LA VITA INTERIORE (10)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (10)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione. – Riveduta.

LUCI DI STELLE

L’AZIONE CATTOLICA (1)

(Da: La parola del Papa su l’Azione Cattolica – III ediz. Milano – G. F. di A. C., 1937).

Con riverenza, con rispetto, con umile devozione, con affettuosa riconoscenza, riteniamo dover giustamente riferire, in questo capitolo, solo la parola del Santo Padre Pio XI, il Papa dell’Azione Cattolica.

LA NATURA. – APOSTOLATO MOLTEPLICE SUSCITATO DAI PONTEFICI.

..«Il sempre più diffuso ed operoso spirito di apostolato che con la preghiera, con la parola, con la buona stampa, con l’esempio di tutta la vita, con tutte le industrie della carità, cerca con ogni via di condurre anime al Cuore Divino e di ridare al Cuore stesso il trono e lo scettro nella famiglia e nella società; la santa battaglia, su tanti fronti ingaggiata, per rivendicare alla famiglia ed alla Chiesa i diritti, che da natura e da Dio loro competono nell’insegnamento e nella scuola, intendiamo dire quel complesso di organizzazione, di istituti, di opere che vengono sotto la denominazione di Azione Cattolica dai Nostri prossimi Antecessori con tante cure e così provvidamente suscitata, con tanti e così luminosi documenti nutrita, diretta e disciplinata, secondo il rapido svolgersi e succedersi delle diverse situazioni sociali, allo scopo di preparare sempre più perfetti Cristiani, e, con ciò, sempre più perfetti cittadini, e di formare coscienze così squisitamente cristiane, da sapere, in ogni momento, in ogni situazione della vita, privata o pubblica, trovare, od almeno bene intendere ed applicare, la soluzione cristiana dei molteplici problemi che nell’una o nell’altra condizione di vita si presentano (Dalla prima Enciclica del S. Padre Pio XI, Ubi Arcano, del 23 dicembre 1922).

LA DEFINIZIONE. – LA VERA DEFINIZIONE.

La vera Azione Cattolica, quale Noi la vogliamo e quale l’abbiamo definita a più riprese è la partecipazione dei laici cattolici all’apostolato gerarchico per la difesa dei principi religiosi e morali, per lo sviluppo di una sana e benefica azione sociale sotto la guida della Gerarchia ecclesiastica, al di fuori e al di sopra dei partiti politici, nell’intento di restaurare la vita cattolica nella famiglia e nella società (Dalla lettera del S. Padre del 30 luglio 1928 alla Presidente gen. dell’Un. Int. delle Leghe Femm. Cattoliche.).

NON SENZA DIVINA ISPIRAZIONE. È un’alta e sublime missione quella di cooperare alla Azione Cattolica, poiché deve sempre ricordarsi che il Santo Padre, pensatamente, deliberatamente — anzi può dirsi non senza divina ispirazione — nella Sua prima Enciclica, definì l’Azione Cattolica La partecipazione del laicato cattolico all’apostolato vero e proprio della Chiesa, e l’ha chiamata a cooperare all’apostolato dei veri e propri apostoli, dei sacerdoti, dei Vescovi. Questa è tutta la sostanza grande e divina dell’ Azione Cattolica, punto da cui tutto deriva: cura delle anime proprie e altrui, apostolato, propagazione del bene in tutte le direzioni e misure possibili. Questa la sostanza e la veneranda bellezza storica dell’Azione Cattolica (Dal discorso del S. Padre del 19 marzo 1927 alle lavoratrici della G. F. di A. C. Italiana.).

FONDAMENTI DOGMATICI – DERIVA DAL BATTESIMO E DALLA CRESIMA.

Sarà utile far bene comprendere — poiché molti fedeli ancora l’ignorano — che l’apostolato è uno dei doveri inerenti alla vita cristiana; mentre l’Azione Cattolica è, tra le varie forme di apostolato, tutte benemerite della Chiesa, quella che più si confà ai nuovi bisogni dell’età presente, tuttora sotto le conseguenze deleterie di una lunga e vasta opera laicizzatrice. E realmente, se ben si considera, sono gli stessi Sacramenti del Battesimo e della Cresima che impongono, tra le altre obbligazioni, anche questa dell’apostolato, cioè dell’aiuto spirituale al prossimo nostro. Per la Cresima, infatti, si diviene soldati di Cristo. Or chi non vede che il soldato deve faticare e combattere non tanto per sé quanto per gli altri? Ma anche il Battesimo — sebbene in modo meno evidente ad occhio profano — impone il dovere dell’apostolato; poiché per esso noi diveniamo membri della Chiesa, ossia del Corpo mistico di Cristo; e tra i membri di questo corpo — come di qualsiasi organismo — ci deve essere solidarietà di interessi e comunicazione reciproca di vita: Multi unum corpus sumus in Christo, singuli autem alter alterius membra (Rom., XII, 5). Un membro deve, dunque, giovare all’altro; nessuno può rimanereinattivo, ma ciascuno, mentre riceve,deve anche dare.Ora, siccome ogni Cristiano riceve la vitasoprannaturale, che circola nelle vene delCorpo mistico di Cristo — quella vita abbondanteche Cristo medesimo disse diesser venuto a portare in terra: veni ut vitam habeant, et abundantium habeant (Io., X, 10) — così egli la deve trasfondere inaltri che non la possiedono, o troppo scarsamentee solo in apparenza (Dalla lettera del S. Padre del 10 novembre 1933 al Cardinale di Lisbona.).

ORIGINI. – ORIGINI NEL VANGELO.

La Chiesa ha sempre amato, apprezzato, voluto l’aiuto dell’Azione. Cattolica. Questa può sembrare ad alcuni una novità: appartiene invece alla più veneranda antichità. La azione cattolica è proprio una di quelle antichità che ci portano ai tempi degli Apostoli e di Nostro Signore. Perché anche Egli si valeva dell’aiuto e del contributo di buone pie donne che lo seguivano: e si legge attraverso le righe del Vangelo che esse provvedevano ai bisogni del Collegio apostolico. È Gesù che chiama in aiuto della sua predicazione e della predicazione degli apostoli l’Azione Cattolica (Dal discorso del S. Padre del 5 marzo 1933 alla G. F. di A. C. di Roma.).

L’APOSTOLATO. – DILATARE IL REGNO DI CRISTO.

L’azione della Chiesa e la cooperazione dell’Azione Cattolica non si limitano soltanto a portare un minimo necessario di elementi religiosi che impediscano la paganizzazione della società nelle sue diverse congiunture: l’azione dell’apostolato, 1’Apostolato Gerarchico e la cooperazione dell’Azione Cattolica mirano all’intero programma del cuore di Dio, alla fondazione, alla dilatazione e stabilizzazione del Regno di Cristo nelle anime, nelle famiglie, nella società, in tutte le sue possibili espansioni, in tutte le sue estrinsecazioni, in tutte le profondità raggiungibili da attività umane, aiutate dalla grazia di Dio. È chiaro e genuino che da questa posizione dell’Azione Cattolica, nelle linee supreme di questo quadro, scaturiscano i vincoli che essa ha con la Gerarchia Apostolica e i doveri che ha verso se stessa: doveri di preparazione, di formazione, di attività benefica. Ed essa, nei termini del suo mandato, ha un campo che non ha limiti, sebbene in quel campo abbia sempre un modo proprio di esplicarsi, dove la sua azione santificatrice è altrettanto necessaria e legittima che insurrogabile (Dal discorso del S. Padre del 19 aprile 1931 alle Associazioni Cattoliche di Roma.).

IL DOVERE. – DEV’ESSERE PROMOSSA DA TUTTI I CATTOLICI.

E tale azione deve essere promossa da tutti i Cattolici di una stessa Nazione, per il bene

comune e per il progresso della Patria, senza però entrare negli angusti limiti di un partito, immischiandosi alla politica (Dalla lettera del S. Padre del 4 giugno 1928 all’Episcopato lituano). Ad essa sono chiamati tutti i fedeli, a qualsiasi età o classe sociale appartengano, poiché tutti possono lavorare nella mistica vigna del Signore; perciò, essa deve raccogliere nelle sue file e vantaggiosamente organizzare la gioventù e gli adulti d’ambo i sessi e svolgere programmi anche specializzati nei diversi reparti sociali di operai, di studenti, di laureati, di professionisti e di insegnanti (Dalla lettera del S. Padre del 14 febbraio 1934 all’Episcopato della Colombia.).

LA NECESSITÀ. – NECESSITÀ, LEGITTIMITÀ, INSURROGABILITÀ.

La Chiesa ha sempre detto — e con le parole e coi fatti — che l’Azione Cattolica appartiene alla vita soprannaturale, in collaborazione e quindi in dipendenza lella Gerarchia, alla vita soprannaturale, prima in opera di sempre più perfetta formazione individuale, e poi in opera di sempre più efficace ed ampio apostolato. Questo la Chiesa ha detto e praticato già dai primi giorni del Cristianesimo, anzi di Gesù Cristo stesso: questo ha sempre praticato in venti secoli di vita, variandone le forme secondo le esigenze e le possibilità dei diversi tempi e dei diversi luoghi; questo abbiamo detto e praticato Noi stessi fino dall’inizio del nostro Pontificato e fino a ieri, sempre insegnando ed inculcando la necessità, la legittimità, l’insurrogabilità della Azione Cattolica, mentre partecipa della necessità legittimità e insurrogabilità della Chiesa e della sua Gerarchia per la formazione e la espansione della vita soprannaturale (Dalla lettera del S. Padre del 26 aprile 1931 al Card. Schuster, Arciv. di Milano.).

LE CARATTERISTICHE. – LA FORMAZIONE: DAL CATECHISMO ALLA VITA INTERIORE…

Bisogna intendere bene questa Azione Cattolica. Essa mira innanzi tutto alla formazione dell’individuo. Si tratta prima di formare dei buoni Cristiani, illuminati, che conoscano bene il loro catechismo. Ecco l’essenziale! Fatto questo però, non bisogna rimanere lì. Quando noi prepariamo un Missionario, noi pensiamo principalmente alla sua formazione interiore. Ma se il Missionario tenesse per sé questa vita interiore, il mondo non si convertirebbe. Bisogna che egli predichi, che compia delle opere, che agisca esteriormente. Così deve essere dell’Azione Cattolica. Sua prima cura deve essere quella di formare dei veri Cristiani. Ma il cristiano, una volta formato, deve spandere al di fuori la vitalità che egli ha ricevuto. Deve portare ovunque questo tesoro del Cristianesimo e valorizzarlo in tutti i campi, nella famiglia e nella vita pubblica, senza escludere la politica. Perché quello che noi vogliamo è che Cristo regni in terra come in Cielo e che la sua regalità sul mondo ridiventi effettiva (Dall’udienza del S. Padre il 23 agosto 1924 al Can. Brohée, Assistente gen. della Giov. Catt. Belga).

Noi possiamo considerare la Chiesa in due modi: come società visibile, gerarchica, fondata da Cristo per continuare quaggiù la sua missione santificatrice; essa ci apparisce così come un organismo vivente. Per avere un’idea completa della Chiesa, dobbiamo riguardarla come la società santa ed invisibile delle anime, che partecipano, per mezzo della grazia, alla filiazione divina di Cristo e formano il regno che si è acquistato per mezzo del suo sangue. S. Paolo chiama ciò il Corpo di Cristo, non certo il corpo fisico, ma il suo Corpo mistico.

C. MARMION.

LA VITA INTERIORE (11)

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (Olier) 1

VITA E VIRTÙ CRISTIANE (1)

GIOVANNI G. OLIER

Mediolani 27-11 – 1935, Nihil obstat quominus imprimetur. Can. F. LONGONI

IMPRIMATUR In Curia Arch.Mediolani die 27 – II – 1935 F. MOZZANICA V. G.

INTRODUZIONE

Questo libro del servo di Dio Giovanni Olier non è che la spiegazione ossia l’applicazione alle virtù cristiane in particolare della sublime dottrina di san Paolo su la vita di Gesù Cristo in noi. – Ricordiamo le parole dell’Apostolo: Cristo è ogni cosa in tutti (Col. IV, 11)… Un solo Signore, Gesù Cristo, per cui tutte le cose, e noi per mezzo di Lui (I Cor.  . 6)… Coloro che Dio ha prescelti, li ha predestinati ad essere conformi all’immagine del Padre suo (Rom. VIII, 29). Che se uno non ha lo spirito di Gesù Cristo, questo non è di Lui (Rom. VIII, 9)… Figliolini miei, che porto nel mio seno sino a tanto che sia formato in ‘voi Cristo (Gal. IV, 19 )… Vivo non già io, ma è Cristo che vive in me (Gal. II, 26)… Il mio vivere è (Cristo Mihi vivere Christus est – Fil. I, 21). Questa dottrina di san Paolo è la conseguenza e la spiegazione di quella parola dell’Eterno Padre nella Trasfigurazione di Gesù Cristo: Ecco il mio Figlio prediletto nel quale ho posto le mie compiacenze, ascoltatelo (Ipsum audite Luc. IX, 35). – Il Verbo incarnato è il centro di tutto, il centro quindi di tutta la religione e di ogni virtù. L’essenza della vita cristiana è la conformità con Gesù Cristo; nulla può piacere al Padre, se non Gesù Cristo; la nostra vita non può essergli gradita se non in quanto riproduce quella di Gesù Cristo. Gesù Cristo, quindi, è il grande ed unico modello che dobbiamo imitare; ma è pure il principio della nostra vita spirituale. La vita cristiana è la continuazione, ossia l’effluvio in noi della vita di Gesù; è Gesù che vive in noi e con la sua azione ci comunica la sua virtù, Gesù continuato in noi. – Cosi, ci dice G. Olier, la religione è Gesù che in noi continua a rendere al Padre la dovuta adorazione; l’umiltà è Gesù che in noi sazia la sua sete di umiliazioni; Gesù è il «Penitente pubblico e universale» che continua a far penitenza nella Chiesa; la pazienza è Gesù che ancora soffre nelle membra del suo corpo mistico per adempiere, secondo la parola di S. Paolo, ciò che manca al compimento della sua passione. – Fedele allo spirito del Card. de Bérulle, suo grande maestro, Giov. Olier ci conduce sin nella profondità della SS. Trinità, a cercare il modello della nostra vita; così, dobbiamo praticare la mortificazione per imitare la santità di Dio; la castità è partecipazione della natura di Dio; la carità verso il prossimo trova il suo tipo nella vita intima delle divine Persone. Per altro, questa via ci venne segnata dal divino Maestro, quando ci diceva che dobbiamo essere perfetti come il nostro Padre de’ cieli (Matt. V, 48), e che dobbiamo amare il nostro prossimo come Egli medesimo è amato dal Padre e ama noi.

Giov. Olier în poche linee sovente esprime concetti di grande sostanza; questo libro perciò va letto e meditato con serietà. Il celebre sulpiziano Emery lo portava sempre con sé e ne faceva assidua lettura; il compianto Tanquerey nel suo Manuale di teologia ascetica, quando tratta delle virtù cristiane, lo cita ad ogni passo. – Il servo di Dio scrisse quest’opera, insieme con parecchie altre, durante l’ultima sua malattia, dietro insistenti preghiere di molte persone; anche nella sua infermità, non trascurava di lavorare in tal modo al bene, delle anime. – La prima edizione dell’Introduzione alla vita e alle virtù cristiane, tale era il titolo, comparve subito dopo la morte del servo di Dio avvenuta nel 1657. Le opere scritte da Giov. Olier piuttosto che della sua riflessione e dei suoi studi, furono il frutto delle illuminazioni che da Dio riceveva in abbondanza nella orazione.

Egli scriveva di solito dopo questo santo esercizio, in ginocchio e con una facilità e rapidità straordinaria. « I suoi scritti. diceva il Vescovo di Puy nell’approvazione della prima edizione di quest’opera, sono pieni di quell’abbondante unzione di grazie, «che si trova in parecchi libri che sono come sorgenti della vita divina, quali il Combattimento spirituale, l’Imitazione, la Filotea e gli altri scritti del gran servo di Dio Francesco di Sales. Egli imprime fortemente nei cuori il disprezzo delle massime del secolo, la stima della fede, la dignità dei nostri misteri, l’amore della religione, specialmente in questo libro dell’Introduzione alla vita cristiana, che abbiamo letto con ammirazione ».

CAPITOLO I.

Della virtù di Religione in Gesù Cristo

Cristo è venuto sopra la terra per procurare all’Eterno Padre la dovuta adorazione. — Egli diffonde nei fedeli il proprio spirito di religione. — Tutto è nulla: a Dio solo l’adorazione. Gesù Cristo estende la sua religione alle anime nostre, si diffonde in noi e ci rende partecipi del suo stato di ostia, per fare di ciascuno di noi un vero adoratore del Padre. — Così ei rende partecipi anche della gloria della sua risurrezione.

Gesù Cristo, Nostro Signore, è venuto in questo mondo per apportare sulla terra il rispetto, l’amore e la religione verso il Padre suo, per stabilirvi il regno e la gloria del Padre. Questa gloria divina fu, nel corso della sua vita, l’unico oggetto delle sue domande al Padre; è questa l’opera che Egli proseguiva nei trentatré anni che visse su la terra. Il suo incessante desiderio era di effondere il suo proprio spirito di religione nella mente e nel cuore di quei fedeli che Egli prevedeva destinati a ricevere tale effusione, perché potesse onorare il Padre in essi come lo onorava in sé medesimo. – Gesù Cristo domandava e meritava per gli uomini questa grazia, durante la sua vita mortale, e principalmente nella sua morte su la Croce; in questa, mentre implorava per noi la grazia di poter dar gloria al Padre, Egli manifestava pure quanto fosse grande il rispetto e l’amore che portava al Padre suo; perché la riverenza e l’amore sono i due elementi che costituiscono la religione. Gesù Cristo vedeva il Padre suo infinitamente puro e infinitamente santo; non trovava nulla che meritasse di vivere e di sussistere davanti a Lui: ed Egli appunto subì la morte per attestare e manifestare questa verità. Gesù moriva su la Croce tanto per amore quanto per riverenza verso il Padre; si sottoponeva alla morte, l’accettava volentieri e con gioia, perché in essa vedeva il beneplacito e la soddisfazione del Padre suo; vedendo che il Padre non riceveva la dovuta riparazione per i peccati che si commettevano contro la sua Maestà, Egli moriva onde dargli ogni compiacimento ed offrirgli una completa e perfetta soddisfazione. In tal modo, noi Cristiani, che facciamo professione di essere partecipi del medesimo spirito di religione di Gesù Cristo e quindi del suo rispetto e del suo amore verso il Padre, dall’esempio di Lui dobbiamo imparare a non risparmiar nulla per manifestare, con Lui, veri sentimenti di religione, e a giungere per questo sino al sacrificio secondo le occasioni, perché il sacrificio effettivo è più sicuro di una semplice disposizione dell’anima, che. Sovente è ingannevole. – Nostro Signore, anche dopo la sua morte, ha continuato, con tutte le industrie del suo amore, ad infondere negli uomini questo spirito di religione verso il Padre; ha dato loro perciò il suo medesimo spirito, che è lo spirito di Dio vivente in Lui, onde stabilire in essi i sentimenti medesimi dell’anima sua, affinché, dilatando così ed estendendo il suo spirito di religione, Egli facesse di sé medesimo e di tutti i Cristiani un solo adoratore, un solo Religioso di Dio (Religioso, la persona specialmente dedicata alla religione, che ha l’ufficio di rendere a Dio la dovuta adorazione.). – Mentre già regnava glorioso in Cielo, Egli viveva nel cuore e nella penna dei suoi Evangelisti, per istabilire dappertutto il disprezzo verso la creatura e il rispetto verso Dio solo. Ed Egli vive nel cuore e nella bocca dei suoi Apostoli e dei suoi discepoli, perché annunzino dappertutto il regno di Dio, promuovano l’adorazione conveniente al santo Nome di Dio e gli procurino sudditi perfettamente sottomessi, adoratori che gli rendano omaggio in ispirito e verità (Veri adoratores adorebunt Patrem in ispiritu et veritate – Joan. IV, 22). – Questa pure è propriamente la funzione dello spirito di Dio nei Sacerdoti; in essi questo spirito continua ciò che operava in Gesù Cristo. Nei sacerdoti, per mezzo di esempi, di istruzioni orali e scritte, e per tutte le vie possibili, Egli promuove la santa religione verso Dio, il quale solo merita adorazione e riverenza, mentre la creatura non merita che disprezzo. – All’infuori di Dio, tutto è ombra e vanità. Che cosa è mai, infatti, tutto l’essere creato? Una scorza leggera di quell’essere che sta nascosto in Dio e che, in certo qual modo, si manifesta sotto il colore di tutto ciò che si vede. Tutta la figura di questo mondo passerà (I Cor., VII, 61), quando Dio vorrà cessare di comparire sotto figure, quando farà vedere senza velo ciò che Egli è. Quando gli occhi del nostro spirito saranno aperti e rafforzati dal lume della gloria. allora il mondo non avrà più per noi nessun’attrattiva; come quando compare il corpo o la persona. non si considera più l’ombra né il ritratto, La maschera non piace più quando il volto si vede scoperto: così tutto sì riconoscerà come figura, maschera e niente, quando Dio si renderà visibile all’anima in tutto l’essere suo. – Dio, sia dunque adorato in sé medesimo: tutto perisca davanti a Lui nel nostro spirito, poiché tutto è niente al suo cospetto. Per ispirito di religione, anticipiamo annientamento e il sacrificio Universale di tutto questo essere che deve perire in onore di Dio onde attestarne la grandezza e la santità. La nostra fede sia la luce e la fiaccola che guidi la nostra religione, perché facciamo davanti a Dio il sacrificio di tutte le creature! Gesù Cristo medesimo, ha voluto essere immolato in sacrificio per il grande rispetto verso il Padre, per la stima verso di Lui e la sua santità; quanto più dobbiamo noi sacrificare ogni cosa a Dio, disprezzar tutto, non aver stima né considerazione se non per quello che solo è vero e unicamente merita stima e rispetto? – Davanti al vero Dio non si deve adorare nessun idolo, ma tutte deve essere ridotto in cenere. Dunque ogni creatura perisca davanti al mio Dio! – Nostro Signore, mentre sacrificava se stesso, intendeva di tutto annientare e di fare in sé medesimo il sacrificio di ogni cosa perché tutto Egli aveva riunito e riassunto nella propria persona (Recapitulare Omnia in Christo. Ephes., I, 10); così, è giusto che anche noi condanniamo e sacrifichiamo tutte le cose fuori di Lui, perché  tutte sono tanto meno sante quanto meno sono in Lui. Sacrificar tutto per Dio, attestando in tal modo che tutto davanti a Lui è vile ed abbietto, e che non abbiamo stima né riverenza per nulla fuorché per Lui solo, ecco il vero contrassegno della verità del nostro spirito di religione.

