MESSA DELL’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Malach 3:1; 1 Par 29:12
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium [Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]
Ps LXXI:1
Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis.
[O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re.]
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium [Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Oratio
Orémus.
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.
[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]
Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum.
R. Amen.

Lectio
Léctio Isaíæ Prophétæ.
Is LX:1-6
Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur.
Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes. [Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Mentre le tenebre si estendono sulla terra e le ombre sui popoli: ecco che su di te spunta l’aurora del Signore e in te si manifesta la sua gloria. Alla tua luce cammineranno le genti, e i re alla luce della tua aurora. Leva gli occhi e guarda intorno a te: tutti costoro si sono riuniti per venire a te: da lontano verranno i tuoi figli, e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Quando vedrai ciò sarai raggiante, il tuo cuore si dilaterà e si commuoverà: perché verso di te affluiranno i tesori del mare e a te verranno i beni dei popoli. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, dai dromedarii di Madian e di Efa: verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Graduale
Isa LX:6;1
Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.
[Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja. [Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te.

Allelúja.

Allelúia, allelúia
Matt II:2.

Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.
[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt II:1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judae: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,”
R. Laus tibi, Christe!

[Nato Gesù, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché così è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i prìncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada.]

Omelia

FESTA DELL’EPIFANIA

Sopra il mistero dello stesso giorno

[Mons. Billot: “Discorsi parrocchiali”; S. Cioffi ed. Napoli, 1840]

 

Vidimus stellam eias,

et venimus adorare eum. Matth. II.

-Appena Gesù Cristo è nato che chiama alla sua culla pastori dalla Giudea e magi dall’oriente, perché viene a salvare tutti gli uomini. Dopo aver fatto annunziare la sua nascita ai pastori con la voce di un Angelo, fa risplendere agli occhi di quei saggi della gentilità una stella miracolosa, la quale li avvisa che un nuovo re è venuto al mondo per riscattarli. Subitamente fedeli alla grazia, abbandonano il loro paese, vengono in Gerusalemme ad informarsi dove è nato il re dei Giudei; apprendono dai dottori della legge che Betlemme, piccola città di Giuda, è il luogo della sua nascita: escono dunque da Gerosolima e col favore della nuova luce che li guida si trasferiscono a Betlemme: vi trovano l’oggetto dei loro desideri, il tesoro che cercano, il loro re; il loro salvatore nella persona di un bambino che è tra le braccia di Maria sua Madre. Senza essere ributtati dal povero apparecchio che lo circonda, penetrano con gli occhi di una viva feda il mistero di un Dio fatto uomo per la loro salute; innanzi a Lui s’inginocchiano, e mettendo ai suoi piedi il loro scettro e la loro corona, gli offeriscono regali insieme col loro cuore; ed avvertiti da un angelo ritornano nei loro paesi per una strada diversa da quella che tenuta avevano: Per aliam viam reversi sunt in regionem suam. Tale è, cristiani, la storia del mistero che celebriamo in questo giorno; mistero di gaudio per la Chiesa, poiché ci rammenta il felice momento della nostra vocazione al Cristianesimo nella persona dei re magi. Benediciamo mille volte la provvidenza che ci ha cavati dalle ombre della morte oveimmersi eravamo , per chiamarci alla luce ammirabile del Vangelo; ma nello stesso tempo profittiamo dell’esempio che ci danno i re magi per cercar Gesù Cristo e conservare la sua grazia nei nostri cuori dopo averla ritrovata. Qual fu dunque la premura dei magi nel cercar Gesù Cristo? Primo punto. Qual fu la loro fedeltà nei conservar la grazia che avevano trovato? Secondo punto. Tale è il modello che noi imitare dobbiamo, ed il soggetto della vostra attenzione.

I.° Punto. Qual differenza, fratelli miei, tra la condotta del re Erode, e quella dei re magi? Erode, che regnava in un paese dove era nato il Salvatore del mondo, accecato dalle sue passioni chiude gli occhi alla luce che lo rischiara. Sebbene convinto dalla testimonianza e dagli oracoli dei profeti che il Cristo è nato in Betlemme, poco distante da Gerosolima, non si degna di fare il minimo passo per rendergli omaggio; e i re che abitano all’estremità dell’ oriente non sì tosto hanno veduto la stella che loro addita la sua nascita che si mettono in viaggio per venirlo ad adorare. Erode non conosce e non cerca Gesù Cristo che per perderlo , e i re magi altra premura non hanno che di sottomettersi a lui e farlo regnare nel loro cuore. Detestiamo la condotta di quel principe cieco e barbaro, ed imitiamo la fedeltà dei re magi in corrispondere alla grazia. – Cercano Gesù Cristo con prontezza, con coraggio e con costanza. in simil guisa dobbiamo noi cercarlo, se ritrovar lo vogliamo. No, i magi non stanno sospesi sul partito che hanno da prendere; non si arrestano a formare lungi progetti né a prendere gran misure per mettersi in viaggio; unicamente attenti alla luce che li rischiara, vanno a cercar Colui ch’essa loro annunzia: premurosi di giunger al termine ove la stella li chiama, sono impazienti di arrivare. Sanno benissimo che, qualora si tratta di cercar il suo Dio e di darsi a lui, non convien arrestarsi, deliberare, discorrere; perché in deliberando, quantunque abbiasi intenzione di trovar Dio, non si trova giammai. Di già lasciato hanno il loro paese; loro sembra d’udire la voce del divin Bambino che a sé li chiama: fedeli a questa voce, affrettano i loro passi e solleciti sono di andar a rendergli i loro omaggi. Giunti a Gerusalemme ed impazienti di sapere il luogo ove è nato il Salvatore, s’indirizzano a coloro che essi credono i meglio informati. Dove è dunque questo nuovo re? Perciocché abbiamo veduta la sua stella e siamo partiti per venirlo ad adorare : Vidimus stellam eius et venimus adorare eum. Qual premura! Qual prontezza! Qual attività! In poco tempo hanno percorsa la strada tutta che il loro paese separa dalla Giudea. Ahi quando si cerca Dio sinceramente, niuna cosa evvi che arrestar possa l’anima fedele. Grazie immortali vi sieno per sempre rendute, o mio Dio, che chiamati ci avete alla fede in quelle nobili primizie della gentilità convertita! Per quanto piccolo comparite, voi già siete il vincitore delle nazioni; Voi in un istante le sottomettete, e senza resistenza voi le abbattete ai vostri piedi con tutta la loro pompa e grandezza. – Imitate voi, fratelli miei, la condotta di questi santi re, voi che, allevati nel Cristianesimo, avete lumi maggiori per camminare nella strada che conduce a Dio? Voi, la cui fede esser deve meglio stabilita e più formata, e a cui la volontà di Dio è più chiaramente manifestata, questa fede è la vostra stella; e perché; come i magi, non ne seguite i movimenti? Oltre la fede che vi rischiara, quanti lumi non ha fatto Dio risplendere alle vostre menti, or con le grazie interiori, or con la divina parola v’istruisce dei vostri doveri, ed or con i buoni esempi che avete avanti agli occhi, i quali vi animano alla pratica della  virtù? Tutte queste grazie interiori ed esteriori sono tanti astri luminosi che vi condurrebbero infallibilmente a Dio, se voi fedeli foste a seguirli.  Con tutto ciò voi rimanete sempre nelle vostre tenebre; immersi nel pantano del peccato, non fate sforzo alcuno per uscirne. Da lungo tempo la voce di Dio vi chiama e vi sollecita di disfarvi di quell’affetto che divide il vostro cuore tra Dio e la creatura; di combattere quell’orgoglio segreto che vi predomina; di restituire quella roba che ingiustamente possedete, di perdonare a quella persona che non volete neppur vedere, di menar una vita più mortificata, più penitente e più regolata; e voi non avete ancor fatto ciò che la grazia da sì lungo tempo vi domanda. Ma non dovete voi temere che la stella che adesso vi illumina non dispaia dagli occhi vostri? Che questa grazia di conversione che Dio vi dà non siavi più accordata, e che l’abuso che voi ne fate seguito non sia dall’accecamento e dall’ostinazione, che vi condurrà all’impenitenza finale? – Osservate la prontezza dei magi nel seguitare la stella che li conduce; partono tosto che 1’hanno veduta: Vidimus et venimus. Ecco ciò che far dovete, e così conchiudere tra voi medesimi: ho veduta la stella che mi conduce a Dio in questo buon pensiero che mi ha ispirato, in questo pio movimento che mi ha toccato il cuore: voglio seguirla; voglio amar il mio Dio meglio che non ho sinora fatto: dandogli la preferenza sopra le creature tutte. Voglio riconciliarmi con quel nemico, restituire quei beni mal acquistati, essere il buon esempio nella mia famiglia, abbandonar quelle occasioni, quei luoghi di dissolutezza che m’hanno perduto, esser assiduo nell’orazione, frequentare i sacramenti, riceverli con migliori disposizioni, osservare la santa legge del Signore; in una parola, vivere in una maniera più regolata: Vidimus, et venimus. – È necessario per ciò fare un gran coraggio, ma i magi ve ne danno ancora 1’esempio. Di qual coraggio, infatti, non fanno mostra in tutti i loro portamenti? Conviene, per obbedire alla voce di Dio che li chiama, abbandonare, come Abramo, il loro paese, le loro case, i loro amici, il loro regno? L’abbandonano generosamente. Bisogna intraprendere un lungo e faticoso viaggio, esporsi a tutti i pericoli, sopportare tutti i travagli che ne sono inseparabili, nella stagione la più rigida dell’anno, sacrificare il loro riposo, la loro tranquillità, rinunziare a tutti gli agi, a tutti i loro piaceri? Rinunziano a tutto, sacrificano tutto; né l’affetto ai loro comodi può ritenerli, né il rigore delle stagioni sgomentarli, né la cura delle loro famiglie e dei loro regni è capace di far loro cangiar risoluzione. Quante ragioni ciò non ostante, quanti pretesti per cuori meno coraggiosi dei loro? Ma no, malgrado tutti gli ostacoli che si oppongono al loro disegno, già sono giunti in Gerusalemme capitale della Giudea, col favore dell’astro che li rischiara. Ma, oh cielo! qual nuova prova per la loro virtù! La luce che li guida s’invola ai loro occhi, la stella sparisce, la loro fede appena nascente non ne resterà forse commossa? Non penseranno forse a ritornar nei loro paesi? No, fratelli miei, no, non temete, non soccombono essi alla tentazione, ed è qui appunto dove ci danno un esempio di coraggio che deve animarci allorché sembra Dio occultarsi a noi ed abbandonarci a noi medesimi. Qui è dove ci apprendono a ricercarlo, in quelle vie tenebrose ove ci ricusa quelle consolazioni sensibili che ci addolciscono il sentiero della virtù. Si è in quel tempo di prove in cui gli piace di metterci che il nostro amore appare più coraggioso e più sincero, perché non cerca Dio che per Dio solo. – Ma ammiriamo ancora il coraggio dei magi in cercare Gesù Cristo: nella città di Gerusalemme, sino nella capitale della Giudea, sino nella corte di un re che regna sopra i Giudei, chiedono dove è nato il re dei Giudei. Che temere non debbono dalla gelosia di Erode, che si offenderà di una simil domanda e soffrire non verrà alcun rivale! Non importa che Erode se ne offenda, che se ne conturbi; vogliono a qualunque siasi prezzo trovar Gesù Cristo e darsi a Lui; né il rispetto umano né la tema dei supplizi e della morte cui si espongono, fa sopra quei generosi cuori impressione veruna. Fate voi così, fratelli miei, allorché, illuminati, tocchi dalle verità della fede, risolvete di abbandonare i vostri disordini e di ritornare a Dio? La minima difficoltà vi spaventa; il più leggiero ostacolo vi sembra insuperabile; la più leggiera tentazione vi fa soccombere. Converrebbe un poco di coraggio per lasciare quell’abito peccaminoso che avete di bestemmiare, di adirarvi, di abbandonarvi agli eccessi dell’ impurità, converrebbe fare un po’ di violenza alla vostra indole, alle vostre passioni, alla vostra inclinazione: ma voi non volete fare alcuno sforzo; non volete in alcun modo incomodarvi né soggettarvi: ora il peso delle vostre propensioni vi strascina, ora il rispetto umano vi abbatte e sconcerta tutti i vostri progetti. Ed in tal modo pretendete voi trovare Iddio? Ed in tal modo aspirate voi al suo regno, il quale non si acquista che con la violenza? Ignorate voi che, per pretendervi, bisogna sacrificare quanto uno ha di più caro, mortificare le proprie passioni, tenerle soggette alla legge, disprezzare gli umani rispetti, in una parola, combattere per guadagnare la corona? Ora tutto ciò suppone in voi una forza ed un coraggio a tutte prove. Non basta dunque aver fatto qualche passo per cercar Gesù Cristo, aver formata qualche buona risoluzione: conviene eseguirla, malgrado gli ostacoli che si presentano; conviene, come i magi, uscire dalla corte di Erode, cioè lasciar quelle compagnie pericolose, quelle occasioni di peccato, dove la stella del Signore non vi rischiarirà più, dove la voce del Signore non si fa intendere: e questa stella, siccome i magi, vi condurrà al presepio del Salvatore. Voi lasciate pur quelle compagnie quando si tratta della vostra fortuna, di un interesse temporale; e quando si tratta della vostra salute, della vostra eternità, il minimo ostacolo vi rattiene. Dove è dunque la vostra fede? Dove è la vostra ragione? Dio non chiede già che, come i magi, voi abbandoniate la vostra patria, i vostri parenti, i vostri amici, quando non sono per voi occasione di peccato: non chiede che intraprendiate lunghi viaggi, che tolleriate fatiche eccessive, ma vi chiede il sacrificio delle vostre passioni; vi chiede il vostro cuore, che gli è già dovuto per tanti titoli, vi chiede un poco di contegno e di violenza per lasciare i vostri agi e i vostri comodi, affine di andare a visitare quel povero infermo o prigioniero; chiede che assidui siate a visitarlo nel suo santo tempio, ad assistere ai divini offizi, ad accostarvi ai sacramenti, a compiere i doveri di buon cristiano, Dio vuol rendervi felici e poco costo, e voi siete si codardi e sì vili di non voler fare quel poco che vi richiede? Ah! non siate cotanto insensibili ai vostri veri interessi! Voi avete in questo nuovo anno formato o dovuto formare la sincera risoluzione d’essere di Dio, di servirlo fedelmente durante quest’anno, e tutto il restante di vostra vita; siate dunque, come i magi, coraggiosi e costanti per eseguire le vostre risoluzioni. – All’uscire da Gerusalemme videro di nuovo i magi la stella che era agli occhi loro sparita; il che fu per essi un gran motivo d’allegrezza: la sua vista non fece che confermarli nel buon disegno che formato avevano di andare ad adorare il nuovo re: continuano dunque il loro viaggio, arrivano a Betlemme, entrano nella casa; ma qual esser deve la loro sorpresa alla vista dell’oggetto che agli occhi loro si presenta! Una povera abitazione ed un bambino povero che è tra le braccia d’una madre povera! Ed è questo dunque, dice debole loro ragione, il re che la stella ci ha annunziato, il Signore del cielo e della terra, il desiderato dalle nazioni, il Messia da tanti secoli aspettato? Qual palazzo! Quali cortigiani! Quale apparecchio di grandezza! Ah! gli è in questo momento che mostrano l’attività tutta e la costanza della loro fede. No, non sono sgomentati né dalla povertà del luogo né da quella del Bambino e della Madre; la loro fede, che s’innalza al di sopra della loro ragione, mostra ad essi un Dio nascosto sotto la debolezza di quel bambino, ed adorano, dice S. Leone, il Verbo nella carne, la sapienza nell’infanzia, la forza nell’infermità, ed il Dio di maestà sotto la forma di nostra natura. Gli danno testimonianza della fede che li anima con i regali che gli offrono; riconoscono il suo regno con l’oro che gli presentano; la sua umanità con la mirra, e la sua divinità con l’incenso: ma l’omaggio ed il regalo il più prezioso che gli fanno si è quello dei loro cuori e delle loro persone. Non contenti di mettere ai suoi piedi il loro scettro e la loro corona, gli fanno omaggio della loro mente con una viva fede, e del loro cuore con l’amor più generoso; si dedicano interamente al suo servizio, sottomettono al suo impero le loro persona e i loro regni. – Tale è, cristiani, il bel modello che noi dobbiamo imitare. Giacché formata abbiamo la risoluzione di donarci a Dio, dobbiamo essere fedeli e costanti nei nostri buoni proponimenti, darci a Lui senza riserva. Non ci chiede egli i nostri beni, non ne ha bisogno; ma ci chiede i nostri cuori. No, non vuole che gli presentiate né oro né mirra né incenso, ma bensì l’amore del vostro cuore rappresentato dall’oro; perché siccome l’oro è il più prezioso di tutti i metalli, cosi l’amor di Dio è la più preziosa di tutte le virtù: la mortificazione dei vostri corpi è rappresentata dalla mirra; perché siccome la mirra preserva i corpi dalla corruzione, così la mortificazione, preserva l’anima dal contagio del peccato. Finalmente, per l’incenso che i magi offrirono a Gesù Cristo, convien presentargli il sacrificio delle vostre menti coll’orazione; perché in quella guisa che l’incenso s’innalza col suo fumo nell’aria, nello stesso modo l’orazione sale al trono di Dio per far discendere su di noi le grazie di cui abbiamo bisogno. Tali sono, fratelli miei, i donativi che Gesù Cristo da voi attende; con quest’offerta acquisterete il suo cuore e regnerà su di voi. Egli è vostro Dio, vostro re, vostro Salvatore; quanti titoli che vi sollecitano a darvi a Lui senza riserva, fargli sacrificio delle vostre menti, dei vostri cuori e dei vostri corpi! Delle vostre menti con una viva fede e con ferventi preghiere; dei vostri cuori con un amore ardente; dei vostri corpi con una mortificazione continua che portar dovete sopra di voi medesimi per essere del numero dei suoi discepoli. In questa guisa convien cercare Gesù Cristo, e così lo troverete. Ma, dopo averlo ritrovato, bisogna, come i magi, conservare sollecitamente la sua grazia ed il suo amore, e con questo finisco in poche parole.

