LA DOTTRNA SPIRITUALE TRINITARIA (17)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (17)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO OTTAVO

I doni dello Spirito Santo (1)

« Tutti gli atti dell’anima sono suoi e sono insieme di Dio »

1) L’azione dei doni dello Spirito Santo – 2) Spirito di timore – 3) Spirito di fortezza – 4) Spirito di pietà – 5) Spirito di consiglio – 6) Spirito di scienza – 7) Spirito d’intelletto – 8) Spirito di sapienza

.1) Lo studio dei doni dello Spirito Santo tratta delle operazioni più sublimi della vita spirituale e tocca i punti culminanti della teologia mistica. – Questa attività alla maniera deiforme che riveste le anime della « mores Trinitas » è il trionfo supremo della grazia e non si manifesta in tutta la sua magnificenza che nella luminosa sera della vita dei santi quando, essendo il loro proprio io, per dire, scomparso, pare che Dio solo si riserbi le iniziative tutte del loro agire. L’anima, introdotta in modo permanente nell’intimità delle divine Persone, partecipa alla vita trinitaria; e, secondo l’espressione di S. Giovanni, vive in « società » (S. Giov. I, 3) col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo « nell’unità » (S. Giov. XVII, 21). È la grazia del Battesimo nel suo pieno fiorire. – All’inizio non è così. Il Cristiano si muove  « in Dio » un po’ come un figlio adottivo che non ha preso ancora tutte le abitudini della sua nuova famiglia: il battezzato non possiede che imperfettamente questa vita essenzialmente deiforme e non sa ancora come condursi per vivere « alla maniera di Dio ». Bisogna dunque che le Persone divine gli insegnino a vivere in seno alla famiglia trinitaria come Dio stesso e, più specialmente « modo del Verbo », poiché la conformità al Figlio segna il culmine supremo della nostra predestinazione nel Cristo. – Il passaggio da questa maniera umana delle virtù cristiane alla maniera divina costituisce propriamente l’oggetto dell’attività dei doni dello Spirito Santo. Man mano che il battezzato procede nella vita divina e si sviluppa in lui la grazia del suo Battesimo, deve rendersi sempre più consapevole del mistero della sua filiazione divina che lo rende « estraneo » a tutto ciò che non è Dio; perché egli è divenuto veramente, secondo l’espressione di San Pietro, « partecipe della divina natura » (II Piet. I, 4) quale sussiste nella unità della Trinità. I predestinati dunque ricevono, per grazia di partecipazione, proprio la natura divina comunicata dal Padre al Verbo e da entrambi allo Spirito Santo. Il Cristiano è un altro Cristo la cui vita profonda è nascosta col Figlio primogenito nel seno del Padre per essere ivi « consumata nell’unità » di uno stesso Amore. – È di altissima, assoluta importanza, essere profondamente compresi in questa verità fondamentale. La definizione della grazia contiene, per via di rigorosa conseguenza, tutto il senso soprannaturale dell’attività delle virtù e dei doni dello Spirito Santo, che dalla grazia stessa derivano, come dall’essere la proprietà. In che modo renderci conto che la fede ci fa « partecipi del Verbo » (cfr. S. Tomm., I, q. 38, a. 1), se non si è compreso che, per la grazia della divina adozione, l’anima è divenuta, nella sua più intima essenza, conforme alla Trinità? Soltanto questa concezione della grazia, la più tradizionale ed insieme la più profonda, spiega come sotto la mozione speciale delle divine Persone, si possa vivere già sulla terra « con un’anima di eternità », « alla maniera del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo » almeno quanto lo consentono le oscurità della fede e le difficoltà della presente vita, ostacolo, questo, insormontabile all’esercizio pieno e sempre attuale della carità. La parola « partecipazione » (partecipazione formale, analogica, inadeguata) include e definisce tutte le sfumature che la vita deiforme può assumere nelle anime, dai primi passi del neobattezzato, fino agli atti più divini dei « rari perfetti della terra » (S. Tomm. III, q. 61, a. 5). Stabiliti definitivamente sulle vette dell’unione trasformante, preludio normale della vita del Cielo. La grazia, infatti, essendo, per sua legge più essenziale, ordinata alla maniera deiforme della gloria, avvia i predestinati con un progresso continuo, verso la vita perfetta ad immagine di Dio, vita della quale la Trinità beata costituisce, per ogni battezzato senza eccezione, il principio ed il modello. « Siate perfetti come il Padre » (Matt. V, 48), diceva Gesù; cioè vivete alla maniera di una Persona divina. Tutto il progresso della vita spirituale consiste nello spogliarsi sempre più di questa maniera umana di vivere virtuosamente, al fine di avvicinarsi, per via di imitazione, al movimento più intimo, più segreto, più divino, della vita trinitaria. È giungere a non più vedere le cose alla maniera umana e neppure nella luce della fede, ma solo nel lume del Verbo, e «  come Lui le vede »; è giungere ad amare divinamente senza potersi rivolgere ad un bene qualsiasi creato o increato, se non per Dio innanzitutto, per la sola sua gloria, un po’ come le Persone divine si amano tra loro e amano l’universo in uno stesso movimento d’amore. – Richiamare questi principii della più alta teologia mistica significa delineare l’azione dei doni dello Spirito Santo, il cui effetto proprio è di avviare le anime alla unione trasformante on di custodirlo in essa, rivestite dei « mores Trinitatis ». – Lo Spirito agisce dapprima lentamente, in crescendo e con delle pause; poi, se l’anima corrispomde fedelmente. Esso procede con una frequenza che si fa via via più rapida e viene a costituire alfine uno stato permanente. È il regime predominante dei doni dello Spirito Santo che trionfa nell’anime dei santi. Il modello perfetto lo abbiamo in Cristo Gesù, che in ciascuna delle sue azioni si muoveva a suo piacimento, sotto la mozione e l’influenza dello Spirito. Dopo di Lui, la « Virgo fidelis » ne costituisce il tipo ideale più accessibile alla nostra debolezza, poiché Cristo è Dio, e per questa ragione ci sorpasserà sempre all’infinito. – Questa vita mistica che è il normale sviluppo della grazia battesimale, diviene l’immediata preparazione alla vita deiforme dei beati. Anzi, la teologia osa definirla una « vita eterna incominciata ». L’anima, rivestita dai divinis moribus quanto può esserne capace una creatura della terra, se ne fa fin d’ora – come diceva suor Elisabetta –  « immobile e in pace, come se già fosse nell’eternità », vivendo in « società » col Padre, col suo Verbo e con il loro reciproco Amore. – Nella luce deiforme che le viene comunicata, l’anima vede Dio e le cose tutte « alla maniera del Verbo », come Dio, in quella Luce unica in cui il Padre contempla il Figlio e il suo Spirito, e in cui la creatura appare a ciascuna delle Persona della Trinità. Ama le Persone divine e il suo prossimo, come Dio ama Se stesso e tutto l’universo in un medesimo Spirito di Amore. Quindi, sotto l’attività deiforme delle virtù teologali, sotto la mozione dei doni, l’anima, secondo l’ardita espressione di San Tommaso, diviene « partecipe del Verbo e dell’Amore », « particeps Verbi, particeps Amoris » (S. Tomm. I, q. 38, a. 1). Si comporta veramente, fra le vicende della vita, « alla maniera di Dio » (S. Tomm., 3 Sent., d., q. 1, a. 3  « ut jam non humanitus, sed quasi Deus factus participatione operetur »), come Cristo Gesù, suoi modello, che sempre, anche nei minimi atti, era diretto dal soffio dello Spirito. – Questa « maniera deiforme », è l’effetto proprio dei doni dello Spirito Santo. Per l’anima, è la vita con Dio nell’unione trasformante, « non facendo che un medesimo spirito con Lui » (I Cor., VI, 17), non avendo né altra Luce, né altro Amore. Ma in partecipazione, bene inteso, con tutte le distinzioni che comporta la nostra individualità irriducibile di fronte all’increato. Nella coscienza del suo nulla, in cui tiene lo Spirito di Amore e di scienza, l’anima si riposa fidente nel soccorso onnipotente e salvatore che custodisce sicura la sua eterna eredità. – Le virtù cardinali, a loro volta, entrano in questa fase di trasformazione divina nella misura in cui si può scoprire in Dio il loro prototipo ideale. In Dio, la prudenza è quella provvidenza universale e tutelare che dirige il mondo, anche nei minimi avvenimenti, « con forza e con soavità » (Sap. VIII, 1). La temperanza non può esservi in Dio, perché le passioni sensitive sono assenti dalla divinità; vi è però una beata concentrazione nell’unità. Ed una misteriosa circumcessione delle Persone divine che riposano l’una nell’altra: il Padre nel Figlio, ed entrambi nel loro unico Amore, e gioiscono in comune della loro propria felicità. La forza di Dio è la tranquillità immutabile che mantiene la beata Trinità in una pace inalterabile, al di sopra delle nostre umane agitazioni. La giustizia poi, in Dio, consiste nell’osservanza benevola ma fedele delle leggi liberamente stabilite per la sua propria gloria e per il vero bene dei predestinati. – L’anima, indotta in questi « divini costumi », partecipa più o meno a questa vita deiforme che la rende così cara alle Persone divine. La « Trinità si compiace tanto di ritrovare nelle sue creature la propria immagine! ». (Lettera al canonico A … – Agosto 1902). E il Maestro che lo sapeva, ammoniva: « Siate perfetti come il Padre celeste ». – Tutte queste virtù « alla maniera deiforme » imprimono nell’anima la somiglianza con la vita stessa di Dio, mediante la grazia e le sue proprietà, l’anima entra veramente in partecipazione della Natura Increata e degli attributi divini. – La sua prudenza, disprezzando tutte le contingenze e le vanità di questo mondo, si rifugia nella contemplazione delle sole cose divine. La sua temperanza, nella misura in cui il corpo lo consente, lascia da parte tutte le gioie sensibili, anzi, non le conosce neppure più; è il « nescivi » (Cfr. « Ultimo ritiro » II) dell’anima che ha trovato il suo Dio e il cui possesso la tiene in un ardente e felice oblio di tutto il resto. La sua forza ha una certa somiglianza con l’immutabilità divina: più nulla ha il potere di distrarla o di agitarla, e tanto meno di allontanarla da Dio. la lotta non esiste più, per lei; è, nella sua vita, il trionfo pieno di Dio. tutte le sue potenze sono tese verso di Lui, per servirlo, ed adorarlo; ed essa rende a Dio, in tutte le cose, onore e gloria, vivendo con Lui nell’unità di un medesimo Spirito. L’anima, giunta a questa sommità entra definitivamente nell ciclo della vita trinitaria e sembra vivere, come Dio, « in eterno presente » (Ultimo ritiro, X). Suor Elisabetta della Trinità, lettrice assidua del « Cantico » e della « Viva fiamma », si è fermata a descrivere soltanto questi stati superiori. Non già che essa ignori o disprezzi il duro sentiero della salita del Monte Carmelo; al contrario, un ascetismo implacabile accompagna sempre, in lei, la descrizione degli stati mistici più elevati: l’anima che non è morta a tutto, che « asseconda un pensiero inutile, un desiderio qualsiasi » (Ultimo ritiro II), si preclude da se stessa la via delle alte cime, all’unione trasformante non giungono che « le anime risolute a partecipare effettivamente alla passione del loro Maestro e a rendersi conformi alla sua morte » (Ultimo ritiro, V). Bisogna tuttavia riconoscere che la tendenza del suo spirito rimane prevalentemente mistica. La sua dottrina dell’unione trasformante è quanto mai personale; e ne abbiamo l’espressione più evoluta nelle ultime sue lettere e nei due ritiri, proprio quando la sua vita era dominata da questa maniera deiforme dell’attività dei doni dello Spirito Santo. Questo carattere originale, assolutamente inconfondibile della dottrina mistica di suor Elisabetta della Trinità non deve sorprenderci; lo Spirito è essenzialmente multiforme e vi sono numerose dimore nell’unione trasformante; si potrebbe dire, anzi, di una varietà infinita, la quale costituisce una più stupenda manifestazione della gloria di Dio. ne fanno prova le descrizioni così varie che ce ne hanno lasciato i Padri e i Dottori della Chiesa, i quali hanno trattato soggetti mistici in modo diversissimi gli uni dagli altri, a seconda della propria indole, dei propri gusti, dell’educazione ricevuta, dell’ambiente. San Giovanni della Croce e santa Teresa ce ne hanno lasciato delle analisi in cui, malgrado un accordo fondamentale, si riscontrano notevoli differenze. San Tommaso d’Aquino, secondo la forma del proprio genio didattico per eccellenza, e utilizzando il pensiero di Plotino che era stato il più grande genio mistico dell’antichità, ha saputo concentrare in un articolo interessantissimo, tutto uno studio breve, ma profondo sulla somiglianza « cum divinis moribus », somiglianza che egli dice accessibile soltanto  « a qualche raro perfetto sulla terra »; in tale articolo, quasi piccola summa mistica, troviamo espresso con riassuntiva concisione il punto più elevato dell’unione trasformante. – Anche in questo punto, anzi qui soprattutto, sarebbe puerile voler chiedere a suor Elisabetta della Trinità, un insegnamento sistematico sull’esistenza, la necessità, la natura, le proprietà dei doni dello Spirito Santo, nella luce dell’unione trasformante. Compito della Carmelitana non è di insegnare in maniera dotta le vie dello spirito, ma di seguirle nel silenzio di una vita « tutta nascosta in Dio con Cristo » (Colos. III, 3). Al teologo poi, discernere il valore dottrinale di questa testimonianza e scoprirvi la realizzazione concreta dei principii della scienza mistica. . In suor Elisabetta della Trinità si verifica, sopra un fondo di anima Carmelitana, l’incarnazione vivente della dottrina classica sui doni dello Spirito Santo. – Troppo spesso ci si immagina, e a torto, che le mozioni dello Spirito Santo non siano che per i soli atti eroici e accompagnate da grazie straordinarie: puri carismi concessi talora da Dio ai suoi servi per l’utilità della Chiesa, e che importa grandemente distinguere dall’attività dei doni. Per sé, possono essere disgiunti. La Madre di Dio, che è il tipo ideale, assolutamente perfetto, dell’anima fedele, sempre docile allo Spirito Santo, non si legge che abbia mai avuto estasi, e probabilmente, durante la sua vita terrena, non compì alcun miracolo; passava, inavvertita tra le donne di Nazareth; eppure, il più semplice gesto, il minimo sguardo della Madre di Dio aveva un valore, un’importanza corredentrice superiore a tutte le sofferenze dei martiri unite insieme, superiore anche a tutti i meriti della Chiesa militante, sino alla fine del mondo. Le operazioni della grazia santificante appartengono ad un ordine infinitamente superiore, essenzialmente trinitario. Quanto più deiforme è il principio dell’agire, tanto più meritoria è l’attività; ecco perché il minimo atto di Cristo, emanando dalla Persona di un Dio, possedeva un valore meritorio, impetratorio e soddisfattorio infinito. In un sorriso e come trastullandosi, Gesù avrebbe potuto riscattare migliaia di mondi. – Questa dottrina è della massima importanza; ed è consolante vedere come i santi stessi vi insistano. Suor Elisabetta della Trinità, come già santa Teresa di Gesù Bambino, dichiara che la più elevata santità non consiste nelle rivelazioni e nei miracoli e nemmeno in una condotta straordinaria; ma nella pura fede, in una carità per quanto possibile divina ed insieme attuale, manifestata nella pratica costante e coraggiosa del dovere quotidiano. « Tutto consiste nell’intenzione; con essa, possiamo santificare le minime cose, trasformare le azioni più ordinarie della vita in azioni divine ». Non sogniamo né estasi né martirio: « Un’anima che vive unita a Dio, non può agire che soprannaturalmente e le azioni più ordinarie, invece di separarla da Lui, non fanno che avvicinarvela sempre più  » (Lettera alla mamma – 10 settembre 1906). – Parlando della Madonna, suor Elisabetta della Trinità ci ha lasciato una frase profonda che mostra fino a qual punto abbia intuita questa verità: « Le cose più ordinarie – scrive – erano da Lei divinizzate » (« il Paradiso sulla terra » – 12° orazione). E nell’atteggiamento della Vergine dell’Incarnazione, silenziosa e fedele, adoratrice del Verbo celato nel suo seno, Ella sapeva riconoscere il vero modello delle anime interiori che vogliono vivere in semplicità, docili sempre ai più lievi impulsi dello Spirito. Questo è, per lei, la santità autentica. Ma « quale raccoglimento, quale sguardo amoroso e costante a Dio, reclama quest’opera sublime! San Giovanni della Croce dice che l’anima deve starsene nel silenzio e in una solitudine assoluta, perché l’Altissimo possa realizzare i suoi disegni sopra di lei. Allora Egli la porta, per così dire, fra le braccia, come una madre porta la sua creaturina, e incaricandosi Egli stesso della sua intima direzione, regna in lei inondandola di pace serena » (Lettera a Don Ch… Primavera 1905). – « Tutti i suoi atti, pur derivando sa lei, vengono nello stesso tempo da Dio » (« Il paradiso sulla terra » 3° orazione). Essa è insieme passiva ed attiva: passava sotto la mozione divina, attiva in virtù del suo libero arbitrio. Dio non sopprime la sua attività personale, ma la dirige, la soprannaturalizza, in maniera tutta divina. Sono queste, ev0identemente, le note caratteristiche del regime mistico dei doni. – « L’anima che penetra e dimora nelle profondità di Dio cantate dal Re Profeta, e che tutto compie in Lui, con Lui e per Lui, con quella limpidezza di sguardo che le conferisce una certa somiglianza con l’Essere semplicissimo, quest’anima, con ciascuna delle sue azioni, per quanto ordinarie siano, si radica sempre più profondamente in Colui che ama. Tutta, in lei, rende omaggio a Dio tre volte santo; essa è, per così dire, un Sanctus ininterrotto, un’incessante lode di gloria ». (Ultimo ritiro, VIII). È la vita perfetta, nella docilità di tutti gli istanti al minimo soffio dello Spirito. – Un’osservazione ancora, di carattere generico. La grazia santificante reca nell’anima simultaneamente tutto l’organismo spirituale delle virtù e dei doni; ma la loro libera attività non prende lo stesso rilievo in tutti, in modo uniforme. Alcune anime sono eminenti in questo o in quella virtù particolare, mentre le altre virtù, che tuttavia sono presenti in esse ed attive non appena lo esigano le circostanze, restano di solito in seconda linea. Così, ad esempio, la forza si manifesta stupendamente nei martiri, la purità nelle vergini, la fede luminosa nella vita dei dottori, il puro amore di Dio nel silenzio contemplativo. Allo stesso modo, alcuni doni dello Spirito Santo predominano con particolare evidenza nella vita di alcuni santi: il dono del consiglio è più rilevante negli uomini di governo; il dono della scienza, accompagnato spesso dal dono delle lacrime, è più visibile negli Apostoli chiamati ad operare grandi conversioni e che si sentono profondamente commossi dallo spettacolo della miseria morale dei loro fratelli in Cristo; il dono della sapienza risplende nei grandi contemplativi i quali, elevandosi al di sopra di tutte le create cose, non vivono che per Dio solo, nella compagnia abituale delle Persone divine. Non deve sorprenderci, dunque, se nella vita e nella dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità, i sette doni dello Spirito Santo non si presentano tutti con uguale rilievo: il dono del timore, ad esempio, sembra come attenuato; altrettanto il dono del consiglio; al contrario, il dono della fortezza si manifesta luminosamente in mezzo alle sofferenze che resero gli ultimi suoi giorni terreni uno straziante calvario. Sono in lei palesi soprattutto i grandi doni contemplativi della intelligenza e della sapienza, in virtù dei quali il movimento dell’anima sua è fortemente attratto verso gli abissi della vita trinitaria. – questa analisi dei doni dello Spirito Santo ci introdurrà nelle più segrete operazioni d’amore che la Trinità svolge in quest’anima così divinamente amata.

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (18)

LA GRAZIA E LA GLORIA (16)

LA GRAZIA E LA GLORIA (16)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO V

I doni dello Spirito Santo. Il loro ruolo, la loro natura, le loro proprietà comuni e particolari.

1. – « Un germoglio uscirà dal tronco di Iesse, un virgulto sorgerà dalle sue radici. E lo Spirito del Signore si poserà su di lui: lo spirito di sapienza e di intelligenza, lo spirito di consiglio, lo spirito di scienza e di pietà. E lo spirito del timore del Signore lo riempirà » (Isai. X, 1-3). È in questi termini che il profeta Isaia descrive in anticipo la grandezza e la pienezza dei doni riversati dallo Spirito di Dio nell’umanità del Cristo. Ora, come Cristo è il nostro archetipo, così noi diventiamo, in virtù della sua grazia, membri del suo Corpo e altri “Egli stesso”: i teologi e i maestri di vita spirituale hanno concluso dallo stesso testo profetico che anche noi dobbiamo partecipare a questi stessi privilegi. Lo Spirito Santo, quando entra in noi come nel suo tempio, arricchisce la sua nuova dimora con questo spirito multiplo, in quanto siamo in comunione con la grazia, e secondo il grado della nostra incorporazione nella Persona mistica del Verbo fatto carne. Non è difficile provare in generale l’esistenza e la realtà di questi doni; si può anche dire che ci sia un consenso unanime su questo punto tra i Dottori. Ciò che è meno facile è definire il loro ruolo, le loro proprietà e la loro natura. Non voglio entrare in discussioni che ci porterebbero troppo lontano, senza un gran profitto forse. È meglio, credo, attenersi alla dottrina più comune, quella che il Dottore Angelico ha sviluppato a lungo nella seconda parte della Summa Theologica, e quella anche che i teologi, venuti dopo di lui, hanno più generalmente insegnato (S. Thom. 1. 2, q. 68, a. 1, ss.). – Se poi chiediamo a Tommaso d’Aquino quale ruolo dobbiamo assegnare ai doni dello Spirito Santo, questa è la risposta che ci viene data: i doni, nella misura in cui si distinguono dalla grazia e dalle virtù infuse, hanno come effetto e scopo il disporci a sperimentare i movimenti dello Spirito Santo. Spetta a loro rendere le anime così duttili e maneggevoli, in modo che obbediscano con prontezza ai suoi impulsi divini. – Per comprendere meglio questo ruolo speciale, consideriamo che esiste per l’uomo, nell’ordine della sua vita morale e religiosa, un doppio motore. Il primo è interno, ed è la ragione, illuminata dalla propria luce e da quella della fede; l’altro è esterno, e questo motore è Dio. Mille esempi eclatanti ci mostrano entrambi all’opera. Qui vedo un uomo che delibera, che soppesa le ragioni della sua scelta, e che infine decide, dopo un esame, di fare un certo atto virtuoso, per esempio un’elemosina. Egli è mosso dalla ragione. Lì vedo una vergine cristiana, come quella che troviamo negli atti dei martiri, che per un’ispirazione improvvisa e senza precedente deliberazione, si precipita nel vuoto, o si getta in mezzo alle acque, per sfuggire agli infami rapitori. Ella è mossa dallo Spirito Santo. Nel primo caso, l’anima è come quelle vecchie navi che avanzavano lentamente, faticosamente, a forza di remi; nell’altro, è come la nave che naviga senza sforzo, a vele spiegate, spinta da un vento favorevole. – Vogliamo fatti di tipo diverso? Nell’esporre la propria vita su un campo di battaglia, si marcerà senza dubbio, ma dopo aver soppesato le possibilità di vittoria, o dopo aver considerato attentamente il dovere e la necessità che lo costringono a combattere; elettrizzato dall’arringa e dall’esempio del suo generale, e dimentico di tutto il resto, si precipiterà istintivamente sul nemico. Chi non riconosce ancora il doppio motore di cui ci parla S. Tommaso, e non sente lo stesso. Chi non riconosce ancora la doppia spinta di cui parla San Tommaso, e allo stesso tempo intuisce ciò che distingue il ruolo dei doni da quello delle virtù morali? – Ora è giusto che il mobile sia in relazione armoniosa con il suo motore. Dio ci ha dato le virtù morali perché ci prestassimo agli ordini della ragione soprannaturalizzata dalla fede; non era forse necessario che ci desse anche perfezioni superiori che ci rendessero docili al soffio del suo Spirito divino? Queste perfezioni superiori sono state chiamate doni, non solo perché vengono a noi dalla bontà divina, ma principalmente perché hanno l’effetto di prepararci a seguire le ispirazioni di Dio con prontezza (« Oportet igitur inesse homini altiores perfectiones secundum quas sit dispositus ad hoc quod divinitus moveatur; et istae perfectiones vocantur dona, non solum quia infunduntur a Deo, sed quia secundum ea homo disponitur ut efficiatur prompte mobilis ab inspiratione divina ». S. Thom. 1. 2, q.68, a.1, in cor.). E questi doni sono attribuiti allo Spirito Santo, perché è ad Esso che la Sacra Scrittura riferisce più particolarmente le opere della giustificazione, come spiegheremo a suo luogo. – Alcuni sembrano essere stati dell’opinione che i doni dello Spirito Santo abbiano come scopo proprio e speciale gli atti eroici e sovrumani. Quanto alle opere ordinarie della vita cristiana, esse sarebbero in conto delle virtù infuse. Così le virtù e i doni avrebbero i loro dominii distinti e separati: a questi ultimi, le opere di santità perfetta, ai primi, gli atti di santità comune. Questo però non è il sentimento dei migliori teologi. Essi insegnano, è vero, che appartiene soprattutto ai doni dello Spirito Santo il fare degli eroi della virtù; ma allo stesso tempo assegnano loro una sfera di influenza pari a quella delle virtù. Ciò che fa realmente questa distinzione non è tanto il tipo di atti, quanto il modo di agire: « Dona excedunt communem perſectionem, non quantum ad genus operum, sed quantum ad modun operandi, secundum quod movetur homo ad altiori principio » (S. Thom. 1. 2, q. 68, a.1). – Non nego che la virtù possa entrare in esercizio senza che i doni siano in atto. Ci sono molte circostanze in cui le virtù infuse sono sufficienti a farci compiere atti salutari senza una speciale mozione dello Spirito Santo.  Chi dirà, per esempio, che un uomo giusto, la cui ragione è illuminata dalla fede, non possa fare il minimo atto soprannaturale di pazienza o di giustizia se Dio non lo spinge a fare con un’ispirazione esplicita e presente (V. L. VII. C. 5)? Ma ci sono anche molte occasioni in cui l’anima sarebbe impotente o ben lassa senza l’aiuto di un principio superiore, tanto grande è la nostra debolezza e fiducia in noi stessi, così frequenti e talvolta così improvvisi e vividi sono gli attacchi del demonio, del mondo o della carne. Ora la stessa necessità che richiede l’aiuto esterno dello Spirito Santo, richiede anche l’influenza dei suoi doni, poiché sono essi che predispongono le menti e i cuori a ricevere gli impulsi divini. Quali sono dunque gli atti eroici, quali sono questi istinti vittoriosi che, risvegliandosi improvvisamente nel profondo delle anime, le coinvolgono e le dominano? Una manifestazione più chiara ed eclatante dell’azione dello Spirito Santo, il motore divino, e dei suoi doni (« Licet inter actus donorum quidam qui ab ordinariis legibus exorbitant, raro fient nisi ex instinctu Spiritus Sancti, nihilominus non sunt illi adæquati actus horum habituum, sed per illos, tanquam per notiores, peculiarem modum operandi Spiritus sancti per hæc dona explicamus », Suarez, de Gratia, L. VI, c. 10, n. 6).

2. – Ciò che abbiamo appena detto sul ruolo proprio dei doni dello Spirito Santo sarà di grande aiuto per spiegare la loro natura e le loro proprietà. Prima di tutto, non sembra esserci alcun dubbio che questi doni siano in uno stato permanente nell’anima e, di conseguenza, che non assumano, allo stesso modo delle virtù, il carattere di abitudini. Come può la liberalità di Dio, che dà ai suoi figli adottivi i principi interiori delle operazioni soprannaturali, rifiutare un’uguale permanenza alle perfezioni che li dispongono ad obbedire prontamente alla sua azione? Lo Spirito Santo è in mezzo a queste anime, come un re sul suo trono: diciamo meglio, come l’artista divino nello strumento che si è formato. Non posso credere che Egli neghi loro una perfezione stabile che li renda capaci di ricevere le sue influenze divine in modo naturale e renda le loro facoltà spirituali più flessibili ai suoi movimenti. Questo è ciò che molti teologi intendono per il riposo dello Spirito di Dio sul Cristo Gesù; e, di conseguenza, sui membri viventi dello stesso Cristo. « Et requiescet super eum Spiritus » (Rom., VIII, 14, sqq.). – Ma, se i doni sono perfezioni permanenti nell’anima dei giusti, come le virtù stesse, non è questa una ragione sufficiente per identificarli con queste, o, almeno, per non vedere altra differenza tra gli uni e le altre se non una distinzione logica. Non lo negherò, ci sono teologi che hanno creduto questo. Tuttavia, non mi discosto dall’opinione di San Tommaso d’Aquino, ed ecco le ragioni che mi portano a ritenere con lui che ci sia una reale distinzione tra i doni e le virtù, sebbene queste perfezioni siano inseparabili in un’anima dove la grazia regna con la carità. – La prima è che, nell’ipotesi contraria, è impossibile spiegare perché tutte le virtù non dovrebbero essere tra i doni. La seconda e principale ragione è che c’è una differenza essenziale tra la funzione delle virtù e quella dei doni: perché, ancora una volta, attraverso la virtù l’uomo ha la ragione come motore, e Dio stesso per il dono. Ora, tale è la sproporzione di questi motori, supponendo anche una ragione abitualmente illuminata dalla fede, che la stessa perfezione non può ordinare il mobile a ricevere la loro doppia influenza. Da questo, però, non dobbiamo concludere che il dono renda le virtù meno attive e meno utili; poiché esso è infuso nell’anima solo per aiutarla, sotto l’impulso dello Spirito Santo, a compiere i suoi atti più facilmente, più prontamente e più divinamente.

3. Sono necessari per la salvezza i doni dello Spirito Santo? Questa è una questione che deve essere risolta in modi diversi, a seconda del ruolo che assegniamo loro nella vita dei figli di Dio. Se questi doni si limitassero a farci praticare atti eroici di virtù, rimarrebbero un grande beneficio della misericordia divina; ma la necessità di possederli per raggiungere il nostro fine ultimo, non potrebbe essere dimostrata. Il cielo, infatti, non è solo per gli eroi della santità, e quelli che si esporrebbero a perderlo sono abbastanza rari, perché non dovrebbero presentare al Giudice Sovrano i sacrifici che li renderebbero santi. Ma, come abbiamo già detto, l’utilità dei doni dello Spirito Santo non si ferma alle frontiere dell’eroismo. La loro sfera d’influenza è più ampia e si estende fino agl’imperfetti. Ne risulta una vera necessità? La risposta è simile a quella che abbiamo dato quando ci siamo occupati delle virtù infuse. Ciò che è assolutamente indispensabile, anche per le anime giustificate, è l’assistenza attuale e preveniente dello Spirito Santo. Se ce la ritirasse, anche se avessimo la grazia santificante e le potenze soprannaturali che la accompagnano, la nostra perseveranza sarebbe in evidente pericolo e non potrebbe prolungarsi senza il rischio di fallire. Così insegna espressamente il Concilio di Trento, e con esso tutta la tradizione cattolica (Conc. Trid. , sess. VI, can. 22). E la ragione di tale impotenza non è difficile da trovare. Senza dubbio, abbiamo nella grazia e nella virtù il principio delle operazioni con cui l’uomo arriva al suo fine soprannaturale. Ma noi non possediamo né queste virtù né questa grazia perfettamente; e, di conseguenza, è imperfettamente che conosciamo e amiamo Dio attraverso di esse. D’altra parte, tante sono le trappole e le insidie sulla strada che stiamo percorrendo, e lo saranno finché dura il tempo della prova. Ecco perché, anche con la cooperazione divina che è necessaria per le operazioni della creatura in ogni ordine e in ogni tempo, abbiamo ancora bisogno del moto preventivo dello Spirito Santo, un moto di luce, un moto di calore e di amore, per raggiungere il nostro fine supremo, e ancor più per elevarci alle più alte vette della perfezione cristiana. – Le ispirazioni e gli istinti dello Spirito Santo, per usare il linguaggio di San Tommaso, sono così necessari all’uomo giusto che il suo progresso nelle virtù e la sua perseveranza non si potrebbero spiegare senza questa assistenza divina. Ma questo stesso aiuto è ancora più necessario perché il peccatore ritorni a Dio. « Se qualcuno dice che senza l’ispirazione preventiva e l’aiuto dello Spirito Santo, l’uomo può credere, sperare, amare e pentirsi così come è necessario per ottenere la grazia della giustizia, sia anatema » (Conc. Triden. Sess. V, can. 3). E certamente, se si riflette sulle vie della provvidenza nella conversione delle anime, si vedrà quanto vivaci, quanto potenti e talvolta quanto improvvisi siano stati i soffi dello Spirito divino che le hanno riportate dalle tenebre alla luce e dalla morte alla vita dei figli di Dio. – Dovremmo allora riconoscere i doni dello Spirito Santo anche in questi peccatori, e rendere loro gli onori per cambiamenti così prodigiosi? No, perché questi doni non vanno senza la grazia santificante. Pertanto, la necessità dei doni non è la stessa di quella delle ispirazioni divine, così come la necessità delle virtù infuse non è uguale a quella degli atti soprannaturali. Ci sono di tali ispirazioni e atti prima dell’entrata della grazia nelle anime. Ma come nell’anima, una volta giustificata, gli atti soprannaturali procedono dalle virtù, così in questa stessa anima i moti celesti presuppongono i doni. Gli uni e le altre appartengono ugualmente all’organismo dei figli di Dio. Attraverso le virtù si compiono connaturalmente gli atti salutari, e attraverso i doni l’anima riceve connaturalmente gli impulsi divini. – Ho detto che i doni presuppongono la grazia, anche se le ispirazioni la precedono e la preparano. Niente potrebbe essere più corretto di questo ordine. Finché la grazia non è in un’anima, lo Spirito di Dio non vi abita. È fuori, bussa alla porta, chiama e sollecita il ribelle, a suo tempo e come di passaggio. Ma una volta che per la sua grazia ha preso possesso di quell’anima, è in essa per non lasciarla mai, a meno che essa non rifiuti l’Ospite divino che vi abita. Questa unione permanente del motore e del mobile, cioè dello Spirito Santo e dell’anima giusta, non richiede forse un adattamento ben diverso da quello che non poteva essere perfetto e duraturo nel tempo della separazione? Tanto più che, secondo il bel pensiero dell’Apostolo, il carattere dei figli adottivi è quello di essere mosso dallo Spirito Santo (« Quicumque enim Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei. » – Rom, VIII, 14).

