non c’è un intervento della volontà, le azioni vengono raffazzonate, con grandissima facilità s’accorciano, si rabberciano, si tirano. Ci vuole una erogazione di forza di volontà perché s’arrivi al dettaglio, alla sfumatura, perché si realizzi la precisione, si raggiunga perfino l’imponderabile; allora l’azione è a posto. – Non sto a dire che cosa sia la diligenza nella produttività, di questo si occuperanno gli economisti, non noi. Dico che per la santità ci vuole la diligenza e che la diligenza è l’elemento condizionante la perfezione dell’atto. Sì, perché, a parte la grazia del Signore, le sorgenti del valore dell’azione nostra, sono due: l’intelletto e la volontà. Se si estingue l’attenzione, è dimostrato che se ne va il valore, almeno in parte; se si estingue la volontà, cioè se viene meno la diligenza, parte l’altra sorgente; se poi partono tutte e due, immaginatevi il risultato! – Ora veniamo al quarto punto. Il quarto è l’amor di Dio e con questo va a posto tutto, perché se ogni atto concepito perfetto vale 90, l’amor di Dio lo prende a 90 e lo porta a 100, a 200, a 1000. E qui ci si ferma. Qui la scala non può enumerare gli scalini; chi più ne ha, più ne metta. Il motivo dell’atto lo condiziona l’amor di Dio. È vero che il motivo può ricadere nel fine, cioè nella prima condizione, però è opportuno tenerle distinte allorché si è in sede di trattazione perché, è evidente, non è necessario che motivo e fine coincidano; anche se il fine diventa generalmente il motivo, possono essere distinti. Per questo è opportuno trattarli distintamente. – Fare quel che si fa per amore, ecco. Quanta gente che fatica da mattina a sera è contenta di faticare. Non che fatichi per la santità, no, no; è contenta perché lavora per amore. Ha una famiglia, ha dei piccoli in casa, e guardate come lavora volentieri. Quando il lavoratore non lavora più volentieri, c’è da temere che non ami più del tutto la sua famiglia. L’amore trasforma tutto. Quando le cose si fanno per amore, entrano in una possibilità nuova, in una risurrezione degli atti se fossero morti, in una vivificazione degli atti già vivi, in un potenziamento, in una elevazione ad alta potenza degli atti. – Parliamo dell’amore di Dio. Sentite, ci vuole un certo calore per tenere in piedi tutta sta macchina: rettitudine, rettifica d’intenzione, attenzione, diligenza; ci vuole del calore. La preghiera porterà questo calore e poi porterà la grazia di Dio e sarà erogazione di energia continua. Ma anche noi dobbiamo metterci la nostra parte, perché se questo calore ci viene a mancare, si cadrà in quella rigidità nella quale si cammina a vuoto; viene la tiepidezza, la mancanza del gusto spirituale, la tenebra. E allora non c’è che una cosa che salvi, è l’amor di Dio. L’amore salva anche senza gusto, nella notte oscura. Se non c’è questo, non ci si salva. Quando si passa nella notte oscura, direbbe S. Giovanni della Croce, cade tutto, perché allora arriva quel tale fenomeno che si chiama la spoetizzazione. È un fenomeno che nella vita spirituale va tutt’altro che trascurato. C’è della gente che vibra di santità, ha l’apertura dell’aquila nelle ali, ma fintanto che i termosifoni sono accesi; spegnete quelli e voi vedete che viene la tiepidezza, viene lo choc nervoso, l’interruzione della corrente, del sentimento, cioè viene la spoetizzazione. Fintanto che c’è la poesia, la devozione cola come il miele giù nell’esofago; ma quando non c’è più il miele, si chiude il capitolo. Ci sono dei temperamenti nervosi che quando il tempo si mette sullo scirocco sono a terra, non fan più niente, non han più voglia di fare niente, nemmeno di andare in Paradiso. Come cappe di piombo. E talvolta noi uomini siamo così deboli che siamo proprio, come costituzione fisica, alla mercé dello scirocco o della tramontana. Siamo così, con tutte le arie che ci diamo. Talvolta basta un piccolo choc perché s’interrompa la corrente, non si sente più nulla; una piccola contrarietà, una piccola umiliazione, un piccolo fallimento basta perché lo choc sia tale da inchiodare anche per una giornata, per due, per tre la vibrazione del sentimento, che è quella che aiuta ad amare Dio. Succede che una persona che stravolge gli occhi e va a vedere un bel quadro perché sente l’arte intimamente, se si trova davanti a un quadro di Raffaello, lo guarda come se guardasse il carro della spazzatura, non sente più niente. Si può trovare la persona che si esalta con le magnificenze, mai abbastanza decantate, della divina Liturgia e che dinanzi alla più grande coreografia religiosa seria, vera, profonda, si trova allo stesso livello del banco sul quale si siede. Sono fenomeni che succedono, e quando si parla di vita di perfezione, bisogna tenerli in considerazione, perché se noi trattiamo delle vicende della santità come se di casi avversi non ce ne fossero mai, poveri noi, non arriveremo mai alla santità. – Guardate che i fenomeni della spoetizzazione, chiamateli choc, aridità, tutto quello che volete, vengono con una facilità tale che possono compromettere quello che noi andiamo componendo. Dunque bisogna prendere dei provvedimenti che siano validi. Il più valido è questo: tutti gli atti debbono avere sempre per movente l’amore di Dio. L’amore vero, non l’amore sentimento, non abbracci, baci, dolcezze, quella sarebbe una società di mutuo sfruttamento, non l’amore. L’amore è un’altra cosa, è volontà in atto, è forza. E voi capite quanta necessità ci sia perché l’amore sia veramente forte. Ecco, queste sono le quattro condizioni perché le nostre azioni costruiscano l a perfezione della nostra vita. Non spaventatevi; se farete l’orazione come va fatta, tutte queste cose diventeranno facili, e allora sì che l’abitudine, invece di essere un imbroglio, diventerà un sussidio. E Dio lo voglia!

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (6)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(6)

  1. La rettitudine d’intenzione

Per costruire l’edificio della perfezione le considerazioni grandi debbono adattarsi anche a quelle piccole. E vi porto sul terreno assolutamente pratico per continuare l’argomento di come si faccia a vivere di fede. Perché il vivere di fede è certamente il fondamento della nostra perfezione. –  Vorrei insieme, obbiettivando, cominciare a dare delle indicazioni precise e completamente definite, di concretezza pratica; e per raggiungere l’uno e l’altro scopo vi parlo oggi della rettitudine di intenzione. Perché è impossibile che si cammini nella perfezione se la nostra intenzione non è retta. Se noi trascurassimo questo punto, come fanno molti, noi metteremmo l’una sull’altra delle pietre anche preziose, ma a tutte queste pietre mancherebbe un fondamento. Chi veramente e decisamente vuole volgersi verso il suo Signore e Padre deve stare attento a sistemare la propria intenzione. Innanzi tutto parliamo della intenzione e poi della rettitudine intenzionale, perché se non abbiamo l’idea chiara di che cosa sia l’intenzione e di quale funzione essa sia rivestita e del beneficio che essa dà, noi batteremmo l’aria. – Che cosa è l’intenzione? L’intenzione è un atto composito dell’anima per cui l’anima vede con la sua intelligenza uno scopo e vuole, ecco la facoltà motiva, vuole che sia raggiunto quello scopo. L’intenzione è l’atto col quale ordina, infila verso una direzione il proprio atto. Questo infilare verso una direzione è atto composito, perché risulta e della visione dello scopo e dell’atto motivo verso quello scopo. C’entra insieme l’intelligenza e la volontà. Questa è l’intenzione, e credo di non dover spiegare oltre perché la cosa è chiara, e talvolta per spiegarle, le cose chiare si fanno diventare oscure. Ma il bello viene ora, perché quello che soprattutto si deve guardare è che l’intenzione ci sia. Che vuol dire? Avere una finalità in ciò che si fa. Se noi osserviamo bene i vuoti maggiori che si creano nella vita spirituale, il che è dannosissimo alla perfezione, dipendono dal fatto che manca assolutamente l’intenzione. Si fa, ma sfugge all’intelletto il perché si fa; si fa, ma non si vuole nulla. Si fa, perché? Se uno mi misura un pugno, io, prima di volere qualunque cosa, alzo la mano e paro. Molto prima: si fa e basta. Vedete come si delinea quel caratteristico tipo di vivere che è di moltissimi, cristiani e non cristiani: non pensare affatto che un’azione possa avere un ordine, che possa servire a uno scopo e debba essere indirizzata a uno scopo. Se io chiedo a uno: perché stai seduto? Mah, sto seduto perché mi sono seduto. Chiedo a un altro: perché canti? Perché canto? Mah! Andiamo un po’ a vedere: forse perché sono un po’ allegro, ma di preciso non lo so; canto perché canto. È proprio questo l’impoverimento dell’azione, manca della sua luce che la eleva, la illumina, la mette su una strada, non la lascia come rifiuto al margine della strada. Il discorso serio a proposito di intenzione è questo. Ci sono troppe rarefazioni di intenzione nella nostra vita. Perché? Cerchiamo di dare una risposta pratica, concreta a questa domanda. Probabilmente la prima ragione per cui c’è una rarefazione di intenzioni nella nostra vita è una disistima, nel subcosciente, delle proprie azioni o di parte delle proprie azioni. Disistima. Che io stia in piedi o stia seduto, è niente. No, non è niente, è qualche cosa. Che io mangi, che io beva, è niente: mangiare è un’azione banale. No, non è niente, è qualche cosa. Che cos’è mangiare, bere, dormire? Sono tutte cose della vita vegetativa, animalesca. Sì, ma non sono del tutto animalesche, perché l’anima c’entra un pochino anche quella, tanto più che, se non entra per niente, scappa. Ma non sono niente, sono qualche cosa di più che niente, tante azioni che sono il legamento tra uno stato e l’altro, tra un’azione e l’altra; ma se sfuggono, piombano nel pozzo di questa disistima. Che io mi sia mosso per arrivare fin qui, è niente. No, non è niente; è qualche cosa, perché io non sono niente, poco sì, ma niente no. La disistima. Questa disistima ha bisogno di essere corretta con una dottrina precisa sulla inesistenza degli atti indifferenti. Quando si compie un atto umano, e atto umano è quello in cui la mente vede e capisce e la volontà vuole, cioè quando non si è in stato d’ebrietà, d’anestesia o di forte sofferenza o di sonno, l’atto umano non è mai indifferente; è buono o cattivo, cioè quando non è cattivo è positivamente buono. Perché qualunque atto nell’uomo ha sempre un ordinamento, e comunque basta il fatto che c’entri l’avvertenza dell’intelletto, che si muova questa luce suprema che viene accesa da Dio e ci sia l’intervento della volontà, e questo lo rende ricchissimo di qualche cosa, anche se esternamente può sembrare perfettamente indifferente e perfettamente inutile. Non esistono atti umani che siano indifferenti. I moralisti in qualche momento si sono accapigliati fortemente su questa questione, perché qualcuno aveva voluto sostenere che l’atto può essere indifferente, ma la sentenza comune è stata che l’atto non è mai indifferente. È questo che bisogna mettere in chiaro; e voi siete in grado di misurare che importanza abbia tale dottrina per la nostra vita. – Non parlo della attenzione perché di questa ne parlerò dopo. Bisogna pure stimare la perfezione dei singoli atti, ma la base dei singoli atti sta sempre nella intenzione. Questo è il primo motivo per cui c’è la dissuetudine, dissuetudine contro la quale bisogna lottare vigorosissimamente se si vuole andare verso la perfezione. Perché effettivamente se noi lasciamo cadere l’intenzione, possiamo lasciar cadere nel nulla la maggior parte delle azioni della nostra vita. E queste azioni che cadono nella dissuetudine rappresentano il più della nostra giornata. Poiché la nostra giornata non è fatta di una firma di Versailles o di un trattato di Cambrai. La vita è fatta di tante cose piccine, miserelle, comuni, domestiche, persino ridicole. Siamo dei poveretti; di cose illustri ne facciamo poche; quando ci pare di fare delle cose illustri, se dicessimo di fare delle cose illustri faremmo ridere. Ma quello che forse non vale niente per il mondo, e nemmeno per noi, spesso vale per Iddio. Ora l’effetto della dissuetudine dell’intenzione è questo: lasciar cadere nel nulla una parte della nostra vita. E questo è esattamente il contrario della perfezione, che è l’impiego massimo di tutto nella volontà di Dio. È vero che non sarà sempre così, perché qualche volta, e molte volte, l’intenzione si può salvare, anche se non è attuale, attraverso l’intenzione abituale, cioè quella tale intenzione implicita e virtuale; e molte volte queste intenzioni qualche cosa muovono e qualche cosa comunicano alle azioni che vengono in un modo o nell’altro vivificate. Però è troppo poco, se uno al mattino fa l’atto di indirizzo giusto nelle proprie azioni e dice: tutto quello che oggi farò, di qualunque natura sia, di qualunque ordine e grado, intendo farlo per la gloria di Dio, direttamente o indirettamente. Certo, questa intenzione riflette già una luce su tutti gli atti della giornata. Ma io mi chiedo: quanti fanno questo? E mi chiedo alle volte: che razza di colpa abbiamo noi, e molti nostri confratelli, se queste cose non le insegniamo al popolo? E così, per quel che può dipendere da noi, molte cose cadono nell’inutilità. È consolante pensare che a molti fedeli, ai quali noi non facciamo da parroco, fa da parroco Dio. Se non ci fosse questo, ci sarebbe veramente d’aver freddo a riflettere su queste carenze di cui noi siamo, molte volte, i responsabili. – L’altra ragione per cui manca la intenzione è simile alla prima, ed è probabilmente l’influsso della poca stima che gli altri, e tra gli altri ci siamo anche noi, hanno e abbiamo delle cose che non sono illustri. E allora questa poca stima si riverbera su di noi e ci aiuta a mettere da parte tutto ciò che non è illustre. Io osservo che quando chiedo a certa gente: Ne fate di opere buone?, stanno un po’ a guardare, fanno un po’ d’esame e poi dicono: Beh, qualche elemosina l’ho fatta. Oh, poverini, se voi credete che le opere buone siano soltanto fare l’elemosina, siete nel falso! Opera buona è anche nel bicchiere di acqua che bevete. La gente non ci fa caso: chi fa caso alla cosiddetta povera gente che con gli stracci luridi cammina per le strade? Chi fa caso a tutte quelle povere donne che in fondo a una casa, e non sempre in una casa molto agiata, lavorano tutto il giorno, da mane a sera, non escono quasi più, sono lì, fanno da mangiare, lavano, stirano, rammendano, fanno i conti, pensano e ripensano come far quadrare i bilanci? Gli altri se ne vanno, poi tornano a casa; i sorrisi li hanno esauriti e portano soltanto i musi. E ci sono tante altre cose — forse il primo pensiero, nei nostri ricordi, cammina a quel che faceva nostra madre — ci sono tante altre cose che sono sullo stesso piano e che il mondo ignora perfettamente. Adesso fra i tanti premi che si danno, meno male che si sono messi a dare un po’ di premi della bontà! Non dico che indovinino sempre, ma almeno quella è una cosa che non farà ridere, perché forse si ha da ammettere che degna di stima, per il riverito pubblico, è un’azione alla quale prima non pensava nessuno. Ma non hanno mai fatto il monumento alla povera donna che lava i panni, non l’hanno mai fatto il monumento al povero spazzino! Eppure l’ordine degli spazzini non è forse benemerito in una città? Il mondo non tiene conto di quasi niente. Ed è appunto perché non tiene conto di quasi niente che noi finiamo, per riverbero di quella disistima, col non tener conto quasi niente di quello che ci riguarda e gettiamo via tutto. Non c’è nulla da gettar via, quasi nulla. Nell’ordine spirituale bisogna avere un criterio economico molto di più che non in quello materiale. Non che nell’ordine materiale non ci stia bene l’economia, perché quando c’è, l’economia mette a posto cinque o sei virtù di quelle abbastanza importanti che sono piantate lì con dei chiodi che non li scardina nessuno. – Ma io parlo dell’economia nell’ordine spirituale; e perché dobbiamo essere prodighi proprio in questo e lasciare che molte cose se ne vadano così, senza sugo, senza gusto e senza risultato né per noi né per gli altri? Mi pare che il discorso sull’ intenzione sia finito e sia abbastanza importante per il nostro progresso spirituale e per la nostra perfezione cominciare a riqualificare tutto quello che lasciavamo cadere nella spazzatura. È tutto buono, tutto oro colato. Ora nel nostro studio diciamo così: La intenzione è quella che dà la rivalutazione di gran parte della nostra vita. Noi dobbiamo fare in modo di spingerci a mettere l’intenzione, e poi a camminare, da quella abituale emessa una volta e poi non ritrattata ma che non influisce più sull’azione a quella virtuale non ritrattata ma che influisce ancora sull’azione anche a una certa distanza; e poi, per certa colleganza di successione, alla intenzione attuale, che è la migliore di tutte, ed è proprio quella che dà il lancio all’azione, che la mette in moto: è quella che vale di più. E vediamo subito venir fuori questo grande proposito; anzi vi dico una cosa: se anche da tutti gli Esercizi non doveste cavar fuori altro che questo proposito, sarei contento. Se questi Esercizi vi portassero alla riqualificazione di gran parte della vostra vita, ci sarebbe da essere contenti. Non fate molti propositi, vi prego di farne uno solo, e potrebbe essere questo. Ricordatevi di tutto, perché volta a volta vi verrà bene. Ma fra i propositi a cui potreste legarvi a catena, limitatevi a uno o due. Perché se ne fate tre, c’è pericolo che nessuno tenga. A ogni modo questo che ho detto ora potrebbe essere il vero, profondo, rivoluzionario proposito degli Esercizi: mettere in moto la macchina dell’intezione e farla camminare, farla diventare a poco a poco da abituale a virtuale il più possibile, e da virtuale farla diventare il più possibile attuale. Perché voi capite che mettere l’intenzione nella propria vita significa stabilire la presenza spirituale nostra nella nostra vita. Quando uno mette in moto l’intenzione è sempre presente alla propria vita, ossia non vivrà con la testa nel sacco; non solo, ma oltre a stabilire la nostra presenza, con tutte le indovinabili conseguenze, s’introduce nella propria esistenza il principio dell’ordine, del metodo, ossia la vita diventa metodica, e siccome il modo migliore per poter far funzionare la macchina dell’intenzione sono i programmi, si finisce col fare una vita programmata, il che porta da solo a tre quarti della santità. Il più grande ausilio meccanico, quindi concreto, non etereo, assolutamente pratico per poter mettere continuamente in moto la macchina della intenzione è la programmazione. Vivere di programmi. Se io prendo l’abitudine di fare la sera il programma dettagliatissimo del giorno dopo, voi capite che questo programma sì che me la fa tirar fuori l’intenzione, perché per starci dietro bisogna che io per forza abbia l’intenzione continuamente presente a me stesso, altrimenti il programma mi rimane nella testa e non faccio niente. Se ho un’ora libera e dico: io in quest’ora voglio fare questo, questo io delibero, e deliberando faccio un atto di volontà, con l’intelletto pongo la intenzione. Verrà facile allora, quasi connaturato, diverrà abitudine mettere un fine alle mie azioni. Io tocco il vertice della mia possibilità se tengo lo sguardo al fine. Vedete, a questo mondo si può uscire, andare a passeggio. Dove vai? Non lo so. Cosa fai? Sto su due gambe, un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Oppure posso avere un’intenzione, che è quella di scacciare ogni altra intenzione, fare una passeggiata che mi servirà a scacciar via dei pesi; è un’intenzione, ci vuole anche quella, talvolta una passeggiata è sacrosanta. – Il programma. Io posso andare a passeggio. Vado a passeggio e voglio arrivare fino a S. Francesco. Osserverò tutti i portali della Basilica. Cosa serve guardare i portali? Beh, diventerò un po’ meno ignorante. Lo scopo è questo; e quando sarò meno ignorante, avrò uno strumento di più per sentire Dio. Tutto serve, tutto è legna che può alimentare il calore del nostro braciere. Vedete come è importante programmare le opere e la vita dei singoli uomini. Perché ci sono dei programmi perenni, ce ne sono di cinque anni, così ce ne sono di un anno, di un mese, di una settimana, di una giornata, di un’ora. Avere il bernoccolo del programma: ne salta fuori una vita ordinata, una vita che non solo riqualifica quello che ricadrebbe nella pattumiera, ma sforza ad agire enormemente più di quello che si agisce. E a questo modo si fanno tante cose. – Alle volte certa gente dice ad altri: come fate voi a fare tante cose? Come si fa? Si fa una cosa dopo l’altra, si è programmatici. Quando si è programmatici, non si sta su una gamba o sull’altra, perché anche se ci si concede dieci minuti di ricreazione, quando scoccano i dieci minuti si pianta lì e si va. Quando si programma, allora gli orologi servono a qualche cosa, e sono terribili padroni gli orologi; ma è molto meglio avere per padroni degli orologi che degli altri. Questo è il discorso sull’intenzione. – Ora bisogna cominciare a parlare di quale intenzione. Quale sarà il fine dell’acqua nel nostro corpo? Sarà di idratarci, ossia di completare quell’equilibrio idrico che è necessario per il nostro equilibrio fisiologico. Nei libri di Morale si fa una distinzione tra il finis operis e il finis operantis. Il finis operis consiste nella finalità immanente per natura sua nell’azione che si compie. Questo è il finis operis, è il fine immanente. Ma ora direte: il fine immanente, se c’è, è nell’opera stessa. D’accordo. Ma il fine che è immanente ha valore in quanto lo percepiamo noi. Perché se io perdo la nozione del finis operis, agisco macchinalmente, il che non è affatto un agire da uomo, è un agire da macchina, è un agire da bestie. È logico che non si potrà evitare del tutto l’agire macchinalmente; ma noi dobbiamo cercare di spostare l’agire macchinalmente al margine più stretto e più piccolo, vivendo invece coscientemente. Il finis operis c’è, ma ha valore in quanto noi ne prendiamo coscienza. – E allora dove sta il valore morale del finis operis? Sta in due cose. Primo, che il finis operis deve essere valevole dal punto di vista morale; secondo, che obbliga noi a vivere riflessivamente, e ritorniamo al primo punto della intenzione generica. Voi capite che è difficile pensare a una perfezione della nostra vita se noi non viviamo riflessivamente, badando a quello che facciamo; è l’adagio che i latini avevano condensato nel celebre motto « age quod agis »; fa’ quello che fai, ossia fa’ con presenza cosciente quello che fai. Non agire macchinalmente, agisci coscientemente, rendendoti conto di quello che stai compiendo. Io vorrei che non perdeste di vista che il finis operis ha questa importanza, d’essere il primo cardine della nostra sincerità. Perché siccome il finis operis è immanente, potrebbe essere trattato così: gli si sovrappone un altro fine che è completamente divergente dal primo, uno scopo in contrasto cioè con lo scopo scelto. E allora la linearità, il rispetto del finis operis diventa sempre un grande esercizio per la sincerità del nostro atto e per la rettitudine delle nostre intenzioni. Non deve mai essere avariato a danno dell’altrui perfezione, perché il finis operis deve rispettare le cose come sono. Adesso viene l’altro, il finis operantis. Il finis operantis è quello scopo che noi, senza diventare innaturali e falsi, aggiungiamo e sovrapponiamo al finis operis in modo che quel finis operis può essere immediato e piccolo, mentre il finis operantis può essere di molto più lunga e grande gettata. Io posso dare a un poveretto che passa un bicchiere d’acqua perché si idrati, se non proprio per levarsi la sete, ma glielo posso dare per amor di Dio. E voi capite bene che tra l’idratarsi e l’amor di Dio c’è di mezzo un mare, e con una simile intenzione, cioè col finis operantis, varco questo mare che separa l’azione umana da una azione soprannaturale, e il bicchiere d’acqua mi diventa quel qualche cosa di cui ha parlato anche N. S. – Gesù Cristo nel Vangelo, facendo la casistica del bicchiere d’acqua e dicendo come verrà premiato un solo bicchiere d’acqua dato sulla terra per amor suo. Ecco il finis operantis: non me ne devia la naturalezza; non comporta un elemento di doppiezza, e pertanto non sovrappone una falsità, ma sovrappone una più lunga gettata. Allora sarà questione di vedere quale debba essere abitualmente il finis operantis. Il finis operantis può essere il fine ultimo e il fine mediato. – Il finis operantis, che è bene mantenere sempre, sia con l’intenzione abituale, sia con quella virtuale più progredita, sia con quella attuale più progredita di tutte, è sempre quello di fare per l’ultimo fine, per amore di Dio. Ed è per questo che quando si formano le intenzioni di carattere generale è sempre bene enunciarle così: faccio tutto per l’amore di Dio. Almeno si saltano le intermedie, si arriva all’ultimo e la gettata è massima, il frutto è al massimo; s’impiegano col massimo interesse i nostri piccoli capitali con questa intenzione, con questo finis operantis. – Ma ci possono essere delle finalità mediate che hanno la loro moralità nel fatto di essere allineate al fine ultimo; cioè se non sono contrarie al fine ultimo, possono essere allineate al fine ultimo. Io posso dare un bicchiere d’acqua al povero non solo perché si idrati, non solo per amor di Dio, posso darlo anche perché gli altri vedano e siano mossi ad aiutarlo. Certo, se io lo faccio perché gli altri me ne diano gloria, allora è bell’e finita! Guasto il finis operis e il finis operantis; guasto tutto, se ci infilo un pensiero di questo genere. Ma se io do un bicchiere d’acqua anche perché dando io forse qualche altro imparerà a dare un bicchiere d’acqua alla gente che ha sete, il fine è mediato, non ultimo, ma è allineato al fine ultimo e pertanto ci può stare. La tecnica dei fini mediati non è da rimproverarsi, anzi è da consigliarsi, perché i fini mediati hanno il vantaggio d’attaccarsi, di prendere degli appigli che ci sono offerti, degli appigli che si trovano nella vita, cioè mettono a frutto elementi che potrebbero sfuggire, cose che si trovano fuori di noi. La rettitudine non è una cosa impostata per aria. Esiste quando ci sono tutte le condizioni che io vi ho enumerate. Ma se le condizioni che io ho enumerate non esistessero, sono obbligato d’avvertirvi: badate che la rettitudine non resiste. La rettitudine avete visto che cosa fa? In sostanza è quella che valorizza tutte le nostre azioni, perché nelle azioni rende presente il fine. Il fine ultimo « in executione » è primo « in intentione ». Il fine è quella bontà intrinseca della fede, la sorgente del suo valore morale, e pertanto, con la grazia di Dio, sorgente del suo merito eterno. Il fine è sempre la cosa più splendida di ogni esperienza. Il fine sovrasta tutto. – Mettiamoci a meditare, e nessuno pensi di arrivare alla perfezione cristiana se non ha la rettitudine sempre, dovunque, in tutte le circostanze della sua terrena esistenza.