* **

Infine, Nostro Signore, onde dilatare la sua virtù di religione verso Dio, e moltiplicarla nelle anime nostre, viene in noi: ha lasciato perciò se stesso sulla terra in mano ai Sacerdoti come ostia di lode, onde renderci partecipi del suo spirito di ostia, unirci alle sue lodi e comunicarci interiormente i suoi propri sentimenti di religione. Egli si diffonde intimamente in noi; imbalsamando, in certo qual modo, l’anima nostra, la riempie delle disposizioni interiori del suo proprio spirito di religione, dimodoché dell’anima nostra e della sua ne fa una sola ch’Egli anima di un medesimo spirito di riverenza, di amore, di lode e di sacrificio interiore ed esterno di ogni cosa alla gloria di Dio Padre. Così Gesù Cristo mette l’anima nostra in comunione con la sua medesima religione, per fare di ciascuno di noi in Lui medesimo, come abbiamo già detto, un vero adoratore ossia Religioso del Padre. – Anzi, onde fare di noi degli adoratori più perfetti, ed elevarci al più puro e più santo spirito di religione, il nostro divin Maestro ci mette in comunione col suo stato di Ostia, affinché noi pure siamo con Lui una medesima ostia, e siamo adoratori non già solo in ispirito, ma anche in verità, ossia in tutta realtà, col sacrificio interiore in noi stessi di tutto l’essere e di tutti i sentimenti della carne. Così, non siamo soltanto sacrificati come Gesù in Croce con la mortificazione e la crocifissione interiore; ma pure tutto consumiamo, nel nostro cuore, con Gesù Cristo consumato sull’altare. – Ecco la perfezione cui ci chiama Gesù Cristo in questa vita, poiché con la sua presenza intima in noi, e per mezzo del suo fuoco che ci divora, Egli ci rende partecipi dello stato più perfetto della sua religione, quello di Ostia consumata alla gloria di Dio; affinché ciascuno di noi sia un’ostia che non vive più in sé stessa della sua vita propria e della vita della carne, ma vive totalmente della vita divina, della vita consumata in Dio.

* * *

È propriamente questo lo stato della vita di risurrezione, cui siamo chiamati ad imitazione di Nostro Signore, il quale nel giorno della sua Risurrezione venne esternamente consumato nel suo Padre: Egli vuole che noi pure siamo interiormente risorti e riformati in Lui. Perciò dice di aver comunicato agli uomini la gloria che da suo Padre aveva ricevuta (Joan. XVII, 22, 23). Questa gloria è lo stato di risurrezione che Egli aveva già nell’ostia, nell’ultima Cena. Ut sint unum; sicut et nos unum sumus. Ego in eis. et Tu in me. Che siano una cosa sola, o Padre, come noi pure siamo una cosa sola. Io in loro e Voi in me. (Joan. XVII, 23). Io sono in essi, mentre in essi compio il medesimo effetto che Voi, o Padre mio che siete in me, operate in me: li vivifico, come Voi vivificate me, li consumo come Voi consumate me (Joan., XVII, 23). Gesù in quella preghiera, domandava dunque che noi siamo ostie viventi, sante e a Dio gradite (Rom. XI, 1). Ecco perché S. Paolo non prega per nulla con tanta insistenza, come per ottenere ai Cristiani quella perfetta consumazione in Gesù Cristo secondo lo spirito che li renda affatto simili interiormente a Lui: « Prego Dio con tutto il cuore, di portarvi quel grado di perfezione che desidero vi sia in voi per la virtù del Santo Spirito di Gesù Cristo, che vi consumi interiormente in Lui. Oramus vestram consummationem. (II. Cor. XII). – È questa l’opera dello Spirito Santo, in questo mondo: rendere nei nostri cuori testimonianza alla carità; e lo farà molto meglio di S. Giovanni Battista: Egli infatti, è lo Spirito di verità. mentre il Santo Precursore non ne era che l’organo (Joan. V, 23). Lo Spirito Santo, con la fede, incomincerà a farci comprendere nell’intimo dell’anima nostra la falsità e l’impostura delle cose create e di tutto quanto non è Dio; poi ci farà disprezzare ogni cosa come un niente in confronto di quel Tutto così grande, magnifico e ammirabile, che è Dio; ci disgusterà di tutto, e con tale disgusto ce ne distaccherà interamente; ci porterà a Dio con vivissimo ardore e ci unirà a Lui in una tale intimità che di tutti noi farà una cosa sola in Lui; infine, ci consumerà perfettamente, a somiglianza di Gesù Cristo consumato nel Padre suo.

LA VITA INTERIORE (9)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (9)

Sac. Dott. GIOVANNI BATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C. Ristampa della 4° edizione Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

L’ESERCIZIO DELLA BUONA MORTE PREPARARSI A BEN MORIRE.

«Tutta la nostra vita, scrisse S. Giovanni Bosco, in Il giovane provveduto, o miei cari giovinetti, dev’essere una preparazione a fare una buona morte. Per conseguire questo fine importantissimo giova assai praticare il così detto Esercizio della buona morte, il quale consiste nel disporre, in un giorno di ogni mese, tutti i nostri affari spirituali e temporali, come se in quel di dovessimo realmente morire.

IL MODO PRATICO…

Ci è ancora suggerito da don Bosco ed è il seguente: « Fissare per tale Esercizio il primo giorno oppure la prima domenica del mese; fare, sin dal giorno o dalla sera precedente, un qualche riflesso sulla morte, la quale, forse, è vicina e potrebbe anche sopraggiungere all’improvviso; pensare come si è passato il mese antecedente, e soprattutto se vi è qualche cosa che turbi la coscienza e lasci inquieta l’anima, qualora dovesse presentarsi al tribunale di Dio; e intanto al domani fare una Confessione e Comunione, come si fosse veramente al punto di morte. » Siccome poi potrebbe anche succedere che doveste passare da questa all’altra vita con una morte subitanea, o per una disgrazia o malattia, che non vi lasciasse tempo a chiamare un prete e ricevere i santi Sacramenti, così vi esorto ancora a far sovente, durante la vita, anche fuori della Confessione, atto di dolore perfetto dei peccati commessi ed atti di perfetto amor di Dio, perché anche un solo di tali atti, congiunto col desiderio di confessarsi, può bastare in ogni tempo e specialmente negli estremi momenti a cancellare qualsiasi peccato e introdurvi in Paradiso ».

BENEFICO VANTAGGIO.

La pratica dell’Esercizio della buona morte, è oggi molto diffusa, per grazia di Dio, anche sotto il nome di Ritiro mensile, nel quale le anime pie si fissano, sino dalla sera precedente, un argomento unico da approfondire nella meditazione. – Il S. Padre Pio XI, nell’Enciclica sugli Esercizi spirituali, a proposito del Ritiro mensile dice: « Raccomandiamo una pia pratica che diremmo quasi un compendioso rinnovamento degli esercizi, che godiamo di vedere introdotta in molti luoghi e di cui desideriamo vivamente che sì estenda il benefico vantaggio anche ai laici ». – Quali e quanti vantaggi, non solo spirituali, ma anche pedagogici, il Santo dei giovani abbia tratto, non è qui il caso di dire.

IL PENSIERO DELLA MORTE.

Se non è l’argomento unico e l’unica finalità, nel giorno di ritiro, la preparazione alla morte, sia, almeno, la principale, accompagnata dalla preghiera per impetrare da Dio la grazia di non morire di morte improvvisa. Il Gratry (A. Gratry, Le sorgenti. Trad. it. Milano, 1921 – pag. 28, da OLGIATI, La pietà cristiana. Milano, 1935) osserva che «mentre pochi giorni ancora separavano Socrate dalla morte, l’oracolo gli faceva un’imposizione, quando gli disse quella frase che noi non sappiamo ben tradurre: Non fate altro se non della musica, e la frase deve significare che bisogna finire la vita in una sacra armonia. Ma queste bellezze della sera della vita non sono se non delle illusioni per la maggior parte degli uomini; quasi per tutti la realtà è ben diversa. L’intera vita non può finire in una sacra armonia, in un santo e fecondo riposo, pieno di germi che la morte deve sviluppare per l’altro mondo, se non quando ognuno dei nostri anni hanno saputo finire con un sacro riposo: perché l’autunno della vita non raccoglie se non quello che ogni giorno ha seminato ». Ricordiamo il quotidie morior dell’Apostolo (I Cor., XV, 31). Santo, dunque, il quotidiano, o almeno mensile riflesso della morte per le saggie e forti deliberazioni cui induce l’anima di vivere più aderente a Dio e alla sua legge santa.

LUCI DI STELLE

LA LITURGIA

DIVERSITÀ DI PREGHIERE.

Non solo v’è la preghiera vocale e la preghiera mentale, più nota col nome di meditazione, ma v’è, pure, la preghiera privata e quella pubblica, secondo che noi preghiamo individualmente o collettivamente, con la Chiesa. Ciascuno di noi può pregare in casa propria, per istrada, in chiesa davanti a Gesù, ovunque. Questa è preghiera privata. Certamente è gradita al Signore, poiché Egli stesso, come ce ne riferisce S. Matteo (VI, 6), ha detto: « Quando vuoi pregare va’ nella tua camera, chiudi la porta e prega il tuo Padre in segreto ». – Se invece di pregare così individualmente, privatamente, noi, in compagnia di altri, pochi o molti non importa, ci raduniamo in chiesa o in qualunque luogo, e preghiamo ringraziando il Signore pe’ suoi benefizi, e lo supplichiamo perché ne conceda altri di cui riconosciamo la necessità, noi facciamo una preghiera collettiva, che si chiama culto di popolo. Questa preghiera, questo culto è certamente caro a Dio ed è da Lui accettato e gradito, poiché ha detto: « Qualunque cosa due di voi si accorderanno a domandare in terra, sarà a loro concesso dal Padre mio che è nei cieli. Perché  dove vi sono due o tre radunati in nome mio, io mi trovo in mezzo di loro » (Matteo, XVIII, 19-20). Ancora: siamo in chiesa. All’altare un sacerdote celebra la S. Messa, nei banchi poche pie donne, le quali, come il raccoglimento dimostra, seguono il celebrante e si uniscono a lui nel divino sacrifizio. Questa terza maniera di pregare si chiama preghiera liturgica o liturgia. La parola è d’origine greca e vuol dire: opera del popolo, opera pubblica. Indicava, nella Grecia, una prestazione pubblica dei cittadini ricchi. Ben presto tale parola passò nell’uso religioso col senso di culto pubblico. – Nella Chiesa cattolica orientale dire liturgia, è lo stesso che dire S. Messa. Perciò si dice anche, invece di celebrazione della S. Messa, celebrazione della divina Liturgia. Si può, dunque, dire senz’altro, che la liturgia è un culto pubblico, o sociale che si svolge: 1) solo in chiesa; 2) alla presenza del sacerdote; 3) con la partecipazione dei fedeli.

LA LITURGIA.

Quale differenza v’è fra le tre predette forme di preghiera? Nel primo caso; chi prega è soltanto l’individuo; nel secondo è un numero di persone, di anime cristiane, riunite nella preghiera fatta in comune; nel terzo caso non prega il sacerdote come individuo, né le persone riunite che assistono al Sacrificio, ma, e il sacerdote e le persone assistenti pregano con la Chiesa; è la Ciesa, anzi, che prega, è il mistico Corpo di Cristo. Il culto pubblico, la preghiera pubblica offerta a Dio con la Chiesa dicesi liturgia. « Il Sacerdote e i fedeli celebrano questo atto di culto in nome soltanto della Chiesa, anzi, in nome di Cristo. Da ciò l’eccellenza e la dignità della preghiera liturgica. — La preghiera privata tanto vale quanto vale il singolo orante; l’atto di devozione di un popolo tanto vale, quanto valgono innanzi a Dio coloro che si trovano radunati insieme. Certo, in quest’ultimo caso, la preghiera di alcuni giusti può compensare l’indegnità dei peccatori, ma la preghiera liturgica è valevole sempre, perché è la Chiesa, la Sposa immacolata di Cristo, che la offre. Sacerdote e popolo soltanto prestano alla Chiesa la loro voce. Comprendiamo adesso ciò che è essenziale del Culto liturgico: “ il singolo fa e celebra liturgia in quanto è membro della Chiesa e tale ha coscienza di essere ”’ » (Persch, Conferenze sulla santa Messa). Di qui, possiamo, con giusta ragione, trarre la conseguenza che la preghiera liturgica è superiore a quella di un individuo distinto, o anche di tutto un popolo, poiché in unione col Corpo Mistico di Gesù. La liturgia è quindi il culto ufficiale della Chiesa che fluisce in due correnti vitali: umana l’una, divina l’altra. La corrente umana è l’ossequio che l’umanità riunita nella società della Chiesa, presta a Dio; la corrente divina è il tesoro di grazia che da Dio in essa ognuno non prega distintamente ma fluisce nei membri e nei rami della Chiesa.

NATURA DELLA LITURGIA.

Scaturisce limpidamente dai tre termini seguenti: 1) Il Cristo; 2) La Chiesa; 3) Il singolo cristiano. Sappiamo che Gesù Cristo è la fonte della vita. Disse infatti: Io sono la via, la verità, la VITA. È la vita, ed è fonte di vita perché Egli la distribuisce copiosamente. Sono venuto perché tutti abbiano – la vita… e l’abbiano in abbondanza. La Chiesa è un organismo vivente… Tutte le forze dell’inferno coalizzate per soffocarla, disse Gesù, non riusciranno a nulla. È la sposa di Gesù; vive e respira con Gesù. « La S. Scrittura, dice il P. Parsch, ci offre due immagini che ci rendono meglio comprensibile la natura della Chiesa. La prima ce la dà Cristo stesso nel suo discorso di addio (Giov., XV, 5 e seg.): “Io sono la vite; voi i tralci; se uno rimane in me ed Io in lui, questi porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla; chi non rimane in me, sarà gettato via come un tralcio e si seccherà ”). La seconda è l’immagine prediletta di S. Paolo: la Chiesa è il corpo mistico di Cristo; Cristo è il capo (o cuore) di questo corpo, noi Cristiani siamo di tale corpo le membra, « Ciò ch’è comune a queste due immagini è il concetto di organismo vivente; membra e rami sono conservati in vita soltanto per l’unione con la loro fonte vitale. È dalla vite che scorre la linfa nei tralci e li fa verdeggiare, fiorire, fruttificare; è dal cuore che scorre il sangue in ogni membro e lo conserva vivo. E perciò, tralcio di vite e membro del corpo muoiono quando sono staccati dall’organismo ». – Ora concludiamo logicamente. Gesù, salito al Cielo, opera per mezzo della Chiesa. Questa, sotto la guida dello Spirito Santo, dispone e ordina il culto che, con un insieme bellissimo di riti e cerimonie, noi dobbiamo dare al celeste nostro Padre, e dispone e ordina quei mezzi precisi, autentici, coi quali la linfa della vita divina, che scaturisce dalla SS. Trinità. e dalla quale dispensatore unico e perfetto è solo Gesù. L’abbondanza della vita divina, che da Gesù viene in noi, è in proporzione del nostro sforzo « di unirci alla preghiera dei Sacerdoti, ai riti che essi compiono, ai Sacramenti che amministrano, e – particolarmente alla celebrazione della S. Messa. Perciò, più la nostra partecipazione a questi atti sarà intima, attiva e frequente, più Gesù, eterno Sacerdote, agirà nelle nostre anime. » (Signore insegnaci a pregare – G- F- di A. C., 1937).

VANTAGGI DEL VIVERE LA LITURGIA.

Un eminente scrittore così si esprime: «Vivere la liturgia non è altro che vivere la vita medesima di santa Madre Chiesa, identificarsi con essa, per prestarle il concorso della nostra voce, delle nostre mani, del nostro essere intero nella Laus perennis, che cominciata da Gesù Cristo in seno al suo divin Padre, continuata su questa terra, non avrà il suo pieno svolgimento che quando l’ultimo degli eletti sarà entrato nel Cielo » (Crogaert). – Come ben possiamo comprendere, un minimo di vita liturgica è assolutamente necessario per tutti. Riflettiamo un istante. La liturgia nella sua parte principale e fondamentale è d’origine divina, perché Gesù Cristo stesso istituì il S. Sacrificio e i Sacramenti; nelle sue parti secondarie, funzioni e benedizioni, è d’origine ecclesiastica, perché fu la Chiesa a istituire e precisare gli atti di culto e le funzioni in onore di Dio e per impetrare da Dio grazia e grazie. Ma la S. Messa, i Santi Sacramenti, mezzi produttivi della grazia, le funzioni religiose, che si compiono in nome e secondo le disposizioni della Chiesa, i Sacramenti, mezzi impetrativi della grazia, sono atti liturgici. Ricordiamo ancora che alla vita liturgica è legata la nostra vita spirituale. Dalla vita liturgica, infatti, cioè dal S. Battesimo, ebbe inizio in noi la vita dello spirito, e, perciò, da essa dipende la nostra santificazione. In seguito, sino al tramonto, i sacramenti colla grazia santificante debbono alimentare e confortare questa nostra vita. Ma non solo la liturgia opera la nostra santificazione. Essa è un mezzo sincero ed efficace per impetrarci le grazie divine. Questo perché la liturgia è preghiera, e Dio ha promesso le grazie alla preghiera. – L’efficacia della preghiera liturgica è superiore, come abbiamo già detto, alla privata per tre ragioni principali, e cioè:

1) Perché meglio, e più di ogni altra, è fatta in nome di Gesù Cristo; ed eseguisce con precisione la condizione posta da Gesù: chiedete in nome mio.

2) Perché è la preghiera della sposa di Gesù. Come non ricordare la bontà di Gesù per la sua mistica Sposa?

3) Perché è preghiera sociale. Anche in questo — benché non solo per questo — ha valore il proverbio: « L’unione fa la forza ».

Concludiamo: la preghiera liturgica è la preghiera che ci unisce realmente con Gesù, e col Padre celeste per mezzo di Gesù!

LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay MDCCCXCVIII

APPENDICE

DEL GODERE E DELLA FELICITÀ UMANA

I.

Tutti quanti siamo uomini, vecchi o giovani, dotti o ignoranti, nobili o popolani, ci punge vivamente un medesimo desiderio che è il desiderio di godere e anzi di molto godere. Questo desiderio è il maggiore e più possente ostacolo che incontriamo nell’operare il bene: ed esso stesso, quando l’uomo sia ajutato dalla grazia a camminare nelle vie di Dio, riesce stimolo efficacissimo alla nostra vita morale, e anche ai più nobili eroismi dei Santi. L’uomo malvagio pecca per godere disordinatamente delle creature; e il Santo si perfeziona di giorno in giorno, certo, per glorificare il suo Dio che ama, ma altresì per vivere in eterno con lui una vita d’ineffabile ed eterno godere. Intanto chi vede quale impetuoso torrente di mali gonfii e dilaghi nel mondo per il desiderio di godere, potrebbe esser quasi tentato a credere che esso stesso, questo desiderio del godere, sia un male. Ma il Cristianesimo per lo contrario c’insegna che è desiderio buono, e naturato in noi per opera di Dio creatore. La santa Bibbia di tratto in tratto ci parla con soave eloquenza di godimenti spirituali e materiali desiderabili, e desideratissimi, anche dagli ottimi tra i figliuoli del Signore. L’Iddio, nostro Padre infinitamente perfettissimo, secondo il concetto biblico è godimento eterno e incommensurabile a sé medesimo e in pari tempo riesce agli Angeli e agli uomini in Paradiso una fontana vivace di gioje e di allegrezze ineffabili e sempre nuove. Ancora, trasferiamoci un tratto con la mente a quel beato tempo, nel quale gli Angeli, astri mattutini della creazione, lodavano il Signore, che stava per plasmare l’uomo. Mosè divinamente ispirato racconta il fatto con quella sicurezza ed evidenza, che potrebbe avere chi vi si fosse trovato presente; onde la sua narrazione riesce egualmente semplice e sublime. Nel Capo I° del Genesi, ai versetti sei e sette, in poche parole ci dice come fu creato l’uomo; e tra le poche parole quelle, che elevano l’ uomo più in alto e lo effigiano meglio, sono dall’ispirato scrittore messe in bocca a Dio, il quale, quasi parlando tra sé medesimo, dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia signoria su tutto”. — L’uomo è dunque un’immagine del suo Iddio, ed è signore di tutto, o che è il medesimo, è re dell’universo che gli sta sott’occhio. Sono poi anche ricche di significato e stupende queste altre parole, che si leggono nel Capo secondo del Genesi, al versetto settimo: “Il Signore Iddio dunque formò l’uomo dalla polvere della terra, e gli alitò in volto un SOFFIO DI VITA, e l’uomo fu fatto ANIMA VIVENTE. Qui si manifestano chiaramente le due sostanze, onde l’uomo è composto, cioè la materiale, tratta dalla polvere della terra, e la spirituale, la quale deriva dal soffio divino, e ci costituisce anime viventi. Or questa medesima distinzione delle due sostanze, corporea l’una, e spirituale l’altra, che è la radice di tutta la dottrina cattolica intorno all’uomo, dopo migliaja di anni ci fu di nuovo insegnata da Gesù Cristo in queste parole del Vangelo di san Matteo al Capo X: “Non temiate coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima; ma temete piuttosto colui, che può far perire l’anima e il corpo nella geenna”. Narrato che ebbe Mosè, nel modo che ho detto, la creazione dell’uomo, parla del godimento, in cui Iddio lo pose, e dice: “Ora il Signore aveva piantato da principio un paradiso di delizie, dove collocò l’uomo, che aveva formato”. E poi dopo un’ammirabile e giocondissima descrizione di cotesto paradiso, egli aggiunge: “Iddio adunque prese l’uomo e lo collocò nel paradiso di delizie, affinché lo coltivasse e lo custodisse”. Qui dunque si esprimono due idee di gran momento: la prima che Iddio mise l’uomo in un luogo di delizie; e dunque volle che ei godesse: l’altra è, che questo godimento egli doveva custodirlo a sé, e per fare ciò, non doveva anneghittirsi nell’ozio, sì bene coltivare il giardino, e, com’è detto più generalmente appresso, operare. Or quel che più rileva al mio proposito in tutta questa ammirabile pittura della creazione dell’uomo, del luogo di delizie, dove Iddio, lo pose, e del godimento di lui, è che qui non si trova neanche accennata la cupa e malinconica parola, dolore. Laonde Adamo ed Eva, in quel primo breve periodo della loro vita innocente, non ebbero neanche ombra di dolore, e forse del dolore mancò ad essi sino l’idea. – Ora il bene dell’Eden, l’innocente umana radice, l’eterna primavera di quel luogo, il nettare, e insomma il godere espresso in tutte queste immagini finì presto per l’uomo; e chi è che non ne conosca il modo? Alla storia della creazione dell’uomo succede quella della disubbidienza e del peccato. Soltanto dopo questa seconda istoria tanto lagrimevole e misteriosa, Iddio in punizione del peccato profferisce la prima volta nel Genesi la parola dolore. Allora nascono nel linguaggio umano le parole affanno, fatica, triboli, spine, morte, le quali corrispondono tutte a idee, figliuole del dolore. Il maggiore di questi dolori è uno che li assomma tutti, intendo la morte, la quale anzi è tale dolore, che gli altri sono presagio o apparecchio o avviamento ad esso.