II. Punto. Invano avrebbero i magi fatto tanti passi per cercar Gesù Cristo, invano superato avrebbero tanti ostacoli per ritrovarlo, se non si fossero dati a Lui per sempre! Per esser efficacemente di Dio, non bisogna mai rallentarsi dalle buone risoluzioni che si sono formate: è necessario perseverare nel suo servigio sino alla morte: da questa fedeltà dipende la nostra felicità eterna. Ce ne danno i magi un bell’esempio nel ritorno ai loro paesi. Ben lungi dal ritornare in casa di Erode, come questo principe aveva loro detto, prendono, dice il Vangelo, una altra strada per andarsene a casa loro: Per aliam viam reversi sunt in regionem suam (Matth. II). Sanno che questo barbaro principe va macchinando la morte di Gesù Cristo; la terna che egli non colga il momento di sacrificare al suo furore il nuovo re, fa loro preferire un viaggio più lungo e più difficile per sottrarre Gesù Cristo dalla morte e non espor se stessi al rischio di perdere la vita della grazia.

Pratiche generali. Ecco il modo, fratelli miei, con cui regolar vi dovete, dopo aver pur veduto Gesù Cristo nascere nei vostri cuori; fuggir bisogna le occasioni di offenderlo e di perder la grazia; bisogna aver in orrore la casa di Erode, cioè quelle case di dissolutezza e di libertinaggio ove si trama e si dà la morte a Gesù Cristo, ove si perde la vita della grazia; bisogna fuggire lo stesso Erode, cioè quelle persone scandalose che servono di strumento al demonio per indurre gli altri al peccato. Invano vi lusinghereste voi di conservar la vita della grazia nelle occasioni che altre volte ve l’hanno fatta perdere; se voi vi esponete al pericolo, infallibilmente vi perirete, qualunque buona risoluzione abbiate presa di salvarvi. Conviene, sull’esempio dei magi, seguire una strada diversa da quella che avete sinora seguito. Invece di andare in quelle case, di frequentare quelle persone che sono state per voi pietre d’inciampo, bisogna allontanarvene; frequentare piuttosto dovete i luoghi santi, le persone di pietà, i cui buoni esempi vi animeranno alla virtù. Vegliate su di voi medesimi, abbiate una continua attenzione per scansare le insidie che il mondo ed il demonio vi presentano, se conservar volete la grazia del vostro Dio. Ohimè! Fin adesso voi forse non avete seguite che le vie d’iniquità; abbandonati vi siete al torrente delle vostre passioni; la vostra vita si è forse tutta passata nel peccato e nella disgrazia di Dio; voi non vi siete sforzati di ricuperare la sua amicizia; voi non avete riandati nell’amarezza del vostro cuore gli anni scorsi che avete sì mal impiegati. Ecco un nuovo anno che il Signore vi dà per riparare il passato: forse non avete più che questo a vivere; forse non ne vedrete il fine. Impiegatelo dunque unicamente alla vostra salute; profittatene per accumular tesori per il cielo, vivendo diversamente da quello che avete fatto sino al presente; sicché vi vediamo più assidui ai divini uffizi, più esatti a frequentar i sacramenti, più diligenti, più edificanti nelle vostre famiglie, di modo che voi ne siate gli apostoli, siccome i magi lo furono nei loro regni, dove conoscer fecero il Salvatore a quelli, che l’ignoravano. Fatene altrettanto colle vostre istruzioni, coi buoni consigli, coi buoni esempi. Conservate diligentemente il prezioso deposito della fede; siate fedeli a seguire i lumi di questa celeste fiaccola che vi rischiara; rendete pratica questa fede con le buone opere, e la sua luce vi condurrà al porto della salute eterna.

Pratiche particolari. Venite ad adorare Gesù Cristo nel suo santo tempio con i medesimi sentimenti, con cui i magi l’adorarono nella sua culla; visitatelo nei poveri e negl’infermi, i quali tengono la sua vece; ma le vostre visite non siano sterili: offritegli qualche porzione dei vostri beni nella persona dei suoi poveri; tiene Egli come fatto a sé stesso tutto ciò che si fa per essi. – Ringraziate questo divin Salvatore di avervi chiamati alla fede nella persona dei re magi; producete spesso atti di questa fede, fatela conoscere con le buone opere. – Invece dei tre regali che i magi fecero a Gesù Cristo, offritegli il vostro cuore acceso di carità, si è l’oro che Egli domanda da voi; offritegli la vostra mente applicata all’esercizio, dell’orazione è questo l’incenso ch’Egli esige; offritegli il vostro corpo dedicato alla pratica della mortificazione, è la mirra che Egli da voi attende; in virtù di questa offerta privatevi di qualche agio, evitate soprattutto gli eccessi cui molti si abbandonano in questo santo giorno. Domandate perdono per quelli che offendono il Signore, recitando a tal fine il salmo Miserere! Se vi prendete qualche sollazzo, il Signor ne sia il principio e il fine: Gaudete in Domino. Ricordatevi sempre che ricercar non dovete alcuna vera allegrezza se non nel cielo. Io ve la desidero.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps LXXI:10-11
Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.
[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta
Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster: [Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì, Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore:

Communio
Matt 2:2
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.
[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato.]

S. SIMEONE STILITA

5 Gennaio.

S. SIMEONE STILITA

[Raccolta di vite dei Santi – I vol. Prima ed. veneta, Venezia, 1778]

Secolo V

Le azioni meravigliose di S. Simeone Stilita sono state descritte nel suo Filoteo al cap. 26. da Teodoreto, il quale viveva nel medesimo tempo, ed era Vescovo di  Ciro, città della Siria, dove il Santo dimorava ; e anche da Antonio discepolo dello stesso S. Simeone, e da altri. Il Filoteo di Teodoreto è riportato dal Rofweido nella Vite dei Padri dell’Eremo lib. 9, e la vita di Antonio, la più sincera si trova presso i Bollandisti. Si veda ancora il Tillemont nelle Memorie su la Stor. Eccl, Tom, 15.

