GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (52): LA VERA E LA FALSA FEDE -VII.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –VII.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ XII. – A somiglianza degli antichi filosofi, gli eretici hanno ripudiata, come inutile, la preghiera a Dio per ottenere la fede. Non solo perciò manca loro il motivo di un AUTORITÀ’ DIVINA, ma ancora il soccorso della DIVINA GRAZIA perché credano con CERTEZZA. Spiegazione del detto di Tertulliano, che IL VERO ERETICO NON È PIÙ CRISTIANO. Che cosa significa credere? L’eretico OPINA, ma veramente non CREDE nulla e non CREDE a nessuno. Difficoltà che vi è perciò di convertirlo alla vera fede. La gente idiota presso gli eretici CREDE e può appartenere alla Chiesa. Il vero eretico però le stesse verità cristiane che professa le ritiene come OPINIONI umane, non come DOMMI divini; e però la sua fede non ha nulla di cristiano.

Ripieni gli antichi filosofi di questo orgoglio infernale, onde si credevano illuminati quanto Dio stesso, immaginate se poterono mai pensare a chiedere lume a Dio. Era anzi domma comune alle due grandi sette in cui si era divisa la filosofia, la setta stoica e la setta epicurea, che l’uomo, per l’acquisto della verità come per la pratica della virtù, non aveva bisogno alcuno di Dio, e che non avea perciò a chiedere a Dio alcun soccorso. Poiché la filosofia stoica dice presso Tullio: « Agli dei si deve domandar la ricchezza; ma la sapienza bisogna ripeterla dalla propria intelligenza, e l’uomo non è per nulla a Dio debitore di sue virtù: Quis, quod bonnus vir esset gratias diis gessit? Fortuna a Deo, a semetipso potendo est sapientìa (Ve nat. deor., lib. 2) . E la filosofia epicurea ripeté la stessa dottrina, per la bocca di Orazio che ne era alunno, in queste orgogliose parole: « Mi dia pur Giove le ricchezze e la vita. In quanto al lume della mente, all’equità del cuore non ho di lui alcun bisogno, ma basto io solo a me stesso, Det vitam, det opes, animum æquum mi ipse parabo. – Ora questa orribile dottrina, che l’uomo non ha bisogno che di se medesimo per esser sapiente come per esser virtuoso, dottrina che mette nelle tenebre il princìpio della luce ed il principio della santità nella corruzione; questa dottrina, dico, professata già dai pagani filosofi, è stata quindi rinnovata ed anche al presente è più o meno esplicitamente seguita dagli eretici cristiani. Non chiedono essi mai a Dio né la luce che gl’illumini, né la grazia che gli faccia migliori. E questi fedeli seguaci della Bibbia hanno con un orribile sangue freddo proscritto l’uso della preghiera, che pure, nei termini più chiari è raccomandato ad ogni pagina della Bibbia. Bisogna però confessarlo: così facendo, sono essi coerenti alle dottrine dei loro maestri; ed a che può essere mai utile la preghiera, se, come ha delirato Lutero, il libero arbitrio dell’uomo, pel peccato di Adamo, fece irreparabilmente naufragio, e non è necessario il ben vivere, ma basta sol credere per andar salvi? o, come ha bestemmiato Calvino, i figli dei battezzati nascono tutti santi, la grazia è inammissibile, tutti i fedeli sono predestinati? Or queste dottrine infernali una volta ammesse, non vi è più, come ognun vede, alcuna necessità di pregare: e perciò, checché sia della preghiera pubblica, che in alcune chiese da noi separate è restata come un esterior cerimonia cui non prendono alcuna parte né la mente né il cuore, la preghiera privata però della sera e del mattino, questa espressione della indigenza dell’anima, questa sorgente di tutti i suoi beni, questo pane di tutti i giorni, questo riposo di tutte le ore, questa speranza di tutti gl’istanti più non si pratica, più non si conosce. Io ho veduto una volta, in persona di un calvinista moribondo nel grande ospedale degli Incurabili di Napoli, il tremendo effetto dell’avversione profonda che l’eresia ispira alle sue vittime per la preghiera. Essendosi costui ricusato ostinatamente di entrare in discorso di religione, sino a turarsi colle mani le orecchie per non sentirne, non potei, per quanto mi fossi adoperato, ottenere che almeno pregasse! « La preghiera, diceva, non mi serve a nulla e non mi renderà migliore. » Ed in questo parossismo di orgoglio l’infelice spirò. Tutto al contrario però mi è accaduto con un luterano qui in Roma. Mi si presentò egli dicendomi: « Sono luterano, ma di nome: in realtà però, come quasi tutti coloro che fra noi hanno qualche coltura, non credo nulla, ma desidero sinceramente di credere. Ed oh sapeste quanta invidia mi fa. quando entro nelle vostre chiese, il vedere tanta gente che ora, perché crede! » E qui, dando un profondo sospiro e con un accento di tristezza da cavar dagli occhi le lagrime, soggiungeva: « Ah quanto sono essi felici! io, misero me, non credo e non posso credere! » Questo desiderio però sì sincero e sì ardente di credere era già una preghiera incominciata: mi fu dunque facilissimo l’impegnarlo a continuare a pregare Iddio d’illuminarlo. Ogni sera si recava egli adunque alla chiesa della Maddalena che dalla parte della porteria rimane aperta sino a notte avanzata per comodo dei soli uomini, che in gran numero vi si recano infatti a pregare, e per ore intere chiedeva a Dio lume alfin di conoscere la vera religione, pronto a sacrificar tutto, anche la vita, per abbracciarla dopo averla conosciuta. Non occorre il dire che con disposizioni sì pure, sì belle e sì generose, questo brav’uomo finì col credere e si fece Cattolico. Deh che chi domanda a Dio la luce è illuminato, chi gli chiede la grazia è guarito! in una parola l’uomo che prega con umiltà di spirito con sincerità d’affetto, per quanto sia cieco e corrotto, è salvo; giacché ottiene il lume e la grazia necessaria per vederci, correggersi e salvarsi. Perciò la divina bontà anche agli idolatri, non che ai maomettani, anche agli eretici concede la grazia della preghiera. Questi novelli Giobbi, cui l’errore e il vizio hanno spogliato di tutto e ridotto da capo a piedi una piaga, pure, nell’immensa loro sventura, conservano sane le labbra per pregare: Derelicta sunt tantummodo labia circa dentes meos (Job XIX); e nella preghiera hanno ancora riserbato un mezzo efficacissimo di salute. Ma lo spirito delle tenebre, che li tiene schiavi, per toglier loro questo unico mezzo di salute che lor rimane fra le pratiche del Cattolicismo che ha rendute odiose agli eretici ha ispirato loro una profonda antipatia per la preghiera, e persuadendo loro a cercare in terra il lume e la forza che non scendono se non dal cielo e ad attendere da loro stessi ciò che non può venir che da Dio, li conferma sempre di più nel culto della propria ragione e del proprio cuore. Quindi mancherà ancora all’eretico il secondo motivo di credere con certezza divina, cioè il divino soccorso. E come è possibile che Dio venga colla sua misericordia e col suo lume a rischiarare le tenebre di una intelligenza idolatra di sé medesima e che, senza avere con Lucifero comune la natura, ne ha comune l’audacia, l’orgoglio e il sacrilegio? non deve anzi Iddio alla sua gloria il lasciarla sempre più ottenebrarsi nelle sue tenebre ed accecarsi nel suo accecamento? infatti questo Dio stesso, che ha dichiarato che si lascerà subito trovare dall’uomo il quale lo domanda e lo cerca e discende alla semplicità dei fanciulli (in Matth. XI), protesta però altamente che si avvolgerà in un velo impenetrabile e si renderà un oscurissimo enimma a colui che si crede sapiente e scienziato per sé stesso (ibid.); e che, come l’umiltà è sicura di ottener grazia al trono della sua bontà, così l’orgoglio non deve aspettarsi dalla sua giustizia che resistenza, odio, guerra e disprezzo, Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Jac. IV). – Prima però di passar oltre a vedere come alla pretesa fede dell’eretico manca ancora il terzo ed ultimo appoggio per credere cioè l’uniformità delle credenze de’ suoi complici nella ribellione alla Chiesa, fermiamoci qui un poco a considerare come appunto perché la fede dell’eretico si riduce a queste parole: « io credo a me stesso, » e manca del divino soccorso, essa non è più fede; e che la grande e terribile parola di Tertulliano: « l’eretico non è più Cristiano, si hætici sunt, christiani non sunt, » che è sembrata a taluni un esagerazione oratoria, è una trista e rigorosa verità. Imperciocché Gesù Cristo non ha ordinato ai suoi Apostoli e ai loro successori di presentare alle nazioni le sue dottrine come indovinelli onde s’intertiene una riunione di oziosi per esservi discusse, ma come un cibo divino alle intelligenze fameliche della verità per essere credute. Non ha detto RAGIONATE, ma CREDETE. Non è dunque l’inquisizione, l’esame, il raziocinio umano, ma la FEDE DIVINA che forma il Cristiano, Justus autem meus ex fide vivit.  Ora credere significa accettar come vera una proposizione, una dottrina di cosa ignota, lontana, invisibile, sulla testimonianza di un’autorità che non falla. Se l’autorità è umana, umana pure si dice la fede. Si dice però FEDE DIVINA, se è divina l’autorità che le serve di motivo e di appoggio. – Due cose adunque costituiscono la fede. La prima, ch’essa non ha luogo nelle cose di cui si ha una scienza immediata, come sono le cose che si vedono, si sentono e s’intendono, o per mezzo dei sensi, o per mezzo del raziocinio; e perciò non è un atto di fede il credere che esiste il sole e la luna, e che il tutto è maggiore della sua parte. Perciò pure non vi sarà fede in cielo quando tutti i misteri di Dio, che qui avremo creduti, ivi li vedremo in Dio, che conosceremo come è in se stesso, Videbimus eum sicuti est (I Joan. III). Perciò infine S. Paolo chiama la FEDE DIVINA « argomento delle cose che ancora non appariscono né alla ragione né ai sensi. Augumentum non apparentium (Hebr. XI). » Ma ciò non è tutto: per seconda condizione la fede suppone ancora un’autorità divina od umana fuori di noi che ci attesti la cosa ignota, invisibile o lontana; e questa autorità ci server di motivo più o meno possente, secondo che più o meno veridica, per determinare l’assenso e riscuoter la fede. Sicché credere è acconsentire alla testimonianza di un altro che parla; credere importa selezione, ubbidienza del nostro intelletto all’altrui parola. Colui adunque che tiene una cosa per vera sulla testimonianza della propria ragione o dei proprj sensi: colui che acconsente, ma pel motivo che vede la cosa, o la intende; colui che intorno alla verità della cosa si riporta interamente a sé stesso, si fonda, si riposa in sé stesso: costui giudica, opina,ma non crede; ed il suo assenso è il risultato necessario dell’evidenza intuitiva o discorsiva della cosa, che forza l’intelletto, e non già un atto libero di fede della volontà. – Ora tale appunto, come lo abbiamo veduto, si è la condizione dell’eretico rispetto alle verità cristiane che esso dice di credere. Poiché sebbene dica di ammetterle sulla testimonianza di Dio che le ha rivelate nelle Scritture, pure, siccome queste Scritture se le interpreta da sé, e ne ammette solo quello che gli sembra più ragionevole; non è sulla testimonianza di Dio che sottomette la propria ragione, ma è alla propria ragione che sottomette la testimonianza di Dio; e dove la fede del Cattolico si riduce alla parola: « io credo a Dio, » al contrario la fede dell’eretico si risolve in quest’altra: « io credo a me stesso. » E poiché il credere è l’adesione dell’intelletto mosso da un motivo distinto dallo stesso intelletto, giacché non può l’intelletto essere allo stesso tempo soggetto e motivo della fede; così l’eretico appoggiandosi al proprio intelletto, e chiedendo allo stesso intelletto il motivo da piegar l’intelletto non ha più il motivo della fede; giudica, opina, decide, ma non crede, e non ha fede alcuna, nel senso filosofico e teologico che si attacca a questa parola. – E questa, per dirlo qui di passaggio, si è la ragione onde è più facile il persuadere la vera religione ai maomettani ed agli idolatri che agli eretici. Il maomettano e l’idolatra crede a Maometto, a Sciaca, a Brama, sull’autorità del Corano o del Vegas, libri stimati da lui sacri ed interpretati dai muftì o dai bramini, che crede investiti dalla divina autorità d’interpretarli, e di deciderne. Il suo inganno si è nel credere divini quei libri e divina l’autorità che li interpreta. Il suo inganno è intorno all’oggetto della sua credenza; in quanto che quello che crede è falso, superstizioso, assurdo, ma non s’inganna intorno al principio generale: che la religione si deve ammettere sulla testimonianza divina attestata da una sacra e divina autorità; cioè a dire che crede male, ma crede. E quando il missionario gli fa conoscere l’assurdità, l’orrore e la turpitudine di ciò che crede, è fatto tutto; giacché pel rimanente trova in lui un intelletto abituato a sottomettersi ad una autorità esterna ed a credere, sulla sua testimonianza, la religione. Cioè a dire che col maomettano e coll’idolatra si tratta di rettificare l’oggetto della fede. ossia le cose credute, ma non già il soggetto della fede, ossia l’intelletto che crede, che si trova di già formato all’abitudine del credere. Ma coll’eretico vi sono a vincere due difficoltà: la prima è quella di persuadergli che le cose che esso ritiene per vere son false, e quelle che come false rigetta son vere. La seconda difficoltà, ancora più grande da superare, è quella di far piegare a credere sull’altrui testimonianza un intelletto assuefatto a non credere che sulla propria. Cioè a dire di far credere chi in verità non ha mai creduto. Ora il sottomettere un siffatto intelletto al giogo della fede è cosa più malagevole di quella che il persuadere la continenza a chi ha passata la vita in tutte le sregolatezze del senso. E più facile persuadere la castità alla lascivia che l’umiltà all’orgoglio. – Vi sono però delle verità cristiane che le diverse sette degli eretici han ritenuto, come il mistero della unità e della Trinità di Dio, dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo e della sua incarnazione e morte per la salute degli uomini, del peccato originale e della vita futura. Ma che perciò? Da prima queste stesse verità fondamentali del Cristianesimo, che l’eresia si vanta di mantenere, le ha talmente sfigurate e malconce che, come lo abbiamo di già notato, è impossibile il ritrovar ne’ suoi libri il senso in cui si devono intendere. Ma abbia pur l’eresia conservate queste grandi e sublimi verità nella purezza: e lo schifoso insetto che ella è, che colla velenosa sua bava attossica e fa appassire i fiori più gentili cui si attacca, sia pur passato sul bianco giglio della dottrina cattolica senza corromperlo né alterarne il divino candore. Dall’avere gli eretici alcune verità comuni con noi non ne segue che le credono come noi. Poiché altro si è credere con fede umana, altro credere con fede teologica una cristiana verità. Che il Vangelo di Gesù Cristo contiene una rivelazione divina, è un fatto sì evidente e sì certo che per negarlo bisognerebbe negare con molto più di ragione che le orazioni di Demostene e di Tullio siano capolavori di eloquenza, e i versi di Omero e di Virgilio capolavori di poesia; giacché il carattere divino del Vangelo è di gran lunga più splendido di quello che lo sia, negli indicati libri, il merito oratorio o poetico. Ma il complesso dei grandi motivi di credibilità che basta a far credere divino il Vangelo e Dio il gran personaggio che ne è l’autore e il soggetto, non basta però a far credere con una completa e perfetta acquiescenza della mente, determinata da una volontà libera, tutti e singoli i misteri contenuti nel Vangelo, e farvi assoggettare la ragione che non gli intende. Questo atto sublime è l’opera dell’impulso dello Spirito Santo liberamente accettato : è l’opera della grazia della fede. Or egli è certo che ad una tal grazia non ha parte lo eretico. L’aveva egli ricevuta al Battesimo, se fu debitamente battezzato, ma la perdette in seguito quando, giunto all’età della ragione, incominciò liberamente a professare l’errore ed ostinarsi nello scisma e nell’eresia, che è il peccato onde la grazia della fede fa naufragio. Perciò nella classe idiota ed incolta, come sono per la più parte i contadini, le donne della plebe, il popolo, anche presso le nazioni da noi divise per la eresia o lo scisma. si conserva un qualche avanzo di fede nelle cristiane verità che vi sono restate superstiti: sì perché questa classe di uomini, non potendo far uso del principio del libero esame per trovare, per formarsi la propria religione colla Scrittura a dispetto di questo principio, che forma la base dell’eresia e il distintivo degli eretici, non riceve la religione da questi grandi apòstoli della ragione se non per via di autorità; sì ancora perché la maggior parte di sì fatti uomini rimangono nell’eresia e nello scisma non per una volontà pertinacemente ribelle alla verità conosciuta, ma per una ignoranza più o meno invincibile di cui solo Dio è il conoscitore ed il giudice. Entrati pertanto nella Chiesa per mezzo del Battesimo, e non essendone usciti per mezzo dell’ostinazione nell’errore conosciuto, la quale sol forma l’eretico, ne conservan la fede. Divisi dal corpo della Chiesa, appartengono al suo spirito. La Chiesa, in mezzo a queste nazioni ribelli e nemiche alla sua autorità, conta a milioni dei figliuoli, che se osservano i divini comandamenti, si salvano, ma si salvano per la vera Chiesa e nella vera Chiesa. E così sempre si verifica la gran verità: Che solamente nella vera Chiesa si trova la salute, e fuori di questa, come fuori dell’arca noetica, non si scampa dall’eterno naufragio. – Ma in quanto alle persone istruite e colte, come sono principalmente i dottori, i maestri dell’eresia, ed in generale in quanto a tutti coloro in cui non ha, né può aver luogo l’ignoranza invincibile della vera dottrina e della vera Chiesa, e che ad occhi veggenti combattono l’una e ripudiano l’altra; queste vittime sciagurate dell’orgoglio infernale sono estranee non solo al corpo, ma allo spirito ancora della vera Chiesa; e col perderne la comunione, ne han perduto ancora la fede. Imperciocché, noi l’abbiamo veduto, privo dell’autorità della Chiesa, ridotto a non credere che a sé stesso, l’eretico veramente tale non ammette una qualche verità cristiana che sulla testimonianza della propria ragione; perché la sua ragione, e non altri, gli persuade che tale verità si contiene nella Scrittura. L’ammette come fra i varj sistemi di fisica o di medicina si ammette da ognuno quello che gli sembra più fondato e più ragionevole. L’ammette come frutto delle ricerche, dei confronti, dei calcoli della scienza, in una parola sull’autorità del proprio giudizio. La sua credenza è tutta umana e filosofica, non già teologica e divina; è una credenza inetta, sterile, derisoria; che non ha nulla di comune colla vera fede che giustifica e salva: e l’uomo che sopra una tale credenza unicamente si fonda non può con verità dirsi più Cristiano: Si hæretici sunt, christiani non sunt.

§ XIII. – Segue lo stesso argomento della mancanza di una FEDE CERTA presto gli eretici. I buoni Cattolici s’ingannano nel pensare che il vero eretico, ammettendo certe verità cristiane con loro, le creda come loro. L’eretico giudica, il solo Cattolico CREDE, Attira prova della perdita della fede presso gli eretici: la loro ripugnanza ad ammettere i cristiani misteri. La setta razionalista, che rigetta i misteri cristiani, è figlia legittima di Lutero e di Calvino.

Noi Cattolici, grazie all’educazione veramente cristiana, grazie all’abitudine al credere, prima eredità, appannaggio prezioso che abbiamo ricevuto dai nostri padri, spesso c’inganniamo intorno alla condizione morale in cui si trovan gli eretici relativamente alle verità rivelate. E perché, richiesti da noi « se ammettono un Dio uno e trino, un Salvatore uomo e Dio » rispondon che sì, ci pensiamo che essi almeno credono queste verità come noi. Or nulla vi è di più falso. Gli eretici, non si può abbastanza ripeterlo, giudicano soltanto, noi Cattolici solamente e veramente crediamo, e tra il giudicare e il credere la distanza è immensa; e solo la conoscono coloro che, vittime già dell’errore e docili quindi all’impulso della grazia, sono venuti alla verità, poiché essi sanno per prova l’immenso stadio che perciò han dovuto percorrere. Le belle parole, per esempio, di Santa Marta: Sì, o Signore, io credo che voi siete il Messia Figliuolo di Dio vivente, che siete venuto in questo mondo, Credo, Domine, quia tu es Christus Filius Dei vivi, qui in hunc mundum venisti (Joan. XI); queste belle parole, dico, in bocca al vero Cattolico, che crede a questa ed alle altre cristiane verità come insegnategli dalla Chiesa, fedele depositaria ed interprete infallibile della parola di Dio, importano, come lo abbiamo di già veduto, un assenso pieno, intero e perfetto, un sacrificio completo dell’intelletto, che, ajutato dalla grazia, volontariamente si piega, si sottomette, s’immola a riconoscere come verità certissima, immutabile un mistero che non intende. Nella bocca però dell’eretico, che non si è indotto ad ammettere la divinità di Gesù Cristo, se non perché, leggendo il Vangelo, gli è sembrato di aver trovato questo mistero nel Vangelo; le stesse parole significano ben altra cosa. Esse esprimono un assenso condizionale, provvisorio, fondato sul solo motivo che cosi ne è parso alla sua ragione. Sono una concessione orgogliosa dell’io individuale che piega la palpebra dell’occhio senza abbassare il capo; che si degna di ammettere questo mistero perché lo giudica ammissibile; che fa che la ragione consenta, ma senza nulla sacrificare della sua indipendenza e del suo orgoglio. Ove dunque la parola lo credo che Gesù Cristo è Dio, nello bocca del Cattolico è sinonimo di quest’altra, lo tengo per infinitamente certo che Gesù Cristo è Dio, e lo credo con una certezza che esclude ogni dubbio, e son pronto a confessarlo in faccia ad ogni specie di sacrificio; nella bocca però dell’eretico equivale a quest’altra: io giudico, mi pare, potrebbe essere che Gesù Cristo sia Dio. In somma, noi ammettiamo questa verità come un domma della Chiesa universale divinamente rivelato; l’eretico, come un privato giudizio umanamente stabilito. E siccome non è il privato giudizio dell’uomo, ma la fede di Dio che forma il Cristiano: così l’eresia, rendendo, nell’anima in cui regna, impossibile questa fede, vi distrugge la base stessa della rivelazione cristiana. Il Cristianesimo non vi rimane che come un sistema filosofico, una teoria più o meno ragionevole, che l’intelletto è libero di ammettere o di rigettare in tutto o in parte. Fra gli eretici adunque, checché sia delle parole, non vi è più in fatti certezza teologica, non vi è più fede comune, non vi è domma obbligatorio. La religione vi si è diseccata nella sua radice, vi si è annullata nel suo costitutivo essenziale, che è la FEDE. E questi grandi riformatori del cristianesimo, di cristiano non avendo conservato che il nome, profanato da mille turpitudini, da mille errori, col divenire eretici han cessato in tutta la forza del termine di essere Cristiani, Si hæretici sunt, christiani non sunt. Un’altra’Conseguenza e prova insieme della perdita totale della fede cristiana, presso questi distruttori del Cristianesimo, si è la loro repugnanza ad ammetterne i misteri. Noi lo abbiamo di già avvertito: gli eretici, o gli scismatici, che dicono di ammettere le stesse verità cristiane che noi, sono lontanissimi dal crederle, al par di noi. Siccome queste verità non le ammettono se non perché è sembrato evidente alla loro privata ragione che esse si trovano nelle scritture: cosi la loro credenza ha la sua radice nella ragione e non nella fede. Credono, per esempio, che Gesù Cristo è Dio come credono che furono oratori Tullio e Demostene, ed Omero e Virgilio poeti. Lo credono come un fatto incontrastabile, che non può negarsi senza far violenza alla ragione. Lo credono con una certezza umana, non già con una fede divina. Lo credono come gli scribi e farisei credevano ai miracoli di Gesù Cristo, perché avendoli veduti cogli occhi loro ed avendoli essi stessi severamente esaminati e discussi, era loro impossibile il negarli; e perciò in un loro conciliabolo confessarono pubblicamente che Gesù Cristo faceva gran copia di miracoli: Hic homo multa signa facit (Ioan. XI). Ma come questa credenza dei giudici nei miracoli del Signore, credenza puramente umana, forzata, violenta, non li sollevava sino a credere altresì le celesti dottrine e la missione divina, così la credenza umana degli eretici nella sua divinità non gl’innalza sino a credere gli altri misteri che non si trovano nel Vangelo colla stessa evidenza da forzar la ragione. Dall’abisso del loro cuore, in cui fermenta l’orgoglio, si sollevano densissimi vapori, tenebre immense, che oscurano la chiarezza soprannaturale, impediscono la cognizione di questi misteri. Quindi questi misteri medesimi, che la docilità e la rettitudine della coscienza cattolica, rinvigorita dall’ajuto soprannaturale della grazia, ammette e crede senza pena e senza sforzo, diventano agli occhi dell’eretico enimmi oscurissimi. proposizioni inammissibili. Chi l’uno ne nega, e chi l’altro. Chi a suo capriccio li spiega, e chi secondo la sua capacità li restringe. Chi qualcuno ne ritiene come probabile, chi tutti affatto li rigetta siccome assurdi. E i dommi tra noi più popolari e più consolanti, come per esempio la confessione, la Eucaristia, il culto della santissima Vergine e dei Santi, le indulgenze, il purgatorio, si volgono, agli occhi di questi ciechi volontarj, in pratiche superstiziose, in occasione di stolide bestemmie e di sacrileghi insulti. – Rousseau ha pronunziato una gran verità dicendo: Ci vogliono buone ragioni per far sottomettere la ragione. Or, quando trattasi dei misteri della Religione queste buone ragioni non possono essere motivi intrinseci, perché, se un mistero si potesse con motivi intrinseci dimostrare, cesserebbe di essere un mistero; devono essere adunque argomenti estrinseci il primo e il più poderoso dei quali si è una autorità divina, infallibile che dichiari che un tal mistero veramente è rivelato da Dio, e lo proponga alla ragione perché lo accolga e lo creda. Togliete questa autorità e non vi rimarrà più mezzo da esigere la sottomissione della ragione ad un mistero che essa non intende. – Invano direte che basta che un tal mistero sia chiaramente contenuto nella Scrittura, perché la ragione lo ammetta. Poiché, tolta l’autorità della Chiesa, la ragione, che riman sola a giudicare e decidere Se un tal mistero si contiene veramente nella Scrittura, farà tutti gli sforzi per escluderlo. Vi è egli mai mistero più chiaramente annunziato nel Vangelo di quello della presenza reale di Gesù    Cristo nell’Eucaristia? Eppure appena Lutero tolse di mezzo l’autorità della Chiesa, e rimase alla ragione d’ognuno l’interpretazione del Vangelo, la prima cosa che fecero i suoi primi discepoli Zvringlio e Calvino fu quella di eliminare questo mistero; e dove Gesù Cristo ha detto nei termini più chiari e più precisi: Questo è il mio corpo, non hanno avuto difficoltà di asserire che nell’Eucaristia non è veramente il corpo del Signore, ma, secondo uno, ve n’è solo il segno; secondo altri, la figura; per questi ve n’è solo la memoria; per quelli solamente la promessa e il pegno; ed hanno amato meglio sostenere ed ingojarsi mille assurdità egualmente empie che ridicole, di quello di sottomettere docilmente la loro ragione alle sacre profondità del mistero. Lo stesso accadde del mistero della Trinità. Vivente Lutero e Calvino, Michele Serveto scrisse sette libri per distruggerlo Distrutto però il mistero della Trinità svanisce anche quello dell’incarnazione, crolla tutto il Cristianesimo, e la Religione di Gesù Cristo si riduce ad un puro deismo. Or siccome il passaggio, tutto di un salto, dalla Religione Cattolica al deismo era una cosa per quei tempi troppo forte, ed avrebbe troppo chiaro fatto conoscere che la riforma del Cristianesimo ne era la vera distruzione; così il buono e zelante Calvino condannò a morte e fece bruciar vivo in Ginevra Serveto. che non aveva altro torto che quello di essersi prevalso con maggiore licenza, contro Calvino e Lutero, dello stesso dritto e dello stesso privilegio della privata ragione, che Lutero e Calvino avevano proclamato in materia di religione, e di cui essi medesimi i primi aveano usato con tanta licenza e audacia contro la Chiesa universale. – Lo stesso, e per la stessa ragione, e nello stesso secolo avvenne, come si è veduto, a Valentino Gentile, che appoggiato allo stesso principio di Lutero e prevalendosi dello stesso dritto, rinnovò in Berna l’eresia di Ario, negando la consustanzialità del Padre e del Figliuolo, e però ancora la Trinità delle persone in unità di natura e la divinità di Gesù Cristo, fondamento di tutto il Cristianesimo. Sebbene questi errori si contengano tutti nel principio protestante, come l’intera pianta si contiene nel suo seme, pure, perché Gentile li volle fare troppo presto dischiudere, dagli stessi eretici bernesi fu fatto decapitare. Ma il rogo e la mannaja non sono buoni argomenti per impedire che i principj una volta adottati producano tutte le loro conseguenze. Perciò come cominciò a declinare la febbre di un ingiusto fanatismo e di un zelo bugiardo e ipocrita, la ragione incominciò la sua guerra contro i misteri. Fu libero ad ognuno di negarli in privato; purché, per rispetto ai pregiudizi popolari, usasse politica in pubblico. Da ciò la scuola razionalista, che in questi ultimi anni si è prodotta in Germania alla luce del giorno, ma che era nata già al tempo della dottrina di Lutero: Che la privata ragione è l’interprete della Scrittura. Questa scuola si studia d’interpretare i Libri Santi in un modo, dice essa, tutto ragionevole. In fondo però, spiegando in un senso figurato o iperbolico i passi della Scrittura, pei quali letteralmente è annunziato un mistero; ed attribuendo i miracoli che vi sono narrati a cause puramente naturali, od alla scienza fisica, o all’impostura di chi li operò, toglie dalla Scrittura tutti i misteri e tutti i prodigi. Fa un poema umano di un’opera tutta divina, e trasforma l’augusto deposito della rivelazione cristiana in codice di un meschino deismo. Deh che la ragione, abbandonata a sé sola, declina sempre le sublimità dei misteri che la umiliano: come il cuore non soffre il giogo delle leggi severe che lo crocifiggono! Perciò nessuna religione di fabbrica umana troviamo che abbia imposto agli uomini misteri incomprensibili e leggi rigorose. Perciò, ritrovando l’eresia questi misteri incomprensibili, queste leggi rigorose nell’unica religione di origine divina, nella Cattolica Religione, quando le è stato permesso, ha fatto e farà sempre tutti gli sforzi per distruggerli e dispensare, il più che si è possibile, la mente dal sottomettersi, il cuore dal mortificarsi; ed a questa licenza accordata alla sensualità e all’orgoglio, deve principalmente l’eresia la sua forza e i suoi successi. – Questa maniera di considerare il Cristianesimo, che la scuola razionalista professa ne’ suoi libri e nelle sue lezioni è pur quella che i protestanti, coerenti ai loro principj, hanno nel cuore. E, tolto il popolo, presso il quale tre secoli di eresia non hanno potuto smantellare e disperdere del tutto le verità cristiane che l’insegnamento cattolico vi avea lasciate: tolti quei savj, di cui il numero diviene ogni giorno più grande e più imponente, che, conoscendo la vanità ridicola unita all’empietà infernale della riforma, ne deplorano l’avvenimento e riguardano con occhio di tenerezza la sede romana, centro e sostegno della verità; del rimanente la maggior parte dei protestanti istruiti e dei preti anglicani non sono nulla più che framassoni, materialisti. pagani che nulla credono e non isperano nulla nell’altra vita. Per tali almeno li ha ultimamente denunziati al mondo uno dei loro stessi confratelli, che ha obbligo di conoscerli; confermandoci sempre più l’osservazione di Tertulliano, che fra gli eretici vi sono più deisti che Cristiani: Si hæretici sunt, christiani non sunt.

§ XIV. – Si assegna l’ultima causa della mancanza di una fede CERTA presso gli eretici: cioè la discordia delle opinioni e delle credenze. Impossibilità di unire gli uomini in una stessa sentenza quando manca un’autorità comune. Tentativo vano e ridicolo di un proconsolo romano per metter fra loro d’accordo i filosofi, rinnovato in questo secolo per metter fra loro d’accordo i protestanti.

Ma non si tratta qui di certezza puramente scientifica, di fede puramente umana. Piacesse al cielo che l’eretico che ragiona potesse almeno levare sino a questa altezza la certezza della sua fede intorno alle verità cristiane! Ma nemmeno può lusingarsi di giungere a questo meschino risultato, onde pur crederebbe alcuna cosa da uomo, non credendola da cristiano. Imperciocché, coll’interno soccorso della grazia della fede, gli manca ancora il soccorso esterno proveniente dalla concordia, dall’uniformità delle credenze degli altri colla sua. La società è la concordia degli esseri intelligenti uniti fra loro per mezzo dell’obbedienza alla stesso autorità. L’obbedienza alla stessa autorità fa che gl’individui che vi sono soggetti professino le stesse credenze sociali, adempiano le stessi leggi; e così induce fra loro somiglianza di relazioni onde si accordan fra loro. Dove dunque non vi è autorità, non vi è obbedienza; non vi è professione delle stesse dottrine, né soggezione alle stessi leggi; non vi è perciò concordia tra gl’individui, non vi è società. La chiave, ovvero la pietra situata alla sommità dell’arco di un edificio, mentre pare che opprima col suo peso le altre pietre che vi sono sottoposte, è pur quella cui queste pietre si appoggiano e per cui esse stan ferme al loro posto, sono in armonia fra loro e costituiscono l’arco. Togliete la chiave, e l’ordine architettonico scomparisce, l’arco crolla, e più non si vedono che ruine. Così l’autorità, mentre pare che pesi sopra gl’individui che le sono soggetti, é pur quella cui questi individui devono la loro sicurezza: ed essa è che li tiene in relazione, in armonia fra loro, sicché formino società. Distruggete l’autorità: ogni ordine sociale si dilegua, la società si discioglie, e più non si trovano che individui fra loro discordi. Onesta dottrina è applicabile egualmente all’ordine politico ed all’ordine morale e religioso. Come non vi è unità né società politica senza una politica autorità, così senza una autorità morale e religiosa non vi è unità o società né religiosa, né morale. Perciò siccome gli antichi filosofi non riconoscevano alcuna autorità intellettuale cui sottoporre i loro giudizj e le loro opinioni, così non vi fu mai fra loro unità od uniformità di opinioni e di giudizj comuni, ma solo opinioni e giudizj privati, fra loro contrarj e discordi. – Da prima, poiché nell’uomo privato si riconobbero tre mezzi di conoscere la ragione, il senso intimo e i sensi esterni; così la dottrina dell’individualismo o del privato giudizio o della opinione privata, che la filosofia pagana stabilì come criterio unico della verità e fondamento delia certezza, produsse tre sistemi; il primo, che stabiliva la sola ragione; il secondo, che dava il solo intimo senso; il terzo, che i soli sensi esterni di ognuno costituiva come l’ultimo giudice del vero. E quindi le tre grandi scuole o sette: la setta spiritualista o italica di Pitagora, e rinnovata quindi da Platone; la setta entusiasta o elealica di Senofane e di Parmenide, restaurata poi dai cirenaici; e la setta materialista o ionica di Talete, riformata a suo modo da Epicuro. Ma che? ben presto quanti furon membri di queste diverse sette, viventi ancora i loro rispettivi maestri, si costituirono maestri e capi di altrettante sette diverse; che non più felici delle prime, si suddivisero esse ancora in altrettante diverse scuole quanti contavano scolari, che essi pure stabilirono ciascuno scuole novelle. Anzi può dirsi che in breve non vi furono più sette, perché ogni individuo di esse avea un suo particolare sistema. Così sulla sola questione del sommo bene si contarono più di ottanta opinioni diverse, altrettante intorno a Dio, e più di quaranta intorno all’uomo; e sopra ciascuna delle grandi verità, fondamento della religione e dell’ordine, vi erano quante teste tante opinioni diverse: Quod capita, tot sententiæ. Ma questi gladiatori audaci della filosofia, di cui nemmen due soli potevano esser d’accordo sopra una sola cosa, si univano a molti insieme per fare a’ nemici comuni la guerra, che poi, simili agli sparziati, rinnovavano fra loro più ostinata e più cruda fino a distruggersi. Così, nel corso degli ottocento anni che durò questo orribile conflitto delle opinioni private in Grecia e in Roma, nessuna disputa fu mai terminata, nessuna questione decisa, nessuna verità assicurata, nessun errore distrutto. Ma i sistemi nascendo dai sistemi, gli errori dagli errori, in questo vasto pelago di condizioni, di dubbj. d’incertezze, di assurdità, di delirj, di turpitudini, nessuna verità rimase in piedi: e si finì collo scetticismo, ossia colla disperazione di trovare con certezza una sola verità. – Gli eretici moderni, partendo dallo stesso principio, che ogni Cristiano è giudice legittimo delle verità rivelate, sono giunti alle stesse conseguenze, ed hanno offerto al mondo, in materia di religione, lo stesso spettacolo compassionevole, la stessa scandalosa anarchia, che i così detti savj antichi offrirono di sé in filosofia. Il protestantismo, ovvero la negazione della legittima autorità della Chiesa, appena nato sì trasformò, sotto gli occhi stessi di Lutero, in tre grandi sette, generate dai suoi tre primi figliuoli che si ribellarono al padre comune e da lui si divisero per punirlo del delitto onde egli si era ribellato e diviso dal Sommo Pontefice, padre di tutti i fedeli. Queste tre grandi sette religiose che, a somiglianza delle tre grandi sette dell’antica filosofia, inclinarono una più allo spiritualismo (i confessionisti), un’altra all’entusiasmo e al fanatismo (gli anabattisti), e l’ultima al sensualismo (i sacramentari-calvinisti), queste tre grandi sette, dico, non si erano ancora costituite, che si scissero e ne formarono ciascuna cento altre, ognuna delle quali ne produsse altre cento; come si è osservato nel quadro funesto che abbiamo presentato al lettore della genealogia delle sette protestanti (Lett. VI, § 5). Eppure non ne abbiamo indicate che le principali. E chi può, per esempio, numerare le sette diverse che il protestantismo ha prodotto nella sola Inghilterra? Abbiamo sotto gli occhi la storia del signor Gregoire, Delle sette nate ed esistenti solo nello scorso secolo; e quelle dell’Inghilterra, entrano per più centinaja in questo orrendo catalogo. Come il corpo umano, da cui l’anima è partita, si corrompe e genera vermini, che morendo lasciano altri vermini da essi generati e che finiscono col divorarsi il cadavere che li ha prodotti; così le infelici nazioni protestanti, appena si sono staccate dalla Chiesa, ed hanno perciò perduto lo spirito vero di Gesù Cristo che le animava, si sono cominciato a disciogliere in putredine; Mille sette si sono formate nel loro seno; e questi; nel perire ne han lasciate mille altre superstiti, che vi hanno l’una dopo l’altra divorate e distrutte tutte le verità cristiane. Sicché senza l’influenza segreta della Chiesa Cattolica, più non rimarrebbe fra questi popoli sventurati traccia veruna di cristiana verità. – Osserviamo però che siccome nello stato, così nella Chiesa, non ogni autorità, ma la sola autorità legittima, mantiene un legittimo ordine. Ora la sola autorità legittima in materia di religione è un’autorità divinamente stabilita, divinamente assistita, divinamente ispirata. Essa sola può far piegare l’intelletto e comandare l’obbedienza del cuore; ed al contrario una autorità puramente umana, che s’impone arbitra della religione, come ogni autorità usurpatrice e illegittima, riscuote tanta ubbidienza quanta gliene concilia la forza, e, mantenendo un’ombra esteriore di unità religiosa, lascia sussistere nell’interno dei cuori la più grande discordia ed una vera anarchia di religiose opinioni. Così gli antichi filosofi avevano anzi per massima di dover professare in pubblico il cullo degl’idoli imposto dall’autorità politica, mentre se ne beffavano in privato; e, d’accordo nelle apparenze, non ve ne erano poi due soli che sentissero lo stesso intorno alla sostanza della religione. Lo stesso accadde presso i popoli idolatri o maomettani a’ tempi nostri. I buddisti della Cina, i bramini delle Indie, i dervis della Persia, i muftì, gli ulemas de’ Turchi, tutti d’accordo nel praticare le cerimonie esteriori della religione dell’impero, sono però in privato divisi in infinite sette diverse, di cui ognuna intende a suo modo Confucio, il Zend-avesta, il Vedas ed il Corano. Lo stesso interviene infine nei paesi cristiani in cui lo scisma e l’eresia, innestata colla costituzione dello stato, forma la religione pubblica che lo stato alimenta colle sue ricchezze e mantiene colla sua forza. Ma i castighi che l’eresia minaccia ai dissidenti, le ricompense che offre ai docili, se riescono a mantenere una uniformità esterna di eulto, non arrivano a produrre però nell’interno delle coscienze la stessa unità di opinioni. Quindi tra gli uomini di Chiesa, non che tra i laici, non si trovano nemmen due soli che intendano al medesimo modo la dottrina di Fozio in Grecia, quella di Lutero in Germania, quella di Zwinglio in Olanda, quella di Calvino in Ginevra, quella dei trentanove articoli in Inghilterra. In quest’ultimo paese in particolare, in pubblico la stessa dottrina, non si trovano due soli individui che abbiano in fondo la stessa religione e la stessa credenza. Nella famiglia dello stesso vescovo che vive delle pingui rendite dell’anglicanismo, difficilmente si trovano due sinceri anglicani. Il padre alle volte trovasi che è sociniano, la madre quaccheressa, i figli e le figlie chi presbiteriano, chi unitario, chi anabattista. Sicché, indipendentemente dalle infinite sette dei così detti pubblici dissidenti della chiesa stabilita, questa stessa chiesa, simile ad un mare, di cui tanto è più turbato da contrarie correnti il fondo, quanto sembra più in calma la superficie, sotto le apparenze di una unità derisoria, nasconde la più vasta anarchia delle opinioni che ne discoprono l’ignominia, l’impotenza e il nulla. – Varie volte presso gli antichi come presso i moderni, si é tentato di mettere d’accordo le diverse opinioni private, ma sempre invano. Senza un’autorità divina insegnante, è tanto possibile il riunire le menti degli uomini in una stessa credenza, quanto è possibile il tenere ferme e compatte le volubili arene del deserto quando spirano contrarj e impetuosi i venti, ed ergervi sopra un solido edificio. Riferisce Cicerone (De leg., lib. 1) che un certo Lucio Gellio, proconsole romano in Grecia, scandalizzato dal vedere le infinite sette fra loro contrarie che facevano misero strazio della filosofia e della verità, riunì un giorno tutti in un luogo i filosofi della provincia e fece loro una patetica esortazione: « che mettessero una volta un termine allo scandalo delle eterne ed ostinate loro controversie, onde vedevansi consumare la vita intera in vani litigi; che cercassero d’intendersi fra loro e di convenire insieme in qualche cosa: » e promise loro la sua cooperazione ed il suo concorso per quest’opera di riconciliazione e di pace: Memini Gellium, cum proconsul in Greciam venisset, Athenis philosophos qui tum erant, in unum locum convocasse, ipsisque magnopere auctorem finisse ut aliquando, controversiarum aliquem finem facerent; quod si cssent eo animo ut nollent ætatem in litibus convenire posse rem convenire, et simul operum suam illis esse pollicitum. Gellio però, nel pensare, nel parlare cosi, dimostrossi quanto buon proconsole, altrettanto cattivo filosofo; giacché credette cosi facile il riunire le menti in materia di opinioni come spesso è facile una transazione in materia d’interessi, e che sia possibile l’ottenere che la ragione degli uomini nei giudizj liberi si accordi a giudicare e credere al medesimo modo sopra una sola cosa, senza un’autorità che abbia il diritto di comandare alla ragione. Perciò soggiunse Cicerone che il tentativo di quest’uomo dabbene fu reputato un giuoco, e da molti posto meritamente in ridicolo: Joculare illud quidem et a multis sæpe derisum. Lo stesso e per le stesse ragioni è precisamente accaduto in questo nostro secolo, e poco meno che sotto gli occhi nostri presso i protestanti in Germania. Le loro variazioni, che sempre variano, le divisioni loro, che sempre più si dividono e si fanno fra loro la guerra, sono il lato debole, sono uno dei più grandi scandali del protestantismo, che ogni dì più lo scredita, lo perde e conduce ogni dì più in gran numero a picchiare alle porte della Cattolica Chiesa coloro che cercano una dottrina vera e stabile in materia di religione, onde assicurare la salute delle loro anime. Per far cessare adunque questo scandalo, il governo di un grande stato protestante di Germania riunì i sedicenti teologi delle diverse sette che lacerano quella misera contrada, ed esortolli « a comporre le loro discordanti opinioni religiose in una formula o simbolo comune, che fosse ricevuto da tutte le sette e togliesse dagli occhi del mondo lo spettacolo disgustevole di tante divisioni fra protestanti, che ben presto finirebbero…. ma colla morte del protestantismo. » Stolido ed insensato consiglio però, sogno vano e ridicolo! così almeno ne giudicarono anticipatamente gli stessi protestanti e ne fecero un argomento di risa: Joculare illud quidem et a multis sæpe derisum. Ed il fatto venne ben presto a confermare la verità di questo giudizio. L’assemblea ebbe veramente luogo nel 1817, terzo anniversario secolare dell’apostasia di Lutero, epoca scelta ed annunziata con fastosi proclami come quella che doveva riunire in un sol corpo tutte le sette protestanti, che sebbene ribelli alle dottrine di questo eresiarca, non lo riconoscono però meno pel loro legittimo padre e maestro, .Ma con qual prò? Questo strano concilio, in cui non vi erano due soli padri che sentissero allo stesso modo, finì col dichiararsi inconciliabile. Ognuno rimase nelle sue antiche opinioni. Solo si convenne che ognuno perdonasse agli altri le loro stravaganze per avere perdonate le proprie. Perciò, senza essersi punto accordati nella stessa fede intorno all’Eucaristia, si videro luterani e calvinisti accostarsi in uno stesso tempio, ad una stessa mensa, a ricevere la comunione da uno stesso ministro, che non era né calvinista né luterano. E perché il calvinista, negando la presenza reale, non riconosce che una memoria della passione del Signore, ed al contrario il luterano, negando la transustansazione, ammette nella Eucaristia la sostanza del pane insieme con quella del corpo di Gesù Cristo.: così quel bravo ministro, volgendo in derisione ed in commedia l’azione la più santa e la più augusta della religione, nel comunicare un calvinista diceva: « Prendi la memoria del corpo del Signore; » e nell’avvicinarsi poi ad un luterano ripigliava: « E tu prendi colla sostanza del pane la sostanza ancora del corpo del Signore », dichiarando con questo fatto unico, in cui il sacrilegio contrastava singolarmente col ridicolo, che rimanea ognuno libero di opinare come più gli piaceva; e che questa diversità o contradizione di opinioni in materia di domma era una cosa affatto indifferente. – Così in questa grande riunione, in cui si dovea metter fine allo scandalo delle divisioni del protestantismo, non poté nulla essere riunito; le divisioni divennero sempre più visibili e più profonde, e questo conciliabolo altro non fu che una professione pubblica e solenne d’indifferentismo in materia di religione, ed uno scandalo novello e di gran lunga maggiore di quello che, con questa pantomima sacrilega, si pretese distruggere. Deh! che senza l’autorità legittima della Chiesa si può bensì, come testé si è fatto in Germania, riunire diversi stati nello stesso sistema di dogane e farne un sol corpo commerciante; ma non si possono riunire diverse chiese in una fede comune e formarne una sola chiesa! La discordia è sempre il carattere dell’errore; la concordia, l’unità non può trovarsi che nella religione di verità. Queste osservazioni però dan luogo ad altre osservazioni non meno importanti, e che ci è mestieri di esporre nella seconda parte: omettendo perciò la STORIA BIBLICA, alfine di non prolungare oltre misura la presente lettura.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (51) LA VERA E LA FALSA FEDE -VI.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –V.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ X. – A somiglianza pure dei Magi, il cattolico, sostenuto dall’insegnamento della Chiesa, manifesta la certezza della sua fede coll’efficacia delle sue opere, e col resistere agli scandali che lo circondano. Felicità e pace di un figlio della vera Chiesa.