II.

Il desiderio del godere che, come s’è veduto, è di per sé buono, ha questo di proprio, che in noi riesce più vivo e possente di ogni altro desiderio nostro: più possente certo del desiderio di conoscere e comprendere la verità o di quello di amare o di qualsiasi altro; perché li accompagna tutti, o piuttosto è parte e vita di ciascuno di essi. Ancora, il desiderio del godere è principalmente un desiderio della nostra volontà, la quale è propriamente la facoltà umana che desidera. Nonpertanto cotesto medesimo desiderio si riflette e si trasfonde in tutta l’anima, e altresì nel corpo dell’uomo; onde è giusto dire che il desiderio del godere appartenga a tutta la persona umana. In vero l’intelletto nostro è come uno specchio che, illuminato, illumina, e a poco a poco cercando la verità, la trova e la conosce. Esso però cerca e conosce, perché desidera un godimento suo proprio, nobile e sereno che è il diletto e l’appagamento di possedere il vero. La volontà libera dell’uomo comanda a sé stessa, e ha signoria del creato; ma comanda e signoreggia, perché nell’uno e nell’altro caso desidera di godere e gode. Il cuore ama; ma ama principalmente perché desidera un godimento suo proprio, che è il godimento di possedere più o meno completamente ciò che ama. E la memoria non richiama forse dai riposti suoi seni le cose care che furono un tempo, per desiderio di godere? E la fantasia non dà colore e leggiadria e vita a liete immagini per desiderio di godere? Infine, il corpo stesso non è forse avido di godimenti pieni di mistero, in quanto che, mentre sono del corpo derivano in gran parte dall’anima, e l’anima stessa li sente e se ne compiace? Perché mai l’occhio si allieta d’una bella campagna, e l’orecchio ascolta con diletto una soave armonia, se non perché l’anima umana desidera di godere per mezzo dell’occhio e dell’udito, a quel modo che desidera di godere per mezzo dell’intelletto, della volontà, del cuore, della memoria, della fantasia e di tutto se stesso? Non solo, dunque, l’uomo desidera di godere, ma non v’ha facoltà in lui o parte di lui, che non senta questo desiderio: o piuttosto egli desidera di godere in tutt’i modi possibili, per via dello spirito e dei sensi. Non basta: desidera anzi d’intrecciare e di armonizzare diversi godimenti insieme; onde, a modo d’esempio, una bellissima melodia che appaga l’udito, gli riesce più gradita se sia cantata, poniamo, da persona gentile, o se esprima affettuosi pensieri che appagano il cuore. – Se non che la considerazione più grave e di maggior momento intorno al desiderio del godere è questa, che l’uomo desidera di goder sempre e pienamente; ond’è che non gli basta di dire dentro di sé medesimo ad ogni istante “io voglio godere”, ma dice pur voglio goder sempre e con una pienezza intera, o che vale il medesimo: voglio esser felice. E come dice dentro di sé, così spesso dice anche fuori di sé ai fratelli, agli amici, a tutti. In vero, questa parola, felicità io l’ho udita tante volte profferire, particolarmente da coloro, che sono o nel primo sboccio o nel fiore della vita giovanile, che essi par proprio non abbiano altro pensiero che questo del viver felici. Ma per quanto ci è bello e giocondo il desiderare la felicità, altrettanto è arduo il conoscere dov’essa si trovi; perciocché nel mondo sono molte false immagini di felicità che ci dilettano, ci seducono, e poi talvolta finiscono in amarissimo pianto. – Or bene facciamo, o lettori, un altro passo avanti nella dilettosa via che percorriamo insieme, e passiamo dal sentimento del godere a quello dell’esser felici.

III.

La felicità, secondo il Cristianesimo, per nessun modo si può raggiungere nella vita presente; ed è anche assai probabile, che chi mi legge, di questa verità sia convinto per propria esperienza. Nonpertanto il fatto è che molti, particolarmente se giovani, si ostinano di cercare qui in terra questa desideratissima felicità, e hanno in conto di piagnucoloso e malinconico chi tenta dissuaderli da siffatto proposito. Io li compatisco di gran cuore. È tanto prepotente, soprattutto nel fiore degli anni, il desiderio di godere! Ciò però non toglie che questa affannosa e continua ricerca della felicità terrena sia un errore pieno di pericoli, non solo perché  correndo dietro al fantasma della felicità, l’uomo consuma inutilmente le migliori sue forze; ma soprattutto perché nella foga del correr dietro alle false immagini della felicità, gli animi s’ infiacchiscono, si corrompono e si rendono miserabili. Se non che per qual cagione, dunque, questo desiderio di esser felici lo abbiamo in noi? Perché l’abbiamo, e come lo si possa pienamente e anzi sovrabbondantemente soddisfare lo vedremo appresso, e nel vederlo ci farà luce il Cristianesimo. Per ora quel che ci preme soprattutto è di studiare prima con matura riflessione in che consista mai questa felicità che tutti desideriamo, senza saper bene ciò che essa sia, e poi d’investigare se la si possa mai per avventura trovare in qualcuno dei beni desiderabili e tanto desiderati che sono qui in terra. – Che è mai dunque la felicità? È il possesso continuo di tutto ciò che si desidera. Ancorché della felicità si trovino parecchie altre definizioni, questa mi pare da preferire; perciocché essa è semplice, e si può agevolmente dichiarare e comprendere da ciascuno che vi rifletta su, in vero, se la cosa posseduta non è di per sé desiderabile e da noi desiderata, vien meno il fondamento stesso della felicità: e se, insieme con essa, noi ne desiderano altre che non possediamo, neanche siamo felici. D’altra parte è chiaro che per esser felici il bene desiderato s’ha da possedere; perciocché, ove manchi il possesso, il solo desiderio ci produce piuttosto dolore che gaudio, o almeno dolore insieme con gaudio. – Che il possesso del bene desiderato debba esser continuo è evidente di per sé, e si conferma dal fatto, che anche l’ombra di un dubbio intorno all’’interruzione del possesso del bene che godiamo, ci turba, ci angoscia, e avvelena nella sua sorgente ogni nostro diletto. Dite alla madre ch’ella dovrà perdere il figliuolo diletto, o all’amante consorte che perderà l’amata sua moglie; e vedrete se è necessario per esser felici che il possesso del bene non distrugga in noi né scemi il desiderio del bene posseduto. Dunque, teniamolo bene a mente, per esser felici dobbiamo possedere tutto ciò che desideriamo, e possederlo sempre in modo che, mentre lo possediamo, il desiderio suo continui ad esser vivo e possente come prima. Raccoglietevi un tratto in voi stessi, e la vostra coscienza vi dirà chiaramente questo stesso che v’ho detto io. – La santa Scrittura e i Padri della Chiesa insegnano apertamente la medesima dottrina, e spiegano a questo modo la felicità. Secondo gl’insegnamenti cristiani, la felicità l’uomo non può trovarla che in Dio: perché  solo Iddio è un Bene infinito, nel quale si trovano tutt’i beni desiderati e desiderabili; e altresì perché solo questo sommo Bene è tale, che il desiderio del possederlo non iscema mai, e anzi è sempre egualmente vivo e possente. La Sapienza infinita che è il Verbo di Dio, Dio esso stesso, dice di sé nella Bibbia: “Chi beve di me, ha sempre sete di me.” E san Pietro nella sua 1a Lettera insegna che gli Angeli in cielo desiderano sempre di vedere lo stesso Spirito Santo che vedono (I Piet. I, 12). Oltre a ciò i Padri della Chiesa, che specchiano in sé con gran luce e perfezione i divini insegnamenti, chiariscono la medesima idea. In san Gregorio è detto: “Affinché l’abbondanza non generi noja nell’anima beata, la loro ardenza dura sempre: sono satollati senza alcun disgusto, perché la stessa sazietà eccita in essi il continuo desiderio di ciò che godono”. Sant’Agostino afferma la stessa cosa precisamente scrivendo: “I Santi ti veggono sempre, o Signore, e pure sempre desiderano di vederti”. — Di che san Tommaso, paragona, il desiderio della felicità alla fame del cibo, dicendo. Le anime beate sempre hanno fame e sempre si satollano…… ; e ancora, dove l’amore è più grande, ivi è più forte il desiderio del bene amato”. – Da tutto ciò si conchiude che la felicità, essendo insieme possedimento e desiderio, riesce naturalmente quiete e attività; o piuttosto essa è una quiete operosissima. Il possesso del bene desiderato, appagando, quieta l’anima: il continuo desiderio di esso dà vita e moto a tutte le facoltà dell’anima stessa. Se mai il possedimento non riempisse tutta intera l’anima nostra, il godimento della quiete non sarebbe pieno; e d’altra parte, se qualcuna delle facoltà dell’anima non si sentisse viva, e non si movesse e non operasse, desiderando sempre ciò stesso che possiede, all’anima umana mancherebbe il godimento dell’operosità e del moto, e però non sarebbe felice.

IV.

La felicità intera, nel modo che s’è detto, non si trova nella vita presente; ma il desiderio suo è così vivo e possente nell’uomo, ch’egli la cerca affannosamente sempre, come la cerva sitibonda va in traccia dell’acqua viva che la disseti. E la ragione è che anche qui in terra sono molti beni, immagini del Bene sommo, e molti godimenti immagini anch’essi dell’eterna felicità. Il sapere che moltissimi altri uomini, prima di lui, cercandola, non l’hanno trovata, non lo fa cader d’animo. Ciascuno vuol fare da sé la sua prova; e coloro, che muovono continue querimonie su la infinita vanità del tutto e la terribile realtà del dolore; questi stessi moltiplicano, più degli altri, gli esperimenti, e mutano i piaceri e i diletti propri, sperando di trovarne taluno che li appaghi e li renda felici. Ma il fatto è che i beni di questo mondo, intanto che sono fonti di godimenti veri, e giustamente desiderabili e desiderati anche dai migliori, non bastano a renderci felici; perciocché, notatelo bene, altro è godere, altro è avere quel pieno appagamento dell’animo, che diciamo felicità. – I beni desiderabili e desiderati dall’uomo, tutti possono assommarsi in questi: le ricchezze : i piaceri dei sensi : la scienza : l’amore : l’amicizia : la gloria. Ora ancorché ciascuno di questi beni ci faccia assaggiare godimenti o diletti, nessuno di essi ci rende pienamente felici. La ragione di ciò, dopo quello che s’è detto intorno alla natura della felicità, si può scorgere dal nostro occhio intellettuale a prima giunta. Questi varj beni o l’uomo non li possiede; o, quando li possiede, il desiderio di essi scema o vien meno. Sia nel primo, sia nel secondo caso, la felicità si dilegua come ombra. – Le ricchezze non possono mai render l’uomo felice; e anzi mi pare strano che lo si sia potuto pensare mai. Esse in vero non sono di per sé un godimento, ma soltanto un mezzo, onde si procacciano alcuni godimenti; sono beni materiali, inerti, insensibili, agghiacciati, che non hanno somiglianza di sorta con l’anima umana, la quale è di sua natura sensibile, spirituale, viva, ricca di calore, di speranza, di affetti. Il possesso delle ricchezze dunque non è interiore, e non appaga pienamente: il desiderio poi di esse col possesso ordinariamente si smorza o almeno si infiacchisce. Che se talvolta nell’avaro né si smorza né s’infiacchisce, ciò deriva da una vana ombra che oscura l’anima di lui. Egli immagina, che, col moltiplicarsi delle ricchezze, si moltiplicherebbero i godimenti, la qual cosa è evidentemente falsa. Quando fosse vera, chi traricchisce, per molti milioni, dovrebbe essere infinitamente più lieto, di chi ha quanto basta a una vita modesta. Or ciò non solo non è vero, ma incontra assai spesso, che chi s’è fatto poverello per amor di Dio, e il contadino agiato e rallegrato solo dal suo campo, dalle sue messi e dalla sua famiglia, lo si vede più lieto e sorridente di chi è ricco, ed ebbro di piaceri. – Forse parrà più secondo ragione l’affermare che i piaceri dei sensi ci possano agevolmente satollare del cibo desideratissimo della felicità; ma anche qui vi ha errore e inganno manifesto. I piaceri dei sensi, o piuttosto quelli che l’anima sente, per mezzo dei sensi, possono esser varj, secondo che sia diverso il senso il quale conferisce a produrlo. Quali, tra questi piaceri, siano i più desiderati, e spesso i più peccaminosi è inutile dirlo. Ma sia a questi desideratissimi, sia a tutti gli altri piaceri dei sensi fanno difetto due condizioni, per produrre la felicità. Essendo piaceri del senso, l’anima li possiede assai imperfettamente: nel fatto poi riescono tali, che nel possederli il desiderio di essi a poco a poco scema e vien meno. Consideriamo il diletto che ci produce un’armonia gradita e soave; una di quelle armonie, che scendono al cuore dolcissimamente, lo commuovono ora alla gioja, ora al pianto, e spesso ci traggono quasi fuori dei sensi? Ebbene chi non ha provato in sé medesimo che questa armonia ascoltandola per lungo tempo, il desiderio di ascoltarla sminuisce di grado in grado, e talvolta arriva sino a mutarsi in noja? E la vivanda la più squisita e desiderata prima, se si volesse continuarla a mangiare, dopo che ci ha sfamato, non finirebbe per diventare o sgradita, o almeno priva di diletto? Come dunque noi si potrebbe esser felici, per via dei piaceri sensuali, se nella felicità debbono durar sempre il possesso e il desiderio della cosa goduta; e i piaceri sensuali, per lo contrario non dànno che qualche ora, e talvolta qualche istante d’un possesso imperfetto e di un desiderio, il quale incomincia a scemare nel momento stesso, in cui la cosa desiderata si possiede?

V.

Assai più nobili sono senza dubbio i diletti della scienza, come quelli che nascono dalle attrattive, che il nostro intelletto, creato a immagine di Dio, sente vive e possenti per la verità, bene realissimo e nobilissimo. Ma, neanche questi intellettuali diletti bastano a renderci felici, quantunque ci avvicinino alla felicità (poco rileva che i mondani non lo credano) meglio che non le ricchezze e i piaceri sensuali. Il conoscere il vero ci fa fare un passo più lungo verso la felicità, sì perché il conoscere è il primo bisogno della nostra vita di creature intelligenti e libere, sì perché ogni conoscenza nuova procura all’anima un diletto nuovo, sì infine perché in ogni atto del nostro conoscere vi ha più realtà, più intensità e più moto, che non si trova in qualsiasi atto derivante dai sensi. Ma, senza parlare della vivacità del desiderio, la quale, anche nella scienza posseduta, si affievolisce col possederla; il possesso che noi abbiamo della verità, benché assai nobile, riesce sempre imperfettissimo e assolutamente sproporzionato ai nostri desiderj. Infatti, le verità che noi conosciamo in questo mondo o per luce di scienza, o per luce di fede, o per le due luci armonizzate insieme, mancano di estensione, di profondità e di chiarezza. E intanto il nostro intelletto lo punge vivamente il desiderio di conoscer tutto, di conoscere profondamente e di conoscere chiaramente. Sì, certo, desideriamo di conoscer tutto; e nondimeno, anche che la mente nostra sia eletta, e l’ingegno acuto; anche che taluno, incominciando sin dal fiore degli anni, sudi tutta la vita su i libri; quanto poche sono le verità da lui conosciute in confronto delle ignorate! Anche che taluno sia dottissimo, le verità ch’ei possiede, rassomigliano a un gruzzolo di monete d’oro, che sono poca e povera cosa in paragone di tutto l’oro, che o gira pel mondo, o si nasconde tuttora nelle terre e nei monti auriferi. Tutti ci punge il desiderio di conoscere profondamente la verità e non pertanto, anche che avessimo l’intelletto e la scienza di Platone, di sant’Agostino, di san Tommaso, e vari altri, chi potrebbe affermare di sé che la profondità onde egli sa talune cose eguagli il desiderio suo del sapere, sino alle ultime midolle, le cose che sa? Infatti anche oggidì che è tanto possente il desiderio del sapere, che sappiamo noi della natura intima delle cose? E qual uomo, sia pure dottissimo, se vuole intessere nella sua mente la stretta catena dei perché e delle rispettive risposte, non arriva presto a un perché, a cui vorrebbe e non può dare risposta di sorta? Infine, desideriamo di conoscere chiaramente: e invece quanti dubbj, quante nebbie, quante tenebre! Raggiungiamo, dopo molti stenti, una verità; ed ecco che le germogliano accanto uno o più dubbj, i quali eccitano vivamente il desiderio del sapere, senza che lo appaghino mai al tutto. – Insomma, tutte le verità quelle divine della fede, se siamo credenti, le conosciamo con certezza, ma non le conosciamo chiaramente, sì bene come in ispecchio, e spesso velate di mistero, perché superiori al nostro intelletto: quelle della scienza, anche se le vediamo con maggior chiarezza, perché più proporzionate al nostro intelletto, non perciò ne vediamo la profondità e la sostanza con una chiarezza che eguagli il desiderio nostro. La felicità dunque per le tre ragioni dette, invano la cercheremmo nella scienza. Del rimanente sono assai pochi coloro, che per raggiungere la felicità, si mettono in questa via piena d’intoppi e di malagevolezze. I più, massimamente nel fiore della giovinezza, pensano che essa s’abbia a trovare nell’amore. Ma anche qui, m’accora il dirlo, si confondono i fantasmi e le parvenze della felicità con la felicità stessa. Consideriamo l’amore, nella sua forma più nobile e pura, e fissiamo con compiacimento lo sguardo sopra due conjugi che amandosi focosamente, si giurarono fede immutabile a’ piedi dell’altare di Cristo, e nobilitarono e santificarono il loro amore conjugale, con l’alito benefico della Religione e della grazia celeste. L’amore di costoro trova un alimento efficace nella perpetuità e unità del matrimonio cristiano. Inoltre, il loro amore è abbellito e accresciuto dalla speranza che esso durerà eterno, anche nel regno, dove chiunque morì nel bacio del Signore, vivrà con gli Angeli nella visione e nell’amore di quel Dio, che esso è l’eterno, l’infinito e il primo Amore. Cotesti sposi, dunque, a cui par che tutto, e cielo e terra rida intorno, si amano e forse si dicono felici. Sta bene. Ma per quanto tempo lo diranno? Poniamo che lo dicano sempre; sono essi pienamente felici, come dicono; sicché posseggano tutto ciò che desiderano, e desiderano sempre con desiderio vivo e nuovo ciò che posseggono? Certo no; perciocché né il possesso tra loro è così pieno, come l’anima lo desidera, né il desiderio è tale in essi, che col possesso non si affievolisca, e talvolta non si dilegui, quasi ombra. E la ragione principale, onde anche in siffatto amore manca la felicità, è questa. Chi ama, desidera soprattutto di possedere l’anima della persona amata, e di esser posseduta da essa, In fatti il voler bene, il pensare alla persona amata, il dilettarsi della intelligenza, dell’affetto, del sacrifizio di esso; e d’altra parte il desiderare caldamente che la persona amata nutrisca essa stessa questi medesimi sentimenti per l’amante, provano con evidenza che il principale possesso desiderato nell’amore è il possesso scambievole di due anime intelligenti e libere. La vita intima e i legami anche estrinseci dei conjugi possono agevolare siffatto possesso delle anime, ma nol rendono mai tanto pieno e completo quanto si vorrebbe. Le inquietudini, le dubbiezze, i desiderj non soddisfatti, i timori anche dei conjugi che più si amano, e anzi più frequenti in questi, che in altri, dimostrano evidentemente ciò che dico. Si possiede solo in parte e in un cotal modo ciò, che si vuole intero. Il desiderio poi di possedere ciò che già si possiede, anche quando gli sposi continuino ad amarsi vivamente, a poco a poco, quando non si smorzi, si scolora e s’infievolisce, come avviene in una lampada accesa da molto tempo. E ciò avviene se non fosse per altro, perché la natura di tutti beni umani è immancabilmente questa, che col possederli, il desiderio di possederli, almeno scema.