 

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (5)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(5)

7. – L’Incarnazione del Verbo

Per poter arrivare alla perfezione bisogna vivere la propria fede. Vorrei richiamare qui un principio di carattere generale. Vivere profondamente la propria fede non significa soltanto pensarci sempre, il che è molto, significa, oltre che pensarci, uniformare noi stessi alla nostra fede; e neppure questo è ancora sufficiente; significa entrare noi, con tutta la nostra vita, nell’oggetto della nostra fede, compiere quello che Paolo chiamerebbe l’assimilazione nostra a Gesù Cristo; diventare quelli che compiono quanto manca alla passione di Gesù Cristo. Essere elementi che riproducono in sé  Gesù Cristo. – Il termine può sembrare abbastanza misterioso, ma deve divenire a poco a poco chiaro. In altri termini non dobbiamo considerare la fede come un motore elettrico che ci viene applicato e ci spinge, o ci succhia, o fa la barba, o qualche cosa del genere. Non è un motore « ab extrinseco ». Questo è il punto. Ma deve diventare, assimilato a noi, un motore ab intrinseco, il principio costitutivo del nostro essere. Se insomma questo ordine soprannaturale che la fede ci presenta non entra dentro di noi, noi non arriviamo alla perfezione. – E pertanto bisogna che da oggi questo grande principio entri in noi. Perché in realtà tutta la nostra perfezione, e cioè l’assimilazione nostra alla volontà divina, richiederà un’assimilazione della nostra intelligenza all’intelligenza divina, un’assimilazione della nostra vita alla vita divina. È necessario che tutto questo grande fatto dell’Incarnazione, accaduto nella storia e che vogliamo meditare, entri dentro di noi. Questo principio deve dominare tutte le meditazioni che noi faremo fino alla fine degli Esercizi. Ed è naturale che io debba richiamarmi a questo principio e che continuamente lo supponga anche se esplicitamente non lo dichiaro. – Meditiamo sulla Incarnazione del Verbo. E la Incarnazione non ha più oramai che un motivo solo, quello di essere un altro motivo, il più grande motivo della nostra perfezione. Perché questo è il più grande motivo: l’Incarnazione del Verbo. Ma mentre dipanerà un motivo, e il più grande dei perché noi dobbiamo essere perfetti, ci aiuterà già a vivere secondo la perfezione. – Voi sapete che cosa è stata l’Incarnazione del Verbo: il Verbo di Dio, eterno come il Padre, consustanziale al Padre, ha assunto una umana natura completa e creata, anima e corpo. L’ha assunta, il che significa che il rapporto tra sé, eterno Verbo, seconda Persona della SS. Trinità, e questa umana natura creata, umana natura individua, è lo stesso rapporto che c’è tra la nostra natura e la nostra persona. Il rapporto tra la nostra natura e la nostra persona, ossia il soggetto Io, è misteriosissimo per noi; lo constatiamo, lo viviamo, lo tocchiamo, ma è misteriosissimo. Perché anche noi uomini, per quanto piccoli, portiamo dentro di noi grandi misteri. Uno è questo. L’altro è l’unione sostanziale, che tocchiamo con mano ma non spieghiamo, tra l’anima e il corpo. Noi ne siamo certi per evidenza, ma dentro non ci sappiamo entrare. Non c’è bisogno di arrivare all’ordine divino per trovare dei misteri, li troviamo in noi; e li troviamo in noi perché, non fosse altro, ci preparano a capire la logica dei misteri. – Dunque v’è stata l’Incarnazione del Verbo. S’è determinato un rapporto fra l’eterna Persona e questa individua natura, esattamente come il rapporto tra la nostra persona, il soggetto che sostiene la nostra natura e la nostra natura stessa. Naturalmente c’è una causalità tra persona e natura; ma questa causalità, che in noi è in un determinato modo, perché la nostra persona, il nostro soggetto può essere mutevole, è limitato, diviene, cambia, in Dio invece questo non può accadere. La causalità in Dio rispetto alla creatura è sempre una causalità perfetta, ed è l’unica e vera perfetta causalità, ma di un ordine completamente diverso. Ed è per questo che mentre la nostra persona subisce la nostra natura, Dio non la subisce, non ne è per nulla toccato; è per questo che, pur essendosi incarnato, il Verbo non ha affatto mutato. Nei rapporti tra Dio e la creatura le mutazioni stanno sempre dalla parte della creatura, mai dalla parte di Dio. La realtà è perfetta, ma tutto quello che essa richiedesse di mutazione, si troverebbe soltanto da parte della creatura e non di Dio. – L’Incarnazione: Il Verbo si fece Carne, fu Uomo e abitò fra noi. E dice S. Giovanni: « Noi lo abbiamo veduto pieno di grazia e di verità ». Come è avvenuta l’Incarnazione? È avvenuta perché la Vergine Madre di Dio, la Vergine Maria, divinamente dotata e divinamente abilitata, rimanendo Vergine, e pertanto da sola, ha fornito il corpo al Verbo. E nel momento stesso in cui essa forniva il corpo, Dio creava l’anima che lo avrebbe informato; nello stesso momento in cui essa forniva il corpo e Dio creava l’anima, il Verbo assumeva questa umana natura individua ed era uomo. Dunque tutto è avvenuto attraverso la Vergine Madre di Dio, perché in Gesù Cristo la natura umana non sarebbe stata assunta se non gli fosse stata data, e per esserci era necessario il corpo, e il corpo occorreva per l’umana generazione. – Osservate bene: la funzione della Vergine Maria è stata questa: Ella ha dato il corpo a Gesù. Con questo, Gesù Cristo è stato inserito non solo nella specie umana ma nella famiglia umana. Perché noi avessimo sempre la specie umana, basterebbe ci fossero i caratteri fisiologici che la contraddistinguono; si potrebbe però non essere della famiglia umana, avere avuto cioè un altro progenitore: perfettamente simile, anzi così da essere per quella somiglianza identici, ma non essere tagliati dalla stessa pietra, dallo stesso tronco, non figli dello stesso albero. Badate bene che l’aver dato la Vergine Maria il corpo al Verbo, ha reso Gesù non solo individuo della specie umana, il che è una cosa, ma l’ha reso membro della nostra famiglia umana, il che è ben altra cosa. Perché per essere diventato così, a quel modo, per umana generazione, membro della famiglia umana, il Verbo s’è messo fisicamente in contatto con tutti i membri della specie umana, venuti al mondo per naturale generazione, per naturale derivazione, della stessa carne, dello stesso sangue che viene da Adamo; tutti i membri della famiglia umana, essendo stato il Verbo per mezzo della Vergine Maria inserito nella famiglia umana, sono fisicamente congiunti con Gesù Cristo. E qui sta la differenza tra essere semplicemente membri della specie umana e essere membri della famiglia urnana, come è stato per il Verbo. Dunque c’è questo fatto, che la Incarnazione del Verbo congloba tutta la famiglia umana, perché stabilisce il contatto, il rapporto, la colleganza di carne e di sangue con tutti gli uomini. Questo fatto non entra nella storia alla chetichella, come se si scansasse per non incontrare nulla; questo fatto entra nella storia e prende tutto. Perché tutti gli uomini, bianchi e neri, gialli e rossi, tutti ugualmente sono congiunti con Gesù Cristo. Per questo fatto, la vita che germinerà sulla loro realtà ontologica, germinerà, battezzati e non battezzati, qualche cosa che appartiene a Gesù Cristo. Tutto il genere umano viene ad essere attratto, agitato da questo fatto. Gesù Cristo non entra dunque nel mondo come simbolo; entra nel mondo con ragione ontologica, come fatto del mondo. L’Incarnazione è un fatto del mondo. Ed è per questo che nulla si sottrarrà a tale fatto. Vi prego di continuare a osservare. È perché Gesù Cristo è diventato membro della famiglia umana che l’ha potuta rappresentare. È questa colleganza che innerva la rappresentanza. Ma è questa rappresentanza che rende possibile la sostituzione vicaria, cioè l’essersi messo Gesù Cristo al nostro posto. Pertanto Lui da solo ha pagato, patendo per tutti noi. Ed è soltanto questa sostituzione, la sostituzione vicaria, che ha reso possibile il ricupero, la redenzione. La redenzione è dunque un fatto del mondo. Se noi non fossimo nati da nostro padre e da nostra madre e quindi da Adamo, e pertanto se in Adamo non fossimo congiunti con Gesù Cristo, ma fossimo caduti qui da qualche stella, noi non avremmo da fare niente con Gesù Cristo. Avremmo a che fare col Verbo Eterno, perché ci ha creati, ma noi non saremmo congiunti con Gesù Cristo. Badate bene, è la storia umana che si congiunge con Gesù Cristo. Perché tutta la storia umana è stata unita con Gesù Cristo. Provatevi a guardare intorno se vedete qualche cosa che non sia congiunto con Gesù Cristo. – Voi nella vostra spiritualità vivete essenzialmente il fatto cristologico. Eccovelo il fatto cristologico. Provatevi a guardare intorno, e vedete se c’è qualche cosa che rimanga estranea a Nostro Signore Gesù Cristo, anche se gli uomini non ci pensano. – Diceva il poeta latino: « mens agitat molem »; ma qui è vero: mens agitat molem, e la mens è Gesù Cristo. Eccovi l’Incarnazione del Verbo, e eccovi che sorta di colleganza, eccovi come tutto, attraverso questa Incarnazione, è stato assunto dal Verbo, tutto. Non c’è niente che non sia stato assunto, non solo per titolo della creazione in quanto Dio, ma per titolo della Incarnazione. Questo è l’unico fatto saliente nella storia umana, perché tutti gli altri fatti si rassomigliano, sono tagliati allo stesso modo; la diversità sta nella quantità. I fatti, si chiamino Alessandro Magno, Cesare, Pompeo, Napoleone, sono fatti dello stesso genere: è una monotonia spaventosa. C’è una diversità di quantità. Chi riesce di più, chi riesce di meno. Chi vale di più, chi vale di meno; ma agiscono tutti allo stesso modo, con gli stessi occhi, con lo stesso naso, con gli stessi orecchi, con le stesse mani e fanno tutti le stesse cose. Naturalmente i diversi rapporti danno luogo a rifrazioni diversissime, ma che ritornano sempre. Tanto è vero che tutta la storia dell’umanità è contenuta nel dramma di Adamo, e le parti distribuite allora si ripetono continuamente. Non si direbbe che la storia umana è monotona, perché la rifrazione delle stesse cause e degli stessi elementi tratti ad agire ha tale ricchezza che sembra sciorini qualche cosa di nuovo; ma bisogna osservare che la storia umana è sempre la stessa. L’unico vero fatto diverso della storia umana si chiama l’Incarnazione del Verbo. Non c’è altro. Dinanzi a questo fatto storico tutte le cose sembra che se ne vadano ad acquattarsi in fondo all’essere e alla realtà e che questa sola cosa rimanga. – Guardate che cosa succede il giorno di Natale. Succede questo: che tutti gli uomini si sentono diversi, lo vogliano o non lo vogliano. Tutti gli uomini sentono una quiete, una pace, una liberazione, sentono sé stessi diversi dagli altri giorni, tutti diversi, anche i cattivi, anche gli atei, tutti. È necessario, perché quello è il giorno in cui l’eternità sfiora il tempo; ed è impossibile che gli uomini, fossero anche ridotti al livello degli animali, nella loro stessa carne, nel loro stesso sangue non sentano agitarsi quella tal fibra che fisicamente li congiunge a Gesù Cristo. Natale! Noi non riusciamo a dire che cosa sia il Natale: non ci riusciamo davvero. Cerchiamo di andare più in là dell’intelligenza con delle emozioni che tutta la divina liturgia, ordinata a un certo modo, cerca di dare per vedere se con la emozione, e cioè con la vibrazione, riusciamo anche senza intendere ad andare al di là di quel poco che intendiamo. Ma a Natale l’emozione porta più in là di quello a cui ci conduce la stessa intelligenza. La Incarnazione del Verbo ha assunto tutto, tutto. – Guardate che di questa umana natura che ha assunta, il Verbo eterno ha proprio preso tutto come noi. L’unica cosa che non ha assunto, e non era necessaria perché era contingente ed estranea alla costituzione della natura, è stato il peccato, con tutto quello che precede il peccato e che al peccato segue, il fomite della concupiscenza che precede il peccato e che lo ha seguito. Il fomite è venuto dopo il peccato, non prima. Ora lo precede, perché lo ha seguito. Questo peccato Gesù Cristo non l’ha assunto, perché era disdicevole; ma tutto quello che era proprio della umana natura doveva essere attributo del Verbo, predicato del Verbo, predicato grammaticalmente e pertanto ontologicamente. Quelle che sono le limitazioni comuni dell’umana natura, cioè la esposizione alla passibilità, al divenire, al degradare delle forze fisiche, Gesù le ha assunte tutte. Quelle che noi chiamiamo le passioni filosofiche, non morali, cioè le possibilità di mutazione e che sono complementi della umana natura, Egli le ha assunte tutte, e pertanto Gesù ha agito, ha sentito, ha sofferto come noi. Non c’è nulla della nostra esperienza, salvo la colpa, che non troviamo in Gesù Cristo. – Del resto Gesù Cristo lo ha detto che avrebbe tratto tutto a sé. La storia ha camminato, prima che Egli venisse, secondo le esigenze della sua venuta: prima che venisse, la storia si è mossa per prepararsi a riceverlo. Abbiamo scritto l’etnologia, abbiamo scritto, fino a un certo punto, la preistoria; abbiamo scritto la storia, bene o male, più male che bene; non l’abbiamo ancora riassunta. Ma se il mondo camminerà ancora e avrà il tempo di pensare e non d’impazzire, forse la scriverà, e allora s’accorgerà con evidenza che tutta la storia prima di Gesù Cristo è stata scritta a puntino per Lui, e capirà perché certe cose si sono fermate e forse sono ferme ancora oggi. Capirà perché certe cose hanno cominciato a muoversi, ma soltanto cominciato, e sono là ancora oggi; capirà perché certe cose hanno cominciato e poi si sono chiuse in sé stesse e sono chiuse ancora oggi. Non hanno intercambio, non hanno metabolismo. Capiranno perché soltanto alcune hanno camminato; ma perché hanno camminato in un certo modo, perché si sono fermate a certi punti, perché sono scomparse in certi altri modi. Le uniche cose che hanno avuto intercambio nella storia umana prima di Gesù Cristo sono state la civiltà greca e la civiltà latina. Ma forse un giorno si capirà molto bene perché e quanto la civiltà greca è stata completamente e subitamente sommersa dalla marea musulmana compatta che non l’ha mollata ancora oggi; e quanto alla civiltà latina, si capirà un giorno perché mai una invasione barbarica l’abbia completamente disfatta e di essa si sia salvato solo quello che la Chiesa ha maternamente salvato. La storia prima di Gesù Cristo ha camminato tutta in funzione della sua venuta. La storia di Israele non è stata una storia miracolosa unicamente per il passaggio del Mar Rosso, per le dieci piaghe d’Egitto o per l’uccisione fatta dal Signore nell’esercito del Faraone e così via. Essa fu tutta un miracolo, tutta da cima a fondo, perché Dio prese un popolo, un popolo piuttosto strambo, lo piantò sulla cresta dell’onda e la cresta dell’onda era un pezzo di terra che è stato per millenni il punto di diatribe fra due mondi, il punto disputato dalle due grandi forze che si sono bilanciate nell’antichità e che tutte le volte se le sono suonate su quella cresta dell’onda. Dio l’ha messo proprio lì, non da un’altra parte, e ci sono passati tutti di lì, l’hanno schiacciato tutti e nessuno lo ha fatto morire. Non muore adesso ma neanche allora. La storia è identica. Gli imperi al di là, e cioè a est di questa linea, si succedevano l’uno all’altro dopo essersi scontrati con l’impero che stava a ovest, l’Egitto. Israele non è mai mutato. Israele è sempre vissuto, anche quando era strambo; ma arrivò a farne troppe, e Dio lo fece soffrire; non morì neppure allora, ma visse per compiere la sua missione. La storia prima di Gesù Cristo è stata per Lui e quella dopo è tutta per Lui. Egli trarrà tutto a sé. S. Giovanni nella Apocalisse ci mostra tutta la storia umana in funzione del Verbo di Dio Incarnato. Noi diciamo: i protagonisti della storia; ma non sono altro che pedine. Ricordo, quando ero studente, la persecuzione messicana. Avevo compagni miei, all’Università Gregoriana, moltissimi che avevano avuto membri della loro famiglia uccisi da Calles. Un giorno Pio XI, ed era gesto da par suo, donò all’Arcivescovo del Messico un ostensorio d’argento per cantare il Te Deum a persecuzione finita. Oggi il Messico ha la vita religiosa più vivace, più promettente, più grande di tutta l’America latina, al punto da poter sperare che il Messico diventi un fermento per il risollevamento del rimanente dell’America latina. E poi dite che Calles non era una pedina di Dio! Libero, certo, ma pedina di Dio. La Sacra Congregazione di Propaganda Fide non li poteva fare certi disegni per la conversione del mondo. L’incarico di certi disegni se l’è tenuto Dio. E quei disegni li fa. Che cosa Dio ci preparerà da fare in questo mondo fra 10, 20, 30 anni? Prepariamoci. La storia dopo Gesù Cristo è in funzione della Incarnazione del Verbo, tutta; non c’è nessun protagonista, per la ragione che sono tutte pedine piccole ed effimere. Libere nei loro movimenti, ma su una piattaforma che li congiunge sempre all’eterno disegno che Dio ha fissato. Come nell’ordine del cosmo tutto ciò che è fisico è determinato e tutto ciò che è umano è libero, e quello che è determinato non viola quello che è libero, così è dell’azione di Dio e della libertà umana: agiscono nel mondo in modo che rimangono tutt’e due intatte. Dio fa tutto il disegno, e gli uomini sono tutti liberi. – Ora vengo alla conclusione. La conclusione è questa: Gesù Cristo ha assunto tutto; vedremo che ha anche dato tutto; tutto ha dato, e allora bisogna dargli tutto. Cioè non si può dare soltanto qualche cosa a Gesù Cristo, si deve dare tutto, e quelli che ne ascoltano la voce devono dare tutto, per sé e per gli altri che non danno. Ecco il grande motivo della perfezione: Gesù ci ha dato tutto; provatevi a dire che non gli dobbiamo dare tutto. C’è da morire di vergogna soltanto a pensarci, e immaginatevi che sorta di vergogna sarebbe o sarà qualora non dessimo tutto. Questa è la prima parte dell’antifona: Gesù ha dato tutto; la seconda, che dobbiamo cantare noi, deve essere coerente. Ed è questa seconda antifona che ormai non si separerà più dalle nostre meditazioni. – Voi capite ora cosa vuol dire vivere nella fede; tutto parla di Lui. E vedete come in realtà è possibile, in questo mondo, senza astrarci per niente dal mondo, senza andare nella luna, senza volare per aria, coi piedi bene attaccati alla terra, com’è possibile fare sì che il mondo diventi un’eterna contemplazione dell’unico fatto che interessi, l’Incarnazione del Verbo. Perché tutto parla di quella. E noi dobbiamo tenere gli occhi aperti, non vedere solo in superficie le cose, ma in profondità. La perfezione richiede che si viva di fede, e vivere di fede vuol dire contemplare sempre, e questo è possibile!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (4)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(4)