Ma la certezza che si ottiene dall’insegnamento cattolico, ancora meglio che da una fede nel suo linguaggio vivissima, si rende fra i Cattolici manifesta da una fede, come quella dei Magi, efficace o generosa nelle sue opere. E che cosa difatti, se non la certezza che abbiamo della verità dei misteri della fede, della forza delle sue grazie, dell’ampiezza delle sue ricompense, persuade tra noi quel disprezzo dei beni temporali e della vita presente, quelle virtù eroiche, quei sacrifici sublimi, quei prodigi di santità che fuori della Chiesa Cattolica si cercherebbero invano, e che l’idolatria, il maomettano, l’eretico nei momenti di un qualche lucido intervallo della loro ragione c’invidiano ed ammirano, senza poterli intendere, molto meno imitare? E una grande e profonda parola quella in cui la sacra Scrittura fa dire a Dio: IL MIO GIUSTO VIVE DI FEDE: Justus autem meus ex fide vivi! (Hebr. X). Imperciocché è appunto la certezza che la fede inspira, unita ai soccorsi soprannaturali che ottiene, che fa vivere sulla terra ad uomini ricoperti di una carne inferma e corrotta una vita angelica, celeste e divina. Essa è che doma le passioni più rivoltose, che contiene i trasporti più violenti, che sana le piaghe più inveterate e più profonde dell’umanità, e persuade la penitenza alla mollezza, l’annegazione all’amor proprio, la carità all’avarizia, la clemenza all’odio, l’umiltà all’orgoglio. Essa è che persuade al sacerdote, al religioso, alla verginella di soggiogare la più violenta delle inclinazioni della natura corrotta, ed immolarsi col sacrifizio continuo della castità più severa, alla gloria di Dio, al bene delle anime, al desiderio di una vita più perfetta in terra e più gloriosa nel cielo. Essa è che spinge il missionario cattolico ad abbandonare patria, parenti, amici, agi, onori, ricchezze; ed a traverso oceani tempestosi ed orridi deserti penetrare nelle contrade più barbare e più crudeli, in cerca di mostri a forme umane, per farli prima uomini e quindi Cristiani, senza altra speranza che quella di coronare una vita di apostolo, una vita di stenti, di privazioni, di croci, di sacrificj di ogni specie, colla morte di un martire. Essa è che anima tante illustri verginelle a fare un sacrificio della loro gioventù, delle loro comodità, della loro bellezza, per dedicarsi all’istruzione delle figlie del povero; ad apprestare nelle prigioni, negli ospedali, nei campi di battaglia, all’umanità inferma, colle lezioni della fede, tutti i soccorsi della carità. Essa è che ispira tante virtù modeste, ma grandi; ignote al mondo, ma note a Dio; virtù che nei paesi cattolici santificano l’interno delle famiglie e vi mantengono colla fede la santità, e coll’ordine la concordia, la pace e la felicità. Essa è infine che incoraggia tanta gente di ogni età, sesso e condizione, a non temere né i sarcasmi degli empj, né il disdegno dei mondani, né la persecuzione dei parenti, né la perdita dei beni, né i pericoli della vita per conservare la fede, per non violare il pudore, per pròfessar la pietà. In somma è questa fede certa che rifonde tutto l’uomo e lo trasforma; fortifica l’anima e la solleva sopra sé stessa e le ispira nobili idee, sublimi sentimenti, sacrificj generosi ed eroici; e riproduce in ogni tempo, in ogni luogo, all’ammirazione del cielo e della terra, lo spettacolo unico e proprio solo della Chiesa Cattolica, lo spettacolo grandioso e stupendo di tanti uomini che, circondati dalla seduzione o dall’ingiustizia di tutte le passioni, son giusti ed in mezzo a tanti esempi di una vita voluttuosa e da bruto, novelli Lot, menano una vita che imita la purezza degli Angioli e manifesta la santità di Dio: Justus autem meus ex fide vìvit. – Che più? simile a quella dei Magi, la certezza che viene dall’insegnamento cattolico si produce ancora per mezzo di una fede costante in faccia ai più grandi scandali capaci di scuoterla e di abbatterla. Vede l’anima veramente cristiana la sua fede combattuta da tanti miscredenti, sfigurata da tanti eretici, disonorata da tanti delitti, oppressa da tanti tiranni. Vede i confidenti non meno che i nemici, i figliuoli stessi non meno che gli estranei, i protettori non meno che i persecutori, con una infernale energia lavorare, dove di nascosto, dove in palese, a metterla in discredito ai dotti, in diffidenza ai governi, in odio al popolo; e disputarsi l’empio vanto di darle l’ultimo crollo o co’ tenebrosi maneggi della loro politica, o col veleno delle loro dottrine, o coll’obbrobrio dei loro costumi. Tutto ciò essa vede, e come si gloria in Dio delle nuove conquiste e della gloria della fede, così geme in silenzio innanzi a Dio e versa lagrime di dolore sulle sue perdite e sui suoi obbrobrj. Ma, al pari degli obbrobri di Gesù Cristo suo capo, che, rivelati a Mosè, come dice S. Paolo, servirono a corroborar la sua fede, invece d’indebolirla, gli obbrobrj e le sconfitte della fede, rattristano ma non iscandalizzano e non fan vacillare la fermezza della credenza dell’anima veramente cattolica. Questa fede, oscurata, annerita dai vapori dell’errore e delle passioni, come la sposa dei Cantici, non le sembra men bella: Nigra sum sed formosa; e quanto la vede più combattuta, tanto le sembra più solida e più verace. Sa essa l’anima fedele, e lo sa di certo che quello che crede è vero al di sopra di tutto ciò che è vero. Come dunque un nuovo vangelo annunziatole dai demonj convertiti in angioli di luce non basterebbe a sedurla, così non bastano a scuoterla, ad intimorirla tutti gli scandali presentatili da uomini convertiti in demonj. Questi scandali, al contrario, facendole sempre meglio conoscere la miseria di chi mal crede e peggio opera ed il vanto di ben credere e di operar bene, le rendono sempre più cara la stessa fede e ve la confermano. Non importa che lo scandalo le venga dalla parte da cui dovrebbe venire l’edificazione e il sostegno: la sua fede rimane costante a fronte delle apostasie degli stessi Cattolici, come quella dei Magi a fronte del disprezzo che mostrarono per Gesù Cristo i suoi stessi Giudei. – Al principio della rivoluzione francese, un ufficiale in Lione essendosi presentato ad un parroco per confessarsi, questo miserabile, che aveva fatto naufragio nella fede, guardando l’ufficiale dall’alto in basso con una sardonica meraviglia, se ne fece beffe, dicendo di non comprendere come mai un graduato e colto militare potesse essere sì pregiudicato e sì cieco da credere ancora alla confessione. « Tutto ciò, ripigliò l’ufficiale, nulla da un tanto scandalo scosso nella sua fede, tutto ciò, signore, non vi riguarda. Ditemi, siete voi sacerdote? avete dal vostro legittimo Vescovo la necessaria facoltà d’assolvere? » E rispondendo il parroco: « Sicuramente, » « Or bene, soggiunse l’ufficiale, compiacetevi di ascoltare la mia confessione e promettetemi da uomo d’onore di assolvermi, se me ne credete capace, coll’intenzione di fare ciò che fanno i ministri della vera Chiesa, e non v’imbarazzate del resto. Se voi lo avete dimenticato, io però ho la sorte di ricordarmi ancora, e so quello che vale l’assoluzione di un legittimo sacerdote, fornito della legittima potestà, qualunque sia per altro la sua opinione e la sua condotta: » Promise il parroco di fare, e fece quanto e come l’ufficiale desiderava. E questi, confessatosi coi sensi della più grande pietà, ritirossi lasciando il parroco non saprebbe dirsi se più confuso della propria miscredenza, o meravigliato di trovare in questo novello centurione una fede sì solida e sì sublime. – Questo bell’esempio di fede, che ci è stato raccontato da un degnissimo ecclesiastico francese il quale lo avea saputo dallo stesso militare, questo esempio, dico, nei tempi di libertinaggio, di apostasia e di errore, ad ogni istante si rinnova. – Ma le anime veramente cattoliche, che in tali tempi, come ha detto S. Paolo, meglio si manifestano, sanno che la vera fede è soggetta a quando a quando a simili vicende per parte dell’errore e delle passioni: ma sanno ancora che, simili al sole che non abbandona un emisfero se non per il luminare un altro, e non tramonta la sera se non per tornare a spuntare il dì appresso, la stella miracolosa della fede, vera luce del mondo, non perde una porzione del suo splendore visibile e della sua esterna testimonianza in certi tempi ed in certi luoghi, se non per tornare in altro tempo e in altro luogo a brillare di un nuovo lustro e riscuotere omaggi novelli, e che, dopo essersi nascosta per qualche tempo da profuga, tornerà a mostrarsi per regnare da regina. Perciò né i libertini che la discreditano, né gl’indifferenti che non la curano, né i rei costumi che la disonorano, né gli antichi fratelli che cadono, né gli stessi ecclesiastici che prevaricano, scuotono punto i veri Cattolici nella loro fede. Deplorano siffatti scandali, ma non li imitano; compiangono tanta cecità, e, lungi dal divenir ciechi essi pure, imparano a vederci anche meglio; studiandosi di mantenere la purezza della lor fede colla purezza della lor anima; per non essere ancor essi strascinati dalla licenza del vivere alla turpe e vergognosa necessità di non credere. Non solo però questi tempi di pubblici scandali, ma i giorni ancora di prova, di tentazioni e di combattimenti privati ai quali Iddio sottopone alle volte le anime di tempra forte e robusta, e dei quali si è poc’anzi fatta parola, questi giorni altresì non duran sempre: passano essi più o meno rapidamente, per dar luogo ai giorni più sereni e più lieti, ai giorni di ricompensa e di conforto, che la divina bontà concede ancora in questa vita alle anime elette, dopo che la tentazione, coll’averne purificata la virtù e provata la fedeltà, le ha fatte trovare degne di Dio. – La stella dei Magi; dopo essersi occultata per provare la fermezza della lor fede ed accrescerla, tornò a brillare più splendida ai loro occhi; così la luce divina, dopo di essersi per qualche tempo ecclissata per provare pure ad accrescere la fede delle anime veramente cristiane, ricomparisce nella lor mente più brillante e più chiara. I venti delle tentazioni cessando di agitare questa preziosa fiammella, essa getta un lume immobile, costante e sicuro. E poiché nelle cose di Dio la mente tanto vede di più quanto il cuore è più puro, avendo detto il Signore: Beati mundo corde quoniam ipsi Deum videbunt (Matth. V.); così dopo che il cuore, per la prova sofferta, è stato purificato da quelle resine carnali da cui si sollevano i vapori delle passioni, la mente, divenuta più sgombra e più chiara, ci vede meglio di prima. E chi può mai intendere, non che spiegare o descrivere con parole lo stato di pace, di quiete, di secreta gioja in cui entrata l’anima, si abbandona a vagheggiare le bellezze della vera fede? Videntes stellam gavisi sunt gaudio magno valde. Anche questo è un gran prodigio, è un gran mistero di fede, che moltissimi fra gli stessi Cattolici intendono poco, e gli eretici e i miscredenti non lo intendono affatto come gli uomini carnali, perduti nelle delizie dei sensi ed intenti a soddisfare il ventre che si hanno eretto in divinità, Quorum Deus venter est (Philip. III), non intendono come mai possa esser felice un cuore che assoggetta tutte le sue inclinazioni all’abnegazione evangelica; così gli eretici e i miscredenti, tutti occupati a ragionare e discutere, e che si sono fatti un idolo della loro ragione, non comprendono, nè possono comprendere come esser possa tranquilla e felice una mente che ha rinunziato ai propri lumi, al proprio giudizio per cattivarlo in ossequio della vera Fede. Ma che questo doppio mistero della grazia e della fede s’intenda, o non s’intenda, ciò nulla importa; il fatto sta che, tra i veri Cattolici, è certo e visibile. Poiché è certo e visibile presso di loro che siccome le anime veramente pure, lungi dall’essere infelici perché si privano degli sfoghi dei sensi, questi sfoghi anzi lor fanno orrore, e il sacrificio stesso della loro carne le consola, e l’incanto della purezza le rapisce e forma parte della loro interna felicità, così le anime veramente fedeli, lungi dal soffrire perché s’interdicono ogni raziocinio, ogni indagine in opposizione alla fede, ogni delirio della ragione, questo stesso sacrifizio della loro mente e del loro giudizio le appaga, le trasporta, e, facendole tranquille, le rende felici. – Imperciocché la felicità della mente consiste nell’ordine e nel riposo dei pensieri, come nell’ordine e nel riposo degli affetti consiste quella del cuore; ed opera della grazia divina si è l’ordinare la credenza, come sua opera è l’ordinare la carità: Ordinavit in me charitatem (Cantic. II) . Perciò la stessa grazia che rende facili i precetti di Dio, ne rende credibili i dommi; la stessa grazia che rende leggiero il peso della legge rende ancora soave e delizioso il giogo della fede. Ora siccome questa grazia ordinatrice non si dispensa che nella Chiesa, così solo nella Chiesa può trovarsi questo doppio ordine, questo doppio riposo, questa doppia felicità. – Solo del popolo della vera Chiesa si adempie la gran profezia: « Il mio popolo si assiderà nelle bellezze della pace, nei tabernacoli della fiducia, in seno ad un ricco ed abbondante riposo: Sedebit populus meus in pulchritudine pacis, in tabernaculis fiduciæ, in requie opulenta (Isa. XXXII). – Mirate quel tenero bambinello che ha preso sonno nelle braccia materne. Oh come è placido il suo respiro, perché  nulla teme il suo cuore! con quale abbandono di sé, con quale fiducia, con quale tranquillità e pace prolunga il suo riposo! oh come è bella la condizione dell’innocenza che dorme in seno all’amore! Or questa non è che un’immagine assai debole della intera sicurezza dell’anima cattolica nella verità della sua fede; dell’immensa fiducia con cui, intorno a ciò che crede, si abbandona nelle braccia della Chiesa, che a nome di Dio le parla de’ misteri di Dio: e vi si riposa con una pace profonda, con una tranquillità perfetta, sapendo che non può ingannarla, perché è sposa di Gesù Cristo, e non vuole ingannarla, perché è madre dei Cristiani; sicché il Cattolico solo può ripetere col Profeta: In pace in idipsam dormiam et requiescam, quoniam tu, Domine, singulariter in spe constituisti me (Psal. IV). – La vera Religione, a ben riflettervi, non è in fondo che amore. La fede è l’amore che docile ascolta, la speranza è l’amore che attende, la contrizione è l’amor che si duole, la preghiera è l’amor che desidera, la pratica del bene è l’amor che s’immola, la pietà e la divozione è l’amore che si trattiene con famigliarità e con confidenza coll’oggetto amato che è Dio, e tutto il culto cattolico non è che l’espressione dell’amore di Dio verso dell’uomo diretta ad eccitare, a mantenere, a cattivare l’amore dell’uomo verso Dio. Perciò il principale effetto della grazia della fede è d’infondere nell’anima una forza segreta, onde la volontà vuole ed ama di credere quello che crede; e domandando all’intelletto il sacrificio di acconsentire a ciò che esso non intende e supera la sua capacità, l’ottiene; e l’intelletto, sotto il peso di questo amore soprannaturale, si piega e si sottomette ai misteri rivelati con maggior fermezza di quello che se li avesse veduti. Perciò S. Paolo non solo il sentimento che ci solleva ad amare Iddio come sommo bene, ma quello pure che ci fa credere e sperare in Lui come somma verità, attribuisce alla secreta operazione dello Spirito Santo mediante la carità divina che, venendo egli in noi pel Battesimo, ha diffusa nei nostri cuori: Habemus accessum per fidem in gratiam istam, et gloriamur in spe gloriæ filiorum Dei..,. Spes autem non confundit: quia charitas Dei diffusa est in cordibus vestris per Spiritum Sanctum qui datus est nobis (Rom. V.). La vera fede adunque è più nel cuore che nell’intelletto; oppure è nell’intelletto insieme e nel cuore: nell’intelletto per farlo credere amando, nel cuore per farlo amare credendo; e se il principio ne è la grazia, la forma e l’alimento ne è l’amore. Una fede siffatta salvò Maddalena: giacché lo stesso dolcissimo Gesù, che la assicurò della sua salute pel merito della sua fede, Fides tua te salvum fecit (Luc. VIII), dichiarò altamente che questa fede sì grande di Maddalena avea preso da un grande e tenerissimo amore la sua forza, il suo abbellimento o la sua perfezione: Dilexit multum (ibid.). Ora dall’amore nasce la fiducia, dalla fiducia il riposo nell’oggetto amato. Egli è adunque perciò ancora che il Cattolico, in cui la fede non è effetto del convincimento di un freddo raziocinio umano, ma del sacro fuoco dell’amore divino, va incontro con vero trasporto alla parola di Dio, all’insegnamento divino manifestatogli per mezzo della Chiesa; lo riceve con una immensa fiducia e vi si adagia e vi si riposa coll’intelletto e colla volontà, colla mente e col cuore, come in un tabernacolo di sicurezza e di pace: Sedebit in tabernaculis fiducia, in pulchritudine pacis. Oh condizione felice! oh sorte avventurosa della coscienza cattolica! Ma per sempre meglio intenderne i vantaggi e il pregio, procuriamo di confrontarla colla condizione infelice, colla sorte deplorabile delle coscienze di coloro che sono fuori della vera Chiesa; giacché, come le tenebre fan meglio risaltare il pregio della luce, così le miserie dell’errore fan meglio apprezzare il vanto di conoscere e di professare la verità.

§ XI. – Si entra a dimostrare che, fuori della Chiesa cattolica, non vi è CERTEZZA alcuna di fede. Da prima perché manca un’autorità divina. L’autorità politica, che fuori della Chiesa dispone della religione, non è altrimenti divina nel decretare i simboli di fede, ma umana o diabolica. Contradizione e castigo degli eretici, obbligati a far dipendere la loro fede dall’autorità secolare, essi che non vogliono riconoscere  l’autorità della Chiesa. Assurdità che vi sarebbe a riconoscere divina l’autorità degli eresiarchi; i loro stessi discepoli l’hanno ripudiata. La stessa Scrittura cessa di essere un’autorità divina pel Cristiano che crede di doverla interpretare a suo modo. – Il vero eretico non riconosce alcuna autorità divina, ma mette la propria ragione al di sopra di Dio stesso. Questo orribile peccato lo ha comune con Lucifero.

Abbiamo veduto che la certezza onde noi Cattolici siamo perfettamente tranquilli e sicuri nella nostra fede sopra tre motivi principalmente si fonda: . sull’autorità divina, interprete infallibile della divina parola; 2.° sull’interno ajuto della grazia della fede; . sull’esterna testimonianza dell’unità delle cattoliche credenze. Ora, poiché nessuno di questi tre motivi si trova nel sistema dell’insegnamento dell’eresia, egli è chiarissimo che l’eretico, veramente tale, non è e non può mai esser certo di quello che crede, e che fuori della cattolica Chiesa non vi è, né può esservi, in materia di religione, né vera certezza, né vera fede. – Non vi è da prima presso gli eretici un’autorità divina, interprete infallibile della divina parola. Accade nell’ordine religioso ciò che accade nell’ordine politico; giacché le stesse ne sono le leggi fondamentali, come lo stesso Dio ne è l’autore. Come la mancanza dell’autorità politica produce l’anarchia dei poteri nello stato, così la mancanza dell’autorità religiosa produce in religione la confusione delle credenze. E come l’anarchia dei poteri distrugge lo stato, così la confusione delle credenze alla lunga finisce col distruggere ogni religione. Come dunque la forza o il dispotismo politico può solamente mantenere un’apparenza di ordine in un popolo caduto nell’anarchia dei poteri, così la sola forza o il dispotismo religioso può, presso di un popolo caduto nella confusione delle credenze, mantenere un’apparenza di religione: Perciò non solo nei paesi maomettani e idolatri, ma ancora ne’ paesi cristiani, ma scismatici o eretici, è la podestà secolare, è la forza, è la spada che domina la religione. – Vi sono, è vero, vescovi ed arcivescovi nella chiesa anglicana, come vi è il santo sinodo nella così detta chiesa ortodossa. Ma quelli riconoscon per pontefice il re, o la regina col suo parlamento, questo l’imperatrice o l’imperatore col suo senato. Le stesse confessioni, gli stessi simboli legali, nei quali l’eresia e lo scisma han ridotto a certe formule l’errore, sebben foggiati da uomini di chiesa, è sempre l’autorità secolare che gli impone a tutti come leggi, che ne reclama l’esecuzione, e che al bisogno gli interpreta a seconda del suo interesse o del suo capriccio. Che anzi negli stessi stati, come la Prussia, l’Olanda, la Svizzera, in cui la supremazia religiosa della podestà politica non è un domma di religione, e perciò non é un diritto, è però ammessa ed esercitata di fatto; poiché infatti è il potere politico che decide nelle materie religiose, come nelle civili: che ordina le preghiere e i digiuni, come le imposte; che dispensa dai precetti del Vangelo, come dalle prescrizioni del codice civile; che regola le coscienze come le dogane, e dirige il culto come la polizia. – Qui due riflessioni si presentano naturalmente alla mente: la prima si è, la contradizione manifesta in cui l’eresia si trova con sé medesima. Poiché qual maggiore contraddizione di questa di rigettare l’autorità della Chiesa universale ed ammettere e sottoporsi all’autorità politica di un governo particolare in materia di religione? e di dire che l’autorità della Chiesa non è necessaria, mentre che l’eresia stessa altro mezzo non trova di perpetuare i suoi scismi e i suoi errori che quello d’insegnarli e d’imporli, coll’autorità sostenuta dalla forza? Qual contradizione più rivoltante di questa, di sostenere che Roma, che la Chiesa universale, riunita, per esempio, in Trento (in cui i più grandi talenti uniti a tutte le virtù fecero di quel Concilio l’assemblea la più santa, la più dotta, la più augusta, la più memorabile di quante mai ne abbia vedute la terra), non ha capito il Cristianesimo e vi si è ingannata: e che hanno ben capito e ci hanno solamente indovinato Costantinopoli, Pietroburgo, Vittemberga, Augusta, Londra, Ginevra ed i conciliaboli ivi raccoltisi sotto la protezione del soldato o del carnefice, e composti di frati apostati, di ecclesiastici incestuosi, d’ingiusti usurpatori, di fanatici sanguinarj, di artigiani falliti, di soldati rivoltosi, di femmine invereconde; in cui tutte le follie unite a tutte le turpitudini, e tutte le assurdità innestate a tutti i vizj, ne fecero le orge le più comiche insieme e le più scandalose di quante ne rammenti la storia delle umane ingiustizie e delle umane stravaganze? La seconda riflessione si è, che il castigo di Dio è visibile sopra questi popoli e sopra queste chiese ereticali o scismatiche, ribelli alla vera Chiesa. L’orgoglio che ha ricusato di sottomettersi al Vescovo dei Vescovi si vede ivi curvato innanzi ad un militare fortunato o alla sovranità religiosa in gonnella, e palparne le passioni e adorarne i capricci e subire dalla loro bocca profana la regola del credere e dell’operare, che ha sdegnato di ricever dalla bocca del Vicario di Gesù Cristo. Non han voluto sapere queste chiese degradate di esser guidate dal pastorale, e sono cadute sotto il regime dello scettro e della spada. La seta della romana tiara è sembrata lor troppo grave, e sono obbligati a gemere sotto il peso di una Corona di ferro. Rigettarono le bolle del Vaticano, ed invece devon piegare la fronte innanzi ai decreti di gabinetto, e ricevere dai parlamenti, invece dei concilj, dai tribunali laicali, invece delle sacre congregazioni, ed invece del concistoro romano, dal consiglio di stato la soluzione dei casi di coscienza e l’interpretazione del Vangelo. Sicché come la fede del Cattolico si riduce in fondo a questo semplice articolo, che comprende tutte le verità: « Io credo tutto ciò che crede la Chiesa; » così la fede del Cristiano, nei paesi in cui lo scisma e l’eresia è la religion dello stato, si riduce a quest’articolo, che comprende tutti gli errori, non escluso l’ateismo: « Io credo a ciò che ordina di credere il re, o l’imperatore. » – Di più, una delle prove più luminose, come si è di già veduto, che l’autorità pontificia insegnante è manifestamente divina si è che gli uomini d’ingegno, d’indole, di nazioni diverse, che per circa duemila anni l’hanno esercitata, appena si sono messi a sedere sulla cattedra di verità, dimenticando tutte le loro idee e le loro passioni, han parlato tutti lo stesso linguaggio. Poiché, senza un’assistenza divina sempre la stessa, era impossibile in tanta diversità di tempi, d’interessi, di opinioni, un accordo si costante, si uniforme, sì contrario alle condizioni dell’umanità e però ancora sì prodigioso. Ma immaginate che i sommi pontefici avessero insegnato il contrario gli uni dagli altri in materia di fede: non potendosi allora decidere chi di loro avesse insegnato il vero e chi il falso, non si potrebbe con sicurezza credere a nessuno. Or con molto più di ragione non si può credere ad alcuna delle autorità civili che si hanno usurpato il diritto di spiegare il Vangelo, e che si vedono interpretare questo Vangelo unico in mille maniere differenti e contrarie; giacché il Cristianesimo di Londra non è quello di Pietroburgo, il Cristianesimo di Berlino è condannato di eresia all’Aja, e quello di Ginevra in Atene è tacciato di empietà … Ma siccome sotto un Dio unico non vi è, né vi può essere che una stessa e medesima fede; una stessa e medesima legge, uno stesso e medesimo modo d’intenderla e di praticarla; e lo stesso Dio non può ispirare interpretazioni sì differenti e sì contrarie della sua stessa parola divina, uniforme ed immutabile: così è chiarissimo che queste autorità civili, che si hanno arrogato la supremazia religiosa, non sono ispirate dal Dio di verità, di pace e di concordia, ma dallo spirito di menzogna, di confusione e di disordine: e che non sono organi divini che insegnano le vie della salute, ma strumenti diabolici che strascinano le anime alla perdizione. – E poi, dopo che si è negato al Sommo Pontefice, capo della Chiesa universale, l’autorità divina di spiegare agli uomini il Vangelo, come è possibile il riconoscere investito di questa stessa autorità divina un fanciullo, od una donnetta, per diritto di nascita o per intrigo di rivoluzione, saliti al trono, o un ribaldo o uno straniero che vi si é fatta strada con una guerra ingiusta, o con una usurpazione felice? Il buon senso più volgare non ripugna di ammettere sì enorme stravaganza? – Credo perciò che quelli stessi cui la ribellione alla Chiesa ha conferito un diritto sì esorbitante e sì assurdo sulla religione dei loro popoli non prendano già in serio questa loro dignità; o che, come degli antichi auguri ci narra Cicerone, che incontrandosi tra via non potevano contenersi dal ridere e volgere essi stessi in burla l’assurdità del loro ministero, così questi pontefici di fabbrica umana non possono non farsi beffe del loro ridicolo pontificato. Checché sia però di loro è certissimo che chi ha fior di senno in capo fra i loro sudditi non crede che essi abbiano autorità in materia di fede, più di quella che un semplice privato ne ha in materia politica, e che l’ima autorità è tanto poco divina quanto l’altra è poco sovrana. Perciò gl’Inglesi protestanti, come vari di loro più sinceri ce lo han confessato, non riconoscono nel loro re-pontefice che la sola esterna rappresentanza della supremazia religiosa, cioè un’autorità puramente politica per mantenere l’esterna unità di una politica religione, qual è la chiesa anglicana, non mai però una vera autorità religiosa, molto meno divina, che abbia diritto di comandare la fede e legar le coscienze. Ciò che, in altri termini, significa che il re d’Inghilterra colla sua prerogativa di capo della religione anglicana e con tutti gli omaggi che a tal titolo riceve, non è più pontefice di quello che sia re un re da teatro; salvo la differenza che un re da teatro fa ridere, e questi pontefici di politica creazione, a cominciar da Nerone che fu pontefice a questo modo, han fatto più di una volta scorrere piogge di lagrime e torrenti di sangue. – Né minor violenza bisognerebbe fare all’intimo senso per riconoscere come inviati di Dio, ripieni del suo spirito e rivestiti di un’autorità divina gli eresiarchi, dalla cui viltà sacrilega i principi secolari han ricevuta la loro religiosa autorità. E mai credibile che Iddio, per illuminar la sua Chiesa e rimetterla sulla strada della verità, da cui gli eretici pretendono che si sia allontanata, tralasciate quelle anime sublimi ed eroiche che in tutti i tempi e precisamente nel secolo XVI suscitò nel Cristianesimo, un S. Gaetano Tiene, un S. Girolamo Emiliani, un S. Ignazio Lojola, un S. Filippo Neri, un S. Carlo Borromeo, un S. Francesco Saverio, un S. Camillo di Lellis, un S. Francesco Carracciolo, un S. Francesco di Sales, un S. Giuseppe Calasanzio, un S. Francesco Borgia, un S. Andrea Avellino, un S. Felice da Cantalice, un S. Pio V, un S. Pietro d’Alcantara, un S. Giovanni della Croce, un Sisto V, un Luigi da Granata, un Bartolomeo de’ Martiri, un Roberto Bellarmino, un Cesare Baronio, un Tomaso Moro, un Pietro Canisio e mille altri santi o venerabili uomini, di un zelo sì disinteressato, di una vita sì pura, di una carità sì eroica, di un ingegno sì vasto, e degnissimi perciò di ricevere in abbondanza lo spirito di Dio e di servire ai disegni della sua misericordia; che, tralasciati, dico, costoro, abbia voluto comunicarsi ad un Fozio l’ipocrita, ad un Giovanni Uss l’indiavolato, ad un Lutero l’incestuoso, ad un Calvino il sodomita, ad un Rotmano il crudele, ad un Arrigo VIII il poligamo, e ad altri uomini di simil tempra, autori di tutti gli scandali, rei di tutti i delitti, ed abbia voluto costituirli apostoli della verità, luce del mondo? In verità che la cosa è troppo assurti per potersi credere, troppo ridicola per potersi affermare. – E poi, se essi stessi questi eresiarchi si sono l’un l’altro scomunicati, anatematizzati, maledetti come apostoli di errore e corruttori della verità, e sì sono a vicenda regalati i titoli di asini, di porci, di diavoli in carne; come si farebbe a decidere chi fra loro ha avuto ragione e chi torto nel parlare cosi, chi è stato da Dio ispirato e chi dal demonio? non avendo potuto a tutti lo stesso Dio ispirare dottrine sì contradittorie da meritar l’una l’anatema dell’altra. Non è dunque più ragionevole e giusto il credere che. Eccettuata la sentenza onde si sono a vicenda condannati siccome eretici, poiché si sono in ciò renduti giustizia e si sono dati il nome che loro spetta, in tutto il resto l’inferno e non il cielo li ha ispirati? – Perciò i loro discendenti si vergognarono ben presto di tali antenati, e per fare obbliare al mondo di avere essi avuto questi mostri per loro guide e maestri, lasciati i nomi delle persone che ricordavano tanti delitti e tante infamie, chiesero alle cose il titolo onde distinguersi, e non si chiamarono più luterani, calvinisti, zwingliani, ma riformati, confessionisti, evangelici, protestanti, ortodossi. E con ciò han dato a conoscere al mondo che nemmeno essi stessi gli eretici riconoscono nei loro turpi patriarchi ombra di spirito di Dio, di missione divina, di divina autorità. – Ma la sacra Scrittura non contiene la parola di Dio? Credendo adunque, come gli eretici dicono credere alla Scrittura, non vengono essi a credere alla parola di Dio e sulla sua autorità? Sì, se col credere alla divina Scrittura credessero essi o potessero credere ad una autorità pure divina che infallibilmente la interpreti. Ma dove trovarla questa autorità fuori di quella della Chiesa Cattolica, che hanno rigettata? La logica dell’errore è così forte come quella della verità. Dopo che si è detto che la Chiesa cattolica o universale si è ingannata, non si può, senza contradizione, ammettere come infallibile l’autorità d’una chiesa particolare. Nessuna chiesa particolare adunque che ha fatto scisma dalla Chiesa universale si può essa stessa imporre come autorità divina ed infallibile ai membri che la compongono; ed è obbligata a lasciare ad ognuno la più ampia latitudine d’intendere la Scrittura come gli pare. Il principio protestante adunque: Che, in materia di religione cristiana, quello si deve ritenere per vero che sembrerà vero ad ognuno leggendo la Scrittura, è la conseguenza legittima, inevitabile, necessaria di ogni eresia che nega l’autorità della Chiesa cattolica, ed in questa conseguenza ogni eresia si risolve. Perciò ogni eresia, come la stessa parola Io indica, non è in fondo che opinione particolare e privata. – Gli eretici veramente tali non hanno dunque fede che nell’infallibilità loro personale, non ammettono altra autorità che la propria ragione. Ed egualmente impudenti e ridicoli che orgogliosi ed empj non arrossiscono di sostenere che può errare il Sommo Pontefice, il testimonio sincero della credenza cattolica, il custode del deposito della rivelazione, il dottore universale, principio e centro della cattolica unità; ma che non erra poi mai l’uomo privato, il zerbino, il militare, il bifolco, la donnicciola: che può ingannarsi colui che Gesù Cristo ha rivestito del ministero d insegnare; ma non s’inganna però mai colui che ha solo l’obbligazione di credere; che può traviare e addormentarsi il pastore, che ha l’incarico di guidare e di pascere; ma che cammina sempre dritta e sicura e che è sempre vigilante sopra sé stessa la pecora, che ha un incessante bisogno di essere guidata e pasciuta: che il maestro alle volte non intende bene la divina parola, ma che bene sempre la intende il discepolo; che è fallibile colui cui è stato detto da Gesù Cristo, la tua fede non fallirà giammai (Luc. XXII); ma è infallibile colui cui il Signore ha detto, bada bene che quello che tu credi un lume in te stesso può benissimo non essere altro che tenebre (ibid. 11). Quanto dire che osano di attribuirsi, ognuno in particolare, quella infallibilità che negano al capo dei fedeli, al corpo dei pastori, alla Chiesa universale, e con una stolida confidenza si appoggiano ad una fragile canna, dopo di avere abbandonata la quercia come non abbastanza solida e sicura. – Pertanto se, ammettendo la divinità delle Scritture riconoscessero la divina autorità che ha la Chiesa d’interpretarla, allora la loro fede, come la nostra, andrebbe a risolversi a terminare in Dio. Ma poiché, rigettata l’autorità della Chiesa, hanno adottato il principio di non ammettere per vero, se non ciò che a ciascuno parrà cero leggendo la Bibbia, come gli antichi filosofi han detto: Quello doversi tener per vero che sembra vero ad ognuno studiando la natura; ognuno di loro si è messo nella disposizione di non credere delle verità primitive o evangeliche né più né meno di quello che gli piacerà e come gli piacerà di crederlo, e di rigettar come falso, o disprezzare come indifferente, tutto ciò che nella rivelazione cristiana rimane al di fuori del circolo delle sue concezioni, de’ suoi giudizj, de’ suoi gusti, dei suoi capricci. In questo orribile sistema adunque, come lo ha benissimo avvertito Tertulliano, sebben l’uomo protesti di credere alla parola di Dio depositata nella Scrittura, pure non è la rivelazione divina che serve di regola alla ragione umana, ma la ragione umana che allarga o restringe, accetta o rigetta, e decide sulla rivelazione divina. Non è l’uomo che si assoggetta alla parola di Dio, ma è la parola di Dio che riman sottoposta al giudizio dell’uomo, Unusquisque arbitratu suo modulatur quod accepit (De præser.). L’ultimo motivo della sua credenza non è già Dio che ha parlato alla Chiesa, ma la propria ragione che ha deciso della parola di Dio, ed ove la fede del Cattolico, nella sua analisi, si risolve in quest’ultimo articolo: Io credo a Dio, la fede dell’eretico finisce in quest’altro: lo credo a me stesso. Quanto dire che l’uomo si erige e si forma un Dio di sé stesso. – L’eretico adunque, coerente a’ suoi principj, non solo non fonda la sua credenza sopra alcuna autorità divina, ma la stabilisce sopra il più grande dei delitti di cui l’umana intelligenza può farsi rea innanzi a Dio, sopra l’idolatria di se stesso. – Quest’orrendo delitto della ragione, che si fa un Dio di se stessa, l’eresia lo ha comune colla filosofia pagana. Degli antichi filosofi Cicerone, in persona di Balbo, afferma che, disprezzando sdegnosamente ogni autorità, tutto pretendevan decidere al tribunale della propria ragione, ed altro oracolo non ammettevano che il proprio giudizio: Tu auctoritates omnes contemnis, ratione pugnas … Suo unicuique utendum est judicio (De nat. deor.). E Seneca pure, alunno ed interprete della stessa scuola, il filosofo, dicea, abbandonato ai proprj pensieri, non acconsente, non crede che a se stesso, Philosophus, cognitionibus suis traditus, acquiescit sibi. Lungi adunque dal credere a Dio, non ammettevano Dio se non come ad ognuno sembrava bene di ammetterlo, o piuttosto se lo creava ciascuno a seconda del proprio capriccio, o delle proprie passioni. E siccome il Creatore è al di sopra della creatura, così questi stolidi e sacrileghi creatori di Dio non mancano di preferirsi a Dio stesso e di costituirsi dii dello stesso Dio. Poiché lo stesso Seneca in più luoghi ha bestemmiato « che il filosofo, pel merito della sua sapienza, è a Dio superiore; » benché, in quanto a lui stesso, per eccesso senza dubbio di modestia, contentossi di dirsi a Dio solamente eguale: Hoc mihi philosophia promittit, ut me Deo parem faciat. E per dirlo qui di passaggio, chi non ravvisa in questa sacrilega parola del pagano filosofo un eco fedele della parola sacrilega che Lucifero pronunziò di se stesso dicendo: « io mi farò somigliante all’altissimo Iddio. Similis ero Altissimo (Isa. XIV) , » e che ripeté quindi all’orecchio dei nostri progenitori, promettendo loro che sarebbero divenuti simili a Dio disubbidendo a Dio, Nequaquam moriemini, sed eritis sicut dii (Gen. II). Ora questa stessa orribile parola che, uscita dal fondo dell’abisso, risuonò prima nell’empireo, poi nell’Eden e infine nel mondo pagano con sì funesto rimbombo, si è ripetuta e si ripete ancora, con non minor danno, in quelle parti del mondo cristiano ove ha dominato e domina ancora l’eresia. Simon Mago, Manete, Montano, Maometto fra gli antichi, Lutero, Martino, Giorgio, Diderot e Rousseau, fra i moderni si sono apertamente attribuita l’ispirazione e l’infallibilità divina e si sono preferiti, lo dirò io?…. al medesimo Gesù Cristo. I loro discendenti non osano più altrettanto colle parole, ma l’osano coi fatti. Giacché che cosa è mai il principio protestante ammesso ed enunciato dai protestanti medesimi: Il protestantismo consiste nel credere come più piace e nel vivere come si crede? se non prendersi scherno di ogni rivelazione divina, opporre il proprio capriccio alla divina parola; è lo stesso che dire: « Che Dio abbia o no parlato, poco m’importa. Se ha parlalo, non ha diritto di impormi la sua parola per regola della mia intelligenza e della mia condotta. Che cosa poi abbia detto, non mi curo saperlo, giacché ho sempre diritto di far dipendere la mia credenza dal mio capriccio e la mia vita dalla mia credenza. « E non è questo un considerarsi eguale, anzi superiore a Dio stesso? È dunque la stessa parola di Lucifero, che collo stesso accento del sacrilegio ripercossa in faccia alla montagna dell’orgoglio ha un eco nel cuor dell’eretico. È Io stesso spirito di superbia luciferina che lo anima, che lo ispira, che lo regge, che lo acceca, che lo perde. Oh misera condizione dell’uomo alla scuola di un tal maestro, sotto il regime di un tal padrone, sotto l’ispirazione di siffatta divinità!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (50)- LA VERA E LA FALSA FEDE -V-

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA -50-

LA VERA E LA FALSA FEDE –IV.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ VII. – Bello spettacolo che presenta la Chiesa cattolica! mantenendo essa sola nella loro purezza tutte le cristiane verità in faccia a tutte le sette degli eretici, che non hanno insegnalo che errori. Fuori della vera Chiesa non si trovano verità pure e semplici. Gli eretici, anche in quelle che han conservate, vi han mescolato l’errore; e colla vera fede han perduto persino il vero linguaggio delle cose divine. Il discepolo della fede è l’allievo della ragione.