VI

Se non che, trà gli amori umani, ce ne ha uno d’ ordinario più tranquillo e sereno di quello della vita conjugale; ed è l’amore, onde si amano, per esempio, la madre e il figliuolo, i fratelli e le sorelle, e gli amici più teneri fra loro. Questa forma d’amore, a cui conviene il nome di amicizia, può anch’essa, e forse essa soprattutto, dare all’uomo diletti ineffabili. Ma nella sostanza l’amore di amicizia è poco differente dall’amor conjugale, guardato nella sua parte più nobile; e però neanche esso può renderci felici. Con l’amicizia tra due persone, le due anime si posseggono, quasi sempre, meno perfettamente che con l’amore; perché l’intimità è minore, e mancano alcuni dei mezzi, che rendono più agevole l’armonia e il connubio di due spiriti. D’altra parte però il desiderio del possesso tra gli amici, appunto perché il possesso è minore, e può essere di varie persone, più difficilmente si dilegua, e d’ordinario o non s’affievolisce o si affievolisce meno col tempo; sempre che l’amicizia sia tra gente di cuore, e sorga da motivi di per sé nobili e puri. Da ciò procede che i gaudj dell’amicizia vera e profonda riescono più sereni, più puri, più spirituali e più durevoli di quelli dell’amore; ma anche questi gaudj dell’amicizia, per le ragioni già dette, non bastano a rendere l’uomo felice. – Che dire poi del desiderio della gloria e anche di quello dell’onore, il quale è alquanto più ristretto di quello della gloria, ma sostanzialmente non differisce da esso? Il desiderio della gloria, da che mai dipende in noi? Molti, che lo sentono vivacissimo, forse nol saprebbero dire a sé medesimi. Il desiderio della gloria è frutto del desiderio di essere amati; ed è tanto universale, quanto quello. In vero, come insegna san Tommaso, a quel modo che noi amiamo non solo i beni particolari, ond’è ricco il mondo, ma altresì il bene universale; così parimenti desideriamo di essere amati da alcuni in modo particolare, e da tutti in un modo generico. Al primo desiderio corrispondono l’amore e l’amicizia; al secondo quell amore iniziale e punto profondo, ch’è l’amore di stima, di ammirazione e di lode, al quale è dato il nome di gloria. Cotesto desiderio della gloria, come tutt’i desiderj umani, può agevolmente pervertirsi e diventare malvagio; ma, essendo una forma onesta di amare e di essere amato, non è di per sé reo. Ben è vero che la gloria da noi desiderata, a volte si fonda sopra ragioni mendaci, ed è vanagloria, a volte sopra ragioni frivole, ed è vanità, a volte chiede per sé ciò che appartiene a Dio, ed è orgoglio; ma quando si contenga (ed è difficile) nei giusti limiti, in essa non si trova motivo di biasimo. Or siffatta gloria ben può essere cagione di diletto, ma neanche essa ha capacità di renderci felici. Il possesso, che con l’amore universale si ha del bene, è di sua natura imperfettissimo; e ancora, per quanto ciascun uomo sia amato e venerato, non raggiunge mai quel grado di stima, di ammirazione, che l’animo desidera. A ciò si aggiunge che anche questo desiderio della gloria scema di molto col possesso; sicché quel piccolo onore o quel piccolo applauso di pochi, che pur ci bastava al principio, anche che dopo sia raddoppiato o triplicato non ci basta più. Vale dunque anche per questo bene della gloria il medesimo che si è detto di tutti gli altri precedenti. Anzi questo bene della gloria è tra tutti il meno capace di renderci felici per una ragione sua propria. Chi ama, chi desidera beni temporali o scienza o altro, può ben mostrare il desiderio suo; ma, quanto alla gloria, chi mostra di desiderarla, per ciò stesso la perde. Laonde è verissimo e profondamente filosofica la sentenza di quella Teresa di Cepeda, che non fu soltanto una gran Santa, ma una vergine capace di meditare speculativamente le più alte dottrine: La gloria si perde col desiderarla. In vero gli uomini siam fatti così, che stimiamo e ammiriamo coloro, che meno ci mostrano il desiderio dell’ammirazione e della stima, cioè della gloria. Però ci par bella la virtù semplice e modesta, e poco o punto ci piace la virtù che fa mostra di sé, e che quasi sempre per ciò stesso ci pare mendace. Sino la dote del sapere, tanto più la crediamo vera e ci piace, quanto meno domanda di essere glorificata. Come mai dunque la gloria ci renderebbe felici, se per la felicità si richiede un desiderio ardente e continuo del bene voluto; e la gloria umana è di tal natura, che appena trasparisca un’ombra del desiderio nostro, essa o scema o vien meno?

VII.

E ora, che abbiam veduto, come né le ricchezze, né i piaceri del senso, né la scienza, né l’amore, né l’amicizia, né la gloria hanno potere di renderci felici, volgiamo un’occhiata alla vita intera dell’uomo, il qualesi aggira affannosamente tra tutti questi beni, e mai o quasi mai non desiste dal cercarli, dal perderli e dal ricercarli di nuovo. La felicità richiede il possesso tranquillo e continuo di tutt’i beni desiderabili. Ora quando, e dove mai si trovò l’uomo che possiede almeno un solo di questi beni umani, senza difficoltà, senza stenti, senza travagli dell’anima e soprattutto senza interrompimenti? E allora, dove s’incontra mai una vita felice? Oltre a ciò tutt’i beni, da me accennati, poiché finiti, son tali di lor natura, che il possesso dell’uno non esclude il desiderio dell’altro. Chi è ricco, vuole anche amare; chi ha scienza, vuole anche piaceri e gloria. Or si trova mai nel mondo l’uomo che li possegga tutti questi diversi generi di beni? E se glie ne manca un solo, e questo solo ei lo desidera, certo ei non possiede il tesoro della felicità. Che dire poi di quel terribile dilaceramento della mente, del cuore, delle membra, il quale si chiama dolore, e ci strazia con la sua presenza, con la sua memoria e col suo timore? Un solo dolore basterebbe a spezzare l’aurea tela della nostra felicità. E intanto i dolori della vita sono moltissimi, si mescolano a ogni nostro gaudio, e quasi sempre sono ahimè! frutti che raccogliamo dallo stesso albero del godere, allorché il godimento nostro è o contradetto o guasto o dimezzato o bruscamente interrotto. Questo è il mistero della nostra vita terrena, che non ci sia un solo bene umano, che non ci riesca, ora fonte di gaudio ora fonte di dolori. Resta dunque che se i singoli beni non ci possono render felici, la vita umana, nella quale questi beni né si conseguono tutti, né si hanno mai senza la mescolanza di molti dolori, non riesce mai al porto della desiderata felicità. – Se non che, di tutte le cose, dette fin qui intorno alla felicità umana, ci ha una ragione suprema. Essa è che tra i desiderj nostri, e i beni che si trovano qui in terra, non avvi alcuna convenienza di misura e di grandezza. Tra gli uni e gli altri corre una grande sproporzione che si vede tanto più chiaramente, allorché l’uomo serenamente si ripieghi sopra di sé medesimo, e pensi e rifletta con gravità di proposito ai desiderj propri, e al valore dei beni desiderati e desiderabili. Or cosiffatta sproporzione tra il desiderabile, e l’anima umana desiderante, nessuno, che io sappia, la conobbe e la espresse meglio di quell’elettissimo ingegno di Sant’Agostino, allorché, volgendosi come era uso a Dio, gli dice così: “Tu, o Signore, facesti grande la creatura razionale, al cui riposo e alla cui felicità non basta nulla affatto tutto ciò che è meno di Te, e però neanche essa creatura razionale basta a sé stessa. Questo solo, io so che, non pure fuori di me, ma anche in me stesso, (tranne che in Te) mi trovo a disagio, e che ogni dovizia che non sia il mio Dio, è per me miseria”. (Confess. XIII. 3. – Ma ciò, che importa soprattutto alla creatura ragionevole e libera, è il sapere: per conseguire questa eterna e immancabile ricchezza che è il nostro Dio; per arrivare a questa Luce beatissima, la quale ci renderà impossibile il desiderare altro bene, vi ha qualche mezzo al mondo? E se vi ha, lo conosciamo noi? E se lo conosciamo, perché mai siamo pigri e tardi ad accettarlo? Non desideriamo noi forse ardentemente la felicità? Non abbiamo già sperimentato molte volte come sia vana la speranza di ritrovarla in qualche bene della terra? – Oh che gran mistero è mai l’uomo a se stesso! Pretendere che le creature umane ci diano quel che non possono mai dare, e poi dolersi, irritatsi, e talvolta disperarsi che non ce lo diano! Ritentare la stessa prova cento volte, e dopo cento disinganni avere in essa la medesima fiducia di prima! Volere per la via del molto godere arrivare alla felicità, e non accorgersi che nella vita presente in ogni godimento, anche onesto, si nasconde un germe di dolore; sicché quante più rose vogliamo cogliere, tanto maggiori punture abbiamo dalle spine che le circondano! Aggirarsi ognora nel labirinto dei piaceri del mondo, correndo tante vie oblique e storte, e allontanarsi pur sempre dalla via maestra e retta che mena, tra parecchi intoppi sì, ma mena indubbiamente alla cima del Monte santo dov’è Iddio: ecco la vita di molti e molti Cattolici. E sino a quando? Faccia Iddio che chi mi legge ascolti la voce, onde Gesù parla spesso amorosamente al cuore dell’uomo, e come Padre amantissimo lo mira con uno sguardo d’ineffabile dolcezza e gli dice: Vieni e mi segui (Matth. XIX, 21).

LAUS DEO

LO SCUDO DELLA FEDE (196)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXXI)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

VII. — I nuovi cieli e la nuova terra.

D. Hai parlato di nuovi cieli e di nuova terra, che devono servire di dominio alla tua umanità risuscitata: che intendi con ciò?

R. Osserva anzitutto che agli eletti basta che siano rinnovati i loro occhi, perché sia rinnovato il mondo. Quale abbagliamento, se tutt’a un tratto ci apparisse, fosse pure in un lampo la danza degli astri e degli atomi! L’universo ha una realtà interiore che noi non percepiamo, e la cui scienza totale, attinta in Dio, sarà per le anime elette l’equivalente di una vera creazione.

D. Tuttavia non sarà questo un cambiamento per il mondo stesso.

R. Riguardo al mondo stesso, diciamo altamente che non può essere questione che di congetture. Queste parole bibliche: I nuovi cieli, la nuova terra, non sono commentate nel libro santo. È dunque libera la loro interpretazione. Dirò quello che mi sembra concordare meglio con l’insieme della dottrina.

D. Io non chiedo altro.

R. I nuovi cieli e la nuova terra, qualsivoglia concetto particolare se ne faccia, si offrono alla mente come una necessità ineluttabile, essendo ammesso il corpo risuscitato. Si penserà anzi che a tutta prima s’impongano; perché un corpo non è che un frammento di universo, un microcosmo ad immagine del grande, poiché offre la stessa costituzione fondamentale, senza di che gli scambi dall’uno all’altro non sarebbero possibili.

D. Tu dici però che î corpi risorti non assimilano, e che nel senso fisiologico della parola essi non vivono: non vi si ha dunque da prevedere scambi vitali tra loro e l’ambiente in cui dimorano.

R. Ciò è esatto nel campo sostanziale. Non deperendo il corpo immortale, non ha da ricostituirsi per scambio; ma esso funziona, agisce, riceve dal suo ambiente e gli dà, sotto forme del resto indefinibili per noi. Vi deve dunque essere omogeneità tra esso e quest’ambiente, e a un corpo spirituale, un ambiente spirituale è indispensabile.

D. Che cosa è un ambiente spirituale?

R. Non t’ingannare sul valore di queste parole; noi ne abbiamo spiegato il senso affatto relativo. Si tratta bensì di materia, ma d’una materia dotata di un’altra organizzazione, atta a entrare in sintesi col corpo trasformato, o piuttosto, come dicevo, prestante a questa trasformazione le sue possibilità stesse.

D. Non sei tu per il primo stupito di tali asserzioni?

R. Sarei stupito solamente di stupori troppo facili. L’essenza della materia è adesso intraveduta sotto tali forme, pare offrire una tale plasticità, si sottrae così interamente, nei suoi ultimi recessi, a ogni combinazione stabilmente invariabile, a ogni grossolano empirismo, che veramente un universo tutto diverso da questo e quasi spirituale per rapporto ad esso non ha nulla che sconcerti. Al posto del conflitto delle forze e degli scompigli che esso provoca, si concepisce benissimo un ordine, un equilibrio armonico, un adattamento spontaneo ai gesti dello spirito, e che permetterebbe a questo, come prevedeva Renan, di « prendere il governo del mondo ». Quello che non era altro che un sogno arbitrario nel pensatore, può diventare presso il credente una sistemazione legittima. Nulla si può precisare; ogni teoria diventerebbe presto derisoria; ma la direzione generale s’intravede, e ciò basta per chiudere la controversia. Invero nessuno, a nome della scienza o altrimenti, ha il diritto di accusare di falso queste magnifiche parole dell’Apostolo: La creazione stessa attende con un ardente desiderio la manifestazione dei figliuoli di Dio… nella speranza che anch’essa sarà affrancata dalla servitù della corruzione, per aver parte alla libertà gloriosa dei figliuoli di Dio.

D. Qual è secondo te, nel mondo attuale, il fenomeno più opposto a questa concezione e che il nuovo ordine di cose dovrebbe abolire?

R. Non si può rispondere che sorridendo della propria impertinenza; ma arrischiandosi si direbbe: È la degradazione dell’energia. Se è vero, come suppongono le nostre teorie termodinamiche, che un universo abbandonato a se stesso perde di giorno in giorno la sua energia utilizzabile, di modo che, restando la stessa la somma di energia, esso tende nondimeno sempre più verso una specie di nulla di attività, per l’adeguamento, il livellamento di tutti i suoi valori attivi; se questo avviene, nulla può allontanare maggiormente questo universo dalla sua « intenzione di gloria » (PAOLO CLAUDEL), vale a dire da un servizio dello spirito, e da uno spirito rilegato all’Energia suprema.

D. Bisognerebbe dunque?…

R. Che l’ambiente nuovo rappresentasse una specie di felice equilibrio dotato d’una plasticità, d’una elasticità di movimento sufficienti, ma non secondo una tendenza determinata e fatale, simile a quella che minaccia il caos al nostro universo

D. L’universo, già uscito dal caos, non deve ritornarci?

R. Noi non pensiamo che il nostro universo sia uscito dal caos. Con Renouvier, noi amiamo pensare che esso era prima ordine e adattamento allo spirito, del resto a uno spirito all’inizio della sua evoluzione, e incaricato di compiere il proprio destino aiutando il suo universo, col lavoro civilizzatore, a compiere il proprio. Checché ne sia, il fine dev’essere un ordine e un adattamento perfetto; l’universo si deve compiere in valore come tutto ciò che ha percorso normalmente il suo ciclo. Esso deve quadrare coi fini creatori relativi agli eletti, ragione d’essere delle cose. Che esso sia «pieno di anima », secondo la bella espressione di Aristotile, in grazia del suo servizio dell’anima e del suo legame sinergico con l’anima, è ciò che si profetizza legittimamente in suo favore, quando si pensa a’ suoi ultimi fini.

D. L’universo sarebbe dunque alla fine organizzato dall’anima?

R. Sì, forse, dall’anima unita a Dio col Cristo come intermediario. Si può concepire il mondo nuovo come un prolungamento dello spirito, meno sofferente, per conseguenza, di quella degradazione di valore, di quel carattere residuale in cui noi, con S. Tommaso e Bergson, abbiamo veduto l’essenza della materia. Il rialzamento terminale sarebbe allora riguardato come una specie di taumaturgia, di cui Dio sarebbe la sorgente prima, e di cui il Cristo eterno, formato di tutte le anime reincarnate solidali di Gesù e formanti con lui un solo « corpo », sarebbe l’agente immediato. L’universo sarebbe una parte dello splendore delle anime stese, splendore di Cristo che è splendore di Dio (Epistola agli Ebrei). Ciò sarebbe la redenzione compiuta, e non solo nella sua sostanza, come adesso, ma in tutte le sue espansioni. Il mondo sarebbe reso alla sua essenza celeste; i vincoli della sua materialità si scioglierebbero, per dire così, sotto l’irradiamento dello spirito, e l’ordine totale, come lo esprime S. Paolo, sarebbe istituito: Tutto sottomesso agli eletti, e gli eletti a Cristo, e Cristo a Dio.

D. È questo veramente il senso di S. Paolo?

R. Il senso di S. Paolo è soprattutto morale; ma non è illegittimo trasporlo sul piano fisico e cosmologico, e oggigiorno questa trasposizione non può sorprendere,

D. Quale attualità ti sembra che essa rivesta?

R. È la tendenza generale delle filosofie moderne di assorbire più o meno la materia nello spirito, e se spessissimo vi è eccesso, come nelle varie forme del soggettivismo, resta questo che, nel piano generale del mondo, la materia è come una dipendenza dello spirito, dipendenza immanente e congiunta nel caso del nostro corpo, dipendenza disgiunta ma strettamente coniugata nel caso dell’ambiente, che sotto certi aspetti è ancora del nostro essere. Trasporta questo nel perfetto, in cui il regno dello spirito si deve affermare molto di più, e diventa naturale il pensare che i nuovi cieli e la nuova terra di cui parla la Bibbia, saranno il risultato di una taumaturgia permanente, beatificante per l’universo, se così si può parlare, come l’intuizione di Dio sarà tale per le anime e, mediante le anime, per i corpi. La corrente non avrà più interruzione, né risucchio. Lo slancio vitale, come direbbe Bergson, ristabilirà la sua bella corrente da un’estremità all’altra, da Dio agli ultimi elementi ripresi dall’anima e a lei subordinati per riallacciarsi a Dio.

D. La tua tradizione è favorevole a queste tesi apocalittiche?

R. I Padri della Chiesa e i teologi sono soliti di presentare la gloria corporale e le sue ripercussioni come un effetto spontaneo della gloria essenziale, che è la visione di Dio. Ecco il primo termine della nostra ipotesi. S. Agostino lo esprime in questo bel testo a Dioscoro: « Dio fece l’anima di una natura così potente, che dalla sua beatitudine risulta, nella natura inferiore, il vigore dell’immortalità ». In questo testo si vede ben affermata la trasformazione effettiva del corpo mediante l’anima, quando l’anima è al contatto intimo del suo Dio. È vero che quando parlano poi dell’ambiente esterno, i dottori sembrano attribuirne l’organizzazione unicamente e immediatamente alla potenza divina. Ma non è un contradirli, bensì, credo, un completarli nella loro propria linea d’idee l’inserire l’anima tra questa divina potenza e i suoi ultimi effetti.

D. Che cosa è che, secondo te, richiede questo complemento di dottrina?

R. È che la gloria del corpo e quella dell’universo non sembrano poter procedere da causalità diverse, atteso il legame di dipendenza che abbiamo ora rilevato tra loro, e se è vero, come abbiamo pensato, che la trasformazione dell’ambiente è preliminare, essendo già necessaria a quella del corpo. Se dunque è l’anima che beatifica il suo corpo, ben inteso come strumento di Dio, per mezzo di Cristo: come non sarebbe essa che sotto le medesime condizioni, beatificherebbe il suo universo? Si possono certo vedere così le cose.

D. Non dici che l’universo attuale finirà con una catastrofe?

R. Ogni cambiamento subitaneo nell’orientamento delle forze è una catastrofe, si tratta di una salita all’ordine. Avviene come di quelle cristallizzazioni che si producono in una soluzione satura, al semplice getto di un cristallo.

D. Quale sarà qui il getto di cristallo?

R. Sarà la «seconda venuta di Cristo », cioè il segnale che Egli darà del compimento supremo.

D. Tu ricordi la tromba del giudizio?

R. Metafora evidentemente! E metafora altresì la venuta di Cristo sopra le nubi del cielo, ciò che significa che la sua potenza splenderà come la folgore nelle nubi, e sarà manifesta come un fenomeno del cielo (S. Tommaso D’Aqino). Allora appunto questa potenza, strumento della Potenza suprema, trasformerà il nostro universo dall’intimo, e, se l’interpretazione data qui sopra è esatta, farà per questo dei suoi eletti i compartecipi della sua azione.

D. Non mi hai dato la tua interpretazione della tromba.

R. Quello che ridesta i morti e riorganizza il mondo è la voce di Dio in tutto. Dico così perché io apprezzo il nobile pensiero di Mozart, che nel Requiem fa del Tuba mirum spargens sonum non uno strepito terrificante, ma una lunga melodia spirituale.

D. È veramente l’uomo Cristo che così tu fui, in unione co’ suoi, l’organizzatore del mondo?

R. Sì, come abbiamo fatto di Lui l’organizzatore dell’umanità religiosa nella Chiesa e dell’incivilimento per mezzo della Chiesa. Di lui allora e di lui alla fine, noi diciamo: « gli ereditava un mondo già fatto, eppure stava per rifarlo tutto intero » (C. Péguy).

D. E che qualificazione morale attribuisci tu a questa vita dell’universo trasformato?

R. È finalmente la vera vita, poiché è il pensiero creatore realizzato, la forma degli esseri acquistata, la fine del desiderio ottenuto, la gerarchia di tutti i valori fondata, l’attività universale lanciata nella sua via definitiva, che non è più una ricerca, un brancolamento, un tentativo così spesso combattuto, un’impresa così spesso opposta a se stessa, ma l’esercizio armonico dei poteri pienamente raggiunti, riguardo a oggetti integri essi stessi e che non si rifiutano più.

D. Tuttavia quello che noi vediamo ora è appunto l’abbozzo di questo avvenire.

R. La polvere astrale che naviga nel firmamento è come il suo seme, come il polline lucente. Fino ad ora, dice S. Paolo, la creazione geme tutta quanta e soffre quasi le doglie del parto. Ma siccome la polvere dei morti deve lasciare il posto a creature eternamente viventi; siccome l’umanità dispersa nell’universo e le età si devono raccogliere in una sola famiglia di eletti: così alla dispersione dei mondi nell’etere succederà indubbiamente una sublime unità, creata sotto il segno dello spirito, per spiriti, ed eternamente rivelante per gli occhi aperti di tutti gli esseri le segrete armonie che il tempo ci dissimula.

LE VIRTÙ CRISTIANE (20)

LE VIRTÙ CRISTIANE (20)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay; MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO IX.

L’ OTTAVA BEATITUDINE.

La virtù del martirio di animo.