4. – Passiamo dalle generalità ai dettagli, e chiediamoci quali siano in particolare questi doni dello Spirito Santo, che abbiamo studiato nel loro ruolo, nella loro natura e nelle loro proprietà. È comunemente accettato che ci siano sette doni dello Spirito Santo: Sapienza, intelletto, scienza, consiglio, pietà, fortezza e timor di Dio. È il settenario degli Spiriti che, secondo il profeta, dovevano poggiarsi sullo stelo di Jesse, Gesù Cristo, nostro Salvatore. I primi quattro perfezionano lo spirito o la ragione; gli altri tre, la volontà; e tutti, presi nel loro insieme, costituiscono il completamento del nostro essere soprannaturale e divino per lo stato di viatori. Infatti, cosa serve per la ragione dell’uomo, che è diventato con la giustificazione un uomo fedele, un figlio di Dio? Prima di tutto, ascoltare e penetrare le verità che la fede gli rivela; e a questo serve il dono dell’intelletto. Il solo nome di intelletto, indica una conoscenza intima della verità: esso significa leggere dentro, intus legere. La fede è un semplice assenso alla verità che crede; il dono dell’intelletto è in più una luce divina, in virtù della quale l’anima in qualche modo e come per istinto entra nell’oggetto della sua credenza per coglierne la natura, le ragioni, le relazioni e le convenienze. Qual senso profondo delle verità più sublimi si trova a volte in bambini semplici, umili rustici senza studio e senza cultura. Non è né lo sforzo né il lavoro che ha dato loro queste sorprendenti visioni delle cose di Dio; ed è per questo che, non conoscendo le cose in modo ragionato, a volte non sono in grado di renderne conto, impotenti nel tradurle a parole. Cos’è allora? È il dono dell’intelletto che li eleva allo Spirito di verità e di luce, loro dottore e maestro. – L’intelletto concepisce e penetra; ma è anche necessario giudicare e confrontare: giudicare le cose create e confrontare le une con le altre. Ai doni di sapienza e di scienza il compiere questa doppia e necessaria funzione. – La sapienza porta il suo sguardo su Dio, primo Principio e ultimo fine di ogni essere e di ogni bene che non sia Lui. Essa lo giudica per quello che è, infinitamente grande, infinitamente amabile, infinitamente santo, infinitamente perfetto. E questo non è il giudizio del filosofo, puramente speculativo, troppo spesso freddo, arido, vuoto d’amore. È il giudizio di un figlio affettuoso, amorevole e sottomesso che porta su di una madre un giudizio fatto più dall’esperienza che dalla ragione, in cui il cuore non ha meno parte della mente; un giudizio, infine, che parte dall’amore; ed è per questo che il dono della sapienza in azione può diffondere tanta dolcezza nell’anima che sa gustare le cose divine. – Ma l’influenza del dono della sapienza non finisce qui. Dopo averci fatto giudicare Dio e gustare Dio, ci fa giudicare tutto il resto alla luce di Dio. Chiunque abbia mai sfogliato il profondo e sostanzioso libro conosciuto come gli Esercizi di Sant’Ignazio, deve averlo riconosciuto nell’esercizio con cui inizia l’opera e in quello che la corona (Exercitia spiritualia S. Ignatii. Considerazioni sul fondamento e il principio. Contemplazione dell’amore divino), questo doppio giudizio della sapienza divina, con questa differenza, però, che l’ultimo esercizio, essendo una provocazione più diretta all’amore, esercita e risponde anche più completamente alla perfezione della sapienza. – Cosa fa il dono della scienza? Ci fa giudicare con certezza delle cose create, dal punto di vista delle idee soprannaturali e di Dio. La sapienza e la scienza dello Spirito Santo hanno questo in comune: giudicano le creature e Dio. Ma ecco come si distinguono. Con la scienza si sale dalle creature a Dio; con la sapienza si scende da Dio alle creature, e si giudica dalla conoscenza e dal gusto che avete di Dio, loro causa prima e fine supremo.  Volete conoscere da qualche effetto questa scienza divina? Chiedete a un uomo pieno dello Spirito di Dio del mondo, del suo bene e del suo male, dell’opulenza e della povertà, dell’onore e dell’oblio, del potere dello Spirito e della potenza dello Spirito, e vedete la differenza tra i suoi giudizi e quelli di un comune Cristiano, non di un uomo senza Dio. Ora, la scienza che viene dallo Spirito Santo, non è una questione di ragionamento e di laboriosa speculazione. Fatto a immagine e somiglianza della scienza divina, le assomiglia per la semplicità del suo funzionamento. L’anima, illuminata da questo dono dall’alto, riconosce senza sforzo in ogni creatura Dio che l’ha prodotta, Dio che la conserva, Dio che la governa, Dio che ce l’ha data perché la portassimo alla sua gloria e perché ci conducesse a sé: ed è in base a questo apprezzamento che regola l’uso che se ne fa. – Questi tre doni dello Spirito Santo, il dono dell’intelletto, il dono della sapienza e il dono della scienza, richiedono un quarto dono, quello del consiglio. Perché non basta conoscere la verità o giudicare bene delle creature e di Dio; bisogna anche applicare queste luci ai casi particolari di cui è composto il tessuto della vita spirituale. Questo è il lavoro proprio della virtù della prudenza. Ma siccome la prudenza soprannaturale è di per sé breve in molti punti, spesso ha bisogno che lo Spirito Santo la illumini con una luce speciale e ci mostri cosa dobbiamo fare nel tempo, nel luogo e nelle circostanze in cui ci troviamo. Ed è questo il senso del dono del consiglio. – I doni dello Spirito Santo non sono meno necessari per la perfezione della nostra volontà. Perciò Dio ce li ha dati così ampiamente, tanto che si estendono a tutto il campo delle virtù morali. – Attraverso il dono della pietà, lo Spirito Santo ci fa concepire per Dio quell’affetto filiale, e quei sentimenti di tenerezza, fiducia, devozione e abbandono che i figli dovrebbero avere per il migliore dei padri. Ma, poiché questo Padre è anche il nostro Dio, il dono della pietà porta l’anima a rendergli un culto in cui il più profondo rispetto si mescola alle effusioni d’amore. E questa amorosa riverenza è mostrata nella dovuta misura a tutto ciò che tocca Dio: ai Santi, alle divine Scritture, a tutti gli uomini, in quanto sono di Dio e a Dio. Così il dono della pietà completa la virtù della religione, poiché si riferisce a Dio non solo come Creatore e padrone sovrano, ma come Padre; completa la virtù della giustizia, perché vi unisce quella disposizione rispettosa e benevola che l’onore di appartenere a Dio, Padre comune della famiglia umana, esige da tutti. – Il dono della pietà ci perfeziona nelle nostre relazioni sia con Dio che con il prossimo. Gli altri due doni perfezionano la nostra volontà nei nostri doveri verso noi stessi. Per la conservazione della nostra vita soprannaturale e il suo libero sviluppo, ci sono due ostacoli da superare: da un lato, la paura delle difficoltà, dello sforzo, della fatica e dei pericoli immaginari o reali; dall’altro, gli assalti della concupiscenza e il fascino dei piaceri sregolati. È contro questi due nemici che lo Spirito Santo arma le nostre volontà con il dono della fortezza e del timore di Dio. – Con il dono della fortezza, l’anima, sostenuta dallo Spirito Santo, affronta con incrollabile fiducia i travagli, i supplizi ed anche la morte, quando la gloria di Dio lo richiede. Con quello del timore, la volontà resiste alle spinte della carne e dei sensi: resiste, dico, non tanto quanto uno schiavo che teme i giudizi di Dio, che come un figlio amorevole e rispettoso che non vuole offendere suo padre o causargli il minimo dispiacere. Non mi soffermerò ulteriormente sul carattere particolare di questi doni; essi possono essere studiati più dettagliatamente o nelle opere del Dottore Angelico (San Tommaso parla del dono dell’intelletto dopo aver trattato della fede, del dono del timore dopo la virtù della speranza ….  collegando successivamente ciascuno dei doni alle virtù che essi perfezionano e completano), o negli autori ascetici che trattano questi temi (tra gli autori ascetici segnalo P. Saint-Jure: L’Homme spirituel, 1 P., c. 3, s.16), il R. P. Meynard O.P. (Traité de la vie intérieure, L, 1, €. 7), ma soprattutto il P. Louis Lallemand, S. J. nell’opera troppo poco conosciuta che porta il titolo di Dottrina spirituale. Forse nessuno ha sviluppato questo difficile argomento più chiaramente di lui, Doct. Spir.  IV Principio, c. 3 e 4).

5. Per evitare ogni ambiguità in una questione così delicata, ricorderò due o tre osservazioni importanti. La prima riguarda la relazione dei doni con le virtù. I doni, come ho sottolineato, non sostituiscono le virtù, non tolgono la loro utilità. Il loro ruolo è quello di aiutarle e completarle: in adjutorium virtutis, dice San Gregorio Magno. Così il maestro non supplisce all’intelligenza del discepolo: egli la dirige, è un aiuto per essa, ma non è una forza che possa tenerle luogo. E, per tornare a un paragone già fatto, questi doni sono per l’anima, arricchita dalle virtù infuse, quello che sarebbe per un vascello, già fornito di una forza motrice ordinaria, una velatura potente gonfiata da venti propizi. – La seconda osservazione è che i doni, a differenza delle virtù, possono avere un’influenza sulle nostre operazioni soprannaturali solo attraverso l’impulso effettivo dello Spirito Santo. Non sta a loro muoverci, ma a disporci a ricevere le mozioni divine con obbedienza, affinché illuminino le nostre menti e le inondino di una luce celeste; affinché elevino le nostre volontà e le portino agli atti più perfetti della vita di figli adottivi, è necessario che il Sole divino mandi i suoi raggi e i suoi ardori all’anima. – Perché così tanti Cristiani, anche quelli che conservano la grazia santificante, le virtù e i doni infusi, sempre legati allo stato di grazia, rimangono così deboli, così lassi, così ignoranti o così ignari delle cose del cielo, in una parola, così privi di pensieri santi e di risoluzioni generose? È perché la loro la loro dissipazione abituale, la loro disattenzione per le colpe meno gravi, la loro immortificazione e tiepidezza, fanno ostacolo all’azione dello Spirito Santo; è così che l’anima, impigliata in tanti legami, troppo raramente si abbandona alle brezze divine, allorché piace allo Spirito Santo di soffiare su di essa, nonostante la sua indegnità. Ascoltiamo dunque l’avvertimento dell’Apostolo contro questa doppia disgrazia. « Non spegnete lo Spirito Santo », cioè non impeditegli di riversare su di voi le sue ispirazioni salvifiche (1 Tess. V, 19). « Non contristate lo Spirito Santo », con la vostra resistenza, cioè, piegatevi ai movimenti che Esso vi impartisce (Efes. IV, 30). – La mia ultima osservazione sarà su un’espressione usata frequentemente dai nostri dottori in queste materie. Essi parlano di istinti divini. Cosa intendono con queste parole? L’istinto ci ricorda una categoria di atti che hanno questo carattere singolare: sono indipendenti da ogni educazione precedente, precedono ogni riflessione e nascono come spontaneamente dalla natura. Il regno animale fornisce meravigliosi esempi di questo nelle opere dell’ape, della formica, del ragno e di altri insetti. L’uomo stesso ha le sue operazioni istintive, ma sono tanto più rare quanto più la ragione prende il sopravvento e quanto più la libertà presiede al governo della vita. – Ora gli impulsi dello Spirito di Dio, che arrivino all’intelligenza o alla volontà, non sono prodotti della nostra libera attività; la precedono. Gli atti con cui si esprimono sono in noi senza di noi, in nobis sine nobis, secondo la felice espressione di Sant’Agostino. Sono quindi analoghe alle operazioni istintive, tanto più che la natura da sola non può renderne conto. E quando, grazie ai doni dello Spirito di Dio, seguiamo docilmente il movimento che ci viene impresso, le nostre operazioni virtuose possono conservare ancora qualcosa di istintivo. Perché, anche se devono essere libere per costituire opere meritorie, c’è spesso in esse un carattere di spontaneità che le distingue dagli atti di virtù comune. Bisognerebbe essere estranei alle cose della vita spirituale per non averlo notato e persino sperimentato. Quante volte, forse, nel momento in cui ci siamo sentiti come immersi nelle tenebre, senza speranza, senza amore, tristi e desolati, un raggio di luce divina non è entrato nella nostra anima, dissipando le ombre, e provocandoci alla confidenza, al fervore! Era lo Spirito consolatore con i suoi istinti (« Quicumque spiritu Dei aguntur; i. e. reguntur sicut à quodam ductore et directore; quod quid quidem in nobis facit Spiritus, in quantum illuminat nos interius quid ſacere debeamus… Homo autem spiritualis non solum instruitur à Spiritu Sancto quid agere debeat, sed etiam cor ejus à Spiritu Sancto movetur. Ideo Plus intelligendum est in eo quod dicitur: Quieumque Spiritu Dei aguntur. Illa enim agi diceuntur, qui quodam guperiori instinelu moventur….. Homo Spiritualis non quasi ex motu proprie voluntatis principaliter, sed ex instinctu Spiritus Sancti inelinatur ad aliquid agendum ». S. Thom. Comment. in Rom., VIII, 14). Che Esso nella sua misericordiosa bontà possa rivelarsi spesso in questo modo alle nostre anime, e noi, in virtù dei suoi doni, possiamo rispondere alla sua così salutare premura (Due punti da notare per rispondere a due domande. – Prima domanda: qual è la relazione dei doni con le virtù teologali? Risposta: « Animus hominis non movetur a Spiritu Sancto, nisi ei secundum aliquem modum uniatur: sicut instrumentum non movebur ab artifice nisi per contactum aut per aliquam aliam unionem. Prima autem unio hominis est per fidem, Spem et charitatem (his enim inhabitat in nobis Spiritus Sanctus, Rom. V, 5);, unde istae virtutes praesupponuntur ad dona, sicut radices quaedam donorum ». S. Thom. 1-2, q. 68, a 4, ad 3; col. a 8. – Seconda domanda: Gli eletti conservano i doni dello Spirito Santo in cielo? Risposta: « De donis possumus dupliciter loqui, uno modo quantum ad essentiam donorum, et sic perfectissime erunt in patria….. Sujus ratio es quia dona Spiritus sancti perficiunt mentem humanam ad sequendam motionem Spiritus sancti, quod præcipue erit in patria, quando Deus exit omnia in omnibus, ut dicitur 1 Cor XV, et quando homo erit totaliter Subditus Deo. Alio modo: possunt considerari quantum ad materiam, circa quan operantur; et sic in præsenti habent aliquam operationem circa quam non habebunt in Statu gloriæ, et sic (quoad aliquod exercitium) non manebunt patria ». S. Thom, ibid, æ, 6; col. S. Bonavent. in III, D. 34, at. 2, q. 3. – Devo aggiungere che Papa Leone XIII, nella sua Enciclica Divinum illud munus, ha richiamato sommariamente ma molto chiaramente queste nozioni teologiche sui doni dello Spirito Santo? « Hoc amplius homini justo, vitara sciticet viventi divinae gratiae et per congruas virtutes tanquam facultates âgenti, opus plane est septenis illis quae proprie dicunbur Spiritus sancti donis. Horum enim beneficio instruitur animus et munitur ut ejus vocibus atque impuilsioni facilius promptiusque obsequatur; haec propterea dona tantae sunt efficacitatis ut eum ad fastigium sanctimoniae adducant, tantaeque excellentiae ut in coeælesti regno eadem, quanquarm perfectius, perseverent. lpsorumque opé charismatum provocatur animuset effertur ad appetendas adipiscendasque beatitudines exangelicas quæ, perinde ac flores verno tempore erumpentes, indices ac nunciae sunt beatitatis perpetuo mansuræ. Felices denique Sun fructus ii ab Apostolo enumerati (Gal, V, 22) quuas hominibus justis, in bac etiam caduca vita, Spiritus parit et exhibet, omni refertos dulcedine et gaudio… ». (noltre il giusto che già vive la vita di grazia e opera con l’aiuto delle virtù, come l’anima con le sue potenze, ha bisogno di quei sette doni che si dicono propri dello Spirito Santo. Per mezzo di questi l’uomo si rende più pieghevole e forte insieme a seguire con maggiore facilità e prontezza il divino impulso; sono di tanta efficacia da spingerlo alle più alte cime della santità, sono di tanta eccellenza, da rimanere intatti, benché più perfetti nel modo, anche nel regno celeste. Con questi doni poi lo Spirito Santo ci eccita e ci solleva all’acquisto delle beatitudini evangeliche, che sono quasi fiori sbocciati in primavera, preannuncianti la beatitudine eterna. Infine sono soavissimi quei frutti elencati dall’apostolo (cf. Gal V, 22), che lo Spirito Santo produce e dona ai giusti anche in questa vita mortale, frutti pieni di dolcezza e di gusto, quali s’addicono allo Spirito Santo “che nella Trinità è la soavità del Padre e del Figlio e riempie d’infinita dolcezza tutte le creature”).

LA GRAZIA E LA GLORIA (17)

LO SCUDO DELLA FEDE (217)

LO SCUDO DELLA FEDE (217)

MEDITAZIONI AI POPOLI (V)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE V.

Il pericolo di morire in peccato.