A fronte però di queste orribili devastazioni di tutte le verità rivelate, di tutte le credenze dell’umanità, di tutti i sentimenti della natura, che la ragione, gelosa di comandar sola nell’impero dell’intelligenza, ha ammassate da circa due mila anni nel mondo cristiano: a fronte di tanti errori, di tanti delirj, di tante assurdità, di tante stravaganze sognate dall’orgoglio e spacciate con un sì imperturbabile sangue freddo dalle cattedre di pestilenza dell’eresie; a fronte delle dottrine turpi, licenziose, libertine, degradanti, omicide, inventate e predicate dalle passioni per iscancellar dalla terra, coll’ultima traccia del vero, l’ultimo avanzo di giustizia, di probità, di pudore: quanto è bello per noi il mirare il magnifico edificio della verità cattolica ergere immobile e sicura la maestosa sua fronte sulla pietra che lo stesso Gesù Cristo gli ha dato per fondamento nella persona di S. Pietro e de’ suoi successori (Matth. XVI), cui ha commesso il deposito di una fede indefettibile (Luc. XXII); ed ha costituiti maestri ed interpreti infallibili della verità! Quanto è bello, in faccia alle migliaja di sette che si son chiamate o si chiamano cristiane, il mirare la sola Chiesa Cattolica conservare pure ed intatte, senza mescolanza di errore, sine erroris miscela, tutte le verità primitive del genere umano e tutte le verità del Cristianesimo, senza che la malizia umana possa mai corrompere la sorgente divina da cui scorrono nel giardino della Chiesa a rinfrescare le nostre intelligenze, a confortare e ricercare il nostro cuore! Quanto è bello il vederla insegnare con tutte le verità tutte le virtù! poiché come nulla nei suoi dommi sente l’errore, così nulla nelle sue leggi favorisce il vizio: ma come in essa tutto è vero, così tutto è santo e tutto tende a reprimere le passioni, a sollevar levar l’uomo alla virtù più perfetta. Questo pregio singolare ed unico della Chiesa Cattolica è stato finalmente conosciuto, con un sentimento di santa invidia, anche dalla più dotta scuola delle chiese protestanti. Mentre noi andiamo scrivendo queste pagine, risuona altamente per tutta l’Europa l’importante confessione che la forza della verità ha strappata dal cuore dei più famosi professori dell’università protestante di Oxford, il più fermo baluardo della chiesa anglicana, che, per la bocca del dottor Newman, han detto: « la Chiesa romana è la sola che ha conservate intatte le dottrine del Cristianesimo. » Oh bell’omaggio degli stessi maestri dell’errore renduto alla sola Religione di verità, e che mentre è di un augurio prezioso per loro, indicandone il facile e non lontano ritorno, è ancora un argomento di gran consolazione per noi! O anime veramente cattoliche, che sentite il pregio della vera fede, perché in essa solamente si trovan le vere consolazioni del tempo e le legittime speranze dell’eternità, aprite il cuore alla riconoscenza verso Iddio che, avendovi fatto nascere in questa Chiesa, unica depositaria del vero, vi ci ha conservato. Miseri noi! che saremmo noi fuori di questa Chiesa ed estranei al suo insegnamento? Che sapremmo noi di Dio e dell’uomo, se non fossimo cristiani? Che cosa ce ne potrebbe dire di vero, di sicuro la filosofia pagana, se noi non avessimo altra scuola che la sua per sapere che cosa siam noi, a che siam venuti in questo mondo, chi è il Dio che ha diritto alla nostra servitù, al nostro amore? Che cosa ce ne potrebbe dire essa, che, dopo aver impiegati dieci secoli a decifrar questi enimmi, ed aver promesso al mondo di scoprire la vera sapienza, ai tempi di S. Paolo non avea ancora, dopo tante ricerche, trovato che l’errorr, il dubbio e la stoltezza? Sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. – Senza la scuola della Chiesa, che sapremmo noi di vero e di sicuro intorno alla Trinità, a Gesù Cripto, alla sua Religione? Quello che ne han saputo gli eretici, che, sdegnando il cattolico insegnamento, hanno coi proprj lumi interpretato la Scrittura. Ma a quale scuola andremmo noi? A quella di Lutero o a quella di Calvino? Consulteremmo i puritani o gli anglicani? i quaccheri o i metodisti? i riformatori o gli evangelici? gli scismatici d’Occidente o le servili sette dell’Oriente? i libertini inglesi o i panteisti francesi? Dove troveremmo noi meschini la verità che è una. che tutte le sette si arrogano, e perciò stesso provano che non è in alcuna di loro? Vi sono è vero delle nozioni di Dio, della Trinità, di Gesù Cristo in tutte le sette che si dicono cristiane. Ma come le più belle piante, trasportate in cattivo terreno e sotto un clima malsano, presto degenerano e si disseccano; così le stesse verità cattoliche, trapiantate, sul terreno limaccioso e palustre, esposte all’alito pestilenziale dell’eresia, si sono presto alterate e corrotte. Sicché quelle stesse verità che gli eretici han rubate a noi, han portato via nel separarsi da noi, non le conservano e non le credono come noi. Tante sono le idee erronee che vi mescolano, le false conseguenze che ne deducono, le detestabili applicazioni che ne fanno! – Come un insetto velenoso, passando sopra d’un vaghissimo fiore, lo appesta, e ne altera l’odore e la natia bellezza; così l’eresia altera e guasta tutte le verità che discute, tutte le virtù che raccomanda. Svolgete i libri dei teologi dell’eresia; considerate come parlano dei dommi, che pur dicono di aver comuni con noi: è impossibile, coll’ajuto di questi libri, il formarsi un’idea chiara e precisa di quello che si deve credere intorno ai più grandi misteri della Religione cristiana. I termini ne sono sì vaghi, le frasi si tortuose, le espressioni si ambigue, i sensi sì varj. le esposizioni sì oscure e sì incoerenti, che la teologia protestante intorno ai misteri sembra fatta per imbrogliare la mente, confonderla o disgustarla della fede nei cristiani misteri. No, un teologo protestante, un eretico, richiesto a rispondere sopra una verità cristiana, non mai ne darà un’idea chiara e precisa che possa farne conoscere 1’errore contrario. Quando Osìandro, vivente ancora Lutero, pubblicò la sua orribile dottrina intorno alla giustificazione, quattordici chiese ereticali, fondate da Lutero medesimo, trattarono Osiandro da eretico. Ma volendo far conoscere in che la dottrina di Osiandro era erronea e stabilire intorno a questo domma la verità cattolica stessa materia: ciò che, lungi dal definire la questione, non servì che ad imbrogliarla di più; il perché le quattordici chiese che pretesero di combattere Osiandro e trattarlo come un eretico, non intendendosi più fra di loro, si divisero tosto in quattordici sette diverse e, trattandosi l’una e l’altra da eretica, presero a combattersi anche fra loro. – Al contrario, appena la vera Chiesa, nel concilio di Trento, parlò su questo stesso argomento, essa lo fece con tanta precisione, con tanta uniformità, con tanta chiarezza, che la verità cattolica intorno al domma della giustificazione brillò di nuova luce agli occhi dei veri fedeli, e tutti gli errori contrarj furono scoperti, confutati e distrutti. Ma non è dato all’errore il parlare il linguaggio schietto, sincero, chiaro e sicuro della verità. Come chi vive lontano dalla propria patria finisce col perderne ancora il natio linguaggio; così gli eretici, coll’essere usciti dalla Chiesa, la vera patria dei fedeli qui in terra, ne han perduto il linguaggio, e non sanno più parlare cattolicamente delle stesse cattoliche verità che han ritenute. Ma, ripetiamolo ancora: in faccia a questa impotenza degli eretici di parlare la verità, quanto è bello il vedere nella Chiesa Cattolica i dotti e i teologi proporre, dimostrare tutti i dommi rivelati con una precisione di linguaggio, con una esattezza di espressione, con una uniformità di senso, che è impossibile il non riconoscervi alla prima lettura la cattolica verità così pura e scevra di errore come fu da Dio stesso rivelata! che anzi è ancora più bello il sentire i laici stessi, le donne, i giovanetti, tanto solo che siano stati istruiti nel catechismo, formati alla scuola della predicazione cattolica e delle cattoliche letture, il sentirli, dico, enunciare idee giuste, chiare, precise intorno alla trinità di Dio, all’incarnazione del Verbo, al numero ed alla efficacia dei sacramenti, all’estensione ed alla forza della legge divina, alla pratica ed ai pregi della vera virtù, all’origine, alla condizione dell’uomo, allo stato dell’anima nella vita presente e nella vita futura! Che cosa diviene la scienza orgogliosa del teologo protestante, a che vale la sua pretesa erudizione biblica, scienza solo negativa, scienza di confusione e d’incertezza, in faccia alla fede umile, ma positiva: chiara, certa, precisa di un vero figlio della Chiesa? Messi a confronto, questi due allievi, l’uno della scuola dell’inquisizione umana, l’altro della rivelazione divina, l’uno non sa che negare, mentre l’altro afferma; l’uno discorre, l’altro crede. E perché il parlare la verità non è dato all’erudizione, ma alla fede; 1’uno, con tutta la sua dottrina, balbetta da fanciullo; l’altro, coll’ajuto della sua fede, parla da uomo; e la vera scienza si trova in fondo dalla parte dov’è la verità.

§ VII – Si passa a discorrere del quarto ed ultimo carattere dell’insegnamento della fede, la sua certezza. I agi, istruiti alla scuola della rivelazione divina, conobbero i più grandi misteri non solo senza errore, ma ancora senza dubbiezza. Prove della fermezza e della costanza della loro fede.

Il quarto ed ultimo carattere dell’insegnamento della vera fede, del quale ci rimane ora a trattare, si è, secondo la dottrina di S. Tomaso, d’ingerire negli animi una somma fiducia ed una somma certezza delle cose che s’imparano a questa scuola divina, e di essere perciò non solo, come si è veduto, esente di errore e veridico, ma ancora fermo e costante da escludere ogni incertezza, ogni dubbio,  FIXA CERTAMINE, ABSQUE DUBITATIONE ET ERRORE. – Or questo suo magnifico carattere, questo privilegio meraviglioso, questa efficacia tutta divina spiegò l’insegnamento della fede la prima volta che da Dio stesso fu messo in opera coi gentili nella persona dei Magi. Questi fortunatissimi uomini, perché istruiti appunto per via di rivelazione e di fede, non solo conobbero, non solo crederono nella loro integrità, nella loro purezza, le più grandi verità, i più sublimi misteri, ma ebbero altresì di ciò che crederono e di ciò che conobbero una certezza piena, assoluta e perfetta. Tutto ciò chiaramente deducesi dalla confidenza, dalla vivezza, dalla generosità, dalla costanza e dalla tranquilla sicurezza della lor fede. Qualcosa difatti, se non una persuasione, un convincimento profondo, poté da prima ispirare a tre uomini, di professione filosofi, di condizione monarchi, tanto coraggio e tanta fiducia da abbandonare senza indugio i loro regni, i loro popoli, le loro patrie, le loro famiglie, le loro ricchezze, i loro agi, le loro delizie, ed intraprendere nel cuore dell’inverno, in contrade straniere e nemiche, un difficile e disastroso viaggio, di cui era indefinita la lunghezza, perché ne era il termine ignoto? Imperciocché, veduta appena la stella, docili e pronti alla voce del prodigio e molto più all’interior movimento della grazia, eccoli mettersi in cammino come all’azzardo, giacché sul principio non sapevano se la stella che loro avea fatto da apostolo, lor servirebbe ancora di guida; ma pure con una ferma credenza che era veramente nato il Messia, e con una fiducia inalterabile che lo avrebbero in fine trovato. Ma non abbiamo noi bisogno di argomentare la fermezza della fede de’ Magi, mentre Iddio stesso ce l’ha fatta conoscere, mettendola ad una prova difficile e delicata. Appena essi metton piede nelle contrade della Giudea, ecco tutto ad un tratto scomparire al loro sguardo la stella miracolosa che era stata fino allora guida si fedele e motivo di tanta consolazione nel loro cammino. Ora, altri uomini che i Magi, al vedersi all’improvviso abbandonati dal segno celeste in lontano paese, senza sapere se dovevano battere a destra o volgere a sinistra, se andare innanzi, o ritornare addietro, si sarebbero perduti di animo, si sarebbero stimati illusi, avrebbero accusato sé stessi dicendo: « Oh stoltezza che è stata la nostra! Come mai, re e filosofi, abbiamo potuto con tanta precipitanza cedere ad un’illusione ottica, prendere uno scherzo di luce, un fenomeno naturale per un portento celeste, ed uno scaldamento di fantasia per una rivelazione divina? Che re? che Messia? che Dio è quello di cui ci siamo impegnati di andare in cerca? Eccoci, dopo avere in tredici giorni coi nostri dromedarj percorsa la distanza di mille miglia, e sostenuti i disagi di un penoso cammino a traverso i deserti, eccoci in un paese straniero, nei dominj di un re barbaro, senza scorta, senza guida, senza difesa. Ah! siamo stati troppo insensati e troppo ciechi. Ea trista comparsa che faremo nel ritornare fra i nostri popoli, senza avere raggiunto lo scopo del nostro viaggio, e le secrete beffe dei saggi con cui vi saremo accolti, non ci puniranno mai abbastanza della nostra leggerezza e della nostra imprudenza. » – Cosi avrebbero, senza dubbio, giudicato e parlato uomini in cui la fede nella nascita del Messia non fosse stata fermissima. Ma i Magi non giudicarono, non parlarono così. Col cessare di balenare ai loro occhi la stella, non è un solo istante scossa la loro fede. Non vedono più il segno, ma non perciò credono men di pria il suo significato. Una volta che han conosciuto Gesù Cristo, più nol dimenticano. Quanto più si vedono abbandonati tanto confidan di più; e quanto più si sentono desolati, tanto più amano. Non temono di essersi ingannati sulla natura della stella e sullo scopo della sua apparizione; non dubitano un sol momento che divina fu la luce che aveva illuminata la loro mente, e divine pur le voci che avevano sentite nel loro cuore. Non si accusano di leggerezza nell’aver fatta, senza bastevoli indizj, una mossa sì straordinaria e sì solenne. Non si scoraggiano, non si pentono, non danno addietro, non rimangono un solo istante incerti sul partito da prendere; ma pieni di confidenza entrano in Gerusalemme e pubblicano per tutte le vie come certissima la nascita del Messia, e cercano e chieggono, con una pia importunità a quanti incontrano, il luogo ove poterlo trovare: Venerunt Hierosolymam dicentes: Ubi est qui natus est rex Judæorum? Oh belle parole! oh confessione preziosa, che annunzia una fede non men viva che ferma e immobile! Non dicono già: « Secondo i nostri calcoli ci sembra che dovrebbe esser nato il Messia. La stella che abbiamo veduto ci è parsa esser quella che Balaam nostro antenato ha predetto che doveva spuntar col Messia ed indicarne il nascimento. « Ma coll’accento di una persuasione intera e perfetta dicono: » Il Messia è nato: Natus est rex Judæorum. La stella che abbiamo veduta è certamente la sua, vidimus stellam ejus: e lo scopo della nostra venuta non è già di chiarirci coi proprj occhi della verità del mistero, ma di rendergli omaggio e di adorare il Dio che è nato uomo per la salute degli uomini: Natus est rex Judaorum, et venimus adorare eum. O Giudei, non vi cerchiamo noi adunque se sia o no veramente nato questo Salvatore divino. Noi lo sappiamo di certo. Intorno a ciò la nostra fede non ci ha ingannati. Miracolosa veramente è stata la stella che abbiam veduta, divina veramente è stata la rivelazione che abbiam avuta: Vìdimus stellam ejus, natus est. Ma la stella che ce ne ha manifestata la nascita non ci ha però indicato il luogo dove ritrovarlo.Questo luogo vogliamo solo da voi conoscerlo qual sia. Perciò siamo venuti tra voi. Voi avete tra le mani le Scritture,gli oracoli, le profezie che parlan di lui, non potete ignorare quest’angolo fortunato della terra in cui è nato il Re del cielo. Voi lo sapete con certezza, voi soli potete istruircene; e noi non possiamo conoscerlo se non da voi. Deh ditecelo per pietà, dov’è? dove è esso mai? ubi est? ubi est? Deh. un indizio che cel discopra, una parola che ce lo mostri, un segno che ce lo additi! Noi siamo premurosi, se nol sapete,di offrirgli, coi donativi che gli abbiamo recati, tutti noi stessi. Il cuore ci balza in seno di santa impazienza di darci a Lui per suoi servi e suoi adoratori; « venimus (cum muneribus) adorare eum. ». Ma la fede dei Magi quanto è ferma e viva, tanto è generosa:ed oh il bel coraggio che loro ispira! Imperciocché dove mai levan essi la voce e predicano la nascita del Re de’ Giudei: natus est rex Judæorum? In Gerusalemme, nella metropoli stessa della Giudea, sotto gli occhi di Erode, che perla via degli intrighi i più tenebrosi e dei più grandi delitti si era usurpata col titolo l’autorità di re dei Giudei. Dire dunque, in tal luogo ed in faccia ad un tal re: «Dov’è ilRe dei Giudei che è nato? » poteva sembrare lo stesso che dire:« Colui che qui regna, non è di questo popolo il legittimo re. Noi sappiamo che è nato il Re legittimo dei Giudei, e cerchiamo sapere dov’è, pronti a riconoscerlo ed adorarlo. » Ora ci voleva egli di più per risvegliar le paure, per accendere. il furore della politica usurpatrice dei regni, assai più furibonda e crudele dello stesso fanatismo di religione? Come mai adunque, dice l’Imperfetto, tenere un siffatto linguaggio? Non sanno i Magi chi è Erode che regna in quella contrada?Non intendono che chi ha immolato il proprio fratello all’ambizione del regno non la perdonerebbe ad uomini estranei, nell’impegno di conservarlo? Sono re essi stessi:non conoscono adunque la legge conservatrice della pace e dell’ordine di ogni impero, che chiunque, vivente ancora il re d’uno stato, si mette a proclamare e si protesta prontoa riconoscere un altro re dello stato medesimo è punito dell’ultimo supplizio, come complice e ministro di un tiranno? Sì, uomini in cui il vanto della sapienza è in proporzione della nobiltà della nascita, dell’elevatezza del rango, sanno ed intendono tutto ciò molto bene. Si sono pure accorti che questa novella della nascita di un nuovo re, portata da essi re forestieri, venuti con gran pompa da remote contrade, eda essi pubblicata nella città regina con un tuono di tanta asseveranza e di tanta certezza, ha messo in timore Erode e la città tutta in iscompiglio: Turbatus est Herodes et omnis Hyerosolima cum illo. Veggono bene il pericolo che il coraggio e la franchezza del loro parlare può attirar sopra di loro dalla parte di un monarca geloso e crudele, di un sinedrio invidioso,di una città tumultuante e inquieta. Intendono bene che, stranieri, soli, senza forza, senza eserciti, entrati di già nella città capitale, si sono essi stessi messi a discrezione di un re che nella sua brutalità non conobbe mai discrezione,e che nulla avrebbe potuto garantirli dal furore di colui di cui, colla libertà del loro parlare, parevano accusare l’ingiustizia, l’usurpazione, la tirannia. Ma i Magi intendono altresì che Iddio non per altro gli ha condotti in Gerusalemme se non perché vi pubblichino la nascita del Messia e, gentili che sono, facciano da predicatori ai Giudei. Sentono di avere una missione da Dio. e tutti i pericoli che possono lor venire dagli uomini non li arrestano dal compirla. Intenti a secondare i disegni del Re del cielo, la loro fede dimenticai riguardi suggeriti dalla politica verso un re della terra.Tema e si agiti quanto e come vuole Erode e gli abitanti di Gerosolima. divenuti pei loro vizj un popolo degno di un tal monarca: i Magi non temono né la gelosia del tiranno usurpatore, né la malignità degli scribi, né  il furore del popolo.La solitudine in cui si trovano non li disanima, la presenza del pericolo non li conturba, il timor della morte non li arresta; e non cessano di ripetere per le pubbliche vie la nascita del nuovo re de’ Giudei; non ristanno dal chiedere, dall’insistere che lor si dica dove trovarlo, per poterlo riconoscere ed adorare: Dicentes, Ubi est rex Judæorum? venimus adorare. Oh fede generosa, fede magnanima,fede sublime! non hanno ancora veduto questo re Messia, e già lo confessano! non sanno ancora bene di Lui, e son pronti a morire per Lui! non ne sono ancora discepoli, e se ne fanno i primi apostoli, i primi evangelisti; felici se la crudeltà del tiranno vorrà farne altresì i primi martiri! Trionfatrice dei pericoli, la fede dei Magi si tenne ferma all’urto ancora più potente degli scandali. Noi considereremo a parte nella seguente lettura il delitto e l’infame condotta de’ Giudei in questa circostanza solenne. Per ora ci giova osservare che il loro iniquo procedere fu una terribile pietra d’inciampo alla fede dei Magi. Imperciocché, dopo di aver loro indicato il luogo della nascita del Messia, la sinagoga giudaica non si diede alcun pensiero di cercarlo, di rendergli omaggio, come ne aveva il dovere; essa che non esisteva. che per Lui, per prepararne le vie , per sperimentarne la prima i beneficj, come era stata la prima a riceverne le promesse. Quale scandalo adunque per questi poveri gentili l’indifferenza che mostran pel Messia i suoi stessi Giudei! Quale scandalo per questi stranieri la noncuranza che pel Messia mostrò lo stesso suo popolo! Quale scandalo per questi laici il disprezzo che pel Messia mostrarono i suoi sacerdoti! Parea che a tal vista i Magi avessero dovuto dire fra loro: « Come può mai essere veramente il Messia, il rede’ Giudei colui di cui andiamo in cerca, se i Giudei stessi,che da tanti secoli lo attendono, non fanno alcuna attenzione alle parole con cui ne abbiamo, loro annunziato la nascita, e nessun si muove, nessun si dà pensiero di verificarla? Essi ci han detto il luogo in cui il Messia deve nascere secondo le profezie. Come sanno il luogo, così ancora sanno senza dubbio il tempo di questo nascimento. Poiché dunque punto non badano alle nostre parole, bisogna dire ch’essi non credono venuto il tempo in cui il Messia deve nascere, e che quello di cui noi cerchiamo, non è altrimenti il Messia. E poi è possibile che il Messia, il Re de’ Giudei, come si è rivelato a noi stranieri e gentili, non si sia prima rivelato a’ suoi Giudei, cui è stato promesso? Eppure qui nessuno Sa nulla di un nascimento che deve cangiare la condizione di tutto un popolo, ed il primo avviso vi si riceve da noi. Possibile che noi, idolatri, intendiamo i misteri del vero Dio meglio di coloro che ne sono i soli adoratori veraci, che ne hanno in deposito le profezie e gli oracoli, e ne sono legittimi interpreti? Non è più facile il credere che noi ci siamo lasciati illudere dal fenomeno della stella di quello che i Giudei si siano ingannati intorno al mistero del Messia di cui trovami solamente fra loro i veri sacerdoti e i veri profeti?Ma no; i Magi la discorron ben altrimenti, e nel Giudeo che addita loro i l luogo della nascita del Messia senza darsi alcuna premura di ritrovarlo egli stesso, e che resta volontariamente nelle tenebre nel momento che presenta agli altri la luce, in questo Giudeo, dico, i Magi distinguono il sacerdote dall’uomo; il sacerdote depositario della rivelazione divina dall’uomo soggetto alle passioni umane; il sacerdote che parla sotto la ispirazione celeste dall’uomoche opera sotto l’influenza infernale; il sacerdote organo dello Spirito Santo che per la bocca di lui manifesta la verità che illumina, dall’uomo organo del demonio che per la di lui condona presenta uno scandalo che seduce. Ascoltano adunque docili ciò che loro si dice, ma non si lasciano punto scuotere da ciò che alla loro presenza si fa. Praticano ciò che odono, e non badano a quel che vedono. Profittano della preziosa lezione che ascoltano, ma non si fermano all’esempio funesto che ricevono. La parola del Giudeo li illumina, ma la sua condotta non li perverte. Lasciano il Giudeo occupato a leggere curiosamente la Scrittura, e si affrettano di andare a tributare al Dio della Scrittura un’adorazione umile e fedele. E questo scandalo, il maggiore di quanti iMagi ne hanno finora ricevuto, lungi dal render loro sospetta la rivelazione della stella, ve li conferma: lungi dal far vacillare la loro fede bambina, la corrobora; lungi dallo spegnere il loro fervore, lo accende. Oh forza, oh efficacia della certezza che la fede ispira! Finalmente, l’ultimo effetto e l’ultima prova insieme della certezza della fede dei Magi si è la calma, la pace perfetta con cui vi si riposano. Una sola cosa rimaneva loro a sapere: il luogo della nascita del Messia; e questa sola domandano: Ubi est qui natus est? Sul rimanente delle verità sante, dei sublimi misteri che sono stati ben rivelati, la loro mente è perfettamente tranquilla, il loro cuore è sicuro. Perciò non muovono dubbj, non raddoppiano interrogazioni, non intavolano dispute, non istanno ad argomentar coi Giudei, e. discutere con Erode, ma si abbandonano con una immensa fiducia alle manifestazioni ineffabili che Dio si è degnato loro di fare certissimi che tutto ciò che essi sanno, tutto ciò che essi credono, è vero. Ricevuta adunque la sola risposta, il solo oracolo che erano venuti a cercare in Gerosolima, abbandonano senza indugio questa città infedele in preda al suo accecamento ed al suo orgoglio, e si avviano a Betlemme,senza alcuna sollecitudine, senza alcun dubbio sull’esito fortunato del loro viaggio: Qui cum audissent regem abierunt.Ma se la fede dei Magi non ha più bisogno di ammaestramenti,di lezioni, di guide per ritrovare Gesù Cristo, e perciò essi non le cercano, non le domandano; il loro cuore però puro e retto ben è degno di ricevere dalla bontà di Dio consolazione e conforto. Ecco dunque, usciti appena da Gerusalemme, mostrarsi loro più brillante di pria la stella miracolosa che li avea guidati nella Giudea. Rei vederla, iloro cuori balzarono di una tenerissima gioja. L’espressione dell’evangelista indica un’allegrezza immensa, un trasporto,un eccesso di allegrezza: Videntes stellam gavisi sunt gaudio magno valde. Li precede la stella; ed essi, pieni di sorpresa,di fiducia e di amore, l’ammirano e la lodano, la vagheggiano e la seguono: ed essa li illumina e li consola, li guida e li sostiene, stella antecedebat eos e fa loro sentire che sono presso alla meta del loro cammino, all’oggetto de’ santi loro trasporti. Affrettano adunque il passo, raddoppiano gli sforzi; e tale si è il piacere che si ripromettono di ritrovarsi. nell’abitazione ed alla presenza del Salvatore che son venuti di sì lontano a cercare, tale la gioja di cui questa speranza li colma che quasi più non distinguono tra l’essere di già alla grotta e l’andarvi: Gavisi sunt gaudio magno valde.

§ IX. –  Magi crederono con certezza, perché la loro fede ebbe per fondamento: 1.° l’autorità divina; 2.° una rivelazione uniforme; 3.° il soccorso della grazia. Questi stessi tre motivi di credere trova il Cattolico nell’insegnamento della Chiesa, che lo rendono certissimo nella sua fede. Bel prodigio che la grazia della fede opera nel vero cattolico, la cui credenza, a somiglianza di quella dei Magi, è ferma nelle sue prove e vivissima nei suoi trasporti. L’uomo carnale, il freddo razionalista non intendono nulla di questo prodigio. Lo deridono, ma saranno un giorno derisi essi stessi.

Ma non ha nulla di strano tanta certezza nei Magi, che si manifesta con una fede si confidente, sì viva, sì generosa, sì costante, sì tranquilla e sì lieta. I Magi da prima riconobbero la voce e la parola di Dio tanto nella luce della stella che parlò ai loro occhi quanto nel discorso della sinagoga che parlò alle loro orecchie. In tutte e due queste testimonianze, tutte e due miracolose (giacché non era meno miracolosa l’esistenza della sinagoga, sola posseditrice del vero in mezzo alle tenebre degli errori del mondo spirituale, di quello che l’apparizione della stella nella oscurità della notte del mondo corporeo), in tutte e due, dico, queste testimonianze venerarono una autorità divina che a nome di Dio lor parlava di Dio. Credettero adunque a Dio ed alla sua parola; e la parola di Dio, infallibilmente verace, cattiva l’intelletto che illumina, ingerisce una fiducia ed una somma certezza. In secondo luogo essi ricevettero una rivelazione uniforme: giacché come tutti videro egualmente il prodigio della stella ed udirono egualmente l’oracolo della sinagoga, così egualmente intendettero l’uno e l’altro linguaggio, gli diedero il medesimo senso, lo crederono al medesimo modo, presero le stesse risoluzioni, si assoggettarono agli stessi sacrifici, alle stesse pratiche; c sebbene fossero essi filosofi, ed i pastori ignoranti, pure in Betlemme si trovarono a credere le stesse verità, ed in uno stesso luogo si trovarono riuniti nello stesso spirito e nella stessa fede. Or quest’accordo meraviglioso e perfetto, onde i Magi ed i pastori, di patria, di linguaggio, d’ingegno, di costumi e di religione diversi, tutti in un punto si trovarono della stessa opinione e dello stesso sentimento sulle verità che avevano conosciute, toglieva a ciascuno in particolare qualunque dubbio o timore che i suoi sensi, la sua fantasia, o il suo giudizio avesse potuto ingannarlo, e Io rendeva certo che ciò che aveva conosciuto era la verità. Così la fede comune ed uniforme di tutti corroborava la fede di ciascuno in particolare; e ciascuno in particolare si sentiva ancora più forte e credeva ancora colla fede di tutti. Terzo finalmente, come si è più volte notato nel corso di questo libro, i Magi, all’apparire del segno, ne chiesero la spiegazione non alla umana scienza, ma all’illustrazione divina. Lo stesso amoroso Signore, da cui l’umile preghiera è sicura di ottenere ancora più che non chiede non contento di averli per diverse guise illuminati colla sua luce, li rendette ancora certi colla sua grazia; e nel dare alla loro mente la cognizione dei suoi misteri, ne diede loro ancora nel cuore la fede, la fede teologica, la fede divina. – Ora questi stessi Ire motivi che rendettero certi i Magi nella lor fede son quelli che rendono il Cattolico certissimo nella sua. Poiché come il Cattolico ha comune coi Magi la stessa fede, così ne ha con essi comuni i motivi e gli ajutì. E Iddio, nell’avere stabilita la fede dei Magi su questi fondamenti, volle fin d’allora figurare, predire ed indicare le fondamenta della credenza cattolica, dell’insegnamento della vera fede. – Infatti il Cattolico, nel credere che fa alla Chiesa, crede primieramente ad una autorità divina che Dio stesso ha fatta depositaria delle sue dottrine ed ha incaricata d’insegnarle. La Chiesa non foggia altrimenti a suo capriccio i dommi da credere, né i doveri da praticare; ma ci ripete esattamente quello che Dio le ha rivelato. Il Dio che pose la sua divina parola sulla bocca profana e sacrilega di un Balaam, un indovino impostore; che ve la conservò santa e pura, e ne la fece uscire sincera ed intatta; molto più conserva pura e santa la sua parola nella bocca del suo legittimo vicario e nel corpo dei pastori ch’esso ha stabiliti pel governo della sua Chiesa (Act. 22) ed ha rivestiti di un carattere sacro ed augusto, come sono auguste e sante le funzioni cui li destina. – Che cosa infatti, ci attesta mai la storia del cattolico insegnamento? Ci attesta che dalla bocca di uomini d’indole, d’ingegno, di studi, di costumi, di nazione diversi, che per diciannove secoli si sono succeduti sulla cattedra di S. Pietro e sulle sedi delle chiese particolari, e che uniti al lor capo, han parlato ai popoli per istruirli nella scienza di Dio, non è caduta mai alcuna parola profana ed erronea, ma al contrario da essi tutte le verità han ricevuto la loro spiegazione, la loro conferma, tutte le virtù il loro incoraggiamento, tutti gli errori la loro censura, tutti i vizj la loro condanna. Or questo fatto unico, che uomini soggetti ai moti delle passioni, agli allucinamenti della ragione, come tutti gli altri, non abbiano in tanti secoli, in mezzo all’urlo di tante dottrine, insegnalo mai nulla di contrario alla virtù ed alla verità; questo prodigio del Dio redentore, che conserva sempre pura la fede nella sua Chiesa, assai più grande, agli occhi di chi sa comprenderlo, del prodigio onde il Dio creatore conserva sempre viva la luce nell’universo, è una prova visibile e palpabile che l’autorità della Chiesa insegnante è divina. Credere adunque all’insegnamento della Chiesa Cattolica non è credere all’uomo, ma allo stesso Dio, che parla in questa Chiesa, e di cui questa Chiesa non è che l’ineffabile interprete e l’organo fedele. Quel beato fanciullo cristiano adunque di cui parlano le ecclesiastiche istorie, che, nulla spaventato dalle minacce di essere arso vivo nello stesso rogo in cui viva già sotto ai suoi occhi ardeva la sua propria madre, mostrossi come un prodigio di sapienza insieme e di coraggio; poiché confessò costantemente da una parte Gesù Cristo per vero Dio, e dall’altra, interrogato dal tiranno come sapesse che Gesù Cristo era Dio, franco rispose: « Io lo so perché me lo ha detto mia madre, a mia madre lo ha detto la Chiesa, alla Chiesa lo ha detto lo stesso Iddio. » Or ecco dove si risolve in fine la fede cattolica: io credo in Dio e per Iddio: io credo a Dio sulla testimonianze della stessa sua parola infinita, manifestatami per l’organo di una autorità infallibile; e la verità di Dio è l’ultimo motivo della mia fede. – Ora Iddio è verità infinita, e però degno di una fede infinita, come è degno di un infinito amore, essendo bene infinito. Ma finito, come io sono, non essendo capace di cosa alcuna infinita, faccio ciò che mi è possibile; gli rendo ciò che solo è in mia facoltà di rendergli e di che la sua bontà è paga a segno che non esige nulla di più dalla mia debolezza; lo credo al di sopra di tutte le verità, come lo amo al di sopra di tutti i beni. Presto una fede somma alla sua parola; come una somma ubbidienza alla sua legge; cioè una fede che mi fa credere il simbolo al di sopra di tutto ciò che vi è di più certo; ed una ubbidienza che mi fa amare il decalogo al di sopra di tutto ciò che è più degno di amore. In secondo luogo, credere all’insegnamento della Chiesa è credere ad un insegnamento uniforme, costante, invariabile. – Come Cattolico, io so che la mia fede è precisamente la stessa di quella che per quattromila anni fu professata in figura e in aspettazione da tutti i patriarchi, da tutti gli uomini del mondo antico, veri adoratori del Dio vero, da Adamo, cui fu la prima volta rivelata, sino a Gesù Cristo, che questa stessa rivelazione si degnò di rinnovare, di perfezionare, di compiere; che la mia fede è precisamente la stessa di quella che dalla venuta di Gesù Cristo nel mondo, per circa duemila anni, han sempre tenuta e insegnata tutti i pontefici, tutti i concilj, tutti i santissimi Padri, tutti i dottori, tutti i Vescovi, tutti i sacerdoti, tutti i fedeli che sono vissuti e sono morti nel grembo, della vera Chiesa; che se io potessi interrogare le loro ceneri, ed essi mi potessero rispondere, io vedrei attestata e confermata la mia fede da centinaja di migliaja di milioni di testimoni, quanti sono tutti coloro che han professata la fede cattolica e si sono riposati in seno alle sue dolci speranze; ed essi tutti mi assicurerebbero che io non credo né più né meno di quello che han creduto essi stessi, e di quello che per duemila anni si è creduto da tutti, in tutti i tempi e in tutti i luoghi: Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus. – E gran cosa! Nessun protestante, come più innanzi vedrassi, è sicuro che quello che esso crede sia da altri allo stesso modo creduto. Ma io, come Cattolico, so ancora che quello che io credo, così appunto come lo credo io, lo credono altresì duecento milioni di Cattolici sparsi sulla superficie del pianeta. Sono essi di patria, di nazione, d’indole, di costumi, d’ingegno e di linguaggio diversi: pure io so di certo che essi, in comune ed in particolare, professano precisamente i medesimi dommi e la medesima legge che professo io stesso. Io so, che nella Chiesa cattolica, quello che insegna un Vescovo lo insegnano ancora tutti i Vescovi; quello che predica un sacerdote lo predicano tutti i sacerdoti: quello che un Cristiano professa di credere lo credono e lo professano al modo istesso tutti gli altri Cristiani, perché tutti hanno studiato alla medesima scuola. Divisi essi in tanti popoli e nazioni diverse, separati da sì enormi distanze di terra e di mare, credon tutti precisamente lo stesso. Dall’orto e dall’occaso, dal settentrione come dal mezzogiorno, da tutti i punti dello spazio come in tutti i momenti del tempo dal seno dell’ immensa comunione CATTOLICA O UNIVERSALE si solleva verso il ciclo lo stesso omaggio degl’intelletti che ripetono in diverse lingue lo stesso simbolo, come si offre da tutti, in diversi riti, lo stesso ed unico sacrificio. Pertanto, portando il mio pensiero nel passato, rivolgendolo al presente, so di certo che quello che credo io è stato sempre così creduto e così ancora si crede. Come il soldato in battaglia è coraggioso e forte non solo per la sua privata forza e pel suo privato coraggio, ma ancora pel coraggio e per la forza dell’esercito di cui fa parte, ossia per la forza del tutto; così come Cattolico, io credo, non solo per la grazia della fede che ho ricevuta io stesso, ma ancora per la grazia della fede sparsa nel cuore di tutti gli altri fedeli. Credo colla fede di tutta la Chiesa di cui sono figliuolo. Ciò è a dire che la fede di sessanta secoli, di moltissime migliaia di milioni di uomini, la fede di tutta la terra, la fede della Chiesa passata e presente cui appartengono li riunisce nella mia mente, e la solleva: nel mio cuore, e lo ingrandisce; aggiunge alla forza della parte quella del tutto; corrobora sempre più il mio assenso, e lo colloca sopra una base di una infinita certezza e lo conferma e lo sostiene e lo nobilita e lo perfeziona. – Finalmente, Dio è fedele, provvido e pietoso; non abbandona alla sua natia miseria l’uomo che cerca di elevarsi a Lui, di unirsi a Lui per mezzo di una fede e di un amore soprannaturale e perfetto. Si piega verso dell’uomo con bontà, gli stende dal cielo una mano amorosa, e come fortifica il nostro cuore disposto ad amarlo, così solleva il nostro intelletto desideroso di riconoscerlo. Grande al certo e sorprendente si è lo sforzo dell’intelligenza umana! che a verità soprannaturali, misteriose, profonde, incomprensibili, che non si vedono, presta un assenso più vigoroso, più intimo, più costante, più perfetto di quello che è possibile di prestare alle verità naturali le più semplici, le più ovvie, le più facili ad intendersi e che si vedono. Ma come può essere altrimenti? subito che l’insegnamento della vera fede, che produce il miracolo di un assenso sì meraviglioso. sì appoggia ad una autorità divina. Dio stesso, si fortifica dall’uniformità dell’assenso della Chiesa universale, e, quello che è più si sostiene per un soccorso, gratuito si. ma soprannaturale e divino. Sicché il prodigio di un intelletto debole che crede alla parola infinita al di sopra di ogni altra verità è l’effetto della grazia e dell’abito della fede divina; come il prodigio di un cuore sì corrotto che ama la infinita bontà al di sopra di tutti i beni è l’effetto della grazia o dell’abito della divina carità, grazie ed abiti che nel Battesimo si ricevono. È dunque Dio, onde l’uomo, secondo una frase del Profeta, si solleva come ad un cuore alto, così ad un’alta intelligenza, sino a Dio stesso; affine che questo Dio, per quest’atto della sua potenza e del suo amore, sia sempre meglio conosciuto e glorificato: Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus (Psal. LXIII). E se l’uomo crede con tanta disinvoltura, come fanno i veri fedeli, misteri cotanto superiori all’intelligenza umana; come, se pratica con tanta felicità, alla maniera dei veri giusti, virtù cotanto superiori all’umana debolezza, ciò accade perché è corroborato da una forza tutta divina e perché è forte, direi quasi della stessa forza di Dio ed amante del suo medesimo amore. – Fondata però la certezza cattolica sulle stesse basi di quella dei Magi, eccola produrre i medesimi effetti e manifestarsi per gli stessi prodigi di una fede somma, viva, generosa. costante e tranquilla. – Mirate il vero Cattolico: allevato egli alla scuola della rivelazione, di cui Gesù Cristo è l’autore, e depositaria ed interprete la Chiesa, è più certo della verità di ciò che crede che della verità di ciò che sente, di ciò che tocca, di ciò che vede. La testimonianza della Chiesa non solo esclude ogni dubbio dal suo animo, sine dubitatione, ma vi produce una certezza fermissima, immutabile intorno alle verità rivelate, fixa certitudine; una certezza mille volte più piena, più completa, più perfetta di quella che vi produce la testimonianza dei proprj sensi intorno alle cose sensibili, la testimonianza del proprio intelletto intorno ai primi principj delle cose intellettuali, la testimonianza dell’intimo senso intorno ai fatti interni. Nessun dubbio seriamente tale, che lasci l’anima nella tema che l’opposto di ciò che crede possa esser vero, si solleva mai dal fondo della sua ragione. Il vero Cattolico erede in Dio, come il vero giusto lo ama: con tutto il proposito di un cuore fedele, ex toto corde; con tutta l’energia di un’anima generosa, ex tota anima; con tutta la pienezza di un assenso di un intelletto soggiogato dalla forza dell’evidenza, ex tota mente; con tutte le forze che è possibile riunire per prestare un’adesione somma, intima, profonda e perfetta, ex totis viribus. Direbbesi in certo modo che la fede, per l’anima veramente fedele, perde le sue tenebre misteriose. Quello che crede per effetto della grazia, lo tiene per così certo e reale come quello che potrebbe Dio fargli vedere per un raggio anticipato della sua gloria. – Narrasi di S. Enrico imperatore che, invitato a vagheggiar Gesù apparso in forma di bambino al di sopra di una ostia consacrata, ricusò di andarvi, dicendo che la sua fede non aveva bisogno di questa sensibile testimonianza per credere alla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, e che la fede di questo miracolo non avrebbe in lui accresciuta una fede incapace di accrescimento. Or questi sentimenti generosi, queste nobili disposizioni del cuore di sì santo personaggio, esprimono presso a poco i sentimenti e le disposizioni del cuore dei veri figli della Chiesa. Hanno essi tale certezza della verità di ciò che credono che non ne possono avere una maggiore, e che la grazia può bensì accrescere e perfezionare la loro fede, ma gli esterni argomenti non possono aggiungervi nulla di più; e perciò vi prestano tutta l’adesione, lutto l’assenso di che sono capaci: Absque dubitatione, fixa certitudine. Alcune volte Iddio, per accrescere il merito e purificar la virtù degli uomini veramente fedeli, permette che soffrano orribili tentazioni contro la fede. Questa luce divina, come la stella dei Magi e pel medesimo fine, si ecclissa, si nasconde, non brilla più del suo usato splendore nelle loro menti, non appresta l’usato conforto ai loro cuori. In preda a mille dubbi, a mille agitazioni, a mille incertezze, in cui non sanno abbastanza distinguere tra il soffrire la tentazione e l’acconsentirvi, tra il combatterla e il soccombervi, sembra loro di aver poco meno che perduta la fede, di essere stati abbandonati da Dio, come i Magi al vedersi abbandonati dalla stella. Ma queste tentazioni e questi dubbj siccome sono senza colpa, così sono per lo più senza pericolo. La luce della fede si è allora occultata sotto del moggio (Matth. V.), si è riconcentrata nel fondo della loro anima, si è nascosta, ma non si è estinta. Non la veggono essi più, non la sentono; eppure è la sua forza che li sostiene, è il suo calore che li infervora. Gli assalti del tentatore, simili a quelli che un nemico impotente dà agli esterni ridotti di una fortezza, e che lasciano la cittadella in sicuro, gli assalti del tentatore, dico, rimangono al di fuori del recinto del loro cuore: e la pena che sentono nel provarli, e gli sforzi che raddoppiano per respingerli, e la preghiera e l’ajuto celeste che implorano per trionfarne, mentre sono una prova della fermezza della loro fede, l’accrescono, la fortificano e la perfezionano; giacche come lo ha detto Gesù Cristo a S. Paolo, la virtù in mezzo ai pericoli del combattimento si fortifica. si perfeziona e trionfa: Nam virtus in infirmitate perficitur  (II Cor. XII). E difatti, oh come allora è più umile lo spirito, il cuore più raccolto, la preghiera più fervente! Ed è una cosa veramente ammirabile per chi ha occasion di osservarla e lume per intenderla il vedere queste anime veramente cristiane, in mezzo alle angustie, alle pene, ai timori del loro cuore, lungi dal cercare nei trastulli del mondo un compenso o un sollievo, distaccarsene ancor di vantaggio; e quanto sono più desolate di spirito, tanto più abborrire le lusinghe della carne, attaccarsi di più alla pratica del bene in un tempo che sembra fatto per disgustamele, e per quella strada, onde parrebbe che dovessero allontanarsi da Dio, stringersi sempre più a Dio, e mostrarsi quanto più desolate, tanto più fervorose e fedeli. La ragione di ciò si è, perché queste anime non desiderano già, ma temono che la fede, che loro è si cara, possa loro divenire sospetta. Paventano adunque perché amano; e le loro grandi paure e le loro grandi agitazioni sono grandi atti di amore; e l’amore di Dio è ciò che solleva ed unisce di più l’anima a Dio. Il filosofo profano, vero animale di gloria, che si applaudisce nel secreto del suo orgoglio di saper tutto, e non sa poi nulla di ciò che più è necessario a sapersi, il freddo razionalista, l’inetto sofista, elle non sa che cosa sia credere e perciò ignora ancora che cosa sia amare; costoro non intendono nemmeno i termini di questo linguaggio di fede: mollo meno intendono il fenomeno, il mistero di un’anima interiore che ama di più la sua fede e vi si fortifica; Dio che ne è l’autore, e vi si abbandona, a misura che vede questa fede più combattuta nella sua mente, e questo Dio più severo e che par che più si allontani dal suo cuore. Non intendono né il prodigio di una fede, tormento insieme e delizia dell’anima in cui risiede: né l’eroismo della stessa anima che questo stato medesimo di tanta ambascia preferisce a tutto ciò che il mondo può offrirle di più piacevole e di più lusinghiero. Ma che cosa la carne ha mai capito e potrà mai capire giammai dei secreti dello spirito, e l’orgoglio delle meraviglie della fede? – Mentre però è fermissimo nella sua adesione e nelle sue prove, la fede dell’anima veramente cristiana è ancora vivissima ne’ suoi trasporti. Quello che crede misterioso e lontano par che lo vegga chiaro e presente, come quello che spera pare che lo possegga. Entrate in una chiesa cattolica nel tempo dell’adorazione delle quarant’ore; mirate la calca di gente di tutte le età, di tutte le condizioni, di tutti i sessi, e perciò sì varia agli occhi degli uomini, e di cui frattanto la professione della medesima fede forma un sol cuore innanzi a Dio. Consideratene la compostezza nel portamento, il raccoglimento profondo, l’atteggiamento devoto; uditene le fervide preci, i colloqui confidenti, le aspirazioni amorose, i santi trasporti: e resterete indeciso se costoro credono al gran mistero che adorano o non piuttosto lo veggano; se essi s’intertengono col Dio nascosto sotto il velo del sacramento, o col Dio svelato nella sua gloria; se questo sia il mistero di fede per eccellenza, o non piuttosto quello della visione; e se questo mistero fa esercitare eroicamente o piuttosto mirabilmente corrobori ed avvivi la loro fede. Certo, che, se Gesù Cristo, invece di essere nell’Eucaristia velato sotto le specie del pane allo sguardo corporeo, e noto solo all’occhio della mente illuminato dalla fede, si trovasse assiso sull’altare in una maniera visibile e manifesta; il raccoglimento ed insieme la famigliarità, la confidenza e il rispetto, l’amore e la tenerezza del suo popolo a stento potrebbero essere maggiori. – La stessa vivezza di fede si scorge nei veri Cattolici rispetto agli altri misteri della religione. Ne parlano non come di cose misteriose, lontane e celesti, ma come di cose chiare, manifeste, visibili e presenti sopra la terra. Quindi quel linguaggio ammirabile proprio dei veri Cattolici, in cui Dio e i suoi attributi, Gesù Cristo e i suoi misteri, la Vergine e i santi, gii angioli e la loro protezione, i dommi del paradiso, del purgatorio, dell’inferno, ritornano in ogni istante: linguaggio in cui chi lo sa intendere ravvisa tradotta e manifestata al di fuori nella sua integrità e nella sua purezza la fede del cuore; ma una fede facile, spontanea, sicura, disinvolta, passata, dirò così, in natura; ma sì viva che s’avvicina gli Oggetti lontani, che toglie quasi il loro velo ai misteri, e considera come presenti, visibili, popolari, comuni, terrestri, i più grandi segreti del cielo. Oh grande, oh prodigioso effetto della certezza della fede Cattolica, degno dell’ammirazione del vero filosofo! Ma in questo ancora gli uomini che pensan col ventre o vivon di orgoglio non intendono nulla. E perché  non l’intendono e disperano d’intenderlo, si appigliano all’insensato e comodo partito di deriderlo; chiamano imbecillità, superstizione uno dei più certi miracoli dello spirito di fede; ed attribuiscono alla debolezza dell’uomo ciò che è l’opera della potenza di Dio. Ma che importa a noi ciò che essi dicono? Sappiamo noi ciò che crediamo, e come lo crediamo; ed un giorno la nostra semplicità, al presente derisa, comparirà quello che è veramente, sublime sapienza; ed al contrario, la sapienza orgogliosa dei nostri censori sarà ridotta al silenzio e data all’universo in ispettacolo di obbrobrio; convinta rea di volontaria follia, di profonda impostura, e come tale tremendamente punita!