In questa ottava ed ultima beatitudine, annunziataci da Gesù Signore, si può giustamente credere ch’Egli abbia mirato a tutte le altre precedenti. A me pare quasi ch’ei dica: Son beati i poveri di spirito, beati i mansueti, beati coloro che piangono, beati quelli che han fame e sete di giustizia, beati i misericordiosi, beati i mondi di cuore, beati i pacifici; ma il colmo della beatitudine non è soltanto di possedere queste virtù cristiane e tutte le altre, ma di essere per esse perseguitati: secondo queste parole mie: “Beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia; perciocchè ad essi appartiene il regno dei cieli.” La nobiltà di cotesta ultima beatitudine sorpassa quella delle precedenti, ma appunto per questo a prima giunta la beatitudine dei perseguitati per amore alla virtù ci stupisce più, e sembra più paradossale delle altre. – A prima giunta parrebbe, che, essendo ogni virtù un raggio della divina Bellezza, e assomigliandoci ciascuna più a Dio, e avvicinandoci più a Lui; ogni virtù dovesse attirarci la benevolenza, l’amore e la stima degli uomini. Infatti, parecchie volte avviene che i malvagi altresì fanno plauso alla carità, alla dolcezza, alla mansuetudine, alla pazienza, alla purità dei figliuoli di Dio. Ma d’altra parte, quante e quante altre volte i figliuoli della Città del mondo perseguitano con le ingiurie, col disprezzo, con le villanie, con lo scherno, con le parole mordaci, e sino con le battiture e con la morte i figliuoli della Città di Dio? Il malvagio dunque ora ama e ora odia la virtù, a volte la celebra e la ammira, a volte la vilipende e la perseguita. Perché mai questo? Donde deriva siffatta contraddizione? O la virtù è amabile; o disamabile, o rassomiglia a una bellissima e pudica vergine, o ha in sé bellezze soltanto apparenti e menzognere. Perché dunque in alcuni casi la si ama, e in altri riesce oggetto di odio? Le ragioni di cotesto fatto sono parecchie, ma la principale mi par questa. Quando la virtù si considera, per quel che è in sé, e si mira astrattamente; l’intelletto umano, anche che sia offuscato da molte tenebre, si sente rallegrato da qualche raggio della luce di essa; vede la virtù con un certo misterioso compiacimento; e s’accorge che la virtù corrisponde a talune nobili propensioni dell’animo suo: però la trova bella e amabile. Quando poi questa medesima virtù, nei fatti particolari diventa ostacolo alle passioni degli uomini, e si sforza di governarle, di smorzarle o anche di annientarle; ed ecco che i passionati s’inaspriscono e imbizzariscono, quasi come puledri che nella loro corsa, incontrata una barriera, più s’imbestiano. Per tal guisa quelle medesime virtù, che tengono in freno gli animi dei buoni, eccitano talvolta a passioni anche più focose i malvagi. E i malvagi, talora eccitati così, riescono persecutori più o meno infocati dei figliuoli di Dio. Allora disgraziatamente le passioni veementi dell’animo, contraddette dai virtuosi e dalle virtù loro, con le loro vampe offuscano gli intelletti dei passionati: il vero par loro falso, il bene male, e arrovellandosi tra invidie, gelosie, e sospetti, diventano persecutori. – Al giusto, che si sente perseguitato, ricorrono allora alla mente le parole di Gesù Signore, beati coloro, che soffrono persecuzione per la giustizia. Ancorché gli ripugni supremamente il soffrire, e più per quelle opere di giustizia che, secondo il primitivo ordinamento di Dio, gli dovrebbero procurare diletto; pure, confidente nelle parole del Signore, a poco a poco si rassegna, pensando all’eterna beatitudine che lo aspetta. Talvolta anche, s’ei conduce vita di perfezione, sente altresì nell’intimo del cuore qualche primizia del godimento di quella vita eterna, a cui aspira col desiderio. Or questa persecuzione, sofferta serenamente e tal volta anche consolatamente per amore di Dio e di virtù, si può in senso largo chiamare martirio; ed è indubbiamente una nobilissima virtù dell’animo, la quale non manca mai al buon Cristiano, e, come tutte le altre virtù, s’accresce di grado in grado, sempre che ei viva del pensiero e dell’amore di Dio. Ben è vero, che il principale martirio del Cristiano, è quello ch’ei soffre, o che almeno è disposto a soffrire, dando la propria vita per la fede di Gesù Cristo. Ma ciò non toglie che vi sia altresì il martirio dell’animo, e che questo s’abbia da riconoscere particolarmente nei perseguitati per amore di giustizia, secondo le parole di san Gregorio Magno: “Morire per mano del persecutore è vero martirio: sopportare contumelie, e amare coloro che ci perseguitano, è anche esso un martirio interiore dell’anima”. – Così l’aureola del martirio non appartiene soltanto a quei milioni di Cristiani, i quali nobilmente e santamente scelsero di morire piuttosto, che negare la fede di Cristo, ma altresì a tutti gli altri Santi, e per un certo rispetto a tutti giusti. Così ancora la storia della Città di Dio, da Cristo in poi, nella sua parte più nobile e bella, è una storia di martiri. Però, dopo il peccato e la redenzione è avvenuto che anche il Paradiso, sia un regno in cui tutte le creature umane, che ne fan parte, sono state prima, quale in un modo, quale in un altro inghirlandate della corona del martirio. Iniziatore supremo di questo santissimo martirio fu il divin Crocifisso del Golgota, il Martire dei martiri, il quale non solo morì per la giustizia, ma meritò a noi peccatori di essere giusti della giustizia di lui. Dopo di Cristo, e a lato di lui, nel Cielo brilla di luce ineffabile la nostra benedetta Madre Maria diventata particolarmente a piede delle Croce Regina dei martiri, e tipo stupendo del nobile martirio delle anime. I vari cori dei Martiri, dei Pontefici, dei Confessori, delle Vergini, delle Maritate splendono ciascuno di una loro particolare bellezza; ma tutti, per alcune loro doti particolari, s’accostano al coro dei Martiri, e ne partecipano; tutti cantano il cantico espresso nell’ultima beatitudine: beati coloro che soffrirono persecuzioni per la giustizia. La virtù del Cristiano martirio, intesa nel senso che ho detto, deriva, come tutte le virtù cristiane, dalla grazia e dagli sforzi del nostro libero arbitrio. Ma in modo particolarissimo cotesta virtù è frutto di carità; perciocché solo un ferventissimo amore ci può condurre a soffrire pazientemente e talvolta anche consolatamente di essere perseguitati per un bene qualsiasi. Mirate là in una povera casuccia una madre affettuosa, che veglia le intere notti a canto dell’amato figliuolo, e soffre per lui, e per lui talvolta perde il roseo delle sue guance, e s’illanguidisce: vedetela ancora che, non paga di tanto, sopporta tranquillamente i dilegi, gli scherni, i rimproveri e anche talora le battiture di chi crede, che l’amore di lei sia o soverchio o folle. Ma ella non per questo ama meno, o è meno disposta a soffrire. Chi le dà tanta forza e tanta perseveranza nel soffrire? L’amore naturale che ella ha pel figliuolo. Ora il medesimo, e, anche più di questo, accade in coloro che, pieni di Spirito Santo, si sentono infiammati dall’amore di Dio. Certo, la natura loro quando si sente punta dallo stimolo della persecuzione, grida no: ma la grazia e la carità soffocano nell’animo piamente cristiano quel grido di natura; lo elevano in più spirabil aere, e gli fanno sentire quelle dolcezze degli amori celesti, le quali o temperano o attutiscono anche gl’inchinamenti più possenti della natura. Laonde a ragione l’Apostolo san Paolo scrisse di tutt’i Cristiani buoni “Chi ci dividerà dalla carità di Gesù Cristo? Forse le tribolazioni? Forse l’angustia? Forse la fame? Forse la nudità? Forse il risico, forse la persecuzione, forse la spada? … Io son sicuro che nessuna cosa creata potrà mai dividerci dalla carità di Dio, la quale è in Cristo Gesù Signor nostro”. Questa virtù del martirio dell’animo cristiano, come ciascun altra, ha i suoi gradi; e, chi voglia acquistarla, si contenti d’ incominciare dal poco, e metta soltanto cautamente un passo avanti l’altro; perché è virtù difficilissima. Dapprima il vederci perseguitati per amore del bene, anche quando non ci faccia prorompere in atti irosi o impazienti, ci amareggia profondamente l’animo; e l’amarezza interiore ci trasparisce nel sembiante e ce l’offusca, dandoci un sentimento increscioso di melanconia. È un passo già, l’evitare l’ira nelle persecuzioni, ma non basta. Talvolta la persecuzione ci fa uscire in parole lamentevoli, e c’ispira un desiderio, non sempre contenuto nei giusti limiti, di adoperare ogni mezzo per impedire la persecuzione altrui; ma grado grado, il desiderio di evitare la persecuzione si riduce nei giusti suoi limiti; onde il giusto perseguitato, nell’allontanare la persecuzione, mira non tanto a sé, quanto al bene del prossimo. E a questo bene principalmente mirarono gli Apostoli e poi i Santi, sempre che obbedirono a quelle parole di Cristo : “ Quando sarete perseguitati in una città, andate in un’altra”. L’amarezza dell’anima del perseguitato anch’essa scema col tempo; perciocché la persecuzione ci adusa a poco a poco a disprezzare il mondo, e ad anteporre sempre il testimonio e l’approvazione della propria coscienza, illuminata dalla fede, a tutte le approvazioni degli uomini. – L’eroismo poi di questa virtù che sta nel soffrire sino a dar la vita per la fede, o almeno, nel fortemente desiderarlo, procede assolutamente da un eroismo grande di carità; il quale, secondo l’insegnamento della Chiesa, è così nobile e possente, che tiene luogo anche del battesimo. Però nella cristianità sino dai primi secoli fu riconosciuto che, oltre al battesimo di acqua, evvi il battesimo di sangue, il quale si ha quando il non battezzato, infiammato di santo zelo e di carità, muore per la fede di Gesù Cristo. – La virtù del martirio, sia di sangue, sia dell’animo, deriva, anche in modo particolare, dalla fortezza cristiana; onde i milioni di Santi, che conseguirono morendo la palma del martirio, anche che sieno stati fanciulli o verginelle o vecchi o in qualunque modo deboli nel corpo, ci si affacciano sempre alla mente come fortissimi. La fortezza loro anzi ci è più visibile della carità stessa. Chi invero può mai pensare agli strazj infiniti da essi sofferti, senza sentirsi stringere il cuore e commuoversi sino al pianto? Chi può leggere la storia dei loro martirj, senza riconoscere che la fortezza loro superi di molto quella di Seneca, degli Scipioni, dei Bruti e di altri cotali fortissimi Pagani? Il medesimo si ha a dire del martirio dell’animo. Chi non sia fortissimo, potrà mai sopportare serenamente e lietamente il cruccio inenarrabile del sentirsi perseguitato per la virtù, e anche per il bene fatto al prossimo, e sino talvolta per il bene fatto ai persecutori medesimi? – Uno dei maggiori ostacoli dunque ad acquistare questa virtù del cristiano martirio, e ad intendere bene le parole di Cristo: beati  è perseguitati per la giustizia, s’ha da cercare nella fiacchezza degli animi dei Cristiani; in quella fiacchezza dico, che è una delle maggiori piaghe dei nostri tempi. È chiaro che il Cristiano non potrà mai valutare la nobiltà della beatitudine del martirio, sino a che allibisca e tremi all’aspetto di qualsiasi dolore; molto più se egli in tutto ciò che fa, non pensi se non alla gloria, e alla lode degli uomini, la quale è un inizio di gloria anch’essa. Questa tentazione delle lodi invero alcune fiate ci assale per guisa, che noi, quasi dimentichi di Dio e della propria coscienza, crediamo gli uomini essere i veri giudici di tutto ciò che pensiamo, diciamo e operiamo. Ma quali sono, o mio Dio, gli uomini che ci hanno da giudicare? Si risponderà: non debbono essere certo i cattivi, sì veramente i buoni. Ma, anche tra i buoni, quanti ce ne ha che non sieno passionati, o poco assennati, o volubili nei loro giudizj? Quanti ce ne ha che sieno capaci di penetrare nelle profondità dell’anima, e giudicar rettamente un’azione? E intanto, se si dà tanto valor ai giudizj degli uomini; dove mai troverò io la forza di accettare con pazienza, e anche talvolta con ilarità, le persecuzioni, che debbo sostenere per la giustizia? Se m’inchino facilmente ai giudizj degli uomini, e servo ad essi; dove troverò mai la forza per intendere, e mettere in atto l’insegnamento di Gesù Cristo: beati coloro che soffrono persecuzioni per la giustizia? – Pieno di misteri e di difficoltà è questo argomento delle lodi. Per un verso non è male il desiderarle ordinatamente; ma, per un altro verso, il desiderarle, e anche l’averle dopo il desiderio, non è senza pericolo. Né il pericolo qui si può evitare allo stesso modo, che evitiamo i pericoli delle altre tentazioni; perciocché le altre tentazioni si possono fuggire, ma come si potrebbe fuggire ogni lode? E ancora il fuggirla è sempre un bene? – Intorno a questo argomento delle lodi stimo verissimo e bellissimo un luogo delle Confessioni di sant’Agostino; e sebbene io non tratti qui direttamente questo tema, nondimeno mi par bene di prendere cosiffatta occasione, per mettere avanti agli occhi di chi legge alcune parole del gran Santo, le quali prose giovar sempre, e molto più in tempi tanto stoltamente vanitosi, come sono i nostri. Sant’Agostino dunque scrive così: ‘Nelle altre tentazioni posso io bene in qualche modo chiamarmi a esame: in questa della lode non posso nulla o quasi. Invero nei piaceri carnali o nelle curiosità di sapere cose vane vedo quanto io sia riuscito a frenare l’animo mio, quando son privo di quegli oggetti, perché non gli voglio o perché non ci sono. Conciossiaché allora domando a me stesso quanto più o meno mi dolga di non averli. Quanto poi alle ricchezze … se mentre le possiede l’animo, non può accorgersi se ei l’abbia in dispregio, vada, le rinunzj e vedrà. Ma per rinunziare alla lode, e così provare il nostro valore, che fare? Dovremo forse darci al malvivere, tanto perdutamente e sformatamente, che niuno possa vederci senza orrore? Chi direbbe cosa sì pazza? Dall’altro lato, se la lode suole e dev’essere compagna del ben vivere, e delle buone azioni; ei bisogna tanto tener conto della sua compagnia, quanto della buona vita. E intanto non posso sapere, se io valgo o no a sostenere con buon animo la privazione di una cosa, se io non ne rimango privo. Che confessione ho io dunque da fare, o Signore, in questo genere di tentazione? Che? se non che io piglio gusto della lode, ma non però in modo, che più non mi gusti la verità. Infatti, se mi fosse proposto una di queste due cose; o di essere lodato per mattezza e traviamento d’ogni genere, o di essere vituperato per assennatezza e tenacità nel vero, so bene ciò che sceglierei” (Confes. L. X, cap. 37. Chi voglia avere un’idea completa di tutto ciò che sapientissimamente insegna Sant’Agostino sì della lode, sì della temperanza e del timore con cui dobbiamo accettarla, e in ultimo dei fini che la nobilitano, legga l’intero Capitolo). – Tutto questo luogo di Sant’Agostino e particolarmente le ultime parole fanno bene al caso nostro, Ei c’è bisogno di temperare il desiderio di ricever lodi, ed essere superiori ad esse; per poter acquistare quella che ho chiamata virtù del martirio cristiano. Nè ciò basta. Quest’ultima beatitudine, come accennai sin dal principio, si consegue più difficilmente delle altre… Essa richiede in modo particolare la cognizione e la pratica delle beatitudini precedenti; onde risulta come l’incoronamento di tutte quelle che precedono. Benché la beatitudine dei perseguitati per la giustizia appartenga pure alla vita cristiana, è specialmente propria della perfezione cristiana. I buoni Cristiani si sforzino dunque di averla, quanto possono. I perfetti l’hanno, e solo mettano il loro studio nell’acquistarne gradi maggiori: Gli uni e gli altri sanno assai bene, che il premio di essa è il possedimento del regno di Dio: beati coloro che soffrono persecuzione per la giustizia, perciocché possederanno il regno di Dio. – E ora che ho finito il discorso delle Beatitudini annunziateci da Gesù Cristo, m’avvedo d’averne parlato assai incompletamente e imperfettamente: mi accorgo anzi che fu pure imperfetta e incompleta la trattazione anche delle altre parti del Libro; e soprattutto mi rincresce che io non abbia avuto occasione di trattare ex professo della preziosa virtù dell’obbedienza e di qualche altra. Nonpertanto mi affido nel Signore, il quale parla interiormente al cuor dell’uomo, e vivifica quella medesima parola nostra, la quale di per sé ha poca o punta efficacia. Penso a quegli agricoltori, che talvolta vedo con gran mia consolazione nei campi, premurosamente intenti a gettar alcuni piccoli semi di frumento sulla terra. Quei semi, mescolati col terreno, scaldati dal sole, e vivificati dalla rugiada e dalla pioggia, diventeranno tra non molto pianticelle, e poi cresceranno verdeggianti, insino a che si arricchiscano di bionde spighe di frumento. E quelle spighe alimenteranno chi sa quanta gente! Perché non potrebbe accadere lo stesso della mia parola, se io avrò seminato nel cuore degli uomini la parola di verità; non parola mia, ma parola tolta riverentemente da quel benedetto Gesù, che, con ragione, disse di sè: Io sono la via, la verità e la vita? Oh Signore, Signore, leggetemi nel cuore, e compite questo mio santo desiderio, che mi viene da Voi!

LE VIRTÙ CRISTIANE (21)

LA VITA INTERIORE (8)

LA VITA SPIRITUALE E LE SUE SORGENTI (8)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI con prefazione di

Mons. Alfredo Cavagna Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione – Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

GLI ESERCIZI SPIRITUALI

DEFINIZIONE DI $. IGNAZIO.

Poiché vivere la vita d’unione con Dio, o vivere, come si dice, di vita interiore è corrispondere all’amore di Dio, è provvedere alla propria santificazione e alla nostra felice eternità, pensiamo che nessun momento ci possa tanto e così efficacemente aiutare a raggiungere questa vita, quanto il tempo degli Esercizi spirituali. S. Ignazio di Loyola, ideatore di essi e dalla Chiesa dichiarato il loro Patrono, così ne parla: « Io non so trovare né intendere in questa vita più giovevole mezzo per mettere in cuore zelo della propria salute e dell’altrui ». Sono una grazia specialissima che la bontà del Cuore SS. di Gesù concede alle anime… Sono giorni di gioia spirituale intensa, perché in essi noi possiamo ascoltare con maggiore diligenza, con più viva e fertile attenzione la dolce e affascinatrice parola di Gesù, padre, maestro, guida, cibo, vita della nostra vita. – Ascoltiamo ancora la parola dell’ispirato loro autore, S. Ignazio, il quale così li definisce: «Per esercizi s’intende qualunque modo di esaminare la coscienza, di meditare, di contemplare, di orare vocalmente e mentalmente e di altre spirituali operazioni, allo scopo di preparare e disporre l’anima a togliere da sé tutte le affezioni disordinate, e, dopo di averle tolte, a cercare e trovare la divina volontà, circa la disposizione della propria vita e la salute dell’anima » (Exerc., 18 annot.).

LO SCOPO DEGLI ESERCIZI.

Come limpidamente scaturisce da questa definizione, duplice è lo scopo degli esercizi. Il primo fine è negativo, e consiste nell’allontanare e togliere le affezioni disordinate, nel purificare l’anima dai peccati. Per questo sono di necessità evidente la meditazione e l’esame di coscienza. – Il secondo fine è positivo, e consiste nel cercare di conoscere e nell’eseguire la senta volontà di Dio, circa la disposizione della propria vita e la salute dell’anima. Press’a poco si espresse S. Vincenzo de Paoli: « Di tutti i mezzi che Dio presenta agli uomini per riformare i disordini della vita loro, non ve n’è alcuno che abbia prodotto effetti più magnifici, più copiosi, più meravigliosi degli Esercizi spirituali ». S. Francesco di Sales, nel Trattato dell’amore di Dio (XII, 8) ha un pensiero quasi identico e, ad ogni modo, proprio chiarissimo, Ecco: « Dovrebbe fare ciascuno, ogni tanto, un buon ritiro, per stimolarsi con esercizi spirituali alla completa riforma della propria vita, per prendere poi una sentita e ferma risoluzione di vivere interamente per Dio ». – Molto a ragione, perciò, tutti i Fondatori e Superiori di Ordini e Congregazioni religiose, hanno prescritto, fino al mio caro santo Padre don Bosco, gli Esercizi spirituali ogni anno, dai sei ai dieci giorni, per il più sollecito rinnovamento spirituale e per il più facile raggiungimento della perfezione religiosa.

GLI ESERCIZI E LA VITA INTERIORE.

L’anima che cerca di fare bene i giorni de’ santi spirituali esercizi, col raggiungimento del primo fine negativo, cioè l’allontanamento e la cancellazione delle affezioni disordinate, riesce ad avere il regno di Dio in sé… poiché, tolto il peccato e le sue affezioni, regna l’amore. Ricordiamo le parole di Gesù: « Il regno di Dio è dentro di voi. Se alcuno mi ama, sarà amato dal Padre mio, Noi verremo a lui e metteremo in lui la nostra fiducia » (Luca, XVII, 21 – Giov., XIV, 23). Possiamo pensare ad un’unione più intima, più ferma e forte di questa? — Ma, perché Gesù si dona a noi in queste circostanze, con sì grande generosità? Perché Gesù Creatore si degna di vivere con la sua povera e misera creatura? — Per l’amore che ci porta, solo per l’immenso amore che ha per le anime nostre. Rimarrà, adunque, ed abiterà in noi, per santificarci, illuminando, adornando, trasformando la nostra anima in un lembo di Paradiso. Ecco il motivo dell’affermazione di S. Agostino: « Noi siamo un cielo!». – Di più. Rimarrà ed abiterà in noi, Gesù, per renderci felici, saziando l’inestinguibile sete di felicità e di amore delle nostre anime. Sazia la nostra avidità di sapere, di conoscere e perciò di amare Lui solo; come amore unico e vero, colma i desideri e le brame del nostro cuore. Per indurre le anime alla frequenza e alla pratica dei SS. Esercizi spirituali, il S. Padre Pio XI ha emanato la preziosa Enciclica: Mens nostra, nella quale, fra i molti suggerimenti, dichiara che: Negli Esercizi spirituali i doveri, i pericoli, le gioie, i dolori i rapporti dell’anima con Dio, si guardano con sguardo penetrante e ne derivano impulsi al bene di cui è facile apprezzare tutta la preziosità… Giovano molto gli Esercizi spirituali, l’abbandono almeno momentaneo, del mondo, del comune, del solito della vita, per raccogliersi nella solitudine e nel silenzio, per fare attenzione a se stessi, al proprio passato, presente ed avvenire… È durante questo tempo felice che abbonda la parola di Dio, abbonda la preghiera, questo duplice specifico che conduce le anime a Dio. Ed ha voluto arricchire con speciale indulgenza plenaria i soci dell’A. C. che vi partecipano.

