LO SCUDO DELLA FEDE (78)

LO SCUDO DELLA FEDE (78)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO I.

QUALI BENI SPIRITUALI TOLGA IL PROTESTANTESIMO

Chiunque ha dal Signore la grande grazia di vivere nella S. Chiesa, possiede un tesoro di beni spirituali, che sono i più preziosi che si possano immaginare. I Protestanti (compreso  il falso Novus Ordo e i sedevacantisti vari – ndr.-) con lo strapparvi dalla S. Chiesa vi vogliono rapire tutti questi beni. Miei cari, considerate un momento l’ampiezza e la gravità del danno che vi vogliono fare, che basterà certo a colmarvi di santo orrore. – Chiunque è entrato nella S. Chiesa per mezzo del S. Battesimo, di brutto e deforme che era pel peccato originale diventò mondo e bello per la grazia di Dio infusale in quel punto: di nemico che era del Signore gli è diventato amico: di schiavo di lucifero che era, divenne figliuolo di Dio: d’impotente a nulla operare per la vita eterna divenne libero di verace libertà, che è quella di poter meritare: mentre prima era spoglio d’ogni bene, colmo di ogni male diventò ricco in Gesù Cristo di tutti i doni e possessore fortunato dell’abito della Fede, della Speranza e della Carità e di tante altre virtù: e quello che tutto corona, divenuto per la grazia figliuolo di Dio, è stato fatto erede del santo Paradiso. Ora ecco quello che vi farebbero i Protestanti se vi strappassero dalla S. Chiesa: vi ruberebbero tutti questi tesori, e vi spoglierebbero di tutti questi beni e soprattutto dell’eterna eredità che sperate da Gesù Cristo. – Nella S. Chiesa avendo ricevuto voi la Confermazione, voi avete lo Spirito Santo che abita nel vostro cuore con i suoi doni e con le sue grazie, che v’illumina nella mente per ben osservare i santi comandamenti e che vi conforta il cuore, perché possiate negl’incontri anche difficili, mostrarvi veri Cristiani, professando la S. Fede. Ma se vi strappassero dal cuore questa Fede si partirebbe da voi lo Spirito Santo, e voi rimarreste privo di tutte quelle grazie di cui esso è la fontana perenne. – Finché siamo in questa vita, pur troppo cadiamo sempre nel peccato, e pur troppo cadiamo anche talvolta in peccati gravi, che danno morte all’anima nostra, privandoci della grazia di Gesù. Ora qual è tutta la nostra speranza quando siamo carichi d’iniquità e meritevoli dell’Inferno? Allora noi abbiamo nella S. Chiesa istituito da Gesù Cristo il Sacramento della Confessione; noi manifestiamo tutti i nostri peccati al Sacerdote che è ministro di Gesù per concederci in suo nome il perdono. Se egli vede che noi sinceramente e con tutto il cuore detestiamo il peccato, egli con l’autorità che Gesù Cristo gli ha data, ce ne assolve e ci perdona: e Dio rimette nel cielo quello che egli ha rimesso in terra secondo le sue infallibili promesse. Oh che grazia grande è questa che possiedono i Fedeli! Che sarebbe di noi che siamo tanto facili a cadere, se non avessimo questa consolazione in vita e specialmente nell’ora della morte, quando tanto importa d’essere perdonati da Dio? Ora, miei cari, i Protestanti vi priverebbero di questo gran bene qual è il perdono dei peccati; e togliendovi dal cuore quella dolce fiducia che avete di essere perdonati, fondata sulle divine promesse, vi sostituirebbero una presunzione superba di salvarvi senza merito o una irreparabile disperazione. Dovreste tremare sempre come le foglie al vento dicendo: chi sa se io sia perdonato, nessuno me ne assicura, nessuno me ne dà speranza, e soprattutto poi nell’ora della morte vi trovereste in estreme angustie. Oh perfidi che vi vogliono togliere tanti beni e con tanta ipocrisia! La Santa Confessione per noi è l’apparecchio a beni anche maggiori. Dopoché ci siamo purificati nel Sangue prezioso di Gesù con la Confessione e col pentimento nel Sacramento della Penitenza, noi passiamo a ricevere Gesù nel S. Sacramento dell’Altare. Qui le grazie che ci fa il buon Gesù non si possono dire per metà. Egli ci dà allora il suo Corpo Divino, il suo Sangue prezioso, l’anima sua sacrosanta, la sua ineffabile divinità: e cosi stringendoci tutti a Lui ne riempie d’ogni sorta di grazie: grazie per vincere tutte le tentazioni del mondo, del demonio e della carne: grazie per disimpegnare tutti gli obblighi del nostro stato: grazie per amarlo ardentemente, non solo con le parole, ma con l’esecuzione di tutti i suoi comandi: grazie per arrivare facilmente al cielo. Quando noi ci comunichiamo degnamente, noi restiamo così uniti ed incorporati con Gesù, che i Santi Angeli stessi ce ne portano invidia. Oh che stato fortunato è mai questo! Ebbene guardate la perfidia dei Protestanti. Essi non riconoscono per niente questa gran grazia del Signore. Non credono che Gesù Cristo stia presente nella S. Eucaristia, e sono tanto superbi, che non lo credono neppure a Gesù Cristo, il quale lo ha detto più volte, non lo credono alla S. Chiesa che l’ha imparato dalla bocca di Gesù e dei santi Apostoli; non lo credono a tutti i Santi i quali ricevevano con tanta riverenza ed amore questo cibo angelico, e dopo che i miseri sono per la loro infedeltà e malizia privi di tutti questi beni, ne vogliono privare anche voi dandovi ad intendere che Gesù Cristo non si trova in quell’Ostia sacrosanta, e che non vi può far nessun bene. Ah malvagi che sono, ah infedeli! Nési contentano ancora di tanti beni preziosi che vi hanno involato. La S. Eucaristia oltre all’essere Sacramento che noi riceviamo, è ancora il sacrifizio che noi offriamo a Dio. Voi sapete che quando il Sacerdote si reca al S. Altare e celebra la S. Messa, esso non fa altro che immolare di nuovo il nostro buon Gesù all’eterno Padre, rinnovando così, sebbene senza spargimento di sangue, il gran Sacrifizio che fu già offerto dallo stesso Gesù sopra la Croce. Ora quando il Padre nostro celeste vede quella gran vittima che gli è tanto cara, perché è il suo Figliuolo Unigenito, si placa subito verso di noi, ascolta le nostre preghiere per riguardo di Lui, si rende propizio ai nostri peccati e pago e soddisfatto di quell’onore che Egli gli rende, lo accetta da Lui come se glielo avessimo fatto noi stessi, di cui Egli è il Redentore ed il Salvatore pietoso. Di quaè poi che in forza di questo gran sacrificio che per noi si offre ed a cui noi siamo presenti almeno nei dì festivi, il Signore risparmia alla terra tanti castighi che la sua giustizia manderebbe sopra di noi e ci converte invece in benedizioni quelle maledizioni che noi avremmo meritato. Guai al mondo, se non si offrisse nel mondo il santo Sacrificio della Messa! Ma i Protestanti dopo di averci rapito tutti gli altri beni, ci vogliono togliere anche questo, e così toglierci con un colpo solo tutti i beni corporali e spirituali che ci provengono dal Sacrifizio. Oh malvagità, oh perfidia! – Né sono ancora paghi. Ci vorrebbero ridurre in questa terra a vivere come le bestie. Ci vogliono rapire il santo Sacramento del matrimonio, negando che esso sia un sacramento. E così l’unione dell’uomo con la donna invece di essere santificata dalla grazia di Gesù Cristo, sarebbe come l’unione dei cani e delle bestie. – Ci vogliono togliere il Sacramento dell’Ordine con cui si fanno i sacerdoti, e così a poco a poco ci farebbero diventare come i selvaggi i quali sono senza Chiesa, senza sacerdoti e senza Dio. Credereste? perfino nelle nostre agonie ci vorrebbero contristare, levandoci la grande consolazione dell’Olio santo. In quel momento in cui è così grande il bisogno, in cui il demonio ci assale, la vista dei nostri peccati ci conturba, la infermità ci affanna, in quel momento terribile i buoni Fedeli ricevono un gran conforto dal Sacramento dell’Estrema Unzione, perché Gesù per mezzo di essa ci anima, ci consola, ci rimette anche i peccati, ci dà fiducia per morir bene. Ora questi perfidi ci perseguitano anche in quei momenti, vietando che ci si amministri questo Sacramento di tanta consolazione. Può darsi un delitto più grave di questo? Eppure essi mirano a tutto ciò, giacché se voi diventaste protestanti, sareste privi di tutti questi tesori che essi disprezzano, perché non conoscono e non vogliono conoscere. – Ah mille morti piuttosto che cadere in tanto errore e tanta abbominazione!

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 2 –

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (2)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vic. Gen. 7/VI/1955]

4. Necessità della grazia della perseveranza.

Il giustificato non può perseverare sino alla fine nella giustificazione ricevuta, senza un particolare aiuto di aiuto. De fide.

Il II Concilio di Orange insegna, contro i semipelagiani, che anche i rigenerati devono sempre implorare l’aiuto di Dio, onde pervenire a una buona fine e poter perdurare nelle opere buone (D. 183). Il Concilio di Trento chiama la perseveranza finale « un grande dono (magnum illud usque in finem perseverantiæ donum (D. 826) e insegna che il giustificato senza un particolare aiuto di Dio non può perseverare nella giustizia ricevuta: Si quis dixerit, iustificatum vel sine speciali auxilio Dei in accepta iustitia perseverare posse vel cum eo non posse, A. S. (D. 832). Il « particolare aiuto di Dio » necessario alla perseveranza finale consiste in una somma di grazie attuali.

Si distingue tra:

a) perseveranza temporaneao imperfetta che dura per un certo tempo, per es. da una confessione all’altra, e perseveranza finaleo perfetta, che dura fino alla morte;

b) perseveranza (finale) passiva,che è il coincidere della morte o della chiamata di Dio con lo stato di grazia, e perseveranza attiva,che è la continua cooperazione del giustificato con la grazia. Quella dei bambini è passiva, quella degli adulti è ordinariamente passiva e attiva. Nella tesi si parla solo di quest’ultima;

c) possibilità di perseverare (posse perseverare) e perseveranza effettiva o attuale (actu perseverare). La possibilità di perseverare, dacché Dio vuole che tutti si salvino, è data a tutti, la perseveranza effettiva è data solo agli eletti. La Scrittura attribuisce a Dio il compimento dell’opera di Salvezza. Fil. 1, 6: « Colui che ha incominciato in voi l’opera buona, la perfezionerà sino al giorno di Gesù Cristo ». Cfr. Fil. II, 13; 1 Piet. V, 10. Essa accentua la necessità della preghiera continua, per poter superare gli ostacoli che si oppongono alla salvezza (Lc. XVIII, 1: « Si deve pregare sempre senza stancarsi mai »; 1 Tess. V, 17: « Pregate senza interruzione ») come pure la necessità di una fedele collaborazione con la grazia divina (Mt. XXVI, 41: « Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione »; cfr. Lc. XXI, 36). . S. AGOSTINO, alla fine della sua vita, ha scritto una monografia dal titolo De dono perseverantiæcontro i semipelagiani, nella quale si fonda particolarmente sulla prassi della preghiera: « Perché dunque si chiede a Dio questa perseveranza, se non è Lui che ce la dà? Non sarà la nostra una petizione irrisoria, se gli chiediamo ciò che si sa che Egli non può dare, ma che è in potere nostro averlo, senza che Egli ce lo conceda? » (2, 3). – La perseveranza finale non può essere meritata (de condigno), ma si può ottenere infallibilmente con la preghiera costante fatta in stato di grazia: Hoc Dei donum suppliciter emereri potest (De dono persev. 6, 10). L a certezza di essere esauditi è fondata sulla promessa di Gesù (Gv. 16, 23). Siccome però l’uomo fino a che non sia immutabilmente confermato nel bene, ha sempre la possibilità di cadere, nessuno, senza una speciale rivelazione, può sapere se persevererà realmente sino alla fine. Cfr. D. 826. F i l . II, 12; 1 Cor. X, 12. – Il motivo intrinseco della necessità della grazia della perseveranza, sta nel fatto che la volontà umana, per la continua ribellione della carne contro lo spirito, non ha in se stessa la forza di persistere immutabile nel bene (perseveranza attiva). – Cosi pure non è in potere dell’uomo far coincidere l’istante della sua morte con lo stato di grazia (perseveranza passiva). Cfr. S. Th. I – II, 109, 10.

5. Necessità di una particolare grazia per evitare durante tutta la vita ogni peccato veniale.

Il giustificato non è in grado, senza una particolare grazia, di evitare durante tutta la vita ogni peccato, anche veniale. De fide.

Il Concilio di Trento dichiarò, contro la dottrina dei Pelagiani, secondo cui l’uomo con le sue proprie forze può durante tutta la sua vita evitare ogni peccato, che a tal fine è necessario uno speciale privilegio di Dio: Si quis hominem semel iustificatum dixerit… posse in tota vita peccata omnia, etiam venialia, vitare, nisi ex speciali Dei privilegio, quemadmodum de beata Virgine tenet Ecclesia, A. S. (D. 833). Cfr. D. 107-108; 84.

Per un’esatta comprensione del dogma occorre notar quanto segue: Per « peccata venialia » si devono intendere principalmente i peccati semideliberati; « omnia » va preso in senso collettivo, non distributivo, vale a dire che con l’aiuto della grazia ordinaria si possono evitare i singoli peccati veniali, ma non tutti insieme; « tota vita » significa uno spazio di tempo piuttosto lungo; il « non posse » designa una impossibilità morale; lo « speciale privilegium » in questione comprende una somma di grazie attuali, che rappresentano un’eccezione dell’ordine comune della grazia, ed una eccezione tutta particolare. – Secondo la Scrittura nessuno si mantiene immune da tutti i peccati. Giac. III, 2: « Tutti manchiamo in molte cose ». Il Signore esorta anche i giusti a pregare: « Rimetti a noi i nostri peccati » (Mt. VI, 12). Il Concilio di Cartagine (418) respinse l’interpretazione pelagiana secondo cui i giusti pregano per la remissione dei peccati altrui o, se pregano per sé, pregano secondo umiltà e non secondo verità (humiliter, non veraciter D. 107-108; cfr. 804). – S. AGOSTINO scrive contro i pelagiani: Se si potessero radunare tutti i giusti della terra e domandare loro se siano senza peccati, risponderebbero all’unisono con l’Apostolo Giovanni (1 Gv. 1, 8): « Se noi diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi » (De nat. et grat. 36, 42). – Il motivo intrinseco sta nella debolezza della volontà decaduta di fronte al complesso degli impulsi disordinati, e nella saggia disposizione della provvidenza che permette le piccole mancanze, per mantenere il giusto nell’umiltà e nella coscienza della sua totale dipendenza da Dio. Cfr. S. Th. I – II, 109, 8.

§ 9. La capacità e i limiti della natura umana senza la grazia.

La dottrina cattolica della grazia sta di mezzo a due estremi. Di fronte al naturalismo dei pelagiani ed al razionalismo moderno, essa difende la necessità assoluta della grazia elevante e la necessità morale della grazia sanante. Di fronte all’esagerato sopranaturalismo dei riformatori, dei seguaci di Bajo e di Giansenio essa difende la capacità della natura umana da sola nel campo religioso e morale. Opponendosi ai due estremi, la teologia cattolica fa una netta distinzione tra l’ordine della natura e della sopranatura, tra religione e morale naturale e religione e morale soprannaturale.

1. Capacità della natura da sola.

a) L’uomo anche nello stato decaduto può conoscere con la sola ragione naturale verità religiose e morali. De fide.

Questa possibilità è fondata sul fatto che le forze naturali dell’uomo col peccato originale non furono distrutte (naturalia permanserunt integra), anche se indebolite dalla perdita dei doni soprannaturali. Cfr. D. 788, 793, 815. – Papa Clemente XI respinse la proposizione giansenistica secondo cui noi senza fede, senza Cristo, senza carità siamo soltanto tenebra, errore e peccato (D. 1398; cfr. 1391). Il Vaticano dichiarò dogma la conoscibilità naturale di Dio, chiaramente attestata in Sap. XIII, 1 ed in Rom. 1, 20 (D. 1785, 1806); cfr. D. 2145 (dimostrabilità dell’esistenza di Dio). La conoscibilità naturale della legge morale è attestata in Rom. II, 14-15; cfr. D. 3005. La stessa civiltà superiore dei popoli pagani depone in favore della capacità della ragione umana naturale. Vedi Trattato di Dio, §§ 1 e 2.

b) Per compiere azioni moralmente buone non è richiesta la grazia santificante. De fide.

Quantunque sia senza grazia santificante, il peccatore può tuttavia compiere opere moralmente buone e, con l’aiuto della grazia attuale, anche buone soprannaturalmente (benché non meritorie) e prepararsi così alla giustificazione. Perciò non tutte le opere dei peccatori sono peccati. Il Concilio di Trento dichiarò: Si quis dixerit, opera omnia, quæ ante iustificationem fiunt, quacunque ratione fatta sint, vere esse peccata vel odium Dei mereri… A.S. (D. 817; cfr. D. 1035, 1040, 1399).

La Scrittura esorta i peccatori a prepararsi alla giustificazione mediante opere di penitenza. Ez. XVIII, 30: « Convertitevi, fate penitenza di tutte le vostre iniquità, e l’iniquità non sarà più a vostra rovina ». Cfr. Zac. 1, 3; Sal. L, 19; Mt. III, 2. Non si può pensare che azioni richieste da Dio e preparanti alla giustificazione siano peccaminose. La prassi ecclesiastica della penitenza e del catecumenato sarebbe incomprensibile, se tutte le opere compiute senza la grazia santificante  fossero peccati. La frase di Mt. VII, 18: « Un albero cattivo non può produrre frutti buoni » non esclude che il peccatore possa fare opere moralmente buone, così come non esclude che il giusto possa fare dei peccati la frase parallela: « Un albero buono non può produrre frutti cattivi ». – S. AGOSTINO insegna che anche la vita dell’uomo più malvagio difficilmente sarà priva di qualche opera buona (De spirito et litt. 28, 48). La sua sentenza cui s’appellano i giansenisti: « Regnat carnalis cupiditas, ubi non est Dei caritas » (Enchir. 117) non prova che ogni singola azione del peccatore sia peccaminosa, ma vuol esprimere soltanto il concetto che nella vita morale vi sono due tendenze, l’una dominata dall’impulso al bene (amore divino in senso lato) e l’altra dalla concupiscenza disordinata (amore del mondo e di sè). Cfr. Mt. VI, 24: «Nessuno può servire due padroni». Lc. XI, 23: « Chi non è con me è contro di me ». Per il significato del concetto di carità in Agostino cfr. De Triti. VIII, IO, 14: charitas = amor boni; De gratia Christi 21, 22: charitas = bona voluntas; Contro duas. p. Pel. II, 9, 21: charitas = boni cupiditas.

c) Per compiere azioni moralmente buone non è richiesta la grazia della fede. Sent. certa.

Anche l’infedele può compiere azioni moralmente buone. Di conseguenza non tutte le sue opere sono peccati. Pio V condannò la seguente proposizione di Baio: Omnia opera infidelium sunt peccata et philosophorum virtutes sunt vitia (D. 1025); cfr. D. 1298. – La Scrittura riconosce anche ai pagani la capacità di compiere opere moralmente buone. Cfr. Dan. IV, 24; Mt. V, 47. Secondo Rom. II, 14 i pagani sono per natura capaci di adempiere i precetti della legge morale: « Quando i Gentili che non hanno la legge (mosaica), per lume naturale fanno ciò che la Legge comanda, senza avere la Legge, sono legge a se stessi ». Paolo pensa ai veri pagani, non ai pagani-cristiani, come « spiegava erroneamente Bajo (D. 1022). Il passo Rom. XIV, 23: « omne autem, quod non est ex fide, peccatum est » si riferisce non alle fede cristiana come tale, ma alla coscienza (πίστις = ferma convinzione, giudizio della coscienza), e quindi si traduce: « Quanto non procede da convinzione (ossia non è secondo coscienza) è peccato ». – I Padri attribuiscono senza riserve agli infedeli la capacità di compiere azioni moralmente buone. S. AGOSTINO loda la sobrietà, l’altruismo e l’incorruttibilità del suo amico Alipio, non ancora Cristiano (Conf. V I , 7, 10) e le virtù civili degli antichi (Ep. 138, 3, 17). Se si trovano nei suoi scritti non poche espressioni che quasi coincidono verbalmente con le proposizioni di Bajo, in quanto sembrano affermare che le opere buone e le virtù dei pagani sono peccati e vizi (cfr. De spirito et litt. 3, 5), occorre interpretarle tenendo conto della sua polemica contro il naturalismo pelagiano, nella quale egli ammette come veramente buono e vera virtù solo ciò che ha relazione col fine soprannaturale dell’uomo. Cfr. Contra Iulianum IV, 3, 17, 21, 25.

d) Per compiere opere moralmente buone non è richiesta la grazia attuale. Sent. certa.

L’uomo decaduto può compiere con le sole forze naturali, senza l’aiuto della grazia divina, opere moralmente buone. Perciò non tutte le opere fatte senza grazia attuale sono peccati: Pio V condannò la seguente proposizione di Bajo: Liberum arbitrium, sine gratiæ Dei adiutorio, nonnisi ad peccandum valet (D. 1027) cfr. D. 1037, 1389.

Né con la scrittura né con l’antica tradizione si può provare la necessità di un aiuto della grazia attuale per tutte le opere moralmente buone. A torto gli avversari si appellano a S. AGOSTINO. Se egli dichiara ripetutamente che senza grazia di Dio non è possibile alcuna opera esente da peccato, occorre osservare che chiama peccato in senso ampio tutto ciò che non ha relazione alcuna con il fine soprannaturale. In tal senso dev’essere inteso anche il can. 22 del II Concilio di Orange: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum (D. 195 = AGOSTINO, In Ioan. tr. 5, 1).

2. Limiti della capacità naturale.

a) Nello stato della natura decaduta è per l’uomo moralmente impossibile, senza rivelazione soprannaturale, conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore tutte le verità naturali morali e religiose. De fide.

Il Concilio Vaticano dichiarò in accordo con S. TOMMASO

(S. Th. I, 1, 1): «È merito di questa divina rivelazione se le verità divine, che per sé non trascendono l’umana ragione, anche nello stato presente del genere umano, da tutti si possono conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore » (D. 1786). Cfr. l’enciclica Humani generis (D. 3005), che conferma e spiega l’insegnamento del Concilio Vaticano, parlando anche espressamente delle « verità morali », cioè « della legge naturale ».

     Il motivo per cui senza rivelazione soprannaturale soltanto pochi uomini raggiunsero di fatto una completa conoscenza di Dio e della legge morale e naturale, sta nell’indebolimento dell’intelletto, causato dal peccato originale (vulnus ignorantiæ).

b) Nello stato della natura decaduta è moralmente impossibile all’uomo, senza grazia medicinale (grazia sanans), adempiere per lungo tempo l’intera legge e vincere tutte le tentazioni gravi. Sent. certa.

Se, come insegna il Concilio di Trento, lo stesso giustificato ha bisogno « di un particolare aiuto di Dio per evitare durevolmente tutti i peccati gravi e cosi perseverare nello stato di grazia » (D. 806, 832), con maggior ragione bisogna ammettere che chi non è giustificato non può evitare per lungo tempo tutti i peccati gravi, anche se, grazie alla sua libertà naturale, ha la capacità di evitare questo o quel peccato e di osservar questo o quel comandamento. – L’Apostolo Paolo descrive in Rom. VII, 14-25 la debolezza dell’uomo decaduto, fondata sulla concupiscenza disordinata, di fronte all’assalto delle tentazioni e accentua la necessità dell’aiuto divino per superarle.

CAPITOLO TERZO

La distribuzione della grazia attuale.

§ 10. La gratuità della grazia.

1. La grazia non può essere meritata in alcun modo (né de condigno né de congruo) con buone opere naturali. De fide.

Il II Concilio di Orange insegna contro i pelagiani ed i semipelagiani che la grazia non è preceduta da alcun merito: nullis meritis gratiam præveniri (D. 191). Il Concilio di Trento afferma che la giustificazione negli adulti ha inizio con la grazia preveniente, in quanto essi « sono da lui chiamati, senza alcun merito preesistente » (nullis eorum existentibus meritis; D. 797). Nella Lettera ai Romani Paolo dimostra che la giustificazione non può essere ottenuta né mediante le opere della Legge del Vecchio Testamento, né mediante l’osservanza della legge naturale, ma è un libero dono dell’Amore divino: « Tutti sono gratuitamente (δωρεάν (dorean) = gratis) giustificati per la sua misericordiosa bontà » (III, 24). Cfr. Rom. III, 9. 23; XI, 6: « Ma se ciò è stato fatto per grazia, dunque non per le opere: altrimenti la grazia non sarebbe più grazia ». Cfr. Ef. II, 8 ss.; 2 Tim. 1, 9; Tit. III, 4-5; 1 Cor. IV, 7. Tra i Padri il più strenuo difensore della gratuità della grazia contro i pelagiani è S. AGOSTINO. Cfr. Enarr. in Ps. XXX, sermo 1, 6: « Perché grazia? Perché viene data gratuitamente. Perché vien data gratuitamente? Perché non è preceduta dai tuoi meriti ». In Ioan. tr. 86, 2: « Non vi sarebbe grazia se precedessero i meriti. Ma la grazia c’è, essa dunque non trova i meriti, ma li opera ». – La ragione argomenta la gratuità della prima grazia dal fatto della mancanza di intrinseca proporzione tra la natura e la grazia (gratia excedit proportionem naturæ) e dalla impossibilità di meritare il principio (la grazia) del merito stesso (principium meriti non cadit sub eodem merito). Cfr. S. th. I – II, 114, 5.

2. La grazia non può essere ottenuta con suppliche naturali. Sent. certa.

Il II Concilio di Orange insegna contro i semipelagiani che la grazia non viene concessa perché invocata (naturalmente) dall’uomo, ma che è invece la grazia a far sì che noi invochiamo Dio (D. 176). Secondo la dottrina di S. Paolo la retta preghiera è un frutto della grazia dello Spirito Santo. Rom. VIII, 26: « Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza: poiché noi non sappiamo quello che convenientemente abbiamo da domandare; ma lo stesso Spirito intercede per noi con gemiti inesprimibili ». 1 Cor. XII, 3: « Nessuno dice: Gesù Signore, se non in Spirito Santo ». – S. AGOSTINO insegna che la preghiera salutare efficace è effetto della grazia di Dio. Commentando Rom. VIII, 15 («riceveste lo spirito di adozione filiale per cui gridiamo: Abba! Padre! ») egli dice: « Di qui comprendiamo che anche questa è dono di Dio il poter gridare a lui interiormente e con sincerità di cuore. Vedano dunque quanto errano coloro i quali pensano che abbiamo da noi stessi, non ricevuto da altri, il potere di chiedere, di cercare, di picchiare » (De dono persev. 23, 64). Poiché l’iniziativa dell’opera di salvezza parte da Dio, una preghiera salutare efficace è possibile soltanto con l’aiuto della grazia divina preveniente.

3. L’uomo non può acquistarsi alcuna disposizione naturale positiva alla grazia. Sent. certa.

Per disposizione si intende la capacità di un soggetto di ricevere una forma, cioè una determinazione. Mentre la disposizione negativa rimuove unicamente gli ostacoli che si frappongono alla recezione della forma, quella positiva prepara e adatta il soggetto a ricevere la forma, dandogli una certa qual tendenza verso di essa, che appare così come il suo naturale compimento. Questa disposizione positiva è del tutto distinta dalla cosiddetta potenza obedienziale, che è pura capacità passiva, fondata nella natura spirituale dell’anima umana (e dell’Angelo) di ricevere la grazia. Una disposizione positiva naturale per la grazia non è possibile poiché tra natura e grazia non vi è alcuna intrinseca proporzione.

Il II Concilio di Orange afferma che il desiderio della purificazione dal peccato non proviene dalla volontà naturale dell’uomo, ma dalla grazia preveniente dello Spirito Santo (D. 177; cfr. 179). – La Scrittura attribuisce alla grazia di Dio il principio e tutta quanta l’opera della salvezza. Cfr. Gv. VI, 44; XV, 5; 1 Cor. IV, 7; Ef. II, 8-9.

S. AGOSTINO ha insegnato nei suoi primi scritti una disposizione naturale positiva per la grazia (cfr. De div. quæst. 83, q. 68, n. 4: Præcedit ergo aliquid in peccatoribus, quo, quamvis nondum sint iustificati, digni efficiantur iustificatione; prima parla di « occultissima merita »). Negli scritti posteriori, a cominciare dalla Questione a Simpliciano I, 2, che è del 397, egli respinge recisamente la possibilità di una siffatta disposizione e sostiene la gratuità assoluta della grazia. Cfr. De dono persev. 21, 55. Come prova scritturale egli si serve con predilezione di Prov. VIII, 25 secondo la vecchia traduzione latina dipendente dai Settanta: Preparatur voluntas a Domino (Volg.: hauriet salutem a Domino; Ebr.: « ottiene il favore di Dio »).

Anche in S. TOMMASO vi fu un’evoluzione della dottrina. Mentre nei primi scritti (Sent. II, d. 28, q. 1, a. 4 e Sent. IV, d. 17, q. 1, a. 2) egli insegna, d’accordo con i teologi più antichi, che l’uomo, senza grazia interna, può raggiungere con la sola libera volontà una disposizione positiva alla grazia santificante, in quelli posteriori esige, per la preparazione a ricevere tale grazia, un aiuto divino che muova internamente l’anima, cioè la grazia attuale. Cfr. S. th. I – II, 109, 6; 112, 2; Qlb. 1, 7.

4. L’assioma scolastico: « Facienti quod in se est, Deus non denegat gratiam ».

c) Spiegazioni possibili.

1) S. TOMMASO, negli ultimi suoi scritti che contengono l’espressione definitiva della sua dottrina, spiega l’assioma, comparso per la prima volta nella teologia del sec. XII e attribuito a Pietro Abelardo, nel senso della collaborazione con la grazia: a colui che con l’aiuto della grazia fa tutto ciò che è in suo potere, Dio non rifiuta un’ulteriore grazia. Cfr. S. th. I – II, 109, 6 ad 2; 112, 3 ad 1; In Rom. X, lect. 3. 2) L’assioma può anche interpretarsi, come fanno non pochi molinisti, nel senso della disposizione naturale negativa, che consiste nell’evitare il peccato. C’è però da osservare che la connessione tra la disposizione negativa e la comunicazione della grazia non è un rapporto di causa ad effetto, ma puramente contingente, fondato sulla universale volontà salvifica di Dio. In altre parole Dio dà la grazia non perché l’uomo evita il peccato, ma perché Egli vuole sinceramente la salvezza di tutti gli uomini.

b) Spiegazioni inaccettabili.