Io vado, dice Gesù, mi cercherete.., e morirete nel vostro peccato. Ego vado, quæretis me.., in Peccato vestro moriemini (Joan. VIII). Grande Iddio! GesùSalvatore! e queste tremende parole dalla vostrabocca delle misericordie?,.. E quali sono coloro cheminacciate di abbandonare a morire nel propriopeccato?… E a me, mandato che sono per chiamare tutti i vostri figli a salvarsi, affidate questa paurosa incombenza d’intimar loro la terribile minaccia di lasciarli morire nel peccato?… Ma io già sulla vostra parola ho promesso a tutti il perdono e il paradiso conquistato col vostro Sangue! — Miei fratelli, in questo Spavento mi aprirò del cuore con voi, e confesserovvi, che nella vivezza del mio amore per voi vi consolai con parole forse di troppo facile carità. Però non mi chiamo in colpa. In questi poveri tempi, in cui il mondo con tutte le arti più lusinghiere cerca di rapirci dalle nostre braccia i figli, io sono come una madre, che corre appresso al figliuolo, il quale minaccia di andarsi a perdere; lo chiama colla parola della tenerezza, e per rimprovero gli grida dietro: Figliuol mio, ti hai da salvare! — Vel confesso che io cerco di presentarvi aggraziate delle lor forme più amabili le verità della Religione, che è sommo amore; ma forse spogliando in parte dei suoi terrori la parola di Dio, l’avrei per avventura resa meno efficace? Mi dorrebbe l’animo! Al tutto non voglio essere però con voi l’uomo che lusinga, ma il padre che vi vuol salvare; e come s. Giovanni l’Apostolo, dopo di aver assorbita sul petto di Gesù la carità, dopo d’aver assistito a Gesù, quando moriva per salvar tutti, tuonava poi al mondo le più terribili minacce, guai alla città dei peccatori; così io, che ho messo la bocca al Costato di Gesù, ed ho assistito nella Messa al Sacrificio delle sue misericordie, ora anch’io con parola infuocata dal suo amore griderò: guai a voi, se non vi convertite oggi che vi chiama Iddio, cari miei figliuoli; io vi supplico a pensare seriamente questa sera che, non volendoci convertire oggi, forse non ci convertiremo mai più, 1° perché non vorremo convertirci neppure alla morte, 2° perché, anche volendo convertirci alla morte, non lo potremo. Ce lo minaccia Gesù, dicendo: io me ne vado; mi cercherete e morrete nel vostro peccato! Minaccia Dio, il quale solo ci può dare la grazia della conversione alla morte; ed Egli ci fa sapere, ci manda a dire, che forse non ve la darà: minaccia Dio, il quale conosce gli effetti nelle loro cause; d Egli prevede che una vita durata in peccato dovrà poi condurci all’impenitenza finale. Ah siete voi, Gesù Cristo, che minacciate? Ma noi vedendovi colle braccia, col Cuor aperto, noi, si, nel terrore di andare dannati, a fine di cercare uno scampo, ci getteremo in braccio a Voi, né questa sera partiremo di qui senza esserci convertiti. Voi, Maria Santissima, pietosa nostra Madre, mettetemi sul labbro la materna vostra parola, per avvisare i vostri figli che non tardino di far ritorno a Dio, che quest’oggi li chiama ancora: aiutatemi a gridar forte, a gridar tanto forte, finché non si fermino, fossero pure sull’orlo del precipizio. Ah no no, Madre; nessuno si ha da perdere! e Voi dovete metterci tra le braccia del perdono di Dio questa sera, dimodoché nell’ore dell’agonia ci troviamo scampati dal pericolo di una cattiva morte: risolvendo di convertirci adesso per trovarci convertiti nell’ultima ora (Ave Maria). – Meditiamo in prima che non volendoci convertire adesso, forse non ci vorremo convertire neppure alla morte. Non vi aspettate che io voglia atterrirvi coll’orrendo spettacolo di pochi che muoiono ostinatamente dannati. Infelicissimi! che in tutta la loro povera vita fecero guerra a Dio, alla Religione sua santa, e poi finiscono col rifiutare in morte i santi sacramenti che soli li possono salvare. Non le lagrime dell’angosciata consorte, non le preghiere dei figli atterriti, non gli sforzi di tutti i conoscenti spaventati intorno al letto li possono cavare di bocca all’inferno. Essi impenitenti fino all’incredibile, ostinati come i demoni ricusano di confessarsi ed esalano l’ultimo fiato in disperazione. Queste orrende morti si lasciano addietro, come il rimbombo del tuono, tremendo oggetto di scandalo che fa orrore a tutti. Via! gettiamo una manata di terra non consagrata sull’orrido cadavere, tizzone d’inferno, e sepelliamolo nell’eterna dimenticanza. Sono pochi i quali muoiono disperati così, per grazia di Dio, fin ora; ma ci piomba sul cuore, pur troppo, un tristo presentimento che queste morti esecrate, più che nel passato, abbiano a diventare frequenti ai nostri di. Poiché i giovani educati in seno alle famiglie cristiane erano fin nel mattino della vita dalla Religione illuminati; sicché la loro fede, venissero pure le nebbie della fosca incredulità ad ottenebrarla, poteva essere sopita, ma spenta non mai. Restava essa come scintilla nascosta sotto la cenere la quale venendo scossa nella caduta d’una malattia mandava luce vivissima. L’avviso poi della morte era per loro come uno scroscio di tuono in negra burrasca; e al baleno di quel lampo le verità eterne, Dio, il suo giudizio, l’inferno, apparivano nella tremenda loro grandezza. In quel terrore era una grazia il vedersi comparire quasi là in un canto la Religione, come un antico amico della gioventù, a pregarli di cercare uno scampo in seno alla Chiesa, a questa madre nostra fortunata, che salva ancora dei figli da tutti riputati perduti! Di fatto perfino Voltaire, Voltaire sforzandosi dar indietro dall’inferno, che già l’ingoiava sopra morte, urlava: Confessione! Confessione!… — Egli era stato educato cristianamente. Ma tristi a noi! in certe famiglie i nostri poveri figli, senza che una stilla di pietà consoli il fiore della lor vita crescente, essi vengono dal seno materno buttati nei vortici di questo mondo in rivolta, balzati in ogni incontro sempre più lontani dal Signore! Or crederemmo che questi vorranno cercar di gettarsi nelle braccia della misericordia di Dio alla morte?…. Ma se guardarono sempre Dio come un nemico, il quale loro disputava le agognate soddisfazioni!… Vorranno sentirsi volentieri parlar di anima, di eternità? Ma queste verità debbono apparire loro come fantasmi paurosi al letto di morte; ond’essi respingeranno con rabbia anche le più care persone che loro le ricordano, quasi fossero in lega coi Sacerdoti per atterrirli in quell’ora di abbattimento! Faranno quindi riottosi l’ultimo sforzo per battersi, quasi contro aborriti nemici, contro i buoni parenti, contro i Sacerdoti, contro di Dio stesso.  Perciò dobbiam noi paventare che troppo debba crescere il numero di coloro che colla bestemmia in bocca moriranno nel loro peccato: in peccato vestro moriemini! – Ora parlando del morir in peccato non accenniamo a quelle morti fragorose che gettano il terrore su tutti; ma di morti che sembrano buone agli occhi degli uomini, eppure, dice s. Agostino, innanzi a Dio sono egualmente perdute. Parliamo di coloro che si preparano la mala morte alla quieta in due maniere, che dimostrano in se stesse due tremende ragioni. La prima è, che ributtata indegnamente la prima chiamata di Dio particolare anzi solenne, con cui Egli gli invita a salvarsi nella gioventù, si buttano all’abbandonata agl’inviti del mondo: e sempre più poi ingolfandosi negl’impegni e negli affari suoi, si trovano come aggirati nel vortice dei mondani avvolgimenti fino alla morte. La seconda, perché in questo stato non vogliono convertirsi per accecamento dell’intelletto, per la forza dei mali abiti, per indurimento di cuore. Accompagnatemi, o fratelli, e vi vedrete, come sotto gli occhi aperta la via per cui molti vanno alla rotta a dannarsi, nelle accennate due maniere. – Prima di tutto vi debbo mettere sull’avviso, come viene per tutti un terribile momento, forse da molti non avvertito, perché i più in sul cominciar della vita vanno sbadati ad affidarsi al mondo il quale li tradisce allegramente. È un fatto. Al giovane, quando comincia pensare da sé, vien messo dinanzi (secondo l’espressione dello Spirito Santo) la vita e la morte: ed è in quel momento (che appunto noi ancora vogliamo dire terribile), che il giovane, in quanto è da lui, dà la sentenza all’anima sua, se debba salvarsi, o se debba andare dannata. State attenti. In un momento di calma, quando il giovane si trova solo con se stesso, si presenta alla coscienza di lui Iddio con tutte le sue promesse e i suoi diritti di essere servito in tutta la vita. Se il giovane l’ascolta e vuol essere giusto con Dio, e a Dio fa omaggio di tutto se stesso, egli compie la prima giustizia, ch’è il principio dell’eterna salute. Se quindi non guasta l’opera della grazia di Dio, egli troverà in Dio tutto il suo bene che sospira. Ma a questo giovane eziandio, nel paradiso terrestre della fiorente età, si presenta il demonio colle sue lusinghe, con tutti gli allettamenti del piacere: l’invita a goder in terra, e a liberarsi, come da noiosa gente dai buoni, che gli parlan di Dio e dei suoi doveri. Se il giovane in quell’istante a Dio prepone il demonio, se a Dio volta orrendamente le spalle, quasi col dirgli: non mi curo per ora di Voi! ho troppi altri oggetti che mi sono più cari, — commette la più indegna ingiustizia: ingiustizia che vorremo dire fondamentale, perché sopra essa si fabbrica tutta la vita mondana a perdizione eterna. Così, è allora appunto che si mette dalla parte dei reprobi, e va con loro a perdersi, ove Dio non lo salvi ancora. Ributtato così orribilmente Iddio, è fatto dal giovane il primo pericolosissimo passo verso la perdizione! Venite ora a vedere come va la povera gioventù a perdersi negli inganni preparati nella nostra moderna società, in cui si cimenta: e vi resta nella vita mondana terribilmente impegnata fino alla morte! – Ai giovani leggieri, che si buttano folleggiando sbadatamente in cerca di piaceri (e sono i più), s’apre dinanzi un avvenire a mille colori storiato, quasi ampio e fiorito giardino, dove e’ si immaginano e prati e rose e boschetti e delizie. Colla foga di cuori ardenti di brame corrono a disfreno, come lascivi puledri pur calpestando ogni fior d’innocenza, e giù per la china fangosa vanno a tuffarsi perdutamente a gola in ogni pantano di vizi. Intanto al giovane più altero dell’animo s’apre dinanzi l’aringo degli onori. Egli guarda il mondo come un campo da gettarvisi dentro o a far trionfare la propria ambizione. L’accorto comprende che il mondo è sempre di chi sa pigliarselo, e che i più audaci in parole (massime ai nostri dì) se ne fanno padroni; ond’esso si presenta col linguaggio alla moda venditore di ciance nelle adunanze di società: encomia i pregiudizi in voga, lusinga le passioni dell’accozzaglia di piazza, serpeggia in basso fino ai cenni degli onorati malvagi, che sono potenti di alto locarlo per serbarlo cagnotto al proprio servizio. Per tutti poi in questa nostra società tutta nel calcolo, il gran movente è il danaro; e i godenti e le godenti insieme, anche in mezzo al fango delle più abbiette passioni, cercano le pagliuzze dell’oro; e chi è giunto in altezza di grado vuole che il sudato onore gli frutti danaro. Così quasi tutti guardano la società come un grande mercato, il mondo come una miniera da scavarne tesori. A questa fatta d’uomini già nella foia di così vive passioni se alcuno ardisce parlare di Dio, dei beni dell’anima, del Paradiso; ed eglino scioperati che sono in vita molle, s’arrabbiano contro l’importuno che li inquieta nei godimenti, e fanno come i ciacchi sozzi ì quali, mentre stan grufolando se altri li scuote mostrando loro una collana di perle, alzano il grifo, grugniscono arrabbiati e si rintuffano in brago: sus lota in volutabro luti. Agli adoratori d’ogni soleche spunta, alle banderuole politiche che varianogli andamenti col variare del vento in piazza, vorrestevoi parlare di santità di principi?! Eh diteloro che la legge di Dio non muta col mutarsi delleleggi umane; che si debba più obbedire a Dio cheagli uomini, avvegnaché potenti, ed eglino grideranno:la croce addosso ai nemici del nostro progresso!Come poi sono tutti in far danaro, se parlatedi Sacramenti, della dolcezza della pietà; sedite che fare carità ai poverelli è fare imprestito aDio medesimo; questi adoratori della bestia d’oro,per questo che l’amore assimila all’oggetto amato,hanno viscere di metallo, né si commuovono cheal tintinnio dei soldi. Intanto s’impigliano negliaffari del mondo; e gli affari del mondo sono unacatena, dice sant’Eucherio, i cui anelli si avvolgonopiù intralciati, e sempre più stringono alla vita, sinoa quell’ora in cui abbiamo bisogno di trovarci l’animasciolta pel paradiso. A siffatti impegni aggiungansile relazioni di famiglia, gli obblighi di società,certi vizi che snervano il vigore, con un cuore poiin petto che è diventato nient’altro che un pezzodi carne che vibra solo nei godimenti sensibili: evoler pretendere che (senza una grazia particolare) costoro si dien pensiero di servir Dio e di salvarsi, sarebbe lo stesso che pretendere che non fosse vera la parola di Dio, la quale dice, che è impossibil cosa il servire a due padroni: Nemo potest duobus dominis servire. E dunque troppo vero che i giovanisi preparano a morir male col gettarsi all’abbandonatanei pericoli e negli impegni del mondo.Oh ma costoro, gregge dei moderati, sono uomini del giustomezzo! Ammettono bene la Religione come una convenienza: si veramente però che la Religione non abbia adisturbarli nei loro godimenti; non attraversare le mire dell’ambizione; né inquietare l’animo loro, quando sono tuttinell’arricchire senza scrupoli, e nel voler farsi ricchi si cimentanoin tutte tentazioni di commetter qualunque peccato.Cotesta gente si forma una religione a seconda delleloro passioni, e la ripone come una statuina morta fuoridegli usi della vita, a cui dar qualche segno d’omaggio,quando il mondo padrone lo permetta. Costoro pretendonodi venire a patti con Dio, quasi Dio debba transigere conessi ed Egli accontentarsi dei ritagli che gli vorran dare della vita tutta dedita alle proprie soddisfazioni. Con Dio fanno come certi mariti infedeli colla sposa forse amata un dì, i quali per tradirla più perfidamente, senza essere da lei inquietati, le riserbano certe dimostrazioni come d’amore passato, che non sono altro che noiose moine, mentre poi prostituiscono il cuore ad altro oggetto indegnamente amato. Su via! questi uomini del gran mondo daranno a Dio una mezz’ora di noia nella Messa festiva: si accontenti il Signore; ché essi per tutto il resto del giorno santo hanno interessi di maggior importanza: convegni alle campagne, partite alla bettola, viaggi, e lauti desinari. E poi… e poi?… e poi hanno tutt’altro da fare, che servire a Dio!.. Hanno serbato questo giorno a trattare con quelle persone, a trovarsi a quel convegno, a scapricciarsi in quella città, in quel modo… che non vi dico io… Anche la signora con ogni più fina cura tutta la mattina impiega della domenica per mettersi alla parata e volteggiar a pompa con grazia nella chiesa all’ultima Messa, a cui concorrono tutti gli occupati del molle far nulla; ché non parliamo di coloro che hanno doveri che loro disputan la vita. E tutto il resto del dì passa nelle visite, nella passeggiata colla damigella, come le merci in mostra, e nei galanti trattenimenti nelle serate. Che se avvolta in gran modestia di veli, s’accosterà ai Sacramenti in certe solennità, non mancherà però al teatro alla sera, elegante alle feste da ballo e in tale miseria di vesti che…. Signori! e Messe e feste e Sacramenti non sono che moine… Si farà anche la Pasqua qualche volta; ma non sarà poi mai la Pasqua che muti la loro vita. Anzi nel coricarsi la notte ancora un segno di croce, ma alla sfuggita, quasi guardandosi indietro che nessuno si accorga che si è debole tanto. Eh che la Pasqua e il pregare in tal modo non sono che moine, con cui sì può forse lusingare la nostra coscienza, ma non s’inganna Iddio, no, il quale vede il cuor nostro troppo da Lui lontano: cor autem eorum longe est a me, e protesta di gettarci in volto certe false dimostrazioni siccome immondezze da lui troppo aborrite: projiciam super facies vestras stercus solemnitatum vestrarum. Così, quando un mondano si dedica a tutt’uomo agli affari della vita presente, resta travolto da essi quasi da un vortice in perdizione, perché ha fino la sfrontatezza di dire che non ha più tempo a pensare e che non vuol convertirsi fino all’ora della morte. – Ma il Signore con una pazienza infinita, perché è pazienza di Dio, riserba certi suoi colpi nelle ore della sua misericordia. Questi colpi combattevano ben di spesso e gettavano vinti a terra i peccatori più fieri, nei tempi in cui i Cristiani non erano scaduti in tanto sfinimento di costumi svenevoli; ma erano di caratteri energici, così che, se erano stati grandi peccatori, davan però sovente spettacoli di conversioni clamorose. Così avvenne al signor di Rancé. Udite. Egli fior di giovane principe, tra gli impegni del più bello, del più gran mondo, in mezzo alla splendida corte di Francia, vicino al trono, dal monarca ricolmo di onorificenze e di immensi favori (troppe fortune!), si lasciò impigliare in un laccio dei più fatali; io dico nell’amor di una giovine dama, invidia delle vane di quei dì. Dio d’un colpo troncò quella vergognosa catena, fece cader morta la bellissima in mezzo a’ suoi trionfi. Terribilmente colpito il cavaliere non si poteva staccar dalla tomba dell’avvenente, nella frenesia del dolore apre, dicesi, la tomba, stringe con fremito la testina della morta sul proprio cuore, fisso su di essa la guarda. Dio santo! era un teschio annerito, da cui cadevano intorno colle carni sfasciate i biondi capelli!… Questa testina da morto gli resta fitta nel cuore…: Rancé ha un bel frequentare la reggia e mostrarsi intrepido sfoggiando in splendidezze di lusso ai ricevimenti di corte: pur in mezzo a quelle splendide feste in cuor suo sta fitta la testina della dama! Rancé la sciala negli inviti a palazzo, ma tra il banchettare sontuoso la testina della dama! Rancé getta l’oro a manate nelle partite di giuoco delle grandi società; ma pur al tavoliere la testina della dama!….. Rancé non ne può più: scappa via di mezzo di un gran festino, sì chiude nell’appartamento; in quella battaglia affranto si getta sopra un sofà… Pendeva dalla parete della camera un Crocifisso prezioso (ché la moda d’allora non esigeva si scacciasse il Crocifisso, come dai nostri salotti pieni alla men trista di preziose nullità); la lucerna del tavolo pioveva sopra esso una luce velata la quale dava risalto appiè della croce ad una testolina da morto di pallido argento. « Ah! la testina della dama…. » grida balzando in piedi Rancé; e resta muto…. cogli occhi inarcati sulla testolina d’argento…. e poi sul Crocifisso…. Silenzio!…. è il momento del mistero della grazia in quel cuor che martella…. Colle mani serrate sul cuore poco appresso manda questo sospiro: Gesù Cristo! non m’ingannate Voi; no…. Voi siete Dio! dunque m’inganna il mondo…. e questa mia vita è la vita di un reprobo…; e così vado a dannarmi. — Rancé prese una di quelle risoluzioni, che gli snervati nostri direbbero incredibili; andò a seppellirsi in gola ad orride montagne, dove in breve lo raggiunsero cavalieri e uomini grandi ad espiare i godimenti della loro miserabile vita colle penitenze più spaventose alla mollezza nostra. Egli è poi questi l’abate Rancé, il quale fondò la congregazione della Trappa. – Ah signori! per convertirsi quell’uom del gran mondo dovrebbe fermarsi in mezzo alle sue goderie, e dire a se stesso: Io pasciuto sono di tutti i più raffinati pensieri: la mia occupazione ordinaria è divertirmi; non mi niego mai una soddisfazione, sia pur un qualunque peccato. Lauta la mia mensa, in questo sfarzo di casa; ed il mondo mi può ben chiamar fortunato: ma Gesù non m’inganna; se muoio sono un ricco sepolto in inferno: mortuus dives sepultus in inferno. — Quell’uomo d’affari, in quel mar d’interessi dimenticata l’anima affatto, dovrebbe dire: Le campagne, è vero, mi rendono; crescono i miei capitali; che che ne dicano i preti, in quest’impiego nessun può farmi i conti, posso pigliar a man salva, perché il mondo mi tiene in conto di uom d’onore; ma Gesù Cristo mi dice: Stolto! che ti varran le tue ricchezze in fondo all’inferno? — Insomma per convertirsi bisogna dire: Lungi da me, malaugurate soddisfazioni; lungi da me, creature di peccato: voglio riparar le ingiustizie, mortificar la carne che mi tradisce, usare ai Sacramenti, redimere le mie cattive azioni con opere di carità. Ah! che dei godenti ne vedete molti, i quali scialano per una festa da ballo, per una favorita, per una pariglia di cavalli somme, che basterebbero ad isfamare in una carestia tante povere famiglie, dove sono que’ vecchi smunti, sonvi que’ fanciulli ingialliti che basiscono; ma di questi epuloni quanti ne vedete voi far penitenza prima di morire? Muoiono adunque nei loro peccati: in peccato vestro moriemini. – Voi bisognosi sospirate nascostamente quando vedete che le usure dei signori avari vi succhiano il sangue, quando pensate che la vigna, il tugurio, il letticiuolo andrà all’incanto; che là si arraffa negli impieghi, qui si truffa nei contratti, da tutti sì mangia sulla vita della povera gente. Ma di questi ladri ben educati quanti ne vedete fare restituzione per prepararsi al giorno improvviso del giudizio dell’eterna giustizia, al rendiconto con Dio? Eh via che i mondani del nostro tempo condannano anzi fieri la severità del Vangelo, come esagerazioni fanatiche; e trovano mille pretesti per mettere al coperto i loro vizi, per palliare le molte ingiustizie. – Poi anche si gode una segreta compiacenza che sia combattuta la Chiesa, come un malvagio figliuolo gode che sia mortificata la madre, la quale del continuo avvisalo di non andarsi a perdere. Si ruba alla Chiesa, si ride delle scomuniche come di una celia; e per tutte ragioni si ripete: Eh a questi  tempi fanno tutti così! quasi il numero dei ribelli sempre crescente debba imporre a Dio medesimo! Che se la coscienza martella, per soffocare i suoi sospiri si piglia una proroga, Sì rimanda ad altro tempo lo acconciarsi dell’anima, il togliersi via quel peso che l’angustia, e far la pace con Dio. Ma quando? ad un tempo… che non verrà forse mai; quasi per noi si possa disporre delle grazie e del tempo di Dio. Mentre, oh Dio Santo! non vi è forse peccato che metta un maggior caos di separazione tra il peccatore e il vostro perdono, che questo di contarvi le grazie in mano da disporne a volontà, e fare noi da padroni del tempo! – Ma bisogna dar gloria alla bontà di Dio, che lo vuole salvo ancora col mandare a quest’uomo del mondo la più addattata misericordia, nell’ultima e lunga sua malattia. Con essa ferisce il peccatore, come una fiera che fugge; e getta a terra, diremo, sul campo del. combattimento il nemico che ama; e gli offre il perdono, sol che si arrenda. L’ultima misericordia di Dio! chetempo prezioso per riparare ad una vita ormai tutta perduta! che grazia grande conceduta per salvar l’anima ancora! Allora cessati per necessità i tanti affari che si disputarono questa povera vita, nel silenzio della camera, nelle tante buone ore di calma del male, la coscienza la quale si ridesta, il buon Angelo compagno che l’ha come raggiunto finalmente, dopo d’avergli corso appresso piangendo in tutti gli errori della vita, il rimorso, che si fa sentire, come il rincrudir del dolore di una piaga vecchia che era ormai incancrenita, e la grazia di Dio, che inquieta ed agita, tutto è disposto dalla provvidenza di Dio per lasciargli quel po’ di ultimo tempo a salvarsi. Ma il demonio allora gli manda intorno e parenti e gli amici a far che non pensi, affinché non gli scappi dagli artigli. Gli è ben vero che si sente come a dire, che il buon parroco manda a prender notizie, e che gira forse intorno alla casa, si sa che è zelante… che fa intendere se potrebbe visitarlo…; Ma: Profeta di sciagure! che vuol costui?… nessuno ha da disturbare l’ammalato… — Ma però gli si parla d’affari… vuol essere di tutto in- formato… mostra di esser ben grato a chi gli vien a rubare i pensieri, affinché non provveda a salvarsi…; da letto provvede a tutto… E per l’anima?… proprio non un pensiero!… Intanto la malattia progredisce alla rotta: mancano le latenti forze della natura: si osserva un cader lento: in volto ai cari intorno al letto si vede il terrore. …., Dunque è da pensare all’anima… Eh! no, non è ancor tempo!… È che non vuol anche allor convertirsi!…- Ma se già comincia a vacillare, e stirati i lineamenti della faccia…. appaiono i tratti del cadavere?… Ah! egli è alle prese colla morte che già l’abbranca: egli tenta invano di disvincolarsi… Finalmente anche i suoi più cari cessano di tra- dirlo. Col cuor che scoppia dagli occhi, con mezze parole gli fanno intendere, che una visita del Parroco… Egli risponde: domani ci penserò. — È che non vuol convertirsi! Grande Iddio, fin quando la vostra giustizia sta già in atto di colpire il peccatore, ed egli non alzare una mano per chiedere l’ultimo istante per combattere ancora contro la vostra bontà? Mentre gli fate battere il cuore, affinché negli ultimi palpiti si slanci in seno alla vostra misericordia; ed egli fin negli ultimi aneliti non curarsi di Voi? Non è questo un voler morire nel peccato? In peccato vestro moriemini? Ahi che è troppo vero quando il Cristiano in sul cominciar della vita non si cura di servir Dio in quel fior dell’età, e si getta all’abbandonata negli impegni col mondo, gl’impegni del mondo diventano sempre più tenaci, l’amore lo attacca vivamente e lo assimila agli oggetti dei peccati: sprofondato in quei godimenti non sa più distaccarsene, non vive più che in essi; senza mai un pensiero per l’anima, non gusta che piaceri di carne: insensibile ai movimenti della grazia, si precipita a dannarsi, perché non vuole convertirsi per accecamento dell’intelletto; per la forza degli abiti; per indurimento di cuore. Diciamo per accecamento d’intelletto; e questo avvien pur troppo ai nostri giorni più che per lo passato. Fu già notato che la tomba ricorda la culla. Perché i peccatori, anche più superbi, in fondo non sono che uomini anch’essi; e nell’abbandono delle forze sopra morte sentono un bisogno che lor fa sospirare la madre. L’idea poi della madre ridesta il sentimento della bontà di Dio che gustarono in seno a lei; almeno in quel tempo, quando le madri non erano le dottoresse invero; ma donne devote che parlavan di Dio. Ora troppo sovente le madri sono sapute, spregiudicate, anziché devotuccie: leggono i giornali, anche empi, i romanzi di passioni più calde, e li tengono sul tavoliere esposti ai fanciulli: i quali possono edificarsi almen nelle stampe contemplando per ore le più sguaiate figure. Poiché dicono: è bene che i fanciulli sappiano tutto. (Nuovo metodo di fare buon sangue: dare il veleno ai figlioletti nello svilupparsi della loro vita). Questi poi dalle famiglie via alle scuole; ed io non so quali, ma so che certo non innamorano troppo di Dio. Così anche senza molta dottrina cristiana, han la religione bella e formata.. Se pur la religione è ancora per loro tanto importante da doverne aver alcuna. Almeno si vantan esse con boria di avere tagliuzzata una religione a modo della loro testa, in cui per dogmi stanno le proprie sventatezze, per leggi le passioni, per precetti di vivere i pregiudizi in voga. Siffatta educazione basta: il resto lo faran poi le passioni. Vengono certi momenti in cui la verità eterna di Dio fa sentire la sua potenza. Un amico che si converta, un redattor di giornali che faccia ritrattazioni, un colpo di morte improvvisa in circostanze che fanno restare storditi, una predica in una missione, certi lampi di verità e di grazia da scuotere anche i più assopiti, fanno sentire il bisogno di mutar vita, e di tornare a Dio. Ma il peccatore si riscuote, e quasi si rimprovera. — Eh via, dice, sono avanzi di pregiudizi vecchi cotesti…; ora siamo illuminati noi, e sappiam regolarci. — Per tal modo vengono a dire: allontanatevi, o Signore, che i vostri lumi ci disturbano troppo: Recede a nobis, scientiam viarum tuarum nolumus. (Iob. XXIV, 144). Sono adunque peccatori illuminati; e i peccatori illuminati, senza un miracolo di Dio, sono peccatori perduti, che non vogliono convertirsi, neppure alla morte, per accecamento nelle vie del Signore; ma si danno al reprobo senso, si sprofondano nelle fogne di vizi, e il mal abito del peccato diventa natura. E in vero, quando dissennatamente da giovane si cominciarono a guardare i disonesti costumi come leggerezze convenienti all’età, i disordini continuati della gioventù lasciano un fondo di debolezza che consuma ogni nerbo; tutte le occasioni diventano cadute, e lo stato abituale di tali giovani infelici, più che una lagrimevole fragilità, è la più indegna corruzione. Usi a pascolare la carne dei piaceri, i peccati diventano quasi necessari non altrimenti che il pane d’ogni dì. Ora pretendere che chi si sbrama di carne tutta la vita, alla morte sospiri il ben di Dio; pretendere che questi fracidi sepolti in invecchiata carnalità risorgano come anime ansiose di volar con Dio in paradiso alla morte, è un pretendere che la carne marcia diventi spirito, è un pretendere che dalla natura umana si faccia il più gran miracolo di forza nell’ora del più spaventoso abbattimento. Ah! che l’abito trascina quasi con irresistibile forza a morire in peccato. E gli sciagurati che si lasciano andare disfatti in brutali stemperamenti di lascivie, che si ingolfano in bagordi continui diventano simili a quei luridi Cinesi abituati a fumare l’oppio, i quali si sentono macchinalmente trascinare nella tana dei fumatori: là si buttano al bragiere ed assorbono a gonfie guance il velenoso profumo. Fan ribrezzo al vederli! Si annebbiano gli occhi incantati, tremolano tutte le membra, e fumano ancora: barcollano….. e infine cadono nel più pauroso assopimento, fatti oggetti agli osceni scherni della bordaglia. Così il bettoliere, che s’abbandona senza ritegno a villano stemperamento di ubriachezze, ancora nell’ultima malattia agogna tuffarsi nel vino. Così la donna solita a mettersi in vanità per suscitar seduzioni, anche nel letto di morte coltiva un avanzo di bellezza schifosa in un cadavere che infracidisce. Così l’avaro col cuor sempre attaccato al suo tesoro di metallo muore rivolgendosi al danaro, che la man di Dio gli strappa dalle viscere. E chi ne’ suoi trasporti squarcia la bocca alla bestemmia, fino negli ultimi aneliti della morte, quando già lo strozza l’agonia, se sente un acuto dolore, bestemmia Cristo oggi; e dimani e’ sì trova tradotto al tribunale di Cristo. E infine chi vive da anni con la creatura di peccato in casa, là sulla sponda della bara muore giurando un’abbominevole fedeltà; ché l’abito riduce all’induramento del cuore. Terribile è lo stato a cui conduce l’accecamento dell’intelletto e l’abuso delle grazie nel continuo peccare. Allora pel peccatore indurato nel male, niente fa più spavento; e le verità più tremende hanno perduto la loro forza: onde ei si ride persino della morte e dell’inferno. Noi abbiam potuto sentirne come molti di questi peccatori dal cuor di pietra, rappresentandosi in quelle orge dei loro teatri l’inferno cogli orrori che spaventano fin il pensiero, battessero le mani esclamando: oh bello l’inferno! replica l’inferno! » Soliti a resistere a tutte le inspirazioni della grazia, sono diventati battaglieri agguerriti nel resistere a tutti i colpi. Li visiti pure un pio Sacerdote per convertirli al letto di morte; ed essi, che deridevano le cose di Dio in vita, con orribili facezie sopra morte mettono in ridicolo per anco le tenerezze dello zelo dell’uomo di Dio. Giri pure intorno al morente il santo uomo; il peccatore indurito è come una pianta morta, un arido tronco che, per coltivare che si faccia, non mette fuori un fil di verde di buona speranza: è un duro macigno che, per percuoterlo che si faccia colla verga della parola, non dà una stilla di consolazione; e se Dio stesso lo vuol salvare, deve fare il più gran miracolo della sua onnipotente misericordia: creargli dentro un cuor di carne, in luogo di quel suo cuor di macigno. – Senza questo miracolo, aspettare che si converta é come aspettare che una rupe di granito si ammollisca in olio; è un aspettare che la malizia umana ridotta alla diabolica pertinacia si assimili alla bontà di Dio. Pur troppo ci dobbiamo aspettare che costoro muoiano nel loro peccato: In peccato vestro moriemini! – Dunque questo povero uomo peccatore, che pur troppo ributtò Dio fino dalla gioventù sprofondandosi nelle vie della carne, e dandosi a cercar tutto il suo bene nel mondo, si attacca alle cose del mondo furiosamente fino alla morte, e non vuol convertirsi a Dio neppure alla morte. – Ma però spaventa ancora più il pensare, nel secondo punto, che, anche volendosi convertire presso alla morte, forse non lo potrà. – Si, il peccatore che fa conto di convertirsi alla morte, forse non lo potrà fare. Il Vangelo, questo gran libro delle verità che hanno da salvarci, mira a farcene avveduti, insegnandoci di star preparati a morire ad ogni istante, con una parabola di ammiranda semplicità, e sublime come l’eloquenza di uno splendido vero. Di dieci vergini, dice il Salvatore nostro Gesù, cinque erano prudenti, e cinque fatue, Ma però, a fine di comprendere la parabola, la quale troppo sovente diventa un fatto, giova ricordare il costume degli Ebrei, quando menavano sposa. Essi la conducevano a casa di notte; e per quell’ora invitavano le giovanette del paese, che si radunavano bianco vestite, inghirlandate di fiori, colle loro fiaccole pronte per andare incontro a festeggiare gli sposi, cui poscia in bel corteo accompagnavano in casa. Qui si chiudeva allora la porta, si apriva lautamente il convito, e le vergini in fine ricevevano dallo sposo i bei regali. Ora, dice Gesù Salvatore, tardando l’arrivo dello sposo, le dieci vergini raccolte là dormicchiavano alquanto, e poi attaccarono a dormire della grossa; quand’ecco a mezza notte risuonar l’aere delle liete grida. Lo sposo viene! su, su a fare evviva agli sposi! Sorsero le cinque prudenti; diedero presto mano alle loro lucerne, ed accesele, così allestite furono in sulle mosse. Sorsero anche le fatue, presero le loro lucerne, e lì per accenderle. Oh le senza testa! Non avevano preparato l’olio… Allora: dateci, dateci dell’olio vostro, o sorelle! Ma sì, le prudenti non ne avevano che per loro! Uscirono le sprovvedute alla cerca, e ritornarono; se non che l’ora era già tarda; la porta era chiusa, ed elleno restarono là nell’oscuro di fuori a battere i denti asciutti. Ora, o fratelli, fermiamoci sopra il pensiero, ed osserviamo com’erano vergini quelle che aspettavano lo sposo, e come lo sposo venne di notte, quando non ci pensavano. Dite voi: se quelle erano vergini, che sarà di noi, che non siamo vergini, non senza impegni, non pronti a far festa allo sposo; di noi che abbiamo tanti legami contratti col mondo, in cui tanti affari ci rubano tutta la vita; sicché non ci resterà tempo neppur quando ci verrà sopra la morte? Che sarà di noi, i quali, ben lungi dal sospirare come anima vergine il Signore, che l’invita alle nozze immacolate, adulterammo perduti in amore colle creature? Che sarà di noi, se lo sposo viene di notte, allorché dormiamo i più stupidi sonni in una vita sepolta in peccati? E notate ancora che lo sposo venne proprio quando quelle addormentate tranquillamente non sel pensavano neppur in sogno; e quand’è che l’uom pensa a tutt’altro che d’aspettare il Signore nella morte;… quando l’uom pecca…. Giusto Iddio! E proprio quando l’uomo pecca, Voi lo potete mandare alla morte, sicché cominci il peccato e prima di compirlo piombi in inferno!… Sì veramente! e chi vi assicura, mio caro giovane, che non cadrete morto li, quando vi stemprate In peccato? nessuno, nessuno. Anzi lo Spirito Santo vi dice, che anche il povero Onano accontentava la carne, quando lo sdegno di Dio in quell’istante lo percosse di un colpo, lo gettò nell’inferno, morto nel suo peccato. Chi vi assicura o donna, che ad arte vestita e ad arte non vestita in quella festa attirate gli sguardi, e seducete il cuore di tanti, chi vi assicura che non cadiate morta proprio in quel festino? Nessuno, nessuno! Anche Gezabella faceva la vana là sul balcone; e Gezabella fu dal balcone in quell’istante precipitata, e restò abbasso subito divorata dai cani. Chi vi assicura, o libertino, che non cadrete morto in una bettola tra le gozzoviglie, o in quella che squarciate la bocca alla bestemmia? Ah chi vi entra mallevadore che, colla gazzetta in mano là nel caffè maledicendo al Papa, non moriate scomunicato in sul momento? Nessuno, nessuno! Anche Baldassarre cioncava e ribeveva coi vasi rapinati nel tempio; ed oh che è mai? Gli si rizzano i capelli in testa ,… guarda cogli occhi inarcati, trema in tutte le membra :… e perché?… Ve’ una mano spaventosa che scrive sulla parete dirimpetto al re: « questa notte perderai il regno e la vita. « E Baldassarre fu trucidato in quella notte! Chi vi assicura che non cadrete morto d’un colpo in quella notte in cui girate da una casa all’altra per cercar di peccare, come va in cerca di carne l’immondo gufo? nessuno, nessuno! Anche Oloferne teneva chiusa nella tenda Giuditta; ma in quella che sognava piaceri, addormentato sul letto, il colpo di spada gli fece cadere la testa per terra, sì che dal sogno del piacere fu buttata l’anima sua nell’inferno! Ah che bene ci grida Gesù: « state preparati, perché la morte vi viene come il ladro alla vita. » E noi lo vediamo tutti i di nelle morti improvvise, nelle morti non improvvise, ma accelerate e non benpreparate, e finalmente lo vediamo nelle morti cattive. – Ho detto nelle morti improvvise. Eh fa d’uopo che io ve lo dimostri? Non siete voi anzi storditi all’intronare di tanti colpi di morti improvvise? Ahi sentesi un grido di terrore: Ah Signore! è morto qui adesso un nostro caro all’improvviso! Dall’altra parte si piange forte: Poveri noi, il nostro papà l’abbiamo trovato morto stamattina nel letto. E perché corre gente colà? Ah padre! li sulla strada è caduto un ubbriaco… morto! Là nell’osteria si è infuriato in un giuoco e vi restò morto quel tale! Quella dama nella saletta: quella signora là nel far pompa di bello spirito, cadde morta in mezzo ai signori; e quel tale seduto al tavoletto nel caffè restossi cadavere colla gazzetta scomunicata in mano!….. Ahi! Ahi! qui, e qua, dappertutto fulminano i colpi di morte improvvisa, quali lampi del furore di Dio, che lasciano intorno un fetor di zolfo d’inferno in certi luoghi!… – Vive ancora, ve lo voglio contare, vive ancora oggi in un ritiro di donne penitenti una povera figlia sempre in singulti di dolore, inconsolabile. Essendosi un pio sacerdote fatto venire, a fine di consolarla, mentre il buon prete le andava dicendo: figliuola, gettatevi nel vostro dolore ai piedi di Gesù e consolatevi nella sua misericordia, come la Maddalena! ella risposegli: no, non posso consolarmi più; ed alzando la faccia ingiallita, colle mani nei capelli, cogli occhi gonfi che pareva sanguinassero, con rotti singhiozzi, mandò un urlo con queste parole: « Ah… proprio là in quella casa… in quella tana di peccati, o in quella bocca d’inferno mi vidi appresso strozzato dalla morte negro, ah l’ho ancor su gli occhi;…. li negro come un carbone, l’orrido uom del peccato…. » Deh figliuoli, abbracciamo atterriti le ginocchia a Gesù nel Sacramento: ripariamo dai colpi della morte in petto a lui nel Sacramento, e gridiamogli nel suo Cuor ch’è nostro: « A morte improvisa: libera nos, Domine! » – Ma vi hanno delle morti che mandano all’inferno alla quieta, perché, quantunque non improvvise, non sono però preparate e, se non fan rumore agli orecchi degli uomini, sono però morti egualmente di perduti dinanzi a Dio. Non si è spenta all’improvviso quella persona, ma le venne uno svenimento … accorre il medico… e dichiara che è un accidente di apoplessia. Presto dunque, si chiami un prete… Cento preti son sempre pronti in città; in quell’istante non se ne trova alcuno….. Là, che giunge tutto affannato, mezz’ora dopo….. « Padre, singhiozzava or ora;… adesso è assopito.., Ahi il cuore non batte più :…. non ci resta che piangere!…. » Castigo di Dio: costui era solito di dire: di preti ve ne ha troppi. » Non è morta all’improvviso quella donna; ma un parossismo di febbre l’assale, la getta irrigidita sul letto. Aspettiamo che ritorni in sé: ora è in lotta colla febbre… No, no, è in lotta colla morte che già l’uccide!… Corre il sacerdote e trova un cadavere che ancor respira; l’assolve subito; ma, eh no che non giugne ad assolverla, quell’anima è già nella eternità!… Non è morto all’improvviso quell’uomo; un colpo di sole in campagna lo colse: ha un afflusso di sangue al cervello, e son due giorni che smania infuocato in furore. Il buon sacerdote gli gira intorno con carità, stringe colle proprie mani le mani al frenetico: ma tocca forse il cuore a quel meschino? Gli fa ripetere: « Gesù e Maria!» cari Nomi, nostre speranze … ma sbuffando in furor quel meschino rompe in questi Nomi in tal orribile modo, che il sacerdote resta incerto, se quegli preghi o bestemmi. Lo assolve atterrito, e lo vede morir così mal preparato, che no, non può dir con tanto buon cuore a coloro che restano nello spavento: confidate che egli è salvo in paradiso. Abbiam detto: nelle cattive morti. Poiché, o signori, intendete questa tremenda verità: ciò è che Dio com’è infinito nella sua misericordia, ha pure infinitala sua giustizia; e se dal peccatore indurato fu continuamente attaccato, anzi come colpito nella sua santità, poi finalmente provocato a sdegno con tante ribalderie debbe aver il tempo per la sua vendetta. E lo ha! Tremiamo, perché Egli dice proprio, che nella tetra ora del suo sdegno, manderà il colpo del suo furore! che farà scherno al peccatore abbattuto nell’ora della perdizione, e che bagnerà nel sangue del peccatore la saetta del suo furore!… (Deh ce ne scampi Gesù Salvator nostro!) Via, ecco che quest’ora è venuta, in cui l’uom dell’orgoglio è abbattuto per terra; egli ha da morire! Che se è ostinato come un demonio egli, almeno gli altri chiamino il sacerdote e glielo mandino intorno per forza, affinchè; vorrei dire contro sua voglia, lo pigli tra le sue braccia e lo strappi via dalla bocca d’inferno… Un sacerdote?… Eh! Ricordatevi che il sacerdote fu respinto le tante volte; fu perseguitato;… al sacerdote fu troncato il nerbo della sua potenza. Egli fu cacciato via come vil ributto da questa società che non vuole più Dio; e resta ora il prete, come un uom sepolto nel mondo. In quest’ora ad evocarlo si farebbe quello che fu fatto, quando fu evocato dal sepolcro il profeta Samuele, la cui anima dal tenebror della morte fu mandata a fulminar il tremendo castigo di Dio. State attenti. Re Saulle, dopo un esecrato abuso di grazia di Dio, era caduto in mano della sua vendetta. Stava nel frangente d’attaccare la battaglia, che gli minacciava orrenda rotta; di che forte agitato per terror del cimento, recossi a consultare la pitonessa, terribile donna che comunicava tra cupi misteri colle anime dei morti. Là nella spaventosa caverna Saulle le intima: Pitonessa, chiamami qui l’anima di Samuele — La pitonessa balza sul tripode, getta una manata di sacrilego incenso sui carboni ardenti; in quella oscurità, al riverbero della vampa tutta di fuoco, fa terribili scongiuri, si contorce in tormini come invasata, gonfia i fianchi, si morde le labbra, getta in aria con furore le trecce, e colla schiuma alla bocca, cogli occhi a maniera di vetro rovente, manda un urlo tremendamente, e: Saulle! Saulle! L’anima di Samuele è qui! parlale tu… tu… Saulle si ripara alle spalle dell’orrida donna e dice tremando: Samuele!… dimmi, che sarà dimani di me!…. E Samuele a lui: Re disgraziato! a che mi chiami in quest’ora?…. allora era tempo di ascoltarmi, quando ti scongiurava le tante volte di ritornar a Dio!… Tu mi ributtasti;…. ed io a piangere per te!… Ora non ho per te che minacce e guai…. Dimani, rotto nel campo in battaglia, cadrai scannato sul tuo stesso brando;…. e i cavalli dei Filistei irrompendo nel furore della lotta a galoppo, e tu….. resterai sotto i lor piè stritolato!… In quel rombar di minacce Samuele disparve…… Signori, anco il sacerdote dovrebbe gridare: Oh! che mi chiamate voi al fianco di quel riprovato? Sono io forse destinato ad essere testimonio della vendetta di Dio, che cerco sempre di scongiurare? Io fatto ministro di misericordia lo invitai le tante volte, lo pregai, gli gridai appresso piangendo, rassicurandolo che, se avessi potuto avermelo tra le braccia, lo avrei portato tra le braccia del perdono di Dio, e messo in sicuro nel Cuor di Gesù! … Ora lasciatemi piangere appiè di Gesù Crocifisso, sprofondato nel dolore per la perdizione. di quell’anima….. Ah, fratelli, fratelli, mi manca il cuore… Ma… ah! palpito in questo istante. O Gesù!… Gesù mio!… siete voi che mi fate battere il cuor così!… Siete voi sì, che voleste salvo il ladro nel momento della sua e della vostra agonia!… Sì, Gesù, il mio buon Salvatore, il Salvatore di tutti! Miei figliuoli, ve lo dico tremando sul Cuor di Gesù…. Saulle moriva abbandonato; ma allora non era ancor morto crocifisso questo nostro Gesù!… allora non avevamo ancora una madre, come Maria, ad assisterci nella nostra agonia; allora non era ancor qui con noi in terra Gesù col cuore aperto e colle braccia e le mani piene di Sangue nel Sacramento, che vuol tutti salvi… Vedete un povero peccator nostro figlio, che par che non possa convertirsi in lotta col demonio!… Ebbene correte a chiamarci: ci troverete; noi siam col cuore nel Cuor di Gesù! Oh sì! noi voleremo subito con Gesù che teniamo sempre in cuore; e se cì sarà dattorno il diavolo che ci contrasta, exorcizo te, cruenta bestia (grideremo): demonio omicida, va all’inferno! Noi chiuderemo l’inferno col metterci sopra il Crocifisso, ed abbracciando il peccatore nell’agonia, riceveremo l’anima figliuola del Sangue di Gesù, la quale egli spirerà in questo petto nostro; e qui dentro la metteremo nel Cuor di Gesù, non potrà precipitar nell’inferno, volerà al paradiso… Qui son ridotto ad esclamare: oh figliuoli! poveri noi in che tristi tempi noi siamo ridotti!… Ahi mi sento soffocare il respiro:… ho paura di dirlo; ma ve lo dico tremando;…. se alcuno non si vuol proprio convertire adesso, misero a lui… forse non sì vorrà convertire più mai: forse non si vorrà convertire alla morte, o forse, anche volendolo alla morte, non lo potrà!… Poveri noi, che cattivi tempi! lo ripeto… ho paura di dirlo; ma pure ve lo voglio dire…. Però, se mai durasse un peccator ostinato fino alla morte… chiamateci, se giungiam in tempo, gli diremo le più care cose, piangeremo per lui, lo abbracceremo, oh speriamo, si convertirà, allora lo strapperemo colla potenza dell’amor di Gesù di bocca all’inferno… Sì, se arriveremo a tempo…. Che se non arriveremo a tempo, egli è dannato! Gesù mio, misericordia! O Maria, ve li raccomandiamo i peccatori più ostinati ora e per l’ora della morte: Sancta Maria Mater……. etc. nunc et in hora mortis nostræ!

LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO IV

Sulla distinzione tra la grazia e le virtù infuse, i loro rispettivi soggetti e la loro relazione reciproca.

I. – I teologi cattolici non hanno che una voce sola nell’insegnare che la grazia santificante si distingue in certi modi dalle Virtù infuse. Ma questa distinzione è una distinzione reale, è una distinzione logica; in altre parole, è in atto nelle cose, o solo nello spirito che le concepisce? …: è questa una questione sulla quale si trova, fin dall’inizio, più di un’opinione divergente. In generale, la controversia è limitata a queste due termini: la grazia e la carità (Sarebbe troppo difficile mantenere l’identità di tutte le Virtù infuse con la Grazia Santificante, e questo per due ragioni più che ovvie. La prima è che il giusto che, a causa di una colpa grave, è privato della grazia, può conservare le virtù teologali della fede e della speranza divine: segno evidente di una reale distinzione tra ciò che perde e tra ciò che conserva. La seconda è che l’identità delle virtù e della grazia difficilmente può essere compresa senza che vi sia un’identità delle virtù tra loro. Ora, come possono essere identiche queste virtù che possono essere separate al termine e durante la via? Al termine: perché solo la carità rimane, ad esclusione della speranza e della fede (1 Cor. XIII, 13). In via: perché la fede divina può sussistere in un’anima da cui non solo la carità, ma anche la speranza stessa sia bandita). – Dovremmo dire forse che siano una stessa cosa che risponde a due concetti e si esprime con due nomi diversi, a causa delle diverse funzioni che compie: la grazia, in quanto ci rende gradevoli agli occhi di Dio; la carità, in quanto è il principio dell’operazione divina? O dobbiamo considerare la grazia e la carità come perfezioni realmente distinte, in modo che differiscano sia per la loro natura che per il soggetto immediato a cui sono inerenti? S. Tommaso e la sua scuola sono per la seconda ipotesi, ed è nella scuola francescana che la prima ha reclutato soprattutto i suoi seguaci (altra è in questo punto la dottrina di Scoto e dei suoi discepoli, altra quella del dottore Serafico. Per il primo, la grazia e la carità sono così indistinte che hanno assolutamente la stessa sede: la volontà. Questa qualità tri-unitaria è « la carità, in quanto è quella per cui l’uomo ama Dio; la grazia, in quanto è quella per cui Dio ama l’uomo e lo accetta per la vita eterna », diceva Scoto (II, D. 27, q. 1). S. Bonaventura distingue abbastanza chiaramente tra la grazia e le virtù. Le virtù conferiscono potere e la grazia dà l’essere. La seconda è una e le prime sono molteplici; la prima è come il tronco, le altre come i rami. Dove la sua dottrina diventa meno chiara e appare anche meno conforme a quella del Dottore Angelico, è quando egli vuole determinare la rispettiva materia della grazia e delle virtù. Per farlo, egli considera le potenze dell’anima da un doppio lato: dal lato dell’essenza, dove esse attingono come al loro centro comune; dal lato delle operazioni, di cui esse sono il principio immediato. Considera, secondo lui, il soggetto della grazia dal primo punto di vista, quello delle virtù dal secondo. « Primo quidem dicitur (gratia) respicere Substantiam, non quia sit in illa absque potentia, vel per prius quam in potentia, sed quia habet esse in potentiis prout continuantur ad unam essentiam; virtus vero dicitur esse in potentia, quia in eis est ut referuntur ad operationes diversas » (11, D. 26 a, 1, q, 1). La prova che porta a sostegno della sua ipotesi è singolare; noi – egli dice – dobbiamo ricevere l’influenza divina attraverso le nostre forze. Per mezzo di esse meritiamo la lode o il biasimo; e di conseguenza, anche per mezzo di esse, Dio ci rende graditi ai suoi occhi per mezzo del dono della grazia (ibid.). San Tommaso ci dice che certi teologi hanno sostenuto con argomenti simili un’opinione antiquata che fa passare il peccato originale dalle potenze dell’anima alla sua essenza – 1, 2, q. 83, a.7). – Se la controversia non potesse che essere chiarita solo mediante un appello esplicito e diretto all’autorità delle Scritture e dei Padri, sarebbe forse piuttosto difficile trovare una soluzione incontestata. E la ragione principale è che le parole grazia e carità non sono sempre definite in modo così preciso che l’una non implichi mai l’altra. I Concili, e in particolare quello che potrebbe, ci sembra, fornire i migliori elementi di soluzione, voglio dire il Concilio di Trento, non sono stati sufficienti, fino ad ora, a porre fine al dibattito che è ancora in corso. Anche se quest’ultimo Concilio mi sembra piuttosto favorevole all’opinione di San Tommaso, offre tuttavia alcune espressioni dalle quali l’opinione contraria può essere almeno plausibilmente autorizzata. Qualunque siano le discussioni sui testi, credo che delle due teorie opposte la più razionale, la più soddisfacente, la più conforme all’analogia della natura così come all’analogia della fede, sarà, per qualsiasi spirito non prevenuto, quella del Dottore Angelico. Aggiungiamo che è, con poche eccezioni, il sentimento in favore presso i maestri della Scienza Sacra. Senza voler spingere troppo in là questa particolare questione, darò brevemente le ragioni che mi sembrano confermare il giudizio che ho espresso in precedenza. Le prenderò di nuovo in prestito da San Tommaso. – Prima di tutto, bisogna ben confessarlo, che l’anima del figlio adottivo non è solo elevata nelle sue facoltà, princìpi immediati di operazioni, ma anche e soprattutto nella sua essenza. È impossibile contraddirlo dopo le testimonianze così esplicite e così numerose che abbiamo tratto o dai nostri libri sacri, o dai Padri e dai Concili. Nessuno può concepire il perfetto rinnovamento dell’uomo interiore, la rigenerazione in Cristo, la nuova nascita, la ricreazione spirituale, tutti questi privilegi così spesso affermati e così magnificamente celebrati, se la trasformazione soprannaturale non raggiunga i nostri più profondi anfratti, la nostra natura e la sostanza. Generare, creare, deificare l’uomo, rifarlo a somiglianza di Dio, è dargli non solo un agire nuovo, ma l’essere stesso. Ricordiamoci anche che, secondo la sublime dottrina del Principe degli Apostoli, la grazia è soprattutto una partecipazione alla natura divina; in altre parole, e come abbiamo già dimostrato, una partecipazione della divinità concepita come principio primo e radicale delle operazioni immanenti. Ora la partecipazione della natura divina richiede e produce un’assimilazione della natura partecipante con la natura alla quale partecipa; e dove può essere questa somiglianza se non nella sostanza dell’anima, quando è la sostanza stessa che fa somigliare a Dio? E le virtù infuse, fede, speranza, carità, cosa sono se non una partecipazione dell’intelligenza e della volontà divine; dell’intelligenza con cui Dio conosce se stesso, della volontà con cui si diletta nelle sue infinite perfezioni (« Sient per potentiam intellectivam homo participat cognitionem divinam per virtutem fidei, et secundum potentiam voluntatis amorem divinum per virtutem charitatis; ita etiam per naturam anime participat secundum quamdam similitudinem naturam divinam, per quamdam regenerationem sive récreationem ». S. Thom, 1. 2, q. 110, a fin. corp.)? – Non voglio nascondere una risposta che, nell’idea dei suoi autori, arriverebbe a rovesciare tutta l’argomentazione precedente. Così essi dicono: c’è nell’anima del giusto una partecipazione alla natura di Dio; c’è, inoltre, una partecipazione alla sua intelligenza e volontà. Ma non dimenticate: in Dio, natura, intelligenza e volontà sono una cosa sola. Nulla, dunque, impedisce che queste partecipazioni, infuse divinamente nell’anima, anche se corrispondono a funzioni diverse, siano in se stesse una stessa realtà. La risposta è sottile; ma può essere rivolta contro i suoi autori, ed evidenzia ancora di più la forza della dimostrazione che vorrebbero ribaltare. Infatti, è un grande principio della sana filosofia che le perfezioni che si identificano nell’infinita semplicità di Dio, siano condivise e moltiplicate, quando lasciano la loro Fonte originale per comunicarsi alla creatura (Thom., 1 p., q. 13, a. 4 cum parall.). Così i raggi di luce che partono da un sole comune, si dividono e vanno a riprodurre in mille luoghi la luce, immagine del loro principio. Ma, per non lasciare spazio ad equivoci, non è forse vero che le nostre operazioni, soprattutto quelle con cui arriviamo più direttamente a Dio, Bontà sovrana e Verità suprema, sono partecipazioni della conoscenza e dell’amore infiniti? È meno vero che questa conoscenza e questo amore di se stesso non sono in Dio operazioni separate, ma l’unica e semplice sostanza che è Dio stesso? Nessuno dirà, credo, che i nostri atti di pensare e volere, vedere e amare, anche se hanno Dio come oggetto, sono identici tra loro e si fondono con la nostra sostanza. – Ma a cosa serve lasciare il nostro soggetto? Voi mi dite che l’unità che è nell’archetipo debba essere riprodotta nei suoi flussi e nelle sue immagini. Spiegatemi, allora, come e perché la fede è così veramente distinta dalla grazia e dalla carità da non accompagnarle in cielo, e che nei cieli non è la stessa cosa che sulla terra, e che, nello stato attuale di formazione, si trova in molte anime dove non risiedono né la carità né la grazia! Così, le varie funzioni, come le diverse partecipazioni corrispondono in noi a perfezioni veramente distinte: perfezioni delle potenze spirituali per mezzo delle virtù e perfezioni della natura o dell’essenza per mezzo della grazia. Ed è così che, nel cercare di provare la distinzione tra la grazia e le virtù, abbiamo incontrato allo stesso tempo la rispettiva differenza dei loro soggetti immediati: tanto che le due parti della questione sono l’una in relazione all’altra in una dipendenza necessaria.

