IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (1)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (1)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

PROLOGO

Molti sono i titoli di Padre Henry Ramière S.J. che meritano di essere oggetto della nostra conoscenza e del nostro riconoscimento: egli potrà essere a voi noto come insegnante, come predicatore, come scrittore, come pubblicista, come uomo d’azione. E in tutte queste sfaccettature merita di essere conosciuto dal popolo cristiano, perché il p. Ramière, le ha arricchite proclamando le bontà di Dio e spingendo ad amarle ed a viverle. – P. Henry Ramière nasce a Castres, in Francia, il 10 luglio 1821. Da piccolo ha già un vivo desiderio di diventare Sacerdote. I suoi genitori ferventi Cristiani, vedendo l’atmosfera laicista prevalente nelle scuole superiori francesi, lo inviarono, all’età di 11 anni, in una scuola che i Gesuiti gestivano a Pasajies, in Spagna. Ma l’anticlericalismo non era esclusivo della Francia. Nel luglio 1934, i Gesuiti furono costretti a chiudere la scuola per ordine del governo. Egli termina così i suoi studi nella cattolica Friburgo in Svizzera, fino al compimento del suo diciassettesimo anno. – Durante tutto questo tempo, si mantiene vivo il suo desiderio del Sacerdozio, tanto da realizzarlo diventando membro della Compagnia di Gesù. Per questo, prima dei 18 anni, entra nel noviziato che i Gesuiti tenevano ad Avignone. Enrico segue il programma di studi degli studenti della Compagnia dell’epoca, in varie città della Francia. – All’età di 26 anni viene ordinato sacerdote a Vals-près-le-Puy nel 1847. Non è da segnalare niente che sia degno di nota in questi anni di formazione, tranne due cose: in primo luogo, la brillantezza con cui ha sempre affrontato i vari studi: scienze umane, filosofia, teologia; in secondo luogo, che una buona parte di coloro che costituivano il corpo studentesco gesuita di Vals-près-le-Puy costituivano la culla dell’Apostolato della preghiera. – Infatti, è lì che è nato il suo culto, da una occasione provvidenziale, dovuta alla fervorosa pratica del p. Gautrelet, direttore spirituale: pratica illustrata agli studenti gesuiti il 2 dicembre 1844, durante il vespro di San Francesco Saverio, patrono delle Missioni. L’idea centrale di quella pratica era che non solo venivano salvate le anime nel predicare essi nelle missioni, ma offrendo la preghiera, con questa intenzione, e tutti gli atti della vita a Dio, in unione con Gesù Cristo Redentore,. L’idea era profondamente radicata in quella gioventù, tanto che da lì si divulgò ad altri seminari, studentati ed anche a diversi conventi religiosi. Questa era l’atmosfera che Ramière viveva e questo lo spirito che ha impregnato il suo cuore. Completati gli studi e ordinato Sacerdote nel 1847, Ramière viene delegato dai suoi superiori a compiti di natura intellettuale. Questo è logico, dato il talento che egli ha dimostrato già durante gli studi, il suo amore per la sapienza e la sua facilità nello scrivere: è così nominato professore di Teologia nel proprio studentato di Vals, poi passa a Tolosa per collaborare alla fondazione dell’Università Cattolica e collabora anche con la Rivista Estudes. – Partecipa al Concilio Vaticano in qualità di consigliere teologico di alcuni Vescovi francesi. Infine, torna alla cattedra di Vals, nella quale rimane fino a poco prima della sua morte, avvenuta nel 1884. – Si potrebbe dire però che il momento cruciale della sua vita sia l’anno 1860 quando viene nominato Direttore Generale dell’Apostolato della Preghiera. – Il p. Ramière congiunse nella sua persona due qualità che di solito non si trovano nello stesso uomo: quella di essere un intellettuale e nel contempo un uomo d’azione. L’apostolato della preghiera è stato il lavoro che gli ha permesso di sviluppare a suo vantaggio questi due elementi, queste due caratteristiche della sua personalità. Quando p. Ramière entra a dirigere l’Apostolato della Preghiera, questa era un’opera nascente. Era un movimento mosso da grande entusiasmo, ma di nicchia e, si potrebbe dire, elitario: dal 1844 si diffonde specialmente nei seminari, negli studentati dei religiosi e nei conventi. Quando p. Ramière muore nel 1884, lascia l’Apostolato della preghiera con sedi nella maggior parte delle nazioni dell’Europa e dell’America ed in molti Paesi delle missioni e, cosa più importante, i loro centri non annoverano solo seminari e conventi, ma una moltitudine di parrocchie, di scuole ed ogni altro tipo di centri secolari. Ramière è il grande organizzatore dell’Apostolato della Preghiera e il suo diffusore in tutto il mondo. Uno strumento decisivo di questa diffusione è stata la Rivista “Il Messaggero del Cuore di Gesù”. Egli fonda questa rivista che viene presto tradotta in altre lingue e si impianta in molti Paesi. L’Apostolato della Preghiera lo si deve non solo a p. Ramière, ma anche a p. Dehon, sia nell’enorme diffusione che nella sua organizzazione. Egli ne è stato anche il suo grande teologo: è il teologo che come nessun altro ha sviluppato le basi dottrinali su cui si fonda questo movimento. Spiegare in dettaglio le argomentazioni teologiche e spirituali con cui Padre Ramière fonda e motiva questo lavoro, supera i limiti di questa prefazione. Ma è proprio la lettura di questo libro, che le mostrerà al lettore. Qui possiamo solo affermare due idee assiali che P. Ramière pone come caratteristica dell’Apostolato della preghiera: la devozione al Cuore di Gesù e il suo Regno sociale. – La devozione al Sacro Cuore era stata ereditata da P. Ramière dalla Compagnia di Gesù. Ricordiamo che nel diciassettesimo secolo Santa Margherita aveva detto che il Cuore di Gesù affidava ai Padri della Compagnia il compito di diffondere questa devozione e la sua pratica. I Gesuiti erano oramai decisi ad assumersi questo “munus suavissimum“, questa missione molto delicata. Inizialmente vi si dedicarono particolarmente alcuni Gesuiti, poi furono i superiori stessi della Compagnia ad assumersene l’impegno. Sia P. Juan Roothaan che P. Pedro Beckx, entrambi Generali della Compagnia di Gesù ai tempi di P. Ramière, scrissero numerose lettere a tutta la Compagnia, esortandola alla pratica ed alla propagazione della Devozione al Cuore di Gesù. Infine, l’autorità suprema e unica della Congregazione Generale (con potere legislativo per l’intero Ordine), riunitasi nel 1883 per scegliere il successore di P. Beckx, emanò questo decreto: « La Compagnia di Gesù accetta e riceve con grande coraggio, traboccante di gioia e di gratitudine, l’incarico soavissimo che le è stato affidato dallo stesso N. S. Gesù Cristo di praticare, incoraggiare e diffondere la Devozione al suo Divinissimo Cuore ». Qui culminava un processo di impegno progressivo della Compagnia verso la devozione al Cuore di Gesù, quando essa assunse appunto questo « soavissimo incarico », con carattere vincolante ed ufficiale. Enrico Ramière si immerge in questo processo e non lo vive passivamente, bensì come uno dei suoi protagonisti più importanti. Egli comprende che lo stesso Apostolato della Preghiera deve praticare questa devozione e diffonderla. E, attraverso il suo duro e fecondo lavoro in tutto il periodo della sua direzione, cerca e riesce a radicare al centro della spiritualità dell’Apostolato della Preghiera, la devozione al Sacro Cuore di Gesù. La seconda idea che P. Ramière propone come cardine dell’Apostolato della Preghiera, è quella del Regno sociale del Cuore di Gesù. P. Ramière è ben consapevole che l’uomo ha un pensiero intrinseco secondo il quale non riesce a concepire questa dimensione sociale se non sia saldamente radicata nel cuore umano. Questo accade pure nelle cose puramente umane. I valori umani non si radicano negli uomini se non mettono radici nella società. Il paese, la famiglia, l’arte, la scienza e tanti altri valori umani, se mettono radici nel cuore degli uomini, avranno “ipso facto” una proiezione sociale. Ora, se è così nell’ordine puramente umano, questo ancor più avviene particolarmente nell’ordine soprannaturale. Perché in questo ordine tutto dipende dal mistero di Cristo, e Cristo forma un’unità, non solo con ognuno di quelli che ricevono la sua grazia, ma con tutto l’insieme di essi: è il mistero del Corpo mistico o del Cristo integrale. P. Ramière ha catturato e vive profondamente questo mistero. Questo è il motivo per cui P. Ramière si impegna nei suoi scritti a diffondere la dottrina del Corpo mistico di Gesù Cristo, un Corpo il cui unico centro motore è il Sacro Cuore di Gesù. È significativo che abbia messo come intestazione delle sue lezioni su « Il regno di Gesù Cristo nella storia » il noto motto: « Ricapitolare tutte le cose in Cristo ». Si può dire che l’enorme lavoro apostolico di P. Ramière nel suo inquadramento teologico, come direttore generale dell’Apostolato della preghiera, sia tutto diretto a compiere questa “ricapitolazione” delle persone e dei popoli in Cristo e nel suo Sacro Cuore. – Anche qui devo ripetere che la prova di quanto detto non compete all’autore del prologo, ma all’autore del libro: il lettore infatti ve la troverà esposta nella lettura. – Questo libro è un florilegio, una selezione di articoli che P. Ramière ha pubblicato nel corso dei suoi anni come Direttore dell’Apostolato della Preghiera. La maggior parte di questi articoli. egli li aveva pubblicati su “Il Messaggero del Cuore di Gesù” che, come sappiamo, era la rivista da lui creata quale organo dell’Apostolato della Preghiera. Potrebbe sembrare che questa concezione del libro, nella sua stesura, debba nuocere alla sua unità, poiché il suo contenuto è stato diluito nel corso degli anni e raccolto in circostanze diverse. Ma non è così! E così non è, perché precisamente, come detto, l’attività apostolica di P. Ramière, attraverso lo spazio e il tempo, ha una sua unità: proclamare che il Cuore di Gesù è venuto per salvare il mondo ricapitolando tutte le cose nel suo amore. Questo è il “leitmotiv” del libro che avete tra le mani: « Il Cuore di Gesù e la Divinizzazione del Cristiano ». Si può dire che il coronamento di questo enorme sforzo di P. Henrie Ramière nella diffusione del Regno particolale e sociale del Cuore di Gesù, sia stata la consacrazione del genere umano a questo Cuore divino, realizzata da Papa Leone XIII nel 1899. P. Ramière, che aveva lavorato così duramente per promuoverlo (anche prima che il Pontefice precedente, Pio IX, vi aveva lavorato a sua volta), lo vide dal cielo. Egli era morto nel 1884. Una settimana prima di morire, aveva scritto nel diario spirituale: « Più che mai devo sforzarmi di santificarle [le malattie] attraverso l’unione, la più costante possibile, al Cuore di Gesù ». Questa è la bella conclusione di una vita preziosa, una vita trascorsa per una grande causa. Di questa causa del Cuore di Gesù, caro lettore, padre H. Ramière parla in questo libro. [Prefazione dell’edizione spagnola di P. Pedro Suñer S. J.]

INTRODUZIONE

La divinizzazione dei figli degli uomini per mezzo del Figlio di Dio fatto uomo.

« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Giov. I, 1-4). Con queste parole San Giovanni, l’evangelista del Cuore di Gesù, inizia la sua prima lettera. Queste parole sono collegate a quelle che l’Apostolo stesso mette all’inizio del suo Vangelo: « In principio era il Verbo, e il Verbo era in Dio, e il Verbo era Dio. In Lui era la vita » (Giov. I, 5). Questi due inizi, uno complementare all’altro, pongono davanti ai nostri occhi i due grandi atti del dramma divino. Il primo ha per teatro il seno di Dio. Nel suo Vangelo, l’Aquila di Patmos ci eleva ad un’altezza sublime per farci contemplare l’origine della gloria e della felicità che siamo destinati a possedere durante la vita futura. Ma, nella sua lettera, ci mostra come trasferita sulla terra la stessa vita e la stessa gloria che in cielo sfugge al nostro sguardo. Sì, la vita eterna che esisteva nel seno del Padre si è manifestata ai nostri sensi. Con i nostri occhi l’abbiamo vista e toccata. Eppure si è data a noi e sta a noi condividere le sue ricchezze con Dio Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo. Unendoci a questo Figlio unigenito (1 Gv., V 20), possiamo diventare, non solo di nome, sin da ora, figli di Dio (1 Gio. III, 1). Il messaggio che gli Apostoli dovevano annunciare a tutti i popoli della terra è la divinizzazione dei figli degli uomini attraverso il Figlio di Dio fatto uomo. Ecco il segreto comunicato all’amato Discepolo mentre questi riposava con la testa nel cuore del Salvatore. Non c’è da stupirsi che, ammesso al santuario dove il mistero ha avuto luogo, fosse a lui rivelato più chiaramente che agli altri Evangelisti. Con maggior verità più degli altri egli può dire: « La vita eterna che era nel seno di Dio, noi l’abbiamo vista e toccata e veniamo, come testimoni, a mostrarvi il suo splendore ».

Questo è un argomento di particolare attualità nei nostri tempi bui.

Abbiamo appena sentito San Giovanni promettere ai Cristiani la gioia senza misura. Per meglio comprendere il messaggio che stiamo per ripetere dobbiamo domandarci: In quali circostanze egli parlava? Nei giorni peggiori della tirannia romana, durante le persecuzioni di Nerone e Domiziano, quando il mondo non offriva ai discepoli di Gesù Cristo, altro che  roghi e bestie selvagge. A questi candidati al martirio l’Apostolo prometteva la pura gioia. Da noi altri dipende il godere della stessa gioia, se vogliamo cercarla nella perfetta unione con Dio. Cosa importa che le nazioni ruggiscano di nuovo e complottino vane congiure? Che differenza fa che le società moderne crollino per essere state fondate fuori dalla pietra angolare di Gesù Cristo? Tutto è permesso da Dio; ed Egli lo permette perché ci si incammini verso la realizzazione dei suoi piani e verso l’opera della nostra divinizzazione. Volgiamo i nostri occhi e la nostra speranza al Cuore di Gesù, la vera vita di ogni Cristiano. È Lui che riversa incessantemente in tutte le nostre membra la linfa vitale che impedisce loro di marcire. Candidati fin dalla nostra nascita alla morte, non potremmo resistere ai suoi continui attacchi se il nostro cuore non combattesse senza sosta. Gli altri organi hanno i loro momenti di riposo. Solo il cuore è sempre in movimento. Se mentre dormiamo egli si addormentasse, noi passeremmo dalle braccia del sonno a quelle della morte. La funzione propria del cuore è quella di conservare la vita. Pertanto, non vi è alcun dubbio che il nostro Salvatore, esortandoci ad onorarlo sotto l’emblema del suo Cuore Divino, voleva farci capire che Egli è l’inizio della nostra vita soprannaturale. Questo è il vero senso di devozione al Sacro Cuore. Ecco perché questa devozione deriva dall’essenza stessa della Religione cristiana. Cosa ci insegna essa? Che, in virtù dell’Incarnazione del Figlio di Dio, tutti gli uomini e tutte le donne sono chiamati a vivere una vita che sia veramente divina, il cui principio è l’Uomo-Dio. Questo, dopo averli santificati sulla terra, li farà godere in cielo della felicità di Dio: dogma capitale, compendio di tutti gli articoli della nostra fede su cui si fonda l’intera morale cristiana, la cui realizzazione deve compiersi attraverso le pratiche del culto. Peccato che questa sublime dottrina sia compresa da molti Cristiani solo in parte.

Dogma sublime, capitale, consolante, incoraggiante.

Quanti Cristiani invece di comprendere che cosa sia questa vita divina, che emana il Cuore di Gesù, vedono in essa solo un modo di dire! E’ stato già due secoli or sono che Cornelius a Lapide deplorava questo oblio: « Sono in pochi a sapere quello che ho appena dimostrato di questo beneficio, per non parlare del modo di apprezzarlo nel suo giusto valore; non c’è nulla, tuttavia, che si debba ammirare e venerare in sé ogni Cristiano, né con più cura lo debbano inculcare i dottori e i predicatori, affinché i fedeli sappiano di portare Dio stesso nel proprio cuore e comprendano la necessità di agire sempre divinamente, in compagnia di Dio, dell’ “Ospite Divino” ». Questa vera unione delle nostre anime con Gesù Cristo per mezzo dello Spirito di Dio, questa sostanziale inabitazione dello Spirito Divino in noi, questa vita divina che ci è stata donata nel Battesimo ed accresciuta dagli altri Sacramenti, non è una vana verbosità. Al contrario, è la più reale delle realtà! Tra i dogmi, non ce n’è altri di più sublimi e degni di meditazione. Cosa c’è di più grande che avere veramente Dio in se stesso, essere cioè veri “teofori” (dal greco: « portatori di Dio »), e di più consolante che vivere della vita di Dio, che in cielo costituisce la felicità degli eletti? Cosa c’è di più incoraggiante che avere a propria disposizione lo Spirito di Dio, cosa questa che ha dato ai Santi la forza di praticare tante mirabili virtù, e con la quale Gesù Cristo stesso ha operato i suoi miracoli? Che satana si adoperi per farci dimenticare questa dignità incomparabile, lo si capisce. Ma non si riesce a comprendere come mai noi, che Dio ha chiamato a condividere la sua divinità, stimiamo così poco ciò che dovrebbe essere l’oggetto principale dei nostri pensieri e causa della nostra gioia.

Dogma insegnato dal Signore e dagli Apostoli.

Non possiamo attribuire questa dimenticanza a Dio, perché non c’è alcun dogma della nostra fede che il Signore ed i suoi Apostoli non ci abbiano insegnato e con tanta insistenza. Il mistero della nostra unione con Lui è il tema principale delle parole che il Maestro rivolge ai suoi discepoli durante l’ultima cena. Fino ad allora Egli non poteva parlare con loro se non in parabole; ora però li prepara, con la partecipazione al Sacramento del suo amore, perché ascoltino il grande segreto del suo amore; essi devono imparare che non sono che una cosa sola con Lui e che l’unione deve diventare così intima, da assomigliare a quella del Padre e del Figlio, in una sola natura. San Paolo, in tutte le sue epistole, espone questo mistero dell’amore divino. Lo presenta in tutti i suoi aspetti, stabilisce su di esso i suoi insegnamenti. Da questo principio egli deduce le sue istruzioni morali. Gesù Cristo è il nostro capo e noi siamo i suoi membri. Noi siamo, per la incorporazione nel Figlio unigenito del Padre celeste, i veri figli non fittizi di Dio. Il Salvatore ci ha dato il suo Spirito, che abita veramente in noi, ci insegna a pregare come Gesù Cristo, ci riempie dei sentimenti di Gesù Cristo, ci fa vivere della sua vita ed un giorno ci farà resuscitare, perché possiamo godere della sua eterna gloria. Perciò, dobbiamo essere imitatori di Gesù Cristo, fuggire dal peccato, amarci gli uni gli altri, glorificare in ogni cosa il Dio che portiamo sempre dentro di noi.

Come i primi Cristiani ben comprendevano questa dottrina.

I primi Cristiani avevano compreso molto bene questa dottrina. A questo consolante dogma ricorrevano quando dovevano confessare la loro fede o difenderla dai loro nemici. Non avevano paura di dare a se stessi, come faceva San Ignazio, il nome di Teòforo, o di dichiarare, come Sant’Agnese, che avevano Gesù Cristo veramente presente in se stessi. Questa presenza divina li rendeva più forti dei tormenti. – Gli scritti dei primi Padri sono pieni di questa dottrina. Ma nel quarto secolo essa è stata sviluppata con incomparabile chiarezza, quando si cercò si oscurare, con l’eresia di Macedonio, il dogma della divinità dello Spirito Santo. I dottori che Dio suscitò per combattere questa eresia: San Basilio, San Gregorio Nazianzeno, Didimo di Alessandria e soprattutto San Cirillo di Alessandria, traggono i loro argomenti principali dalla presenza reale nelle anime dello Spirito Santo, e degli effetti divini che Egli opera in esse. Come può, uno che non è Dio divinizzare le anime, farle vivere della vita divina, per quanto separate l’una dall’altra? Per dimostrare la divinizzazione che lo Spirito di Gesù Cristo produce in noi, essi si servirono delle comparazioni più vivide. Né l’unione del vino con l’acqua, né quella del profumo con il telo da esso penetrato, né quella del fuoco con l’ascia di ferro, né quella di due pezzi di cera fusi insieme, sembrava loro abbastanza intima da illustrare l’intimità e l’efficacia dell’unione dello Spirito Santo con l’anima del Cristiano (altri scritti nei quali la dottrina è sviluppata sono del Petau – in De Trinitate, l. VIII, del P. Tomassin, in De Incarnatione, l. VI, dello stesso P. Ramière in “le Speranze della Chiesa“, del P. De Segur e di tutta la scuola spirituale francese di San Sulpizio del XVII secolo, senza dimenticare i riferimenti espliciti di S. Agostino ed ovviamente di San Tommaso, così ben illustrati dal P. Froget in “Inabitazione dello Spirito Santo“, etc. – ndr.). – Questo insegnamento, radicato nella tradizione cristiana, è stato sempre perpetuato nella Chiesa, anche se non occupa nelle opere dei teologi più moderni il posto che gli è stato dato dagli antichi dottori. Il motivo è abbastanza chiaro: nell’antichità la teologia mistica non si distingueva dalla teologia dogmatica e dall’Apologetica, che solo in seguito si separarono. I teologi scolastici, si erano limitati a spiegare i dogmi della fede più esposti agli attacchi dell’errore. E così il dogma della vera unione di Gesù Cristo con i Cristiani venne riservato ai teologi ed ai Santi mistici. – Ma è giunto il momento in cui Gesù Cristo vuole riportare alla luce questo mistero d’amore e dargli nuovamente, nell’insegnamento dei sacerdoti e dei fedeli, l’importanza capitale che sembrava essere andata perduta.

Rinnovo dell’importanza di questo dogma a causa del Giansenismo.

All’inizio del XVII secolo, satana si  preparava ad un doppio attacco che doveva superare per violenza tutte gli attacchi del passato. Da un lato, con il Giansenismo, esso voleva distruggere la pietà, esagerandola, e rendere impossibile l’unione dell’anima con Dio, mutando l’umiltà cristiana in disperazione. Dall’altro lato, con il Razionalismo, cercava di distruggere la fede e di esaltare la ragione dell’uomo a tal punto da minare l’unione a cui Dio lo destinava. Ma Gesù Cristo ha rivelato a Santa Margherita Maria, la devozione al suo Cuore Divino, suscitando una coraggiosa falange di santi Sacerdoti ai quali dà la missione di manifestare il dogma della sua unione con i Cristiani. Sembrava che il mistero dell’amore divino dovesse irradiare i suoi raggi ardenti su tutto il clero francese, e attraverso il clero sui fedeli, poi attraverso la Francia su tutto il mondo cristiano. Ma l’eresia l’ha impedito. I fedeli, il clero e alcuni ordini religiosi si sono lasciati contaminare dai nuovi errori. La dottrina tanto cattolica della reale inabitazione dello Spirito Santo nelle anime è stata discreditata dall’abuso che il Giansenismo ne ha fatto. Il grande movimento di rinnovamento religioso sopravvisse a malapena ai suoi promotori. Alla fine di un secolo, la Francia non aveva quasi più influenza nel mondo se non quella della sua incredulità. – Tuttavia, il Cuore di Gesù non è stato sconfitto. Se la Francia ha fallito nella sua missione due secoli fa, essa riparerà al suo crimine. È giunto ora il momento in cui la rivelazione fatta alla beata figlia di San Francesco di Sales dia i suoi frutti. Nello stesso tempo in cui la devozione al Cuore di Gesù, come un germe da lungo nascosto nel terreno, esce sulla terra, la teologia del Cuore di Gesù appare e viene accolta calorosamente. Il Giansenismo è stato sconfitto, ed anche la falsa filosofia che ha messo le sue profonde radici in molte intelligenze, non può, che essere considerata se non un conglomerato di sistemi cervellotici e di sofismi. Solo noi altri scrittori cattolici, dobbiamo presentare alle anime una dottrina che è al tempo stesso nuova e antica, così piacevole per il cuore, e tanto luminosa nella sua comprensione. Abbracciamola con l’intelletto ed anche con il cuore. Amandola, più che studiandola, si arriverà a comprenderla. Amiamola ogni giorno di più. In questo modo capiremo ogni giorno meglio quanto realmente il Cuore di Gesù sia la nostra vita.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/18/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-2/

LO SCUDO DELLA FEDE (109)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIX.

Si dimostra che in Dio vi è provvidenzadelle opere umane.

I. L’esservi Dio nel mondo è una verità sì sonora, che penetra nelle orecchie della medesima ostinazione che sono le più ingrossate. Quante creature, tante voci, le quali, ora ciascuna da per sé, ora tutte in un coro pieno, ci fan palese quel maestro eminente che diede da principio le leggi di sì vaga armonia, e che ognora va sostenendole col suo braccio: Undique Ubi omnia resonant conditorem, dice Agostino (In Is. 26). Pertanto radi sono quegli aspidi che possano maliziosamente rendersi sordi da se medesimi a tante voci, sicché senza udire i richiami altissimi e assiduissimi che han d’intorno, pronunzino nella sala del loro cuore, col voto segreto di tutte le passioni ribelli, quella sentenza tante volte già da noi dichiarata per detestabile: Non est Deus. Quei medesimi che al cieco loro intelletto danno per guida la più cieca lor volontà, pare che ora mai non sappiano arrivare più avanti nella scelleratezza, che a negare al loro Dio. non più l’essere, ma sì bene la provvidenza: imitando quei malcontenti, che, per dare migliore aspetto a’ loro tumulti, protestano a piena bocca, che non impugnano l’armi contro del principe, ritirato nel gabinetto, ma contro del mal governo. Quid enim novit Deus? dicono essi: Nubes latibulum eius, et nostra non considerat (Le nubi gli fanno velo e non vede) (Iob. 22-14).

II. Qui dunque si fanno forti più gli ateisti. Consentono a Dio il trattenersi ozioso nella sua reggia, ma gli negano il pensiero delle cose umane: sicché, quando pur egli sia vago di governare, vogliono che a lui basti il governo naturale del mondo (quale appunto ad un principe saria quello de’ suoi giardini, o delle sue gallerie), purché il civile rimangasi tatto in mano della fortuna. Né mancano a questa divisione iniquissima i suoi colori. La virtù non aver più tra gli uomini pregio alcuno, se non quello della sua rarità: il vizio aver tutto il seguito universale: e nondimeno le pene e i premi distribuirsi così alla cieca, che sembra oltraggio, e non ossequio, figurarsene Dio per distributore. Quinci, dal governo avanzandosi al governante: Se presupponiamo, seguono a dire, Dio pago tanto altamente di se medesimo, a che finger poi, che gli piaccia o lordarsi la mente col pensiero delle nostre bassissime operazioni, o intorbidarsi la felicità colla cura degli operanti? Irridendum vero agere curam rerum fiumanarum istud, quicquid est, sumraum. Anne tam tristi atque multiplici ministerio, non pollui credamus, dubitemusve? (Plin. 1. 3. c. 3). Qual monarca degnò mai di applicarsi a ciò che succeda nelle capanne de’ pastori, anzi fin a ciò che si aggiri nelle cave delle talpe, o nelle conventicole de’ tafani? E noi, che in riguardo a Dio siamo tanto meno di quel che sieno quei miseri animaluzzi al confronto di un Alessandro, saremo poi o sì stolidi, o sì superbi che ci figuriamo questo gran nume sollecito a qualunque ora de’ fatti nostri? Scilicet is superis labor est : ea cura quietos sollicitat. Tanto più, che se in lui risiede la sorgente medesima di ogni bene, nulla gliene aggiungono i nostri ossequi, nulla gliene diminuiscono le nostre trasgressioni. Onde a che riputare che Egli sia vago delle nostre virtù, sia schivo de’ nostri vizi? Il sole non si altera né per nebbia di monti, né per nettezza; ma segue di qualunque tempo il suo corso tranquillissimamente su le lor cime.