1) Semipelagiana è la spiegazione secondo cui gli sforzi naturali dell’uomo, per il loro intrinseco valore, fondano un certo diritto (meritum de congruo) alla grazia. Siffatta spiegazione si avvicina a quella sostenuta dagli antichi scolastici e da S. TOMMASO nei suoi primi scritti (Sent. II, d. 2 q. I, a. 4).

2) Anche i nominalisti riferiscono l’assioma agli sforzi morali dell’uomo dai quali deriverebbe un certo diritto alla grazia (m. de congruo), ma non fanno dipendere la comunicazione di questa dall’intrinseco valore di quelli, bensì da una accettazione estrinseca da parte di Dio: a colui che fa ciò che è in suo potere, Dio dà la grazia perché così ha promesso conforme a Mt. VII, 7: « Chiedete, e vi sarà dato; cercate, e troverete; picchiate, e vi sarà aperto ». — Secondo l’insegnamento della rivelazione la salvezza vien da Dio, non dall’uomo Pertanto anche il chiedere, il cercare, il picchiare, di cui Mt. VII,7, non son dovuti allo sforzo morale del solo uomo, ma alla cooperazione con la grazia.

Lutero dapprima spiegò l’assioma in senso nominalistico più tardi lo respinse come pelagiano.

§ 11. L’universalità della grazia.

Benché la grazia sia un dono dell’Amore e della misericordia di Dio, tuttavia per la volontà divina salvifica universale, vien data a tutti gli uomini. Siccome però in realtà non tutti gli uomini raggiungono la felicità eterna, ne consegue che c’è una duplice volontà di Dio relativa alla loro salvezza:

a) l’una universale, per cui Dio, indipendentemente dallo stato finale dei singoli, vuole la salvezza di tutti gli uomini alla condizione che muoiano in grazia (voluntas antecedens et condicionata);

b) l’altra particolare, per cui Dio, tenendo conto dello stato finale dei singoli, vuole assolutamente la salvezza di coloro che lasciano la vita in grazia (voluntas consequens et absoluta).Tale volontà coincide con la predestinazione; se invece esclude dalla beatitudine eterna si dice riprovazione. Cfr. GIOVANNI DAMASCENO, De fide orth. II, 29.

1. La volontà salvifica universale di Dio in sé. Anche con la caduta e il peccato originale, Dio vuole veramente e sinceramente la salvezza di tutti gli uomini. Sent. fidei proxima.

Che Dio voglia la salvezza non soltanto dei predestinati, ma almeno di tutti i credenti, è dogma formale.

La Chiesa ha condannata come eretica la tesi dei predestinazianisti, dei calvinisti e dei giansenisti che limitava la volontà divina salvifica ai soli predestinati. Cfr. D. 318, 827, 1096. Tale volontà abbraccia almeno tutti i credenti, come risulta dalla professione di fede della Chiesa nella quale i fedeli dicono: Qui propter nos homines et propter nostram salutem descendit de cœlis. Che inoltre si estenda al di là dell’ambito dei fedeli risulta dalla condanna da parte di Alessandro VIII di due proposizioni contrarie (D. 1294-1295). Gesù mostra, con l’esempio della città di Gerusalemme, che Egli vuole anche la salvezza di quelli che in realtà si perdono (Mt. XXIII, 37; Lc. XIX, 41). Da Gv. III, 16 risulta che Dio vuole la salvezza almeno di tutti i credenti, perché ha dato il suo Figlio « affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Secondo 1 Tim. II, 4, la volontà divina salvifica abbraccia senza eccezione tutti gli uomini: « Egli (Dio) vuole che tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità ». I Padri preagostiniani non pongono in dubbio l’universalità della volontà divina salvifica. L’Ambrosiastro così chiosa 1 Tim. 2, 4: « Egli non ha escluso nessuno dalla salvezza Anche S. AGOSTINO nei primi suoi scritti aderisce a questi modo di vedere (cfr. De spiritu et litt. 33, 58). In quelli posteriori però, conformemente alla sua rigida teoria della predestinazione, limita la volontà divina salvifica ai predestinati e spiega artificiosamente il passo di S. Paolo a Timoteo nei modi seguenti: a) Dio vuole che uomini di tutte le classi si salvino (Enchir. 103); b) tutti quelli che si salveranno, si salveranno per la volontà di Dio (Contro Iulianum IV, 8, Enchir. 103); c) Dio fa che noi vogliamo che tutti si salvino (De corrept. et grat. 15, 47). Non pochi teologi riferiscono la spiegazione limitativa di S . Agostino alla volontà salvifica conseguente, la quale non è universale. Tuttavia dalla forzata spiegazione agostiniana emerge come sia assai problematico se egli, negli ultimi anni della sua vita, abbia ancora sostenuto l’universalità della volontà salvifica antecedente. La sua dottrina della predestinazione, secondo cui Dio, per puro suo beneplacito, sceglie una parte degli uomini dalla « massa dei dannati », mentre non sceglie gli altri, sembra che non dia più adito ad una autentica e seria volontà salvifica universale.

2. L a volontà salvifica universale nella sua attuazione.

a) Dio dà a tutti i giusti la grazia sufficiente (proxime vel remote sufficiens) per l’osservanza dei comandamenti divini. De fide.

La grazia sufficiente si distingue in prossima o immediata (gr. proxime sufficiens), che dà immediatamente la capacità di compiere un determinato atto salutare, e in remota o mediata (gr. remote sufficiens), che dà la capacità di compier un atto col quale si ottengono ulteriori grazie. Quest’ultima è soprattutto la grazia di pregare.

– Dopo il II Concilio di Orange, che aveva già espressa questa dottrina (D. 200), quello di Trento dichiarò che l’adempimento dei comandamenti di Dio non è impossibile all’uomo giustificato: Si quis dixerit Dei prœcepta nomini etiam iustificato et sub gratia constituto esse ad adservandum impossibilia A. S. (D. 828). – Lacontraria dottrina dei giansenisti fu condannata dallaChiesa come eretica (D. 1092).Secondo la Scrittura Dio rivolge ai giusti le sue cureparticolari. Cfr. Sal. XXXII, 18-19; XXXVI, 25 ss.; XC; Mt. XII, 50;Gv. XIV, 21; Rom. V, 8-10. I precetti di Dio possono facilmente essere adempiuti dai giusti. Mt. XI, 30:« Il mio giogo è soave, e il mio peso è leggero ». 1 Gv.V, 3: « L’amore di Dio consiste nell’osservare i suoi comandamenti. E i suoi comandamenti non sono gravosi, perché tutto ciò che è nato da Dio trionfa nel mondo. 1 Cor. X, 13: « Dio è fedele, e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione provvederà anche il buon esito, dandovi il potere di sostenerla ».S. AGOSTINO coniò la frase accolta dal Concilio di Trento:« Dio non abbandona i giusti, se non vien prima abbandonato da loro » (D. 804); cfr. AGOSTINO, De nat. et grat. 26, 29. La fedeltà di Dio vuole che egli dia ai giusti la grazia sufficiente, perché essi possano conservare il diritto, loro concesso,alla vita eterna.

b) Dio dà a tutti i peccatori credenti la grazia sufficiente (saltem remote sufficiens) per la conversione. Sent. communis.

Egli non nega completamente la sua grazia neppure ai peccatori accecati e induriti. – La Chiesa insegna che « se qualcuno dopo il Battesimo è caduto in peccato, può sempre rialzarsi con una vera penitenza» (D. 430). Ciò presuppone che Dio conceda la grazia sufficiente per la conversione. Cfr. D. 911, 321. – Le numerose esortazioni che la Scrittura rivolge ai peccatori perché si convertano presuppongono la possibilità della conversione con l’aiuto della grazia divina. Ez. XXXIII, 11: «Io non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva ». 2 Piet. III, 9: « Il Signore… usa pazienza per riguardo a voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti ritornino a penitenza ». Rom. II, 4: « E non sai che la bontà di Dio ti spinge a penitenza? ». I passi della Scrittura che attribuiscono a Dio l’indurimento dei peccatori (Es. VII, 3; 9, 12; Rom. IX, 18) sono da intendere nel senso che Dio permette il male sottraendo al peccatore, per punizione, la grazia efficace. La conversione viene così resa più difficile, ma non tuttavia impossibile. Secondo l’insegnamento comune dei Padri anche i più grandi peccatori non sono esclusi dalla misericordia di Dio. S. AGOSTINO dice: « Non si deve dubitare neanche del peccatore più grande, fintantoché vive qui sulla terra » (Retract. I, 19, 7). Il fondamento psicologico della possibilità della conversione anche dei peccatori induriti, sta nel fatto che la loro ostinazione, finché sono in vita (in statu viæ), non è definitiva come quella dei dannati.

c) Dio dà a tutti gli infedeli senza loro colpa (infideles negativi) la grazia sufficiente per salvarsi. Sent. certa.

Alessandro VIII condannò nel 1690 le proposizioni giansenistiche secondo le quali Cristo era morto soltanto per i fedeli e che i pagani, i giudei e gli eretici non ricevono da lui alcun influsso di grazia (D. 1294-1295). Cfr. D. 1376. La Scrittura attesta la universalità della volontà divina di salvezza (1 Tim. II, 4; 2 Piet. III, 9) e l’universalità della redenzione di Cristo (1 Gv. II, 2; 2 Cor. V,15; 1 Tim. II,6; Rom. V,18). È pertanto inammissibile che a una grandissima parte dell’umanità rimanga preclusa la grazia necessaria e sufficiente alla salvezza. – I Padri spiegano Gv. 1, 9 (illuminat omnem hominem) nel senso di un’illuminazione di tutti gli uomini, anche degl’infedeli, mediante la grazia divina. Cfr. Giov. CRISOSTOMO, In Ioan. hom. 8, 1. Una monografìa patristica sull’universale distribuzione della grazia è lo scritto anonimo, ma probabilmente composto da Prospero d’Aquitania, dal titolo De vocatione omnium gentium (circa il 450), che cerca una via di mezzo tra i semipelagiani ed i seguaci della dottrina agostiniana e sostiene decisamente l’universalità della volontà divina salvifica e della concessione della grazia. – Siccome la fede è « l’inizio della salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione » (D. 801), essa è pure indispensabile per la giustificazione dei pagani. Ebr. XI, 6: « Senza la fede è impossibile piacere a Dio. Chi si avvicina a Dio deve credere che Egli è ed è rimuneratore di quelli che lo ricercano ». Una semplice « fede razionale » non basta. Innocenzo XI riprovò la proposizione: « Fides late dicta ex testimonio creaturarum similive motivo ad iustificationem sufficit » ( D . 1173). È necessaria la fede teologale, cioè la fede soprannaturale nella rivelazione, fede questa che è un effetto della grazia (D. 1789: concetto della fede teologale; 1793: nemini unquam sine illa contigit iustificatio). Per ciò che riguarda il contenuto di questa fede, secondo la testimonianza della Lettera agli Ebrei XI, 6, è necessario di necessità di mezzo credere esplicitamente che Dio esiste e che premia i buoni e castiga i cattivi. Per la Trinità e l’Incarnazione è sufficiente la fede implicita. L’infedele giunge alla fede soprannaturale richiesta per la giustificazione per il fatto che Dio, con ammaestramento interno o esterno, gli fa conoscere la verità rivelata e con la grazia attuale gli conferisce la capacità di emettere l’atto di fede. Cfr. S. TOMMASO, De verit. 14, 11.

Obbiezione. Contro l’universalità della volontà salvifica divina si obbietta che Dio non vuole seriamente e sinceramente la salvezza dei bambini che muoiono senza battesimo. Risposta: Dio, a motivo della sua volontà di salvezza, non è obbligato a eliminare con un intervento miracoloso dall’ordine del mondo da lui creato, tutti i singoli ostacoli derivanti dalla cooperazione di cause seconde con la causa prima divina e che in molti casi rendono vana l’esecuzione della volontà divina. Esiste anche la possibilità che Dio rimetta il peccato originale, per via straordinaria, ai bambini che muoiono senza Battesimo e li faccia partecipi della sua grazia; la sua potenza non è legata ai mezzi della grazia proprii della Chiesa. Il fatto di questa comunicazione estrasacramentale della grazia non si può tuttavia provare positivamente.

LA GRAZIA (NOTE DI TEOLOGIA DOGMATICA) – 1-

La questione della grazia, come già in altri post abbiamo potuto vedere (v. link), è una questione centrale nel Cristianesimo, fulcro della dottrina e dell’azione spirituale che conduce alla salvezza eterna. Continuiamo quindi l’approfondimento di questo argomento vitale per la Fede Cattolica e per ottenere l’eterna Gloria. Ci sono momenti in cui l’argomento è apparentemente ostico, ma con un po’ di pazienza, con una rilettura attenta e meditata, invocando la luce dello Spirito Santo, si possono ottenere lumi decisivi nel progresso spirituale dell’anima cristiana. In questa breve serie di articoli ne esaminiamo le basi teologiche, passando poi alle considerazioni di teologia ascetica. Senza comprendere il ruolo della Grazia nella vita del Cristiano, tutto diventa incerto e permane un grado di oscurità nell’azione salvifica lungo il cammino spirituale del Cattolico che vuol giungere all’eterna salvezza. [n.d.r.-]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/03/la-grazia-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/05/la-grazia-2/

LA GRAZIA

(Note di Teologia Dogmatica) (1)

[Ludovico Ott: Compendio di Teologia Dogmatica; Marietti Torino-Herder Roma – imprim. Can. Oddone, Vis. Gen. 7/VI/1955]

INTRODUZIONE

Della grazia in generale.

§ I. La redenzione soggettiva in generale.

Gesù Cristo, Uomo-Dio, con la sua soddisfazione vicaria e col suo merito redentivo ha riconciliato l’umanità con Dio in linea di principio e oggettivamente. La redenzione oggettiva però deve essere partecipata ad ogni singolo uomo, diventando così soggettiva. L’atto della distribuzione del frutto della redenzione ai singoli uomini si chiama giustificazione (iustificatio) o santificazione (santificatio) e il frutto stesso grazia di Cristo. Il principio della redenzione soggettiva è Dio uno e trino. La comunicazione della grazia essendo opera dell’amore divino, è attribuita allo Spirito Santo, l’amore divino personale, sebbene essa sia effettuata in comune dalle tre divine Persone. – La redenzione soggettiva però non è solo opera di Dio, ma richiede anche la libera cooperazione dell’uomo, come s’addice alla sua natura dotata di ragione e di άlibertà (Denz. 799). – Nell’intima cooperazione e compenetrazione della potenza divina e della libertà umana sta l’imperscrutabile mistero della dottrina della grazia. Tutte le eresie e le controversie concernenti la grazia traggono inizio di qui. – Nel processo della redenzione soggettiva Dio aiuta l’uomo non solo mediante un principio interno, la potenza della grazia, ma anche mediante un principio esterno, l’attività della Chiesa che insegna, governa e santifica con l’amministrazione dei Sacramenti. La redenzione soggettiva termina nel compimento eterno della visione beatifica di Dio.

§ 2. Il concetto della grazia.

1. Nella Sacra Scrittura.

Grazia (χάρις – karis = gratia) secondo l’uso della Scrittura significa:

a) in senso soggettivo la condiscendenza e benevolenza di una persona di grado superiore verso una di grado inferiore, in particolare di Dio verso l’uomo (gratia = benevolentia). Cfr. Gen. 30, 27; Lc. 1, 30.

b) in senso oggettivo, il dono gratuito derivante dalla benevolenza (gratia = beneficium o donum gratis datum). Il dono come tale è l’elemento materiale, la mancanza di ogni esigenza o la gratuità l’elemento formale. Cfr. Rom. II, 6;

c) graziosita, amabilità. Cfr. Sal. XLIV, 3; Prov. XXXI, 30.

2. Nella teologia.

La teologia prende la parola grazia in senso oggettivo ed intende con essa un dono indebito da parte di Dio e non meritato da parte dell’uomo. In questa più ampia accezione si può anche parlare di grazia naturale(per es. la creazione, doni dell’ordine naturale come la salute del corpo e la sanità della mente).

In senso più stretto e proprio si intende un dono soprannaturale concesso gratuitamente da Dio alle creature ragionevoli in ordine alla salvezza eterna: donum supernaturale gratis a Deo creaturæ rationali concessum in ordine ad vitam æternam. – Vi appartengono in primo luogo i doni soprannaturali « quoad substantiam » che nella loro intima essenza trascendono l’essere, le forze e le esigenze della natura creata (la grazia santificante, la visione beatifica di Dio); poi i doni soprannaturali « quoad modum », che superano nel modo con cui vengono concessi la capacità naturale della creatura che li riceve (guarigione miracolosa, dono delle lingue, dono della profezia) e i doni preternaturali, che perfezionano la natura umana nell’ambito del suo proprio ordine (immunità dalla concupiscenza, dai dolori e dalla morte).

3. Cause della grazia.

La causa efficiente principale della grazia è Dio uno e trino; la causa efficiente strumentale sono l’umanità di Cristo e i Sacramenti; la causa meritoria della grazia concessa all’umanità decaduta è Gesù Cristo, Uomo-Dio, a motivo della sua opera redentrice; la causa finale primaria è la glorificazione di Dio, la causa finale secondaria è la salvezza eterna dell’uomo.

§ 3. Divisione della grazia.

1. Grazia creata – grazia increata.

La grazia increata è Dio stesso in quanto nel suo amor eterno è fonte di tutti i doni, in quanto si comunica all’umanità di Cristo nell’incarnazione (gratia unionis), in quanto abita nell’anima dei giusti e in quanto si dona in possesso e godimento nella visione beatifica. L’atto dell’unione ipostatica, dell’inabitazione e della visione beatifica è bensì una grazia creata, ma è increato il dono che in questi atti vien dato alla creatura. — La grazia creata è un dono soprannaturale distinto da Dio e suo effetto.

2. Grazia di Dio – grazia di Cristo.

La grazia di Dio e del Creatore è quella che Dio ha concesso agli Angeli e ai nostri progenitori nel Paradiso terrestre per il solo motivo dell’amore senza guardare ai meriti di Cristo, poiché essi erano senza peccato e quindi solo negativamente indegni (non digni) di riceverla. — La grazia di Cristo o del Salvatore, è quella che Dio concede, per duplice motivo dell’amore e della misericordia, in vista dei meriti di Cristo, agli uomini decaduti i quali col peccato se ne sono resi positivamente indegni (indigni). Sia la grazia di Dio sia quella di Cristo elevano chi la riceve nell’ordine soprannaturale dell’essere e dell’agire (gratia elevans); la grazia di Cristo inoltre ha il compito di sanare le ferite prodotte dal peccato (gratia elevans et sanans vel medicinalis). – Vi sono teologi i quali con Scoto e Suarez sostengono che l’Incarnazione sarebbe avvenuta egualmente anche senza la caduta originale e che, di conseguenza, ogni grazia è grazia di Cristo, anche quella degli Angeli e del Paradiso terrestre. – Nondimeno questa grazia manca della caratteristica della Redenzione: non è grazia di Cristo in quanto Redentore, bensì grazia di Cristo in quanto capo degli Angeli e degli uomini ossia di tutta la creazione.

3. Grazia esterna – grazia interna.

La grazia esterna è qualsiasi beneficio di Dio per la salvezza degli uomini, che è fuori dell’uomo e agisce moralmente su di lui, per es. rivelazione, dottrina ed esempio di Cristo, prediche, liturgia, sacramenti, esempi di virtù. — La grazia interna afferra nell’intimo l’anima e le sue potenze ed influisce fisicamente su di esse, per es. la grazia santificante, le virtù infuse, la grazia attuale. La grazia esterna è ordinata alla grazia interna come a suo fine. Cfr. 1 Cor. III, 6.

4. Gratia gratis data – gratia gratum faciens.

Sebbene ogni grazia sia un libero dono della bontà divina, tuttavia, in senso stretto si dice gratia gratis data (Mt. X, 8 « gratis accepistis, gratis date ») quella che viene concessa ad alcune persone per la salute di altre e non dipende dalla condizione morale o collaborazione del soggetto (cfr. Mt. VII, 22; Gv. XI, 49-52). Vi appartengono i doni straordinari (carismi, profezie, dono dei miracoli, delle lingue; 1 Cor. XII, 8 ss.) e i poteri ordinari dell’ordine e della giurisdizione. — La gratia gratum faciens o grazia santificante è destinata a tutti gli uomini e vien concessa per la santificazione personale. – Essa rende chi la riceve gradito (gratum) agli occhi di Dio o santificandolo formalmente (grazia santificante) o preparandolo alla santificazione (grazia attuale). La gratia gratum faciens è il fine della gratia gratis data ed è perciò intrinsecamentepiù elevata e più preziosa di questa. Cfr. 1 Cor. 12, 31.

5. Grazia abituale (santificante) – grazia attuale.

La gratia gratum faciens o grazia santificante è abituale o attuale. La grazia abituale è una qualità soprannaturale permanente dell’anima, che santifica interiormente l’uomo e lo rende giusto e accetto a Dio (grazia santificante o giustificante).

La grazia attuale è un influsso soprannaturale transeunte di Dio nell’anima per il compimento di un atto salutare che ha per fine l’acquisizione della grazia santificante o la conservazione e aumento di essa.

6. La grazia attuale viene distinta:

a) secondo le potenze dell’anima che essa muove, in grazia di intelligenza e in grazia di volontà, ossia di illuminazione (gr. illuminationis) o di ispirazione(gr. inspirationis);

b) secondo il rapporto con la volontà, in grazia preveniente(gr. præveniens, antecedens, excitans, vocans, operans), inquanto precede la libera decisione della volontà e in grazia adiuvante e concomitante(gr. subsequens, adiuvans, concomitans,cooperans) in quanto accompagna e sostiene l’azionelibera dell’uomo;

c) secondo il suo effetto, in grazia sufficientee grazia efficace. La prima dà la pura possibilità di compiere l’atto salutare, la seconda lo fa effettivamente compiere.

§ 4. Le principali eresie sulla grazia. (omissis …)

…..

SEZIONE PRIMA

La grazia attuale.

La dottrina della grazia attuale viene qui esposta in quattro capitoli che trattano rispettivamente della sua natura, della sua necessità, della sua distribuzione gratuita e universale (rimandiamo, poiché complessi e di natura eminentemente teologica, in questa sede, i relativi problemi della predestinazione e riprovazione, delle sue relazioni con la libertà umana –ndr. -).

CAPITOLO PRIMO

La natura della grazia attuale.

§ 5. La grazia di illuminazione e di ispirazioni

1. Concetto di grazia attuale.

La grazia attuale è un influsso (qualità) soprannaturale transeunte di Dio sulle facoltà spirituali dell’uomo per muoverla all’atto salutare, cioè relativo alla santificazione e alla vita eterna. Essa come influsso transeuntesi distingue di quella abituale e dalle virtù infuse che ineriscono all’animi a guisa di qualità permanenti; come soprannaturale si distingui dalla cooperazione di Dio nelle azioni naturali delle creatura (concursus Dei naturalis). Il termine « gratia actualis » compare nella tarda scolastica (Capreolus) e, dopo il Concilio di Trento, che non l’usa ancora, diviene di uso corrente.

2. Natura della grazia attuale.

a) Dottrina della Chiesa.

La grazia attuale illumina l’intelletto e fortifica la volontà interiormente ed immediatamente. Sent. certa.

Il Concilio di Orange (529) dichiarò eretica la proposizione seguente: l’uomo può con le sole forze della natura, senza l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo concepire come si conviene, un buon pensiero relativo alla salvezza eterna 0 sceglierlo, ossia dare il suo assenso al messaggio evangelico (D. 180). Cfr D. 1791, 104, 797. È pertanto dottrina della Chiesa che l’uomo per compiere atti salutari abbisogna di una forza che trascenda le sue naturali possibilità e perciò soprannaturale. L’aiuto soprannaturale divino per le azioni salutari si estende ad ambedue le facoltà spirituali umane e consiste in una illuminazione immediata e interna dell’intelligenza e in una collaborazione parimenti immediata e interna della volontà. Occorre distinguere l’illuminazione e la collaborazione immediata, di cui si tratta qui, dall’illuminazione mediata proveniente da aiuti esterni (gratiæ externæ), quali ad es. l’insegnamento della rivelazione, le prediche, le buone letture, e dalla collaborazione pure mediata che deriva dall’illuminazione. – Un atto salutare si ha soltanto quando le facoltà dell’anima sono immediatamente e internamente influenzate dalla grazia.

b) Prova della Scrittura e della Tradizione.

La realtà e la necessità di una illuminazione divina immediata e interiore dell’intelligenza per compiere atti salutari sono attestate dai passi seguenti: 2 Cor. III, 5: « Non che da noi stessi siamo in grado di pensare alcunché, come se venisse proprio da noi, ma la capacità nostra viene da Dio ». Paolo insegna con ciò che noi per natura non siamo capaci di pensare alcunché che sia in stretto rapporto con la nostra salvezza eterna. Tale capacità ci viene da Dio, il quale illumina la nostra intelligenza e la rende atta a pensieri soprannaturali. 1 Cor. III, 6: « Io ho piantato, Apollo ha innaffiato, ma è Dio che ha fatto crescere; di modo che nulla è il piantatore né l’innaffiatore, ma è tutto Dio che fa crescere ». Con questa immagine l’Apostolo esprime il pensiero che la predicazione apostolica rimane infruttuosa se all’illuminazione esteriore per opera del predicatore non si aggiunge quella interiore per opera di Dio. Cfr. Ef. 1, 17-18; 1 Gv. II, 27.

La fortificazione o ispirazione interna della volontà è attestata in Fil. II, 13: « Dio infatti è colui che opera in voi e la volontà e l’agire ». Gv. VI, 44: « Nessun può venire a me (cioè credere a me), se non lo attiri il Padre, che mi ha mandato ».

Tra i Padri è soprattutto AGOSTINO che pone in risalto, combattendo i pelagiani, la necessità della grazia interiore dell’intelligenza e della volontà. Cfr. In ep. 1 Ioan. tr. 3, 1 De gratia Christi 26, 27. – L’illuminazione immediata, interna dell’intelligenza e fortificazione della volontà sono richieste dall’intima connessione che esiste tra il fine ultimo soprannaturale e gli atti salutari. I mezzi devono avere la stessa natura del fine,

il fine è soprannaturale, perciò anche i mezzi, cioè le azioni derivanti dall’intelligenza e dalla volontà, devono essere soprannaturali.

§ 6. La grazia preveniente e la grazia cooperante.

1. La grazia preveniente.

C’è un influsso soprannaturale di Dio sulle facoltà spirituali che previene la libera decisione della volontà. De fide.

In questo caso opera Dio solo « in noi senza di noi » (in nobis sine nobis, sc. libere cooperantibus) e produce atti spontanei, non liberi dell’intelligenza e della volontà (actus indeliberati). Questa grazia vien detta preveniente, antecedente, eccitante, operante. – La dottrina della Chiesa circa l’esistenza di siffatta grazia e la sua necessità per il giungere alla giustificazione fu definita nel Concilio di Trento: « L’inizio della giustificazione negli adulti va ricercato nella grazia proveniente di Dio per mezzo di Gesù Cristo » (a Dei per Iesum Christum præveniente gratia; D. 797. Cf. D. 813).

La Scrittura allude all’operazione della grazia preveniente quando dice che Cristo sta alla porta e picchia (Ap., 20), che il Padre attira (Gv. VI, 44), che Dio chiama (Ger. XVII, 23; Sal. XCIV, 8).

2. La grazia cooperante.

C’è un influsso soprannaturale di Dio sulle facoltà spirituali che coopera con la libera attività della volontà umana. De fide.

In questo caso Dio e l’uomo agiscono insieme. Dio agisce « in noi con noi » (in nobis nobiscum; cfr. D. 182) di modo che l’atto salutare è opera comune della grazia di Dio e della libertà dell’uomo. Questa grazia che sostiene e accompagna la libera attività della volontà vien detta sussequente, adiuvante, concomitante, cooperante.

La dottrina della Chiesa circa la realtà e necessità della grazia cooperante è stata espressa nel Decreto della giustificazione del Concilio di Trento. D. 797: Il peccatore si dispone alla giustificazione « assentendo e cooperando liberamente alla grazia » (gratiæ libere assentiendo et cooperando). D. 810: « L’amore di Dio per tutti gli uomini è così grande da volere che siano loro meriti (in virtù della loro libera attività) quelli che sono i suoi doni (in virtù della sua grazia) ». Cfr. D. 141. – S. Paolo pone in risalto l’aiuto dato dalla grazia di Dio alla libera attività dell’uomo. 1 Cor. XV, 10: « Ma per grazia di Dio sono quel che sono e la grazia di Lui verso di me non fu cosa vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non già io, ma la grazia di Dio con me (gratia Dei mecum) ». – S. AGOSTINO cosi descrive l’operazione della grazia preveniente e di quella cooperante: « Dio opera nell’uomo molte cose buone senza che l’uomo operi; però l’uomo non può operarne alcuna se Dio non interviene e non opera » (Contr. duas ep. Pel. II, 9, 21 = D. 193). « Dio prepara la volontà e perfeziona cooperando con noi, ciò che Egli aveva cominciato operando in noi. Infatti è Lui che comincia facendo sì che noi vogliamo, e quando poi vogliamo è lui che perfeziona cooperando con noi… Così affinché vogliamo Egli agisce senza di noi; quando poi vogliamo, e vogliamo efficacemente, Egli coopera con noi. Se Egli non opera per deciderci a volere e non coopera quando ci siamo decisi a volere, noi non possiamo assolutamente compiere alcuna opera buona » (gratia et lib. arb. 17, 33). Cfr. GREGORIO MAGNO, Moralia XV 25, 30 e la preghiera Actiones nostras.

§ 7. Controversia sull’essenza della grazia attuale

1. Si deve respingere la dottrina di Pascasio Quesnel, secondo cui la grazia attuale si identifica con la volontà onnipotente di Dio. Cfr. la 19 proposizione condannata: « Dei gratia nihil aliud est quam eius omnipotens voluntas » (D. 1369; 1360-1361). La volontà onnipotente di Dio si identifica con la sua essenza. La grazia attuale invece è un effetto finito della sua volontà salvifica e quindi da Lui distinto (gratia creata). Quesnel con questo suo concetto intendeva fondare la pretesa efficacia irresistibile della grazia.