GNOSI: LA TEOLOGIA DI sATANA (49) – LA VERA E LA FALSA FEDE -IV-

LA VERA E LA FALSA FEDE –IV.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ V. – Si dimostra la stessa verità colla storia delle moderne eresie, ovvero del protestantismo che tulle le contiene. Lutero e i suoi errori. Le sue prime tre prosapie dei SACRAMENTARJ, degli ANABATTISTI e dei CONFESSIONISTI, e loro principali diramazioni, che producono L’INDIFFERENTISMO e la disperazione di conoscere alcuna verità.

Or, come era naturale ad accadere, queste dottrine sì temerarie, sì licenziose, sì empie, corruppero i costumi principalmente dei grandi; alienarono i popoli dalle vie della dipendenza all’autorità ecclesiastica, rallentarono i legami dell’unità cattolica, e prepararono le mentì e i cuori al più grande, al più scandaloso, al più funesto di tutti gli scismi, che si disse protestantismo o riforma, e che nel secolo decimosesto strappò tante nazioni dal seno della Chiesa Cattolica per darle in preda a tutti gli errori e a tutti i vizj. – Il protagonista di questo dramma infernale fu Martino Lutero, già religioso e sacerdote, e poi, perché credutosi offeso ne’ suoi ambiziosi disegni dal Sommo Pontefice, apostata infame della fede e della pudicizia, essendosi unito in incestuoso e sacrilego matrimonio con Anna Bore, moniale professa da lui sedotta. Quest’uomo, il più turbolento, il più audace, il più dissoluto che fosse mai, poiché non interrompeva le sue tresche lascive che per immergersi nella crapula e nella ubriachezza, osò, come Riccardo, di attribuirsi una ispirazione ed una missione soprannaturale, colla sola differenza che, più modesto di Riccardo che si era detto figlio di Dio, contentossi Lutero di passare per famigliare del diavolo, asserendo di averlo sempre avuto a sua guida ed a suo consigliere. Fu dunque sotto l’ispirazione infernale che Lutero pose sossopra la Chiesa e gli stati, ingannò i principi, sedusse il clero, corruppe i popoli, calpestò le leggi umane e divine, e insultò il cielo e la terra, gli uomini e Dio: finché, non reggendo al rimorso destatogli dalla memoria di tante scelleratezze e ai tanti scandali, con un capestro si strozzò da sé medesimo, non potendo certo perire per più degne mani. – Questo discepolo del diavolo insegnò con Talentino e Manete che il libero arbitrio si è dall’uomo perduto affatto per lo peccato; con Eonomio, che la fede sola giustifica, e le buone opere non servono a nulla: e eoa Berengario infine, che nella Eucaristia il corpo e d Signore si trova colla sostanza del pane. Negò di più eoi valdesi l’infallibilità della Chiesa, l’autorità del sommo Pontefice, le indulgenze e il purgatorio. Abolì coi novaziani la confessione, e cogli ussiti la Messa e l’Estrema-Unzione. Tolse di mezzo le tradizioni come avea fatto Nestorio, Dioscoro, Eutiche. Disse, come già i donatisti, la Chiesa essere perita e risorta in lui e ne’ suoi seguaci. Condannò la verginità e i voti religiosi, come Gioviniano. E colla massima che aveva di continuo in bocca « Venga la serva se non è pronta la moglie, adsit ancilla, si nolit uxor, » avendo, a somiglianza di Carpocrate e di Valentino, permesso l’adulterio e il divorzio, fece del sacramento del matrimonio un contratto di affitto temporaneo a comodo e capriccio della voluttà.In compagnia però di questi errori Lutero sparse il seme di moltissimi altri, che i suoi discepoli non mancarono di far germogliare: di modo che il protestantismo, preso nél complesso di tutte le sette che lo compongono, è stato la restaurazione di tutte le eresie che lo avevano preceduto; e perciò rimonta a Lutero il delitto e l’obbrobrio di essere stato nei tempi moderni ciò che Lucifero fu dal principio del mondo: l’omicida delle anime, il patriarca di tutti gli empj ed il dottore di ogni empietà. Non sarà discaro però al lettore il vedere, qui, come in un quadro, le sette principali e i principali errori cui diede il natale questo turpe eresiarca; poiché io lo ripeto, nulla vi è di più istruttivo di questa vasta figliazione dell’errore, di queste divisioni degli eretici, per far conoscere di che è capace la ragione quando si sottrae dall’autorità della Chiesa, e per convincerci sempre di più che, in questa Chiesa, in cui abbiam la sorte di vivere, solo si trova coll’unità dell’insegnamento, la verità della fede.Dai tre primogeniti figli o discepoli di Lutero nacquero da prima tre prosapie di eretici: 1. quella dei sacramentari,che ebbe Carlostadio; 2. quella degli anabattisti, che ebbe Bernardo Rotmano; 3. quella dei confessionisti, che ebbe Filippo Melantone per padre; ed una quarta ancora ne venne alla luce dei sacramentarj, che ebbe Giovanni Calvino per fondatore. Poiché però la divisione è la legge inevitabile dell’errore, come l’unità è il carattere proprio della verità; nate appena queste quattro prosapie, si suddivisero in cento altre: ed ecco qui le principali diramazioni di ognuna.

PRIMA PROSAPIA DI LUTERO

I SACRAMENTARI.

Carlostadio, il primo dei discepoli di Lutero che, ad imitazione del maestro, prendesse sfacciatamente moglie, essendo sacerdote, veduto che Lutero avea negata la Messa, volle andare ancora più innanzi. E d associandosi Zwinglio ed Ecolampadio, rinnovò la prima eresia di Berengario, negando arditamente la reale presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia, e fermò la prosapia dei sacramentarj. Di costui dice Erasmo che morì strozzato dal suo Dio, cioè dal Demonio. – I capi principali però della sua setta essendo, non meno di Carlostadio, smaniosi di divenire anch’essi fondatori e maestri di eresie, si divisero, e quindi ne vennero:

1. I zwingliani, da Zwinglio, uomo facinoroso e fanatico, che, come aveva abbandonato Lutero di cui fu discepolo, si staccò ancora da Carlostadio con cui fu complice nell’impugnare i sacramenti. Formò perciò una nuova setta con dottrine sue proprie: che volendo propagar colle armi, ne fu vittima, giacché fu scannato in una mischia e buttato alle fiamme. I suoi seguaci furono detti significativi da ciò che Zwinglio avea insegnato, che nell’Eucaristia non vi è altrimenti il corpo ma il segno del corpo del Signore; e perciò coll’autorità che disse di avere ricevuto dallo Spirito Santo, avea anche cambiato le parole della consacrazione ordinando che nella cena sacramentaria, invece di « hoc est CORPUS Meum » si dicesse « hoc SIGNIFICAT corpus meum. »

2. I neutrali; che come era naturale ad aspettarsi, ridendosi di questo segno, sostennero non esser necessaria né l’uno né l’altra specie, molto meno tutte e due: aggiungendo, il sacramento non servire a nulla: la grazia ottenersi solo colla fede in esso, non col suo uso, che perciò fu abolito in questa sezione de’ sacramentarj.

3. Gli energiaci; che nell’Eucaristia ammisero la presenza non del corpo, ma dell’energia o virtù di Gesù Cristo, la promessa del soccorso e della grazia da ricevere.

5. Gli adessenarj; che al contrario vi confessarono la presenza reale del. corpo, ma gli uni nel pane, gli altri intorno al pane, i terzi col pane, gli ultimi sotto il pane: che però si sminuzzarono in quattro altre sette diverse.

6. Gl’iscariotti; che negarono che Giuda nell’ultima cena abbia ricevuto il vero corpo di Gesù Cristo.

7. I metamorfisti pei quali, come già per gli armeni, il corpo del Signore asceso al cielo si è metamorfosizzato in Dio; e perciò per costoro vi è nell’ostia un corpo divino che non ha nulla di carnale e di umano, cioè vi è un corpo che non è corpo: errore manifestamente condannato dalle stesse parole di Gesù Cristo, che ha chiamata l’Eucaristia il suo corpo e la sua carne.

SECONDA PROSAPIA DI LUTERO

GLI ANABATTISTI.

Botmano, avendo letto in una lettera di Lutero non doversi dare il Battesimo ai fanciulli, ma convenire aspettare perciò la maturità della ragione e della fede, incominciò ad insegnare doversi ribattezzare coloro che avevano ricevuto il Battesimo nell’infanzia; e fondò la setta degli anabattisti o dei ribattezzanti. Di questa setta furono Baldassare Pacimontano, Giorgio Davide, Tomaso Monetario, e Giovanni di Leida, uomini di un fanatismo e di una crudeltà al di là di ogni idea: che non avendo potuto meglio accordarsi fra loro di quello che avevan fatto con Lutero, da cui eran divenuti apostati, e di cui avevano sfigurate le dottrine, si suddivisero pure fra loro e crearono:

1. Gli adamiti; che, rinnovando le orge invereconde e dissolute di Riccardo, si unirono a vivere ignudi nelle selve, come Adamo ed Eva, vantando di avere acquistato l’integrità e l’innocenza originale.

2. Gli stebleri; che condannarono assolutamente nei Cristiani l’uso delle armi, anche del caso di una giusta difesa.

3. I sabbatarj; che, imitando gli Ebrei, si diedero a santificare il sabbato, invece della domenica; ed adorando solo il Dio creatore, proscrissero il culto e il nome di Gesù Cristo e dello Spirito Santo, cioè a dire abiurarono il Cristianesimo.

4. I clancularj; che sostennero la sola fede interna e nascosta bastare per l’acquisto dell’eterna salute, l’esterno culto nei templi e l’esterna confessione della fede non servire a nulla; e però richiesti se erano anabattisti, poterlo impunemente negare.

5. I manifestarj; che insegnavano tutto il contrario, e che dalla confessione di essere anabattisti facean dipendere la salute eterna.

6. I demoniaci; che, come gli antichi origenisti, credono la salvazione dei demonj.

7. I condormienti; che, per soverchio amore del nuovo evangelio, dormivano alla rinfusa uomini e donne in una stessa sala: ed al segno dato dal capo, colle parole crescite et multiplicamini, rinnovavano la comunione mistica dei seguaci di Carpocrate.

8. I comunisti; che fecero comuni non solo le donne e i figliuoli, ma ancora i beni, volendo realizzare la repubblica di Platone. Questa setta è rinata ai dì nostri collo stesso nome. Fourier, che ne è stato il restauratore, ha organizzato in modo le simpatie dell’amore che, a capo di un dato tempo, ogni uomo si sarà trovato con tutte le donne; ed ogni donna con tutti gli uomini di questa sublime società; in cui perciò al matrimonio cristiano è sostituita la promiscuità dei bruti. Or queste belve a due piedi che hanno abjurata l’umanità osano dirsi uomini e Cristiani!

9. I gementi; che, simili agli antichi euchiti, dicevano la divozione e il culto più accetto a Dio essere il piangere e il gemere.

10. Gli steimbakiani; da Martino Steinbak. Costui disse di essere esso pure lo Spirito Santo, che si era alla sua volta incarnato, come erasi di già incarnato il Figliuolo. Questo matto bestemmiatore, che sembra impossibile come abbia potuto avere seguaci, corresse ancora il Pater noster, togliendone le parole, qui es in cælis: poiché diceva Dio padre non essere altrimenti in cielo, ma fuori del cielo, ed attendere l’incarnato Spirito Santo Martino venisse ad aprirgli le porte. È però già un pezzo che non Martino a Dio, ma Dio a Martino ha aperte le porte…. ma dell’inferno!

11. I georgiani; che negarono la risurrezione della carne: detti davidici, perché Giorgio lor capo si era chiamato il secondo Davide, come Lutero si era detto il terzo Elia, ed il secondo Enoch. Oh egregia copia di profeti…. del diavolo!

12. I poligamisti; che sostenevano esser lecito ad un uomo di potere, allo stesso tempo avere più mogli, a guisa dei Turchi; come ne diede l’esempio Giovanni di Leida, che si fece re di Munster, e poi Arrigo VIII in Inghilterra, ambedue di crudele e impudica rimembranza.

TERZA PROSAPIA DI LUTERO

CONFESSlONISTI.

Melantone, autore della celebre confessione di Augusta, avendo in essa parte accresciuti e parte modificati gli errori di Lutero suo padre e maestro, divenne patriarca di eretici esso stesso e il più fecondo di tutti i suoi fratelli. Giacché i confessionisti, che lo riconoscono per fondatore, formarono subito quattro altre distinte prosapie, che si ripartirono ancora in moltissime altre sette. Le quattro prosapie subalterne furono quelle 1. dei confessionisti rigidi; 2. dei confessionisti molli; 3. dei confessionisti stravaganti; 4. dei confessionisti indifferenti, delle quali ecco le principali diramazioni:

1. Confessionisti rigidi, detti stoici.

Loro capo fu Mattia Illirico, autore principale dell’empia Storia Maddeburgense, e che, tra le altre pazzie, disse che il peccato originale è sostanza. I suoi discepoli furono designati col nome di rigidi, perché pria di tutto accolsero, come un secondo evangelio, tutte e singole le stravaganze, le turpitudini e le empietà di Lutero, senza ometterne una sola sillaba. Ma siccome sopraccaricarono quest’infernale evangelio con molti altri errori, così si divisero in:

1. Antinomj o nemici delia legge, che dicono l’osservanza della legge divina non essere né necessaria né utile ai seguaci del Vangelo.

2. Samosateni (nuovi), che trassero origine da Francesco David e da altri ministri transilvani: essi negano che la parola VERBO nella Trinità significa figliuolo e persona: e perciò negano l’augustissima Trinità e la divinità di Gesù Cristo.

3. Trideiti; che al contrario ammettono in Dio, come già i discepoli di Filopono, non solo tre persone, ma tre nature distinte: e perciò ammettono tre dei.

4. Infernali; che negano la discesa di Gesù Cristo al limbo; e, per far corto, negano ogni inferno.

5. Infernali-eterogenei; che, al contrario, non solo ammettono che vi è l’inferno e che Gesù Cristo vi è disceso, ma ancora che ne ha subite tutte le pene.

6. Antidemoniaci; che negano l’esistenza del demonio, dei mali spiriti e delle loro operazioni.

7. Ambsderffiani; che, andando più in là degli antinomj, riguardano le opere buone come perniciose all’eterna salute, e però le abborrono.

8. Antidiaforisti; che non riconoscono nella Chiesa alcuna giurisdizione episcopale, alcuna antica cerimonia o rito.

9. Antiosiandrini; che affermano la giustificazione dell’uomo, per mezzo della grazia, essere sol di parole, e non vera o reale.

10. Anticalviniani; che ammettono bensì la presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia, ma colla sostanza del pane e transitoria, cioè durante solo il tempo della cena; e perciò negano l’adorazione del Santissimo Sacramento.

11. Impositori delle mani; che riguardano come sacramento l’imposizione delle mani, anche dei laici.

12. Bisacramentarj; che ammettono solo due sacramenti; il Battesimo e la Cena.

13. Sacerdotali: che rigettano l’ordine, affermando tutti i Cristiani, uomini e donne, essere egualmente sacerdoti per poter predicare, amministrare la cena ed assolvere.

14. Invisibili; che, per liberarsi dall’impaccio di decidere qual sia la vera Chiesa tra la confessione di tante sette fra loro contrarie, anziché riconoscere la Chiesa vera nella cattolica comunione, amarono di dire che la vera Chiesa è invisibile, e che non si può affatto riconoscere.

15. Ubiquisti; da Giovanni Benzio, che, volendo ritenere da una parte la presenza reale coi melantonj, ed evitare la transustanzazione in grazia dei calvinisti, sognarono l’insulso errore dell’ubiquità, o della presenza reale del corpo del Signore in tutti i luoghi ed in tutte le creature.

2. Confessionisti molli.

Formarono questa prosapia tutti i seguaci di Melantone che procurarono d’interpretare la confessione d’Augusta e la dottrina di Lutero in un senso più prossimo a quello della Chiesa Cattolica; ma che, non essendo d’accordo fra loro in queste benigne interpretazioni, si divisero in

1. Biblisti, che sostennero dal Cristiano non doversi leggere altro libro fuorché la Bibbia senza interpretazioni o commenti, giacché lo Spirito Santo ne dà a tutti l’intelligenza. Interdissero perciò ogni altro studio; ed in Vittemberga fecero chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri; affermando dovere tutti i figli di Adamo, secondo la primitiva condanna, vivere del lavoro delle loro mani. Carlostadio e Melantone diedero da prima di ciò l’esempio, prendendo quegli a lavorare la terra, questi a molire il grano. Ma ben presto persuadendosi che, a conto fatto, il mestiere di dottore è più comodo di quello di molinaro e di bifolco, posero essi medesimi fine a queste stolide stravaganze per ispacciarne delle altre senza tanto loro disagio.

2. Adiaforisti o indifferenti; che affermarono non peccare chi viola, non meritare chi osserva le decisioni e le leggi della Chiesa, essendo queste cose affatto indifferenti.

3. Trisacramentarj; che ritennero tre soli sacramenti. il Battesimo, la Cena e l’Assoluzione. Melantone non seppe mai perdonare a Lutero l’avere abolita la confessione.

4. Quadrisacramentarj; che ai tre indicati sacramenti aggiunsero per quarto il Sacerdozio.

5. Lutero-calvinisti che pretesero conciliare la dottrina di Lutero con quella di Zwinglio intorno ai sacramenti, affermando la differenza fra questi due luminari della riforma essere solo di parole. E dicean vero; giacché in fondo ciò che afferma Lutero còlle parole, lo nega col fatto; ed in fondo è d’accordo con Zwinglio per distruggere ogni sacramento.

6. Semiosiandrini; che, volendo conciliare Osiandrio, che sosteneva la giustificazione reale, e gli antiosiandrini, che l’ammettevano solo di parole, dissero la giustificazione dell’uomo per mezzo della grazia esser solo di parole in questa vita, e reale nell’altra.

7. Maggioristi; da Giorgio Maggiore, che insegnarono l’uomo esser giustificato solo dalle proprie sue opere precedenti, perciò il Battesimo non giustificare i fanciulli.

8. Penitenziarj; che all’errore di Melantone, che sosteneva la penitenza consistere nel rimorso del peccato e nella fede del perdono, ne aggiunsero altri sette ancora e più grossolani.

9. Sincretizzantij che persuadono a tutte le sette di simulare una finta pace fra loro, non potendo averne una vera affine di riunire gli sforzi comuni contro la Cattolica Chiesa.

3. Confessionisti stravaganti.

La confessione di Augusta, come di poi avvenne dei trentanove articoli del protestantismo inglese, non tardò a divenire, in molte parti della Germania, legge di stato, che i governi imposero alle coscienze colla forza, non potendo persuaderla colla ragione. Per quieto vivere adunque coi principi, moltissimi discepoli di Melantone si adattarono a ricevere esteriormente questa confessione per regola di fede, mentre che nell’interno del loro cuore la detestavano e facevano sforzi comuni per distruggerla. Costoro furono di tutti i confessionisti quei che andarono più lungi dalle dottrine di Lutero; e costituirono perciò la prosapia dei confessionisti stravaganti. Ma siccome al solito, all’uscire dalla comunione confessionista, presero diverse vie, così formarono diverse sette, sotto il nome di:

1. Schuvenkfeldianij da Gaspare Schuvenkfeldio, che, avendo per domma comune che l’umanità di Gesù Cristo era stata generata dallo Spirito Santo, e che il Battesimo (la penna rifugge di scrivere questa bestemmia) è un bagno porcino (balneum suillum), si suddivisero in quattro altre sette.

2. Osiandriani, che opinarono che Gesù Cristo solamente colla sua divinità, escluso ogni soccorso della sua umanità ha compiuta la giustificazione del genere umano.

3. Stancarianij che sostenevano tutto il contrario: la giustificazione del genere umano essere stata opera della sola umanità di Gesù Cristo, e che la divinità sua non vi ha avuta alcuna parte.

4. Aniistancariani; che, opponendosi a tutte e due le sette precedenti, rinnovarono l’orribile bestemmia degli armeni, dicendo la giustificazione degli uomini essere stata sì fattamente l’opera delle due nature insieme che anche la divinità fu morta in Gesù Cristo in croce.

5. Nuovi pelagiani; che dissero il peccato originale essere una malattia, non una colpa; e perciò posero in paradiso Numa Pompilio, Catone, Scipione e tutti i gentili che hanno lasciato un nome nella storia; riprovati perciò da Lutero e da Zwinglio.

6. Nuovi manichei; che insegnarono tutti i mali accadere per una assoluta necessità e che Dio è l’autor del peccato, concorrendovi non solo permissivamente ma effettivamente ancora. Sicché nessun furto, omicidio, adulterio si commette dall’uomo contro il volere di Dio; ma tutti i peccati si commettono da Dio nell’uomo, e, più che l’uomo il vero peccatore é Dio. E perciò il peccato di Davide e il tradimento di Giuda essere stata opera di Dio tanto quanto la conversione di S. Paolo. Altri di loro poi portarono sì lungi la bestemmia che dissero che Dio ispira a bella posta pensieri rei all’uomo. Poiché però i semi di queste empie dottrine si trovano sparsi nelle opere di Lutero e di Calvino. può senza ingiustizia disputarne loro il primo magistero.

4. I Confessionisti indifferenti.

Questa orribile confusione d’idee, di giudizj, di credenze contradittorie, nate dalla stessa confessione d’Augusta, non erano certo una buona raccomandazione per farla credere il vero simbolo cristiano, la formola vera e sicura di ciò che bisogna credere e fare per piacere a Dio e salvarsi: ma tutto al contrario, era un argomento infallibile, un motivo possente per disperare di trovar nulla di certo e di vero nella luterana riforma, o in alcuna delle sette infinite in cui si era trasformata. Or la conseguenza che si avrebbe dovuto tirare da questo gran fatto pubblico e solenne dell’impossibilità di trovare una forma certa e vera di religione fuori della Cattolica Chiesa era questa: Dunque bisogna ritornar nella Chiesa che abbiamo abbandonata, ed in cui solo si trova una dottrina uniforme, stabile e costante e perciò vera e sicura. Ma questo ritorno sarebbe costato molto all’orgoglio ed alle passioni, che nell’apostasia della Chiesa avevano trovato tutto il loro conto. Perciò l’argomento che era stato sì buono a discoprire la grande decezione, l’orribile scherno, il nulla della riforma, non fu più buono per conchiuderne la necessità del ritorno alla vera Chiesa. La logica dell’errore, forte contro l’errore, disanimata si arresta in faccia ai sacrifici che imporrebbe la verità: e perciò procura di non vederla, di non accorgersene, per non essere obbligata a seguirla, come appunto un debitore fugge l’incontro di un creditore severo; e se lo vede da lungi, torce altrove il volto e cambia cammino. Perciò moltissimi confessionisti, che. da ciò che vedevano accadere, non potevano credere che nella confessione d’Angusta, seminario di tanti errori, di tanti scismi, di tanta rivalità, vi fosse il vero Cristianesimo: anziché ridursi a cercarlo, a riconoscerlo nella Chiesa Cattolica, in cui era sì visibile e sì facile a ritrovarlo, amaron meglio di dire che il vero Cristianesimo non si trova in nessun luogo; e quindi i confessionisti scettici e indifferenti, che, mentre erano ancor calde le ceneri di Lutero, si formarono in diverse sette, onde ebbero origine:

1. Gli anfidossi; che, per un avanzo di pudore, volendo conservare un’ombra di Cristianesimo, dissero che tutte le religioni sono buone per salvarsi, purché si creda che Gesù Cristo è morto per tutti.

2. I teodossi; che, più empj, ma almeno più franchi e più consentanei ai principj della riforma, rigettando senza tanti complimenti ogni verità cristiana, ritennero che per salvarsi bastava credere in un solo Dio creatore del cielo e della terra; e perciò, che il maomettanismo, il giudaismo e il Cristianesimo sono religioni ugualmente buone per andar salvo.

3. Gli eterodossi; che, avendo rinunziato ad ogni comunione cristiana e rigettando con eguale indifferenza il magistero di Lutero e di Melantone, di Zwinglio e di Calvino, di tutte le dottrine di sì bravi maestri ritennero quello solamente che ad ognuno parve bene di ritenere; e rimanendovi pertinacemente attaccati, con ciò solo credevano di potere salvarsi.

4. Gli autodossi; che facendo un passo di più di tutti i settarj precedenti, professarono che non era affatto necessario l’ammettere e ritenere alcuna dottrina di alcuna comunione cristiana; ma che vera e bastante per conseguir la salute era quella religione che ognuno si formerebbe col suo giudizio, né esservi alcun obbligo di restare immobile in questa religione, ma potersi variare secondo il proprio capriccio; in una parola, che bisogna render culto a Iddio come e quando ognuno l’intende.

5. Gli epicurei novelli; che, ancora più espliciti, dissero che non vi è alcun bisogno di render culto a Dio; giacché l’anima muore col corpo, come quella dei bruti, di cui però imitavan la vita.

6. I fratelli di Rosa Croce; nati da ciò che la setta degli anabattisti avea prodotto di più empio e di più impuro: che, fingendosi confessionisti in apparenza, furono atei in sostanza; e promettendo d’insegnare l’alchimia o l’arte di convertire in oro i metalli, attiravano alla loro setta gl’incauti; e fermativili per mezzo di orribili giuramenti, li iniziavano a tutti i misteri d’empietà.

7. I libertini; che ammisero che non vi é altro che un solo spirito immortale, e non solamente le anime umane, ma ancora gli angioli essere soggetti alla morte; che la morte di Gesù Cristo sulla croce fu solo apparente; che è lecito di dissimulare la propria religione e prendere alla circostanza quella delle persone con cui si tratta, per avere pace con tutti. Di questa setta parlando Io stesso Calvino, dice che era numerosa di molte migliaja fino mentr’esso vivea.

8. Gli atei; che, più empj, ma più progressisti e più conseguenti di tutti, insegnarono che non vi è alcun Dio, e che la religione è invenzione degli uomini.

9. I machiavellisti; che, convenendo interamente cogli atei nel negare ogni verità ed ogni religione, dissero però che una qualche religione bisogna ritenerla, come mezzo di politica, per contenere in dovere il popolo. Sicché l’ateismo puro è stata l’ultima conseguenza e l’ultima orribil parola del protestantismo. Così quando si abbandona la fede e l’autorità della Chiesa, sola depositaria sicura del vero, l’uomo che ragiona, di conseguenza in conseguenza, di errore in errore, è strascinato a non creder più nulla a negar tutto fino Dio stesso; ciò che fece dire a Fénélon che « tra la Religione Cattolica e l’ateismo non vi è alcun mezzo ragionevole, e la storia di tutte le eresie é una prova costante di questa verità. »

Beerlinkio, dopo aver tessuto il catalogo di queste sette di indifferenti o di atei (questi due vocaboli sono sinonimi) assicura che essi nel secolo XVII, in cui egli scriveva, erano sparse negli angoli più remoti della Germania, sebbene non cosi pubbliche che si potessero da tutti riconoscere: Inveniuntur hae omms et singula secta in omnibus Germaniæ angulis, licet non usque adeo apertæ ut ab omnibus dignosci queant. Aggiunge però che esse appettavano l’occasione. opportuna per prodursi alla luce del giorno e, come un fiume accresciuto dalle piene di torrenti devastatori,rompere in ogni luogo; Sed parum abest quin, ut ingens flumen torrentibus auctum, hae sectæ, data occasione in lucem apertissimam prorumpant (Theatr. vit. hum., art. HÆRETICUS) . E di fatti questa profezia ebbe nel secolo decimottavotutto il suo compimento.

§ VI. – Siegue la storia delle moderne eresie. Quarta prosapia di Lutero. Calvino, suoi errori e sua indole. Sette principali nate dal calvinismo. Il protestantismo inglese e suoi effetti. Scuola anticristiana del secolo decimottavo, e panteistica del nostro. La ragione umana, negando la vera fede, finisce col negare se stessa.

QUARTA PROSAPIA DI LUTERO

I CALVINISTI.

Ma la più maligna e la più infamemente feconda e feroce delle prosapie di Lutero, fu quella che questo eresiarca ottenne per mezzo di Calvino. Costui figlio negli errori e discepolo di Zwinglio, e nipote perciò di Lutero, superò cotanto il padre e l’avolo nell’abominazione dei costumi e nella intrepidezza della bestemmia che il suo nome ebbe il triste vanto di essere associato a quello di Lutero nel patriarcato infernale delle moderne eresie. Imperciocché, cacciato dalla Francia per le sue scelleratezze, e nella Svizzera battuto con verghe e bollato alle spalle con ferro rovente per delitto provato di sodomia, abbracciò da prima l’eresia per prender moglie, ecclesiastico che esso era; e poi, erettosi in caposcuola egli pure, oltre di aver con Zwinglio negati i sacramenti, o ridottili a pura cerimonia, e con Lutero negato il libero arbitrio e la necessità delle buone opere, disse che i figli dei battezzati nascono santi; che la grazia divina, una volta ricevuta, non si può più perdere; che Gesù Cristo mori disperato sulla croce: che né il Papa né i Vescovi né i sacerdoti hanno alcun carattere sacro; che l’unica regola di fede pel Cristiano è la Scrittura sacra, del cui senso ognuno è legittimo interprete. Quello però che non è stato notato abbastanza si è l’odio profondo onde quest’uomo indiavolato era animato contro la persona adorabile di Gesù Cristo, e che, non ostante la sua ipocrisia, traspira da tutti i suoi scritti. Dimodoché, se fosse vera la trasmigrazione delle anime, bisognerebbe dire che l’anima di Caino, dopo essere passata in Giuda, sia rinata in Calvino; e che più tardi lasciata nel sepolcro la maschera, sia ricomparsa in Voltaire più invereconda e più empia. Finalmente Calvino straziato per quattro continui anni, come già Erode e Nestorio, da malattia pediculare e da vermini, che gli divorarono, vivente ancora, tutte le carni, spirò, come era vissuto, bestemmiando Iddio ed invocando il diavolo. Tale fu il fondatore e padre della setta dei calvinisti, la più assurda, la più audace, la più spietata, la più dissoluta di tutte le sette moderne; che col favore di tutte le passioni, cui accordò la più grande licenza e la più grande impunità, si estese non solo in molti paesi della Germania, ma ancor nella Svizzera, nell’ Olanda e più tardi in Inghilterra. – Essa pure, come le precedenti, si suddivise e formò due ampie prosapie: una sul continente, l’altra nelle isole britanniche; che, prive di un capo comune, la cui autorità fosse da tutti riconosciuta, si sminuzzarono esse ancora in sette infinite. Le principali furono:

Calvinisti del continente.

1. I nuovi iconoclasti. Il vero spirito del calvinismo essendo quello dell’odio contro Gesù Cristo, la santissima Vergine e i santi, dovea farne necessariamente detestare le immagini. Tutti i calvinisti perciò sono iconoclasti o distruttori delle sacre immagini. Ciò non ostante però questo nome rimase a’ più fanatici fra loro, che formarono una setta particolare il cui scopo fu di abbattere col ferro e col fuoco i sacri templi, le croci, le statue, le pitture sacre ed ogni sensibile emblema del cristianesimo. Nulla difatti eguagliò il furore di questa setta infernale in questa guerra sacrilega a tutto ciò che è oggetto di venerazione, e risveglia le più care memorie al Cristiano. Ma ciò che distinse ancora di più questa dalle altre sette calviniste si fu che i nuovi iconoclasti non isbandirono dai sacri templi le immagini sacre che per sostituirvi le profane: poiché nel luogo delle immagini di Gesù Cristo e dei santi vi posero le loro e quelle delle loro donne e dei loro figliuoli negli atteggiamenti i più lascivi. Cosi già Simon mago, patriarca di tutti gli eretici, fece porre in chiesa il suo ritratto e quello della sua amica Sifone; e così pure, nel tempo della rivoluzione francese del 1793, furono i calvinisti puri quelli che posero sul tabernacolo della cattedrale di Parigi viva una prostituta ignuda. Questi orrori in sì diversi tempi furono dettati dallo stesso spirito.

2. Gli ugonotti, che a tutto il furore degli iconoclasti contro le sacre immagini aggiunsero l’odio contro ogni potestà anche civile. Perciò in Francia, ove particolarmente si stabilirono, eccitarono non solo scismi religiosi ma ancora rivoluzioni politiche, onde quel bel paese fu per più di cento anni straziato e ricoperto di stragi e di sangue.

3. I nuovi ariani. Tutti i libri di Calvino contengono i germi dell’arianesimo e sono una orribile congiura contro la divinità di Gesù Cristo, ma occulta e nascosta. Ora quello che Calvino aveva solo segretamente insinuato, Michele Serveto e Valentino Gentile lo insegnarono pubblicamente, e formarono in Isvizzera la setta de’ nuoci ariani. – Ma siccome non era giunto peranco il tempo in cui si potesse proclamare quest’orribile conseguenza della dottrina di Calvino, cosi Serveto fu fatto bruciar rivo da Calvino medesimo in Ginevra, e a Gentile fu mozzato il capo dagli stessi eretici in Berna.

4. I sociniani, da Lelio Socino senese, che passato in Isvizzera, vi si dichiarò ariano. Ma consigliato da Calvino e molto più istruito dal supplicio di Serveto. usò prudenza finché non fu libero di sé in Polonia; dove i grandi signori accoglievano tutti gli eretici che vi accorrevano da tutte le parti, ed assicuravano loro la più grande impunità. Il suo nipote però Fausto Socino recatosi in Zurigo per prendere l’eredità dello zio, coi beni e gli scritti di lui adottò anche gli errori, anzi li portò ancora più innanzi, dicendo che gli ariani erano stati molto discreti, giacché aveano molto, accordato a Gesù Cristo. Perciò fondò una nuova setta, che propagò nella Svizzera, in Polonia ed in Olanda; e fu impudente nel negare tutto ciò che prima di lui si era creduto dai Cristiani che ebbe il tristo vanto che il suo nome sia stato associato a quello di Lutero e di Calvino nella gloria infernale di aver voluto distruggere il Cristianesimo, come appare da quest’empia iscrizione posta sul suo sepolcro: « Lutero ha levato il tetto di Babilonia, Calvino ne ha atterrate le pareti; ma Socino ne ha distrutte le fondamenta. »

5. I mennonisti; sul principio non furono essi che avanzi della sentina degli anabattisti, che, fuggendo da Munster dopo la caduta del preteso regno di Giovanni Leida, furono da Mennone raccolti nella Frisia. Conservarono essi alcun tempo le dottrine di Botmano, ma poi avendo adottate anche quelle di Calvino, e non essendo al solito più fra loro d’accordo, si divisero in trenta novelle sette.

6. I gommarani dall’olandese Gommaro, che avendo estratto da Calvino i dommi più spietati e più disperati intorno alla predestinazione, alla grazia, al peccato originale, li insegnò pubblicamente e si fece molti seguaci. Dai gommarani nacquero più tardi in Olanda pure …

7. I giansenisti; che ritenendo le stesse dottrine, vi aggiunsero la maschera dell’ipocrisia, pretendendo di passare per buoni cattolici e membri della Chiesa, mentre abbattono le fondamenta del Cattolicismo e negano l’autorità della Chiesa. Coll’ajuto però della simulazione e della perfidia si sono insinuati in tutte le contrade cattoliche e vi hanno cagionato un immenso danno non solo alla Religione ma ancora alla politica. A sentire questi impostori, non vogliono essi che la dottrina sana e la morale pura. In fatti però colle loro atroci dottrine ispirando un secreto odio di Dio e la disperazione di salvarsi, per una via contraria a quella che tendono gli atei manifesti, conducono l’uomo al medesimo termine, ad abbandonarsi, cioè, a tutti i vizj e non credere alcuna verità.

8. Gli arminiani: da Giacomo Anninio, acerrimo avversario di Gommaro e dei suoi dommi ingiuriosi alla bontà di Dio e distruttori di ogni sentimento di fiducia e di cristiana carità nell’uomo. Fermissimo egli però nell’errore calviniano, che ad ognuno è lecito l’interpretare a suo modo la Scrittura, ed obbligato a soffrire le interpretazioni delle altre sette per avere perdonate le proprie, proclamò in Olanda la dottrina della tolleranza universale di tutte le sette e di tutti gli errori, cioè l’indifferenza e lo scetticismo assoluto in materia di religione; che formò poi tutta la filosofìa e la religione che Bayle ha professata nel suo Dizionario. Perciò gli arminiani, detti ancora rimostrami per una rimostranza da essi fatta agli stati generali, furono ragionevolmente sospetti di socinianismo.

9, I worstiani, da Worstio professore di Leida, uno dei più arditi bestemmiatori di Dio, cui negò la trinità, l’immutabilità, l’immensità, e fece ad accidenti materiali soggetto. Oneste bestemmie prepararono la via a Benedetto Spinoza per fabbricarvi il suo orribile sistema del panteismo; onde, a forza di sostenere che tutto è Dio, si viene a distruggere ogni idea della divinità.

10. I contro-rimostranti o rigidi calvinisti; che, per opporsi agli arminiani, si posero a difendere fino alle sillabe la dottrina di Calvino; ma non essendo d’accordo nell’intenderla, si divisero subito in tre sette diverse.

11. I pescatoriani, da Giovanni Pescatore, che con una rara modestia disse che Dio avea a lui conceduto il suo spirito in maggiore abbondanza che a qualunque altro uomo per intendere bene la Scrittura. Quest’uomo, si pieno dello spirito di Dio, però bestemmiò come un demonio: asserendo che Gesù non meritò nulla colla sua vita, ma solo colla sua morte e pei soli eletti; che la dannazione, o la salvazione è l’effetto della necessità. Ma siccome pose per cerimonia essenziale la frazione del pane nella cena, ed alterò in altri punti la purezza della dottrina di Calvino, dai calvinisti di Francia e di Germania fu colla sua setta scomunicato come eretico.

Calvinisti d’Inghilterra.