6. – L’Inferno

Ritorniamo alla meditazione dei grandi motivi che ci inculcano questa verità: noi dobbiamo decisamente aspirare alla perfezione. Il motivo di turno è: l’inferno. Io non vi espongo, in questa meditazione, tutta la dottrina teologica sull’inferno, ma prendo lo spunto, anzi diversi spunti della dottrina sull’inferno semplicemente per documentare la necessità in noi della perfezione. E il costrutto di tutto il mio ragionamento è questo: per essere sicuri del dieci, bisogna puntare sul milione. Ecco, mi pare che il ragionamento sia semplice: supponiamo che il dieci sia il sufficiente e necessario per non andare all’inferno; ebbene, io vi dico: badate che per essere sicuri del dieci, bisogna puntare sul milione. – Primo punto. L’essenza dell’inferno in che cosa sta? Sta nella pena del danno. La pena del danno è questa: non avere Dio, cioè non avere più il tutto. Per farci una certa idea di che cosa sia non avere Dio, bisognerebbe che noi cominciassimo a meditare qual è la situazione dell’anima appena lasciato il corpo. Quando noi usciamo da questo mondo cade tutto, cadono le cose, cadono i criteri, cadono i surrogati, tutto cade; non rimane che Dio solo. – In Dio solo tutto il rimanente ritorna: in Dio solo e con Dio solo. Noi rimaniamo nella nudità assoluta di fronte a Dio, quella per cui a me risponde solo Dio, nessun’altra cosa può più rispondere; che se risponderà, risponderà in Dio e per Iddio. Ecco i termini crudi, i termini teologici di quell’incredibile rovesciamento che accade per ogni uomo. L’inferno è questo: cioè che, arrivati al punto in cui per noi la cosa sufficiente e necessaria non è altro che Dio, questo che è tutto viene a mancare in sempiterno. Tutte le cose che si possono dire infilando paragoni terrificanti, terribilmente terrificanti, le umane esperienze, che sono lontanissimi riflessi di quella suprema massima tragedia in cui può incorrere un uomo che ha sbagliato la strada, non servono altro che a fare di questa spaventosa verità un quadro lontanissimo e unicamente per luce indiretta. Ma dalla pena del danno, che è l’essenza dell’inferno, nasce questo problema: perché Dio manda un uomo all’inferno? Ce lo manda perché questo uomo o questa donna ha fatto una scelta in vita. Ha fatto una scelta libera, e Dio rispetta la libertà degli uomini. La cosa che riesce difficile alla nostra abitudine, nel tempo, è quella di capire che tutto si rovescia, ossia che tutto questo che noi viviamo adesso, il tempo, non è l’ordinario, è lo straordinario. L’ordinario sta di là. Questo è l’eccezionale. Il nostro modo d’essere sta nell’eternità e non nel tempo. Ma noi che finora non abbiamo sperimentato altro che il tempo abbiamo la testa configurata ad angolo, in modo che crediamo essere questo l’ordinario e quell’altro lo straordinario. Invece è esattamente il contrario. Ma occorre una lunga preparazione metafisica per abituarci a questa considerazione. – Ora a me interessa dire che Dio rispetta la scelta. Questa scelta, quando s’entra nell’eternità, non muta più. Dio manda all’inferno per tutta l’eternità perché, quando saremo arrivati nel nostro modo d’essere ordinario, che è quello, non muteremo più. Qui sta il mistero dell’inferno. Noi siamo in questa situazione: come se fossimo delle mosche. Noi siamo abituati a stare con i piedi in terra e la testa in aria, vero? Bene, se fossimo delle mosche appese al soffitto con le gambe attaccate al soffitto, e potessimo pensare e parlare, guarderemmo giù, e diremmo: che fanno quelli laggiù, con i piedi appesi al soffitto e la testa che penzola giù? Ma sarebbe il caso di rispondere : sentite, mosche, voi siete mosche, non ve ne accorgete! Voi non vi accorgete che i vostri ragionamenti sono tutti così, precisamente con i piedi appesi all’aria e con la testa che pende giù. Siete nella posizione anormale, voi; raddrizzatevi, allora sarete normali. Ma di quanto bisogna raddrizzarci? Bisogna andare di là per raddrizzarci. Quello che è grave è questo: Dio rispetta la scelta. Siccome la scelta, entrati nell’eternità, si consolida, l’inferno è eterno. Agli uomini questo non piace. Vedete, per andare all’inferno non occorre crederci, mentre per andare in Paradiso occorre crederci. Qui sta la differenza. Non ci vogliamo credere? Ebbene vedremo! N. S. Gesù Cristo è andato in croce perché gli uomini non vadano all’inferno. Però se proprio ci vogliono andare! Quello che balza fuori è che Dio rispetta la scelta. È questa la parola, la scelta. Ecco i l riflesso che dall’inferno arriva a questa terra, a noi. La scelta. Ogni volta che si decide, che ci si determina, che si pensa, che si parla, che si agisce, si fa una scelta. Non ha importanza se la legge sia quella del I, del II o del X comandamento; su tutte le leggi di Dio la scelta è questa: si sceglie tra Dio e non Dio. Si tratti del I, del II, del III, del IV, del V, del VI, del VII, dell’VIII, del IX, del X Comandamento; si tratti di tutti messi insieme, si dice questo: io scelgo tra Dio e non Dio. Badate che questa parola, che direi sprizza dal fuoco dell’inferno, s’incide in modo incandescente dinanzi a noi. La scelta è in qualunque atto; con qualunque passo noi facciamo una scelta, e in qualunque momento la scelta può essere risolutiva. Non avete pensato che ogni atto nostro si trova come a un bivio che può determinare la strada? Ogni momento è come un nodo da cui partono diverse strade. Perché ci sono molte situazioni nella nostra vita in cui dire di sì o dire di no vuol dire, con un piccolo episodio, decidere della propria strada. Questi casi si danno tante volte nella vita. Non dimenticate mai questa parola: la scelta. L’inferno è la testimonianza del rispetto che Dio ha per la nostra scelta. E la scelta la si può fare in ogni momento: s’aprono delle strade, e sbagliare vuol dire infilarne una che mette in una direzione perfettamente divaricata ed erronea. La scelta. Tenete presente che ci sono delle scelte che si fanno, per idiozia, non per un momento, ma per tutta l’esistenza. E queste sono le scelte più tragiche, le scelte che si fanno lasciando cadere un elemento, anche uno solo, quasi inavvertitamente; lasciando entrare un solo elemento, che non si presenta né immorale, né grave, né tragico, è però come uno di quei sassolini che cadono nelle cosiddette marmitte, là dove ci sono cascate d’acqua: gorgogliando nell’acqua che fa gorgo, ampliano continuamente la marmitta e la possono rendere una sorta di caverna. Era un sassolino, è caduto inavvertitamente. Ci sono scelte che non sono costituite da un fatto chiaro, definito, che forse non raggiungono mai la caratteristica della colpa grave in sé stessa, perché la colpa grave deve essere un atto ben chiaro; per fare la colpa grave occorre la pienezza dell’avvertenza e la pienezza del consenso. Tuttavia tracciano un solco, creano una carenza, rendono pericolante un edificio, e ad un certo momento vi saranno dei crolli; e non si dirà: è stata quella carenza; nessuno vi aveva mai fatto caso; si dirà solo: c’è stato un crollo. Come se i crolli accadessero per far dispetto a chi sta sotto. Voi capite, la parola scelta, riflessa dall’inferno in questo mondo, comincia a diventare una faccenda preoccupante. Perché siamo noi che la decidiamo. Perché tutti i momenti possono essere buoni per fare una scelta definitiva, tanto nel bene come nel male. – Pier Damiani, che fu il più austero dei Santi dell’XI secolo e fece da degno contrappeso, a modo suo all’opera di Gregorio VII e ai predecessori di Gregorio VII, i Papi che precedettero la riforma gregoriana, Pier Damiani diventò S. Pier Damiani perché un giorno, povero in canna, trovò una moneta e avrebbe potuto comperarsi qualcosa da mangiare; invece no, andò a far dire una Messa per un suo fratello che lo aveva aiutato e che era morto. – E fu questo gesto che lo cavò fuori, lo indirizzò dalla Scuola di Parma alla Abbazia di Fonte Avellana e poi a Pomposa, e poi qua e là per l’Europa, finché, fatto da Stefano X Cardinale e Vescovo di Ostia, fu veramente il luminare della riforma della Chiesa nel secolo XI. – Ma io mi domando: se quando egli ha trovato quella moneta fosse andato a comperarsi una bibita, avremmo S. Pier Damiani? Non lo so. Dio permette certi episodi perché si rifletta all’importanza che ha ogni momento della vita, ogni episodio, ogni sfumatura. È imponderabile. Un istante talvolta porta tutto un avvenire. Dio è giusto, egli non manda all’inferno per poco. Ma il poco può essere il principio del molto, come il punto è matematicamente il principio della linea, e la linea è matematicamente il principio del piano. Voi capite quale è la conseguenza. Avevo ragione quando vi dicevo che per arrivare a dieci bisogna puntare sul milione? –  Secondo punto. Nella dottrina sull’inferno c’è un’altra cosa che interessa, ed è la cosiddetta pena del senso. E la pena del senso è secondaria, molto secondaria rispetto alla pena del danno. Perché l’essenza dell’inferno sta nella pena del danno, tanto è vero che l’inferno rimarrebbe tale anche se non ci fosse la pena del senso; e se ci fosse solo la pena del senso e non quella del danno, l’inferno non sarebbe più inferno. Però c’è anche quella, la pena del senso, quell’agente misteriosissimo, di carattere certamente sensibile, che agisce sull’anima che è spirituale; quindi niente da meravigliarsi se dopo la risurrezione la pena del senso agirà anche sul corpo. Nell’eternità questa pena del senso risponde per giustizia al cattivo uso che gli uomini avranno fatto del loro corpo e di tutte le creature. E allora le creature materiali si rivolteranno contro di loro. Allora, come la pena del danno, la pena del senso riflette fuori dell’inferno su noi, che per grazia di Dio non ci siamo e possiamo non andarci, la parola: scelta. La pena del senso riflette la parola: ritegno, nell’uso del corpo e delle creature. La parola ritegno non colpisce un momento o qualche momento, non verte su qualche cosa di frammentario, ma costituisce un tratto continuato, perché afferma il ritegno su tutta la vita. Occorre un ritegno nell’uso di quello che è parte materiale del nostro essere, un ritegno nell’uso di qualunque creatura. Sia essa capace di dare un piacere sensibile, sia essa capace di soddisfare una esigenza sensibile, sia essa decoro del nostro quadro, principio di sensazioni ed emozioni, di stimolo, d’istinto, sia essa una fronda di primavera, una sorgente d’estate, una vite coi frutti in autunno, sia essa neve che viene a giocondare gli uomini nell’ aridità dell’inverno, sia quel che si vuole: ritegno. E se l’inferno è così, il ritegno ci vuole sempre, perché potrà bastare un punto per poter guastare questo ritegno e sistemarci male. Ecco, un’altra volta, l’inferno riflette qualche cosa nel tempo. Per arrivare al dieci bisogna puntare sul milione. – E ora raccolgo da tutti e due gli elementi che ho sottoposto brevemente alla vostra considerazione una illustrazione di carattere generale, ed è questa: la pericolosità sulla quale noi continuamente camminiamo nella nostra vita. È l’inferno che grida la pericolosità continua nella nostra vita; e grida in modo tale da escludere ogni leggerezza, grida in modo costante, da escludere ogni frettolosità, ogni superficialità, perché siamo sempre in pericolo. Il sacrosanto Concilio Tridentino nella grande sessione quinta, la più grande di quel Concilio, al canone XVII dice: « Se qualcuno avrà detto, all’infuori del caso di rivelazione divina, d’essere infallibilmente sicuro della propria eterna salute, anathema sit » . È una verità de fide definita: nessuno di noi è certo, nessuno, a meno che intervenga una rivelazione divina, evidentemente di quelle rivelazioni private e che pertanto non hanno destinazione a tutta la Chiesa e non condizionano la salvezza di tutti gli uomini. Ma senza quella rivelazione nessuno può essere certo di assoluta infallibile certezza della sua salvezza eterna. Voi capite bene che tutto quello che si sa, che si può dire, che si sente dire, bisogna metterlo d’accordo con questo santo canone del Concilio Tridentino. E in che cosa si riduce la pericolosità della nostra situazione? Ci possiamo scherzare sopra; ma camminiamo sempre sull’orlo del precipizio, siamo sempre sull’orlo del fuoco. Ma se il precipizio ci si aprisse, come si apre un baratro, e fosse visibile, come in pieno giorno sono visibili i baratri, direi: sì, il pericolo c’è, ma gli occhi sono aperti, la luce c’è, il baratro si vede. Eh no, cari, il guaio è che noi viaggiamo in crepuscolo e di notte, e i baratri non li vediamo: perché ci sono delle forme che stanno al di là dell’episodio, al di là del singolo peccato e che diventano spaventose carenze. – Avete osservato come giocano in noi certe insensibilità? Cose che in certi momenti della nostra vita avevano una forza di eccitazione verso il bene, le stesse cose ora si riducono e quasi non ci toccano più. Sarà accaduto anche a voi, ma lo potrete vedere anche in altri giovani della vostra età, che avevano delle devozioni straordinarie quando erano piccoli e parlavano con gli angeli, con Gesù, avevano il gusto della preghiera, piangevano nelle funzioni religiose, sentivano l’attrazione del canto dei Vespri la domenica nella propria parrocchia o di altre cose, come la Novena di Natale. Poi arrivati un po’ in sù, bruciate tutte le papille, non sentono più niente. Quelli anche se si trovassero alle falde del monte Sinai, come Mose, lassù, con tutti i tuoni e i fulmini, e tutte quelle spaventose cose che hanno terrorizzato tutti gli ebrei che stavano sotto, quelli nemmeno ne avrebbero paura e nemmeno ci farebbero caso. Guardate questa storia delle insensibilità, che crescono, senza mai avere un tratto che possa assomigliarsi a un gradino, perché un gradino lo si avverte; per cui a un certo momento qualche cosa che prima parlava diventa muto, qualche cosa che prima era espressivo diventa arido, qualche cosa che prima si muoveva diventa immobile. Il pericolo dell’insensibilità che segue le nostre tiepidezze, il pericolo delle abitudini. Noi siamo un sacco di abitudini ambulanti. L’abitudine dispensa dal mettere impegno nell’atto; prò quota partis, qualche volta anche del tutto. Si può anche pregare completamente per abitudine, ci si può addormentare mentre si dice la Messa. Penso a quell’Arcivescovo di Canterbury, gran filosofo e gran matematico, che un bel giorno, dicendo la Messa, quando ebbe in mano la patena, si mise a disegnare teoremi di geometria sull’altare dimenticandosi che stava dicendo la Messa. Era Tommaso Becket, uno dei più grandi scolastici del secolo XII. Fortuna che quando rinvenne rimase così avvilito che non studiò mai più matematica, studiò solo filosofia, e fu un bene perché in quella riuscì grande. Guardate se non si hanno un sacco di abitudini! L’abitudine è un atto di provvidenza, perché quando si tratta di fare il bene, dispensandoci in parte dallo sforzo, possiamo fare il bene con una certa facilità; ma la stessa facilità ce la dà il male, e a un certo momento, senza accorgercene, per quella incoscienza che l’abitudine può logicamente portare, si può finire col trovarsi a camminare a valle piuttosto che a monte, nei sotterranei piuttosto che sul tetto, senza averne nemmeno preso coscienza. La pericolosità allora entra nella vita. Pericolosità nell’ordine del cosciente, pericolosità da tutte le parti. E allora la formula ritorna. Per arrivare a dieci bisogna puntare sul milione. Ecco, se vogliamo avere non la certezza infallibile, perché quella non la possiamo avere, ma una certa serenità di non andare all’inferno e una grande fiducia nella misericordia di Dio, non c’è altro da fare che questo: cercare ogni giorno la perfezione. È la formula del milione per ottenere almeno dieci: la salvezza dell’anima.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (3)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(3)

4. – L’atto di fede

Sospendiamo per un momento lo studio dei motivi che ci spingono a prendere la decisione di perfezione, per cominciare a studiare gli elementi della perfezione stessa, di cui avete avuto ieri la definizione e di cui spero avrete l’idea chiara, semplice, riassuntiva. Il primo punto che logicamente si presenta a proposito della perfezione è la fede. Perché tutto parte dalla fede, tutto è proporzionato dalla fede nel nostro cammino spirituale verso Dio, nel ritmo di questo incedere verso Dio, nel modo e nel metodo di questo nostro progresso verso l’alto. Tutto comincia dalla fede, e tutto in certo modo è proporzionato dalla fede. Pertanto chi si mettesse a battere la via di Dio, che è la via della perfezione, prescindendo da uno studio della fede, perderebbe semplicemente il bandolo della matassa, non avrebbe più la luce, se ne andrebbe avanti con la testa nel sacco. Richiamo la vostra attenzione su una verità. La ricerca della perfezione, l’esplorare il cammino nostro d’avvicinamento a Dio non è una questione dell’istinto né del sentimento. L’istinto e il sentimento potranno venir bene, perché sono due capacità in fondo emotive che sussidiano la nostra energia, che umanizzano la nostra strada e la fanno digerire meglio; ma chi credesse di poter affidare il proprio cammino verso Dio all’iniziativa dell’istinto e, quanto sarebbe peggio, all’iniziativa del sentimento, credo che finirebbe per concludere poco o niente. – Bisogna sempre cominciare a ragionare, e prima di tutto bisogna raggiungere la saggezza, la sapienza, e per raggiungere la sapienza bisogna aver prima la scienza, e per avere la scienza, in questo caso, bisogna prima ragionare della fede. E’ ben questo il tracciato logico, altrimenti la via spirituale rimane sospesa sui trampoli e non si conclude nulla. Che cosa è l’atto di fede? E’ essenzialmente un atto d’intelletto, un atto con il quale l’intelletto aderisce, ossia accetta una verità, e l’accetta spinto da questo motivo: l’autorità di Dio rivelante. Ossia io faccio l’atto di fede quando dico: la mia mente aderisce e accetta questa proposizione, per esempio: Dio è trino, e l’accetta e vi aderisce perché Dio l’ha rivelata. Il motivo è questo e solo questo. Non l’accetto perché a me pare conveniente, no; questo non sarebbe un atto di fede; non l’accetto perché a me pare molto logico e molto opportuno supponendo d’aver studiato l’Ars Magna di Raimondo Lullo; se anche a me sembra possibile, se anche a me sembra razionale, io non l’accetto perché a me sembra razionale, l’accetto perché Dio l’ha rivelata, l’accetto sulla parola di Dio. Questo è l’atto di fede. – Ora vediamo un po’ punto per punto. L’atto di fede è un atto dell’intelligenza, un atto di adesione intellettuale. Pertanto qui non c’entra nessun sentimento, nessuna emozione. Le emozioni aiuteranno, spingeranno, imbottiranno, levigheranno, ma le emozioni qui non c’entrano. La sostanza dell’atto di fede è un atto essenzialmente intellettuale; badate che è per questo che lo si fa in piedi, perché nell’atto di fede è la sommità dell’uomo che si muove, l’intelletto. L’atto di fede è domandato all’uomo nella sua sostanza, espressione e azione migliore. Se voi cantate il Credo gregoriano, il terzo, quello che normalmente si canta alla Messa degli Angeli, osserverete una cosa: il Credo terzo è un canto sillabico, non vi è alcun lirismo; però quando finisce e arriva all’Amen, l’Amen non è più sillabico, diventa lirico; è un lirismo abbastanza lungo e complicato, tanto che riesce difficile farlo eseguire con uniformità quando si tratta di una grande massa corale. Perché quando si canta il Credo tutto il testo è sillabico e l’Amen diventa lirismo? Bisogna riportarci a quei monaci i cui nomi si sperdono nel Medioevo. Noi non sappiamo chi furono i compositori di questa melodia del Credo terzo, non sappiamo dire se non che si proiettano talmente indietro che non arriviamo a individuarli; ma siccome erano persone che vivevano abbastanza lontane dal mondo per potere intendere Dio, nella stessa costruzione musicale erano guidate da una intuizione teologica perfetta. – Chi sente la Messa di Papa Marcello, di Pier Luigi da Palestrina, rimane stupito dalla velocità con la quale si canta il Credo. Passa in un attimo il Credo della Messa di Papa Marcello, la più grande Messa forse della prima epoca classica della musica polifonica. Passa in un attimo; ma quando arriva all’Amen, si direbbe che non finisce più, perché si trasforma in una fuga; prende quegli andamenti arditissimi della grande composizione e pare che non trovi, come un uccello che vola, dove andare a posare, come una colomba di Noè. Ma perché questo? Perché quella gente costruiva la musica, ma viveva in un ambiente che era saturo di teologia. La parola più grande che si dice nel Credo è l’Amen; e l’Amen perché dalla prima all’ultima parola del testo le proposizioni si enunciano, si mettono lì davanti; e non è mica detto che mentre si dicono non ci sia l’atto di adesione dell’intelletto: io credo in Dio Padre Onnipotente; ma la espressione ufficiale, riassuntiva, per la quale si dice: è così, accetto, è l’Amen. Badate che l’atto di fede è in questo momento dell’intelletto che aderisce, che accetta e dice: ita est. Diteli bene tutti gli Amen che si dicono in chiesa, diteli con tutta l’anima: sono la vittoria sul mondo. Sapete perché? Osservate bene gli uomini: sono buoni poi, in fondo, non sono poi tutti cattivi, gli uomini; ma sono talmente nell’incertezza che si direbbe non hanno più nessuna sicurezza di vita. E tutto è incerto, tutto è problematico, tutto è dubbio. Oggi uno ha 1’impressione d’ essere scemo se non fa della problematica. Questo povero mondo fa veramente pietà; dove noi sentiamo la superiorità sul mondo, perché noi dobbiamo sentirla questa superiorità sul mondo in cui siamo quando andiamo verso Dio, è quando diciamo quell’Amen, quando abbiamo la sicurezza definitiva, quando viviamo di sicurezza. Dunque l’atto di fede è un atto di intelletto. Ma l’intelletto non è una ruota che giri a vuoto. L’intelletto si dipana attraverso le idee, attraverso il giudizio, attraverso il raziocinio. Lo sanno bene quelli che studiano la logica, visto che senza studiare la logica è difficile studiare la teologia. L’intelletto non gira a vuoto: o ha un oggetto o non gira, e allora è chiaro che perché l’atto di fede sia veramente una cosa seria, bisogna che ci sia la cognizione dell’oggetto, ossia della verità di fede. E’ vero che questa cognizione può essere anche riassuntiva, implicita, ma allora si avranno degli atti di fede molto riassuntivi e molto impliciti. – Io posso dire: credo tutto quello che mi insegna la Santa Chiesa Cattolica; faccio un atto di fede che è completo, d’accordo, ma l’oggetto di questo atto di fede è molto riassuntivo: quello che insegna la Santa Chiesa Cattolica. In questo c’è atto di ossequio alla volontà di Dio il quale vuole che io accetti come maestra infallibile e unica della rivelazione divina la Santa Chiesa Cattolica; ma sarebbe meglio che sapessi il I, il II, il III, il IV, il V e gli altri articoli del Credo. Li sapessi bene, li sapessi con quella diffusione e profondità che mi può dare la teologia. Più ne so e meglio è. Lo capite ora perché la teologia serve sempre di più a fare gli atti di fede? Io insisto su questo punto perché la ricchezza della vita spirituale comincia dall’ atto di fede, perché l’atto di fede dipana una delle sue grandi ricchezze, non l’unica, proprio la ricchezza dell’oggetto, la ricchezza conosciuta dell’oggetto. Più conosco, più ne so; più riesco a contemplare e più il mio atto di fede è vivificante e più la fede entra nella mia vita trionfalmente, come una di quelle grandi travature che reggono tutto il tetto e non lasciano ad altri di reggere niente. Perciò è opportuno che regga tutto la fede, che non lasciamo a nessuna altra cosa l’incarico, la possibilità di reggere in noi. Ma tutto finisce per essere retto dalla fede in noi se l’oggetto della fede è molto chiaro, cioè se è chiara la proposizione a cui si aderisce, che si accetta, quando l’oggetto della fede è così dettagliato, è così, vorrei dire, sezionato e reso per tal modo in una distribuzione di toni intellettuali digeribile da farlo diventare facilmente e abitualmente sangue nostro e vita della vita nostra. E tutto questo discende dal fatto che l’atto di fede è un atto di intelletto. – Ma io qui ho detto molto poco. Quest’atto d’intelletto da che cosa viene, non dico determinato, che è un’altra cosa, ma azionato? Che cos’è che prende il mio intelletto, consentitemi l’espressione, per il collo e lo fa piegare? Perché qui ci vuole una presa per il collo, dato che la fede non è la visione, perché la visione annullerebbe la fede; difatti noi perderemo tutti la fede e la virtù della fede nel momento in cui moriremo. Quando entreremo di là, quando arriveremo al cospetto di Dio, in Paradiso, dove speriamo di giungere tutti quanti, dove ci diamo appuntamento, allora perderemo la fede, perché c’è la visione, mentre la fede è adesione a una verità non perché io la veda con evidenza ma perché me lo ha detto Iddio. Capite perché c’è inconciliabilità tra la visione beatifica e l’atto della virtù della fede? Sicché la fede, così utile, così magnifica, è una cosa moritura, di natura sua, come la speranza. Anche la speranza cessa nel momento in cui si tocca la cosa sperata; quando non c’è più niente da sperare perché si ha tutto, la speranza muore. Lo dice chiaramente S. Paolo nel cap. 13 della Prima Lettera ai Corinti: « Nunc autem fides, spes, caritas, maior autem caritas ». Però quando io non sarò più bambino, dice S. Paolo, lascerò le cose che sono dei bambini; e cioè fin qui io vedo in specchio e in enigma la fede, ma allora io vedrò chiaramente, sicut cognitus sum, come sono veduto da Dio: la visione immediata, e pertanto cesserà la fede. Allora che cos’è che prende il mio intelletto per il collo e dice: aderisci, accetta? E’ la volontà. Qui c’entra la volontà. C’entra come motore estrinseco; « l’atto della fede in sé stesso è intellettivo, ma ha bisogno d’essere piegato dalla volontà; ci vuole l’energia della volontà. A questo punto non è questione soltanto di luce, è questione di forza, e allora è proprio qui che, essendo l’atto di fede piegato dalla volontà che interviene a imporlo, chiama in causa l’energia; ha bisogno di quella e può risentire della debolezza di quella. Fermiamoci un istante. E’ evidente che la fede ha bisogno di un nutrimento, non solo del nutrimento dello studio, ma anche del nutrimento energetico dell’orazione. E’ a questo punto della analisi dell’atto di fede dove si capisce che la fede ha bisogno continuo della orazione, e naturalmente ha bisogno di tutti gli altri mezzi coi quali si aumenta l’energia nostra, cioè ha bisogno di tutte quelle sorgenti della grazia di Dio che sono i sacramenti, i sacrifici, ecc. Ha bisogno di tutto, perché la nostra volontà, poveretta, ha bisogno di ricevere l’elemosina da ogni cosa, tanto è meschina. – Ora quando si tratta di quello che viene a noi ex opere operato dalla Santa Messa e dai sacramenti, beh, ci pensa abbastanza per conto suo a venire; ma quando andiamo un po’ più in là e l’iniziativa rimane nostra, l’iniziativa si chiama orazione. Se non si prega, è molto difficile che la virtù della fede rimanga con quella chiarezza, solidità ed efficacia innervante tutta quanta la vita, senza la quale non possiamo parlare di cammino alla perfezione. Su questo secondo punto ritornateci spesso, perché fa vedere, con l’introspezione dello stesso atto di fede, la necessità di abbinare sempre la fede con la orazione. Noi non possiamo dare alla nostra fede tutto quello splendore e tutta quella forza che trascina, che costruisce, che edifica, che penetra i cieli, se manca l’orazione. Ed è per questo che Nostro Signore ha detto: « Sine intermissione orate ». La fede è la prima cosa che è dentro di noi, e la fede a gran voce chiede l’orazione e soprattutto l’orazione mentale. Ma a questo punto come fa la volontà a muoversi e a imporre l’atto di fede? Badate bene com’è l’analisi della fede. L’atto di fede è un atto d’intelletto; era, mentre questo atto d’intelletto non è mosso dall’evidenza, che non è il suo motivo proprio, ma dalla volontà, a sua volta questa volontà è mossa dall’intelletto. Insomma l’intelletto fa due parti, quello di cui vi ho parlato prima è la parte costitutiva essenziale dell’atto di fede, ma prima di fare quella, ne fa un’altra che è sua propria: passa un ordine alla volontà. Ve lo spiego subito. La volontà da che cosa è mossa per poter muovere l’intelletto? Da un ordine dell’intelletto; è l’intelletto che dice alla volontà: prendi me stesso e piegami. L’intelletto dà un ordine alla volontà, perché alla volontà si danno ordini, alla volontà non si danno ragionamenti, perché la volontà è una facoltà motiva, non facoltà intellettiva; è spirituale, sì, ma motiva. Ma questo ordine dato alla volontà è preceduto da un giudizio emesso dall’intelletto, in quanto l’intelletto si determina a dare quest’ordine alla volontà perché prima ha dato un giudizio. E il giudizio qual è? E il cosiddetto giudizio di credibilità e di credendità. Il giudizio è questo: ci sono motivi sufficienti perché io possa credere. Non solo il giudizio di credibilità. Se io posso credere, io debbo credere; allora do un ordine alla volontà che muova tutto l’apparato. – Su che cosa è basato questo giudizio di credibilità e di credendità? Sono tutti i prolegomeni della fede. E su che cosa vertono i prolegomeni della fede? Sull’oggetto della fede? Cioè i prolegomeni della fede mi dimostrano forse che Dio è Padre onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, l’Incarnazione? No, i prolegomeni della fede non dimostrano l’oggetto della fede; dimostrano il motivo della fede, cioè il fatto che Dio ha interposto la sua autorità rivelando e ha garantito con la sua autorità, che è la ragione più alta della certezza. L’autorità di Dio è infinitamente più alta della mia evidenza, ed è infinitamente più valevole della scienza, di ogni scienza umana e anche sovrumana; l’autorità di Dio si è interposta e pertanto mi dà la garanzia di questa verità. Io non vedo, la verità, non vedo l’oggetto, non lo vedo direttamente, ma interviene Iddio e mi dice: t’avverto che ci sono Io. Allora mi posso fidare. Allora il lavoro previo dell’intelletto è di assicurare se è vero che Dio ha parlato o no; e questo può essere fatto in modo scientifico, e ci sono parecchie strade per farlo applicando gli stessi canoni coi quali si giudicano tutti gli altri fatti che cadono nell’ambito della storia e che sono registrati dalla storia. Lo stesso criterio, gli stessi strumenti di constatazione, di prova, la stessa efficacia di conclusione scientifica. L’intelletto dice: posso credere e, continuando a guardare, dice: debbo credere. Allora posso dare ragionevolmente l’ordine alla volontà. Ma forse voi direte: e perché l’intelletto deve dare ordine alla volontà che muova sé stesso? Non potrebbe muoversi da sé? Non può. Perché? Perché l’intelletto è mosso dall’oggetto suo proprio, dall’evidenza; e non c’è l’evidenza nella fede; si può raggiungere tutt’al più, il che è bastevole, l’evidenza del « motivo ». Io non dimostro la verità di fede, dimostro l’autorità del testimone, il quale testimone, essendo Iddio, è più che sufficiente, e mi permette di colmare ogni passaggio logico e d’arrivare alla certezza assoluta. – Mi direte: ma perché ha fatto questo riassunto dell’analisi della fede? L’ho fatto per poter venire a delle conclusioni, perché vediate chiaro nelle conclusioni. Intanto perché capiate che la fede è razionale, ha un procedimento razionale, ma non poggia sulla ragione; perché la ragione si ferma a dimostrare il motivo della fede, ma non l’oggetto, e per questo rimane il merito della fede. Ma si chiude un anello, e la fede è perfettamente razionale perché è provato il motivo, cioè l’autorità del teste. – Anche se io non ho assistito al fatto, sono pienamente qualificato per accettare il fatto che mi ha affermato il teste quando il teste è Dio. Ma il mio scopo non è tanto di fare della teologia, il mio scopo è spirituale; io sono qui e sto predicando a me stesso gli Esercizi a voce alta. E ho detto tutto questo, oltre che per dimostrare la razionalità della fede, per farvi toccare con mano le caratteristiche dell’atto di fede. E la prima caratteristica dell’atto di fede è la fermezza: cioè è l’atto più fermo di tutti. Perché la fermezza è proporzionata alla solidità del motivo sul quale ci si appoggia, è vero? Questa cosa è ferma tanto quanto sono fermi i fondamenti che la reggono. Se questi fondamenti sono di nebbia, misurate voi! Se questi fondamenti sono di pietrisco, andrà un po’ meglio. Se questi fondamenti sono di pietra, pietre ben cementate, sarà ancor meglio. Se questi fondamenti sono tutti quanti di cemento armato e rivestiti in modo tale da essere assicurati contro qualsiasi deterioramento del ferro stesso, sarà ancora meglio. E se questi fondamenti sono la roccia stessa, allora siamo a posto. Non saremo a posto per i terremoti, perché la roccia trasmette meglio le vibrazioni del terremoto, ma comunque, fuori dei terremoti, certo colla roccia ci si sta benissimo, le cose sono assicurate nel modo massimo. Siccome il fondamento sul quale poggia l’atto di fede, cioè il motivo della fede, è la stessa autorità di Dio rivelante, non si può concepire un atto più certo, più sicuro, più capace di dare garanzia; e siccome la sicurezza dell’atto è sempre proporzionata al motivo su cui s’appoggia, l’atto di fede fruisce di una certezza che è superiore a tutte le altre certezze scientifiche che noi possiamo avere. Perché quelle sono date, quando lo sono; dall’evidenza nostra naturale, niente più, quando pure lo sono. Perché non bisogna dimenticare che regolarmente il 50% delle conclusioni scientifiche sono rimangiate da quelle che vengono dopo, perché non erano affatto conclusioni scientifiche. Dico 50% nella ipotesi più benigna; io non posso dimenticare che un giorno il più grande scolaro di Fermi, che forse era più scienziato del suo maestro, mi diceva che è il 95%. Io non sono in grado di giudicare; ma ho interpellato altri grandi uomini e, facendo la media delle risposte che mi hanno date, sono arrivato al 50%. Questo per dire cosa dobbiamo pensare della cosiddetta sicurezza e certezza scientifica. Ma fosse anche il 100%, v’avverto che è di natura diversa; la fermezza dell’atto di fede è superiore a qualunque certezza di carattere scientifico, fosse anche certezza del 100%. Noi siamo della gente certa, non della gente tormentata come da un complesso d’inferiorità, che dubita di tutto, che sempre presenta la realtà più innegabile in forma problematica; cioè noi non siamo degli ammalati. Il mondo è ammalato, e la sua malattia è l’incertezza. Noi siamo al suo servizio per cavarlo fuori. Ma noi Cristiani siamo della gente certa, e tanto siamo Cristiani in quanto siamo certi. Badate. Siamo nel secolo V e principio del VI: è l’epoca delle invasioni barbariche, durante le quali l’uno o l’altro di questi messeri del nord si prende il capriccio di fare delle passeggiate per tutte le varie strade dell’impero; e giungono fino a Roma; epoca in cui t’arrivano i Vandali in Africa, e S. Agostino se ne muore leggendo i Salmi penitenziali mentre la sua città è circondata dai barbari. In questo momento in cui la Chiesa Occidentale tutta raccolta attorno ai Papi, ai Vescovi, succede qualcosa. Quattro monaci marsigliesi si sono montati la testa. Si tratta di un puntino invisibile. Ma la Chiesa, che ha avuto l’incarico di custodire la verità, bada anche ai puntini quasi invisibili, perché questi finiscono col fare come le nuvole che s’allargano e poi viene la tempesta. Si trattava di questo: citavano che proprio all’initium fidei non è necessario che arrivi la grazia, si può fare anche senza la grazia di Dio. All’initium, cioè all’attimo primo nel quale in una mente sboccia fuori questa puntina, questa testa d’erba che si chiama fede, l’atto di fede ci si può arrivare da sé. E ci si sono accaniti per un secolo sul Semipelagianesimo. La questione e stata risolta definitivamente nel 529 con la condanna nel Concilio di Orange. Se all’initium fidei si dovesse ammettere che ci si arriva da soli, si sconvolgerebbe tutta quanta la costruzione che sta sopra. Guardate che conto ha fatto la Chiesa anche dei più piccoli particolari che riguardano la dottrina circa l’atto di fede. Perché ha fatto questo conto? Perché la purezza della dottrina circa lo stesso atto di fede domina tutta la perfezione, tutta la vita spirituale. Questo è l’insegnamento storico. Ecco perché, parlando della perone e dicendo che dobbiamo uscire da questi Santi Esercizi con la volontà seria della perfezione, ho voluto occuparmi dell’atto di fede e della fede.