2.  – Il lettore mi sarà grato per avergli messo davanti due testi fondamentali di San Tommaso d’Aquino, che sono molto utili al nostro scopo: il gran Dottore si appoggia, in uno di essi, sull’idea stessa di virtù; nell’altro, sulla preparazione che il destino soprannaturale dei figli di Dio richiede. – Ecco il primo: « Alcuni dicono (Vediamo da questo che, se la scuola di Scoto ha adottato l’opinione che confonde la grazia e la carità per collocarle nella volontà come nel loro unico supporto, non lo fa allo stesso modo della scuola nel loro unico supporto, essa non l’ha inventata) che la grazia e le virtù sono quanto all’essenza una stessa cosa e che, da diversi punti di vista, essa sia nello stesso tempo tanto la grazia che la virtù: la grazia nella misura in cui si rende l’uomo gradito a Dio o ci è concessa liberamente; la virtù nella misura in cui ci perfeziona per agire bene. Questa non sembra essere l’opinione del Maestro delle sentenze. Ma, se riflettiamo attentamente sulla natura della virtù, questa opinione non sembra essere sostenibile: infatti, dice il Filosofo (Arist. VII, Physic., t. 17), la virtù è una disposizione del perfetto; e io chiamo perfetto un essere in cui le proprietà e le disposizioni corrispondano armoniosamente alla natura. Ne consegue che, in una creatura ragionevole, la virtù è misurata e determinata dal suo rapporto di convenienza con la natura preesistente. È ovvio, infatti, che le virtù acquisite dagli atti umani sono qualità per mezzo delle quali il soggetto che le possiede è disposto come si conviene alla sua natura d’uomo. – « Ora, caratteristica delle virtù infuse è di disporci in modo incomparabilmente superiore e per un fine superiore. È quindi anche necessario che si armonizzino con una natura superiore, cioè con quella natura divina che chiamiamo luce della grazia e che ci rende figli di Dio. Così come la luce naturale della ragione si distingue dalle virtù acquisite che le si riferiscono, così la luce della grazia, questa partecipazione della natura divina, si distingue anche dalle virtù infuse che ne derivano e si riferiscono ad essa. Da qui le parole dell’Apostolo: « Una volta eravate tenebre; ora siete luce nel Signore: camminate come figli della luce » (Efes. V, 8). Allo stesso modo, infatti, che le virtù acquisite dispongano l’uomo a camminare come si conviene alla luce naturale della ragione, così le virtù infuse lo perfezionano perché cammini come si conviene alla luce della grazia » (S. Thom. 1, 2. Q. 110, a. 3 in corp.). Che cosa è allora la grazia, se non è una virtù? Una qualità, un’abitudine che la virtù presuppone come suo principio e sua radice (Ibid. ad. 3). – Questo testo è tanto più degno di nota perché risponde, in anticipo, all’obiezione talvolta avanzata dai partigiani della dottrina opposta; la vostra opinione si basa su di una dottrina filosofica molto discutibile, la reale distinzione tra la natura dell’anima e le sue potenze. Infatti, San Tommaso d’Aquino, in questo passaggio, si basa su una distinzione del tutto diversa e a tutti gli effetti indiscutibile, voglio dire la distinzione tra l’anima e le sue virtù naturali. –  Passiamo ora al secondo testo. Dopo aver ricordato, come in precedenza, le due opinioni che dividevano gli antichi maestri, San Tommaso aggiunge: « E questa opinione (quella che distingue la virtù dalla grazia) è quella più conforme alla ragione….. Perché il perseguimento e l’acquisizione di un fine presuppone essenzialmente tre cose in ogni essere ordinato a questo fine: una natura proporzionata al fine; un’inclinazione naturale verso lo stesso fine; il movimento di tendenza che lo porta verso questo fine… Questo è ciò che osserviamo nell’uomo considerato nella sua costituzione puramente naturale, astrazione fatta per l’elevazione che gli deriva dalla grazia. Egli ha una natura ragionevole, alla quale risponde un fine proporzionato, intendo questa contemplazione più o meno perfetta delle cose divine, in cui i filosofi hanno posto la suprema felicità dell’uomo. Ha la sua inclinazione naturale verso questo stesso fine: testimone ne è il desiderio innato che ci spinge a risalire dagli effetti alle cause inferiori fino alla Causa prima. Ha nella sua intelligenza e nella volontà naturale il principio del movimento che deve condurlo al possesso del fine proprio della sua natura. – « Ora, c’è un fine a cui l’uomo è destinato da Dio, un fine sublime che supera in modo eccellente ogni proporzione alla natura umana, cioè la vita eterna, la visione chiara dell’essenza stessa di Dio; una visione così al di sopra di ogni natura creata, che è propria e connaturale a Dio solo. Occorre dunque che l’uomo riceva da Dio non solo la forza di agire in vista di questo fine superiore, non solo un intimo principio di tendenza, ma anche e soprattutto una perfezione che valorizzi tanto la sua natura da esserci una proporzione adeguata tra essa e questo fine: poiché dove c’è diversità di fine, ci deve essere diversità di nature, poiché natura e fine sono due cose correlate che si chiamano e si rispondono a vicenda. Ora, se la carità inclina la volontà verso questo fine divino, se le altre virtù sono mezzi per compiere le opere che ce la faranno acquisire, spetta alla grazia elevare la nostra natura alla sua altezza. – « Come nell’ordine puramente naturale c’è un’altra natura, un’altra inclinazione della natura, un altro movimento e operazione della natura, così nell’ordine divino altra è la grazia, altre le virtù e altra la carità. Che questa analogia sia corretta, abbiamo come garanzia Dionigi l’Areopagita: perché nel secondo capitolo della “Gerarchia Ecclesiastica” egli insegna espressamente che nessuno può avere l’operazione spirituale se prima non abbia ricevuto l’essere spirituale, così come, per avere l’operazione propria di una natura, è necessario prima esistere in quella natura » (S. Thom., De verit., q. 27 a, 2). Anche qui le ragioni che dimostrano la reale distinzione tra la grazia e le virtù infuse, provano allo stesso tempo che le virtù e la grazia hanno supporti diversi: la grazia si appoggia immediatamente sulla natura, e le virtù, sulle facoltà della natura. – Concludiamo con l’Angelo della Scuola: « La grazia è nell’essenza dell’anima, che perfeziona conferendole l’essere spirituale e rendendola per assimilazione partecipe della natura divina … mentre le virtù perfezionano i poteri in vista delle operazioni sante ». E ancora: « L’ordine della grazia perfeziona quello della natura. Ed è per questo che la virtù, principio gratuito delle operazioni, perfeziona la potenza, principio naturale delle stesse operazioni; e la grazia, principio dell’essere spirituale, perfeziona l’essenza dell’anima, principio dell’essere naturale (S. Thom., de Verit., q. 27, al 6 in corp. e ad 3.- Devo inoltre osservare che anche coloro per i quali l’anima non è realmente distinta dalle sue facoltà spirituali, non sarebbero autorizzati a rifiutare le prove che abbiamo dato. Supponendo, dunque, che la loro opinione sia tanto vera quanto discutibile e contestata dalla maggior parte dei nostri grandi Dottori, con San Tommaso in testa, direi loro: dovete almeno confessare una distinzione formale o virtuale (perché questi sono i termini che usano); una distinzione, dico, che è sufficiente perché le operazioni immanenti dell’anima, considerate come intelligenza, non siano atti della stessa anima, formalmente considerata come essenza o come volontà. Ora, se le operazioni realmente distinte l’una dall’altra possono essere adatte all’anima secondo diverse virtualità o formalità, perché non dovrebbe essere lo stesso per le qualità distinte che sono la grazia e le virtù infuse? Niente nelle vostre idee impedirebbe dunque alla grazia di trasformare l’essenza e alle virtù di elevare le potenze).

3. – Per quanto solida possa sembrare questa conclusione, alcuni chiarimenti non saranno superflui. Vedi, dicono coloro che pretendono di identificare la grazia e la carità, come quest’ultima realizza tutto ciò che si attribuisce alla prima. Non è forse la carità che distingue i figli di Dio dai figli del diavolo (I Giovanni, III, 10, 14)? Non è forse il principio divino che da solo rende le nostre opere apparentemente più umili come tanti meriti presso Dio, il sovrano ricompensatore (I Cor. XIII, 1-4)? Lo concedo; ma allo stesso tempo sostengo che queste e altre formule simili hanno tutte la loro legittima interpretazione al di fuori del sistema che confonde la grazia con la carità. Dirò di più: queste stesse formule, per essere assolutamente vere, richiedono che la carità sia diversa dalla grazia e che la supponga. Sì, la carità distingue i figli adottivi di Dio dai figli della perdizione. Ma perché? Perché è la manifestazione più perfetta e inconfondibile della vita soprannaturale e divina. Né la fede né la speranza, per quanto vivaci e certe possano essere in un’anima, godono di questo privilegio, perché nessuna di esse è essenzialmente unita alla grazia. Al contrario, la carità non va mai senza questa stessa grazia, da cui è inseparabile. Essa, dunque, lo rivela; e chi sapesse, senza dubbio, amare Dio con un amore di carità, avrebbe infallibilmente Dio come Padre e sarebbe suo figlio. E ciò che dico è da intendersi non solo della virtù, ma soprattutto degli atti di carità, perché di queste tre cose, la grazia, la virtù della carità e il suo atto perfetto, né la terza può andare senza la seconda, né questa senza la prima. E questo è il significato che emerge dal testo di San Giovanni: « In questo – egli dice – si manifestano i figli di Dio e i figli del diavolo (in hoc manifesti sunt). Chi non è giusto non è nato da Dio, né chi non ama il suo fratello » (I. Giovanni, III, 10). La grazia, non più che la sostanza stessa della mia anima, cade direttamente sotto lo sguardo della coscienza. L’una e l’altra si manifestano più o meno chiaramente solo negli atti che producono, l’anima con i suoi poteri e la grazia con la virtù della carità. – Ma se la carità caratterizza il figlio di Dio come i frutti fanno conoscere l’essenza dell’albero, essa è impotente a costituirne la natura. Questo perché l’amicizia, per quanto perfetta possa essere, non conferisce né il titolo né i diritti di figlio. Un conto è il bambino, un altro l’amico. I figli adottivi di Dio sono, è vero, suoi amici; ma dell’amicizia di un figlio per suo padre, e quindi di un’amicizia che presuppone la filiazione e non la compie. Cosa devo dire? Lo stesso amore di Dio per la sua creatura e della creatura per il suo Dio non può avere il carattere della vera amicizia senza la grazia santificante, formalmente considerata come una partecipazione della natura divina; perché, bisogna ripeterlo ancora, l’amore della perfetta amicizia si forma solo tra esseri che hanno una certa comunità di natura e di vita. – Sono anche convinto che non ci sia merito propriamente detto per un’anima in cui la carità sia assente; e questa è una dottrina che dovremo spiegare meglio nel corso di questo lavoro. Ma concludere da questo che la carità sarebbe sufficiente per il merito, indipendentemente dalla grazia che trasforma l’uomo nella sua natura più intima, sarebbe un tentativo molto rischioso, per non dire altro. – Ascoltiamo l’Angelo della Scuola: « La carità non è sufficiente a meritare il bene eterno, se non si presuppone in colui che le merita una capacità positiva (idoneitas) che risulta dalla grazia; infatti senza questa superiore dignità, l’amore creato non sarebbe degno di una così alta ricompensa » (S. Thom., de Verit., q. 27, a. 2 ad 4; col. 1, 2. Q. 114, a. 2). Tutto il merito parte da uno stato deiforme (cfr. propp. 15 e 17 e damnatis in Bajo.). E questo è di nuovo ciò che dovremo dimostrare più tardi. L’ultima ragione è che la gloria è un’eredità, e che l’eredità non è semplicemente per chi ama, ma per i figli: « si filii et hæredes ». I figli degli uomini, per vivere bene, cioè per agire meritoriamente, « devono essere figli di Dio » dice Sant’Agostino nello stesso senso. « Non vivunt bene ſilii hominum, nisi effecti ſilii Dei » (S. Augus., 2 ep. Pelag., L. I, n. 5). È così che la teoria scotista vede rivoltarsi contro di sé anche gli argomenti con i quali si pensava di sostenerla. – Un altro difetto che segnalo di sfuggita è che i teologi successivi ne hanno tratto conclusioni più o meno inaccettabili. Se la grazia santificante è la carità, in altri termini, se la forma soprannaturale che ci dà l’adozione di figli è una perfezione non della natura, ma della volontà, questa grazia da sola è impotente a conferirci questi diritti di eredi. Dunque, ci dovrà essere al di sopra di essa, qualche accettazione gratuita di Dio, che stabilisca il legame infallibile tra la grazia interiore e il possesso dell’eredità celeste. Perché la deduzione di San Paolo “si filii et hæredes” sia rigorosa, Dio deve, per così dire, aggiungere al dono della grazia un nuovo atto che faccia l’accordo necessario tra la dignità di figlio e il titolo di erede. Così concludevano i Nominalisti. – Altri, più vicini a noi, hanno ceduto ad un ostacolo ancor più dannoso. Convinti che tutto sia nella carità, e considerando che la virtù non è che per la sua operazione, hanno dedotto che è l’atto di carità che rende le anime gradite a Dio. Da qui la conclusione finale: lo stato di grazia è costituito dagli atti d’amore che rimangono moralmente nell’anima finché nulla sia venuto a ritrarli: questo è troppo manifestamente contrario a tutto ciò che abbiamo dimostrato con l’autorità delle Scritture, dei Padri e dei Dottori, perché sia necessario ripeterlo.

4. – Abbiamo sentito il Dottore Angelico parlare della grazia come di un principio e di una fonte da cui escono le Virtù infuse (Thom., 1. 2, q. 110, a. 3 ad 3.). Per San Bonaventura è il tronco di cui le virtù sono i rami (San Bonaventura, Brevil. P. 4, c. 4). Questa dottrina è certamente molto bella, ma ha le sue difficoltà. Perché alla fine, né i ruscelli possono esistere senza la sorgente, né i rami senza il tronco che li supporta, né gli effetti senza la causa. Ora sappiamo che ci sono virtù, e le più nobili, come la speranza e la fede, che sopravvivono alla grazia. – Inoltre, sembra anche che la grazia possa esistere in un’anima senza virtù, poiché i maestri della vita spirituale ci esortano ad acquisirle, anche se suppongono che siamo in stato di grazia e giustificati. Cerchiamo di risolvere i due problemi in successione. – E prima di tutto, cosa si debba intendere quando si dice che la grazia è la fonte e il principio delle virtù? L’obiezione che ho proposto poco fa dimostra con evidenza che la grazia non è per le virtù ciò che la sostanza dell’anima è per le sue potenze. Se a volte confrontiamo queste due relazioni tra loro, possiamo solo trovare da entrambe le parti una certa analogia, ma non una perfetta uguaglianza. Infatti, la sostanza è per le facoltà di cui è il principio, un immediato supporto necessario per le facoltà di cui è il principio; mentre le virtù non sono inerenti alla grazia, ma alle potenze naturali dell’anima che esse perfezionano in vista delle loro operazioni. Inoltre, essendo le potenze naturali dell’anima proprietà di propria natura specifica, è ugualmente impossibile che l’anima esista senza di esse, o che esse esistano al di fuori dell’anima (S. Thom., 1. 2, q. 110, a.4, ad 4. Non è così, quando si tratta di qualità che rispondono alla natura individuale, per esempio la scienza o la probità). – Diciamo però che la grazia è, a più di un titolo, la radice e la ragione delle virtù: lo è perché Dio le relaziona essenzialmente alla grazia come al loro centro, così che siano infuse ed esistano solo per il suo bene. Questa è una verità così certa che dove la perdita della grazia è irreparabile, come nei dannati, non ci sono né ci possono essere virtù infuse. È così, perché le virtù non possono essere connaturalmente nelle potenze, a meno che la grazia non le preceda per essenza: potenze elevate che presuppongono un’essenza elevata. È così, perché è dalla grazia che esse ricevono la loro linfa e la pienezza della vita. Al di fuori dello stato di grazia, esse sono come quei rami separati dal loro tronco su cui ancora crescono fiori e foglie, ma che non si coronano mai di frutti. È per questo che i teologi dicono di queste virtù che sono informi, finché non mettano radici nella grazia. È così, perché le virtù trovano il loro stato normale, definitivo, assicurato solo nell’adesione alla grazia. – Paragonerei volentieri la fede e la speranza separate dalla grazia alla quantità, substrato delle specie sacramentali. Questa particola sensibile che vedo, che tocco, è un accidente che l’onnipotenza del Creatore conserva separato dalla Sostanza del pane, suo soggetto e principio naturale. Ma, nella Separazione stessa, conserva una estensione essenziale nell’esistere naturalmente solo nella sostanza da cui è miracolosamente staccata; ed è per questo che, sebbene abbia nell’Eucaristia il modo di essere di una Sostanza, rimane sempre per la sua intima essenza un puro accidente (S. Thom. , 3 p., q. 77, a. 1, ad 2). – Così, osservata la debita proporzione, le virtù che sopravvivono nell’anima dopo la perdita della grazia vi rimangono, ma come in uno stato di violenta sospensione, richiamando per così dire con tutte le loro forze quella stessa grazia da cui sono necessariamente dipendenti, e che sola può restituire loro tutta la perfezione pretesa dalla loro natura. – Il secondo problema non è meno facile da risolvere. È il caso delle virtù come della grazia stessa: esse sono capaci di crescere. Perciò, esortarci ad acquisire le virtù non è solo pressarci per farle entrare nei nostri cuori attraverso la giustificazione, ma piuttosto raccomandarci l’esercizio frequente e generoso di esse, affinché crescano e si sviluppino e portino sempre più abbondanti frutti di salvezza. Questo adolescente è un uomo, dotato di una natura ragionevole, sapiente anche per la sua età. Questo mi impedirà forse di dirgli: sii più umano; vivi come un essere ragionevole, e lavora per diventare un vero studioso? – Le esortazioni dei maestri di vita spirituale hanno ancora un altro scopo. Per capire bene questo, ricordiamo che le virtù infuse, mentre danno il potere di produrre opere sante, non danno lo stesso grado di facilità d’azione delle virtù acquisite. E la prova è che questa facilità non è sempre proporzionale al grado di perfezione soprannaturale. Un peccatore che è tornato a Dio dopo una lunga serie di colpe spesso trova più difficile conservare la fede divina, ed ha inclinazioni più violente al male, di quanto non lo fosse il giorno dopo la sua prima caduta, anche se aveva già perso le virtù infuse perdendo la grazia. – Questo è un fenomeno inspiegabile, se fosse nella natura di queste virtù rendere facile il compimento degli atti per i quali sono state date. D’altra parte, è un fatto di esperienza che la generosa e frequente ripetizione degli stessi atti virtuosi diminuisce le difficoltà iniziali, e talvolta fa trovare gusto in ciò che era più ripugnante alla natura. – Da dove viene questo cambiamento? Ha meno a che fare con la crescita intrinseca delle virtù infuse, che con la scomparsa degli ostacoli che impedivano la loro azione? Man mano che un’anima si dona con maggiore costanza a Dio, cioè, man mano che moltiplica le sue vittorie, l’uomo esterno diventa più flessibile; le passioni perdono il loro potere; le tendenze malvagie, nate dal disordine della vita, si indeboliscono; le tenebre si dissipano sulla superficie dell’anima; e, una volta che tutti questi ostacoli vengano più o meno interamente rimossi, la virtù soprannaturale si porta con sempre maggiore facilità ad operazioni che, in principio, richiedevano forse grandi lotte e molti sforzi. – Non dimenticate, inoltre, che bisogna tenere un gran conto anche delle grazie attuali, delle luci, delle attrazioni interiori, degli impulsi e delle consolazioni celesti, con cui piace a Dio, nostro Padre, premiare la fedeltà dei suoi figli. Tutto ciò riunito, spiega come i maestri della vita spirituale possano e debbano esortare ad acquisire le virtù, senza che sia necessario supporle assenti per un solo momento da un cuore dove la grazia abbia fatto il suo ingresso. Acquisire le virtù, per un uomo giustificato, è acquisire in sé le virtù, perché un uomo giustificato le sviluppa in se stesso per merito delle sue opere; è acquisire la beata abitudine di farle più spesso e più perfettamente; è, a forza di vittorie su se stessi, abbattere gli ostacoli che si oppongono alla loro libera e facile espansione; è, infine, inclinare la liberalità divina a riversare su di noi queste ampiezze della grazia; è inclinare infine la liberalità divina a versare su di noi quelle generosità di grazia che rifiuta o misura alle anime meno fedeli e meno generose.

LA GRAZIA E LA GLORIA (16)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (16)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (16)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO SETTIMO

Suor Elisabetta della Trinità e le anime sacerdotali

« Il sacerdote è un altro Cristo che lavora per la gloria del Padre ».

1) Amicizie sacerdotali — 2) Il sacerdote della Messa — 3) Associata all’apostolato del sacerdote — 4) Il sacerdotE e la direzione delle anime.

Un’anima di contemplativa non si rinchiude negli stretti orizzonti delle mura del suo convento. La sua vita spirituale, slanciata nell’ampia corrente del pensiero della Chiesa, si muove seguendo le direttive e le mire stesse della redenzione. La sua preghiera corredentrice, ad ogni istante, copre l’universo. Così faceva la Vergine del Cenacolo. Mentre i primi Apostoli andavano all’azione ed al martirio, Maria li accompagnava, silenziosa orante, in tutti i loro combattimenti per Cristo. È chi oserebbe pensare che l’onnipotente intercessione della Madre di Dio non riuscisse più efficace, per l’estensione del regno di Cristo, delle stesse fatiche eroiche d’un san Pietro o di un san Paolo? La Chiesa di Gesù, in tutto il fluir dei secoli della sua storia militante non dimenticherà mai di essere uscita dalla preghiera contemplativa del Cenacolo; e la sua ina sulle anime serberà, come base costante, la preghiera dei suoi santi. – La maggior parte delle grandi famiglie religiose hanno fatto proprio, ed hanno attuato questo modo di concepire le cose, e gli Ordini più apostolici sostengono il ministero esteriore dei fratelli con la continua preghiera delle sorelle. San Domenico, prima ancora di fondare il suo Ordine, cominciò con lo stabilire le suore, contemplative ed apostoliche insieme, di Nostra Signora di Prouille, alle quali affidò la missione di sostenere, con la loro vita di preghiera e di sacrificio, le fatiche dei Predicatori. Riguardo a questo punto, suor Elisabetta della Trinità, si trovò, al Carmelo, dinanzi ad una delle tradizioni più care al suo Ordine, e più feconde per il bene spirituale della Chiesa: infatti, l’immolazione silenziosa delle figlie di santa Teresa è, prima di tutto, per i sacerdoti. Ed Elisabetta ebbe sempre una grande venerazione per il sacerdozio. Offrì per essi la sua vita? Non lo sappiamo con certezza; il suo parroco, che fu per molto tempo suo confessore, ne aveva la persuasione (ho avuto questo particolare da Lui direttamente.). Ad ogni modo, se nessun indizio positivo ci permette di affermarlo, abbiamo però numerosi documenti ad attestarci quale e quanta parte dedicò ad essi, nelle sue preghiere di Carmelitana. – Quando un sacerdote le aveva raccomandato il proprio ministero, prendeva molto sul serio la sua promessa di preghiera. « Dopo il nostro ultimo colloquio, sono unita a voi in modo particolare e un’intensa corrente di preghiera porta l’anima mia verso la vostra anima, specialmente durante la recita dell’Ufficio. Vi prometto che ogni giorno l’ora di Terza sarà per voi, per questa grande intenzione: che lo Spirito d’Amore, Colui che suggella e consuma l’Unità della Trinità, vi doni una supereffusione di Se stesso; e, alla luce della fede, vi porti in alto, su quelle vette dove, già irradiati dal sole divino, non si vive che di pace, di amore e di unione » (Lettera al sacerdote Don J… – 11 febbraio 1902) Suor Elisabetta della Trinità non si accosta ad un’anima sacerdotale — anche se della sua famiglia — se non con infinito rispetto: l’uomo scompare dinanzi a Cristo. In parlatorio, mai la minima ombra di sensibilità femminile. « Era un’anima, e basta », ci diceva il giovane sacerdote entrato a far parte della sua famiglia, al quale ella indirizzò il maggior numero di lettere di questo genere: non più di dodici in tutto. « Fin dall’inizio del colloquio, « Dio solo », e non si discendeva più da questa atmosfera tutta divina ». Suor Elisabetta aveva un’idea alta e pura del sacerdozio! Si possono seguire i minimi moti dell’anima sua nella corrispondenza con questo seminarista che essa accompagnava al sacerdozio e che seguirà poi nel suo apostolato. Il primo incontro fu tutto soprannaturale. Lo scriveva a sua sorella: «… Ho avuto un colloquio tutto divino col reverendo Don Ch… Credo che l’anima del sacerdote e quella della Carmelitana si sono fuse ». Un’intimità di anime si iniziava, che continuerà sino alla morte. – «… Prima di entrare nel silenzio rigoroso della Quaresima, voglio rispondere alla vostra buona lettera; la mia anima ha bisogno di dirvi che è in comunione con la vostra, per lasciarvi prendere, rapire, invadere da Colui che ci avvolge nella Sua carità e vuole consumarci nell’Uno, con Lui. Pensavo a voi leggendo queste parole del Padre Vallée sulla contemplazione: « Il contemplativo è un essere che vive sotto l’irradiamento del volto di Cristo; che penetra nel mistero di Dio, seguendo non il raggio luminoso che sale dal pensiero umano, ma la luce che emana dalla parola del Verbo Incarnato ». Non la sentite in voi la passione di ascoltarla, questa divina parola? Talvolta, il bisogno di tacere è così forte, che si vorrebbe non saper più fare altro che rimanere, come Maddalena, ai piedi del Maestro, avidi di ascoltare, di penetrare sempre più addentro in quel mistero di amore che Egli è venuto a rivelarci. Non pare anche a voi che, se l’anima non si discosta mai da questa sorgente, può come Maddalena, nella sua contemplazione, anche allora che, in apparenza, compie l’ufficio l’ufficio di Marta? In questo modo io intendo l’apostolato. sia per la carmelitana che per il sacerdote: l’uno e l’altra possono irradiare Dio, possono darlo alle anime, se non si allontanano dalla sorgente divina. Mi sembra che dovremmo avvicinarci molto al Maestro, metterci in comunione con l’anima Sua, fare nostri tutti i suoi affetti; poi andare, come Lui, nella volontà del Padre » (Lettera al sac. Don Ch. 24 feb. 1903). – Tutte le sue lettere sono animate dallo stesso accento soprannaturale. Nessuna formula di banali complimenti; dalla prima frase, le anime si stabiliscono in Dio, e non ne ridiscendono più: « Avendo amato i suoi che erano nel mondo, Egli li amò sino alla fine » S. Giov. XIII, 1). Mi pare che nulla, meglio della Eucaristia,  ci possa dire l’amore di Dio. L’Eucaristia è l’unione, la consumazione, è Lui in noi e noi in Lui; è dunque il cielo sulla terra? Il cielo nella fede, in attesa della visione, del « faccia a faccia », tanto sospirato.  « Saremo saziati quando ci apparirà la Sua gloria, quando Lo vedremo nella Sua luce » (Ps. XVI, 15). Che dolce riposo per l’anima, non è vero? Il pensiero di questo incontro con Colui che unicamente amiamo! Tutto il resto scompare, e ci sembra di entrare già nel mistero di Dio… È talmente « nostro » tutto questo mistero, come voi mi dite nella vostra lettera. – Pregate perché io viva pienamente la mia prerogativa di sposa. Pregate, perché sia sempre pronta a tutto, con la lampada della fede sempre viva, affinché il Maestro possa disporre di me come vorrà. Io bramo di restarmene continuamente vicina a Colui che sa tutto il mistero, per imparare tutto da Lui. «Il linguaggio del Verbo è infusione del dono ». È proprio vero; Egli parla all’anima nel silenzio. Oh, questo. caro silenzio!… per me, è la beatitudine. Dall’Ascensione alla Pentecoste, siamo state in ritiro nel Cenacolo, nell’attesa dello Spirito Santo; ed era così bello! Durante tutta questa ottava, abbiamo la esposizione del santissimo Sacramento, nella nostra cappella, e passiamo ore divine in questo piccolo angolo di paradiso, dove possediamo la visione sostanziale sotto le umili specie dell’Ostia. Si, Colui che i beati contemplano nella chiara visione, è il medesimo che noi adoriamo nella fede. Vi trascrivo un pensiero tanto bello che mi è stato inviato: «La fede è il « facie ad faciem » (1 Cor. XIII, 12) nelle tenebre. Perché non sarebbe così anche per noi, dal momento che portiamo in noi Iddio, e che Egli altro non chiede che di possederci, come ha posseduto i santi? Ma i santi erano vigilanti sempre; « Essi tacciono — come dice il Padre Vallée — vivono raccolti, e non hanno altra attività che di rendersi sempre più capaci di ricevere ». Uniamoci, per essere la gioia di « Colui che ci ha troppo amati » (Ephes. II, 4), come dice san Paolo; facciamogli nell’anima nostra una dimora in cui tutto sia in pace, in cui risuoni sempre il cantico dell’amore, del ringraziamento. E poi, silenzio!… il grande silenzio, eco di quello che è in Dio… Avviciniamoci, come mi dite, alla Vergine tutta pura, tutta luminosa, affinché ci introduca in Colui nel quale Ella penetrò così profondamente. Sia, la nostra vita, una comunione continua, un movimento semplicissimo verso il Signore. Pregate per me la Regina del Carmelo, ché io pure prego molto per voi, e vi assicuro che rimango a voi unita, nell’adorazione e nell’amore » (a Don. Ch. – 14 giu.1903). Nessuna traccia di sentimentalità o di esagerazione queste righe di una purezza che non ha più nulla della terra. – L’ora del diaconato si avvicina per il seminarista; in nome del Carmelo di Digione, suor Elisabetta gli assicura che non sarà dimenticato: « Misericordias Domini in æternum cantabo (Ps, LXXXIII, 2). La nostra reverenda Madre, non potendo scrivere lei stessa questa sera, mi incarica di venire a voi, affinché possiate ricevere una parola dal Carmelo, che vi dica quanto vi siamo unite in questo grande giorno. Quanto a me, io mi raccolgo e mi ritiro fino in fondo all’anima mia, dove abita lo Spirito Santo; e chiedo a questo Spirito d’Amore « che scruta, anche le profondità di Dio » (1 Cor. II, 10) di donarsi sovrabbondantemente e di irradiare l’anima vostra sotto la Sua grande luce, riceva « l’Unzione del Santo » di cui parla il discepolo dell’amore. Con voi, io canto l’inno del ringraziamento; ma con voi pure io taccio per adorare il mistero che vi avvolge. Il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo, la Trinità tutta si china su di Voi, per far risplendere la « gloria della sua grazia » (A Don Ch… in occasione del suo diaconato – Aprile 1905). – San Paolo, nella sua epistola ai Romani, dice che « quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo » (Rom. VIII, 29). Mi sembra che parli proprio di voi. Non siete voi, infatti, questo predestinato che Dio ha eletto perché sia suo sacerdote? Penso che, nella sua attività di amore, il Padre si china sull’anima vostra e la lavora con il suo tocco delicato, perché la somiglianza con l’ideale divino sia sempre più perfetta, fino al giorno in cui la Chiesa vi dirà: «Tu es sacerdos in æternum » (Ps. CIX, 4). Allora, tutto in voi sarà per così dire una copia di Gesù Cristo, il Pontefice supremo; e voi potrete incessantemente riprodurlo dinanzi al Padre suo e dinanzi alle anime. Quale grandezza! La virtù « sovraeminente » di Dio fluisce nel vostro essere per trasformarlo e divinizzarlo. È opera sublime che richiede grande raccoglimento, grande amorosa applicazione & Dio » (Lettera a Don Ch… – Primavera del 1905. Prima della Sacra Ordinazione). – Giunta alfine l’ora dell’Ordinazione sacerdotale, l’anima di suor Elisabetta, impotente ad esprimere ì suoi sentimenti per l’imminenza del grande mistero, non trova rifugio che in una più intensa preghiera: « Avevo chiesto alla nostra reverenda Madre il permesso di scrivervi, per dirvi che l’anima mia è tutta con la vostra anima in questi ultimi giorni che precedono la sacra ordinazione; ma ecco che, avvicinandomi a voi, dinanzi al grande mistero che si prepara, non so più fare altro che tacere… e adorare l’eccesso d’amore del nostro Dio. Insieme alla Vergine, voi potete cantare il vostro « Magnificat », e trasalire in Dio, nostro Salvatore, perché l’Onnipotente ha compiuto in voi grandi cose e la Sua misericordia è eterna. Poi. come Maria, conservate tutto ciò nel vostro cuore, mettetelo vicino al Suo, perché questa vergine sacerdotale è anche « Madre della divina grazia » e, nel suo grande amore, vuole prepararvi a divenire « quel sacerdote fedele, secondo il Cuore di Dio », di cui parla la sacra Scrittura. Come questo « sacerdote del Dio altissimo, che non ha né padre, né madre, né genealogia, né principio di giorni, né termine di vita » (Heb. VII, 3), immagine del Figlio di Dio, così voi pure, mediante la sacra unzione, divenite quell’essere che non appartiene più alla terra, quel mediatore fra Dio e le anime, chiamato a far risplendere « la gloria della Sua Grazia », con la partecipazione alla sovraeminente sua virtù ». Gesù, il Sacerdote eterno, diceva al Padre, entrando nel mondo: « Eccomi per fare la tua volontà » (Hebr. X,9). Mi pare che questa debba essere anche la preghiera vostra, nell’ora solenne in cui vi inoltrate nel sacerdozio; e mi è caro ripeterla con voi. Venerdì, all’altare, quando fra le vostre mani consacrate verrà ad incarnarsi nell’umile ostia, per la prima volta, Gesù, il Santo di Dio, non dimenticate colei che Egli ha condotta sul Carmelo perché sia la lode della Sua gloria. Chiedetegli di seppellirla nella profondità del Suo mistero e di consumarla nelle fiamme del Suo amore. Poi, offritela al Padre insieme al divino Agnello. A Dio! se sapeste quanto prego per voi! La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con voi » (2 Cor. XIII, 3). – Suor Elisabetta amava il sacerdote soprattutto all’altare, nel momento in cui il Verbo Incarnato si immola fra le sue mani, per la Chiesa. Sentiva, per il profondo intuito del mistero di Cristo scolpito nella sua anima dal Battesimo, che in quell’ora specialmente il sacerdote compie nel mondo il suo grande ufficio di mediatore. Essa non baciava, come santa Caterina da Siena, le orme dei passi del sacerdote che le aveva dato il Cristo nella santa Comunione; ma supplicava, con un’insistenza che commuove, di essere ricordata durante il santo Sacrificio dai sacerdoti che la conoscevano; supplicava che immergessero l’anima sua « nel sangue dell’Agnello ». « Lo so che ogni giorno, durante la santa Messa, voi pregate per me. Mettetemi nel calice, affinché l’anima mia sia tutta impregnata del sangue del mio Cristo; ho sete di questo sangue, che mi renda tutta pura, tutta trasparente, in modo che la Trinità possa riflettersi in me come in un cristallo » (Lett. al Can. … – Agos. 1902). Ancora la medesima preghiera, quando entrava nei suoi ritiri particolari: « Parto, questa sera, per un grande viaggio. Per dieci giorni, solitudine assoluta, molte ore di orazione supplementare, velo abbassato quando devo circolare nel monastero. La mia vita sarà più che mai quella di un eremita nel deserto. Ma, prima di internarmi nella mia Tebaide, ho proprio bisogno di venire ad implorare il soccorso delle vostre preghiere, soprattutto una larga intenzione durante il santo Sacrificio. Nel momento in cui Gesù, il solo Santo, sì incarna nell’ostia che voi consacrate, vogliate, vi prego, consacrarmi con Lui come ostia di lode alla sua gloria, affinché tutti i movimenti, tutti gli atti miei siano un omaggio reso alla sua santità. « Siate santi, perché io sono santo » (Lev. XI, 44). Sotto questa parola mi raccolgo; camminerò, durante il mio viaggio divino, ai raggi di questa luce. San Paolo me la commenta, quando dice: « Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi al suo cospetto, nell’amore » (Ephes. I, 4). Ecco, dunque, il segreto di una tale purezza verginale: rimanere nell’amore, cioè in Dio. « Dio è amore » (1 S. Giov. IV, 16). Durante questi dieci giorni, pregate dunque molto per me; ci faccio grande assegnamento. Anzi, vi dirò che mi pare una cosa semplicissima e naturale; il Signore non ha unito infatti le nostre anime affinché si aiutino a vicenda? e non ha Egli detto: « Il fratello aiutato dal fratello è come una città unita »? (Prov. XVIII, 19). Ecco, dunque, la missione che vi confido. E vi chiedo di voler ripetere per me la preghiera che saliva a Dio dal grande cuore di Paolo per i suoi cari figli di Efeso: « Vi conceda, il Padre, secondo la ricchezza della Sua gloria, di essere corroborati in virtù, mediante il suo Spirito, nell’anima vostra, così che Cristo prenda dimora nei vostri cuori per mezzo della fede; e voi, radicati e fondati in amore, possiate comprendere l’altezza e la profondità di questo mistero, e possiate conoscere l’amore di Cristo, che sorpassa ogni scienza, così che siate riempiti secondo la pienezza di Dio (Ephes. III, 14-19). Santifichiamo Cristo nei nostri cuori, affine di realizzare ciò che cantava Davide, sotto la mozione dello Spirito Santo: « Su di lui fiorirà, splendida, la mia santità » (Ps. CXXXI, 18 – A Don Ch…8 ott. 1905). E quando, nell’ultima fase della sua vita, suor Elisabetta ha trovato nella sacra Scrittura il suo nome nuovo, si rivolge ancora al sacerdote della Messa: « Aiutatemi, vi prego, ne ho tanto bisogno! quanto più cresce la luce, tanto più sento la mia impotenza. L’8 dicembre, durante la Messa solenne, fatemi il dono di offrirmi all’Amore onnipotente, perché io sia veramente « Laudem gloriæ ». L’ho trovato in san Paolo, ed ho compreso che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, in attesa del Sanctus eterno » (A Don Ch… Dic. 1905).