III. Eccovi qua l’ultima ritirata degli ateisti. Convien pertanto scacciarli a forza ancor da questo recinto, fino a rapir loro di mano quella bandiera, in cui, come già quell’empio capitano, portano scritto un bel motto sotto un’abbominevole spiegazione: Cœlum cœli Domino, terram autem dedit filiis hominum. Il cielo resti al padrone del cielo, purché Egli a noilasci in arbitrio la terra.

IV. Ora, per cominciare da quelle opposizioni che assaltano il governante: Se, come tra gli antichi fenici vi fu chi giunse a tale stupidità, di adorare per Dio fino un sasso quadro (Arnob. contra gentes 1. 5), così ci fosse chi vi giungesse al presente, se gli potrebbe condonare tanta follia, di credere il suo Dio non curante de’ fatti umani. Ma mentre Dio è un essere perfettissimo, di cui non si può figurare il più commendabile, o il più compito, come se gli può mai negare la provvidenza, dote sì necessaria, senza annullarlo? (Hugo de s. Vict. 1. 1. de sacram. p . 5 . c. 13). Veggiamolo apertamente, discorrendo al solito per quei tre divini attributi, sotto cui si riducono tutti gli altri, di sommo potere, di sommo sapere, di somma bontà; giacche tutti e tre questi a Dio toglie subito chi gli toglie la provvidenza (La divina Provvidenza fu fra gli antichi negata dagli Epicurei e dagli Stoici, fra i moderni dai deisti ed in generale da coloro, che in mano alla cieca fortuna pongono le redini dell’universo.).

I.

V. E per ciò che attiensi al potere, quel che più si considera ne1 monarchi si è la giurisdizione, cioè a dire la forza di dar leggi ai popoli, guiderdonando chi le osservi tra loro più attentamente, castigando chi le travalichi. Or come dunque negare una tal possanza al monarca massimo, qual è quegli del cielo, dai cui decreti alla fine prendono ogni loro vigore tutte le leggi che si promulgano in terra? Il fingersi che questo Signor sovrano non provvegga, se non al mantenimento della natura, è farlo al più al più maestro di casa nel gran palagio dell’universo, ma non è giàfarlo principe, a cui propriamente spettasi il comandare ai magnati del suo reame. E diffatto noi proviamo dentro noi stessi che egli è veramente legislatore. Conciossiachè di quale altro sono voci i rimproveri della coscienza, da noi sentiti dopo ogni azione malfatta, se non di un intimo luogotenente di Dio, che comincia il giudizio dal dimostrare al reo che lo ha colto in fallo? onde quando anche tutte le leggi umane perdonino al delinquente, non gli perdona il cuor proprio, con fargli noto, che sono subito scritti in cielo i delitti da lui commessi.

VI. Quanto indegno però della divina natura è quel concetto che ne formano gli empi, quando essi dicono, che ella cadrebbe di grado, se si occupasse nel governare le creature, nell’attendere ai loro bisogni, nell’ascoltare le loro brame, o nell’esaminare i loro andamenti? Attesoché, se egli non cade dal suo grado, quando le cavò già dal nulla, come ne cadrà poi quando le governi? Si iniuria est regere, possiamo dir con Ambrogio, multo magis iniuria est fecisse(L. 1. off. c. 76). Se Dio fatorto alla sua maestà con dar leggi a noi sue creature, e con esigerne l’osservanza: come non le fe’ maggior torto con darci l’essere? Però,seil non aver bisogno di altrui non distolse quel supremo architetto dal produrre tante opere grandi epiccole di ogni guisa e dall’impiegare un’arte somma in ciascuna, per minima, che ella fosse, come potrà distoglierlo dal pensarvi, dappoiché le mira prodotte?

VII. Non avere in sé lui mancanza di bene alcuno, fa solo che Dio non possa operare con intenzione di provvedete a se parimenti, come fan gli agenti imperfetti, che dal giovare ad altri ricavano sempre mai qualche frutto ancor a se stessi di perfezione; ma non fa ch’egli assolutamente non operi in prò di altrui, tanto nell’ordine naturale a cui si riducono tutti gli effetti necessari, quanto nel morale, a cui si riducono tutti i liberi.

VIII. Né l’uomo, benché distante infinitamente dalla divina grandezza, è però indegno di essere oggetto speziale alla provvidenza di lei, mentre pure egli nel suo grado ha capacità di conoscere Dio, di aggradirgli, di amarlo, di tenere con esso lui commerzio di suppliche, di obbedienza, di ossequio, di adorazioni, come pur conobbe Aristotile (Eth. 1. 10. c. 8. n. 12): il quale però non temè dire, che se gli Dei avevano provvidenza, dovevano averla sopra di ogni altro dell’uomo, come di quello che più si avvicinava ad assomigliarli.

IX. Aggiungete, che Dio, creandoci, non ci creò come a caso, ma ci creò per un fine altissimo, quale appunto fu questo, di abilitarci alla somma felicità di cui siam capaci, che è piacere a Lui, glorificarlo, goderlo. Ditemi dunque: Che sarebbe di Dio, crearci tutti ad un fine, e ad un fine tale, e poi lasciarci, per dir così, in abbandono, quasi impotente a proseguir la grand’opera incominciata? Se ci die il fine, debbe anche porgerci i mezzi da conseguirlo, quali sono le leggi da lui prescritte, le ammonizioni, gli aiuti, e tuttociò che appartiene al vivere onesto. E tale è la provvidenza di cui parliamo: è la ragione di ordinare le cose al debito fine con mezzi acconci: Providentia est ars ordinans res ad suos finesper media convenientia (Boet. 1. 4. de consol. pros. 6). L’ordinare questi mezzi s’intitolaprovvedere: il somministrarli s’intitolagovernare: e l’uno e l’altro si dee concederea Dio, se non si vuole fare un altissimo tortoalla sua potenza infinita. Anzi se non si vuolepiù fare alla sua sapienza, di cui più propria si èl’una e l’altra cura (S. Th. p. q. art. 1. ad 2 ) .

II.

X. Volete voi per avventura negarmi, che Dio non conosca bene tutte le cose? Ma come può non conoscerle, se Egli le ha sempre tutte dinanzi agli occhi? Il re di Persia, risedendo nella città di Susa, per risapere quanto succedeva nell’imperio, aveva disposte frequenti sentinelle per ogni via, che colle fiamme di notte, econ le fumate di giorno, dessero segno degli avvenimenti di maggiore importanza dalle lor torri (Auctor. 1. de mundo c 7. apud Arist.). Non crediate però, che Dio sia necessitato fare altrettanto per risapere di subito tutto ciò che succeda nel nostro mondo. No, no; non ha Egli mestieri di messaggi veloci, i quali gliel rapportino sulle poste. Basta che fissi i guardi in se stesso. Quivi Egli, come in in un tersissimo specchio, rimira qualunque evento: onde, come non può Egli distogliersi un sol momento dal conoscere semedesimo, così non può distogliersi un sol momento dal conoscere ancor tutte l’altre cose. E sele conosce, perché volete voi che non le indirizzi tutte, come pur anzi io diceva, al debito fine? Può bene un savio principe, per motivi non penetrati dal volgo, restarsi di porre in mare un’armata; ma non può già, se ve la pose, lasciarla alla discrezione de’ venti, senza timoni, senz’antenne, senz’ancore, senza pilota, senza marinaresca, con intenzione che vada fluttuando qua e là con incerto corso, finché perisca, rimasta nelle secche, o rotta agli scogli. Questo sarebbe un operare da stolto, indegno della mente di un uomo, non che di un Dio.

XI. Né la viltà propria delle cose create trasfonde nulla della sua imperfezione nel divino intelletto, contemplandole Egli secondo l’essere perfettissimo che hanno dentro la sua increata virtù, per cui, quanto sono elleno basse in sé, tanto sono nobili in lui, che con arte sublime le divisò secondo i lor vari gradi. Quod factum est in ipso vita erat. Pertanto degno è di restar sepolto nella bocca di questi iniqui, quasi in un fetido avello, quel dir che Dio non cura le azioni umane, perché le azioni umane sono minuzie dianzi alla sua grandezza: non considerando i meschini, che in noi la cognizion delle cose minori talor si danna, perché non lascia luogo alla cognizion delle maggiori. Ma ciò, che ha a fare in Dio, che con un guardo semplice mira il tutto? Nel rimanente non fu già gloria somma di Salomone, l’essere lui sceso da’ cedri eccelsi del Libano a disputare fin dell’isopo più vile che spunti dalle pareti?

XII. Chi dirà poi, che conoscere il male sia mai lordarsi? Lordarsi è amarlo. Che se il male non è alfin altro, che privazione di bene, come le tenebre sono privazione di luce; basta a Dio che conosca sé, per sapere ciò che sia quel male che gli si oppone; come a noi basta che conosciamo la luce, por sapere ciò che sian tenebre.

XIII. Ne manco degna di restare ivi sepolta è l’altra non meno folle proposizione, che la numerosità degli umani affari possa a Dio turbare la quiete coll’imbarazzo, tristi atque multiplici ministeri. Costoro, dice Agostino (De Civit. Dei 1. 21. c. 27), vogliono ritrarre Dio da se stessi, semetipsos prò illo cogitantes. E come a toccare il fondo della loro mente basta uno scandaglio da fosso, tanto ella è corta; così figuransi, che basti parimente a toccarlo in Dio, che è quell’altissimo mare che non ha fondo. E se non ha fondo, come può soggiacere a sconvolgimento? Di Ciro racconta Plinio ( L . 7. c. 24 ) (quanto buono stimatore delle eccellenze umane, tanto mal saggiatore delle divine), che nel suo numerosissimo campo conosceva ciascun soldato di faccia, ciascun di nome. Eppure una tal vastità di memoria, come era per quel capitano un gran vanto, così nulla diminuiva a lui di sua quiete. Or quale giudizio dovrem noi dunque formare della sapienza divina, che non ha limite? Resterà ella sopraffatta da un numero di cose, che se a noi sembra un esercito smisurato, ad essa è meno che una pura decuria, che un povero drappelletto: Multi nobis videmur, dicea Minuzio (In Octav.), sed Deo pauci sumus. Paragonate, se aggradavi, il nulla al tutto; cioè a dire, paragonate una mente creata e carcerata tra gli organi corporei, inabili ad operare senza fantasmi, qual era quella di Ciro, con una mente increata e incircoscritta, che fa da sé; e poi sappiatemi dire, se a lei si adatti quel triste ministerium, con cui definiscono questi la Provvidenza, travestendo le bestemmie da ossequio, mentre sotto colore di formare un Dio di perfetta felicità, si fingono un Dio di benevole intendimento. Tanto più che Egli, nel tempo in cui contempla i disordini delle cose umane, e gli abborre, nel medesimo contempla la bellezza delle divine, e ne gode, suggendo da quella vena di contentezza, senza divertimento, infinito gaudio. Sicché quello sdegnarsi che fanno i grandi tra noi di pensare alle cose lievi e di favellarne; de minimis non curar Prætor; non è lode loro, se ben si guarda, è tumore, è tedio, è timore di non poter reggere a tutto senza annoiarsi: altrimenti qual dubbio vi è, che se lo recherebbero a gloria, come gloria è del mare l’accogliere tutti i rivi, e maggiori e minori, senza commuoversi?

XIV. E poi mirate sciocchezza! Quando anche nella mente divina potesse fingersi questa incapacità, che non è possibile, di tante cure ad un’ora; perché dunque volere piuttosto levare a lei la cura delle cose maggiori, assegnandole quella delle minori, che levarle la cura delle minori, assegnandole quella delle maggiori? Eppure così fanno questi empi, che dalla Provvidenza divina vogliono, più che altro, sottrarre le azioni umane, che sono le più eminenti. Le leggi tutte ( L’unica qui numero liberorum) scusano dal pigliare la tutela degli altrui figliuoli quel padre, il qual ne abbia cinque dei propri, mercecchè essendo la cura de’ propri parti il fine di un padre saggio, debbe una cura tal prevalere ad ogni altra cura non compossibile. Ora è certissimo, che il governo morale degli uomini è il fine del naturale, da che vediam, che gli effetti della natura tendono tutti a benefizio dell’uomo. E però, quando la provvidenza divina non fosse da tanto, che potesse saggiamente ordinare gli affari dell’umana felicità, se nel tempo medesimo pensi ad altro; dovrebbe porre in non cale gli affari della natura, per attendere a quelli della virtù, lasciando scorrere qualche difetto ne’ mezzi meno importanti, per tener saldo il fine, in grazia di cui furono amati que’ mezzi

XV. E però intollerabile la stolidità di chi confessa, che la natura nelle opere sue minute spende un incomparabile accorgimento: Natura nusquam magis quam in minimis tota est (Plin. 1. 11. c. 2), come un’altra volta fu ponderato; e poi nega un’attenzione, eziandio mediocre, della medesima natura, alle azioni buone, o ree, de’ mortali, quasi che queste non fossero sempre il fine a cui l’altre mirano. E il riputare diversamente è il tacciare Dio di milenso, o di mentecatto, e porre al reggimento del mondo un governatore, che non istarebbe né anche bene per padre di famiglia in una bottega. Quid absurdius, dice Agostino (L. 5. Gen. ad lit. c. 2), quid insulsius audiri potest, quam eam mundi partem totam esse vacuam nutu ac regimine Providentiæ, cuius extrema et exigua videat tanta dispositione formari? E però dalla sapienza che Dio mostra nella disposizion delle cose naturali, spettanti a’ bruti più vili, conviene argomentare quella che adopera nella disposizione delle morali, spettanti agli uomini, e persuadersi, che se egli vuole sì bella sino una chiocciola, molto più bello dovrà volere il cuore di ognun di noi. Chi vuole bello il convito delle sue nozze, bella la sala, belle le stanze, belli gli arazzi, belli i vasi, belle le vesti, molto più vorrà certamente bella la sposa, che è il fine di tutto il resto.

III.

XVI. Ed una tale considerazione medesima a vederci il torto parimente che arrecano alla divina bontà questi temerari che la spacciano priva di provvidenza. Imperocché ciò che è L’ottimo nell’universo, si è il bene dell’ordine, siccome quello che più contiene delle perfezioni divine, e più le notifica; onde conviene, che questo bene più ancor sia caro alla divina bontà, e più sia da lei sempre inteso, che qualunque altro. Pertanto può bene Iddio, senza diminuire la bontà sua, lasciar di comunicare alle creature la propria felicità, rattenendola tutta dentro se stesso; ma posto che egli risolvasi a diramarla punto in altrui, non può lasciar poi di volere in queste benevole comunicazioni ciò che è il loro fine, cioè mostrare l’ordine che evvi tra le creature e la divina bontà, come tra i rivi e la fonte; e però non può lasciar di esercitare verso tutti coloro, a cui si comunica, la sua provvidenza indefessa, non solo perché è potente, non solo perché è sapiente, ma perché è buono, che è quanto dire diffonditor di se stesso.

XVII. E per una pari ragione non può lasciare di provvedere con cura anche più speziale alle sostanze ragionevoli, che, come libere, più si avvicinano al fine inteso da lui, che è la sua glorificazione: onde queste si debbono regolare dalla provvidenza divina con cura tale, che al paragone di essa, la cura amministrata intorno agli effetti naturali abbia faccia di negligenza: Numquid de bobus cura est Deo?(forse Dio si prende cura dei buoi?)disse l’Apostolo (1. Cor. IX. 9). Non Perché Iddio non invigili ancora sui bisogni degli animali; ma perché a fronte dell’attenzione che pone al genere umano può dirsi, che li trascuri, se non da canto dell’atto di provvedere, che di certo è unico in tutti, almen da canto dei beni che somministra con un tal atto.

XVIII. Ma chi ne può dubitare? Non veggiam noi quanto ciascuna cagione mostri di amore al suo effetto (Natura commendat tigridi catulos suos, et immitem feram materno mollit affectu, disse un Ambrogio (Hexamer.16. c. 4). Or come Dio vorrebbe senza amoreesser padre, se non ha voluto che senza amoresia madre neppure la più cruda di tuttele fiere alpestri? Dall’altro lato, l’amore è incontanentecagione di provvidenza. E lo scornotuttora nell’amore stesso profano, il quale, quanto abbaglia gli occhi al conoscere giustamente i diletti della persona amata, tanto gli aguzza a vedere i bisogni in cui si ritrovi, ed a provvedervi, senza mai tenere in conto di lieve ciò che a lei spetti. Pertanto Iddio, che non solamente non ci ha prodotti alla cieca, come genera il padre la propria prole senza conoscerla, ma ci ha prodotti giusta l’idea della sua mente divina, conoscendoci appieno prima di farci; come potrà di poi, formati che ci abbia, dimenticarsi di noi, lasciandoci in mano al caso? Sono tacciate di poco amorevoli quelle madri che dopo avere generati i loro parti, li danno a balia, privandoli del vantaggio del proprio latte, quando loro diedero il sangue, quasi sdegnose di essere madri intere: Quod enìm est hoc contra, naturam imperfectum atque dimidiatum matris genus, peperisse, ac statim a se abiecisse (Favorinus apud Gell. 1. 13. c. 7)? Eppure tali madri cercano almen tra le balie la più opportuna a sostituirsi. Ora Dio, tenero inesplicabilmente di tutti noi, più che non fu madre alcuna dei suoi portati, non solo lascerà di assisterci Egli immediatamente poi che ci fece, ma ci darà in cura ad un caso stolto, capriccioso, insolente, cioè a dire ad una nutrice la più inetta di quante se ne divisino ad allevarci? Massimamente che i genitori potrebbero allegar qualche scusa della loro trascuratezza, fondata o nelle poche forze ch’essi posseggano, o nella minore capacità. Ma come potrebbe al pari scusarsi Dio, mentre la sua potenza infinita non gli permette stancarsi nel farci bene, e la sua infinita sapienza non gli permette ignorare di quale bene più ci sia d’uopo? Tutto il mancamento sarebbe nella bontà.

XIX. Che se pure alcuni stoltamente volessero recare in Dio, non a biasimo, ma a prodezza, questa non curanza spietata de’ propri parti; contuttociò l’amor che egli ebbe a sé, come a tanto buono, lo costringerebbe ad aver provvidenza delle azioni umane, se non in riguardo nostro, in riguardo suo. Di qual lode reputeremmo degno il cuore divino, se Egli non apprezzasse la virtù, e non abborrisse il vizio? Una tale divinità non sarebbe neppur di riputazione a un padron di villa in ordine a’ suoi garzoni. Giudicate poi se ella possa giammai convenire all’ottima di tutte le nature possibili, qual è Dio. Dall’altro lato, se Egli apprezza la virtù, se Egli abborre il vizio, come potremo noi persuaderci che egli non dichiarisi ben servito dalle azioni oneste, ed offeso dalle malvage? Stupidissimus est, qui non offenditur facto, quod non amat fieri (Tertull. in Marc. 1. 1. c. 19); specialmente che tutto ciò succede sugli occhi di lui medesimo, senza ch’Egli possa mai chiudergli un solo momento, o distorli altrove. Non sarebbe però come un Dio di stucco, quel che non si risentisse né di ciò che gli torna ad onore, né di ciò che gli torna ad onta; o che avendo in sua balìa pene e premi, patiboli e principati, procedesse nel ripartimento di ciò senza alcuna cura, non distinguendo né i buoni dai tristi, né i ben costumati dai turbolenti? Un tale Iddio sarebbe certamente più biasimevole di qualunque giudice iniquo, mentre egli verrebbe ad approvare in se medesimo quelle ingiustizie che dappertutto proibisce coll’universale consentimento di tutti i popoli, e biasima coll’universale condannamento.

XX. E dunque manifestissimo non potersi negare a Dio provvidenza, senza ferirlo altamente nel suo braccio, nella sua mente, nel suo cuore, cioè nella potenza, nella sapienza e nella bontà (Dio, come onnisciente, conosce il fine, cui tendono tutte e singole le creature, ed i mezzi necessari per arrivarlo; come onnipotente, ha in sua mano sicura tutti questi mezzi; come infinitamente buono, li fornisce alle creature tutte. Adunque nel concetto stesso di Dio, cioè di questi tre supremi suoi attributi, si rinviene il concetto della Provvidenza, la quale rimane così dimostrata a priori , e ben disse Lattanzio: « Si Deus est, utique providens est, alterum sine altero nec esse, nec intelligi potest. » Esiste Dio; dunque è provvido. O un Dio provvido, o nessun Dio.). Ingratissimi però noi, se, invece di adorare, pieni di fiducia, e di assecondare lo disposizioni di lui, lo calunniamo ogni tratto! In tal caso non è la Provvidenza che manchi a noi, siamo noi che manchiamo alla Provvidenza. Il sole è presente al cieco; eppure il cieco non è vicendevolmente presente al sole. Cæcus in sole præsentem habet solem, sed absens est ipse soli (S. Aug. in Ev. Io. tr. 3).

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (10)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (10)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

5 — La preghiera per la pace

268 — Per chi il Sacerdote chiede il prezioso dono della pace?

Il Sacerdote, umilmente inchinato, con le mani giunte ed appoggiate all’altare e gli occhi fissi sull’ostia, chiede il prezioso dono della pace per sé e per tutta la Chiesa.

Preghiera:

« Dómine Jesu Christe, qui dixísti Apóstolis tuis: Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: ne respícias peccáta mea, sed fidem Ecclésiæ tuæ; eámque secúndum voluntátem tuam pacificáre et coadunáre dignéris: Qui vivis et regnas Deus per ómnia sæcula sæculórum. Amen. »

[Signore Gesú Cristo, che dicesti ai tuoi Apostoli: Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non guardare ai miei peccati, ma alla fede della tua Chiesa, e degnati di pacificarla e di riunirla secondo la tua volontà. Tu che sei Dio e vivi e regni per tutti i secoli dei secoli. Amen.]

269 — Quando Nostro Signore ha pronunciato queste parole?

Fu durante la celebrazione della prima Messa nel Cenacolo che Nostro Signore disse: Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace.

Tutta la preparazione alla Santa Comunione è organizzata nel segno della pace: la pace interiore attraverso il regno della grazia e dell’amore di Dio, la pace esteriore in armonia e in unione con il prossimo.

270 — Cosa simbolizza il bacio della pace scambiato dai Chierici nella gran Messa?

Il bacio della pace scambiato dai chierici che assistono alle Messe cantate simboleggia la carità che deve unire tutti coloro che riceveranno Nostro Signore nella Santa Comunione … perciò, quando presenti la tua offerta all’altare, e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te – disse Nostro Signore – lascia lì la tua offerta davanti all’altare, e vai prima a riconciliarti con tuo fratello, poi vieni a presentare la tua offerta.

Nella Chiesa primitiva, sia nella vita quotidiana che nelle assemblee liturgiche, i fedeli si scambiavano il bacio della pace come segno di carità e di unione.

6 — Le preghiere avanti la Comunione

271 — Cosa domandiamo a Dio con la prima preghiera avanti la Comunione?

Attraverso questa preghiera chiediamo a Dio la liberazione da tutte le nostre iniquità, da tutti i nostri mali, e l’aiuto che ci permette di essere sempre attaccati ai comandamenti di Dio e di non essere mai separati dal nostro Redentore.

Preghiera:

« Dómine Jesu Christe, Fili Dei vivi, qui ex voluntáte Patris, cooperánte Spíritu Sancto, per mortem tuam mundum vivificásti: líbera me per hoc sacrosánctum Corpus et Sánguinem tuum ab ómnibus iniquitátibus meis, et univérsis malis: et fac me tuis semper inhærére mandátis, et a te numquam separári permíttas: Qui cum eódem Deo Patre et Spíritu Sancto vivis et regnas Deus in saecula sæculórum. Amen.»

[Signore Gesú Cristo, Figlio del Dio vivente, Tu che per volontà del Padre, con la cooperazione dello Spirito Santo, con la tua morte hai restituito al mondo la vita, liberami, mediante questo sacrosanto Corpo e Sangue tuo, da tutte le mie iniquità, e da tutti i mali: e rendimi sempre fedele ai tuoi comandamenti, e non permettere che io mai mi separi da Te, che sei Dio e vivi e regni con lo stesso Dio Padre e lo Spirito Santo nei secoli dei secoli. Amen.]

272— Chi per primo ha chiamato Nostro Signore il Figlio di Dio vivente?

Gesù era in Galilea. Interrogando i suoi discepoli, dicendo: « Cosa dicono gli uomini toccando il Figlio dell’uomo? Essi Gli risposero: Alcuni dicono che è Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia, o uno dei profeti. Gesù dice loro: « E voi chi dite che io sia? » Simon Pietro rispose e disse: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. » Gesù gli rispose e gli disse: « Tu sei benedetto, Simone, figlio di Giona, perché la carne e il sangue non ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. » (S. Matth XVI, 13-17).

273 — Cosa domandiamo a Dio nell’ultima preghiera prima della Comunione?

Con questa preghiera chiediamo a Nostro Signore di salvarci dalla disgrazia di una cattiva Comunione e di concederci in abbondanza i benefici di una buona Comunione.

Preghiera:

« Percéptio Córporis tui, Dómine Jesu Christe, quod ego indígnus súmere præsúmo, non mihi provéniat in judícium et condemnatiónem: sed pro tua pietáte prosit mihi ad tutaméntum mentis et córporis, et ad medélam percipiéndam: Qui vivis et regnas cum Deo Patre in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia saecula sæculórum. Amen. »

[La comunione del tuo Corpo, Signore Gesú Cristo, ch’io indegno ardisco ricevere, non mi torni a delitto e condanna; ma per la tua bontà mi giovi a difesa dell’anima e del corpo e come spirituale medicina, Tu che sei Dio e vivi e regni con Dio Padre nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.]

274— Quale si chiama una cattiva Comunione?

Per fare una buona Comunione, bisogna essere in stato di grazia, avere una giusta intenzione e digiunare dalla mezzanotte.

Chi fa la Comunione in stato di peccato mortale fa una cattiva comunione, commette un grande sacrilegio; è colpevole del corpo e del sangue del Signore e mangia e beve la propria condanna, secondo l’espressione di san Paolo.

Ma non basta essere liberi dal peccato mortale per ricevere la Santa Comunione con dignità. La voluta mancanza di una maggiore purezza di intenzione, di rispetto, di carità e di devozione, che assicura al comunicante l’abbondanza delle grazie divine, rende la Comunione meno buona e lo dispone gradualmente alla comunione indegna.

Confidando nella bontà paterna del Salvatore, il sScerdote chiede che questa comunione sia per lui una fonte di bene.

275 — Come la Comunione è protezione e rimedio per la nostra anima?

Colui che mangia la mia carne e beve il mio sangue – disse Nostro Signore – avrà la vita per mezzo mio, e vivrà per sempre. La Comunione è per l’anima ciò che il pane e il vino sono per il corpo: aumenta la vita spirituale aumentando la grazia santificante, rafforzando le virtù soprannaturali; ci eccita a tutte le opere buone; ci arma di zelo e di coraggio per consacrarci interamente al servizio di Dio.

276 — Com’è che la comunione è profittevole per la nostra anima?

Solo l’anima è depositaria della grazia, ma l’aumento dell’amore di Dio nell’anima, il rafforzamento delle virtù e la forza di resistere alle tentazioni, effetti felici della Comunione fervente, producono un indebolimento delle inclinazioni al male e delle passioni della carne e, di conseguenza, diventano fonte di spiritualità. E così il corpo liberato dalle sue schiavitù, troverà il suo bene nell’ordine stabilita da Dio fin dall’inizio.

277 — Come termina la preparazione alla comunione?

Il Cacerdote adora Nostro Signore con la genuflessione. Alzandosi dice:

« Panem cœléstem accipiam, et nomen Dómini invocábo.»

[Prenderò questo pari celeste, invocherò il Nome del Signore].

Poi prende l’Ostia consacrata, che tiene tra il pollice e l’indice della mano sinistra; pone la patena tra questo indice ed il resto della mano; inchinandosi, dice tre volte di fila, a metà strada, con devozione e umiltà, battendosi il petto;

«Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.»

[Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e la mia anima sarà guarita.]

Riconosciamo qui la risposta del centurione di Cafarnao a Nostro-Signore, quando gli disse che sarebbe andato a casa sua per guarire il suo servo.