DISPOSIZIONI NECESSARIE.

Leggiamo nel Vangelo di S. Marco che, alcune volte, il Signore si compiaceva di chiamare vicino a Sé gli Apostoli per sapere dalla loro bocca le notizie del loro ministero. Altre volte, invece, gli Apostoli andavano da Gesù spontaneamente, per una specie di rendiconto personale, e dicevano con gioia filiale e compiacenza intima quanto avevano fatto, detto, visto… Gesù rimaneva preso di pietà per loro, perché li vedeva troppo occupati, e anche troppo assiepati da tante persone indiscrete che andavano e venivano e non ne avevano mai a sufficienza. Per questo, Gesù, un giorno, disse loro: Venite seorsum în desertum locum et requiescite pusillum (Marco,VI, 30-31), e cioè: venite in disparte, in unluogo solitario, e riposatevi un poco…Tale bontà gentile e dolce e premurosaGesù ripete con ciascuno di noi, quandoci dà occasione di fare i SS. Spirituali Esercizi.Allora, appunto, vedendo ciascuno dinoi stanco, affaticato, e, sempre circondatoe pressato da mille occupazioni e preoccupazioni,ci fa sentire il suo dolce invito. Ilquale invito dev’essere da noi precisatocosì: Gesù vuole darci un riposo spirituale.Perciò ci trae in disparte; in modo che lepersone e le occupazioni non ci raggiungano;in un luogo solitario, ove cioè nonabbiamo ad incontrare un altro mondo; eci comanda di riposare per un poco. Il riposofisico è sempre necessario. Guai se mancasse!Egualmente si deve dire del riposospirituale. Durante questo riposo…, per ilvuoto fatto attorno a noi e dentro di noi,potremo ascoltare bene la voce del Signore…Ci sentiremo ripetere: Fili, audite me: timorem Domini docebo vos…: Ascoltatemi,o figlioli, v’insegnerò a temere il Signore…Sentiremo la voce del Padre Celeste checi dirà, come agli Apostoli sul Tabor, indicandoGesù: Ipsum audite – Ascoltate Lui,Gesù, il Maestro… e obbeditegli…

LAVORO PERSONALE.

Non basta che Gesù parli. Non basta che noi l’ascoltiamo. È necessario che, noi pure, parliamo a Gesù, e operiamo. Come, e che cosa? Poche parole di schiarimento. Non basta cercare i peccati, mortali e veniali; non basta fare una buona confessione generale, annuale, mensile o settimanale. Tutte cose buone e utilissime di certo, anzi necessarie. Ma con questo accade sovente che molte anime pie non si occupino d’altro, durante tutto il tempo degli Esercizi, che della ricerca… dei loro peccati. Non neghiamo che sia possibile e, qualche rara volta, doveroso, anche questo! Ma questo non può e non deve ripetersi, ogni anno, durante i sei, sette, otto o dieci giorni d’esercizi. In questi casi v’è un inganno palese del nemico delle anime. Non lasciamoci mettere in trappola. Continuando così andiamo, a grandi giornate, lontano dal Signore, e facciamo contento il nemico di Dio e delle anime nostre. Gesù vuole che gli parliamo e che pensiamo Lui, con fiducia, confidenza, amore, abbandono… Vuole, sì, che facciamo l’esame o gli esami, ma senz’agitazione, dolcemente, pacificamente… Via, dunque, il rimestio scrupoloso e inconcludente delle nostre infedeltà! Abbandoniamoci, realmente, nelle mani di Gesù e lasciamo ch’Egli operi… Noi prepariamo, come San Giovanni Battista, le vie del Signore… poi ascoltiamo Gesù che ci dirà: lasciami fare… – Alcune anime errano per un’altra causa. Pensano, cioè, che l’esito degli Esercizi dipenda tutto e interamente dai predicatori. È noto che gli esercizi ginnastici militari sono comandati sì dall’istruttore, ma vengono eseguiti dai soldati. Così precisamente è degli esercizi spirituali. Ciascuno deve pensare e provvedere a lavorare la sua anima da sé e per sé. Tanto è così che, secondo il pensiero di S. Ignazio, non si dovevano fare prediche, ma soltanto fissare gli argomenti e i punti di riflessione agli esercitandi. La guida, o la direzione spirituale, è certamente sempre non solo utile, ma presupposta e necessaria.

CONSIGLI PRATICI.

Per il buon esito degli esercizi spirituali, i maestri di spirito suggeriscono i seguenti mezzi:

1) Il proposito fermo, deciso, ripetuto ai piedi di Gesù in Sacramento di voler far bene gli esercizi.

2) L’osservanza esatta del regolamento degli Esercizi. Questo regolamento è il frutto del sapere e dell’esperienza di anime generose e sante.

3) La custodia scrupolosa del silenzio. Senza il silenzio non v’è raccoglimento, non v’è ritiro spirituale.

4) Ascoltare i discorsi, o le prediche, degli esercizi, con attenzione e con umile docilità di cuore, procurando di applicare direttamente a noi stessi quanto viene detto o predicato.

5) Impiegare il tempo libero a riflettere su le istruzioni e le buone ispirazioni, ad esaminare lo stato della nostra coscienza; ad eccitare in noi il dolore e a prendere propositi fermi ed efficaci. Il frutto degli esercizi dipende, soprattutto, dal buon. Impiego del tempo libero. Non bisogna, infatti, mai dimenticare che esso consiste principalmente nel trattenersi che l’anima fa con se stessa e con Dio.

6) Scegliere il Confessore: che meglio ci aiuterà a rinnovellare l’anima nostra… e a lui confidarci per ben mettere in sesto, e al più presto, la vita del nostro spirito.

7) Infine, in qualunque condizione possiamo trovarci, abbiamo fiducia senza limiti nella bontà e misericordia di Dio (1).

Solo così gli Esercizi ci faranno veramente vivere la vita di Gesù in unione con Lui!

(1) Affinché gli Esercizi Spirituali possano produrre veramente ottimi frutti ci permettiamo suggerire alcune norme pratiche.

I.

NORME PER LA RIFORMA

VOGLIO SALVARE L’ANIMA MIA.

1° Tutti i giorni: le preghiere; quali: la Santa Messa, Comunione, lettura spirituale, il rosario, l’esame di coscienza.

2° Confessione con spirito di fede; con quale frequenza; direzione spirituale.

3° Doveri del proprio stato con esattezza, con costanza, con spirito di fede.

4° Fuggire le occasioni ed i pericoli: persone, ritrovi, letture.

5° Non operare mai a caso, ma sempre con fine santo e con franchezza.

6° Quale virtù voglio praticare in modo speciale.

7° Quale massima mi servirà meglio di stimolo alla virtù.

II

COME OCCUPARE IL TEMPO LIBERO.

1° Nello scrivere le ispirazioni ricevute ed i propositi fatti nella meditazione.

2° Nell’orazione, secondo la particolare divozione di ciascuno, specialmente in ferventi colloquii davanti al SS. Sacramento.

3° Nel conferire col Confessore e col Direttore degli Esercizi.

III

DI CHE SI PUÒ TRATTARE COL DIRETTORE DEGLI ESERCIZI O, ANCHE, COL DIRETTORE SPIRITUALE.

1° Dello stato in cui si trova il cuore: se è tutto disposto a fare la Santa Volontà di Dio o se è attaccato a qualche cosa.

2° Della facilità, o difficoltà che si trova nelle meditazioni e quale meglio e quale meno bene vi sia riuscita.

3° Delle distrazioni, agitazioni e tentazioni nel meditare ed in altri tempi della giornata.

4° Della prontezza o negligenza nel raccogliersi, animarsi e ribattere il nemico.

5° Delle consolazioni, illustrazioni e buoni desideri che Iddio ci ha dato nel meditare o in altri tempi.

6° Della prontezza o ripugnanza che sentiamo nel risolverci a vincere noi stessi e rispondere alle ispirazioni di Dio.

LA VITA INTERIORE (9)

LE VIRTÙ CRISTIANE (19)

LE VIRTÙ CRISTIANE (19)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay ; MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO VIII.

La virtù della pace cristiana

Il Signore Gesù, stando tuttora sul monte delle beatitudini, disse, per nostra salute e consolazione, anche queste altre dolcissime parole: Beati i pacifici. Sono parole che ci suonano all’orecchio come l’eco dell’inno che gli Angeli cantarono intorno alla grotta di Betlem: sia pace agli uomini di buona volontà. Sono parole, che ci ricordano altresì il saluto di Isaia al Redentore aspettato: “Tu Dio, tu forte, tu principe della pace.” Oh quante volte poi, pensando a questa beatitudine della pace, si affaccia alla nostra mente il dolcissimo mistero dell’umana Redenzione, e ci occorre alla memoria: l’Angelo, che venne in terra col decreto / della molt’anni lagrimata pace, / Ch’aperse il Ciel dal suo lungo divieto. (Purg. X.). Sant’Agostino e san Tommaso insegnano la pace cristiana essere tranquillità nell’ordine; e altri dicono anche più esplicitamente che pace è tranquillità sicura dell’animo, non turbato da passione. In questo senso la pace cristiana non è quiete inoperosa e sonnolenta d’un animo pigro, ma è nobile e santa virtù che procede dalla carità di Dio in noi, e riluce nelle anime buone, come un riflesso di Dio infinitamente ordinatissimo, e cagione prima di ogni ordine nelle sue creature. Or questo abito virtuoso dell’animo che ci costituisce cristianamente pacifici, benché il Signore lo chiami e sia vera beatitudine, non si acquista senza difficoltà. E però la nostra pace interiore, consolatrice, come un raggio di sole mattutino dopo le tenebre della notte, è sempre frutto di molte battaglie, combattute nell’intimo del cuore, e di molte vittorie ottenute, per effetto della grazia celeste e degli sforzi incessanti del nostro libero volere. L’ uomo, dopo il peccato d’origine, appena che esce di fanciullezza, incomincia a sentire, grado grado, nell’animo alcuni moti disordinati, ai quali si addice il nome di passioni. Quasi sempre sono moti che nascono dall’amare e dal desiderare o beni apparenti e fugaci, o beni, che in alcuni casi determinati sono per noi veri mali, o infine beni, ai quali debbono prevalere altri di ordine superiore. Or queste passioni, quando non sieno presto soffocate, riducono in servitù la libera nostra volontà, e però la avviliscono e la prostrano. E non basta. Le passioni agitano e turbano siffattamente l’animo nostro, che esso diviene, come un mare in tempesta, il quale, agitato da venti contrarj, infuria, spumeggia e ribolle. Son tutti moti questi, che ciscun uomo ha sperimentati certamente in sé stesso, sempre che si sia lasciato dominare da qualsiasi passione ardente. Or come mai un animo in tempesta, potrebbe sentire in sé pace, se la pace è quiete serena? Come mai il disordine delle passioni potrebbe amichevolmente congiungersi con la pace, se la pace è ordine supremo di pensieri, di desiderj e di affetti? Da ciò segue che gli uomini, signoreggiati da passioni, anche che godano di molti piaceri, pace vera e piena non hanno mai, secondo l’insegnamento dello Spirito Santo: “Gli empj sono come mar procelloso, che non può stare in calma, i flutti del quale ridondano di sordidezza e di fango. Non v’è pace per gli empi, dice il Signore.” (Isai., LVII, 20;.21). – Il buon Cristiano, per lo contrario, sa che la pace egli non la può conseguire se non ordina tutt’i pensieri, i desiderj e gli affetti dell’animo; e quest’ordine ei lo trova solo nel mettere alla cima di tutt’i beni desiderabili il Bene sommo, e nel convincersi, che ogni bene finito, sia pure dilettosissimo, quando ci mette contro al Bene sommo, o anche soltanto da esso ci separi, indubbiamente riesce fonte di turbamento interiore e ci priva della pace desideratissima. Alcuni uomini, che si credono sapienti e non sono, scambiano quell’appagameto momentaneo, che si ha dal piacere, con l’appagamento dolce, sereno e costante della pace. Quel primo si può conseguire anche col peccato, anzi l’uomo d’ordinario pecca per conseguirlo: questo secondo è frutto di Spirito Santo, di grazia e di virtù. Non deriva quindi dal piacere, anzi assai delle volte è compagno del dolore pazientemente sopportato, e nobilitato dai pensieri e dagli affetti di religione. La pace cristiana si tripartisce, o piuttosto ha tre aspetti diversi, secondo che l’uomo lo consideriamo nelle relazioni che ha con Dio, con se stesso o col prossimo. Però il Cristiano, cui fu concessa da Dio la beatitudine di essere pacifico, ha pace con Dio, pace con sé medesimo e pace col prossimo: e non sono tre beni o tre virtù differenti, ma un solo bene e una sola virtù, la quale, come avviene talvolta della luce, si tripartisce in tre raggi concentrici. Il peccato mortale, in quanto è supremo disordine, mette l’uomo in guerra con Dio, ordinatissimo Creatore dell’uomo, e istitutore della legge morale che lo governa. Or bene il primo sintomo di questa guerra della creatura ragionevole contro il suo Creatore, la creatura lo prova in una cesta puntura che sente nell’animo, perché riconosce il proprio fallo, se ne angoscia, se ne turba, e quasi si trova a disagio con sé medesima, onde le pare che gli si sia posto a lato un avversario. Questa puntura chiamiamo rimorso. Ebbene il rimorso ci toglie la pace: però chi ha la coscienza dilacerata da esso, non ha pace con Dio. Per lo contrario chi, seguendo la legge di Dio, vive nell’ordine morale, costui trova nella quiete della coscienza, e in un certo suo appagamento misterioso che gli viene dall’obbedire al suo Creatore e Redentore, la pace con esso. Sente che Iddio gli è amico, e come si fa con amico, gli sta vicino, e si compiace di lui, che lo ama e lo invita ad amarlo. Laonde ha con Lui e in Lui dolce pace; una pace, che è appena un saggio di quella, onde parla Piccarda dei Donati a Dante in Paradiso, dicendo di Dio: In la sua volontade è nostra pace /  Ella è quel mare, al qual tutto si muove.(Par. III, 85 e seg.). L’uomo, per aver pace con sé medesimo, è bene che pieghi un tratto lo sguardo sopra di sé, e si sforzi di ben conoscersi. La persona umana di ciascun di noi è indubbiamente una; ma quante diverse cose compongono cotesta misteriosa e mirabile unità!. La persona mirabilmente una ha l’anima e il corpo; due sustanze non solo differenti, ma per alcuni rispetti opposte. E il corpo si compone di moltissime parti, le quali hanno ciascuna diverse attitudini, e propensioni differentissime. – L’anima poi della stessa persona umana apparisce anche più ammirabile e varia. Ha un intelletto che pensa, deduce, paragona, sillogizza, e dai primi veri, conosciuti per luce dataci da Dio nella creazione, ne trae innumerevoli altri; una volontà libera quanto ai beni particolari e finiti, ma sempre congiunta al bene generalmente considerato. E intanto essa volontà, ora vuole, ora disvuole le medesime cose; e vuole altresì diversi beni insieme, e spesso nel volere si contraddice. Questa medesima persona umana ha una memoria, che ci ricorda il passato, anzi ce lo fa presente e ci fa vivere in esso; ha una fantasia, la quale ci presenta immagini, a volte liete, a volte funeste, ora sante e ora ree, e spesso ci dipinge con colori leggiadri le cose che ci rappresenta, spesso ce le oscura e imbruttisce; e intanto quasi sempre ci commuove e c’infiamma. Questa medesima unica persona è così fatta da natura, che ad ogni atto dell’intelletto, prende parte la volontà; onde l’uomo pensa d’ordinario perché vuole pensare; e a ogni atto della volontà prende parte il pensiero; perciocché ogni atto della volontà è un pensiero. La fantasia poi e la memoria si uniscono quasi sempre all’intelletto e alla volontà, essendo certo che il pensiero e la volontà o derivano dalle cose immaginate e ricordate, o almeno con esse amichevolmente s’ accompagnano. – Ebbene, poiché l’unica persona di ciascun uomo ha tante diverse parti, tante svariate facoltà, tanti inchinamenti o diversi o opposti; è evidente che l’uomo ha bisogno, per vivere in pace con se stesso, di mettere ordine in tutte le cose che lo costituiscono uomo. Tutto ciò che è da meno, dev’essere soggetto a ciò che è da più; il corpo dunque deve servire all’anima: nell’anima le varie facoltà si debbono consociare e armonizzare amichevolmente e tendere tutte al medesimo scopo. Senza di ciò, l’uomo sentirà dentro di sé un’aspra guerra; e la pace, da lui tanto desiderata, non la troverà mai. Né la soggezione, la consociazione e l’armonia, di cui s’ è parlato, noi possiamo conseguirle senza sforzi di volontà e ajuto di grazia celeste; perciocché è indubitato che, per effetto del peccato la ribellione e la disarmonia spuntano nelle persone umane sino dalla fanciullezza, crescono nell’adolescenza, e diventano possenti nel fervore dei più begli anni della vita, che sono gli anni della giovinezza. – Né ciò basta. Un altro ostacolo gravissimo, anzi maggior nemico della pace, che l’uomo brama di avere con sé medesimo, è il dolore fisico e morale. Il dolore, poiché è figlio del peccato, muove continua guerra alla nostra pace, figliuola prediletta della virtù e dell’unione con Dio. Invero essendo stato l’uomo creato da Dio per godere; il dolore gli ripugna, lo turba, lo provoca a sdegno; e dunque gli rende assai malagevole il conservare dentro dell’animo il tesoro della pace. Ma qui appunto riluce il miracolo della grazia divina e degli insegnamenti di Gesù Cristo. Il buon Cristiano, a poco a poco, si avvezza a vincere, e a santificare nella pazienza il dolore. E allora egli o non perde la pace interamente, o se talvolta disgraziatamente la perde al primo impeto del dolore, poi la riacquista presto; e dell’averla perduta sente amarezza. I perfetti però, e solo i perfetti, si rendono così tetragoni al dolore, che non perdono mai la pace, anche che il dolore dovesse loro togliere la vita. Il Signore anzi li trasforma così che la pace loro, ancorché soffrano molto, racchiude una certa spirituale dolcezza, di cui, solo essi hanno esperimento. – Infine il buon Cristiano gode altresì la beatitudine di essere pacifico col prossimo. Certo, anche per questo rispetto il buon Cristiano incontra molti intoppi per via, e, senza ajuto di grazia, s’accascia e vien meno a mezza strada, come chi è stanco del lungo cammino percorso, e dell’erte e dei dirupi e degli scoscendimenti incontrati per via. Ma, s’egli è veramente in pace con Dio, e con sé medesimo, già la via gli è spianata, e gli ostacoli o quasi non li incontra. o, incontrandoli, li supera con minime difficoltà. – Assai spesso avviene che il prossimo, volendolo o no, ci spinga a guerra piuttosto che a pace. Chi potrebbe mai noverare per quanti modi i nostri fratelli possano tentare di rubarci il tesoro della nostra pace? Talvolta l’indole differente, talvolta la villania o rustichezza dell’animo altrui, talvolta le ingiurie e il male fattoci dal prossimo, più spesso l’ingratitudine dei beneficati; insomma le passioni umane dei nostri fratelli, le quali fervono e ribollono così facilmente, ci stimolano a perder la pace. Chi non sa quanto sia difficile il vivere in pace con tutti? Chi non sa che ci ha alcuni, i quali si di dilettano del contraddire, del punzecchiare, dell’inasprire e del guerreggiare? – Chi non sa che in modo particolare l’egoismo, l’orgoglio e l’invidia quasi sempre eccitano gli uomini a mettersi contro dei loro fratelli, e a turbarne la pace? E nonpertanto, se vogliamo vivere da buoni Cattolici, noi dobbiamo esser tetragoni contro tutti gli assalti e le tentazioni nemiche, e non perder la pace mai mai. – Ma per raggiungere questo gran bene, abbiamo bisogno di molto e piamente orare, e di aver piena signoria di noi medesimi; abbiamo bisogno di abituarci al sacrificio: e principalmente ci è necessarissimo l’ajuto possente della divina grazia. – Un ajuto particolare però ci può venire da una considerazione, che mi si affaccia spesso alla mente, e che è questa: un buon Cristiano si ha da avvezzare a conoscere e a tenere in gran conto la propria dignità, una dignità regale e in certo senso anche sacerdotale, come insegnano le Scritture sante. San Pietro in vero nella sua prima lettera, anche dei semplici fedeli dice: “Voi stirpe eletta, sacerdozio regale, gente santa, popolo di acquisto” (I Piet. II, 9). Ora appartiene a cotesta dignità del Cristiano che ciascuno possa dir di sé che le creature umane, le quali, quanto alla natura e alla sostanza, sono tutte eguali o inferiori a lui, non han potere né forza di dominarlo in ciò, e di togliergli il dono interiore e prezioso della pace, che Iddio gli ha dato. Se un malvagio un ingrato, un villano, un insolente, un burbero han potere e forza di togliermi la pace dell’animo; essi, dunque, in quel fatto imperano all’animo mio; ed io, se perdo la pace, divento loro servo. Perché dunque concederlo loro? Sono io da meno di essi? Rispondo dunque a tutti coloro, che tentano, con le loro passioni di togliermi la pace: non voglio,; e se ho il coraggio, e la forza di farlo, mi sento grande, e mi si accresce dentro il sentimento dalla propria dignità. In vero quando gli uomini passionati o vili muovono intorno a me la tempesta, e la eccitano per mettere anche me in tempesta; è supremamente bello il vedere, che io resto serenamente tranquillo, in mezzo all’infuriare delle onde nemiche. Il poter restar, come rupe ferma che non crolla, tra i marosi che ci circondano, ci fa veramente grandi – Le medesime cagioni, onde l’uomo perde la pace con Dio, con se stesso e col prossimo, infiammano talvolta siffattamente i reggitor dei popoli, che si fanno promotori ed eccitatori del terribile flagello della guerra. Io non posso tacere che mi riesce supremamente mesto e angoscioso il pensiero, che diciannove secoli di Cristianesimo non siano ancora bastati ad allontanare, almeno dalle nazioni che diconsi civili, le rovine inenarrabili delle guerre. So che alcuni disperano che esse siano mai per finire, e altri per lo contrario sperano che lo spirito cristiano, penetrando, grado grado, nelle umane coscienze, le illumini, le infiammi e le fortifichi in modo, da rendere impossibili le guerre tra i popoli civili. Io mi metto di buona voglia con gli speranzosi, sia perché mi è caro lo sperare sempre, e, come diceva san Paolo, anche contro ogni speranza, sia perché penso che il Cristianesimo, che, tra le altre cose, ha abolito la schiavitù, la poligamia, e il divorzio, contiene in sé forze e virtù oggi, ancora ignote alla natura umana. Solo il progresso dei tempi ci può rivelare quali e quanti germi di progresso anche civile siano nascosi nell’ Evangelo. Se nella natura fisica ci erano tante doti nascoste che la scienza è venuta e verrà traendo fuori; chi può dire quanti beni nascosti la sapienza e la carità cattolica trarranno dall’albero della vita che è il Cristianesimo? – Ma che sia di ciò, le guerre, o che le eccitino i principi o i loro ministri o le repubbliche o le passioni popolari; io le giudico una grandissima aberrazione del genere umano. Possibile che, tra tanta luce di scienza e di civiltà, l’umano intelletto non giunga a conoscere in cose gravi, dove sta la giustizia e dove l’ingiustizia? – Possibile che, tra tanti tribunali per decidere le controversie degli individui, non ne possa sorgere uno che risolva le controversie tra le nazioni? Certo oggidì le guerre son diventate più rare; ed è principalmente per effetto del Cristianesimo, che a poco a poco, e spesso invisibilmente, spesso contro il volere dei sapienti del mondo, e dei reggitori degli Stati, penetra nella coscienza dei popoli cristiani. Ma di questo diminuir delle guerre ci ha forse un’altra cagione, che, posta dagli uomini liberamente, è stata dalla divina Provvidenza ordinata al bene. A poco a poco coloro, che desiderano, vogliono e impongono le guerre negli Stati civili, non son più gli stessi uomini che le fanno. Nei tempi andati i più forti, i più audaci, i più passionati si univano per guerreggiare essi stessi contro altri egualmente forti, passionati e audaci, che avevano, in un caso determinato, desiderj e passioni opposte a quelle dei primi. Oggidì no. Sono alcuni uomini quasi sempre ricchi, e amanti del comodo e dilettoso vivere, che, riuniti in un parlamento e in un consiglio di ministri, eccitati spesso da comprate effemeridi, risolvono di comandare ad altri uomini di farsi ammazzare essi, ed ammazzar altri, per ragioni che i guerreggianti quasi sempre non intendono, e alle quali forse non avevano neanche pensato. Ho conosciuto io stesso alcuni soldati Italiani che sono andati a morire in Africa, non dico solo senza sapere perché mai dovevano esporre la loro vita, ma ignorando, sino a pochi giorni prima, che nell’universo ci fosse un continente nero, che è detto Africa. Or tutto questo è in troppo evidente contraddizione col Cristianesimo, per dovere ancora durare lungamente. Io ho ferma fiducia, che la luce di Cristo e del suo Vangelo, luce che illumina tutto il mondo, finirà per dileguare da esso queste tenebre: ho ferma fiducia che i Cristiani capiranno che è insipiente, è crudele e barbaro, che alcuni uomini tranquillamente decidano che altri si facciano ammazzare, ed essi restino a godere e che a cotale barbarie, mascherata di civiltà, si dia il nome di giustizia. Io ho ferma fiducia che tutto ciò non si possa unire a lungo con la fede nell’insegnamento di Cristo: “Amatevi gli uni gli altri come io vi amai”. – E ora, uscendo di digressione, ritorno alle soavi parole di Gesù: “Beati i pacifici, perciocché saranno chiamati figliuoli di Dio”; vi ritorno dico per commentarne le ultime. Come nelle precedenti beatitudini, così anche in questa, la seconda parte del versetto si riferisce principalmente all’eterna beatitudine, che conseguirà in Paradiso chi si è sforzato di praticare la virtù espressa nella prima parte del versetto. Or qui è chiaramente insegnato che coloro, i quali avranno in terra la virtù di essere pacifici secondo Gesù Cristo, acquisteranno nel Cielo verissimamente e pienamente la figliolanza di Dio. Non saranno più figli di Dio, come sono in questa terrestre peregrinazione, turbati incessantemente dal dolore, dalle tentazioni, dagli errori; non più come oggi figliuoli di Dio, pieni di desiderj insoddisfatti, ondeggianti sempre tra timori e speranze, angosciati da quegli stessi amori, che sono più santi e desiderabili. Ma saranno figliuoli di Dio, che, per mezzo della pace cristiana, son giunti alla beatitudine eterna, e son diventati figliuoli similissimi a Lui, e beati della sua stessa piena e inesauribile beatitudine; figliuoli santi di un Padre infinitamente santissimo, figliuoli sapienti di un Padre infinitamente sapientissimo, e infine figliuoli buoni e figliuoli amanti dell’eterna Bontà e dell’eterno Amore. Se non che, anche nella presente vita, l’uomo cristianamente pacifico si sente in qualche maniera partecipe della beatitudine eterna, a cui aspira, e figliuolo di quell’Iddio, che è Egli stesso eternamente pacifico, e autore della nostra pace. Il Cristiano, che ha pace con Dio, con se stesso e con il prossimo, non è certo ancora beato in questa terra di dolore e di esilio, ma sente in sé un saggio di quella beatitudine; perciocché la pace, mentre non è intera beatitudine, è un principio di essa e un avviamento a conseguirla. La cosa è tanto vera, che se avviene talvolta d’incontrarci in un uomo che conservi la pace tra i dolori e le tempeste della vita, lo diciamo beato, e quasi ei ci riesce cagione di santa invidia. Allora ciascuno di noi sente profondamente in sé stesso ciò che scrisse della pace Sant’Agostino nella Città di Dio: “Tal bene è il bene della pace che, tra le cose create, nessuna è più gioconda di essa, nessuna si desidera con maggior diletto, nessuna si possiede con maggiore utilità. Invero lo spirito umano mai non vivifica i membri del corpo, se essi non sieno uniti. Parimenti lo Spirito Santo non vivifica mai i membri della Chiesa, se essi non sieno uniti in pace.”