3) C’è, nello svolgersi del mistero della Messa, un duplice gesto del celebrante, gesto che rivela molto bene la missione del sacerdozio e contiene tutto il senso della sua mediazione ascendente e discendente: l’elevazione dell’Ostia santa verso la Trinità alla Consacrazione, e la distribuzione del Pane di vita ai fedeli, al momento della Comunione. Offrire Cristo alla Trinità, donare Cristo al mondo: ecco la duplice missione del sacerdote sulla terra. Missione divina; per compierla degnamente, ci vorrebbe l’anima di Cristo, ed ecco perché la Chiesa tutta quanta, ma particolarmente le vergini contemplative sono impegnate alla conquista di tali anime; ed innumerevoli sono le vite che si immolano silenziosamente a questo scopo; sono le vite più pure, le più crocifisse che passano nei chiostri. Suor Elisabetta della Trinità. intuiva profondamente i bisogni spirituali del sacerdozio, e sentiva quanto è necessario pregare, perché i ministri di Dio siano santi. È chiaro che non bisogna chiedere ad una Carmelitana tutta una teologia del sacerdozio; suor Elisabetta non si addentra in una analisi particolareggiata delle virtù sacerdotali: pietà, castità, distacco dalle ricchezze, scienza, obbedienza, zelo per la salvezza delle anime e per la gloria di Dio; non è questo il suo compito, né sarebbe consono al suo temperamento spirituale. Fedele al suo metodo prende le virtù alla sorgente da cui scaturiscono: l’unione con Dio. Secondo un processo psicologico normale, per trasposizione, il suo sogno tutto personale di vita interiore viene proiettato nell’anima del sacerdote, ed una formula di sublime concisione ne definisce l’ideale santo: il sacerdote è « un altro Cristo che lavora per la gloria del Padre ». Quanto avrebbe compreso ed amato la parola così bella di Pio XI che nella sua Enciclica magistrale sul sacerdozio, dice: « il sacerdote viva come un altro Cristo. Vivat ut alter Christus » (Ad catholici sacerdotii – 20 dicembre 1935). Inoltre, secondo la sua grazia particolare, con atto delicatissimo e totale nascondimento di sé, senza neppure sfiorare il tono cattedratico, ma lasciando che con tutta semplicità l’anima sua di Carmelitana si effonda in una anima di sacerdote, suor Elisabetta sa ammonire che la vita interiore è il segreto di ogni apostolato, e che, senza vita interiore, anche il sacerdote, pur sollevando forse molto rumore, fa poco, pochissimo bene; quando non faccia invece del male, e un male irreparabile. Conosceva bene il testo del suo Padre spirituale, san Giovanni della Croce, nel Cantico: « Il minimo atto di amore puro ha più valore agli occhi di Dio ed è più benefico per la Chiesa e per l’anima stessa, che non tutte le altre opere unite insieme » (Cantico spirituale, str. XXIX). Tanto è vero che la più piccola scintilla di puro amore ha, per la Chiesa, la massima importanza. Essere apostolo significa comunicare Gesù Cristo al mondo; ma non si può donarlo che nella misura in cui lo si possiede. E lui stesso, il Maestro, ci ha insegnato le vere leggi dell’apostolato, nell’ultimo discorso ai discepoli, vigilia della sua morte. « Io sono la vite e voi i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porterà abbondanti frutti. Come il tralcio non può portare frutto da se medesimo, se non rimane unito alla vite, così neppure voi, se non rimanete in me. Senza di me, non potete far nulla. Ma se rimarrete in me (e nella misura in cui mi resterete uniti), porterete frutto, molto frutto. Tutto ciò che vorrete, chiedetelo e lo otterrete. Il Padre mio sarà glorificato, se produrrete frutti copiosi. Come il Padre ha amato me, così ho amati. Perseverate nel mio amore » (S. Giov. XV, 1). Questo discorso di Gesù dopo l’ultima cena è il codice dell’apostolato cristiano. – Seguendo il suo Maestro, suor Elisabetta della Trinità, cultrice squisita della vita interiore, non avrebbe potuto tacere questa particolare e assoluta necessità di intima unione con Gesù, per il sacerdote che vuole a sua volta comunicare Cristo alle anime. Nel pensiero di suor Elisabetta, l’apostolo è innanzi tutto un essere di preghiera e di immolazione silenziosa, ad imitazione del Crocifisso che ha salvato il mondo non con l’azione smagliante o con il fascino dei bei discorsi, ma col dolore e la morte. Ed essa, associando il suo apostolato all’azione del sacerdote, vuole restare nella linea di questa immolazione redentrice e nella imitazione di questa morte. Eccola, quindi, tutta intenta a « dare compimento nella sua carne a ciò che manca alle sofferenze di Gesù per il suo Corpo che è la Chiesa » ed a colmare così quelle misteriose lacune della passione di Cristo, lasciate da Dio perché possiamo apportare noi stessi la nostra goccia di sangue all’opera grandiosa della redenzione del mondo. « Chiediamogli di renderci coerenti nel nostro amore, cioè di fare di noi degli esseri di sacrificio; mi sembra che il sacrificio non sia che l’attuazione dell’amore:.« Mi ha amato e si è dato per me ». Mi piace tanto questo pensiero: «La vita del sacerdote — e della Carmelitana — è un Avvento che prepara l’Incarnazione delle anime ». Davide canta in un salmo: « Il fuoco dinanzi a Lui precede » (Ps. XCVI, 3). Il fuoco non è forse l’amore? E la nostra missione non è quella di preparare le vie del Signore mediante l’unione nostra a Colui che l’Apostolo chiama « un fuoco consumante »? (Hebr. XII, 29). Al suo contatto, l’anima nostra diventerà fiamma di amore diffusa per tutte le membra del Corpo di Cristo, che è la Chiesa; e consoleremo allora il Cuore del nostro Maestro che potrà dire, mostrandoci al Padre: « In essi, io sono già glorificato » (S. Giov. XVII, 10). L’anima apostolica di suor Elisabetta ha penetrato il senso profondo del dogma della Comunione dei santi, che associa ogni membro al bene spirituale della Chiesa tutta quanta. Cosciente di questa verità, essa, nel giudicare la parte sua personale di contemplativa nell’insieme del corpo mistico, sapeva elevarsi senza falsa umiltà a quell’altissima luce dell’unità che unisce tutti i membri della Chiesa militante e trionfante al « Cristo totale » in cammino verso la Trinità. La sua grande anima di contemplativa, lontana da vedute meschine e da piccole sensibilità, si muoveva a suo agio nei più ampi orizzonti del piano divino. « Non lo sentite anche voi che per le anime non esistono distanze, né separazioni, ma la realizzazione della preghiera del Cristo: « Padre, che essi siano consumati nella unità »? Mi pare che le anime pellegrine sulla terra e i beati nella luce della visione siano così vicini gli uni agli altri! poiché sono tutti in comunione con uno stesso Dio, con un medesimo Padre che si dona agli uni nella fede e nel mistero, e che sazia gli altri nella sua luce divina. Ma è il medesimo, sempre; e lo portiamo dentro di noi. Egli sta chino sulle anime nostre con tutto il suo amore, sempre, giorno e notte, bramando di comunicarci, di infonderci la sua vita divina per trasformarci in esseri deificati che lo irradino ovunque. Quale potenza esercita sulle anime l’apostolo che non si distacca mai dalla sorgente delle acque vive! Lasci pure che l’onda trabocchi e si sparga all’intorno; non c’è pericolo che la sua anima venga a trovarsi vuota, perché è in comunicazione con l’infinito. Io prego tanto per voi! prego che Dio invada tutte le potenze dell’anima vostra, che vi faccia partecipare a tutto il mistero, che tutto in voi sia divino e porti il suo suggello affinché siate un altro Cristo che lavora per la Sua gloria. – Voi, pure, nevvero, pregate me? Anch’io voglio lavorare tanto per la gloria di Dio; ma bisogna che sia tutta piena di Lui; sarò onnipotente allora, perché anche un solo sguardo, un desiderio, diverranno una preghiera irresistibile, che può tutto ottenere dato che, per così dire,  si offre Dio a Dio. Le nostre anime non siano che una sola, in Lui. Mentre voi lo porterete alle anime, io resterò come Maddalena, silenziosa e adorante, vicino al Maestro , chiedendogli di render fecondi nei cuori la vostra parola. Apostolo, Carmelitana, è tutt’uno. Doniamoci interamente a Lui, lasciamoci pervadere dalla Sua linfa divina; sia la vita della nostra vita, l’anima della nostra anima, e rimaniamo, vigili sempre, coscienti sempre, sotto la sua azione divina » (Lett. a Don B… 22 giugno senza data dell’anno). Tutto è equilibrato in questa dottrina dell’apostolato del sacerdote nella Chiesa, associato a quello della Carmelitana.  Mentre il sacerdote porta il Cristo nelle anime con la parola, coi Sacramenti e con le altre svariate forme del suo ministero, la Carmelitana se ne sta silenziosa come Maddalena ai piedi di Cristo, o meglio come la Vergine corredentrice ai piedi della Croce, immedesimata nell’intimo con tutte le vibrazioni dell’anima del Crocifisso e morendo con Lui per gli stessi fini di redenzione.

4) Il posto che occupa il Sacerdote nella vita cristiana è veramente della massima autorità ed importanza. Associato a Dio nella cura delle anime, egli è costituito, secondo la parola di san Paolo « collaboratore di Dio » (1Cor. III, 9). E suor Elisabetta della Trinità scriveva: «Voi siete il dispensatore dei doni di Dio; e l’Onnipotente, la cui immensità compenetra l’universo, sembra aver bisogno di voi per donarsi alle anime » (al Sac. Don B….). Verità, questa, a cui si riflette troppo poco. Il mondo riceve il Cristo dalle mani del Sacerdote. Al bimbo appena nato alla vita, egli dà, col Battesimo, un’altra vita: quella di Cristo; e in essa lo fa crescere, lo fortifica col sacramento della confermazione; lo nutre di Dio ogni mattina con le sue stesse mani; caduto, lo risolleva e lo risuscita alla vita divina; quando giunge poi l’ora in cui, divenuto uomo, sceglie e fissa la propria vita, è ancora il Sacerdote che viene a portare Cristo nel nuovo focolare; e finalmente, giunta la sera della vita, quando tutto è ormai compiuto, un gesto supremo di benedizione discende sul vegliardo che muore: « Parti, anima cristiana, ritorna a Cristo del tuo Battesimo », e il Sacerdote gli apre le porte del cielo. Dalla culla alla tomba, il sacerdote gli è vicino, sempre. Ma questa influenza del Sacerdote che accompagna l’uomo lungo tutta la sua esistenza, non si limita agli individui; si estende anche alle nazioni. Soltanto il Sacerdote ha ricevuto da Cristo la missione di « istruire tutti i popoli fino alle estremità della terra» (S. Matt. XXVIIIU, 19); ed egli, con la dottrina e col ministero della parola, rende docili le intelligenze al « giogo soave di Cristo ». Se si considerano le verità insegnate dal Sacerdote — osserva il Sommo Pontefice Pio XI nella sua enciclica Ad catholici sacerdotii » (20 dic. 1935) — se si vuol misurarne l’intima forza, si comprende facilmente a qual punto la di lui influenza sia benefica per l’elevazione morale e la tranquillità dei popoli. È il Sacerdote — e spesso soltanto lui — che ammonisce i grandi e i piccoli, ricordando loro la brevità fulminea di questa vita, la fugacità dei beni terreni, i veri valori spirituali ed eterni, la tremenda verità dei giudizi di Dio, l’incorruttibile santità di quello sguardo divino che scruta i cuori e dà a ciascuno secondo le opere sue. Veramente, il Sacerdote è il mediatore posto fra Dio e gli uomini per far discendere sopra di essi i beni che da Lui derivano, ed a Lui fare ascendere la preghiera che placa il Signore adirato ». Che dire poi dell’influenza esercitata dal Sacerdote sulle anime che, nella Chiesa, vivono una vita più intensamente spirituale? Queste soprattutto hanno bisogno di una guida sapiente per non smarrirsi nel « sentiero stretto » e fiancheggiato da precipizi, che conduce all’unione divina. San Giovanni della Croce ha pagine severe e avvertimenti gravi per i direttori spirituali insufficienti che mancano di scienza e di virtù. È dono sì raro e di così immenso valore, un saggio direttore! e san Francesco di Sales ammoniva di « cercarlo fra mille ». Santa Teresa, che ebbe un poco da soffrire a questo riguardo, serbò sempre un ricordo pieno di riconoscenza per quei Sacerdoti pii e dotti nei quali il Signore le aveva misericordiosamente fatto trovare un appoggio di cui non avrebbe potuto fare a meno, nelle ore difficili dell’anima sua e delle sue fondazioni; anzi, poiché, in tali circostanze, aveva ricevuto benefizi singolari dai grandi teologi dell’Ordine di san Domenico, la santa amava chiamarsi « domenicana di cuore ». Questo gusto della sana dottrina e della sapiente direzione è rimasto tradizionale, al Carmelo; e su questo punto, come su tutti gli altri, suor Elisabetta si mostrò vera figlia di santa Teresa. Bambina e giovinetta, andava regolarmente a confessarsi dal suo parroco che era insieme il suo direttore; ma lo trovava fin « troppo buono », e pensò di chiedere a un padre Gesuita una direzione più ferma. Scriveva nel suo diario, il 6 febbraio 1899: « Venerdì, sabato, domenica, avremo l’esposizione del santissimo Sacramento nella nostra parrocchia; e il mio antico confessore verrà a predicare l’adorazione perpetua. Sarò felice di rivederlo, di parlargli della mia vocazione; quante volte ho rimpianto la sua direzione ferma e severa! Il signor curato è tanto buono, anzi troppo buono; mi guida troppo dolcemente, non sa essere severo, mai. L’altro giorno ho parlato alla mamma del mio desiderio di lasciarlo e di andare invece dal Padre Chesnay, il predicatore degli esercizi spirituali, che sarei tanto contenta di poter avere come direttore; ma la mamma non ne è stata soddisfatta e d’ora innanzi non ne parlerò più. – Venerdì 10 febbraio: Sono andata a confessarmi, oggi, e sono rimasta veramente contenta; ho parlato al mio direttore del ritiro, gli ho confidato le mie risoluzioni e tutte le grazie di cui Dio mi ha colmato in questi giorni; ed egli mi ha consigliato di accusarmi, in ogni confessione, delle mancanze a questi miei propositi, assicurandomi che, in tal modo, farò un grande progresso ». A Digione, seguiva volentieri le conferenze spirituali i ritiri tenuti dai Padri Gesuiti e talvolta li consultava per il bene dell’anima sua, fedele poi a metterne in pratica i consigli. E quanto ammirava ed apprezzava la dottrina del Padre Vallée « così profondo, così luminoso! » (alla Signora A… – 29 settembre 1902.). La influenza di questo religioso eminente è manifesta in qualcuno dei caratteri più essenziali della fisonomia spirituale di suor Elisabetta: per esempio: tacere, credere all’amore, vivere nel profondo dell’anima in società con Colui che è presente e vuole, ad ogni istante, purificarci e salvarci. Tre mesi prima di morire, essa chiedeva ancora al Padre di darle i suoi consigli, e lo pregava a volerle tracciare un programma pratico di conformità al Crocifisso, idea gominante degli ultimi suoi giorni: «… Credo che l’anno venturo vi festeggerò con san Domenico nell’eredità dei santi, nella luce; ma, per quest’anno, mi raccolgo ancora nel cielo dell’anima mia per prepararvi una festa tutta intima; ed ho bisogno di dirvelo; ho bisogno anche, Padre mio, di chiedervi la vostra preghiera perché mi aiuti ad essere molto fedele, molto vigilante, e a salire il mio Calvario da vera sposa del Crocifisso: « Quelli che Dio ha conosciuti nella sua prescienza, li ha anche predestinati ad essere conformi alla immagine del suo Figlio divino ». Questa parola del grande san Paolo riposa l’anima, ed io l’amo tanto. Penso che « nel suo eccessivo amore », Egli mi ha conosciuta, chiamata, giustificata; ed ora, nell’attesa di essere da Lui glorificata, voglio essere la lode incessante della sua gloria. Padre, chiedeteglielo per la vostra figliolina. Ricordate? proprio come oggi, cinque anni or sono, bussavo alla porta del Carmelo, e voi eravate lì presente, per benedire i miei primi passi nella santa solitudine. Ora, busso alle porte dell’eternità, e vi chiedo di volervi chinare ancora una volta sull’anima mia per benedirla sulla soglia della « casa del Padre ». Quando sarò inabissata nel fuoco immenso dell’Amore, in seno ai « Tre » verso i quali avete orientata l’anima mia, oh! non dimenticherò tutto quello che siete stato per me; e a mia volta, vorrei poter dare tanto al Padre da cui tanto ho ricevuto. Posso esprimervi un desiderio? Sarei felice di ricevere da ,voi due righe che mi indicassero come realizzare il piano divino: essere conforme all’immagine del Crocifisso. A Dio, mio reverendo Padre! Vi prego di benedirmi in nome dei « Tre » e di consacrarmi ad Essi come una piccola ostia di lode ». Non si vedeva suor Elisabetta, come tante anime inquiete, correre da un direttore all’altro; con semplicità e docilità, si accontentava dei confessori che la Provvidenza le inviava al Carmelo; tuttavia, in una necessità, non esitava a ricorrere ad un ministero straordinario. Così la vigilia della professione, l’anima sua smarrita e sgomenta non poté ritrovare la pienezza della pace che con la parola autorevole di un religioso prudente e sapiente, venuto apposta per lei. Per tutta la vita, serbò un affetto filiale e riconoscente al buon Canonico, amico di famiglia, che aveva ricevuto le sue prime confidenze. « Se la santa Regola del Carmelo — gli scriveva — impone silenzio alla mia penna, però la mia anima e il mio cuore non rinunciano, ve l’assicuro, a venire da voi; e valicano spesso la clausura; ma sono certa che il Signore me le perdona queste fughe, perché sono compiute con Lui e in Lui. Pregate tanto per la vostra piccola Carmelitana, perché sia più fedele, più amante, in questo nuovo anno; vorrei consolare davvero il mio Maestro, restando unita a Lui, sempre. Voglio farvi una confidenza tutta intima, dirvi che sogno di essere « la lode della Sua gloria ». L’ho letto in san Paolo; e il mio Sposo divino mi ha fatto sentire che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, nell’attesa di cantare il Sanctus eterno nella città dei beati; ma questa vocazione di « lode di gloria » suppone una grande fedeltà: bisogna morire a tutto ciò che non è Lui, per non vibrare più che al suo tocco divino. E invece la povera Elisabetta fa ancora dei torti al suo Signore; ma, come un tenero Padre, Egli la perdona sempre, la purifica sempre col suo divino sguardo; ed essa, come san Paolo, cerca di dimenticare ciò che lascia indietro. Per slanciarsi sempre innanzi. Come si sente bisogno di santificarsi, di dimenticarsi, per essere interamente dedicata agl’interessi della Chiesa! Povera Francia! Io invoco per lei misericordia e la copro col sangue del Giusto, di Colui che è vivo sempre per intercedere in nostro favore (Hebr. VII, 25). E sento che la missione della Carmelitana è sublime: la Carmelitana deve essere mediatrice insieme a Gesù Cristo, deve essere per Lui quasi un prolungamento di umanità in cui Egli possa continuare la sua vita di riparazione, di sacrificio, di lode e di adorazione. Chiedetegli che io possa essere all’altezza della mia vocazione, e non abusi mai delle grazie innumerevoli che Egli mi prodiga; perché se sapeste come un tale pensiero mi fa paura qualche volta! Ma allora mi rifugio in Colui che san Giovanni chiama «il Fedele, il Verace » e lo supplico di essere Lui stesso la mia fedeltà… – La domenica dell’Epifania si compie il terzo anniversario delle mie nozze con l’Agnello; durante il santo Sacrificio, consacrando l’Ostia in cui Gesù si incarna, vi prego, consacrate anche la vostra figliolina all’Amore onnipotente perché Egli la trasformi in Lode di gloria» (Al Can… – Genn. 1906). Ecco come la Carmelitana, fedele alla volontà del Maestro e alla sapienza della Chiesa, si rivolgeva al Sacerdote per chiedergli di aiutarla nelle diverse fasi della sua vita spirituale, e di condurla fino all’unione divina. È tutto il senso del Sacerdozio: con la parola, con la preghiera e con i Sacramenti, con la Messa soprattutto, « formare Cristo » nel mondo delle anime e « per Lui, con Lui, in Lui », consumarle « nell’unità » con Dio. Ma poi — cosa che suor Elisabetta della Trinità non supponeva neppure — essa traeva seco in un’atmosfera divina le anime sacerdotali che ebbero la fortuna di avvicinarla e che, tutte indistintamente, serbarono di lei il ricordo di una ben alta santità (Testimonianza ricevuta. Il suo confessore ha per lei un vero culto.). Caso non raro, nell’esercizio del sacro ministero: per un ammirabile compenso della Sapienza divina, il Sacerdote che si china sulle anime è santificato da esse. Chi ha molta esperienza, lo sa: se il Sacerdote è messo da Dio presso le anime per dirigerle e salvarle, vi sono pure, nel piano della Provvidenza, delle anime poste vicine al Sacerdote per rivelargli o per ricordargli il cammino delle eccelse vette. Il Padre Maestro Bafiez, celebre professore dell’università di Salamanca e fido appoggio di santa Teresa, era debitore alla grande riformatrice di alcuni fra i lumi più sublimi che fecero di lui un sì alto teologo contemplativo. E san Gioanni della Croce aggiungeva al suo « Cantico » una strofa stupenda sulla divina bellezza, dopo aver ricevuto le confidenze spirituali di una Carmelitana di Beas. Ma chi potrebbe dire le innumerevoli iniziative soprannaturali, nella vita della Chiesa attraverso i secoli, e le ere di apostolato che trovarono in questo stesso modo la loro ispirazione? Quante anime sacerdotali hanno attinto dagli scritti di suor Elisabetta della Trinità quello sguardo definitivo verso le alte cime, che tutto trasforma e rinnova! Per la umile Carmelitana di Digione è una sua maniera delicata e riconoscente di rendere al sacerdozio un po’ di tutto quello che ne ha ricevuto. Lassù, dal cielo, essa continua la sua missione di Carmelitana associata all’apostolato del Sacerdote per affrettare «il giorno di Cristo » (Eph. I, 10) in cui « Dio tutto in tutti » (1 Cor. XV, 28), per la « lode della sua gloria » (Eph.,, I, 12).

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO III

Delle altre virtù infuse, comunemente chiamate virtù cardinali, e delle loro dipendenze.

I. – Le ultime righe del testo di San Tommaso che abbiamo appena letto, ci indicano, insieme alla fede, la speranza, la carità, altre virtù divinamente infuse che darebbero l’ultimo complemento all’attività soprannaturale dei figli di Dio. Si è convenuto di chiamarle Virtù Cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la vita morale dell’uomo. I teologi ed i filosofi, seguendo i Padri, ne riconoscono quattro: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza; virtù principali a ciascuna delle quali sono attaccate un numero più o meno grande di virtù secondarie che non sta a noi caratterizzare in dettaglio (S. Thom. de Virt. card. c. un. a. 1. cum sqq.; col. 1. 2, q. 61). Ciò che è più appropriato al nostro argomento è cercare se, nell’uomo divinizzato dalla grazia, queste quattro virtù con quelle loro annesse siano virtù infuse e soprannaturali in se stesse, allo stesso modo delle virtù più divine della fede, della speranza e della carità. Bisogna ammettere che non troviamo più qui il perfetto accordo che abbiamo trovato parlando delle virtù teologali. È opinione di diversi teologi, che però sono di minore autorità, che questa prerogativa di avere necessariamente Dio solo come Autore, e di essere quindi soprannaturale come e quanto alla sostanza, è appropriata solo alle virtù propriamente teologiche. Per quanto riguarda le altre, esse avrebbero il loro principio nelle forze della natura; e, se i loro atti sono meritori, questo valore verrebbe loro, non dalla propria eccellenza, ma dalla dignità della persona che li compie e da un’influenza più o meno esplicita della carità. – Supponiamo che due uomini compiano lo stesso atto di giustizia; questo atto sarà meritorio per colui che porta in sé la grazia, e non lo sarà per l’altro. Ciò che fa la differenza non è il valore del principio prossimo, che da entrambe le parti è puramente naturale, ma la diversità dello stato. Avremo occasione di studiare questa questione del merito con calma, quando verrà il momento di considerare i figli adottivi dal punto di vista della loro crescita, poiché il merito ne è uno dei fattori principali. Qualunque possa essere il peso dei motivi addotti dai sostenitori di questa visione, due considerazioni mi sembrano più o meno decisive a favore delle virtù cardinali infuse.  La prima è una prova di autorità: ricordiamo la controversia che un tempo divideva i maestri della scienza sul tema della grazia santificante e delle virtù: i primi negavano che fossero conferite al Battesimo i secondi negavano che esse fossero conferite ai bambini nel Battesimo, e gli altri non stabilivano alcuna differenza tra i battezzati, qualunque fosse la loro età. Ora, su quali virtù verteva il dibattito? Si trattava solo delle virtù teologali, o si trattava anche delle altre? Il  Papa Innocenzo III, in un famoso documento (Innoc. III, cap. 3 Majores.), ce ne dà la risposta: « Ciò che molti affermano, cioè che né la fede, né la carità, né le altre virtù siano infuse nei bambini battezzati, per mancanza di consenso, non è approvato da un maggior numero… »  Pertanto, quando il Concilio di Vienne pronuncia che la sentenza affermativa è la più probabile, il termine “Virtù“, impiegato dai Padri, comprende sia le Virtù Cardinali che le Teologali, poiché erano entrambe oggetto del dibattito. – A questa venerabile autorità si deve aggiungere quella della Sacra Scrittura e della tradizione. Della Scrittura, dico: infatti, sono frequenti i passi in cui le nostre Sacre Lettere ci propongono la prudenza, la saggezza e la giustizia come atti o virtù, procedenti non dalla natura, ma dallo Spirito di Dio (Sap. VIII, 7; Gal. V, 22-23: II Pet. I, 4- 7, ecc.).  – Se, nel consultare la Tradizione, noi chiedessimo ai Padri, essi ci risponderebbero per bocca del grande Agostino: « Le virtù che ho nominato (pietà, castità, modestia, sobrietà…), queste sono le cose che devono essere conservate sempre e ovunque, in pubblico come in privato, nel lavoro come nel riposo: perché queste stesse virtù abitano nel cuore. E chi potrebbe elencarle tutte? Esse ci appaiono come l’esercito del grande Imperatore che siede nel centro della tua anima. L’imperatore fa del suo esercito ciò che gli piace; così Gesù Cristo Nostro Signore, appena comincia a dimorare nell’uomo interiore attraverso la legge, si serve di queste virtù come ministri per realizzare i suoi disegni » (S. August. in I ep. S.. Joan. Tract. 8, n. 1). Questo testo è così bello che merita di essere messo per intero davanti agli occhi del lettore.  “Opera misericordiæ, affectus charitatis, sanctitas, pietatis, modestia, sobrietatis, Semper hæc tenenda sunt. Sive cum in publico sumus, sive cum in domo, sive cum ante homines, sive cum in cubiculo, sive tacentes, sive aliquid agentes, sive vacantes; semper hæc tenenda sunt; quia intus sunt omnes istæ virtutes quas nominaxi. Quis autem sufficit omnes nominare? Quasi exercitus est imperatoris qui sedet intus in mente tua, Quomodo enim imperator per exercitum suum agit quodque (al. quod ei) placet; sic Dominus noster Jesus Christus incipiens habitare in interiore homine nostro, id est in mente per fidem, utitur his virtutibus quasi ministris suis. Et per has virtutes quæ videri oculis non possunt, et tamen quando nominantur, laudantur; non antera laudarentur nisi amarentur, non amarentur nisi viderentur; et si utique non amarentur nisi viderentur, alio oculo videntur, interiori cordis aspectu; per has virtutes invisibiles moventur membra visibiliter. Pedes ad ambulandum; sed quo? Quo moverit bona voluntas quæ militat bono imperatori. Manus ad operandum; sed quid? Quo jusserit charitas quœ inspirata est intus à Spiritu Sancto. Membra ergo videntur cum movenbur; qui jubet intus non videtur. Et quis intus jubeat, prope ipse solus novit qui jubet, et ille intus qui jubetur). – E, per caratterizzare meglio l’origine di questi doni, il santo Dottore ce li ha già mostrati come infusi nell’anima dei bambini piccoli, prima di qualsiasi uso dei loro poteri di ragionamento e fin dal Battesimo. – Veniamo alla seconda considerazione. Supponiamo che gli atti che dirigono e costituiscono l’osservanza della legge morale, quelli della giustizia, della religione, della temperanza ed altri, siano atti naturali in se stessi; supponiamo, per una successione conseguente, che le virtù da cui procedono non appartengano all’ordine delle virtù infuse, cosa ne risulterebbe? Questa conseguenza veramente stupefacente: che l’uomo trasfigurato nel suo essere dalla grazia, e divenuto deiforme, sarebbe deificato incompletamente nella sua vita morale; in altre parole, che la vita morale, in cui la dignità dei figli di Dio deve riflettersi, sarebbe esclusa da questa gloriosa trasformazione; perché i principi coinvolti rimarrebbero puramente naturali, come si possono trovare pure in un peccatore che è nemico di Dio. – Si può allora credere che Dio, che è così magnifico in tutti gli altri aspetti verso i suoi figli, abbia usato qui una tale parsimonia? Colui che, nell’ordine della natura, ha voluto che l’uomo avesse il potere di acquisire le virtù che lo ordinano all’adempimento più fedele e soave dei suoi obblighi morali di giustizia, temperanza e le altre virtù, avrebbe rifiutato lo stesso potere a colui che Egli eleva alla dignità di figlio? Un figlio degli uomini avrebbe le sue proprie virtù, e un figlio di Dio non avrebbe quelle che convengono alla sua nuova vita? Soprannaturalizzato nella sua tendenza immediata verso l’ultimo fine dalla fede, dalla speranza e dall’amore, non sarebbe più soprannaturalizzato nelle sue tendenze verso i fini intermedi e futuri, così indissolubilmente uniti con l’esistenza o la perfezione della carità! Io sono d’accordo che tra gli uomini, l’entrata in un nuovo stato di vita non richieda che solo una diligenza puramente incidentale nel modo di agire. Un semplice suddito che diventa imperatore o re, non riceve in sé un nuovo principio di azione che corrisponde alla sua nuova dignità. Né questo cambiamento di posizione sociale si basa su una trasfigurazione dell’essere interiore della persona che lo riceve. Ma la condizione dell’uomo a cui Dio dà il dono della sua grazia è ben diversa. Rivestito com’è di un nuovo essere, un essere che lo rende un dio, la sua vita morale deve corrispondere all’essere che ha ricevuto: deve avere un carattere superiore, e di conseguenza deve anche procedere da principii più alti dell’attività puramente naturale. Giudicare diversamente è stabilire una dualità di vita che nulla legittima (Vedi S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. VII, c. 6; S. Thom: 1,2 q. 63. A. 4) e da cui mancherebbe manifestamente l’opera di Dio per eccellenza. – Ciò che fa esitare molti a ricevere come infuse le virtù, intellettuali e morali, di cui qui difendiamo l’esistenza, è che non hanno potuto vedere come, nella loro intima natura, esse differiscano dalle virtù acquisite naturalmente con la ripetizione di atti. Eppure, che abisso tra le une e le altre, quando le guardiamo dal punto di vista della loro essenza specifica!  Certamente, per fare solo un esempio, non è la stessa cosa praticare la temperanza secondo la regola imposta dalla ragione naturale, e osservarla secondo la regola propria dei figli di Dio, quella del Vangelo. – Non indulgere in eccessi nell’uso del cibo che danneggerebbero la salute del corpo, o moderare gli altri piaceri dei sensi in modo tale da vivere castamente, secondo gli obblighi dello stato di vita in cui ci si trova; non abbandonarsi alle inclinazioni disordinate che troppo spesso ci spingono ai piaceri proibiti; in una parola, mantenere la misura: questa è la natura propria della temperanza umana. Ma la temperanza del Cristiano che vive secondo i precetti ed i consigli del Vangelo, porta i suoi obiettivi ed i suoi sforzi molto più in alto. Non gli basta moderare i piaceri grossolani dei sensi; li rifiuta e li disprezza; non contento di governare il corpo, lo castiga e lo riduce in servitù. La croce è la sua delizia e la purezza degli Angeli la sua ambizione suprema. Vivere nella carne, come se non ci fosse più la carne, ecco fin dove arriva la temperanza di un figlio di Dio. – Sono ben consapevole che per avere la ragione ultima di questa rinuncia si deve tornare alla carità. Solo le anime fortemente innamorate dello Spirito Santo sono capaci di eccessi così eroici. Ma non ignoro nemmeno che, se è l’amore che le comanda, non è l’amore che deve eseguirne gli atti. Ogni virtù è determinata dal suo oggetto proprio e speciale – E siccome questo oggetto è per la carità Dio stesso, Dio sovranamente buono e sovranamente amabile, ne consegue chiaramente che l’oggetto della temperanza e delle altre virtù morali non sia immediatamente quello della carità. Dite, se volete, che queste virtù sono al servizio della carità; dei seguaci che la accompagnano per eseguire i suoi ordini, ciascuna nel suo dominio particolare, ed io lo sottoscrivo volentieri; perché l’ho imparato da S. Paolo. « La carità – egli dice – è paziente, è benigna, non è ambiziosa, non si gonfia », e così via. – Ma questo stesso richiede che queste Virtù appartengano allo stesso ordine della carità, che partecipino alla nobiltà del suo lignaggio, in una parola che siano virtù soprannaturali e, come la loro regina, divinamente infuse.