7 — La santa Comunione

278 Quali gesti e quali preghiere fa il Sacerdote nel comunicarsi?

Il Sacerdote prende tra le dita della mano destra le due metà della Sacra Ostia e traccia il segno della croce davanti a sé, dicendo:

«Corpus Dómini nostri Iesu Christi custódiat ánimam meam in vitam ætérnam. Amen.»

[Possa il corpo di nostro Signore Gesù Cristo preservare la mia anima per la vita. Così sia.]

Poi, inchinandosi profondamente, si comunica con rispetto al Corpo di Nostro Signore.

Subito dopo, il Sacerdote mette la patena da un lato, unisce le mani e rimane per qualche istante in raccoglimento nella meditazione dei misteri divini. Poi purifica la patena e il caporale dai frammenti più piccoli, che mescola con il calice, mentre recita i seguenti versetti del Salmo CXV:

«Quid retríbuam Dómino pro ómnibus, quæ retríbuit mihi? Cálicem salutáris accípiam, et nomen Dómini invocábo. Laudans invocábo Dóminum, et ab inimícis meis salvus ero.»

[Che cosa restituirò al Signore per tutto il bene che mi ha dato? Prenderò il Calice della Salvezza e invocherò il Nome del Signore. Nella lode invocherò il Signore e sarò salvato dai miei nemici.]

Alle parole « Prenderò il Calice … », il Sacerdote prende il calice e, a formula completata, si segna con il segno della croce, dicendo:

« Sanguis Dómini nostri Iesu Christi custódiat ánimam meam in vitam ætérnam. Amen. »

[Possa il Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo custodire la mia anima fino alla vita eterna. Così sia.]

Poi, tenendo la patena sotto il mento con la mano sinistra, fa la Comunione nel Sangue di Nostro Signore.

279 — Quando devono comunicarsi i fedeli?

I fedeli dovrebbero comunicarsi preferibilmente alla Comunione del Sacerdote, perché le preghiere della Messa che precedono la Comunione preparano le anime a un atto così sublime e le preghiere della Messa che seguono la Comunione esprimono i migliori sentimenti di gratitudine a Nostro Signore. Tuttavia, la pratica della Comunione frequente, aumentando il numero dei comunicanti ha reso piuttosto difficile la realizzazione di questo ideale liturgico.

280 — Quali preghiere si recitano prima di distribuire la comunione ai  fedeli?

Mentre il Sacerdote apre il tabernacolo, il servente recita il Confiteor. Il Sacerdote recita, rivolto verso il popolo, il Misereatur e l’Indulgentiam. Poi prende un’ostia dal ciborio e, tenendola un po’ alta, dice, rivolgendosi all’uditorio:

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
[Agnello di Dio che togli i peccati dal mondo, abbi pietà di me], e tre volte:

«Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.»

[Signore, non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e la mia anima sarà guarita.]

281 — Quale preghiere dice il Sacerdote comunicando ogni fedele?

Depositanto l’Ostia santa sulla lingua di ogni fedele, il Sacerdote dice:

Corpus Dómini nostri Iesu Christi custódiat ánimam tuam in vitam ætérnam. Amen.

[Il Corpo di nostro Signore Gesú Cristo custodisca l’anima mia per la vita eterna. Amen.]

282— Cosa devono fare i fedeli che non possono comunicare?

I fedeli che non possono fare la comunione sacramentalmente  devono unirsi a Gesù-Ostia attraverso la comunione spirituale.

Per poter comunicare spiritualmente si deve:

a) fare un atto di fede viva nella presenza reale di Nostro Signore nella Santa Eucaristia, accompagnato da un atto d’amore;

b) desiderare sinceramente di ricevere la Santa Eucaristia in modo sacramentale, se possibile, e quindi di essere intimamente uniti a Nostro Signore.

8 — Le abluzioni

283 — Cosa si intende per abluzioni?

Le abluzioni si riferiscono alla purificazione delle labbra, delle dita, del calice e talvolta anche del ciborio da parte del Sacerdote.

Questo nome viene dato anche al vino e all’acqua con cui il sacerdote toglie le piccole particelle che potrebbero rimanere attaccate alle dita, così come il vino consacrato che bagna le pareti del calice.

284 — Quali sono le cerimonie e le preghiere delle abluzioni?

Mentre l’accolito versa un po’ di vino nel calice, il Sacerdote, in piedi al centro dell’altare, fa la seguente preghiera:

« Quod ore súmpsimus, Dómine, pura mente capiámus: et de munere temporáli fiat nobis remédium sempitérnum. »

[Ciò che con la bocca abbiamo ricevuto, fa, o Signore, che l’accogliamo con anima pura, e da dono temporaneo ci diventi rimedio sempiterno.]

Questa è la prima abluzione.

Dopo aver consumato il vino, il sacerdote si mette dal lato dell’Epistola e purifica con il vino e l’acqua i pollici e gli indici sopra il calice, dicendo:

« Corpus tuum, Dómine, quod sumpsi, et Sanguis, quem potávi, adhaereat viscéribus meis: et præsta; ut in me non remáneat scélerum mácula, quem pura et sancta refecérunt sacraménta: Qui vivis et regnas in sæcula sæculórum. Amen.»

[O Signore, il tuo Corpo che ho ricevuto e il tuo Sangue che ho bevuto, aderiscano all’intimo dell’ànima mia; e fa che non rimanga macchia alcuna di peccato in me, che questi puri e santi sacramenti hanno rinnovato, o Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.]

9 — L’antifona della Comunione

285 — Cosa richiama la preghera intitolata Communio?

Dopo aver preso le abluzioni il sacerdote asciuga il calice, lo rimette al centro dell’altare, come all’inizio della Messa, e va, dalla parte dell’Epistola, a leggere la Communio. Questa preghiera ricorda il canto di un salmo eseguito un tempo dal coro durante la distribuzione della Comunione al clero e ai fedeli.

La Communio si riferisce quasi sempre alla festa del giorno e dimostra che la Comunione, se ricevuta con le dovute disposizioni, ci fa partecipare in modo speciale al beneficio del mistero che si celebra.

10 — Il Postcommunio

286 — Perché il Sacerdote dice il Dominus vobiscum prima del Postcommunio?

Il Sacerdote dice: Dominus vobiscum peima del Postcommunio per augurare ai fedeli che insieme, celebrando e assistendo, possano essere una cosa sola nel Signore Gesù per rendere infinite grazie a Dio Padre, con Lui e per mezzo di Lui.

287 — Cosa chiediamo a Dio nel Postcommunio?

Nel Postcommunio chiediamo a Dio che l’Eucaristia operi in noi tutti i suoi effetti affinché, uniti a Cristo, facciamo nostri i suoi sentimenti di ringraziamento.

288 — Quali effetti l’Eucaristia produce in noi?

L’Eucaristia cementa la nostra unione con Cristo, realizza l’unione dei fedeli tra di loro ed effre un pegno della gloriosa risurrezione.

289 — Si mostri come l’Eucaristia cementi la nostra unione al Cristo.

Nostro Signore ha istituito la Santa Comunione sotto forma di cibo per nutrirci e dissetarci con la sua vita divina e per incorporarci sempre più intimamente a Lui (Giovanni, VI, 53-58). L’Eucaristia, principio di vita, è anche « sacramento della carità »; essa infonde nel comunicante la consueta carità (virtù): « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui », dice il Signore, e S. Giovanni scrive: « Dio è amore e chi dimora nell’Amore dimora in Dio e Dio in lui ». E questa virtù della carità fiorisce attraverso l’Eucaristia in una meravigliosa efflorescenza di atti. “Dandoci se stesso nell’Eucaristia, Cristo espande la nostra carità, ci guarisce dal nostro egoismo, rafforza la tendenza della nostra volontà verso il Bene sovrano e ci dispone a sacrificare la nostra vita per i nostri fratelli, come ha fatto Egli stesso sulla croce. Le specie sacramentali possono sparire, ma l’effetto spirituale, operato dalla venuta di Cristo nell’anima, rimane: ogni Comunione ci lascia più profondamente uniti a Lui.

Il Concilio di Firenze (1438-1445) afferma in modo conciso: « L’effetto di questo Sacramento è l’unione dell’uomo con Cristo », e nel Decreto agli Armeni è scritto: « E poiché è per grazia che l’uomo è incorporato in Cristo e unito alle sue membra, ne consegue che con questo Sacramento la grazia è accresciuta in coloro che lo ricevono degnamente: e ogni effetto che il cibo e le bevande materiali hanno sulla vita corporea, sostenendola, sviluppandola, riparandola, questo sacramento lo produce nella vita spirituale ».

290 — Si mostri come l’Eucaristia realizzi l’unione dei fedeli tra di loro..

San Cirillo di Gerusalemme (+ 356) scrive nel suo commento al Vangelo di San Giovanni: « Il Figlio unigenito, Sapienza e Consiglio del Padre, ha inventato un  un mezzo meraviglioso con il quale per i Cristiani diventa possibile formare un’unità tra di loro e con Dio, per unirci gli uni con gli altri, anche se ognuno di noi ha un corpo e un’anima distinti. Quando Egli dà ai Cristiani il suo corpo da mangiare nell’Eucaristia, li rende concorporei con se stesso e gli uni con gli altri. Essi sono fisicamente uniti, poiché sono legati insieme nell’unità di Cristo attraverso la partecipazione al suo Corpo Sacro. Tutti noi che condividiamo lo stesso pane, formiamo un solo corpo, perché Cristo non può essere diviso ».

291 — Si mostri que l’Eucaristia ci dà come un pegno della Resurrezione gloriosa.

Questa è la promessa stessa di Nostro Signore: « Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna, e Io lo resusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni, VI, 54-55). – E papa Leone XIII, nella sua enciclica Miræ Caritatis del 28 maggio 1902, commenta così questa promessa: « L’augusto Sacramento dell’Eucaristia è insieme causa e pegno di felicità e di gloria, non solo per l’anima, ma anche per il corpo ».

292 — Di quante orazioni si compone il Postcommunio?

Il Postcommunio è costituito da una o più orazioni, così come la Colletta e la Secreta. Le stesse prescrizioni liturgiche, relative alla Colletta ed alla Secreta, per quanto riguarda il numero, l’ordine, l’inizio e la conclusione, si applicano interamente al Postcommunio.

11 — La preghiera sul popolo

293 — Quando si dice la Preghiera sul popolo?

Dopo il Post-communio delle Messe quaresimali, il nostro Messale menziona una preghiera chiamata Preghiera sul popolo.

Prima dell’introduzione dell’attuale rito di benedizione di fine Messa, la Preghiera sul Popolo serviva a chiedere la protezione di Dio sui presenti prima che fossero licenziati con l’“Ite Missa est”. Essa aveva come scopo l’implorazione della misericordia di Dio, così come indicano la preghiera stessa ed il rito che l’accompagna: essa è introdotta dall’invito: « Umiliate il vostro capo davanti a Dio », che si fa sempre quando si implora la benedizione di Dio o la si dà nel suo Nome.

12 — Il congedo dei fedeli

294 — Cosa fa il Sacerdote dopo il Postcommunio?

Dopo il Postcommunio, il Sacerdote chiude il Messale, si reca al centro dell’altare che bacia, saluta il popolo dicendo: Dominus vobiscum e aggiunge, secondo l’ufficio celebrato, Ite, missa est, Benedicamus Domino o Requiescant in pace. All’Ite missa est e Benedicamus Domino i fedeli, attraverso la voce del servoente rispondono: Deo gratias e al Requiescant in pace, Amen

295— Che significa l’espressione « Ite, missa est » ?

L’espressione « Ite, missa est » significa: andate, è il congedo.

Nell’antichità era consuetudine tra i Cristiani congedare il popolo alla fine del Sacrificio; i catecumeni venivano licenziati alla fine della cosiddetta Messa dei catecumeni, e i fedeli alla fine della cosiddetta Messa dei fedeli. Il congedo finale era così solenne e impressionava talmente i presenti, che esso ha dato gradualmente il suo nome al Sacrificio stesso, che così si chiama Messa.

296 — Perché il Sacerdote in certi giorni dice: « Benedicamus Domino »?

Il Sacerdote sostituisce l’« Ite Missa est » con il « Benedicamus Domino » ogni volta che non c’è « Gloria in excelsis », come nei giorni di penitenza e nelle festività semplici. In questi giorni i fedeli restavano in chiesa per dire altre preghiere e non c’era un congedo  solenne.

Alle Messe del Requiem non c’è il congedo, perché di solito gli astanti rimangono in preghiera fino all’assoluzione. Il Sacerdote sostituisce: ite missa est con la formula Requiescant in pace, [riposino in pace]; in questo modo egli desidera il luogo della pace, cioè il cielo, per le anime dei defunti che beneficiano del Sacrificio.

297 — Si spieghi la risposta dei fedeli.

Gli assistenti rispondono « Deo gratias » dopo l’ Ite missa est e il Benedicamus Domino per imitare gli Apostoli, che, dopo la benedizione di Gesù sul Monte dell’Ascensione, sono tornati, pieni di gioia, lodando, benedicendo e ringraziando Dio incessantemente. È il ringraziamento che continua. “Niente di più breve, niente di più grande – diceva sant’Agostino – di questo ringraziamento: Deo gratias“.

13 — Il Placeat

298 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando il Placeat?

Dopo la risposta dei fedeli, il Sacerdote unisce le mani e le preme sull’altare, poi, con il capo chinato, recita il Placeat. Questa preghiera contiene una sintesi precisa dei quattro fini del Santo Sacrificio: l’adorazione, il ringraziamento, la propiziazione e l’impetrazione.

Preghiera:

Pláceat tibi, sancta Trínitas, obséquium servitútis meæ: et præsta; ut sacrifícium, quod óculis tuæ majestátis indígnus óbtuli, tibi sit acceptábile, mihíque et ómnibus, pro quibus illud óbtuli, sit, te miseránte, propitiábile. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[O santa Trinità, Ti piaccia l’omaggio della mia servitù, e concedi che questo sacrificio, offerto da me, indegno, agli occhi della tua Maestà, sia a Te accetto, ed a me e a quelli per i quali l’ho offerto, torni giovevole, per tua misericordia. Per Cristo nostro Signore. Amen].

14 — La Benedizione

299  Qual è l’origine della benedizione?

Quando Gesù lasciò i suoi discepoli durante l’Ascensione, alzò le mani e li benedisse. Allo stesso modo, lasciando il Vescovo l’assemblea, benediceva il clero officiante, dicendo: Che il Signore vi benedica. Anche il popolo voleva essere benedetto dal Pontefice al suo passaggio. Questa benedizione è diventata così una cerimonia ufficiale e il Vescovo la impartiva a tutti prima di lasciare l’altare. Più tardi i Sacerdoti hanno imitato questo gesto del Vescovo al termine della loro Messa.

Recitato il Placeat, il Sacerdote bacia l’altare che rappresenta Cristo stesso, alza gli occhi verso la croce, fonte di benedizione, si rivolge ai fedeli e li benedice dicendo:

Benedícat vos omnípotens Deus,  Pater, et Fílius, et Spíritus Sanctus.
R. Amen.

[Vi benedica Dio onnipotente. Padre, Figlio ✠ e Spirito Santo.
R. Amen.]

Non si benedice chi è presente alle Messe dei morti per dimostrare che tutti i frutti del Sacrificio sono da applicare ai defunti.

15 — L’ultimo Evangelio

300 — Quale Evangelio si legge alla fine della Messa?

Come regola generale, alla fine della Messa si legge l’inizio del Vangelo secondo San Giovanni. Ci sono alcune eccezioni: le Messe private della Domenica delle Palme, dove si prende il Vangelo della Benedizione delle Palme, la terza Messa di Mezzanotte, dove si prende il Vangelo dell’Epifania, le Messe delle feste dette la Domenica, i giorni festivi e le veglie che hanno il loro Vangelo, che viene letto alla fine di queste Messe.

In princípio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. Hoc erat in princípio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt: et sine ipso factum est nihil, quod factum est: in ipso vita erat, et vita erat lux hóminum: et lux in ténebris lucet, et ténebræ eam non comprehendérunt.

Fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Joánnes. Hic venit in testimónium, ut testimónium perhibéret de lúmine, ut omnes créderent per illum. Non erat ille lux, sed ut testimónium perhibéret de lúmine.

 Erat lux vera, quæ illúminat omnem hóminem veniéntem in hunc mundum. In mundo erat, et mundus per ipsum factus est, et mundus eum non cognóvit. In própria venit, et sui eum non recepérunt. Quotquot autem recepérunt eum, dedit eis potestátem fílios Dei fíeri, his, qui credunt in nómine ejus: qui non ex sanguínibus, neque ex voluntáte carnis, neque ex voluntáte viri, sed ex Deo nati sunt. Genuflectit dicens: Et Verbum caro factum est, Et surgens prosequitur: et habitávit in nobis: et vídimus glóriam ejus, glóriam quasi Unigéniti a Patre, plenum grátiæ et veritatis. Deo gratias.

[In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di Lui, e senza di Lui nulla è stato fatto di tutto ciò che è stato creato. in Lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini. e la luce splende tra le tenebre, e le tenebre non la compresero. Ci fu un uomo mandato da Dio, il cui nome era Giovanni. Questi venne in testimonio, per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era egli la luce, ma per rendere testimonianza alla luce. Era la luce vera, che illumina tutti gli uomini che vengono in questo mondo. Era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di Lui, ma il mondo non lo conobbe. Venne nella sua casa e i suoi non lo accolsero. Ma a quanti lo accolsero diede il potere di diventare figli di Dio, essi che credono nel suo nome: i quali non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati. ci inginocchiamo E il Verbo si fece carne ci alziamo e abitò fra noi; e abbiamo contemplato la sua gloria: gloria come dal Padre al suo Unigénito, pieno di grazia e di verità. Rendiamo grazie a Dio.]

[Il Vangelo di San Giovanni – scrive padre Marco – è sempre stato oggetto di una venerazione speciale e straordinaria nella Chiesa Cattolica. I primi Cristiani lo portavano appeso al collo, o scritto nel cuore, come il simbolo più espressivo della loro fede, e il preservativo più potente contro i malefici incantesimi del diavolo; lo facevano recitare sopra di loro nelle loro malattie, e spesso venivano visti chiedere che fosse deposto con i loro resti nella tomba. È stato questo vivace senso di devozione che ha portato alcuni Sacerdoti a recitarlo per la prima volta alla fine della Messa, o all’altare stesso, o al ritorno in sacrestia, o allo svestirsi dai paramenti sacri. Anche i fedeli vollero ascoltarlo prima di lasciare l’altare e Pio V sancì questa usanza, che divenne generale.]

16 — Le preghiere dopo la Messa

301 — Che fa il Sacerdote dopo la lettura dell’ultimo Evangelio?

Dopo la lettura dell’ultimo Vangelo, il Sacerdote ritorna al centro dell’altare, saluta la croce e scende in fondo alla scalinata dove, in ginocchio, dice, in latino o in lingua volgare, le preghiere prescritte dal Papa.

Queste preghiere non vengono recitate durante la Messa alta, e vengono omesse durante le Messe basse dove c’è una certa solennità: predica, matrimonio, ecc.

Il Sacerdote prende quindi il calice, si genuflette ai piedi dell’altare, si copre con la beretta e torna in sacrestia per recitare il Canto Benedettino.

302 — Come bisogna fare la sua azione di grazie?

Le preghiere che il celebrante e i fedeli che offrono con lui il Santo Sacrificio, hanno appena recitato, costituiscono l’azione ufficiale di grazia della Chiesa. Non se ne potrebbero far di migliori. Ognuno, secondo la sua particolare attrattiva, vorrà prolungarla per qualche tempo, sia ispirandosi a qualche preghiera della Messa, sia utilizzando altre formule, soprattutto quelle suggerite dal Messale. Quella di San Bonaventura è notevole per la sua elevazione:

« Di te, a cui gli Angeli desiderano guardare, la mia anima è costantemente affamata, il mio cuore è nutrito, e possa la dolcezza delle tue delizie riempire le profondità della mia anima. Che abbia sete di Voi senza esitazione: Voi siete la fonte della vita, la fonte della sapienza e della conoscenza, il focolaio della Luce eterna, il torrente delle delizie, l’abbondanza della casa di Dio. A Te essa aspiri costantemente, ti cerchi, ti trovi, ti raggiunga; te contempli, de te parli, che operi ogni cosa a lode e gloria del tuo Nome, con umiltà e discernimento, con devozione e delizia, con facilità e affetto, con perseveranza fino alla fine; Tu solo sia sempre la mia speranza, la mia gioia, il mio riposo e la mia tranquillità, la mia pace e la mia dolcezza, il mio profumo e la mia dolcezza, il mio cibo, il mio sostentamento, il mio rifugio, il mio aiuto, la mia saggezza, la mia condivisione, il mio tesoro in cui la mia mente e il mio cuore siano fissi e incrollabili per sempre. Amen ».

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (9)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (9)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

13 — Il Memento dei morti

237— Perchè si è separato il Memento dei morti dal Memento dei viventi?

I membri della Chiesa militante, i vivi possono e devono unirsi al Sacerdote per offrire il santo Sacrificio e allo stesso tempo offrire se stessi a Dio: questo viene fatto in modo più adeguato prima della consacrazione. I morti non possono più partecipare all’oblazione del Sacrificio, ma solo partecipare ai suoi frutti, che noi applichiamo loro; è meglio quindi menzionarli alla presenza dell’Agnello sacrificato sull’altare.

Preghiera:

Meménto étiam, Dómine, famulórum famularúmque tuárum N. et N., qui nos præcessérunt cum signo fídei, et dórmiunt in somno pacis. Ipsis, Dómine, et ómnibus in Christo quiescéntibus locum refrigérii, lucis pacis ut indúlgeas, deprecámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ricordati anche, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve N. e N. che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno di pace. Ad essi, o Signore, e a tutti quelli che riposano in Cristo, noi ti supplichiamo di concedere, benigno, il luogo del refrigerio, della luce e della pace. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

238 — Cosa bisogna intendere con questa espressione: “Il segno della fede”?

Con l’espressione “segno della fede” si intende prima di tutto il carattere indelebile del Battesimo, che distingue i fedeli dagli infedeli, e poi la professione della fede in parole ed in atti con una vita cristiana, con le opere di carità, l’attaccamento alla Chiesa, la ricezione dei Sacramenti.

239 — Perché la Chiesa dice che i defunti dormono il sonno della pace?

La morte nella grazia e nella carità, nella comunione vivente con Gesù Cristo e la sua Chiesa, può essere chiamata un sonno di pace, un sonno piacevole, perché si attende un lieto risveglio, la gloriosa risurrezione della carne.

Il cimitero cristiano è infatti, secondo il significato primario di questo termine, il dormitorio dove riposano coloro che sono morti nel Signore.

240 — Cosa domanda la Chiesa per le anime del Purgatorio?

La Chiesa chiede, per coloro che dormono il sonno della giustizia, un luogo di ristoro, di luce e di pace. Le anime sofferenti del Purgatorio possiedono la tranquillità e il riposo, essendo sfuggite alle turbe di questo mondo peccaminoso e seduttre, ma finché non godono della vista di Dio e sono trattenute nel luogo del dolore, la loro pace non è perfetta; sono divorate dalle fiamme del desiderio di vedere Dio e dal tormento del fuoco; gemono nell’oscurità di quella notte in cui nessuno può più lavorare.

241— Quale rubrica osserva il prete al termina del Memento?

Il sacerdote unisce le mani e china il capo alle parole: “Per lo stesso Gesù Cristo”, che concludono questa preghiera, poi, un po’ inchinato, guarda Gesù che è presente davanti a lui nell’ostia.

Mentre Cristo moriva sulla croce, chinò il capo e immediatamente scese nel Limbo per annunciare alle anime dei giusti la loro liberazione. Così il sacerdote china il capo e prega per coloro che dormono in Cristo, affinché la grazia dell’espiazione del Santo Sacrificio scenda in Purgatorio per alleviare e abbreviare le loro sofferenze.

242 — Per chi prega la Chiesa al Memento dei morti?

Nel Memento dei morti la Chiesa prega nominatamente, e soprattutto « per coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e dormono il sonno della pace », cioè per chi è morto in comunione con Essa. Prega in generale per tutti coloro che « riposano in Cristo ».

Riposano in Cristo coloro che morti nel Signore (Ap XIV, 13), cioè nella grazia di Dio.

Le due lettere N. e N. ricordano al Sacerdote che deve raccomandare a Dio soprattutto il o i defunti per cui offre il santo Sacrificio, i suoi parenti, i suoi amici, i suoi benefattori defunti che possono soffrire in Purgatorio.

243 — In qual misura la Messa è profittevole alle anime del Purgatorio?

Quando il Sacerdote celebra, dà riposo ai morti. Il Concilio di Trento ha formalmente condannato coloro che avrebbero negato questa verità. (Sess. XXII, can. 3). – Ma fino a che punto questo riposo è loro concesso? Non lo sappiamo. Certo, se Nostro Signore volesse, basterebbe una sola Messa per svuotare tutto il Purgatorio, ma la pratica della Chiesa, fin dai tempi apostolici, ci fa ripetere il santo Sacrificio per i nostri defunti il più spesso possibile, e ci avverte così che la Vittima divina in genere non distribuisce i meriti della sua immolazione alle anime tutte in una volta, ma li misura più o meno abbondantemente secondo le opinioni della sua saggezza. Il santo Curato d’Ars ha detto di un convertito: « Si è salvato, ma è molto basso… pregate molto per lui! »

244 — È meglio far celebrare Messe per noi nella nostra vita?

È certamente più vantaggioso e prudente far celebrare Messe per noi nella nostra vita.

QUI GIÙ:

– Collaboriamo all’offerta del Santo Sacrificio partecipando alla Messa e offrendo un onorario. Questa collaborazione è una fonte di merito.

– Noi soddisfiamo in pieno per la pena dovuta ai nostri peccati.

– Versando l’offerta della Messa, ci priviamo attualmente da noi stessi e compiamo un atto di rinuncia che spesso è molto meritorio.

– Siamo sicuri che le Messe che facciamo dire vengano celebrate.

IN PURGATORIO:

– La nostra collaborazione nell’offerta del Santo Sacrificio sarà limitata all’assistenza a distanza fornita dal pagamento di un onorario prima della nostra morte.

– Non possiamo più meritare.

– La Messa consegnerà i frutti della Passione a Dio che ce li distribuirà, tenendo conto delle esigenze dell’espiazione.

– Certamente è più vantaggioso e più prudente far celebrare delle messe per noi in vita.

– Priveremo i nostri eredi del denaro che avremo conservato fino alla fine. Saranno gli eredi a fare la mortificazione.

– Quando i nostri eredi eseguiranno le nostre ultime volontà e il nostro testamento?

14 — Il Nobis quoque peccatoribus

245—Perché il Sacerdote alza la voce nel dire: Nobis quoque peccatoribus

Il sacerdote alza la voce dicendo le prime parole del Nobis quoque peccatoribus per chiedere ai fedeli più attenzione e per invitarli a battere i loro pettS come fa lui stesso. Tutti, sacerdoti e assistenti, dopo aver chiesto a Dio il Paradiso per le anime del Purgatorio, chiederanno per loro lo stesso favore, pur riconoscendosi come poveri peccatori.

Preghiera:

Nobis quoque peccatóribus fámulis tuis, de multitúdine miseratiónum tuárum sperántibus, partem áliquam et societátem donáre dignéris, cum tuis sanctis Apóstolis et Martýribus: cum Ioánne, Stéphano, Matthía, Bárnaba, Ignátio, Alexándro, Marcellíno, Petro, Felicitáte, Perpétua, Agatha, Lúcia, Agnéte, Cæcília, Anastásia, et ómnibus Sanctis tuis: intra quorum nos consórtium, non æstimátor mériti, sed véniæ, quaesumus, largítor admítte. Per Christum, Dóminum nostrum.

[E anche a noi peccatori servi tuoi, che speriamo nella moltitudine delle tue misericordie, dégnati di dare qualche parte e società coi tuoi santi Apostoli e Martiri: con Giovanni, Stefano, Mattia, Bárnaba, Ignazio, Alessandro, Marcellino, Pietro, Felícita, Perpetua, Ágata, Lucia, Agnese, Cecilia, Anastasia, e con tutti i tuoi Santi; nel cui consorzio ti preghiamo di accoglierci, non guardando al merito, ma elargendoci la tua grazia. Per Cristo nostro Signore.]