Arrigo VIII, di cui è stato detto che non risparmiò mai l’onore di alcuna donna alla sua lascivia, né la vita di alcun uomo al suo orgoglio, marito inverecondo e crudele di diciannove mogli, che fece quasi tutte decapitare pel delitto di avere amato in lui un mostro a forme umane; volendo ripudiare la sua prima legittima moglie per isposare una prostituta, ed opponendovisi, come era di ragione, il Sommo Pontefice, fece scisma dalla Chiesa ed abbracciò la riforma luterana, la quale, per raccomandarsi al favore e alle passioni dei grandi, avea per primo articolo conceduto il divorzio, o l’adulterio legale. Chiamò Arrigo varj eresiarchi dalla Germania e dall’Olanda, e col loro ajuto formò la nuova religione anglicana, di cui egli si costituì capo e pontefice. Ma una religione non si forma così facilmente dall’uomo come un impero. Gli eresiaschi di tutte le comunioni e di tutte le sette, principalmente calviniste, venuti in Inghilterra dal continente, e tutti d’accordo in ripudiare la Chiesa Cattolica, non convennero però nel riconoscere la religione d’Arrigo e dei suoi degni successori: e però si scissero da prima in due grandi divisioni, quella dei calvinisti protestanti e quella dei puritani.

1. I calvinisti-protestanti professarono una dottrina mista di luteranismo e di calvinismo. Questa setta formossi d’individui di tutte le opinioni delle innumerabili sette luterane e calviniste del continente. Ad essa unironsi

2. Gli anglo-papisti, ossia l’ammasso di ecclesiastici apostati e di nobili dilapidatori e loro degni aderenti, che, per godersi gl’immensi beni tolti al clero cattolico, conservarono una specie di gerarchia ecclesiastica, e molte cerimonie della Chiesa Cattolica affine d’ingannare più facilmente il popolo. – Queste due sette, per partecipare alla protezione ed alle largizioni ecclesiastiche, di cui si fece arbitro assoluto e dispensatore il monarca, si rassegnarono a riconoscerlo per pontefice e capo legittimo della religione, protestando con giuramento di credere « che al principe secolare si deve ubbidienza cieca in materia di fede. » Una certa restrizione a questo giuramento degradante ed assurdo, particolarmente per uomini che avevano rigettata l’autorità del Pontefice della Chiesa universale, ve l’apposero

3. I formalisti, che sostennero che formalmente la podestà ecclesiastica risiede nel ministero della parola, e solo protestantivamente ed in quanto all’esteriore esercizio si deve riconoscere nel principe. Ma siccome essi ancora prestavano in pubblico il giuramento di supremazia religiosa al potere civile, salvo il diritto di ridersene in privato, così tutte e tre queste grandi sette, con tutte quelle in cui si suddivisero all’infinito, esteriormente non ne formarono che una sola. Lo stesso avvenne dei …

4. Puritani; essi in principio non furono che calvinisti puri, che con una cieca ostinazione sostennero tutti e singoli i dommi di Calvino, e particolarmente quello di un’assoluta libertà di coscienza e di non riconoscere alcuna autorità in materia di fede. Più tardi vi si unirono:

5. I presbiteriani, che sostengono che ogni Cristiano è presbitero. Quindi ancora vi aggiunsero:

6. Gli arminiani, 7. i pescatoriani, 8. i worstiani, 9. I sociniani inglesi e scozzesi, e tutte quante le sette dette dei dissidenti perché non riconoscevano né in privato né in pubblico la religione legale del parlamento e la supremazia spirituale del re. Tutti costoro, facendo causa comune coi puritani, formarono come una setta comune. Questa orribile riunione di tutte le sette le più fanatiche e le più turbolenti sosteneva essere dalla natura del protestantismo, come la stessa parola abbastanza lo indica, il protestare contro ogni autorità in materia di religione per attenersi alla pura parola delle Scrittore interpretate secondo il privato senso di ognuno, come i patriarchi della riforma lo avevano insegnato; perciò i protestanti-anglicani essere contradittorj a sé medesimi nel pretendere che si riconoscesse da tutti per vera la chiesa anglicana, dopo che essi pure aveano rigettata la Chiesa Cattolica, e che si accettasse per capo della religione il re da uomini che ricusavano di riconoscerne il Papa. Nulla eravi di più ragionevole di questo discorso. Ma il re-pontefice rispondendo col cannone e colle forche ai raziocini dei teologi, si venne alle armi, e le due grandi divisioni dei protestanti-anglicani e dei puritani si fecero una guerra ostinata e crudele. Mentre adunque i veri Cattolici, perseguitati e cerchi a morte come bestie feroci, rinnovarono, colla loro costanza nella vera fede, gli esempi di eroismo dei primi martiri, in faccia ad Arrigo, ad Elisabetta, a Giacomo, a Gromwel, che rinnovarono gli orrori degli antichi tiranni: i dissidenti ricoprirono il paese di stragi e di sangue; in che, dopo più di cento anni di scismi, di ribellioni, di guerre in cui il sangue dei re bagnò i patiboli, dopo tante riforme di una religione non mai formata, la religione anglicana, ridotta ai famosi trentanove articoli e sostenuta dalla forza delle baionette, del potere e dell’oro, trionfò della forza dei raziocinj, la sola che era rimasta ai dissidenti; e sopra fondamenta di fango insanguinato sorse ad insultare il pubblico buon senso e la verità quell’impasto mostruoso che si disse chiesa-anglicana-stabilita, opera di tante usurpazioni, di tante rapine, di tante apostasie, di tanti sacrilegi e di tanto sangue. – Ma la forza, che mantenne una forma esteriore di religione, non poté produrre il convincimento interiore, la concordia e la fede. Le dissidenze adunque si manifestarono nella stessa comunione anglicana e presero a lacerarne il seno, come le vipere si rivolgono a mordere la loro madre. In tutte le quattro funeste prosapie di Lutero con tutte le loro molteplici discendenze vi ebber seguaci, che crearono mille altre sette più libere, più stravaganti e più bizzarre, come in particolare quelle dei quaccheri e dei metodisti. Quelle però che vi si moltiplicaron di più furono le diverse sezioni dei confessionisti indifferenti, di cui si è parlato. Una gran parte di coloro che, per potere essere ammessi alla rappresentanza nazionale o ai pubblici impieghi, prestavano giuramento di supremazia al re e di fedeltà ai trentanove articoli erano allo stesso tempo notoriamente anti-trinitarj, sociniani, materialisti o atei. Il giuramento divenne un affare di pura cerimonia, che non impose alla coscienza alcun dovere; e col favore della libertà della stampa si venne a tal licenza di opinare e di credere che fra gli stessi anglicani, nella stessa famiglia, fu difficile trovare due individui che avessero le stesse credenze in materia di religione. La chiesa anglicana perciò, restata come stabilimento politico, fu a poco a poco demolita dai suoi stessi figli come dottrina teologica e come comunione religiosa; e sulle sue rovine sorse la scuola o setta anti-cristiana dei libertini, che numerò tra i suoi padri i Collins, i Bolinbroke, gli Hume, i Gibbon, i quali negarono ed attaccarono tutto il Cristianesimo. – Tali furono e sono tuttavia i discendenti di Lutero, di un padre malvagio figli peggiori, che con nomi comuni si chiamano protestanti perché protestano contro la vera fede della Chiesa: evangelici perché dicono di professare il puro Vangelo, essi che l’un dopo l’altro hanno distrutto tutti i dommi e tutti i precetti del Vangelo: e finalmente riformati perché spacciano di avere riformata la Chiesa, essi che per dottrine o per costumi moltiformi, difformi, informi e deformi l’avrebbero dalle fondamenta distrutta, se le porte dell’inferno avessero potuto prevalere contro di essa, e non fosse essa l’opera che Dio sostiene, come Dio è che l’ha stabilita. – Infatti la scuola di empietà di cui si è detto, ultimo parto ed espressione ultima del protestantismo inglese, trapiantata in Francia da Voltaire, il Lutero della filosofia, partorì un Rousseau, che ne fu come il Calvino, e quindi i D’Alembert, i Diderot, i D’Argens, i La-Metrie, i D’Holbach, gli Elvezi. Costoro discordanti di opinioni fra loro, e solo uniti da un odio comune contro la Religione Cristiana, anzi contro ogni sorta di religione, associandosi a tutti quelli che avean di già abbracciate le empietà dei confessionisti indifferenti, degli illuminati di Germania e dei libertini della Svizzera, formarono la setta filosofica del secolo decimottavo, di sempre turpe ed esecranda memoria: che, non contenta di avere negata la Trinità, Gesù Cristo, il Cristianesimo, rinnovò con una intrepidezza infernale, quasi nei medesimi termini, tutti gli errori, tutte le turpitudini, tutti i delirj. Tutte le assurdità della filosofia pagana. Imperciocché negò ogni culto, ogni divinità, ogni legge morale, l’immortalità dell’anima, anzi l’anima assolutamente e perfino la ragione dell’uomo, asserendo l’uomo non differire dai bruti se non perché ha le mani. Oh prova tremenda, oh lugubre monumento dell’impotenza di edificare, della funesta energia di distruggere della ragione umana, allora quando, abbandonate le vie dell’autorità e della fede, pretende colle sole sue forze crearsi la religione e la verità. – Che avvenne però da questa orribile apostasia della fede? Gibbon, autor non sospetto, dimostra che l’indifferentismo o l’ateismo pratico in cui sotto gl’imperatori degenerò in Roma la filosofia pagana, terminando di corrompere i costumi, fece discendere il popolo romano sino al fondo della turpitudine e della barbarie, e partorì quei portenti di lascivia e di crudeltà di cui parla con orrore la storia augusta e che, più che le armi dei barbari, fecero crollare dalle fondamenta l’impero romano e vendicarono il mondo. Ora le stesse cause produssero gli stessi effetti nel secolo decimottavo. L’indifferentismo o l’ateismo, nato dalla filosofia ereticale del protestantismo moderno, e propagato in Francia da empi sofisti, vi produsse quella orribile licenza di pensare e di vivere che andò a terminare colle turpi e sanguinose orge del 1793, collo sconvolgimento e la rovina della società. I filosofi pagani però, spaventati dalle orribili conseguenze dell’ateismo, per salvare un avanzo di credenza onde sostenere la società pagana caduta in dissoluzione e in ruina, fabbricarono, sotto il nome di neoplatonismo, nelle scuole filosofiche di Roma e di Alessandria, un certo misticismo panteista che fu l’ultimo errore che la ragion pagana oppose al Cristianesimo. Ora così pure i filosofi anti-cristiani di oggidì, atterriti dai tremendi effetti dell’ateismo, in cui è finita la filosofia degli eretici, volendo mantenere un’ombra di ordine sociale senza il Cristianesimo, hanno sognato anch’essi il panteismo, lo hanno eretto in iscuola ed in religione: orribile religione! che non è se non il composto del sacrilegio e dell’assurdità: e in cui l’orgoglio e la voluttà, all’ombra del domma « che tutto è Dio, » divinizzando la ragione e la carne umana, credono di poter delirare e scapricciarsi senza rimorso. E questo pure è l’ultimo errore che la ragione ereticale oppone al Cattolicismo. – Ma poiché questa orribile dottrina «che l’universo con tutti gli esseri che lo compongono non sono che una sola e medesima sostanza, un solo e medesimo Dio » è distruttiva d’ogni idea vera di Dio; il dire che tutto ciò che esiste è Dio equivale a dire che Dio non esiste in alcun modo. Il panteismo adunque dei sofisti anti-cristiani dei nostri giorni non è in fondo che l’ateismo mascherato dello scorso secolo. Sono essi simili agli antichi epicurei, ai quali Tullio rimproverava che, ammettendo Dio colle parole, lo toglievano col fatto: Verbis quidem ponunt deos, re tollunt. I.a sola differenza che passa tra i sofisti atei del secolo decimottavo e quelli del decimonono si è, che quelli erano atei e lo confessavano, questi lo son niente meno e non osano di comparirlo. Quelli, negando Dio, aveano finito col negare l’uomo, facendone un bruto; questi, dicendo che tutto è Dio, negano nientemeno anche l’uomo, facendone un Dio. Perciò, tolta la circostanza, che i moderni panteisti all’orribile dell’ateismo aggiungono la maschera dell’ipocrisia ed il delirio di un immenso orgoglio, in tutto il resto la loro dottrina, non meno che quella dei loro padri funesta, finisce al medesimo termine di negare il sentimento, la coscienza, l’intelletto, la ragione, l’individualità, la persona propria dell’uomo. Ciò è a dire che la ragione umana, a forza di ragionare, di negazione in negazione, ha finito col negare sé medesima; che, pretendendo indovinare coi soli suoi lumi ogni verità, non ha trovato che tutti gli errori, giacché l’ateismo tutti li comprende; che, essendosi alzata come un gigante verso del cielo, ha finito collo stramazzare in terra nel fango come un vilissimo insetto; che, ripromettendosi d’intendere i misteri di Dio, è divenuta a sé medesimo un mistero affatto incomprensibile; che in luogo della luce, cui si augurava di giungere, non ha fatto che addensare sopra di sé tenebre sopra a tenebre e perdersi nella loro oscurità; che, vantandosi di ergere colle sole sue forze l’edifìcio del vero, non ha ammassate che mine che l’hanno oppressa; e analmente che, sognando di crear poco meno che tutto, la religione, la società, Dio stesso, ha esaurita tutta la sua attività funesta nel distruggere, e non ha terminato questo suo tremendo lavorio di demolizione che distruggendo persin sé stessa, Ecco a che è buona la ragione senza la fede!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (48) – LA VERA E LA FALSA FEDE – III –

LA VERA E LA FALSA FEDE –III.-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ IV. – Si dimostra la facilità di errare della ragione umana, che si fida di sé sola, colla storia dei principali errori onde gli antichi eretici, lungi di avere coi loro privati lumi scoperta alcuna nuova verità cristiana, hanno, per quanto da loro dipendeva, distrutte tutte quelle che la rivelazione divina avea fatto conoscere.

Ma l’insegnamento cattolico, che apparisce sì prezioso, si bello, sì nobile, sì magnifico, confrontato coll’insegnamento della filosofia, confrontato coll’insegnamento dell’eresia, apparisce ancor più magnifico, più nobile, più bello e più prezioso. A buon conto, come i filosofi non attinsero dalla loro privata ragione, ma dalle credenze e dai sentimenti universali le poche verità di cui nei loro libri menaron gran vanto, così gli eretici non hanno essi scoperto coi loro lumi le poche verità cristiane di cui fan pompa nei loro simboli o nelle loro confessioni, fabbricate all’ombra del potere civile, all’officina dell’interesse, della voluttà e dell’orgoglio; e, come S. Gregorio lo ha avvertito, non hanno essi conosciuto per privata ispirazione divina ciò che ritengono di vero e dicono di grande e di sublime intorno alla cristiana dottrina, ma per mezzo delle tradizioni universali della Chiesa, e da lei ricevono tutto il bene, essi che combattono contra di lei: Si non nunquam hæretici vera quædam et sublimìa loquuntur, non hæc ipsi divinitus percipiunt, sed quod ex Ecclesia! contentione didicerunt (Moral.). Del resto, come si è notato degli antichi filosofi, così può dirsi ancora degli eretici, che essi non hanno per se stessi conosciuto nulla di vero e di buono che nella Chiesa non si conosca prima di loro; non essendovi alcuna verità cristiana di cui si possa dire che, ignota nella Chiesa, è stata da tale eretico ritrovata e scoperta. Ma come la filosofia pagana, così l’eresia, se non ha inventata e scoperta alcuna verità, ha però inventati tutti gli errori. E la Scrittura, abbandonata al giudizio privato degli eretici, non è riuscita regola più sicura di fede di quello che lo fa la natura abbandonata al privato giudizio dei filosofi. Come la filosofia pagana non lasciò intatta alcuna verità primitiva, cosi l’eresia non ha lasciato illesa alcuna verità cristiana. E questi inventori orgogliosi di verità non sono stati che fabbri funesti di tutti gli errori: sicché se ramane tuttavia nel mondo la rivelazione cristiana nella sta integrità e nella sua purezza, ciò non è merito degli eretici, che han fatto di tutto per distruggerla; ma è l’effetto della potenza di Dio, che l’ha mantenuta e la mantiene nella sua Chiesa. – Non rincresca perciò al lettore di vedere qui indicati alcuni dei parti mostruosi nati dall’orgoglio ereticale unito alla voluttà. Non ai soli teologi, ma a tutti i fedeli è utile il conoscere in quali orribili stravaganze, in quali sacrileghe follie è le sì gran volte caduta la ragion cristiana che ha voluto formarsi la regola del credere sotto l’ispirazione dell’Io solamente, il più fallace di tutti i consiglieri: dappoiché nulla è più capace di far sentire il pregio dell’insegnamento e dell’autorità tutelare della Chiesa e di confermare il vero Cattolico nella sua fede.

Simone, che S. Ireneo chiama il padre di tutti gli eretici (anno 43 dell’era cristiana), appena si eresse in giudice dell’insegnamento cattolico, che col Battesimo avea dagli stessi Apostoli ricevuto, con un eccesso di orgoglio, che solo lucifero poté inspirargli, spacciò di essere egli stesso Dio uno e trino: che, come Padre era apparso in Samaria: come Figliuolo, nella Giudea; come Spirito Santo in Roma: e che in qualità di Figliuolo, solo apparentemente e per burla, aveva patito ed era morto in croce per man dei Giudei. Ebione e Cerinto (an. 103) bestemmiarono che Gesù Cristo, nato da Maria e da Giuseppe alla foggia degli altri uomini, non era nulla più che uomo e che solo pel battesimo era divenuto un Cristo spirituale. Il mondo è però obbligato a siffatta eresia. Essa ci ha procurato il Vangelo di S. Giovanni, che questo grande Apostolo scrisse appunto per confutarla; il Vangelo di S. Giovanni, dico, il capo d’opera dell’ispirazione divina, di cui ogni tratto, ogni parola è una prova luminosa della divinità del Signore nostro. – Saturnio, Basilìde e Carpocrate (an. 488), non paghi di avere rinnovato la eresia di Cerinto, vi aggiunsero altre enormi stravaganze. Carpocrate in particolare, di mostro di lussuria, ne divenne maestro, proscrivendo il matrimonio tra i suoi seguaci ed affermando che l’anima, solo per poter gustare ogni genere di voluttà, si unisce al corpo. Perciò volle che tra i suoi fossero comuni le donne e che, dopo la cena, smorzatisi i lumi, ognuno si avvicinasse alla donna in cui si fosse alla cieca imbattuto; e questa orribile promiscuità dei sessi, da cui abborrono gli stessi bruti, chiamò la comunione mistica,- e così gettò le fondamenta della setta abbominevole degli gnostici (parola che significa i conoscenti), che si è in questi ultimi tempi riprodotta sotto il vocabolo di setta degli illuminati. – Valentino (an. 203) insegnò essere più dèi; Gesù Cristo aver portato la sua carne dal cielo; non aver fatto che passare, come per un canale, pel ventre di Maria; dalle lacrime del creatore esser nate tutte le sostanze create, e dal suo riso la luce. Volle comuni anch’esso le mogli: giacché la lussuria è stata la salsa più ordinaria di tutte le eresie. Proscrisse la verginità; e perché non ne rimanesse alcun esempio, bestemmiò che anche Gesù Cristo, anche gli Angioli hanno avute spose carnali. – Cardone, uno dei discepoli di Valentino, e Marcione, discepolo di Cardone, superarono nell’intrepidezza della bestemmia e della stravaganza i loro turpi maestri. Cardone si era contentato di ammettere due dèi, uno buono e l’altro cattivo. Marcione ne volle tre: uno visibile, l’altro invisibile, il terzo medio. Negò che il corpo di Gesù Cristo fosse un vero corpo umano. Insegnò che tutte le azioni sono indifferenti, e che la loro bontà o malvagità non dipende che dall’opinione degli uomini; e come era naturale ad aspettarsi, fece virtù del vizio, e del vizio virtù e poi disse che i sodomiti o Giuda son salvi, e tutti i patriarchi dannati. Quel Marcione che, come narra S. Girolamo, avendo un giorno incontrato in Roma S. Policarpo, vescovo di Smirne e poi martire, ed avendogli detto: Policarpo, mi conosci? S. Policarpo gli rispose: Ti riconosco pel primogenito del diavolo. – Taziano (an. 219) capo degli encratiti ossia astinenti, avendo ammesso egli pure, come Cardone, doe principi creatori, Dio e il demonio, disse che la donna e la vite sono state create dal demonio. Condannò adunque l’uso delle nozze e del vino: il perché i suoi scolari pretesero consacrare coll’acqua 1’Eucaristia. Ma Dioscoro. uno di loro, per calmare in alcun modo la collera delle donne, insegnò che anche il corpo dell’uomo dall’ombilico in giù è stato creato dal demonio, e solo la parte dall’ombilico in su è stata creata da Dio: Iniqua mentis asellus. – Ma se Taziano avea abbassato la donna sino all’ inferno, Montano (an. 220), capo dei catafrigi, la sollevò fino al cielo nelle persone delle sue feminette Priscilla e Massimilla, di cui fece due profetesse: e perché il loro esaltamento non pregiudicasse alla propria dignità, nel tempo stesso che proclamò profetessa la donna, ebbe la modestia di proclamarsi esso stesso lo Spirito Santo. Disse Gesù Cristo solo uomo per natura, ma per virtù superiore ai Profeti. Ove molti eretici han negato il Battesimo pei vivi, Montano battezzava anche i morti. Proclamò illecite al cristiano le nozze; e portò a tanto la crudeltà ed il sacrilegio che formava il pane da consacrarsi di farina impastata col sangue di un bambino di un anno, estortogli a forza di punture di ago. Ed è un esempio tremendo della miseria dell’uomo quando a sé  stesso si abbandona, che anche il grande Tertulliano siasi lasciato sedurre da sì turpe e sì stravagante eresia! – Origene (an. 227), avendo perduto il cervello colla filosofia di Platone (chiamato dai Padri il patriarca di tutti gli eretici e il condimento di tutte l’eresie), disse ineguali le tre Persone divine, eterna l’origine dell’anima, temporanea la pena dei reprobi, possibile la salute eterna dei demonj. Novato (an. 254), negando esistere nella Chiesa la potestà di rimettere i peccati commessi dopo il Battesimo, tolse ogni speranza al pentimento e non lasciò ai peccatori che la disperazione per conforto. – Elexeo (an. 267) ammise un Dio e due Cristi, uno superno, l’altro terrestre. Lo Spirito Santo, secondo questo matto bestemmiatore, non è stato che la sorella di Gesù Cristo e della stessa forma e statura, avendo tutti e due sei miglia d’altezza e ventiquattro di larghezza. Oh ragione umana! siffatte follie han trovato seguaci. – Sabellio (an. 261), ritenendo la parola trinità, ne negò il domma, dicendo che il Padre, il Figliuolo e lo Spirito Santo non son che tre nomi, o vocaboli diversi di una sola e medesima persona. Da esso ebbero origine ì patripassiani, ossia coloro che hanno insegnato che il Padre Eterno ha patito ed è morto in croce sul Calvario. Prassea ed Ermogene furono di questa scuola; ma quest’ultimo aggiunse: il corpo di Gesù Cristo essere ora collocato nel sole, la materia eterna, e la promiscuità delle donne, domma prediletto di quasi tutti gli eretici. – Paolo Samosateno, che volle farsi adorare come un angelo (an. 269), fu però nelle dottrine e ne’ costumi un demonio. Non ammise in Dio che una sola persona; disse che Gesù Cristo non è stato che puro uomo, e che, pel solo profitto che fece nella virtù, conseguì la figliolanza divina; figliolanza di grazia però e non di natura, simile a quella onde tutti i giusti si chiamano figli di Dio. – Manete (an. 278) rinnovò la dottrina dei due principj coeterni e dei due dèi, l’uno buono e l’altro cattivo, che chiamò Socia o il principe della materia, e da esso disse creato il corpo dell’uomo. Perciò asserì esso pure, come Marcione, che Gesù Cristo non ebbe un vero corpo umano, ma apparente: ammise con Origene le anime coeterne a Dio: negò il libero arbitrio. Rigettò l’antico Testamento, come opera del Dio cattivo, ritenendo solo il nuovo, come opera del Dio buono. Abolì il Battesimo, ritenendo l’Eucaristia, ma da prendersi in un modo che il pudore e l’orrore non ci permettono d’indicare. Negò la risurrezione dei corpi; stabili il paradiso de’ suoi nella luna; e disse che il plenilunio accade quando le anime accorrono alla luna in gran moltitudine, e che cessa quando una barchetta viene a sollevar la luna dal peso di tanta gente per iscaricarla nel sole. E perché sapesse ognuno che egli avea imparate sì grandi e si belle cose a buona scuola, non mancò di proclamarsi per quello spirito paracleto che Gesù Cristo avea promesso di mandare sulla terra per farla felice: ciò che per altro non impedì al re di Persia di fare scorticar vivo Manete. I suoi seguaci adoravano gli elementi ed il demonio: ammisero la metempsicosi; si astenevano dal mangiar carne; condannavano l’agricoltura ed il matrimonio, affermando che l’anima di chi pianta un albero, dopo morte, rimane a questo stesso albero legata, e di chi prende moglie passa in corpo di donna. Non condannavano però l’uso legittimo del matrimonio che per abbandonarsi a sfoghi contro natura: perché sia vero che degli eretici anche l’astinenza e la castità sono sempre sospette. – Ario (an. 314) imparò da questi maestri, che lo avevano preceduto nel cammino della bestemmia contro Gesù Cristo. a negarne la divinità, dicendolo pura creatura, come disse lo Spirito Santo, creatura di Gesù Cristo. Eunomio ed Ezio, furono di questa setta; ma agli errori del maestro aggiunsero ancora queste altre bestemmie: in Dio esservi tre sostanze o nature diverse, come l’oro, l’argento e il bronzo; non esser necessarie le buone opere, ma bastare la sola fede per andar salvo; i vescovi e i semplici sacerdoti esser eguali. Esser vani i sacrifici pe’ defunti, né doversi osservare i digiuni, né le feste della Chiesa. Lutero rinnovò mille anni dopo gli stessi errori. Tra le sette innumerabili in cui si divise l’arianesimo (an. 361) vi fu quella ancora dei duliani, dalla parola greca dulion, che significa servo; perché, per disprezzo, così questi scellerati chiamarono Gesù Cristo. – Apollinare (an. 375), senza negare le divine Persone, le disse, come Origene, ineguali, chiamando grande lo Spirito Santo, maggiore il Figliuolo, massimo il Padre. E volendo alterare il domma dell’incarnazione, come avea fatto di quello della Trinità, insegnò che il Verbo, nel farsi uomo, prese un corpo senz’anima: che la carne stessa che prese da Maria era increata e dell’essenza della stessa Trinità: dal che fu strascinato a dire che Gesù Cristo anche nella divinità aveva patito e che il Verbo nell’incarnarsi erasi trasmutato in corpo ed avea cambiata natura. – Mentre però gli apollinaristi negavano, siccome il maestro, al Figliuolo un corpo umano e terreno, gli antropomorfiti (an. 393), uomini al pari di Vadio loro maestro, grossolani di mente, turpi di cuore, uman corpo attribuivano ancora al Padre, affermando che la divina natura ha figura e forma umana come abbiam noi. La storia delle eresie presenta un fenomeno singolare, ed è, che le sette che sembrano essersi meno delle altre allontanate dalle dottrine del Cattolicismo sono però quelle che più delle altre hanno odiato e perseguitato i Cattolici. Tali sono oggi i Greci scismatici e i giansenisti, che detestano la Chiesa Cattolica più degli stessi Turchi e Giudei. E tali furono già i donatisti (an. 408), le cui persecuzioni atroci contro al clero cattolico dell’Africa richiamarono la memoria di quelle di Nerone e Diocleziano. Questi settarj. ammettendo il Figlio al Padre consustanziale, lo fecero però minore del Padre. Ma non essendo giusto che i bestemmiatori di Gesù Cristo risparmiassero la Chiesa sua sposa, sostennero ancora che la vera Chiesa non esisteva che nel loro partito; che i sacramenti sono santi ed efficaci quando sono amministrati dai santi della loro tempra. Si legge di alcuni di loro che, avendo buttata ai cani la divina Eucaristia consacrata da un sacerdote cattolico, furono dagli stessi cani divorati. In fine, chiamavano martino il suicidio, o la morte violenta che si davan da sé o si facevan dare da altri: bene inteso però che vi si preparavano santamente coll’essersi saziati di ogni genere di lascivia, prima di andarvi: dimostrando così il nesso misterioso che vi è tra il contentare la carne ed odiare se stesso, tra la vita del bruto e la morte del disperato. – Nessuno però, in fatto di stravaganza e di empietà, andò in quest’epoca (an. 408) tant’oltre quanto Priscilliano. La sua dottrina fu un impasto mostruoso delle assurde e turpi bestemmie de’ manichei e degli gnostici. Disse il mondo creato dal demonio; le anime, della stessa sostanza di Dio: la Trinità essere solo nei vocaboli; il corpo umano composto secondo i dodici segni dello zodiaco; il mondo reggersi dal fato. Vietò il cibarsi delle carni degli animali, ma non fu nemico di altre carni, perché permise il divorzio ed osò di pregare tutto nudo in mezzo ad un branco di femmine, senza dubbio per rendere la sua preghiera più santa, più raccolta, più efficace e soprattutto più pura. Non bisogna separare da questi entusiasti della lascivia i messaliani. entusiasti dell’orgoglio, detti ancora sataniani, perché, ammettendo più dèi, ma non adorandone che un solo, rendevano però culto a Satanasso per non riceverne nocumento. Si chiamarono ancora euchiti o pregatori, perché sostenevano che il Battesimo non toglie i peccati, se non come il rasojo recide i peli della barba, lasciandone la radice, e che la preghiera è il solo mezzo di estirparli; e perciò pregavano buona parte del giorno. Spacciavano di ricevere, nel tempo della quiete o del sonno, rivelazioni dalla Trinità, delle quali ognuno faceva parte a’ compagui: poi tutto ad un tratto rizzatisi in piedi, incominciavano a cantar salmi, detti perciò ancora psallian: poi vedevansi tremare, danzare e saltare, diceano essi, sopra i demonj. – Questi matti sono stati i maestri ed i modelli dei quaccheri moderni. Dopo essere stato cotanto bestemmiato il Figlio di Dio, non poteva essere dagli eretici risparmiata la madre (an. 409-425); ed ecco Nestorio che, partendo dall’errore di Anastasio, che in Gesù Cristo vi erano due persone, l’una divina e l’altra umana, e che non fu egli sempre Dio, ma che la persona divina a lui si aggiunse per merito dopo la nascita, negò che la SS. Vergine si dovesse dire madre di Dio: degno però di morire colla lingua rosa de’ vermi. Ecco Elvidio negare a Maria la verginità dopo il divino suo parto, facendola Madre di quegli Apostoli che nel Vangelo sono detti fratelli del Signore, perché ne eran cugini. Ecco Gioviniano insegnare esso pure che Maria non restò vergine dopo aver dato alla luce Gesù Cristo; e poi aggiungere: uguale essere il merito della verginità e del matrimonio: uguali i peccati in malizia; uguali per tutti nel cielo le ricompense; e l’uomo che ha ricevuto con vera fede il Battesimo divenire impeccabile. Ed ecco infine Vigilanzìo, uomo corrottissimo, che, pensando che tutti i corpi dei cristiani e dei santi fossero cosi impuri ed immondi siccome il suo, dopo avere proscritto il celibato e derisa la verginità, negò il culto delle reliquie dei martiri, abolì come vana l’invocazione dei santi e della loro regina. A questa scuola hanno attinta la loro fede, nelle stesse materie, i luterani, i calvinisti, gli anglicani, degni discepoli di un sì edificante maestro! – Ma a completare l’istruzione de’ moderni eretici contribuirono anche altri antichi maestri. Tale si fu Pelagio (an. 402), che negò la trasfusione del peccato originale e però la necessità del Battesimo pei bambini affin di conseguire la vita eterna. Perciò asserì ancora che la concupiscenza, come pure la morte dell’uomo, è opera di Dio e non l’effetto del peccato; che la grazia altro non è che il libero arbitrio, e perciò può l’uomo adempire la legge di Dio senza quel soccorso soprannaturale che si dice propriamente grazia; in fine, che è inutile la preghiera, ed impossibile che un eletto pecchi anche volendo. – Mentre i pelagiani combattevan la grazia, Eutiche sorse ad attaccare di nuovo l’incarnazione. Disse che Gesù Cristo non ebbe carne simile alla nostra, ma carne portata dal cielo e fatta solo passare pel seno di Maria; che non fu egli altrimenti vero uomo, ma uomo in cui di due nature si formò una sola natura ed una sola persona; e perciò che in lui anche la divinità fu crocifissa. L’eresia di Eutiche però, come è proprio di tutte l’eresie, degenerò ben presto in molte altre. Poiché Giulio di Alicarnasso (an. 533) insegnò l’unica natura, sognata da Eutiche, essere stata in Gesù Cristo, sin dalla concezione, impassibile. – Temisto, capo degli agnoiti, sostenne (an. 066) che a quest’unica natura di Cristo molte cose furon dal Padre velate e nascoste. Gli armeni (an. 600) vi aggiunsero che la carne di Gesù Cristo era la carne della divinità, e che il corpo della divinità si consacra nella Eucaristia. In conseguenza di ciò adorano la croce con un sol chiodo fisso nel mezzo per indicare che la sola divinità fu crocifissa. I monoteliti finalmente, sull’autorità di Ciro vescovo e di Sergio monaco, dall’errore di una sola natura in Gesù Cristo tirarono la conseguenza che non vi era in lui che una sola volontà ed una sola operazione. Agli attacchi però contro l’incarnazione vennero subito appresso nuovi attacchi contro la Trinità e Dio stesso; perché nella religione cristiana tutti i misteri sono insieme legati come i fondamenti di uno stesso edificio. Filippo (an. 606), capo dei tritelli, insegnò che le tre divine persone sono tre dèi. Anastasio imperatore alle tre persone ne aggiunse una quarta, dicendo non doversi ammettere trinità, ma quaternità in Dio; e i venusiani, discepoli di Paterno, rinnovando le turpi assurdità di Dioscoro. insegnarono che Dio non ha creato l’uomo che dalla testa sino all’ombelico, e che il resto del corpo umano è opera del demonio: e che però basta conservarsi puro dal capo sino allo stomaco, e che, pel rimanente del corpo, abbandonare ad ogni libidine l’opera del demonio non è alcun male; dottrina comoda alla voluttà e che, come era naturale a succedere, non tardò ad avere tra la sentina dei voluttuosi molti seguaci. – Queste orribili dottrine foggiate dagli eretici intorno alla Trinità, a Gesù Cristo, alla pudicizia, divulgatesi per tutto l’Oriente, prepararono al maomettanismo la via, che, secondo l’osservazione giustissima di Leibnizio, è nato dall’arianesimo. Imperciocché dalla bestemmia di Ario, che Gesù Cristo non era Dio, avendo concluso Maometto (an. 626) che il figlio di Maria avea fallata la divina missione, si disse da Dio incaricato esso stesso per compierla, e si diede per un altro messia e pel maggiore dei profeti. Rimonta perciò ad Ario e suoi consorti nell’empietà il tristo vanto di avere nel maomettanismo, di cui gettarono il seme, partorita la più sporca, la più stupida, la più assurda, la più crudele di tutte le eresie. Comprese Maometto che una dottrina che lusinga la carne non può mancare di essere accolta con favore dalle passioni, principalmente se è sostenuta dalla spada. Perciò questo solenne impostore, colla spada in una mano e col codice della voluttà nell’altra, minacciando la morte e dando la impurità per morale in questa vita ed un luogo di prostituzione per paradiso nell’altra, si trasse dietro molti popoli dell’Asia, che le dottrine profondamente lascive, de’ manichei avevano sì bene iniziati per una religione voluttuosa; e riuscì facilmente a stabilire e propagare una setta che è stata il flagello e l’obbrobrio dell’umanità. – Nemmeno gl’imperatori cristiani d’Oriente, andarono affatto immuni dal contagio maomettano, e senza dichiararsi apertamente per Maometto adottarono non poche delle sue funeste dottrine. In fatti Leone isaurico imperatore (an. 715) fece coi maomettani a gara per distruggere in tutto l’impero il culto de’ santi, le immagini sacre e i cattolici che le veneravano; detto perciò iconomaco ed iconoclasta, ossia distruttore delle sacre immagini, e riguardato come padre legittimo dell’eresia dello stesso nome, che modernamente i calvinisti hanno rinnovata. – Ma un secolo dopo (anno 821) Michele Balbo, imperatore esso pure d’Oriente, fece dimenticare gli scandali con cui Leone avea macchiato la santità dell’impero, dando degli scandali ancora maggiori, insegnando, dall’alto del trono vana la dottrina delle pene eterne, fanatici i profeti, favolosi i demonj. Giuda il traditore essersi salvato; e per farsi più facilmente perdonare dalle passioni tante bestemmie, camminando sulle tracce di Maometto, insegnò ancora la fornicazione essere un atto indifferente. – Il secolo decimo fu un secolo d’ignoranza e di tenebre. Il sapere ristretto fra cherici e fra monaci, fra loro ancora contava pochi seguaci. Ma, come avverte il Bellarmino, la previdenza divina dispose che non nascessero allora novelle eresie; e nella barbarie de’ tempi il deposito della fede rimase puro ed intatto nel mondo cristiano. Gli scandali però di cui l’impero greco fu per più secoli il teatro avevano rallentato da un pezzo i legami della chiesa di oriente con quella d’occidente; e il clero greco, non meno che gl’imperatori, smanioso di sottrarsi da ogni censura, da ogni freno del sommo Pontefice, consumò nel secolo undecimo (an. 1048) quello scisma sciagurato di cui Fozio avea gettato le fondamenta nel nono, e che quattro secoli di tirannia musulmana, che dal 1452 gravitano su questo popolo infelice, par che non abbiano fatto espiare abbastanza. – Mentre questi errori accadevano in Oriente, in Occidente erano, come si è già notato, scorsi quasi tre secoli senza novelle eresie, e fu riservato a Berengario (an. 1058) il turbare questa .pace della Chiesa. Insegnò egli da prima che nell’Eucaristia non vi è il vero corpo e sangue di Gesù Cristo, ciò che poi hanno insegnato i calvinisti più tardi: che nell’Eucaristia col corpo del Signore rimane la sostanza del pane, dottrina rinnovata quindi dai luterani; infine, che il Battesimo non si deve amministrare che agli adulti, errore disotterrato quindi dagli anabattisti; e così quest’infelice eresiarca gettò le fondamenta del protestantismo moderno. Ma altri duci ancora più funesti e più audaci fornirono armi al protestantismo, e ne apersero e ne facilitaron la via. I principali furono i valdesi che, uniti agli albigesi, insegnarono: la sola Scrittura sacra avere autorità in materia di fede, e quello solo doversi ammettere delle dottrine dei Padri e delle decisioni dei concilj che è alla Scrittura conforme; come se la Chiesa cattolica abbia mai insegnato o preteso d’insegnare cosa contraria alla Scrittura! I sacramenti essere solamente due; il Battesimo e la Cena; l’Eucaristia doversi anche ai laici amministrare sotto ambe le specie, ed essi pure poterla consacrare. Le indulgenze essere inefficaci: i sacrifici, per le anime dei defunti, inutili; le dedicazioni delle chiese, le memorie dei santi, le feste, i digiuni, le cerimonie sacre, ritrovati del diavolo: di più dissero lo stato religioso un cadavere; i voti di castità un incentivo al vizio; ai preti doversi dar moglie; al sommo Pontefice non doversi alcuna obbedienza. Questi medesimi errori Giovanni Wicleffo li rinnovò in Inghilterra; Giovanni Uss e Girolamo di Praga in Boemia ed in gran parte della Germania; Ruisol in Olanda: aggiungendovi di più, l’anima morire col corpo, ed il Cristianesimo intero essere una follia. Ma i Fraticelli in Italia e Riccardo in Francia li condirono colla solita salsa del libertinaggio, agli eretici sì gradita, usando delle donne in comune dopo la cena e l’invocazione dell’almo spirito. Se non che Riccardo, aggiungendo alla bestemmia il delirio, si disse il Figlio di Dio per nome Adamo: d’onde gli Adamiti, che, a somiglianza di Adamo innocente, andavan nudi; e che, vantandosi figli di Dio, vivevan da bruti; salvo che, pria di servirsi di una donna, ne chiedevano ad Adamo licenza. Delirj, adunque, turpitudini, infamie, empietà di ogni genere: ecco le sole scoperte che in quindici secoli ha fatte, ecco le sole dottrine che ha insegnate 1’eresia, ed ecco a che è stata buona la ragione umana quando si è separata dall’autorità della Chiesa e dall’insegnamento della vera fede!

GNOSI: LA TEOLOGIA DI sATANA (49) – LA VERA E LA FALSA FEDE -IV-

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (47) – LA VERA E LA FALSA FEDE -II.-

LA VERA E LA FALSA FEDE –II.