2. – Osserviamo che le virtù soprannaturali non escludono le virtù inferiori di cui la natura ci ha dato i germi, e che l’abitudine agli atti sviluppa più o meno prontamente nelle anime più di quanto la grazia non distrugga la natura stessa. Ma queste virtù umane non sono più, nel figlio di Dio, che le umili ausiliarie delle virtù superiori, e il loro ruolo è tanto più efficace quanto sempre più profonde esse gettano radici nelle profondità delle anime. – Ricordiamoci anche, perché lo si dimentica sì facilmente, che le virtù soprannaturali prevalgono su quelle della natura, non solo dal punto di vista dell’eccellenza, ma soprattutto dal punto di vista dell’attività, direi della virtualità, se fosse permesso usare questa parola. Infatti, esse non hanno solo lo scopo di facilitare il libero gioco delle nostre forze, o al massimo di perfezionare la loro stessa energia; ma danno loro anche una forza supplementare che non è nel loro dominio. Con esse, l’intelligenza alza le sue vedute ad altezze che nessuna mente creata potrebbe raggiungere, e la volontà conosce impulsi che la natura da sola non è in grado di produrre. Sebbene le virtù infuse diano all’anima una nuova potenza, non crediamo tuttavia che esse siano da sé stesse come le potenze naturali, un principio completo di operazioni. Per agire, esse hanno bisogno del concorso delle facoltà che suscitano e che servono loro da supporto. Non è che ci siano negli atti come due parti distinte, una delle quali una abbia la facoltà naturale e l’altra la virtù come causa: No: l’atto è tutto intero della virtù, come è tutto intero della potenza; infatti, la potenza e la virtù non formano che un principio prossimo che non è né la sola virtù, né la sola potenza, ma la potenza elevata, rafforzata, divinizzata dalla virtù. Non c’è nulla di identicamente simile nell’ordine degli agenti naturali, ma se ne possono trovare alcune lontane analogie. Vedete questa opera d’arte, un dipinto, per esempio: essa è del pittore e del pennello: tutto del secondo, tutto intero del primo. Ma il pennello, questa, non l’avrebbe mai fatta, se il genio dell’artista non l’avesse diretto, né vivificata con la sua azione. E, in un altro ordine, la sensazione, non è tutta del corpo e dell’anima, cioè dell’organo animato? – Se mi chiedete cosa ci sia nell’atto soprannaturale che richieda l’influenza della facoltà naturale, vi risponderò: È che esso è un atto di intelligenza o di volontà. Chiedetemi cosa sia la virtù infusa, e vi risponderò di nuovo: che essa è superiore ad ogni conoscenza, ad ogni volontà puramente umana. Certamente non che questi due elementi siano separati, né separabili nell’atto soprannaturale; ma comunque sono uniti in un’unità molto semplice, l’atto così com’è, o non sarebbe, o non sarebbe quello che è senza la doppia influenza che lo rende tale. Dire, come alcuni sembrano aver fatto, che la facoltà naturale non abbia nulla a che fare con l’operazione soprannaturale, e che tutto il suo ruolo si limiti a servire da supporto alla virtù, è dimenticare che la facoltà dell’anima è solo elevata nella sua attività per essere elevata nel suo atto. In verità, non so più perché la carità non debba essere nell’intelligenza e la fede nella volontà, se l’intelletto e la volontà non abbiano alcuna partecipazione attiva nella produzione degli atti che emanano dall’una e dall’altra virtù.

3. C’è una conclusione molto pratica da trarre da queste considerazioni sulle virtù infuse. Abbiamo ammirato in loro tutto un sistema di forze il cui possesso arma l’uomo, in vista dei combattimenti della vita cristiana, un’organizzazione completa per questo nuovo essere che è il figlio adottivo di Dio. Non lasciamo che la nostra armatura arrugginisca in un vergognoso riposo; usiamo questi meravigliosi organi, e non lasciamo che ciò che ci è stato dato per agire rimanga in una vile inerzia. È un gran peccato vedere un uomo di bei talenti e di grande intelligenza languire nell’ignoranza e nella pigrizia. Sarebbe un peccato minore se i Cristiani, portando nelle loro anime così tanti e così alti principi di attività soprannaturale, li annullassero con la loro indolenza, a rischio di perderli presto insieme alla vita divina che li sostiene? – Voi avete in voi la fede, la speranza e la carità; quelle abitudini di virtù che sono la pazienza, la dolcezza, la longanimità, la modestia, la continenza, la castità (Gal. V, 22), lo Spirito Santo li avrebbe seminati nelle vostre anime venendo Lui stesso a fissarvi la sua dimora, ed esse sarebbero lenti a rivelarsi con i loro atti? Sarebbe una pianta su cui pochi fiori sboccerebbero a malapena e che al massimo darebbe dei magri frutti? Ascoltiamo l’Apostolo e prendiamo per noi l’esortazione che ha fatto agli Ebrei, dopo aver raccontato lo stato disastroso di una terra che, spesso irrigata dalla pioggia, non produce altro che rovi e spine: « Miei diletti, benché parliamo in tale modo, noi ci aspettiamo cose migliori da voi  e più vicine alla salvezza… noi desideriamo che non diventiate indolenti, ma imitatori di coloro che per fede e pazienza erediteranno le promesse » (Ebr., VI, 9-13 ).

LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO II

Le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità

Tra le virtù infuse, la dottrina cattolica ne propone tre principali: la fede, la speranza e la carità. Tutte e tre rispondono alla denominazione comune di virtù teologiche (o teologali), non solo perché hanno Dio come causa immediata, ed è Lui che ce ne ha rivelato la loro esistenza, ma anche e soprattutto perché, ordinandoci verso Dio, lo hanno direttamente come oggetto. Ho detto che ci sono proposte dalla dottrina cattolica: infatti, oltre al fatto che i Concili, ed in particolare il Concilio di Trento, ne fanno una menzione molto speciale, la Sacra Scrittura stessa le raccomanda in ogni momento; e la Chiesa, questa madre comune dei Cristiani, conformandosi alla volontà del suo divino Sposo, non desidera niente di meno che metterle nei cuori e nelle labbra dei suoi figli. Ora, se è vero, come abbiamo dimostrato, che gli atti presuppongono naturalmente dei principi d’azione che sono dello stesso ordine di questi atti, ovviamente gli atti di credere in Dio, di sperare in Dio, di amare Dio richiedono delle virtù infuse. Del resto, partendo da questo principio: che il nostro fine ultimo, come figli di Dio rigenerati in Cristo, fine verso cui dobbiamo tendere, e che, una volta raggiunto, farà la nostra beatitudine, è il possesso di Dio, non è difficile stabilire l’esistenza e la natura di queste tre virtù con una deduzione rigorosamente logica. Prenderò in prestito il mio ragionamento da S. Tommaso d’Aquino, e non farò che tradurre appena ciò che egli ci insegna nel terzo libro della Summa Philosophica (S. Thom., III, c. Gent., c. 102-103).

I. – Ecco, per prima cosa, come argomenta per dimostrare l’esistenza della più alta di queste tre virtù: la carità. La grazia santificante – dice questo grande Dottore – richiama in noi la carità, cioè l’amore perfetto di Dio. Che cos’è infatti la grazia se non un dono eccelso della dilezione divina? Ora, l’effetto proprio e naturale della dilezione divina nell’uomo è di condurlo a restituire a Dio, il donatore per eccellenza, amore per amore. Quando io amo e prodigo le testimonianze del mio amore amando, non è con lo scopo di conquistare il cuore della persona che amo, cioè di essere amato come io amo? Tanto che il mio amore, se incontra solo indifferenza e freddezza, invece di un amore reciproco, diventa languido e si spegne come un fuoco che è privato di ogni nutrimento! Cosa fa la grazia santificante in noi? – Ci assimila a Dio, ci rende partecipi della sua natura; ci dà diritto al possesso del Bene supremo; ci costituisce figli adottivi, amici, commensali ed eredi di Dio. Tutti questi titoli richiedono amore, non un amore qualsiasi, ma l’amore di carità. La somiglianza richiede l’amore: infatti ne è il naturale fondamento, poiché porta all’unità coloro che si somigliano (S. Thom., 1. 2, q. 27, a. 3). – La partecipazione della natura richiede amore: perché se partecipo alla natura di Dio, devo anche partecipare agli atti di cui, secondo il nostro modo di concepire, questa natura è essenzialmente il principio e la fonte, e di conseguenza nell’amore che ha per la sua infinita bontà. – La qualità di figlio adottivo richiede amore: perché si è mai figlio senza amare il padre, e qual Padre? – L’unione perfetta che sarà la nostra eredità richiede amore: come non amare infatti Colui che così teneramente e fortemente ci invita a vivere la sua vita, a possedere con Lui il sommo Bene, a sedere eternamente alla sua tavola nella gioia di un comune ed eterno banchetto? – E questo amore deve essere un amore puro e perfetto, l’amore della carità: perché la carità, come l’amicizia che contiene in sé, è fondata su questa comunione di natura, di aspirazioni, di beni e di vita (S. Thom., 1. 2, q. 27, a.3.). Ora, se la grazia santificante esige da noi in così tanti modi un amore filiale per Dio, non è necessario che nel darci questo amore, Dio ci dia anche il principio interiore che ci renda capaci di produrne gli atti? Posso io credere mai che, dopo aver fatto tanto perché io l’ami, mi abbia negato poi questa virtù della carità, il focolaio naturale da cui scaturisce l’amore divino? – Ma, si dirà forse, che bisogno c’è di un nuovo principio, poiché l’anima ragionevole con le sue potenze naturali può amare Dio con un amore di benevolenza, per se stessa, in vista della sua infinita bontà; amarlo non solo perché è la fonte da cui provengono tutti i beni, ma ancora perché Egli è in se stesso sovranamente buono, la bontà suprema, il Bene infinito. Io so quanti ostacoli potrebbero fermare l’anima in questo movimento di compiacenza amorosa; ma, mi guarderò bene dal negarlo, guardando le cose in sé stesse: questo amore di Dio conviene alla natura, e non supera assolutamente né la sua energia nativa né la sua tendenza naturale. Tuttavia, rimane pur vero che l’amore di carità supera assolutamente tutte le forze della natura. In effetti, che cos’è questo amore? L’amore di un bambino, l’amore di un amico? Ma in entrambi gli aspetti è di un’essenza così alta che nessun essere creato, per quanto perfetto e qualunque sia il diritto che presuma avere, possa vantarsi di giungere fin là. – Per convincervi di questo, chiedetevi quale sia l’amore naturale di Dio in una semplice creatura? L’amore di un umilissimo servo per il suo signore e padrone, l’amore di un fedele suddito per il suo re: infatti questo amore deve riflettere in sé la relazione essenziale della creatura con Dio. Noi vediamo ogni giorno, è vero, bambini adottati che nutrono per i loro genitori d’adozione sentimenti di figli, sudditi che diventano per i loro principi amici del cuore, senza che sia necessario infondere loro una nuova capacità d’amore. – Questa osservazione, lungi dall’invalidare la nostra conclusione, ci aiuta a capire meglio la sua forza. Poiché, infatti, il comune affetto del servo e del suddito, può essere convertito nell’amore di un bambino e di un amico, senza che si operi alcuna trasformazione nel principio interiore da cui procede l’amore? Questo perché l’estraneo che diventa figlio, il suddito che diventa amico, è uguale per natura alla persona che lo accoglie nella sua famiglia o nella sua cerchia di amicizia. Dall’una e dall’altra parte, ci sono degli uomini che si avvicinano e si uniscono. Se la facoltà di amare nel suddito o nell’estraneo è della stessa natura che nel padre e nel principe, essa è pienamente sufficiente per i nuovi sentimenti richiesti, come è sufficiente che il padre adottivo o il principe ami se stesso. Ma ditemi: questo servo di Dio, questo suddito del Re dei Cieli, partecipa nel suo proprio essere alla natura di Dio, e il suo amore è in qualche modo l’espressione viva di quella ineffabile carità di cui arde eternamente la società delle Persone divine? Dunque, ancora una volta, non c’è amore di figlio e di amico per Dio senza la partecipazione creata dell’amore infinito che chiamiamo Carità divina (Concil. Trident., sess.VI, c. 7).

2. – Se la grazia richiede la carità, essa può ancor meno esistere in un’anima senza la virtù della fede. La prima ragione è che il movimento che, partendo dalla grazia, ci inclina e ci porta verso il nostro fine ultimo, deve essere un movimento volontario e libero; perché è la provvidenza di Dio a condurre le sue creature al loro fine per vie appropriate alla loro natura. Ed è questo l’onore della creatura intelligente e libera di governare essa stessa la propria vita sotto il governo di Dio (“participat rationalis creatura divinam providentiam non solum secundum gubernari, sed etiam secundum gubernare: gubernat enim se suis actibus et etiam alia. S. Thom, Summ,. c.. Gent. LIII, c. 113. E da questo deriva che essa riceva comunicazione dalla fede (Ibid. c. 114). Ma ogni movimento volontario presuppone la conoscenza della meta da perseguire, poiché la volontà non agisce alla cieca. Se, dunque, devo muovermi liberamente e volontariamente verso il perfetto possesso del Bene Sovrano, il mio ultimo fine nell’ordine della grazia, devo necessariamente sapere, e in una maniera certa, qual sia questo fine del mio essere come figlio di Dio, e quali mezzi debba usare per acquisirlo. Ora, non è né la ragione da sola né la visione di Dio che mi dà questa doppia conoscenza; non è la ragione: poiché queste altezze sfuggono ai lumi naturali. Né è una visione, perché non la possiedo ancora che solo nella speranza. Cosa rimane allora, se non la fede? La fede, dico, « Sostanza delle cose che dobbiamo sperare, dimostrazione di quelle che non si possono vedere » (Hebr. XI, 1). – Una seconda ragione, non meno convincente della prima, deriva dalla legge del progresso, che governa ogni creatura uscita dalle mani divine. È infatti l’ordine della provvidenza di Dio che nessun essere al di fuori di Lui riceva, nel primo momento della sua esistenza, la perfezione finale che deve raggiungere. Ovunque e sempre ci deve essere crescita e movimento verso uno stato più perfetto. Tutto quaggiù è soggetto a questa legge; tutto deve salire dal meno perfetto al più perfetto, dalla bontà cominciata alla bontà consumata, sia le opere della natura, sia le produzioni dell’arte, sia le meraviglie della stessa grazia. – Io ho detto: le opere della natura. Aprire il libro di Genesi e vedrete la materia informe che, sotto l’azione del Creatore e per tappe successive, viene ordinata, si organizza e s’anima, e diventa il mondo dei vivi, il palazzo che Dio ha preparato per l’uomo. Senza andare tanto in alto, guardate quest’albero coronato di foglie e di frutti; non era all’inizio un debole stelo, che emergeva appena dalla terra e tremava al minimo soffio? E in quest’uomo di una maturità così vigorosa, quanti progressi si sono compiuti dal giorno in cui si è potuto dire: un bimbo è stato concepito! Ho detto: le produzioni dell’arte umana. Dov’è l’operaio che fin dalla prima stesura imprime al suo lavoro la perfezione? Quante notti passate nelle veglie, prima di avere questi capolavori di eloquenza, di poesia, di pittura!  Ho infine detto: le opere della grazia. Coloro che conoscono i misteri della nostra Santa Fede, sanno bene che per arrivare alla legge evangelica, la più perfetta di tutte, fu necessario che il mondo, sepolto nelle tenebre, fosse preparato per essa da rivelazioni, le quali vennero ad aggiungersi l’una di seguito all’altra, attraverso una lunga serie di secoli. “…e quando, nella pienezza del tempo, Dio, che un tempo aveva parlato ai nostri padri attraverso i profeti, ci ha rivelato tutta la Verità attraverso il Suo Figlio e lo Spirito del Figlio” (Ebr. I, 1), il progresso della fede non era ancora al suo termine. Al progresso nella rivelazione della verità è seguito il progresso nella comprensione e nell’espressione di quella stessa verità. – Dove ci portano queste considerazioni generali, se non alla conclusione che il figlio di Dio che deve, alla fine del suo sviluppo finale, trovarsi di fronte alla Bellezza Sovrana, contemplata senza ombre e veli, non possa, nel corso della sua formazione successiva, né vederla faccia a faccia né ignorarla completamente; in altre parole, che debba credere a ciò che vedrà? Poiché togliere la fede è togliere quel primo abbozzo di perfezione finale, “aliqua inchoatio finis“, che si trova in ogni essere creato, come il seme del suo normale sviluppo. Voi siete diventati, suppongo, con il lavoro e la meditazione uno studioso di prim’ordine. Ma questa Scienza ne aveva ricevuto il germe, indipendentemente da ogni studio e lavoro, nei primi principi che la natura incide universalmente nell’intelligenza umana al suo primo risveglio (S. Tom. De Verit,, q. 14, a 2; col. a.10). Ora, ancora una volta, Dio non è meno saggio né meno liberale nell’ordine della grazia che in quello della natura. Perciò, all’inizio della formazione soprannaturale, è necessario imprimere nel profondo delle anime questa conoscenza elementare delle grandi cose che un giorno vedremo, cioè la fede. – Ho dimostrato la necessità di conoscere il nostro fine mediante la fede: questa fede non è meno indispensabile per arrivare alla conoscenza delle vie che possono e devono condurvici. « Perché ciò che è ordinato verso il fine deve essere proporzionato al fine. Se dunque il fine ultimo della vita umana supera le potenze della natura, e di conseguenza della ragione … è anche necessario che ciò che ci dirige a questo supremo fine sia anche al di là della loro portata » (S. Thom. III, D. 24, q.1, a.3, sol 1. ad 3). Ecco perché il Santo Concilio Vaticano, con la Costituzione “Dei Filius“, ha formalmente insegnato che la rivelazione, e di conseguenza la fede, è assolutamente necessaria. Perché? « Perché Dio nella sua infinita bontà ha ordinato l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione di quei beni divini che superano l’intelligenza di ogni anima umana » (Concilio Vaticano, sess. III, Cost. de Fide catholic, c. 2). – Aggiungiamo un’ultima prova, basata, come quelle che precedono, su un’analogia molto sorprendente che: in ogni essere capace di conoscere, il modo di conoscere è in relazione alla natura propria di colui che conosce. Infatti, il modo e la portata della conoscenza sono diversi in Dio, diversi nell’Angelo, puro spirito, diversi nell’uomo, composto di spirito e materia, e diversi nell’animale privo di ragione, secondo la differenza delle proprietà e delle nature. – Ora, la natura dei figli adottivi di Dio non è più una natura puramente umana, una natura racchiusa nei limiti che essa comporta in virtù dei suoi principi costitutivi e della sua origine; è una natura elevata, trasfigurata dalla grazia, la natura di un essere divinizzato, una natura deiforme. Perciò è necessario, in accordo con la legge che regola il modo e il campo della conoscenza secondo la natura e le sue proprietà, occorre, al figlio di Dio, dico, una conoscenza commisurata a ciò che è diventato per grazia. Più tardi questa sarà nella pienezza del suo essere di grazia, la visione di Dio; ora deve essere la fede a rivelargli misteri sconosciuti alla ragione. Perché solo la fede può stare tra la conoscenza naturale e l’intuizione della gloria, condividendo le infermità dell’una e gli splendori dell’altra.

3. – Infine, la grazia è in noi la radice della virtù della speranza. Il vero amore non prescinde dal desiderio di un’unione sempre più intima con la persona amata. Per questo è così dolce per gli amici vedersi e vivere tra loro in modo familiare, e così difficile a volte essere separati per troppo tempo. E nella famiglia, che strazio quando la morte porta via un padre o dei figli teneramente amati! Che gioia quando siamo riuniti alla stessa tavola, nella stessa casa. – E così, dal momento che la grazia fa dell’uomo un amico di Dio e, ancor più, un figlio prediletto di questo Padre così amoroso; poiché sappiamo per fede che è possibile per noi avere con questo amico e Padre l’ineffabile unione che renderà la nostra beatitudine eterna, come può il desiderio di questa vita comune con Lui non essere il frutto naturale della grazia e della carità? E siccome il desiderio, senza la speranza di arrivare al possesso dei beni a cui si aspira, è il tormento dell’anima, era necessario che Dio, arricchendoci della sua grazia, desse alla fede e alla carità quella compagna inseparabile: la speranza divina. – Questa prova suppone l’esistenza della carità nell’anima del fedele. E ce n’è un’altra che non poggia necessariamente su questa ipotesi. La fede che ci ha fatto conoscere il nostro destino soprannaturale, ci mostra che esso non è solo sovranamente invidiabile, ma anche possibile con l’aiuto promessoci da Dio. Questo è sufficiente per far nascere in noi l’atto di speranza. Così io trovo in questa doppia rivelazione le due condizioni necessarie per aspirare al possesso di Dio: l’amore iniziale della bontà suprema e la fiducia di poterla raggiungere per goderne. E poiché, nei giusti, le abitudini infuse rispondono agli atti come una causa al suo effetto, ne consegue chiaramente che la grazia che ci giustifica non può entrare in un’anima senza portare con sé la santa speranza, forza e consolazione del nostro esilio. Diciamo dunque con il Principe degli Apostoli: « Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale, secondo la grandezza della sua misericordia, ci ha rigenerati… nella viva speranza di quella eredità immortale e incorruttibile che ci è riservata nei cieli…  »  (1 Pet., I, 3-4- ).

4. – S. Tommaso riassume tutta questa dottrina in un passaggio molto bello nelle sue Questioni Controverse. Penso che sia utile dare qui tutto il testo, in modo che si possa abbracciare a colpo d’occhio tutto l’insegnamento del principe della Scuola sulla grazia e le virtù infuse. Dopo aver osservato che la funzione propria della virtù è quella di rendere buono l’essere che la possiede e l’atto che compie, e che, di conseguenza, la virtù si distingue dunque nell’uomo dai beni che sono appropriati all’uomo, il santo dottore continua: « Dobbiamo considerare che c’è un doppio bene per l’uomo:  uno che è proporzionato alla sua natura razionale, l’altro che supera incomparabilmente i poteri e le esigenze di questa stessa natura… Ora – egli aggiunge – tutto ciò che è ordinato verso un fine lo è per sua operazione. D’altra parte, è evidente che i mezzi debbano essere realmente proporzionati a questo stesso fine. La conclusione che segue rigorosamente da queste tre verità è che l’uomo, ordinato verso un fine soprannaturale, debba avere in sé delle perfezioni che superano in virtù i principi e le perfezioni proprie alla sua natura. Questo non potrebbe essere, se Dio, con la sua operazione onnipotente, non gli abbia infuso, oltre e al di sopra dei principi naturali, altri principi di operazione essenzialmente superiori alle sue energie native. – « Ora, i principi naturali di operazione, quelli che sono propri dell’uomo in quanto uomo, sono l’essenza dell’anima e le sue potenze ragionevoli, l’intelligenza e la volontà: l’essenza per cui è uomo; l’intelligenza, con quella conoscenza come innata dei principi primi che presiedono ad ogni sviluppo intellettuale; la volontà, con l’inclinazione naturale verso il bene che deve essere la perfezione della natura e il suo legittimo coronamento. È necessario, quindi, che l’uomo sia capace di compiere gli atti che lo ordinano al fine della vita eterna, debba, dico, avere in sé sia la grazia che dà all’anima l’essere spirituale, sia i principi di attività che sono in armonia sia con il nuovo essere che con il fine superiore per cui è fatto. – « Quali saranno questi principi? Prima di tutto, sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità: la fede per illuminare l’anima con certe verità soprannaturali che sono in quest’ordine ciò che i principi naturalmente conosciuti sono nell’ordine della natura; la speranza e la carità per inclinare e muovere l’anima all’acquisizione del bene soprannaturale verso cui la volontà puramente umana non è sufficientemente ordinata. E, proprio come questi principi naturali richiamano con essi le abitudini di virtù che perfezionano l’uomo nell’ordine della natura, così è necessario che l’anima rigenerata riceva dall’influsso divino, oltre alla grazia e alle virtù teologali, altre virtù infuse che la perfezionino e la rendano capace di tendere, attraverso tutta la sua attività, al fine supremo della sua vita soprannaturale e divina » (S. Thom. De Virt. In comm. q., un., a, 10).

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (15)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (15)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO SESTO

JANUA CŒLI

« Tutto, in Lei, si svolge di dentro »

1) La Vergine del Carmelo — 2) La Vergine della Incarnazione 3) Janua coeli.

Era impossibile che suor Elisabetta della Trinità non riserbasse alla Madre di Dio un grande posto nella sua vita. Condizione essenziale per essere salvi è la devozione alla Madre di Cristo; e tutti i santi, infatti, hanno amato Maria con passione, ciascuno nella linea della propria grazia personale. San Paolo, in conformità alla sua missione, mette in evidenza il posto che, nell’economia della Redenzione, occupa la Vergine santa in funzione del mistero di Cristo « nato da una donna » (Gal. IV, 4), per essere il Salvatore dell’umanità decaduta. Nel cuore di Giovanni scolpito, indelebile, il ricordo dell’ora suprema in cui il morente ha lasciato Maria per Madre a lui e a tutti i predestinati; e, nella sua Apocalisse, ci rivela come questa dolce Madre non si disinteressa di noi, dopo la sua morte e gloriosa assunzione; anzi, più vigile, più madre che mai teneramente china su tutti i suoi figli, si vale della sua presenza dinanzi al volto dell’Onnipotente, per meglio intercedere in nostro favore. Sant’Agostino ce la mostra divenuta Madre del « Cristo totale » nel momento dell’Incarnazione, per la sua carità. I Padri greci hanno esaltato con grazia poetica e con ,magnificenza la « tutta santa », il tabernacolo vivente del Verbo Incarnato, il tempio purissimo della Trinità. Da venti secoli, la Chiesa d’Oriente e d’Occidente, con sant’Efrem, san Cirillo, sant’Anselmo, san Bonaventura, san Tommaso — bisognerebbe citare tutti i dottori e tutti i santi — non fa che proclamare la parte unica ed universale di Maria nell’opera della nostra salvezza. Madre di Dio e degli uomini, Maria adempie il disegno divino con la sua bontà materna. Non un movimento si produce in tutto l’insieme della redenzione senza che, dopo Gesù e con Gesù, Maria non vi abbia la sua parte: « Questa è la volontà immutabile di Colui il quale ha stabilito che tutto ci giunga per mezzo di Maria » (S. Bernardo: Sermo de Nativitate B. V. M.). – Nella sua devozione mariana, ogni santo serba la propria fisonomia. Estatico dinanzi alle grandezze della Vergine Madre, l’anima ardente di un san Bernardo, il citaredo di Maria, canta: « De Maria, numquam satis ». San Tommaso ferma il suo sguardo di teologo sulla divina maternità, chiave di volta di tutte le grandezze di Maria; e contempla la Madre del Verbo che, per questa maternità, tocca i confini della divinità, perché il Figlio dell’Eterno Padre è anche e veramente Figlio della Vergine. La devozione mariana di suor Elisabetta della Trinità non va ridotta ad una forma troppo determinata di « schiavitù », quale la concepiva, per esempio, il beato Grignon di Montfort. Non sappiamo nemmeno se ne avesse letto il « Trattato della vera devozione alla Vergine santa », capolavoro della nostra letteratura mariana. – Essa va alla Madonna con tutta la sua anima di contemplativa e trova in Lei la perfetta realizzazione del suo ideale interiore. Si sente attirata soprattutto dalla Vergine dell’Incarnazione, adoratrice del Verbo nascosto nel suo seno, che passa calma e maestosa sulle montagne della Giudea, raccolta nell’intimo col Verbo che abita in Lei, senza che nulla possa distrarla dalla sua visione interiore. La Vergine preferita da suor Elisabetta della Trinità è la Vergine del silenzio e del raccoglimento. Ma non è stato sempre così. Per molto tempo, la sua pietà verso Maria somigliava a quella di molte fanciulle la cui fisonomia spirituale non ha ancora delle note definite e personali. Andava alla Vergine santa come alla custode della sua purezza e, in ognuna delle feste di Maria. rinnovava il suo voto di verginità. Ricorreva a Lei in tutti i suoi bisogni, un po’ come fanno i bimbi che, istintivamente, cercano protezione presso la mamma; e, nei momenti difficili la implorava fervorosamente per il suo avvenire e per la sua vocazione. La Vergine di Lourdes la vide, supplice ai suoi piedi per tre giorni, offrirsi nelle sue mani come vittima per i peccatori, sotto il suo sguardo materno, per sempre. Mai Elisabetta sarebbe uscita di casa per recarsi ad una festa mondana, senza essere andata prima dalla Madonna a chiederle la benedizione. E la Madonna esaudisce sempre la preghiera dei cuori puri; la grazia che emana da Lei, Vergine, fa vergini le anime, le custodisce sante e immacolate nell’amore, sotto lo sguardo di Dio; e suor Elisabetta della Trinità deve alla sua speciale protezione la grazia di essere passata sulla terra pura come un giglio. Il suo « diario » di fanciulla è pieno del pensiero di Maria. In ogni occasione, lieta o triste, ricorre a Lei, invocandone l’intervento persino in certi particolari che ci farebbero quasi sorridere, ma i santi vedono le cose meglio di noi. Un giorno, per timore di essere applaudita, in un concerto e di provarne vana compiacenza, prega la Vergine santa di impedirle, in qualche modo, di partecipare a quella festa; ebbene, la sera della vigilia viene assalita da un mal d’orecchi così forte che, l’indomani, deve rinunciare a presenziare al concerto. A quattordici anni, va in pellegrinaggio, insieme ad una piccola amica, al santuario di Nostra Signora d’Etang in Borgogna, per impetrare la grazia di morire giovane: e lascerà la terra a 26 anni. Non si contano poi le preghiere e le novene, ogni volta che c’è una grazia nuova da ottenere. Nella sua vita di fanciulla, la Vergine santa c’entra sempre, in tutto. Citiamo a caso, il suo « Diario »: « 2 febbraio 1899 – Purificazione. Ad ogni festa di Maria, rinnovo la mia consacrazione a questa cara Madre. Oggi, dunque, mi sono donata a Lei, gettandomi di nuovo fra le sue braccia con la più assoluta confidenza. Le ho raccomandato il mio avvenire, la mia vocazione ». – « 12 marzo 1899. Maestro buono, se Tu non mi dai quest’anima, io ne morrò di dolore. Dammela, te ne scongiuro, a costo di qualsiasi tormento. Maria, Vergine di Lourdes, Nostra Signora del perpetuo soccorso, vieni in mio aiuto; tutto è perduto, se tu non fai un miracolo. E io conto su questo miracolo ». – « 24 marzo 1899. O Maria, Tu che io prego ogni giorno per ottenere l’umiltà, soccorrimi; schiaccia il mio orgoglio, mandami molte umiliazioni, Madre buona ». –  « 2 aprile 1899. Tutto è finito. Come è passata presto questa missione! Prima di lasciare la Chiesa, ho affidato il mio povero peccatore alla Vergine del perpetuo soccorso: le avevo promesso di invocarla ogni giorno per questa povera anima. Poi, mi sono nuovamente consacrata a Maria, abbandonandomi a Lei con fiducia piena; mi ha così bene esaudita riguardo alla mia vocazione, che io non potrò mai esprimerle come vorrei, tutta la mia riconoscenza e il mio amore. Sono felice, ho il cuore traboccante di gaudio; pregusto fin d’ora la mia prossima gioia. O Madre del perpetuo soccorso, ogni giorno ti invocherò per questa doppia intenzione: perché tu continui a sostenere la mia mamma car che ora a mi comprende così bene, e poi perché Tu sostenga anche me, in questa via della croce con Gesù, nella quale mi impegno con tanta gioia. Madre mia, fammi la grazia di perseverarvi, di divenire veramente perfetta; custodisci puro il mio cuore! ».