2. Secondo i molinistila grazia attuale consiste formalmente in atti vitali indeliberati dell’anima, cioè in atti dell’intelligenza o della volontà, prodotti immediatamente da Dio nell’anima. Per provare la loro dottrina essi si rifanno alla Scrittura, alla Tradizione ed alle dichiarazioni del Magistero che chiamano la grazia attuale « cogitatio pia, cognitio, scientia e « bona voluntas, sanctum desiderium, cupiditas boni, voluptas, delectatio » ecc., espressioni che designano atti vitali dell’anima.

3. I tomistidefiniscono la grazia attuale un dono o energia che precede tali atti indeliberati ed eleva in modo transeunte l’intelletto e la volontà rendendoli capaci di produrli. Questa energia soprannaturale concessa da Dio si unisce con le facoltà spirituali dell’uomo formando così un unico principio dal quale scaturisce l’atto salutare. I tomisti si appellano alle espressioni della Scrittura, dei Padri e dei Concili, in cui la grazia preveniente vien presentata come un chiamare, illuminare, picchiare, destare, attirare e toccare da parte di Dio. Tutte queste espressioni denotano un’attività divina che precede gli atti vitali dell’anima e li produce. L’energia che eleva transitoriamente le facoltà dell’anima rendendole capaci di atti soprannaturali è caratterizzata dai tomisti come una qualità transeunte o « fluente » (qualitas fluens) per distinguerla dalla grazia santificante, che è una qualità permanente. Non diverso è il pensiero di S. TOMMASO (S. th. I – II, 110, 2) sebbene dica espressamente che la grazia attuale « non è una qualità, ma un moto dell’anima (non est qualitas, sed motus quidem animæ), poiché per qualità egli intende alcunché di permanente e per « moto dell’anima » intende non un atto vitale, ma il ricevere la mozione di Dio (anima hominis movetur a Deo ad aliquid cognoscendum vel volendum vel agendum). Contro l’opinione molinista si fa valere soprattutto la considerazione che gli atti vitali soprannaturali vengono prodotti a un tempo da Dio e dalle potenze dell’anima, mentre la grazia è causata solo da Dio.

CAPITOLO SECONDO

La necessità della grazia attuale.

§ 8. La necessità della grazia

per gli atti dell’ordine soprannaturale.

1. Necessità della grazia per ogni atto salutare. Per ogni atto salutare è assolutamente necessaria la grazia soprannaturale di Dio (gratia elevans). De fide.

Il II Concilio di Orange (529) insegna nel can. 9: « Ogni qualvolta noi facciamo opere buone (salutari) è Dio che opera in noi e con noi perché le facciamo » (quoties bona agimus, Deus in nobis atque nobiscum, ut operemur, operatur; D. 182) e nel can. 20: « L’uomo non può fare opere buone (salutari) senza che Dio non gli conceda di farle » (nulla facit homo bona, quæ nel Deus præstat, ut faciat homo; D. 193; cfr. 180). Il Concilio di Trento confermò questa dottrina nel Decreto sulla giustificazione, can. 1-3 (D. 811-813). Sono contro la dottrina della Chiesa il pelagianesimo ed il razionalismo moderno. – Cristo, con l’immagine della vite e dei tralci ( Gv. XV, 1 ss.), mostra chiaramente il suo influsso di grazia nelle anime, che produce frutti di vita eterna, ossia atti salutari: « Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me ed Io in lui, produce molto frutto; perché senza di me voi non potete fare nulla » (sine me nihil potest facere; v. 5). Paolo esprime lo stesso pensiero con l’immagine dell’unione tra il capo e le membra (Ef. IV, 15 ss. Col. II, 19). Per ogni pensiero salutare (2 Cor. III, 5) per ogni decisione della volontà (Rom. IX, 16) e per ogni opera buona (Fil. II, 13; 1 Cor. XII, 3) l’Apostolo richiede l’aiuto della divina grazia. 1 Cor. XII, 3: « Nessuno può dire: Gesù Signore, se non in Spirito Santo ». I Padri accolsero la dottrina di Pelagio come una innovazione contraria alla fede tradizionale della Chiesa. S. AGOSTINO spiega cosi il passo di Gv. XV, 5: « Perché nessun creda che il tralcio possa da se stesso fare almeno un piccolo frutto, Egli non dice: « senza di me potere fare poco », ma « non potete far nulla ». Dunque sia poco sia molto non « può fare fuori di Colui senza del quale non si può far nulla. (In Ioan. tr. 81, 3). – Che la grazia sia assolutamente necessaria per ogni atto salutare la ragione stessa lo deduce da ciò che essendo il fine ultimo, la visione beatifica, essenzialmente soprannaturale, anche gli atti che servono a raggiungerlo devono essere soprannaturali ossia fatti con la grazia. Cfr. S. th. I – II, 109, 5.

2. Necessità della grazia per l’inizio della fede e della salvezza.

Per l’inizio della fede e della salvezza è assolutamente necessaria la grazia interna soprannaturale. De fide.

II Il Concilio di Orange (529) dichiara nel can. 5 contro la dottrina dei semipelagiani: « Chi dice che l’inizio della fede e la stessa pia inclinazione a credere… sono in noi per natura e non per il dono della grazia, ossia per ispirazione dello Spirito Santo… si dimostra contrario agli insegnamenti apostolici »: Si quis… initium fidei ipsumque credulitatis affectum… non per gratiæ donum, id est per inspirationem Spiritus Sancti… sed naturaliter nobis inesse dicit, Apostolicis dogmatibus adversarius approbatur (D. 178). Similmente il Conciliodi Trento insegna che l’inizio della giustificazione è costituitodalla grazia preveniente di Dio. Cfr. D. 797-798,813.La Scrittura insegna che la fede, condizione soggettiva della giustificazione, è dono di Dio. Ef. II, 8:«È per mera grazia che voi siete stati salvati mediantela fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; nonè in virtù di opere affinché nessuno se ne gloria  ». Gv.VI, 44: « Nessuno può venire a me (cioè credere in me),se non lo attira il Padre, che mi ha mandato ». Cfr.Gv. VI, 66. Secondo Ebr. XII, 2 Cristo è « autore e consumatoredella fede ». Cfr. Fil. 1, 6; 1, 29; 1 Cor. IV, 7.I testi biblici a cui si richiamavano i semipelagiani (Zac. I , 3: « Tornate a me e io tornerò a voi »; Prov. VIII, 17: « Io amoquelli che mi amano »; Mt. VII, 7: « Chiedete e vi sarà dato »;Atti XVI, 31: « Credi nel Signore Gesù e sarai salvato »; E f . V, 14: « Destati… ed il Cristo ti illuminerà ») vanno spiegati in armoniacon gli altri luoghi della Scrittura, tenendo presenteche il rivolgersi dell’uomo verso Dio è già sotto l’influssodella grazia attuale. L’attività libera della volontà non escludela grazia. Il rivolgersi di Dio verso l’uomo non va riferitoalla concessione della prima grazia, ma alla comunicazionedi grazie ulteriori.S. AGOSTINO nell’opera De dono perseverantiæ (19, 48-50)adduce già una prova della tradizione con testimonianze di Cipriano, Ambrogio e Gregorio Nazianzeno. Egli si richiamaalla preghiera della Chiesa per la conversione degli infedeli: « Se la fede è esclusivamente un prodotto della libera volontàe non è un dono di Dio, perché dunque preghiamo per coloro che non vogliono credere, affinché credano? » (De gratiaet lib. arb. 14, 29). In scritti anteriori alla sua elezione episcopale (395), Agostino stesso aveva sostenuto l’idea erroneache la fede non è un dono di Dio, ma opera esclusiva dell’uomo. Soprattutto il passo di 1 Cor. IV, 7: « Che cosa hai che non ricevesti? » lo indusse ad ammettere che anche la fede è dono di Dio. Cfr. De præd. sanct. 3, 7.Non poche espressioni patristiche preagostiniane che sannodi semipelagianesimo si spiegano agevolmente se si tengaconto della lotta contro il fatalismo pagano ed il manicheismoche negavano la libertà. S. GIOVANNI CRISOSTOMO, al quale soprattutto si appellavano i semipelagiani, osserva in Ebr. XII, 2: « Egli stesso ha piantato in noi la fede, Egli stesso vi ha dato inizio » (In ep. ad Hebr. hom. 28, 2).La gratuità della grazia esige che anche il principio dellafede e della salvezza sia opera di Dio. Quando ha luogo l’attodi fede, il primo giudizio sulla credibilità della rivelazione(iudicium credibilitatis) e l’inclinazione a credere (pius credulitatis affectus) è da ascrivere all’influsso della grazia immediata di illuminazione e di ispirazione.

3. Necessità della grazia attuale per gli atti salutari del giustificato.

Anche l’uomo giustificato, ossia in stato di grazia, ha bisogno della grazia attuale per compiere atti salutari. Sent. communis.

Poiché le facoltà spirituali di chi è giustificato sono elevate in modo permanente dalla grazia abituale, la grazia attuale opera in lui non come elevante ma come eccitante e adiuvante, in quanto fa passare le facoltà dalla potenza dell’atto e accompagna il compimento dell’atto, ed opera pure come sanante in quanto guarisce le rimanenti ferite del peccato. Non esiste una precisa decisione del magistero ecclesiastico sulla necessità di questa grazia. Il II Concilio di Orange e quello di Trento parlano tuttavia di un influsso della grazia divina o di Cristo sulle opere buone del giusto, senza distinguere espressamente tra grazia attuale e abituale. D. 809: « Gesù Cristo stesso… infonde continuamente la sua virtù nei giustificati. E questa virtù sempre antecede, accompagna e sussegue le loro buone opere ». Cfr. D. 182. Secondo la prassi della Chiesa anche i giusti pregano per impetrare la grazia dell’assistenza divina (Actiones nostras ecc.). La frase di Cristo: « Senza di me non potete far nulla » (Gv. XV, 5) dimostra che anche il giusto ha bisogno dell’aiuto della grazia attuale per fare atti salutari. – Paolo insegna che Dio stimola e compie le opere buone dei giusti. Fil. II, 13: « Dio è quello che opera in voi e il volere e l’agire in virtù della sua benevolenza ». 2 Tess. II, 16: « Dio… consoli i vostri cuori e vi confermi in ogni opera buona e in ogni buona parola ». Ebr. XIII, 21: « Il Dio della pace… vi renda atti a ogni opera buona, sicché possiate fare la sua volontà». – S. AGOSTINO estende la necessità della grazia attuale anche ai giusti: « Come l’occhio del corpo, benché perfettamente sano, non può vedere senza lo splendore della luce, così anche l’uomo, benché completamente giustificato, non può vivere rettamente se non è divinamente aiutato dall’eterna luce della giustizia » (De nat. et grat. 26, 29). – La necessità della grazia attuale per le buone opere dei giusti, si fonda sul fatto che ogni creatura, a cagione della sua completa dipendenza dal Creatore, ha bisogno perché le sue facoltà passino all’atto di un attuale influsso divino (gratia excitans et adiuvans). Inoltre poiché le conseguenza del peccato originale permangono anche nei giusti, questi abbisognano di un particolare aiuto della grazia, che ne sani le debolezze morali (gratia sanans). Cfr. S. th. I – II, 109, 9.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/09/19/la-grazia-note-di-teologia-dogmatica-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (77)

LO SCUDO DELLA FEDE (77)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE SECONDA. FRODI PER CUI S’INTRODUCE IL PROTESTANTISMO

CAPITOLO XII.

DUODECIMA FRODE: CHE IL PURGATORIO È UN’INVENZIONE DEI PRETI.

I Protestanti dopo aver turbato i fedeli che vivono sulla terra, tenterebbero se potessero di tormentare anche quelli che già sono passati all’altra vita, e li vorrebbero privare dei suffragi, delle Messe, delle orazioni di S. Chiesa. Per ciò insegnano che il Purgatorio non esiste, che i fedeli appena morti senz’altro o salgono in Paradiso, o piombano nell’Inferno: che non per altro fu inventato dai Preti cotesto domma se non perché riusciva utile ai loro interessi. Ora sappiate che con queste falsità che spacciano, commettono tre gravissimi mali, tolgono a noi dal cuore la fede intorno ad una verità solennissima nella S. Chiesa, spogliano le povere anime dei defunti dei suffragi che loro sarebbero sì vantaggiosi, e calunniano atrocemente il Sacerdozio cristiano. Osservate se non è vero. – Dicono che non esiste il Purgatorio: ma le S. Scritture che essi a parole fan tanta mostra di rispettare, insegnano tutto l’opposto; la S. Chiesa che è di tanta autorità come sopra vi ho detto ha sempre tenuto che esistesse; i sacri Dottori non solo l’hanno difeso, ma l’hanno anche temuto; innumerabili rivelazioni fatte non a donnicciole ma a gran Santi lo confermano, e tutto ciò non vale un po’ più che le loro beffe, le loro risa, e le loro bestemmie? – Nella S. Scrittura si dice chiaro che Giuda Maccabeo mandò dodicimila dramme di argento a Gerusalemme perché si offrissero sacrifici per quelli che erano morti in battaglia, poiché, è ivi soggiunto, è un pensiero santo c salutare pregar pei morti, onde siano disciolti dai loro peccati. Ora se non vi è Purgatorio, che giova il pregar pei morti? Quelli che sono in Paradiso non ne hanno più bisogno, quelli che sono nell’Inferno non possono più ricevere sollievo di sorta. É dunque manifesto che vi ha Purgatorio. I Protestanti per isbrigarsi di questa Autorità, non sapendo che dire han negato che quel libro facesse parte delle S. Scritture: ma S. Agostino, S. Cipriano, S. Ambrogio e tutta la Cattolica Chiesa che in ogni secolo l’ha sempre riconosciuto, ha qualche peso maggior del loro. Del resto anche il nuovo Testamento lo prova chiaro. Nostro Signore insegna che chi bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonato né in questo secolo né nell’altro (Matth. XII); dunque, conclude il grande S. Agostino, vi hanno da essere dei peccati che nell’altro si perdonino. Non si perdonano nel cielo, perché in esso non entra nulla che sia macchiato, non si perdonano nell’Inferno perché in esso non vi è più redenzione, che resta se non il Purgatorio? Anche S. Paolo nella sua lettera ai Corinti dice di alcuni che sarau salvi, ma tuttavia passando pel fuoco (1 Cor. III). Nella lettera ai Filippesi dice che al nome dì Gesù si debbono curvare nel cielo, sulla terra, e nelle parti infernali (Fil. II). Or nell’Inferno dove stanno i dannati niun certo riverisce il nome di Gesù, sono dunque le anime racchiuse nel Purgatorio che lo riveriscono. E poi è chiaro che se nel cielo non entra nulla che sia macchiato come insegna S. Giovanni (Apoc. XXI), se è vero che anche i giusti cadono in molte mancanze sebbene non gravi, come insegnano i Proverbi (Prov. XXIV, 16) è anche manifesto che vi ha da essere un luogo di espiazione dove possano purificarsi quelli che non ebbero il tempo o la sollecitudine di farlo in vita. Ed infatti così l’insegnò sempre la S. Chiesa come ne fanno fede indubitatissima i Santi Dottori che ne sono autorevoli testimoni. Io ve ne ricorderò solo qualcuno, perché veggiate quanto abbiano torto quei disgraziati che dicono che è un’invenzione dei Preti. S. Efrem nel suo testamento spirituale chiede delle preghiere per riposo della sua anima. – L’Imperatore Costantino volle esser sepolto in una Chiesa affinché i fedeli si ricordassero di pregare per lui: che è il desiderio che hanno anche ai dì nostri i Cristiani fervorosi. S. Giovanni Crisostomo avverte i fedeli che se sono inutili le lagrime dei vivi sopra dei morti, ben son loro utili le limosine e le preghiere. S. Girolamo loda Pammachio perché invece di spargere fiori sulla tomba di sua moglie, avea sparse tra i poverelli delle limosine per suffragarla. S. Agostino ricorda i sacrifici che si celebrarono per la sua madre Monica, e nel libro delle Eresie scrive che fu Ario il primo eretico che osò negare il Purgatorio. Ora se tutti questi gran Santi ed altri molti che potrei qui allegarvi, tutti si accordano a raccomandar la preghiera pei defunti, quale audacia non è quella di questi nuovi dottori che negano l’esistenza del Purgatorio? Ma non è solo un’audacia diabolica, è anche una crudeltà inaudita contro quelle povere anime. Imperocché senza star qui a ricercare qual sia il modo delle loro pene, è certo però che esse soffrono orribilmente, e Dio solo sa per quanto tempo, dovranno esse soddisfare ad ogni loro benché leggera mancanza. Ora chi consideri un momento che sono non solo anime di Cristiani, che hanno avuto con noi comune la S. Fede, che sono morte nella grazia di Gesù, che sono quelle che speriamo di aver compagne per tutta l’eternità nella gloria, ma che fra loro sono anche le anime dei nostri parenti, dei nostri amici, del nostro povero padre, della nostra povera madre, forse di un marito, forse di una sposa che già ci furono sì cari sulla terra, e che ora aspettano da noi un poco di aiuto; chi consideri, io dico, tutto ciò come non si sentirà inorridire al pensiero di abbandonarle sul pretesto frivolo che non vi ha Purgatorio? Bisogna aver perduta non solo la fede, ma anche il cuore per dare in questi eccessi. Certo non pochi protestanti ai nostri giorni guidati anche solo dal cuore sono giunti ad ammettere questa verità per aver la consolazione di pregare pei loro parenti e pei loro cari: e noi soffriremo poi che questi maestri di errore ci tolgano un sì bel conforto, noi a cui la fede lo somministra? – Ma che ragioni hanno adunque da recare in mezzo per negare questa verità? Ce lo facciano almeno sapere. Ve le esporrò. Allegano in primo luogo quelle parole dell’Ecclesiaste dove è detto che da qualunque parte l’albero cadrà sia mezzo giorno, sia settentrione ivi resterà (Eccles. XI, 3). E quelle di S. Paolo che sono beati quei che muojono nel Signore, perché si riposano dei lor travagli, e pretendono che per queste parole venga escluso il domma del Purgatorio. Per verità se non avevano altre migliori ragioni ad allegare, potevano tacere eternamente. Conciosiachè che hanno mai che fare queste sentenze col Purgatorio? Le parole dell’Ecclesiastico significano che nell’altra vita non v’è se non la salvezza eterna, oppure la dannazione. E chi l’ha mai negato? Questo è lo stato finale delle anime: ma quelle che passano prima a purificarsi nel Purgatorio non pervengono poi subito dopo all’eterna salute? Le parole di S. Paolo significano la consolantissima verità, che i morti nel Signore si riposeranno dei loro travagli. Sì. ma se tra loro ve n’avesse di quelli che prima dovessero per qualche tempo purificarsi, non si verificherebbe più che giungono poi al riposo? S. Paolo ha forse detto che tutti vi giungeranno subito? Eppure credereste queste frivole ragioni sono le più gagliarde che arrecano per negare il Purgatorio. Si burlano proprio di voi, mentre vi spacciano i loro errori. – Sebbene no, replicano essi, sono i Preti che vi danno ad intendere tante sciocchezze, perché al fuoco del Purgatorio essi fanno bollire (sono parole loro) la loro pentola. Veramente se io volessi rispondere allo stolto secondo la sua stoltezza, potrei dire che Dio farà bollire questi sacrileghi in ben altro fuoco che non è quello del Purgatorio. Potrei osservare ancora quanto sia riverente un tal modo di parlare, e quanto convenga a quelli che si danno per inviati di Gesù Cristo: ma lasciando stare tutto ciò io chieggo loro prima di tutto, e che cosa guadagnano i Sacerdoti sul Purgatorio? La Chiesa Cattolica insegna che le anime del Purgatorio si possono suffragare colle orazioni, coll’ascoltare la S. Messa, col digiuno, con la limosina, con la penitenza e con ogni sorta di opere buone. Ora che cosa guadagnano i Preti se voi pregate, se voi udite la S. Messa, se voi digiunate, se voi distribuite limosine, se voi vi mortificate, o vi esercitate altrimenti a far del bene? Su dite che guadagno fanno i Sacerdoti in tutto ciò? Se fosse vero che essi hanno inventato il Purgatorio per trarne vantaggio insegnerebbero mai per suffragare le anime, tante maniere che a loro non fruttano nulla? Tutto il loro guadagno si ristringerà solo alta celebrazione delle Messe, ed al canto dei divini Uffizi. Ma in primo luogo chi obbliga i fedeli a suffragare le anime in questo modo, e non sono essi padroni di scegliere quegli altri modi sopraccennati? Ma poi, se perché può tornare di qualche vantaggio ai Sacerdoti che si pratichi un’opera di pietà, non è più lecito il raccomandarla per timore di parere interessati, non sarà più lecito di raccomandar nessuna virtù al mondo. Imperocché in quasi tutte le opere buone che altri vi raccomanda si trova sempre qualche vantaggio di chi l’inculca. In cominciando dal Principe che raccomanda al suddito 1’ubbidienza fino al contadino che la raccomanda al suo garzone, tutti vi trovano il loro conto: dunque non si raccomanderà più l’ubbidienza benché l’abbia tanto raccomandata Gesù Cristo? Il marito non potrà più inculcare alla moglie la ritiratezza, perché si dirà che lo fa per suo conto poiché è geloso. Il padre non potrà più raccomandare al figliuolo che non scialacqui perché si dirà che lo fa per suo conto poiché è avaro. Ed allora si potrà anche dire di questi disgraziati che negano il Purgatorio che lo fanno per loro utile, perché sono cosi sordidi da aver paura di cavar fuori un quattrino pei loro poveri morti. Se queste maniere d’interpetrare l’intenzione è buona riguardo ai Sacerdoti, perché non sarà buona riguardo ai loro calunniatori? Che cosa ne dite? – Del resto se i Sacerdoti ritraggono qualche vantaggio temporale dalla limosina, intendetelo bene una volta e fatelo sentire a costoro, è giustissimo che la ritraggono. Ancor essi hanno da vivere. Gran cosa! Si stima giusto che un medico, un avvocato, un giudice riceva uno stipendio e perché ancora esso ha da campare, e perché avendo passato tanti anni e sostenute tante spese ad apprendere la sua professione, si stima convenevole che a suo tempo ne sia rimunerato: ed un Sacerdote che ha speso tanti anni per rendersi capace del sublimissimo ministero di annunziare la divina parola, di amministrare i Sacramenti, di offrire il gran Sacrifizio, non avrà diritto non dico ad una remunerazione, che non la cerca, ma neppure al suo quotidiano sostentamento? Qui il ridicolo e l’assurdo è congiunto con la perfidia e con l’empietà. – Sapete qual è in fondo in fondo la vera ragione per cui tanto schiamazzano contro i Sacerdoti? Eccovela chiara. Non li possono sopportare perché odiano la Religione di cui essi sono i ministri. Non vorrebbero che si predicasse per non essere turbati nel sonno del peccato in cui si giacciono, non vorrebbero la Confessione perché non vogliono essi cambiar vita, e non fa loro comodo spesse volte che la vogliano cambiare gli altri, non vorrebbero lo zelo sacerdotale perché scompiglia le loro trame, e per ciò non potendoli soffrire, si sveleniscono contro di loro con ogni calunnia e colgono occasione da tutto per metterli in mala voce. E ciò sia detto per cautelarvi contro ogni loro diceria. – Conchiudendo ora quello che abbiamo discorso in questo capo, non solo tenete salda la dottrina di S. Chiesa sul Purgatorio, ma animatevi secondo levostre forze a suffragare il più che potete quelle povere anime. Esse non saranno ingrate verso di voi, che anzi per quella bella Comunione che passa tra i fedeli vivi, e defunti pregheranno singolarmente per voi e adesso, e quando saranno giunte a godere la faccia di Dio svelata, siccome ne fanno fede tutte le ecclesiastiche storie, e tutte le vite dei Santi. E quando alcuno vi dice che il Purgatorio non v’è, rispondete quel che già disse, un buon popolano a chi gli parlava così, che è vero che non v’è Purgatorio per chi lo nega, poiché come eretico è riserbato solo all’Inferno!

PERFEZIONE DELLA VITA CRISTIANA (2)

Perfezione della vita cristiana

[A. Tanquerey: Compendio di teologia ascetica e mistica – Soc. S. Giovanni Evang. Desclée e Ci.; Roma, Tournai – Parigi. 1948]

CAPITOLO III -2-

§ II. La carità sulla terra suppone il sacrificio.

321. In paradiso ameremo senza bisogno di immolarci, ma sulla terra la cosa corre altrimenti. Nello stato attuale di natura decaduta ci è impossibile di amare Dio con amore vero ed effettivo senza sacrificarci per Lui. È ciò che risulta da quanto abbiamo detto più sopra, ai n. 74-75, sulle tendenze della natura corrotta che restano nell’uomo rigenerato. Noi non possiamo amar Dio senza combattere e mortificare queste tendenze; è lotta che comincia col primo svegliarsi della ragione e termina solo con l’ultimo respiro. Vi sono, è vero, momenti di sosta, in cui la lotta è meno viva; ma anche allora non possiamo disarmare senza esporci ai contrattacchi del nemico. È un fatto provato dalla testimonianza della Sacra Scrittura.

La Sacra Scritturaci dichiara apertamente la necessità assoluta del sacrificio o dell’abnegazione per amar Dio e il prossimo.

322. A) A tutti i suoi discepoli rivolge Nostro Signore questo invito: « Chi vuol seguir me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » – « Si quis vult post me venire, abneget semetipsum, tollat crucem suam et sequatur me » (Matth. XVI; Luc. IX, 23). Per seguire Gesù ed amarlo, è condizione essenziale il rinunziare a se stesso, cioè alle cattive tendenze della natura, all’ egoismo, all’orgoglio, all’ambizione, alla sensualità, alla lussuria, all’amore disordinato delle comodità e delle ricchezze; è il portare la propria croce, accettare i patimenti, le privazioni, le umiliazioni, i rovesci di fortuna, le fatiche, le malattie, in una parola tutte quelle croci provvidenziali che Dio ci manda per provarci, per rassodarci nella virtù e facilitarci l’espiazione delle colpe. Allora, e allora soltanto, si può essere suoi discepoli e camminare per le vie dell’amore e della perfezione. Gesù conferma questa lezione col suo esempio. Egli che era venuto dal cielo espressamente per mostrarci il cammino della perfezione, non tenne altra via che quella della croce: « Tota vita Christi crux fuit et martyrium. » Dal presepio al Calvario,è una lunga serie di privazioni, d’umiliazioni, di pene, di fatiche apostoliche, coronate dalle angosce dalle torture della dolorosa sua passione. È ilcommento più eloquente del « Si quis vult venirepost me »; se ci fosse stata altra via più sicura, eice l’avrebbe mostrata, ma sapendo che non c’eratenne quella per trarci a seguirlo: « Quando saròelevato da terra, attirerò a me tutti gli uomini » :« Et ego, si exaltatus fuero a terra, omnia traham a me ipsum » (Joan. XIII, 32). Così l’intesero gli Apostoli che ciripetono, con S. Pietro, che se Cristo patì per noi,lo fece per trarci alla sua sequela: « Christus passus est prò nobis, vobis relinquens exemplum ut sequamini vestigia ejus » (1 Piet. II, 21).

323. B) Tal è pur l’insegnamento di S. Paolo: per lui la perfezione cristiana consiste nello spogliarsi dell’uomo vecchio e rivestirsi del nuovo, « exspoliantes vos veterem hominem cum actibus suis et induentes novum » (Col. III, 9). Or l’uomo vecchio è il complesso delle cattive tendenze ereditate da Adamo, è la triplice concupiscenza che bisogna combattere e infrenare con la pratica della mortificazione. Dice quindi nettamente che coloro che vogliono essere discepoli di Cristo devono crocifiggere i loro vizi e i loro cattivi desideri: « Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt cum vitiis et coticupiscentiis » (Gal. V, 24). È condizione essenziale, tanto ch’egli stesso si sente obbligato a castigare il suo corpo e a reprimere la concupiscenza per non rischiare di essere riprovato: « Castigo corpus meum et in servitutem redigo, ne forte, cum aliis prædicaverim, ipse reprobus efficiar ». (1 Cor. IX, 27)

324. C) S. Giovanni, l’apostolo dell’amore, non è meno chiaro e netto: insegna che, per amar Dio, bisogna osservare i comandamenti e combattere la triplice concupiscenza che regna da padrona nel mondo; e aggiunge che se si ama il mondo e ciò che è nel mondo, cioè la triplice concupiscenza, non si può possedere l’amor di Dio : « Si quis diligit mundum, non est caritas Patris in eo » (1 Joan. II, 15). Ora per odiare il mondo e le sue seduzioni, è chiaro che bisogna praticare lo spirito di sacrificio, privandosi dei piaceri cattivi e pericolosi.

325. 2° Ed è del resto necessaria conseguenza dello stato di natura decaduta qual 1’abbiamo descritto al n. 74, e della triplice concupiscenza che dobbiamo combattere, (n. 193 ss). E impossibile infatti amar Dio e il prossimo senza sacrificar generosamente ciò che si oppone a questo amore. Ora, come abbiamo dimostrato, la triplice concupiscenza s’oppone all’amor di Dio e del prossimo; bisogna quindi combatterla senza tregua e pietà, se vogliamo progredire nella carità.

326. Rechiamo qualche esempio. I nostri sensi esterni corrono avidamente verso tutto ciò che li solletica e mettono in pericolo la fragile nostra virtù. Che fare per resistervi? Ce lo dice Nostro Signore coll’energico suo linguaggio: « Se il tuo occhio destro è per te occasione di caduta, cavalo e gettalo via da te: è meglio per te che perisca uno dei tuoi membri, anziché tutto il tuo corpo venga gettato nell’ inferno » (Matth. V, 29) . Il che significa che bisogna saper staccare con la mortificazione gli occhi, le orecchie, tutti i sensi da ciò che è occasione di peccato; altrimenti non c’è né salvezza né perfezione. Lo stesso si dica dei nostri sensi interni, specialmente della fantasia e della memoria; chi non sa a quali pericoli ci esponiamo se non ne reprimiamo sul nascere i traviamenti? Le stesse nostre facoltà superiori, l’intelligenza e la volontà, sono soggette a molte deviazioni, alla curiosità, all’indipendenza, all’orgoglio; quanti sforzi non sono necessari, quante lotte sempre rinascenti per tenerle sotto il giogo della fede e dell’umile sottomissione alla volontà di Dio e dei suoi rappresentanti! Dobbiamo dunque confessare che, se vogliamo amar Dio ed il prossimo per Dio, bisogna saper mortificare l’egoismo, la sensualità, l’orgoglio, l’amore disordinato delle ricchezze, onde il sacrifizio diventa necessario come condizione essenziale dell’amor di Dio sulla terra. – È questo in sostanza il pensiero di S. Agostino quando dice: « Due amori hanno fatto due città: l’amor di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha fatto la città terrestre; l’amor di Dio spinto fino al disprezzo di sé ha fatto la città celeste » Non si può, in altre parole, amar veramente Dio che disprezzando se stesso, cioè disprezzando e combattendo le cattive tendenze. In quanto a ciò che vi è di buono in noi, bisogna esserne grati al primo suo Autore e coltivarlo con sforzi incessanti.