5. -Continuazione dell’atto di fede

L’atto di fede, fondamento della vita spirituale e pertanto della perfezione, non è tale da escludere la dubitabilità. Che significa questo? Significa che, con tutte le sue caratteristiche, non impedisce che intorno vi possano essere delle tempeste, che il dubbio possa assalirvi. E’ per questo che l’atto di fede ha bisogno d’essere armato dello studio del catechismo, della religione, della teologia, per dire i diversi gradi, secondo le diverse possibilità dei fedeli. Ha bisogno di essere armato della orazione umile che chiede a Dio il superamento dei difetti, delle ombre, dell’anemia. Ha bisogno d’essere armato di un metodo completo di vita spirituale. E’ chiaro che la dubitabilità può essere sconfitta da tutta questa armatura che l’esperienza indica come pienamente efficiente nella vita dei fedeli che intendono servire seriamente Dio. – Ma detto questo in linea generale, io vorrei venire a una questione di grande importanza in ordine al tema di questi Santi Esercizi. Il tema più particolare è questo: tra le onde adirate che possono gettarsi contro questa scogliera dell’atto di fede, c’è quella dei diversi modi di pensare che la fantascienza mentale moderna ci può regalare in una forma inconscia. Perché è facile mettere in guardia contro le eresie, contro gli errori, appunto perché si suppone che si presentino come sono, con proposizioni chiare, che chiaramente denunciano la deformazione della verità, tali che eccitano sempre in chi vuol vivere secondo Dio l’immediata reazione, la presa di posizione, la difesa, la ripugnanza. – Ma il guaio sta in quello che viene ammannito in dosi omeopatiche e che, peggio, viene diluito nell’atmosfera culturale in modo tale da togliere quello che stimola la reazione, da creare nella mente, più che degli errori contro la fede, degli stati d’animo, i quali finiscono poi col produrre lo stesso effetto, come se si fosse diventati erranti nella fede. E ne parlo, non perché io mi preoccupi qui dell’aspetto intellettuale, ma perché mi preoccupo dell’aspetto spirituale; perché l’insorgere di taluni stati d’animo finisce sempre col far deragliare qualche cosa dalla ordinata e giusta via spirituale e diventa un attentato costante contro la perfezione. – Se noi fossimo costituiti in grazia, costituiti nella verità, se avessimo i doni preternaturali dei nostri primi parenti e potessimo non essere attaccati nella nostra ignoranza, potremmo non preoccuparci di queste tempeste subcoscienti, di questi attacchi marginali che vengono in forme diluitissime e quasi non avvertibili. Ma siccome siamo deboli e deboli su tutta la linea, siccome siamo facilissime prede delle ombre che emergono dagli stati d’animo, siccome non sempre abbiamo quella difesa della dottrina profondissima, agguerritissima, delicatissima nel saper sceverare anche i filamenti più reconditi, bisogna che, proprio per amore di questa perfezione alla quale ci vorremmo incamminare, noi ci immunizziamo, ci vacciniamo a tempo. Ecco, si tratta di fare una vaccinazione tempestiva perché, ripeto, dinanzi a tutti i rumoreggiamenti che il male può fare dinanzi alla nostra fede e che possono essere sempre magnificamente superati, ce n’è uno che mi pare il più difficile a superarsi, perché è il più nascosto ed è diluito nell’aria. Non è mai accaduto in tutta la storia a noi nota che determinate dottrine filosofiche siano filtrate così in tutta la cultura, in tutto il costume al punto da

far pensare la massa della gente a modo loro e in modo che non si accorga di pensare a quel modo. Fino a qualche decennio fa, i mezzi di trasmissione della cultura erano legati a due sole forme: alla scuola e ai libri. La scuola era frequentata relativamente da pochi, i libri erano letti ancor meno. Io ricordo quando uno, comperando una dozzina di libri all’anno, in fondo poteva dirsi al corrente. Oggi io credo che se anche uno ne compera non una dozzina ma milleduecento all’anno, non potrà dire veramente di essere al corrente. Comunque una volta c’era la scuola, e questo era uno strumento ridotto, e il libro, e questo era uno strumento non troppo diffuso. Oggi questi due strumenti sono ingranditi enormemente. Ma a questi si sono aggiunti degli strumenti diffusori della, chiamiamola così, cultura annacquata; la radio e la televisione sono entrate in tutte le case. La gente è rimpinzata dalla mattina alla sera di cultura. Per conseguenza la maggior parte della gente si trova impregnata senza saperlo di una dottrina filosofica. Quale? Se noi passiamo al filtro tutte le pubblicazioni, dico tutte quelle che escono fuori dell’ambiente cattolico, compreso anche qualche pezzo di qualcuna che esce nell’ambiente cattolico, noi vediamo che il 40% si riduce a opere idealiste; l’altro 40% si riduce a opere esistenzialiste; quello che rimane è il freudismo; è il meno appariscente ma è quello che beneficia più dei due precedenti. E voi trovate nello stile della gente tutte queste cose; perfino nello stile dell’operaio che impasta il cemento trovate queste cose. – Il nostro tempo vive essenzialmente di idealismo. E’ opportuno avvertirne un aspetto concreto perché, avvertendolo, ci se ne può guardare. L’idealismo ha fatto la trasposizione completa dall’oggetto il soggetto, ha invertito le parti. Non è il soggetto che dipende dall’oggetto, ma l’oggetto che dipende dal soggetto. Questo rovesciamento l’aveva iniziato Lutero, ha camminato qua e là per l’Europa nella testa degli uomini per quattro secoli e alla fine è stato completo. La cosa avvenuta nella trasposizione tra soggetto e oggetto è questa, che siccome non siamo noi che dipendiamo dalla realtà, ma siamo noi che la creiamo, ecco, della realtà si può dire quello che si vuole. Esaminate voi ora la mentalità diffusa oggi e troverete costantemente questo carattere: si dice quello che si vuole. Io parlo della stampa del gran mondo; a certi margini dove sta la brava gente che non è completamente intossicata, le cose vanno diversamente, ma purtroppo non sono i più. Nel gran mondo le cose stanno così: ognuno dice quello che vuole, quello che crede. Dà dei fatti l’interpretazione più spontanea che gli sgorga dalla penna con meno difficoltà. E perché tutto questo? Per quel tanto di idealismo che sta dietro le spalle. L’idealismo è morto, così lo si insegna poco ufficialmente, pochissimo. Ma hanno applicato qualche canone dell’idealismo, quello sì. E quello è l’idealismo che sopravvive; l’idealismo classico è press’a poco tramontato, ma rimane il metro dell’idealismo, e noi ne siamo inquinati. V’è persino chi scrive libri spirituali con metodo idealistico. Perché uno dice quello che gli viene in mente, se lo inventa; non studia, non va a fare la consultazione mentre scrive; pensa quel che gli pare e vende così, e tutto va bene. Noi siamo stati intrisi di questo metodo. C’è un secondo coefficiente che rappresenta il 40% di tutta la cultura non cattolica del nostro tempo. E’ l’esistenzialismo. Non ripeto quello che ho detto, perché le cose se ne vanno con lo stesso ritmo, con la stessa penetrazione, con gli stessi effetti dell’idealismo. Ma vorrei darvi un elemento concreto per reperirli. L’esistenzialismo capovolge l’essenza e l’esistenza. Per l’esistenzialismo la cosa più vera che vale non è l’essenza, è l’esistenza. Traducete in parole povere: è il fatto che vale, non l’idea. Tra i fatti, il più clamoroso è l’angoscia, il nichilismo. Pertanto il pessimismo. Vi prego di guardare il modo di ragionare che s’è diffuso da tutti questi strumenti che io vi ho messo dinanzi. Ciò che conta è il fatto. E’ questo che vale e basta. Ecco il capovolgimento tra essenza ed esistenza. Potevano sembrare questioni oziose, queste, quando nell’800 si stava a discutere fra i teologi se essenza ed esistenza si distinguevano o non si distinguevano; se si doveva stare con i Suareziani o contro i Suareziani. Allora, per grazia di Dio, queste questioni si facevano nella scuola, e anche se qualcheduno poteva deviare dalla linea obbiettiva, la cosa rimaneva nella scuola e finiva lì. Nel nostro tempo di queste cose non c’è più rimasto nulla nella scuola, ma è rimasto lo stile, che annulla l’idea. Il fatto è questo. – Basta. E così siamo arrivati alla legge della giungla. Dei fatti poi, quello più sintomatico è quello dell’angoscia e della disperazione. Oggi non si scrive più un romanzo che, o nella conclusione o nella stesura o nel modo con cui la vicenda è pensata, non sia tale da ispirare le idee più nere e la più profonda tristezza della vita. E badate che questo entra anche in casa nostra più di quello che non si creda. Io parlò della problematica, della mania della problematica; la problematica non è altro che un sottobosco della filosofia esistenzialista. – Il terzo coefficiente è il freudismo. La filosofia di Freud è morta prima che morisse Freud, ma ne è rimasta di lui qualche cosa nella terapia medica, qualche cosa più o meno discutibile, più o meno apprezzabile. La sua filosofia è morta prima che morisse lui, ma quello che è tragico è che non ne è morto il metodo. Come dell’idealismo dove dell’idealismo, è rimasto il metodo e sta entrando dappertutto, nella testa di tutti e porta la responsabilità delle stravaganze del nostro tempo, e dell’esistenzialismo di cui è entrato incoscientemente il metodo nella cultura, nei modi di agire, in tutte le stravaganze della nostra età, così allo stesso modo è avvenuto del freudismo: morto Freud, è entrato il suo metodo nel costume, ed è il più diffuso di tutti. – Voi sapete che il metodo di cura di Freud sta nel portare il paziente a gettar fuori di sé stesso tutto quello che ha di più recondito e di più brutto in fondo all’anima; e di più brutto perché questo metodo terapeutico, nel piano filosofico concepito da Freud, ha due principi: l’uomo sarebbe azionato da due principi: il principio del sesso e il principio della morte, uno più macabro dell’altro. E pertanto si vede il freudismo nell’atto in cui obbliga una povera creatura a metter fuori tutto quello che ha di più orribile, di più innominabile; che se per caso non ce l’ha, per fare come fanno gli altri, lo inventerà. – Ma dovrà mettere fuori quello, la passione in sostanza. Andare a rimescolare in fondo al lago che raccoglie gli scoli di una città per far tornare a galla quello che fortunatamente s’era depositato in fondo: questo è il freudismo. – Ora vedete fino a che punto questo metodo è diventato pane dell’esperienza quotidiana quando osservate la mania di ricercare dappertutto il peggio, lo scandalo. Guardate i giornali di che cosa sono fatti e perché la gente legge i giornali: li legge il 70% per cercare quello, ecco il suggello del freudismo. – La ricerca del bassofondo melmoso, la dilettazione di trovare quello. E guardate fino a che punto s’è diffuso, come aleggia dappertutto il senso del disprezzo di tutto. Il che è logico, è coerente. Viviamo di disprezzo. Si disprezza tutto. La gente è contenta se può arrivare a sputare sugli altri, sull’autorità, sui grandi nomi della storia. Ma è infame abituare la gente a non avere più stima di nulla. Se qualcheduno di voi, che sta qua dentro, qualche giorno si trovasse a non stimare più nulla, è possibile, stia attento: non è farina del suo sacco. Quella è farina del sacco altrui. Cosa bevuta, di quelle diluite nell’ambiente. Quando uno si trova al punto che non ha più stima di nessuno, vuol dire che è annegato nell’ambiente. Cerchi di farsi la respirazione artificiale per un bel po’, poi può darsi che respiri coi suoi polmoni. – Vivete secondo Dio, vivete la fede. Vi dicevo, parlando della trama della vita, che vi sono persone che credono di vivere cristianamente, ma che hanno una trama pagana, anche se fanno la Comunione tutti i giorni. Ora debbo dire la stessa cosa di persone che credono di pensare cristianamente, cattolicissimamente, ma il loro pensare cattolicissimamente è cosa artificiale, di qualche momento, mentre nel sottofondo costante e compatto, che regge tutto, c’è un modo di vedere, di pensare, di giudicare, di sentire che è completamente avulso dall’indicazione cristiana. Hanno un concetto pessimistico di tutto e se lo sono presi dal freudismo. – Guardate un po’ ora; fate bene l’esame di coscienza. Guardate bene se per caso non ci sono dentro di voi questi reliquati coscienti o subcoscienti. Perché se nella vostra abitudine mentale voi doveste trovare la facilità alla problematica senza senso; se doveste trovare nelle vostre abitudini mentali la facilità di dire, così, quello che vi viene in bocca, senza preoccuparvi mai d’obbiettivare, di documentare, di ricercare, di essere aderenti alle indicazioni di una documentazione obbiettiva; se nelle vostre abitudini mentali doveste trovare questo rassegnato cedimento al fatto: quando una cosa è fatta, è inutile andare a cercare teorie; se nelle vostre abitudini mentali doveste trovare questa, di andare a rimescolare il peggio, di dover dare alle cose sempre l’interpretazione cattiva, di cavare sempre l’intenzione cattiva dai fatti, di tendere sempre al disprezzo, alla sottovalutazione dei propri fratelli, attenti! Prima di camminare nella via della santità bisogna levare questa roba dall’anima. Perché con questo piombo fuso e osceno nell’anima non si cammina, non ci si eleva, non si vola. E pensate che questa colata di piombo avviene di notte, mentre noi dormiamo, quando noi non ce ne accorgiamo, e poi la ritroviamo dappertutto. Bisogna difendersi. – Ci sono delle perversioni morali che non si catalogano e sono peggiori delle altre. Come bisogna rigenerarsi nell’acqua della semplicità, della purità, della chiarezza, della parola di Dio che sola ci fa intendere! Come avviene questa perversione? Come stato d’animo, non come idee. Poi, come una cellula fotoelettrica opera e trasforma,  a un certo momento questi stati d’animo riemergono come se fossero idee. Mi sono provato a domandare a molti artisti come intendevano l’arte. E mi hanno dato delle risposte. Ho chiesto loro se sapevano che cosa quelle risposte supponevano. Quasi mai mi è stato risposto quello che le loro risposte supponevano, potrei anche dire mai. Allora taluni di loro hanno sudato a spiegare che le loro risposte supponevano, né più né meno, il Breviario di Estetica del Croce, cioè la filosofia, e questa a sua volta supponeva la filosofia che il Croce aveva appresa dall’idealismo di Hegel. E cosa è avvenuto? E ‘ avvenuto che in costoro sono entrati degli stati d’animo, non avvertiti intellettualmente, non tradotti in proposizioni leggibili: ma questi stati d’animo a poco a poco sono diventati delle idee e li hanno innervati. Non hanno coscienza di dipendere da una filosofia; ma molte volte sembra più filosofia che arte, anche se essi non sanno quale filosofia seguano. Ho finito. Voi capite, vero, come persone che vivono nella cultura o ai suoi margini, che entrano nella grande corrente della vita, che debbono agire là e per quello che là si trova, debbano prepararvisi? E avrete anche capito che se non si risolve bene questa questione di perfetta indipendenza dell’anima nostra, nella sua fede, da quello che anche incoscientemente o subcoscientemente ci può essere propinato dal mondo nel quale viviamo, rischiamo di perdere la via della perfezione.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (2)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(2)