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

§ III. – La ragione umana abbandonata a sé sola incontra più facilmente l’errore che la verità. I filosofi antichi non conobbero che pochissime verità: e queste non le scoprirono, non le inventarono colla loro ragione, ma, attintele dalle tradizioni generali, non fecero che oscurarle con molti errori. Si dimostra ciò colla storia delle orribili stravaganze con cui alterarono la prima e somma verità dell’ esistenza di un Dio e quella dell’immortalità dell’anima. 1 filosofi, fanciulli ignoranti in confronto anche de’ più rozzi Cristiani, che, istruiti alla scuola della fede, sono sapientissimi nelle cose divine. Infatti che accade egli mai ove l’uomo, lasciata la luce celeste, che mai non manca a chi con umiltà la implora, non prende per guida, nella ricerca del vero, che la luce terrena? S. Tommaso lo da detto: il terzo disordine, o l’effetto il più ordinario e il più comune delle investigazioni della privata ragione, si è che in unione di una qualche verità dell’ordine morale ed invisibile che si giunga a scoprire per questa via si adottano per lo più molti errori, e che spesso per questo mezzo si trovano più errori che verità: lnvestigationi rationis humana plerumque falsitas admiscetur. Mirate gli antichi filosofi: giunsero ben essi, è vero, a conoscere molte verità col solo lume della ragione. Ma primieramente queste verità sono state scarsissime e rare. Leggendo i loro libri, vi sembra viaggiare pei deserti dell’Arabia, nei quali bisogna camminare più giorni pria d’incontrare un sol vegetabile, un sol fiore, un sol filo d’erba che vi richiami alla mente l’idea della natura animata; ed altro non vedesi che un cielo sempre ardente al di sopra di un pelago di sterili e volubili arene. E chi può mai leggere senza una noja immensa, per esempio, i tre libri di Cicerone, dei fini, i cinque delle Quistioni tusculane? Che fecondità di parole, ma che sterilità di cose! Che copia di erudizione, ma che mancanza di certezza! Che eleganza di stile, ma che scarsezza di verità! Non siamo estranei alle fastidiose letture: abbiamo divorati, nel corso de’ nostri studi, non pochi volumi in foglio, la cui vista scoraggia gli animi più fermi: pure confessiamo che nessuna lettura ci è stata più tediosa e più pesante di quella degl’indicati trattati; e senza l’eleganza del linguaggio con cui sono scritti (tristo e misero compenso a chi cerca le idee), ci sarebbe stato impossibile il venirne a capo.In secondo luogo, queste medesime verità, già sì scarse e sì rare, alcuni, dice Tertulliano, le conobbero per un puro caso; come un naviglio sorpreso di notte dalla tempesta, abbandonandosi in balia del mare e dei venti, nella stessa oscurità e nello stesso scompiglio degli elementi, giunge alcuna volta per caso ad afferrare un porto; o come chi si trova in una stanza oscura, a forza di girarvi intorno a tentone, per un caso felice pure trova alcuna volta la parte da uscirne: Plane non negabimus aliquancto phìlosophos juxta nostra sensisse; non numquam enim et in procella, confusis vestigiis cœli et freti, aliquis porltìs ostenditur; non nunquam et in tenebris adilus quidam et exilus deprehenduntur cæca felicitate (De anima 2). Altri poi trovarono certe verità perché suggerite loro dal senso intimo di cui Dio si è degnato di dotare l’anima umana, e dal senso comune della natura divenuto pubblico in tutti gli uomini: Sed et natura pleraque suggeruntur, quasi de publico sensu, quo animam Deus donare dignatus est (ibid). Cioè a dire che la pagana filosofia non ha fatto che prendere le verità universalmente conosciute (perché leggi della natura morale appropriarsele e spacciarle enfaticamente come suoi ritrovati: Philosophia leges natura opiniones suas fecit (ibid). Lo stesso afferma S. Agostino: le belle e vere cose, dice egli, che i filosofi han detto intorno al culto di Dio. non le hanno altrimenti inventate; ma come l’oro e l’argento si cava dalle miniere, così queste verità le hanno essi ricavate dalle miniere delle tradizioni e de’ sentimenti universali, che la provvidenza divina ha sparso dappertutto: Apud philosophos, de Deo colendo, multa vera inreniuntur: tamquam aurum et argentum quod non ipsi instituerunt, sed de quibusdam quasi metallis divima providentiæ, qua ubique infusa est, eruerunt (De doctr. Christi, cap. 30). E Cristiano Drutmaro aggiunge: Tutte le parti della greca filosofia si trovano nella sacra Scrittura; e tutti i più belli pensieri nella stessa Scrittura erano stati esposti pria che i sofisti del secolo pensassero a farne il vanto della loro eloquenza. I filosofi non hanno nulla del proprio. Il poco di vero che han detto lo hanno ricevuto dalla liberalità di Dio: Omnes partes philosophiæ græcorum etiam in divina Scriptura inveniuntur. Et omnes modi locutionum ante fuerunt in Scriptum quam ad sophistas seculares pervenirent. Qui si quid habuerunt, Dei dono habuerunt (in Matth. II). Un Dio supremo, creatore e regolatore dell’universo; un’anima che nell’uomo sopravviva al corpo per ricevere l’eterna pena o il guiderdone eterno che in vita si ha meritato; una legge morale che ha Dio stesso per Autore, che obbliga tutti gli uomini e la cui violazione ed osservanza costituisce il peccato o la virtù; queste ed altre simili verità, più o meno deturpate dalle favole, erano conosciute ed ammesse in tutto il mondo Pria che Platone avesse cominciato a disputarne in Atene, e Tullio in Roma. Poste adunque queste idee primitive ed universali che S. Paolo chiama « rivelazione divina, Deus enim illis manifestavit (Rom. 1), » fu facile ai filosofi, come aggiunge lo stesso Apostolo, dalla considerazione del mondo visibile elevarsi a conoscere qualcuno degli attributi del Dio invisibile: lnvisibilia Dei per ea qua facta sunt intellecta conspiciuntur (ibid.). E perciò S. Tommaso, le cui espressioni sono sì precise e sì esatte, nel famoso passo che di sopra abbiamo riportato (§ 2), delle stesse verità accessibili alla ragione umana non dice che i filosofi colla ragione le han trovate, ma che, essendo di già note, le han dimostrate colla ragione: Philosophi de Deo multa DEMONSTRATIVE probaverunt, ducti naturalis lumine rationis. Lo stesso S. Tommaso poi intorno alle verità conosciute da’ filosofi, fa una osservazione che per moltissimi è passata inosservata, cioè a dire che c’inganniamo col credere che i filosofi, ammettendo un Dio, ne abbiano avuto l’idea che noi ne abbiam ricevuta dalla fede di un Essere cioè adorno di tutte le perfezioni e del quale non si può pensar nulla di più perfetto: Non omnibus, etiam concedentibus Deum esse, notum est quod Deus sit id quo majus cogitari non possit (Contr. gentil, lib. I , cap. 2). Lo stesso può dirsi delle opinioni dei filosofi sull’anima. Quei moltissimi fra loro che ne han riconosciuta l’esistenza e la durata, sono stati lontanissimi dal crederne la spiritualità e l’immortalità come noi la crediamo. L’immortalità dell’anima, per quelli che l’ammettevano, era solo la sola permanenza dopo la soluzione del corpo: Permanere animos putamus (Cic); ma non avevano alcuna idea o molto oscura ed erronea intorno al suo stato di perfetta felicità, se è ammessa alla visione ed al consorzio di Dio e di profonda miseria eterna, se ne è separata. E sopra i premj e le ricompense della vita futura, non ostante le favole che le deturpano, si trovano idee più giuste e più vere presso i poeti che presso i filosofi; perché i primi hanno consultato più la tradizione universale, i secondi più han seguita la privata loro ragione. Che se per tutto ciò non vi è alcuna verità dell’ordine morale di cui si possa dire che, essendo ignota affatto nel mondo, il tal filosofo l’abbia scoperta: non vi è al contrario alcuna assurdità o errore di cui, come dice lo stesso Cicerone, non si possa indicare un qualche filosofo che ne è stato inventoree maestro: Nihil est tam absurdum quod non dicatur ab aliqua philosophorum. Per un passo che fanno i filosofi nel sentiero del vero, si veggon fare mille cadute nell’errore, e simili a’ cagnolini, che si addestrano a camminare su due piedi e che nel più bello del piacer che vi fanno di vedersi ritti all’umana, ritornano al naturale, ricadendo con le zampe e col muso verso la terra: i filosofi, mentre si fanno ammirare in atto di professare alcune verità, si veggono subito riprendere la direzione erronea, propria della ragione abbandonata a sé sola, e ricadere in miserabili errori.Sicché S. Paolo poté benissimo compendiare tutta la storia della filosofia de’ gentili in queste due gravi e sentenziose parole: « i Greci, cercando sapienza, stoltezza rinvennero: Græci sapientiam quærunt, et stulti facti sunt. ». Non vi è nulla di più vera di questa decisione di S. Paolo poiché, ad eccezione di poche verità tradizionali e comuni che non hanno aspettato i filosofi per essere conosciute, tutta la filosofia gentile intorno a Dio, all’anima, ai doveri, alla vita futura, non è che stoltezza, come se questo ne fosse il luogo, ci sarebbe facilissimo il dimostrarlo. Per dirne però alcuna cosa capace di farci sempre meglio sentire il pregio altissimo dell’insegnamento divino in faccia alle miserie dell’insegnamento umano non ci rincresca di osservare qui il tremendo quadro che nelle opinioni dei filosofi gentili intorno a Dio ci ha lasciato Cicerone filosofo gentile esso stesso, e i cui libri filosofici sono come la somma e il manuale di Tutta la gentile filosofia. Ora i tre grandi libri che Tullio consacra alla trattazione di sì grave argomento possono considerarsi come un monumento compassionevole della impotenza della ragione abbandonata a sé sola per giungere alla rivelazione di Dio, per giungere alla verità senza miscela di errore, e della necessità della rivelazione di Dio per conoscere veramente Dio. – Né già aspetta Cicerone che la forza de’ principj ed il calor della disputa lo strascini ad attaccare la presunzione della ragione umana, che crede di bastar sempre ed in tutto a sé stessa; ma dal bel principio della discussione solennemente dichiara che la questione che imprende a trattare è essa sola un argomento senza replica, per provare che il principio della filosofia pagana è l’ignoranza, ed il risultato più sicuro ne è l’errore e il dubbio; poiché dice: « Fra le moltissime questioni che la filosofia ha agitate sovente senza terminarle giammai, una delle più difficili a definirsi e delle più oscure ad intendersi si è appunto la questione della natura degli dei; poiché tante sono intorno ad essa e sì varie e sì ripugnanti fra loro le opinioni degli uomini più dotti che questa sola prova è più che bastevole a farsi conchiudere che il principio di ogni filosofia è la stoltezza: Cum multæ res in philosophia nequaquam satis explicatæ sunt, tum per difficilis et perobscura quæstio est de natura deorum; de qua tam variai sunt doctissimorum hominum tamque discrepantes sententiæ ut magno argumento esse debeat, causam idest principium philosophiæ esse inscientiam (De nat. deor., lib. 1). » Così, oh cosa veramente singolare e strana! l’introduzione ad una disputa filosofica, da un filosofo intrapresa, in un’assemblea di filosofi è un pubblico e solenne anatema contro la filosofia. Fa quindi Tullio, in persona dell’interlocutore Vellejo, un osservazione importante, cioè, che se vi è una certa concordia fra la maggior parte de’ filosofi nell’affermare che vi è un Dio, ciò accade perché, nell’ammettere questa sentenza, si è consultata la tradizione e il sentimento della natura, che insegna che un Dio esiste: ma che quando si è voluto ragionare sulla sua natura, la ragione di questi stessi filosofi, unanimi nell’ammettere Dio, si è trovata sì debole, e le loro opinioni sì contradittorie e sì stravaganti che non si possono solamente riferire senza sentirsi muovere la bile e sconcertarsi lo stomaco.Poiché, avendo negato tutto e tutto combattuto, non è certamente colpa de’ filosofi, se tuttavia rimane nel mondo alcun vestigio di religione, di pietà e di virtù, mentre dal canto loro han fatto di tutto per distruggerle coll’avere insegnato che gli dei non si danno alcun pensiero delle cose umane: Plerique qui, quod maxime vero simile est, et quo OMNES, DUCE NATURA, vehimur, deos esse dixerunt, tanta sunt in varietate et dissensione constituti ut eorum molestum sit enumerare sententias. Sunt qui omnino nullam habere censent humanarum rerum procurationem deos; quorum si vera sententia est, quæ potest esse pietas, quæ sanctitas quæ religio? E poi continua così: « Udite, o amici, non già portenti e miracoli di filosofi che ragionano, ma stravaganze di febbricitanti che delirano: Audite portento et non disserentium philosophorum, sed somniantium. La stupidità de’ platonici ha del prodigioso. Per essi Dio è e deve essere di figura rotonda: perché questa figura è la più bella, e Dio deve avere la figura più bella e più perfetta. Or che mi potrà rispondere Platone se lo asserisco che Dio è di figura piramidale o conica, , perché a me queste figure sembrano più perfette e più belle? Per Talete, Dio è quell’intelligenza che coll’acqua ha raffazzonato ogni cosa: e mentre vuole che Dio sia incorporeo, lo unisce all’acqua come ad un corpo, per poter con esso operare. Anassimandro opina che gli dei a diverso intervalli nascono, e muojono siccome gli nomini. Anassimene stabilisce che l’aria é Dio: ch’esso è stato generato ed ha avuto principio, e non pertanto è immenso e non avrà mai fine. Crotoniate ha fatto altrettanti dei del sole, della luna e delle anime umane. Pitagora dice che Dio è una grand’anima infusa e mista nell’intera natura corporea: e che da quest’anima una, come parti divelte dal loro tutto, hanno origine le anime nostre, sicché questo povero Dio è costretto a vedersi fare a brani tutti i momenti. Senofane sostiene che Dio è un composto di una intelligenza e di tutto ciò che è infinito nella natura. Parmenide ha sognato un non so che di poetico che chiama Stefano (parola greca che vuol dire corona); questo Stefano per esso è l’orbita adorna di luce e di calore che cinge l’universo, e quest’orbita è Dio. Empedocle dice che gli dei sono quattro, e sono i quattro elementi primi onde si forman le cose. In quanto a Protagora, lo metto fuori di questione; perché coll’aver detto che non sa di certo se vi è o no Iddio, né quale ne sia la natura, dà abbastanza a conoscere che non ammette alcuna divinità. Lo stesso farò di Democrito, il quale negando che siavi nulla di eterno (poiché per esso ogni cosa è a cangiamento soggetta), toglie in modo Dio dall’universo che non ve ne lascia traccia veruna (ibid.). – Indicate cosi le principali stravaganze dei filosofi intorno a Dio, Tullio passa a farne notare l’incostanza e la leggerezza onde gli stessi filosofi sulla stessa questione hanno in diversi tempi insegnate opinioni diverse; poiché dice: « Se io volessi provare l’incostanza di Platone nell’opinare, non la finirei giammai. Nel Timeo stesso e nello stesso libro delle Leggi, ora dice che Dio è innominabile, e che non si deve tentar di indagare che cosa sia; ora, che Dio si può benissimo nominare e decidere che cosa è, giacché decide che l’universo tutto, il cielo e la terra, gli astri e le anime umane sono Dio. In quanto a me, altro non trovo di evidente, in queste contrarie evidenze, che l’errore e l’assurdità. Egualmente incostante e varia è la evidenza di Senofonte: poiché ora sostiene che non si deve rintracciare di Dio la forma, ora che il sole, la cui forma si conosce, e l’anima dell’uomo è Dio: ora dice che Dio è un solo, ora che sono molti gli dei. Nessuno però, nel cambiare spesso d’opinione intorno a Dio, ha sorpassato Aristotele; tante sono le diverse sentenze contradittorie fra loro che ammassa nei suoi libri, dandole tutte per certe. Per esso ora la divinità è una intelligenza incorporea, ora il suo Dio è il mondo: ora, oltre l’intelligenza-Dio ed il Dio-mondo; vi è un altro Dio che presiede all’intelligenza ed al mondo; ora Iddio altro non è che il fuoco celeste, più non ricordandosi che il cielo è una parte del mondo e che del mondo aveva di già fatto un solo Dio. Senocrate, condiscepolo di Aristotele, senza essere nel suo opinare più fermo, è però nelle sue stravaganze più ridicolo. Fu già per lui certissimo che otto soli sono gli dei: cinque ne sommano i cinque conosciuti pianeti, il sesto lo formano le stelle fisse, che altro non sono che le membra di questo sesto, uno e semplice Dio; il settimo Dio è il sole, e la luna la costituisce per ottavo. Ma Eraclito, allievo della stessa scuola di Platone, alla seria commedia di Senocrate aggiunge favole ridicole da fanciullo. Per esso ora Dio è il mondo, ora l’intelligenza, ora i pianeti: e mentre fa corporeo Iddio, gli nega ogni senso; e mentre lo fa una intelligenza, gli dà una mutabile figura; e ricordandosi nello stesso libro di aver lasciato indietro la terra e il cielo, anche del cielo e della terra fa due altri dei. » – Parrebbe che, in materia di leggerezza e di stravaganza sopra questo argomento, non fossevi dove arrivare più oltre di quello cui sono giunti i citati filosofi. Eppure Teofrasto è andato ancora al di là e si è renduto affatto intollerabile. Ora attribuisce ad una intelligenza il principato e l’essere di Dio, ora dal cielo, ora ai segni del zodiaco, ora alle stelle fisse. Zenone solamente gli può stare vicino, quel Zenone vostro (parla agli stoici) che dopo di essersi vantato  che era proprio de’ filosofi suoi pari l’avere una opinione determinata e certa intorno a Dio è però più degli altri ancora fluttuante ed incerto. Ora l’aria è il suo Dio; ora è una certa ragione che circonda, e investe e penetra tutta la natura; ora gli astri tona dei. ara persino gli anni stessi e le stagioni; e dopa avere ammesso tanti dei, interpretando la teogonia di Esiodo, finisce col dire che non vi è idea innata, né si ha percezione alcuna chiara e distinta intorno a Dio. Cleante anch’esse ora fa del mondo il Dio vero, ora fa di Dio l’intelligenza e l’anima della natura, ed ora dice che il fuoco, che chiama etere, è infallibilmente il Dio vero. E spingendo ancora più innanzi il delirio, ora finge una certa forma o immagine di divinità separata da ogni altra cosa; ora stabilisce che solo negli astri, ora che solo nella ragione bisogna cercare e riconoscere la divinità (ibid.). – E qui Tullio non sa contenersi dal prorompere in questo tristissimo epifonema: «Così quel Dio che diciam di conoscere evidentemente colla nostra mente, e di cui pretendiamo che nella chiara percezione dell’anima esista l’idea come nel proprio vestigio, in fatti poi non sappiamo decidere né se vi sia, né chi mai sia: una nuvola densissima lo nasconde al nostro sguardo: Ita fit ut Deus iste, quem mente noscimus atque in animi notione tamquam in vestigio volumus reponere, nusquam prorsus appareat (ibid.). » Dopo avere quindi esposte le empietà di Perseo, scolaro di Zenone, per cui Dio altro non è che un vocabolo che la riconoscenza pubblica ha attribuito agli autori delle utili invenzioni ed alle invenzioni medesime; dopo di avere ampiamente annoverata la ignobile turba di nomi sconosciuti e chimerici che  immaginò Crisippo, l’interprete più maligno delle stoiche stravaganze, Tullio conchiude così, come l’avea cominciato, il quadro spaventevole degli errori e delle insanie de’ filosofi, intorno a Dio: « Io vi ho messo sotto degli occhi non dirò i giudizj de’ filosofi, che sì fatte cose un tal nome non meritano, ma i sogni d’immaginazioni in delirio, ma i delirj di uomini mentecatti; ed in verità che le stesse favole de’ poeti, che tanto male han fatto ai costumi colla loro artificiosa dolcezza, non sono certamente né più sconce, né più assurde di queste filosofiche dottrine: Exposui non philosophorum judicia, sed delirantia somnia; nec enim multo absurdiora sunt ea quæ, poetarum vocibus fusa, ipso suavitate nocuerunt (ibid.). » L’opinione poi dello stesso Tullio intorno a Dio, che in questa importantissima disputa esso manifesta sotto il personaggio di Cotta, si è quello dell’antico filosofo Simonide, cioè che gli sembra che, se ci è Iddio, e qual sia la sua natura, è una cosa quanto più vi si pensa, tanto più oscura ed incerta: Rogas me quid aut qualis sit Deus? Auctore atar Simonide, qui, quanto, inquit, diutius considero, tanto mini res videtur obscurior (ibid.). Protesta però di volere sempre difendere in pubblico la superstizione introdotta in Roma, salvo il diritto di ridersene in privato: Opiniones quas a majoribus accepimus de diis immortalibus, sacra, cærimonias religionesque defendam Jurarem per Jovem, nisi ineptum videretur. Cioè a dire che il sentimento di Cicerone, intorno a ciò che vi è di più grave, si era che bisogna rispettare e mantenere in pubblico la religione del popolo, perché al popolo è necessaria una qualunque religione, e pensare poi come si vuole in privato. La religione di Cicerone era adunque una specie d’indifferentismo politico, quale lo vediamo professato ai dì nostri da molti, non so se io dica più empj o più imbecilli, che non essendo uomini di alcuna scienza e di alcuna coscienza, si danno il titolo di uomini di stato, indifferentismo che il romano oratore restringeva a quest’orribile massima: che bisogna pensare da filosofo ed operar da politico, cioè adire: nulla credere e mostrar di creder tutto: Sentiendum philosophiæ, vivendum politice. L’insufficienza però, la debolezza, la miseria della ragione privata nell’acquisto del vero è un principio sì profondamente scolpito nell’animo di Cicerone che nol perde giammai di vista, e da esso incomincia sempre le sue filosofiche discussioni. Pertanto, come ha fatto nella disputa sulla natura di Dio, così trattando dell’anima, entra in argomento col rammentare i risultati infelici della filosofia anche in questa materia, ed osserva che i filosofi non sono meno discordi e meno contradittorj fra loro nel fissare il destino e la natura dell’anima di quello che lo sono stati nel decidere alcuna cosa di Dio; poiché dice: credono alcuni che la morte altro non sia che la partenza dell’anima dal corpo; altri, che partenza non vi è di sorta alcuna, che anima e corpo finiscono al tempo stesso, che nulla dell’uomo sopravvive alla morte. Quelli poi che la morte attribuiscono alla partenza dell’anima, sono ancor essi fra loro discordi.Poiché vi è chi pensa che l’anima uscita dal corpo poco dopo si dilegua nel nulla; altri, che sopravviva lungo tempo;ed altri, che mai non muore. Più grande è poi la disparità delle opinioni dei filosofi intorno alla natura ed alla sede dell’anima. Per alcuni l’anima non è altro che il cuore.Per Empedocle non è il cuore, ma il sangue che intorno al cuore s’aggira. Costoro affermano che una parte del cervello è quella che esercita le funzioni dell’anima. Quelli negano assolutamente che l’anima sia cuore o cervello; ma fra loro stessi, alcuni nel cerebro, come in propria sede, la collocano,altri nel cuore. A Zenone stoico parve che l’anima non fosse altro che fuoco. Ad Aristosseno poi, che era allo stesso tempo filosofo e musico, la sua ragione dimostrò che l’anima non è altro che un certo movimento permanente nelle fibre del cuore, simile a quello che si osserva nel canto e nelle corde da cui risulta l’armonia. Per Senocrate l’anima non è che un numero. L’immaginazione di Platone non si contentò di ammettere un’anima sola, ma ne foggiò tre ben diverse; la ragione che collocò nel corpo, l’ira nel petto, e la cupidità sotto ai precordj. Ma ove la liberalità di Platone ci ha regalate tre anime, l’avarizia di Dicearco non ce ne lascia nemmeno una sola: la sua ragione avendogli rivelato che l’anima è una parola vuota di senso, e che l’uomo non è che materia che la natura ha organizzata in modo che sussista e senta. Aristotele deduce l’anima da un quinto elemento da lui riconosciuto in natura, e chiama l’anima entelechia, quasi fosse un movimento continuato e perenne. Democrito dice che l’anima è formata, come il mondo, di leggerissimi atomi che il caso nel corpo umano ha insieme riuniti. Or, dopo di avere indicate queste diverse opinioni sì stolide e sì stravaganti che i filosofi si erano colla loro ragione fabbricate intorno all’anima, Tullio esclama: di queste diverse opinioni, presentate tutte siccome vere, quale però sia fra tutte la vera, solo un qualche dio può saperlo: Harum sententiarum quæ vera sit, deus aliquis viderit (Quæst. tusc).Quale spettacolo di umiliazione e di dolore adunque perla povera ragione umana, il vedere uomini che il mondo ha stimato sì grandi, e in cui la ragione era certamente elevata e possente, divenuti sì piccoli allorché colla sola loro ragione han voluto rintracciare la prima e la più importante di tutte le verità, l’esistenza e la natura di Dio; e non sapere, sopra un argomento sì grave, che balbettar da fanciullio delirare da matti! Questo quadro basta solo a giustificare l’argomentazione di S. Tommaso, che di sopra abbiamo recata, intorno alla imbecillità ed all’impotenza della ragione ad elevarsi alla pura e semplice cognizione di Dio.Al contrario, da questo spettacolo sì tristo e sì doloroso volgiamo lo sguardo ad uno spettacolo il più stupendo per chi sa considerarlo, ed insieme per noi il più giocondo e il più lieto: lo spettacolo cioè dalle nazioni cristiane, presso le quali quelle stesse verità che i filosofi antichi o non conobbero affatto, o le conobbero confusamente e miste alla scoria di turpissimi errori, si trovano chiare, pure e precise fino sulla bocca del povero artigianello, del rozzo bifolco, della donnicciola ignorante e persino del fanciullo che appena balbetta, sulle cui labbra innocenti hanno una dolcezza ed una grazia che incanta per la stessa debolezza della lingua che intoppa ad ogni tratto nel ripeterle e che non articola che per metà le parole: Ipso offensantis lingua fragmine dulciores, come direbbe Minuzio Felice. Che bella cosa. si è il sentire ai fanciulli recitare il Credo, questo meraviglioso compendio di tutte le verità, questo tesoro di sapienza celeste, magnifica professione di fede dettata dagli Apostoli, ispirata da Dio: Le labbra dei sapienti d’Atene e di Roma quando mai si udirono articolare parole tanto sublimi e importanti quanto quelle che articolano le labbra del fanciullo cristiano che recita il Credo? Ah! caso con ciò solo è più illuminato del più grande degli antichi filosofi in materia di  religione. Fra i gentili gli stessi filosofi, gli stessi oratori più insigni non facevano  che balbettare; fra noi Cristiani, secondo la bella espressione dei Libri Santi, gli stessi fanciulli sono eloquenti e filosofi: linguas infantium facti esse disertas. Grande Dio! Che direbbero essi mai adunque Socrate e Platone, Zenone ed Aristotele, Arcesilla e Cicerone e tutti i pagani filosofi dell’antichità, se risorgessero dalle loro ceneri he direbbero al vedere la verità che essi dissero collocata al di sopra dei cieli, a ascosa nella profondità della terra, divenuta fra i Cristiani si comune e si popolare? Che direbbero essi, che sì lunghi anni spesero invano, e tanti durarono stenti e fatiche per giungere ad assicurarsi di due o tre morali verità senza esservi potuto riuscire, al vedere non solo queste verità medesime, intorno alle quali si lambiccarono invano il cervello, ma ancora le più sublimi dottrine intorno a Dio e all’uomo, i più giocondi ed ineffabili misteri del Salvatore degli uomini, le leggi più elevate e più perfette, conosciute, professate e credute dall’età la più tenera, dagli uomini più incolti e più rozzi? Che direbbero essi mai al vedere il bambinello cristiano avere idee più giuste, più precise, più elevate intorno a Dio, all’anima, ai doveri, alla vita futura, di quello che mai non ebbero tutti i filosofi, tutte le scuole filosofiche di Atene e di Roma insieme riunite? Che sorpresa per loro! che meraviglia! che incanto. O come invidierebbero la nostra sorte! o come esalterebbero l’eccesso della degnazione di Dio a nostro riguardo nell’aver messo così a disposizione di tutti i tesori della sua sapienza, di cui essi contanti viaggi e tanti stenti non ottennero nemmeno un obolo, a causa, dice S. Paolo, della loro vanità e del loro orgoglio! Oh bel vanto dell’insegnamento della fede! L’inquisizione umana presso i gentili ha fatto divenire gli uomini, fanciulli, i filosofi, idioti; i saggi, ignoranti; gl’inquisitori della verità, il trastullo miserando di tutti gli errori. Ma la rivelazione divina presso i Cristiani ha fatto al contrario divenire gli stessi fanciulli veri uomini; gl’ignoranti, veri filosofi; i rozzi, veri sapienti; e coloro che per la loro età, per la loro rozzezza o per la loro condizione, sembra che sieno da una dura necessità condannati ad essere il trastullo dell’errore, divenuti possessori e maestri di verità. Oh miseria dell’uomo che non ha che l’uomo per maestro: Oh felicità del Cristiano che per maestro ha avuto lo stesso Dio!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (48) – LA VERA E LA FALSA FEDE – III. –

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (46) – LA VERA E LA FALSA FEDE – I-

LA VERA E LA FALSA FEDE -I-

 (P. Gioacchino VENTURA: LE BELLEZZE DELLA FEDE, vol. II. Genova; Ed. Dario Giuseppe Rossi, 1867)

LETTURA VI.

LA CREDENZA DEI MAGI

OVVERO LA VERITÀ E LA CERTEZZA DELL’INSEGNAMENTO DELLA FEDE.

Ubi est qui natus est rex Judeorum? Vidimus enim stellam ejus, et venimus adorare aum.

(Matth. II)

INTRODUZIONE.

§I. – L’uomo non ha da sé inventata la verità, ma l’ha ricevuta da Dio per via di rivelazione e di fede. Due bei passi della Scrittura che lo attestano, ed argomentazione di S. Tomaso che lo dimostra. Al medesimo modo furono istruiti i Magi che avendo perciò conosciuti senza errore e con un’intera certezza i misteri di Gesù Cristo, figurarono gli altri due caratteri dell’insegnamento della fede: la sua VERITÀ e la sua CERTEZZA. Argomento e divisione della presente lettura.

Uno de’ più turpi delirj, spacciato con una intrepidezza di spropositare senza esempio da filosofi materialisti, e che, avendo menato gran rumore nello scorso secolo, ha un eco debole sì, ma pur reale ancora nel nostro, si è questo appunto: che l’uomo non è debitore che a se stesso della cognizione e del possesso della verità. Poiché, gettato, dicono, dalla natura sopra la terra, ovvero dalle viscere della terra uscito non si sa come, non fu in origine che un bruto, anzi il più ignobile e il più vile de’ bruti, senza altro fine che il grugnire, senza altra intelligenza che l’istinto di disputare al suo simile la vita corporea, senz’altra dimora che un covacciolo, senz’altre armi che le unghie, senz’altro alimento che le ghiande; e coi soli suoi sforzi seppe quindi uscire da questo stato di degradazione e di avvilimento, trovare i principj generali e formare la sua intelligenza, inventare il linguaggio e parlare, indovinare il diritto e le leggi, e sottomettervisi, e dalla condizione di muta bestia elevarsi all’altezza ed alla dignità d’uomo. Cioè a dire che seppe ragionare prima di aver l’uso della ragione, e parlare prima di aver l’uso della parola; poiché la ragione era necessaria per inventar la ragione, come Rousseau ha osservato che la parola era necessaria all’uomo per potere combinarsi coi suoi simili ad inventare la parola. – Ma gli epicurei moderni non hanno nemmeno il tristo vanto dell’invenzione di queste sconce ed orribili stravaganze, avendole servilmente copiate dagli antichi. Giacché Orazio, che non arrossiva di chiamarsi PORCO DEL GREGGE DI EPICURO, Epicuri de grege porcum, erano già diciotto secoli che aveva detto: — Cum prorepserunt primis ammalia terris — Multum et turpe pecus glandem atque cubilia propter — Unguibus et pugnis… pugnabant… — Donec verba quibus voces, sensusque nolarent— nominaque invenere; dehinc ubsistere bello — Oppida cœperunt munire, et funere leges — Ne quis fur esset neu latro, neu quis adulter … — Jura inventa metu injusti fateare necesse est (Sat. 3, lib. -1). In faccia a queste ignobili bestemmie di uomini degradati, discesi per la lascivia sino al bruto in pena di essersi voluti sollevare sino a Dio per l’orgoglio, quanto è bello l’udire gli oracoli santi delle Scritture, in cui il Dio Creatore dell’uomo ne ha Egli stesso descritta e rivelata la nobile istoria! Perché vi si dice: Dio ha creato l’uomo dalla terra, ed ha tratta dal suo stesso corpo la donna, perché gli fosse compagna della vita, come gli era simile nella natura. Deus de terra creavit hominem, et creavit ex ipso adjutorium simile sibi. Dio diede ad entrambi l’uso perfetto de’ sensi: sicché poterono subito e pensare e volere e intendere ed amare e manifestò loro il male per fuggirlo, ed il bene per abbracciarlo: Et linguam et aures et cor dedit illis excogitandi, et disciplina intellectus replevit illos. Creavit illis scientiam spiritus; sensu implevit cor illorum, et mala et bona ostendit illis. Degnossi ancora questo Dio di ammirare amorosamente il loro cuore, per sollevarlo sino a lui: rivelò loro la magnificenza divina delle sue opere, e loro insegnò a. render culto al suo Nome, non solo perché potente, ma ancora. perché santo, e a non gloriarsi in loro stessi, ma in Lui, come fattura meravigliosa delle sue mani, ed a trasmettere ai loro figliuoli i prodigi della creazione del mondo: Posuit oculum suum super corda illorum, ostendere illis magnalia operum suorum, ut nomen significationis collaudent et gloriari in mirabilibus illius. et magnalia enarrent operum ejtis. Finalmente gli ammaestrò nella maniera di condursi, dando loro la legge della vita ch’essi dovevano tramandare ai loro discendenti come in eredità. Strinse con loro,mediante la sua grazia, un’alleanza eterna, fece loro conoscere la santità de’ suoi comandamenti e la severità dei suoi giudizj: Addidit illis disciplinam, et legem vitæ hæreditvit illos. Testamentum æternum constituit cum illis, et justitiam et judicia ostendit illis (Eccli. XVII).Quanto dire che Dio stesso è stato non solo il primo padre, ma altresì il primo maestro dell’uomo, e dopo avergli data la vita corporea coll’avergli l’anima intasa, gli diede ancor la vita intellettuale, rivelandogli  ogni verità: vita nobile, preziosa, divina. Imperciocché siccome noi non amiamo il bene se non per un riflesso della divina volontà nel nostro cuore, così non conosciamo il bene che per un riflesso dell’intelligenza di Dio nella nostra mente; il quale, come dice leggiadramente s. Tommaso, rimirando noi, che ha creato a sua immagine in ciascuno di noi in certo modo si ripete, come uno stesso volto si ripete, come uno stesso volto vedesi ripetuto in tutti quanti i pezzi d’uno specchio infranto: Sinìcut apparent multæ faciesin speculo fracto. Quando dunque la Scrittura ci dice che l’uomo uscì dalle mani del Creatore ANIMA VIVENTE, et factus est in animam viventem (Gen. II), è chiarissimo che intende avvertirci che l’uomo da quell’istante incominciò a vivere non solo vita naturale per l’unione del corpo coll’anima, ma ancora della vita intellettuale per l’unione dell’anima colla verità. Giacché come un corpo senz’anima non è un essere vivente nell’ordine fisico, così nell’ordine intellettuale, non può dirsi anima vivente uno spirito tenebroso ed oscuro privo d’ogni verità. Come dunque l’Artefice divino infuse l’anima nel corpo del primo uomo, così la verità altresì rivelò ed infuse nella sua anima; sicché sin dal primo momento l’uomo incominciò a vivere della doppia vita che gli è propria, e divenne tra i corpi animati un corpo vivente ed un’anima vivente tra gli esseri intelligenti: Et factus est in animam viventem. Di questo gran fatto della rivelazione primitiva, di cui la Scrittura ci attesta la verità, il gran S. Tommaso ci ha data la ragione e le prove; poiché ecco come si esprime nel suo egregio trattato o questione DELLA SCIENZA DEL PRIMO UOMO (Quæst. disp.).Adamo, nell’istante medesimo in cui fu creato, dovette avere la scienza delle cose naturali non solo nel suo principio, ma ancora nel suo termine: perché fu formato daDio per esser padre di tutto il genere umano: ed i figliuoli devono ricevere dal padre non solo l’essere per mezzo della generazione, ma ancora la norma del vivere per mezzo dell’istruzione: Adam, in principio sua cenditionis, non solium oportuit ut haberet naturalium cognitionem quantum ad suum principium, sed quantum ad terminum, eo quod ipse condebatur ut pater totius generis immani. A patre fllii accipere debelli non soluta esse per generationem, sed disciplinata per instructionem. Dovette adunque trovarsi per ogni parte perfetto; e rispetto al corpo in modo da poter subito generare, e rispetto alla mente in modo da potereancora subito insegnare come primo e grande institutore di tutti gli uomini: Oportuit in ipsa sui conditione constitui in termino perfectionis, et quantum ad corpus, ut esset conveniens principium generationis, et quantum ad cognitionem, ut esset sufficiens cognitionis principium, in quantum erat totius generis humani instructor. Perciò siccome rispetto al corpo, non conobbe la debolezza dell’infanzia, così non provò le tenebre dell’ignoranza rispetto alla mente: ma ottenne egli in un istante ciò che noi acquistiamo col crescere degli anni, ricevette dall’operazione divina ciò che noi riceviamo dall’educazione umana; un corpo perfetto ed una mente rivestita dell’intero uso della ragione e mirabilmente illuminata: Sicut in corpore ejus nihil erat non explicitum in actu quod pertineret ad perfectionem corporis…. hoc etiam oportuit quod intelleclus ejus non esset in sui principio sicul tabula non scripta, sed haberet plenum notitiam ex divina operatione. Imperocché sarebbe stato contro la perfezione che doveva avere il primo degli uomini, se fosse stato creato senza la pienezza della scienza, ma avesse dovuto andare a grande stento imparandola per mezzo de’ sensi: Erat contra perfectionem qua primo homini debebatur, ut conderetur sine plenitudine scientiæ, solummodo a sensibus scientiam accepturus. Ma, oltre la cognizione naturale, soggiunge pure S. Tommaso, Adamo ricevette ancora la cognizione della grazia: In Adam duplex fuit cognitio, naturalis et gratiæ; in quantoche, non solo conobbe subito tutte le cose naturali, alle quali si può estendere l’intelletto umano coll’ajuto de’ primi principj, ma ancora conobbe per una graziosa rivelazione di Dio molte cose soprannaturali, cui sola non può giungere la ragione umana: Scivit etiam inulta ad qua vis primorum principiorum non se extendit; sed ad hæc aliqualiter cognoscendo adjuvabatur alia cognitione, qua est cognitio gratiæ. Con questa differenza però che le cose naturali le conosceva in tutta la loro ampiezza e in tutte le loro più remote conseguenze, come collocato nel termine della cognizione naturale perfetta: ma siccome questo termine di cognizione perfetta riguardo alle cose soprannaturali e divine non si può ottenere che nella visione della gloria, alla quale Adamo non era per anco arrivato, cosi non conosceva di queste cose se non quel tanto che Dio si degnava di rivelargliene: Sed in hac cognitione (gratiæ) non instituebatur  quasi im termino perfectionis ipsius existens: quia terminus gratuitæ cognitionis non est nisi in visione gloriæ, ad quam ipse nondum pervenerat, et ideo hujusmodi omnia non conoscebat, sed quantum de his sibi divinitus revelabatur. – Siccome per ciò solo per rivelazione conosceva Adamo le cose soprannaturali e divine, e non le credeva che sull’autorità della parola di Dio, così Adamo sin dal primo momento ebbe ancora infusa ed esercitò la fede: Adam in primo statu fidem habuit. E poiché la fede si riceve in due maniere diverse, o per mezzo dell’udito interiore per quelli che la ricevono i primi onde trasmetterla agli altri, come furono i Profeti e gli Apostoli, o per mezzo dell’udito corporeo per quelli che la ricevono in seguito, come sono stati tutti quanti i fedeli che furono istruiti dagli Apostoli e dai loro successori; così Adamo, avendo ricevuto la fede in qualità di principale, per poterla agli altri insegnare, ed essendone stato ammaestrato dallo stesso Dio, ebbe la divina rivelazione per mezzo dell’interna elocuzione, onde Dio parlò direttamente al suo cuore: Per auditum interiorem in his quid fidem primo acceperunt el docuerunt, sicut in Apostolis et Prophetis: per secundum vero auditum fides oritur in cordibus aliorum fidelium. Adam autem PRIMO fidem habuit, et primo est fidem edoctus a Deo: et ideo per internata elocutionem fidem habere debuit. – Ecco adunque sin dal principio del mondo praticata e stabilita da Dio col primo uomo la maniera propria onde gli uomini devono conoscere con certezza la verità, alimento evita dell’intelligenza, cioè per via di rivelazione e di fede.E poiché gli uomini, pel loro orgoglio e per la loro corruzione, avean col tempo smarrita la certezza e la verità, Quóniam diminuire sunt veritates a filiis hominum (Psal. XI, 2),cosi Iddio, dopo avere per quattromila anni in tanti e si varj modi parlato al mondo per mezzo de’ patriarchi e dei Profeti, cui della verità avea confidato il deposito, e che perciò la Scrittura chiama i BANDITORI DELLA GIUSTIZIA. Justitiæ præcones (II Petr. 2), finalmente nella pienezza dei tempi si è degnato di manifestare la sua verità per la bocca del suo stesso Figliuolo: Multifariam multisque modis olim loquens Deus patribus in Profetis, novissime autem locutus est in Filio (Hebr. I ). Ma coll’avere Iddio cambiato il personaggio che c’istruisca non ha cambiato, ma rinnovato e perfezionato il mezzo dell’istruzione. Come dunque Adamo ed Eva, primizie dell’umanità, furono per via di fede ammaestrati dal Dio Creatore, così per via di fede ancora furono dal Dio Redentore ammaestrati i santi re Magi, primizie del Cristianesimo. E come Adamo ed Eva, per mezzo della rivelazione conobbero senza errore e senza dubbiezza la religione primitiva, così i Magi, per Io stesso mezzo conobbero essi pure senza errore e senza dubbiezza la Religione cristiana; giacché la bella confessione che fecero in Gerosolima dicendo: « È nato il re de’ Giudei, o il Messia, e noi siamo venuti ad adorarlo, …Natus est rex Judæorum, et venimus adorare cum, » e i doni ch’essi offrirono in Betlemme, l’oro, l’incenso e la mirra, Obtulerunt ei munera, aurum, thus el myhrram, indicano chiaramente non solo la prontezza e l’uniformità della loro istruzione, ma ancora la purezza e la solidità della lor fede ne’ misteri del Dio Salvatore. Ma noi l’abbiamo veduto: i Magi furono i nostri precursori e i nostri rappresentanti nella Religione del Messia; perciò i pregi e i caratteri della loro istruzione e della loro fede furono pegno e figura de’ pregi e de’ caratteri della nostra: cioè a dire ch’essi, coll’averli sperimentati in se stessi, annunziarono e predissero a noi loro successori quattro grandi vantaggi; i quattro grandi caratteri, cioè, la facilità, l’universalità, la veracità e la certezza dell’insegnamento della fede. E poiché dei primi due caratteri di questo insegnamento si è trattato nella passata lettura, tratteremo degli altri due nella presente. A tale effetto vedremo da prima che la fede de’ Magi fu pura e sincera senza mescolanza di errore, perché frutto non delle loro private ricerche ma della rivelazione divina, e che, per mezzo dell’insegnamento della vera Chiesa, pura e sincera e senza mescolanza di errore, absque errore, è ancora la nostra fede. In secondo luogo cogli esempi degli antichi filosofi e de’ principali eretici dimostreremo come, al contrario, la via del privato giudizio conduce a turpissimi errori, e quanto noi saremmo infelici se fossimo privi dell’insegnamento della Chiesa. In terzo luogo, passando a parlare della certezza della fede de’ Magi e indicatine i tre motivi che la produssero. 1.° un’autorità divina; 2.° una rivelazione uniforme; 3.” una grazia superiore, dimostreremo che il Cattolico, trovando i medesimi motivi nell’insegnamento della Chiesa, la sua fede è altresì certa, solida e costante: Absque dubitatione, fixa certitudine. In quarto luogo finalmente proveremo come la via dell’inquisizione particolare, escludendo i tre indicati motivi di certezza, fuori della vera Chiesa non produce certezza alcuna di fede; ma una varietà infinita, un’anarchia di opinioni, che conduce all’indifferenza, al disprezzo di ogni verità, di ogni culto, di ogni virtù, che degrada e rende l’uomo infelice nel tempo e nell’eternità. Cioè a dire che procureremo di penetrare nella profondità del cuore, e ne’ secreti della mente tanto del Cattolico quanto dell’eretico: opporremo l’uno all’altro; ne noteremo le disposizioni contrarie rispetto alla fede, alla virtù, alla vera felicità; e senza stare à discutere sopra i domini, col quadro solamente delle bellezze della fede, opposte alle deformità della eresia, ne faremo col divino ajuto risultare la verità. – Questa è dunque la parte più importante del nostro libro, che domanda maggiore attenzione.

PARTE PRIMA.

§ II. – S’incomincia a tratture del terzo carattere dell’insegnamento della fede, la sua VERITÀ. I Magi conobbero e credettero Dio uno e trino, Gesù Cristo vero Dio, vero uomo e salvatore degli uomini, e i principali doveri del Cristiano. La loro fede fu pura, sincera, scevra di errore, perché frutto non delle ricerche della loro ragione, ma della rivelazione divina. I veri figli della Chiesa conoscono e credono colla stessa sincerità e purezza le medesime verità.