327. La conclusione che logicamente ne viene è che, se per essere perfetti bisogna moltiplicare gli atti d’amore, non è meno necessario moltiplicare gli atti di sacrificio, poiché sulla terra non si può amare che immolandosi. Del resto si può dire che tutte le nostre opere buone sono insieme atti d’amore e atti di sacrificio: atti di sacrificio in quanto ci distaccano dalle creature e da noi stessi, atti di amore in quanto ci uniscono a Dio. Resta quindi da vedere in che modo si possano conciliare insieme questi due elementi.

§ III. Parte rispettiva dell’amore e del sacrificio nella vita cristiana.

328. Dovendo l’amore e il sacrificio avere la loro parte nella vita cristiana, quale sarà l’ufficio di ognuno di questi due elementi? Su tale argomento, vi sono punti in cui tutti convengono e altri in cui si manifesta qualche disparere, benché poi in pratica i dotti delle diverse scuole riescano a conclusioni pressoché identiche.

329. 1° Tutti ammettono che in sé, nell’ordine ontologico o di dignità, l’amore tiene il primo posto: è lo scopo e l’elemento essenziale della perfezione, come abbiamo provato nella prima nostra tesi, n. 312. L’amore quindi occorre tenere primieramente in vista, a questo mirare continuamente, è lui che deve dare al sacrificio l’intima sua ragione e il suo valore principale: « in omnibus respice finem ». Bisogna dunque parlarne fin dal principio della vita spirituale e far rilevare che l’amor di Dio facilita singolarmente il sacrificio senza però poterne mai dispensare.

330. 2° Quanto all’ordine cronologico, tutti ammettono pure che questi due elementi sono inseparabili e che devono quindi coltivarsi insieme e anche compenetrarsi, poiché non v’è sulla terra amore vero senza sacrificio, e che il sacrificio fatto per Dio è una delle migliori prove di amore. Tutta la questione quindi si riduce in fondo a questa: nell’ ordine cronologico, su quale elemento bisogna maggiormente insistere, sull’amore o sul sacrificio? Or qui ci troviamo di fronte a due tendenze e a due scuole diverse.

331. A) S. Francesco di Sales, appoggiandosi su molti rappresentanti della scuola benedettina e domenicana e confidando negli aiuti che ci offre la natura rigenerata, dà la precedenza all’amor di Dio per farci accettare e praticar meglio il sacrificio; ma non esclude quest’ultimo, chiede anzi alla sua Filotea molto spirito di rinunzia e di sacrificio; lo fa però con molto riguardo e con molta dolcezza nella forma per meglio arrivare al suo scopo. Il che appare fin dal primo capitolo dell’Introduzione alla vita devota: « La vera e viva devozione presuppone l’amor di Dio, anzi non è altro in sé che un vero amor di Dio… E appunto perché la devozione sta in un certo grado di eccellente carità, non solo ci rende pronti, attivi, diligenti nell’osservanza di tutti i comandamenti di Dio, ma ci stimola pure a fare con prontezza ed affetto quante più buone opere possiamo, benché non siano in alcun modo comandate ma solamente consigliate o ispirate ». Ora osservare i comandamenti, seguire i consigli e le ispirazioni della grazia, è certamente un praticare un alto grado di mortificazione. Del resto il Santo chiede a Filotea che cominci dal mondarsi non solo dai peccati mortali ma anche dai peccati veniali, dall’affetto alle cose inutili e pericolose e dalle cattive inclinazioni. E quando tratta delle virtù, non ne dimentica la parte penosa; vuole soltanto che tutto sia condito con l’amor di Dio e del prossimo.

332. B) Per altro verso, la scuola ignaziana e la scuola francese del secolo XVII, pur non dimenticando che l’amor di Dio è lo scopo da conseguire e quello che deve avvivare tutte le nostre azioni, mettono al primo posto, soprattutto per i principianti, la rinunzia, l’amor della croce o la crocifissione dell’uomo vecchio, come il più sicuro mezzo per arrivare al vero ed effettivo amore. Pare che temano che, se non vi s’insiste sul principio, molte anime cadano poi nell’illusione, immaginandosi d’essere già molto avanzate nell’amor di Dio mentre la loro pietà è più sensibile ed apparente che reale; onde poi certe miserande cadute al presentarsi di violente tentazioni o al sopravvenire delle aridità. Del resto il sacrificio, virilmente accettato per amor di Dio, conduce a una più generosa e più costante carità, e la pratica abituale dell’amor di Dio viene a coronare 1’edificio spirituale.

333. Conclusione pratica. Senza aver la pretesa di dirimere cotesta controversia, proporremo alcune conclusioni ammesse dai dotti di tutte le scuole.

A) Ci sono due eccessi da evitare : a) quello di voler lanciare troppo presto le anime in quella che si chiama la via dell’autore, senza esercitarle nello stesso tempo nella pratica austera della rinunzia quotidiana. Così si fomentano le illusioni e talora anche miserande cadute: quante anime, provando le consolazioni sensibili che Dio concede ai principianti e credendosi salde nella virtù, si espongono alle occasioni di peccato, commettono imprudenze e cadono in colpe gravi! Un poco più di mortificazione, di vera umiltà, di diffidenza di se stesse, una lotta più coraggiosa contro le passioni, le avrebbe preservate da queste miserie.

b) Un altro eccesso sta nel parlare soltanto di rinunzia e di mortificazione senza far rilevare che sono soltanto mezzi per arrivare all’amor di Dio o manifestazioni di quest’amore. È questa la ragione per cui certe anime di buona volontà, ma ancor poco coraggiose, si sentono ributtate ed anche disanimate. Si sentirebbero maggiore slancio ed energia, se si mostrasse loro che questi sacrifici diventano molto più facili quando si fanno per amor di Dio: « Ubi amatur, non laboratur ».

334. B) Evitati questi eccessi, il direttore saprà scegliere per il suo penitente la via più conveniente al carattere suo e alle attrattive della grazia.

a) Vi sono anime sensibili e affettuose che non prendono gusto alla mortificazione se non dopo aver già praticato per qualche tempo l’amor di Dio. È vero che questo amore è spesso imperfetto, più ardente e sensibile che generoso e durevole. Ma, se si bada a giovarsi di questi primi slanci per mostrare che il vero amore non può perseverare senza sacrificio, se si riesce a far praticare, per amor di Dio, alcuni atti di penitenza, di riparazione, di mortificazione, quegli atti che sono più necessari a evitare il peccato, la loro virtù a poco a poco si rinsalda, si fortifica la loro volontà, e viene il momento in cui capiscono che il sacrificio deve andare di pari passo con l’amor di Dio. b) Se si tratta invece di caratteri energici, abituati ad agire per dovere, si può, pur mettendo loro avanti agli occhi l’unione con Dio come scopo, insistere dapprincipio sulla rinunzia come pietra di paragone della carità, e far praticare la penitenza, l’umiltà e la mortificazione, pur condendo queste austere virtù con un motivo d’amor di Dio o di zelo per le anime. – Così non si separerà mai l’amore dal sacrificio, e si mostrerà che questi due elementi si conciliano e si perfezionano a vicenda.

§ IV. La perfezione consiste nei precetti o nei consigli?

335. 1° Stato della questione. Abbiamo visto che la perfezione essenzialmente consiste nell’amor di Dio e del prossimo spinto fino al sacrificio. Ora intorno all’amor di Dio e al sacrificio vi sono nello stesso tempo precetti e consigli: precetti che ci comandano, sotto pena di peccato, di fare questa o quella cosa o di astenercene; consigli che c’invitano a fare per Dio più di quello che ci è comandato, sotto pena d’imperfezione volontaria e di resistenza alla grazia. Vi allude Nostro Signore quando dichiara al giovane ricco: « Se vuoi entrar nella vita, osserva i comandamenti… Se vuoi essere perfetto, va, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo » – « Si autem vis ad vitam ingredi, serva mandata…  Si vis perfectus esse, vende qua habes et da pauperibus, et habebis thesaurum in cælo, et veni, sequere me » (Matth. XIX, 17-21)1. Osservare dunque le leggi della giustizia e della carità in materia di proprietà basta per entrare in cielo; ma, se si vuole essere perfetti, bisogna vendere i propri beni, darne il prezzo ai poveri e praticare così la volontaria povertà S. Paolo ci fa pure notare che la verginità è un consiglio e non un precetto, che lo sposarsi è cosa buona ma che restar vergine è anche migliore. (1 Cor. VII, 25-40).

336. 2 ° La soluzione. Alcuni autori ne hanno conchiuso che la vita cristiana consiste nell’osservanza dei precetti e la perfezione nei consigli. È un modo di vedere un po’ semplicista e che, frainteso, potrebbe condurre a funeste conseguenze. La verità è che la perfezione esige prima di tutto l’adempimento dei precetti e secondariamente l’osservanza d’un certo numero di consigli. È questo appunto l’insegnamento di S. Tommaso (Sum. Theol. IIa, IIæ, q. 184, a. 3). Dopo aver provato che la perfezione non è altro che l’amor di Dio e del prossimo, conchiude che in pratica consiste essenzialmente nei precetti, di cui il principale è quello della carità, e secondariamente nei consigli, i quali pure si riferiscono tutti alla carità, perché allontanano gli ostacoli che si oppongono al suo esercizio. Spieghiamo questa dottrina.

337. A) La perfezione esige prima di tutto e imperiosamente l’adempimento dei precetti; è necessario inculcar fortemente questo concetto a certe persone che, per esempio, col pretesto della devozione, dimenticano i doveri del proprio stato, oppure, per praticar la limosina con maggior pompa, ritardano indefinitamente il pagamento dei debiti, insomma a tutti quelli che trascurano questo o quel precetto del decalogo con la pretesa di più alta perfezione. Ora è evidente che la violazione d’un precetto grave, come è quello di pagare i debiti, distrugge in noi la carità, e che il pretesto di far l’elemosina non può giustificare questa infrazione della legge naturale. Parimente la violazione volontaria d’un precetto in materia lieve è un peccato veniale, che, senza distruggere la carità, ne impaccia più o meno l’esercizio e soprattutto offende Dio e diminuisce la nostra intimità con Lui; il che è vero principalmente del peccato veniale deliberato e frequente, che crea in noi degli attacchi e c’impedisce di slanciarci liberamente verso la perfezione. Bisogna dunque, per essere perfetti, osservare prima di tutto i precetti.

338. B) Ma è necessario aggiungervi l’osservanza dei consigli, almeno di alcuni, specialmente di quelli impostici dall’adempimento dei doveri del nostro stato.

a) Così i Religiosi, essendosi obbligati per voto a praticare i tre grandi consigli evangelici della povertà, della castità e dell’ obbedienza, non possono santificarsi senza essere fedeli ai loro voti. Del resto questa pratica facilita singolarmente l’amor di Dio distaccando l’anima dai principali ostacoli che s’oppongono alla divina carità: la povertà, strappandoli all’amore disordinato delle ricchezze, fomenta lo slancio del cuore verso Dio e i beni celesti; la castità, sottraendoli ai piaceri della carne, anche a quelli leciti nel santo stato del matrimonio, li aiuta ad amar Dio senza divisione; l’obbedienza, combattendo l’orgoglio e lo spirito d’indipendenza, assoggetta la loro volontà a quella di Dio ed è in sostanza un atto d’amore.

339. b) Quelli poi che non hanno fatto voti, devono, per essere perfetti, praticarne lo spirito, ognuno secondo la propria condizione, le ispirazioni della grazia e i consigli d’un savio direttore. Così praticheranno lo spirito di povertà, privandosi di molte cose inutili per poter fare qualche risparmio da erogare in elemosine e in opere di beneficenza; lo spirito di castità, anche se sono coniugati, usando moderatamente e con qualche restrizione dei legittimi piaceri del matrimonio e diligentemente evitando tutto ciò che è proibito o pericoloso; lo spirito di obbedienza, assoggettandosi docilmente ai propri superiori, in cui vedranno l’immagine di Dio, e alle ispirazioni della grazia accertate da un savio direttore. – Amar dunque Dio e il prossimo per Dio e saper sacrificarsi a fine di meglio osservare questo doppio precetto e i consigli che vi si riferiscono, ognuno secondo il proprio stato, qui sta la vera perfezione.

§ V. Dei diversi gradi di perfezione.

La perfezione ha su questa terra i suoi gradi e i suoi limiti; onde due questioni: l ° quali sono i principali gradi di perfezione; 2 ° quali ne sono i limiti sulla terra?

I . Dei diversi gradi di perfezione.

340. I gradi per cui uno si eleva alla perfezione, sono numerosi; e non è qui il caso di enumerarli tutti ma solo di notare le principali tappe. Ora, secondo la dottrina comune, esposta da S. Tommaso, si distinguono tre tappe principali, o, come generalmente si dice, tre vie, quella degli incipienti, quella dei proficienti, quella dei perfetti, secondo lo scopo principale a cui si mira.

341. a) Nel primo stadio, la principale cura degli incipienti è di non perdere la carità che possiedono: lottano quindi per evitare il peccato, soprattutto il peccato mortale, e per trionfare delle male cupidigie, delle passioni e di tutto ciò che potrebbe far loro perdere l’amor di Dio », Questa è la via purgativa, il cui scopo è di mondar l’anima dalle sue colpe.

342. b) Nel secondo stadio si vuol progredire nella pratica positiva delle virtù, e fortificar la carità. Essendo già purificato, il cuore è più aperto alla luce divina e all’amor di Dio: si ama di seguire Gesù e imitarne le virtù, e poiché, seguendolo, si cammina nella luce, questa via si chiama illuminativa. L’anima si studia di schivare non solo il peccato mortale, ma anche il veniale.

343. c) Nel terzo stadio, i perfetti non hanno più che un solo pensiero, star uniti a Dio e deliziarsi in Lui. Costantemente studiandosi di unirsi a Dio, sono nella via unitiva. Il peccato fa loro orrore, perché temono di dispiacere a Dio e di offenderlo; le virtù li attirano, specialmente le virtù teologali, perché sono mezzi d’unirsi a Dio. La terra quindi sembra loro un esilio, e, come S. Paolo, desiderano di morire per andarsene con Cristo. – Sono queste brevi indicazioni soltanto che più tardi ripiglieremo e svolgeremo nella seconda parte di questo Compendio, dove seguiremo un’anima dalla prima tappa, la purificazione dell’anima, all’unione trasformante che la prepara alla visione beatifica.

II. Dei limiti della perfezione stilla terra.

344. Quando si leggono le vite dei santi e principalmente dei grandi contemplativi, si resta meravigliati al vedere a quali sublimi altezze può elevarsi un’anima generosa che nulla rifiuta a Dio. Nondimeno vi sono dei limiti alla nostra perfezione su questa terra, limiti che non si deve voler oltrepassare, sotto pena di ricadere in un grado inferiore o anche nel peccato.

345. E certo che non si può amar Dio tanto quanto è amabile: Dio infatti è infinitamente amabilee il nostro cuore, essendo finito, non potrà maiamarlo, anche in cielo, che con amore limitato. Possiamoquindi sforzarci d’amarlo sempre più, anzi, secondo S. Bernardo, la misura d’amar Dio è d’amarlo senza misura. Ma non dimentichiamo che il vero amore, più che in pii sentimenti, consiste in atti di volontà, e che il miglior mezzo d’amar Dio è di conformare la nostra volontà alla sua, come spiegheremo più avanti, trattando della conformità alla divina volontà.

346. 2° Sulla terra non si può amar Dio ininterrottamente e senza debolezze. Si può certamente, con grazie particolari che non sono rifiutate alle anime di buona volontà, schivare ogni peccato veniale deliberato ma non ogni colpa di fragilità; né si diventa mai impeccabili, come la Chiesa ha in parecchie circostanze dichiarato.

A) Nel Medio Evo, i Beguardiavevano preteso che l’uomo, nella vita presente, è capace d’acquistare tal grado di perfezione da divenire affatto impeccabile e da non potere crescere di più in grazia. Ne concludevano che colui il quale ha conseguito questo grado di perfezione, non deve più né digiunare né pregare, perché in questo stato la sensualità è talmente assoggettata allo spirito e alla ragione ch’egli può concedere al suo corpo ogni diletto; non è più obbligato ad osservare i precetti della Chiesa, né ad obbedire agli uomini, né anche a praticare gli atti delle virtù, tutte cose proprie dell’uomo imperfetto. Sono dottrine pericolose che finiscono poi nell’immoralità; quando uno si crede impeccabile e non si esercita più nella virtù, diventa presto preda delle più vili passioni. Ed è ciò che avvenne ai Beguardi, che il Concilio ecumenico di Vienna dovette poi giustamente condannare nel 1311.

347. B) Nel secolo XVII, Molinos rinnovò quest’errore, insegnando che « con la contemplazione acquisita si arriva a un tal grado di perfezione che non si commettono più peccati né mortali né veniali ». Ma mostrò troppo bene col suo esempio che, con massime apparentemente così alte, si è pur troppo esposti a cadere in scandalosi disordini. Fu giustamente condannato da Innocenzo XI il 19 novembre 1687, e quando si leggono le proposizioni che aveva osato sostenere, si resta inorriditi delle orribili conseguenze a cui conduce questa pretensione d’impeccabilità. — Siamo dunque più modesti e pensiamo soltanto a correggerci delle colpe deliberate e diminuire il numero di quelle di fragilità.

348. 3° Sulla terra non si può amar Dio costantemente o anche abitualmente con amore così perfettamentepuro e disinteressato che escluda ogni atto di speranza. A qualunque grado di perfezione si sia giunti, si è obbligati a fare di tanto in tanto degli atti di speranza; e non si può quindi in modo assoluto restare indifferenti alla propria salvezza. Vi furono, è vero, dei santi che, nelle prove passive, s’acconciarono momentaneamente alla loro riprovazione in modo ipotetico, cioè se tale fosse la volontà di Dio, pur protestando che in tal caso non volevano cessare d’amar Dio; ma sono ipotesi che si devono ordinariamente scartare, perché di fatto Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini. Si possono però fare, di quando in quando, atti diamor puro senza alcuna mira a se stesso e quindi senza attualmente sperare o desiderare il cielo. Talè, per esempio, questo atto d’amore di S. Teresa : « Se vi amo, o Signore, non è per il cielo che m’avete promesso; se temo d’offendervi, non è per l’inferno di cui sarei minacciata; ciò che m’attira verso diVoi, o Signore, siete Voi, Voi solo, che vedo inchiodato alla croce, col corpo straziato, tra agonie di morte. E il vostro amore si è talmente impadronito del mio cuore che, quand’anche non ci fosse il paradiso, io vi amerei lo stesso; quand’anche non ci fosse l’inferno, pure io vi temerei. Nulla Voi avete da darmi per provocare il mio amore; perché, quand’anche non sperassi ciò che spero, pure io vi amerei come vi amo ». (Storia di S. Teresa ricavata dai Bollandisti, t. II, c. XXXI, (Lega Eucaristica, Milano).

349. Abitualmente vi è nel nostro amor di Dio un misto d’amor puro e d’amore di speranza, il che significa che noi amiamo Dio e per se stesso, perché è infinitamente buono, e anche perché è la fonte della nostra felicità. Questi due motivi non si escludono, perché Dio volle che nell’amarlo e nel glorificarlo troviamo la nostra felicità. Non ci affanniamo quindi di questo misto e, pensando al paradiso, diciamo soltanto che la nostra felicità consisterà nel posseder Dio, nel vederlo, nell’amarlo e nel glorificarlo; così il desiderio e la speranza del cielo non impediranno che il motivo dominante delle nostre azioni sia veramente l’amor di Dio.

CONCLUSIONE.

350. Amore e sacrificio, ecco dunque tutta la perfezione cristiana. Or chi non può, con la grazia di Dio, adempiere questa doppia condizione? È dunque così difficile amar Colui che è infinitamente amabile e infinitamente amante? L’amore che ci si chiede non è qualche cosa di straordinario, è l’amore di abnegazione, è il dono di se stesso, è specialmente la conformità alla divina volontà. Voler amare è dunque amare; osservare i comandamenti per Dio è amare; pregare è amare; compier doveri del proprio stato per piacere a Dio è amare, anzi ricrearsi, nutrirsi con le stesse intenzioni è amare; rendere servizio al prossimo per Dio è amare. Non v’è quindi nulla di più facile, con grazia di Dio, del praticare costantemente la divina carità e così incessantemente progredire verso la perfezione.

351. Il sacrificio certamente appare più penoso ma non ci si chiede di amarlo per se stesso: basta amarlo per Dio, o, in altre parole, persuadersi che sulla terra non si può amar Dio senza rinunziare a ciò che è di ostacolo al suo amore. Allora il sacrificio diventa prima tollerabile e poi presto anche amabile. Una madre che passa le lunghe notti al capezzale del figlio ammalato, non accetta forse lietamente le sue fatiche, quando ha la speranza, specialmente poi se ha la certezza di salvargli la vita? Ora noi abbiamo non solo la speranza ma la certezza di piacere a Dio, di procurarne la gloria, e nello stesso tempo di salvarci l’anima, quando, per amor di Dio c’imponiamo i sacrifici che ci domanda. E non abbiamo per rinfrancarci gli esempi e gli aiuti dell’Uomo-Dio? Non patì Gesù quanto e più di noi per glorificare il Padre suo e salvare le anime nostre? E noi, suoi discepoli, incorporati a lui col Battesimo, nutriti del suo corpo e del suo sangue, esiteremo a patire in unione con Lui, per amore di Lui, secondo le stesse sue intenzioni? E non è forse vero che la croce ha i suoi vantaggi, specialmente per i cuori che amano? « Nella croce sta la salute, dice l’Imitazione I. II. C. 12, v.2); nella croce la vita; nella croce la protezione contro i nemici; nella croce una soavità tutta celeste: « In cruce salus, in cruce vita, in cruceprotectio ab hostibus, in cruce infusio supernæ suavitatis“.

Concludiamo dunque con S. Agostino: « Per i cuori che amano non vi sono sacrifici troppo penosi; vi si trova anzi diletto, come si vede in quelli che amano la caccia, la pesca, la vendemmia, gli affari… Perché, quando si ama, o non si patisce o anche quel patimento si ama, aut non laboratur aut et labor amatur » (De bono viduitatis, c. 21, P. L. III, sez. I). E affrettiamoci a progredire, per la via del sacrificio e dell’ amore, verso la perfezione, perché per noi è un obbligo.

PERFEZIONE DELLA VITA CRISTIANA (1)

Perfezione della vita cristiana.

[A. Tanquerey: Compendio di teologia ascetica e mistica – Soc. S. Giovanni Evang. Desclée e Ci.; Roma, Tournai – Parigi. 1948]

CAPITOLO III -1-

295. Ogni vita deve perfezionarsi, ma principalmente la vita cristiana, la quale è, per sua natura, essenzialmente progressiva e non toccherà il suo termine se non in cielo. Dobbiamo quindi esaminare in che consista la perfezione di questa vita, per poterci così meglio dirigere nelle vie della perfezione. Essendoci però su questo punto fondamentale errori e idee più o meno monche ed inesatte, cominceremo a rimuovere le false nozioni della perfezione cristiana e ne esporremo poi la vera natura.

I. Le false nozioni:

a) degli increduli;

b) dei mondani;

c) dei devoti.

II. La vera nozione:

a) consiste nella carità;

b) suppone sulla terra il sacrifizio;

c) concilia armoniosamente questi elementi;

d) abbraccia i precetti e i consigli;

e) ha i suoi gradi e i suoi limiti.

ART. I. FALSE NOZIONI SULLA PERFEZIONE.

Queste false nozioni si trovano presso gl’increduli, i mondani e i falsi devoti.

296. Agli occhi degl’increduli la perfezione cristiana è un puro fenomeno soggettivo, che non corrisponde ad alcuna sicura realtà.

A) Molti di loro studiano quelli che essi chiamano fenomeni mistici con malevoli pregiudizi e senza discernere tra i veri e i falsi mistici: tali Max Nordau, J. H. Leuba, E. Murisier. A loro giudizio, la pretesa perfezione dei mistici non è che un fenomeno morboso, una specie di psiconevrosi, di esaltazione del sentimento religioso, ed anche una forma speciale di amore sessuale, come appare dai vocaboli di sponsali o sposalizio, di matrimonio spirituale, di baci, di amplessi, di carezze divine, che ricorrono così spesso sotto la penna dei mistici. – È chiaro che questi autori, i quali non s’intendono quasi d’ altro che di amore profano, non hanno capito nulla dell’amor divino e sono di coloro a cui si potrebbe applicare la parola di Nostro Signore: “Neque mittatis inargaritas vestras ante porcos” (Matth. VII, 6). Quindi anche gli altri psicologi, come W. James, fanno loro notare che l’istinto sessuale non ha nulla da vedere con la santità; che i veri mistici praticarono la purità eroica, gli uni non avendo mai o quasi mai provato le debolezze della carne, gli altri avendo superate violente tentazioni con mezzi eroici, per esempio voltolandosi tra le spine. Se dunque usarono il linguaggio dell’ amor umano, la ragione è che non ve n’è altro che sia più adatto ad esprimere in modo analogico le tenerezze dell’amor divino. Del resto essi mostrarono in tutta la loro condotta, con le grandi opere che impresero e condussero a buon fine, che erano persone savie e prudenti; e in ogni caso non si possono che benedire le nevrosi che ci diedero i Tommasi d’Aquino, i Bonaventura, gli Ignazi di Loiola, i Franceschi Saveri, 1e Terese e i Giovanni della Croce, i Franceschi di Sales, 1e Giovanne di Chantal, i Vincenzi de’ Paoli, le Damigelle Legras, i Berulle e gli Olier, gli Alfonsi de’ Liguori e i Paoli della Croce.

297. B ) Altri increduli rendono giustizia ai nostri mistici pur dubitando della realtà obbiettiva dei fenomeni da loro descritti: tali William James e Massimo di Montmorand. Riconoscono che il sentimento religioso produce nelle anime mirabili effetti, uno slancio invincibile verso il bene, un illimitata dedizione verso il prossimo, che il loro preteso egoismo non è in fondo che una carità eminentemente sociale feconda della più lieta influenza, che la loro sete di patimenti non impedisce loro di godere ineffabili delizie e diffondere un poco di felicità attorno a loro; solo dubitano che siano vittime d’autosuggestione e d’allucinazione. Ma noi facciamo osservare che così benefici effetti non possono derivare se non da una causa proporzionata; che, nel complesso, il bene reale e duraturo non può venire che dal vero, e che se solo i mistici cristiani hanno praticato le virtù eroiche e prodotto opere sociali utili, la ragione è che la contemplazione e l’amore di Dio, ispiratori di queste opere, non sono allucinazioni ma realtà viventi ed operose : “ex fructibus eorum cognoscctis eos” (Matth. VII, 20).

298. I mondani, anche quando hanno la fede, hanno spesso, sulla perfezione o su ciò ch’essi chiamano la devozione, idee molto false.

A) Gli uni riguardano i devoti come ipocriti, come Tartufi, che, sotto la maschera della pietà, nascondono vizi odiosi o ambiziose mire politiche, come sarebbe il desiderio di dominare le coscienze e così governare il mondo. Or questo è un confondere l’abuso con la cosa stessa, e la continuazione di questo studio dimostrerà che la semplicità, la lealtà e l’umiltà sono i veri caratteri della devozione.

299. B) Altri considerano la pietà come esaltazione della sensibilità e dell’immaginazione, una specie di emotività, buona tutt’al più per le donne e per i bambini ma indegna di uomini che vogliono guidarsi con la ragione e con la volontà. Eppure quanti uomini iscritti nel catalogo dei Santi, che si distinsero per un proverbiale buon senso, per una intelligenza superiore, per una volontà energica e costante? Anche qui si confonde dunque la caricatura col ritratto.

300. C) Vi sono infine di quelli che pretendono che la perfezione sia un’utopia inattuabile e per ciò stesso pericolosa, che basti osservare i comandamenti e soprattutto aiutare il prossimo, senza perdere il tempo in pratiche minuziose, o nella ricerca di virtù straordinarie. Basta la lettura della vita dei Santi a correggere quest’errore, mostrando che la perfezione fu veramente conseguita sulla terra, e che la pratica dei consigli non solo non nuoce all’osservanza dei precetti ma la rende anzi più facile.

301. 3° Tra le stesse persone devote ce ne sono di quelle che s’ingannano sulla vera natura della perfezione, dipingendola ognuno secondo la propria passione e la propria fantasia (È quanto osserva S. Franc. DI SALES, Intr. alla vita davota, P. I , c. I che è da leggersi per intero.)

A) Molti, confondendo la devozione con le devozioni, si immaginano che la perfezione consista nel recitare un gran numero di preghiere e nel far parte di molte confraternite, talora anche a detrimento dei doveri del proprio stato che costoro trascurano per fare questo o quel pio esercizio, o mancando alla carità verso le persone di casa. Questo è un sostituire l’accessorio al principale e un sacrificare al mezzo il fine.

302. B) Altri poi si danno ai digiuni e a austerità, fino ad estenuarsi e rendersi incapaci di compiere bene i doveri del proprio stato, credendosi con ciò dispensati dalla carità verso il prossimo; mentre non osano intingere la lingua nel vino, non temono poi di « immergerla nel sangue del prossimo con la maldicenza e con la calunnia ». Anche qui si prende abbaglio su ciò che vi è di più essenziale nella perfezione, e si trascura il dovere capitale della carità per esercizi buoni senza dubbi, ma meno importanti. — In pari errore cadono color che fanno ricche elemosine, ma non vogliono perdonare i nemici, oppure, perdonando i nemici e non pensano poi a pagare i debiti.

303. C) Alcuni, confondendo le consolazioni spirituali col fervore, si credono perfetti quando sono inondati di gioia e pregano con facilità; s’immaginano invece d’essere rilassati quando son assaliti dalle aridità e dalle distrazioni. Dimenticano che ciò che conta agli occhi di Dio è lo sforzo generoso e spesso rinnovato, non ostante le apparenti sconfitte che si possono provare.