3. Il Giudizio

La seconda ragione per cui Dio chiede a noi la perfezione è perché lui ci giudicherà. Bene inteso, neppure questa è la ragione suprema per cui noi dobbiamo essere perfetti; ma è una grande ragione. Saremo giudicati da Dio, ed è sotto questo profilo che ora dobbiamo brevemente ragionare del giudizio di Dio. C’è un punto che interessa e che dobbiamo sceverare dagli altri, perché, agli effetti logici dell’orientamento che abbiamo preso in questi Santi Esercizi, è quello il punto importante. Saremo giudicati da Dio un giorno; ma voi sapete bene che noi siamo continuamente giudicati da Dio: il giudizio di beneplacito o il giudizio di riprovazione Dio lo dà contemporaneamente alla nostra azione. Questo è il punto che talvolta ci sfugge. Non è che la valutazione dei fatti nostri se ne vada in quiescenza tanto tempo quanto ci separa dalla morte; no, noi siamo sotto il giudizio di Dio, e dobbiamo sentirci continuamente sotto il giudizio di Dio. Poi il giudizio che sia riassuntivo, perché decisivo della nostra sorte, verrà dato al momento della nostra morte. E finalmente il giudizio inquadrante la nostra sorte nell’unitario destino dell’umanità verrà dato al giudizio finale, all’ultimo giudizio, dopo la nostra risurrezione. Ma quello che a noi interessa ora è di sapere il criterio col quale saremo giudicati. Neppure vi starò ora a commentare la parabola dei talenti, nella quale Nostro Signore ci ha dato il criterio col quale saremo giudicati. Mi basta semplicemente richiamarvi che nella parabola dei talenti il criterio del giudizio appare esigentissimo. – Naturalmente non si deve fare un computo matematico, perché non siamo in sede di computi matematici di quantità; siamo in sede di valori ontologici. A ogni modo l’espressione matematica: Dio domanda il cento per uno d’interesse è tale da far capire che il criterio è questo. E’ inutile che ci si gingilli a pensare che il criterio non sarà duro perché Dio è misericordioso: noi talvolta abbiamo la brutta abitudine mentale di opporre una verità all’altra per metterle da parte tutte e due. Si tira fuori a sproposito la misericordia di Dio per mettere a posto la giustizia. Così si fa a meno dell’una e dell’altra, e si fa quel che si vuole; e anche questa è una forma di ipocrisia. Ricordiamoci che il criterio del giudizio di Dio è un criterio duro! Ma non è neppure su questo che io voglio stamattina attirare la vostra attenzione; il punto è un altro, ed è questo: che il criterio col quale saremo giudicati sia la legge di Dio, è vero, e il modo con cui saremo giudicati sarà quello del cento per uno; ma il riferimento, cioè il paragone tra noi e qualche altra cosa, verrà fatto su che cosa? Nello stendere la legge alla quale dobbiamo uniformarci e sulla quale saremo giudicati, Dio stesso ha voluto essere il nostro modello. Dio stesso. È questo che impressiona. E la conclusione la vedete subito: se Dio stesso ha voluto essere il nostro modello, vuol dire che noi dobbiamo essere perfetti. Non ci ha dato un altro modello, ma ci ha dato sé stesso. – Io non starò a tratteggiarvi una coreografia del giudizio particolare, perché tutti gli elementi di fantasia sarebbero elementi di simbolo, ossia noi potremmo richiamare tutte le cose più terribili che in materia si possano immaginare, a proposito di giudizio, ma per dire: badate che questi elementi terribili appaiono nella concezione umana che possiamo farci del giudizio; immaginatevi che cosa sarà il giudizio di Dio nella sua realtà! Potrei cominciare a parlare di Edipo che, quando scopre quello che è e si sente sottoposto al giudizio dei suoi figli, dei suoi stessi figli, si strappa gli occhi, e ricordarvi il terribile cantico del coro col quale la celebre tragedia finisce. Tragedia che può dare il senso di che cosa voglia dire per un padre essere giudicato dai suoi figli. Ed essere giudicato da Dio? Altro che essere giudicato dai propri figli! Io potrei stare a costruire tutti questi elementi, ma dovrei dire: guardate che sono tutti elementi metaforici, cioè non descrivono un bel niente; se qui è tanto, di là che sarà? Ma qui io dovrei fermarmi, perché quando si tratta di parlare di cose che stanno al di là del muro è meglio non dire troppo; quando le cose che noi non abbiamo sperimentate direttamente le sappiamo soltanto per divina rivelazione o le sappiamo per deduzione intellettuale da principi a noi noti, la fantasia è meglio lasciarla un po’ stare. – Voi siete tutta gente che non ha bisogno di essere sollecitata troppo dalla fantasia, avete tutti studiato, e pertanto non posso farvi la catechesi e andarmi a raccomandare agli elementi di sentimento; io non ho bisogno di mettervi paura con ombre vaganti, con strumenti di tortura. Quello invece che è serio nel giudizio di Dio è che il modello è Lui. – Allora ragioniamo un po’ su questo modello che è Lui. Vedete, c’è, così, grosso modo, una distinzione simile a quella fra l’Antico Testamento e il Nuovo. Non è una distinzione che si possa dire perfettamente adeguata e netta, ma in via sommaria è una distinzione che si sostiene, è giusta, ed è questa: nell’Antico Testamento Dio si presenta come modello attraverso le opere sue; sono le opere di Dio che fanno da modello, è la creazione, ed è anche un certo lineamento dell’azione di Dio nella provvidenza della storia.  Noi vediamo che i profeti richiamano questo elemento di Provvidenza nella storia; soprattutto Isaia e poi Daniele. Invece nel Nuovo Testamento non è che venga rinnegato il criterio che Dio ci fa da modello con le opere sue, affatto, ma Dio si presenta modello nostro in sé stesso e per sé stesso, il che del resto è perfettamente in ritmo e segue, direi, l’onda della rivelazione divina. Perché nel Nuovo Testamento è Dio in sé stesso che si rivela, anche se qualche accenno lontano, accenno lasciato all’acume degli interpreti, viene fatto nell’Antico Testamento. A ogni modo è bene considerare tutte e due le cose. Dio si è presentato, ha presentato come modello delle nostre opere la creazione. Questo del resto ce lo dice S. Paolo nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, dove parla della funzione che hanno le creature: le creature hanno una funzione di rivelare agli uomini qualche cosa: Dio ha scritto qualcosa creando, e questo divino scritto deve essere decifrato dagli uomini, essi devono camminare con gli occhi aperti perché in quello che hanno davanti possono benissimo decifrare la indicazione, la volontà e una naturale rivelazione di Dio. Tutte le cose sono un modello, tutte. Perché ogni cosa ci mostra un ordine, anzi in quest’ordine le cose ci battono e ci precedono perché, non essendo libere ma determinate, agiscono sempre con una sufficiente perfezione. – Tutte le creature ci danno l’impressione di un ordine grande, di un ritmo che non si smentisce mai, in tutto il ciclo della loro vita. Gli animali non rompono mai la norma, perché anche quando determinati stimoli esterni che gli animali possono liberamente porre li spingono piuttosto in una direzione che in un’altra, si comportano secondo leggi predeterminate. E pertanto l’ordine non viene meno mai. Certo fa impressione quel volteggiare delle rondini la sera in primavera; poi accade qualche cosa per cui improvvisamente cessa il loro volare, improvvisamente, come se avessero ricevuto un segno, e tutte ordinatamente si ritirano in un attimo; quella sarabanda di danze sui nostri tetti, davanti alle nostre finestre, cessa di colpo a un determinato momento del crepuscolo; pare che vadano a dire le loro preghiere e poi se ne vadano a dormire. Se anche gli uomini facessero così! – Ecco, le creature ci parlano di una infinita saggezza e sapienza, ci mostrano un’intelligenza obbiettiva ordinante le cose stesse; e cioè dall’ordine e dall’effetto ci fanno risalire al disegno, alla causa dell’ordine stesso, ci parlano dell’intelligenza di Dio e sono testimoni di una incredibile luce che, al di là di loro stesse, fatte così diafane, fatte trasparenti come cristalli, esse ci rivelano. E’ così che la intelligenza sovrana, il lume dato, il lume ricevuto e la sostanza delle stesse cose materiali tradotta in termini intelligibili, e non più sensibili, cioè trasformata in una espressione che è fedelissima ed è invece, senza cessare quella sua fedeltà, infinitamente superiore, al di sopra della stessa realizzazione concreta e materiale, sono un continuo ribadire di quanto la luce intellettuale, doverosamente guidata, ragionevolmente nutrita, debba sovrastare alle azioni degli uomini. Tutte le creature sono appetibili in sé stesse, e voi sapete che l’appetibilità è la « bonitas »; la qualità per cui una cosa diventa appetibile è la sua bontà. Le creature pertanto ci rivelano la loro bontà, e rivelandoci la bontà ce la insegnano, ce la richiamano, non omettendo di richiamare che la bontà si verifica in esse secondo il grado della loro costituzione, secondo la elevatezza della loro individualità, secondo insomma i limiti della loro natura. E parlandoci della bontà, ci parlano dell’infinita bontà di Dio. E’ così che le creature terrene nel momento stesso in cui si fanno conoscere e ci si rivelano all’intelletto attraverso i sensi, in quello stesso istante ci danno un gusto soddisfatto, un piacere, una gioia, ci rivelano la bellezza, perché la bellezza è lo splendore dell’ordine e ha questo particolare effetto di dare il gusto, il godimento nel momento in cui la cosa bella viene conosciuta. La bellezza che viene stemperata per tutto quanto il creato ci parla di Dio, ci parla di una bellezza obbiettiva, e questa bellezza obbiettiva prende il ritmo dalla prima causa, ci fa ascendere col modello. Il mondo è un modello, il sole col suo sorgere e col suo tramontare è un modello, la luna col suo apparire nella notte, non con la sua volubilità ma con la luce e con quel carattere tipico della sua luce in mezzo alle tenebre, diventa un modello. Le stelle del cielo sono un modello, e gli animali stessi sono un modello, e la natura stessa in tutti i suoi ordini, nel suo fiorire e nel suo sfiorire, con le sue primavere e coi suoi autunni, è tutto un ordine e diventa un modello. – Dio ha parlato così. E Dio è stato modello così. Guardate che questo mondo che gira intorno a noi è una perenne testimonianza del giudizio di Dio. Perché Dio questo immenso panorama ce l’ha costruito intorno perché imparassimo, perché fosse norma, ispirazione, elevazione e perché segnasse a noi una strada, perché accogliesse con immensa dolcezza i nostri sentimenti e li incanalasse, perché stimolasse con appropriata forza la nostra intelligenza e la guidasse, perché avvolgesse con inimitabile calore la nostra vita e la sostenesse, perché fosse un modello. E’ cosa grandiosa, certo, è cosa che è stata la vera sorgente d’ogni poesia, per quanto sia stata stemperata e talvolta anche contaminata dall’uomo. Ma con tutto questo, la natura non è ancora il vero modello perché il vero modello ha voluto essere Iddio stesso. – Cerchiamo d’avvicinarci ora al Nuovo Testamento. Noi sentiamo come parla N. S. Gesù Cristo. Un giorno Egli fa questo discorso: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli…, il quale fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi ». C’è l’affermazione generale e c’è la documentazione particolare. L’affermazione generale: perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli, termine ultimo, criterio sovrano, il diagramma prestabilito alla nostra volontà.. La stessa perfezione del Padre. E poi c’è la documentazione particolare che restringe il campo, perché la documentazione non è mai la cosa documentata, è parte rispetto al tutto. Guardate la documentazione. Agisce da Signore, Iddio, dà a chi gli porta via: ai cattivi e agli ingiusti dà la sua pioggia, dà il suo sole. Lo stile del Signore è dare anche a chi gli porta via; Egli non si impoverisce a dare a chi gli porta via. La magnificenza divina ne troverà un’applicazione grandissima nel Vangelo, la legge del perdono. Che c’è di più grande della legge del perdono? Essa trova una sua eco in quella dottrina del Salvatore, che non è scritta nel Vangelo, ma che S. Paolo ha riportato in un suo discorso: essere cioè precetto del Signore Gesù che è più beato dare che prendere. È il rovescio del mondo. È lo stile del Signore: è più beato e più grande dare che prendere. E qui il mondo è servito, perché il mondo è più beato a prendere che a dare; e invece non è vero; questo è lo stile del pitocco; lo stile del Signore è un altro. Ma questo è un esempio della legge, esempio della formulazione generale. – Gesù Cristo dice: « Dovete essere perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli » a cui dovete assomigliare. È quello il modello. Ecco un elemento che vi fa assomigliare al modello; agite da signori, non da pitocchi, perché lo stile del Signore è questo: far sorgere il sole tanto sui buoni che sui cattivi, mandare la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Del resto Gesù stesso, e qui attenti bene perché c’è una indicazione forte, in un certo momento dirà: « Uno è il vostro maestro, il Padre » e un’altra volta dirà: « Voi mi dite Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono ». È un punto dove si vede che Egli e il Padre sono un unico modello. È il richiamo alla dottrina su cui torna con tanta forza nei discorsi delle ultime settimane, registrati nell’Evangelo di Giovanni, dal cap. 9 in poi, la consustanzialità tra il Padre e il Figlio: il Figlio è modello perché è consustanziale al Padre, una cosa sola col Padre, e allora si comprende la funzione — bene intesa, in una forma che non è stata mai superata nella teologia degli apologeti del secolo II, quando hanno parlato del Logos, il Verbo che è in Dio stesso — del Verbo ad extra, al di fuori di Dio. Si capisce allora come la incarnazione del Verbo prende, oltre tutti gli altri significati, questo: d’essere la traduzione fatta a uso degli uomini della perfezione di Dio. Siccome la traduzione segue il diagramma: Padre, Figlio e Spirito Santo, vuol dire che il modello è la Trinità augusta, ossia è Dio in sé stesso e per sé stesso, non Dio soltanto in quanto Creatore, in quello che può sembrare la sua vita protesa ad extra, fuori di sé, ma nella sua stessa vita intima, dove una è la sostanza trina nelle Persone: è Padre veramente, è veramente Figlio, è veramente Spirito Santo. Dio è in sé stesso il modello, ed è perché è modello, Lui, nella sua vita intima, che è stata data la grazia agli uomini ed è stata data la verità più piena attraverso la rivelazione, sicché gli uomini conoscessero cose che con l’intelligenza non avrebbero mai potuto raggiungere. Affinché il ritmo fosse pieno, dovevano assimilarsi a Dio, perché chiamati ad essere figlioli adottivi di Dio. – Ora vedete perché ci è domandata la perfezione? Potevano gli uomini pensare che Dio sarebbe venuto in terra con l’incarnazione, atto di traduzione del divino modello rispecchiato in Dio fatto uomo, per essere accessibile così all’intelligenza umana? Per fare una traduzione che non alterasse il testo, c’è stata l’incarnazione; badate bene, qui raggiungiamo uno dei motivi profondi del mistero centrale della nostra fede: perché non si alterasse il testo nella traduzione. C’è stata l’incarnazione perché non accadesse, affidando la traduzione del modello semplicemente alla parola e non al fatto, che la parola restasse lontana, troppo lontana dal modello. Siamo dinanzi al perno della nostra fede; non dimentichiamo che noi abbiamo per modello Iddio, Padre, Figlio e Spirito Santo, e che se c’è una luce alla quale dobbiamo volgerci, non è quella di qualunque faro acceso in questo mondo, è una luce che sta al di là del mondo, e questo spiega perché dobbiamo continuamente rendere la veduta nostra più acuta, fare spiritualmente quel gesto che facciamo coi nostri occhi quando cerchiamo di vedere lontano. Dobbiamo farlo sempre spiritualmente questo gesto. È una abitudine di meditazione, di continua ricerca della verità, di contemplazione, che dobbiamo rendere ordinaria nella nostra vita. Non parlo della contemplazione straordinaria, l’ho già esclusa dal principio, ma di contemplazione ordinaria proprio perché il modello sta oltre. Voi capite che sorta di liberazione per gli uomini sia questa dalle cose che li circondano! Perché quello che hanno intorno è stimolante, avanguardia del modello di Dio, ma non è il loro modello ultimo; il loro modello ultimo lo hanno solo attraverso la fede, e questa attraverso la rivelazione, e questa nell’incarnazione, con la incarnazione e per l’incarnazione. Per ipsum, cum ipso et in ipso: esattamente come si dice nella Santa Messa, dopo che l’atto sacrificale è stato compiuto. – Il modello è Lui; ma se il modello è Lui, nasce una tale colleganza, meglio la necessità di una tale colleganza tra il nostro contegno morale ed il divino contegno che non c’è più bisogno di spendere parole per dire che o tendiamo alla perfezione o ci mettiamo fuori strada. Per Ipsum, cum Ipso et per Ipso.

 

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (1)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

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Cosa c’è di meglio, all’inizio di un nuovo anno, che praticare gli esercizi spirituali, per aver chiaro nella propria vita le cose da fare ed operare in questo tempo donatoci da Dio per crescere nello spirito? E qual modo migliore di farlo è ascoltare e leggere le parola del Santo Padre Gregorio XVII, già Cardinal Siri? – Pubblichiamo la prima serie di esercizi spirituali: “La perfezione”, tenuti agli inizi degli anni 60 anni ad Assisi, registrati, raccolti e resi pubblici dal generoso valoroso sac. Giovanni Rossi, al quale saremo per questo eternamente grati, nel 1962. Si tratta di veri e propri “tesori di sapienza cristiana”, come li definisce nella pregazione, giustamente il Rossi, contenuti in queste piissime meditazioni che sono ancora più opportune, anzi diremmo necessarie e salvifiche, oggi, nei nostri tempi di confusione in cui gli uomini ignorano in pratica, spesso volutamente e colpevolmente, tutta la dottrina cristiana, anche la più elementare, sostituita da un sentimentalismo “buonista” personal-faidatè, falsamente filantropico, e da un vago deismo gnostico profuso a piene mani dagli apostati imbonitori del “novus ordo”, quelli che hanno sostituito il Dominus Sabaoth, il Dio uno e Trino, con “il signore dell’universo”, il falsario diabolico che si spaccia e si fa passare per dio, in realtà il baphomet delle logge massoniche, il lucifero-obbrobrio, l’«abominio della desolazione», colui che governa tutti gli attuali monoteismi che stanno per confluire nella “religione unica mondiale”, cioè il noachismo talmudico …, d’altra parte ci aveva già messo in guardia millenni orsono il Re-Profeta: “omnes dii gentium dæmonia” (Ps. XCV)! In queste due settimane faremo il pieno di dottrina cristiana pratica, lucidamente e sapientemente esposta dal Santo Padre “impedito” Gregorio XVII, sperando così di promuovere la crescita spirituale di noi tutti appartenenti al “piccolo gregge” di Cattolici “eclissati”, e di qualche pecorella smarrita di buona volontà … se ancora ce ne sono! Pubblicheremo così una meditazione ogni giorno, a volte due, ma in modo tale che possano essere ben meditate e fatte proprie lentamente e profondamente. Si raccomanda in ogni caso di riguardarle anche nel corso dell’anno per consolidarne e rinnovarne i benefici.

I CORSO

1.- LA PERFEZIONE

Comincio col dirvi quale è il tema di questi Santi Esercizi, poi ve lo illustro brevemente. Il tema è questo: la perfezione. Di che? La perfezione della vita cristiana. E lo scopo di questi Esercizi è incluso nell’enunciato del tema. Noi dobbiamo arrivare alla fine di questi Esercizi con la volontà precisa, inderogabile, concreta, e per noi cogente, di essere più perfetti. Non con la presunzione di essere dei perfetti, è una cosa diversa, ma con la volontà di esserlo, perché la volontà è umile ed è sempre un dono; la presunzione è superba ed è sempre presunzione. La prima è un dare, l’altra è un rubare. Dobbiamo fissare il punto a cui dobbiamo arrivare. Io vorrei che questi Esercizi vi portassero in quella atmosfera spirituale — non sarò certamente io a farlo e per questo mi affido alla Grazia di Dio — nella quale si sente che a questo mondo si perde il tempo se non si studia la perfezione e se non ci si studia di arrivare alla perfezione. – Voi sapete bene che io faccio gli Esercizi con voi e li predico a me stesso; soltanto li predico a voce alta, e vedrete che qualche cosa potrà servire anche a voi. Tema e finalità, pur non scostandoci dalla linea ordinaria dei Santi Esercizi, ci daranno la interpretazione dei diversi oggetti che andiamo via via presentando. Ho detto che debbo dichiarare il tema, perché altrimenti non è possibile che noi orientiamo ragionevolmente la nostra anima in una forma umana e non semplicemente emotiva; l’emozione si spegnerebbe subito, se non ne conosciamo bene, con accurata definizione l’oggetto. Che cos’è la perfezione? La perfezione sta: primo, nell’aderire completamente alla volontà di Dio; secondo, nell’aderirvi attivamente, non passivamente; terzo, nell’aderirvi con tutte le risorse di natura e di grazia a nostra disposizione. Questa è la perfezione. Il giorno in cui noi avremo fatto quello che dovevamo fare, lo avremo fatto attivamente e in questo fare avremo gettato tutte le nostre risorse, con tutta l’energia, senza nessuna riserva per noi, allora toccheremo lo stato di perfezione. – Per quello che dipende da noi, certo, perché a questo punto e anche prima di questo punto si può entrare in contatto con Dio mediante certi suoi armeggi dei quali io non vi saprei parlare e dei quali io non parlo, perché se qualcheduno ci arrivasse, stia tranquillo che per sapere quello che deve fare ci penserà Iddio a dirglielo, non occorre affatto che glielo dica io. Ecco cos’è la perfezione! La perfezione non è volare, non è fare il teatro, non è smuovere il mondo, non è raccogliere dei frutti. Attenti bene, perché tutte le parole hanno un significato. La perfezione non è godere, anche se Dio può permettere che vi sia del godimento. La perfezione è la volontà di Dio abbracciata, seguita, fatta e, lasciatemi dire, preceduta da noi con tutto noi stessi. Ecco la perfezione! Come vedete, non è un concetto difficile quando si tratta di esprimerlo in via teorica. La musica difficile comincia quando si tratta di fare, ed è per questo che il discorso non finisce questa sera, anche se la definizione è già detta questa sera. E anche quando io finirò di parlare e voi di starmi a sentire, ne avrete per tutto l’anno da rifletterci sopra. Detto questo, vorrei farvi considerare in linea generale la definizione della perfezione. Prima di tutto io non parlo, l’ho già escluso, della perfezione straordinaria, cioè di quelle vie che Dio risolve con interventi suoi, che stanno nell’ordine dei miracoli, che Dio riserva a certe anime che hanno già penetrato i cieli con la loro umiltà. Parlo della perfezione ordinaria, cioè di quella che sta usando gli strumenti che sono dal Vangelo proposti a tutti i cristiani e non a qualcuno soltanto. La perfezione è una cosa semplice, non arzigogolo; la complicazione sta nel movimento che dobbiamo fare noi per toglierci la nostra complicazione e arrivare a quella semplicità. E appunto perché è semplice, esclude tutto quel complesso di pose, di mode, di ricercatezze, di fissazioni che si trovano largamente distribuite negli affari degli uomini e che negli uomini anche perbene riescono a rendere terribilmente antipatica la virtù. È semplice la perfezione! E finalmente è concreta: concreta vuol dire che è tanto nell’idea quanto nei fatti. È realizzabile tutta e deve essere realizzabile tutta nel dettaglio. Quando una cosa non è realizzabile nel dettaglio e nel fatto, è astratta, è cerebrale; serve per dare una pia illusione all’anima e lasciarla perfettamente con tutti i conti scoperti in banca. Prima di andare avanti, io mi fermo per qualche minuto su questo concetto che la perfezione è un fatto concreto, e devo mettervi subito in guardia contro tutto quello che può essere cerebrale e astratto. Se nella nostra vita spirituale c’entra qualche cosa di cerebrale e di astratto, siamo subito fuori strada. Purtroppo il cerebralismo è una tendenza che va largamente serpeggiando in mezzo ai cristiani un po’ più evoluti come tali, in mezzo agli uomini e alle donne che vivono più vicino alla Chiesa, in mezzo ai cattolici che sono militanti. E poi su tanti libri la troverete. E io sento di richiamarvi fortemente su questo concetto concreto, che è poi il linguaggio estremamente concreto di Nostro Signore Gesù Cristo nel Vangelo, perché Nostro Signore Gesù Cristo ha sempre parlato in modo concreto, ha usato l’astratto solo una volta in cui ha parlato di sé stesso e ha detto: « Io sono la via, la verità, la vita ». L’Evangelo ci ha sempre detto cose concrete. Non ci ha detto: abbiate una grande personalità, Gesù Cristo non ha mai pronunciato nemmeno una volta questa parola; Gesù Cristo ci ha detto: « Siate umili e poveri di spirito », in cui si realizza il massimo che esista di personalità al mondo. Perché l’unico modo per essere personalità in questo mondo, cioè per non essere dei confusi, come le facce riflesse nel mare, è quello di essere umili. Studiatevele un po’ le facce riflesse nel mare; vedete se ci riuscite; sono le più distese di tutti, quelle non le prende per il collo nessuno. Io sento molta gente che parla del Corpo Mistico di Gesù Cristo. Che pensano quando lo dicono? E’ una cosa di cui subito sospetto. Perché se continuassero e dicessero: il Corpo Mistico di Gesù Cristo per noi che siamo qui attaccati alla terra è la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, allora sì che ci siamo! E per essere nel Corpo Mistico di Gesù Cristo, io devo essere ubbidiente al Papa, altrimenti sono bell’e fuori dalla porta. Con tutti i miei sentimenti spirituali, con tutte le mie visioni, con tutto il Corpo Mistico, con tutto Cristo vivente, sono fuori della porta, se non ho l’obbedienza del piccolo bambino al Papa, se non ho questa disposizione d’animo verso il mio Vescovo. E se credo di mettermi a fare l’anticlericale e di poter dire alla Chiesa, come a quelle vecchie nonne, senza denti e con rughe e baffi lunghi così che, poveretta, bisogna dirle: nonna, mangia adesso; siediti, nonna; sta’ sù, va’ giù, va’ a dormire adesso…. Voi mi avete inteso vero? La perfezione è concreta. Vi metto in guardia perché molti spiriti del nostro tempo sono fuori strada e si salveranno solamente perché hanno una fondamentale rettitudine e perché Iddio è tanto buono che tiene conto anche della paglia. Ma se non fosse così, ci sarebbe da temere per molti che si dicono cattolici e persino spirituali. – Ora vorrei farvi fare un’altra considerazione. Noi possiamo esigere la perfezione soltanto nel campo spirituale. Negli altri campi non la possiamo esigere. Non è misura degli uomini. Io non posso esigere la perfezione letteraria da tutti, non posso esigere, non parliamone neppure, la perfezione artistica. È possibile invece esigere la perfezione spirituale. Voi lo capirete bene attraverso tutto quello che io spero di dirvi in questi giorni; ma vorrei che vi rimanesse già fin dall’inizio questo concetto: che è solo su questo terreno religioso-morale che noi possiamo parlare di perfezione. Vedete che cosa avviene nel contatto tra noi e il mondo materiale? Possiamo noi entrare in contatto con la materia, per es. con questi mattoni? Direte: sì! Io vi dico: molto poco. Vi meraviglia? Ve lo dimostro subito. Io, di questi mattoni che sono qui e che sto toccando, posso percepire soltanto quello che delle loro qualità è analogo ai miei cinque sensi, cioè poco più di nulla. Per il resto io posso dilatare leggermente questo inizio di mia cognizione usando elementi di trasformazione, cosa che noi impariamo a fare nella fisica e nell’applicazione della fisica, e con poche, leggerissime intuizioni matematiche. Non avete mai osservato che l’unico col quale possiamo pienamente e totalmente entrare in rapporto è Dio? Perché persino con questa penna, che io posso toccare, che io posso spezzare, io entro in contatto in una forma parzialissima, necessaria e sufficiente alla mia vita, ma niente più. Il mondo perde le staffe quando scopre un filamento di più. Che cos’è tutta la teoria nucleare? È un filamento e niente più. Il mondo, come vi ho detto, si prende persino paura di sé stesso perché ha scoperto questo filamento. Con le cose con le quali crediamo di essere in un contatto così profondo, così totale da dominarle, siamo invece in contatto parzialissimo. L’ente col quale possiamo essere in contatto completo con tutto il nostro essere è Iddio. Sembra una vendetta questa? Non lo è, è misericordia. L’unica strada che è veramente aperta, anche se è, si direbbe, intercettata da una cortina di nebbia, la chiamiamo fede. L’unica strada che è veramente aperta è quella che ci conduce all’unico Padre che è Creatore e Signore. Ed è proprio per tale motivo che la perfezione può essere richiesta solo in questo campo, e che in questo campo la perfezione è possibile a tutti, mentre non lo è negli altri campi. – Ed ora che l’argomento ve l’ho presentato, lasciate che io faccia una riflessione sul fine che ci proponiamo con questi Esercizi. Noi dobbiamo arrivare alla fine degli Esercizi con nella testa questo: Io devo essere perfetto. Basta, questo non si discute più. E poiché non bisogna mai dimenticare quello che è estremamente concreto nelle cose, ci vengo subito. – Guardate come è facile nella vita spirituale, quando si fa l’esame di coscienza, trovare che forse non c’è materia di cui chiedere perdono a Dio. Ci sono tanti che la sera fanno l’esame di coscienza, seppure lo fanno, e alla fine dicono: Beh! insomma, Signore, veramente oggi è andata proprio bene. E posso essere soddisfatto. Questa è la sostanza di certi modi di pregare. Ma se, facendo l’esame di coscienza la sera, noi di questo giorno ci abitueremo a tenere la velina delle eventuali imperfezioni quotidiane sopra il disegno della perfezione, che sta sotto, in modo da averlo sempre davanti agli occhi, credo che la finale degli esami di coscienza, anche quando avremo fatto parecchio cammino nella via della perfezione, sarà sempre quella di dover cominciare a dire : « Miserere mei, Domine, secundum magnam misericordiam tuam ». – Se voi vi piantate ben saldi davanti a questa considerazione, capirete perché i Santi hanno pianto sempre sui loro peccati, anche quando tutti gli altri dicevano che non ne avevano. Alcuni credono che i Santi facessero una specie di commedia, che questa fosse una certa tale esibizione, non certo gloriosa, che bisogna tollerare in vista del resto che era positivo, perché lo stare continuamente a piangere e a piagnucolare sui propri peccati e sulla propria indegnità pare loro intollerabile e persino fastidioso. Ma non è il caso di usare la parola intollerabile e nemmeno fastidioso. Amarono la verità, e la verità era questa: che la velina della piccola imperfezione quotidiana, che c’è anche nei Santi, anche se non arriva alla colpa veniale, quelli la tenevano sempre sul disegno di fondo, che era il disegno della perfezione, di quello che dovremmo essere. E allora, quando c’è questo accostamento tra il disegno permanente e la velina che passa ogni giorno, anche se non si facesse altro nella vita, per lo meno ogni giorno si piangerebbe, cioè si farebbe qualche cosa. E questo rimanga, da oggi, nella nostra consuetudine. Arrivati a questo punto noi dovremo cominciare a ragionare dei grandi motivi per cui si deve affrontare decisamente, volitivamente, l’argomento della perfezione; perché è falso ritenere che la perfezione sia da lasciarsi ad alcuni. Io devo essere perfetto e voi dovete essere perfetti. Nessuno è fuori! Qui c’è da indovinare o non indovinare la vita. Infilare o non infilare la strada. Qui c’è il sì o il no; il tutto o il niente. Questo non è argomento di elezione, è argomento di necessità. Noi dobbiamo volere essere perfetti. E siccome per essere perfetti non occorre volare, andare in estasi, fare miracoli, avere visioni, raccogliere frutti, non occorre neanche convertire il prossimo, ammetterete che è possibile essere perfetti. La complicazione dell’impossibilità avviene quando si confonde la perfezione con tutte le altre piccole cose. Lasciamo che Iddio registri e non dimentichiamo che se la nostra perfezione desse poca o nessuna luce in questo mondo, ne darà molto di più nell’altro. Passati noi, ne darà più di noi stessi. Non si darà mai il caso che una perfezione non rifletta luce sugli altri; ma potrebbe darsi il caso in cui chi irradia questa luce non veda affatto di irradiare luce sugli altri. Accetti. Sia contento dì passare per la via dell’oscurità, perché è la via più redditizia. È quella in cui darà più gloria a Dio e amerà di più il suo Signore e Padre. Ma nessuno rimanga fuori. Per la perfezione non occorre la clausura — tornerà bene anche quella, naturalmente, a coloro che ci sono — ma per la perfezione non occorre niente di strabiliante, niente che non si trovi sull’ordinario mercato della grazia di Dio. – La perfezione è aperta a tutti, è un dovere per tutti. Che Dio vi conceda di essere invasati da questa verità, santamente invasati, profondamente scossi, potentemente vitalizzati. Le preghiere mie sono per questo, per me anzitutto, e insieme, sullo stesso piano, anche per voi.