246 — Quali santi invoca il Nobis quoque peccatoribus?

I Santi Martiri i cui nomi sono menzionati in questa preghiera sono:

San Giovanni Battista.precursore di Nostro Signore.

S. Stefano, primo diacono e primo martire della Nuova Legge.

S. Mattia, l’Apostolo che rimpiazzò Giuda il traditore.

S. Barnaba, compagno d’apostolato di S. Paolo.

S. Ignazio di Antiochia, che fu esposto alle bestie nell’anfiteatro di Roma.

S. Alessandro, quinto Papa dopo S. Pietro.

S. Marcellino, prete e S. Pietro, esorcista, entrambi decapitati sotto Diocleziano.

Santa Félicita et santa Perpetua, martirizzata a Cartagine.

Santa Agata, invocata contri i danni del fuoco, martirizzata in Sicilia.

Santa Lucia, morta colpita da un colpo di spada alla gola.

Santa Agnese, il cui nome significa purezza, martire a 13 anni per conservare l’innocenza.

Santa Cecilia, vergine e martire romana.

« Essa è onorata come patrona della musica religiosa, perché, si dice, che ella stessa conoscesse quest’arte ed intendesse spesso melodie celesti. »

Santa Anastasia, vedova e martire, originaria di Roma.

15 — La conclusione del Canone

247Come termina il Canone?

Il Canone si conclude con una breve e precisa sintesi dell’efficacia della Santa Messa. Nella prima parte riconosciamo che l’Eucaristia ci viene preparata e donata da Dio per mezzo di Gesù Cristo; nella seconda parte riconosciamo che il Santo Sacrificio conferisce all’adorabile Trinità un onore e una gloria incomparabili.

Preghiera:

Per quem hæc ómnia, Dómine, semper bona creas, sancti ficas, viví ficas, bene dícis et præstas nobis. Per ip sum, et cum ip so, et in ip so, est tibi Deo Patri omnipotenti, in unitáte Spíritus Sancti,  omnis honor, et glória. Per omnia saecula saecolorum.
R. Amen.

[Per mezzo del quale, o Signore, Tu crei sempre tutti questi beni li santi ✠ fichi, vivi ✠ fichi, bene ✠ dici e li procuri a noi.  – Per mezzo di ✠ Lui e con ✠ Lui e in ✠ Lui, viene a Te, Dio Padre ✠ onnipotente, nell’unità dello Spirito ✠ Santo ogni onore e gloria. Per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen].

248 — Si spieghi la prima parte di questa preghiera.

Il pane e il vino per la consacrazione eucaristica sono i primi frutti di tutta la creazione che essi rappresentano. Per mezzo di Cristo, il Padre li ha creati. In virtù delle parole consacratorie, queste oblazioni sono state santificate e trasformate in Corpo vivo e Sangue di Cristo. E questa Vittima eucaristica è anche un cibo divino che sarà fornito a coloro che, attraverso la Comunione, parteciperanno pienamente al sacrificio.

249 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo questa preghiera?

Alle parole “santificare, vivificare, benedire”, il Sacerdote fa ogni volta il segno della croce sul Calice e sull’Ostia. Questi tre segni sottolineano il significato delle parole: le parole hanno dato origine al gesto.

Ad ogni parola da Lui, con Lui, in Lui, il sacerdote fa con l’Ostia Santa sul Calice, da un bordo all’altro, il segno della croce. Nominando il Padre e lo Spirito Santo, fa il segno della croce con l’ostia tra il petto e il Calice. Alle parole “ogni onore e gloria”, tiene l’Ostia sopra il Calice e li solleva leggermente.

250 — Cosa indicano i tre segni di croce fatti con l’ostia al di sopra del calice?

Questi tre segni della croce e le parole che li accompagnano vogliono indicare che l’adorazione più alta che possiamo dare a Dio, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, viene dal Sacrificio cruento della croce rappresentato e rinnovato sui nostri altari in modo incruento. L’adorazione di tutte le creature può essere gradita al Padre solo attraverso Gesù Cristo, l’unico Mediatore.

La piccola elevazione dell’Ostia e del Calice in questo momento della Messa è il simbolo della gloria che sale ogni giorno dai nostri altari al cielo con la vittima salutare.

251— Perché i fedeli rispondono amen alla fine di questa cette preghiera?

I fedeli dicono amen alla fine di questa preghiera per sottolineare la loro adesione a tutto ciò che il Sacerdote ha fatto pregando in silenzio durante questa parte della Messa.

CAPITOLO VI

COMUNIONE

252 — Quale è la terza parte della Messa dei fedeli?

La Comunione è l’ultima delle tre parti principali della Messa dei fedeli ed è la conclusione della Messa.

L’Eucaristia è insieme Sacramento e Sacrificio, ed è soprattutto partecipando alla vittima che si partecipa ai frutti della sua immolazione. Questa parte della Messa inizia con il Pater; la Comunione ne è il punto centrale.

1 — Il Pater

253 — Cosa richiama l’introduzione al Pater?

L’introduzione al Padre Nostro ci ricorda che Nostro Signore stesso ci ha insegnato questa preghiera e ci ha ordinato di recitarla.

Preghiera:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutione formati audemus dicere:

[Preghiamo Esortati da salutari precetti e ammaestrati da un’istruzione divina, Osiamo dire: Padre nostro.– Pater noster: infatti, ci vuole tutta la sicurezza e l’audacia della nostra fede per chiamare Dio nostro Padre. Non è mai venuto in mente ad un pagano di chiamare Giove o Apollo “mio padre”. I nomi: Nostro Dio, Nostro Maestro, sembrerebbe più conforme alla nostra condizione di creature e a tutta la tradizione ebraica, ma « … il Verbo, è venuto sulla terra, a darci il potere di diventare figli di Dio; abbiamo ricevuto lo spirito dell’adozione dei bambini, per cui gridiamo: “Abba, Padre mio”, ed è questo spirito che testimonia al nostro spirito che siamo i figli di Dio ». (Rom. VIII, 15-16)]

254 — Perchè si dice Padre Nostro, e non Padre mio?

Noi diciamo Padre Nostro e non Padre mio, perché Dio è il Creatore o il Padre di tutti gli uomini e quindi noi [battezzati] siamo tutti figli della stessa famiglia.

255 — Perché nostro Signore ha aggiunto: che siete nei cieli?

Nostro Signore ha aggiunto « che è nei cieli » per elevare i nostri cuori al cielo dove Dio regna nella sua gloria e dove speriamo di possederlo un giorno.

256 — In quanti parti si divide il Pater noster?

Il Pater è diviso in due parti: nella prima chiediamo a Dio tutto ciò che possa contribuire alla sua gloria; nella seconda, ciò di cui abbiamo bisogno noi per la vita dell’anima e del corpo.

Perché la vera carità ci fa amare Dio più di noi stessi, prima di chiedergli il pane del nostro corpo e la salvezza delle nostre anime, dobbiamo preoccuparci, da buoni figli, degli interessi del Padre Nostro: « servi Dio per primo », ripeteva santa Giovanna d’Arco.

257 — I fedeli devono recitare il Pater con il Sacerdote?

Seguendo la rubrica, il sacerdote recita il Pater a voce abbastanza alta perché i fedeli lo ascoltino e si associno ad esso nel pensiero: la parola oremus, preghiamo, posta all’inizio dell’introduzione, invita i fedeli a pregare con il Sacerdote.

La settima richiesta del Padre Nostro è formulata dal servente a nome dei fedeli. Il sacerdote risponde: Amen. Questo Amen ha un significato particolare: è come la risposta di Dio, che fa sapere che i desideri del popolo sono accettati e esauditi.

258 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo il Pater?

Iniziando l’introduzione al Pater, il Sacerdote unisce le mani in umiltà e le alza in atteggiamento di preghiera. Dicendo il Pater egli stesso, tiene le braccia tese: questo è l’atteggiamento della preghiera,

2 — Il Libera nos

259 — Cosa fa il Sacerdote cominciando il Libera nos?

Iniziando il “Libera nos”, il Sacerdote toglie da sotto il corporale la patena sulla quale vi aveva posto l’Offertorio; la pulisce con il purificatoio, poi, prendendola tra il dito indice e il medio, per non separare il pollice e l’indice che hanno toccato l’Ostia sacra, fa con essa un segno della croce su di sé nel momento in cui dice: dateci la vostra pace, e, dopo averla baciata, la pone sul caporale.

Preghiera;

« Líbera nos, quæsumus, Dómine, ab ómnibus malis, prætéritis, præséntibus et futúris: et intercedénte beáta et gloriósa semper Vírgine Dei Genetríce María, cum beátis Apóstolis tuis Petro et Paulo, atque Andréa, et ómnibus Sanctis, da propítius pacem in diébus nostris: ut, ope misericórdiæ tuæ adiúti, et a peccáto simus semper líberi et ab omni perturbatióne secúri. Per eúndem Dóminum nostrum Iesum Christum, Fílium tuum. – Qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus.
V. Per omnia sæcula sæculorum. R. Amen. »

[Liberaci, te ne preghiamo, o Signore, da tutti i mali passati, presenti e futuri: e per intercessione della beata e gloriosa sempre Vergine Maria, Madre di Dio, e dei tuoi beati Apostoli Pietro e Paolo, e Andrea, e di tutti i Santi concedi benigno la pace nei nostri giorni: affinché, sostenuti dalla tua misericordia, noi siamo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento. Per il medesimo Gesù Cristo nostro Signore, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con Te, nell’unità dello Spirito Santo
V. Per tutti i secoli dei secoli. R. Amen.]

260 — Si spieghi il segno della croce con la patena.

Il sacerdote fa il segno della croce con la patena nel momento in cui dice di darci la pace per ottolineare che attraverso la croce viene la pace.

Il sacerdote bacia la patena prima di posarla sul caporale per rispetto a questo sacro vaso dove riposerà Gesù Cristo. Questo bacio simboleggia l’unione con Cristo che è la nostra pace. Essa segna anche l’unione di tutti i fedeli in Cristo.

261 —Di quali mali domandiamo di esser liberati da questa preghiera?

Chiediamo di essere liberati da ogni male, dal peccato, che è il male più grande, e dalle sue conseguenze, dai mali presenti, passati e futuri: dai mali presenti (cioè dai peccati) che agitano le passioni; dai peccati passati a causa delle loro pene non espiate e delle funeste impressioni che hanno lasciato nella nostra immaginazione e nei nostri sensi; dai peccati futuri, cioè da tutto ciò che potrebbe compromettere la nostra salvezza.

3 — La frazione del pane

262 — Quale rubrica osserva il Sacerdote alla frazione del pane?

Mentre pronuncia le ultime parole della preghiera Libera nos, il Sacerdote fa scorrere la patena sotto l’Ostia, poi scopre il Calice e fa una genuflessione per adorare il Sangue divino. Egli rompe l’Ostia Sacra sopra il Calice, in modo che i frammenti che ne cadono possano mescolarsi al prezioso Sangue: Prima divide l’ostia santa in direzione dell’altezza in due parti uguali, di cui colloca quella destra sulla patena; poi stacca in fondo all’altra metà un piccolo pezzo triangolare che tiene nella mano di destra, mentre depone la parte principale sulla patena; dicendo CHE LA PACE + DEL SIGNORE + SIA SEMPRE + CON TE, fa con il pezzo di Ostia, che ha tenuto tra le dita, tre segni di croce da un bordo all’altro del Calice, e i fedeli, attraverso la bocca del servo, rispondono e CON IL TUO SPIRITO. Infine lascia cadere questo frammento nel Calice dicendo a bassa voce:

« Hæc commíxtio, et consecrátio Córporis et Sánguinis Dómini nostri Jesu Christi, fiat accipiéntibus nobis in vitam ætérnam. Amen. »

[Questa mescolanza e consacrazione del Corpo e del Sangue di nostro Signore Gesú Cristo giovi per la vita eterna a noi che la riceviamo. Amen.]

263 — Cosa ricorda la frazione del pane?

La frazione dell’ostia ci ricorda che Nostro Signore, nell’Ultima Cena, spezzò il pane prima di distribuirlo agli Apostoli. I discepoli di Emmaus riconobbero il Maestro allo spezzare il pane. Nei primi tempi della Chiesa, la celebrazione del Santo Sacrificio e della comunione era chiamata la frazione del pane.

La frazione dell’ostia in tre parti ci ricorda che in passato il pane consacrato era diviso in questo modo: Il Sacerdote di comunicava egli stesso con la prima; i diaconi rompevano la seconda e la distribuivano agli assistenti o la portavano ai malati; la terza, che il celebrante attualmente mette nel calice, veniva sia conservata per essere mescolata al prezioso Sangue alla Messa dell’indomani, sia inviata dal Vescovo ai sacerdoti che celebrano in altre chiese, per essere posto nel calice, affermando così l’unità e la continuità del Sacrificio Eucaristico.

264 — Cosa simbolizza la frazione dell’Ostia?

La frazione dell’Ostia simboleggia la morte violenta di Gesù Cristo sulla croce; essa ricorda le sue ferite e le lacerazioni prodotte dalla separazione dell’anima dal corpo (S. Th., q. 77, a. 7). Cristo vi si mostra come un agnello schiacciato a causa dei nostri crimini (Isaia, LIII, 5).

Le tre parti rappresentano sia le tre Persone della Santissima Trinità, sia la vita, la morte e la gloria del Salvatore, sia la Chiesa militante, la Chiesa sofferente e la Chiesa trionfante.

265 — Perché il Sacerdote mette una particella dell’ostia nel prezioso Sangue?

La consacrazione separata del pane e del vino e la frazione dell’Ostia in più parti rappresentano la passione e la morte di Nostro Signore. La commistione di un pezzo dell’Ostia nel calice rappresenta l’unione del Suo Corpo e del Suo Sangue al momento della risurrezione.

4 — L’Agnus Dei

266 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo l’Agnus Dei?

Dopo aver coperto il calice con la palla, il Sacerdote si genuflette, unisce le mani e, inchinandosi profondamente, si batte il petto per tre volte, dicendo:

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

[Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona noi la pace.]

Alla Messa dei defunti, le ultime parole delle tre invocazioni sono sostituite da: date loro riposo, e alla terza si aggiunge la parola eterna. E il prete non si batte il petto.

267 — Da dove viene a Gesù il Nome Agnello di Dio?

Isaia ci presenta il Messia come un agnello che soffre volontariamente e senza lamentarsi. Sotto questo nome fu promesso e raffigurato nell’Antica Alleanza, e sotto questo simbolo fu mostrato da San Giovanni Battista e lodato dagli Apostoli nel Nuovo Testamento.

La Chiesa ha sempre amato rappresentare il Salvatore nei tratti del Buon Pastore e nella figura dell’Agnello. Conclude quasi tutte le sue litanie con una solenne invocazione all’Agnello di Dio, chiedendogli di perdonarci, di ascoltarci, di avere pietà di noi.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/24/tutta-la-messa-la-vera-unica-cattolica-romana-momento-per-momento-10/

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (8)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (8)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

9 — La Consacrazione

214 — Qual è la formula della Consacrazione?

Le parole della Consacrazione si enunciano come segue:

« Qui prídie quam paterétur, accépit panem in sanctas ac venerábiles manus suas, elevátis óculis in coelum ad te Deum, Patrem suum omnipoténtem, tibi grátias agens, bene dixit, fregit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et manducáte ex hoc omnes. HOC EST ENIM CORPUS MEUM.

Símili modo postquam cœnátum est, accípiens et hunc præclárum Cálicem in sanctas ac venerábiles manus suas: item tibi grátias agens, bene dixit, dedítque discípulis suis, dicens: Accípite, et bíbite ex eo omnes.
HIC EST ENIM CALIX SANGUINIS MEI, NOVI ET AETERNI TESTAMENTI: MYSTERIUM FIDEI: QUI PRO VOBIS ET PRO MULTIS EFFUNDETUR IN REMISSIONEM PECCATORUM.

Hæc quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis»

[Il Il quale nella vigilia della Passione preso del pane nelle sue sante e venerabili mani, alzati gli occhi al cielo, a Te Dio Padre suo onnipotente rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e mangiatene tutti: QUESTO È IL MIO CORPO.

Nello stesso modo, dopo aver cenato, preso nelle sue sante e venerabili mani anche questo glorioso calice: di nuovo rendendoti grazie, lo bene ✠ disse, e lo diede ai suoi discepoli, dicendo: Prendete e bevetene tutti:

QUESTO È IL CALICE DEL MIO SANGUE, DELLA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA: MISTERO DI FEDE: IL QUALE PER VOI E PER MOLTI SARÀ SPARSO IN REMISSIONE DEI PECCATI.

Ogni qual volta farete questo, lo fate in memoria di me.]

215 — Quando Gesù-Cristo ha instituito la santa Eucarestia?

Gesù Cristo ha istituito la Santa Eucaristia nell’Ultima Cena, il Giovedì Santo, alla vigilia della sua morte.

Tre evangelisti, San Matteo, Santa Marco, San Luca e l’apostolo San Paolo ci hanno trasmesso la recita dell’istituzione della Santa Eucaristia. (S. Matteo, cap. XXVI; S. Marco, cap. XIV; S. Luca, cap. XXII; I Cor., cap. XI).

216 — Cosa fece Nostro Signore nell’istituire la santa Eucarestia?

Nell’istituire la Santa Eucaristia, Nostro Signore prese il pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi Apostoli, dicendo: Questo è il mio corpo. Poi prese il calice di vino, lo benedisse e lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti. Questo è il mio sangue che sarà sparso per la remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me.

Confrontando la formula liturgica per la consacrazione del pane e del vino con il testo degli Evangelisti e quello di San Paolo, è facile riconoscere, fuso in un testo che ha una fisionomia propria, i tratti che presi in prestito dalla Sacra Scrittura e i tratti che attingono dalla Tradizione. Le aggiunte al testo sacro – nelle sue mani sante e venerabili e … avendo alzato gli occhi verso di te, Dio, suo Padre Onnipotente; – l’eterna alleanza; – il mistero della fede – provengono dalla tradizione apostolica e sono indubbiamente autentiche e certe come le parole della Sacra Scrittura (S. Tommaso, III, Q. 78, a. 3, ad 9). Questa formula ci dice cosa abbia fatto Nostro Signore nell’Ultima Cena e cosa i sacerdoti debbano continuare nel suo Nome ed in sua memoria fino alla fine dei secoli.

217 — Si commenti lo sguardo di Nostro Signore verso il Padre.

Lo sguardo di Nostro-Signore verso il Padre è un gesto spontaneo di preghiera. Gli evangelisti ci dicono che al momento della risurrezione di Lazzaro « Gesù, alzando gli occhi, disse: Padre, ti ringrazio perché mi hai ascoltato » (Giovanni, XI, 41) e che alla moltiplicazione dei pani nel deserto, « alzando gli occhi al cielo, Gesù disse la benedizione e spezzò i pani » (Marco, VI, 41). Chi potrebbe dubitare che Gesù abbia alzato gli occhi al Padre nel momento in cui si compì pienamente la moltiplicazione figurativa del pane materiale, nell’offerta del suo corpo e del suo sangue al Padre prima di presentarli ai suoi discepoli come cibo e bevanda?

218 — Si spieghi l’espressione “Nuova ed eterna alleanza

È nel quadro pasquale dell’Antica Alleanza che Nostro Signore nell’Ultima Cena dichiara la concludere la Nuova Alleanza, che è anche eterna. Ai piedi del Sinai,  l’antica alleanza fu conclusa con il sangue degli animali; ma allora le promesse erano puramente terrene e dovevano durare solo per un certo tempo. Con il sangue di Nostro Signore è stata stabilita una nuova alleanza tra Dio e gli uomini: è nuova perché la realtà che essa costituisce soppianta l’antica figura, ormai vecchia; è eterna perché i beni terreni e passeggeri dell’alleanza del Sinai lasciano il posto alle meraviglie celesti ed eterne della Nuova Alleanza, che durerà fino alla fine dei tempi.

219 — Donde viene l’espressione “Mistero di fede”?

In passato, quando il Vescovo pronunciava le parole di Nostro Signore sul calice, il diacono annunciava nel silenzio dell’assemblea, invitando i fedeli all’adorazione: Mysterium fidei, mistero della fede. I sacerdoti, cominciando a dire la Messa senza diacono, hanno pronunciato essi stessi queste parole, che sono entrate, tra parentesi, nel testo della Consacrazione.

Questa espressione è registrata nei più antichi sacramentari; sembra avere origine in Gallia ed è presa in prestito da San Paolo che insegna che « i diaconi conservano il mistero della fede in una coscienza pura » (1Tim., III, 9). Molti esegeti interpretano questa espressione della Santa Eucaristia, che è appunto il mistero della fede per eccellenza. San Tommaso, nel suo Adoro te, lo afferma con semplicità e profondità:

Visus, tactus, gustus in te fallitur, Sed auditu solo tuto creditur. Credo quidquid dixit Dei Filius: Nil hoc verbo Veritatis verius. In cruce latebat sola Deitas, At hic latet simul et humanitas …

[La vista, il tatto e il gusto si ingannano su di te.

È solo attraverso l’ascolto che si esercita la fede nella sicurezza.

Credo a tutto ciò che ha detto il Figlio di Dio.

Nulla è più vero della parola della Verità:

Sulla croce si nascondeva la sola divinità.

Ma qui anche l’umanità è nascosta.]

220 — Cosa successe quando Nostro Signore disse: Questi è il mio corpo; questo è il mio sangue?

Quando Nostro Signore ebbe detto: “Questo è il mio corpo”, la sostanza del pane è stata trasformata nella sostanza del suo corpo; e quando disse: “Questo è il mio sangue”, la sostanza del vino è stata trasformata nella sostanza del suo sangue.

Istituendo la santa Eucaristia, Gesù Cristo disse: Questo è il mio corpo, QUESTO, cioè ciò che vi presento, QUESTO è il mio corpo. Se, in virtù di queste divine parole, non si fosse verificato un cambiamento di sostanza, ma solo un’unione di due sostanze, Gesù Cristo si sarebbe espresso falsamente e avrebbe indotto in errore i Suoi Apostoli. In questo caso avrebbe dovuto dire, e certamente avrebbe detto: Questo è il mio corpo e il mio pane tutti insieme. Ma poiché Egli disse semplicemente ed espressamente: Questo è il mio corpo, dobbiamo credere che ciò che Egli presentava ai suoi Apostoli, che all’inizio era stato pane, fosse diventato il suo stesso corpo, con un cambiamento di sostanza.

221 — Gesù Cristo è tutto intero sotto le specie del pane e tutto intero sotto le specie del vino?

Sì, Gesù Cristo è tutto intero sotto la specie del pane e tutto intero sotto la specie del vino; è tutto intero anche sotto ogni parte dell’una o dell’altra specie.

In Gesù glorioso, il corpo, il sangue, l’anima e la divinità non possono essere separati. Perciò, quando la sostanza del pane si trasforma nella sostanza del corpo di Cristo, in virtù delle parole “QUESTO È IL MIO CORPO”, il sangue, l’anima e la divinità di Cristo diventano presenti contemporaneamente sotto la specie del pane. Allo stesso modo, quando la sostanza del vino si trasforma nella sostanza del sangue di Gesù Cristo, in virtù delle parole QUESTO È IL MIO Sangue, anche il corpo, l’anima e la divinità di Gesù Cristo si trovano sotto le specie del vino. Questo è l’insegnamento del Concilio di Trento.

Secondo il racconto degli Evangelisti, Nostro Signore ha dato il suo corpo e il suo sangue agli Apostoli, dicendo loro: « Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, prendete e bevete, questo è il mio sangue. » Ora nonc’è stata che una sola consacrazione del pane e una sola consacrazione del vino. Ma gli Apostoli, dividendo tra loro questo pane consacrato e questo vino consacrato, ricevettero ciascuno Gesù Cristo intero. È quindi necessario che la condivisione delle specie sacramentali non porti alla divisione di Gesù Cristo, altrimenti gli Apostoli avrebbero avuto ciascuno solo un frammento del loro divino Maestro.

222 — Il cambiamento del pane e del vino nel corpo e sangue di Gesù Cristo continua a farsi nella  Chiesa?

Sì, il cambiamento dal pane e dal vino nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo continua ad avvenire nella Chiesa, sui nostri altari, attraverso Gesù Cristo che usa il ministero dei suoi Sacerdoti. – Gesù Cristo ha dato ai suoi Sacerdoti il potere di cambiare il pane ed il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue quando disse ai suoi Apostoli: « Fate questo in memoria di me ». Fate questo, cioè tutto ciò che è stato fatto prima, tutto ciò che Cristo ha fatto e detto, riti e parole; … in ricordo di me, cioè in ricordo della mia morte, perché Nostro Signore sottolinea nell’Ultima Cena che il suo corpo sarà dato offerto, che il suo sangue sarà versato per molti per la remissione dei peccati. – Con queste parole Nostro Signore ha istituito il Sacerdozio e il santo Sacrificio della Messa. Ai Sacerdoti, e solo ai Sacerdoti, Nostro Signore ha conferito il potere di celebrare la Messa. È una verità di fede definita dai Concili. – In tempi di persecuzione, ai confessori della fede, ai semplici fedeli, era permesso di portare con sé l’Eucaristia, di conservarla, per fortificarsi con essa, prima di comparire davanti ai giudici e disporsi, con questo cibo divino, a sacrificare generosamente la propria vita a testimonianza della propria fede. Sarebbe stato loro affidato questo prezioso deposito se avessero avuto il potere di consacrare? Se è stata loro affidata, è perché, vedendo raramente i Sacerdoti, non avrebbero potuto altrimenti avere la felicità di ricevere la Santa Eucaristia.

223 — Come è reppresentata nella messa la morte di Gesù Cristo sulla croce?

La morte di Gesù Cristo sulla croce è rappresentata nella Messa dal corpo del Salvatore sotto la specie del pane e il suo sangue sotto la specie del vino.

La morte di Nostro Signore non può essere rinnovata nella Messa, perché Cristo risorto non muore più.

La separazione materiale del Corpo dal Sangue di Nostro Signore, attraverso lo spargimento materiale di questo sangue, esprime l’immolazione. E questa immolazione liberamente accettata e offerta a Dio diventa un’oblazione. Ora, all’altare, Nostro Signore, con la stesso potere del Calvario, offre il suo Sacrificio a Dio suo Padre, il suo Corpo e il suo Sangue, separati sacramentalmente e misticamente dalla consacrazione del pane e del vino. All’altare, come sul Calvario, si trovano i due elementi di tutta l’immolazione vera e propria: la vittima immolata e la sua oblazione.

224 — Si mostri come l’atto della Consacrazione sia la riproduzione dell’ultima Cena.

Nel Cenacolo, Gesù Cristo era l’unico Sacerdote. All’altare, Egli è il Sacerdote capo, ma Egli si immola attraverso il ministero del suo sacerdote. Per questo il Sacerdote riproduce, il più fedelmente possibile, le parole e le azioni di Gesù Cristo.

Nel Cenacolo, Gesù prese il pane (nelle sue mani) e, (avendo alzato gli occhi al cielo):  avendo reso grazie, lo benedisse, lo spezzò, e lo distribuì dicendo: Questo è il mio corpo”.

Allo stesso modo, dopo la Cena … prendendo questo prezioso calice… e ringraziando parimenti grazie, lo benedisse e lo diede ai suoi discepoli, dicendo:

Prendetene e bevetene tutti, perché questo è il calice del mio sangue…..

All’altare, il sacerdote prende l’ostia tra le mani e alza gli occhi alla croce dell’altare, fa un cenno con la testa e fa il segno della croce sull’ostia (farà la frazione e la distribuzione delle specie sante alla Comunione), e dice: « Questo è il mio corpo ».

Prende poi il calice e chinato il capo, benedice il vino contenuto nel calice (l’usanza di comunicare dei fedeli sotto le due specie si conserva solo nelle chiese di rito orientale), e dice le stesse parole.

225— Si spieghi il rito dell’elevazione.

Subito dopo aver pronunciato le parole della Consacrazione, il sacerdote solleva rispettosamente prima l’ostia, poi il calice, per offrire ai fedeli il Corpo e il Sangue di Nostro Signore in adorazione.

I fedeli inginocchiati devono:

a) chinare il capo profondamente ad ogni genuflessione del sacerdote;

b) alzare la testa per guardare e adorare l’Ostia e il Calice ad ogni elevazione.