304. D) Altri, invaghiti di azione e di opere esteriori, trascurano la vita interiore per darsi più interamente all’apostolato. E un dimenticare che l’anima di ogni apostolato è la preghiera abituale, che attira la grazia divina e rende feconda l’azione.

305. E) Finalmente alcuni, avendo letto libri mistici o vite di Santi in cui si descrivono estasi e visioni, si immaginano che la devozione consista in questi fenomeni straordinari e fanno sforzi di mente e di fantasia per arrivarvi. Non capiscono che, a detta dei mistici stessi, questi sono fenomeni accessori che non costituiscono la santità, ai quali quindi non bisogna aspirare, e che la via della conformità alla volontà di Dio è molto più sicura e più pratica.

Sgombrato così il terreno, potremo ora più facilmente

intendere in che essenzialmente consista la

vera perfezione.

ART. II. LA VERA NOZIONE DELLA PERFEZIONE

306. Stato della questione. Per ben risolvere questo problema, cominciamo con determinar lo stato della questione:

Nell’ordine naturale un essere è perfetto (perfectum) quando è finito e compito, e quindi quando consegue il suo fine: « Unumquodque dicitur esse perfectum in quantum attingit proprium finem, qui est ultima rei perfectio » (Sum. Theol. IIa, IIæ, q. 184, a. 1). Questa è la perfezione assoluta; ve n’è però un’altra, relativa e progressiva, che consiste nell’avvicinarsi a questo fine, sviluppando tutte le proprie facoltà e praticando tutti i propri doveri secondo le prescrizioni della legge naturale manifestata dalla retta ragione.

307. 2° Il fine dell’uomo, anche nell’ordine naturale, è Dio. 1) Creati da Lui, siamo necessariamente creati per Lui, poiché è chiaro che non può Dio trovare un fine più perfetto di Sé, essendo la pienezza dell’Essere; e d’altra parte creare per un fine imperfetto sarebbe indegno di Lui. 2) Di più, essendo Dio la perfezione infinita e quindi la fonte di ogni perfezione, l’uomo è tanto più perfetto quanto più s’avvicina a Lui e ne partecipa le divine perfezioni; ecco perché il cuore umano non trova nelle creature nulla che possa soddisfarne le legittime aspirazioni: « Ultimus hominis finis est bonum increatum, scilicet Deus, qui solus sua infinita bonitate potest voluntatem hominis perfecte implere » (S. Theol. Ia, IIæ, q. 3,a. 1). A Dio quindi convien rivolgere tutte le nostre azioni; conoscerlo, amarlo, servirlo, e così glorificarlo, tal è il fine della vita e la fonte d’ogni perfezione.

308. 3° Il  che è anche più vero nell’ordine soprannaturale. Gratuitamente elevati da Dio ad uno stato che supera le nostre esigenze e le nostre possibilità, chiamati a contemplarlo un giorno con la visione beatifica e possedendolo già con la grazia, dotati di un intero organismo soprannaturale per unirci a Lui con la pratica delle virtù cristiane, è chiaro che non possiamo perfezionarci se non avvicinandoci continuamente a Lui. E non potendo far questo senza unirci a Gesù, che è la via necessaria per andare al Padre, la nostra perfezione consisterà nel vivere per Dio in unione con Gesù Cristo: « Vivere summe Deo in Christo Jesu » (J. J. Olier). Il che facciamo praticando le virtù cristiane, teologali e morali, che tutte hanno per fine di unirci in modo più o meno diretto a Dio, facendoci imitare N. S. Gesù Cristo.

309. 4° Sorge quindi qui la questione di sapere se, tra queste virtù, non ve ne sia una che compendi e contenga tutte le altre, e costituisca, a così dire, l’essenza della perfezione. S. Tommaso, sintetizzando la dottrina della S. Scrittura e dei Padri, risponde affermativamente e c’insegna che la perfezione consiste essenzialmente nell’amor di Dio e del prossimo amato per Dio: « Per se quidem et essentialiter Consistit perfectio Christianæ vitæ in caritate, principaliter quidem secundum dilectionem Dei, secundario autem secundum dilectionem proximi » (S. Theol., IIa, IIæ, q. 184, a, 3). Ma,poiché nella vita presente l’amor di Dio non puòpraticarsi senza rinunziare all’amore disordinato dise stessi, ossia alla triplice concupiscenza, in praticaall’amore bisogna aggiungere il sacrificio. Questoverremo esponendo col dimostrare: 1) come l’amordi Dio e del prossimo costituisca l’essenza dellaperfezione; 2) perché quest’amore debba giungerefino al sacrifizio; 3) in che modo si debbano conciliarequesti due elementi; 4) come la perfezioneabbracci insieme precetti e consigli; 5) quali nesiano i gradi e fin dove possa arrivare sulla terra.

§ I. L’essenza della perfezione consiste nella carità.

310. Spieghiamo anzitutto il senso della tesi.

L’amore di Dio e del prossimo, di cui qui trattiamo, è soprannaturale nel suo oggetto come nel suo motivo e nel suo principio. Il Dio che noi amiamo è il Dio manifestatoci dalla rivelazione, il Dio della Trinità; e l’amiamo perché la fede ce lo mostra infinitamente buono e infinitamente amabile; l’amiamo con la volontà perfezionata dalla virtù della carità e aiutata dalla grazia attuale. Non è dunque un amore di sensibilità; è vero che, essendo l’uomo composto d’anima e di corpo, spesso si mescola ai nostri più nobili affetti un elemento sensibile; ma un tal sentimento manca talora interamente, e in ogni caso è del tutto accessorio. L’essenza stessa dell’amore è la dedizione, è la volontà ferma di darsi e, occorrendo, d’immolarsi interamente per Dio e per la sua gloria, di preferire il suo beneplacito al nostro e a quello delle creature.

311. Conviene dire altrettanto, salve le proporzioni, dell’amor del prossimo.

In lui amiamo Dio, un’immagine, un riflesso delle sue divine perfezioni; il motivo quindi che ce lo fa amare è la bontà divina in quanto è manifestata, espressa, irradiata nel prossimo; o, in parole più intelligibili, noi vediamo e amiamo nei nostri fratelli un’anima abitata dallo Spirito Santo, ornata della grazia divina, riscattata dal sangue di Gesù Cristo; e amandola, ne vogliamo il bene soprannaturale, lo spirituale perfezionamento, la salute eterna. – Non vi sono quindi due virtù di carità, l’una verso Dio e l’altra verso il prossimo; ve n’è una sola che abbraccia insieme Dio amato per se stesso e il prossimo amato per Dio. – Con queste nozioni ci sarà facile intendere come la perfezione consiste proprio nella virtù della carità.

Le prove della tesi.

312. 1° Interroghiamo la S. Scrittura. A) Nel Vecchio come nel Nuovo Testamento, ciò che domina e compendia tutta la Legge è il gran precetto della carità, carità verso Dio e carità verso il prossimo. Quindi, quando un dottore della legge domanda a Nostro Signore che cosa bisogna fare per acquistare la vita eterna, il divin Maestro gli risponde soltanto: Che cosa dice la legge? E il dottore pronto gli cita il testo del Deuteronomio: « Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso: « Diliges Dominimi Deum tuum ex toto corde tuo et ex tota anima tua et ex omnibus viribus tuis et ex omni mente tua, et proximum tuum sicut teipsum. » E Nostro Signore l’approva dicendogli: « Hoc fac et vives » (Luc. X, 25-29; Deut. VI, 5-7). Aggiunge altrove che questo doppio precetto dell’amor di Dio e dell’amor del prossimo costituisce la legge e i Profeti (Matth. XXII, 39-40) –. Ed è ciò che sotto altra forma dichiara S. Paolo, quando, dopo aver rammentati i principali precetti del Decalogo, aggiunge che la pienezza della legge è l’amore: « Plenitudo legis dilectio » (Rom. XIII, 10). Così l’amor di Dio e del prossimo è nello stesso tempo la sintesi e la pienezza della Legge. Ora la perfezione cristiana non può essere che l’adempimento perfetto ed intero della Legge; perché la Legge è ciò che Dio vuole, e che cosa v’è di più perfetto della santa volontà di Dio?

313. B) Vi è un’altra prova tratta dalla dottrina di S. Paolo sulla carità nel cap. XIII° della I Lettera ai Corinti; con lirico linguaggio Paolo vi descrive l’eccellenza della carità, la sua superiorità sui carismi o sulle grazie gratisdate, sulle altre virtù teologali, la fede e la speranza; e mostra ch’essa compendia e contiene in modo eminente tutte le virtù, che è anzi il complesso di queste virtù: « caritas patiens est, benigna est; caritas non æmulatur, non agit perperam, non inflatur, non est ambitiosa, non quærit quæ sua sunt, non irritatur, non cogitat malum… »; e in ultimo aggiunge che i carismipasseranno, che la fede e la speranza spariranno, mache la carità è eterna. Non è questo un insegnareche non solo la carità è la regina e l’anima delle virtù,ma che è pur così eccellente da bastare a rendereun uomo perfetto, comunicandogli tutte le virtù?

314. C) S. Giovanni, l’apostolo del divino amore, ce ne dà la fondamentale ragione. Dio, egli dice, è carità, « Deus caritas est »; è questa, a così dire, la sua nota caratteristica. Se dunque vogliamo somigliar a Lui ed essere perfetti come il Padre celeste, bisogna che noi amiamo Lui come Egli ha amato noi « quoniam prior ipse dilexit nos » (1 Giov. III, 16; IV, 10); e non potendo amar Lui senza amar pure il prossimo, dobbiamo amare questo caro prossimo fino a sacrificarci per Lui « et nos debemus prò fratribus animas ponere »: « Carissimi, amiamoci l’un l’altro, perché l’amore viene da Dio e chi ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore… Or questo amore sta in ciò che non fummo noi ad amar Dio, ma egli il primo amò noi e mandò il suo Figliuolo vittima di propiziazione per i nostri peccati. Carissimi, se Dio ci ha amati in tal guisa, dobbiamo noi pure amarci l’un l’altro… Dio è amore e chi sta nell’amore sta in Dio e Dio in lui » Si può dire in modo più chiaro che tutta la perfezione consiste nell’amor di Dio e del prossimo per Dio?

315. 2° Interroghiamo la ragione illuminata dalla fede: se consideriamo sia la natura della perfezione sia la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione.

A) Abbiamo detto che la perfezione d’un essere consiste nel conseguire il proprio fine o nell’ avvicinategli quanto più è possibile (n. 306). Ora il fine dell’uomo nell’ordine soprannaturale è Dio eternamente posseduto con la visione intuitiva e con l’amore beatifico; sulla terra ci avviciniamo a questo fine vivendo già in unione intima con la SS. Trinità che vive in noi e con Gesù mediatore necessario per andare al Padre. Quanto più dunque siamo uniti a Dio, ultimo nostro fine e fonte della nostra vita, tanto più siamo perfetti.

316. Or qual è tra le virtù cristiane la più unificante, quella che unisce l’anima nostra interamente a Dio, se non la divina carità? Le altre virtù ci preparano a questa unione, o anche a lei ci iniziano, ma non possono compierla. Le virtù morali, prudenza, fortezza, temperanza, giustizia, etc, non ci uniscono direttamente a Dio, ma servono solo a sopprimere o diminuire gli ostacoli che ce ne allontanano e ad avvicinarci a Dio conformandoci all’ordine; cosi la temperanza, combattendo lo smoderato uso del piacere, attenua uno dei più violenti ostacoli all’amor di Dio; 1’umiltà, allontanando l’orgoglio e l’amor proprio, ci predispone alla pratica della divina carità. Inoltre queste virtù, facendoci praticare l’ordine ossia la giusta misura, sottomettono la nostra volontà a quella di Dio e ci avvicinano a Lui. Le virtù teologali poi distinte dalla carità, ci uniscono certamente a Dio, ma in modo incompleto. La fede ci unisce a Dio, infallibile verità, e ci fa vedere le cose alla luce di Dio; ma è compatibile col peccato mortale che ci separa da Dio. La speranza ci eleva a Dio, in quanto è cosa buona per noi, e ci fa desiderare i beni del cielo, ma può sussistere con colpe gravi che ci allontanano dal nostro fine.

317. La sola carità ci unisce interamente a Dio. Suppone la fede e la speranza ma le oltrepassa: prende tutta quanta l’anima, intelligenza, cuore, volontà, attività, e la dà a Dio senza riserva. Esclude il peccato mortale, che è il nemico di Dio, e ci fa godere della divina amicizia: « Si quis diligit me, et Pater meus diliget eum » (Joan. XIV, 23). Ora l’amicizia è unione, è fusione di due anime in una sola: cor unum et anima una… unum velle, unum nolle; completaunione di tutte le nostre facoltà: unione dellamente, che fa che il nostro pensiero si modelli suquello di Dio; unione della volontà, che ci fa abbracciarela volontà di Dio come fosse nostra; unionedel cuore, che ci stimola a darci a Dio come Egli sidà a noi, dilectus meus mihi et ego illi; unione delleforze attive, onde Dio mette a servizio della nostra debolezzala divina sua potenza per aiutarci a eseguirei nostri buoni disegni. La carità ci unisce dunque a Dio, nostro fine, a Dio infinitamente perfetto, e costituisce quindi l’elemento essenziale della nostra perfezione.

318. B) Studiando la natura della carità, arriviamo alla stessa conclusione; come infatti dimostra S. Francesco di Sales, la carità racchiude tutte le virtù e dà loro anzi una speciale perfezione (Tratt. dell’amor di Dio, I, XI, c. 8).

a) Racchiude tutte le virtù. La perfezione consiste, com’è chiaro, nell’acquisto delle virtù: chi le possiede tutte, in un grado non solo iniziale ma elevato, è certamente perfetto. Ora chi possiede la carità possiede tutte le virtù e le possiede nella loro perfezione: possiede la fede, senza cui non si può conoscere ed amare l’infinita amabilità di Dio; e la speranza, che, ispirandoci la fiducia, ci conduce all’amore; e tutte le virtù morali, per esempio, la prudenza, senza cui la carità non potrebbe né conservarsi né crescere; la fortezza, che ci fa trionfare degli ostacoli che si oppongono alla pratica della carità; la temperanza, che doma la sensualità, implacabile nemica dell’amor di Dio. Anzi, aggiunge S. Francesco di Sales, « il grande Apostolo non dice solo che la carità ci dà la pazienza, la benignità, la costanza, la semplicità, ma dice ch’essa stessa è paziente, benigna, costante » (1 Cor. XIII, 4), perché contiene la perfezione di tutte le virtù.

319. b) Anzi dà loro una perfezione e un valore speciale, perché è, secondo l’espressione di S. Tommaso (S. Theol. IIA, IIæ, q. 23, a. 83) la forma di tutte le virtù. « Tutte le virtù, separate dalla carità sono molto imperfette, perché non possono senza di lei giungere al loro fine che è di rendere l’uomo felice… Non dico che senza la carità non possano nascere e anche progredire; ma che abbiano tal perfezione da meritare il titolo di virtù fatte, formate e compite, questo dipende dalla carità, che dà loro la forza di volare a Dio, e raccogliere dalla sua misericordia il miele del vero merito e della santificazione dei cuori in cui si trovano. La carità è tra le virtù come il sole tra le stelle: distribuisce a tutte la loro luce e la loro bellezza. La fede, la speranza, il timor di Dio e la penitenza, vengono ordinariamente nell’anima prima di lei a prepararle la dimora; e giunta che è, la ubbidiscono e la servono come tutte le altre virtù, ed ella le anima, le adorna e le avviva con la sua presenza » (S. Franc. Di Sales, I c., c. 9) . In altri termini, la carità, orientando direttamente l’anima nostra verso Dio, perfezione somma ed ultimo fine, dà pure a tutte le altre virtù che vengono a porsi sotto il suo impero, lo stesso orientamento e quindi lo stesso valore. Così un atto d’obbedienza e di umiltà, oltre al proprio valore, riceve dalla carità un valore assai più grande quando è fatto per piacere a Dio, perché allora diventa un atto di amore, cioè un atto della più perfetta tra le virtù. Aggiungiamo che quest’atto diventa più facile e più attraente: obbedire e umiliarsi costano molto alla orgogliosa nostra natura, ma il pensiero che, praticando questi atti, si ama Dio e se ne procura la gloria, li rende singolarmente facili. – Così dunque la carità è non solo la sintesi ma l’anima di tutte le virtù, e ci unisce a Dio in modo più perfetto e più diretto delle altre; è quindi lei quella che costituisce l’essenza stessa della perfezione.

CONCLUSIONE.

320. Poiché l’essenza della perfezione consiste nell’amor di Dio, ne viene che l’accorciatoia per arrivarvi è d’amar molto, d’amare con generosità ed intensità, e principalmente di amare con amor puro e disinteressato. Ora noi amiamo Dio non solo quando recitiamo un atto di carità ma anche quando facciamo la sua volontà o quando compiamo un dovere sia pur minimo per piacergli. Ognuna quindi delle nostre azioni, per quanto volgare essa sia in se stessa, può essere trasformata in un atto di amore e farci avanzare verso la perfezione. Il progresso sarà tanto più reale e più rapido, quanto più intenso e più generoso sarà quest’amore e quindi quanto più il nostro sforzo sarà energico e costante; perché ciò che conta agli occhi di Dio è la volontà, è lo sforzo, indipendentemente da ogni emozione sensibile. E poiché l’amore soprannaturale del prossimo è anch’esso un atto d’amor di Dio, tutti i servizi che rendiamo ai nostri fratelli, vedendo in loro un riflesso delle divine perfezioni, o, ciò che torna lo stesso, vedendo in loro Gesù Cristo, diventano tutti atti d’amore che ci fanno avanzare verso la santità. Amare dunque Dio e il prossimo per Dio, ecco il segreto della perfezione, purché su questa terra vi si aggiunga il sacrificio.

[1 – continua … ]

LO SCUDO DELLA FEDE (76)

LO SCUDO DELLA FEDE (75)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE SECONDA.

FRODI PER CUI S’INTRODUCE IL PROTESTANTISMO

CAPITOLO XI

UNDECIMA FRODE: VENDITA DELLE DISPENSE, ETC.

Dopo il traffico dell’Indulgenze, passano i Protestanti ad apporre alla S. Chiesa la vendita, come essi dicono, delle bolle, dei brevi, delle dispense, di che so io: ed anche qui fanno uno strepito infinito contro di Roma. Ora gli è proprio meraviglioso che a muovere questa difficoltà debbano essere appunto i Protestanti, i quali, in questa parte hanno le mani sì nette, che è una edificazione. Que’ ciuchi che cercano di sedurre voi, o non sanno quello che si passa nei paesi soggetti alla Riforma, o se lo sanno, vedono il bruscolo che non v’è negli occhi altrui, e non veggono la trave negli occhi propri. Avete dunque da sapere che presso di loro si comprano, si vendono, si negoziano i benefizi, le parrocchie, le cappellanie, come altrove si fa del grano, del vino, dell’olio, e dei giumenti. In Inghilterra hanno stabiliti Giornali i quali danno l’avviso di quello che v’ha da vendere e da comperare, hanno stabilite agenzie che ne determinano i prezzi e che ne fanno le convenzioni. Accumulano però benefizi sopra benefizi ecclesiastici, e poi li danno a godere alla moglie, ai figliuoli, alle figliuole, ai cognati ed alle cognate con tanto scialacquo, che più d’una volta mise orrore perfino al Parlamento protestante. E poi dopo tutto ciò caldi di santo zelo si mettono a declamare contro le vendite di Roma. Non vi par di sentire i ladri che perorano in favore della giustizia? Ma lasciando stare tutto ciò, è poi vero che a Roma si faccia questo traffico così iniquo? Falso falsissimo, ed ecco quello che ivi interviene. A Roma si ricorre per varie cagioni. Alcuni ricorrono per ottenere la facoltà di essere assoluti da certi peccati più enormi, che il Sommo Pontefice riserba a se stesso prudentemente, affinché la difficoltà dell’assoluzione ritragga più efficacemente i fedeli dal commetterli; ed allora è al tutto gratuita ogni concessione, siccome lo sanno molto bene i Sacerdoti, i quali per ciò ricorrono alla Penitenzieria, ed i fedeli che si trovano nel caso di abbisognarne. Anzi perché niuno degli ufficiali per le cui mani debbono passare tal concessioni, possa abusarne, portano il gratis perfino stampato in fronte. Si ricorre a Roma per avere sacre Reliquie di que’ corpi Santi che essa possiede e che sempre dissotterra nelle Catacombe, e che con tanta diligenza custodisce perché non perdano la loro autenticità: ma anche qui tolga Dio che riceva pure un denaro in compenso di esse, che debbono al tutto gratuitamente concedersi. E che sia così, lo possono testificare migliaia di forestieri, che da Roma in ogni anno riportano tali Reliquie. Ricorrono altri a Roma per ottenere grazie e privilegi, che sono una qualche lesione alle leggi comuni. Così avviene in chi vuol ergere per esempio un Oratorio privato per la sua famiglia e scansar così l’obbligo della parrocchia comune. Così avviene in chi vuol contrarre nozze in un grado non consentito dalle leggi ecclesiastiche. Ora ecco il procedere di Roma in questi casi. Se la persona è povera ed ha vera necessità di alcuna di queste dispense o per cessare uno scandalo, o per promuovere qualche gran bene, la S. Sede vi si presta con tutta la carità e si concedono queste grazie senza che la persona debba spendere denaro di sorte alcuna: e questo avviene sì spesso che tal dispense hanno perfino il proprio nome mentre si dicono concesse in forma pauperum. Se non vi ha necessità di quelle dispense, ma è solo una soddisfazione privata di chi sollecita il favore, allora la S. Chiesa suole imporre una multa prima di accordarlo. Ed è ciò regolamento savissimo per molti casi. Se le leggi comuni s’infrangessero ogni momento cadrebbero subito in rovina, ed il danno sarebbe universale. Se per esempio si concedesse ad ogni famiglia l’oratorio privato dove andrebbe a riuscire il culto comune, dove l’esempio che i Grandi debbono alleplebi d’intervenire ancor essi alle funzioni comuni delle parrocchie? Se non fosse richiesto un motivo grave, ma bastasse il solo comodo privato, perché ognuno potesse contrarre nozze in certi gradi che savissimamente furono vietate, quanti inconvenienti nascerebbero nelle famiglie? Perderebbe di riverenza il Sacramento, di sicurezza il consorzio domestico, si aprirebbe la via a mille delitti che è più facile l’intenderli che lo spiegarli. Laddove una multa, una penalità inflitta da S. Chiesa, raffrena il più dei fedeli da simili domande, e mantiene in vigore le leggi comuni. Non è dunque una vendita, non un mercimonio la dispensa che si accorda sotto tali condizioni, è un compenso che s’impone a chi ricerca un favore, acciocché la grazia col diventare troppo comune non deroghi a leggi che non si debbono universalmente abrogare. – Del resto quanto non è giusto che cosi si faccia anche per altre ragioni. In primo luogo conviene così perché è giusto che la Sede Apostolica, la quale ha tanti pesi da sopportare pel mantenimento di tante congregazioni e di tanti ufficiali, quanti ne richieggono gli interessi di tutto il mondo, ritragga da qualche parte il denaro onde sopperire al bisogno. Se già alcuno non volesse dire che Roma debba mantenere, oltre gli ufficiali che servono a Lei, anche quelli che son necessari al buon andamento ecclesiastico di tutto il mondo. È giusto tanto più, quanto che a molti di quegl’impieghi possono aspirare ed infatti pervengono uomini di tutti i paesi. È giusto poiché in tal guisa concorrono ad un tal mantenimento, non tutti universalmente, ma quelli specialmente che ne ritraggono qualche vantaggio, richiedendo ogni equità che chi gode un favore sopporti anche il peso che vi è annesso. – Del resto tutte queste multe giungono a sì poco, che se il Sommo Pontefice non sopperisse colla sua universale carità al bisogno, non avrebbero di che sostentarsi tutti quegli impiegati che si travagliano in tali faccende. Tutta Europa ne ha vedute mille volte le statistiche, e sa molto bene che un solo pseudovescovo Anglicano, il quale fa veramente nulla a detta dei medesimi protestanti, gode un’entrata dieci volte maggiore che non veruna Romana Congregazione. – Resta una parola a dire del denaro che si manda a Roma per impetrar le bolle, ossia l’investitura degli ecclesiastici Benefizi. Or bene i Cristiani che conoscono la dottrina di S. Chiesa sanno molto bene che il Sommo Pontefice è l’amministratore universale dei beni di S. Chiesa: né per quanto certi legulei Febroniani, Vanespeniani, Protestanti si sforzino di conferire allo Stato di cui ne han fatto un dio tutti i titoli di S. Chiesa, la cosa è o può essere diversamente. I beni della Chiesa sono donazioni fatte a Gesù Cristo da chi ne era padrone legittimo, e finché sarà in vigore il diritto di proprietà, finché non si potrà violare impunemente il precetto di non rubare, apparterrà alla Sede Apostolica determinarne l’uso secondo la natura di essi beni. Ora che cosa fa il Sommo Pontefice in proposito? Quello che un padre di famiglia prudente, il quale dispone dei beni che ha da amministrare in guisa da far fronte a tutti gl’impegni. Epperò quando crede di dover prelevare da quei benefizi qualche tassa o pel sostentamento di quei ministri che si adoperano con lui al regime della Chiesa Universale, o per provvedere Chiese povere, o per mantenere missioni, o per erigere Seminari, o per altre opere di divin culto, egli non fa se non se quello che da lui richiede il debito del suo ministero, ed il retto uso che vuol farsi di que’ beni che sono a detta de’ Sacri Canoni il patrimonio dei poveri, il prezzo dei peccati. É ben vero che alcuni non credono che si possa maneggiar denaro senza che tosto se ne appicchi alle mani – forse sarà esperienza loro particolare – ma la S. Chiesa non è fondata sopra di Giuda, bensì sopra gli Apostoli, i quali se ne valevano per le vedove e per i poveri, lo tenevano tuttavia sotto dei piedi. – Un’ultima obiezione in questa materia è quella che traggono dalla dispensa che per denaro, dicono essi, si ottien talora dai digiuni e dalle astinenze: di che esclamano poi quanto n’hanno in gola che è violata la giustizia, che è distrutta la carità. Ebbene sappiate che anche qui v’ingannano in molte maniere. Avvertite dunque in primo luogo che la Santa Chiesa non ha fatto né i ricchi, né poveri: ma che gli uni e gli altri per santissimi fini ha fatto il Signore, … Utriusque operator est Dominus. Alfine cioè che in questa disuguaglianza avesser luogo le differenti virtù: nei poveri l’umiltà. la pazienza, la soggezione; nei ricchi la carità, la misericordia, la benignità, e cosìtutti quale per una, quale per un’altra via montassero la beatitudine. Avvertite in secondo luogo che la S. Chiesa è Madre degli uni e degli altri, dei poveri e dei ricchi, dei piccoli e dei grandi: e sebbene ammaestrata da Gesù abbia una speciale predilezione pei poverelli, ciò non ostante ha somma sollecitudine della salvezza di tutti. Per questo inculca ad ognuno le opere buone ma come ha somma discrezione raccomanda ad ognuno quelle che gli sono possibili. So inculcasse ai poveri la limosina, so la pretendesse da loro che cosa direste voi? Rispondereste con ragione che vi domanda quello che non potete fare, che non ha discrezione. Epperò la Chiesa mentre inculca ai poveri l’umiltà, mentre ricorda loro per alto conforto che Gesù fu povero, che chiamò beati i poverelli, mitiga loro le altre opere buone giungendo fino ad esimerli molte volte in vista della loro povertà dai digiuni e dalle astinenze. I ricchi però sono in condizione diversa. Che cosa farà con loro S. Chiesa? Gli animerà invece quanto può alle opere di misericordia e di carità, e per indurveli più efficacemente, concede loro come abbiam detto di sopra in certi casi anche l’acquisto di S. Indulgenze, altre volte in grazia delle opere di misericordia li allevia da altri pesi che avrebbero a sopportare come sarebbero i digiuni e le astinenze, e viene così a fare una commutazione di opere buone: nel che è prudentissima per molte ragioni. Promuove così il massimo vantaggio dei poverelli medesimi che sono le pupille degli occhi suoi sforzando quasi i ricchi ad essere con loro splendidi o liberali. Conduce soavemente i ricchi a quello che è un debito indispensabile del loro stato, di far cioè parte del loro superfluo ai poverelli secondo che loro comanda N. S. Gesù Cristo. Li distacca efficacemente dall’amor dei beni sensibili di questa vita che è lo scoglio più pericoloso in che possano urtare, e così con questa savia dispensazione provvede al bene dei poveri e dei ricchi e di tutta la ecclesiastica società. Or dov’è qui la vendita, il traffico sognato dai Protestanti? Del resto io vi dirò qui sull’ultimo con ogni sincerità che io mi vergogno perfino di dovere rispondere a tutte queste difficoltà. Bisogna essere un figliuolo al tutto snaturato per chieder conto alla Madre dell’uso che fa delle sostanze di cui le fu affidata l’amministrazione. E che? É dunque questa la stima che facciamo della Chiesa, della Sposa immacolata di Gesù? Può un Cristiano darsi a credere che essa stimi sì poco i beni lasciatile da Gesù che li prostituisca all’interesse di pochi denari? E sono figliuoli di Gesù quelli che gettano sul volto della loro madre sì brutto insulto? Ah io non so se sorgessero dalla tomba quei generosi Cristiani che mettevano in man della Chiesa tutte le loro sostanze se riconoscerebbero costoro siccome eredi del loro spirito e della lor fede. Non so se farebbero concetto che fossero per dare al bisogno anche il sangue a Gesù Cristo, quelli che con tanta impudenza malignano per pochi soldi che talora spendono per Gesù. In qualunque caso abbiate orrore di simili mostri, e prendete occasione anche da ciò di amar sempre più quella Chiesa che non può impugnarsi senza cader tosto in vergognosissime enormità.