1. Simeone, soprannominato lo stilita, a cagione di aver vissuto lungo tempo sopra una colonna, è uno di quei personaggi straordinari, che Iddio ha fatto comparire nel mondo, piuttosto come monumenti della sua onnipotenza, e dell’efficacia della sua grazia, che come modelli, ed esempi da imitarsi. Nondimeno servirà la sua storia sincerissima, ed autentica ad animare la nostra fiducia nell’aiuto divino per superare tutte le difficoltà, che s’incontrano nella via della salute: giacché il Signore si degnò di assistere questo suo Santo nell’esercizio di una vita prodigiosissima, nella quale ancora, se la considereremo bene, troveremo non poche cose, che possono servire per nostra istruzione, e per nostro profitto.

2. La patria di Simeone fu un borgo di Cilicia chiamato Sisan, in cui nacque circa lanno 391, ed i suoi genitori attendevano alla cura delle pecore, nel qual mestiere allevarono ancora quel loro figliuolo. Un giorno, in cui il gregge non poteva uscire a pasturare, a cagione delle nevi, andò Simeone alla Chiesa, dove sentì leggere quelle parole del Vangelo: Beati sono quei, che piangono: beati quelli, che hanno il cuor puro; e non intendendone bene il senso, domandò ad un buon vecchio, che cosa si doveva fare per entrare nel numero di questi beati. Bisogna digiunare, rispose il vecchio, bisogna sopportare la nudità, le ingiurie, gli obbrobri, bisogna gemere, e vegliare, e fare orazione, prendendo appena un poco di sonno ed essere paziente nelle malattie, rinunziare a quelle cose del Mondo che più si amano; essere umiliato, e perseguitato dagli uomini, senza affettare alcuna consolazione in questa vita. “Capite voi queste cose, o figliuolo? Se le capite, si degni anche il Signore di darvi per sua misericordia la volontà dì praticarle”.

3. Allora Simeone aveva solamente tredici anni; ma pure queste parole fecero in lui tale impressione, che dopo aver pregato Dio, acciocché lo guidasse per la strada della perfezione, se ne andò ad un monastero vicino, ove si trattenne due anni fotto la disciplina di un Santo Abate, chiamato Timoteo.. Passato questo tempo, il desiderio di sempre più avanzarsi nella pietà lo indusse a portarsi ad un altro monastero, governato da Eliodoro, e composto di ottanta Monaci, che si esercitavano nelle più penose opere di mortificazione. Ma il nostro Santo superava tutti gli altri nel rigore dell’attinenza; e dove gli altri digiunavano un giorno si, e un giorno no. Egli si ristorava una sola volta la settimana, e dava il resto del suo cibo segretamente ai poveri.

4. Aggiunse altresì a questo digiuno sì austero un altro supplizio per macerare il suo corpo; poiché essendosi accorto, che la corda, con cui si attingeva l’acqua del pozzo, era molto ruvida per essere composta di foglie di palma; egli si cinse il corpo con essa, e si strinse talmente i reni, che penetrò ben dentro alla carne. Questo nuovo genere di penitenza fu ignoto ai Monaci per lo spazio di dieci giorni; dopo dei quali il fetore ed il sangue, che usciva dalla piaga, lo rendé palese al monastero. L’Abate pertanto volle che si levasse quella corda, e bisognò nel cavarla fuori portar via della carne viva con grandissimo dolore dei paziente, il quale stentò due mesi a guarire; dopo i quali fu licenziato da quel luogo per timore, che l’esempio dell’eccessiva sua penitenza non pregiudicasse a qualcuno dei compagni. Per la. qual cosa Simeone si ritirò sulle montagne vicine, dove avendo ritrovato una cisterna secca, vi discese, e si pose ivi a cantare le lodi del Signore, fintantoché l’Abate Eliodoro coi principali del monastero da lui governato lo richiamarono, e cavatolo da quel luogo, lo condussero tutto languido all’antica abitazione, donde per altro egli partì poco dopo e si ritirò a Telanisse, luogo situato ai piedi di una montagna non molto discosta da Antiochia, rinchiudendosi per tre anni in un piccolo tugurio abbandonato.

5. Ivi il Santo determinò d’imitare il digiuno di Mosè, di Elia, e di Gesù Cristo, passando i quaranta giorni della Quaresima senza mangiare. Comunicò una tal risoluzione a Basso visitatore delle parrocchie di quei contorni, e lo pregò a murar la porta del suo tugurio senza lasciarvi niente da mangiare. Basso, che era un Prete virtuoso, ed illuminato, gli rappresentò le conseguenze di questa straordinaria condotta, aggiungendo ancora, che il darsi la morte da se medesimo non era già una virtù, ma anzi il più enorme di tutti i delitti. Allora Simeone disse: Mettetevi, o padre, dieci pani, e un vaso di acqua acciocché se ho bisogno di ristoro possa prevalermene. Il che fu prontamente eseguito, e poi fu murata la porta. Passati i quaranta giorni ritornò Basso, ed essendo entrato in quel tugurio, ritrovò tutto il pane, che non era stato toccato, e il vaso di acqua parimente pieno, e Simeone colcato per terra senza voce, e senza moto. – Basso inumidì coll’acqua la bocca del Santo, gli lavò il viso, ed avendolo fatto ritornare in sé, gli diede l’Eucaristia, e dopo lo fece mangiare; e questo cibo non consistè se non in lattughe, e cicoria, che egli masticò, e inghiottì a poco a poco. Essendogli così riuscita questa prova, continuò ogni anno a passare nello stesso modo la Quaresima; nei primi giorni della quale lodava Dio, stando sempre diritto in piedi: indi non potendo più reggersi in quella positura, sedeva facendo pure orazione; e negli ultimi giorni stava steso per terra tutto languido, e spossato.

6. Finiti i tre anni di dimora in quel tugurio, salì sulla cima della montagna, ove fece fare uno steccato di pietre, e vi si rinchiuse, risoluto di vivere allo scoperto, ed esposto alla inclemenza delle stagioni; portando al piede destro una catena di ferro lunga venti cubiti, attaccata ad una grossa pietra, affinché gli si rendesse impossibile 1’uscire da quel recinto. Ma Melezio, vicario pel Patriarca di Antiochia, in occasione che visitava quei luoghi della sua diocesi, avendo veduto in tale stato Simeone, gli disse, che una volontà stabile e fissa nel bene lo doveva tenere attaccato alla solitudine, e non una carena di ferro, e così lo persuase levarsela subito, come fece.

7. La fama della santità di Simeone cominciò allora a spargersi da per tutto: onde gli erano condotti dei malati, acciocché li guarisse, ed ottenendo essi il loro intento, palesavano la virtù di Simeone che era perciò visitato da un gran numero di persone, le quali venivano ad implorare il suo aiuto. Per non esser disturbato dalla orazione, egli credette a proposito di collocarsi sopra una colonna e ne fece fabbricare di varie e differenti altezze, la più alta delle quali fu quaranta palmi, o cubiti; la cima di essa aveva tre piedi di diametro, ed era circondata da un piccolo recinto simile ai nostri pulpiti. Moltissimi biasimavano un genere di vita sì st, altri lo schernivano; ed alcuni oltraggiavano il Santo, e lo trattavano da impostore, talmenteché gli altri Solitari giunsero a volersi separare dalla sua comunione. Ma i più savi fra loro stimarono, che prima di prendere alcuna risoluzione, fosse necessario di bene informarsi, da quale spirito procedesse una simile straordinaria condotta di Simeone. Mandarono  pertanto a lui in nome dei Vescovi, e dei Solitari un deputato, che gli comandasse di calar subito dalla colonna; con quello però, che se vedeva Simeone disposto ad ubbidire, lo lasciasse vivere a suo modo, ma se ricusasse di ubbidire, lo trattasse come un impostore, e ribelle. Il deputato dunque avendo dichiarato il suo ordine, ed avendo ritrovato il Santo prontissimo a scendere dalla colonna, lo confortò a perseverarvi, accorgendosi, che esso era guidato dallo Spirito Santo per una strada sì difficile, e sì impraticabile senza un particolare celeste soccorso.

8. Il Patriarca di Antiochia volle vedere uno spettacolo sì prodigioso della onnipotenza divina, e però andò a ritrovar Simeone; ed avendo veduto il suo tenore di vita, ne rimase oltre modo ammirato, ed esso stesso gli portò i sacrosanti Misteri, dandogli di sua mano l’Eucaristia. L’orazione era quasi la continua occupazione del Santo, ed ora la faceva diritto in piedi, ora col corpo chino; e nelle principali solennità passava tutta la notte in piedi con le mani stese. Ogni giorno cominciava a far orazione dopo il tramontar del Sole, e durava fino a tre ore dopo il mezzo giorno del dì seguente, e d’allora fino alla sera istruiva gli astanti, che a lui venivano da tutte le parti, rispondeva a quelli che lo interrogavano, guariva i malati, componeva le differenze, riconciliava i discordi.

9. Si mostrava Simeone mansueto, e gioviale ad ognuno, non facendo distinzione di persone, ed esercitava la sua carità ugualmente verso di tutti; e perciò non ricusava di soccorrere con i suoi consigli, e con le sue preghiere gli uomini più bassi, e più poveri, niente meno che i ricchi, ed i potenti. Venendo eziandio molti per curiosità a vedere un sì nuovo, e straordinario spettacolo, Iddio si servì di questo mezzo, per convertire molte migliaia d’infedeli di diverse nazioni, i quali se ne ritornavano penetrati, e compunti dalle parole divine, che uscivano dalla sua bocca. I Vescovi, e gli Imperatori lo consultavano sugli affari della Chiesa per i quali il Santo si interessava moltissimo, e rispondeva con gran libertà, e coraggio tanto ai Magistrati, che ai Prelati, inculcando loro i propri doveri. Ma nello stesso tempo era sì umile, e sì abietto agli occhi suoi, che si considerava, come il più vile di tutti gli uomini; e diceva agli infermi, che aveva risanati: Se qualcuno vi domanda, chi vi ha guarito, rispondete, che è stato Dio; e guardatevi dal nominar Simeone, altrimenti ricadrete nelle vostre infermità.

10. Piacque al Signore di dare occasione al Santo di esercitarsi vieppiù nell’umiltà, che è il carattere di tutti gli eletti, permettendo, che non ostante i doni, che aveva ricevuti, e di profezia, e di miracoli, fosse oltraggiato, e villanamente vilipeso da più d’uno. Si aggiungevano a ciò le sue infermità, e le sue piaghe, le quali sebbene erano cagionate dalle sue austerità, servivano però ad umiliare il Santo, e ad esercitarlo nella virtù della pazienza; né gli mancarono eziandio gagliarde e continue tentazioni, con le quali il demonio, invidioso di tanta virtù, non il lasciava di molestarlo. Una volta tra le altre, gli apparve in un carro risplendente di fuoco, e come se fosse un Angelo di luce, lo invitò a salirvi, per essere trasportato in Paradiso. Il Santo non esaminando bene in quel punto la visione, alzò un piede per accettare l’invito, e si segnò col segno della Croce. Ma in un momento, dopo fatto questo segno salutare, disparve ogni cosa; |e Simeone per punire la sua troppa credulità, si condannò a tener sospeso in aria quel piede, ch’era flato sì pronto ad alzarli. L’incomodità di tal positura, unita ai rigori dell’ inverno gli cagionò una gran piaga in una coscia, la quale egli non volle curare, come neppur faceva curare un’altra, che da gran tempo aveva in un piede. Da queste piaghe, uscivano continuamente dei vermi, dai quali si lasciava divorare: e Iddio per mostrare, quanto gradisse la mortificazione, e pazienza di Simeone, e quanta gloria tenesse preparata a quelle membra mezzo infradiciate dalle penitenze, dispose che essendo un giorno caduto dalla colonna, dove dimorava, uno di quei vermi, e preso in mano da Basilio Re de’ Saracini, ch’era venuto a visitarlo, si cangiasse in una bellissima perla preziosa, come riferisce Antonio suo discepolo, e testimonio di vista, che è uno degli Scrittori della sua Vita.