Il 12 giugno 1907, Pio X concesse un’indulgenza di 7 anni a tutti coloro che, durante l’elevazione, avessero guardato all’Ostia Santa con fede, pietà e amore e avessero detto: Mio Signore e mio Dio.

226 — Cosa si sa dello scampanellio all’elevazione?

La campana della chiesa dovrebbe essere suonata all’elevazione durante le Messe alte per ricordare ai fedeli, trattenuti a casa dalla malattia o dalle loro occupazioni, che Cristo scende sull’altare, e per invitarli a unirsi all’intenzione con il Sacerdote, che offre al Padre la Vittima divina.

All’interno della chiesa, l’accolito suona la campanella tre volte all’elavazione dell’ostia e tre volte all’elevazione del Calice, anche se la Messa viene celebrata in un oratorio privato.

L’uso di una campanella all’interno della chiesa fu stabilito verso la fine del XII secolo. Il suono della campanellaa, al Sanctus, all’Elevazione e alla Comunione, annuncia i momenti principali della Messa ai presenti e li invita ad un maggiore raccoglimento e fervore.

10 — L’Unde et memores

227 — Qali misteri ricorda la preghiera: “Unde et memores”?

Nostro Signore non solo aveva detto “fate questo”, ma aveva specificato “in memoria di me”. Così la Chiesa, appena fatta la consacrazione, riprende: “Noi ricordiamo – da qui il nome di memoria applicato a questa preghiera – ed enuncia i misteri della Redenzione: la passione, la risurrezione e l’ascensione, che si devono ricordare per ordine di Nostro Signore.

Preghiera:

Unde et mémores, Dómine, nos servi tui, sed et plebs tua sancta, eiusdem Christi Fílii tui, Dómini nostri, tam beátæ passiónis, nec non et ab ínferis resurrectiónis, sed et in cœlos gloriósæ ascensiónis: offérimus præcláræ maiestáti tuæ de tuis donis ac datis, hóstiam puram, hóstiam sanctam, hóstiam immaculátam, Panem sanctum vitæ ætérnæ, et Calicem salútis perpétuæ.

[Onde anche noi tuoi servi, o Signore, come pure il tuo santo popolo, ricordando la beata Passione del medesimo Cristo tuo Figlio, nostro Signore, e certo anche la sua Risurrezione dagli inferi e la sua gloriosa Ascensione in cielo: offriamo all’eccelsa tua maestà, delle cose che ci hai donate e date l’Ostia ✠ pura, l’Ostia ✠ santa, l’Ostia ✠ immacolata, il Pane ✠ santo della vita eterna e il Calice ✠ della perpetua salvezza.]

228—Si spieghi l’espressione “come pure il tuo popolo santo”

Il Battesimo imprime all’anima un carattere indelebile e la infonde una grazia santificante: ecco perché normalmente un Cristiano è un santo. Ecco perché San Paolo chiama i battezzati dei santi e Sant’Agostino si rivolge alla comunità cristiana chiamandola vostra santità. La Chiesa mette la stessa espressione sulle labbra del Sacerdote durante la Messa: noi tuoi servi, e con noi il tuo popolo santo, offriamo …

Non c’è dubbio che i fedeli non sono mediatori tra Dio e gli uomini; non sono deputati da Dio in modo speciale per offrire il santo Sacrificio; ma poiché sono battezzati, appartengono a Cristo e partecipano in modo misterioso ma reale al suo sacerdozio: sono un popolo santo, un Sacerdozio regale.

229—Si spieghi l’espressione “Noi offriamo a vostra Maestà delle cose donate e date”.

I Sacerdoti sono sia ministri di Gesù Cristo che ministri della Chiesa. Come ministri della Chiesa, essi procedono alla maniera dei Sacerdoti dell’Antica Legge: ricevono dai fedeli la materia da offrire alla divina Maestà, come Melchisedec e come Cristo stesso, il pane di grano e il vino della vite, che sono prodotti della terra. Li offrono prima di tutto come beni ricevuti dal Creatore a gloria del Padre, Autore di ogni dono perfetto. Ma offrono queste sostanze come destinate a far posto al Corpo e al Sangue di Cristo, che la consacrazione metterà nelle mani della Chiesa come un dono perfetto, un’Ostia santa, un’Ostia senza macchia, il Calice della salvezza eterna da offrire alla gloria del Padre.

230 — Perché il Sacerdote traccia cinque segni di croce alla fine di questa preghiera?

Secondo il Messale, il Sacerdote fa tre segni della croce sopra il Calice e l’Ostia, uno sopra l’Ostia da sola e uno sopra il Calice.

Questi cinque Segni della Croce dopo la Consacrazione corrispondono ai cinque Segni della Croce del Quam oblationem. Il Sacerdote – dice San Tommaso – dopo la consacrazione, non si serve più del segno della croce per benedire e consacrare, ma solo per ricordare la virtù della croce e il modo in cui si è compiuta la Passione di Cristo. (III, q. 83 a. 5 ad 4).

11 — Il Supra quæ

231 — Perché la Chiesa fa menzione dei sacrifici antichi alla Messa?

L’orazione Supra quæ parla dei sacrifici di Abele, di Abramo e di Melchisédech. La Chiesa ne fa menzione perché essi annunciano e rappresentano, meglio di tutti gli altri, il Sacrificio del Calvario ed il Sacrificio della Cena.

Preghiera:

Supra quæ propítio ac seréno vultu respícere dignéris: et accépta habére, sicúti accépta habére dignátus es múnera púeri tui iusti Abel, et sacrifícium Patriárchæ nostri Abrahæ: et quod tibi óbtulit summus sacérdos tuus Melchísedech, sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam.

[Su questi doni, con propizio e sereno volto, dégnati di guardare e di gradirli, come ti degnasti gradire i doni del tuo giusto servo Abele e il sacrificio del nostro Patriarca Abramo e quello che ti offrì il tuo sommo sacerdote Melchisedech, santo sacrificio, immacolata ostia.]

232 — Come i sacrifici antichi figurano il sacrificio di Gesù-Cristo?

Abele offrì agnelli a Dio, i primi frutti delle sue greggi e figura dell’Agnello di Dio, il primogenito del Padre. Come l’innocente, Abele fu messo a morte per mano di suo fratello, l’innocente Gesù veniva sacrificato dall’invidia degli ebrei, suoi fratelli.

Abramo che si prepara a sacrificare suo figlio Isacco è l’immagine di Dio Padre che consegna alla morte il suo unico Figlio. Melchisedek offrì pane e vino.

Un mosaico della metà del VI secolo perpetua il ricordo di queste tre oblazioni figurative: al centro, di fronte a un tavolo coperto da una tovaglia bianca, appare Melchisedek che tiene in mano il pane, e sul tavolo stesso un calice d’oro e due Pani eucaristici; a sinistra, Abele offre il suo agnello; a destra, Abramo conduce Isacco all’immolazione.

Il sacrificio di Abramo è molto spesso riprodotto nelle catacombe, insieme ad altri eventi biblici che rappresentano il sacerdozio e il sacrificio della nuova Alleanza, come emblema dell’Eucaristia.

12 — Il Supplices

233 — Quale rubrica osserva il Sacerdote recitando il “Supplices”?

Non appena il sacerdote inizia questa preghiera, si inchina profondamente e appoggia le sue mani unite contro l’altare. Questi gesti segnano l’atteggiamento di un supplicante. Il Sacerdote si appoggia sull’altare, figura di Gesù Cristo, per sottolineare che tutto ciò che fa, lo fa con Gesù Cristo, al quale si appoggia.

Preghiera:

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: iube hæc perférri per manus sancti Angeli tui in sublíme altáre tuum, in conspéctu divínæ maiestátis tuæ: ut, quotquot ex hac altáris participatióne sacrosánctum Fílii tui Cor pus, et Sán guinem sumpsérimus, omni benedictióne coelésti et grátia repleámur. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Supplici ti preghiamo, o Dio onnipotente: comanda che questi doni, per le mani dell’Angelo tuo santo, vengano portati sul tuo sublime altare, al cospetto della tua divina maestà, affinché quanti, partecipando a questo altare, riceveremo il sacrosanto Cor ✠ po e San ✠ gue del Figlio tuo, veniamo ricolmi d’ogni celeste benedizione e grazia. Per lo stesso Cristo nostro Signore. Amen.]

234 — Qual è questo sublime altare ove sono portate le nostre preghiere?

Questo sublime altare ove sono portate le nostre preghiere, è Dio stesso, quando riceve e accetta il Sacrificio del Calvario e quello della Messa riprodotto nel ricordarlo.

235 — Quale offerta l’Angelo del Signore porta sull’altare sublime?

Poiché il sacrificio consiste non solo in un’ostia offerta, ma anche nell’oblazione di questa ostia (vittima), il rito consacratorio rende presente non solo il corpo e il sangue immolati sulla croce da Cristo, ma anche l’oblazione, l’atto oblatorio con cui Egli li offriva alla gloria di suo Padre per la salvezza del mondo. Poiché, d’altra parte, Cristo come uomo rimane permanentemente in cielo, non chiediamo nei Supplices che l’Angelo del Signore porti il suo corpo e il suo sangue sul sublime altare del cielo, ma piuttosto l’atto rituale (liturgico), l’oblazione che ne facciamo sul nostro altare terreno attraverso la nostra preghiera.

236 — Qual è questo Angelo che porta le nostre offerte sull’altare sublime?

L’angelo che porta le nostre offerte sul sublime altare del cielo è l’Angelo della preghiera, l’Angelo incaricato da Dio di presentare le nostre preghiere e i nostri sacrifici davanti al suo trono. È ragionevole credere che questa funzione sia assolta o dall’Angelo protettore della chiesa e dell’altare dove si celebra la Messa, o dall’angelo custode del sacerdote, o da San Michele, onorato come difensore dell’Eucaristia e della Chiesa militante.

Questa preghiera è ispirata da un passo dell’Apocalisse: « E venne un altro Angelo, e  stava vicino all’altare con un incensiere dorato nella sua mano, e gli fu dato molto incenso, affinché offrisse le preghiere di tutti i Santi sull’altare dorato che è davanti al trono » (Apoc., VIII, 3).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/23/tutta-la-messa-la-vera-unica-cattolica-romana-momento-per-momento-9/

TRADIZIONE DIVINA E SANTA SCRITTURA

Istruzione sulla Tradizione divina e sulla Santa Scrittura.

(L. Goffiné, Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste; trad. A. Ettori P. S. P.  e rev. confr. M. Ricci, P. S. P., Firenze, Tip. Calas. da A. Ferroni – 1869).

La tradizione divina è la parola di Dio non scritta ma uscita dalla bocca stessa di Gesù Cristo, o rivelata agli Apostoli dallo Spirito Santo, e comunicata dagli stessi Apostoli ai primi Fedeli, che l’hanno trasmessa si loro successori, da cui noi successivamente e come di mano in mano l’abbiamo ricevuta. Quando si dice che la tradizione è la parola di Dio non scritta, s’intende dire che non è stata scritta subito dagli autori sacri, come i libri canonici dei due Testamenti, quantunque sia stata scritta in séguito o dai Concili, o nelle opere de’ santi Padri e degli altri autori ecclesiastici, o nei decreti dei Sommi Pontefici etc. La tradizione divina è assolutamente necessaria: la sua necessità e la sua autorità sono fondate sulla Scrittura e sui Padri. La santa Scrittura è la parola di Dio scritta sotto la ispirazione di Lui: non si dice santa precisamente perché mira a Dio, né perché è stata scritta col soccorso e con l’assistenza di Dio, ma perché ha Dio per autore, che 1’ha ispirata e dettata ai sacri scrittori. La Scrittura si divide in Antico e Nuovo Testamento : l’antico Testamento contiene i libri santi scritti avanti Gesù Cristo, che sono in numero di quarantacinque. Il nuovo Testamento contiene i libri che riguardano la legge evangelica, e sono stati scritti da Gesù Cristo in poi: sono ventisette. Si chiama la Scrittura Testamento, perché racchiude l’alleanza che Dio ha fatta con gli uomini, e la sua ultima volontà, con la quale lascia loro i suoi beni, come avviene nei testamenti che si fanno tra gli uomini. – Ecco l’ordine e il catalogo dei libri della Scrittura, secondo il decreto del Concilio di Trento, Sess. IV. cap. I. – I libri dell’antico Testamento sono la Genesi, l’Esodo, il Levitico, i Numeri, il Deuteronomio, Giosuè, i Giudici, Ruth, i quattro libri dei Re, i due libri dei Paralipomeni. i due libri d’Esdra, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, i Salmi, i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia, Baruch, Ezechiele, Daniele, i dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Nahum, Habacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due libri dei Maccabei.

I libri del Nuovo Testamento sono: il Vangelo di s. Matteo, il Vangelo di s. Marco, il Vangelo di s. Luca, il Vangelo di s. Giovanni, gli Atti degli Apostoli, le quattordici Lettere di s. Paolo: una ai Romani, due ai Corinti, una ai Galati, una agli Efesini, una ai Filippesi, una ai Colossesi, due ai Tessalonicesi, due a Timoteo, una a Tito, una a Filemone, una agli Ebrei; le due Lettere di s. Pietro, le tre di s. Giovanni, una di s. Giacomo, una di s. Giuda, e l’Apocalisse di s. Giovanni.

Alla sola Chiesa appartiene di determinare infallibilmente il senso e i libri della Scrittura.

Della lettura della Bibbia in volgare.

(Dell’Abate Glaire)

La lettura della Bibbia in volgare è stata il tema di vive discussioni. Così i Protestanti e i Giansenisti hanno accusato la Chiesa Cattolica:

1.° di non leggere la santa Scrittura in volgare nella celebrazione della sua liturgia;

2° di non permettere generalmente a tutti i Fedeli di leggerla;

3.° di abusare della sua autorità col proibirne la lettura.

Ma non ci sembra difficile il difender la Chiesa su questi differenti appunti.

1.° Quando la religione cristiana si stabiliva, la sinagoga celebrava i suoi uffizi pubblici in ebraico, lingua che non era più l’usuale; e Gesù Cristo e gli Apostoli, che rimproverarono ai Giudei tante loro costumanze, non condannaron mai, per quanto si sa, quest’uso. Ora abbiam noi più ragione di condannarlo? Aggiungiamo, che se vi fosse un obbligo rigoroso per la Chiesa di leggere la Scrittura in volgare, gli Apostoli non avrebbero mancato di farla tradurre nella lingua di tutti i popoli che essi convertirono alla fede. Qual monumento istorico vi è, che comprovi un simil fatto? e qual critico oserebbe sostenerlo?

Vi sono ben altri motivi ancora che possono giustificare la Chiesa Cattolica. In primo luogo vi è la grande difficoltà del tradurre i libri liturgici, senza alterarne il senso, e senza porre in pericolo la forma dei sacramenti: cosa che può dare motivo ad errori ed eresie. In secondo luogo la diversità delle lingue usate negli uffizi pubblici, non nocerebbe alla comunicazione delle varie chiese della cristianità? Un prete italiano, per esempio, non potrebbe offrire il santo sacrifizio della Messa che nel suo Paese; poiché, secondo i principj dei nostri avversari, i semplici Fedeli debbono intender la lingua usata nel pubblico esercizio del culto religioso, e principalmente per questa ragione essi vogliono imporre alla Chiesa l’obbligo di leggere la Scrittura in volgare. In terzo luogo finalmente la maestà e la dignità dei nostri divini Misteri sono tali, che non si potrebbero senza abbassarli ed avvilirli volgere in certe lingue rozze ed imperfette.

2.° Ma almeno, dicono gli avversari, perché la Chiesa non ne permette la lettura senza distinzione a tutti i suoi figli? Perché ella sa, come insegna l’Apostolo s. Pietro, che vi sono nella santa Scrittura dei passi che gli uomini ignoranti e di fede non salda potrebbero intender male a danno della loro salute. Pensano inoltre i Padri, e molti lo hanno notato, che vi siano nella Scrittura molte cose, le quali invece di edificare certi lettori gli scandalizzerebbero. In fatti quanti giovani non sarebbero posti al pericolo di guastarsi, se loro si mettesse in mano l’intera raccolta dei nostri santi libri? Quanti Cristiani d’ogni età, se leggessero un libro ove incontrassero ad ogni pagina cose di cui non intendessero il senso, correrebbero rischio di far naufragio nella fede! Bisogna prima aver fatto uno studio particolare del linguaggio familiare agli scrittori sacri, per non cadere a ogni momento in qualche sbaglio. Quante cose a prima giunta urtano, e quando sono spiegate appariscono naturali, buone e lodevoli! Aggiungi che permessa una volta a tutti indistintamente la lettura della Bibbia, un gran numero di persone la leggerebbero senza fede, senza umiltà, senza purità d’intenzione, come confessano che avviene gli stessi Protestanti più dotti, e come l’esperienza d’ogni giorno dimostra chiaro: e allora essa diverrà senza dubbio una cagione di scandalo e di caduta. Che se i nostri avversari ci dicano ancora, che i santi Padri esortano tutte quante le persone a legger la Scrittura, risponderemo: « Dateci dei cristiani così istruiti, così docili e così sottomessi come eran quelli a cui son dirette le loro esortazioni, e noi terremo loro il medesimo linguaggio. »

3.° Queste avvertenze sono più che sufficienti per giustificare la Chiesa dalla terza accusa lanciatale contro, di abusar cioè della sua autorità vietando la lettura della Bibbia ai Fedeli: poiché, se si è dimostrato che ci è pericolo per una certa classe di persone a leggere la santa Scrittura, non si vede come potrebbe contrastarsi alla Chiesa il diritto di proibire in certe circostanze questa lettura. Se la sinagoga ha esercitata questa autorità vietando la lettura dei primi capitoli della Genesi, di Ezechiello e del Cantico de’ Cantici, alle persone che non erano arrivate a una certa età, perché negare il medesimo diritto ai pastori della Chiesa cristiana; mentre sta ad essi il proibire ai Fedeli a loro affidati ciò che può nuocere? Così ne hanno usato in più Concilj, senza che mai alcun cattolico gli abbia accusati di usurpazione (Concilio di Tolosa, 1229; terzo di Milano sotto s. Carlo Borromeo; Concilio di’ Cambrai, 1586; concilio di Trento).

Dopo testimonianze sì autorevoli, non fa meraviglia :he i più gravi autori e i più rinomati teologi, come gli addetti alla facoltà teologica di Parigi, Gersone, Alfonso di Castro, il Soto, il Catarina, i Cardinali Du Pirron e Bellarmino, il Fromont e l’Ertius, abbiano riconosciuto il diritto che la Chiesa ha di una tal proibizione. Ma non sarà cosa inutile il dimostrare la falsità del principio, su cui i nostri avversari fondano le loro accuse. Il principio sta nel considerare come cosa necessaria, o almeno sempre vantaggiosa a tutti i Fedeli, il leggere la santa Scrittura. Or nulla vi è di più falso. Primieramente, non si verrà mai a provare la necessità di questa lettura per i semplici fedeli; non essendovi nessun testo della Scrittura ove questa verità sia asserita, e dall’altra parte la tradizione prova il contrario. (V. Iren., adv. hæres. 1. III, c. IV.; Tertull., de Præscript, c. XIV.; Clem. Alex., Pedagog., 1. III, c. II; s. August., de Doct. Christ.).

Dopo tutto ciò e perché la lettura della Bibbia sarà assolutamente necessaria ai semplici Fedeli? forse per conoscere le verità della fede? ma non possono apprenderle nei Catechismi e nelle predicazioni dei loro Pastori? Forse per credere? ma la fede è il frutto della sommissione alle verità insegnate dalla Chiesa, e non dell’esame. O finalmente per santificare il giorno del Signore? Ma dopo l’assistenza al santo Sacrifizio, e alle istruzioni cristiane, a quante altre opere di pietà non ci possiamo applicare? In secondo luogo, la lettura della santa Scrittura non è sempre utile ai Fedeli. Abbiamo provato di sopra che potrebbe anche esser loro dannosa. Il principio da cui si partono i nostri avversari è dunque falso, e per conseguenza i capi d’accusa che ne deducono sono senza fondamento. Per riassumere adunque ciò che avevamo da dire in quest’ultimo articolo concernente la Bibbia, diciamo:

1.° Che le versioni in volgare non sono proibite in modo assoluto dalla Chiesa Universale;

2.° Che le Chiese particolari, le quali le hanno proibite, non lo hanno fatto assolutamente e per tutti i Fedeli, ma solamente per quelli a cui questa lettura potrebbe recar danno;

3.° Che queste versioni non sono state proibite se non per certe circostanze, talché se tali circostanze cessassero, queste Chiese cesserebbero di proibir l’uso di quelle versioni;

4.° Che sebbene non sia generalmente proibito di leggere le versioni della Scrittura in volgare, quando sono state approvate dai Vescovi, nondimeno vi è del pericolo per i semplici Fedeli a farne uso senza averne chiesto consiglio al proprio parroco o al Confessore.

TUTTA LA MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (7)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (7)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

3 — Canone della Messa

192 — Cosa significa la parola Canone.

Canone è una parola greca che significa regola, una cosa fissa; in questo senso, le decisioni dei Concili si chiamano canoni e il diritto canonico si chiama legislazione della Chiesa. Il nostro Messale inscrive in capo alle preghiere che seguono il Sanctus le parole Canone missæ, Canone della Messa. Questa iscrizione indica la regola che si segue per consacrare il pane e il vino.

193 — Donde provengono le preghiere del Canone della Messa?

Il Canone della Messa è composto « dalle parole stesse di Nostro Signore, dalle tradizioni degli Apostoli e dalle pie istituzioni dei santi Pontefici » (Trid. sess. XXII, cap. IV).

Mancano alcune testimonianze storiche per determinare esattamente e dettagliatamente ciò che, nel Canone, provenga dagli Apostoli e ciò che sia stato poi aggiunto dai Papi. Tuttavia, sappiamo con certezza che San Gregorio Magno (+604) è l’ultimo che abbia fatto alcune aggiunte.

194 — Quali nomi si sono dati al Canon?

Al Canone sono stati dati vari nomi:

Preghiera per eccellenza, perché chiede il “dono” supremo, Gesù Cristo.

L’unzione, il mistero dell’Azione Santissima, da un’espressione latina agere causam, perorare una causa, o semplicemente agere nel senso di sacrificare, perché il Sacerdote che si sacrificherà perorerà, nella persona di Cristo e davanti al Padre suo, la causa della sua Chiesa universale.

Secretum Missæ, il segreto della Messa, per il mistero che nasconde, e soprattutto perché un tempo veniva recitato a bassa voce.

Anafora, dal greco “oblazione” che significa oblazione che si eleva a Dio.

195 — Quali sono i limiti del Canone?

Oggi il Canone della Messa inizia dopo il Sanctus e termina prima del Pater.

196 — Perché il sacerdote recita le preghiere del Canone a voce bassa?

È certo che nell’antichità il Canone veniva cantato in modo che potesse essere ascoltato da coloro che si trovavano attorno all’altare. Tuttavia, già nel IX secolo, la recita del Canone a bassa voce è un fatto compiuto e per molto tempo la rubrica ha prescritto la recita silenziosa del Canone: « il Sacerdote inizia il Canone a bassa voce dicendo… ».

Diverse sono le ragioni che spiegano la regola stabilita: l’immolazione del corpo e del sangue di Gesù Cristo è un privilegio sacerdotale e il popolo non può in alcun modo partecipare al suo esercizio; questo sacro silenzio è adatto a significare e a richiamare l’incomprensibile profondità dell’augusto mistero dell’altare; questo silenzio favorisce il raccoglimento ed esprime l’umiltà e il rispetto con cui la Chiesa compie il terribile Sacrificio.

Le preoccupazioni pratiche hanno indubbiamente favorito la scelta della preghiera silenziosa. È certo che il canto integrale del Ringraziamento ha richiesto uno sforzo da parte del celebrante che è stato tanto più laborioso quanto più sono state incorporate in esso diverse formule, estranee al testo primitivo, come i due Memento, le liste dei Santi nel Communicantes e Nobis quoque peccatoribus e le altre. In queste condizioni, la recita completa del Canone a bassa voce ha notevolmente sollevato il celebrante dal compito materiale.

197 — Spiegate la presenza dell’immagine di Gesù crocifisso davanti alle preghiere del Canone.

Gesù fu crocifisso su una croce che aveva la forma di una T maiuscola con cui inizia la prima parola latina del Canone. Fin dall’inizio, si è cominciato a decorare questa prima lettera nei messali e persino a metterci l’immagine di Nostro Signore. Questa immagine si è presto staccata dal testo e ha occupato una pagina speciale, come nei nostri moderni Messali.

4 — Te igitur

198 — Come si divide la preghiera Te igitur.

La preghiera Te igitur è divisa in due parti distinte.

a) Nella prima, il sacerdote raccomanda le oblazioni al Padre:

Te igitur, clementíssime Pater, per Jesum Christum, Fílium tuum, Dóminum nostrum, súpplices rogámus, ac pétimus, uti accepta habeas et benedícas, hæc dona, hæc múnera, hæc sancta sacrifícia illibáta, in primis, quæ tibi offérimus…

[Te dunque, o clementissimo Padre, per Gesù Cristo tuo Figlio nostro Signore, noi supplichiamo e preghiamo di aver grati e di benedire questi ✠ doni, questi ✠ regali, questi ✠ santi ed illibati sacrifici che noi ti offriamo …]

b) Nella seconda, il sacerdote ricorda la Chiesa militante universale, il Papa e il Vescovo:

«… pro Ecclésia tua sancta cathólica: quam pacificáre, custodíre, adunáre et régere dignéris toto orbe terrárum: una cum fámulo tuo Papa nostro et Antístite nostro et ómnibus orthodóxis, atque cathólicæ et apostólicæ fídei cultóribus

[… anzitutto per la tua santa Chiesa Cattolica, affinché ti degni pacificarla, custodirla, riunirla e governarla in tutto il mondo, insieme con il tuo servo e Papa nostro N., e col nostro Vescovo N., e con tutti i veri credenti e seguaci della cattolica ed apostolica fede.]

199 — Commentate la preghiera: noi ve le offriamo per la vostra Chiesa santa Cattolica.

« È necessario che io abbia nel mio pensiero la Chiesa Cattolica diffusa da Oriente ad Occidente », rispondeva il vescovo Fructuosus (+358) andando al rogo, a quel Cristiano che gli chiedeva di ricordarsi di lui nel suo martirio. Pregare per la Santa Chiesa è la grande devozione della liturgia, la devozione delle grandi anime, di coloro che, lasciando in secondo piano i loro piccoli interessi quotidiani, hanno come prima preoccupazione di vedere la Santa Chiesa bella con tutta la bellezza di Dio, potente nella sua azione e vittoriosa nelle sue lotte perpetue.

Tutti i sacerdoti pregano all’altare per la pace e l’unione di tutti i Cattolici sotto il governo dei loro legittimi pastori e per ciascuno dei membri che compongono la Chiesa. I fedeli in stato di grazia partecipano così all’influenza salutare delle migliaia di Messe celebrate ogni giorno nell’universo.

200 — Commentate l’intercessione a favore del Papa.

Pregare per il Papa è testimoniare che viviamo in comunione con il Capo della vera Chiesa. Il nome del Papa è formulato in tutte le Messe celebrate nell’universo.

L’omissione del nome del Papa nella Messa era considerata un errore enorme già nel V secolo; i Concili ne fecero un precetto rigoroso. Papa Pelagio X (+561) ha espresso ai Vescovi della Toscana il suo stupore per il fatto che il suo nome non fosse stato commemorato al Santo Sacrificio: « Come potete non considerarvi separati dalla comunione con l’universo – ha detto – se, durante i santi misteri e contro le consuetudini, passate sotto silenzio il ricordo del mio nome »?

201 — Commentate l’intercessione in favore del Vescovo.

La liturgia non solo coltiva l’attaccamento a Roma, ma rafforza anche l’unione con la Gerarchia episcopale. È attraverso i vescovi uniti a lui che il Papa diffonde in tutto il mondo il flusso di verità e di grazia di cui è fonte per mezzo di Gesù Cristo. Al Papa e al nostro Vescovo, la nostra venerazione e le nostre preghiere.