LA GRAZIA (2)

LA GRAZIA (2)

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II; S. E. I. ed. Torino – 1930]

9. ABBONDANZA DI GRAZIE. — « In Gesù Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e noi ne siamo in Lui riempiti » — In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter; et estis initio repleti (Coloss. II, 9-10). Ora, se siamo riempiti della divinità, è chiaro che abbondano in noi tutte le grazie, poiché abbiamo in noi l’autore di tutte, il quale, come ci dice S. Giacomo, le dispensa largamente a tutti, senza muoverne rimprovero: — Dat omnibus affluenter, et non improperat (I, 5). Quindi gli Atti Apostolici notano che la grazia si manifestava abbondante nei Cristiani: — Et gratia magna erat cum omnibus illis (Act. IV, 33), e S. Bernardo confessa che Gesù Cristo gli si era comunicato tutto intero, e si era messo tutto quanto ai suoi servizi (Totus mihi datus, et totus in meos usus expensusSerm., in Cantic.).S. Tommaso insegna, che Dio dà con liberalità e generosità, non a prezzo; dà universalmente, non a uno solo ma a tutti … ; dà a profusione…, con bontà, senza rinfacciare il dono (3 p. q. art. 9). S. Ambrogio ci assicura che Dio ricompensa le nostre buone opere molto più abbondantemente di quello che esse non si meritino. Iddio, dicono d’accordo i teologi, punisce meno di quel che l’uomo meriti, ma premia oltre ogni merito. Questa dottrina concorda con quelle parole dell’apostolo Pietro: « Studiatevi sempre meglio, o fratelli, di assicurare per mezzo delle buone opere la vostra elezione e vocazione; perché facendo questo, voi non cadrete. E così vi sarà aperta una larga entrata nel regno eterno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo (II PETR. I, 10-11) ». Ah sì! ogni uomo può dire col Salmista, che Dio lo ha prevenuto con le benedizioni della sua clemenza: — Prævenisti eum in benedictionibus dulcedinis (Psalm. XX, 3), e che l’anima sua si è impinguata dei divini favori: — Sicut adipe et pinguedine repleatur anima mea (Psalm. LXII, 5). Chi non è ingrato ai benefizi di Dio, deve invitare quanti conosce e incontra a udire il racconto delle ammirabili grazie di cui lo ha colmato il Signore: — Venite, audite, et narrabo quanta fecit animæ meæ (Psalm. LXV, 15), ed esclamare: « Che renderò io mai al Signore, in ricambio di tanti beni di cui mi ha arricchito?— Quid retribuam Domino, prò omnibus quae retribuit mihi? (Psalm.CXV, 3). Dio può dire veramente che « ha inebriato le anime languide e saziato le affamate » — Inebriavi animam lassam, et omnem animam esurientem saturavi (JER. XXXI, 25); e in tutti coloro che vogliono, si avvera quel detto d’Isaia: «Non sentiranno più né la fame né la sete, perché Iddio misericordioso li disseterà ai fonti delle acque » — Non esurient, neque sitient, quia miserator ad fontes aquarum potabit eos (XLIX, 10); di quelle acque di cui diceva la Sposa dei Cantici: « La fontana dei vostri giardini è una polla di acqua viva che si precipita (su di me) dal Libano (dell’eternità) »— Fons hortorum, puteus aquarum viventium quæ fluunt impetu de Libano – (Cant. IV, 15). Dio nutrisce i Cristiani col suo Vangelo, con la sua dottrina, con i suoi favori, con la santa Eucaristia; li protegge nelle tentazioni; se si affidano a Lui e lo seguono, se vogliono cooperare alla sua grazia; escono vincitori di tutte le tentazioni, non patiscono più né fame, né sete… Chi può contare le grazie che Dio concede all’uomo? Grazie temporali…, grazie spirituali …; grazie interiori …, grazie esteriori…; grazie di creazione…, di redenzione.., di provvidenza…, di Sacramenti…; grazie per il corpo, per l’anima, per la mente, per il cuore, per la memoria, per la volontà; grazie nel tempo…, grazie nell’eternità…, grazie universali …, grazie particolari …, grazie ad ogni istante, tanto che Dio può dire a ciascuno di noi quello che disse al popolo ebreo: « Che altro c’era da fare alla mia vigna, che io non l’abbia fatto? » — Quid est quod debui ultra tacere vineæ meæ, et non feci? (Is. V, 4).

10. LA GRAZIA È  UN INNESTO DIVINO. — La comunicazione della grazia ha molta rassomiglianza con l’innesto delle piante; perché 1° come si fa l’innesto di un albero di buona specie in un ramo di albero selvatico e sterile, affinché produca frutti saporiti e deliziosi, così la grazia comunicata dal cielo a noi, polloni selvatici e sterili, ci fa produrre abbondanti ed eccellenti frutti di buone opere. 2° Si prende il ramo da un albero di buona specie per innestarlo in uno di cattiva; così la grazia viene da Dio, virtù e santità per essenza, nel cuore dell’uomo di corrotta natura … 3° Alla pianta selvatica si recide un ramo che è surrogato da un altro produttivo; così la grazia taglia via da noi la parte del vecchio Adamo e vi pone invece il nuovo, cioè Gesù Cristo… La gemma che s’inserisce sull’albero, prende il medesimo succo e gli si riunisce perfettamente; così con la grazia noi veniamo incorporati a Gesù Cristo, uniti, trasformati in Lui, divinizzati … Il ramo s’innesta su l’albero affinché ne partecipi il succo; la grazia ci è data perché assorbisca in noi tutto quello che è della natura … L’innesto si deve fare nella primavera, mentre gli alberi sono in succhio; nessun tempo della vita è più propizio per l’innesto della grazia nel cuore dell’uomo, che quello della giovinezza … La pianta si deve fendere fino al midollo, se si vuole che l’albero profitti dell’innesto; così l’anima deve aprirsi fino al cuore, per mezzo dell’amore di Gesù Cristo, affinché possa unirsi a Lui e formare un solo cuore. Come il midollo si confonde col midollo, così il nostro cuore si unisce al cuore di Gesù Cristo per mezzo della grazia… Come s’incide l’albero per l’innesto, così bisogna tagliare, recidere, schiantare le passioni dal nostro cuore, se vogliamo che vi alligni l’innesto di Gesù Cristo… 9°. L’innesto è diligentemente avviluppato e difeso dal freddo, dal caldo, dai venti, dagli insetti nocivi e si copre perfino di fango; così l’anima deve abbracciarsi a Gesù Cristo ed essere difesa contro tutte le tentazioni di accidia, di gola, di orgoglio, di lussuria, ecc., per mezzo della meditazione del proprio niente, del fango di cui siamo composti, delle miserie umane, della morte, dei peccati commessi… 10° L’innesto si fa nell’alto della pianta; la grazia deve dominare tutti i pensieri e i fatti nostri … 11° L’albero selvatico e sterile che poco o nulla produceva, e quel poco di sapore amaro e di nessun valore, produce in forza del legittimo innesto frutti belli a vedersi e dolci al gusto; così la grazia deve produrre in noi frutti di buoni esempi… 12° La pianta adotta l’innesto; per mezzo della grazia, Dio ci adotta in figli… 13° L’innesto si unisce indissolubilmente all’albero, il cuore deve vincolarsi inseparabilmente alla grazia…

11. LA GRAZIA È PARAGONATA ALLA PUPILLA DELL’OCCHIO. — «Avrà cura della grazia come della pupilla degli occhi suoi », leggiamo nell’EcclesiasticoGratiam quasi pupillam conservabit (XVII, 18). Bello e vero è questo paragone della grazia alla pupilla dell’occhio! Difatti, in primo luogo, nella pupilla si riflette al vivo l’immagine della bellezza e della bontà dell’occhio; e la grazia è il più splendido riverbero della bellezza e della bontà di Dio, poiché essa è la più pura partecipazione della divinità… In secondo luogo la pupilla forma l’ornamento e il brio del volto; la grazia è l’ornamento e la dignità dell’anima; se si toglie o si offende la pupilla, si acceca l’uomo; se si toglie la grazia si acceca, anzi si uccide l’anima. Spegnete il sole nel firmamento lungo il giorno, spegnete la luna e le stelle lungo la notte, e il cielo diventa oscurità e tenebre; togliete la grazia da un’anima, e voi distruggete il sole e le stelle dello spirito, non vi restano che folte tenebre nell’intelligenza e nella ragione, una tetra ed eterna notte pesa su l’anima priva della grazia, perché questa è per lei quello che è il sole per la terra e per il mondo…

12. ECCELLENZA DELLA GRAZIA. — La grazia è la sorgente della gloria dalla quale esce e alla quale conduce… «L’acqua che io vi darò, dice Gesù Cristo, è fonte di acqua che sale alla vita eterna » — Aqua, quam ego dabo eis fiet in eos fons aquae salientis in vitam aeternamIOANN. IV, 14). Il Redentore chiama acqua viva  la sua grazia, perché viene dal cielo che è la vita e conduce al cielo. La grazia è un fiume che mette foce nell’oceano della beatitudine eterna: « Chi beverà di quest’acqua, è parola di Gesù, non patirà più sete in eterno » — Qui biberit ex hac aqua, non siti et in æternum (IOANN. IV, 13). – Benché le nostre opere non abbiano nessuna proporzione con la gloria celeste, in quanto sono opere dell’uomo, l’hanno tuttavia in certo qual modo, in quanto sono le opere della grazia di Gesù Cristo; poiché la grazia è, sia di natura sua, sia per la promessa di Dio, la semenza della gloria. « Per mezzo della grazia, dice S. Gerolamo, l’uomo cessa di essere debole e vano e diventa, diremo quasi, un Dio (Per gratiam homo fit quasi Deus, et desinet esse homo et mendax (Lib. sup. Ioann.) ». Perciò S. Paolo afferma: « Quello che era per me guadagno, l’ho giudicato perdita, per Cristo. Del resto, pieno della scienza sovreminente di Gesù Cristo nostro Signore, per suo amore mi sono spogliato di ogni cosa; io reputo sterco e stimo perdita tutte le cose, per guadagnare il Cristo » — Quæ mihi fuerunt lucra, hæc arbitratus sum, propter Christum detrimenta. Verumtamen existimo omnia detrimentum esse, propter eminentem scientiam Iesu Christi Domini mei, propter quem omnia detrimentum feci, et arbitror ut stercora ut Christum lucrifaciam Philipp. III, 7-8). S. Pietro augurava ai fedeli, che si aumentasse in loro la grazia e la pace nella conoscenza di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo, affinché sapessero come tutto ciò che spetta alla potenza divina per riguardo alla vita e alla pietà, tutto ci è stato dato per mezzo della conoscenza di colui che ci ha chiamati per la propria sua virtù e gloria e che ha adempito con le sue grazie le magnifiche e preziose promesse a noi fatte, acciocché divenissimo partecipi della natura divina … : — Per quem maxima et pretiosa nobis promissa donavit; ut per hæc erficiamini divinæ consortes naturæ (IIPIETR. I, 4). Dio ci si comunica per mezzo della sua grazia e dà se stesso al giusto, e per questa comunicazione innalza l’anima fino a sé, la trasforma, la divinizza. Dio solo ha essenzialmente la natura divina. I fedeli e i giusti ne partecipano, per mezzo della grazia, non essenzialmente, né personalmente, ma in parte accidentalmente ed in parte sostanzialmente.

1° Accidentalmente, col dono della grazia santificante che è accidentale nel giusto, cioè che vi è, ma che potrebbe non esservi, senza che la sua natura ne rimanga annientata. In forza di questa grazia, noi partecipiamo alla natura divina in modo strettissimo e quasi infinito. Infatti la grazia è cosa tanto nobile ed eccellente, che sta infinitamente al di sopra della natura degli uomini, e non si può trovare, secondo l’unanime sentenza dei teologi, sostanza creata che sia della stessa natura della grazia, poiché la grazia partecipa della divinità al più alto grado, ad un grado così sublime, a cui non arriva cosa o natura creata. – Per mezzo della grazia, l’uomo viene dunque innalzato all’ordine, non angelico, ma divino; egli diviene alleato e partecipe della natura divina. Non si può dare per l’uomo partecipazione più grande alla divinità, che quella che avviene per mezzo della grazia, eccetto la partecipazione di Dio per mezzo della gloria; la quale però allora soltanto si avvera, quando ebbe luogo la partecipazione alla divinità per la grazia. – I peccatori meditino queste sublimi cose, affinché vedano quello che hanno perduto perdendo la grazia per un vile piacere, per un misero interesse, e si sforzino senz’indugio a procurarsela; le meditino i giusti per non trascurare nulla di ciò che è necessario per conservarla, confermarla, accrescerla e compirla in se stessi.

2° I giusti partecipano alla natura divina non solo accidentalmente in virtù della grazia santificante, ma anche sostanzialmente, in virtù della natura divina in se stessa che loro è comunicata e con la quale vengono adottati da Dio come suoi figli, come eredi e come deificati. Per intendere questa cosa, notate in primo luogo, che la nostra giustificazione formale e la nostra adozione consistono interamente nella virtù e nella grazia che ci è data e che con noi s’identifica, la quale in sé contiene e con sé apporta lo Spirito Santo che è l’Autore della carità e della grazia. Infatti la grazia che adotta, non può andare separata dallo Spirito Santo, né l’adozione dello Spirito Santo può essere separata dalla grazia; a quel modo che non si possono separare né il sole da’ suoi raggi, né i raggi dal sole. Infatti, lo Spirito Santo, per la carità e la grazia, ci giustifica formalmente e abita in noi, ci vivifica e ci adotta. Infatti, la giustizia inerente, o la grazia santificante, non è una semplice qualità, ma comprende parecchie cose inestimabili, come per es. la remissione dei peccati, la fede, la speranza, la carità e, in una parola, lo Spirito Santo, autore di tutti i doni. Nella giustificazione infusa l’uomo riceve tutte queste grandi cose, dice il Concilio di Trento, sess. VI, cap. VIII. – Notate, in secondo luogo, che nella giustificazione e nell’adozione, non solamente la carità, la grazia e i doni dello Spirito Santo sono dati all’uomo, ma egli riceve inoltre la propria Persona dello Spirito Santo e per conseguenza tutta la divinità, ossia tutta intera la Santissima Trinità; di modo che la divinità si trova realmente e personalmente presente nell’anima del giusto con i suoi doni e per i suoi doni, ed abita in quell’anima sostanzialmente come in suo proprio tempio, e se la unisce, la indìa, e questo è un favore, una dignità ed una sorgente di felicità in certo qual modo infinita … Da questa comunicazione della propria Persona dello Spirito Santo e della Trinità intera, ne segue la suprema elevazione, o diremo la deificazione dell’anima, e quindi un’adozione perfettissima e divina, non solamente per la grazia, ma ancora per la sostanza divina. Perciò S. Basilio disse che i Santi sono dèi a cagione della dimora che tiene in loro lo Spirito Santo (Homil.). – La grazia è un’immensa partecipazione della santità e della bellezza di Dio… « Arido tronco tu eri divenuto in Adamo, dice S. Ambrogio all’uomo; ma ora, per la grazia di Cristo, sei cambiato in un albero fecondo di eccellenti frutti (Lignum aridum factus eras in Adam; sed nunc per gratiam Christi, pomifera arbor pullulasti (Serm.) ». – Udite gli elogi che fa della grazia il Savio: « Io l’ho anteposta ai regni e ai troni e le ricchezze ho stimate meno che polvere al suo paragone; non l’ho fatta uguale alla pietra preziosa, perché l’oro al suo confronto vale un granello di arena e l’argento al suo paragone è fango » — Et præposui illam regnis et sedibus, et divitias nihil esse duxi in comparatione illius. Nec comparavi illi lapidem pretiosum; quoniam omne aurum, in comparatione illius, arena est exigua, et tamquam lutum æstimabitur argentum in conspectu illiusSap. VII, 8 – 9). « Essa è più preziosa di tutti i diamanti; tutti i tesori e le ricchezze del mondo non ne uguagliano il valore » — Pretiosior est cunctis opibus, et omnia quæ desideratur, huic non valent comparari (Prov. III, 15). La grazia è dunque il tesoro dei tesori; è la partecipazione della natura divina al più alto grado, cioè per quanto può parteciparne la creatura, non solo naturalmente, ma soprannaturalmente…

13. POTENZA E MERAVIGLIE DELLA GRAZIA. — Gesù Cristo cammina su le acque e vi sostiene anche Pietro; calma la burrasca e porta in un batter d’occhio la barca a terra. Per mezzo della sua grazia, i medesimi prodigi opera in noi Gesù Cristo: ci fa calpestare il secolo, calma le tempeste delle tentazioni, della concupiscenza, delle passioni e ci accoglie nel porto dell’eterna salute. Ah! se la grazia di Gesù Cristo abita nel nostro cuore, noi ci troveremo ben presto là dove vogliamo andare, cioè al cielo… Di che potenza, di che efficacia non dev’essere la grazia di quel Gesù Cristo, che su la croce fece d’un malfattore un santo, e cambiò in un istante Saulo di persecutore fierissimo in un Apostolo zelante ed operosissimo? L’acqua risale fino al livello della sua sorgente; e così pure l’acqua della grazia, che discende dal cielo nell’anima giusta, spinge con tale impeto ed efficacia l’anima, che l’innalza fino al suo divino Creatore; poiché la grazia è la sorgente della gloria, prende l’uomo e lo trasporta con sé nella gloria. La grazia è un fiume di acqua viva e chi naviga in esso deve arrivare al porto della vita eterna. « Affinché lo splendore delle rivelazioni non mi levi in orgoglio, dice il grande Apostolo, fu dato alla mia carne un pungolo, l’angelo di satana che mi schiaffeggi. Perciò supplicai il Signore che mi fosse tolto; ed Egli mi rispose: Ti basta la mia grazia — Sufficit tibi gratia mea — perché nella debolezza si manifesta la forza. Dunque volentieri mi glorierò nella mia infermità, affinché in me si spieghi la forza del Cristo … Soffriamo angustie in ogni cosa, ma non cadiamo d’animo; siamo battuti, ma non prostrati; perseguitati, ma non abbondonati; feriti, ma non morti » (II Cor. XII, 7 – 9; IV, 8 – 9); e a Timoteo: « Il Signore mi accompagnò passo passo e mi sostenne con la sua forza, affinché si compia per mezzo mio la predicazione fra le genti: Egli mi ha strappato alle fauci del leone » (Tim. IX, 17). Le anime pie, sostenute dalla grazia, portano le afflizioni ed avversità loro con più facilità e coraggio, che non i cattivi la loro pretesa felicità… Parlando S. Giovanni Crisostomo della grazia dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste, dice: « La grazia spoglia della malignità e veste della mansuetudine, toglie la schiavitù e dà la libertà; perciò la terra fu cambiata in cielo, poiché quali stelle si possono paragonare agli Apostoli? » (Serm. I de Pentec). Ed in altro luogo afferma: « Ricetto sicurissimo e torre inespugnabile è la grazia di Dio (Maxima securitas et inexpugnabilis murus est gratia DeiHomil. XLVI in Gen.) » .« Al primo risplendere della grazia in un’anima, scrive S. Gregorio, subito se ne sente radicalmente mutata, cosicché lascia su l’istante di essere quella che era e diventa quello che non era (Humanum subito, ut illustrai, immutat affectum; abnegat hoc repente quod erat, exhibet repente quod non erat Moral.) ». Ed a confermare la sua osservazione, dice altrove, avrebbe gli esempi di Davide, di Amos, di Daniele, di Pietro, di Paolo, di Matteo, ma non gli basta a ciò la parola, tanto è sorprendente il vedere la grazia dello Spirito Santo investire un giovane che si trastulla sull’arpa e farne un salmista; posarsi su di un semplice pastorello e cambiarlo in un profeta; discendere in un giovanetto e crearlo giudice dei vegliardi; chiamare un pescatore e costituirlo sublime predicatore; abbattere un persecutore e rialzarlo dottore delle genti; scegliere un pubblicano e convertirlo in un evangelista (Homil. in Erang.). «Quali prodigi opera la grazia! esclama S. Agostino. Quell’uomo che ieri vedevate rotto alla gozzoviglia, oggi lo vedete sobrio e mortificato; ieri impudico, oggi modesto e continente; ieri bestemmiatore, oggi lodatore di Dio; ieri schiavo perduto della creatura, oggi servo zelante e fervoroso del Creatore. Da che cosa deriva un cambiamento così inaspettato, una diversità così prodigiosa? Dalla grazia» (In Psalm. LXXXVIII). Pietro, senza la grazia, è vinto dalla voce di una fantesca; con la grazia, esce trionfante dei re, dei principi, degli imperi… Quello che è impossibile per la natura, diventa non solo possibile ma facile, per la grazia… Essa chiama, esorta, eccita, inspira, spinge, anima, conforta, consola, rassoda… Di un uomo carnale, terreno, scandaloso, forma un angelo di purezza, un modello di santità. Eccovi la Maddalena…, S. Maria Egiziaca …, S. Agostino …, e cento altri. « Ah! è proprio vero che se il Signore innaffia della sua grazia un’anima, come dice S. Gerolamo, essa prontamente germina e fiorisce come il giglio; getta profonde radici come il cedro del Libano, il quale quanto più s’innalza, tanto più spinge nel suolo le radici, per sfidare la potenza dell’impetuoso aquilone» (Epist.). – Non appena la grazia si mostra in un’anima, ecco questa fondersi come cera al fuoco, piangere i suoi traviamenti, abbandonarsi rassegnata in Dio, diventare dolce e mansueta, ardere di amore celeste. Allora i monti dell’orgoglio si squagliano, i fiumi della vanità, dell’ambizione scompaiono, le fiamme dell’impurità diventano ghiaccio, le anguste gole della pusillanimità, del timore, dell’accidia, si chiudono e restano colme… La grazia muta un leone, una tigre in un agnello; la grazia cambia uno sparviero in una tortorella …; di un reprobo fa un eletto; di un demonio, un angelo; di un mostro d’iniquità, una splendida immagine di Dio… È la grazia che popola la terra di santi e il cielo di beati… Dolce, mirabile e confortante cosa è osservare le meraviglie operate dalla grazia nei martiri, nelle vergini, nei giusti di tutti i secoli.

14. UTILITÀ DELLA GRAZIA. — Diceva Gesù alla Samaritana: Se tu conoscessi il dono di Dio, lo cercheresti e lo domanderesti! (IOANN. IV, 10). Ah, se noi conoscessimo la grazia, i suoi vantaggi, oh! come ardentemente la brameremmo, quanto sollecitamente la cercheremmo, come studieremmo di procurarcela, di conservarla, di accrescerla! oh! come ci sembrerebbe vile e spregevole ogni altra cosa! La grazia rende indifferenti a quanto il mondo ha di più lusinghiero, attraente e seducente. Quando si bagnano le labbra nell’acqua sacra della divina grazia, non si ha più. sete del mondo, non si brama che il cielo… La grazia dà la vita e l’immortalità…; produce la pace…; la grandezza dell’anima …; la gioia nelle traversie …; la speranza della gloria… « Fare le cose eroiche, patire da forte avversità gravissime, è proprio non dei romani, ma dei Cristiani », diceva un autore alludendo al fatto di Scevola (Et facere, et pati fortia, non romanorum sed christianorum est – Anton. in Meliss.). Per la grazia noi diveniamo gli amici di Dio, siamo adottati in suoi figli e ci vantiamo di avere Dio per padre… Per la grazia, noi siamo in comunione con la SS. Trinità, con la Santa Vergine, con gli Angeli, coi beati tutti. Per la grazia, noi partecipiamo a tutti i meriti di Gesù Cristo, a tutti i favori annessi al santo Sacrifizio che si offre senza interruzione nel mondo intero; ai meriti di tutti i santi … Per la grazia, noi ci assicuriamo la ricompensa della vita eterna. Grandi, inestimabili vantaggi porta all’uomo la grazia: 1° Caccia e distrugge il peccato mortale che è la somma sua disgrazia… 2° Rende la persona accetta a Dio … 3° Fa l’uomo retto, santo, innocente, giusto, somigliante a Dio al quale tiene sottomessa l’intelligenza, la volontà e tutte le altre sue facoltà… 4° Ci fa figli di Dio, suoi eredi, coeredi di Gesù Cristo, templi dello Spirito Santo, membra di Cristo … 5° Porta con sé le virtù tutte e i doni dello Spirito Santo… 6° Rende l’anima più splendida del sole, più bella della luna, pura come gli Angeli, terribile a tutti i suoi nemici… 7° È la semenza della gloria; come dal seme nascono le piante, i fiori, i frutti, così dalla grazia nasce la felicità e la gloria eterna… 8° La grazia chiude l’inferno, apre il cielo, dispone di Dio come le piace. Si può dire della grazia quello che Salomone scrive della sapienza: « che conduce il giusto per vie diritte, gli addita il regno di Dio, gli dà la scienza dei santi, ne prospera il lavoro, ne benedice le imprese » — Iustum deduxit Dominus per vias rectas, et ostendit illi regnum Dei; dedit illi scientiam sanctorum, honestavit illum in laboribus et complevit labores illius (Sap. X, 10). « E insieme con lei vengono tutti i beni » — Venerunt mihi omnia bona pariter cum illa (Ib. VII, 11). « Dio visita la terra dei nostri cuori, dice il Salmista, la feconda e la inebria di beni. La pioggia benefica delle sue grazie fa germogliare tutte le virtù nell’anima e la colma di gioia »— Visitasti terram, et inebriasti eam… In stillicidiis eius lætabitur germinans (Psalm. LX1V, 9-11). « Il latte delle vostre grazie, o Signore, possiamo dire con la Sposa dei Cantici, è più delizioso di ogni prelibato vino » — Meliora sunt tubera tua vino (Cant. I, 1). Ah sì! le mammelle spirituali della grazia nutriscono l’anima e la riempiono di consolazioni; come i bambini trovano tutto il loro nutrimento e la loro felicità al seno delle loro mamme, di modo che non cercano né vogliono altro, così è della grazia, della quale si può dire: « Chi di me si nutre, di me avrà sempre fame; chi di me beve, sempre sarà di me assetato » — Qui edunt me, adhuc esurient; et qui bibunt me, adhuc sitient (Eccli. XXIV, 29). – Infatti, quanto più le anime fedeli assaporano le dolcezze, le soavità della grazia, tanto più sentono in loro aumentarsene la voglia. È proprio delle delizie spirituali accrescere l’avidità in chi le assaggia; le grazie accrescono il desiderio saziandolo. – La grazia lenisce i patimenti. « Quelli, dice S. Bernardo, che aborriscono e fuggono la croce, vedono la croce, ma non l’unzione della croce. Voi che amate la croce, sapete per prova che stillante dolcezza e miele è la croce, perché unita delle grazie dello Spirito Santo che vi aiuta » (Serm. in Cant.). S. Paolo diceva: « In mezzo a tutte le mie tribolazioni, io mi sento ridondare il cuore di gioia e di allegrezza » — Repletus sum consolatione, superabundo gaudio in omni tribulatione (II Cor. VII, 4). La grazia, infatti, cambia il fiele in dolcezza, mentre le dolcezze del mondo cambiano il miele in amarezza. Basta una stilla di grazia a cambiare in miele un mare di fiele; basta una goccia di voluttà carnale a fare della vita intera un calice di amarezza.

15. CONTO CHE SI DEVE RENDERE DELLE GRAZIE. — Contro coloro che non si curano delle grazie di Dio, Gesù Cristo pronunziò una terribile sentenza: « A chi fu dato molto, si domanderà molto; a chi s’è fatto più largo prestito, più larga usura sarà richiesta » — Omni… cui multum datum est, multum quæretur ab eo; et cui commendaverunt multum, plus petent ab eo (Luc. XII, 48). Ricordate la parabola del servo infingardo e quelle parole: « Rendimi ragione della tua gestione » — Redde rationem villicationis tuæ (Luc. XVI, 2), le quali c’insegnano che se nulla mette tanto conto quanto il profittare delle grazie, niente per altra parte tanto nuoce quanto l’abusarne. « A misura che s’aumentano i doni, dice S. Gregorio, cresce anche la materia di cui s’avrà da rendere conto (Dum augentur dona, rationes etiam crescunt donorum – Homil. IX in Evang.) ». Stiano scritte a caratteri indelebili nel cuore nostro quelle parole di San Paolo agli Ebrei: « È cosa difficilissima, per non dire impossibile, che coloro i quali già furono una volta illuminati e ottennero il dono perfetto e furono partecipi dello Spirito Santo e gustarono le dolcezze della parola di Dio e le virtù del secolo venturo e sono poi precipitati, ritornino un’altra volta a penitenza, crocifiggendo nuovamente in loro stessi il Figliuolo di Dio ed esponendolo all’ignominia, poiché la terra che beve la pioggia che frequentemente cade in grembo, e produce erbe utili a chi la coltiva, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e triboli, essa è riprovata e prossima a maledizione; e la sua fine è nel fuoco » (VI, 4-8).

16. BISOGNA PROFITTARE DELLE GRAZIE. — « Colui che ci ha creati senza di noi, non ci salva senza noi (Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te -Confess.) », dice S. Agostino e con ragione; perché nessuno si salva se non per mezzo della grazia, ma la grazia non salva se non in quanto le si corrisponde e se ne trae profitto. Perciò S. Paolo scriveva a Timoteo: « Bada di non trascurare la grazia che è in te e questo avvertimento non ti cada mai dalla memoria, ma metti in esso tutto l’animo ed ogni tua cura, affinché il tuo profitto sia manifesto a tutti » — Noli negligere gratiam quæ in te est. Hæc meditare, in his esto, ut profectus tuus manifestus sit omnibus (l Tim. IV, 14-15). E agli Ebrei raccomandava che nessuno non venisse meno alla grazia: — Ne quis desit giatiæ Dei (Hebr. XII, 15). Questo era il saluto di S. Giovanni, l’augurio di S. Pietro ai primi fedeli: « Sia con voi, scriveva quegli alla casa di Eletta, la grazia e la misericordia e la pace » — Sit vobiscum gratia, misericordia et pax (77, 3); e questi chiudeva la sua seconda epistola dicendo: « Crescete nella grazia e nella cognizionedel Signor nostro e Salvatore Gesù Cristo » — Crescite in gratiæ cognitione Domini nostri et Salvatoris Iesu Christi (II PETR. III, 18). Infatti chi non profitta, scapita; diceva S. Leone (Serm. de Pass.), e chi non acquista niente, perde qualche cosa. Non imitiamo la cieca Gerusalemme nel fare poco profitto delle grazie, perché non avvenga che Gesù Cristo abbia anche da piangere su la nostra perdita e rivolgerci quelle parole, rimprovero e sentenza a un tempo: « Ah, se tu conoscessi almeno in questo giorno che ancora ti è concesso, quello che formerebbe la tua pace! ma ora tutto è celato agli occhi tuoi» (Luc. XIX, 41- 42).« Beato chi mi ascolta, dice la grazia, e chi sta origliando alle mie porte per udire le mie parole! Chi trova me, trova la vita e avrà la salvezza dal Signore. Ma chi mi offende, nuoce all’anima sua; e chi non mi ama, va incontro alla morte » — Beatus homo qui audit me, et qui vigilat ad fores meas quotidie. Qui me invenerit, inveniet vitam, et hauri  et salutem a Domino. Qui aut emin me peccaverit, lædet animam suam. Omnes qui me oderunt, diligunt mortem (Prov. VIII, 34-36). E chi non approfitterà della grazia, se dà retta ai caldi inviti che gliene fa Dio per mezzo dei suoi profeti? Udite, per esempio, quello che dice Isaia:« Chi ha sete venga al fonte; chi è nell’indigenza si affretti, compri e si sazi; venite e comprate, senza sborsare prezzo, vino e latte. Ascoltate me, nutritevi del bene, della grazia, e l’anima vostra sarà inebriata di dolcezze. Ascoltatemi e venite a me, ascoltatemi e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto sempiterno » (ISAI. LV, 1-3).