11. Visse Simeone un anno intero dopo la sofferta illusione del demonio; e trovandoli già quali interamente consumato da un sì lungo martirio, sentì avvicinarsi il suo termine: ed essendosi chinato per fare orazione, senza rialzarsi all’ora, in cui soleva far le solite istruzioni, né arrischiandosi alcuno d’interrompere la sua orazione; dopo tre giorni dall’odore soave, che tramandava il suo corpo, e dallo splendore del suo volto s’avvidero, ch’era passato all’altra vita: il che seguì l’anno 461, essendo il Santo in età d’anni sessantanove, trentasette dei quali aveva passati sopra varie colonne di diversa altezza, come di sopra si è detto, l’ultima delle quali era distante d’Antiochia circa quaranta miglia. – La vita prodigiosa di questo Santo martire della penitenza, attestata dal gran Teodoreto Vescovo di Ciro nella Siria, che più volte parlò con lui, e da altri testimoni irrefragabili, e contemporanei, oh quanto deve riempiere di confusione coloro, che professandosi seguaci di un Dio crocifisso, menano una vita molle, e deliziosa, né sanno soffrire e con pazienza e rassegnazione le malattie, o altre tribolazioni, con cui piace al Signore di visitarli per loro bene! Quanto ancora dobbiamo temere le insidie di satanasso, il quale, come avverte l’Apostolo, non di rado si trasfigura in Angelo di luce per ingannare, e sedurre: Siamo vigilanti, ed attenti sopra di noi stessi; con lo scudo della Fede, e con la spada della parla di Dio, e dell’orazione, come ci esorta lo stesso Apostolo, procuriamo di ribattere le saette infocate delle sue tentazioni, e muniamoci del segno salutare della Croce, per mettere in fuga un sì furibondo

GREGORIO XVII IL MAGISTERO IMPEDITO: DIO E MAMMONA

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

DIO E MAMMONA

[«Renovatio», VI (1971), fasc. 1, pp. 3-4]

 Molti teologi hanno la grave tentazione di ridurre la teologia all’«antropologia». Si tratta di vera tentazione, perché se una teologia antropologica vuol mettere l’uomo al centro, cioè al posto di Dio, rischia di diventare addirittura blasfema; se intende sostituire le istanze umane a quelle divine, dando importanza preminente al benessere di questo mondo sull’asse vita eterna, diventa degenerata rispetto al suo compito. Può semplicemente occuparsi della parte che riguarda l’uomo – e questa esiste realmente ed obiettivamente in teologia – ma, il farlo in modo unilaterale, implica il pericolo di cadere nei due casi sopra esposti. – Conseguenza grave di una teologia ridotta ad antropologia è il costringere il Cristianesimo ad una mera istanza sociale. Il sociologismo, infatti, ha molte sfumature e varianti; però sposta sempre più o meno l’ago della verità e della realtà da come sono nella divina rivelazione. E per questo motivo che la nostra rivista non esce dalla sua programmatica funzione, se deve toccare qualche argomento in qualche modo sociologico. Per i veri Cristiani l’argomento sociale ha sempre avuto come perno la persona umana, tanto degnata da Dio; per gli altri in modo più generale il perno è sempre stato non la persona, anche se si usa ed abusa del termine «libertà», ma il benessere e la sua spartizione. Perché esista una società, e non un mero aggregato, una folla, occorre un’autorità, comunque venga designata. I più accesi sostenitori di rivoluzioni sociali, da essi presentate come redentrici dei lavoratori, hanno terribilmente dilatato i compiti dell’autorità. Non solo non ne hanno potuto fare a meno – il che è eloquente – ma hanno dovuto esasperarli. Ma c’è un altro fatto interessante. Si è allargato lo spazio dell’autorità: costruendola come un potere delegato dal basso. Questo è il potere quale oggi lo abbiamo di fronte: in diverse forme di esercizio, dalla legittima spregiudicatezza alla disonestà. Naturalmente bisogna tenere conto del potere che taluni, senza alcuna delega, si sono costruiti per conto proprio [Qui è evidente l’allusione agli usurpanti “vertici” della Chiesa Cattolica, agli antipapi imposti dalle conventicole massoniche al servizio del Gran Kahal!-ndr. -]. Il potere non è il denaro, ma, ordinariamente, al punto a cui siamo arrivati oggi, esso dispone a suo piacimento del denaro. La corsa al potere, che è lo spettacolo più impressionante del nostro piccolo mondo, è spesso giustificata dalla sete del denaro. Tra i «poteri» ci sono quelli sull’opinione pubblica, oggi i più tracotanti ed i meno controllati. Ma si tratta sempre di denaro, economia. In sé non è pertanto cattivo; ma, per la capacità che ha di aprire tutte le porte, condiziona ogni potere prettamente terrestre, tanto quanto ne è condizionato. La sua mobilità e il suo impiego ne fanno il centro di tutti gli appetiti. E tuttavia molte strutture stanno spingendo le cose in modo da assoggettare il denaro al potere. – Questa è la verità brutale della lotta per la quale una parte degli uomini combatte, mentre gli altri credono sia questione di ideali.

Il Vangelo ha opposto «mammona» a Dio. Nella sua corsa più generosa, quella verso la parità dei diritti, l’equa distribuzione dei beni, la serena convivenza dei popoli, il genere umano si trova impegolato di fatto nel gioco a spirale tra il potere e il denaro. Per i più il soggetto della economia non è, come dovrebbe essere, l’uomo: sono le «cose». – È su questo sfondo realistico e brutale che si colora il tentativo di far diventare la teologia un’antropologia. E ripiglieremo il discorso perché ha aspetti anche più gravi.

L’uomo si salva solo quando è umile e diventa grande quando adora Dio.

SANTA GENOVEFFA, VERGINE PATRONA DI PARIGI

SANTA GENOVEFFA, VERGINE PATRONA DI PARIGI

[Dom Guéranger: l’ANNO LITURGICO, Ed. Paoline, Alba, 1957]

Il Martirologio della Chiesa Romana ci presenta oggi il nome d’una santa vergine la cui memoria è troppo cara alla Chiesa di Parigi e a quelle di tutta la Francia, perché possiamo passare sotto silenzio i suoi meriti gloriosi. Insieme con i Martiri e con il Confessore e Pontefice Silvestro, la vergine Genoveffa brilla d’un soave splendore accanto a sant’Anastasia, e custodisce con amore la culla del divino Bambino del quale imitò la semplicità e meritò di esser la Sposa. In mezzo ai misteri del parto verginale, è giusto rendere solenni onori alle Vergini fedeli che son venute dopo Maria. Se ci fosse possibile esaurire i Fasti della santa Chiesa, che magnifica pleiade di spose di Cristo dovremmo glorificare in questi quaranta giorni della Nascita dell’Emmanuele! Genoveffa è stata celebre nel mondo intero. Viveva ancora in questa carne mortale che già l’Oriente conosceva il suo nome e le sue virtù; dall’alto della sua colonna, Simone stilita la salutava come sorella nella perfezione del Cristianesimo. A d essa è affidata la capitale della Francia: una semplice pastorella protegge i destini di Parigi, come un povero lavoratore, sant’Isidoro, veglia sulla capitale della Spagna. – L’elezione che Cristo si era degnato di fare della fanciulla di Nanterre quale sua Sposa, fu proclamata da uno dei maggiori vescovi della Gallia nel V secolo. San Germano d’Auxerre si recava in Gran Bretagna dove il Papa san Bonifacio I lo mandava per combattere l’eresia pelagiana (verso il 430). Accompagnato da san Lupo, vescovo di Troyes, che doveva condividere la sua missione, si fermò al villaggio di Nanterre; e siccome i due prelati si dirigevano verso la chiesa in cui volevano pregare per il successo del loro viaggio, il popolo fedele li circondava con una pia curiosità. Illuminato da una luce divina, Germano distingueva tra la folla una fanciulla di sette anni, e fu avvertito interiormente che il Signore se l’era scelta. Chiese agli astanti il nome di quella fanciulla, e pregò che la conducessero alla sua presenza. Si fecero dunque avvicinare i genitori, il padre chiamato Severo e la madre di nome Geruntia. L’uno e l’altra furono commossi alla vista delle carezze di cui il santo vescovo colmava la loro figliuola. « È vostra questa fanciulla? » chiese Germano. – « Sì », risposero. – « Beati voi che siete i genitori di una simile figlia! » riprese il vescovo. « Alla nascita di questa fanciulla, sappiatelo, gli Angeli hanno fatto gran festa nel cielo. Questa fanciulla sarà grande davanti al Signore, e con la santità della sua vita sottrarrà molte anime al giogo del peccato ». – Quindi, rivolgendosi alla fanciulla: « Genoveffa, figlia mia! » disse. – « Padre santo », rispose essa, « la tua serva ti ascolta ». – E Germano: « Parlami senza timore: vorresti essere consacrata a Cristo in una purezza senza macchia, come sua Sposa? » – « Siate benedetto. Padre mio! » esclamò la fanciulla, « ciò che voi mi chiedete è il desiderio più ardente del mio cuore. È tutto quello che io voglio: degnatevi di pregare il Signore che me lo conceda ». « Abbi fiducia, figlia mia » riprese Germano; « sii ferma nella tua risoluzione; siano le tue opere conformi alla tua fede, e il Signore aggiungerà la sua forza alla tua bellezza ». – I due vescovi, accompagnati dal popolo, entrarono nella chiesa, e si cantò l’Ufficio di Nona, che fu seguito dai Vespri. Germano aveva fatto condurre Genoveffa presso di sé, e per tutta la salmodia tenne le sue mani sul capo della fanciulla. L’indomani, allo spuntar del giorno, prima di mettersi in cammino, fece condurre a sé Genoveffa dal padre. « Salve Genoveffa, figlia mia! » le disse; « ricordi la promessa di ieri? » – « O Padre santo! » rispose la fanciulla, « ricordo quanto ho promesso a Dio; il mio desiderio è quello di conservare sempre, con l’aiuto del cielo, la purezza dell’anima e del corpo ». A questo punto, Germano vide per terra una medaglia di cuoio segnata con l’immagine della Croce. La raccolse e, presentandola a Genoveffa le disse: « Prendila, mettila al collo, e conservala in ricordo di me. Non portare mai né collana né anello d’oro o d’argento, né pietra preziosa; perché se l’attrattiva delle bellezze terrene venisse a dominare il tuo cuore, perderesti subito la tua divisa celeste che deve essere eterna ». Germano disse alla fanciulla di pensare spesso a lui in Cristo, e raccomandatala a Severo come un deposito doppiamente prezioso, si mise in cammino per la Gran Bretagna con il suo pio compagno. – Abbiamo voluto riprodurre questa graziosa scena quale ci è narrata negli Atti dei Santi per mostrare la potenza del Bambino di Betlemme che agisce con tanta libertà nella scelta delle anime che ha risoluto di legare a sé con un legame più stretto. Egli si comporta da maestro, nulla gli è di ostacolo, e la sua azione non è meno visibile in questo secolo di decadenza e di tiepidezza di quanto lo fosse ai giorni di san Germano e di santa Genoveffa. Alcuni, purtroppo, ne provano dispiacere; altri stupiscono; la maggior parte non riflette affatto; gli uni e gli altri si trovano tuttavia di fronte a uno dei segni più evidenti della divinità della Chiesa.

Vita. – Genoveffa nacque a Nanterre verso il 419. A sette anni, fu consacrata vergine dal vescovo S. Germano di Auxerre. Con la sua preghiera e con i suoi miracoli protesse contro gli attacchi dei Normanni, e nutrì durante l’assedio, la città di Parigi che la invoca quale patrona. Dopo una vita trascorsa nella pratica delle più eminenti virtù, s’addormentò nel Signore il 3 gennaio del 512. La sua tomba, resa insigne da numerosi miracoli, è diventata la meta di un pellegrinaggio nazionale.