LA VITA INTERIORE (7)

LA VITA INTERIORE E LE SUE SORGENTI (7)

Sac. Dott. GIOVANNI NATTISTA CALVI

con prefazione di Mons. Alfredo Cavagna, Assistente Ecclesiastico Centr. G. F. di A. C.

Ristampa della 4° edizione, Riveduta.

GLI ESERCIZI DI PIETÀ

LA PRESENZA DI DIO

PRELIMINARI.

Ecco una grande, dolce, confortevole verità: noi viviamo, ci moviamo ed esistiamo in Dio (Att., 17, 28). S. Tommaso d’Aquino, mentre per Ordine del papa Gregorio X, recavasi al IV Concilio di Lione, che si doveva aprire il 19 aprile 1247, fu colpito improvvisamente dalle febbri palustri, e dovette fermarsi ospite dei monaci cisterciensi nel loro convento di Fossanova ove morì il 7 marzo 1274- Come una lampada prima di spegnersi suole dare guizzi e fulgori più vividi e più intensi, così Tommaso dal letto ove mori ricambiò la carità di quei monaci esponendo loro brevemente il Cantico dei Cantici, e dando privatamente consigli a quelli, fra di loro, che ne lo pregavano. – Un giorno penetrò timidamente nella cella di Tommaso un monaco, il quale così disse: « Datemi, o padre santo, una regola sicura di condotta: ditemi una parola che sia la salvezza, la santificazione dell’anima mia ». San Tommaso, senz’esitare, così rispose: « Pensate, o fratello, spesso, alla presenza di Dio; quest’è il mezzo più efficace per vivere e morire bene ». – Però, prima di Tommaso, Dio stesso aveva dato questa stessa lezione, nelle pianure della Caldea, al suo fedele servo Abramo: Ambula coram me et esto perfectus: cammina; cioè, alla mia presenza e tu sarai perfetto.

Come DIO È PRESENTE A NOI?

Ma: come Dio è presente a noi? Come noi siamo presenti a Dio? È rima di dare una nostra risposta, crediamo ottima cosa riferire una bella pagina del P. Plus: « Fra le differenti maniere in cui Dio è presente nel mondo, ve n’è una, in modo particolare, che fornisce la sorgente per eccellenza dell’intimità (cioè: dell’unione con Dio). Noi vorremmo… spiegarla e metterla in piena luce, se fosse possibile: la presenza di Dio in noi per mezzo della grazia. » Dio, ci dice il Catechismo, è presente dappertutto. Questa presenza universale, questa onnipresenza, impressiona molto certe anime, ma in piccolo numero. Per la maggior parte, essere dappertutto, equivale a non essere in nessun punto, ed eccettuati alcuni santi, la massa non arriva a comprendere come mai possa generare l’intimità (la vita interiore) una presenza impersonale, difficile a concepirsi, la stessa per il peccatore e per il giusto, che risulta unicamente dal fatto della creazione. » Dio, inoltre, è presente d’una presenza tutta speciale, in cielo. Ma è così lontano il cielo! Occorre una grande potenza d’astrazione per crearsi una intimità che non distrugga questa distanza enorme e perpetuamente esistente. Ciò valga per S. Tommaso, di cui dicono i contemporanei che camminava cogli occhi sempre rivolti al cielo, assorto nella contemplazione divina. Valga per S. Ignazio di Loyola che Lainez paragona a Mosè, perché pareva che parlasse faccia a faccia con Dio, e amava pregare, come dice il Padre Noceet, sui punti più elevati della casa, in cui abitava, in modo così di trovarsi più vicino al cielo. – » Dio è presente nell’Eucarestia, e questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più palpabile. Vediamo e sentiamo qualcosa che la garantisce alla nostra povera natura sensibile. Ciò che vediamo e gustiamo, è semplice apparenza; la realtà sfugge alla nostra percezione, ma questo poco basta a sostenere la nostra fede che sotto queste apparenze adora la realtà divina. E poi, la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; ed io non posso fare della mia vita una visita perpetua al Santissimo Sacramento.

» Oltre queste tre maniere di presenza di Dio, ne esiste un’altra, molto più feconda, dal punto di vista che trattiamo. « Dov’è Dio? — fu chiesto a un fanciullo. — Nel mio cuore. — Chi ve l’ha messo? — La grazia. — Chi potrebbe cacciarnelo? — Il peccato. Queste risposte di un fanciullo, mentre mostrano una grande conoscenza della vera vita cristiana, riassumono la dottrina che ci sembra produrre l’intimità al suo ultimo grado.

» Di tutte le nostre attitudini, la più singolare è quella di saper passare accanto al meraviglioso, senza punto curarcene. La bellezza morale della vita di una sacrificio di una suora, lo splendore della Chiesa, la grandezza del Sacerdote chi la vede? Ma anche noi, noi Cristiani, siamo maestri nell’arte di non curarci affatto delle splendide realtà che portiamo con noi.

» Domandate a un battezzato che definisca lo stato di grazia. Vi risponderà: — Lo stato di grazia consiste nel non avere peccati mortali sulla coscienza. — Insistete: — Unicamente in ciò, secondo voi? — Si; non è forse sufficiente…? — Nella vostra spiegazione vedo bene che possedere lo stato di grazia significa non avere qualche cosa. Ma non vorrebbe anche dire: Avere… — Avere che cosa?… — Ecco, state bene attento: Dio presente e vivente in noi.

» È il dogma della Chiesa, la definizione del Catechismo, né più né meno ».

Fin qui il P. Plus.

DOTTRINA POCO NOTA.

Come si vede facilmente, questa dottrina è per noi consolantissima. Tuttavia, benché sia condizione fondamentale della nostra santa Religione, benché fonte della vera vita d’unione con Dio e germe di sicuro sviluppo e delle più grandi consolazioni è praticamente, quasi sconosciuta o, almeno, non produce tutti quei frutti che se ne potrebbero attendere. — Perché? Per molte cause. Una di esse è… la paura di parlarne per una specie di rispetto umano, quasi si trattasse di una dottrina e d’una pratica molto difficile e riserbata a poche anime. Il non parlarne produce l’inevitabile ignoranza. — Il Card. Mercier, nel 1914, pochi mesi prima della grande guerra, predicando gli esercizi spirituali ai sacerdoti della sua diocesi, così diceva: «È una verità che Dio vive in noi… Molti battezzati ignorano quel mistero profondo e, per tutta la loro vita ne rimangono come estranei… I Sacerdoti, cioè a dire quelli stessi ch’ebbero la missione divina di predicarlo al mondo, se ne lasciano distrarre, non vi pensano punto, e quando lo si richiama alla loro memoria, se ne meravigliano… Convenite, dunque, nel credere che Dio non vi abbandona finché, per il peccato mortale, voi non lo costringiate a fuggire. Fate atti di fede volontari, espliciti, frequenti a questa presenza reale e stabile di Dio dentro di noi stessi. Non ricercate Dio al di fuori, ma dentro voi stessi ov’Egli abita per voi, dove vi chiama, vi aspetta e soffre delle vostre dissipazioni e dimenticanze ». Tutti dobbiamo saperlo, ricordarlo a noi stessi, vivificarne il ricordo agli altri: noi siamo il Tempio di Dio vivente e portiamo Dio nel nostro cuore: per questo dobbiamo camminare alla sua presenza, vivere una vita degna dell’ospite che ci accompagna ovunque e, dovunque, ci vede.

MEZZI PER VIVERE ALLA PRESENZA DI DIO. – IL MISTERO DELL’INCARNAZIONE.

Sono diversi:

1) Molte anime ricche d’immaginazione e facilmente impressionabili, giungono presto a isolarsi nell’intimità con Dio, pensando e contemplando il mistero della divina incarnazione. La santa umanità di Gesù Cristo le attrae, le eleva, le assorbe. Ora esse si trovano co’ pastori a Betlemme ed ora coi Re Magi, ora seguono Gesù sul Calvario ed ora sul Tabor; ripassano, cioè, la vita di Gesù nel loro spirito e cercano di fare tutto con Lui, per Lui, in Lui, e, per quanto è dato loro, come Lui. Di questo bellissimo metodo ci è maestro San Francesco d’Assisi. « L’Incarnazione, narra il suo biografo, pareva a lui, come a S. Paolo, il gran mistero di pietà in cui debbono incontrarsi Dio e l’uomo. Non l’aveva, forse, iniziato alla vita il Crocifisso colla sua parola e col suo esempio? Egli conosceva a fondo il Vangelo. La sua immaginazione delicata scopriva negli atti del Salvatore una folla di particolari che sfuggono a quelli che hanno una tenerezza meno sveglia. Tutta la vita di Gesù s’era disegnata e animata a poco a poco sotto il suo sguardo. Egli aveva compreso che Nostro Signore, prendendo la nostra natura e vivendo della nostra vita, ci eccitò con ciò stesso a camminare sui suoi passi e a imitare i suoi esempi. L’imitazione del Salvatore spinta il più lontano che sia possibile, gli era apparsa la legge della vita ».

LA SANTA GRAZIA.

2) Le anime austere, forti, molto portate alla riflessione pensano alla presenza di Dio in noi per mezzo della sua santa grazia. Di questo abbiamo già detto precedentemente. Ci limiteremo riferire qui quanto riguarda questa presenza; dice l’Imitazione di Cristo:

« Chi mi darà, o Signore, di trovarvi solo e di aprirvi tutto il mio cuore e di godere di Voi come desidera la mia anima? Ciò che io chiedo, ciò che bramo, è di essere unito a Voi interamente; e che io sia in Voi e Voi in me, e che questa unione inalterabile, Voi siete il mio diletto scelto fra mille, nel quale la mia anima trova le sue compiacenze e nel quale vuole dimorare per sempre… Allora Dio mi dirà: se tu vuoi essere con me, Io voglio essere con te. E io gli risponderò: degnatevi o Signore, di abitare con me: io bramo ardentemente di stare con voi, tutto il mio desiderio è che il mio cuore sia unito a voi” (De Imit. Chr., IV, XIII).

DIO CREATORE E CONSERVATORE.

3) Accanto a questi due primi mezzi, o metodi, che non sono facilmente raggiungibili da tutte le anime, ve n’è un terzo, ed è quello che ci fa pensare a Dio nostro Creatore e conservatore. Quale e quanta fu la bontà del Cuore divino nel pensare a me quando mi creò dal nulla! Quale e quanto grande è la bontà misericordiosa di Gesù nel conservarmi in vita, cioè nel ripetere in ogni istante come una nuova creazione del mio povero e miserabile essere!

« OMNIS MUNDI CREATURA… ».

4) Un quarto mezzo ci è dato dallo splendore delle cose create che ci parlano del Creatore. Come dice elegantemente San Paolo, le cose visibili sono fatte per trasportare al loro Autore invisibile. Non possiamo qui non ricordare quanto, anche in questo, fosse saggia maestra la buona mamma di don Bosco. È don Bosco stesso che narra: «In una bella notte stellata, uscendo all’aperto, mostrava il cielo e diceva: “È Dio che ha creato il mondo e ha messo lassù tante stelle. Se è così bello il firmamento, che cosa sarà del Paradiso?” – » Al sopravvenire della bella stagione innanzi ad una vaga campagna, ad un prato tempestato di fiori, al sorgere di un’aurora serena o allo spettacolo di un roseo tramonto, esclamava: Quante belle cose ha fatto il Signore per noi!”. – » Se si addensava un temporale e al rimbombo del tuono i fanciulli si aggruppavano intorno a lei: Quanto è potente il Signore, ripeteva, e chi potrà resistere a Lui? Adunque, non facciamo peccati!”. – » Quando una grandine rovinosa portava via i raccolti, recandosi coi figli a osservare il guasto: “Il Signore ce li aveva dati, osservava, il Signore ce li ha tolti. Egli ne è il Padrone. Tutto pel meglio, ma sappiate che pei cattivi sono castighi e con Dio non si burla!” – » Quando i raccolti riuscivano bene ed erano abbondanti: “Ringraziamo il Signore, ripeteva. Quanto è stato buono con noi, dandoci il nostro pane quotidiano”. Nell’inverno, quando erano tutti assisi innanzi ad un bel fuoco, e fuori era ghiaccio, vento e neve, non mancava di far riflettere alla famiglia: “Quanta gratitudine non dobbiamo al Signore, che ci provvede di tutto il necessario; Dio è veramente padre: Padre nostro che sei nei cieli!” ». – Questo modo speciale di sentire la natura e di vedere, in essa, Dio, non può essere disgiunto, è appena necessario il dirlo, dalla pratica della vita cristiana. – Mamma Margherita così parlava perché aveva il vero senso cristiano della vita. Questo stesso modo di sentire debbono avere i genitori nell’educazione santa dei loro figli. I frutti non potranno tardare. Non c’è colore di mare o di cielo, non profumo di fiore o di terra, non saporosità di frutto che possa sfuggire all’occhio e al cuore del fanciullo. Alla sua fantasia il giglio dei campi raggia come un calice, la spiga appare, nello steccato dell’arista, come una fortezza, e l’uva esulta nella molteplice corona delle sue foglie tripartite come una regina splendente di oro e di porpora. E l’acqua, a volta a volta, si tramuta: giallo oro tra le arene, spumeggiante tra gli scogli, verdastra tra i boschi, colorita tra i fiori, luminosa tra i gigli, rutilante tra le rose, scorrevole tra le erbe, torbida nella palude, nitida nella fonte, oscura nel mare. Ma orecchio e spirito ancora più intento il fanciullo ha per il canto: canto di usignolo nella notte, canto di gallo si primi albori, canto di eremita in isola deserta a gara con le onde, canto di popolo in chiesa… Oh! aveva ragione S. Ambrogio di esclamare: Omnis mundi creatura quasi liber et pictura! Libro e pittura di… Dio!

MEZZI CONVENZIONALI.

5) Giova pure moltissimo ad attivare la presenza di Dio in noi, il far uso dei mezzi convenzionali; ricordando, cioè, per esempio, la presenza di Dio al suono delle ore, od ogni volta che squillano i sacri bronzi, quando si fissa lo sguardo sul Crocifisso e… in mille altri modi che l’amore sa suggerire. In questi casi è buona cosa il recitare una pia giaculatoria, l’esprimere un atto di amore o di dolore, di detestazione del peccato, uno slancio dell’anima verso il Cuore divino di Gesù oltraggiato. « Questi slanci interni, dice San Francesco di Sales, non impacciano affatto, ma facilitano l’esecuzione di ciò che facciamo. Il viandante che prende un sorso di vino generoso per confortare il cuore e rinfrescare la bocca, benché si fermi un istante, non interrompe per questo il suo cammino, ma prende forza per compierlo più speditamente e più comodamente, non fermandosi se non per meglio camminare ».

LA LITURGIA E LA PREGHIERA.

6) Altro mezzo efficacissimo, è la conoscenza della liturgia e del suo spirito. Per essa tutto è indirizzato a Dio, tutto ci parla di Dio, delle sue perfezioni, de’ suoi benefici, del suo amore infinito, della sua tenerezza paterna, e in tutto troviamo la porta che ci conduce a Dio. « La liturgia, dice lo Chautard nel suo magnifico libro “L’anima dell’Apostolato”, è una scuola della presenza di Dio ». – Ancora. Dio è vicinissimo a quelli che lo pregano; anzi, se due o tre si raccolgono per pregare Egli ha promesso che si troverà subito in mezzo a loro. La Sacra Scrittura c’insegna che gli occhi di Dio sono rivolti a quei che lo temono e le sue orecchie sono sempre tese ad ascoltare le loro preghiere.

VANTAGGI PER L’ANIMA CHE VIVE ALLA PRESENZA DI DIO. – STIMA DELL’AMORE DIVINO.