17. MEZZI PER OTTENERE E CONSERVARE LA GRAZIA. — 1° Bisogna averne grande desiderio: « La grazia, come ci assicura il Savio, previene coloro che la desiderano, per mostrarsi ad essi la prima. Chi sorgerà di buon mattino a cercarla, non avrà da stancarsi per trovarla, perché la incontrerà già seduta su la soglia della sua casa » — Præoccupat qui se concupiscimi, ut illis se prius ostendat. Qui de luce vigilaverit ad illam, non laborabit: assidentem enim illam foribus suis inveniet (Sap. VI, 14 – 15). S. Paolo l’augurava larga ed abbondante su tutti i Cristiani, dicendo: « La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con tutti voi » — Gratia Domini nostri Iesu Christi cum omnibus vobis. Amen (II Tkess. III, 18); e con ciò ha dato a noi esempio di desiderarla per noi medesimi; perché, al dire della Sapienza, quanti ebbero sete ed invocarono il Signore, trovarono sempre l’acqua che li ha dissetati: — Sitierunt et invocaverunt te, et data est illis aqua (Sap. XI, 4 ).

Bisogna pregare per ottenerla, conservarla, aumentarla. « La chieda a Dio, suggerisce S. Giacomo, il quale gliela dà in abbondanza » — Postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter (IACOB. I, 5 ). Così fece la Samaritana, la quale prontamente soggiunse a Cristo: « Dammi, o Signore, di quest’acqua, affinché non patisca mai più sete » — Domine, da mihi hanc aquam, ut non sitiam (IOANN. IV, 15). Così fecero coloro dei quali racconta il Salmista che « domandarono ed ebbero dal cielo di che nutrirsi; avendo sete pregarono, ed il Signore fece zampillare per loro una fonte nel deserto » — Petierunt, et pane cœli saturavit eos. Dirupit petram, et fluxerunt aquæ (Psalm. CIV, 9-40).

3° Bisogna vegliare; perché la grazia, dice il Crisostomo, è data solo ai vigilanti (Non datur gratia, nisi vigilanti – Homil. ad pop.). Perciò S. Paolo dice agli Efesini: « Scuotetevi, voi che dormite, levatevi di mezzo ai morti e Cristo v’illuminerà con la sua grazia. Badate adunque, o fratelli, di camminare cautamente, non da stolti, ma da savi » — Surge qui dormis, et exsurge a mortuis, et illuminabit te Christus. Videte, fratres, quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes, sed quasi sapientes (Eph. V, 14-16).

4° Bisogna schivare il peccato od uscirne perché il peccato è il solo ostacolo alla grazia. La grazia non può stare col peccato, come la notte col giorno, la vita con la morte.

5° Bisogna cercare la grazia alla propria sorgente della grazia, cioè nei Sacramenti.

LA GRAZIA (1)

LA GRAZIA (1)

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II; S. E. I. ed. Torino – 1930]

– 1. La grazia e le sue specie. — 2. Gesù Cristo autore della grazia, — 3. Necessità della grazia. — 4. La grazia non distrugge il libero arbitrio. — 5. Perché Dio dà la grazia? — 6. Perché Dio concede più grazie agli uni che agli altri? — 7. In quali modi Dio ci comunica le grazie? — 8. Desiderio che ha Gesù Cristo di comunicare le sue grazie. — 9. Abbondanza di grazie. — 10. La grazia è un innesto divino. — 11. La grazia è paragonata alla pupilla dell’occhio. — 12. Eccellenza della grazia. — 13. Potenza e meraviglie della grazia. — 14. Utilità della grazia. — 15. Conto che si deve rendere delle grazie. — 16. Bisogna profittare delle grazie. — 17. Mezzi per ottenere e conservare la grazia.

1. LA GRAZIA E LE SUE SPECIE. — La parola grazia viene dal latino gratis datum, dato gratuitamente e la Chiesa la definisce un aiuto soprannaturale che Dio ci dà perché facciamo il bene ed evitiamo il male. Molti generi di grazie distinguono i teologi, alle quali danno nomi e definizioni speciali; accenneremo le principali.

La grazia si divide in abituale o santificante, ed attuale. La grazia abituale è quella che rimane in noi, e ci mantiene nell’amicizia di Dio. Essa non si trova mai in un cuore macchiato di colpa grave. La grazia attuale è un soccorso che Dio concede più o meno sovente. La grazia attuale si divide poi: in grazia dello spirito, o grazia di luce, e in grazia della volontà, o grazia di azione. Si divide in grazia operante e cooperante, la quale eccita, aiuta, previene, accompagna, in grazia sufficiente e grazia efficace. La grazia operante è un soccorso che Dio mette in noi senza di noi. La grazia cooperante è quella che opera col concorso della nostra volontà. La grazia eccitante è simile a quella che opera; essa ci anima, ci sollecita a fare quel dato bene, e schivare quel dato male. La grazia che aiuta è simile a quella che coopera. La grazia preveniente è quella che precede o un’altra grazia, o il libero consenso della volontà. La grazia che segue o accompagna è quella che si unisce ad un’altra grazia, o al libero consenso della volontà. La grazia sufficiente è quella che, sebbene possa ottenere l’effetto per il quale è data, ne è tuttavia privata a cagione della malizia e della debolezza della creatura. La grazia efficace è quella che arriva il suo scopo, produce il suo effetto…

2. GESÙ CRISTO AUTORE DELLA GRAZIA. — « Ah! se tu conoscessi il dono di Dio, diceva Gesù alla Samaritana, e chi è colui che ti chiede da bere, forse gliene domanderesti tu a lui; ed Egli ti darebbe dell’acqua viva … Chiunque beve dell’acqua di questo pozzo, sente di nuovo la sete; ma chi beverà dell’acqua che Io sono per dargli, non patirà mai più sete… Anzi l’acqua che gli darò Io, si farà in lui fonte di acqua zampillante per la vita eterna (IOANN. IV, 10, 13, 14) » . Un’altra volta gridava nel tempio: «Chi ha sete, venga a me e beva » — Si quis sitit, veniat ad me et bibat (Id. VII, 37). Egli medesimo, il divin Salvatore, si paragonava poi alla vite, all’albero, i cui tralci e rami in tanto hanno succo in quanto lo traggono dal tronco. Esortava  quindi i suoi credenti a tenersi bene uniti; perché siccome il tralcio non dà più nessun frutto, se è reciso dalla vite, così essi non possono fare nulla di buono per la vita eterna, se si separano da lui. Anzi, minaccia loro che saranno gettati al fuoco, come un secco ramo o sarmento (IOANN. XV, 1-6). Dice S. Agostino: « Quando Iddio rimunera i nostri meriti, che altro fa se non rimunerare i suoi doni? (Deus cum coronat nostra merita, quid aliud coronat quam sua dona? (Confess.1, IX, e XIII)»; questo appunto canta la Chiesa inuna delle sue orazioni: « Coronando, o Signore, i nostri meriti, coronate i vostri doni (Coronando merita, coronas dona tua – In Præfat. missae iuxta rit. Gallic.) ».« Tutto quello che riceviamo di buono, ogni dono perfetto viene dall’alto,insegna S. Giacomo, e discende dal Padre dei lumi, presso il quale non avviene cambiamento né ombra di alternativa » — Omne datum optimum, et omne donum perfectum, desursum est; descendens a Patre luminum, apud quem non est transmutatio, nec vicissitudinis obumbratio (IAC. I, 17). S. Paolo annunziando che comparve nel mondo e si manifestò a tutti gli uomini la grazia del Salvatore: — Apparuit grafia Dei Salvatoris nostri omnibus nominibus (Tit. II, 11), ci avverte, che la salvezza in virtù della fede ci viene dalla grazia e non da noi, perché è un dono di Dio: — Gratia estis salvati per fidem; et hoc non ex vobis; Dei enim donum. — Quindi S. Agostino esclamava: « Datemi, o Signore, quello che comandate; poi comandatemi pure tutto quello che volete (Da quod iubes, et iube quod vis (Lib. X Confess. C. XIX)». La stessa cosa indicava Isaia dicendo che « si sarebbero attinte con gioia le acque alle sorgenti del Salvatore » — Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (ISAI. XII, 3); ad essa preludiava Davide con quelle parole:« Tu hai, o Signore, preparato nella tua bontà quel che è necessario al povero» — Parasti in dulcedine tua pauperi, Deus (Psalm. LXVIl, 11).La gloria delle più grandi opere del Cristiano si deve tutta riferire a Gesù-Cristo che è la causa intera di tali opere le quali, benché fatte liberamente dall’uomo, in virtù della sua natura e del suo libero”arbitrio, traggono tuttavia ogni loro dignità dalla grazia di Gesù Cristo. Quindi un’opera di carità per esempio, tiene dall’uomo il suo carattere di libertà; è un’opera libera, non necessaria, non forzata, ma ottiene da Gesù Cristo di essere soprannaturale, d’incontrare il gradimento di Dio, e di meritare la gloria eterna. A Gesù Cristo solo dunque è dovuta la lode, la gloria, la riconoscenza: Egli cede liberalmente all’uomo che opera, tutto l’utile, il merito, il prezzo della buona azione, ma ne riserva a sé tutta la gloria, secondo quello che disse per mezzo d’Isaia: « Non darò ad altri la mia gloria » — Gloriam meam alteri non dabo (ISAI. XLVIII, 11). Perciò leggiamo nell’Apocalisse, che i ventiquattro vegliardi mettevano le loro corone ai piedi del trono, cantando: Degno sei, o nostro Signore Iddio, di ricevere la gloria, l’onore, la potenza, perché hai creato ogni cosa: — Dignus es, Domine Deus noster, accipere gloriam, et honorem, et virtutem, quia tu creasti omnia (V, 12).Tutti i patimenti, le lotte, le vittorie dei Santi devono tornare ad onore del Re del cielo, perché innanzi a Lui deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, sulla terra, nell’inferno, secondo l’espressione del grande Apostolo (Philipp. II, 10).La grazia in generale e le grazie tutte in particolare sono di appartenenza così propria e necessaria di Gesù Cristo, che Egli è per antonomasia l’Angelo della nuova Alleanza, perché 1° ha spento la collera e tolta l’inimicizia di Dio contro l’uomo. Egli è dunque l’angelo dell’alleanza, ossia della riconciliazione, chiamato perciò da Isaia: « Principe della pace » — Princeps pacis (IX, 6), e da S. Paolo: « Nostra pace » — Pax nostra (Eph. I I , 14). Difatti quando noi eravamo morti nel peccato, Egli ci ha chiamati a nuova vita in se stesso, rimettendoci le nostre colpe e cancellando la sentenza di condanna contro di noi; Egli l’ha rivocata e abolita coll’affiggerla alla croce: — Donans vobis omnia delieta, delens quod adversus nos erat chirographum decreti, quod erat contrarium nobis; et ipsum tulit de medio, affigens illud cruci (Coloss. I I , 13-14).

2° Gesù Cristo ha stabilito una nuova alleanza (essendo sciolta quella mosaica) tra Dio e gli uomini, in virtù della quale Dio si obbliga verso i Cristiani a dare loro la grazia e la vita eterna; e questi a loro volta si legano verso Dio, a credere in Gesù Cristo suo Figlio, ad obbedirlo, a praticare la sua legge, ad imitare la sua vita …

3° Egli è disceso dal cielo su la terra come un angelo, ed ha vestito la carne umana, per unire in sé il fango al Verbo, la terra al cielo, l’uomo a Dio, col legame dell’unione ipostatica, con la natura umana da lui presa nel casto seno dell’immacolata Vergine Maria sua madre, formando così la più stretta ed intima alleanza…

4° Nell’ultima cena, la vigilia della sua morte, egli ha fatto il suo testamento, espressione dei suoi ultimi voleri, e l’ha sanzionato con l’istituzione dell’Eucaristia, dicendo: « Questo è il sangue della nuova alleanza » — Hic est sanguis novi Testamenti (MATTH. XXVI, 28).

5° Gesù Cristo, nella sua qualità di Angelo del Testamento, ha portato dal cielo quest’alleanza agli uomini; l’ha rassodata su la terra per trentatrè anni, con le sue fatiche, con i suoi sudori, con i discorsi, con i viaggi, con i lavori suoi, con la fame, con la sete, col freddo, col caldo; e in ultimo non solamente l’ha confermata e suggellata col suo sangue, ma se l’è comprata e l’ha fatta cosa sua, sborsando il prezzo necessario a una tanta riconciliazione, e ad una sì intima alleanza; prezzo equivalente ed accettabile in tutta giustizia, e questo prezzo vale per tutte le nazioni, per tutti i secoli, quando pure durasse il mondo milioni di anni, ed anche in eterno. Infatti i santi nel cielo parteciperanno a quest’alleanza per la gloria nell’eternità; Gesù Cristo l’ha recata in paradiso ed è stata da Lui confermata, avendo in mira la gloria celeste. Perciò, avendo compiuto quest’alleanza, ascese per il primo glorioso al cielo, chiamandovi i suoi fedeli e dicendo loro che lo seguissero…

3. NECESSITÀ DELLA GRAZIA. — È sentenza perentoria di Gesù Cristo, che senza di Lui nessuno non può fare nulla: — Sine me nihil potestis facere (IOANN. XV, 5). A tal punto, dice l’Apostolo, che non bastiamo di per noi medesimi a produrre pensiero che valga, ma la possibilità ce ne viene da Dio: — Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis; sed sufficientia nostra ex Deo est (II Cor. III, 5). « Sapete che cosa abbiamo del nostro, dice S. Agostino; nient’altro se non il peccato e la menzogna. E se qualche barlume in noi si trova di verità e di giustizia, lo attingiamo a quel fonte al quale dobbiamo anelare nel deserto di questo secolo, affinché ristorati da qualche sua goccia, non ve veniamo meno per la strada (Nemo habet de suo, nisi peccatum et mendacium. Si quid autem habet homo veritatis atque iustitiæ, ab ilio fonte est quem debemus sitire in hoc eremo; ut ex eo quasi quibusdam guttis irrigati, non deficiamus in via – De cognit. veræ vitæ) ». «Perché la volontà dell’uomo, soggiunge il Crisostomo, non basta a nulla se non è aiutata dal soccorso soprannaturale (Nullo modo hominis voluntas sufficit, nisi auxilio superiore roboretur – Homil. in Epis. ad Ephes.)». Il peccatore resta schiacciato sotto il peccato come sotto il peso di una montagna; egli è imprigionato; e non può uscire dal carcere, né scuotersi di dosso il peso, né sciogliersi le catene, senza la grazia di Dio. « È necessario, dice S. Bernardo, che l’unzione spirituale della grazia rafforzi la nostra debolezza, che Gesù alleggerisca con la grazia, che è nella Religione, le molte e varie croci che vanno congiunte con l’osservanza della legge divina e della penitenza cristiana; poiché né si può seguire Gesù Cristo senza croci, né sopportare la durezza delle croci, senza il lenimento della grazia (Necesse est ut unctio spiritalis gratiae adiuvet infirmitatem nostram, observantiarum et multimodæ pœnitentiæ cruces dcvotionis suae gratia liniens; quia nec est sine cruce sequi Christum; et sine unctione, crucis asperitatem ferre quis posset? – De Consid.)». – « A quel modo, dice S. Agostino, che non si vide mai cavallo o leone domarsi da se stessi, ma si richiede per domarli l’opera dell’uomo; così l’uomo non si doma da se medesimo, ma ci vuole l’opera di Dio (Equus non se domat, leo non se domat, et sic homo non se domat. Sed ut dometur equus, leo, quæritur homo; ergo Deus quaeratur, ut dometur homo – Serm. IV, De Verb. Dom. in Matth.) ». Non la natura, ma la grazia lavora l’uomo… «L’anima, scrive il medesimo dottore, è la vita del corpo; Dio è la vita dell’anima (Vita corporis anima est; vita animæ Deus est (De Cognit. veræ vitæ); e la grazia è l’anima dell’anima (Gratia est anima animæ – De grat. el lib. arbitr.); quindi, siccome il corpo muore quando è separato dall’anima, così muore l’anima quando è separata da Dio (Quomodo moritur caro, amissa anima; sic moritur anima, amisso Deo – De Cognit. veræ vitæ) ». La grazia può dirsi il respiro dell’anima, ed è così indispensabile il respiro dell’anima, come la respirazione dell’aria al benessere del corpo; e quello che la respirazione opera nel corpo, la grazia l’opera nell’anima; poiché essa non trova nessun merito nell’uomo, ma li produce tutti (Hæc (gratia) non invenit, sed effìcit merita – De grat. et lib. arbitr). L’uomo cade senza Dio, ma più non si rialza se non soccorso da Dio. L’uomo non abbisogna di Dio né del suo soccorso per peccare mortalmente e precipitare nell’inferno, ma non sorgerà mai dal peccato mortale, non uscirà dall’inferno senza la grazia divina. Che più? Non solamente l’uomo non può rialzarsi senza Dio, ma neppure camminare o muovere il passo… « Se il Signore, diceva Davide, non edifica Egli medesimo la casa, invano vi lavorano attorno i muratori; se il Signore non custodisce egli la città, inutilmente vi fa scolta chi la custodisce » — Nisi Dominus ædificaverit domum, invanum laboraverunt qui ædificant eam. Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam. (Psalm. CXXVI, 1-2). Così appunto accadde agli Apostoli sul mare di Tiberiade dove, dopo aver faticato tutta la notte nel gettare le reti, non erano riusciti a prendere nulla; ma non appena si rimisero all’opera confortati dalla parola di Gesù Cristo, fecero sì abbondante pesca, che le reti si rompevano per il troppo peso — Præceptor, per totam noctem laborantes nihil cepimus; in verbo autem tuo laxabo reteConcluserunt piscium multitudinem copiosam, rumpebatur autem rete eorum (Luc.. V, 5-6). Anche la Sposa dei Cantici confessa che ha bisogno di essere attirata a seguire il suo diletto,per mezzo dell’odore de’ suoi profumi, e di ciò lo prega: — Trahe me; post te curremus in odorem unguentorum tuorum – Cant. I, 3). Neppure noi non possiamo camminare, correre, volare, per la strada della virtù, per la via del cielo, se non siamo attirati dal profumo della grazia divina.

4. LA GRAZIA NON DISTRUGGE IL LIBERO ARBITRIO. — La grazia attrae liberamente e non necessariamente. Essa infatti ci attrae e conduce, come osserva S. Cirillo, per mezzo degli ammonimenti, della dottrina, della inspirazione che continuamente ci fa sentire (Trahimur monitione, dottrina, revelatione incessa biliter facta – Catech.). E S. Agostino così spiega la cosa: « Non credete che siate tratti vostro malgrado; lo spirito è condotto dall’amore; non la forza, ma la dilezione porta ad operare. A più buon diritto dobbiamo dire che l’uomo è tratto a Gesù Cristo perché l’uomo tende alla verità, alla felicità, alla giustizia, alla vita eterna, e Gesù Cristo è tutto questo. Tale violenza è fatta al cuore, non alla carne. Perché dunque smarrirvi? Credete e voi verrete, amate e sarete tratti. Non immaginatevi che questa violenza sia dura, penosa; essa è dolce e soave; è la dolcezza per essenza che vi attira. Forseché la pecora non è attirata quando, avendo fame,si vede porgere innanzi dell’erba? Per me io credo che non è punto trascinata suo malgrado, ma è il desiderio, la voglia che la conduce. Similmente è di voi: venite a Gesù Cristo; e se non vi sentite attirare, domandate di essere attirati » (Serm. II de Verb. Domini). A quelli che opponevano: ma se ogni azione è da Dio, se la sua grazia fa tutto, invano voi mi esortate, invano m’intimidite e mi atterrite, invano mi ordinate di obbedire; S. Giovanni Crisostomo rispondeva con la Scrittura, che Dio in sul principio creò l’uomo e lo lasciò in potere dei suoi consigli; gli pose dinanzi l’acqua e il fuoco, dandogli facoltà di stendere la mano a quello che più gli talentasse: gli propose la vita e la morte, il bene e il male, con promessa di dargli quello che avesse scelto di suo arbitrio: — Deus ab initio constituit hominem, et reliquit illum in manu consilii sui. . . Apposuit ibi aquam et ignem; ad quod volueris, porrige manum tuam. Ante hominem vita et mors, bonum et malum; quod placuerit ei, dabitur ibi (Eccli. XV, XIV, 17-18). E ricordava anche loro quel testo del Deuteronomio (XXX,13-16): « Considera che ti ho posto sott’occhi quest’oggi la vita e i beni, la morte e i mali, affinché tu ami il Signore tuo Dio, e viva » (Homil. ad pop.). L’uomo deve dunque corrispondere alla grazia, se vuole che essa operi in lui … La grazia tocca, sollecita la volontà dell’uomo, affinché liberamente consenta a seguire la grazia e vi cooperi, ma non la costringe punto… Quel detto dell’Apostolo: « Dio è che opera in noi il volere e il fare, secondo che a lui piace » — Deus enim est qui operatur in vobis velle et perfìcere, prò bona voluntate (Philipp. II, 13), è spiegato dal Crisostomo e dagli altri Dottori cattolici in questo senso, che Dio aiuta, aumenta, mette in azione la prontezza, la disposizione della volontà per fare il bene… « Dio, scrive Sant’Agostino, muove e dà impulso, purché l’uomo voglia liberamente pentirsi, amare e fare qualsiasi altro bene (Deus movet et invitat, ut homo libere velit pœnitere, amare et quodvis bonum onerari – De grat. et lib. arbitr.) ». Dio eccita e dà la grazia per far sì che vogliamo; tocca a noi corrispondere per parte nostra alla grazia… Dio opera in noi, con la sua grazia, il volere, ma in modo diverso da quello che tenne nel creare il cielo e la terra, ecc. Creando il cielo e la terra, ha fatto loro una necessità di esistere; mentre alla volontà umana fa produrre un’azione libera per mezzo della persuasione, degli allettamenti, delle dolci sollecitudini, delle carezze, della bontà, del terrore, della forza interna, delle soavi consolazioni. Egli opera non già fisicamente, ma moralmente…La Chiesa insegna con S. Agostino, che ogni inizio di buona volontà,di fede, di salute, viene dalla grazia preveniente e perseverante. Dio fa che noi vogliamo e che adempiamo quello che vogliamo – De grat. et lib. arbit.). Dio opera in noi il fare, continuandoci la medesima grazia con cui ha operato il volere. Quando un atto esteriore è difficile, come il martirio, Egli allora comunica la forza di operare, confermando ed animando l’uomo con una nuova grazia.S. Bernardo, parlando della grazia e del libero arbitrio, spiega in modo ammirabile, come Dio operi in noi queste tre cose: il pensare, il volere, il fare. Opera in noi, senza di noi, la prima cosa che è il pensare; opera in noi, con noi, la seconda, cioè il volere; opera in noi, per mezzo di noi, la terza, che è il fare. Quando però sentiamo avvenire in noi invisibilmente queste cose, guardiamoci dall’attribuirle o alla volontà nostra che è inferma o alla necessità divina che non esiste, ma solo alla grazia di cui siamo ripieni. È la grazia che eccita il libero arbitrio, quando c’infonde il desiderio; guarisce, quando cambia l’affetto; fortifica per condurre all’opera; conserva per preservare dalla caduta. Opera in un col libero arbitrio ch’essa previene e precede, per eccitare il pensiero; segue ed accompagna nel resto, che è il volere ed il fare. Previene nel pensiero per far cooperare nel volere e nel fare. Quindi il cominciamento appartiene tutto e solo alla grazia; il volere e il fare avvengono per la grazia ed il libero arbitrio non separati, ma insieme congiunti; operano tutti e due ad un tratto, non a vicenda, per il volere ed il fare. La grazia non lavora da sé, ed il libero arbitrio da sé; ma agiscono tutti e due sul tutto, con un lavoro individuale (Primum, scilicet cogitare, sine nobis. Secundum, scilicet velie, nobiscum. Tertium, scilicet perfìcere, per nos facit… Cavendum adhuc ne cum haec invisibiliter intra nos, ac nobiscum actitari sentimus, aut nostrae voluntati attribuamus, quae infirma est, aut Dei necessitati, quae nulla est; sed soli gratiae, qua plenus estDe grat. et lib. arbitr.).« Per la grazia di Dio, confessa di sé l’Apostolo a’ Corinzi, io sono quel che sono e la sua grazia non è rimasta sterile in me; ma ho lavorato più di tutti loro, non già io da me, ma la grazia di Dio con me » — Gratia Dei sum id quod sum, et gratia eius in me vacua non fuit; sed abundantius illis omnibus laboravi: non ego autem, sed gratia Dei mecum (I Cor., XV, 10). Non dicono chiaro queste parole di S. Paolo, che la grazia e la volontà operano insieme e d’accordo? «Attirami, esclama la Sposa dei Cantici, ed io correrò dietro le tue orme, tratta all’odore de’ tuoi profumi » (Cant. I , 3). Ah sì! conducetemi, o Signore, con la vostra grazia, dai vizi alla virtù, dall’ignoranza alla fede ed alla conoscenza di voi, dalla carne allo spirito, dalla tiepidezza al fervore, dal principio al compimento dell’opera, dalle cose facili e piccole alle grandi ed eroiche, dagli affetti terreni ai celesti, dal timore all’amore, dalla voluttà alla mortificazione della carne, alla croce… Noi siamo tratti e condotti dalla grazia non per mezzo di catene o di sferze, ma per la forza dell’amore, secondo le parole del profeta Osea: « Io li trarrò a me coi legami coi quali si traggono gli uomini, coi vincoli dell’amore » — In funiculis Adam, in vinculis charitatis (OSE. XI, 4). Perciò S. Agostino sentenzia: « Amate e sarete tratti (Ama et traheris – De grat. et lib. arbitr.) ». Dio ci ha dato il libero arbitrio e ad esso concede di cooperare alla grazia la quale lo eccita al ben fare e Dio coopera con noi per mezzo della grazia … Il libero arbitrio da solo non può nulla; la grazia non costringe nessuno; la grazia poi e il libero arbitrio, accordandosi insieme, fanno il bene; questo bene è meritorio per la grazia e la cooperazione volontaria alla grazia…

5. PERCHÈ DIO DÀ LA GRAZIA? — Dio dà la sua grazia per puro amore verso di noi… Dio opera in noi il volere e il fare, per mezzo della sua grazia, affinché la sua buona volontà si adempia in noi e da noi e per noi; acciocché noi viviamo santamente e felici quaggiù, ed Egli possa premiarci nell’eternità, tale essendo la misericordiosa volontà di Dio nel concederci le sue grazie… o cielo! che vergogna per la pigrizia umana! Dio è più disposto a darci la grazia, che noi a riceverla; più s’adopera Egli a chiamarci all’eterna salvezza, di quello che c’impieghiamo noi per andare al cielo. Quando dà, dà del suo e con piacere; quando ricusa di dare e punisce, ricusa e punisce con dispiacere; e solo in noi trova i motivi di agire così… Vi è in Dio un’inclinazione infinita, un desiderio immenso di comunicarsi, che proviene dall’infinita perfezione e dalla pienezza del suo essere; pienezza sì grande, che Egli s’impiega a riversarla nelle creature e specialmente negli uomini; sebbene la conservi sempre tutta intera, per quanta ne comunichi. « Dio è nelle creature intelligenti quello che è il sole nelle cose sensibili », dice il Nazianzeno (Sicut in rebus sensibilibus est sol, ita in intelligibilibus est – In Distici:). Quindi, siccome il sole spande da tutte le parti i suoi raggi per illuminare, scaldare, vivificare e fecondare, senza che per questo perda nulla de’ suoi raggi, così Dio spande i raggi della sua beneficenza su tutte le creature, su tutti gli uomini, per rischiararli con i lumi della sua sapienza, infiamma del suo amore gli Angeli e gli uomini, li vivifica per la vita della grazia e della gloria, senza nulla scemare della sua pienezza infinita. L’incarnazione, le prove, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, i sacramenti, la missione dello Spirito Santo, la cura speciale di tutta la Chiesa e di ciascun fedele, sono gli effetti della sollecitudine di Dio a nostro riguardo. « Per le viscere della misericordia di Dio, ci ha visitati colui che si leva nelle altezze dell’Oriente », cantava Zaccaria, il padre del Battista — Per viscera misericordiæ Dei nostri, in quibus visitavit nos Oriens ex alto (Luc. I, 78). «La grazia di Dio, scrive S. Prospero, regna per mezzo della persuasione, delle esortazioni, dei buoni esempi, del timor dei pericoli, dei miracoli, delleinspirazioni, dei consigli, della fede, dell’intelligenza che dà, degli ardoricon cui accende il cuore » (De Vocat. gent. lib. II, c. X). Sì, la grazia ci è data affinché illumini lo spirito, ecciti la volontà, purifichi l’anima, infiammi il cuore di amore, semini la vita di buone opere e conduca alla vista ed all’eterno godimento di Dio nel regno della gloria…« La grazia, dice S. Agostino, ci è data affinché noi vogliamo, ed è essa stessa che comincia in noi il bene; quando noi vogliamo, essa compie in noi quello che ha cominciato. Ci previene per guarirci, ci accompagna per conservare in noi la sanità spirituale; ci previene per chiamarci, ci segue per glorificarci; ci previene per far che viviamo piamente, ci accompagna per farci vivere eternamente con Dio (Ipse ut velimus operatur incipiens, qui volentibus cooperatur perficiens. Praevenit ut sanemur, et subsequitur ut sanitate vegetemur; et subsequitur ut glorificemur; prævenit ut pie vivamus, et subsequitur ut cum ilio semper vivamus – De grat. et lib. arbitr., c. XVII). Insomma, la grazia ci si dà perché conosciamo, amiamo, serviamo Dio fedelmente in questa vita e lo possediamo per sempre nell’eternità. Ci si dà per nostro bene temporale e spirituale, nel tempo e nell’eternità.