1) La sua pietà di Carmelitana verso la Vergine santa diviene ben presto vita di intimità profonda. In virtù di un processo psicologico del tutto normale, eppure degno di nota, si riscontrano nella devozione mariana dei santi gli stessi lineamenti generici della loro fisonomia spirituale. Suor Elisabetta della Trinità che, fin dal suo primo giorno al Carmelo, era « passata tutta quanta nella anima di Cristo », in virtù dei medesimi riflessi psicologici, fisserà il suo sguardo contemplativo sull’anima della Vergine. Soltanto pochi giorni dopo la sua entrata in Convento, scriveva alla mamma: « Ho messo l’anima mia in quella della Madre dei dolori e l’ho pregata di consolarti tanto. Abbiamo, in fondo al chiostro, una statua di « Mater dolorosa » per la quale ho molta devozione; amo tanto queste lacrime della Vergine Madre! Tutte le sere, vado a parlarle di te, mamma ». Il Carmelo è, per eccellenza. un Ordine mariano. « Le anime chiamate da Dio a servirlo nel nostro Ordine, sappiano che loro  primo e principale obbligo, come Carmelitano, è di onorare con particolare cura la santissima Vergine Maria: primieramente nella sua dignità suprema di Madre di Dio, in tutti i privilegi e le grandezze che questa dignità racchiude e nella sovranità che le conferisce sul cielo e sulla terra; in secondo luogo, nella bontà eccessiva e nella umiltà che hanno indotto la Vergine santa a farsi la Madre e la Patrona di questo Ordine. Per soddisfare a tale obbligo, ciascuna avrà cura di comunicarsi almeno una volta al mese, in onore della Santissima Vergine: e cioè, per il compimento dei suoi disegni sulla terra, per l’accrescimento. in tutte le anime, della devozione verso di Lei, e per ottenere che membri di questo Ordine la amino, la onorino, la servano e le appartengano, secondo tutta la estensione dei disegni di misericordia del suo divin Figlio e suoi » (Direttorio portato in Francia dalle Madri spagnole). – Notiamo la singolare elevatezza di questa devozione a Maria. La Carmelitana va diritta alla Madre di Dio per congratularsi con Lei di quella maternità. divina che spiega tutto in Maria: i privilegi e le grandezze e la sovranità sull’universo. – È l’atteggiamento normale di una Carmelitana: prima di tutto e sempre, Dio. Non c’è bisogno di aggiungere « Dio solo »; è sottinteso: l’anima della Carmelitana, dinanzi al mistero, si muove in una luce tutta divina, escludendo assolutamente ogni altra luce. La Vergine, come la Umanità santa del Cristo, ed ogni altra creatura, non sono considerate che in relazione a Dio. E soltanto in un secondo sguardo, discendendo dalla « suprema dignità di Madre di Dio », la Carmelitana penetra in quella Maternità di grazia « che, in un eccesso di bontà e di umiltà, ha indotto le Vergine santa a costituirsi Madre e Patrona del suo Ordine ». Ma non deve fermarsi qui; e, secondo la vocazione apostolica del suo Ordine, deve pregare e immolarsi « per il compimento dei disegni di Maria sulla terra », perché aumenti l’onore tributatole dalle anime, e perché i membri dell’Ordine, in particolare, la amino, la onorino, la servano e le appartengano, secondo tutta l’immensità dei disegni di misericordia del divin suo divin Figlio. Suor Elisabetta della Trinità seppe profittare in grado straordinario della devozione così equilibrata a cui i membri dei grandi Ordini religiosi – Sono iniziati durante la loro formazione. Una lunga tradizione di santità, una parola udita nel commentare un punto della Regola o del Direttorio, la silente correzione quotidiana operata dal semplice gioco degli avvenimenti della vita comune e cher ristabilisce le cose al vero posto, tutto questo fa sì che le anime fedeli, impegnandosi del più puro spirito del loro Ordine, avanzino rapidamente verso la perfezione. Ciò appare evidente, in modo particolare, in suor Elisabetta della Trinità, nello svolgersi della sua vita mariana. – Entrata nel Chiostro, la sua pietà verso Maria, assume rapidamente un carattere carmelitano. Per comprendere questa forma di devozione mariana, bisogna rendersi conto che, al Carmelo, la solitudine è tutto. E quale solitudine nell’anima della Vergine! In lei, più niente di umano. È l’essere puro, luminoso, trasparente, libero, che l’amore colpevole e soltanto troppo sensibile non sfiorò mai; è la tutta Vergine per eccellenza, separata da tutto.  È Colei che passò nella via «Sola col Solo », non volendo altri che Lui, nella gioia e nel dolore. Solitudine del cuore della Vergine, che il sensibile non avvinse mai, che attraversò gli affetti di questo mondo effimero « santa ed immacolata nell’amore ». – Solitudine dell’anima della Vergine in conversazione con Dio solo, seza dobbio in attiva partecipazione alla vita degli uomini, ma per compiervi un’opera ddivina, anima di Corredentrice, sempre più immedesimata con l’animo di Cristo  così solitario la sera, sulla montagna, o nell’orto del Gethsemani. Solitudine divina dell’anima della Vergine, elevata, col Verbo suo Figlio, sini al confine della Divinità, e là associata a tutti i disegni della Trinità a causa del suo posto universale nella salvezza del mondo; soprattutto, così infinitamente distante dal Dio suo Figlio. Sono abissi che fanno tremare. –  Giunti alle alte cime, i santi sono gli uomini più soli sulla terra. Che dire della Vergine e di Cristo? Chi pensa alla solitudine dell’anima del Verbo? In principio era il Verbo, e il Verbo in Dio, era nella propria dimora; e il Verbo si è fatto carne, è venuto ad abitare fra noi, ma i suoi non l’hanno ricevuto. E noi l’abbiamo visto, quale un Dio solitario, aggirarsi in mezzo alla sua creazione. È vero; dentro di « Lui c’era l’Unità col Padre e con l’Amore; ma chi avrebbe potuto supporlo, vedendolo? – Lo stesso, fatte le dovute proporzioni, era dell’anima di Maria, così sola in mezzo agli uomini a Nazareth, a Bethlem, ai piedi della croce; in realtà, tutta nascosta in Dio con Cristo del quale sempre, nel cuore, meditava il mistero.

2) Questa vergine del Carmelo, estranea a tutto il creato e adoratrice del Verbo ascoso nel suo seno, è la Vergine dell’Incarnazione, la Vergine che suor Elisabetta della Trinità predilige, perché anche il suo ideale è vivere silenziosa e adoratrice del Dio celato nelle intime profondità dell’anima sua. – « Pensiamo che cosa doveva provare l’anima della Vergine quando, dopo l’Incarnazione, possedeva in sé il Verbo Umanato, il Dono di Dio! Con quale silenzio, con quale raccolta adorazione doveva inabissarsi nel profondo dell’anima sua, per stringere a sé quel Dio di cui era Mamma! » (Lettera alla sorella – Novembre 1903). – Non devo fare nessuno sforzo per penetrare in questo mistero dell’inabitazione divina nella Vergine santa; mi sembra di trovarvi il movimento abituale dell’anima mia, che fu pure il suo: adorare in me il Dio nascosto » (Lettera alla sorella – Novembre 1903). – Leggendo san Giovanni della Croce, scopre in Maria il modello perfetto dell’unione trasformante, e sogna di passare sulla terra come la Vergine: silenziosa e adoratrice del Verbo, tutta perduta nella Trinità. « Leggo in questo momento delle pagine così belle nel nostro Padre san Giovanni della Croce, sulla trasformazione dell’anima nelle Tre Divine Persone. A quali abissi di gloria siamo chiamati! Ah! io comprendo i silenzi, il raccoglimento dei santi che non potevano più uscire dalla loro contemplazione. Perciò, Dio poteva condurli sulle divine altezze, dove l’« Uno » si compie e si perfeziona fra Lui e l’anima divenuta misticamente sua sposa. Il nostro beato Padre dice che, allora, lo Spirito Santo la eleva ad altezze così stupende, da renderla capace di produrre in Dio la stessa spirazione d’amore che il Padre produce col Figlio e il Figlio col Padre; spirazione che è lo stesso Spirito Santo. E dire che il Signore buono ci chiama, in nome della nostra vocazione, a vivere in queste luminosità sante. Che adorabile mistero di carità … Vorrei corrispondervi passando sulla terra, come la Vergine santa: « Custodendo tutte queste cose nel mio cuore » (S. Luc. II, 51), seppellendomi, per dir così, nel fondo della mia anima, affine di perdermi nella Trinità che ivi dimora, per trasformarmi in sé. Allora il mio nome, « mio ideale luminoso », sarà realizzato: io sarò veramente Elisabetta della Trinità » (Lettera al sacerdote Don Ch… 23 novembre 1903). – Nutriva particolare devozione per un’immagine che aveva ricevuta e che rappresentava la Vergine dell’Incarnazione, raccolta sotto l’azione della Trinità. « Nella solitudine della mia cella che io chiamo « il mio piccolo paradiso », perché è tutta piena di Colui del quale si vive in cielo, guarderò spesso la preziosa immagine, e mi unirò all’anima della Vergine allorché il Padre la copriva della sua ombra, il Verbo si incarnava in Lei e sopra di Lei scendeva lo Spirito Santo per operare il grande mistero. La Trinità tutta è in azione, si offre, si dona. E la vita della Carmelitana non deve forse svolgersi in questi amplessi divini? » (Lett. alla s De S… 1905). La Vergine dell’Incarnazione, tutta raccolta sotto la azione creatrice della Trinità « che opera in Lei grandi cose » è il più caro, il più intimo ideale della devozione mariana di suor Elisabetta, l’ideale a cui si sente attratta quasi per « connaturalità », diremo con la teologia. Da questa devozione lungamente vissuta doveva scaturire un giorno quell’elevazione così bella alla Vergine, scritta nel suo ritiro: « Come trovare il cielo sulla terra ».« Si scires domum Dei! Se tu conoscessi il dono di Dio! » (S. Giov. IV, 10), diceva una sera Cristo alla Samaritana. Ma che è mai questo dono di Dio, se non Lui stesso? Il discepolo prediletto ci dice: « Egli è venuto nella sua casa, ma i suoi non l’hanno ricevuto » (S. Giov. I, 11). E san Giovanni Battista potrebbe ripetere ancora a molti quel suo rimprovero: « C’è in mezzo a voi — in voi — uno, che voi non conoscete » (S. Giov. I, 26). « Se tu conoscessi il dono di Dio ». Ma una creatura c’è, che ha conosciuto questo dono di Dio, che non ne ha lasciato disperdere la minima particella; una creatura così pura, così luminosa, da sembrare, lei, la stessa luce: Speculum iustitiae; una creatura la cui vita fu tanto semplice, tanto nascosta in Dio, che non se ne può dire quasi nulla. Virgo fidelis: è la Vergine fedele, colei che « custodiva tutte le cose nel suo cuore » (S. Luc. II, 51). Se ne stava così piccola, così raccolta dinanzi a Dio nel segreto del Tempio che attirò le compiacenze della Trinità santa. « Perché Egli ha rivolto lo sguardo alla piccolezze della sua ancella, ormai tutte le generazioni mi chiameranno beata » (S, Luc. I, 48). Il Padre, chinandosi verso questa creatura così bella, così ignara della sua bellezza, volle che fosse nel tempo, la Madre di Colui di cui Egli è Padre nell’eternità. Intervenne allora lo Spirito d’Amore che presiede a tutte le opere divine; la Vergine disse il suo « fiat »: « Ecco la serva del Signore; si faccia di me secondo la tua parola » (S, Luc. I, 38), e il massimo dei miracoli si compì. Con la discesa del Verbo in Lei, Maria fu per sempre preda di Dio. – La condotta della Vergine nei mesi che passarono tra l’Annunciazione e la Natività mi pare debba essere di modello alle anime interiori, a quelle anime che Dio ha elette a vivere raccolte « nel loro intimo », nel fondo dell’abisso senza fondo. Con quanta pace, in quale raccoglimento Maria agiva e si prestava ad ogni cosa, Anche le azioni più ordinarie erano da lei divinizzate perché, in tutto ciò che faceva, la Vergine restava pur sempre l’adoratrice del dono di Dio; né questo le impediva di donarsi è attivamente anche nella vita esteriore, quando c’era da esercitare la carità: il Vangelo ci dice che « Maria percorse con grande sollecitudine le montagne della Giudea, per recarsi dalla cugina Elisabetta » (S. Luc. I, 39). La visione ineffabile che contemplava dentro di sé non diminuì mai la sua carità esteriore, perché se la contemplazione si volge alla lode e all’eternità del suo Signore, ha in sé l’unità e non potrà perderla mai » (Il Paradiso sulla terra, 12° orazione).

3) Una tale elevatezza di pensiero non scaturisce d’un tratto e a caso; suppone una lunga vita di intimità con Maria; e i documenti infatti la confermano. Bambina ancora, le sue prime poesie erano sbocciate per cantare la Vergine, « custode della sua purezza »; il suo diario di fanciulla era pieno del pensiero lei: e quando divenne Carmelitana, la Madonna rimase sempre inseparabile dai minimi particolari della sua vita. Spesso, firmava le sue lettere: « Suor Maria Elisabetta cella Trinità ». Compose la sua celebre preghiera nella festa della Presentazione, quella festa « tanto cara » in cui ritrovava il movimento più abituale del suo cuore: l’oblazione della Vergine alla Trinità, non più a Gerusalemme, ma nel tempio dell’anima sua. « O mio Dio, Trinità che adoro!… Pacifica l’anima mia, rendila tuo cielo, tua amata dimora, luogo del tuo riposo. Che, in essa, non ti lasci mai solo, ma tutta io vi sia, ben desta nella mia fede, immersa nell’adorazione, pienamente abbandonata alla tua azione creatrice ». Quando giunse la sera di questa vita così breve, suor Elisabetta si volse con raddoppiata tenerezza alla Immacolata, la Madonnina della sua vestizione. « È stata lei, l’Immacolata, a darmi l’abito del Carmelo; oggi la prego di rivestirmi con quella tunica di finissimo lino della quale si adorna la sposa per recarsi al banchetto di nozze dell’Agnello » (Lettera al Canonico A… – Fine luglio 1906.). Una notte — era in infermeria — mentre il suo sguardo si posava sopra un’immagine della Vergine addolorata appesa alla parete, sentì interiormente uno di quegli avvertimenti che Dio suole rivolgere all’anima dei suoi santi. Ricordandosi, allora, di una Vergine di Lourdes dalla quale aveva ricevuto tante grazie quand’era bambina, richiese alla mamma, affinché Colei che l’aveva vegliata nel suo ingresso alla vita, « la custodisse ancora al suo uscirne ». Da allora, la chiamò « Janua cœli », e quella statua non la lasciò più. Estenuata di forze, suor Elisabetta si trascinava ancora nella piccola tribuna prospiciente il coro, portando penosamente nelle mani quella statua alta più di trenta centimetri, quasi troppo pesante per le sue dita tremanti, prive di forza. Quando si vedeva Janua cœli, Laudem gloriæ non era lontana. Un giorno suor Elisabetta mise nella cella della sua Madre Priora una piccola costruzione in cartone rappresentante una fortezza col ponte levatoio. Vicino alla porta chiusa, una Vergine di Lourdes in rilievo: era Janua cœli. Ad un angolo della torre merlata, sventolava una bandiera recante questa iscrizione: « Castello del dolore e del santo raccoglimento, abitazione di Laudem gloriæ in attesa della Casa del Padre. Janua cœli (Janua cœli è un’invocazione della S. Vergine che significa “Porta del cielo”) era divenuta per lei la porta della Trinità. – Nelle ultime ore della sua agonia, si cercava di consolarla ricordandole la presenza della Vergine che amava tanto. « La Vergine santa sarà là, ti terrà la mano ». « Sì, è vero, Janua cœli Janu: lascerà passare Laudem gloriæ » L’antivigilia della morte, fu udita ancora mormorare: « Fra due giorni, sarò in seno ai miei Tre. « Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi » (Ps. CXXI, 1). È la Vergine, questo essere tutto luce, tutto purezza, della purezza di Dio, che mi prenderà per mano per introdurmi in cielo, in quel cielo così splendente …» – Volle sotto la protezione di Janua cœli l’ultimo suo ritiro sulla terra, e la sera del 15 agosto vì entrava come « nel noviziato del cielo, per prepararsi a ricevere la veste della gloria » (Biglietto di una consorella). Fino dal primo giorno di questo suo ritiro, si rivolgeva alla Vergine, per chiederle la realizzazione del supremo desiderio dell’anima sua: « Essere conforme a Cristo, crocifisso per amore, e divenire, a somiglianza di Lui, una perfetta lode di gloria della Trinità. « Nessuno ha veduto il Padre — ci dice san Giovanni — se non il Figlio e coloro ai quali è piaciuto al Padre di rivelarlo » (S. Giov. VI, 46); e mi pare che si possa soggiungere: Nessuno ha saputo comprendere il mistero di Cristo nella sua profondità, se non la Vergine santa. Giovanni e la Maddalena sono penetrate molto addentro in questo mistero; san Paolo parla spesso dell’« intelligenza » che gliene è stata data; eppure, come rimangono nell’ombra tutti i santi, quando si pensa alla chiarezza interiore della Vergine!… Essa è inenarrabile. Il segreto che « Maria custodiva e meditava nel suo cuore » nessuna lingua ha potuto mai esprimerlo, nessuna penna rivelarlo. Questa Madre di grazia formerà l’anima mia, farà sì che la sua figliolina divenga un’immagine vivente, « eloquente » del suo Primogenito, il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre» (?Ultimo ritiro, I). Nell’ultimo giorno dello stesso ritiro, suor Elisabetta compose di getto, come un canto sgorgato dal cuore, una bella elevazione alla Vergine, di una sicurezza dottrinale impeccabile e di una profondità sorprendente. È l’ora della sua più evoluta dottrina mariana. Vi sono certe pagine dei santi, che bisognerebbe leggere in ginocchio: « Dopo Gesù Cristo e, s’intende, a quella distanza che passa tra l’infinito e il finito, vi è una creatura che fu anch’essa la grande lode di gloria della santissima Trinità; ella corrispose pienamente all’elezione divina di cui parla l’Apostolo: fu sempre pura, immacolata, irreprensibile agli occhi del Dio tre volte santo. – La sua anima è così semplice; i movimenti ne sono così profondi, che non si posson scorgere. Sembra riprodurre sulla terra la vita dell’Essere divino, l’Essere semplicissimo; quindi, è così trasparente, così luminosa, che si potrebbe crederla la stessa luce; eppure, non è che « lo specchio del Sole di giustizia: speculum iustitiæ ». « La Vergine custodiva queste cose nel suo cuore » (S. Luc. II, 51). tutta la sua storia può essere compendiata da queste parole; visse nel proprio cuore e a tali profondità che lo sguardo umano non può seguirla. Quando leggo nel Vangelo che « Maria percorse con tutta sollecitudine le montagne della Giudea » (S, Luc. I, 39) per andare a compiere un’opera di carità presso la cugina Elisabetta, io la vedo passare bella, calma, maestosa, intimamente raccolta col Verbo di Dio. La sua preghiera, come quella di Lui, fu sempre: « Ecce: eccomi! ». — Chi? — L’ancella del Signore, l’ultima tra le sue creature. Lei, sua Madre! –  Era così sincera nella sua umiltà! Perché fu sempre dimentica, libera di se stessa, sicché poteva cantare: « L’Onnipotente ha fatto in me grandi cose; tutte le generazioni mi chiameranno beata ». – Questa Regina dei vergini è anche Regina dei martiri; ma la spada la trafigge nel cuore, perché tutto, in Lei, si svolge nell’intimo. La contemplo. Oh, come è bella nel suo lungo martirio, circonfusa da una specie di maestà da cui emana e forza e dolcezza! Perché ha imparato dal Verbo stesso come dovevano soffrire quelli che il Padre ha scelti come vittime, quelli che ha deciso di associare alla grande opera della redenzione, « che ha conosciuti e predestinati ad essere conformi al suo Cristo », crocifisso per amore. È lì, ai piedi della Croce, diritta e forte nel suo coraggio sublime; e Gesù mi dice: « Ecce Mater tua ». Me la dà per Madre. Ed ora che è ritornata al Padre, che ha messo me al suo posto sulla croce, affinché « io soffra in me quello che manca alla sua Passione per il suo mistico Corpo che è la Chiesa », la Vergine è qui ancora, vicina a me, per insegnarmi a soffrire come Lui. per farmi sentire gli ultimi canti dell’anima di Gesù, che soltanto Lei, sua Madre, ha potuto intendere. – E quando avrò pronunciato il mio « consummatum est », sarà ancora Lei, Janua cœli, che mi introdurrà negli atrî divini dicendomi, piano, la misteriosa parola: « Lætatus sum in his quæ dicta sunt mihi: in domum Domini ibimus » (Ps. CXXI, 1 – Ultimo ritiro).

LO SCUDO DELLA FEDE (216)

LO SCUDO DELLA FEDE (216)

MEDITAZIONI AI POPOLI (IV)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE IV.