1) Il primo, inestimabile, immensurabile vantaggio è la stima dell’amore divino, è l’aumento dell’amore, è la conoscenza e l’acquisto dell’amicizia con Dio. « Conforto di questa vita, dice S. Ambrogio (De off., I, 3), è che tu abbia l’amico a cui aprire il tuo cuore, a cui comunicare i tuoi segreti, che nelle prospere cose si rallegri teco e nelle tristi ti consoli ». Ma quale migliore Amico di Gesù. nel Santo Tabernacolo e ospite nella nostra anima? Il suo Cuore dolcissimo e nel tabernacolo e in noi « partecipa in grado eminente e senza alcuna imperfezione, nella sensibilità dell’umana natura. Anch’Egli prova un bisogno intenso d’amicizia: Iste Sponsus non modo amans, sed amor est » (Manete in dilectione mea – pag. 42).

2) Altro vantaggio della presenza di Dio è il distacco dal nostro «io» e dalle cose create. Questo vantaggio scaturisce limpidamente dal primo, dall’amicizia con Dio; cioè, più praticamente: il pensiero della presenza di Dio allontana dal male e rafforza nel bene.

Proprio per questo il santo don Bosco, ha disseminato sulle pareti delle sale di studio e di scuola cartelli con le parole: Ricorda che Dio ti vede, o: Dio mi vede, o: Dio ti vede. E non solo sulle pareti delle sale, ma su le stesse pareti della Casa e sugli archi dei corridoi perché il pensiero della presenza di Dio divenisse famigliare, e, quindi, santamente educativo e preservativo. Com’è umano che la presenza d’una persona costituita in dignità e in autorità imponga, ed ottenga, il rispetto, così, e tanto più, impone ed ottiene l’osservanza della legge di Dio, l’astensione dal peccato, l’aumento dell’amore di Dio, il pensiero della sua presenza. È nota l’esortazione di Seneca ai suoi discepoli; procurassero cioè: «di vivere sempre come se fossero sotto gli occhi di un personaggio potente e virtuoso ». E così diciamo delle parole di Virgilio a Dante: … se tu avessi cento larve / sopra la faccia, non mi sarien chiuse / le tue cogitazion quantunque parve (Purg., XV, 127-9).

DIO VEDE TUTTO.

Ma lo sguardo di Dio è assai più fine, più perspicace, più penetrante: Dio vede tutto. Egli vede gli affetti del cuore, co’ suoi movimenti e mutamenti; le pieghe del nostro spirito, la varietà e l’agilità del nostro pensiero; le inclinazioni della volontà e quelle della natura… Nulla gli sfugge e, perciò, tutto gli è sottomesso. – Se è così, come oseremo noi operare, parlare, pensare, giudicare, condannare, assolvere, quasi che Dio non ci vedesse? Dobbiamo, adunque, vivere con sentimenti conformi alla santità della sua presenza. – L’eremita Pafnuzio a chi lo tentava di peccato: « Volete che faccia il male? — disse — conducetemi in un luogo dove Dio non mi veda ». Dichiarazione precisa e ricca del più alto significato. Noi siamo più immersi nella presenza di Dio di quanto sia inzuppata d’acqua una spugna che giace nelle profondità marine. Occorre, quindi, vigilare su di noi stessi, giorno e notte, per non offendere Dio, mai, in nessuna maniera, poiché Egli è un padre affettuoso dal quale tutto abbiamo ricevuto e riceviamo: « Si dà quasi la definizione del vero Cristiano, disse il Card. Newman, quando lo si dice un uomo assorbito dal sentimento della presenza di Dio in lui…, un uomo che vive in questo pensiero: Dio è qui, nel centro del mio cuore: un uomo la cui coscienza è illuminata da Dio così che egli vive nell’impressione abituale che tutte le sue pene, tutte le fibre della sua vita morale, tutti i suoi motivi, tutti i suoi desideri, tutti i suoi sentimenti sono noti a Dio, più che non a se stesso ». – E se Dio è con noi, chi può essere contro di Dio? Fede, fiducia, confidenza, amore, abbandono nella santa presenza di Dio. Ecco la strada regia.

LE VIRTÙ CRISTIANE (18)

LE VIRTÙ CRISTIANE (18)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO – Card. Arcivescovo di Capua, Tipografia liturgica di S. Giovanni – Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay – MDCCCXCVIII

PARTE IIIa

CAPO VII

LA SESTA BEATITUDINE

La Virtù della Purità.

Dall’amore buono che vive nel cuore umano, come da nobilissima fonte, rampolla la virtù cristiana della purità; una virtù celestiale che accosta gli uomini agli Angeli. E di questa virtù appunto parlò il divin Maestro allorché disse: Beati coloro che hanno il cuore puro. Soavissima parola anche questa, e che ha consolato tante anime, e ha nobilmente purificati e santificati tanti amori! La virtù della purità si può considerare in due modi; e all’uno e all’altro modo mirò indubbiamente Gesù Cristo, nell’annunziarci la beatitudine dei puri di cuore. Il primo modo è generico; e allora la purità, intanto che risiede nel cuore, accompagna tutti gli amori buoni di qualunque natura essi siano. Come diciamo puro il cielo, che non sia offuscato da nubi, e puro il fonte, che non sia intorbidato da fango e da altre materie estranee; così è puro l’uomo, il quale, in ciascuno dei suoi amori, non ha né nubi che ne offuschino il candore, né fango che ne intorbidi la chiarezza. Questa purità, al pari di tutte le altre virtù, non entra nel nostro cuore, se prima la mente non s’illumini della idea di essa, e non diffonda la sua luce illuminatrice  nel cuore. La mente ci fa dapprima conoscere dove è il sommo Bene, nel quale posseduto, si acquieta interamente il nostro cuore, e quali sono i varj beni particolari e parziali, e quale l’ordine e il valore di ciascuno. Allora, quando il cuore ama il Bene sommo sommamente e come ultimo suo fine, e ama i beni particolari, secondo il pregio e l’ordine di ciascuno, e senza separarli dal primo Bene, esso cuore è puro. E anche allora il cuore così amante manda fuori un delicato profumo, che arriva a coloro, che o sono egualmente puri anche essi, o almeno hanno nell’anima vivo il desiderio della purità. Infine, per la grande unità che Iddio pose nell’uomo, sempre che in lui il cuore è puro, sono egualmente pure. la mente, l’immaginazione, la memoria e la parola: anzi la purità del cuore si riflette e trasparisce negli atti esteriori e in tutta la vita del Cristiano puro. Di cotesta purità parlano spesso i Libri ispirati e i Padri della Chiesa. E ciò con ottima ragione; perciocché, tra le virtù cristiane, la purità è ottima e nobile disposizione a salire alle stelle, e più chiaramente alla visione di Dio, secondo le parole stesse di Cristo: perciocché essi vedranno Iddio. Onde mi riesce assai bello e opportuno l’elogio, che della purità del cuore si legge in quel libriccino tutt’oro che è la Imitazione di Cristo: “Se tu fossi dentro buono e puro, ogni cosa vedresti senza alcun impedimento, e in bene la riceveresti. Il cuore puro e mondo trapassa col pensiero il cielo e l’inferno… Se gaudio si trova nel mondo, certamente si trova nell’uomo puro di cuore… Siccome il ferro messo nel fuoco, perde la ruggine e tutto diventa rosso; così l’uomo, che si converte a Dio interamente, è spogliato d’ogni pigrizia, ed è trasmutato in un nuovo ordine”.(Imit. Cr. II, 4, 2). Però sant’Agostino, dopo di avere insegnato che Iddio si vede soltanto con l’occhio del cuore, aggiunge. “In quella guisa che la luce terrena non si vede, se non dall’occhio sano e puro; così Dio non lo si vede, se non quando è mondo quel cuore, con cui solo si può vedere ”, (Lib. I, De Serm. Domini). – Ma la virtù della purità ha il più delle volte un significato più particolare; ed allora, come insegna S. Tommaso, prende anche il nome di castità, che è quanto dire di virtù castigatrice della concupiscenza. Iddio, nel creare l’uomo, pose in lui l’appetito concupiscibile, cioè la tendenza dell’animo verso ciò che apprende come dilettoso. Se l’uomo fosse rimasto nella primitiva innocenza e giustizia, il concupiscibile, anche in quella forma d’amore, nella quale entra il senso, sarebbe rimasto soggetto alla ragione e al libero volere di ciascuno, e altresì pieno di temperanza, d’ordine e di serenità. Ma il peccato d’origine che ferì malamente tutto l’uomo, lo ferì in modo particolare in quell’amore in cui entra il senso. L’appetito del concupiscibile per questo rispetto diventò concupiscenza; quella concupiscenza, dico, che, secondo l’insegnamento cattolico, non è di per sé peccato, ma trae origine dal peccato e al peccato inclina l’uomo. (Concil. Trid. Sess. V, com. 5).Ora la virtù che castiga il disordine della concupiscenza, e la infrena, la governa, la tempera, la tiene ordinata e soggetta alla ragione e a Dio, essa è la purità. – Dalle cose dette si vede a prima giunta che la purità, dovendo castigare e infrenare una possente e ribelle inclinazione umana, riesce di per sé una virtù particolarmente battagliera. È quindi la virtù dei forti e degli animosi. I moralmente fiacchi e vili, il più delle volte, non arrivano neanche ad intenderla; talora anzi (oh miseria e accecamento grande dell’umana natura!) arrivano a crederla impossibile. Ben è vero che le battaglie della santa purità cristiana quasi sempre sono ignote a tutti, meno che a colui che le combatte: di esse non si vede nulla o pochissimo esteriormente, ché la lotta della purità si sostiene e si vince soprattutto nella mente e nel cuore, per effetto di preghiere, di mortificazioni, di digiuni, di penitenze quasi sempre ignorate. Ma ciò non toglie che siano lotte dure e incessanti, mercè le quali però l’uomo, come l’oro nel crogiuolo, si purifica e si perfeziona. – Il Cristiano, che voglia essere puro, rassomiglia a chi, volendo salire un alto monte, incontra molti ostacoli per via, e sa di doverli con l’ajuto della divina grazia combattere e vincere. Questi ostacoli sono di vario genere; ma, secondo san Tommaso, si possono ridurre a tre. Il primo è il corpo stesso di chi vuol’esser puro: il secondo sorge dall’animo suo: l’ultimo dalle persone che gli sono intorno. Sono dunque tre i nemici che ci stanno di fronte, e tre le battaglie, che dobbiamo combattere animosamente, e che vinte ci fanno puri, e ci dànno dritto a giungere in quel regno, nel quale non entra niente che sia contaminato. Ma in prima, come mai il nostro corpo ci è diventato nemico e perché? Scrivendo io, più avanti della virtù della temperanza, mi accadde di citare un testo di San Paolo, che qui mi è forza di ripetere. Esso è della lettera ai Romani al Capo VII ed è di questo tenore: “Io trovo nel voler fare il bene esservi anche questa legge che il male mi sta dappresso. Imperocché mi diletto della legge di Dio, secondo l’uomo interiore. Ma veggo un’altra legge nelle mie membra, che si oppone alla legge della mia mente, e mi fa schiavo della legge del peccato. Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?” Or la liberazione da questa legge dei bassi appetiti del corpo mortale, san Paolo non la cerca, come altri potrebbe credere, nel lasciare il corpo alla terra, uscendo dalla vita presente, e addormentandosi placidamente nel Signore; ma la cerca e la spera da Gesù Cristo in questa vita terrena, dicendo: Mi libererà la grazia di Dio per Gesù Cristo Signor nostro. Ora lo stesso san Paolo c’insegna che questa grazia liberatrice si ottiene, rendendo di nuovo servo dello spirito e di Dio quel corpo che pel peccato si è costituito signore e tiranno di tutta l’anima. Però egli stesso dice di sè: “Io castigo il mio corpo, e lo riduco in servitù, affinché mentre che predico agli altri, non diventi reprobo io stesso” (I Cor, IX, 37). – Poiché dunque v’ha in noi una legge del corpo, che combatte contro la legge dello spirito, è per vincere in questa battaglia che il Cristiano, come fu detto avanti, digiuna, veglia le notti orando, fa penitenza, si flagella, si astiene da molte cose, e si castiga nel corpo per varj modi. Tutte queste varie mortificazioni sono le armi nostre per attutire l’insolenza degli appetiti sensuali del corpo, e fare che lo spirito ritorni suo re: sono le armi particolarmente necessarie per vincere nella battaglia della santa purità, la quale, senza dubbio, è la più difficile e pericolosa, tra quante l’uomo ne ha da combattere in questa vita terrena. – Ma, intanto che il Cristiano, per essere puro, soggioga e mortifica il proprio corpo, non ha da dimenticare che anche l’animo suo, guasto ed eccitato, com’è, spesso dal corpo, gli muove guerra. Dal fondo dell’uomo inferiore, dove gli appetiti sensuali sono possenti, sorgono alcune vampe fosche di pensieri e di desiderj impuri, che arrivano alla parte superiore dell’anima, e stranamente la turbano. Assai delle volte la mente, la memoria; la fantasia, dimentiche di Dio e del retto ordine della ragione, accolgono amichevolmente quelle vampe impure, e ne prendono diletto ahi! senza pensare che sono apportatrici di morte. Le cose impure pensate, le ripensano, e nuovamente le desiderano, le ricordano, le immaginano. Così l’amichevole accoglienza e il diletto voluto rendono più roventi e pericolose le impure e fosche fiamme dell’impurità, che dal corpo salgono all’anima, e nell’anima divampano più accesamente. D’altra parte l’uomo che vuol essere cristianamente puro, in questa battaglia contro il demone dell’impurità, si eleva con tutta l’anima a Dio, eterna Verità, Bontà e Bellezza. La mente pensa a Dio infinitamente buono e misericordioso; il cuore ama Iddio, come primo ed eterno Amore; la memoria ricorda gl’innumerevoli benefizj da Lui ricevuti; la fantasia lo vede, che infinitamente bello e splendido le si affaccia innanzi. – Insomma Iddio, umilmente e pietosamente pregato dal credente che vuole essere puro, diffonde con la sua presenza, e con la sua grazia un soffio possente di casti pensieri e affetti nell’anima, e il soffio divino smorza e annienta le fosche fiamme dell’impurità. Per vincere dunque questo vizio; bello e santo è soprattutto il pregare e il meditare. – Ma, come insegnano i Padri della Chiesa, le nostre orazioni e meditazioni riescono assai più efficaci, quando ad esse si unisca la lettura dei santi libri della Bibbia divinamente ispirati, onde san Girolamo scrisse: “Ama i libri delle Scritture, e non amerai i vizj della carne”. Però è una vera onta per i Cattolici, il pensare che la Bibbia sia più letta dai protestanti che non da noi. Il credere che questa lettura ci sia proibita, è un volgare pregiudizio, mille volte sfatato. La Chiesa ha giustamente voluto che si leggesse dai suoi figli la Bibbia, con quei commenti che c’impediscono d’interpetrarla malamente e a capriccio; ha voluto impedire presso i suoi figliuoli ciò che è accaduto ai protestanti; tra i quali le interpretazioni, anche dommatiche, dei sacri libri variano all’infinito: ciò ha voluto e niente altro. Del resto, uscendo di digressione, è certo che in nessun libro del mondo tutta la natura creata parla sempre e in modo mirabile di Dio, come nella Bibbia; in nessun libro del mondo il pensiero, le perfezioni e la provvidenza di Dio entrano in ogni cosa come nella Bibbia. Però la Bibbia, e particolarmente il nuovo Testamento, e i Libri sapienziali dell’antico, riescono all’anima, come il soffio di un’aria celestiale e balsamica che vince tutti i foschi pensieri e desiderj della impurità. – A questo supremo pensiero di Dio, nutrito dall’orazione e dalla Bibbia, vengono anche in ajuto nel Cristiano, per viver casto, molti altri pensieri o affetti umani di per sé buoni; i quali anch’essi ci distolgono da’ pensieri impuri, e ci ajutano a vincerli. Quante ricordanze soavi e innocenti, quanti dolci e casti affetti, quante immagini dei piaceri che provammo, per esempio, tra i campi, tra i monti, tra i fiori, in una bella notte stellata, all’ora del sorger del sole o di un bel tramonto, si possono cercare o richiamare alla mente contro il demone dell’impurità! Però San Paolo c’insegna così: “Pensate, o fratelli, tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che ci rende amabili, tutto quello che ci fa buon nome, tutte le virtù …; e il Dio della pace sarà con voi”. (Ad, Phil. IV, 8, 9). – La virtù della purità che, come fu detto, è supremamente battagliera, incontra un altro nemico fuori di noi, il quale si aggiunge agli altri due e li punge, li stimola e li rende possenti. Questo nemico (oh quanto è doloroso il pensarlo!) lo si trova in quegli stessi uomini, che dobbiamo amare, come fratelli, e in quelle stesse donne, alle quali dobbiamo voler bene, come a sorelle. Tanto è profondamente guasta, per questo rispetto, la natura umana, che quell’attraimento scambievole, il quale dovrebbe servire alla carità e agli affetti onesti, ahi spesso riesce occasione e incentivo di peccato! L’uomo, se non sia pudico, cauto, prudente e pio, riesce un pericolo per la donna: e la donna egualmente per l’uomo. Però chi voglia vivere nella santa purità, oltre alle cose dette, ha da essere amante del pudore; ha da avere lo sguardo, l’atto, l’andare modesto; dev’essere cauto nel conversare, se uomo con donna, se donna con uomo. Ancora, fugga le occasioni prossime dell’impurità, e soprattutto viva, per questo rispetto, in continuo timore; perciocché il timore in questa lotta è vera sapienza, essendo certo che in nessuna materia la natura umana è tanto fragile, quanto in questa. Ma di ciò basti; ché il dirne più a lungo e con maggior particolarità appartiene piuttosto all’ascetica o a chi regge le coscienze particolari. – Parlando io delle altre beatitudini, mi venne fatto di notare che ciascuna di esse prende una forma nuova e assai più bella in coloro che si sforzano di essere perfetti. Ora il medesimo s’ha a dire della purità; la quale nei perfetti è purità verginale, purità dico che non solo rifugge da ogni peccato grave contrario, ma si tiene anche lontana dai casti amori coniugali; purità, che arriva a tant’altezza, non per fini umani, ma per consacrare tutto l’uomo alla carità di Dio e del prossimo. I Pagani, benché avessero un concetto assai imperfetto della castità verginale, nondimeno la venerarono e la tennero in pregio. Presso i Greci si voleva che la sacerdotessa di Apollo fosse vergine, e vergini erano stimate le Sibille. I Romani credevano venerande le loro Vestali vergini. Quanto ai Giudei, molti credono che all’avvicinarsi dei tempi cristiani nascesse presso di loro anche la venerazione per la verginità perpetua. Ma essi, certo, tennero in grande onore la castità delle vedove; come si scorge sull’esempio memorabile di Giuditta, a cui il gran sacerdote Joachim disse: “Perché tu hai amata la castità, e, dopo il tuo marito, non hai conosciuto altro uomo, per questo la mano del Signore ti ha fatta forte, e per questo sarai benedetta in eterno.!” (Judith. VIII, 6 e segg.). Ma l’onore e il pregio del bel fiore della verginità crebbero infinitamente nel Cristianesimo, il quale ne fece una virtù celestiale e angelica; e vi contribuirono potentemente due motivi. Il primo è insegnare e il professare che la più gran donna, che sia stata o che sarà mai nel mondo, la donna che meritò di esser Madre di Dio, fu un miracolo singolare di verginità. L’altro, che il concetto della verginità fu sposato all’idea d’un nobilissimo sacrificio, che l’uomo o la donna fanno dell’amore sensuale anche onesto, per incelarsi interamente nell’amore di Dio e del prossimo. In ciò sta tutta la bellezza e tutto lo splendore della verginità cristiana; onde risulta che chi non la intende così, non è atto a comprenderla. E poiché a questo sacrificio si richiede, che l’uomo o la donna siano così padroni del proprio corpo, da poterlo, per questo rispetto, avere come se non lo avessero; ne segue che la verginità equipara l’uomo o la donna all’Angelo; e però è giustamente detta virtù angelica. Per questa medesima ragione è virtù soltanto di pochi, benché la luce della sua bellezza si rifletta anche nella vita cristiana dei coniugati, e contribuisca a renderli casti. Ancora, poiché la verginità non si appaga dell’onesto, ma lo sorpassa, essa non è secondo la natura, ma la sorvola ed è più alta di essa. Da ciò segue che la castità verginale abbia bisogno di una luce e di una forza di grazia sovrabbondante. – Insomma il candore verginale, dalla Bibbia paragonato a un giglio tra le spine, è un tesoro che noi portiamo in vasi fragili, un tesoro che c’è dato da Dio, e che si custodisce con l’avere sempre la mente, la memoria, la fantasia e il cuore in Dio. – Gesù benedetto fece grandi elogi di questa virtù nel Vangelo; e san Paolo la lodò pur molto, dichiarando però apertamente, che essa era, per i figliuoli della Città di Dio, un consiglio evangelico, non punto un precetto. I Padri della Chiesa non si stancarono mai di encomiarla; e di sant’Ambrogio si legge che predicava con tanto ardore ed efficacia di questa virtù, che le matrone cristiane, le quali desideravano di maritare le loro figliuole, per non vederle distolte dal matrimonio, non le conducevano più ad ascoltare le prediche del santo Vescovo. – Ed ora per conchiudere il tema della castità verginale, v’invito, carissimi lettori, a trasferirvi un tratto con la mente in Paradiso. Ascoltate come sant’Agostino parla al coro dei vergini e delle vergini, il quale, secondo che è detto nell’Apocalisse, canta al cospetto di Dio un cantico nuovo, un cantico che nessuno altro può imparare a cantare. “In cielo, senza dubbio, ei dice, voi, o eletti ed elette vergini, ben sarete veduti dai numerosi fedeli, che in questa virtù non poterono seguire con voi l’Agnello immacolato. Vi vedranno, o vergini, ma di voi non sentiranno alcuna invidia. Si rallegreranno con voi, pensando che ciò che non hanno essi, lo avete voi. Certo, quel vostro cantico è tutto proprio di voi. Gli altri fedeli, anche santi, nol potranno cantare; ma ben lo potranno ascoltare, e dilettarsi e godere di questo vostro bene tanto eccellente. Ma voi, che lo canterete e lo ascolterete insieme, (perché il canto vostro voi certo lo udite) più felicemente esulterete, e più giocondamente regnerete.’” (De S. Verginitate, cap. XXIX).