“ O Genoveffa, vergine fedele, noi vogliamo renderti gloria per i meriti che il divino Bambino si è compiaciuto di radunare in te. Tu sei apparsa sulla Francia come un Angelo tutelare; le tue preghiere sono state per lungo tempo oggetto della fiducia dei Francesi, e ti sei onorata, in cielo e in terra, di proteggere la capitale del regno di Clodoveo, di Carlo Magno e di san Luigi. Sono giunti tempi degni di esecrazione, durante i quali il tuo culto è stato sacrilegamente abrogato, i tuoi templi sono stati chiusi, e le tue preziose reliquie profanate. Tuttavia, tu non ci hai abbandonati; hai implorato per noi giorni migliori; e possiamo riprendere una certa fiducia nel vedere il tuo culto rifiorire in mezzo a noi, malgrado le profanazioni più recenti venute ad aggiungersi alle antiche. – In questo periodo dell’anno che illustra e consacra il tuo nome, benedici il popolo cristiano. Apri i nostri cuori all’intelligenza del mistero del Presepio. Ritempra quella nazione che ti è stata sempre cara alle pure sorgenti della fede, e ottieni dall’Emmanuele che la sua Nascita, rinnovantesi ogni anno, divenga un giorno di salvezza e di vera rigenerazione. Noi siamo malati, periamo, perché le verità sono scemate presso di noi, secondo le parole di David; e la verità si è oscurata perché l’orgoglio ha preso il posto della fede, l’indifferenza quello dell’amore. Solo Gesù conosciuto e amato nel mistero della sua ineffabile Incarnazione può ridarci la vita e la luce. Tu che l’ha ricevuto e l’hai amato nella tua lunga e casta vita, conduci anche noi alla sua culla. Veglia, o potente pastora, sulla città che ti è stata affidata. Guardala dagli eccessi che sembrano talora renderla simile a una grande città pagana. Dissipa le tempeste che si formano nel suo seno, e da apostola dell’errore, consenta a diventare finalmente discepola della verità. Nutri ancora il suo popolo che muore di fame, ma solleva soprattutto le sue miserie morali. Calma quelle febbri ardenti che bruciano le anime e sono ancor più terribili di quel brutto male che bruciava solo i corpi. Accanto al tuo sepolcro vuoto, dall’alto del Monte che domina il grandioso tempio che si eleva sotto il tuo nome e rimane tuo per volere della Chiesa e dei padri nostri, a dispetto dei reiterati attacchi della forza bruta, veglia su quella gioventù di Francia che si stringe attorno alla cattedra della scienza umana, gioventù così spesso tradita dagli stessi insegnamenti che dovrebbero dirigerla, e assicura alla patria generazioni cristiane. Brilli sempre la croce, a dispetto dell’inferno, sulla cupola del tuo santuario profanato, e non permettere mai che ne sia tolta. Che quella croce immortale regni di nuovo presto e pienamente su di noi, e stenda le sue braccia, dalla sommità del tuo tempio, su tutte le case della città peccatrice restituita alla sua antica fede, al tuo culto, alla tua antica protezione.

NOME DI GESU’

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II; S.E.I. Torino, 1930]

1. Che cosa significa il nome di Gesù. — 2. Il nome di Gesù annunziato dai profeti. — 3. Grandezza del nome di Gesù. — 4. Il nome di Gesù è prezioso. — 5. Bisogna invocare sovente il santo nome di Gesù.

– 1. CHE COSA SIGNIFICA IL NOME DI GESÙ. — Il nome di Gesù vuol dire Salvatore e Redentore. « Nella lingua ebraica, scrive Sant’Epifanio, Gesù significa colui che guarisce, ovvero medico e salvatore ». L ‘ Angelo Gabriele dà egli medesimo questo senso al nome di Gesù, quando dice a Giuseppe che non tema di prendere in sposa Maria: poiché quello che è nato in Lei le viene dallo Spirito Santo. « Essa partorirà un figlio e lo chiamerai Gesù, perché libererà il suo popolo dai suoi peccati » — Vocabis nomen eius Iesum ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum ( MATTH. 1, 20-21). « Non si dà salute in nessun altro, predicava S. Pietro, se non in Gesù di Nazareth, e non è dato in terra agli uomini altro nome, in virtù del quale possano essere salvi » — Non est in alio aliquo salus. Nec enim aliud nomen est sub cœlo datum hominibus in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV, 12). « Il mio nome, è nuovo », dice il Signore nell’Apocalisse: — Nomen meum novum (III, 12). Il nome al quale qui si accenna è quello di Gesù; nome da lui ricevuto nella circoncisione.

– 2. IL NOME DI GESÙ ANNUNZIATO DAI PROFETI. — « Io aspetterò, o Signore, la vostra salute » — Salutare tuum expectabo, Domine (Gen. XLIX, 18), diceva Giacobbe vicino a morire; più esplicito il profeta Abacuc chiamava questa salute col proprio nome, esclamando: « Io mi rallegrerò nel Signore, e tripudierò di gioia in Gesù Dio della mia salute » — Ego autem in Domino gaudebo, et exultabo in Deo Iesu meo ( HABAC. III, 18). « Stillate, o cieli, la vostra rugiada, pioveteci, o nubi, il giusto; si apra la terra e produca il Salvatore » — E orate cœli desuper et nubes pluant Iustum: aperiatur terra et germinet Salvatorem ( ISAI. XLV, 8) andava sospirando Isaia.

-3. GRANDEZZA DEL NOME DI GESÙ. — « Dio ha esaltato il Cristo, scrive il grande Apostolo egli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome: così che al nome di Gesù si piega ogni ginocchio in cielo, in terra, e nell’inferno » — Exaltavit illum et donavit illi nomen quod ut super omne nomen: ut in nomine Iesu omne genu flectatur coelestium, terrestrium et infernorum (Philipp. II, 9-10). Il Padre eterno ha dato al Cristo 1° il nome di Dio e di Figlio di Dio ; ora, i l nome si prende per la cosa che significa; il nome di Dio è dunque Dio stesso, è la divinità. 2° Dio Padre ha dato al Cristo il nome di Gesù, cioè la celebrità e la glorificazione di questo nome, affinché in qualità di Messia e Salvatore, Gesù fosse conosciuto e rinomato e celebrato in tutti i luoghi e per sempre sulla terra, in cielo e nell’inferno. 3° Per la sua umiltà ed obbedienza fino alla morte, Cristo si è meritato il nome di Gesù che è il titolo di Salvatore e di Redentore, e per la morte di croce egli è infatti divenuto il Salvatore e Redentore del mondo. – Il nome di Gesù è al disopra di ogni altro nome, e non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale possano essere salvi; perché il nome di Gesù è il nome proprio del Verbo incarnato. Quindi il nome di Gesù rappresenta tutta l’economia della Incarnazione del Verbo e della Redenzione, nelle quali più che in tutte le altre opere divine spiccano unite la sapienza e la potenza, la bontà e la maestà di Dio, con tutti gli altri suoi attributi. Chi è infatti Gesù Cristo, se non la suprema maestà, il sommo amore, per mezzo del quale ci vengono e ci sono date la salute, la gloria, tutti i beni del corpo e dell’anima, tanto in questa che nella futura e beata vita, per tutta l’eternità! Da ciò ne segue che il nome di Gesù è in modo assoluto più grande, più santo, più venerabile che non il nome stesso di Jehovah. E la ragione fondamentale sta in ciò, che Jehovah significa Dio, in qualità di Signore e Creatore, mentre Gesù indica Dio, in qualità di Salvatore e Redentore. – Ora, siccome il benefizio e l’opera della redenzione stanno molto al di sopra, per ciò che è di eccellenza intrinseca e di vantaggio all’umanità, all’opera e al benefizio della creazione, così il nome di Gesù o Salvatore vince in grandezza e santità e venerabilità il nome sacro di Iehovah, ossia Creatore. – Perciò la Chiesa canta nella sua liturgia, che la nascita dell’uomo a nulla avrebbe giovato senza la redenzione: — Nil nasci profuit, nisi redemi profuisset (In benedici. Cerei pasch.). Inoltre il nome di Dio Redentore racchiude il nome di Dio Creatore, mentre questo non contiene quello; essendo evidente che la redenzione presuppone la creazione, e la creazione non porta con sé di necessità, la redenzione. Il nome di Jehovah dice: Colui che è, ed è il nome appunto con cui Dio chiamò se stesso quando volle manifestarsi a Mose: « Io sono colui che sono » — Ego sum qui sum (Exod. III, 14). Il nome di Gesù dice Colui che crea e salva quelli che sono perduti, che li giustifica,  vivifica, beatifica, e divinizza. Jehovah è il principio e la sorgente dell’essere; Gesù è il principio e la sorgente della grazia, della salute, della gloria. Jehovah è il vincitore, il soggiogatore di Faraone e dell’Egitto; Gesù è il trionfatore del demonio e dell’inferno. Jehovah è il legislatore dei Giudei, l’autore dell’antico Patto; Gesù è il legislatore di tutti i cristiani, l’autore del nuovo Testamento. Jehovah guida gli Ebrei nel paese di Canaan a traverso del mar Rosso; Gesù ci conduce al cielo a traverso i flutti del suo sangue, nel quale siamo battezzati e lavati. Ecco perché i pii fedeli chinano il capo o genuflettono pronunziando il nome di Gesù, il che non fanno a l proferirsi il nome di Jehovah. Chi oltraggia o bestemmia il nome di Gesù, pecca più gravemente che chi insulta e strapazza il nome di Dio. Difatti il nome di Gesù è il nome proprio del Verbo incarnato e contiene e sopravanza tutti gli altri nomi del Cristo; di modo che è un nome superiore a tutti gli altri nomi: — Nomen quod est super omne nomen. — Bisogna dunque che al nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio, in cielo, in terra e nell’inferno: — In nomine Iesu omne genuflectatur. cœlestium, terrestrium et infernorum. — Ogni ginocchio deve piegarsi al nome di Gesù, cioè tutti gli esseri dotati, d’intelligenza devono adorare questo santo nome… Il cielo riverisce e adora il nome di Gesù, perché in virtù di questo nome gli Angeli furono confermati in grazia e in gloria. La terra lo riverisce e adora, perché a questo nome essa deve il suo riscatto e la sua salute. L’inferno freme udendolo pronunziare e lo rispetta, perché chi lo porta è il vendicatore delle leggi divine, il giudice ed il padrone dei demoni e dei reprobi. « Ogni lingua confessi, continua S. Paolo, che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre » — Omnis lingua confìteatur quia Dominus Iesus Christus in gloria est Dei Patris (Loc. cit. 12). Queste parole denotano che, come Dio, Gesù ha l’essenza, la gloria, la maestà, la potenza del Padre e che, come uomo, fu collocato alla destra di Dio Padre ed elevato al di sopra di tutti gli uomini e di tutti gli Angeli; che partecipa così da vicino ed in sì alta misura alla gloria del Padre, che si può dire con tutta ragione che Egli è nella medesima gloria, ed infinitamente meglio di tutti gli Angeli e di tutti i santi che, ciascuno a suo modo, si trovano pure nella gloria di Dio Padre. – Non dimentichiamo mai l’esortazione di S. Paolo ai Tessalonicesi: « Il nome di Gesù Cristo sia reso chiaro e glorioso in voi e voi in esso, mediante la grazia del nostro Dio, e del Signore Gesù Cristo » — Clarifìcetur nomen Domini nostri Iesu Christi in vobis, et vos in ilio secundum gratiam Dei nostri, et Domini Iesu Christi ( I I Thess. I , 12).