2. – La morte

La prima ragione che noi incontriamo per giustificare l’assoluto dovere di tutti noi di tendere decisamente alla perfezione è che dobbiamo morire. Non ho detto che sia la principale ragione e non lo dico; dico che è la prima che noi incontriamo. È la ragione più spettacolare, è certamente quella che incute timore agli uomini. È quella che deve essere giudicata la maggiormente percettibile dalla loro debolezza, perché là dove non regna l’amore, la porta che è sempre aperta è quella del timore; e quando anche quella si chiude, c’è la porta di servizio della paura. E allora bisogna dire: benedetta la porta di servizio; quando non c’è altro, serve bene anche la porta di servizio. Questa è dunque la prima ragione per cui bisogna essere perfetti. Ci sono altre ragioni, che verranno dopo, nelle nostre considerazioni, ma la prima che si presenta, per i motivi riportati, è che noi dobbiamo morire. – Vengo al primo punto. Quanto tempo ci resta ancora da vivere? Lo chiedo a me, e ciascheduno di voi lo chieda a sé stesso. Quanto tempo? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che, secondo la legge di natura, c’è una certa parabola, e che l’essere più o meno avanti in questa parabola dà una certa generica indicazione. Ma non è mai una indicazione che abbia un carattere decisivo. Supponiamo di avere da campare molto; e con questo? La morte dà il carattere alla vita. Perché, siccome la morte costituisce essenzialmente una chiusura del tempo della prova, e pertanto del tempo in cui si può meritare, essa riflette una incredibile preziosità su tutti i momenti della nostra vita. Questa è la vera funzione della morte. Non è quella di generare una sorta di orgasmo per la esibizione del macabro. Non è quella neppure di mettere in uno stato di eccitazione che finisca alla emotività. La morte riflette il carattere preziosissimo della vita. Perché essa dice: guarda che tu finisci; dopo di me, tu non meriti più. Quello che sarai a quel momento, rimarrai in eterno. La possibilità di riparare qualche cosa delle tue capacità e del tuo tempo e delle circostanze eterne della tua vita finisce con me. Io sono la chiusura del tuo momento. Io segno il limite della tua ricchezza. Io ti precludo la possibilità di qualsiasi aumento. È così che la morte, anche se dovessimo pensare di vivere ancora qualche centinaio di anni, avrebbe sempre lo stesso effetto, darebbe sempre la chiave vera e interpretativa della vita. Non si deve perdere nulla nella vita, per la ragione semplicissima che noi dobbiamo morire e che la morte è una chiusura di merito e di capacità ontologica di aumento. E se poi dovessimo starci poco, in questo mondo, allora alla ragione generale se ne aggiunge una particolare. Perché nella valutazione viene ad accostarsi quello che potevamo fare, quello che potevamo fare meglio e quello che non abbiamo fatto. Sono le tre articolazioni del nostro giudizio, queste, e il modo con cui emergono o scompaiono e si raffrontano tra di loro costituisce una chiusura del nostro valore; ma sono vive, hanno una eloquenza incisiva, forse terribile davanti a noi. Quello che potevamo fare, che potevamo far meglio e quello che non abbiamo fatto. E allora, siccome non è difficile che dal confronto salti fuori qualche elemento di rampogna per noi, è chiara la conclusione: bisogna aumentare l’accelerazione per guadagnare il tempo perduto. Questo è il franco e semplice linguaggio della morte, è la sincera espressione della morte. E detto questo, vi potrei dire che ho finito. Ma rimane qualcos’altro da dire. Vedete che l’articolazione del ragionamento è secca, è chiara, è cogente. – La morte riflette una luce sulla vita ed è la luce di un giudizio di preziosità senza confine. È per questo che dobbiamo desiderare di vivere. Dobbiamo accettare di morire, ma dobbiamo desiderare di vivere. Dobbiamo accettare di morire, ma dobbiamo desiderare di vivere per sfruttare ancora il talento della vita. Perché cinque minuti di più in questo mondo vogliono dire cinque minuti di possibilità di merito. Vogliono dire allungare la strada per il raggiungimento della migliore perfezione. Vogliono dire una approssimazione sempre maggiore alla completezza nella quale noi dobbiamo presentarci al Signore. Ed è proprio in nome di questa preziosità che noi dobbiamo voler essere perfetti; perché lo sfruttamento di tutto il tempo, di tutte le possibilità interiori ed esteriori della nostra esistenza è la perfezione. È la morte che esige la perfezione. Essa non sarà la voce più alta, ma una voce che bisogna sentire, ed è la voce che più facilmente si sente, perché ci eleva sempre con una singolare e dura eloquenza di convinzione su tutte le distorsioni, le evanescenze e le evasioni della nostra vita. – Vengo al secondo punto. Come saranno le circostanze della nostra morte? Questo è interessante a sapersi. Anche se dovremo rispondere che non sappiamo niente, non è inutile questa domanda. Perché il porsi questa domanda rappresenta la franchezza dell’uomo che guarda in faccia il suo destino e che non si copre la faccia. Quali saranno le circostanze della mia morte e della vostra morte? Io ho assistito in questi 12 anni di governo della mia diocesi quasi tutti i sacerdoti miei che sono morti. Nella morte dei sacerdoti ho osservato riflessa perfettamente la loro vita. Ho visto come muoiono quelli che hanno pregato piuttosto poco nella loro vita. Ho visto come muoiono quelli che nella vita non hanno indovinato tutto. Ho visto come muoiono quelli che hanno fatto il loro dovere; ho visto come muoiono i miti e gli umili di cuore. Ciò che mi ha impressionato è il fatto che nel loro tramonto si sono raccolti, con una fedeltà impressionante, tutti i colori della loro vita, e questo prescindendo dal tipo di malattia che hanno avuto, dai dolori più o meno forti. Ma Dio è incredibilmente misericordioso nella sua giustizia, perché se volesse essere soltanto giusto, non ci tratterebbe mai bene, in quanto noi abbiamo sempre dei debiti con Lui, anche quando siamo buoni. Per il mondo possiamo essere buoni, per i superiori buoni, ma con Dio abbiamo sempre dei debiti, e pertanto non è possibile parlare soltanto della giustizia di Dio, perché c’è una giustizia talmente accompagnata dalla misericordia da essere talvolta supplita da questa, ma non travisata, perché la giustizia rimane. Una volta un Generale dell’esercito nostro, che tra le altre sue avventure aveva avuto quella d’essere stato sepolto sotto una valanga, mi raccontò cosa succede quando si arriva proprio a toccare la porta della morte, senza avere nulla di guasto. – Proprio nel momento in cui si spegneva, l’hanno dissepolto, l’hanno tirato fuori. Allora ha perduto la conoscenza, ma era anche incominciata la cura, e credendo d’aprire gli occhi nell’eternità, si trovò ad aprirli in questo mondo. Di tutti i racconti che io ho sentito dalle persone che sono state in punto di morte, questo è stato il più impressionante. Mi raccontò: ero sotto, sepolto; a un certo momento ho avvertito dei sintomi che indicavano l’avvelenamento dovuto al fatto che si respira soltanto anidride carbonica e manca l’ossigeno. Fra me ho detto: io campo ancora sei o sette minuti. In quel momento, come se una luce infinita si fosse accesa dentro di me, ho visto tutta la mia vita, tutta; i particolari di essa mi si sono messi davanti come una carta geografica che io vedevo tutta insieme e nei suoi particolari; io non ho mai avuto in tutta l’esistenza una lucidità di questo genere. Né prima né dopo. Ho visto. E allora ho sentito e ho capito quello che non avevo mai capito prima. Ho chiesto perdono a Dio, e mi sono sentito bene. A questo punto finisce il racconto. – Vedete, bisogna fare i conti con questa illuminazione, incredibile illuminazione. Io non ho riportato tutto il racconto che ho avuto, l’ho riportato nella sostanza; ma ho capito che quella luce improvvisa e grande era la luce adeguata al concetto di perfezione, cioè essa faceva riemergere dal nulla il concetto di adeguarsi totalmente alla legge di Dio. Forse c’è un altro modo di morire. Ho sentito dire e l’ho letto negli studi di qualche biologo che quando si sta per morire avviene una certa composizione nel volto e tutto si va distendendo. Prima del distacco c’è una forma di pacificazione che sostiene per qualche attimo e si distende sulla faccia anche quando ci sono i dolori più forti: questi non si sentono più e tutto finisce in bellezza. Mi pare strano che la morte sia un giochetto così pacifico, un finale guidato dal flauto o dall’oboe, da un lontano arpeggio di esseri celesti. Ma tutte queste cose le dico perché, anche se possono avere un valore relativo, in realtà ci mettono dinanzi a un problema, il problema delle circostanze della nostra morte. È meglio che noi riteniamo piuttosto comune quella tale illuminazione, tremenda illuminazione; abbiamo bisogno di abituarci per tutta la vita al senso della misericordia di Dio, anziché abituarci a pensare che probabilmente tutto se ne va in arpeggi, sotto la nota febbrile di un dolcissimo choc. Bisogna che noi ci ricordiamo che la grande verità teologica che domina il mistero della morte è una proposizione « de fide », che la grazia della perseveranza finale, la quale consiste nel congiungimento dello stato di grazia col momento della morte, è una grazia particolarissima. – Tale grazia è da chiedersi al Signore per tutta la vita, e non solo da chiedersi, ma da operarsi per tutta la vita. Non bisogna credere che Dio abbia legato le sorti della nostra esistenza all’ultimo quarto d’ora. È vero che un quarto d’ora basta a salvare l’anima, e anche meno di un quarto d’ora; pochi secondi possono essere sufficienti ad articolare un atto d’amor di Dio e un atto di dolore perfetto. – Ma la grazia di farlo ordinariamente il buon Dio la lega a quello che s’è fatto in tutta la vita. C’è un terzo punto e credo che sia su questo che la meditazione della morte debba farsi con particolare insistenza. Noi abbiamo il gusto di confinare la morte all’ultimo momento; S. Francesco la chiamava « sorella morte »; ma guardate che non è sorella soltanto perché arriva all’ultimo momento. È sorella perché nasce con noi e s’accompagna a noi per tutta la vita. Che significa questa metafora? Significa che noi moriamo tutti i giorni, di noi muore qualche cosa tutti i giorni. Non è completo l’argomento quando diciamo: si muore, si morirà il giorno tale; no, perché la morte l’abbiamo noi, ora, dentro di noi; ora in noi qualche cosa muore. Si affacciano al nostro sguardo cose splendide, è vero? Le vediamo, ne sentiamo la luce, la carezza del calore. Queste cose splendide se ne vanno a una a una a morire e lasciano il vuoto; si apre una tomba dentro di noi, una luce si spegne, è la morte. Io penso a coloro, per esempio, che sono pazzi per il gioco del football, che ci riescono meravigliosamente, che non vedono altro; è una cosa splendida il giuoco del football, credo che sia così, perché se no non mi spiegherei il tifo e tant’altra sintomatologia. Supponete che uno in questa situazione un giorno si senta dire dal proprio medico curante: attento, voi siete alla vigilia di un infarto; alt, vi basterebbe fare una sola partita perché probabilmente a metà cadiate lì morto. Ve lo immaginate? Supponete che questo tipo non muoia ma campi ancora 50 anni. Ebbene, il giorno in cui, poveretto, s’è sentito dire: alt, non fate più una partita perché una sola partita per voi potrebbe essere fatale, ve lo immaginate? E ‘ morto già un po’, e quella morte lo seguirà sempre, quella tomba vuota sempre risuonerà, echeggerà, graverà su di lui. Vedrà la domenica macchine che corrono; dove vanno? Non c’è bisogno che lo chieda, vanno alla partita; lui non ci va. – Hanno detto che la cosa più difficile è di portare una grande vecchia cantante a teatro. Vedete, le cose più splendide a una a una se ne vanno. E anche le cose nuove se ne vanno. I bambini, in confronto a noi che non dovremmo essere più bambini, un vantaggio hanno, che tutti i momenti scoprono una cosa nuova. Con quei grandi occhi, con quella profonda meraviglia, con quella intensa attenzione, sono veramente il poema della vita che si schiude. Sembra di vedere gli occhi di Adamo spalancarsi quando Dio lo ha chiamato alla vita, e ha conosciuto il mondo e ha conosciuto, penso, anche intellettualmente, il suo Signore e Creatore. Quale stupore! Michelangelo si è provato a ritrarlo nella Cappella Sistina, in una di quelle pitture che forse non si finirà di considerare, e credo che solo un grande genio della pittura lo possa valutare. – Lo stupore. I bambini, il miracolo dello stupore l’hanno in continuazione. Questo miracolo si afferma sempre più, opera fino a una certa età, finché c’è qualche cosa che si scopre che non si conosceva. Ma a poco a poco questo grande patrimonio della possibilità di scoprire si esaurisce e non si scopre più nulla. Quelli che arrivano prima a non scoprire più nulla a questo mondo sono i peccatori, perché quelli vedono la faccia del mondo subito, non c’è più niente così da scoprire. Le anime sante hanno sempre qualche cosa da scoprire, e forse non sanno che, col loro sacrificio di rinunciare a scoprire qualche cosa, si mantengono sempre un’anima di bambini; esse stanno sempre al di qua della cognizione, non al di là. È importante nella vita rimanere al di qua della cognizione, non andare al di là. Io penso a tutta questa gente che ha esaurito tutto, a questi ragazzi che hanno 16 o 17 anni, e non c’è più niente per loro da scoprire a questo mondo, né il bene né il male; hanno mangiato il frutto dell’albero della vita e dell’albero della morte. – Prima c’è stato un fremito che è proprio di chi scopre qualche cosa di nuovo; poi tutto questo s’attutisce, si riduce, svanisce e lascia un vuoto che nessuna cosa può colmare. Voi capite come è vero che tutti i giorni in qualche modo noi moriamo. La cosa impressionante è che a ogni periodo di tempo che passa s’attutiscono le nostre papille gustative; le cose possono rimanere bellissime, ma s’attutisce il nostro gusto e pertanto la nostra capacità di trarne beneficio, e anche noi siamo talvolta una ruota che gira. – Vi ho detto che la perfezione sta nel voler fare la volontà di Dio con tutte le possibilità nostre. Adesso vedete la conclusione. La morte dell’ultimo giorno ci avverte che, terminato il tempo della prova, essa raccoglie la perfezione della vita, ed è questo il motivo per cui dobbiamo essere perfetti, anche se non è il più alto motivo: sono le circostanze della morte a noi sconosciute e per altro possibili a essere intuite dalla colleganza alla vita che ci avvertono, che reclamano la perfezione della vita. La morte di ogni giorno, che costituisce la incredibile tragedia degli spettatori, la morte disegna una trama, la ferisce, la colpisce, la restituisce alla sua verità, alla sua realtà, macabra, orribile, e dice: questa trama alla quale scivolate non vi piace, penso anch’io che non vi piace. Ma c’è una trama della vita, una trama non tenuta lì in serbo, ma una trama attiva ed è la volontà del Signore. Alla trama ordita dalla morte non c’è che da opporre la trama ordita dalla vita, la trama della perfezione. Il suo linguaggio lo capite e lo lascio a voi perché vi accompagni questa sera, vi lasci dormire questa notte. Quando si è perfetti, oltretutto si dorme anche bene. Ma se anche qualche poco vi rubasse il sonno, non sarà un sonno perduto.

GREGORIO XVII IL MAGISTERO IMPEDITO: DIO E MAMMONA

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

DIO E MAMMONA

[«Renovatio», VI (1971), fasc. 1, pp. 3-4]

 Molti teologi hanno la grave tentazione di ridurre la teologia all’«antropologia». Si tratta di vera tentazione, perché se una teologia antropologica vuol mettere l’uomo al centro, cioè al posto di Dio, rischia di diventare addirittura blasfema; se intende sostituire le istanze umane a quelle divine, dando importanza preminente al benessere di questo mondo sull’asse vita eterna, diventa degenerata rispetto al suo compito. Può semplicemente occuparsi della parte che riguarda l’uomo – e questa esiste realmente ed obiettivamente in teologia – ma, il farlo in modo unilaterale, implica il pericolo di cadere nei due casi sopra esposti. – Conseguenza grave di una teologia ridotta ad antropologia è il costringere il Cristianesimo ad una mera istanza sociale. Il sociologismo, infatti, ha molte sfumature e varianti; però sposta sempre più o meno l’ago della verità e della realtà da come sono nella divina rivelazione. E per questo motivo che la nostra rivista non esce dalla sua programmatica funzione, se deve toccare qualche argomento in qualche modo sociologico. Per i veri Cristiani l’argomento sociale ha sempre avuto come perno la persona umana, tanto degnata da Dio; per gli altri in modo più generale il perno è sempre stato non la persona, anche se si usa ed abusa del termine «libertà», ma il benessere e la sua spartizione. Perché esista una società, e non un mero aggregato, una folla, occorre un’autorità, comunque venga designata. I più accesi sostenitori di rivoluzioni sociali, da essi presentate come redentrici dei lavoratori, hanno terribilmente dilatato i compiti dell’autorità. Non solo non ne hanno potuto fare a meno – il che è eloquente – ma hanno dovuto esasperarli. Ma c’è un altro fatto interessante. Si è allargato lo spazio dell’autorità: costruendola come un potere delegato dal basso. Questo è il potere quale oggi lo abbiamo di fronte: in diverse forme di esercizio, dalla legittima spregiudicatezza alla disonestà. Naturalmente bisogna tenere conto del potere che taluni, senza alcuna delega, si sono costruiti per conto proprio [Qui è evidente l’allusione agli usurpanti “vertici” della Chiesa Cattolica, agli antipapi imposti dalle conventicole massoniche al servizio del Gran Kahal!-ndr. -]. Il potere non è il denaro, ma, ordinariamente, al punto a cui siamo arrivati oggi, esso dispone a suo piacimento del denaro. La corsa al potere, che è lo spettacolo più impressionante del nostro piccolo mondo, è spesso giustificata dalla sete del denaro. Tra i «poteri» ci sono quelli sull’opinione pubblica, oggi i più tracotanti ed i meno controllati. Ma si tratta sempre di denaro, economia. In sé non è pertanto cattivo; ma, per la capacità che ha di aprire tutte le porte, condiziona ogni potere prettamente terrestre, tanto quanto ne è condizionato. La sua mobilità e il suo impiego ne fanno il centro di tutti gli appetiti. E tuttavia molte strutture stanno spingendo le cose in modo da assoggettare il denaro al potere. – Questa è la verità brutale della lotta per la quale una parte degli uomini combatte, mentre gli altri credono sia questione di ideali.

Il Vangelo ha opposto «mammona» a Dio. Nella sua corsa più generosa, quella verso la parità dei diritti, l’equa distribuzione dei beni, la serena convivenza dei popoli, il genere umano si trova impegolato di fatto nel gioco a spirale tra il potere e il denaro. Per i più il soggetto della economia non è, come dovrebbe essere, l’uomo: sono le «cose». – È su questo sfondo realistico e brutale che si colora il tentativo di far diventare la teologia un’antropologia. E ripiglieremo il discorso perché ha aspetti anche più gravi.

L’uomo si salva solo quando è umile e diventa grande quando adora Dio.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (4)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(4)

La efficienza del sacramento

Pare logico occuparsi di questo: che il Sacramento raggiunga tutti i suoi capi, ossia che diventi realmente efficiente. Tutto quello che abbiamo detto fin qui serve alla efficienza del Sacramento, ma occorre una puntualizzazione più diretta e precisa. Infatti nel Sacramento della Penitenza esistono cause, effetti e loro rapporto: bisogna parlare dei penitenti e di quello che i confessori debbono promuovere nei penitenti.

1. – La causa prima dell’effetto del Sacramento è Dio nella Sua infinita bontà. A Lui non dobbiamo ricordare nulla. Ma esistono delle cause strumentali ed è di queste che ci dobbiamo occupare, perché non sono né incoscienti, né automatiche, e pertanto chiamano in causa coscienza, consapevolezza, diligenza, responsabilità. Causa seconda dell’effetto del Sacramento è il segno sacramentale, scelto da Dio ad essere mezzo della Sua superna larghezza. – Il segno sacramentale consta, come accade in tutti i Sacramenti, di materia e di forma. Materia prossima del Sacramento della Penitenza sono i ben noti atti del penitente. Si ritenga il principio generale che il confessore ha la responsabilità di curare che gli atti del penitente siano buoni. Non ci dilunghiamo su tutta la dottrina relativa alla accusa dei peccati ed alla integrità formale della accusa, perché tale dottrina è troppo nota ed ampiamente e dettagliatamente proposta negli accreditati testi di teologia morale. Basta il richiamo. Ecco quello che in merito ci occorre dire. Potranno mutare leggi positive della Chiesa, siccome sono mutate la legge e la obbligazione relative alla astinenza e al digiuno, ma non muta affatto la obbligazione della integrità, almeno formale, della accusa. Riteniamo sia necessario ribadire questo perché taluni andazzi liturgici, dei quali si parla, e dei quali non si può giustificare né la legittimità, né la ignoranza teologica, pare riducano l’accusa dei peccati a un semplice intermezzo tra coreografie appariscenti e certamente assai adatte a distogliere da un raccoglimento interiore. La Penitenza è e resta, per chiara volontà di Cristo, una scelta autoritativa ed efficace tra due estremi positivi e contrari, quindi un «atto di giudizio». Ora non esisterà mai la possibilità di un giudizio in materia penale dove non esiste la accusa. Sappiamo benissimo che quando l’atto di pentimento si estende a tutti i peccati ricordati, non ricordati e possibili, Dio nella Sua infinita bontà si accontenta della integrità semplicemente formale; ma questo non significa che sia infranto o trascurabile il dovere della stessa integrità. Anche perché, in sovrappiù, questa integrità permette al confessore di compiere i doveri di padre e di maestro.

2. – Tra gli atti del penitente il principale e insostituibile è l’atto di dolore, che, di natura sua, include il proponimento.

Cominciamo da precisazioni fondamentali.

Se l’atto di dolore è talmente importante che la sua assenza rende il Sacramento stesso invalido o per lo meno informe, non può essere soffocato da nessun’altra cosa, sia pure coreografica o comunitaria, e deve raccogliere attenzioni minuziose e coscienti. – Il confessore – giudice non deve giudicare solamente della colpa (se c’è o meno, se è piuttosto l’una che l’altra), ma – poiché la Penitenza è essenzialmente volta alla assoluzione – deve giudicare del «meritum causae», ossia se esista o meno la ragione per la quale possa onestamente assolvere. Questa ragione sono le «disposizioni del penitente» in quanto in qualche modo manifestate (il Sacramento esige il signum) e di queste disposizioni la principale è la penitenza interiore, il dolore vero e soprannaturale. Le conseguenze di questi principi teologici assolutamente certi diventano evidenti.

a) Il confessore non può sempre ed a priori «presumere» che il penitente abbia il dolore dei suoi peccati, anche se il suo presentarsi alla penitenza è già un segno.

b) Una presunzione dovrebbe essere sufficientemente fondata su dati, relativi alla persona, all’ambiente etc.

c) Di fatto, salvo il caso in cui ci sia stata una evidente manifestazione di dolore di tutti i peccati prima della confessione e questa sia appresa dal confessore, in via di massima è piuttosto teorico si dia sempre una presunzione legittima. Ed in via generale bisogna sconsigliarla.

d) Ne viene che ordinariamente il confessore deve formulare un giudizio se il penitente ha fatto o fa l’atto di dolore nella forma richiesta dalla serietà del Sacramento. Questo accertamento non deve diventare un supplizio per il confessore e per il penitente, d’accordo. Ma non può neppure essere preso alla leggera. Consigliamo a tutti di non presumere mai il pentimento adeguato, quando si tratta di anime «dette» pie ed abituate al metodico uso del Sacramento. Riteniamo che il fatto della abitudine di confessarsi costituisca nel numero maggiore dei casi una ragione contro la «presunzione» del dolore. “Ab assuetis non fit passio”. Gli abituati al confessionale sono più degli altri in pericolo di non porre molta attenzione al pentimento. Stiano attenti i confessori su questo punto allorché si tratta di scrupolosi e di anime ansiose: queste, impigliate nei loro scrupoli o nelle loro ansie, vi sono talmente concentrate che spesso — più di quel che si creda – non hanno alcun dolore e fanno confessioni invalide od informi. – È da esortarsi perché la attenzione impiegata per l’atto di dolore sia sempre attiva, cosciente, calda e mai frettolosa o meccanica. Per quanto riguarda, non Dio che perdona, ma il penitente, è l’atto di dolore quello che opera il distacco libero dall’affetto al peccato. La grazia di Dio eleva e convalida agli effetti soprannaturali il distacco dal peccato, ma, se questo non è anche nella chiara coscienza del peccatore, nulla ha da elevare e convalidare e il Sacramento non ha esito. – La confessione delle anime che vivono abitualmente in grazia di Dio e si confessano o solo sottoponendo peccati veniali o addirittura solo presentando peccati preteriti e già rimessi, va soggetta ad un pericolo particolare. L’avversione al peccato veniale non è in genere e psicologicamente così decisa come quella al peccato mortale; si aggiunga la coscienza di una vita sostanzialmente buona e perseverante e la mancanza del ribrezzo per uno stato di mortale e corrotta decadenza; è così facile temere che un sentimento superficiale, abitudinario e affatto insufficiente – sia pure senza alcuna coscienza attuale di commettere una deformità – possa prendere il posto dell’autentico e soprannaturale atto di dolore. – La serietà del penitente la si misura anzitutto dall’atto di dolore e la serietà del confessore dal grado attuale di coscienza che ha e mantiene in tutto questo. La efficienza della penitenza è legata profondamente all’atto di dolore. – La grandezza di efficienza che ha la penitenza interiore o atto di colore, anche se il signum sensibile richiede la sua manifestazione, porta a considerazioni gravi. – La prima è l’alta interiorità che irrora e intride tutto il Sacramento della Penitenza. Abbiamo già notato le differenze che corrono tra la prassi penitenziale e la psicanalisi; qui vale richiamarle, sottolineando che la interiorità del Sacramento della Penitenza non è essenzialmente insita in una sfera di sentimento — pur non escludendolo – , di istinto, di passione, di aggrovigliato subcosciente, ma è allo stesso livello degli atti liberi, intelligenti, nobili, coscienti. Non è la interiorità dei fondali dove si accumulano solo rifiuti ed incubi, ma è la interiorità di quella zona pura e illuminata, fatta per gli incontri forti e sereni con il Padre che sta nei Cieli. – La seconda considerazione è che la volontà sostenuta dalla grazia è il grande motore in questo atto decisorio con il quale l’uomo si stacca liberamente dal peccato, giudica e condanna se stesso lealmente e nobilmente, prima di essere assolto dal confessore. La volontà è il distintivo più efficiente della virile levatura ed un uomo non è mai tanto grande e tanto giusto come quando arriva, senza violenza e senza passione, per motivo ben più alto di se stesso, a condannare umilmente e veritieramente se stesso. Poiché l’atto di volontà con il quale si impone il distacco dal peccato include – a causa del proponimento – anche un aspetto relativo al futuro del quale decide, decreta, impone la linea luminosa, diventa atto di grandezza sovrana, in qualche senso profetica. – Su taluni tentativi che, non da noi, ma altrove si fanno per portare la confessione ad un atto coreografico e ben poco o per nulla interiore non si può che pronunciare la più netta, decisa ed aperta disapprovazione. Solo la ignoranza teologica può commettere certe distruzioni.