La menzione dei nomi dei Vescovi durante la Messa è una testimonianza della loro ortodossia. Al Concilio di Calcedonia (451) papa S. Leone M. (461) dichiarò che i nomi di Dioscoro di Alessandria e Giovenale di Gerusalemme e altri non potevano essere menzionati all’altare finché non avessero ritrattato i loro errori.

202 — Quali cerimonie accompagnano il Te igitur?

Il sacerdote alza gli occhi e le mani e subito le abbassa; si inchina profondamente e pone le mani unite sull’altare: è in questo atteggiamento che inizia il Canone. Bacia l’altare e con questi doni, regali e sacrifici fa tre segni di croce sul pane e sul vino.

Capo e interprete della comunità dei fedeli, il Sacerdote è consapevole della sua indegnità a mediare tra essa e il Padre (profonda inclinazione). Da Lui solo può venire tutto l’aiuto: per questo, implorando, alza gli occhi, le braccia e il cuore al cielo e lo prega con l’esortazione: “vi preghiamo e vi domandiamo”, affidandosi alla mediazione sacerdotale e ai meriti di Gesù Cristo (rappresentati dall’altare che sta baciando) per avere questi doni come graditi.

La parola “benedire” ha dato origine al triplice segno o benedizione dei doni offerti.

5 — Il Memento dei viventi

203 — Cosa significa la parola Memento?

La parola Memento significa “ricordatevi”. Qui il Sacerdote chiede a Dio di ricordarsi dei suoi servi e delle sue ancelle per metterli nello splendore del Sacrificio della Croce che la Messa prolunga, e di comunicare loro i suoi frutti.

Preghiera:

Meménto, Dómine, famulórum famularúmque tuarum N. et N. et ómnium circumstántium, quorum tibi fides cógnita est et nota devótio, pro quibus tibi offérimus: vel qui tibi ófferunt hoc sacrifícium laudis, pro se suísque ómnibus: pro redemptióne animárum suárum, pro spe salútis et incolumitátis suæ: tibíque reddunt vota sua ætérno Deo, vivo et vero.

[Ricordati, o Signore, dei tuoi servi e delle tue serve N. e N. e di tutti i circostanti, di cui conosci la fede e la devozione, pei quali ti offriamo questo sacrificio di lode, per sé e per tutti i loro cari, a redenzione delle loro ànime, per la sperata salute e incolumità; e rendono i loro voti a Te, o eterno Iddio vivo e vero]

204 — Cosa chiamate i frutti della Messa?

Il Sacrificio della Messa è sostanzialmente lo stesso del Sacrificio della croce. Non ha solo lo stesso valore del Sacrificio della Croce, ma anche la stessa efficacia del Sacrificio della Croce, con la differenza che ciò che è stato guadagnato per tutti gli uomini in modo globale dal Sacrificio della Croce, deve ora essere distribuito a ciascuno in particolare con la preghiera, i Sacramenti e, soprattutto, con il Santo Sacrificio della Messa. Questa efficace distribuzione attraverso ogni Messa celebrata, la chiamiamo il “frutto della Messa”.

Affinché l’oblazione dell’altare possa realizzare pienamente questa distribuzione dei meriti del Capo ai suoi membri, Dio doveva rendere la sua celebrazione alla portata di ciascuno dei fedeli. Quindi, era necessario non avere una sola Messa in un solo tempio, a Gerusalemme o a Roma, ma Messe ovunque e sempre.

205 — In quale misura si partecipa ai frutti della Messe?

Sull’altare, Cristo, Sommo Sacerdote, offre a Dio il suo vero corpo e il suo vero sangue. Non gli offre questi doni infiniti senza di noi, Sacerdoti e fedeli, membri del suo Corpo Mistico. Ovviamente i membri, che offrono tutti con Cristo, non hanno nell’oblazione lo stesso ruolo del Capo, che vi svolge la funzione principale, né dei Sacerdoti, che hanno il meraviglioso potere di essere sacrificatori. Noi collaboriamo all’offerta solo nella misura della nostra importanza nel Corpo Mistico. Ecco perché la partecipazione ai frutti della Messa è tanto più abbondante: a) quanto più sono perfette le disposizioni dell’Anima, b) quanto più è attiva la cooperazione nell’Atto del Sacrificio, c) quanto più intimo è il grado di unione con il ministro del Sacrificio, d) quanto il Sacerdote raccomanda un’anima più specialmente all’Attenzione Divina.

Con l’aiuto di questo principio è facile comprendere le seguenti verità: l’assistenza alla Messa che il Cristiano procura per la celebrazione, si aggiunge ai frutti che si è già assicurato con l’elemosina; i chierici o i laici, che assistono il Sacerdote, ricevono, secondo le loro disposizioni, la ricompensa della loro preziosa e così stretta collaborazione; Le persone pie che hanno ricamato gli ornamenti, fatto il lino dell’altare, gli impiegati della chiesa, i sacristani o altri, i Cristiani generosi che, con le loro elemosine alla colletta, le missioni o altro, contribuiscono a rendere i templi più belli e accoglienti, hanno diritto ai frutti delle Messe di cui contribuiscono a procurare la degna celebrazione.

206 — Per chi prega il Sacerdote al Memento dei viventi?

Le due lettere N. e N., all’inizio del Memento, avvertono il Sacerdote di menzionare qui per nome, secondo le prescrizioni della rubrica, alcune persone che desidera interessare più particolarmente al Santo Sacrificio.

Il Sacerdote raccomanda poi, a nome della Chiesa, gli assistenti e, con loro, tutti quelli a loro cari.

La scelta delle persone citate nel Memento è lasciata alla libertà del celebrante. Pregherà prima di tutto per colui per il quale sta celebrando la Messa. A questa intenzione ne aggiungerà altre secondarie e ricorderà i suoi parenti, gli amici, i benefattori spirituali e temporali, coloro che sono particolarmente affidati alle sue cure, le anime consacrate a Dio, i moribondi, ecc…

Sono piene di fede e di saggezza soprannaturale, le parole di un Cristiano generoso al seminarista di cui pagava la pensione: « Oh, non ringraziate me; sarò troppo ben ricompensato quando diventerete Sacerdote, se solo una volta pronunciato il mio nome al Santo Sacrificio ».

6 — Il Communicantes

207 — Quale dogma richiama il “Communicantes”?

Il Communicantes ricorda il dogma della Comunione dei Santi. Infatti, il Sacerdote e i fedeli hanno appena pregato in comunione con il Papa, con il Vescovo, con tutti i fedeli; ora egli prega in comunione con i Santi del cielo.

Preghiera:

Communicántes, et memóriam venerántes, in primis gloriósæ semper Vírginis Maríæ, Genetrícis Dei et Dómini nostri Jesu Christi: sed
et beatórum Apostolórum ac Mártyrum tuórum, Petri et Pauli, Andréæ, Jacóbi, Joánnis, Thomæ, Jacóbi, Philíppi, Bartholomæi, Matthæi, Simónis et Thaddæi: Lini, Cleti, Cleméntis, Xysti, Cornélii, Cypriáni, Lauréntii, Chrysógoni, Joánnis et Pauli, Cosmæ et Damiáni: et ómnium Sanctórum tuórum; quorum méritis precibúsque concédas, ut in ómnibus protectiónis tuæ muniámur auxílio. Per eúndem Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Uniti in una stessa comunione veneriamo anzitutto la memoria della gloriosa sempre Vergine Maria, Madre del nostro Dio e Signore Gesù Cristo:
e di quella dei tuoi beati Apostoli e Martiri: Pietro e Paolo, Andrea, Giacomo, Giovanni, Tommaso, Giacomo, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Simone e Taddeo, Lino, Cleto, Clemente, Sisto, Cornelio, Cipriano, Lorenzo, Crisógono, Giovanni e Paolo, Cosma e Damiano, e di tutti i tuoi Santi; per i meriti e per le preghiere dei quali concedi che in ogni cosa siamo assistiti dall’aiuto della tua protezione. Per il medesimo Cristo nostro Signore. Amen.]

208 — Si fa memoria della festa del giorno al Communicantes?

Si fa menzione della festa del giorno al Communicantes solo nelle grandi feste di Natale, Epifania, Pasqua, Ascensione, Pentecoste, con le loro ottave, e nel Giovedì Santo.

Per la comodità dell’uso quotidiano, queste preghiere, di eccezionale utilità, sono inserite nel messale non nel corpo del Canone, ma nei “prefatio” propri delle suddette feste.

209 — Quali sono i santi che il Sacerdote nomina al Communicantes?

Al Communicantes, il sacerdote nomina la Beata Vergine, i dodici Apostoli e i dodici martiri romani (cioè nati a Roma o popolari in quella città, o perché le loro reliquie riposano e sono venerate nelle basiliche di Roma).

a) L’elenco evoca prima di tutto il nome di Maria con il suo titolo glorioso di Madre di Dio, che il Concilio Ecumenico di Efeso (431) le ha conferito. Come in ogni altro luogo, la Beata Vergine, Regina degli Apostoli, dei Martiri e di tutti i Santi, viene nominata qui per prima.

b) La vocazione, la vita e la morte degli Apostoli spiegano facilmente la menzione dei loro nomi nella liturgia.

c) Ai dodici Apostoli rispondono simmetricamente i dodici Martiri. Prima di tutto, i tre Papi che sono succeduti a San Pietro, ovvero S. Lino, S. Cleto e S. Clemente; poi altri due Papi: S. Sisto II e S. Cornelio. A questi Sovrani Pontefici, di cui in passato è si leggeva tutta la lista, il Canone aggiunge i nomi di altri sette martiri, di cui ha scelto di citare solo i più importanti. Questi sono S. Cipriano, vescovo di Cartagine, che visse e lottò per l’unità della Chiesa, S, Lorenzo, il grande diacono di Roma, e cinque laici: S. Chrysogone, un illustre romano, i due SS. Giovanni e Paolo, messi a morte per ordine di Giuliano l’Apostata, e i due SS. Cosma e Damiano, medici, decapitati dopo lunghe torture.

7 —  L’Hanc igitur

210 — Cosa domanda la preghiera Hanc igitur?

Questa preghiera insiste affinché Dio accetti con compiacimento l’oblazione dei suoi Sacerdoti e dei suoi fedeli e conceda loro la pace, la preservazione dall’inferno e le gioie del cielo.

Preghiera:

Hanc igitur oblatiónem servitutis nostræ, sed et cunctae famíliæ tuæ,
quaesumus, Dómine, ut placátus accípias: diésque nostros in tua pace dispónas, atque ab ætérna damnatióne nos éripi, et in electórum tuórum júbeas grege numerári. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

[Ti preghiamo, dunque, o Signore, di accettare placato questa offerta di noi tuoi servi e di tutta la tua famiglia; fa che i nostri giorni scorrano nella tua pace e che noi veniamo liberati dall’eterna dannazione e annoverati nel gregge dei tuoi eletti.
Per Cristo nostro Signore. Amen.]

211 — Perché l’imposizione delle mani sulle oblazioni?

Il sacerdote stende entrambe le mani sull’ostia e sul calice, mentre recita la preghiera Hanc igitur, per mostrare che Gesù, che sta per scendere all’altare, è stato la vittima incaricata di espiare le nostre colpe. Questo gesto ricorda il Sommo Sacerdote che carica il capro espiatorio di tutti i peccati di Israele.

L’imposizione delle mani nel rito eucaristico è già raffigurata in un affresco della catacomba di Callisto (III secolo) ed è espressamente menzionata nei Canoni di Ippolito (IV secolo).

8 — Il Quam Oblationem

212— Cosa domanda la preghiera Quam oblationem?

Questa preghiera chiede un’ultima volta di benedire il pane e il vino affinché diventino il Corpo e il Sangue di Gesù.

Preghiera:

Quam oblatiónem tu, Deus, in ómnibus, quaesumus, bene díctam, adscríp tam, ra tam, rationábilem, acceptabilémque fácere dignéris: ut nobis Cor pus, et San guis fiat dilectíssimi Fílii tui, Dómini nostri Jesu Christi.

[La quale offerta Tu, o Dio, dégnati, te ne supplichiamo, di rendere in tutto e per tutto bene ✠ detta, ascrit ✠ ta, ratifi ✠ cata, ragionevole e accettabile affinché diventi per noi il Cor ✠ po e il San ✠ gue del tuo dilettissimo Figlio nostro Signore Gesù Cristo.]

Gesù Cristo è un’oblazione, una vittima benedetta in ogni cosa, sotto ogni punto di vista. La benedizione in questione è la consacrazione. Chiediamo quindi a Dio di benedire l’oblazione del pane e del vino, cioè di farne, attraverso la consacrazione, una fonte inesauribile di grazie e di benedizioni.

Chiediamo che questa offerta sia legittima, cioè conforme alla prescrizione e all’istituzione di Gesù Cristo.

Se l’oblazione è conforme alla volontà di Gesù Cristo e al suo comando: “Fatelo in memoria di me”, allora sarà ratificata, cioè vera e valida.

Il Sacrificio eucaristico è un’oblazione ragionevole, perché sull’altare viene sacrificato l’Agnello vivente di Dio, Gesù Cristo, l’Uomo-Dio, la ragione eterna, la Sapienza personale e increata.

Dotato di queste quattro qualità, questo Sacrificio è infallibilmente gradito a Dio, caro al suo cuore e degno di Lui.

La conclusion, che diventa per noi il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo, esprime e sollecita il cambiamento essenziale della materia di Sacrificio. Ed è per noi, che il Salvatore si immola sull’altare.

213 — Perché cinque segni di croce sulle oblazioni?

Ogni volta che viene pronunciata nella Messa la parola “benedire”, è accompagnata da un segno della croce, per dimostrare che è in virtù dei meriti di Gesù sulla croce che Dio concede le sue benedizioni. Considerati in sé, i primi tre segni della croce sono una chiara immagine dell’adorabile Trinità, dalla quale scaturisce il potere di santificare gli elementi terreni e di trasformarli nel sacrificio eucaristico. Le parole Corpo e Sangue richiamano il segno della croce come un gesto, designando solennemente la materia da cambiare nel Corpo e nel Sangue del Signore, e come una preghiera, perché il cambiamento delle sostanze rappresenterà, nel modo più vivamente possibile, l’immolazione del Golgota.

TUTTA LE MESSA (LA “VERA” UNICA CATTOLICA ROMANA) MOMENTO PER MOMENTO (6)

TUTTA LA MESSA MOMENTO PER MOMENTO (6)

[Aldéric BEAÜLAÇ, p. S. S.

Vicario & subdiacono (Montréal)

“TOUTE LA MESSE

Par questions et réponses”

TUTTA LA MESSA in Domande e risposte

(Nouvelle édition revue et corrigée)

3425, RUE ST-DENIS MONTREAL

Cum permissu Superioris,

EUGENE MOREAU, p.s.s.

Nihil obstat’.

AUGUSTE FERLAND, p.s.s.

censor deputatus

Marianopoli, die 28a martii 1943

Imprimi potest’.

ALBERT VALOIS, V. G.

Marianopoli, die 28a martii 1943

CAPITOLO V

CONSACRAZIONE

171 — Quale è la seconda parte della Messe dei fedeli?

La seconda parte della Messa dei fedeli si estende dal Prefazio al Pater: comprende le preghiere e gli atti che accompagnano la consacrazione.

I riti dell’offerta sono terminati: la materia del sacrificio viene preparata, offerta, santificata e, insieme all’Ostia, ci presentiamo anche noi a Dio per essere immolati con il suo Figlio Divino.

1 — Il Prefazio.

172 — Qual è il senso della parola prefazio?

Il termine “prefazio” è composta da due parole latine, præ-fatio, prefazione. La prefazione è un’introduzione e una preparazione all’atto del Sacrificio.

San Cipriano ( + 258) usa già questo termine, ma con questo nome si riferisce solo al dialogo introduttivo. Egli chiama il testo che segue “oratio”, preghiera. Oggi la parola prefazione, insieme a questo dialogo, indica la preghiera che termina al Sanctus.

173 — Quanti prefazi si contano nel Messale?

Il nostro Messale ha quindici prefazi: quelle del Natale, dell’Epifania, della Quaresima, della Santa Croce, della Pasqua, dell’Ascensione, del Sacro Cuore, di Gesù Cristo Re, della Pentecoste, della Santissima Trinità, della Vergine, di San Giuseppe, degli Apostoli, dei defunti ed il comune prefazio.

Immolando l’Agnello Pasquale, gli Ebrei ringraziavano Dio per tutte le benedizioni che aveva concesso al suo popolo: la creazione, la salvezza concessa a Noè, l’elezione di Abramo, la rivelazione fatta a Mosè, la liberazione dall’Egitto, ecc. Nostro Signore nell’Ultima Cena ha fatto lo stesso sostituendo il pane e il vino all’agnello. Gli Apostoli e i loro successori hanno reso grazie celebrando di nuovo la Cena del Signore, come il Maestro ha comandato. « Chi presiede – dice san Giustino nel II secolo – dopo aver ricevuto i doni (pane, vino), rende gloria a Dio per mezzo del Figlio e dello Spirito Santo, e procede con lunghe preghiere all’Eucaristia o azione di grazia ». La Chiesa ha sostituito la lunga nomenclatura dei benefici concessi da Dio nella Vecchia Legge, con il ricordo dei benefici che Dio ci ha concesso sotto la Nuova Legge nella persona di Gesù Cristo. Il comune prefazio, essendo una formula schematica piuttosto che regolare, menziona che  è degno … il rendere grazie; ognuna degli altri prefazi indica il particolare beneficio di cui la Chiesa ringrazia: a Natale, per esempio, « perché, attraverso il mistero del Verbo incarnato, una nuova luce della vostra chiarezza ha brillato nella nostra mente, così che ora, conoscendo Dio in modo visibile, attraverso di Lui ci rallegriamo nell’amore delle cose invisibili… ».

174 — Come si divide il prefazio?

Il prefazio si compone di tre parti: l’introduzione o dialogo, il corpo e la conclusione o  transizione al Sanctus,

175 — Di quanti versetti si compone il dialogo introduttivo?

L’introduzione si compone di tre versetti e della loro riposta:

v. — Dominus vobiscum.

Il Signore sia con voi.

r. — Et cum spiritu tuo.

E con il tuo spirito.

v. — Sursum corda!

In alto i cuori!

r. —. Habemus ad Dominum.

Li abbiamo verso il Signore.

v. — Gratias agamus Domino Deo nostro.

Rendiamo grazie a Dio.

r. — Dignum et justum est.

Questo è degno giusto.

Con le sue pressanti esortazioni, il Sacerdote vuol fissare l’attenzione dei fedeli, prepararli al rito centrale dell’oblazione eucaristica, renderli partecipi attivi del suo sacrificio che è anche il loro sacrificio.

176 — Perché il Sacerdote non si volta a salutare il popolo?

Il sacerdote si è congedato dal popolo con Orate Fratres. D’ora in poi, come Mosè sul Sinai, egli conversa con il Signore, la sua attenzione è tutta sulla sacra fazione del sacrificio.

Inoltre, in alcune chiese, come tra gli armeni, i russi, i copti e altri orientali, sarebbe stato superfluo rivolgersi al popolo; perché subito prima del prefatio le porte del santuario erano chiuse e le tende tirate, in modo che il Sacerdote non sia più visto dai presenti.

177 — Si spieghi l’esclamazione Sursum corda.

Il Sacerdote – dice S. Cipriano ( + 258) – prima di iniziare la preghiera (canone), prepara lo spirito dei fratelli con questa prefazione, Sursam corda, affinché il popolo sia avvertito dalla sua risposta, habemus ad Dominum, lo teniamo elevato al Signore, dell’obbligo di prendersi cura di Dio solo. Chiudiamo dunque il nostro cuore a tutti tranne che al Signore, e non lasciamo che il suo nemico si avvicini a noi, mentre gli chiediamo grazie ». – A sua volta, sant’Agostino ( + 430) spiega questa preghiera: « Ricordatevi bene – dice – dell’ordine della liturgia ». Prima di tutto, dopo l’orazione (la preghiera dei fedeli), siete invitati a tenere in alto i vostri cuori, cosa che è adatto alle membra di Cristo (che voi siete) … perché il nostro Capo è in cielo. Ecco perché quando si dice; Sursum corda, si risponde: Habemus ad Dominum“.  La nostra conversazione è in cielo (Filipp., III, 20): pensare e tendere a ciò che è in alto, tale è la filosofia cristiana. Il sursum corda, durante il santo Sacrificio, ce lo ricorda e ci dispone ad esso.

178 — Quale rubrica osserva il Sacerdote dicendo: Sursum corda?

Il sacerdote alza le mani per testimoniare, con questo gesto, il suo ardente desiderio di unirsi e donarsi totalmente a Dio. – Ai Vespri dell’Ascensione cantiamo: Sii, o Gesù, la meta a cui sono diretti i nostri cuori! E l’inno dell’ufficio festivo del mercoledì, al Mattutino, indica con questo slancio dell’anima, il gesto che significa: Alziamo gli animi e le mani, facendo eco all’invito del profeta Geremia: Alziamo i nostri cuori e le nostre mani al Signore nei cieli (Lam., III, 41).

Si solleva il cuore oltre che le mani – dice San Gregorio Magno – quando si dà forza alla preghiera attraverso le opere buone. Pregare senza fare buone azioni è alzare il cuore senza le mani, e agire senza preghiera è alzare le mani senza il cuore.

179 — Quale rubrica osserva il Sacerdote nel dire il versetto: “Rendiamo grazie al Signore”?

Mentre il Sacerdote pronuncia queste parole, unisce le mani sul petto, alza gli occhi, e poi china rispettosamente il capo davanti alla Croce dell’altare.

Più l’anima si eleva al di sopra di se stessa e di tutte le creature, più vede che Dio è carità eterna e fonte di ogni bene. Questa considerazione porta al ringraziamento. Questo sentimento si manifesta nel Sacerdote quando dice Rendiamo grazie a Dio, e nei fedeli quando rispondono, attraverso la bocca del servente della Messa o dei cantori: “Questo è degno e giusto”.

180 — Da cosa è composto il corpo del prefatio?

Il corpo del prefatio è composto da due parti: l’inizio e il proprio.

L’inizio è sempre lo stesso: è veramente degno e giusto, equo e salutare rendervi grazie in ogni momento e in ogni luogo, o Signore santo, Padre onnipotente, Dio onnipotente, per Cristo nostro Signore.

Adattato ai Misteri o alle Feste, il proprio sviluppa il perché del Ringraziamento: a Natale, perché attraverso il mistero della Iincarnazione conosciamo Dio in forma visibile; all’Epifania, perché il suo Figlio unigenito, vedendosi rivestito della nostra carne mortale, ha riparato la nostra natura comunicandogli il nuovo splendore della sua immortalità; durante la Quaresima, perché attraverso il digiuno corporeo reprime i vizi ed eleva l’Anima; alla Passione, perché ha posto la salvezza del mondo sull’albero della Croce, dove Gesù ha sconfitto nel legno colui che una volta aveva trionfato nel legnoo dell’albero (del paradiso terrestre); a Pasqua, perché Cristo è il vero Agnello che è stato immolato per togliere i nostri peccati dal mondo e risorto per restituirci la nostra vita; e così via…

181 — Mostrate che è degno rendere grazie a Dio:

È degno in relazione a Dio e in relazione a noi stessi:

a) Nel ringraziare Dio, lo riconosciamo come l’Autore di tutti i nostri beni; esaltiamo la sua maestà, l’amore paterno, la grandezza e la bontà, e così diamo a Dio ciò che la sua dignità esige.

b) La gratitudine è il segno di un cuore sollevato. Il fervido ringraziamento appartiene alla perfezione cristiana: perciò i Santi non si stancano mai di ringraziare Dio in terra, e il loro infinito ringraziamento è la loro occupazione più dolce dell’eternità.

182 — Mostrate che è giusto rendere grazie a Dio.

Dio esige da noi il ringraziamento come tributo obbligatorio. San Paolo ricorda ai suoi Cristiani questo dovere: Rendiamo grazie a Dio in tutte le cose: questa è la volontà di Dio in Gesù Cristo (1 Tess. v, 18).

183 — Mostrate che è equo rendere grazie a Dio.

Se consideriamo l’immensità della bontà di Dio e l’abbondanza delle sue misericordie riversate su di noi ogni giorno, il nostro cuore traboccerà di amore e gratitudine, la nostra bocca proclamerà le meraviglie della sua bontà divina, daremo a Dio più di quanto siamo vincolati da una legge severa e rigorosa.

184 — Mostrate che è salutare rendere grazie a Dio.

Ascoltiamo l’autore dell’Imitazione di Gesù Cristo: « Se la grazia non scorre abbondantemente su di noi, è perché siamo ingrati verso il suo Autore e non risaliamo alla sua fonte originaria: perché la grazia non è mai negata a chi la riceve con gratitudine….. Siate grati, dunque, per le più piccole grazie, e meriterete di riceverne di più grandi. (De Imit. Ch., 1. II. c. X, n. 2, 5).

185 — Mostrate che bisogna rendere grazie a Dio in ogni tempo.

Benedirò Dio in ogni tempo – canta il Salmista – la sua lode sarà sempre sulla mia bocca (Sal XXXIII). E altrove: È bene lodare il Signore e cantare a gloria del tuo nome, o Altissimo, per proclamare la tua misericordia al mattino e la tua verità nella notte (Sal. XCI, 1 e 2).

Sant’Agostino commenta così questi ultimi versetti: « Noi non siamo Cristiani che per la vita futura; nessuno si prometta il bene di questa vita e la felicità del mondo perché è Cristiano; che usi la felicità di questo mondo come può, quando può e quanto può. Quando la possiede, ringrazi Dio che lo consola; quando ne è privato, renda grazie per la sua giustizia; sia sempre grato, mai ingrato; riceva con gratitudine i favori di un Padre che lo consola e riceva con la stessa gratitudine le punizioni di un Padre che lo sottomette al giogo della disciplina, perché è sempre per amore che Dio ci elargisce i suoi favori o le sue minacce, e il Cristiano ripeta queste parole del Salmista: « È bene benedire il Signore e cantare i suoi inni nel vostro nome, o Dio Altissimo. » (S. Aug., Dnar. in ps. XCI, n. 1).

186 — Come termina il Prefatio?

Il Prefatio termina con la menzione che in cielo tutti i cori degli Angeli rendono grazie a Dio per mezzo di Cristo e la domanda che sulla terra possiamo unire le nostre voci alle loro per annunciare la gloria dell’augusta Trinità e del nostro Salvatore, dicendo il Sanctus con profonda umiltà.

2 — Il Sanctus

187 — Di quante parti ci compone il Sanctus?

Il Sanctus è composto da due parti: la prima

Santo, santo, santo è il Signore, il Dio degli eserciti. I cieli e la terra sono pieni della vostra gloria.

– comprende la glorificazione dell’adorabile Trinità; la seconda – Osanna al più alto dei cieli. Benedetto sia Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei cieli – è il saluto al Salvatore dai fedeli della terra.

L’enumerazione di tutti i benefici per i quali dobbiamo rendere grazie a Dio, dalla creazione, attraverso tutto l’Antico Testamento, fino al passaggio di Isaia (Is., VL 3), dove è fatta menzione degli Angeli, riporta al Sanctus: “I Serafini si rallegravano l’un l’altro e dicevano Santo, Santo, Santo è il Signore, il Dio degli eserciti; tutta la terra è piena della sua gloria….. La triplice ripetizione di questa parola santa non solo vuole insistere più fortemente sulla santità di Dio, ma indica la Trinità delle Persone in un unico Dio che è santo.

188 — Spiegate l’espressione: Benedetto colui che viene nel nome del Signore.

Questa espressione è mutuata dal canto del trionfo con cui il Salvatore, principe della pace e vincitore della morte, è stato accolto dalle folle al suo solenne ingresso a Gerusalemme. È una formula di omaggio e di lode al Salvatore, in questo momento in cui, come Agnello divino, si prepara ad apparire in mezzo a noi, come un tempo a Gerusalemme, per consumarvi il suo Sacrificio.

189 — Cosa significa la parola Osanna?

La parola Osanna è un’acclamazione ebraica; è presa a volte come un grido di angoscia, che significa aiuto o salvezza (Sal. CXVIII, 26), a volte come un grido di gioia e di trionfo, che significa: egli viva (Math. XXL 9). San Luca spiega questa parola già in questo senso (di gioia) con una circonlocuzione; invece di dire: “Osanna nell’alto, dice: “Pace nel cielo e gloria nell’alto”. (Luca, XIX, 38).