– 4. IL NOME DI GESÙ È PREZIOSO. — O nome benedetto, esclama S. Bernardo, olio prezioso sparso in tutti i luoghi! È già da gran tempo che questo nome è venerato in cielo, nella Giudea, e di là in tutta la terra! La Chiesa innalza la voce da un capo all’altro del mondo e dice: Il vostro nome, o Gesù, è olio dolce e soave, sparso dappertutto e largamente sparso; esso non si dilata solamente per il cielo e per la terra, ma penetra perfino negli inferni; tanto che al nome di Gesù si piega ogni ginocchio in cielo, in terra, e nell’inferno. Ah sì! ogni lingua confessi e dica che il vostro nome è olio delizioso largamente sparso in ogni luogo (Serm. XV in Cant.). L’olio, continua il medesimo Padre, splende, nutrisce, conforta. E esca al fuoco, cibo al corpo, lenimento al dolore; serve di luce, di alimento, di rimedio. Vedete ora come simili effetti produce il nome di Gesù. Annunziato, illumina; meditato, nutrisce; invocato, solleva e guarisce. Studiamo ad una ad una queste meraviglie: donde credete che abbia potuto uscire, per spandersi sull’universo, così improvvisa e così splendida la luce della fede, se non da Gesù rivelato, annunziato, predicato? Non è forse per mezzo dello splendore di questo nome, che Dio ci ha chiamati all’ammirabile sua luce? Illuminandoci, ha fatto splendere ai nostri occhi la sua luce, nella luce che spandeva il nome di Gesù. Con ragione dice S. Paolo: Altre volte voi eravate tenebre, al presente siete luce nel Signore. Il nome di Gesù non è solamente luce, ma anche cibo. E infatti non vi sentite voi rinvigorire quando richiamate alla mente questo prezioso nome? Quale pensiero mi sostiene più di questo? quale ricordo rinfranca di più i sensi, affranti dall’esercizio e dal lavoro? che cosa vi è che più rassodi le virtù, mantenga i casti affetti, rinsaldi i buoni e onesti costumi? Arido e insipido è ogni cibo dell’anima, che non sia ammollito di questo dolcissimo olio; esso è insulso, se non è condito di questo sale celeste. Non gusto gli scritti, se non vitrovo il nome di Gesù; a noia mi vengono i ragionamenti, e discorsi, quando non sento il nome di Gesù. Gesù è miele alla mia bocca, melodia al mio orecchio, giubilo al mio cuore. Finalmente, il nome di Gesù è rimedio. Vi è tra di voi chi sia triste, afflitto, tormentato? si getti costui sul petto di Gesù, penetri nel sacro Cuore di lui, ne proferisca con la lingua il santo nome; e tosto al comparire di questo splendido, potente nome, si dileguerà ogni nebbia e il cielo dell’anima ridiverrà sereno. Cade alcuno nella colpa, e corre rischio di dare nella disperazione! il soffio della vita lo rianimerà non appena avrà invocato questo vivifico nome. Sarà forse la durezza del cuore, il torpore nato dall’indolenza e figlio della viltà, la corruzione dell’anima, la languidezza dell’accidia, che possa resistere alla potenza di questo nome salutare? Nessun rimedio calma più prontamente la violenza della collera e dissipa l’enfiagione dell’orgoglio, quanto questo nome divino. Guarisce la piaga dell’invidia, arresta la lussuria, spegne il fuoco della passione infame, estingue la sete dell’avarizia, doma il fremito di tutti i cattivi istinti che potrebbero togliere l’onore. Infatti quando nomino Gesù, il mio pensiero corre e si ferma sopra un essere dolce e umile di cuore, buono, sobrio, casto, misericordioso, in somma notevole per purità e santità: io nomino il medesimo Dio onnipotente che col suo aiuto ed esempio, medica, guarisce, e rinforza. Tutte queste meraviglie suonano al mio orecchio, quando sento il nome di Gesù. Sia questo sempre nel vostro cuore, suoni del continuo sulle vostre labbra; perché in virtù di questo prezioso nome, tutti i vostri sentimenti e tutte le vostre azioni si dirigono verso Gesù Cristo, che loro serve di principio e di termine. Non è forse egli in persona che v’invita a fare così, quando vi dice nel Cantico dei Cantici (VIII, 6): « Mettetemi come un sigillo sul vostro cuore, come un’impronta sul vostro braccio » — Pone me ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum (Serm. XV in Cant.)! Eipetiamo anche noi con S. Pietro: Non da altri abbiamo salute se non da Gesù di Nazareth; perché non vi è sotto il cielo altro nome nel quale dobbiamo essere salvati: — Non est in alio aliquo salus. Nec enim aliud nomen est sub cœlo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV, 12); ma per questo nome augusto tutti possono avere salvezza… Due soli nomi vi sono nel mondo, portatori di pace, di ordine, di armonia, di virtù e di felicità e sono i dolci, potenti nomi di Gesù e di Maria. – Il santissimo nome di Gesù, 1° seda le tempeste e calma gli uragani di qualunque passione: 2° sparge la grazia e la misericordia; 3° nutrisce l’anima e l’infiamma di amore celeste; 4° porta conforti ineffabili e divini; 5° procura una buona fama; 6° bandisce la tristezza e rallegra il cuore; 7° dà vigore ai martiri e a tutti i fedeli che combattono per la fede; fa che trionfino generosamente di tutti gli ostacoli, di tutti i patimenti, di tutte le prove, di tutte le persecuzioni e della morte stessa; questo sacro nome corona i vincitori; 8° medica tutte le piaghe, cura tutte le infermità dell’anima e del corpo: 9° incatena il demonio, il mondo e la concupiscenza della carne. Tutti i Padri della Chiesa ci dicono che il demonio nessuna cosa teme tanto, quanto l’invocazione del Nome di Gesù. « I demoni, dice S. Giustino, impauriscono di questo nome che li fa tremare; e anche ora ci obbediscono, se nel nome di Gesù Cristo crocefisso li scongiuriamo… In qualunque luogo suoni il nome del Signore, quivi tutte le cose riescono a bene (Eius nominis potentiam dæmones tremunt et reformidant: hodie quoque illi per nomen Iesu Christi crucifixi adiurati nobis parent… Ubicumque fuerit nomen Domini, ibi prospera erunt omnia – Hom. VIII) ». Origene avverte che vi è nel nome di Gesù sì grande forza per vincere i demoni, che pronunziandolo si ottiene quanto si desidera, come insegnava il divin Maestro quando diceva: Molti nel giorno del giudizio mi diranno: Nel tuo nome, abbiamo cacciato i demoni. « Basta la sola invocazione del nome di Gesù, soggiunge Teodoreto, per far sì che l’avversario nostro ci rispetti e ci tema grandemente ». Racconta un gravissimo autore, che è severamente proibito ai fattucchieri e a quanti si consacrano di proposito al demonio, d’invocare o ricordare in qualunque modo nei loro notturni convegni, il nome di Gesù, ancorché avessero rinnegato il divin Salvatore. Noi sappiamo che il diavolo e tutta la sua corte scompare immediatamente, quando alcuno della setta pronunzia, anche senza averne intenzione, il nome di Gesù (TYREUS, de Dæmon. c. XLII, n. 22). – S. Giovanni Crisostomo diceva che: « il nome di Gesù, e la potenza della croce tengono per noi cristiani il luogo d’incantesimi spirituali. Questo incanto, non solamente caccia il dragone dalla sua caverna e lo precipita nel fuoco, ma rimedia ancora alle ferite da esso fatte all’anima nostra. Il nome di Gesù suona terribile ai demoni i quali appena uditolo menzionare si dileguano; riesce salutare a guarirci delle nostre infermità e agitazioni. Divenga esso dunque il nostro ornamento, e sia per noi un muro di difesa (Hom. VIII ad pop.) ». – S. Ignazio di Loyola non volle che la sua congregazione prendesse nome da lui, ma da Gesù, affinché questo nome le fosse d’incentivo ad operare sempre con energia, e ad affrontare i supplizi e la morte. – Al nome di Gesù conviene in modo speciale quel detto dei Proverbi: « Torre munitissima è il nome del Signore; a Lui avrà ricorso il giusto e sarà esaltato » — Turris fortissima nomen Domini; ad ipsum currit iustus et exaltabitur (Prov. XVIII, 10). « Gesù si è fatto nostra fortezza in faccia al nemico, dice qui a proposito S. Agostino; guardate che il demonio non vi ferisca e per ciò rifugiatevi nella torre. Colà i dardi di satana non vi potranno mai colpire e voi ci starete i n tutta sicurezza e pace (In Psalm.) » . – Con l’invocazione del nome di Gesù, si ottiene tutta la sua protezione ed ogni desiderabile aiuto. « Chiunque invocherà il nome del Signore, sarà salvo », dice Gioele: — Omnia qui invocaverit nomen Domini, salvus erit (IOEL. II, 32). Perciò dice il Salmista: « Io loderò e invocherò il Signore, e sarò liberato di tutti i miei nemici » — Laudans invocabo Dominum, et ab inimicis meis salvus ero (Psalm. XVII, 4), e il profeta Abacuc esclamava: « Io mi rallegrerò nel Signore, ed esulterò di gioia in Gesù, Dio, mia salute » — Ego in Domino gaudebo; et exultabo in Deo Iesu meo (III, 18). Questi profeti c’insegnano quanto sia amabile e prezioso il nome di Gesù, affinché ci rallegriamo e lo prendiamo per protettore e guida. Il nome di Gesù significa, 1° che tutti i beni ci vengono da Lui, poiché la salvezza, portataci dal Redentore, comprende tutti i doni di Dio e tutti i beni. Come le acque che si dividono in molti rivi, zampillano da una sola sorgente; come tutti i raggi vengono dal sole e tutti i bracci di mare appartengono all’oceano, così ogni virtù e grazia e santità nel loro principio, nel mezzo, nel fine, vengono da Gesù Cristo. È Gesù che scancella col suo sangue le macchie dei nostri peccati; è Lui che tempra gli ardori della concupiscenza, che rompe i ceppi delle cattive consuetudini, che doma il furore delle passioni, che ci sottrae al giogo del demonio; è Lui che rende la libertà allo spirito, che orna l’anima della grazia e ne fa la sposa, la figlia, il tempio di Dio; è Lui che quieta e rasserena la coscienza, dà vita ai nostri sensi e al nostro spirito, illumina il nostro intelletto mediante la cognizione delle cose divine, eccita la nostra volontà a ricercarle, fortifica la nostra debolezza, ci dà vittoria nelle tentazioni e ci ottiene il trionfo nel combattimento. Se gemete nella desolazione, invocate Gesù e non tarderete a provare il potente soccorso di questo consolatore. Sei timori, le ansietà, gli scrupoli vi mettono nelle angustie, invocate Gesù, egli vi aprirà e allargherà il cuore, lo libererà e renderà lieto ed allegro. Se la febbre dei patimenti corporali e delle passioni vi abbrucia e vi consuma, invocate Gesù; il fiele della sua passione e il miele della sua mansuetudine misericordiosa, la calmeranno e troncheranno dalle radici. Se la povertà, le malattie, le tribolazioni, i nemici della salute si scagneranno e rovesceranno su di voi per atterrarvi, invocate Gesù con fiducia e perseveranza e voi supererete tutte le prove, trionferete di tutto e sarete coronati per mano di Gesù medesimo… Ecco perché le persone pie portano incessantemente nel cuore ed hanno del continuo su le labbra i dolci nomi di Gesù e di Maria e vi ricorrono in tutte le occasioni. – Essi sanno per prova la verità di quel detto di S. Bernardo: che di tutti coloro i quali, in ogni tempo, hanno invocato i nomi di Gesù e di Maria, neppure uno si è perduto (Serm. XV in Cant.). – 2° Il nome di Gesù non indica soltanto il Salvatore e la salute che ci è venuta da Lui, ma anche l’eccellente e mirabile maniera con cui ci ha salvati. – Egli infatti non ci ha salvati con una parola, come con una parola ha creato il mondo, ma ha preso sopra di sé le nostre infermità per guarircene; si è preso sopra di sé i nostri peccati e li espiò con durissime pene nel corpo e nell’anima, per distruggerli in noi. Egli ha accettato la morte alla quale noi eravamo condannati per uccidere la nostra morte e restituirci alla vita della grazia e della gloria. Quando pertanto pronunziamo il nome di Gesù, noi esprimiamo che il Verbo si è fatto carne, che Dio si è incarnato per noi, che nacque in una stalla e fu deposto in una greppia, e circonciso; che ha lavorato e sudato e pianto; che ha sofferto la fame, la sete, il caldo, il freddo; che per noi fu preso, legato, sputacchiato, flagellato, oltraggiato, coronato di spine, abbeverato di fiele, crocefisso. Tutto questo ricorda il nome di Gesù Cristo, ed è per ciò che suona infinitamente venerabile e adorabile agli uomini ed agli Angeli, ed infinitamente terribile ai demoni che all’udirlo fremono, tremano e fuggono.