Il terzo carattere adunque proprio dell’insegnamento della vera fede si è, come si è veduto (Lett. V, § 1), di essere puro, sincero, veridico, senza mescolanza alcuna di errore, absque errore, come parla S. Tommaso; e di contenere tutta la verità, e di essere esso stesso tutto verità. Or tale appunto si fu l’ammaestramento de’ Magi: e però la loro fede fu pura e sincera, senza la menoma ombra di fallacia e di errore. Tutto ciò che essi conobbero per la rivelazione divina che ricevettero fu verità; ed essi ebbero, come si è più volte osservato, le idee più chiare, più precise e più giuste di tutte le verità che formano la base del Cristianesimo. – La prima di queste verità, fondamento e sorgente di tutte le altre, è il gran mistero di un Dio, un Dio uno nella natura e trino nelle Persone. Or questa grande, sublime ed incomprensibile verità i Magi, dice S. Ilario arelatense, la conobbero, come quindi noi tutti l’abbiamo conosciuta. Giacché nell’aver voluto offrire tre doni, oro, incenso e mirra, indicarono di conoscere la trinità delle Persone; e l’unità della natura nella trinità delle Persone mostrarono di credere col volere questi doni offrire ad un solo: Quid aliud Magi expresserunt muneribus, nisi fidem nostram? In eo enim quod tria offerentur trinitàs intelligitur: in eo vero quod tres UNI in trinitate unitas declaratur (Epiph., Homil. 1). E per sempre meglio dichiarare la cognizione che aveano di questo grande mistero, il dottissimo Drutmaro sull’appoggio della tradizione, afferma che i Magi non divisero i doni da offrire in modo che uno presentasse l’oro, l’altro l’incenso e il terzo la mirra, ma ciascun di loro recò l’oro, l’incenso e la mirra da offrire; manifestando così ciascuno in se stesso, con un segno visibile, la fede della Trinità nell’unità, che avean ricevuta nel cuore: Credimus quia, quod corde crediderunt, muneribus ostenderunt, et unusquisque trio oblulerit (in 2 Matth.). Lo stesso afferma l’Emisseno: i Magi, coll’avere ciascuno offerto tre doni, chiarissimamente dimostrarono la loro fede nella Trinità; Quod unusquisque trio miniera oblulit, fidem Trinitatis apertissime demonstrarunt (in 2 Matth.). Aggiunge anzi che, se avessero voluto ciascuno offrire doni più o meno di tre, non avrebbero mostrato esteriormente di conoscere l’unità e la trinità di Dio e di avere la vera fede cattolica di sì grande mistero: Quod unusquisque tria miniera obtuìit. Trinitatis fidem apertissime demonstrarunt: si enim vel plus vel minus offerrent, fidem catholicam non tenerent (ibid.). Il secondo mistero principale della cristiana Religione si è l’incarnazione e la morte di Gesù Cristo Salvatore degli uomini. Or questo mistero ancora conobbero i Magi colla stessa precisione e chiarezza con cui noi lo conosciamo buon conto, entrati appena in Gerusalemme, si mettono a gridare per tutte le vie, a domandare a tutte le persone:« Dov’è il re de’ Giudei che di già è nato? Venerunt Hierosolymam dicentes: Ubi est qui natus est rex Judæorum? »Non si contentano di chiederne ai laici, ma si rivolgono ancora ai sacerdoti; né si limitano ad interrogare il popolo, né ricercano ancora dal monarca. E notate, dice S. Pier Crisologo, questo re de’ Giudei o Messia non cercano i Magi in un personaggio di età matura, collocato in un magnifico trono, circondato dagli omaggi del popolo, terribile per le sue armi, potente pe’ suoi eserciti, rispettabile per la sua porpora, risplendente per la sua corona: Requirebant autem non grandævum humanis oculis, in excelsa sede conspicuum, exercitibus pontentem, armis terrentem, purpurea nitentem, diademate refulgentem. Noi ricercano nemmeno dopoché crocifisso trionfò colla sua croce, risorse da morte a vita, salì glorioso al più alto de’ cieli: Vel de cruce sibi exsultantem, vel ab inferis resurgentem, aut in cælos ascendentem.Cercano il re de’ Giudei in un bambino nato di fresco, qui natus est; che trema in una culla; che pende dalle poppe materne; che non ha nulla che gli concili l’ammirazione e il rispetto degli uomini, non ornamento alcuno della persona, non alcuna forza nelle sue membra: ma debole e meschino, senza titoli, senza autorità, non solo per la piccolezza della sua età, ma per la povertà ancora de’ suoi parenti: Sed recens natum, in cunis jacentem, uberibus inhianlem, nullo ornata corporis, nullis membrorum viribus, nullis parentum opibus, non sua ætate, non suo rum potestate præstantem. E questo re de’ Giudei lo cercano o lo domandano ad un altro re de’ Giudei, ad Erode, che allora sulla Giudea regnava: Et quærunt regem Judæorum a rege Judæorum. Segno evidente adunque che il re de’ Giudei di cui essi vanno in traccia è un re sopra gli altri re, un re che ha l’impero non solo de’ popoli, ma ancora de’ secoli un re che è uomo, ma uomo-Dio; dall’uomo-Erode cercano adunque Gesù Cristo uomo-Dio, dall’uomo-re terreno cercano del cielo che avea creato l’uomo: Ab Herude hamine Christum Deum et hominem; a terreno rege hominem regem cælorum qui condiderat hominem. Cercano, è vero, un Piccolino da un grande, come era Erode; dall’uomo pubblicamente onorato un bambino nascosto; da un eccelso personaggio un umile pargoletto; un infante da colui che parla; un povero da un ricco; da un potente un essere debole e infermo. Nulla ciò ostante però, e sebbene sia esso perseguitato da Erode, i Magi non dubitano punto che esso sia il vero Messia, il loro Salvatore, il padrone del mondo, degno di essere adorato, sebbene Erode il disprezzi; perché sebbene privo di ogni regia pompa umana, credono che in esso risiede l’adorabile maestà divina: A grandi parvulum, a loto latentem, ah excelso humilem, a loquente infantem, ab opulento inopem, a forti infirmimi. Et lumen, quamvis ab Herode persequente. sibi et aliis Christum dominantem, a contemncnte adorondimi profecto: in quo nulla pompa regia videbatur, sed vera Dei majestas adorabatur (Semi.Epiph.). Ma non solo però coi discorsi, ma coi donativi ancora, he erano impazienti d’offrire a’ suoi piedi, manifestarono, dice S. Leone, di riconoscere e di credere nella stessa Persona di Gesù Cristo e la maestà di un Dio e la dignità di un re e la mortalità dell’uomo. Giacché l’incenso si adopera ne’ sacrificj, che solo a Dio si competono; l’oro è la materia dei tributi, che si pagano al re: la mirra era l’aroma allora adoperato nell’imbalsamare i corpi de’ morti: Per ista trio munerum getterà in uno eodemque Christo et divina majestas, et regia potestas, et humana mortalitas intimatur. Thus enim ad sacrificium, aurum pertinet ad tributum, myrrha ad sepulturam mortuorum (Epiph. 1).Oh quanto è bello poi, segue a dire lo stesso Padre, il vedere da questi primi discepoli della fede confutati anticipatamente i più grandi maestri dell’errore e determinata intorno ai misteri di Gesù Cristo la cattolica verità! Col volere i Magi offerir dell’incenso al figliuolo siccome a Dio, confondono l’eretico ariano, che sostiene che solo al Padre Eterno si deve un culto di latria e il sacrificio che ne è l’espressione. Col volergli presentare, come ad uomo mortale, della mirra, confondono il manicheo, il quale ricusa di credere che Gesù Cristo è realmente morto per la nostra salute. Col recargli infine dell’oro, come a re celeste e terreno, confondono l’una e l’altra eresia insieme: giacché il manicheo, negandolo vero discendente di Davide, gli contende la regalia terrena: e l’ariano gli nega la regalia e l’indipendenza celeste, osando di chiamar servo di Dio l’Unigenito dello stesso Dio; in oblatione thuris confunditur arianus, qui soli Patri sacrificium offerri debere contendit. In oblatione myrrha confunditur manichæus, qui Christum vere mortuum prò nostra salute non credit. In auro simul uterque confunditur: et manichæus, qui de semine David secundum carnem natum non credit regem et arianus, qui Dei Unigenito assignare nititur servitutem. Che più? l’offerta che i re Magi si dispongono a fare distrugge l’eresia di Nestorio, il quale tenta di dividere in due Gesù Cristo, ammettendo in lui due persone. Giacché al vedere che i Magi offrono con tanta religione e pietà non già una cosa al Dio ed un’altra all’uomo, ma gli stessi doni all’unico e solo uomo-Dio, chi non intende che non si deve credere in due persone diviso colui che si vede riconosciuto uno ed indiviso nei donativi che gli si vogliono fare? Finalmente, come questi donativi indicano due nature in Gesù Cristo, anche la stolida eresia di Eutiche rimane schiacciata, che nega esservi in Gesù Cristo, in una stessa persona, una doppia natura: Confunditur eliam Nestorius, qui nititur Christian in duas personas dividere; cum videat Magos non alia Dea, alia homini, sed uni Deo-homini eadem miniera obtulisse suppliciler. Non ergo dividitur in personis qui non invenitur divisus in donis. Confunditur Eutichetis insania, qui non vidi in Christo utrumque veram predicare naturam.I Magi adunque nelle loro offerte han data a divedere di avere avuta una intelligenza perfetta di tutte le qualità sublimi, di tutti i caratteri unici del Messia, prima ancora di averlo veduto: in una parola, hanno conosciuta, creduta ed annunziata i primi al mondo la fede intera, la fede perfetta del gran mistero dell’incarnazione; poiché come uomo, né crederon la morte; come Dio, ne aspettarono la risurrezione, come re, ne temettero l’universale giudizio: Denique oblatio munerum ititeli igentiam in eo totius qualitatis expressit; atque ita per venerationem eorum sacramenti omnis est consummata cognitio: in nomine mortis, in Deo resurrectionis, in rege judicii. – Oh fede ammirabile de’ Magi! con quale esattezza, con quale precisione, con quale chiarezza e nei loro discorsi e nelle loro azioni esprimono le più grandi verità del Vangelo priaché sia predicato il Vangelo! quali idee giuste manifestano della natura di Dio e dell’incarnazione del Verbo! Come i misteri che sembrano contradittori fra loro ben si conciliano nella loro mente, si armonizzano nel loro cuore, e 1’una verità non esclude, ma sussiste insieme coll’altra senza confusione di termini, senza equivoco di espressioni, senza ombra alcuna di errore: Absque errore? Poiché essi confessano che Dio è uno nella natura e trino nelle persone; che Gesù Cristo, di cui vanno in traccia, benché poverello, è pure re; benché debole, è onnipotente; benché infante, è legislatore; benché figliuolo di donna, è figliuolo di Dio: celeste insieme e terreno, Dio ed uomo; uomo passibile, Dio impassibile; uomo mortale, Dio trionfator della morte; Dio ed uomo, Messia o Salvatore degli uomini. Confessano che bisogna credergli ed adorarlo, obbedirgli e servirlo, sacrificargli i tre rami della concupiscenza umana, l’orgoglio, la cupidigia, la sensualità, per mezzo della pratica di un’umile pietà, di una generosa giustizia, di una mortificazione severa. E queste verità, senza la menoma mescolanza di errore, ma nella loro purezza, come le hanno nella mente, le manifestano al di fuori colla lingua e coll’opera. E come, dice S. Giovanni Crisostomo, potevano mai errare uomini che non avevano implorato a loro guida il lume fioco e ingannevole della ragione umana, ma l’ammaestramento divino? che non ebbero a maestra la sapienza terrena, ma l’illustrazione celeste? Come potevan mai traviare, quando non cercarono per loro duce che lo stesso Gesù Cristo, che si avevano proposto a termine del loro viaggio: quel Gesù Cristo che ha detto: « Io sono insiememente la verità e la vita, e la vera ed unica strada per giungere alla vita ed alla verità? Non quæsierunt ducatum hominis, quia ducutum stellæ de cœlo acceperunt. Sed nec errare poterant qui veram viam, Christm Dominum, requirebant: illum utique qui ait: Ego sum via, veritas et vita (Homil. 1 ex var. in Matth.). Quanto dire: come potevano mai errare nella scienza di Dio, essendo stati ammaestrati da Dio, avendola, come poscia S. Paolo, imparata, non già per la via dell’inquisizione e del raziocinio, ma per via di rivelazione e di fede? La sola via onde si giunge a conoscere la verità senza alterazione, senza mescolanza di difetto e di errore: Absque errore. – E noi altresì cristiani Cattolici, noi conosciamo le stesse verità e al medesimo modo, perché siamo stati istruiti con lo stesso metodo: e la maniera onde furono ammaestrati i Magi per mezzo della stella fu una promessa ed una figura della maniera onde noi saremmo stati ammaestrati per mezzo della vera fede. – Infatti lo stesso Dio che loro si rivelò per mezzo della stella si è per mezzo della fede rivelato anche a noi. Lo stesso Dio che parlò loro per mezzo della sinagoga, ha parlato e parla a noi per mezzo della Chiesa. E come ogni uomo è mendace. Omnis homo mendax (Psal. CXV), e Gesù Cristo solo è verità, pura e sola verità: Christus est veritas (I Joan 5): come l’uomo alla sua propria scuola o a quella di un altro uomo è esposto al pericolo di non imparare che errori, così alla scuola di Gesù Cristo è sicuro di non apprendere che verità. E siccome questa scuola visibile, di cui Gesù Cristo è l’invisibile maestro, si è la cattolica Chiesa; così l’insegnamento della Chiesa cattolica è il solo adorno della qualità divina di essere esente da errore, absque errore; ed in esso tutto è verità, e vi è tutta la verità; verità vergine, verità pudica, verità intera, verità incorrotta, verità santa, come il Dio che ne è l’autore. Perciò come gli Apostoli, o la Chiesa, docile al magistero dello Spirito Santo, impararono da esso secondo la promessa di Gesù Cristo, ogni verità, Ipse docebit vos omnem veritatem (Joan. XVI): osi il vero Cristiano, docile al magistero degli Apostoli o della Chiesa, e che si è formato alla sua scuola, che ha appreso la sua dottrina e che è al suo insegnamento fedele, conosce tutte le verità che più importano di conoscere. Conosce Dio e i suoi attributi, gli angioli e il loro ministero, il mondo e la sua origine, l’anima e le sue facoltà, l’uomo ed il suo fine, la trinità e le sue Persone, la redenzione ed i suoi effetti, Gesù Cristo e i suoi misteri, la legge evangelica e le sue obbligazioni, i sacramenti e la loro efficacia, le pratiche di Religione e il loro uso, la vera santità ed il suo pregio, il vizio e i suoi castighi, la virtù e le sue ricompense. E queste verità sublimi, verità profonde, verità necessarie, verità eterne, ancorché non le intenda, né possa intenderle, le conosce però, le possiede e le crede senza alterazione, senza ambiguità, senza errore, ma pure, intatte, semplici, chiare, precise, come sono in sé stesse: giacché quello che il discepolo della Chiesa ha dalla Chiesa imparato e conosce e crede sulle lezioni della Chiesa, così è precisamente, così è esattamente, così è veramente né più né meno di come e di quanto esso lo conosce e lo crede. – Né si può temere che l’ignoranza che acceca, la debolezza dell’ingegno che istupidisce, i pregiudizi che strascinano, l’autorità che impone, la fantasia che illude, il prestigio che affascina, la falsa evidenza che abbaglia, il sofisma che inganna, la stessa erudizione che confonde, la stessa scienza che gonfia e l’interesse delle passioni che seduce, non si può, dico, temere che queste sì moltiplici e sì possenti cause di errore abbiano potuto influire nella mente del vero discepolo della Chiesa e fargli creder vero ciò che vero non è. Questo pericolo si teme e si deve ragionevolmente temere solo quando l’uomo pretende d’istruire sé stesso, o si dà ad essere istruito ad un altro uomo: e perciò alle scuole puramente umane le verità sono sì difficili e sì scarse, gli errori sì ovvii e sì frequenti. Ma non si teme, né si può temere alla scuola della Chiesa, dove colui che insegna è Dio: e però, nel passo d’Isaia che abbiamo citato di sopra e che Gesù Cristo ha spiegato nel Vangelo, i veri fedeli sono leggiadramente chiamati « scolari di Dio, Doctos a Domino (Isa. LIV): docibiles Dei (Joan. 6). ».

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (47) – LA VERA E LA FALSA FEDE -II.-

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (45): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO (3)

Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (3)

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

CAPITOLO VII.

BAPPORTO FINALE DEL PROTESTAMTISMO COL SOCIALISMO

Noi ci siam studiati di mostrare sino al suo termine il movimento I1 protestantismo verso il panteismo, e di far vedere, dopo l’origine del Cristianesimo, l’eresia sotto i suoi mille nomi e sotto le sue mille forme, girar sempre in questo circolo del panteismo, pel quale essa avrebbe menato cento volte il mondo alla dissoluzione, donde il Cristianesimo l’ha tratto, se la Chiesa Cattolica, col prodigio della sua esenzione dall’errore universale e dell’infallibilità de’ suoi decreti, non avesse costantemente combattuto l’errore, e altamente, invincibilmente mantenuto il sacro deposito della fede e dell’incivilimento cristiano. Or bene, che lo scatenarsi di quel male che, sotto il nome di socialismo e di comunismo, mette a’ dì nostri in questione questo incivilimento, altro non sia che l’applicazione in grande di questo panteismo, di questo egelianismo protestante combinato col naturalismo di cui abbiam del paro mostrato la sorgente nel protestantismo, è cosa molto facile a dimostrarsi. Noi abbiamo già fatto vedere il razionalismo francese, nato dalla scuola scozzese, riuscire alla scuola alemanna, e trasformarsi rapidamente in eclettismo, in sincretismo ed in panteismo. Tutto quanto l’Hegel è passato in Francia nel signor Cousin. Co’ suoi Studi critici sul razionalismo contemporaneo, quanto giudiziosi e sottili altrettanto sodi, l’abbate di Valroger ha messo in tutta la sua luce l’identità delle due predicazioni in Francia ed in Alemagna. Questa eccellente opera ci dispensa dall’entrare ne’ particolari a questo proposito; ci basta di rimandare ad essa i nostri lettori: e del resto, la verità di questo rapporto è stata sì comprovata nelle sue conseguenze che sarebbe oggidì una trivialità l’occuparci a farla conoscere. Sono più di trent’anni che il panteismo protestante valicò i confini col signor Cousin, e che questo spirito prestigiatore, nelle diverse peregrinazioni fatte nell’Alemagna nel 181.7, 1818 , 1824, e nelle relazioni che egli ebbe con de Wette, Schleiermacher, Jacobi, Schelling e collo stesso Hegel, contrasse il male di quel pestilenziale errore, e ne recò seco i germi in Francia, come un cinquant’anni prima Voltaire vi aveva portati dall’Inghilterra quelli del filosofismo.

(La mercé, scrive il signor Damiron, la mercé di questa felice flessibilità di spirito, che, pigliando un’abitudine altrettanto presto quanto presto ne abbandona un’altra, si adagia a tutto, sino alle stranezze, egli ebbe in breve di un filosofo alemanno le opinioni e il linguaggio. Egli colse, sviluppò, espresse le idee del maestro, come se le avesse ricevute dalla sua bocca; e spinse la fedeltà dell’imitazione sino al germanismo: parve un. apostolo. Questa maniera di essere invasato delle proprie idee, la facilità di porre in quadri astrazioni metafisiche, quella vivezza di spirito, quegli slanci di sicura veduta, quegli scoppii, dirò così, di coscienza di cui si componevano le sue improvvisate, ad un’ora così animate e cosi gravi, così facili e cosi maestose, e perfin le sue debolezze; in cui si poteva vedere la stanchezza di uno spirito che si riposa dall’ispirazione, tutto era in lui proprio d’un poeta, » – Globo, 6 nov. 1824. «  Non si poteva comprendere a Berlino com’egli importasse così in Francia una dottrina senza neppur nominarne l’autore: Hegel scherzava su questo procedere con un’indulgenza alquanto satirica, io non credo che scientemente il signor Cousin abbia voluto farsi bello di ciò che non gli appartiene. Ma trasportato dalla sua immaginazione, egli ha creduto di avere egli stesso concepito quello che aveva imparato. Fu colla miglior buona fede del mondo che, fondendo insieme Kant ed Hegel, egli si persuase di aver creato qualche cosa. » (Lerminier, Lettere filosofiche ad un cittadino di Berlino, anno 1832.).

Da questi germi, seminati con tutta l’arte di un ingegno che si mascherava sotto le forme dell’ispirazione e ricevute da un terreno che il filosofismo, il naturalismo e il difetto d’ogni credenza avevano renduto meravigliosamente acconcio ad appropriarsele, nacquero le dottrine fataliste, umanitarie e progressiste. La filosofia del successo, di cui abbiamo già riportato lezioni cotanto pazze, ispirò la storia e avvezzò le anime a non indegnarsi più, a non più commoversi se non pel piacere dell’emozione, così alla veduta de’ più gran misfatti, come delle più angeliche virtù: a non vedervi che un fatale e inesorabil trionfo dell’idea rivoluzionaria; un dramma in cui il personaggio che suscita maggiormente orrore e il più applaudito, perché sostiene meglio la sua parte, e dove si perdonano tutti i delitti, precisamente per 1’effetto che producono e pel successo che ottengono. Dalla Storia della rivoluzione del signor Thiers, cui compensò almeno con quella del Consolato, sino ai Girondini di Lamartine, dopo i quali non v’ha più che da piangere sull’angelo delle Meditazioni, perché ciò che forma la sua colpa forma altresì il suo castigo, tutta la storia fu dedicata al culto della necessità ed alla violazione di quella coscienza del genere umano la cui abolizione pareva impossibile a Tacito, e che i nostri storici moderni, che dovevano esserne i vendicatori, non hanno temuto di immolare sugli altari dell’opinione a quei mostri medesimi che dovevano ad essa immolare. Chi dirà l’immensa parte che questo fatalismo storico ebbe nel pervertimento del senso morale e nell’avvelenamento delle immaginazioni? E al tempo medesimo, chi potrà contrastare che la sua sorgente non sia nel panteismo protestante importato dall’Alemagna, e anteriormente nella dottrina teologica del servo arbitrio e della giustificazione per mezzo della fede? – E non fu solamente la storia, ma la filosofia ancora nelle sue mille cattedre pagate dallo stato, il giornalismo con tutti i suoi romanzi di appendice, che formavano le delizie della borghesia conservatrice, l’economia politica con tutte le penne e tutte le bocche delle nostre accademie, l’arte drammatica con tutte le sue rappresentazioni teatrali, tutte le produzioni dello spirito umano insomma furono quelli che introducevano nelle vene della società il veleno dell’egelianismo, mercé la glorificazione di tutti i vizi, la censura di tutte le istituzioni, l’oltraggio alla Religione ne’ suoi caratteri più santi, il sollevamento di tutti i cattivi istinti d’invidia, di rivolta e di licenza contra le leggi della natura e della società. Il solo Cattolicismo, coi gemiti e i profetici sgomenti de’ suoi Pontefici, protestava contra questo straripamento e non raccoglieva che gli sdegni e i dispregi di coloro che ne tacevano essere le vittime. – In altri tempi furono veduti certamente scritti empii e licenziosi: ma ciò che non si era veduto è l’empietà eretta in religione o la licenza in morale; è la violazione di tutte le leggi sotto il nome di riforma, la barbarie sotto quello di progresso; è finalmente il genio del male, sotto il santo nome di Dio. – Si formarono religioni coi loro rivelatori, i loro sacerdoti, i simboli loro, il loro apostolato; e l’idolo di queste religioni era l’umanità, il progresso, avente Dio per essenza, le passioni per leggi, la distruzione di tutte le istituzioni sociali per mezzo, e il caos delle più stravaganti e più immorali teorie per fine. – Tali sono stati l’uno dopo l’altro il sansimonismo, il forierismo, il socialismo e il comunismo, la cui sostanza era la medesima: la dottrina del progresso continuo, la legittimazione delle cattive inclinazioni, l’affrancamento della materia, il corso di Dio nell’umanità per mezzo alle rovine di tutte le istituzioni sociali, a dir breve il panteismo. – La potestà distruttiva di questa dottrina è spaventevole e le cento volte più grande di quella del male avuto insino allora il più grave. Un uomo che non crede né a Dio né ad un giudizio avvenire è molto pericoloso certamente; ma colui che a sì fatta mostruosità aggiunge quella di credersi Dio egli medesimo, giudice sovrano e assoluto di tutto ciò che esiste, è un vero pazzo da catena. Ora, questa è la follia del panteismo, della dottrina dell’umanità-Dio, e sempre più Dio; per modo che gli ultimi venuti sono la più alta espressione di Dio, a credono realmente aver la missione di riformar tutto e tutto creale, vale a dire di distruggere e annichilare ogni cosa, e negano, affocano Dio, l’uomo, la società, tutto, coll’audacia della follia che si crede la divina sapienza, e della forza brutale che si crede investita del diritto divino, suscitando le passioni più selvagge, scatenandole e sciandole sul mondo come le folgori della loro divinità. Dopo di ciò, non v’ha più altro; abbiam l’inferno, e l’inferno armato della potestà del cielo per disertare la terra. Ma noi non abbiam per anco finito di mostrare tutto il pericolo di questa situazione, unica nella storia, e qual cosa impedì che non ne fosse la fine. – Nella prima parte del nostro lavoro noi abbiam fatto vedere come il protestantismo, pel principio del libero esame, aveva condotto il mondo al naturalismo. Nella seconda parte abbiam mostrato come, allontanandosi dalla dottrina cattolica, esso era, al paro che tutte le eresie, tralignato in panteismo. – Il naturalismo aveva da principio esercitato egli solo i suoi guasti, e  la rivoluzione del secolo decimottavo ne fu il frutto. u quello un gran male, ma non ne fu il peggiore. Il naturalismo aveva fatto un vuoto spaventevole, il vuoto infinito di Dio in seno alla natura umana. Da questo vuoto dell’infinito doveva uscire il panteismo seguito dal socialismo, come dal pozzo dell’abisso di cui è parlato nell’Apocalisse. (IX, 2-11) Una volta levata la pietra che lo chiude, e sulla quale son fondate le società, sale un vapore simile al fumo di una fornace che oscura il sole e l’aria, e n’escono innumerevoli quegli animali misteriosi con volto d’uomo, con capelli di femmina e denti da leone, portando tutti ad un modo sul loro capo una corona d’oro, preparati pel combattimento, e avendo qual re l’angelo dell’abisso, che si chiama lo sterminatore. – Se il difetto d’ogni credenza fosse stato a quest’ultima epoca totale come nel secolo decimottavo, se il naturalismo e il panteismo si fossero scontrati al loro apogeo, avremmo avuto il fine della società. Ma per buona ventura, quando regnava il naturalismo, il panteismo sociale non era ancora apparso, e Babeuf giunse troppo tardi! Per buona ventura quando il panteismo faceva la sua apparizione e giungeva Proudhon, il naturalismo aveva perduto assai del campo, e Voltaire se ne andava! Di fatto, si noti bene che ciò che rende audace il socialismo contro la società e crea il percolo di questa, non è solo che il socialismo sia scatenato, ma eziandio e sopra tutto che la società è per cosi dire mantellata. La proprietà e tutte le istituzioni sociali non sarebbero cosi pericolosamente attaccate se non fossero attaccabili. Ciò che forma la forza del socialismo è la debolezza della proprietà, della società. E donde procede che la proprietà e la società sono cosi deboli? Ah! è perché i titoli della proprietà, perché i fondamenti della società sono nel cielo, nella fede, nella speranza, nella carità, nella moderazione, nella pazienza, in tutte le convinzioni, in tutte le virtù cristiane, che suppongono l’altra vita, e che per la prospettiva e l’allettativa della rimunerazione che vi ci aspetta fan che si accettino i rigori e le ingiustizie apparenti o reali di questa, aumentano per mezzo della rassegnazione la forza che le sopporta, attenuano per mezzo della carità la superiorità che le impone, e le fanno considerare come disposizioni preparatorie della provvidenza, il cui disegno è la prova per mezzo del combattimento e il cui fine è la felicità per mezzo della giustizia. – Sopprimete tutto quest’ordine di cose celesti e ulteriori che fa contrappeso all’ordine terreste e presente, e questo perde tutti i suoi titoli, tutti i suoi legami, tutti i suoi fondamenti, e si dissolve al minimo urto. Si avrà un bel dire che la proprietà e tutte le disuguaglianze sociali non si spiegano punto e non si giustificano sempre da se medesime. Se esse sono spesso il frutto della fatica o la ricompensa del merito, soventi volte però toccano in sorte all’ignavia ed alla sciocchezza, e talvolta sono ben anco la preda del vizio e dell’iniquità. E quando ammettesi questa enormità, che la ricchezza e tutte le distinzioni del ben essere sono sempre meritate da quelli che le possiedono, ne rimarrebbe un’altra da digerire, la quale è che tutti quelli che sono nel patimento e nella miseria l’hanno egualmente meritato; e che se la sovrana giustizia scendesse sulla terra per rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto de’ beni di questo mondo, essa non avrebbe da far mutamento nel loro scompartimento. Quante fatiche solitarie, i cui sudori e le cui lagrime cadono sopra un suolo che non rende loro! Quante virtù degne di un trono e che hanno appena uno sgabello dinanzi ad un focolare spento! E poi, si tien egli ben conto di tutte le tentazioni della miseria, della necessità, della disperazione, dell’isolamento, o della cattiva compagnia e di quella diminuzione della dignità e della confidenza propria, che è come un’ignominia interna, dell’abiezione del di fuori, e che può far dire della povertà ciò che Omero diceva della schiavitù, che il giorno in cui tocca un’anima, le fa perdere la metà della sua virtù? Finalmente, io ammetto che ogni cosa così in fatto di meriti come di difficoltà sia eguale e mescolata tra i poveri e i ricchi, rimane sempre la questione: perché questi sono ricchi e perché quelli sono poveri? Perché il gran numero soffre, manca del necessario, e il piccolo numero ribocca del superfluo? Dire che in sé ciò è giusto, è il più insolente paradosso: dire che questa ingiustizia è necessaria pel mantenimento della società, è uno scoprire questa società ai colpi del socialismo, e giustificar tutte le teorie di coloro che vogliono porla a soqquadro per rifarla; dire finalmente come Voltaire, che il servaggio del popolo mercé la potenza dell’oro è nella necessità delle cose, e professare il naturalismo nel suo senso più pericoloso e orribile. A dir breve, se non vi è un’altra vita che dia un senso a questa; se non vi hanno beni futuri infiniti il cui scompartimento debba avvenire in razione del merito; come questo è in ragione della prova: se questi medesimi beni futuri non diventano beni presenti, e se la loro speranza non è scontata dalla fede in profitto della carità e della giustizia, e non costituisce valori reali aventi corso nella società tra la povertà e la ricchezza; a dir breve, se tutta questa ammirabile economia politica del Cristianesimo è soppressa, il socialismo, sebbene così mostruoso, non Io è più che una tale società. Componete quanti più libri vorrete sulla proprietà; difendetela con le ragioni più naturali, più giudiziose, più ingegnose, tutte le quali alla fin del conto potranno benissimo ritorcersi contra di voi, vi consento; ma v’ha un libro anteriore e superiore ai vostri, nel quale è scritto che ogni uomo è egualmente nato per essere felice, infinitamente felice; per vedere noverati tutti i suoi sudori, terse tutte le sue lagrime, terminate tutte le sue miserie, retribuiti tutti i suoi meriti, e soddisfatta tutta la sua sete di giustizia e di ordine morale: questo è il cuore dell’uomo e il suo autore è Dio. Il socialismo e vero nel suo punto di partenza, cioè in questa promessa di felicità, di giustizia e di equa partizione de’ beni in ragione delle opere, scritta nel cuore dell’uomo: e non è ammesso dalla moltitudine se non perché le guadagna con questo mezzo. Dove è falso, colpevole, mostruoso e là ove si accorda con voi, cioè nel dire che non v’è un’altra vita, in cui questa promessa avrà il suo compimento; perocché per la negazione di quest’altra vita egli scatena tutte le brame dell’uomo in questa. – Come in ogni errore, v’ha nel socialismo una cosa vera ed una cosa falsa mescolate insieme. La cosa vera è l’eguale vocazione d’ogni uomo alla felicità; la cosa falsa è la negazione dell’adempimento di questa vocazione in un’altra vita. Ora, l’individualismo conservatore è d’accordo col socialismo in ciò che esso ha di falso, che è la negazione dell’altra vita; e non è d’accordo con lui in ciò che esso ha di vero, che è il diritto dell’uomo alla felicità. Egli non differisce da lui che per una negazione di più. Così, l’individualismo non può difendersi contra il socialismo se non appoggiandosi sul falso, se non aggiungendo alla negazione dell’altra vita la negazione della destinazione dell’ uomo alla giustizia ed alla felicità. – Ma egli si difende malissimo, anche a questo prezzo, per una ragione semplicissima; ed è che non dipende da lui il togliere all’uomo la persuasione della sua vocazione alla felicità, come lo ha potuto spogliare della fede in un’altra vita. Negando questa, egli, per quanto voglia lasciar quella da parte, non lo può; e questa impotenza, congiunta a questa negazione, forma la forza del socialismo. – La fede è come una valvola di sicurezza, per la quale sfuggono e si esalano tutti i desideri e tutte le speranze di cui il cuor dell’uomo è l’ardente fornace, e che non trovano in questa vita la loro piena soddisfazione. Chiudere questa valvola senza potere estinguere questo fuoco è un far nascere l’esplosione. Così l’individualismo conservatore è colpevole di socialismo in primo grado. Il socialismo propriamente detto non differisce dall’individualismo se non perché attizza il fuoco che questo vorrebbe spegnere, se non perché tramuta in furore ciò che l’altro vorrebbe mutare in abbrutimento. Il solo Cristianesimo, ne sia ad esso renduta gloria, scioglie il problema senza scatenar l’uomo e senza abbrutirlo. Questa verità della vocazione d’ogni umana creatura alla felicità di cui il socialismo si fa un’arme contro la società, la quale vorrebbe invano allontanarla, il Cristianesimo l’accetta, la prende, o meglio la ripiglia; imperocché essa gli appartiene come ogni verità, ed era stata a lui tolta. Ma a questa verità egli ne aggiunge un’altra, che l’individualismo e il socialismo negano di conserva; ed è la verità di un’altra vita, e la fede in una rimunerazione futura, in un’equa partizione de’ beni in ragione delle opere, in un’ultima rivoluzione che porrà per sempre il povero Lazaro nella gloria e il cattivo ricco nell’inferno. Con ciò il Cristianesimo compie la verità che è nel socialismo, come 1’individualismo ne compie l’errore. Egli differisce dal socialismo in questo, che il socialismo pone il termine della miseria umana al di qua della tomba, ed Egli lo pone al di là; differisce in questo, che il socialismo vuol realizzare il cielo sulla terra e con tali beni la cui insufficienza assoluta ne rende la divisione infernale, ed Egli lo realizza nell’altra vita e con tali beni la cui infinità fa pieni tutti i desideri dell’uomo, e la cui prospettiva e speranza riescono una felicità anche in questo mondo. E siccome Egli concede il diritto a questi beni futuri colla condizione che si rispettino i beni presenti da quelli che ne sono privi, e che quelli che li possiedono ne facciano parte caritatevole a quelli che ne sono sprovveduti, così presenta dei titoli alla ricchezza, un sollievo all’indigenza, una giustificazione e un correttivo alla troppa gran disuguaglianza che risulta dall’una e dall’altra, e dà fondamenti eterni alla società. – Io sfido a spiegare in altro modo la società coi nostri costumi cristiani; sfido a giustificarla, a giustificar tutto il gran cumolo d’ingiurie di cui essa si compone; le bestemmie spaventevoli di Proudhon devono esserne l’ultima parola se il cristianesimo non ne è la prima. – Qusto è ciò che ha renduto possibili quelle bestemmie non mai udite sino allora se non nell’inferno; questo è ciò che diede un’attituine plausibile al socialismo. La società si era addormentata nell’individualismo e nel possedimento de’ beni presenti per sé medesimi: il ricco si era racchiuso ne’ suoi tesori ed averi, il mercatante e il fabbricatore nelle sue speculazioni, l’ambizioso nella sua carica, l’uom di stato nella sua autorità e potestà, tutta quanta la società in questa vita; la si era finita coi vecchi dogmi e si seppellivano con onore; non si era scacciato Dio, ma si era rimandato con bel garbo e cortesia; si facevano le grandi riverenze alla religione ed a’ suoi ministri, e si copriva collo splendor del rispetto il dispregio delle sue doglianze e de’ suoi reclami; il mondo aveva per uno spettacolo le eloquenti proteste del conte di Montalembert, e le lasciava correre pel piacere di udirle; si lasciava profetare il vescovo di Chartres, e si leggeva con furore Eugenio Sue; si tolleravano i richiami dell’episcopato e si dava la parola d’ordine a tutti i professori di filosofia contra la Religione e a tutti i maestri delle campagne contra il curato; finalmente la società si era composta verso il cristianesimo tra il rispetto esteriore e il dispregio segreto; e l’oltracotanza umana era a tale salita da credere perfino di poter sostenere in aria il mondo senza il suo autore e scongiurare il disordine colla corruzione. Quand’ecco improvvisamente venire un tale a battere alla porta: è il socialismo. Egli domanda alla proprietà i suoi titoli, all’industria i suoi conti, all’ambizioso i suoi diritti, all’uom di stato i suoi principii, a tutta quanta la società i suoi fondamenti; e a questa impreveduta domanda ne rimangono tutti interdetti, essi non sanno che rispondere, smarriscono i sensi, se ne fuggono o sono trascinati….Per buona ventura il Cattolicismo si è trovato là per rispondere al socialismo! Per buona ventura un movimento di ritorno al Cattolicismo si era da qualche tempo dichiarato nelle anime! Per buona ventura il santo nome di Pio IX, librandosi sul mondo, ha ammansato il lion popolare, e la Religione ha potuto, moderandolo, farsi seguire da lui, e l’eroico sacrifizio di un buon pastore ha potuto riscattare col suo sangue l’incivilimento in pericolo nella metropoli del suo impero! Da quel tempo il Cattolicismo è stato la sola forza esistente, la sola colonna in piedi, che sono venuti ad abbracciare que’ medesimi che si trastullavano in atterrarla, ed a lui devono venire come a loro sostegno tutti coloro che ora vorranno ristorarne l’edifizio. Oggimai la quistione è giudicata. L’esperienza cominciata nel secolo decimosesto ha portato i suoi ultimi frutti. Il protestantismo diretto o indiretto, religioso, filosofico, politico o sociale, lo spirito di ribellione insomma, in tutte le sue applicazioni e in tutte le sue fasi, ha potuto fare successivamente illusione la mercé delle verità di fede, di giustizia, di umanità, di libertà, di fratellanza che esso pigliava al Cattolicismo, e colle quali egli imitava la vita e il progresso. Ma l’errore, il cui destino è di svilupparsi a suo danno e di perdersi giungendo al suo colmo, l’errore è apparso nella maggior luce nelle sue conseguenze, e si dileguarono tutte queste apparenze di verità e di vita, lasciando dietro sé l’inganno e la rovina. Questa gran verità dimostrata a sì caro prezzo, che la terra e il cielo pubblicano a gara, pare a noi abbia tocco il colmo dell’evidenza e ci dia il diritto, dopo tutti i nostri sforzi, di riposar nella sua conclusione, senza temere che l’ostilità anche più cieca prenda a disputarcela …

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (44): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO(2)

 Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (2)

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

 (SEGUITO)

CAPITOLO VI.

PASSAGGIO DAL PROTESTANTISMO AL PANTEISMO -II. –

Kant ruppe guerra alla metafisica razionalista nella sua Critica della ragion pura, e studiò ad assodare la religione e a rialzare il Cristianesimo sulla base della ragion pratica e della coscienza morale. Schelling continuò l’impresa di sostentare l’edificio cristiano col sentimento religioso; e finalmente Io stesso Hegel, avviluppandosi di una terminologia biblica, ammetteva e sosteneva « che la religione è in sé medesima ciò che v’ha di più importante; che conoscerla nella sua essenza è lo scopo d’ogni sapienza; che la religion cristiana ha nella sua costituzione ecclesiastica un significato storico e universale più profondo di quello che ammettono i razionalisti, ecc.» Tuttavia che avveniva sotto queste mostre apparenti? Era scavato un abisso in cui s’andavano a dileguare non solamente il Cristianesimo, ma la religion naturale, la libertà morale, l’incivilimento ed ogni principio sociale determinato. – Non essendo gli spiriti rattenuti da alcun dogma certo, da nessuna dottrina ferma avente autorità sulla ragione per regolare o sodisfare in lei il bisogno che essa ha di verità finale, di verità totale, e il Cristianesimo sotto l’azion prolungata del libero esame essendo diventato per quei medesimi che non l’avevano apertamente rigettato, una dottrina talmente diversificata e diversificabile, che poteva vestir tutti i sistemi, Kant apri una strada che Fichte e Schelling allargarono, in cui gli spiriti, nojati del vuoto della natura, si precipitarono con tanto maggior ardore, perché le passioni ve li potevano seguire, e che doveva riuscire in Hegel e ne’ suoi discepoli al più stravagante panteismo, al più rozzo comunismo. Proviamoci ad esporre la deduzione di questi sistemi in una succinta analisi. – La filosofia pratica di Kant poneva in fatto una dualità primitiva: il subbietto e l’obbietto, l’io e il non io. « Il subbietto, come facoltà di sentire e come facoltà di conoscere, è il principio della forma delle nostre rappresentazioni; l’obbietto è il principio della materia di queste rappresentazioni. » Le nozioni sono vane se si separano dalla materia che i sensi forniscono; la materia che i sensi forniscono non offre nulla di necessario, senza la forma che le nozioni le danno. Così ogni conoscenza suppone l’unione della forma e della materia, il concorso del subbietto e dell’Obbietto; e questo è ciò che costituisce l’esperienza, gran criterio della filosofia di Kant. – Kant aggiungeva: « È chiaro che il subbietto e l’obbietto non sono gli esseri reali in sé medesimi, poiché noi non conosciamo il subbietto che relativamente all’obbietto, e l’obbietto che relativamente al subbietto, senza conoscere la natura intima né dell’uno né dell’altro. Vi deve ben essere qualche cosa di nascosto sotto il subbietto e l’obbietto; ma questa esistenza o quest’essere qualunque ci è sconosciuto; esso equivale per noi a X. Noi non possiamo mai sperare e non dobbiamo neppur mai tentare di penetrar sino ad esso; perocché i sensi e le nozioni non forniscono che testimonianze relative, e non possono sollevarci al di sopra dell’esperienza.» Questo X misterioso doveva però districarsi e diventare il Dio del secolo. Lo stesso porlo come il solo essere reale, e il dare un valore relativo e fenomenale al subbietto ed all’obbietto, era un legare a de’ successori la tentazione di farlo prevalere sopra il subbietto e l’obbietto e di sacrificarglieli.

Fichte se la pigliò primieramente coll’obbietto, e considerandolo per rapporto al subbietto, osservò « che questi aveva la parte attiva nel concorso dell’uno e dell’altro; che l’obbietto non aveva che una parte passiva; che esso era colto, formato, determinato dal subbietto; e che come egli non aveva consistenza e valore obbiettivo che per questa azion plastica del subbietto, si poteva dire che esso era creato dal subbietto. » Di qui nacque il sistema dell’idealismo trascendente di Fichte. In questo sistema « non vi è esistenza fuor quella del subbietto o dell’ io. Tutto ciò che non è l’io , per conseguenza tutto l’universo, non è che il non io, vale a dire l’antitesi naturale e necessaria dell’io, che lo accompagna come l’ombra accompagna la luce. Si ha il sentimento dell’io col pensiero. L’operazione del pensiero è doppia; essa consiste in astrarre e riflettere: astrarre tutto ciò che non è l’io, e l’universo non è che questa astrazione; riflettere, vale a dire ripiegar l’azione del pensiero sull’io, la cui esistenza è districata; di maniera’ che l’essere pensante e la cosa pensata si confondono in una stessa veduta, e la scienza non è altro che l’esistenza che coglie da sé medesima, e si esprime in questa proposizione che sola ha una certezza immediata: lo = io. » Schelling venne a fare un passo di più nella sua Filosofia della natura. Come Fichte aveva fatto scomparire il non io, egli fa scomparire l’io, ma per farlo ricomparire allo stato di esistenza assoluta, allo stato di Dio, e innalzar la formula di Fichte Io = io alla formula Dio = Dio. — Ed ecco come egli vi arriva; « Non si tratta di sapere se le cose fuor di noi hanno un’esistenza reale, se v’ha qualche cosa fuori di noi; ma se noi medesimi siamo un oggetto reale nel senso trascendentale della parola. Ora l’obbietto e il subbietto sono correlativi che si suppongono l’un l’altro, e appena si toglie l’uno di questi termini, l’altro si dilegua insieme con lui. La verità non si trova che nell’esistenza assoluta; non v’ha che una esistenza, una, eterna, immutabile. L’astrazione e la riflessione, che nell’idealismo trascendente devono condurre all’atto puro e libero, pel quale l’essere si pone, sono mezzi lenti e insufficienti; bisogna cominciare con questo atto puro e libero; la filosofia è una creazione indipendente, alla quale si giunge col distruggere l’uno coll’altro il subbietto e l’obbietto, e collocarci nel punto in cui siamo egualmente indifferenti ad ambedue, e donde per un atto d’intuizione intellettuale afferriamo l’esistenza assoluta. Quest’esistenza è Dio, il principio dell’unità e della felicità: quest’esistenza è una; l’affermarla è conoscerla, e conoscerla è affermarla. Ora v’ha identità perfetta tra la conoscenza e l’esistenza. La conoscenza che noi abbiamo di Dio è dunque l’esistenza medesima di Dio, per la conoscenza e la coscienza che esso ha di sé medesimo in noi; come, secondo Fichte, la conoscenza che noi abbiamo dell’io è l’esistenza medesima dell’io. In oltre, siam costretti di ammettere nell’esistenza assoluta una vera antitesi, ed è quella dell’unità e della pluralità. L’essere quale unità perfetta deve manifestarsi, e non può manifestarsi in sé medesimo nella sua unità; ma necessariamente in un altro che non è lui, e per conseguenza in una pluralità. Bisogna dunque che esso sia lui medesimo e un altro che non è lui; unità nella sua essenza e pluralità nella sua manifestazione. E come l’unità perfetta non può concepirsi senza manifestazione, né la manifestazione senza l’unità cui essa manifesta, ne conseguita che né l’una né l’altra, né l’unità né la pluralità, in quanto unità e pluralità, non esistono propriamente, e che non v’ha che la copula, vale a dir l’esistenza pura e semplice: Deus est in fieri ». O ragione umana, da quali vertigini tu sei sempre presa! E dove non vai tu a perderti nella tua matta libertà? – Il panteismo era fatto. L’Hegel non ebbe che a circoscriverne i termini e farne le applicazioni. « Unità di sostanza allo stato impersonale e indeterminato, quando la si considera in sé medesima; l’infinito indefinito, solo essere, sostanza e causa del mondo visibile. L’essere, l’infinito così latente, fa sforzo per esprimere tutte le modificazioni nascose nel suo seno colle loro innumerevoli qualità: egli si sveglia, si rivela, si esprime sempre più negli esseri che compongono l’universo e che offrono degli stati sempre più perfetti di questo spiegamento progressivo dell’esistenza. Egli dorme nella pietra, egli sogna nell’animale; e non esce dallo stato impersonale, e non arriva alla coscienza di sé medesimo che nell’uomo. Così l’uomo non esiste per se medesimo, come neppur tutto il resto dell’universo. Nulla esiste, altro che l’esistenza assoluta, altro che Dio, e l’uomo non è che questa esistenza assoluta giunta al suo più alto grado di sviluppo; egli è Dio, e Dio al supremo grado, Dio compiuto, Dio che si fa Dio, Dio giunto all’equazione di sé medesimo, per la riflessione e il sentimento della sua personalità, nella quale egli si contempla, Dio—Dio.