3. – La efficienza del sacramento è legata pure alla penitenza imposta in soddisfazione almeno parziale del peccato commesso e perdonato. Questo elemento, ove non fosse curato, diminuirebbe qualcosa nella grande e fondamentale «terapia» delle anime. La minor efficienza dell’opera penitenziale talvolta si concreta in due difetti: monotonia e inadeguazione. La monotonia consiste nell’avere un modulo unico di sole orazioni, distinto solo a proposito della quantità, e assunto per tutti o quasi tutti i casi. E frequente, anche se si deve ammettere che talvolta ha qualche scusante nella allergia dei penitenti agli atti penitenziali. Questa allergia può rivelare, se mai, ai pastori d’anime che tutta la catechesi e tutta la preparazione alla confessione va rinforzata, irrobustita, allargata e metodicizzata. E un sintomo che in se stesso scusa solo fino ad un certo punto. – La inadeguazione è la conseguenza logica della monotonia. Consiste nel fatto che non contiene elementi adatti ad ottenere in un determinato penitente l’effetto capace di riempire una lacuna o stimolare una reazione. In pratica bisogna accogliere il principio che per atti penitenziali non ci sono solo preghiere facilissime da far recitare, ma azioni da far compiere e queste di varietà ben maggiore. – Le «azioni», che non vanno affatto considerate come «unico» atto penitenziale, possono aiutare il penitente ad acquistare una più netta convinzione, una ripresa su se stesso, una indicazione abituale, un antidoto diretto. Si dipana una immensa casistica della quale i confessori zelanti e illuminati sanno tenere conto. Questo va detto specialmente per quelle pie persone, non troppo spiritualmente elevate, delle quali si è detto sopra, che corrono talvolta il pericolo di non fare un atto di dolore sufficiente. In esse la abitudinarietà che fa sbiadire il dolore, fa sbiadire anche più l’atto penitenziale con la sua efficienza. Spesse volte, per il confessore che pensa e fa sul serio, la scelta accurata e la imposizione di atti, anziché di facili e troppo comuni preghiere, costituiscono un grande mezzo per scuotere dalla indifferenza spirituale le anime cosiddette «buone» e diventano uno strumento di vittoria sulla imperseverante mediocrità.

4. – La efficienza del Sacramento della Penitenza è legata pure all’assolvimento del compito di padre e maestro, che il confessore ha oltre quello di giudice. Quando si dice «padre e maestro» non si intende dire che il confessore debba sempre compiere, oltre il giudizio assolutorio e la imposizione dell’atto penitenziale, molti altri atti e avventurarsi in lungaggini. Può benissimo in molti casi assolvere ogni dovere con un solo atto. Ma quello quanto più è breve, tanto più deve essere pensato, ponderato, preparato dal confessore mentre ascolta. E in questa funzione di padre e maestro che il confessore illumina, dipana idee imbrogliate, informa per riparare lacune di nozioni, mette il dito sulla piaga, rivela i lati deboli, fa conoscere il temperamento, indica rimedi, conforta, rasserena, consolida. – Non abbiamo enumerato tutto: il nostro elenco è solo un campione, ma è sufficiente per arrivare ad una conclusione importante: la confessione ben condotta secondo la interna logica della confessione diventa in genere un atto di direzione spirituale di per sé. E a questo punto che si capisce come il Sacramento della Penitenza contenga sempre in qualche misura la direzione spirituale delle anime e come ogni direzione spirituale, anche se non necessariamente, ordinariamente bene si collega per un intrinseco motivo al Sacramento della Penitenza, il foro interno sacramentale al foro interno extrasacramentale. – Di questo completamento dell’ordine sacramentale della Penitenza parleremo appresso. Infatti in genere la confessione, quando si intende al vero e completo bene delle anime, esige di essere integrata da una vera e propria direzione spirituale.

5. – La efficienza del Sacramento della Penitenza è legata pure in qualche modo ad una preparazione remota e prossima. È logico si parli prima di una preparazione remota; la quale impegna assai dal punto di vista pastorale. La prima e insostituibile preparazione remota è la catechesi, sia teorica che pratica, a proposito del Sacramento. La catechesi deve rendere a poco a poco familiari soprattutto i seguenti concetti: Dio, la Legge, la obbligazione morale, il peccato sia veniale che mortale, la redenzione, il Sacramento in tutti i suoi particolari, la virtù e la vita integralmente cristiana alla quale la Penitenza deve conferire. Tra i particolari del Sacramento occorre dare rilievo alla necessità del dolore e del proponimento, alla sua vera natura, alla integrità della accusa. Questa catechesi non basta assolutamente farla alla sola dottrina dei ragazzi o – dove ancora esiste – alla catechesi per gli adulti. Bisogna in una parte o nell’altra farla uscire fuori in tutte le circostanze possibili, nei fervorini (tanto cesso così vuoti ed inutili!), nelle ore di adorazione, in tutte le predicazioni a ciclo come le novene, nelle predicazioni degli esercizi al popolo, dei quaresimali, del mese di maggio etc. Questa catechesi teorica deve essere stimolata, sostenuta ed orientata in modo veemente da questo principio: la catechesi per la confessione è un vero breviario della fede, della morale e della ascetica. Si tratta di un’autentica costruzione della vita cristiana, fissa tutto lo spirito cristiano e tutto l’ordinamento dell’uomo a Dio. La catechesi pratica riguarda la procedura concreta, lo svolgimento, le ragioni di quello svolgimento, le formule, almeno nel loro generale significato, gli stessi atti esterni da compiere, e deve continuamente ammaestrare in modo semplice e vero sulla distinzione dei peccati quanto all’aspetto teologico e quanto all’aspetto morale. Questa catechesi pratica è tanto importante che il primo giudizio su di una popolazione il missionario lo formula quasi sempre dal modo e dalla precisione o meno con cui i fedeli si confessano. In tutto ciò nulla è piccolo, trascurabile o, peggio, risibile; tutto ha invece la sua profonda capacità di impressione pedagogica. La catechesi pratica deve essere inserita nella catechesi teorica, quasi a giusto e necessario complemento e può essere inserita nella preparazione prossima, di cui parliamo subito. – Fa parte della preparazione remota al Sacramento la preparazione dell’ambiente e del sito ove esso viene amministrato. Rimandiamo alle istruzioni date in proposito. Qui richiamiamo solo alcune norme:

a) il confessionale deve essere decente e munito di quanto occorre alla spirituale comodità del penitente;

b) è migliore il confessionale debitamente aerato che nasconda non solo il confessore, ma anche il penitente. Ciò è utile per i confessionali degli uomini: si faccia ben caso come la mancanza di separazione, a mezzo parati, o grata del sacerdote dal fedele, diminuisce la facilità di accesso, di sincerità, di libertà;

c) il confessionale deve essere situato ove non impone una ricerca, una esposizione, degli attraversamenti impegnativi. Con queste circostanze molti fedeli, soprattutto uomini, sono inibiti dal confessarsi;

d) possibilmente ci siano i mezzi segnaletici, che dispensano il penitente – soprattutto se ignorante o imbarazzato – dal fare ricerche di un confessore. Per tutti questi motivi ordinariamente consigliamo, nelle nuove chiese, di mettere i confessionali per gli uomini, ben protetti e chiusi, vicini alle porte di ingresso e non troppo esposti. La preparazione prossima, non solo è conveniente, ma è necessaria. – Essa riguarda anzitutto il penitente. Questi deve mettersi nella situazione di ricordare e di staccare in modo completo la sua anima dal peccato. È difficile pensare possa raggiungere questo scopo senza la preghiera previa, la quale, pertanto, deve essere inculcata. – Egli deve preparare il suo materiale di accusa diligentemente; infatti è da questa diligenza, né superficiale, né infirmata da eccessivi scrupoli, che egli potrà approfondire il ricordo dei suoi atti, in modo da offrire una informazione obiettiva ad una utile direzione spirituale. Per questa diligenza, con tutta probabilità, arriverà a conoscere se stesso e ad individuare le ragioni della immobilità nella via della perfezione. Il dolore dei peccati, anche se deve essere manifestato in confessione, è bene sia eccitato prima della medesima. – Siccome questo dolore è essenzialmente atto di volontà, ma può venire spinto o facilitato dall’affetto, è opportuno che, ad ottenerlo, sia mosso tutto un meccanismo psicologico. Di esso si avvale la serietà grande dell’atto di dolore. Questo meccanismo adiuvante richiede attenzione, raccoglimento, riflessione e tempo per la mozione degli affetti. Sopra abbiamo parlato del pericolo di confessioni nulle od informi al quale soggiacciono specialmente gli abitudinari della confessione. Per essi, la diligenza della preparazione prossima va aumentata, non diminuita. Questo per il pericolo troppo vicino di agire per abitudine, cioè meccanicamente. – Credo che il clero debba ritornare con insistenza su questo punto. – Bisogna diffondere l’uso di servirsi di appositi manuali o fogli, deve propagarsi la consuetudine di fare in comune l’esame di coscienza e l’esercizio per il dolore dei peccati, specialmente facile quando si tratta di bambini. E raccomandabilissimo che si affiggano ai confessionali piccoli direttori per la preparazione e che se ne lascino, inquadrati, degli esemplari sulle sedie o panche dove ordinariamente i penitenti attendono il loro turno. – Noi dobbiamo reagire vivacissimamente alla moda del nostro tempo che è quella di fare tutto correndo, senza profondità di riflessione e, il più possibile, con atti meccanici, in modo disattento e quasi divertito. – Il buon confessore fa anche lui la sua preparazione prossima: si segna, assume la stola, si raccoglie in breve preghiera, mettendosi con questa in assoluta chiarezza davanti al dovere che assolve e davanti all’anima della quale diventa giudice, padre e maestro. Senza questo raccoglimento previo facilissimamente e colpevolmente diventerà meccanico e distratto pure lui.

6. – Per completare le considerazioni sulla efficienza del Sacramento deIla Penitenza, occorre vederlo in un quadro complessivo. Esso è costituito da alcuni elementi che qui enumeriamo. – I due concetti di peccato e di redenzione o giustificazione debbono diventare abituali, profondi, famigliari ed in un certo senso polemici. Si tratta dei due concetti che fanno da sfondo al Sacramento della Penitenza, ne alimentano il bisogno, ne danno l’esatta e valida ragione. Come entrerà nella stima e nell’uso il Sacramento della Penitenza se si dissolve il senso e la condanna del peccato? Abbiamo usato la parola «polemica» e a ragione, perché, per tenere al giusto livello di visibilità e di importanza i concetti di peccato e di redenzione, bisogna prendere fieramente posizione contro l’andazzo del «mondo» il quale sta dissolvendo l’idea del peccato, illudendo, con mistificazione ingannevole e velenosa, che l’uomo non deve avere più preoccupazioni morali. I nostri rilievi in fatto di opinione circa la moralità ci segnalano una discesa ogni anno del livello al quale si colloca il margine dell’osceno. In questo campo si hanno le manifestazioni più vergognose e violente della tentata volatilizzazione del senso di peccato. Dissolto il peccato è dissolto il cristiano, è dissolto tutto l’ordine morale. E non perché il peccato costituisca l’ordine morale, ma perché la sua nozione come peccato lo afferma decisamente. – Attraverso tutta la istituzione ascetica deve crearsi nei fedeli il senso della penitenza, non solo come generosa dedizione a Dio, come rimedio contro la debolezza, ma come necessaria riparazione, anzi come elemento equilibratore della vita. Diciamo «equilibratore» perché gli scompensi creati dai peccati e dai difetti sono una realtà presente, più o meno, nella vita di tutti. E ovvio che il senso della penitenza nasce anche dalla giusta valutazione di se stessi, peccatori e imperfetti, sempre perfettibili. Questa realtà non la si conosce e non la si accetta senza una notevole umiltà. Sicché la penitenza si lega per natura sua alla umiltà e fa da sfondo a tutta la vita cristiana, giustifica un modo di pensare che ci è inoculato da tutta la rivelazione evangelica. – Il Sacramento della Penitenza fa parte di una metodologia cristiana. Ossia: non deve considerarsi il solo singolo Sacramento della Penitenza, ma la sua parabola nel tempo. Infatti, poiché detto Sacramento non è solo rimedio dei peccati passati, ma erogazione di forza contro i possibili futuri, richiede sia usato metodicamente. Chi vuol passare indenne tra le molte tentazioni deve avere il Sacramento della Penitenza come un abituale traguardo a scadenze fisse. Esso non è solo il rimedio alla caduta, ma è l’ordinario sussidio di chi deve combattere nel mondo la sua battaglia per poter serenamente e meritoriamente tornare a Dio Padre. In termini poveri: il Sacramento della Penitenza non è fatto straordinario; esso è invece elemento abituale del quale si arma la vita dei cristiani. – Il Sacramento della Penitenza, quando entra nella vita coscientemente, tiene alto ogni concetto di serietà, giustifica a seconda delle circostanze e delle vocazioni la pratica della austerità, modifica le leggerezze alle quali tenta abituarci la instancabile spinta della materia, sempre nel tentativo di degradare l’uomo e la sua convivenza.

La direzione spirituale

1. – L’argomento è completivo di quello della penitenza, perché lo stesso Sacramento ne contiene, come si è già detto, il nucleo e diventa esigitivo di una direzione spirituale. Questa può essere svuppata all’interno del S acramento e può essere sviluppata al di fuori di esso. Non per nulla esiste un foro interno sacramentale ed un foro interno extrasacramentale. La prima può svilupparsi con il senso del penitente al di là di quanto è necessario dire per la integrità della accusa. Infatti tanto più il confessore può orientare e decidere, in caso di dubbio, quanto più conosce. La seconda ha di natura sua bisogno di una informativa che deve andare oltre quanto è richiesto per la integrità formale nel Sacramento.

2. – La direzione spirituale guida praticamente verso la perfezione il singolo fedele. Diciamo «praticamente» perché la direzione spirituale fornisce certamente, ove occorra, dei principi generali e dà nozioni teoriche, ma, anche senza necessariamente enunciare tali principi, li applica al caso circostanziato e definito da particolari di fatto. Essa pertanto illumina su tutto quanto occorre, indica i mezzi del procresso spirituale, porta alla più dettagliata autoconoscenza, sprona all’esercizio della volontà, risolve i dubbi, snebbia lo spirito dai quanto inutili tormenti, fornisce la visione dall’esterno tanto difficile ad aversi dall’interno, prende quelle decisioni per le quali l’animo del fedele sarebbe tentennante ed incerto. Questi compiti della direzione spirituale rispondono ad altrettanti stati o carenze della vita interiore e basterebbe dir questo per dimostrare la necessità di una direzione spirituale.

3. – Quando si parla di necessità della direzione, si fa una affermazione da intendersi in senso relativo, almeno per quello che sta oltre il dovere del penitente nel Sacramento della Penitenza. – Tutti comprendono che non si tratta della stessa necessità che ha la Penitenza per chi ha peccato mortalmente. Tutti possono vedere che molti fedeli, i quali per ignoranza o per le circostanze in cui vivono non hanno altra direzione oltre quella propria del Sacramento, tuttavia vivono bene ed hanno anche un certo progresso spirituale. Bisogna ricordarsi che Dio supplisce con la Sua grazia molte carenze umane.- Ma, se la Chiesa ha il compito e la divina autorità di guidare le anime, affermare che la direzione spirituale è cosa al tutto superflua e non in qualche modo necessaria sarebbe come attribuire inutilità e irragionevoli pleonasmi all’opera di Dio. In altri termini: se «divinamente» esiste la «funzione», deve essercene l’uso. – Ma oltre questa fondamentale ragione teologica, si possono considerare altre ragioni che mostrano la necessità della direzione spirituale.

a) Vi è una zona, che non appartiene affatto alla psicanalisi, siccome già si è detto all’inizio di questa Nostra lettera, che ha bisogno di essere manifestata e che non può avere il suo dignitoso sfogo ottenendo la necessaria luce se non ordinariamente nel foro interno sacramentale ed extrasacramentale. Si pensi che quello che non può essere espulso diventa facilmente veleno o causa di dolorosi complessi.

b) La umana debolezza è sempre volta a velare se stessa. E difficile conoscersi senza l’ausilio di chi sta fuori di noi. La mancata conoscenza di sé sta all’origine, non solo di inganni e disillusioni interiori, ma ancora di tutti i difetti nella vita di relazione, ossia nei contatti e nella convivenza umani.

c) I dubbi e le incertezze attendono tutti a qualche traguardo. Le depressioni non meno. Le fantasie, i falsi ideali e i non meno falsi entusiasmi hanno spesso bisogno di un solvente o di un registratore esterno. Tutte queste ragioni si trovano ordinariamente coadunate, almeno come allucinazioni o tentazioni, nelle anime che vogliono salire per un cammino di perfezione.

d) La non reazione, la stanchezza, l’afflosciamento, la pigrizia tendono ad aumentare con il crescere delle forze abitudinarie e con il passare del tempo. E tuttavia agiscono in qualunque tempo. Qui la direzione spirituale agisce come stimolo, rialzo del tono, incitamento e continuato progresso. – In realtà molti sacerdoti non hanno più un direttore spirituale. È perché pensano di bastare a se stessi e di non aver bisogno d’altri. Sbagliano, perché resteranno quali sono e progressivamente prigionieri della loro unilaterale visione, inconsci del proprio temperamento, intiepiditi, forse persino atoni. – Alcuni non hanno direzione spirituale per pura pigrizia. Sbagliano essi perché resteranno privi di quella rugiada che in ogni età e perfino nei deserti riporta la freschezza della primavera. Essa ripaga naturalmente quanto il sacerdote ha donato a Dio. È assai difficile che una vocazione si schiuda senza direzione recale, che si abbia la spirituale resistenza a lottare, ad intraprendere il piano decisivo senza l’ausilio di un sacerdote che faccia per noi visibilmente la parte di Dio. L’esperienza dice che le Associazioni cattoliche fioriscono veramente quando vi fiorisce, compresa, invocata e corrisposta, la direzione spirituale. – Essa offre ai sacerdoti il migliore giardino della loro spirituale esperienza e dà loro di cogliere i frutti più maturi.

4. – L’esercizio della direzione spirituale comporta per i sacerdoti che danno questo grande servizio le stesse attitudini e le stesse diligenze che occorrono per confessare e delle quali abbiamo prima parlato. Ma le esigono maggiorate, infatti nella direzione spirituale il campo diviene più vasto, più largo vi è l’impiego della ascetica, più dettagliata la responsabilità. Pertanto riflettano i sacerdoti che, se grande e fondamentale è per loro il dovere di offrire la direzione spirituale a tutte le anime, più grande è l’impegno, più netta la serietà e profondità con la quale vi si debbono applicare. – Siano sempre pronti e serenamente disposti, incoraggino i timidi, ma si guardino dal ricercare penitenti, quasi potesse dar gioia l’esercizio di un potere. Si guardino i sacerdoti dall’offrirsi in esclusiva, dall’impedire che i penitenti liberamente vadano a chiedere l’aiuto di altri sacerdoti. Siano severissimi con se stessi nell’evitare che la direzione spirituale diventi un loro gusto, un mezzo per legare a sé, un istrumento per esercitare un potere su oggetti che non entrano nella sfera di loro competenza. Non presumano entrare in cose che non riguardano il bene dell’anima. Soprattutto si sorveglino, perché non accada loro di rendere i loro penitenti partecipi di tutti i loro difetti e di tutti i loro limiti, delle loro simpatie e delle loro antipatie, dei loro discutibili gusti e non meno discutibili originalità. – La cura delle anime va fatta con la mano degli Angeli, va immersa nell’orazione, deve restare servizio distaccato, sofferenza accettata, generosa rinuncia.

Conclusione

Cari sacerdoti! L’esercizio santo, assiduo, responsabile del Sacramento della Penitenza è il grande «regolatore» della vostra vita. Non abbiamo la «grande sorgente», perché quella è l’Eucarestia. Ma è regolatore. Per dirigere altri, bisogna saper governare se stessi; per illuminare altri, bisogna essere illuminati; per mostrare ad altri la giusta via, deve esserci la coerenza che viene dalla giustizia della propria via. Così non graverà sul confessore la vergogna di non avere e non fare quello che esige da altri. – La santa assiduità nella direzione delle anime finisce con l’impregnare di orrore per il peccato, di sete della perfezione. Arriva a far assorbire la mentalità della purezza e della penitenza. Aprendo il mondo delle anime, tiene lontano il mondo della carne e della umana superbia. L’ufficio di redimere mette in primo piano il continuo problema della propria redenzione. L’azione sacramentale, dove agisce soprattutto Iddio e dove si porta il proprio umile merito, finisce con l’ergersi ad allontanare dalla mente, in modo deciso ed austero, tutti gli orientamenti mentali poco ortodossi, più superficiali e leggeri. Il Sacramento della Penitenza fa diventare austeri con sé, sorridenti con gli altri, perché la visione delle miserie ne rinsalda la obiettiva condanna, mentre apre il cuore ad una paternità senza confini. – Non fate a meno di questo «regolatore» che Dio vi ha dato, intendendo Egli santificarvi con il vostro stesso ministero. Riportate il Sacramento e quanto gli è collegato a quel livello di primato nella formazione del popolo di Dio, al quale Egli stesso lo ha posto. Guardiamoci dalla colpa di far svanire qualcosa di quello che Cristo ha stabilito!

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (2)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

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La morale soggettiva ha allargato il campo delle sue esperienze

Delle azioni di un uomo due giudizi occorrono: quello oggettivo, ed è il confronto tra l’atto in se stesso e la Legge; quello soggettivo, ed è il confronto tra l’atto medesimo ed il modo o il limite con il quale era appresa la legge nel momento di offenderla obiettivamente. Questo indiscusso principio ammette la possibilità di un divario tra il giudizio morale oggettivo ed il giudizio morale soggettivo, tanto è vero che esiste un peccato meramente materiale ed un peccato formale. Il primo giudizio deve essere sempre completato dal secondo, ma non deve il secondo mai perderlo di vista, avendolo invece come base e criterio. – In altri termini: la situazione soggettiva in concreto (di uno che non sapeva o addirittura non capiva, od era comunque in stato di ignoranza o di disattenzione), può essere diversa da quella che deciderebbe la obiettività della Legge. – Su questo divario si possono inserire gravi abusi ed è necessario chiarire doverosamente la questione. Ecco taluni punti in proposito.

1. – Che una situazione soggettiva modifichi il giudizio dato secondo la legge obiettiva non lo si presume mai, se non ci sono ragioni per presumerlo od almeno per generare il dubbio. L’essenziale è sapere che cosa modifichi soggettivamente il valore oggettivo dell’atto. La risposta è semplice: modifica il valore oggettivo dell’atto tutto ciò che modifica sufficientemente il «volontario». E il «volontario» dipende dal grado di conoscenza intellettuale e dal grado di intervento della volontà. Sono esse le due radici della imputabilità e della responsabilità. Ciò significa che anche uno stato patologico influisce nella valutazione soggettiva dell’atto compiuto, tanto quanto influisce sul «volontario». Il confessore potrà constatare che esiste uno stato patologico, potrà averne soltanto il dubbio e formularne la ipotesi, ma il punto divisorio tra il suo ufficio e le competenze specifiche in fatto di patologia resta sempre e solo il volontario. – Nessuno nega che chiare ed organiche cognizioni di psicologia e di una prudente psicanalisi gli possano giovare, ma il suo ministero non è né quello dello psicologo, né quello dello psicanalista. Questo deve essere affermato con estrema chiarezza, per evitare delle situazioni ibride, quali sorgono allorché si vuole entrare in un campo dove non si ha specifica e vera competenza e dove, spesso, non hanno competenza sufficiente neppure quelli che se ne intendono sul serio. In altri termini, la morale soggettiva ha come confine il limite di coscienza, che è dato intellettuale. Al di là ci saranno cose interessanti e strane, ma che non entrano di per sé nelle valutazioni necessarie alla amministrazione del sacramento della Penitenza. Il dato soggettivo sta nel tener conto di quello che uno ha intellettualmente creduto ed ha voluto. Il rimanente è oggetto di un altro discorso.