190 — Quali nomi si danno al Sanctus?

A causa della prima parte, questo canto è chiamato trisagio, inno serafico o angelico; per la seconda parte lo si chiama inno trionfale.

La parola “trisagion” – da due parole greche che significano tre e santo – indica un inno in cui la parola santo viene ripetuta tre volte.

191 — Quali regole osservano il Sacerdore ed il servente al Sanctus?

Al Sanctus, il Sacerdote si inchina e unisce le mani nel rispetto della santità dell’Altissimo e per le ultime parole del Prefatio: « vi diciamo umilmente »; si segna alle parole: « benedetto colui che viene…. » secondo l’antica usanza di segnarsi quando si recitano testi presi dal Vangelo. Il servente fa suonare la campanella all’inizio del Sanctus: questo suono « costituisce un segnale per attirare l’attenzione dei fedeli sulla prossima consacrazione, una manifestazione di gioia, una professione di fede nell’imminente presenza eucaristica del Cristo, un segno di unione con i cori angelici, nella lode e nell’adorazione comune », secondo l’espressione stessa di un decreto della Sacra Congregazione dei Riti (n. 4377) del 25 ottobre 1922.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/04/21/tutta-la-messa-lunica-vera-messa-romana-momento-per-momento-7/

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (2)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (2)

[chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa – 1891]

PRIMA PARTE

CONSIDERAZIONI GENERALI

Capitolo I.

DIO CHIEDE DI ESSER GLORIFICATO MEDIANTE LA DIVINIZZAZIONE DELL’UOMO

Dio vuol far felici gli uomini comunicandosi ad essi.

Dio ha fatto tutto per la sua gloria: è questala verità fondamentale che dobbiamo porre come base della dottrina che andremo ad esporre. Nessun’altra ragione avrebbe potuto far sì che Dio, infinitamente ricco e felice, lasciasse il suo riposo per creare il mondo. Chi esiste da solo deve avere in sé tutto ciò che è necessario per la sua perfezione e felicità. La sua infinita bontà, essenzialmente comunicativa, potrà creare dal nulla migliaia di creature, ma ciò che cercherà in esse e ciò che troverà in esse, sarà se stesso e sempre se stesso. La sua facoltà di amare è certamente infinita. Ma, per quanto infinita possa essere, è completamente soddisfatta della sua infinita amabilità. Egli aveva la libertà di creare o di non creare; ma, una volta determinatosi a produrre qualcosa di sé, non era in suo potere dargli un fine diverso da se stesso, poiché solo Lui può essere il fine delle sue azioni. Non poteva, senza distruggersi, che desiderare di condurre tutto a se stesso. È la legge del suo Essere; legge gloriosa imposta dalla sovrana perfezione della sua Essenza alla sua onnipotente volontà, per cui, essendo il primo inizio di tutte le cose, Egli ne è anche l’ultimo fine. Dal momento in cui ha creato il mondo, l’unico fine della sua saggezza poteva essere solo quello di compiacersi ed amarsi nelle sue opere. È impossibile respingere questa prima legge senza negare le prove e senza distruggere la nozione di Dio e la nozione di creatura. – Considerata questa verità, possiamo affermare che Dio vuole essere glorificato dalla divinizzazione dell’uomo. Le creature razionali, come gli Angeli e gli uomini, sono tra tutte, quelle che meglio rappresentano la perfezione divina. Sono i meglio disposti a ricevere la felicità di Dio. Pertanto, Dio si glorificherà specialmente in loro, realizzando i piani amorosi che lo hanno spinto a trarre le cose dal nulla. Dio realizzerà la gloria attraverso la creazione dell’anima, sostanza spirituale ed immortale, come Lui, la cui semplicità, immagine della sua ineffabile semplicità, racchiude in sé stessa una tanto meravigliosa fecondità di atti e di potenze. Ma questa gloria non è se non il principio che Egli intendeva darle ad essere, perché il suo fine è quello di essere glorificato principalmente attraverso la felicità della creatura razionale, attraverso lo sviluppo delle sue facoltà, attraverso l’amicizia che Egli desidera con essa.

La natura di questa felicità.

L’uomo non poteva che aspirare alla perfezione e alla felicità naturale. La pienezza della conoscenza, dell’amore, la gioia di Dio nelle creature, uniti all’assenza di dolore e alla certezza dell’immortalità, avrebbero formato lo sviluppo delle facoltà dell’uomo e la sua naturale beatitudine. Questa felicità gli sarebbe bastata. Dio non doveva più nulla alla sua creatura. Anche se non le avesse concesso nessun’altra perfezione, questo solo sarebbe stato sufficiente a costringerla a legarsi a Lui con i vincoli della riconoscenza. La sua giustizia sarebbe stata del tutto soddisfatta e nient’altro avrebbe preteso la sua saggezza. – Ma quello che sarebbe bastato alla sua saggezza e giustizia, non accontentava la sua bontà. La felicità naturale non poteva sembrare sufficiente al bisogno che Dio prova nel comunicarsi. Con un atto di grande comunicazione, Egli si è dato all’uomo. Lo ha reso partecipe della sua natura, della sua luce e del suo amore. Si è costituito oggetto della nostra felicità, ammettendoci alla visione della sua bellezza ed al godimento della sua infinita bontà. Guardate l’uomo, argilla viva, posto a perfezione della sua natura come capo della creazione, un tempo perso negli abissi del nulla, ora è elevato da Dio ad un’altezza incommensurabile, ad un mondo che è in cima della creazione. Per questo viene giustamente chiamato “ordine soprannaturale” il destino dato alla creatura razionale, quello di godere per tutta l’eternità della stessa felicità di Dio, dopo aver avuto a sua disposizione, sulla terra, i mezzi per raggiungere un fine tanto eccelso.

L’Ordine soprannaturale.

Questo ordine soprannaturale è al di sopra della natura malata e contaminata dell’uomo e della più pura natura angelica. Il minore degli atti che appartengono a quest’ordine è più eccellente dei più ammirevoli prodigi dell’ordine naturale! In verità, questi atti sono atti divini, Intendo atti divini per comunicazione, come gli atti di Dio. sono divini per natura. Preghiamo il Cuore di Gesù che ci dia la grazia di contemplare alcune delle sue magnifiche funzioni racchiuse nelle loro gloriose oscurità. Ma qual è il fine soprannaturale? Il fine naturale è la conoscenza, l’amore e il possesso di Dio, in quanto si manifesta a noi e dona Se stesso alle sue creature. Molto diverso e più alto è il fine il cui oggetto è la conoscenza di Dio contemplato in Se stesso e con la sua stessa luce; la gioia di Dio amato con il suo stesso amore; il possesso della sua stessa felicità. Il fine soprannaturale consiste nella comunicazione della propria felicità da parte di Dio. L’anima che ha raggiunto questo fine beato, non vede Dio nella creazione come in uno specchio, ma lo vede faccia a faccia; dirige i suoi sguardi al centro stesso della Luce eterna; annega nell’oceano che riempie di infinita pienezza l’infinita capacità di Dio stesso; entra nella gioia del suo Signore; si inebria nel torrente delle divine delizie. Come l’intelligenza riprodurrà in se stessa l’immagine degli oggetti a cui è applicata, l’anima, penetrata dai bagliori della chiarezza divina, e dagli ardori della carità divina, diventa interamente come Dio.  E si unisce a Lui con i legami di un amore così delizioso ed irresistibile, tanto che essa stessa diventa spirito. Il fine naturale dell’uomo è la sua divinizzazione. Il fine soprannaturale dell’uomo è la sua deificazione. Tuttavia, tra questa divinizzazione e il panteismo, c’è una distanza come quella che separa la divinità dal nulla. Il panteismo, cercando di assorbire l’anima nell’infinito, raggiunge invero solo il suo annientamento. Al contrario, nel fine soprannaturale, l’anima conserva il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà, sa, ama e gode. Ma essa conosce mediante il Verbo  di Dio, ama per mezzo dello Spirito di Dio e gode della felicità di Dio. Tutte le cose rimangono distinte, anche se in Dio tutte le cose sono fatte per questa felicità. Essa [l’anima] è tutta in Lui, ed Egli è tutto in essa. Essa non è Dio, ma è divinizzata. Essa è davvero ammessa a partecipare della natura divina; di modo che unendosi intimamente all’anima, Dio la trasforma in Se stesso. – Tale dignità concessa alla creatura è soprannaturale. È soprannaturale per l’uomo, ma lo è anche per il più perfetto degli spiriti puri, per il più elevato dei serafini. Era per Adamo innocente, come lo è anche per i suoi discendenti decaduti. Era soprannaturale in quanto le nostre forze naturali non potevano ottenerla, né il nostro spirito concepirla se non in maniera molto vaga, né i desideri naturali potevano orientarsi verso di essa: « Perché né l’occhio vide – dice San Paolo – né l’orecchio udì, né il cuore umano poteva immaginare ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano ».  Dio non ci doveva l’elevazione a questo fine, né il farci assaporare questa felicità. Se lo ha fatto, è stato per il libero esercizio della sua bontà. Egli ha agito liberamente sia quando ci ha dato l’essere limitato e sia anche quando ci ha destinato, per mezzo della elevazione, all’ordine soprannaturale, a possedere il suo Essere infinito. Il secondo di questi doni è, se possibile, ancor più gratuiti del primo.

La grazia, principio e mezzo della nostra divinizzazione.

Il nostro destino verso il fine soprannaturale è gratuito, ma non la sua retribuzione. Non avevamo alcun diritto a che Dio ce lo proponesse; ma dal momento che Egli lo ha voluto, noi abbiamo l’obbligo di ottenerlo. La creatura libera deve essere, insieme a Dio, l’Autore della propria felicità: essa non può essere glorificata dal suo Creatore nell’eternità se essa stessa non lo glorifica nel tempo. Ma, qual è il mezzi per meritare la partecipazione della felicità di Dio? Se il merito deve essere proporzionato alla ricompensa, non dovrebbe l’uomo disporre di mezzi divini per meritare un fine divino? Certo che si! Questo spiega perché la divinizzazione dell’uomo, che deve avere il suo coronamento in cielo, inizi quaggiù per mezzo della grazia. La grazia è il seme della gloria. L’unione con Dio implica la visione di Dio nella sua luce propria, l’unione con Dio attraverso il suo proprio amore, e il godimento della felicità propria di Dio. Anche nella grazia troveremo questi tre tipi di unione: la fede ci farà conoscere Dio con la sua luce; la carità ci farà amare Dio con il suo stesso amore, e la speranza ci farà tendere alla felicità di Dio. Ma la luce della gloria è il sentire Dio presente, che si scopre a noi completamente, quella della fede è il sentire Dio assente e solo manifesto nel suo Verbo. La gioia del cielo deriva dalla sete sempre viva di un piacere che sazia sempre. La speranza della terra sospira per questa felicità, senza essere ancora in grado di raggiungerla. La carità del cielo abbraccia la bellezza infinita che ama, e quella della terra l’ama senza poterla ancora abbracciare.

La gloria, coronamento della nostra divinizzazione.

Gli atti delle virtù teologali, che sono le principali forme della grazia, non differiscono dagli atti con cui l’anima beata gode della gloria, se non nella misura in cui i primi hanno assente l’Oggetto che i secondi hanno presente. Per quanto riguarda l’anima, il movimento è lo stesso. Nel cielo essa si immerge nell’oceano della beatitudine divina in virtù dell’impulso che ha ricevuto quaggiù con l’esercizio della virtù. Lo stesso amore che spinge il martire sul patibolo, lo rende capace di gustare le delizie ineffabili, una volta che la morte gli ha aperto le porte della patria. Dio si dona a tutti gli eletti secondo le loro capacità, che sono maggiori o minori a seconda dello sviluppo ottenuto sulla terra dall’esercizio delle virtù. Più sono cresciuti nella loro anima, sulla terra, la fame e la sete di Dio, più essi saranno saziati in cielo. – La grazia non è solo il seme della gloria, ma anche il suo principio e la sua misura. Sia per grazia che per gloria, l’anima è comunicata alla divinità. Infatti, ci sono due relazioni distinte nella vita intima di Dio: l’una è insieme l’intelligenza infinita e la bontà infinita, l’attività assoluta e il completo riposo. Questi due elementi sono ugualmente necessari alla sua felicità. Non sarebbe essa infinita, se non consistesse nella soddisfazione infinita di un tendenza infinita. – La vita divina, depositata in principio nell’anima come un seme, si va sviluppando durante tutto il periodo della crescita, fino a quando, giunta a piena maturazione, non produca il suo frutto, che non è altro che la beatitudine del Paradiso. Se la grazia non fosse una vera partecipazione alla natura divina, ci sarebbe una sproporzione tra il fine ed i mezzi. Il merito soprannaturale non sarebbe in alcun modo merito, e nell’ordine soprannaturale sarebbe solo un disordine. – Le Sacre Scritture attribuiscono questa qualità alla grazia. Il giusto della terra, come il beato del cielo, è un essere divinizzato. La sua divinizzazione è così reale che i santi Dottori si affidano ad essa per dimostrare la divinità dello Spirito Santo, che ne è l’Autore: « Non è forse necessario – chiede San Cirillo agli ariani – avere un potere maggiore di quello di una creatura semplice per divinizzare gli esseri che non hanno nulla di divino nella loro natura? Si può mai concepire una creatura divinizzante? Solo Dio ha questo potere, e lo esercita, attraverso il suo Spirito, comunicandolo alle anime sante, Egli che solo possiede questa proprietà »; in virtù di questa comunicazione, l’uomo, che fino ad allora ha vissuto solo una vita animale e razionale, inizia a vivere una vita superiore, la vita divina. – Si tratta certamente di una seconda nascita! La prima esistenza risale al giorno in cui un’anima spirituale venne ad animare il suo corpo. si nasce la seconda volta, quando lo Spirito di Dio viene a vivificare la sua anima! Da quel momento ci sono in lui due uomini che si combattono, così come Giacobbe ed Esaù già si combattevano nel seno di Rebecca. Quello, il figlio dell’uomo – Esaù – è più vecchio d’età. L’altro – Giacobbe -, figlio di Dio, erede della promessa, si sforza di soppiantare suo fratello. Come tutti i figli di Adamo, il Cristiano trova in sé gli istinti carnali che lo inclinano alla terra. Queste ispirazioni sono combattute dalle ineffabili aspirazioni che lo allontanano nel mondo e gli fanno disprezzare tutto quello che lo circonda. L’uomo raccoglie in se stesso, con meravigliosa armonia, come in un piccolo cosmo, tutte le forze che muovono l’universo: le fisiche, le chimiche, le vitali, le spirituali. Dio completa il suo capolavoro donandogli, con il suo Spirito, le forze divine. Questo Spirito, nell’abitare l’anima del Cristiano, comunica all’intelligenza la mente di Dio! Diffonde nel suo cuore, la carità di Dio, che diventa il principio di tutte le sue tendenze ed il filo conduttore di tutte le sue azioni. L’animale è guidato dall’istinto, l’uomo è guidato dallo Spirito di Dio!

Dottrina della nostra divinizzazione.

Non dubitiamo che la vita soprannaturale sia una vita veramente divina. Vita che non risulta dall’identificazione dell’Essere creato con l’increato; che non suppone che l’uomo sussista per una personalità divina, ma solo che operi divinamente. Egli conserva in tutta la sua integrità il suo essere, la sua personalità, le sue facoltà. Ma a loro si aggiungono le virtù, che sono come delle facoltà soprannaturali. Con queste virtù Dio stesso si unisce sostanzialmente al Cristiano e lo rende parte della sua natura. – Nella grazia c’è qualcosa di creato e qualcosa di non creato. Come in cielo i più Beati, illuminati dalla luce della Parola di Dio, ricevono in se stessi una chiarezza che li rende simili a questo Sole divino e capaci di unirsi a Lui; così sulla terra, l’anima, unita dalla grazia allo Spirito Santo, riceve, sia con movimenti passeggeri, sia per mezzo di qualità permanenti, l’influenza dello Spirito Divino. Così come nel cielo il lumen gloriæ non impedisce che l’unione dell’anima con il Verbo di Dio sia immediato, così, sulla terra, la grazia creata non impedisce che l’anima sia unita allo Spirito Santo immediatamente.

La nostra divinizzazione consiste nel possesso della Persona stessa dello Spirito Santo.

La divinizzazione dell’uomo non è una metafora vana. È la più reale di tutte le realtà. I Santi Dottori che hanno ricevuto da Dio la missione speciale di combattere gli errori sullo Spirito Santo, sembrano non trovare un’espressione abbastanza energica per farci palpare l’intimità dell’unione, per mezzo della quale Esso viene a comunicarsi all’anima del giusto: una volta si esprimono con il paragonare l’unione del profumo con l’abito completamente penetrato del suo profumo (S. Cirillo di A. l. IX, in lo. MG: 74, 447); altra volta con l’unione dell’oro al metallo meno nobile, che assume per suo mezzo il medesimo splendore (S. Cirillo di A. Dial.. VIII, de Trinitate et l. V in lo. MG:75, 1075 e 73, 705) ; o ancora all’azione con cui il fuoco trasforma il ferro, comunicandogli tutte le sue proprietà ignificandolo in un certo modo, senza per questo sottrargli la propria natura o, in fine, alla comunicazione delle proprietà dal vino alla goccia d’acqua in esso introdotta (S. Bas. I. V.  adv. Eunomium Max. M.G.: 29, 700). Se questa unione non fosse sostanziale, non potrebbe produrre gli effetti che le vengono attribuiti: il liberarci dalla morte riempire di vita il nostro spirito; restaurare il nostro spirito; restaurare in noi l’immagine divina; cancellare il peccato, e fare di noi stessi dei figli adottivi di Dio. Questi santi Dottori, affermano che l’unione dello Spirito Santo con la nostra anima, produce in essa atti e abitudini inerenti all’anima, per il bene dell’anima stessa, e perché sia costituita in uno stato soprannaturale. Solo i luterani hanno osato dire che la giustificazione consistesse nella semplice applicazione della santità di Dio, e non in un dono insito nell’anima e creato come essa. I Dottori cattolici non hanno mai dubitato che ci sia nell’anima una luce soprannaturale creata, che è la fede, e un amore soprannaturale creato, che è la carità. Inoltre, ciò che insegnano i Santi Padri è che l’alta dignità e l’esaltazione della natura umana non consista tanto nella ricezione di questi doni creati, ma piuttosto nel possesso de della Persona dello stesso Spirito Santo, che si unisce ai suoi doni, e per mezzo di essi abita in noi, ci vivifica, ci adotta, ci divinizza e ci incita a compiere ogni sorta di buone azioni. (Corn. Alapide, in Oseam, l. 10). Abbiamo visto quindi il fine elevato a cui sono ordinati tutti i piani della Provvidenza: la divinizzazione dell’uomo e delle creature razionali. Per raggiungere l’anima, Dio per suo aiuto alla creazione malata, manda i suoi Angeli, il cui mistero più glorioso è quello di educare le anime per prepararle alla loro celeste eredità. Le creature materiali contribuiscono con tutta le loro forze a questa grande opera. « Gemono – dice San Paolo – e soffrono i dolori di un parto doloroso, e sono chiamate a collaborare alla produzione dei figli di Dio ». Qual giorno sì felice in cui culminerà di questa grande opera dell’Altissimo! Allora la creazione malata tornerà, attraverso l’uomo, all’inizio, donde proviene. L’Infinito, che in qualche modo è uscito da sé stesso per il desiderio della creazione, tornerà a se stesso per riposare, per l’eternità, con le anime che avranno collaborato ai suoi progetti. Il cerchio divino sarà così chiuso. Tutta la creazione spirituale vivrà della vita divina e la comunicherà alla creazione materiale, ad essa unita mediante l’uomo come un prezioso anello. Il Creatore, pienamente glorificato dalla sua creatura, rifletterà in essa la sua gloria: Dio sarà tutto in tutte le cose!

Capitolo II

DIO CHIEDE DI ESSERE GLORIFICATO PER MEZZO DI GESÙ CRISTO

Il Verbo incarnato, Mediatore tra Dio e gli uomini

Il principio fondamentale della Divina Provvidenza è che tutte le creature tendono alla gloria di Dio, riproducendo in misura finita le sue infinite perfezioni. Poiché Dio è una beltà assoluta, non può dare alle opere delle sue mani altro modello che non sia Se stesso. Il suo amore infinito non può creare delle volontà razionali, che non siano felici di possedere la sua infinita bontà. Corrisponde in Sé, come primo Principio di tutte le cose, per esserne l’ultimo fine. Un fine che l’uomo deve raggiungere non come egli vuole, ma che sia conforme al decreto di Dio, attraverso la sua divinizzazione. Dio potrebbe, senza alcun intermediario, comunicare all’uomo la sua grazia, elevarlo all’ordine soprannaturale e riportarne la gloria che ha il diritto di aspettarsi da lui. Ma Dio ha dato al suo lavoro una bellezza ed una perfezione che nessuna intelligenza creata avrebbe potuto immaginare. Per colmare la distanza che lo separava dall’uomo, Egli istituì un Mediatore, il Verbo incarnato, Gesù Cristo nostro Signore, nel quale sono raccolte, senza confusione, tutte le perfezioni della natura umana e della natura divina. Secondo un’opinione teologica, difesa da grandi teologi e i cui fondamenti si trovano in San Paolo, l’Incarnazione del Verbo fu decretata prima della caduta di Adamo (non parliamo della priorità temporis sed signi), come manifestazione suprema della gloria divina. Se è così, ci viene presentato Gesù Cristo come fine ultimo e Signore di tutta la creazione e come oggetto principale ed eterno nella mente del Creatore. Un’altra dottrina insegna che non solo la Redenzione, ma anche l’Incarnazione sia stata decretata come conseguenza in previsione del peccato originale. Questo la mette in evidenza molto meno è vero, perché forse fa pensare che la più grande opera di Dio sia un rimedio a cui, senza la colpa originale, non si sarebbe posto mano (Curci, La Nature et la Grâce). Anche i difensori di quest’ultima opinione sostengono però che il Verbo Incarnato sia davvero il fine di tutte le creature.

Il Verbo incarnato è il fine di tutta la creazione.

I teologi di entrambe le opinioni concordano nell’affermare che il Verbo incarnato è il fine di tutto ciò che esista, e questo è sufficiente per la presente questione: « Dio – dice l’erudito Ruperto, – si è comportato con il suo amatissimo Figlio, come un grande e potente monarca si comporta con l’erede alla sua corona. Costruì per lui un magnifico palazzo, riccamente arredato, e lo circondò di una corte che era in relazione alla sua dignità. Poi per lui creò la terra, per lui accese migliaia di fiaccole scintillanti, al suo servizio creò dal nulla una quantità innumerevole di angeli, e noi non siamo così schietti – dice il pio Dottore – da pensare che Egli non avesse alcuna intenzione di creare l’uomo prima della caduta degli Angeli. La verità è che non sono stati gli uomini ad essere creati per gli Angeli ma, sia gli Angeli che tutte le creature, abbiano ricevuto il loro essere in previsione di un uomo, che è Nostro Signore. Crediamo dunque e confessiamo con la bocca e con il cuore che tutto sia stato creato per formare come una corona di gloria al Verbo incarnato (lib. Lib. XIII in Math. Lib. III de Glorificatione Trinitatis). – Pure in questo senso, diversi Padri della Chiesa interpretano le parole del libro dei Proverbi: Il Signore mi ha posseduto, ha fatto di me l’inizio delle sue vie prima di ogni altra cosa. Le sue vie sono le creature che procedono verso Dio, come un sentiero conduce alla fine del cammino; ma, prima di tutte quelle creature, Dio mi ha visto e mi ha destinato già allora ad essere la fine di tutta la creazione. – Allo stesso modo, sono spiegate nell’Apocalisse, le parole di Nostro Signore: Ego sum alpha et omega, principium et finis. Io sono il principio, perché io do l’essere a tutte le cose della natura, della grazia e della gloria a titolo di causa prima, esemplare e meritoria. Io sono il fine, perché tutto è fatto per la mia gloria, affinché tutto venga da me come dal suo principio primo, e tutto ritorni a Me come all’ultimo fine. « L’intero universo – ci avverte San Bernardino da Siena – è come una sfera intellegibile, il cui centro è il Figlio di Dio ». Infatti, questo amabile Maestro è, per il mondo, ciò che il centro è per la circonferenza. Tutti i raggi, convien sapere, tutte le creature partono da quel punto e vi convergono contemporaneamente ».

Gesù Cristo è la causa dell’unità armonica della natura umana, della sua perfezione e felicità.

Al di fuori di Gesù Cristo, la natura non può trovare un’unità armoniosa che debba essere la sua perfezione e la sua felicità; fuori dal quale si trova solo divisione, lacerazione, lotta, debolezza, fiacchezza, irrequietezza, disperazione. In Gesù Cristo, le lotte si placano, le contraddizioni cessano, le parti opposte si riconciliano. Si ammira il volto del Divin Salvatore e si vedono i Santi che, come specchi viventi, hanno riflesso i suoi tratti benedetti. Nella serenità di quelle fronti, nel brillare di quegli occhi, nella dolcezza di quelle labbra, non si scoprono forse i sentimenti che costituiscono la grandezza dell’animo umano? Le potenze spirituali sono state trasformati in strumenti docili della ragione. Le passioni, dirette ai loro veri fini, collaborano affinché la virtù possa raggiungere una vera ricchezza, la vera grandezza, le vere gioie. L’intelligenza, trovando nella verità assoluta il sommo Bene, la sicurezza di possedere eternamente l’unico obiettivo di tutte le aspirazioni dell’anima e di godere di Esso, secondo i sacrifici fatti per lo stesso nel tempo, unisce indissolubilmente l’interesse e il dovere, e non permette di separare la felicità della vita presente da quella della futura. – Il Cuore di Gesù Cristo è l’unità divina del cuore umano che, al di fuori da Esso, rimane lacerato. In Lui e attraverso di Lui, l’umiltà, allontanandosi dalla ricerca della grandezza nel nulla, ce la fa trovare in Dio. In Lui la forza, appoggiata a Dio, e non avendo bisogno di sforzi violenti per sostenersi, si unisce alla dolcezza più ammaliante. In Lui il cuore affettuoso trova il nutrimento che gli evita di correre dietro a piaceri vergognosi e diventa tanto più capace di amare tutto ciò che è amabile, tanto più acquista padronanza dei suoi appetiti. In Lui, l’amore della verità incoraggia l’intelligenza a raggiungere il suo scopo, tanto più umile e docile è l’abbracciarla, quando più si lancia spontaneamente sulle ali della fede alla sua ricerca.

Cristo è il nostro fine perfezionante

Questo è l’uomo come lo ha fatto Gesù Cristo: uno, perfetto, sereno e immutabilmente pacifico. Prima di Gesù Cristo, l’uomo era un edificio crollato le cui pietre, violentemente separate l’una dall’altra, sembravano non riuscire mai a ricongiungersi. La pianta di quell’edificio era andata perduta e gli architetti che avevano cercato di ricostruirlo, l’avevano ancor più mutilato. Gesù Cristo è venuto e ci ha mostrato in sé l’edificio divino ricostruito con una grandezza che non aveva mai avuto. Sta a noi trovare in Lui l’unità che cercheremmo invano al di fuori di Lui. Gesù Cristo è l’uomo perfetto, l’uomo esemplare, l’uomo per eccellenza. Quando Dio Padre lo ha dato al mondo, ci ha detto: questo è l’ideale che ho concepito fin dall’eternità, e che invito tutti voi a realizzare al meglio delle vostre capacità. Lo scopo dei nostri sforzi deve essere quello di tendere verso Gesù Cristo. A proposito di ciò Sant’Agostino scrive: « Dovete mirare a Gesù Cristo, perché Egli è il vostro fine. Ma non un fine che consuma, ma un fine che conclude; perché consumare è distruggere; concludere è finire e perfezionare una cosa: Gesù Cristo è il nostro fine, perché siamo perfezionati in Lui e da Lui; la nostra perfezione è in Lui che giunge; e quando lo raggiungeremo, avremo trovato la felicità. »

Gesù Cristo è il nostro fine, perché glorifichiamo Dio Padre, glorificando suo Figlio.