– 5. BISOGNA INVOCARE SOVENTE IL SANTO NOME DI GESÙ. — S. Bernardo dice: « Abbi sempre Gesù nel cuore, e l’immagino del Crocefisso non si allontani mai dalla tua mente. Sia Gesù tuo cibo e tua bevanda, tua dolcezza o tua consolazione, tuo miele e tuo desiderio, tua lettura e tua meditazione, tua preghiera e tua contemplazione, vita, morte e risurrezione tua. Gesù è miele alla bocca, melodia all’orecchio, letizia al cuore ». – Sia Gesù il nostro amore e il centro dei nostri affetti; sia il soffio del nostro respiro, l’oggetto dei nostri discorsi; sia l’anima e la vita nostra, di modo che siccome noi siamo, noi viviamo, noi operiamo in lui e per lui, così pure non serviamo che lui, non ci studiamo di piacere ad altri che a lui, non parliamo che di lui solo; ci stia incessantemente sotto gli occhi; camminiamo sempre alla sua presenza, lavoriamo e soffriamo per lui; siamo pronti a fare per lui ogni sacrificio, ancorché difficile e penoso; moriamo finalmente per lui,  in lui e di lui, affinché regniamo eternamente con lui nel soggiorno della felicità e della gloria.

DISCORSO PER IL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

DISCORSO PER IL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

[Mons. Billot, “Discorsi parrocchiali”, 2a ediz. S. Cioffi edit. Napoli, 1840]

Sopra il buon impiego del tempo

Renovamini spiritu mentis vestræ et induite

novum hominem, qui secundum Deum

creatus est in iustitia et sanctitate veritatis.

[Eph. 4.]

Per ben cominciare quest’anno, fratelli miei, e procurarvelo felice, voi non potete far meglio che seguire l’avviso che vi dà l’Apostolo s. Paolo. Rinnovatevi dunque nello spirito del cristianesimo, imitando Gesù Cristo vostro modello, cui dovete essere conformi per trovarvi nel numero dei predestinati. Si tratta di spogliarvi dell’uomo vecchio, per servirmi delle parole dello stesso Apostolo, cioè rinunziare a tutte le vostre inclinazioni perverse, e fare a Dio in questo nuovo anno il sacrificio di tutte le vostre passioni. Bisogna che coll’anno che avete finito finisca altresì il regno del peccato: che con lui finiscano l’empietà, l’irreligione, le bestemmie, le imprecazioni, gli odi, le vendette, le ingiustizie, le impurità, le intemperanze, gli scandali, in una parola tutti i delitti che si sono commessi: possano essi rimanere sepolti in un eterno obblio! e che in loro vece rinascere si vedano in questo nuovo anno la pietà, la religione, la temperanza, la modestia, la carità, l’unione dei cuori. Tale è, fratelli miei, il compendio della morale rinchiusa nelle parole del grande Apostolo; Renovamini etc. – Se l’anno che voi cominciate si passa nella pratica delle virtù cristiane; se è un anno santo, egli sarà per voi fortunato. Invano accompagnato verrebbe dalla felicità più perfetta secondo il mondo invano vi presenterebbe tutto ciò che può appieno appagare le vostre brame nei piaceri e negli onori passeggieri; se non è un anno cristiano, sarà egli per voi disgraziato. Se all’opposto voi santamente il passate, fosse ben egli altronde attraversate da qualunque sinistro accidente, egli sarà sempre favorevole, perché vi condurrà alla felicità eterna. Profittatene dunque nel disegno che Dio ve lo dà, cioè per operare la vostra salute; destinatene tutti i momenti a questo beato fine. Per indurvi a questo, voglio proporvi alcune riflessioni sopra il buon impiego del tempo, Quali sono i motivi che debbono indurvi a ben impiegare il tempo? primo punto: come dovete voi impiegarlo? secondo punto. –

I Punto: Quando più prezioso e necessario si e un bene che ci viene offerto, tanto più dobbiamo noi stimarlo. Più è limitato l’uso che ci vien dato, più dobbiamo affrettarci di metterlo a profitto, principalmente quando dopo di averlo perduto non è più in nostro potere ricuperarlo per trarne vantaggio. – Ora tale è la natura del tempo di nostra vita; egli è prezioso, egli è breve, egli è irreparabile: tre ragioni che c’impegnano a ben impiegarlo. – Il tempo è prezioso e per riguardo al fine per cui ci è dato e per riguardo a quel che ne ha costato a Gesù Cristo per procurarcelo. Per qual fine, infatti, Dio vi ha dato, fratelli miei, e vi dà ancora del tempo a vivere sulla terra? È egli forse per accumular ricchezze, innalzarvi agli onori, appagar le vostre passioni? No, fratelli miei, no, ma bensì per guadagnare il cielo. Il tempo deve condurvi all’eternità, e la vostra eternità sarà felice o sgraziata secondo il buono o cattivo uso che avrete fatto del tempo. Voi potete ad ogni istante guadagnare un’eternità di gloria, perché non evvi alcun istante nella vita in cui non possiate entrare in grazia di Dio, se siete peccatori; ovvero, se siete in istato di grazia, meritar potete tanti gradi di gloria, quante buone opere farete: ecco perché dire si può che da un momento l’eternità dipende, perché basta un momento per meritarla o perderla. Se voi passar lasciate questo momento che vi è dato; se voi non profittate del tempo presente, dopo la morte voi non potrete più meritare : Tempus non erit amplius (Apoc. X). Dopo la morte non vi sarà più perdono dei vostri peccati ad ottenere; più opera alcuna che possa essere nel cielo ricompensata. I reprobi nell’inferno non potranno mai, con tutti i pianti che verseranno, con tutti i tormenti che soffriranno, ottenere il perdono di un solo peccato; i santi nel cielo non potranno mai, con tutto l’amore che avranno per Dio, accrescere un solo grado della loro beatitudine perché fuori della vita non avvi più merito. Oh quanto è dunque prezioso il tempo della vita e quanto importa il profittarne! poiché ciascun momento vale, per così dire, il possesso di un Dio, vale una felicità eterna. – Ma quale stima ancora non dobbiamo noi fare del tempo, se consideriamo quanto ha costato a Gesù Cristo per procurarcelo? Gli è per meritarci questo tempo che questo Dio salvatore è nato in una stalla, si è assoggettato ai rigori delle stagioni, agl’incomodi della fame e della sete, ai patimenti e alla morte ignominiosa della croce: gli è per meritarci il tempo di far penitenza ch’Egli si è offerto alla giustizia del Padre suo, il che non ha fatto per gli angeli ribelli, che non hanno avuto un solo istante per rialzarsi dalla loro caduta, nel mentre che il Signore ci dà dei giorni, dei mesi, degli anni per cancellare i nostri peccati, calmare la sua giustizia, meritare i doni della sua misericordia. A chi siamo noi debitori di questo favore? Ai meriti, ai patimenti, ed alla morte di Gesù Cristo. Quante volte Iddio, sdegnato contro il peccatore, ha alzato il braccio della sua giustizia per recidere questo albero infruttuoso, e quanti di questi alberi sterili sarebbero già nel fuoco, se Gesù Cristo, il mediatore supremo, non avesse per essi domandata grazia, pregando suo Padre di aspettare ancora per dar loro tempo di portar frutto? Dimitte illam et hoc anno (Luc. XIII). Ah! Signore, aspettate ancora un anno, che quest’albero produca frutti, e se egli non ne produrrà, voi lo taglierete. Ecco, o peccatori, ciò che domanda Gesù Cristo per voi; e di questo tempo, che è il frutto dei suoi patimenti e della sua morte, quale stima ne fate? in che l’impiegate? Dio ve lo dà per salvarvi, voi ve ne servite per perdervi: questo tempo ha costato la vita di un Dio, e lungi dal metterlo a profitto, voi ne fate un malvagio uso. Gli uni lo passano senza far niente: nihil agentibus. Sono quelle persone oziose e sfaccendate cui fare si può il rimprovero che faceva il padre di famiglia agli operai che se ne stavano in piazza e non si curavano di andare al lavoro: Quid hic statis tota die Matt. XX)? Si passano i giorni, le settimane, i mesi interi senza far nulla per la salute. Non sappiamo che cosa fare, dicono essi, troviamo il tempo ben lungo; bisogna dunque cercare di ricrearsi e sollazzarsi; e a questo fine il passano in divertimenti frivoli, in render visite, in ispacciar novelle, trattenersi in cose vane ed inutili, andar e venir da una compagnia all’altra, giuocare, andar al passeggio; perché, dicono essi, convien poi passar il tempo in qualche cosa. Ah insensati! voi dite di non avere cosa alcuna a fare? Trovate voi il tempo lungo? Oh quanto la discorrete male, dice s. Bernardo, dicendo che convien cercare di passar un tempo che vi è dato per fare penitenza, per ottenere il vostro perdono, per meritare la grazia, per procurarvi una felicità eterna! Ah! che dovete voi fare? — Non bisogna pregare, far delle buone opere, visitar le chiese, gl’infermi, ammaestrarvi con leggere libri di pietà? Non avete voi doveri ad adempire, virtù a praticare? Ah! se voi foste ben persuasi che avete un affare importante, qual è quello della salute, e che non avete se non il tempo della vita per faticarvi intorno, ben lungi dal trovarlo lungo, vi sembrerebbe troppo breve; per assicurarvi la riuscita di questo affare importante, voi ne mettereste sollecitamente a profitto tutti i momenti. Se i dannati dell’inferno avessero, non dico tutto il tempo, ma solamente una parte di quello di cui voi abusate, con qual precauzione non ne userebbero? – Altri si abusano ancora del tempo a fare tutt’altro che ciò che far dovrebbero: aliud agentibus. Moltissimi si occupano nel mondo, l’uno passa tutti i suoi giorni ad avvantaggiare i suoi negozi, l’altro a proseguire le sue liti, questi a condurre affari stranieri, quegli a fare azioni che non sono né del suo stato né della sua professione. Gli uni rovinano la loro sanità coll’applicazione della mente, gli altri coi travagli del corpo; ma quasi nessuno pensa alla sua salute. Ciò non ostante questi giorni sì pieni sono interamente vuoti di buone opere; si fa tutt’altro che quel che far si dovrebbe; e a che serve lavorar per gli altri, se non si lavora per sé? Questo è faticar inutilmente, questo è perdere il suo tempo: aliud agentibus. – Ma 1’abuso peggiore che si fa del tempo, si trova in quelli che lo passano in far del male: male agentibus. Abuso che pur troppo è comune tra gli uomini. Basta vedere quel che passa tra di essi. Gli uni non pensano dalla mattina alla sera che ai mezzi di contentare una rea passione, di mantenere una pratica, di soddisfare la loro cupidigia, la loro sensualità colle delizie e coll’abbondanza del riposo. Gli altri avidi di arricchirsi, commettono tante ingiustizie, quante occasioni trovano di usurpare l’altrui; tutta la loro vita la passano a meditar i mezzi di soppiantar gli uni e d’ingannar gli altri, di distruggere coloro che resister non gli possono. A che si riducono la maggior parte delle conversazioni? A parlar di affari progettati o conchiusi per la soddisfazione delle sue passioni, a spacciar novelle per lo meno inutili, a passar in rivista tutti gli stati, tutte le condizioni, a ricercare scrupolosamente i doveri di ciascuno, fuorché i loro propri; a censurare senza discrezione quei che impiegati sono nelle diverse cariche della società. M’inganno forse? Nulla è di tutto questo? Sarebbero dunque discorsi contro la religione, contro i costumi? Finalmente, per la disgrazia più deplorabile, non si vede, non si ode parlar dappertutto che di scelleratezze e di disordini: male agentibus; cioè, del mezzo che Dio loro dà per santificarsi, per meritar il cielo, se ne servono per consumare la loro riprovazione. Quale accecamento e quale insensibilità per i suoi interessi! Poiché questo tempo sì prezioso che ci vien dato per salvarci è sommamente breve. – Secondo motivo che deve indurci a metterlo a profitto. Infatti, fratelli miei, che cosa è la vita dell’uomo? È un sogno che sparisce nell’istante in cui uno si sveglia; è, dice il santo Giobbe, una foglia che il vento trasporta, un fumo che si dissipa nell’aria. Appena l’uomo è venuto al mondo che conviene pensare a lasciarlo. Non evvi, per così dire, che un passo dalla culla al sepolcro. La maggior parte degli uomini vive poco; e che compaiono alfine della vita gli anni di quei medesimi che vivono lungo tempo? Mille anni, dice il profeta, non sono innanzi a Dio che come il giorno di ieri che è passato: Mille anni tanquam die hesterna quæ præteriit (Ps.LXXXIX). La vita più lunga, a paragone dell’ eternità, è meno che una gocciola d’acqua vi pare, fratelli miei, dei venti, quaranta, sessant’anni che vissuto avete sopra la terra? Che cosa vi sembra dell’anno che ora è passato? É un giorno, è un momento: tutti i vostri anni passeranno nella stessa guisa, e voi vi troverete al fine come se pur allora incominciaste a vivere. Insensato è colui che si attacca alle cose transitorie di questo mondo, che cerca la sua felicità in una vita sì breve e che non se ne profitta per assicurarsi una più durevole felicità. – Dio ci ha dato il tempo della vita come un bene ad affitto, che ci toglierà dopo un certo tempo. I nostri corpi sono case che cadono ogni giorno in rovina e che ci tocca fra poco abbandonare; la nostra vita si accorcia tutti i giorni, di modo che più abbiamo noi vissuto, meno ci resta a vivere. Verrà fra breve l’ultimo giorno, in cui nulla vi sarà più a contare. Affrettiamoci di profittare di un tempo che se ne fugge veloce e la cui perdita è inoltre irreparabile. Ed invero, il tempo perduto non ritornerà più, gli anni che noi abbiamo vissuto sulla terra non sono più in nostro potere. Felici noi, se li abbiamo ben passati, sono altrettanti tesori di merito che abbiamo acquistati e che sussistono: mentre la virtù è il solo bene che sia sicuro dall’ ingiuria del tempo; le nostre preghiere, i nostri digiuni, le nostre limosine, tutto ciò noi troveremo alla morte e nell’ eternità. Ma se noi abbiamo passati male i giorni di nostra vita, la perdita che fatta abbiamo, è senza rimedio. Possiamo, è vero, ricuperar la grazia di Dio che abbiamo perduta nel tempo passato, ma non ricupereremo giammai quei momenti favorevoli cui aveva Iddio annesse certe grazie che forse non ci darà più e che deciso avrebbero di nostra predestinazione. Il nostro fervore può supplire ancora al numero delle buone opere che non abbiamo fatte; noi possiamo ancora, come gli operai della vigna che vennero all’ultima ora, meritare la ricompensa che fu data ai primi; ma non raccoglieremo giammai quell’abbondanza di frutti che tutti i momenti di un costante fervore ci avrebbero prodotti. – Qual sarà dunque alla morte il rammarico di coloro che abusato avranno del tempo? Qual sarà il cordoglio di quei peccatori che vedranno fuggiti quei bei giorni che non dipendeva che da essi l’impiegare pel cielo? Quei bei giorni in cui la grazia li sollecitava a staccarsi dalla creatura, a rompere quegli attacchi illeciti che li soggettavano al loro impero. Vedranno i loro piaceri passati col tempo; desidereranno di aver ancora quel tempo; ma con tutte le loro lagrime e i loro tormenti, non potranno giammai far ritornare un solo di quei momenti che avrebbero bastato per preservarli dall’ eterna disgrazia. – Aspetterete voi, fratelli miei, a questo stesso momento per riflettere sul prezzo del tempo e sospirare quello che perduto avrete? Oimè! di quanti momenti non vi siete voi già abusati? Interrogate su di ciò la vostra coscienza e domandate a voi medesimi: da poi che io sono sopra la terra, che cosa ho fatto per la mia salute? Molto ho lavorato per gli altri, e nulla ho fatto per me; forse che se io dovessi al presente comparire innanzi a Dio, presentargli non potrei una sola azione degna delle sue ricompense: all’opposto tutte le azioni di mia vita non meritano che i suoi castighi. Ah! ormai è tempo che io esca dal letargo in cui ho sin adesso vissuto, che incominci a vagliare per me, e che ripari il passato con un santo uso, del tempo. E qual deve essere quest’uso? Ecco il secondo punto.