Si comprendono tutte le spaventevoli conseguenze contenute in questa dottrina. Se non v’è che una sola essenza che, diventando la natura, comincia ad avere una esistenza determinata, e che non arriva allo stato di personalità, di coscienza e di riflessione se non nell’umanità, è assolutamente necessario di negar Dio fuor dell’uomo, di negare un’intelligenza infinita, una volontà infinita, una provvidenza infinita anteriore e superiore al mondo. Cosi il panteismo, secondo la giusta espressione di Bossuet, non è che un ateismo mascherato. Ma esso è di gran lunga peggiore dell’ateismo; perocché l’ateismo lascia il vuoto della negazione, e questo vuoto dalle aperte fauci grida in certo qual modo, chiama a sé il suo obbietto, protesta contra la sua negazione, accusa la follia dell’ateo, e non gli concede rifugio che in una degradazione, in un abbrutimento di se stesso che gli lascia almeno il benefizio dell’umiliazione del suo stato per uscirne. Ma il panteismo, identificando l’esistenza assoluta col mondo, trasportando la personalità divina nell’uomo stesso, afferma Dio negandolo, inganna il sentimento che noi abbiamo della sua esistenza, sodisfa sino all’esaltazione il sentimento che abbiamo della nostra grandezza, e produce il peggiore di tutti gli accecamenti, quello dell’orgoglio, e dell’orgoglio che può stare colle più vili passioni, dell’orgoglio mascherato esso medesimo sotto l’apparenza dell’annegazione più compiuta, poiché in questo sistema l’uomo individuo non ha esistenza distinta, e non è che una molecola dell’uomo in genere, dell’umanità, che sola esprime la ragione assoluta, e n’è la più alta espressione. Cosi in questo sistema l’uomo è negato al par di Dio; non più alcuna verità distinta intorno a lui; non più legge morale, che ne metta in azione la libertà; non più timore o speranza per l’avvenire; a dir breve non più personalità; ciascuno è assomigliato alla massa, come questa alla Divinità. Ma al tempo stesso ch’egli vi è assomigliato, egli se lo assomiglia, egli si fa della libertà generale dell’uomo, della libertà assoluta di Dio, la sua propria libertà: e le sue passioni più disordinate sono non solamente più affrancate dalla coscienza individuale, da quella del genere umano e dal sentimento della divinità, ma le sono autorizzate, consacrate, divinizzate, come quelle che ne sono l’espressione e la determinazione attiva. Per recar le molte parole in una, in questo mostruoso sistema, Dio e l’uomo sono ad un’ora negati e affermati l’una dall’altro, negati pel bene e affermati pel male. Dalla nozione di Dio si traggono le idee d’indipendenza, di giustizia, di provvidenza, di saviezza, di bontà suprema; dalla nozione di uomo, si traggono le idee di libertà morale, di responsabilità, di coscienza, di merito e di virtù: e dopo di aver cosi fatto il voto di ogni bene in Dio e nell’uomo, si trasportano in Dio le passioni dell’uomo, nell’uomo i diritti di Dio, e dell’uno e dell’altro così rovesciati si fa un solo mostro, che ha la possanza assoluta di Dio e la perversità dell’uomo. Per colmo di delirio, questo mostro va crescendo. L’idea infinita, la ragione assoluta, secondo l’hegelianismo, vaga e confusa in sé medesima, comincia solamente a prendere una esistenza determinata nella natura, in cui ella si va sempre più svegliando, da poi la pietra sino all’uomo, in cui solo essa attinge la coscienza di se medesima. Ma giunta a questo punto, ella non vi si arresta; ella continua a progredire continuamente e produce le evoluzioni storiche dell’amanita, come ella ha già prodotto i regni della natura. La storia di tutta la successione dei fatti che la compongono non è cosi che la successione delle manifestazioni sempre più perfette dell’esistenza assoluta. Essa è, per lo sviluppo dello spirito universale, ciò che è la riflessione per lo spirito individuale; ne’ suoi periodi successivi vennero a porsi, sotto una forma manifesta e vivente, secondo un ordine logico e necessario, tutti elementi interiori dell’idea divina. Ad ogni epoca, le costituzioni, l’arte, la religione, la filosofia, hanno una radice comune, lo spirito del tempo, il quale non è esso medesimo che lo spirito universale, l’idea infinita al suo termine di sviluppo relativamente più avanzato. Tutto così, perfino i delitti più spaventevoli, sono giustificati, se sono conformi allo spirito del tempo; e le virtù più eroiche sono riprovate se esse sono a lui contrarie. L’ultimo stato dell’umanità è così il più alto punto dell’esistenza assoluta; e questa esistenza sviluppandosi sempre, ogni epoca può e deve operare per la distruzione di ciò che la precede e l’effettuazione delle sue più arrischiate e più perverse teoriche, col sentimento dell’Infinito e dell’assoluto che fa un legittimo sforzo per esprimersi. – Questa teorica dello sviluppo successivo di Dio nella storia è la teorica rivoluzionale, sollevata alla sua più alta possanza, alla possanza dell’assoluto, del Fatum, ma del Fato al servigio delle più feroci passioni scatenate, che dico! suscitate dal sentimento della legittimità, o piuttosto della divinità della loro azione. Perciò noi vediamo i maestri di questa teorica, quantunque più circospetti dei loro discepoli, trovar nondimeno dell’entusiasmo per celebrare le virtù di Robespierre e di Marat. – Ma questa teorica non ha aggiunto tutta la sua applicazione nel principio rivoluzionale; perocché questo principio atterra i troni e le superiorità politiche, ma lascia sussistere le condizioni sociali, i principii eterni della proprietà, del matrimonio, della libertà morale e dell’individualità delle esistenze. Ora, come abbiam già detto altrove, il panteismo esclude tutte queste distinzioni; se Dio è tutto, non v’è cosa che sia Dio; tutte le esistenze sono assorbite nell’assoluto dell’esistenza: nessuna appartiene a sé, e non ha nulla per conseguenza che a lei appartenga; il panteismo essendo il comunismo del finito e dell’ infinito, non trova la sua compiuta espressione che nel comunismo sociale dei diversi elementi del finito preso in se medesimo. Se il finito collettivo non è nulla, come il finito particolare che non ne è che un elemento, sarebbe esso qualche cosa? Ogni confusione, ogni comunismo, ogni caos sociale, è dunque il termine dell’egelianismo. Io non ho usato né arte né violenza, nella «posizione di questa dottrina, e neppure nell’estensione delle sue conseguenze; non ho detto insomma cosa che non sia stata formulata e praticata sotto i nostri occhi. E le citazioni sarebbero altrettanto facili quanto sono superflue. Ciò che ora importa di ben notare è che questo panteismo, che trovava il suo antecedente nella dottrina protestante del servo arbitrio, come il naturalismo in quella del libero esame, è uscito e si è sviluppato in seno al protestantismo e sopra il suo terreno primitivo; è che i suoi dottori e i suoi adepti erano ammessi come cristiani protestanti, in opposizione ai razionalisti propriamente detti che essi occupavano le cattedre dell’insegnamento teologico e si costituivano quali difensori del Cristianesimo (Per tal modo, cosa strana, grida lo storico Alzog , ei finirono a disconoscere a tale punto il Cristianesimo che pensavano di ritrovarne il vero spirito in un sistema, che, come quello di Hegel, vede in Dio la ragione impersonale, che non arriva alla coscienza di sé medesima se non nello spirito dell’uomo, che distrugge la libertà divina ed umana, e precipitando l’umanità dalle chiarezze ineffabili del Vangelo nelle tenebre del paganesimo, evoca da questo caos, come arbitro supremo d’ogni cosa, la cieca necessità.); finalmente è che 1’egelianismo è un sistema teologico protestante, che spiega alla sua maniera i dogmi della Trinità e dell’Incarnazione. Nell’esposizione che ne abbiam fatto, noi l’abbiamo spogliato delle sue formule dommatiche altrettanto plausibili ed ammissibili per la ragione emancipata dalla Chiesa quanto lo è tutta la simbolica delle altre eresie, e meno ributtante sicuramente della dottrina generale protestante del servo arbitrio e della giustificazione per la fede. Cosi, secondo l’Hegel, l’essenza assoluta, la sostanza di ogni cosa, considerata in sé medesima e prima di ogni sviluppo, è il Padre, o la prima Persona del mistero della Trinità. — Il passaggio dalla sostanza indeterminata all’esistenza effettiva, la trasformazione dell’essenza infinita in universo, in mondo creato, ciò che noi chiamiamo la natura, è Dio il Figliuolo, la seconda Persona, la quale esprime tutto ciò che è nella sostanza eterna. — Finalmente, quando lo spirito arriva al termine di tutti gli sviluppi, riconosce se stesso; quando egli afferma l’identità del finito e dell’infinito; quando per questa veduta e questa affermazione egli rientra in certo qual modo in sé medesimo, si uguaglia a sé medesimo, compie sé medesimo, esso è lo Spirito Santo, la terza Persona, ed è lo spirito umano. – Il dogma dell’incarnazione è similmente rispettato nella scuola hegeliana: solamente la dottrina del Verbo fatto carne, del Dio fatto uomo, invece di essere particolarizzata in Gesù Cristo, è generalizzata nell’umanità; e Strauss, discepolo di Hegel, nella sua Vita di Gesù, non ha fatto, in quest’ordine di idee, che spogliare la dottrina cristiana della sua veste storica; ma egli l’ha conservata, trasportandola nel genere umano; a giudizio di lui, come a giudizio di tutta la scuola egeliana, la specie umana è il Verbo. Del resto, tutta questa teorica panteista egeliana non ha nulla di originale; se noi ce ne ricordiam bene, essa non è che un ritorno alle antiche teoriche dei gnostici e de’ neo-platonici: lo Strauss non fa che riprodurre Filone, e il ciclo delle eresie termina come fu cominciato or fa diciotto secoli. – Questa dottrina ha potuto così autorizzarsi col protestantismo che l’ha partorita, e darsi come un progresso finale su tutte le evoluzioni di questa grande eresia. Perciò noi leggiamo sotto tutte le forme. negli Annali alemanni, « che la missione della chiesa protestante è di sradicare la fede al Cristianesimo evangelico; che Lutero non e stato che il precursore del grande Hegel; che il protestantismo può esistere senza la Bibbia, da lungo tempo invecchiata, piena di errori sulle questioni più importanti della vita, e che egli può, coll’ajuto della scienza e dell’incivilimento, surrogare efficacemente ogni disciplina morale (Il rispetto della Bibbia e della divina persona del Cristo non era molto più grande nei primi riformatori che negli ultimi, e Strauss non ha per certo superato Lutero. E lo vedremo poco stante.). » – Sotto il nome di Essenza del Cristianesimo, Feuerbach e Brunone Bauer vennero, dopo Strauss, a far discendere l’egelianismo sul terreno della politica sociale, ed a gridar la venuta del comunismo. Nel suo programma del 1843, censurando il vecchio liberalismo, questa scuola dichiarava che si trattava oggimai di strappare il popolo dalle illusioni su cui posa attualmente la nostra vita politica e religiosa, di mettere in moto le massime di distruggere l’organizzazione militare, insegnare al popolo a reggersi da se medesimo, ed a rendersi giustizia, di strappar dalla morte il mondo germanico e di assicurare il ino avvenire, trasformando il liberalismo in pura democrazia. Il protestantismo non respinge la solidarietà di queste fatali tendenze. Per far ciò sarebbe bisognato che trovasse in sé qualche fondo di credenza comune sul quale egli potesse appoggiarsi e raccogliersi. Ma, tutto al contrario, le facoltà teologiche di Prussia accompagnarono coi loro voti i richiami di Brunone Bauer in favore della libertà teologica; e gli ultimi tentativi fatti collo scopo di obbligare i predicatori prussiani ad adottare qualche simbolo positivo di Cristianesimo qual regola dell’istruzione della gioventù e del popolo sono venuti a rompere contra il rifiuto di queste medesime facoltà, salvo i1 decanato di Berlino e di Hengstenberg (L’anglicanismo, sotto la sua apparente coesione, non racchiude una minore divisione, una minore inanità. Nel maggio del 1840, si suscitò nella camera alta, sui trentanove articoli, un dibattimento in cui si domandò se il clero stesso credeva alla verità di questi articoli che egli approvava. A tale questione uno dei vescovi rispose che tutti i membri del clero vi credevano; un altro che nessuno vi credeva: un ferzo che era impossibile accettarli; sopra di che un altro, il quarto, aggiungeva che tutte le persone ragionevoli lo sottoscrivevano in massa, ma si riservavano di non credere altro che quello che loro sembrasse conveniente. Quello che avvenne poscia in Inghilterra non ha fatto che mettere sempre più in evidenza ed in azione questa discordia scandalosa e nondimeno molto istruttiva per una moltitudine di anime oneste e disingannate, che hanno preso c prendono tutti i giorni il loro corso verso l’unità.). – A dir breve, tutti i partiti del protestantismo per reagire contra le ultime conseguenze del suo principio possono compendiarsi in questa parola di Nicola Harms: « Io potrei scrivere, sull’unghia del mio pollice tutto ciò che rimane di dogma generalmente creduto nella chiesa protestante. » Ma una obbiezione onorevole non ci permette di raccogliere ancora il vantaggio di questo capitolo, e domanda che noi la leviamo. – In un lavoro notevolissimo, pubblicato negli Annali cattolici di Ginevra, sull’opera nostra, e in cui la benevolenza non la cede che alla sincerità dei giudizi, ci è stata fatta questa censura essenziale: « Il signor Nicolas ha voluto stabilire un legame di filiazione diretta tra il protestantismo ed il panteismo. Noi non possiamo approvare un tale sentimento. Il proprio del panteismo è di rigettare l’esistenza di un Dio personale: ora in nessun tempo passato o presente noi non vediamo alcuna setta protestante giungere a questo grado di negazione. Se il signor Nicolas ha voluto dire che la dottrina del libero esame ha creato in seno alle sette riformate un principio di dissoluzione favorevole allo sviluppo della filosofia panteista, noi siam d’accordo con lui. » – Noi non crediamo che questa censura sia fondata; e, qualunque sia la nostra deferenza pel suo autore, non possiamo abbandonare a lui la verità, o meglio non crediamo di poter rispondere meglio alle sue intenzioni che mettendola viemaggiormente in luce, e porgendogli così motivo di congratularsi con noi dell’obbiezione. – Primieramente è vero che la dottrina del libero esame ha creato in seno alle sette riformate un principio di dissoluzione favorevole allo sviluppo della filosofia panteista. Tutto quello che dice a questo riguardo il giudizioso critico nel seguito dell’articolo è esattissimo. Nondimeno, non tenendoci ancora che a questo punto di vista, noi pensiamo che la filosofia panteista non è stato l’effetto puramente fortuito della dissoluzione operata dal libero esame. L’errore non è così avventuroso come pare nelle sue cadute e nei suoi traviamenti. Le sue cadute sono fatali anzi che avventurose. A dir breve, l’errore ha le sue leggi, le quali non sono altro che l’atterramento di quelle della verità, leggi di decomposizione, di corruzione e di morte, come quelle della verità sono leggi di unione, di santità e di vita. Ora, avendo il principio del libero esame recata la distruzione radicale delle credenze, questa incredulità totale non era terribile per la natura umana. Il bisogno di credere che è ad essa inerente, e la necessità di trovar soluzioni ai grandi problemi del destino individuale e sociale dell’uomo, senza i quali egli non può organizzare né la società né la sua vita particolare, doveva, come l’ha si bene spiegato Jouffroy nelle pagine da noi citate, recare una reazione contra il naturalismo. Dal culto del finito, se così posso dire, si doveva andare al culto dell’infinito. Ma come trovare, o porre le leggi e i confini di questo culto? Noi l’abbiamo già mostrato le cento volte: Gesù Cristo solo e la sua Chiesa hanno potuto sciogliere questo problema. Gli spiriti che si rifiutano d’accettare la soluzione cattolica, e che in tutte le loro investigazioni non mirano che a soddisfare quello di cui bisognerebbe primieramente spogliarsi, l’orgoglio del loro spirito, la libertà delle loro passioni, non potevano far altro che errare in tale investigazione, cadendo nell’eccesso contrario al naturalismo, nel panteismo, sia perché l’impotenza naturale dello spirito umano è scoprire le leggi dell’ordine soprannaturale non lo rende capace che di eccesso nei concetti che può formarsene, sia perché in questo eccesso egli conserva sempre la sola cosa che non vuole abbandonare, se cosi oso dire, il suo io emancipato dal naturalismo o autorizzato dal panteismo, glorificato nella prima e divinizzato nella sonda di queste concezioni. Il panteismo e il naturalismo non sono che due forme di un medesimo culto, del culto della ragione. Perciò noi vediamo i medesimi spiriti, senza mutar costumi né carattere, passar dall’una all’altra di queste due dottrine e trovarvi egualmente il loro conto. Il panteismo ha anzi questo vantaggio per essi sul naturalismo, che soddisfa o piuttosto inganna il bisogno innato che noi abbiamo dell’infinito, facendo volgere il suo culto in quello di noi medesimi. Sia per ignoranza, sia per orgoglio, sia per debolezza intellettuale, sia per debolezza morale, o per ambedue al tempo stesso, l’uomo non può dunque trovar l’accordo del finito coll’infinito, vale a dire la religion vera; egli non può che gettarsi da un polo all’altro, quando non si sottomette a seguire il simbolo cattolico, che è come l’eclittica celeste, e agghiaccia o incendia la terra cui il sole della verità divina contenuta in questo simbolo può solo vivificare. In questo primo senso si direbbe dunque con verità che il panteismo è imputabile all’emancipazione religiosa dello spirito umano, al protestantismo. – Ma noi abbiam detto in oltre che vi era un rapporto dottrinale tra il protestantismo e il panteismo, ed è principalmente su questo punto che noi discordiamo col nostro giudizioso critico, e dobbiam spiegarci. La spiegazione sarà semplicissima e, come crediamo, assai concludente. « Il proprio del panteismo, dice egli, è di rigettare l’esistenza di un Dio personale. Ora in nessun’epoca passata o presente, noi non vediam setta protestante giungere a questo grado di negazione. » Questa obbiezione è troppo moderata nella sua esposizione; ed è perciò che il suo autore vi si è impegnato. Se egli avesse dato ad essa tutto il suo sviluppo, avrebbe veduto che la si confutava da sé medesima, come avvien sempre di una obbiezione che non è fondata. Una tale obbiezione bene esposta è per metà confutata, per la ragion medesima che una questione ben posta è per metà risoluta. Ora, non basta, nel senso dell’obbiezione, il dire che il protestantismo non ha mai rigettato l’esistenza di un Dio personale; bisognava dire che ha professata l’esistenza di un Dio personale con eccesso mercé il dogma della giustificazione, della predestinazione e del fatalismo; che egli ha sacrificato a questa personalità divina la personalità umana; che vi ha immolati tutti gli atti interiori ed esteriori che distinguono quest’ultima, fino a riuscire a questa conclusione, che Dio fa tutto, che Dio è tutto in noi, come in tutte le creature. Ecco l’obbiezione in tutta la sua forza. Ma eccola appunto per questo in tutta la sua debolezza; perocché se Dio è tutto, tutto è Dio, ed ecco la personalità divina assorbita nel suo proprio eccesso, e i due estremi che arrivano, come sempre, a confondersi. Il panteismo esiste tanto nella formola: Dio è tutto quanto in quella: tutto è Dio; perché in queste due formolo vi è egualmente confusione del finito coll’infinito, ciò che è propriamente il panteismo. La prima ha un carattere più religioso, e la seconda un carattere più filosofico; ma questo è il vero di quella, perocché ciò che muta di natura, ciò che è sacrificato, ciò che perisce realmente in questa confusione non è il finito, non sono i suoi atti, non sono le nostre inclinazioni e le nostre passioni: per lo contrario, tutto questo è salvo, anzi consacrato; bensì è Dio, il quale, col necessitarle e col farle in noi, vi perde gli attributi di santità, di giustizia, di sapienza, di potenza, la cui riunione costituisce la personalità del suo essere. Il dogma protestante del servo arbitrio e della predestinazione non è in sostanza che il dogma della licenza e della deificazione delle passioni dell’uomo. Esso non trasporta in Dio la nostra libertà e il nostro destino che per spogliarvele d’ogni responsabilità umana e rivestirvele de’ di lui attributi divini, e distruggere in pari grado la di lui personalità santa, essenzialmente incomportabile colla nostra licenza. Il dogma protestante della predestinazione non è insomma che un panteismo mascherato, come questo non è che un ateismo mascherato, il quale in sostanza è l’unico errore più o meno mascherato. Perciò uno de’ primi frutti della riforma, per confessione medesima de’ riformatori , che noi avrem motivo di citare a questo proposito, fu la spaventevole apparizione dell’ateismo in seno alle società cristiane. La dottrina del servo arbitrio, che è il fondo del protestantismo ortodosso, aveva dunque ripiena 1’Alemagna, che ne è stata e ne è rimasta il primo e il principal teatro, de’ germi del panteismo, e questo si è trovato pronto a ricevere le formale filosofiche di Hegel. Noi abbiam già citato, a sostegno della nostra tesi sul rapporto del protestantismo col panteismo non meno che col naturalismo, l’opinione dell’eminente autore della Simbolica. Dopo aver mostrato il panteismo puro in questa dottrina di Zuinglio: Tutto ciò che esiste è di Dio; tutto ciò che è, è Dio, è Dio medesimo e dopo aver dichiarato il rapporto di questa dottrina con quella predestinazione luterana, egli termina così: « Ecco gli eccessi inuditi ne’ quali cadde Zuinglio riconducendo alla sua vera base la dottrina di Lutero sulla libertà umana. In questi ultimi tempi (ed è così che i protestanti si comprendono essi medesimi) si sono veduti gli ortodossi del partito combattere i nuovi sistemi filosofici e teologici; sistemi che in sostanza non racchiudono che le conseguenze necessarie de’ principii posti dai riformatori. Schleiermacher, non ostante le tante sue deviazioni della dottrina de’ suoi maestri , è, a nostro avviso, il solo vero discepolo degli apostoli della riforma (Simbolica, tom. I, pag. 281). – Noi siam lietissimi di poter dare alle nostre ragioni il sostegno di quest’alta autorità; è per tal modo rimane bene stabilito che il protestantismo, del paro che tutte lo altre eresie, doveva riuscire dal suo lato dommatico, ed è realmente riuscito, al panteismo.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (45): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO (3)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (43): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO (1)

Rapporto del protestantismo col socialismo per mezzo del panteismo. (1)

 [A. NICOLAS: “Del Protestantesimo e di tutte le eresie nel loro rapporto col socialismo”, vol. II – Napoli, tipogr. e libr. Gabr. ARGENIO – 1859]

 (SEGUITO)

CAPITOLO VI.

PASSAGGIO DAL PROTESTANTISMO AL PANTEISMO -I.-

Si può dire, in un certo senso, della verità cattolica ciò che Boileau ha così ben detto dell’onore. Essa è come un’isola scoscesa e senza rive. Appena si mette il piede fuor del suo ricinto, non si ha altro più che la scelta dei naufragi; e per diversi che questi siano pei loro accidenti, essi vengono alla fine a ridursi tutti a due abissi che si corrispondono; l’abisso del naturalismo e l’abisso del panteismo. – Tutte le eresie che hanno preceduto il protestantismo hanno piegato più particolarmente verso quest’ultimo abisso. Esso solo ha avuto il fatale privilegio di spingere ad un tempo lo spirito umano verso il panteismo e verso il naturalismo, e di provare la doppia verità di questa parola di Gesù Cristo: Chi cadrà sopra questa pietra si fracasserà, e quegli su di cui ella cadrà sarà stritolato. (Matth. XXI, 44.) – E il protestantismo ha provata la verità di queste parole col distaccarsi dal Cattolicismo per due falsi principii che egli professa egualmente; l’uno come metodo, l’altro come dottrina, cioè: il principio del libero esame e il principio del servo arbitrio. Questi due principii sono essenzialmente contradittori nel loro punto di partenza, ma perfettamente d’accordo e logici nel loro termine. – Col principio del libero esame l’uomo è costituito giudice della Divinità; col principio del servo arbitrio egli non è che l’automa: ora qual cosa v’ha mai più contradittoria? Col principio del servo arbitrio si arriva a negar l’uomo, e col principio del libero esame si arriva a negar Dio; il che è in tutta logica. – E notiamo in qual maniera si operano queste due gran negazioni e come esse concorrono al totale pervertimento.— Colla dottrina del servo arbitrio 1’uomo è annichilato da Dio, il finito è assorbito nell’infinito.

— Colla dottrina del libero esame, Dio e tutto il soprannaturale della verità rivelata è recato ridotto e soggettato alla ragione umana; l’infinito è assorbito nel finito. — Per la via del servo arbitrio si cade nel panteismo, e per quella del libero esame nel naturalismo. Nel primo di questi abissi è l’uomo che scompare in Dio; nel secondo è Dio che scompare nell’uomo: in entrambi le sregolatezze della natura umana sono divinizzate per ispirazione o per apoteosi; essi sono divinamente necessitati o glorificati, e diventano la fatalità o la dea Ragione. – Qual logica mirabile ci offre l’errore nella concatenazione delle sue deduzioni e delle sue cadute! E qual potente dimostrazione della verità non ne risulta Perocché questa logica dell’errore che cos’è mai se non il contrario di quella della verità, come l’ombra è il contrario della luce? Essa ne è cosi la controprova, tanto più conchiudente perché è tale senza volerlo e senza saperlo, e perché, combattendola, essa la glorifica. E ciò è talmente vero che se la verità cattolica e i suoi benefici divini fossero cancellati dalla memoria degli uomini, si potrebbe ricostituirla pigliando anche solo il contrario dell’errore e delle sue pratiche; e per conseguenza, per quelli che non vedono questa verità in sé  medesima, non vi è modo più dimostrativo che di farla vedere ad essi, se così posso esprimermi, nel suo rovescio. Cotanto è vero e profondo l’Oportet et hæreses esse del grande apostolo! Questo è tutto il processo e tutto lo scopo di quest’opera. I dati di essa sono stati intraveduti dal dotto autore della Simbolica, il quale nella prefazione di quest’opera ammirabile ha scritto: « Da circa vent’anni i naturalisti attaccano l’elemento divino; il protestantismo ortodosso per lo contrario distrugge l’elemento umano. Tuttavia il Cattolico ha questo vantaggio che la sua fede comprende la libertà e la grazia, il divino e l’umano: diciam meglio, il suo simbolo è l’unità (o piuttosto l’unione) di queste due nature. Appunto per questo, la nostra dottrina abbraccia il razionalismo ed il protestantismo: essa unisce, concilia questi due estremi. » Il pensiero del dotto autore è, secondo noi, mal espresso in queste ultime linee. Il  protestantismo ed il razionalismo, vale a dire, come l’intende egli stesso, il panteismo ed il naturalismo, non possono essere abbracciati e conciliati insieme; essi non possono essere che distrutti dalla ricostituzione del cattolicismo, il quale, ripigliando dall’uno l’elemento divino, dall’altro l’elemento umano, doppiamente colla loro unione adorabile in Gesù Cristo e in tutto il Cristianesimo. Naturalmente questi due elementi tendono, nelle concezioni dell’uomo, ad escludersi o ad assorbirsi in conseguenza della prima di tutte le eresie, che ebbe per teatro l’Eden e che ha infettato tutta la creazione: solo soprannaturalmente essi hanno potuto essere conciliati in Gesù Cristo e nella sua dottrina, e, per la medesima causa, questa conciliazione può essere mantenuta dalla Chiesa solo soprannaturalmente. Se la Chiesa non fosse che una istituzione umana essa non avrebbe potuto mantenere questo accordo un solo giorno; chiamo in testimonio la sorte toccata a tutte le eresie. Perciò una prova più grande e più sensibile della verità coll’assistenza soprannaturale, che è stata a lei formalmente promessa da Gesù Cristo, si è ch’ella ha inviolabilmente mantenuto questo meraviglioso accordo sino ai nostri giorni, mentre noi l’abbiamo veduto rotto dalla prima parola d’ogni eresia. E questo uno de’ lati più luminosi e più nuovi della fede cattolica, sul quale non sarà mai quanto mai basti raccolta l’attenzione, e il destino finale del protestantismo viene sopra tutto a rivelarcelo. Il traduttore della Simbolica l’ha perfettamente indicato in una piccola nota della sua prefazione : « In generale, dice egli, i protestanti dell’Alemagna sono o panteisti, o naturalisti; cosa che si comprende agevolmente. Lutero rompe il legame vivente che unisce l’elemento superiore e l’elemento umano. Ora da questo momento bisogna dire o che tutto è Dio, o che tutto è finito. Di fatto, appena nacque il protestantismo, dovevano pure il naturalismo ed il panteismo nascere dalla discordia dello spirito umano coll’istituzione soprannaturale della Chiesa: il loro sviluppo successivo, non è stato che l’affare del tempo. — Da un lato il libero esame, dopo di avere assorbito l’elemento soprannaturale inerente alla Chiesa, ha continuato questo lavoro di assorbimento del soprannaturale, rispetto alle sacre Scritture, ai sacramenti ed ai dogmi principali della fede cristiana, al carattere generale della rivelazione e d’ogni rivelazione, e finalmente alle stesse nozioni della teologia universale. — Dall’altro lato, colla dottrine del servo arbitrio, il protestantismo ha posto un principio di assorbimento dell’elemento umano, il quale, dopo di aver esercitato i suoi guasti nel seno del Cristianesimo colla dottrina della giustificazione e dell’inamissibilità della giustizia, si è esteso con quella della predestinazione e del fatalismo; e spogliando ogni forma teologica, è diventato come vedremo poco stante, il panteismo filosofico di Hegel. — E finalmente il riscontro finale di queste due serie inverse di distruzione ha prodotto il caos dei due elementi, o piuttosto il loro concorso alla distruzione totale. – In seno al protestantismo noi troviamo evidenti questi due errori nei luterani e nei calvinisti da una parte, i quali negano la libertà umana per concedere tutto alla necessità della predestinazione divina, e nei sociniani dall’altra parte, i quali negano la previdenza per concedere ogni cosa alla libertà dell’uomo. « Per salvare la prescienza del sovrano Essere, dice Moehler, i primi riformatori distrussero la libertà dell’uomo; i sociniani, per lo contrario, sacrificarono la prescienza divina alla libertà umana. Gli uni dissero: Dio è quello che determina l’uomo, e allora questo scompare; gli altri insegnarono che Dio è determinato dall’uomo, e da questo punto l’essenza immutabile fu soggettata al mutamento. Così gli uni distruggono l’uomo, mentre gli altri mutilano Dio (Moehler: La Simbolica, Tom. II, pag. 366). » A questo proposito Bossuet ha scritto una pagina d’una magistrale eloquenza, nella quale fa vedere come la sommissione dello spirito umano alla fede lo renda atto ad abbracciare la verità totale, e come per lo contrario la sua emancipazione lo condanni a’ più miserabili naufragi. Noi non possiam resistere al piacere di citarla, tanto più che vi è congiunta la nostra questione.

« Il signor Jurieu vorrebbe ch’io gl’insegnassi come si accorda il libero arbitrio coi decreti eterni. Debole teologo, il quale fa le viste di non sapere quante verità si debbano credere, quantunque non sappiamo sempre il mezzo di conciliarle insieme! Che direbbe egli ad un sociniano che tenesse a lui il linguaggio stesso che egli tiene con me, e lo stringesse a questo modo? Io vorrei che il signor Jurieu ci spiegasse come l’unità di Dio si accorda colla Trinità? Entrerebbe egli con lui nella discussione di questo accordo, e si obbligherebbe egli a spiegargli il segreto incomprensibile dell’Essere divino? Non crederebbe egli di averlo vinto mostrandogli che queste due cose sono egualmente rivelate, e che per conseguenza, suo malgrado, e non ostante la piccolezza dello spirito umano, che non può conciliarle perfettamente, bisogna che l’infinità immensa dell’essere di Dio le conditi e le unisca? Ma, senza fermarci sopra questo mistero, che cos’è in tutto e in ogni parte la nostra fede, se non un complesso di verità sante che sopravanzano la nostra intelligenza, e che noi avremmo, non già credute, ma intese perfettamente ed evidentemente se potessimo conciliarle insieme con un metodo manifesto? Imperocché in tal guisa noi ne vedremmo, per così dire, tutti i confini; ne vedremmo le soluzioni del paro che i nodi; e avremmo in mano la chiave del mistero per entrarvi tanto avanti quanto vorremmo. Ma la cosa non è così; e quando così sarà non sarà più questa vita, ma la futura; non sarà più la fede, ma la visione. Che dobbiam far noi intanto, se non credere e adorare ciò che non si comprende, unir colla fede ciò che non si può ancora unire col dirla in una parola, come san Paolo, ridurre cattività sotto l’obbedienza di Gesù Cristo?» Quelli che non possono a ciò risolversi nella dottrina cristiana e fanno tanti naufragi quante sono lo questioni che decidono; perocché v’ha da per tutto la difficoltà, alla quale si soccombe, si perisce. E per venire in particolare a quella di che si tratta, il sociniano prova in sé medesimo la libertà della sua scelta; nessuna ragione può togliergli questa esperienza; ma non potendo accordare questa scelta colla prescienza di Dio, egli nega questa prescienza; soccombe alla difficoltà; si rompe contro lo scoglio, e, come dice san Paolo, fa naufragio nella fede. Il naufragio del calvinista, che, per sostenere la prescienza o la providenza, toglie all’uomo la libertà della sua scelta e fa Dio autore necessario di tutti gli avvenimenti umani, è esso minore? Niente affatto, l’uno e l’altro si sono spezzati contro la pietra. Quegli che tiene insieme queste due verità cui gli altri confondono insieme distruggendo l’una coll’altra; quegli che può, è, sapendo bene che non è qui il luogo di comprenderle, le supera colla fede nell’aspettazione di raggiungerle coll’intelligenza, sarebbe forse necessario dire al signor Jurieu, se fosse teologo, che costui è il solo che naviga sicuramente e che solo potrà giungere alla verità come al porto? Che serve dunque allegar qui la grazia efficace e i tomisti? Questi dottori, come gli altri cattolici, sono d’accordo nell’escludere dalla volontà dell’uomo una inevitabile necessità e nell’ammettervi una libertà intera di fare e non fare. Se essi durano fatica a conciliare la libertà umana coll’immutabilità dei decreti di Dio, non soccombono però alla difficoltà; essi remigano con tutte le loro forze per non essere gettati contro lo scoglio. Il signor Jurieu, che, per confondere tutto, quando invece si tratta semplicemente di stabilir la fede, vorrebbe indurmi a discutere il modo col quale procuriamo spiegarla, non vuole che trastullare il mondo (Bossuet: Secondo Avvertimento). » – La questione non si agitava ancora che nell’ordine teologico. Nel seno stesso della Chiesa si erano prodotte in ogni tempo delle opinioni diverse su questo misterioso rapporto della grazia e della libertà, dell’elemento divino e dell’elemento umano; e la loro discussione, contenuta entro i limiti della fede, era stata autorizzata dalla Chiesa che vi presiedeva, siccome atta ad arricchire lo spirito umano dei tesori della verità, facendoglieli meglio conoscere. Ma dal giorno in cui il protestantismo ha scosso il giogo della Chiesa e non ha più voluto riconoscere altro tribunale che quello dello spirito umano, allora il legame superiore che ratteneva queste opinioni è stato rotto, ed esso diventate pei loro errori, eresie contradittorie, ciascuna delle quali recava seco una porzione della verità, esagerandola a danno dell’altra o piuttosto distruggendole ambedue doppiamente per esagerazione e per negazione, fino a togliere la nozione della libertà morale nell’ammettere il dogma della predestinazione, e quella della provvidenza coll’esaltare esclusivamente i diritti e le forze dello spirito umano. Questo disordine non doveva rimanere nella regione della teologia; il fenomeno, facendosi grande, doveva diventar filosofico, indi poetico e sociale. – Noi abbiamo già veduto nella prima parte di quest’opera l’ima delle sue facce, quella del filosofismo, del naturalismo, radicalmente esclusivo dell’ordine soprannaturale, e per conseguenza sovversivo di ogni ordine naturale, politico e sociale che egli priva di contrappeso — essenzialmente rivoluzionale. Ciò che noi abbiamo avuto principalmente in mira di dimostrare è che il filosofismo rivoluzionale non era che l’ultima giornata, in certo mal modo, della negazione nata dal libero esame, e lo scioglimento, nell’ordine sociale, della rivoluzione cominciata nell’ordine religioso nel secolo decimosesto; non era se non una trasformazione del protestantismo. Esso fu a bella prima sospinto alle sue ultime applicazioni col furore francese, nocivo all’errore cui esso compromette, e che lo disapprova dopo dì averlo ispirato; ma esso era davvero e debitamente figlio del protestantismo, nato dal socinianismo inglese e ginevrino, propagato dai torchi olandesi, e importato in Francia, ove esso aveva del resto trovate attive sementi lasciate da quel socinianismo libertino, la cui invasione spaventava cotanto Jurieu in Olanda e gli antichi ministri rifuggitisi in Inghilterra. – Del resto noi l’abbiam veduto alla medesima epoca nascere da sé medesimo e svilupparsi sulla terra classica del protestantismo, in Alemagna, ove i suoi partigiani si chiamavano coscienziari, come in Inghilterra si denominavano liberi pensatori; Mat. Kuntzen, Edelmann, Nicolai, Wolfenbuttel, Reimarus, Lessing ed altri teologi, professori e dottori protestanti ne erano i capi. In un nugolo di scritti intitolati: Le verità innocenti; Il monaco smascherato; Il Cristo e Belial; La divinità della ragione; Il grido della ragione dall’alto della cattedra; Dell’impossibililà di una rivelazione divina; La falsità della risurrezione; Dello scopo di Gesù e de’ suoi discepoli; La piccola Bibbia; Almanacco delle chiese e delle eresie; Saggio di sistema di dommatica biblica; Lettere sulla bibbia di Folkstone; La nuova rivelazione; Spiegazione del piano e dello scopo di Gesù e di alcuni altri; Storia della vita di Gesù per lui medesimo, ecc. ecc., il naturalismo faceva esplosione come una fermentazione della ragione protestantizzata. In essa insegnavasi « che bisogna rigettare il Corano cristiano, non meno contradittorio e altrettanto poco autentico che quello dei Turchi, per attenersi come Enoch e Noè alla ragion sola, alla coscienza che la natura da maternamente a tutti gli uomini, e che insegna loro a vivere onestamente, a non nuocere a persona, a rendere a ciascuno ciò che gli appartiene. È questa la vera Bibbia. Il cielo e l’inferno è la coscienza. Non v’ha né Dio, né demonio. La Bibbia non fa differenza tra il matrimonio e la fornicazione. È d’uopo purgar la terra de’ sacerdoti, dei re, di tutte le potestà stabilite. » (Acta hist.eccl. nostr. temp., tom IV, p. 434) Tutto quanto il protestantismo non era certamente trascorso ancora sino a questo punto; v’aveva la coda degli ortodossi che protestava contro la testa; ma esisteva fra l’una e l’altra una comunanza di principio che per un concatenamento logico non faceva di tutto il protestantismo che un solo corpo di eresia che si avanzava per via di evoluzioni verso il vortice del naturalismo. Noi abbiamo veduto come questo vortice diventasse quello della società; abbiam veduto per qual via sotterranea percorsa da Rousseau a Luigi Blanc, e illuminata ai nostri occhi dalla fiaccola di Proudhon, la negazione del sistema cristiano della caduta e della redenzione, togliendo la gran spiegazione e il gran rimedio del male nel mondo, conducesse ai sistemi socialisti, che del male stesso ne accagionano la società e la previdenza e ne continuano la riparazione in mezzo alla distruzione universale. Ma il protestantismo, che aveva menato il mondo al socialismo per mezzo del naturalismo, doveva precipitarvelo per mezzo del panteismo, e questa seconda faccia del fenomeno è appunto quello che dobbiam ora mostrare. La natura umana ha orrore del vuoto dell’infinito. Sull’orlo di questo abisso, la piglia una vertigine, ed essa vi si precipita follemente quando non è in comunicazione regolare con lui mercé la religion vera. L’empietà medesima che fa questo vuoto dell’ infinito. lo empie a misura che lo scava, colla divinizzazione del finito che gli sostituisce. Non è mai, neppure per breve istante, che gli altari si rimangano senza divinità e senza adoratori; e quando n’è cacciato il vero Dio, la dea Ragione vi sale in sua vece. La religione del vizio e della colpa protesta contro l’irreligione; e la colpa medesima anziché sostenere il supplizio del nulla, va incontro al castigo decretando l’Ente supremo. – Ma queste enormità, le quali provano a qual punto l’uomo è religioso, non sono che eccessi di follia poco durevoli. Bisogna venire a regolarizzare la soddisfazione di questo sentimento colla verità o con un errore più specioso. La società francese usci dal naturalismo per risalire al cattolicismo; 1’Alemagna protestante per andare a gettarsi nel panteismo. La reazione religiosa in Alemagna volse al panteismo sotto 1’influenza di Kant. Cosa degna d’esser notata, il più gran genio che abbia onorato il protestantismo, Leibnitz, è stato senza influenza sopra di esso. Vero è che Leibnitz, quantunque protestante, ha in tutta la sua vita inchinato verso il Cattolicismo, e finì per abbassare ad esso il forte suo capo; ma con qual candore d’intenzione, con qual grandezza di spirito e qual maestà di carattere! Il protestantismo non ebbe e non sarà mai che abbia luce meglio fatta per illuminarlo, più degna di essere seguita, e gli agevoli il ritorno all’unità con maggiore autorità e Io stimoli alla disapprovazion dell’errore con maggior gloria. Ebbene, questo grand’uomo non ha tocco menomamente il cuore al protestantismo; anzi poco mancò che non fosse disapprovato, e che la sua gran gloria non torni anche oggidì importuna ai protestanti quanto essa è cara all’umanità. L’influenza che Leibnitz non ebbe sul protestantismo era riserbata a Kant, a Fichte, a Schelling e sopra ogni altro ad Hegel. Apparvero, costoro e si tennero proprio di buona fede i difensori del Cristianesimo, per quanto è ciò possibile con una dottrina che, non avendo altro che la ragion naturale per aggiungere uno scopo soprannaturale, mal può evidentemente empiere un abisso se non scavandone un altro.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (44): RAPPORTO DEL PROTESTANTESIMO COL SOCIALISMO PER MEZZO DEL PANTEISMO(2)