Questa è la mirabile dottrina di San Paolo. Per l’Apostolo delle genti, Gesù: « è il primogenito di tutte le creature, perché tutte le cose del cielo e la terra sono state create in Lui: le cose visibili e invisibili, i troni, le dominazioni, i principati, le potenze, tutto è stato creato da Lui. Egli esiste prima di tutte le cose, e tutte le cose sussistono in Lui. Egli è la testa e il capo del corpo della Chiesa; è il principio assoluto ed il primogenito tra i morti; affinché Egli possa avere il dominio su tutto. » Dio ha fatto di Gesù Cristo il fine a cui l’umanità deve tendere, e ci fa capire che vuole che l’umanità lo glorifichi, glorificando il suo amato Figlio in cui ha posto tutto le sue compiacenze, ed in cui abita corporalmente la divinità. Gesù Cristo, venendo sulla terra, non aveva altro scopo se non quello di glorificare Dio Padre, restituendogli l’onore che il peccato gli aveva tolto: « Tutti hanno peccato – dice San Paolo – tutti hanno bisogno della gloria di Dio ». Il Verbo incarnato, dice San Cirillo, è la gloria di Dio che si manifesta agli uomini. Così capiamo perché, nella culla del Bambino di Betlemme, gli Angeli annunciano che la gloria di Dio si manifesta anche in cielo: Gloria in excelsis Deo. – Gesù Cristo, per glorificare Dio Padre, trascorre i primi trent’anni della sua vita in una oscura bottega, impegnato in un umile lavoro. Non c’è nessun altro motivo principale nelle sue azioni durante la sua vita pubblica. Al fine della sua stessa gloria, non dà alcuna importanza: Honorifico Patrem. Non quæro gloriam meam. Non sono da considerare – sembra dire – se non come vittima di espiazione del peccato. La mia gloria non è nulla, come un nulla è la gloria degli uomini: Gloria mea nihil est.

L’umiliazione e la croce furono i prodromi del Regno di Cristo

Così come Dio Padre ha accettato che Cristo soffrisse per entrare nel regno dei cieli, è giusto che sia vestito con la veste della vergogna prima di essere circondato dall’alone della gloria. Le umiliazioni e la croce sono i preamboli obbligatori del regno glorioso che suo Padre invita a condividere con Lui. Mentre la passione si avvicina, Nostro Signore parla più volentieri della propria gloria ai discepoli. Predice poi loro che, quando sarà inchiodato al legno, il suo potere cambierà questo luogo di ignominia in un trono di gloria, al quale attirerà ogni cosa: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum. Nel suo ultimo discorso, che è come il canto del cigno, il testamento dell’amore, ricorda a suo Padre che è arrivata l’ora di glorificarlo: « Ho compiuto la missione che mi hai affidato; ora, Padre mio, è tempo di glorificarmi, di far risplendere la gloria che avevo in te, prima ancora della creazione del mondo. » Dio Padre ha ascoltato la voce del Figlio suo: al torrente di umiliazioni fa seguito un’esuberante manifestazione di gloria. – Dio fa uscire trionfalmente suo Figlio dal sepolcro. Lo fa sedere alla sua destra in cielo, al di sopra di tutti i principati e di tutte le potenze. Pone tutto sotto i suoi piedi e fa di Lui il Capo della Chiesa. Egli ordina che nel suo Nome ogni ginocchio sia piegato in cielo, in terra e negli inferi. Gli Apostoli fanno risuonare il nome di Gesù in tutte le regioni e la potenza del suo Nome fa meraviglie ovunque. – Così Dio Padre ha glorificato e glorificherà il Figlio suo e, come predice l’Apostolo San Pietro, per la gloria di suo Figlio, sarà Egli stesso glorificato. Così il magnifico piano che l’Apostolo ci indica si realizzerà, quando ci annuncia che tutta la creazione è stata fatta per noi, noi per Cristo e Cristo per Dio! Ammirevole è questa Gerarchia, in cui l’Uomo-Dio, ricapitolando e riassumendo in sé le perfezioni degli spiriti e dei corpi, costituisce il Mediatore tra la creatura ed il Creatore! Non possiamo concludere meglio questo capitolo se non citando la magnifica conclusione dei decreti promulgati dal Consiglio provinciale di Le Puy nel 1873. – « Se cerchiamo l’origine comune degli errori che abbiamo appena condannato, sarà facile vedere che provengono tutti dalla stessa fonte, cioè l’ignoranza ed il disprezzo per l’ordine soprannaturale. Quanti di coloro che hanno indossato Cristo nel Battesimo non lo conoscono! Quanti dimenticano la nobiltà divina che Egli ha conferito loro! I ministri della Santa Chiesa devono quindi fare ogni sforzo affinché i fedeli abbiano una conoscenza esatta dell’ordine soprannaturale, in modo che possano ammirare la sua meravigliosa unità e assaporarne l’ineffabile soavità. Perché le testimonianze di Dio offrono alla nostra intelligenza le luci più vivide, e sono per il nostro cuore più dolci del miele e del nettare. – Infatti, la verità che dobbiamo credere di cuore e confessare con la bocca non è altro che Cristo, il Verbo del Padre, di quel Padre che, dopo aver posto tutti le sue compiacenze nel suo Figlio prediletto da tutta l’eternità, ce lo ha mostrato nella pienezza dei tempi, non solo per farcelo conoscere, ma anche per renderci partecipi della sua divinità. Il grande sacramento dell’amore, il piano della bontà divina, è infatti quello di restaurare in Cristo tutto ciò che è in cielo e sulla terra; di unire a Lui, come al suo comune Signore, il mondo materiale e quello spirituale; di fare degli Angeli e degli uomini un corpo unico che vive della vita di Cristo e gode eternamente della sua gloria. Cristo è tutto in tutte le cose, perché tutto è da Lui, per Lui ed in Lui. Egli è l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine. Solo Lui insegna Dio agli uomini, e li unisce a Dio, perché solo Lui è il mediatore tra Dio e l’uomo. Da Lui, come al suo principio, e in Lui, come suo fine, tutti sono stati creati. Esisteva prima della creazione, e nulla sussiste se non in Lui. Cristo è tutto in ogni uomo, a cui comunica la sua perfezione divina. Innestati in Lui mediante il Battesimo, gli uomini vengono elevati all’ordine soprannaturale, animati dallo Spirito di Cristo, che li rende figli di Dio, non solo in parole, ma anche in verità. Gesù non si vergogna di chiamarli suoi fratelli, perché è veramente unito a loro con un doppio vincolo: si è fatto partecipe della loro carne e del loro sangue, quando nel seno della Vergine Immacolata, che è insieme la Madre di Cristo e degli uomini tutti, è stato formato il corpo che a sua volta ha dato loro attraverso la santa Eucaristia, e volendo che partecipassero del suo Spirito, lo ha mandato alle loro anime, per mezzo del quale essi gridano: Abba Padre! Tale, dunque, è il destino della loro vita mortale: per crescere in Cristo, basta che, raggiunta l’età della maturità e raggiunto l’apice del merito, entrino a parte della gloria del loro divino Capo, così come saranno entrati in quella delle loro sofferenze. Cristo è tutto nella Chiesa, di cui è il corpo ed il suo complemento; vivendo dello Spirito di Gesù Cristo, si fanno opere simili alle sue, in proporzione ancora maggiore. Egli ha insegnato a tutte le nazioni la stessa dottrina che predicava in un altro tempo agli Ebrei; esercita ora la stessa autorità per mezzo del Vicario di Cristo e dei Vescovi, successori degli Apostoli; Egli non cessa di instillare che la stessa virtù; amministra la stessa grazia; cura le stesse malattie, e chiunque segue l’esempio di Gesù Cristo, suo Maestro, passando e facendo del bene, sarà oggetto di odio e di persecuzione. Ma la virtù del suo Capo divino lo rafforza; e nonostante sia continuamente combattuto, è sempre vittorioso, cura le nazioni con il sangue che sgorga dalle sue ferite e non cessa di vivificare il mondo, anche quando è permesso di godersi per un momento la vita. Cristo è tutto nelle famiglie e nella società. Infatti: se le famiglie devono dare a Cristo nuovo membri e proteggere la loro formazione, i popoli sono destinati ad unirsi al corpo di Cristo, che è la Chiesa, per promuovere la sua azione, per difendere la sua libertà, per contribuire al suo sviluppo. Solo realizzando questo fine, che si ha con la subordinazione a Cristo e alla Chiesa, i popoli e le famiglie possono trovare la loro stabilità, riposo e vera felicità. In effetti nessun altro Nome è stato dato agli uomini sotto il cielo nel quale possano trovare la salvezza; e nessuno può dare alla società altro fondamento di quello già stabilito: Gesù Cristo. – Infatti, Gesù Cristo è tutto in terra, alla quale ha fatto l’insigne beneficio di prendere in prestito il corpo che lo doveva trasportare molto presto verso le altezze del cielo. È il mondo il sublime laboratorio in cui lo scalpello del Salvatore scolpisce le pietre vive che saranno poste successivamente sulle mura del tempio divino. Citando quest’opera, in cui la saggezza di Dio opera da tutta l’eternità, cioè citando la produzione dei Santi per la formazione del Corpo di Gesù Cristo, se questi cessano di esistere, cessa la propagazione del genere umano, la cui unica ragione di esistenza è Cristo; e la natura che ora partorisce nel dolore e attende la manifestazione del Figlio di Dio, entrerà nella sua gloria alla completa rivelazione. Allora verrà la fine, perché tutto sarà stato sottomesso a Cristo e il Figlio stesso, con le sue membra, sarà completamente sottomesso a Colui che ha sottomesso tutto alla sua obbedienza; poi, entrambi, sia i suoi nemici, con i giusti supplizi che puniranno la loro ribellione, sia i suoi amici con la loro beatitudine, glorificheranno eternamente il suo potere, perché questo è eterno e non gli sarà portato via, e il suo  regno non cadrà mai in preda alla rovina. – Piacesse al cielo che tutti i maestri della dottrina cristiana, attraverso l’assidua contemplazione della sua magnifica unità, fossero bruciati nel suo amore e riempissero tutti i cuori cristiani di questo stesso amore! Piacesse al Cielo che i fedeli, fissando costantemente lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede, e vedendo in Lui la loro grandezza divina, si abituino a disprezzare il nulla delle cose visibili e temporali, ed a desiderare solo i tesori della gloria, che un giorno saranno la loro eredità in mezzo ai Santi! Piacesse al Cielo che gli occhi della loro anima, illuminati dalla luce, possano cogliere in un solo sguardo la longitudine, la latitudine, la sublimità e la profondità di questa eredità; per comprendere la carità di Gesù Cristo che è al di sopra di ogni scienza, ed essere pienamente ricolmi di Dio! »

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LO SCUDO DELLA FEDE (108)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XVIII.

S’inferisce, da quanto si è dimostrato l’unità di Dio, semplicissima in tanti suoi diversi attributi.

I . Due specie di cecità può temer l’occhio: l’una, per cui egli non vegga ciò che è delle cose: l’altra, per cui egli vegga ciò che non è. Ed eccovi ambedue questi morbi offuscar la mente dell’uomo. V’ha chi non vede il sole della divinità, e v’ha chi ne vede più d’uno, adorando quali sorgenti di luce quei che neppure sono pareli, ma nuvole affatto oscure. Pertanto noi, che finora abbiamo rimproverata agli ateisti la prima cecità, di non conoscere la divinità regnatrice, conviene che agli idolatri rimproveriamo ora l’altra, che è di riconoscerne molte: massimamente giudicandosi reo di fellonia non dissimile chi ardisce scacciare il suo monarca dal soglio, e chi ardisce nel soglio dargli collega. Né molto avremo a stancarci in dilucidare sì nobile verità: mentre quanto siamo certi di avere padrone in cielo, tanto siamo certi di non avervene parimente più d’uno. Deus, si non est unus, non est (Tert. in Marc. 1. 2. c. 13). Veggiamolo con provar tre proposizioni: che la grandezza di Dio richiede per se stessa tale unità; che questa in lui vogliono tutte le creature; e che questa tutte similmente ci predicano ad una voce.

I.

II. Saggiamente Tertulliano ci fè avvisati, che chiunque brami d’intendere se si truovi più di un Dio solo, chiegga innanzi, che cosa è Dio: Deum ut scias unum esse debere, quære quid sit Deus(Tert. ib.). Già di sopra vedemmo, come per Dio vien significato quel sommo bene, sufficiente a se stesso, che accoglie in sé qualunque bene possibile, con pienezza di perfezione: e posto ciò, non si può dubitare che non sia solo.

III. Conciossiachè rappresentatevi al pensiero questo impossibile, che si trovasser più Dei: per qual via dovrebbon distinguersi l’un dall’altro? Per via di qualche perfezione diversa che in loro fosse, o d’imperfezione. Per via d’imperfezione non è possibile, perché il bene sommo debbe essere bene esente d’ogni difetto. Dunque converrebbe che si distinguessero a forza di perfezioni. Ma come ciò, se il bene sommo non può non accorle tutte? Niun di loro in tal caso sarebbe Dio, mentre a ciascuno mancherebbe quel pregio che fosse il proprio e il preciso del suo consorte (Il ragionamento potrebbe assumere quest’altra forma. Gli Dei non possono essere molti, se non a condizione che si distinguano l’uno dall’altro, né possono distinguersi se non a patto che ciascuno possegga in proprio doti e prerogative, che mancano ad ogni altro. Adunque tutti e singoli sono limitati e finiti, perché manchevoli di qualche dote e nessuno perciò merita nome di Dio, il qual è di sua natura infinito). Dunque Iddio non può essere mai più d’ uno: Porro nihil summum bonum, nisi plenis viribus unum (Prudent.).

IV. Di poi chi non vede, che l’essere il supremo di tutti gli enti possibili, senza eguale, senza equivalente, è di sicuro un vanto il più riguardevole che si trovi? Adunque non si può contrastare a Dio, cui conviene ogni preminenza. Una gioia unica al mondo, quanto ha di stima! un fiore unico! un frutto unico! un libro unico! Anche i figliuoli restano commendati da una tal dote, più forse che da alcun’altra, perché li fa in loro genere senza pari.

V. Oltre a che: o questa pluralità sarebbe dispiacevole a ciascun Dio, e ne seguirebbe che ciascuno di loro fosse infelice mentre dovrebbe fra’ suoi contenti divorare questa amarezza di aver collega, senza poterla mai digerire: o non sarebbe dispiacevole punto, e ne seguirebbe, che ciascuno fosse insensato, mentre non sentirebbe un diletto, inevitabile al pari ed interminabile, che non potrebbe dargli altro che confusione: tanto più, che da quelle ingiurie che Dio riporta ogni giorno dai peccatori può cavar qualche gloria che le compensi. Ma quale gloria potrebbe un Dio ricavare da quei discapiti che riportasse dall’altro, di monarchia? Sarebbero di lor genere incompensabili. Adunque tanto è volere moltiplicar la divinità, quanto è volere annullarla.

II.

VI. Questa unità poi del loro fattore desiderano di accordo tutte le cose. Che sarebbe mai del genere umano, se egli avesse per disgrazia più d’un padrone? Avremmo più di un principio da riconoscere, e più di un fine. E però ditemi: ove allor prima ci volgeremmo, ove poi? Quale ci eleggeremmo noi di servire? qual di disprezzare? qual di sopportare? Quale di scuotere? Come una nave, combattuta da più venti al pari gagliardi, non sa qual di loro assecondare, a quale si rompere; così il nostro cuore, combattuto da forze al pari possenti, non saprebbe a quale inchinarsi: ma incerto, fievole, fluttuante, agitato, riputerebbe migliore la condizione di chi non si dilungò mai dal lido, venendo a vivere. Ne ci varrebbe in un tal caso tenersela ben con tutti: conciossiachè lo volontà di quegli Dei, come libere, o sarebbero discordanti fra loro o potrebbero essere. E in tal discordia, quale sarebbe la confusione di noi, poveri di partito pari al bisogno? Senzachè, quando ancora fosse possibile tenersela ben con tutti, secondando i loro voleri; ad ogni modo il nostro cuore qual fiume diviso in vari ruscelli, correrebbe sempre più languido: né potrebbe con tutto l’impeto dello spirito portarsi, come pure è di necessità, ad amare l’ultimo fino sopra ogni cosa.

VII. I medesimi disordini succederebbero poi nel resto di tutto l’ordine naturale. Primieramente l’universo sarebbe in sé mostruoso, come mostruoso sarebbe ogni animale, il quale avesse più capi. Né potrebbero tali capi ordinarsi in una stabilita repubblica di ottimati, a governare di accordo, attesoché possono bene in una somigliante repubblica unirsi gli uomini, convenendo in un fin comune; ma più Dei non possono unirsi, avendo ciascun di loro per fine sé. Onde l’amministrazione della natura non si distinguerebbe da un caos di confusione, odioso in sommo alle cose da lei prodotte. Entia nolunt male gubernari, dice il filosofo (Arist. metaph. 12). Non est bona multitudo principium. Unus ergo princeps.

VIII. Dipoi chi non sa, che qualsisia moltitudine, quanto più va riducendosi all’unità, tanto più nel suo genere ha di perfetto? Un esercito, quanto sta più serrato, tanto è più forte. Un concerto, quanto è più consonante, tanto è più armonico. Una conversazione, quanto è più concorde, tanto è più allegra. Un remigamento, quanto è più di tutti i galeotti ad un’ora, tanto è più celere. Ma il ridurre la moltitudine all’unità, molto più è connaturale di uno che non di molti (S. Th. 1. p. q. 12. art. 3. in c.). Quale dubbio dunque, che il governo del mondo stia meglio in uno?

III.

IX. Per ultimi, non solo l’essere di Dio richiede questa unità di principio, non solo la desiderano tutte le creature, ma tutte le creature ancor ce la scoprono ad una voce: tanto quelle che muovonsi per arbitrio, quanto quelle che sono mosse. E a voler dire in prima delle seconde.

X. Quella bellezza ammirabile che fu da noi lungamente considerata nelle parti dell’universo, quella proporzione, quell’orditura, quell’ordine, quella costanza perpetua nell’operare, troppo altamente ci dichiarano al cuore, che non può si grande opera provenire da altri, che da una cagione infinitamente perfetta. Altrimenti, se storpiata in sé fosse la genitrice, come potrebbe dare ella sempre alla luce partì sì belli? Ora qual maggiore storpio potrebbesi figurare in questa prima cagione, che l’essere costituita in un modo stolto? E pure di siffatto modo sarebbe costituita, se ella consistesse in più Dei. Volete che io vel dimostri? Certo è, che ciascuno di tali Dei come sufficientissimo ad ogni bene, e per sé e per altri, renderebbe tutti i suoi colleghi affatto superflui. Onde l’unione di più divinità che sarebbe? Non sarebbe un collegamento di perfezioni, ma un mucchio casuale di parti non importanti, di cui è proprio l’essere disadatto, disordinato, e senza disegno (Anton. Perez, de Deo disp. 1. c. 4). Pertanto chi potrà giammai darsi a credere, che se il mondo (il quale finalmente ha un esser creato) sussiste nondimeno in una ragion perfettissima, l’Essere increato, che ha per ragion;, anzi per necessità, solamente se stesso, sussista sì pazzamente in ciò che è contra d’ogni regola di ragione, cioè nel superfluo, tanto abborrito dalla natura medesima, che dappertutto altro non fa, che respingerlo, e ributtarlo? Guardate pertanto ciò che succederebbe tra quei più Dei, se diffatto si ritrovassero. Ciascun sarebbe più contentibile all’altro di una formica, perché una formica è bensì inutile a Dio, ma non è superflua, mentre Dio può essere utile alla formica; ed infatti l’è, amandola però anche, come capace di riportare da Lui e vita e vitto e piaceri a lei convenevoli. Ma tra quegli Dei non così: né l’uno potrebbe recare all’altro alcun prò (mentre sarebbero tutti sufficienti a se stessi), né l’un dall’altro lo potrebbe ricevere: onde, se tra loro fosse possibile alcun commercio, altro non farebbero insieme, che vilipendersi come numi da soprappiù. E potete voi divisarvi maggior disordine? Sufficiens est et unum, dice Aristotile (8. phys.tex. 48). Girate per tutto l’ordine naturale, voi non vedrete, che ciò che nel suo genere è sufficiente, sia mai più di uno: che però all’uomo fu determinato un sol cuore, un sol cerebro, un sol collo, perché uno basta al suo fine. E poi volete che più di uno sia Dio, che è il sufficientissimo?

XI. Né state a oppormi, che all’inconveniente ora detto dobbiamo dunque rispondere ancora noi, i quali ammettiamo tre Persone divine, tutte sufficienti a se stesse (mentre nessuna è tra esse che non sia Dio), e pure non ammettiamo veruna superfluità che loro passi, né veruna indigenza. La disparità è manifesta. Le tre persone sono tre Persone si bene, ma un solo Dio: che però in esse la sufficienza è una sola, non essendo la sufficienza di beni ch’esse posseggono fondata nelle personalità, ma fondata nella natura, la quale è unica in tutte. Non così avverrebbe in più Dei. Questi sarebbero ciascun da sé Dio diverso, Dio differente (altrimenti è certo che non sarebbero più): onde, siccome ciascun da sé sarebbe sufficiente a formare un Dio, quando ancora mancassero tutti gli altri; così ciascuno di verità sarebbe agli altri superfluo, e superflui li renderebbe.

XII. E pure notate di peggio. Ciascuno con tutto ciò avrebbe a un’ora degli altri, benché cogli altri un bisogno estremo, mentre nessun potrebbe essere senza gli altri, benché cogli altri non fosse una essenza sola. Ed eccovi però fra più Dii questa più mostruosa contraddizione, che vicendevolmente fossero beni, insieme necessari, insieme superflui. Superflui, perché ciascuno basterebbe a sé da se solo; necessari, perché nessuno potrebbe discacciare via l’altro, qual Dio d’avanzo; onde avrebbesi questo eminente sproposito, che la somma superfluità possibile a figurarsi fosse insieme la somma necessità. Lungi da noi tali insanie. Noi Cristiani intendiamo ciò che sia Dio, e per questo siam paghi di uno. Gli idolatri non lo intendevano, e però ne ammettevano innumerabili: Deus, si non est unus, non est.

XIII. Senonchè gl’idolatri stessi ne’ casi subiti davano a divedere ciò che notò Tertulliano con acutezza, cioè che l’uomo di sua natura è Cristiano, non è idolatra. Quindi è, che non solo colti da un improvviso pericolo, invece di rivoltare i lor occhi in atto di supplichevoli al campidoglio, chiedendo scampo, li sollevavano al cielo, come fu da noi già notato: ma di più nell’istesso Panteon, domicilio di tutti gli Dei bugiardi, se avevano ad asseverare una cosa, a protestare, a promettere, a minacciare, dicevano: Dio sa, Dio vede, Dio vuole, Dio mi castighi, chiamando per loro giudice un solo Dio, nell’atto stesso che d’ogni intorno sacrificavasi a tanti: 0 testimonium animæ naturaliter Christiana, gridò però Tertulliano con gran ragione (In apol. c. 11):mercecchè tutte le creature anche libere, non che le regolate dal puro istinto, hanno in sé  viva questa gran verità, notatavi altresì da Lattanzio, da Atanasio, da Arnobio, da Cipriano, che la cagione prima è una sola (Lattan. 1. 1. c. 2. Athan. c. idolol. Arnob. 1.2.Cypr. de idol. vanit.). Né è meraviglia. Come ella è perfettissima nell’operare, così conviene,che perfettissima sia parimente nell’essere,che è la norma dell’operare: e se ella è perfettissima,dunque è una, perché è quale torna a lei meglio dì essere (Come in aritmetica l’unità precede i numeri, così nell’universo l’uno precede il molteplice, epperò l’unità è la grande, la suprema legge dell’umana ragione. Il pensiero non può dare un passo senza trovarsi di fronte ad un molteplice nell’uno; e come nel mondo ideale tutti i concetti si radicano in un concetto supremo ed in esso hanno la loro ragione ed unità, così nel mondo reale tutti gli esseri sussistenti puntano in un Essere unico dominatore).

XIV. Vero è, che quando di Dio si dice esser uno, non dovete mai divisare che Egli uno sia di quel modo che uno è il sole per verità, e che una stimasi la fenice per favola. Imperocché unico è il sole di fatto, ma pure potrebbe moltiplicarsi dal Creatore al par delle stelle, divenendo il cuore di altrettanti universi che gli fossero dati a vivificare. E così parimente, quando fosse anch’ella unica la fenice, si potrebbe tosto vedere moltiplicata al par di tutti i volatili, perché né il sole, né la fenice hanno l’unità per essenza, come l’ha Dio, il quale non può essere se non quell’uno che Egli è (S. Th. 1. 2. q. 11. art. 4): tanto che il volerlo moltiplicare è l’istesso, che volerlo distruggere, multitudo numinum, nullitas numinum (Athan. c. idolol.). Riman dunque fermo, che Dio non solamente è unico, ma è lo stesso uno, come fu pure conosciuto dal Trismegisto, ipsum unum: ed in questa sua propria, pura, ed unissima unicità, quasi in un abisso senza fondo, contiene in atto tutte le perfezioni possibili. Ma perché noi, a guisa di struzzoli, tanto battiamo l’ale per aria, quanto posiamo ad un’ora i pie sulla terra, cioè tanto conosciamo delle cose divine, quanto ce ne rappresentano le immagini tolte dagli oggetti corporei; però ci figuriamo l’infinito alla foggia delle cose finite, e senza avvedercene veniamo a ritrarre il sole con un tizzone. Quinci è il distinguere che facciamo in questa semplicissima essenza, un numero grande di attributi, di proprietà, e di prerogative che l’accompagnino, benché tutti gli attributi, tutte le proprietà, e tutte le prerogative non sian altro che un solo bene, contenitore di tutti per eminenza. Chiamiamo il mare ora oceano, ora maggiore, ora mediterraneo, ora adriatico, ora icario, ora ionio, ora caspio, ora boreale, ora baltico, ora britannico, ora pacifico, ora getico, ora gelato, ora rosso: eppure ell’è tutta un’acqua. Così, con qualche proporzione, noi possiam dire che nominiamo Dio, ora giusto, ora misericordioso, ora adirato, ora placato, ora avverso, ora propizio, ora operante, ora quieto: benché l’idea che ne dobbiamo formare, sia di un sommo Essere indivisibile, in cui per verità non si distingue una perfezione dall’altra; ma quella essenza medesima che è giustizia, quella è misericordia; quella che è potenza, quella è sapienza; quella che è provvidenza, quella è santità; quella, che è immensità per occupare tutti gli spazi possibili, quella è eternità per accogliere tutte le durazioni. E la ragione di tanta semplicità si è parimente, perché qualunque composto ha la sua cagione (S. Th. contra gentes l. 1 c. 48.n. 4): non potendo parti diverse adunarsi in un tutto, massimamente non casuale, ma saggio, senza cagione adunante, la quale intenda la convenienza che han quelle parti tra loro, a far lega insieme. Ma a Dio non può assegnarsi cagione di alcuna guisa, mentre Egli è la cagion prima. Dunque nemmeno in Dio può trovarsi composizione. Egli è da sé. Dunque Egli possiede anche un essere semplicissimo, che contiene ogni grado di perfezione, ma di perfezione non mista d’imperfezione: come la luce, la quale ha in sé qualunque grado possibile di, colore senza l’opaco (Sotto questo riguardo Iddio potrebbe venir definito l’Essere dotato di infiniti attributi infinitamente perfetti e ridotti a semplicissima unità).

XV. Che se è così, non dobbiam neanche meravigliarci, se sulla terra mai non possiamo conoscer Dio degnamente o almeno adeguatamente. A conoscer Dio di tal modo converrebbe conoscere il bene in sé. Ma ciò non fu mai possibile, dove ogni bene che mirisi, è limitato dentro qualche spezie di bene, non è il ben tutto: Bona domus, bona animalia, bonus aér, etc. (dicea il grande Agostino (De Trin. 8. c. 3) bonum hoc, et bonum illud. Tolle hoc et lolle illud, et vide ipsum bonum si potes: ita Deum videbis; non alio bono bonum, sed bonum omnis boni.