Il peccato

Noi siamo qui creati da Dio; tutto che abbiamo viene da Dio: adunque il sommo nostro dovere, la prima nostra giustizia è servire a Dio. Perciò commettere il peccato vuol dire non curar di Dio, negare la nostra sottomissione all’Eterno Creatore del tutto. Commettere il peccato, vuol dire, avere l’ardimento di usurpare le creature ordinate al servizio di Dio e con sacrilego insulto farle servire a scapricciare le nostre passioni a dispetto di Lui: vuol dire abusare dei doni della sua bontà e della vita istessa che Egli con amor ci conserva; e mentre come il più tenero dei padri, si piglia ogni più minuta cura di noi, noi voltargli le spalle colla più orribile ingratitudine, e venirgli a dire crudamente: Non serviam, io non mi curo di Voi: andate lungi da me, io vi ributto; non ho paura del vostro sdegno: e questa poca polvere, questa mia carne, anzi questa bruttura mi è più cara che non tutto il paradiso vostro, e Voi, Dio Stesso!…. Quale orribile tracotanza! Osare tal sacrilego sformato insulto contro alla divina Maestà tremenda, che, se solo soffia nel suo sdegno, manda l’universo in perdizione, e mentre ci tien sospesi qui affinché non cadiamo in inferno, noi avere l’audacia di batterci contro di Lui tra le sue braccia istesse; di mordergli la mano che ci sostiene; di gettare esecrati in seno alla Divinità santissima le ributtanti schifezze, le vituperate cose; insomma fare il peccato in braccio a Lui che lo aborrisce tanto, fino a mandare il suo Figlio a morir, per distruggerlo… Commettere il peccato vuol dire adunque commettere un male di tanto enorme malizia, quanto è grande Iddio in Se medesimo. Noi no, non diremo più in là: perché non possiamo spiegare quanto sia enorme male il peccato. Eh, bisognerebbe poter dimostrare quanto è grande Iddio!…. Via: facciamo di elevarci col pensiero alla sua grandezza. Considerate: mentre tutte le potenze della terra con tutti i loro sforzi non giungeranno mai a creare un sol granellino di polvere, Dio colla sua parola getta nel firmamento a mille a mille ì mondi come una manata di polvere. Così creò l’universo; E tal Maestà tremenda osiamo noi oltraggiar col peccato ?!… No no, non può bastar neppur l’inferno a dare condegna soddisfazione a Dio! Solo Dio stesso poteva cavarsi dal seno il Figliuol suo che si offrisse vittima per noi peccatori!….. Dio Crocifisso! Dio Crocifisso!… Ecco l’opera dei nostri peccati. O Maria Addolorata, tutta aspersa di Sangue sotto la croce del vostro Figlio Divino, voi là ben comprendeste che cosa sia peccato! E noi a calde lacrime vi confesseremo, che ci siamo traditi perdutamente, quando abbiamo commesso i peccati ma ora siamo così miserabili da non potere conoscere quanto spaventoso male abbiamo fatto! Madre benedetta, tirateci voi a guardare nel Cuore di Gesù qui in Sacramento, il quale così addentro squarciato, se ci fa intendere in qualche modo, che cosa sia peccato, ad un tempo però ci consola con dirci, che vi è ancora per tutti perdono per quel Sangue, che gronda ancor caldo sull’anima nostra in Confessione. Ora noi non potendo comprendere che cosa sia il peccato in se stesso, qui ai piedi di Maria, sotto Gesù lacerato in croce faremo di pesare la grandezza dei castighi del peccato, per fare conto quanto debba essere paurosa la sua malizia. Entriamo nella meditazione a pesare sulla bilancia della giustizia di Dio il peccato e i suoi castighi negli angeli ed in Adamo. Meditiamo primamente come fu castigato il peccato degli angeli, per piangere atterriti i peccati nostri in contrizione. Sa la vostra pietà come gli angioli peccarono contro Dio. – Tutto il genere umano sorge con noi per confermare il fatto della caduta degli angeli: mostrando esso in tutte le religioni (pur così svariate, pur così corrotte) che tutte le nazioni del mondo di tutti i tempi confessarono sempre esservi degli spiriti che diventarono malvagi, perché si ribellarono contro la Divinità. Tanto che, se si togliesse via da tutte le mitologie delle false religioni tutto ciò che hanno d’irragionevole, tutto ciò che hanno d’immorale, si troverebbe in fondo di tutte le credenze dell’universo questa verità del racconto della parola di Dio che rivela il mistero: peccarono gli angeli! La ragione annientata davanti al vero Dio non ha nulla da contrapporre. Poiché insomma nella caduta degli angeli si vede la creatura fornita d’intelligenza e di libera volontà la quale abusò dei doni. di Dio e non lo volle servire, non serviam, per innalzare se stessa. È verità, che una immensa moltitudine di angeli peccò! e che dopo il loro peccato, Dio si trovò in un nuovo rapporto con quelle creature. Egli le amava com’erano uscite dal suo amore; ma ora questi spiriti non erano più i figliuoli che volessero ricambiare d’amore Lui sempre, ì quali Egli voleva sempre seco beati. Si sono ribellati, e diventati nemici che lo vogliono combattere ostinatamente, commettendo il male davanti alla sua essenziale bontà. Ora la bontà di Dio deve difendersi contro del male che l’attacca. Così la bontà di Dio che si difende piglia la forma di un altro tremendo attributo, diventa giustizia: e bontà e giustizia di Dio si difendono dal male con castigare il peccato. – Qui, intanto, prima di pesare il peccato, vi prego, o carissimi, di fermarvi in cuore queste due verità, che avremo da ripetere all’uopo nel corso di questa meditazione. La prima è che Dio è infinitamente giusto, e perché è giusto non castiga mai il peccato più di quello che si merita. La seconda, che Dio è infinitamente buono, e per la sua bontà castiga il peccato sempre meno di quanto si merita. Ora lucifero, uno dei più belli angioli, in cui Dio sfoggiò nella ricchezza. dei suoi doni, lucifero principe della luce, rizza il capo nel regno dei cieli in orgoglio contro all’Altissimo, e dice: chi è questo Dio?…. Io nol servirò!… Con lui corrono a ribellarsi molti altri angeli: perché all’orgoglio non manca mai la bordaglia dei vili che si danno seguaci. Allora Dio guarda lucifero e gli angioli peccatori che gli stanno dinanzi in rivolta…. Li ha da castigare terribile nella sua giustizia, cui tempera la sua bontà; e Dio fulmina gli angeli colla tremenda parola « Siate castigati! » Ah! lucifero e gli angeli peccatori precipitano riversati dal cielo: più che folgore rapidi piomban fulminati in inferno!… Sono là i maledetti, diventati spaventosi demoni; e saran demoni, orrore di tutto il creato, e per tutta l’eternità!.. Deh deh! venite col pensiero sopra quest’orrido baratro di disperazione; e da quest’abisso misurate, se lo potete, la distanza che allontana il cielo dall’inferno; e pensate che, quanto è smisuratamente grande questo abisso di distanza, altrettanto è spaventosamente grande la malizia del peccato. Di qui colla mente dall’abisso dell’inferno solleviamoci a contemplare quegli angioli, quando essi erano in quello splendore di gloria, in cui potevano essere felici sempre in paradiso: e quindi guardiamoli giù, ora che sono. demoni, mostri orrendi in quella disperazione senza fine! Fermiamoci sopra l’inferno spalancato sotto dei nostri piedi, ed entriamo in giudizio colla nostra coscienza. Fu un solo peccato dagli angioli commesso, e col solo pensiero, quando non era ancor morto il Figliuolo di Dio per far comprendere quanto gran male fosse il peccato; e quegli spiriti sublimi, nella cui bellezza si specchiava Iddio stesso in cielo, diventarono orridi demoni, nell’inferno disperati per sempre… Noi pecchiamo tante volte, pecchiamo di pensiero, pecchiamo di parole, pecchiamo di opere, in ogni maniera commettiamo di esecrati peccati..; e noi la duriamo ancor per tanto tempo con tanti peccati a provocare l’ira di Dio… Deh deh! come potremo reggere dinanzi al furore di Dio!… Ahi che ci pare che già ci fulmini qui…. Ahi che c’ingoia l’inferno!… Dove fuggiamo?… la terra, i cieli, l’abisso sono nella sua mano: Egli conserva tutto colla sua parola: Egli può mandare i mondi in rovina sol che si sdegni..; Ahi ahi! Se ci vede ancor peccatori siamo dannati… Ripariamoci pentiti sotto il Crocifisso: attacchiamoci a Lui, affinché non ci divori quel baratro di disperazione eterna. – Or sì ben intendiamo il grande terrore dei Santi. Quando leggiamo, che certe anime di molta santità sovente esclamavano di non sapere come ad ogni momento non li colpisse ancora la giustizia di Dio! come mai la terra li sostenesse tuttora! come non si spalancasse, per ingoiarli, l’inferno! quando troviamo che non si potevano “dar pace più, al pensiero d’aver potuto forse anche con un solo peccato offendere Dio, noi consideriamo queste espressioni, come iperboli esaltate della fervente loro pietà. Pare a noi che dicessero con se stessi queste ed altre quasi sante menzogne, ma che non dovessero poi sentire in coscienza di meritarsi tanto castigo…. Ah, miei fratelli, che i Santi ben si addentravano in questa grande meditazione che spaventa l’anima: che, cioè è verità di Dio avere un solo peccato fatto gli angeli diventare demoni…. Grande Iddio, la Maestà vostra tremenda, e il pensiero di aver potuto peccare contro di Voi, li inabissava in tanto terrore! E noi?… Noi dobbiamo fare uno sforzo per eccitarci a qualche dolore, dopo di aver commessi tanti peccati!! Oimé, oimé! in così tetro accecamento siam noi caduti, che l’inferno spalancato, gli angioli per un peccato dannati, lo sdegno di Dio offeso non ci spaventano per niente! laddove per l’enormità dell’offesa di Dio un peccato solo ci dovrebbe spezzare il cuore per contrizione. – Intanto il primo frutto, che dobbiamo raccogliere da questa meditazione, si è l’umiltà, la quale ci deve rendere rassegnati a ricevere tutte le tribolazioni in questa povera vita, come tante grazie fatteci dalla misericordia di Dio, per risparmiarci i tremendi castighi della sua giustizia. Dobbiamo ricordare, anzi ripetere sovente alla nostra coscienza questa tremenda verità: per un solo peccato gli angioli meritarono di essere precipitati in inferno: or io troppo più di loro ho peccato le tante volte; non ho dunque ragione di lamentarmi di qualunque male m’incolga: i mali sono tanti colpi di che la giustizia di Dio castiga me peccatore, ma i suoi castighi in questa vita mia sono altrettante misericordie. Iustus es, Domine, et rectum iudicium tuum… Virga tua et baculus tuus, ipsa me consolata sunt. Adunque, se sono calunniato e maltrattato dagliuomini, dirò all’anima mia: è un po’ di giustiziache le creature, senza saperlo, fanno contro di meprotervo nemico di Dio. Se sarò caduto in povertà,se verrò buttato a languire sul letto dei dolori intante malattie, se mi colpiranno disgrazie d’ognimaniera… buon Dio! tutto è sempre per la vostra grande misericordia; che invece di avermi sprofondato nell’inferno, mi fate soffrire un tal poco di tribolazioni in questo così breve momento di vita: misericordia Domini quod non sumus consumpti !….È una grande misericordia di Dio, se non siam oradivorati dal fuoco eterno…. perocché, se Dio avesse fatto con noi a rigor di giustizia fino dalla prima colpa commessa, da tanti anni noi dovremmo esser dannati per sempre in inferno. Virga tua et baculus tuus, ipsa me consolata sunt. Quindi noi dobbiamo concepire un santo sdegno contro quest’uomo peccatore che siamo noi, e smontar giù da tante pretensioni, trangugiando nel silenzio dell’umiltà disprezzi e sofferenze, dispiaceri d’ogni fatta, ricordando che siam poveri sciagurati, meritevoli del fuoco eterno. Quando poi la nostra carne, questa nemica dell’anima che ci fece offendere Dio, intollerante di patimenti si lamentasse per poco di aver a soffrire, noi la porteremo col pensiero sopra l’inferno, e: guarda, le diremo, li dentro, in quell’orrendo fuoco dovrebbe essere la tua abitazione coi demoni in quegli spasimi tremendi per sempre…. Tizzone d’inferno! E ti lamenti di questi pochi mali di così breve momento? …. Ah gettiamoci piuttosto a baciar inteneriti nel cuore Gesù, il quale, mettendo i nostri patimenti insieme coi suoi, soddisfa per noi; e così ci porta via di bocca all’ inferno, e ancor ci vuole beati in paradiso. – Meditiamo nel secondo punto come fu castigato il peccato d’Adamo. Iddio creò Adamo padre di tutti gli uomini, e lo pose nel paradiso terrestre. Là, elevato come in trono, sovrano di tutte le creature della terra, viveva sotto un padiglione d’immensa luce di cielo; ai suoi piedi stendevasi un velluto d’erbe smaltato di fiori, davanti a lui le piante chinavano i rami ad offerirgli ogni maniera di frutta, e gli animali intorno ad aspettare i suoi cenni. Tutti i beni ch’ei gustava, come tanti assaggi, lo dovevano invogliare del Sommo Bene..; e… il cuore irrequieto lo slanciava a trovarlo in seno al Creatore. Affinché poi questa creatura, questo figliuolo anzi dell’amore di Dio non trasmodasse in perdizione, ma sì contenesse sottomesso al suo dominio e si lasciasse da Lui guidare, il quale lo avrebbe fatto beato, Dio gli fece comando, che non toccasse il frutto dell’albero della scienza del bene e del male; perché altrimenti si attirerebbe addosso, con tutti i mali, la morte. Adamo negò obbedienza, mangiò il frutto. Ecco il primo peccato. – Così Adamo peccò d’orgoglio rifiutando di assoggettarsi al comando di Dio. Ma, come peccò Adamo, pecchiamo noi disobbedendo alla legge di Dio. Adamo peccò d’amor proprio volendo mangiar del frutto per farsi eguale a Dio. Or, come peccò Adamo pecchiamo noi, quando invece di valersi delle cose create per servir Dio secondo la sua volontà ci serviamo, delle cose date a noi dalla. sua bontà, per accontentare noi a dispetto di Dio. Adamo peccò di sensualità, volendo mangiar del frutto per accontentare la gola. Pur troppo come peccò Adamo si pecca da noi per accontentare la carne! Ora come vediamo pesare il peccato d’Adamo, pensiamo da Dio si pesi ad uno ad uno ogni nostro peccato. – Ora ecco Adamo, ecco l’uomo che si ribella a Dio come nemico; e per la sua giustizia lo debbe fulminar di castigo; ma egli si ricorda della sua bontà. Ah, figliuoli! che qui batte troppo vivamente il cuore, erribil sicché mi è d’uopo interrompere per ricordarvi intenerito, che fin d’allora il Figliuol di Dio Salvator nostro benedetto diceva al Padre: pagherò io per quest’infelici! Così Dio nell’atto di castigare il peccato, guardando la bontà del Figliuol suo, pigliò la bilancia della sua giustizia: mise da una parte il peccato d’Adamo, come mette ciascun nostro peccato; e per contrabilanciare la colpa col meritato castigo, gettò sull’altra parte tutti i mali che prevedeva nel mondo: pesò…..; pesava di più il peccato. Deh pensate, verità di fede! che non vi sarebbero mali nel mondo se mai non vi fosse stato peccato. No, no vi sarebbero dispiaceri, non dolori, non lacrime di patimenti, non disperazioni, se mai non vi fosse stato il peccato. Dunque pel peccato vennero nel mondo tutti i mali. Tutti i mali? Che terribile parola, che spalanca innanzi alla mente il mare immenso di tutte le sciagure umane! Fermate il pensiero sulla serie delle sole malattie del corpo. Se vi si schierassero sotto degli occhi qui tutti i poveri infermi, che languiscono solamente in quest’oggi in tutti gli ospedali del mondo, (mio Dio!), quante luride piaghe! quanti tormini di convulsioni spaventose! quante membra consumate dall’etisie! quanti indescrivibili malori, tutti ributtanti che maciullano questa povera carne umana! Rifugge atterrito il pensiero… Immaginatevi poi tutti gli ammalati di tutto il mondo, di tutti i secoli. Che mar di dolori, troppo più grande del mar che abbraccia la terra! A questi mali solo dei corpi senza misura aggiungete tutti i mali dell’anime, i quali travalicano ogni misura immaginabile. Or Dio gettò questo smisurato ammasso di mali sulla terribil bilancia, gettò di riscontro il peccato: pesò…; pesava di più il peccato! Allora Dio gettò sulla bilancia la morte. Poiché non vi sarebbe stata la morte nel mondo, ove il peccato non l’avesse introdotta. Ma or via, mi dite: vi siete mai voi, o fratelli, fermati a considerare il terribile male che è la morte; e quanti spaventosi dolori cagiona agli uomini la morte? Pensate un istante: proprio in quest’oggi chi sa a quanti infelici quanti dolori fa provare la morte! Entriamo in quella povera casa percossa dalla disgraziata morte della madre di famiglia, che è la appena spirata. Quante angosce sotto quel tetto! In un angolo della camera il padre infelice colla testa sulle ginocchia, colle mani nei capelli!… cupo in silenzio!… poi si batte la fronte!… poi rompe nel gemito: Ma la compagna della mia vita è morta!…. morta la madre dei miei figliuoli!… Ma io non posso senza di lei;… e i miei poveri figli…. No!… qualunque altra disgrazia!… — Poi egli guarda come fulminato sul letto:… la madre è morta….. Ahi quali strida !…. sono esse di dolore… troppo acuto!… Ah è la figlia maggiore che corre dentro convulsa colle mani nelle trecce, e si getta colla testa contro del letto, e: Oh mamma, oh la mia mamma…. non l’avrò più!… No, mamma! che non dovete morire!… Qui’sempre con me voi.. ; non vi porteran via dalle braccia mie: no mai…, Alza la testa, la guarda esterrefatta… La mamma è morta…. Entra piangendo forte il fanciulletto: corre al solito dalla sorella; ma la buona ora lo respinge; ed egli alle ginocchia del padre; ma il padre lo ributta via, e: Va, disgraziato!… è per te questo colpo! … povero figliuol mio, senza la madre!… — Il figlio si volge alla mamma…, e si stringe al braccio di lei che pende dal letto… Ahi! ché è il braccio stecchito di un freddo cadavere! Si alza in punta di piedi, e guata sul letto… La madre è morta!… Si getta per terra arrotolandosi come in convulsione; urla… In quegli strazianti dolori anche il bimbo abbandonato si arrampica dalla culla a cercar il seno alla madre; ma quel seno è gelato, e quel cuore non palpita più!… La guarda in volto; ma quel volto color di cenere è sformato…; ma quella bocca fumante!.. quell’occhio di vetro annebbiato di morte!… Stride il povero bimbo…… Ha ragione: ha ragione!…… La sua mamma è morta. Oh la morte!…. La più orrida cagion di mali per questa povera famiglia umana… Oh morte, sempre terribile in tutte le forme, con cui ti presenti!… – Signori! noi vedemmo la morte forse nel più orrendo de’ suoi trionfi. Al tempo della guerra, per assistere i porveri nostri figliuoli scannati, ci gettammo sul campo della battaglia in quell’aria fosca di fumo, nei bagliori d’incendi dei diroccati edifizi. Oh Dio, quante urla! Voci alte e fioche e strida strazianti! Erano trentamila tra i morti ed i feriti morenti…. un orrore d’inferno! Qui subito un soldato sbattuto colla persona contro d’un sasso, portatagli via da un colpo la mascella di sotto, teneva la lingua penzoloni sovra del petto..: guizzava uno sguardo..; voleva dirci: deh aiutatemi a ben morire!… — Un altro rotto del capo…, colla faccia tutta di sangue, colla mano attrappata tentava in tremore stringerci la mano per…. Ahi moriva! Di li appresso un capitano, colla vita ad un albero spezzato, sentendo la nostra parola di pietà, manda un sospiro: Oh un sacerdote qui?…. — Sì, mio buon signore, per aiutarvi!… » – « O Padre, una consolazione anche per me!…. Guardatemi: ditemi, vedrò ancora i miei figliuolini?… » Poverino! una palla gli aveva portato via un occhio, e l’altro gli pendeva fuor sulla guancia. Qui, là, membra tronche colle schegge delle ossa infrante: larghi squarci nei petti; e tanti pensiero!….e tanti tenersi le viscere che si riversavan per terra: e troppi ammucchiati in pozze di sangue, stesi morti Ora ecco: li colle pugna serrate nello spasimo dei dolori… cogli occhi sbarrati e come di vetro sanguigno… colle tracce d’orrende morti ancor sulle facce annerite…. Noi piangevamo come madre sui poveri figli strozzati così, quando un buon ufficiale col pallore della morte… a noi « Oh Padre… avete ragione di piangere!… guardate là: per prendere quella posizione attaccaronla sei mila soldati, e tornarono soli cinquecento; cinquemila e cinquecento li mitragliati dai cannoni, trafitti nelle cariche alla baionetta, calpestati dai cavalli: orribile sfracellamento!… » Ah quanti orrori! oh morte!… Uomini d’orgoglio, ecco dove va a finire il carro della vostra tracotanza… alla morte!… alla morte!… A terra tutti sotto i passi della morte, che ci butta schiacciati appiè del trono della giustizia di Dio!… Ahi dalla terra tutta mischiata di tanti milioni di morti balena un lampo di luce di sangue, e tuona tremenda la voce: stipendium peccati mors: la morte è la paga del peccato. Questo tuono lascia voi per orrore nel silenzio, e me nel fremito del terrore!… Eppure Dio gettò con tutti i mali la morte sulla terribile bilancia: pesò;… pesava di più il peccato. Allora Dio nella tremenda sua giustizia gettò sulla bilancia finalmente l’inferno. Poiché non vi sarebbe l’inferno per gli uomini se non avessero mai peccato. – L’inferno?!… E chi può ponderare l’inferno? Chi può durarla in fissarsi in quel mare di disperati dolori?… Guardate nell’inferno quei reprobi che si arrovellano con furor di demoni in quei vortici di fiamme, che si sprofondano in quella fornace immensa di fuoco, cercano la morte, e trovano sempre la disperazione in rabbia eterna; ed ahi sotto i colpi del pendolo dell’eternità che batte coll’immutabile « sempre!… non mai!.. sempre nel fuoco: non fine, non mai…. sempre… fine non mai!… » Ahi ahi il fuoco dell’eternità ci abbrucia fino il pensiero!…. Col cuore annientato rifuggiamo dall’inferno!… – Ora ecco: Dio gettò tutti i mali del mondo, gettò le morti tutte, gettò l’inferno stesso sulla terribile bilancia e di riscontro il peccato: pesò;… pesava di più il peccato!… Poiché i mali degli uomini e fino tutti i mali dell’inferno, osserva S. Agostino, non sono che mali contro le creature; ma il peccato è male che offende il Creatore. Ma dunque il peccato prevalerà contro Dio? Ma dunque sopra il bene ha da vincere il male? E la giustizia eterna non avrà soddisfazione? E che ci voleva a soddisfare pel peccato? – Miei fratelli, guardiamo il Crocifisso, e comprendiamo. Ci voleva che Dio, per non mancare alla sua giustizia, sì cavasse dal seno della sua misericordia, come vittima condegna, il Figliuolo del suo eterno amore. Il Figliuol suo venne sulla terra, si fece uomo come noi per fare causa con noi comune; si mise dentro della nostra famiglia, stette in mezzo di noi dalla nostra parte, e volle dare Egli tale soddisfazione nel fior della vita, offerendosi per noi pagatore fino colla propria vita. Contempliamolo là nell’orto del Getsemani. Si getta in ginocchio davanti al Padre suo celeste; e, se si può dire colla misera parola umana: ciò, che diceva colla sua divina: Padre, par che esclami, sciagurati gli uomini vi offendono troppo indegnamente, e non potendo dare soddisfazione alla vostra giustizia, essi vanno tutti perduti! Ma eccomi, mi sono fatto uomo anch’io con loro, e soddisferò io per questi che mi ho fatto fratelli di mio sangue. — Così si piglia sul Cuore i peccati di tutti; vede la grandezza della Divinità in se stesso, e l’enormità dell’offesa di Dio: ne sente tutto il tremendo peso: il cuore umano nella sua Persona divina non può reggere più, gli viene meno la vita!… cade per terra!… in quella pressura di spasimo agonizza in sudore di morte! Ahi suda sangue! e in tanta copia che il sangue scorre fino per terra! Eccovi Gesù tutto bagnato di Sangue, boccheggiante in agonia che nell’anelito mette un gemito « Oh il peccato!… » e giù una pioggia di Sangue! « Che gran male è il peccato!…. » e piove Sangue ancora! Buon Gesù, Salvator nostro Dio, al dolore del vostro Cuore per li peccati unite il dolore nostro, piovete sul nostro arido cuore le calde gocce del Sangue vostro. E noi diciamo col pianto: Signore, mi pento e mi dolgo col vostro dolore solo degno di Dio: Vi abbiamo tanto offeso!… — Corriamo sotto la Croce a confessarci. Ma egli si dà in mano ai Giudei, che gl’irrompono addosso, lo tempestano di battiture, lo strascinano sul Calvario al patibolo. Lo han già gettato per terra!… Sentite? Sono colpi di martello!….. L’inchiodano sopra una trave, e lo levano alto in croce. Gesù con quel fascio di spine conficcato nel capo, colle mani, coi piedi inchiodati pende di croce, e non ne potendo più, mette l’altissimo grido; consummatum est. »: Gli uomini consumarono adunque il male del peccato! e Dio consumò il sacrificio della sua bontà!! Questo grido si fa sentire fino nel più alto dei cieli; e il terribile Angelo, che di là veglia alla difesa dell’onore di Dio, scosso a quel grido, abbassa lo sguardo sul Calvario, vede Gesù che spira per lo peccato: rompe la spada della vendetta di Dio, e bagnando il dito tremendo nel Sangue di Gesù, scrive sul terribile libro del giudizio divino: gli uomini otterranno perdono, perché soddisfece per loro il Figliuolo di Dio; — Ora l’eterna giustizia che aveva gettato sulla bilancia tutti i mali, tutte le morti e l’inferno, e che vedeva pesare sempre più il peccato, pone Gesù morto crocifisso. Pesa..; pesa di più il Crocifisso! Una sola goccia del Sangue di Dio pesa più che tutto l’universo: Gesù versa tutto il Sangue: la bilancia trabocca, balza via il peso del peccato… e davanti agli occhi di Dio resta sulla bilancia solo Gesù sacrificato il quale chiama col suo Sangue, col suo Cuore squarciato misericordia pei peccatori. Deh! corriamo sotto a Gesù Crocifisso: qui vi è perdono per tutti. Sì, spero, saremo già perdonati; ma è però verità che atterrisce al pensarvi, che noi peccando abbiamo commesso così gran male, sicché per riparare il peccato Egli ha voluto morire in croce il Figliuolo di Dio. Ora se noi vedremo la croce sulle nostre chiese, la croce sugli altari, la croce appesa al letto, dappertutto la croce, quella croce, diremo tremando, ricorda Gesù morto in croce pei miei peccati! Faremo come san Francesco d’Assisi. Sentite il fatto. Un di passava il Santo per un sentiero in una foresta, in cui i boscaioli atterravano alcuni alberi. Tra l’erba vide una pianta squadrata a modo di trave. San Francesco all’improvviso resta cogli occhi fissi sopra la trave, diventa pallido, pallido.., trema tutto della persona.., gli manca il cuore, cade svenuto sopra un sasso… mette un gemito di ansioso dolore come si sentisse morire… « Oimé!…. Oimé!… » Accorrono i boscaioli: « O Padre Francesco, che è mai? Vi ha morso una vipera?…. o qualche fiera vi ha addentato? Dove è la vipera? » e la cercavano colle mani nell’erba. « Ma dite, dite, padre: da qual parte fuggi la fiera? » E la cercavano colla secure tra i buscioni. E Francesco col pallor della morte, la bocca aperta, gli occhi sbarrati, le braccia colle mani larghe in fremito di convulsione a rispondere: oimé!… o figliuoli! altro che vipera!.. altro che bestia feroce!.. ho veduto una trave che mi ricorda, che il Figliuol di Dio è morto inchiodato sopra una trave pei miei peccati….. Oimé! oimè che mi si spezza il cuore;… — Fratelli, mandiamo le nostre grida sotto il Crocifisso: poveri noi! tristi a noi! che, commettendo i peccati, abbiam fatto così gran male, che per pagare il peccato volle morir trafitto in croce il Figliuol di Dio!… Non ci resta che piangere i nostri peccati con un atto di viva contrizione ai piedi del Crocifisso. Ora ci metteremo qui ad imparare insieme a far l’atto di contrizione. – Un venerando Vescovo, Monsignor De-la-Motte, diceva che, quando era per disporsi all’atto di contrizione per confessarsi, faceva tre stazioni: si fermava cioè col pensiero in tre luoghi. Si metteva in prima col pensiero come sollevato tra il cielo e l’inferno: poi si figurava di esser sopra tutti i cadaveri del mondo orribilmente ammucchiati, finalmente tutto atterrito si immaginava di essere sul Calvario appiedi di Gesù morente. Impariamo a farlo anche noi. Quando ci prepariamo alla Confessione facciamo la prima stazione. Alla presenza di Dio, fermi qui in terra, ritti verso del cielo, spingiamo lo sguardo fino in paradiso… Oh che oceano di luce! che splendore di gloria! che interminabile gaudio di Dio… O paradiso… o paradiso! Ma che? ci pare di vedere tra quei seggi di eterna gloria che alcuni troni sono abbandonati. Gli spiriti che vi risiedevano, dove sono presentemente? Abbassiamo lo sguardo nell’inferno spalancato di sotto. Sono là, diventati orrendi demoni, in eterna disperazione!… Chi precipitò dal cielo quegli angioli? chi li piombò nell’inferno? Il peccato!… Oh Dio… oh paradiso tutto perduto pel peccato… oh inferno meritato pel peccato!… Ed io ho da volere ancora il peccato? Bisogna che io abbia perduto la fede!… – Per fare la seconda stazione immaginiamoci di esser li fermati coi piedi sopra il coperchio di una sepoltura, o sopra i cadaveri di un cimitero. Eh via, basta fermarci sopra questa povera terra, sulla quale, se battiamo il piede, ci par di sentire risponderci il fremito di milioni e milioni di morti, i cui scheletri sono lì in frantumi, la cui polvere è frammischiata a tutto il terriccio, e le cui carni infracidiscono in quel fango. Immaginiamoci di tener i piedi sopra la sterminata montagna di tutti i morti del mondo: penetriamo col pensiero tra tutti i corpi dei morti. Ve’ li quante floride membra di gioventù imputridite, e quei biondi capelli avviluppati con quelle ossa in marciume annerite, e… Deh chi fece morir tutto quel mondo d’innumerabili genti? Fu il peccato!… E le anime loro… dovrebbero essere in quel gaudio d’eterna gloria in paradiso; eppure chi sa quante sono dannate in inferno!… Chi fece perdere a loro il paradiso? Chi le sprofondò nell’inferno?.. Il peccato… Ed io vorrò ancora commettere il peccato? Bisogna che io operi da pazzo furioso, per gettarmi a perdermi orribilmente così… Mio Dio, mio Dio, mi consumi qui subito il vostro amore, prima che io commetta ancora il peccato! – Ora dove faremo noi la terza stazione? Voi mi prevenite al Calvario, al Calvario coi cuori trepidanti sotto la croce… Ahi! si fa scuro il sole, e nel negro cielo le stelle pallide tremolano di smorta luce come fiaccole del funerale di Dio. Trema la terra: ci scoppia il monte sotto dei piedi; fremono i morti in gola ai sepolcri; e fino i giudei si battono in terrore il petto. Oh ascoltiamo il grido di Gesù, il quale mette uno strido: Eloîm Eloim lama sabactani: Oh mio Dio, oh mio Dio mi avete adunque abbandonato solamente, perché ho la forma degli uomini che sono peccatori! Mette ancora un più alto grido: consummatum est! il peccato fu consumato; è consumato il sacrificio di Dio per salvare l’uom peccatore! Rispondiamogli colle grida del nostro dolore, quasi si spezzi il cuore in contrizione: Gran Dio della eterna giustizia, Signore della misericordia e del perdono, Gesù Salvatore benedetto, cavate le lacrime da questo cuore di sasso! Ora comprendo alquanto che cosa sia il peccato: vi ho fatto così grande offesa, che per soddisfare a’ miei peccati non bastano tutti i mali, non basta la morte, non basta anche l’inferno: ci voleva, o buon Gesù, il vostro Sangue. Deh! vi supplico, vi scongiuro pel vostro Cuore santissimo per noi squarciato! Toglietemi questa vita piuttosto che io. pecchi ancora, e dal Cuor istesso mandatemi il Sangue, che scancelli il peccato, cui io non posso tollerare più; struggete ogni avanzo che mi lasciò. il peccato. – Con questo atto di contrizione vi do in mano la chiave del paradiso. Se voi vi confessate con questa contrizione in cuore, è di fede; otterrete per Gesù subito il perdono. Se morite senza potervi confessare con questa contrizione in cuore, vi salvate. Ripetetelo adunque tutte le sere sovente in vita sicché l’abbiate in pronto in caso di morte.

LA GRAZIA E LA GLORIA (12)

LA GRAZIA E LA GLORIA (12)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO PRIMO

L’esistenza e la natura delle virtù infuse

1. – Abbiamo constatato l’esistenza della grazia santificante, principio inerente e permanente nell’anima, che ci conferisce un essere divino, una vita deiforme, l’essere e la vita dei figli di Dio. Ma tutto l’essere è per agire. Da qui proviene che la natura che ci rende uomini non va senza le potenze dell’operare, intelligenza, volontà, facoltà sensibili, organismo, in modo che l’azione possa corrispondere all’essere, il movimento vitale alla vita sostanziale. – Se quindi noi abbiamo in virtù della nostra trasformazione soprannaturale un essere superiore, un primo principio di vita che la natura non poteva dare, dobbiamo aspettarci di trovare in noi delle forze e quasi delle nuove facoltà che ci fanno vivere con una vita superiore e compiere atti in relazione all’essere di grazia che noi abbiamo ricevuto. Perché tutto è armonia nelle opere di Dio. Non sto ancora esaminando se queste facoltà dell’uomo rigenerato siano veramente distinte dalla grazia santificante. Quello che constato è che, se c’è in noi un dono di Dio che ci dà l’essere spirituale, Dio doveva infonderci dei principi di azione proporzionati a questo dono di bontà misericordiosa. Senza questo, la nuova opera rimarrebbe incompiuta; l’uomo soprannaturale, che dovrebbe prevalere così meravigliosamente sull’uomo naturale, sarebbe per questo motivo inferiore ad esso. – Questa prova, tratta dalla grazia e dal suo effetto proprio, cioè dall’essere divino dato a noi in essa e attraverso di essa, diventa ancora più convincente, quando consideriamo il fine che dobbiamo un giorno perseguire e possedere, nella nostra qualità di figli di Dio. Se dovessimo solo lottare per un fine naturale; in altre parole, se la nostra beatitudine fosse proporzionata alla nostra natura, i principi di azione che troviamo in essa sarebbero sufficienti per questo compimento. Ma, come abbiamo già visto e vedremo ancora, il nostro destino di figli di Dio è incomparabilmente più grande di quello che sarebbe convenuto a noi se Dio ci avesse lasciato nella bassezza della nostra condizione nativa. La nostra felicità e la nostra gloria è che siamo chiamati a partecipare all’eredità dell’unigenito Figlio del Padre, a vedere Dio faccia a faccia; e noi sappiamo che nessuna facoltà puramente naturale, per quanto elevata, perfetta e potente possa essere, può raggiungere queste altezze sublimi. Perciò, dove Dio ha provveduto con più liberalità e più saggiamente ai figli adottivi che ai servi, o meglio, che agli esseri senza ragione, il dono della grazia, il dono della grazia ha in proporzione a quelli della natura, dei principi superiori, che ci ordinano al fine del nostro nuovo essere e della nostra nuova vita (S. Thom., 1, 2, q. 62, a. 1). Questi principi li chiamiamo virtù soprannaturali o virtù infuse; virtù, perché ci sono date per agire secondo le regole della perfezione; virtù soprannaturali perché superano sia i limiti che le esigenze della natura razionale; virtù infuse perché la natura non può essere la loro fonte, e perché hanno Dio non solo come causa prima, ma anche come causa principale. – Notiamo, di passaggio, come queste virtù differiscano dalle virtù naturali o acquisite, dal doppio punto di vista della loro origine e della loro essenza. Virtù naturale è un prodotto della nostra attività, la scienza per esempio, o la prudenza; la virtù soprannaturale viene solo da Dio, come la grazia santificante di cui è il complemento. La virtù naturale non dà il potere di agire: perfeziona l’attività nativa, la rende più flessibile e determinata, senza elevarla al di sopra di se stessa; la virtù soprannaturale non dà solo la facilità di agire, ma una nuova e più alta energia, l’agire da se sessa stessa. Togliete le virtù acquisite, non avete tolto il potere di attività proprio della natura; togliete le virtù infuse, è l’impotenza assoluta nell’ordine delle operazioni divine, a meno che Dio, con un atto molto particolare della sua infinita potenza, non supplisca a ciò che manca, come spiegheremo presto. – Il nome di virtù, quindi, è appropriato alle abitudini infuse in un senso incomparabilmente più elevato. Perché, ancora una volta, non è un germe già preesistente nell’uomo che esse sviluppano; ma è un’attività di ordine superiore che realizzano. In altre parole, non solo stimolano le forze innate della natura, esse le trasformano, come la natura stessa è trasformata dalla grazia, e le innalzano ad altezze dove non avrebbero potuto elevarsi da sole. Ecce nova facio omnia (Apoc., XXI, 5). – « Ci sono delle abitudini che hanno la loro origine nella potenza naturale, come quella che si acquisisce con la ripetizione degli atti; e di queste abitudini è giusto dire che non diano il potere, ma che perfezionino (abilitando) quello che già si ha. Ci sono altre abitudini che discendono dall’alto, e dipendono meno dal soggetto che le possiede che dall’agente che le dà (infonde). E questa abitudine nobilita la potenza, e può elevare il soggetto in cui viene ricevuta, al di sopra di se stesso, a causa del principio da cui procede. E questa abitudine è la grazia» (S. Bonav. Bonav., II, D. 28, dub. 1). – Ho detto che queste abitudini sono state chiamate virtù infuse per distinguerle dalle virtù acquisite dal movimento libero e naturale delle nostre facoltà. Va notato con la teologia che ogni virtù infusa non è necessariamente una virtù soprannaturale del tipo che attribuiamo ai figli di Dio. Nulla impedisce a Dio, la cui potenza non conosce limiti, di produrre in un momento, nell’anima più ignorante, una conoscenza pari a quella di un uomo sapiente. Questa scienza sarebbe infusa, è vero; ma non sarebbe infusa da se stessa sola, a causa della sua natura, poiché avrebbe potuto essere, e lo sarebbe stato davvero in altri, il risultato di studio e di lavoro personale. Le virtù di cui parliamo sono infuse dalla loro natura, cioè, si possono avere solo in virtù dell’infusione divina; perché superano e sorpassano ogni attività ed ogni energia puramente naturale. Come abbiamo dimostrato, la grazia è qualcosa di permanente nell’anima rigenerata: infatti, è necessario che la vita soprannaturale, frutto e prodotto della nuova nascita in Dio, debba essere duratura come la vita naturale, termine risultato della venerazione comune. Ma questo richiede anche che le virtù infuse non siano nell’anima in uno stato transitorio e come degli ausiliari di passaggio. È, infatti, la caratteristica della natura, in qualsiasi ordine essa sia, l’avere proprietà stabili e capacità permanenti come se stessa. Pertanto, tutte le prove che dimostrano questa permanenza della grazia considerata come principio dell’essere soprannaturale e divino, provano con la stessa forza la conservazione permanente delle virtù che la seguono e la accompagnano. – Mi si potrebbe rimproverare di non usare, in una materia essenzialmente teologica, altri argomenti che prove prese in prestito dalla ragione naturale, come se l’intera questione delle virtù infuse non rientrasse nell’insegnamento della Chiesa e della rivelazione. Io oso dire che questa accusa è infondata. – Qual è il nostro punto di partenza? L’esistenza della grazia santificante nell’anima dei giusti, cioè di una forma permanente che gli dà un essere divino; poi la destinazione di ogni figlio di Dio alla visione intuitiva, cioè alla beatitudine perfetta che supera universalmente ogni merito e ogni energia nativa di una sostanza creata. Queste due verità fondamentali le ho dimostrate entrambe con prove strettamente teologiche. Quando, quindi, me ne servo come di principi primari, dai quali deduco logicamente l’esistenza e la necessità delle Virtù Infuse, non mi baso su dati filosofici e puramente razionali, ma su delle verità dogmatiche. La filosofia non è la maestra che mi insegna; ma è la serva amica che penetra nel dominio della rivelazione, al seguito e sotto la guida della fede, per chiarire la sua espressione e svilupparne il contenuto.  – Prendiamo un esempio, al di fuori della presente questione: il dogma più misterioso di tutti, quello della Trinità. Alla sua stessa luce la ragione, lungi dal poter dimostrare un mistero così grande, probabilmente non ne sospetterebbe nemmeno l’esistenza. È dunque solo per fede che ci viene conosciuto con questa conoscenza imperfetta alla quale ci è dato di aspirare, mentre siamo ancora in esilio.  Quando però sappiamo dalla rivelazione divina che esistono nel seno di Dio, per mezzo dell’intelligenza e della volontà, processi analoghi a quelli che la coscienza scopre nella mente creata, diventa possibile, se non facile, per noi concludere logicamente da questo fatto di fede tutto ciò che la dottrina cattolica ci insegna sulle Persone divine, cosa le costituisca, cosa le distingua, e quale debba essere il loro numero, l’ordine e la nozione propria. – I nostri Dottori, e S. Tommaso d’Aquino più e meglio di tutti gli altri, hanno fatto felicemente questo lavoro, che è la ſides quærens intellectum di S. Agostino e S. Anselmo. E in questo tipo di deduzione la ragione, partendo dalla fede, supera i limiti della fede stricta, tanto è fruttuoso il metodo in mani abili. È così che siamo arrivati finora alla conoscenza delle virtù soprannaturali, quel corollario obbligatorio della grazia che ci dà il nostro essere divino.

2. – Del resto, ciò che abbiamo dedotto dai principi dottrinali possiamo confermarlo direttamente con l’autorità della Tradizione. Infatti, i Concili di Trento e di Vienne non sono meno espliciti sulle virtù infuse che sulla grazia che ci giustifica. Come quest’ultima è infusa in noi nella nostra nascita spirituale, così lo sono queste ugualmente. « Nella giustificazione, dice il primo Concilio, l’uomo riceve infuse (con la remissione dei peccati), per mezzo di Gesù Cristo sul quale è innestato, la fede, la speranza e la carità  » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 7). Queste ultime espressioni devono essere intese come significanti non solo gli atti di queste virtù, ma le virtù stesse, come è evidente sia dai termini usati dal Concilio, sia dalla generalità della dottrina. Dai termini impiegati dal Concilio: in effetti, infondere non si dice delle operazioni che sono nostre e di Dio, ma dei principi di azione che sono di Dio solo. Dalla generalità della dottrina: poiché la giustificazione, descritta in questo capitolo, è la giustificazione comune, dei bambini come degli adulti, quella che rigenera e fa passare dallo stato di decadenza in cui nascono i figli di Adamo, allo stato di grazia e di adozione. Se, dunque, i bambini rigenerati sono incapaci di produrre qualsiasi atto di queste virtù, è necessario che queste virtù, debbano riceverle come principi superiori di azione. « È impossibile piacere a Dio senza la fede », dice l’Apostolo (Ebr. XI, 6; Lc. XVI, 16) al seguito di Nostro Signore. Quale fede può avere un neonato quando viene battezzato, oltre alla fede abituale, cioè la virtù stessa del credere? Ecco perché Lutero si è attirato il giusto ridicolo quando, in difesa della sua giustificazione per mezzo della fede, ha osato sostenere che i bambini al battesimo sono entrati in possesso della giustizia di Cristo con un atto esplicito di fede soprannaturale! – Ricordiamo ancora la decisione del Concilio di Vienne e la soluzione della grande questione che allora divideva la Scuola. Ciò che abbiamo detto sulla grazia ci dispensa dal dare qui nuovi sviluppi che sembrerebbero giustamente superflui. – Se vogliamo risalire il fiume della tradizione, troveremo le affermazioni molto formali di Sant’Agostino sull’esistenza delle virtù infuse. Può avere in vista altra cosa che questi principi prossimi di attività soprannaturale, nel testo già citato: « Al Battesimo i bambini ricevono allo stato latente questo principio di vita che, nell’adulto, si manifestano con gli atti. » (S. Aug. De Peccat. Merit. Et rem., L. I, c. 2). Si potrebbero, al bisogno, accumulare testimonianze; i corsi di teologia dogmatica ne sono pieni. Qui, per esempio, il Papa santo Gregorio Magno ci mostra lo Spirito Santo che abita nel cuore dell’uomo giusto con la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, la castità, la misericordia e tutta il glorioso corteggio delle altre virtù (S. Greg. M., Hom. 5 in Ezech). S. Prospero deplora « il naufragio universale causato dalla colpa originale, in cui si oscurano la luce e la bellezza delle virtù, mentre la sostanza e la volontà rimangono salve ». (S. Prospero, c. Collat., c. 9 al. 19).

3. – Ho voluto trattare l’intera questione prima di affrontare una difficoltà la cui soluzione potrà, se non mi inganno, chiarire e confermare ulteriormente la dottrina che precede. Consideriamo l’uomo che non sia ancora uscito dal peccato: egli è, come il giusto, destinato a possedere Dio nella beatitudine, poiché il fine ultimo di ogni creatura ragionevole è la visione di Dio. Da qui l’obbligo per lui di tendere alla giustizia; e poiché questa tendenza non va senza opere proporzionate alla grazia che la corona, è necessario che egli produca atti soprannaturali. Quindi – ed è in questo punto speciale che sorge la difficoltà – le virtù infuse, non più della stessa grazia santificante, sono necessarie per produrre le operazioni superiori alle forze naturali. Che non siano assolutamente necessarie, lo concedo volentieri; ma la tesi e le prove che le dimostrano non sono meno solide né meno vere. Una prima osservazione da fare è che gli atti che dispongono alla giustificazione, motus ad justitium, come li chiama il Concilio di Trento, non sono meritori né della stessa grazia giustificante né della gloria futura (Conc. Trid. Sess. VI, cap. 8). – Il merito propriamente detto appartiene solo ai figli di Dio; quindi, dove non è presente il principio formale dell’adozione, cioè la grazia santificante con le virtù che la accompagnano, non ci sono e non possono esserci azioni meritorie. Non possiamo negare, è vero, che gli atti con cui un peccatore si prepara allo stato di grazia siano intrinsecamente soprannaturali, cioè superino in sostanza ogni attività della natura. La dottrina della Chiesa sembra così formale che, dopo il Concilio di Trento, non c’è più alcuna seria controversia su questo punto tra i teologi cattolici. Ma, osserviamo bene, questi stessi atti preparatori alla giustificazione, atti di fede, di speranza, di pentimento ed altri, se non presuppongono la partecipazione permanente della natura e della virtù divina, alla quale esse dispongono, richiedono tuttavia un’elevazione transitoria delle facoltà dell’anima; e questo è ciò che il Santo Concilio ci insegna espressamente in molte occasioni (Concilio Tridentino, sess. VI, cap. 5 e 6; can. 3). – A cosa si debba attribuire questa elevazione temporanea e come spiegarcela? Questa è una questione secondaria, la cui risposta sarà liberamente discussa dai nostri Dottori, finché la Chiesa non avrà detto la parola che ponga fine a tutte le controversie tra noi. Il Concilio di Trento ci insegna in generale che è un impulso, un tocco dello Spirito Santo che risveglia l’anima, la illumina, la eccita e « la muove, ma non l’abita ancora » (Consiglio, Triden., Sess. XIV, c. 4, col. Sess. 6, l. cit.); nella presente questione questo insegnamento ci è sufficiente. Ma non è evidente che la condizione dei bambini sia tutt’altra che la condizione di coloro che non siano ancora battezzati, dal punto di vista dell’attività soprannaturale? – Che Dio si rifiuti di concedere loro le virtù infuse; che si accontenti di concedere loro l’assistenza temporanea che chiamiamo grazia attuale, lo posso capire; è nell’ordine. – Non avendo ancora la natura dei figli di Dio, come potrebbero averne le facoltà? – Ma che, dopo aver dato loro misericordiosamente la partecipazione della sua natura e della sua stessa vita, rifiuti a coloro che la possiedono come forma stabile e permanente, la partecipazione della sua intelligenza e della sua stessa volontà, cioè le virtù infuse, i principi prossimi e permanenti di operazione, io non posso intenderlo. Sarebbe sconvolgere tutto l’ordine della sua provvidenza e mettere da parte le regole della sua infinita saggezza. Che cos’è questo? Quelle forze soprannaturali che non sono nell’anima perché la grazia, il suo sostegno naturale, ne è ancora assente, non vi verrebbero, quando questa grazia già vi regna? Vedrei allora i figli di Dio senza le proprietà che corrispondono alla loro natura, quando anche nei gradi più bassi della scala degli esseri, ogni sostanza e ogni vita possiede, da Dio, le potenze proporzionate alla sua essenza? È questo credibile; è degno di un Dio Sovranamente saggio e Sovranamente buono? (S. Thom. de Virtut. in communi, a 10 cum paral. – Da 1à il Santo Dottore trae una grave conseguenza. Se l’uomo in virtù della grazia santificante è un dio; se per le virtù infuse possiede principi di azione proporzionati a questa grandezza soprannaturale « oportet quod regula (agendi) sit divinitas ab homine participata suo modo, ut jam non humanitus, sed quasi deus factus participative operetur ». In III, D. 34, q. 1, a. 3).

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)