6. PERCHÈ DIO CONCEDE PIÙ GRAZIE AGLI UNI CHE AGLI ALTRI? — « Perché uno è tratto dalla grazia e non un altro? domanda S. Agostino, e risponde: non sentenziarne, se non vuoi sbagliare (Cur hic trabatur, ille non trahsatur? Noli iudicare, si non vis errare – De gratia et lib. Arbit.) ». E da quando in qua Dio è tenuto verso l’uomo?… Egli è padrone de’ suoi doni e libero di darli a chi vuole… Egli non deve nulla all’uomo; del resto dà con usura a chi corrisponde fedelmente alle sue grazie… Vi sono molti ingrati, increduli, empi, indurati; a costoro Dio non deve niente altro che castighi… Essi abbandonano Dio per i primi; e Dio si ritira e li lascia; non hanno se non quello che si meritano… Forse che vorreste obbligare Dio a dare qualche cosa a colui che non prega, che ricusa anzi di pregarlo?… a colui che vorrebbe sempre vivere per peccare sempre?… Deve Iddio qualche cosa a chi si abusa di tutto? « La grazia non si concede se non a chi veglia sopra se stesso », dice il Crisostomo (Non datur gratia nisi vigilanti – Homil. in Epl. ad Rom.). « E chi sei tu, o uomo, domanda S. Paolo, che osi chiedere ragione a Dio? Si è mai veduta una stoviglia dire allo stovigliaio: Perché mi hai tu foggiata così e non così? È nell’arbitrio dello stovigliaio di fare d’una medesima creta un vaso per uso onorevole, ed un vaso per uso vile. (Rom.IX, 20-21). « Dio, come osserva S. Agostino, rende male per male perché è giusto, bene per male perché è buono; bene per bene perché è buono e giusto; la sola cosa che non fa è di rendere male per bene, non essendo egli ingiusto (Deus reddit mala prò malis, quia iustus est; bona prò malis, quia bonus est; bona prò bonis, quia bonus et iustus est; soluni non reddit mala prò bonis, quia iniustus non est – De grat. et lib. Arbitr.)»… È certo che per tutta l’eternità nessun reprobo potrà mai dire: Io sono irreparabilmente perduto, non per colpa mia, ma per colpa di Dio. Sarà anzi costretto a confessare che si è dannato per propria colpa: che sarebbe in cielo, se l’avesse voluto. Dio non condanna se non quelli che meritano di essere dannati, come non nega mai il paradiso a quelli che se lo guadagnano. Perché lagnarci? La nostra perdizione viene da noi:— Perditio tua ex te, Israel (OSE. XIII, 9)… Adoperiamoci a conoscere, amare, servire Dio con tutto l’animo e con tutte le forze e stiamo certi chesaremo tra gli eletti …

7. IN QUALI MODI DIO CI COMUNICA LE GRAZIE? — In quattro modi Iddio si avvicina all’uomo e gli comunica le grazie:

1° Illuminando la mente, acciocché veda quello che bisogna conoscere…

2° Per mezzo dell’istruzione, affinché sappia quello che deve praticare . ..

3° Col ricupero o con l’aumento dell’amicizia di Dio . ..

4° Col diletto interno delle cose spirituali … Questi sono i principali mezzi con cui Iddio attrae a sé l’uomo e gli partecipa le sue grazie.

8. DESIDERIO CHE HA GESÙ CRISTO DI COMUNICARE LE SUE GRAZIE. —

A persuaderci del vivo, immenso desiderio di cui arde Gesù Cristo, di darci le sue grazie, basta ricordare l’incarnazione, la vita, i patimenti, la morte… Questo suo vivo desiderio è espresso in quelle sue parole agli Apostoli: « Io languivo della brama di mangiare con voi questa Pasqua » — Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum (Luc.. XXII, 15) e in quelle altre che rivolse ai Giudei: « Se alcuno ha sete, venga a me e beva » — Si quis sitit, veniat ad me et bibat (IOANN. VII, 37). « Io sono venuto a portare il fuoco della carità nel mondo; ed è mio sommo ed unico voto che si accenda » — Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Luc., XII, 49). E che altro voleva dire quella sua parola detta dalla croce — Sitio (IOANN. XIX, 28), se non questo: ho sete della fedeltà e della corrispondenza degli uomini alle mie grazie?… Non è Dio che ci dice per bocca del Savio: «Dammi, o figliuol mio, il tuo cuore » — Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 26); e nell‘Apocalisse: « Ecco che io me ne sto alla porta e busso: chi ascolterà la mia voce e mi aprirà, io entrerò in casa sua e mangerò con lui, ed egli meco » — Ecce sto ad ostium et pulso; si quis audierit vocem meam, et aperueril mihi ianuam, intrabo ad illum et cœnabo cum illo, et ipse mecum (III, 20)?

[1 – Continua …]

LA GRAZIA (2)

LO SCUDO DELLA FEDE (75)

LO SCUDO DELLA FEDE (75)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE SECONDA.

FRODI PER CUI S’INTRODUCE IL PROTESTANTISMO

CAPITOLO X

DECIMA PRODE: TRAFFICO DELLE INDULGENZE

Il lusso sformato qual è ne’ Prelati della Corte di Roma non può mantenersi senza un proporzionato dispendio, ed eccovi perciò la necessità di fare un mercimonio delle cose spirituali. Così la discorrono quegli infelici che vogliono strapparvi dal seno della S. Chiesa: e passano poi a raccontarvi, come per raccogliere denaro in Roma si vendono le Indulgenze, le dispense pei matrimoni, le facoltà di ergere Oratorii privati, le investiture dei benefizii ecclesiastici, le Reliquie dei Santi, ed andate dicendo. Chi li credesse, colà tutto è compera e vendita e permuta, senza un riguardo al mondo, né a Dio, né alle cose sante: e per esprimere tutto ciò hanno già inventato un termine tutto lor proprio, chiamando Roma la gran bottega dei Sacerdoti. Ora, miei cari, sentite una parola di tutte queste accuse; e prima d’ogni altra cosa delle Indulgenze, sopra le quali fan più rumore, che verrete da esse a conoscere sempre meglio qual sorta di Religione sia il Protestantismo, che per reggersi in piedi, ha bisogno di ricorrere a tali calunnie. – La prima occasione di accusa la tolgono dalle Indulgenze, le quali a detta loro, sono la merce che frutta a Roma le più larghe entrate. Ebbene per rispondere subito con dei fatti alle costoro parole, domandate loro, che abbiano mai speso per tutti quei giubilei ed indulgenze, che dopoché sono in vita, hanno udito annunciare al mondo? Che abbiano speso almeno in quest’ultimi pubblicati dal Sommo Pontefice Pio IX, inchiudendovi fino questo del cinquantotto? Chi ha mai loro chiesto un soldo per l’acquisto di tali beni spirituali? Vi potranno forse rispondere che non se ne sono mai curati. Tal sia di loro; ma se avessero voluto curarsene, avrebbero forse dovuto spendere qualche cosa? Inoltre nel corso dell’anno per varie solennità sono concesse le Sante Indulgenze, e vengono dichiarate ai fedeli dai sacri pergami, e ne sono avvisati fin con tabelle appese sulle porte delle Chiese, ora chi ha mai dovuto spendere un soldo per entrare a parteciparne? Questi favori spirituali sono accordati ad innumerevoli Congregazioni e Fraternità stabilite in tutto l’orbe, sono annesse ad una immensità di opere pie, e chi ha mai sognato che per acquistarli si richiedesse altro che l’adempimento delle pratiche ingiunte all’uopo? Dove vanno dunque a parare tutti i guadagni di Roma, e tutte le vendite delle S. Indulgenze? Ma se non è così al presente, fu però cosi in passato, ripigliano essi, e le storie ci ricordano che fu appunto per occasione di quelle vendite che Martin Lutero tolse a protestare contro la Chiesa. Ed io vi risponderò che hanno letto molto male le storie quelli che hanno trovato in esse tutte queste falsità, mentre la Chiesa né in passato né al presente ha venduto mai Indulgenze. Nella Chiesa Cattolica, il vendere beni spirituali è stimato non solo un peccato gravissimo, ma poco meno che un errore in fede, mentre in più d’un caso furono trattati come eretici i Simoniaci che sono appunto quelli che si contaminano di questa iniquità: ed in ogni tempo la S. Chiesa li ha perseguitati. Quanto alle Indulgenze poi si sa con quanti decreti la S. Chiesa abbia divietato qualunque abuso che alcuno dei suoi ufficiali avesse potuto commettere. Quello che ha dato ad alcuni ignoranti l’occasione di errare ed a molti tristi quella di malignare, ecco qual è. La S. Chiesa quando accorda questi favori così eccelsi, quali sono le S. Indulgenze suole imporre qualche opera di pietà e di penitenza ai fedeli sia perché se ne rendano più degni, sia perché questa sia come un qualche compenso per quello che loro vien perdonato. Le opere di penitenza poi, secondo la dottrina delle Sante Scritture si riducono a tre principali, preghiera, digiuno. e limosina, e lo sanno tutti quelli che sanno i primi elementi della fede cristiana. Ora siccome la S. Chiesa non ha ancora creduto per le dicerie dei suoi nemici ed anche per le mormorazioni di alcuni suoi figliuoli disamorati di levar dal Catalogo delle buone opere la limosina, né di rinunziare al diritto che ha di prescriverla ai fedeli, quando lo giudica conveniente ingiunge questa per l’acquisto delle Indulgenze nello stesso modo con cui ingiunge la preghiera od il digiuno. Che se alcune anime vili ed interessate ne tolgono poi occasione di calunnia contro la Chiesa, è tutta loro malizia: mentre il modo onde vien prescritta in questi casi la limosina è così savio, e così disinteressato che per quanto altri aguzzi l’occhio non potrà mai trovare nulla a riprendere. – In due maniere per lo più essa la ingiunge, o lascia in piena nostra libertà il farla a chi ne pare, oppure determina qualche fine speciale. Nell’un caso e nell’altro essa non si occupa punto de’ nostri denari. Così abbiamo veduto più di una volta tra l’opere ingiunte per l’acquisto del Giubileo, essere imposta in genere qualche limosina ed allora i fedeli scelgono quei poverelli che vogliono, quelle vedove, quei derelitti verso i quali si senton mossi, e qui certo non v’ha neppur l’ombra di traffico. – In altre occasioni sono state stabilite limosine o pel mantenimento de’ luoghi di Terra Santa, sì cari alla pietà cristiana, o per la propagazione della S. Fede o per i Cristiani che gemevano sotto la schiavitù dei Turchi, o per l’erezione di Ospedali, o per altra opera somigliante, ed in queste occasioni il denaro era versato nelle mani di quelli cui si apparteneva, e neppure qui si può rinvenire ombra di traffico. La grande pietra dello scandalo fu la limosina imposta da Leone X per l’erezione del tempio di S. Pietro in Roma. Questa somministrò primamente a Martin Lutero l’occasione d’insorgere contro la Chiesa, e fino ai dì nostri è l’argomento perpetuo delle calunnie dei Protestanti contro di lei. Del resto eccovi in poche parole il fatto genuino. Il gran Pontefice Leone X per recare ad effetto il disegno di Giulio II di formare in Roma un tempio dedicato al Principe degli Apostoli, che fosse meno indegno della Maestà della Cattolica Chiesa, e per riuscir nell’opera invitò tutti i fedeli dell’orbe cattolico a concorrervi colle loro limosine. Però per renderli più efficacemente promulgò alcune Indulgenze da lucrarsi da coloro i quali avessero colle loro limosine cooperato ad un’opera sì bella di divin culto, e di cristiana pietà. Or che cosa può esservi qui a riprendere? O negare che la S. Chiesa abbia facoltà di concedere le Indulgenze: ma questo in sulle prime non osò farlo neppur Martin Lutero, mentre non insorse, se non contro certi abusi introdotti dai banditori di esse indulgenze, abusi condannati subito e repressi dalla medesima S. Chiesa; oppure affermare che non sia opera di divin culto l’erezione di un tempio alla maestà del Signore. Ma i Protestanti che fanno tanto strepito colle Scritture, dovrebbero pur sapere che Dio fin dall’antica Legge ebbe tanto a cuore la magnificenza del tempio che ne rivelò egli stesso tutto il disegno, che ne prescrisse da sé tutti gli ornamenti, che infuse perfino la scienza a due artefici affinché ne conducessero perfettamente alcuni dei lavori più delicati. Dov’è dunque il traffico, la vendita dei beni spirituali? Finché i Protestanti non dimostreranno che le cose siano passate altrimenti, noi potremo dir sempre, che quando vilipendono in proposito la S. Chiesa, essi sono o ignoranti di quel che dicono, o calunniatori che vogliono trarre in errore i semplici. E poiché siamo a parlare delle indulgenze aggiungerò qui un’altra calunnia che per occasione di esse i Protestanti scagliano contro la Chiesa. Dicono che la facilità di questi perdoni e giubilei agevola in gran maniera il peccato, poiché, qual ritegno avranno più i fedeli a commettere la colpa, quando sanno essere tanto facile l’impetrarne il perdono? Inoltre come non saranno più rimessi nelle buone opere i Cristiani, mentre per loro diventa, mercé le Indulgenze, sì piana la via del Cielo? Ora, miei cari, son proprio curiose queste difficoltà sul labbro dei Protestanti! Essi insegnano che non sono necessarie al tutto le buone opere, che per giungere al Cielo basta la fede, che un’anima più nera della pece, purché creda di essere giustificata davanti a Dio, con ciò solo è monda più della neve; dopo d’avere insegnate queste belle dottrine, vengono col collo torto a deplorare lo scemamento delle buone opere e la facilità del peccare. È proprio l’ipocrisia dei Giudei, i quali non avevano scrupolo di uccidere Gesù, ma avevano scrupolo d’entrar nel pretorio nel dì festivo. – Ma perché vediate anche più chiaramente come v’ingannano con queste lustre di pietà, richiamate al pensiero quel che insegna la Cattolica Chiesa al nostro proposito. Nel peccato vi sono due cose da attendere, vi è la colpa la quale offende il Signore, vi è la pena di cui si rende meritevole chi commette la colpa. Ora la colpa secondo la dottrina Cattolica non si perdona se non se per mezzo del Sacramento di Penitenza o ricevuto da chi ne ha la possibilità, o almeno desiderato da chi non ha il mezzo di accostarvisi se pure con questo desiderio congiunga la contrizione. La pena poi o in tutto o in parte si condona nello stesso Sacramento secondo il più od il meno di contrizione che altri vi apporta, oppure resta a scontarsi in questa o nell’altra vita con penalità temporali. Ora notate bene, l’Indulgenza non è poi altro che una remissione o parziale o totale della pena dovuta al peccato, ma non mai della colpa: e però l’Indulgenza non può aver luogo se non dopo già pianto, già detestato, già scancellato il peccato dall’anima. In qual modo dunque può l’Indulgenza dar coraggio a peccare? Immaginatevi che alcuno vedendo un nuotatore che dal lido si avanza in alto mare prendesse a dir seriamente che per ciò è quegli sì ardito a gettarsi in alto, perché  tiene poi in pronto una carrozza che lo condurrà alla riva, che cosa rispondereste voi? Fareste una risata solenne e gli direste che i cocchi non viaggiano sulle acque, che bisogna già essere a riva per potersene valere. Ma quando sentite un Protestante che vi dice sul serio che i Cattolici si fidano a peccare perché hanno pronta la remissione nelle Indulgenze voi dovete dire lo stesso. Con le Indulgenze non si rimettono i peccati, bisogna che questi siano già perdonati, perché possiamo con le Indulgenze ricevere la condonazione anche della pena ad essi dovuto. Epperò come quel nuotatore se non ha altri mezzi per tornare a riva che la carrozza può risolversi a far naufragio quando vuole, così quel peccatore che per salvarsi non volesse impiegare altro mezzo che le Indulgenze potrebbe risolversi ad andar dannato. Ora essendo tale la dottrina di S. Chiesa, che senso ha quella difficoltà che certi barbassori muovono con tanta sicumèra e presunzione? Nè è punto più vero quello che soggiungono che per occasione dell’Indulgenze si diminuiscono le opere buone: poiché per l’acquisto medesimo delle Indulgenze si prescrivono varie opere buone, come la preghiera, il digiuno, la limosina senza contare che è una opera molto buona l’acquisto stesso delle Indulgenze: poiché in esso vi è un esercizio di fede alla divina parola, vi è un atto sincero di umiltà nel riconoscersi meritevole di castigo dinanzi a Dio, vi è un desiderio di soddisfare la divina giustizia, vi è una glorificazione del sangue preziosissimo di Gesù in virtù del quale ci vengono condonate le pene da noi meritate. E ciò senza dir nulla dell’inculcare che fa perpetuamente la S. Chiesa che non ci contentiamo delle S. Indulgenze, ma che le congiungiamo con ogni sorta di buone opere. Convinti sopra di ciò non sanno tuttavia ancora ammutolire. Le Indulgenze dei Cattolici, ripigliano, fanno torto alla Redenzione di Nostro Signore Gesù Cristo. Ed in qual modo? Doppiamente, rispondono, e perché i Cattolici richiedono in esse che si facciano certe opere ingiunte quasi esse fossero ancor necessarie per la piena remissione delle colpe dopo la Redenzione, e poi perché i Cattolici alle soddisfazioni di Gesù aggiungono anche quelle della Madonna e dei Santi, quasi le prime non bastassero da sé sole. Ebbene, miei cari, io mi contento di rispondere a tutte le costoro difficoltà perché mi danno campo di spiegarvi meglio la dottrina di S. Chiesa. – In primo luogo avete da sapere che in ogni opera buona che noi facciamo, vi è un doppio valore: vi è il merito con cui acquistiamo la vita eterna, vi è la soddisfazione per cui purghiamo le nostre colpe. Il merito nasce da ciò che sono fatte per movimento e principio di carità; la soddisfazione da ciò che sono a noi laboriose e penali. Così lo insegna chiaramente la S. Scrittura, la quale ci fa sapere a cagion di esempio, che la limosina ci libera dal peccato, che lo estingue (Tob. IV; Eccli. III), che è quanto dire che soddisfa per esso, e nello stesso tempo che come opera buona e grata a Dio ci merita la vita eterna, come insegna Nostro Signore dicendo: Abbiatevi il Regno che vi fu preparato: poiché ebbi fame, e mi deste a mangiare, ebbi sete e mi deste a bere (Matth. XXV). – In secondo luogo è da sapere che il merito è personale e proprio ad ognuno sì fattamente che non può cedersi a chicchessia, ed a questo risponderà il grado di gloria che ognuno avrà in Cielo: laddove la soddisfazione che non è poi altro che il pagamento di un debito può impiegarsi anche in favore di un altro. In quel modo che può un uomo ricco pagare per un suo amico i debiti che gl’impediscono il conseguimento di un pubblico impiego senza che possa tuttavia conferirgli il merito per quell’impiego. – In terzo luogo è da sapere che nella Chiesa il tesoro di queste soddisfazioni è infinito: perocché la passione di Gesù che principalmente Io forma è di valore infinito. Il valor della soddisfazione si toglie dalla dignità di chi soffre allo stesso modo che la gravità dell’offesa si toglie dalla dignità di chi è offeso. Ora essendo Dio quello che sofferse nella sua carne mortale, è d’infinita virtù la sua passione: tantoché essa varrebbe non solo per la salvezza di un mondo, ma per mondi innumerevoli se tanti ne esistessero e ne abbisognassero. – A formare tuttavia questo tesoro vi concorrono eziandio le soddisfazioni della Vergine e dei Santi che patirono più di quanto che fosse necessario allo sconto dei propri peccati. I Protestanti non possono soffrire che ciò si dica: ma  si turino pur gli orecchi che ciò non conta, perché è evidente che è cosi. La B. Vergine certamente non commise mai peccato di alcuna sorta né mortale né veniale, eppure sofferse smisurati dolori ai pie della Croce. S. Giovanni Battista fu santificato sino dal sen materno, eppure praticò durissime austerità in vita, e poi diede il sangue per la giustizia. Gli Apostoli similmente e tanti Santi Martiri di vita illibatissima soffersero pene atroci prima della morte, e pure la sola morte sarebbe stata bastevole secondo la fede a soddisfare per tutte le loro colpe. Similmente tanti santissimi penitenti, e Vergini, e Confessori congiungendo una penitenza asprissima con una vita molto innocente più soddisfecero di quello che fosse richiesto ai loro falli. Certamente il S. Giobbe diceva, volesse il Cielo che le mie colpe fossero bilanciate colle pene che io soffro, come queste apparirebbero ben più gravi di quelle(Job. VI, 1). Tutto ciò èinnegabile. Ora di tutte queste soddisfazioniviene a formarsene come un tesoro d’immensovalore, che è poi quello che la S.Chiesa ci applica colle indulgenze.Domando io pertanto in primo luogoche torto fa a Gesù che ci si applichino lesoddisfazioni di Gesù per isconto dei nostripeccati? Anzi quale onore più grande puòfarsi alla Redenzione che quello di credereche il Sangue prezioso di Gesù ci ottengail perdono non solo della colpa, ma ancordella pena dovuta ai nostri peccati? Ma, dicono, i Cattolici vogliono che per ottenere questo perdono, noi ci mettiamo anche le nostre opere. O ascoltate dunque una volta per sempre, ed intendete bene la verità. In tutto quello che noi facciamo per vantaggio delle nostre anime in tutto trovano i Protestanti che noi facciamo un affronto a Gesù. Se ascoltiamo la S. Messa dicono che facciamo torto al Sacrifizio della Croce, se facciamo opere buone dicono che rendiamo inutili quelle di Gesù, se invochiamo la Madonna ed i Santi dicono che li anteponiamo a Gesù, se facciamo le opere ingiunte per l’acquisto delle S. Indulgente trovano che rendiamo inutile la Passione di Gesù. Ma il vero volete sapere qual è?La verità è che essi disonorano ed insultano altamente Gesù con tutte queste ragioni inique perché con esse disconoscono al tutto quel che sia la Redenzione. Imperocché la Redenzione che Gesù ha fatto di noi non consiste già in questo che abbia dispensato noi dal fare la parte nostra. Nulla meno. Il benefizio infinito della Redenzione consiste in ciò, che mentre noi non potevamo senza di essa far nulla che ci valesse a vita eterna, non credere, non sperare, non pentirci dei nostri peccati, non amare il Signore come si conveniva, Gesù ci ottenne col suo Sangue prezioso la grazia immensa di poter far tutto ciò in modo che ci valesse a salute. Ma dopo fattaci questa grazia, non solo non esclude la nostra cooperazione, ma la vuole, la comanda, la esige a qualunque costo. I santi Vangeli ci intimano che dobbiamo far penitenza, che dobbiamo digiunare, che dobbiamo pregare, che dobbiamo partecipare ai Sacramenti, che dobbiamo esercitare coi prossimi le opere di misericordia ed andate dicendo. E Gesù Cristo nel dì del giudizio allegherà contro i reprobi per condannarli la mancanza delle buone opere. come per rimunerare gli eletti addurrà qual titolo l’esercizio delle medesime. Bisogna aver perduto il senno per non intendere e peggio per impugnare questa verità. Che cosa direste voi di un contadino il quale sul pretesto di non fare torto alla divina Providenza che l’ha da sostentare non volesse più arare la terra, non seminare, non incalzare, non mietere, non riporre le sue provigioni? Direste che è un pazzo. La Providenza divina consiste in ciò che ci mantiene le forze per lavorare, che ci manda le piogge opportune, che ci fa sorgere il sole, i venti, e quanto è necessario al raccolto, ma non esclude, anzi suppone, anzi richiede anche il nostro lavoro, la nostra opera. Ora dite lo stesso nel nostro caso. La Redenzione di Gesù ci ha procurati tutti i mezzi necessari per fare il bene che senza di essa mai non avremmo avuti, ma non ci viene poi applicata se noi non facciamo anche la porte nostra. Volete saper chiaro una volta dove vada a parare quel sì iniquo magnificare che fanno i Protestanti la Redenzione? Ah non è amore verso Gesù, non è stima, non è riverenza verso il Sangue divino, è un pretesto che essi tolgono per esimersi da ogni obbligo di far penitenza, e di esercitarsi in opere buone. Ma il congiungere colle soddisfazioni di Gesù anche quelle della Madonna e dei Santi, non è poi il fargli qualche torto? Niente affatto, miei cari. Imperocché se noi le aggiungessimo quasi non fossero sufficienti quelle di Gesù, certo sarebbe un affronto; ma la Cattolica Chiesa mai non ha fatto questo, e ne avrebbe orrore. Le aggiunge perché riescono d’immensa gloria e di splendido trionfo allo stesso Gesù: mentre da esse si vede quel che Gesù ha potuto fare con la sua grazia nei suoi servi che li ha di tanto aiutati, di tanto fatti degni che potessero accumulare sì gran capitale di soddisfazioni che bastasse non solo a loro ma ancora ai loro fratelli. Se vedeste un Imperatore che ha dintorno tanti scudieri e sì ricchi che possano fare anche ad altri splendide largizioni, direste mai che questi con la loro grandezza fan torto all’Imperatore? Tutto all’opposto: perocché questi mostrano anzi più grande quel Monarca che ha potuto far essi sì grandi. Di che vi parrà anche chiaro come i Cattolici riconoscano quella gran verità che Gesù Cristo è l’unico nostro Redentore, l’unico Mediatore, il Salvatore unico di tutti gli uomini. Imperocché noi confessiamo con gran giubilo del nostro cuore che solo Gesù ci ha riconciliati col Padre celeste, solo Gesù ci ha meritate tutte le grazie, solo Gesù ci aiuta a far le opere buone, solo Gesù dà valore alle nostre soddisfazioni. E se in qualche cosa concorrono anche i Santi o intercedendo per noi, o facendoci parte delle loro soddisfazioni, tutto è vanto, onore, gloria, opera di Gesù il quale dopo di averli colle sue grazie fatti degni e di pregare e di offrire qualche soddisfazione per noi, si compiace nella sua misericordia di accettar quell’offerte e quelle preghiere. Ma finalmente, ripigliano, sia pure anche solo una pena temporale quella che si rimette con le Indulgenze, con quale autorità però la Chiesa esercita un tal diritto? Io vi potrei rispondere che se la Chiesa l’esercita, è questa una prova indubitata che ne ha l’autorità, perocché essendo essa infallibile non può eccedere nei suoi diritti né  usurparsi un’autorità che non possieda. Tuttavia eccovi un’altra risposta. Vi ho detto sopra che nel peccato vi è da considerare la colpa e la pena. Ora dovete sapere che la S. Scrittura c’insegna che dopo rimessa la colpa non è sempre rimessa anche la pena. Cosi a cagion di esempio fu perdonato a David il suo peccato, ma tuttavia gli rimase a portar la pena della morte del suo figliuolo. Così furono perdonate ai Giudei le Idolatrie ed infedeltà che avevano commesse nel deserto per le preghiere di Mosè, ma tuttavia fu data loro per pena la morte temporanea nel deserto, di che si vede manifesto che nel peccato oltre il reato della colpa v’è eziandio quel della pena che non sempre si rimette col rimettersi della colpa. Appunto come avviene talvolta tra noi che alcuno il quale ha ricevuto dal suo prossimo danni ed ingiurie accorda il perdono al suo offensore, ma vuole però che gli rifaccia i danni che gli ha recati. Ora qua! è la potestà conferita da Gesù Cristo alla sua Chiesa? Forse soltanto quella di rimettere i peccati? No. Gesù Cristo dice ripetutamente che qualunque cosa essa legherà, qualunque scioglierà sarà sciolta o legata in Cielo. Non mette limiti, non appone condizioni: e siccome per l’applicazione dei meriti di Gesù rimette la colpa, così per l’applicazione delle soddisfazioni di Gesù rimette la pena, la quale è ancor essa un legame verissimo dei fedeli. E così di fatto l’ha poi sempre inteso e praticato la S. Chiesa. L’Apostolo S. Paolo rimette all’incestuoso sì noto di Corinto una tal pena in nome di Gesù Cristo come egli parla (2. Cor. II).I santi Martiri nei primi tempi, come il testificano S. Cipriano e Tertulliano, chiedevano, ed impetravano spesse volte dai Pastori legittimi della Chiesa che rimettessero una tal pena a quegli infelici che per timore dei tormenti avevano rinnegata la S. Fede nel tempo della persecuzione, e che poi erano tornati a penitenza: nei tempi susseguenti il Concilio di Nicea, quello di Ancira, quello di Laodicea suggeriscono il modo più prudente di accordare codeste indulgenze. Dai tempi di S. Gregorio in poi è sì noto l’uso delle Indulgenze che senza un’audacia estrema non può mettersi in dubbio da verun protestante. Ma v’è ancora più di tutto ciò. I Concili generali che sono la voce infallibile di tutta la Chiesa le autenticano in molti modi, il Concilio Claromontano riceve le S. Indulgenzedal Papa Urbano II. Il Concilio Lateranese da Pasquale II. Nell’altro Concilio Lateranese ed in quel di Lione mentre si riprendono quelli che abusavano a fini mondani delle Indulgenze se ne conferma il loro valore. In quel di Costanza si condanna l’errore dell’eretico Wicleffo che le impugnava. In una parola la S. Chiesa fino ai dì nostri ha sempre posseduta una tale autorità, e l’ha sempre esercitata. Ecco dunque dove sta fondato il diritto di S. Chiesa. Sta fondato sulle Scritture, sta fondato sulla Tradizione, sta fondato sull’infallibilità che Gesù ha concesso alla sua Chiesa, mercé la sua assistenza divina. E tutto ciò basti in risposta a quelli che disconoscono i diritti di S. Chiesa. Voi però non vi contentate di mantenerli con tutta la fermezza di vostra fede, passate anche ad accrescere sempre più in voi la stima di sì gran beni, ed abbiate sollecitudine quando la S. Chiesa ve li offre di acquistarli. I veri fedeli in ogni tempo guardarono sempre carissime le Indulgenze. Molti gran Santi della Chiesa fecero più volte il viaggio di Roma e della Palestina per guadagnare questi spirituali tesori. Quando i Sommi Pontefici incominciarono a pubblicare periodicamente ogni cento, e poi ogni cinquanta,e finalmente ogni venticinque anni i Giubilei, tutto il popolo Cristiano se ne commosse, e v’ha memoria che in certi tempi fino a centomila fedeli entravano ed uscivano ogni giorno dalle porte di Roma venuti da tutta la terra per acquistarli. Questa fu la Fede dei nostri Padri, questa sia la nostra ed a suo tempo si vedrà quanto si sia fidato sicuramente chi riposò sugli insegnamenti di S. Chiesa.