2. — Non si può negare che la esperienza e lo studio moderni abbiano attirato l’attenzione su molti fatti interni all’uomo. Un tempo era difficile sentire parlare del «subcosciente»; oggi il subcosciente» è diventato addirittura un mondo. Dell’uomo sappiamo qualcosa di più. Ciò significa che potremo trovare relazioni tra i fatti, scoprire meglio loro cause o concause. E per ciò che al giudizio del confessore sul dato soggettivo, questo presenta oggi elementi più vari, maggiori e più profondi. Per tale motivo i l Concilio Vaticano II ha ripetutamente inculcato l’uso delle nozioni scientifiche circa la pedagogia e la psicologia, chiedendo un progressivo allargamento delle nozioni solite a darsi ai futuri sacerdoti. [In questo il Sommo Pontefice si è tenuto cauto, viste le circostanze, ma egli ben sapeva che la psicoanalisi moderna è solo una congeria gnostico-giudaica di natura luciferina, quindi di nessuna utilità per il “vero” sacerdote … tutt’altro! Ne riparlerà più avanti. -ndr. -] Una migliore conoscenza del «soggetto», portata da questa più ampia prospettiva, sarà certamente utile al confessore. Egli non capirà molte cose, se non avrà cercato di allargare il campo delle sue nozioni. Tuttavia l’oggetto proprio del ministero della Penitenza resta quello che è indicato sopra: la situazione determinata dal volontario. Se il campo soggettivo, utile a conoscersi, si è indubbiamente allargato, non ne viene che il ministero della Penitenza debba adottare una complicazione di procedura, che si converrà all’onesto psicanalista [anche qui “onesto” psicoanalista è una parila molto grossa! -ndr. -], non al confessore. L’allargamento delle nozioni è per capire» e per poter, con la maggiore comprensione, essere più utili al penitente. Né pedagogia, né psicologia, né psicanalisi hanno mutato l’animo umano. Tutt’al più registreranno meglio i suoi fatti superficiali e reconditi. L’esperienza e lo spirito soprannaturale restano per i confessori i primi necessari piloti della loro azione sacramentale.

3. – C’è un senso nel quale il giudizio sul valore morale soggettivo allarga affatto la sua esperienza. Pertanto è falso e va evitato. Ecco di che si tratta. C’è un modo di considerare il comportamento dell’uomo che ha le seguenti caratteristiche:

– è generico, e pertanto non realizza gli aspetti e i particolari definienti e determinanti;

– è collettivista, ossia considera le azioni dei singoli come attività della massa, con l’effetto di trasferire almeno parte della responsabilità dal singolo alla folla, che è come dire farla svanire. Questa caratteristica è il frutto di un modo sbagliato e forse non avvertito di parlare della socialità;

– è farcito di termini e di slogans alla moda; tali termini hanno il potere di sfrangiare talmente tutto, di coprirlo sotto un suono talmente gradito da allontanare tutti i confini tra il bene ed il male. In tali condizioni tutto passa e lo vediamo benissimo. – Ora tutti i confessori sono in pericolo di giudicare molte azioni del penitente nel modo falso sopra denunciato. Stiano attenti.

La finalità sacramentale della Penitenza non muta.

– Il sacramento della Penitenza deve attuarsi attraverso un giudizio. Il giudizio deve rifarsi ad un criterio. Per questo motivo ci siamo preoccupati di avvertire che il criterio, ossia la legge obiettiva, non cambiava e che l’aspetto soggettivo delle azioni umane, pur cangianti in se stesse, doveva farsi con principi che sono immutabili. Ma ora dobbiamo guardare al Sacramento ed agli effetti che come tale gli convengono.

Perché questi effetti non mutano?

Perché la loro esistenza è legata al dogma, alla dottrina cattolica certa ed immutabile. Infatti per ammettere una evoluzione del sacramento della Penitenza bisognerebbe ammettere la evoluzione del dogma. Ora il dogma si approfondisce e approfondendolo se ne aumenta la ricchezza, la efficacia, la applicazione, ma in sé non muta. La considerazione degli effetti del Sacramento come tale merita un discorso serio e porta a conclusioni assai impegnative.

1. – Materia prossima del sacramento della Penitenza sono gli atti del penitente. Ciò significa che, ove mancano gli atti sufficienti del penitente, non esiste il sacramento e che la mancanza di compitezza negli atti menzionati per lo meno mette a repentaglio la efficacia della confessione. Quindi il soggetto è estremamente attivo. Deve esserlo in modo sufficiente, pena il non raggiungere l’effetto del sacramento. Questo dà la retta indicazione sulla pedagogia e sulla procedura della confessione, come vedremo. – Il penitente dovrà accusare, per quanto sa, specie morale e teologica, il numero dei peccati mortali. Infatti senza cognizione non si può fare giudizio. La umiliazione che porta con sé la accusa dei propri peccati è lievissima espiazione, meritata, per il peccato commesso. Tutto ciò che reintegra nella giustizia, anche se è doloroso, non mortifica, ma completa la personalità umana. La quale senza questa reintegrazione di giustizia resterebbe sempre nella ipocrita situazione di chi è coperto, ma incompleto. La accusa deve essere completata dal pentimento o manifestato o tale che dalle circostanze possa essere supposto. Questo pentimento deve essere serio. Non occorre trascriviamo qui una pagina del catechismo. Questo pentimento serio, e pertanto completato dal proposito di non ricadere nel peccato, è il più importante, anzi essenziale concorso che il penitente dà alla effettuazione del Sacramento. Esso è l’atto che deve esigersi più di tutti gli altri ed alla cui verità tutto deve concorrere nella preparazione del sacramento, nella elaborazione delle disposizioni, nella cauta e ferma esigenza da parte del confessore. Dio con atto sovrano di Sua competenza distruggerà il peccato, dopo che l’uomo libero peccatore lo avrà rinnegato nelle forme debite. Non prima. – È chiara la conseguenza di metodo: la catechesi della Penitenza, la metodologia di una preparazione, debbono puntare soprattutto sulla verità dell’atto di dolore, ornato delle ben note caratteristiche. – Ora, la pedagogia di preparazione del penitente su questo punto è gravemente trascurata: non se ne parla quasi mai (ed è senza fallo una colpa), non si creano (salvo che nelle confessioni dei collegi e dei bambini) quasi mai le condizioni di stimolo, di istruzione, di avviamento per la preparazione agli atti della confessione; pochissimi mettono facilmente a disposizione gli strumenti che richiamano un tempo ed efficacemente alla preparazione seria. Non si va errati se si afferma che la maggioranza delle confessioni non sono preparate. La gravità della cosa sta nel fatto che il pericolo di non portare la sufficiente penitenza dell’animo nelle confessioni non preparate è veramente grande. Per la santa Messa almeno si preparano i paramenti, la materia del sacrificio, le candele; per la penitenza, in genere, si prepara e si insegna a preparare nulla. Ripetiamo: la mancanza della penitenza, ossia del dolore ornato di tutte le caratteristiche fissate dal catechismo, compromette tutto il sacramento della Penitenza. – È questo il punto delicato per cui il sacramento della Penitenza viene tenuto ben lontano dal puro formalismo, dalla mera e meccanica tradizione, dal semplice gesto esterno che soddisfa la opinione di chi vede. Se la pastorale non torna ad occuparsi fino in fondo della preparazione delle disposizioni del penitente, si cancella in parte la efficacia di un fondamentale sacramento. – Il luogo adatto è condizione preliminare; per questo i confessionali non si possono mettere dove la gente ciarla e si distrae. I sussidi per la preparazione, tabelle e libretti, devono essere considerati non meno necessari delle candele per celebrare la Messa. Una disciplina osservata nel luogo ove si attende e ci si prepara la si deve inculcare a tutti, cominciando dai bambini. Insomma il sacramento, che è un atto divino, è anche un atto compiuto da uomini (penitente e confessore), umano, e che impegna a fondo tutta la responsabilità e la dignità degli uomini. Anche i peccatori hanno una dignità, nonostante la colpa; quella dignità superstite che hanno la devono portare integra e con solennità al compimento dell’atto divino. Le azioni fatte per direttissima sembrano essere entrate nel margine morale della esperienza moderna. Ma questo è un errore, perché l’uomo impreparato ad un atto, il quale di per sé esige preparazione, è veramente e non nobilmente incompleto. Il che non vale solo per il sacramento della Penitenza.

2. – Il principale effetto del sacramento della Penitenza, ricevuto con tutte le condizioni richieste è la remissione del peccato. Consideriamo anzitutto questo: la stima del sacramento della Penitenza sarà sempre proporzionata al concetto severo che si ha del peccato. – L’orientamento di non parlare di peccato, di non allarmare ed allarmarsi, di non temerlo e vergognarsene è orientamento deleterio della vita cristiana. Non c’è amore del mondo che tenga, rispetto per i non credenti che valga, a questo proposito. Il peccato grave è la morte dell’anima e la conclusione, almeno per il momento, negativa della stessa ragione della propria esistenza. A che prò, in fin dei conti, un sacramento della Penitenza, se il peccato è una trascurabile cosa, è una organizzazione del complesso di inferiorità che distrugge la persona umana, che la dissolve in un mito pietoso e ridicolo, etc? – La valutazione del peccato e del sacramento della Penitenza sono perfettamente correlative: insieme stanno, insieme cadono. Né basta che la valutazione del peccato la si tiri fuori per i bambini, allo scopo di impaurirli e contenerli, in certi momenti in cui brandelli di pratica cristiana istillano o richiedono una certa stima dell’Inferno. No, o questa valutazione sta intellettualmente e coscienziosamente alla base della vita o prende le dimensioni della ipocrisia e la inconsistenza della semplice paura. Tutta la educazione impartita, tutto il contegno, tutti gli enunciati intellettuali debbono fedelmente concorrere alla perfetta valutazione del peccato. – Bisogna spiegarsi. Chi maneggia senza alcun ribrezzo certa stampa, senza dare chiaramente a vedere quale motivo di dovere lo spinge a maneggiarla, educa chiunque lo vede alla svalutazione del peccato. Chi apre incautamente il video, senza ragione e senza cautela, mostrandosi stranamente tranquillo davanti ad esibizioni che per molti temperamenti sensibili possono costituire occasione grave e prossima di peccato, ottiene lo stesso risultato ed è inutile che tuoni contro la ingiustizia o la immoralità. Chi copre con i facili slogans azioni ed orientamenti al tutto alieni in qualsivoglia comandamento di Dio aiuterà tutti coloro che cadono nel raggio della sua influenza a farsi una idea di minimizzazione della colpa e ad ammetterla con allegria comunitaria. – Chi rimane non solo impassibile di fronte a certe esibizioni, ma tenta quasi di sembrare galante semplicemente non crede più al peccato, almeno in modo sufficiente. – La valutazione del peccato ha taluni particolari che debbono colorare sempre la catechesi abituale. Per esempio: è verità certa ed indiscutibile che la persona macchiata dal peccato mortale è incapace di qualsiasi vero merito, retribuito soprannaturalmente nella eternità. Infatti il merito soprannaturale ha per base lo stato di grazia, che non coesiste con il peccato grave. Ciò significa che una volta in peccato mortale è inutile agli effetti della gloria eterna, tanto qanto per essa si è esteso od è durato lo stato di peccato. Potrà non essere inutile ad altri effetti di minore e diversa portata. – Ancora: la valutazione del peccato grave non si separa dal senso di incombente pericolo della dannazione eterna. Sappiamo bene che questa parola da taluni la si pronuncia sottovoce o la si sottace. Non credano per questo di abolire l’Inferno, dato che, mentre per andare in Paradiso bisogna assolutamente crederci, per andare all’Inferno non occorre in alcun modo crederci. – È facile e doveroso prevedere che con questa moda di «non far caso al peccato del mondo», magari per poter meglio gettare ponti con esso, il sacramento della Penitenza avrà zone e livelli di paurosa desuetudine. Nessuno si metta in grado di doverne rispondere a Dio. A forza di far mostra che il peccato non esiste, non macchia e non contamina, se ne distrugge la valutazione, con le conseguenze sopra esposte. – Il peccato non muta nelle sue condizioni essenziali, nella sua fisionomia ontologica, nelle sue conseguenze teologiche. Pertanto muta la principalità del sacramento della Penitenza nel mondo del peccato. E credere che quello in cui viviamo sia diventato mondo di angeli e di profeti è semplicemente una stupidità.

3. – Non muta la grazia sacramentale della Penitenza. Essa è obiettiva nella grazia attuale, erogata per causa sua durante e dopo il sacramento, per un certo tempo con uno scopo ben determinato. Eccolo: contenere la debolezza per cui si pecca, aumentare le capacità reattive alle pericolose attrazioni della colpa, irrobustire la perseveranza alla quale si è impegnati nell’atto di dolore, emesso nel sacramento stesso. Ciò significa che il sacramento della Penitenza, mentre restituisce la santità essenziale, aiuta a perseverare nel bene ed è uno dei più grandi rimedi con i quali si provvede alla propria debolezza. È difficile, in circostanze ordinarie, esista la continua fuga del peccato, almeno grave, senza la periodica immissione della grazia sacramentale della Penitenza. Chi crede di essere intangibile per i propri filosofemi, superbamente affermati, per la propria intoccabile dignità personale, è sull’orlo della caduta tutti i giorni e probabilmente cadrà nel modo più stolido e pacchiano. Ha bisogno del Sacramento. Qui non ci si dimentica affatto della grazia sacramentale della santa Comunione; ma resta vero che, per divina istituzione, i due sacramenti non si sostituiscono in modo da lasciare – per chi ha peccato – una libera alternativa. Essi si integrano. – Finché la debolezza degli uomini non cambierà, ci sarà bisogno della grazia sacramentale del sacramento della Penitenza. Cambierà forse la debolezza degli uomini? Credete? Perché stanno aumentando le suggestioni, tanto che sono l’astuto fondamento della politica di massa, i conformismi, la corruzione di tutti gli organismi umani? Il discorso sarebbe lungo, la risposta è una sola ed è ora di farsela risuonare alle orecchie, prima che sia troppo tardi: la debolezza aumenta, per lo meno nella proporzione con cui aumentano le apparecchiature che impressionano gli uomini oltre misura. – In conclusione: la clientela bisognosa della Penitenza non è diminuita, è spaventosamente aumentata. Abbiamo detto e ripetiamo: «spaventosamente».

4. – Il rito sacramentale è finora immutato.

Infatti il rituale è tradotto in volgare, ma non ha ancora subito una vera riforma. Il rituale costituisce una Legge che obbliga in coscienza e che nessuno può a suo arbitrio alterare. Il Concilio Vaticano [il conciliabolo, il falso concilio c. d. Vaticano II, scomunicato con largo anticipo dalla bolla Exsecrabilis di Pio II, e che come tale non possedeva alcuna autorità ed i cui documenti sono da rigettare in blocco cme abominio della desolazione, cosa che Gregorio XVII sapeva molto bene da profondo teologo e canonista quale egli era, e che lascia sottoindendere a chi ha occhi per vedere ed orecchie per ascoltare ndr. – ] nella Costituzione Liturgica, ha disposto una «recognitio», ossia un ritocco ed eventualmente una riforma dei libri liturgici, ma non ha dato a nessuno l’autorità di innovare. La «recognitio» è affidata ad un Consilium, che trae il suo potere dalla suprema Autorità pontificia [quella vera, che allora come oggi è esautorata ed in esiliondr. – ]. Ci sono poi elementi che una qualunque «recognitio» non potrà mai toccare, perché non sono soltanto elementi rituali, passibili di mutazione, sono invece richiesti dalla sostanza teologica del Sacramento della Penitenza, così come lo ha concepito Cristo e il Magistero della Chiesa ha finora insegnato [fino cioè al 1958, finché c’è stato in successore di Pietro liberamente operantendr. – ]. I due campi: quello liturgico e quello – più grave – teologico sono chiusi alle libere iniziative dei privati e dei Vescovi stessi, le cui conferenze dovrebbero, in ogni caso, avere il benestare della Sede Apostolica [quella vera, naturalmente – ndr. – ]. Quello teologico e sostanziale è chiuso alla innovazione di chicchessia nella Chiesa, la quale non può mutare la dottrina certa e acquisita [questa è una chiara allusione ed un avvertimento per far comprendere da quali mani fosse gestita l’«apparente» chiesa dell’apostasia vaticanandr. – ]. Non ci consta che qui da noi ci siano stati abusi o innovazioni risolubili nell’esercizio del Sacramento della Penitenza. Da noi però si è parlato assai di innovazioni indotte o tollerate altrove e, se abbiamo scritto, ciò è anche perché i cattivi esempi non attecchiscano là ove Noi abbiamo responsabilità davanti a Dio. – Eleviamo la nostra accorata protesta contro tutti gli abusi che sono stati fatti: eleviamo tale protesta perché è nostro il diritto di difendere dai cattivi esempi i nostri figli. I sacerdoti si sappiano regolare secondo quello che abbiamo qui esplicitamente richiamato. – Non siamo disposti a tollerare abusi, qualunque sia il luogo da cui si importano. Sia ben chiaro che certi tentativi illegittimi di innovazioni sono solo la testimonianza di una inquietudine, di una deficienza di criterio teologico e forse di ignoranza, da ispirare vera e profonda pietà. – Il mondo attende da noi un ancoraggio, non delle avventure.

La soprannaturalità deve dominare la amministrazione del Sacramento

Cerchiamo di fissare gli elementi concreti, con i quali si attua questa soprannaturalità.

– Lo spirito di Fede.

Nell’amministrare il Sacramento della Penitenza lo spirito di Fede, per intervento positivo e virtuoso della volontà, obbliga a vedere, con la chiarezza della luce di Dio, alcune cose. Eccole:

– La dignità dell’anima del penitente, chiunque egli sia, dato che per redimerla Cristo è morto in Croce:

– l’avverarsi, a proposito della stessa anima, in quel momento di tutto il mistero della Redenzione;

– la enormità della macchia dalla quale Dio in quel momento libera; anche quando si tratta di colpe veniali, valutandole nella eterna luce della grandezza di Dio, appare chiara la infinita misericordia;

– l’avvenire glorioso dell’anima, che viene ristabilito;

– la debolezza alla quale la grazia sacramentale provvede;

– il passo compiuto verso il compimento del numero degli eletti.

Certo, perché questa visione soprannaturale si componga nell’anima del confessore, siccome richiede il rispetto al Sacramento, occorre che egli faccia «sempre», prima di ascoltare qualunque penitente, uno sforzo di raccoglimento, magari per un solo attimo, e veda l’immenso sfondo sul quale egli in quel momento agisce. Riteniamo che il proponimento di un attimo di raccoglimento faccia parte del dovere sacerdotale e che solo il rispetto a quel proposito lo possa portare al livello, al quale sta un Sacramento. – L’effetto certo sta nella devozione, ossia nella pietà profonda, con cui agisce nel Sacramento.

2. – Combattere la «abitudine», che può prevalere nella amministrazione del Sacramento. Spesso i penitenti sono numerosi e si succedono. Spesso i casi si succedono ripetendosi con monotonia. Raramente salta fuori un complesso spirituale che sveglia l’attenzione, acuisce l’interesse. Tutto questo, unito alla immobilità, al dispendio fisico, ad altre circostanze di fatto o di ambiente, conduce ad una sorta di ripetizione meccanica. Questa lascia intatto il Sacramento in sé e nel suo effetto, tuttavia non si potrebbe dire che il confessore abbia assolto bene e reverentemente il suo compito. Egli deve reagire alla meccanicità con tutte le forze dell’anima sua, aiutandole con una preparazione di preghiera e con il ricorso brevissimo alla stessa preghiera, allorché avverte l’infiacchimento psicologico, che tende a pervaderlo. Solo con queste pie avvertenze egli circonda di ambiente soprannaturale il Sacramento che amministra. Questi piccoli consigli sono «determinanti» per avere una degna amministrazione della Penitenza.

3. — Non confondere il Sacramento con qualcosa di profano.

Non si può ammettere l’esercizio della curiosità. Questa è facile, perché si è nel momento in cui un’anima apre se stessa. Essa è generalmente disposta o rassegnata a lasciarsi «leggere». Questo rende facile la soddisfazione della curiosità. Ma tale soddisfazione nulla ha a che vedere con il Sacramento, perché in esso si rappresenta tutto di Dio e nulla di noi stessi ed il servirsene per uso proprio, per lo meno, prepara una possibile profanazione. Per lo stesso motivo non è ammissibile la divagazione della chiacchiera. La chiacchiera, ammesso che sia onesta, non trova assolutamente il suo collocamento nella Penitenza, deve andare altrove. Resta inteso che quanto è necessario alla integrità della accusa ed all’espletamento del multiplo dovere del confessore non è mai chiacchiera. Questa spesso è desiderata da taluni penitenti e da tutto un settore di penitenti, facilmente individuabile. Ma si deve risolutamente resistere, anche se la resistenza può esser fatta – finché hanno effetto — con modi contenuti, sereni e dolci. La chiacchiera ha la capacità di insinuarsi come l’aria e tutto può esser buona scusa per non ostacolarla: conoscenza, direzione, stanchezza, un po’ di varietà in tanta monotonia. Attenti, quanto entra la chiacchiera, altrettanto se ne va quella soprannaturalità, che dipende dal contegno dei due attori, penitente e confessore. – Il discorso della chiacchiera che sfiora o insozza la sfera dei sentimenti verrà appresso. Il senso soprannaturale del Sacramento esclude nel confessore una certa anche confusa mentalità psicanalista. Cerchiamo di mettere le cose in chiaro. Molti ingenuamente e per fare qualche elogio al Sacramento della Penitenza lo avvicinano alla psicanalisi; qualcuno anzi asserisce che la psicanalisi è una profana imitazione della confessione. La differenza tra i due istituti è netta, totale, enorme. Ed ecco il perché. Anzitutto la psicanalisi ha un presupposto ideologico che non può accordarsi né con la natura obiettiva delle cose, né con la dottrina cristiana. Anche se quel presupposto ideologico è piuttosto tramontato, continua però a sostenere tutta la travatura della pratica psicanalitica e facilmente la contamina. In secondo luogo esiste una linea precisa di demarcazione: la confessione comincia dal «cosciente» in su; la psicanalisi comincia dal «subcosciente in giù». Quindi, anche per chi non credesse al Sacramento, sono due «livelli» al tutto diversi. Spieghiamoci. La confessione considera solo il peccato e questo comincia solo da un atto cosciente e libero. Quanto si è svolto prima o al disotto della attuale coscienza responsabile non interessa direttamente la confessione. – La psicanalisi pesca in tutte le costruzioni fatte al disotto del livello di coscienza e, se anche qualche volta lo psicanalista ascolta il racconto di un fatto libero, non è quello che lo interessa, per definizione. – La psicanalisi sguazza in tutto quello che è istinto, reminiscenza, fantasia e sentimento; ama i fondali dove la umanità conserva ed accumula tutte le testimonianze della sua miseria. La confessione tratta il peccatore in quanto ha mancato per un atto interno di consenso spirituale e non rimescola quanto può umiliarlo. – E qui c’è un punto importante a considerarsi: la persona sottoposta a psicanalisi uscirà dalla seduta sapendo di aver rivelato vergogne, che forse non sono neppur sue perché fluiscono da una registrazione subcosciente di sensazioni dall’esterno; il penitente che esce dal confessionale ha rivelato il peccato, non la deformazione costituzionale, alza la testa e si sa redento. – Nella confessione la persona è rispettata e non solo per il sigillo del segreto, ma per una valutazione teologica; nella psicanalisi il soggetto si trova ravvolto dal manto innominabile delle anomalie patologiche e indicibili. [In pratica la falsa scienza psicoanalitica, che non ha nessuna caratteristica di scienza sperimentale, non essendo dimostrabile in nessun modo, tanto meno con i risultati clinici, è piuttosto “ideologia gnostica”, nella quale la “scintilla divina”, cioè l’essenza divina ingabbiata nella materia “corpo”, e che secondo la gnosi è parte stessa di Dio, sua emanazione, non è corruttibile, per cui i conflitti si instaurano sulla componente “anima”, che viene lasciata ed incitata ad estrinsecarsi libertinamente, soprattutto attraverso il peccato, che per tale ignominiosa pratica, è metodo terapeutico liberatorio da nevrosi, psicosi ed altre psicopatie … una vera idiozia di origine luciferina, in assoluto e diametrale contrasto con la teologia cattolica, quindi da respingersi in toto e sotto ogni aspetto, come ci suggerisce opportunamente il Sommo Pontefice Gregorio XVII! – ndr. – ] I confessori chiariscano bene le loro idee e non indulgano mai alla tentazione di fare un po’ di psicanalisi, quasi che questo aggiungesse un prezzo umano ad un deficiente valore divino. Netta separazione: si tratta infatti di assurde e imperdonabili contaminazioni. La vera cura contro tali contaminazioni consiste in una chiara coscienza dell’argomento e in un solido rispetto a tutte le regole, ben strette, che la tradizionale teologia morale ha dettato e circa i limiti di accusa del penitente e circa i limiti di interrogazione da parte del confessore. – La psicanalisi ha già infettato teste, pratiche, costumi, letteratura, politica, ogni mezzo di comunicazione sociale: sta a noi impedire che infetti il sacramento della Penitenza. La preoccupazione non è fuor di luogo perché taluni moralisti, che sono senza alcun dubbio fuori di ogni consenso teologico, le hanno aperte le porte. – I sacerdoti della nostra Diocesi [e del mondo intero -ndr. -] sono avvertiti. Noi non neghiamo affatto che la terapia psicanalista possa dare dei risultati. No. Ma parliamo di terapia, non di filosofia. Quello che importa è che il possibile onesto nella psicanalisi venga lasciato ai medici specialisti e che i preti non pretendano sostituirsi a detti medici, tanto più contaminando un Sacramento.