  1. II. Punto. Per fare un sant’uso del tempo, dice s. Bernardo, convien considerarlo per riguardo al passato, al presente ed al futuro. Bisogna riparar il passato, regolar il presente, cautelarsi contro l’avvenire e non contarvi sopra. – Quantunque non sia in poter nostro far ritonare il tempo già passato, possiamo nulladimeno ripararlo, o, per servirmi delle parole di s. Paolo, riscattarlo: redimentes tempus etc. Ora che cosa è riscattare un podere nel commercio del mondo? É pagare, per ritirarlo, il prezzo che ne abbiamo ricevuto, è soddisfar un debito che abbiamo contratto, Voi avete venduto, prostituito il vostro tempo al mondo e alle vostre passioni, voi avete alienato questo fondo che Dio aveva confidato alla vostra economia; e per cattivo uso da voi fattone, avete contratto dei debiti verso la giustizia di Dio. Ora quali sono questi debiti? Sono i peccati che avete commessi. Questi peccati sono passati, è vero; i piaceri da voi gustati nel commetterli non sussistono più, ma il vostro delitto sussiste ancora nella macchia che ha impressa nella vostra anima, che la rende difforme agli occhi di Dio e ne fa 1’oggetto delle sue vendette: questa macchia rimarrà sempre, sin tanto che non sia cancellata con le lagrime della penitenza. Alla penitenza dunque convien ricorrere per purificarvi; e a questo fine entrate nei sentimenti di un re penitente, il quale riandava nell’amarezza del suo cuore gli anni della sua vita: Recogitabo Ubi omnes annos meos in amaritudine animæ meæ [Isai. XXXVIII). Oimè! dovete voi dire, sono tanti anni che io vivo alla terra, e nulla ho ancora fatto per la mia salute; a nient’altro ho pensato che a far fortuna in questo mondo, che a soddisfar le mie passioni. Di quei beni che ho ricercato, di quei piaceri che ho gustato,, che cosa mi resta? Una trista rimembranza, che mi trafigge l’anima, ma di pungenti rimorsi. Vane apparenze di dolcezze, che vi siete dileguate come un sogno, voi null’altro più siete che un’ombra che svanì. Ah! tempo infelice in cui vi ricercai! tempo infelice in cui tanto vi amai! O mio Dio, che siete una bellezza sempre antica e sempre nuova, ah quanto sono stato cieco ed insensato a cercare altra contentezza che quella che gustasi nell’amarvi e nel servirvi. Io ne ho il cuor penetrato dal più vivo dolore; e giacché voi mi date ancor tempo di riparare le mie disgrazie, io voglio profittarne per non attaccarmi che a Voi solo e risarcirvi col mio fervore l’ingiuria che vi ho fatta coll’abusarmi del tempo che Voi mi avete dato. – Se voi siete, fratelli miei, in questi sentimenti e li metterete in pratica, voi, meriterete che Dio vi tenga conto di quegli anni che prostituiste al mondo, al demonio e al peccato: Reddam vobis annos quos, comedit locusta, bruchus et rubigo (Joel. 2). Con questo riparerete le vostre perdite, riscatterete il tempo che avete perduto, ma si tratta di fare in primo luogo un santo uso di quello che presentemente si trova in vostra disposizione. Voi dispor più non potete del tempo passato, perché più non esiste; neppure dispor potete del tempo avvenire, perché non esiste ancora e forse voi non l’avrete: non evvi dunque che il tempo presente, che è in vostre mani ed ancora vi fugge nello stesso momento che ne parlate; profittate adunque con diligenza di quel che avete, perché è il solo su cui potete contare, è un talento che Dio vi dà, non lasciatene perdere la minima parte: Particula boni doni non defraudet te ( Ecli. XIV). Può essere che Dio abbia attaccato al momento che è adesso in vostra disposizione certe grazie speciali da cui dipende la vostra eterna salute. – Se voi sicuri foste di non aver più che quest’anno, questo giorno a vivere, come, io vi domando, come lo passereste voi? Non l’impieghereste tutto nella pratica delle buone opere?… Rimarreste voi un sol momento in peccato? Ebbene vivete in questa guisa, e voi farete un santo uso del tempo. Dite a voi medesimi: questo forse è l’ultimo anno di mia vita, convien dunque che lo passi come se lo fosse in realtà; e voi lo passerete santamente. Perciocché finalmente, fratelli miei, ne verrà uno che sarà l’ultimo, e qual è? Potete voi assicurarvi che non sia questo? Quanti ve ne sono stati che. cominciato avendo lo scorso anno in ottima sanità, non ne han veduto il fine! Quanti cominciano questo e non lo vedranno finire! Chi viver crede ancora molti anni forse è colui che morrà il primo e fra poco. Se alcuno avesse detto a quell’uomo, a quella donna, che sono stati sotto gli occhi vostri sepolti nei sepolcri dei loro padri: Voi non avete più che quest’anno a vivere come passato l’avrebbero? Si dice a voi la medesima cosa al principio di questo: egli sarà per qualcheduno l’ultimo, e non evvi alcuno che dir non possa: forse lo sarà per me, forse a me toccherà di andar in quest’anno alla sepoltura; perché posso io lusingarmi di andarvi più tardi che un’altro? Ah bisogna dunque, senza esitare, metter ordine alla mia coscienza, restituire quella roba mal acquistata, riconciliarmi con quel nemico, corregger quel cattivo abito, dire addio al peccato, allontanare quell’occasione pericolosa, quell’oggetto che mi seduce, bisogna finalmente che io faccia tutto il bene che da me dipende, che io fatichi alla mia salute, mentre ne ho il tempo: Dum tempus habemus, operemur bonum (Gal. 6). – Tali sono, fratelli miei, le salutevoli risoluzioni che suggerir vi debbono la brevità del tempo e l’importanza della buona riuscita nell’affare della vostra salute. Voi potete lasciar il restante a terminare ai vostri eredi, lasciar loro quella fabbrica a perfezionare, quella lite a finire, ma non già la vostra salute; se voi non vi ci siete adoperato nel tempo, non potrete più farlo dopo la morte, né altri vi faticherà per voi. Profittate dunque, torno a dirvi, del momento che se ne fugge per non ritornare giammai, ed occupatevi incessantemente nella pratica delle buone opere che vi seguiranno nell’eternità: Quodcumque potest manus tua, instanter operare (Eccl. 9). Distribuite il vostro tempo ad adempiere i doveri del vostro stato, regolate si bene i vostri esercizi di pietà che ciascheduna cosa abbia il suo tempo: che la preghiera, la messa, la lettura di pietà, l’adorazione del Santissimo Sacramento, la visita dei poveri trovino luogo nella distribuzione che voi ne farete. Date pure le vostre attenzioni ai vostri affari temporali, al governo della vostra famiglia: ma la vostra salute tenga sempre il primo posto, e tutti gli altri a lei rapportino. Cosi i vostri giorni si troveranno pieni, la vostra anima sarà carica di meriti pel cielo, e vi precauzionerete per l’avvenire, sul quale voi contar non dovete. E come, infatti, contar si può sopra un tempo che è così incerto? Iddio non ce l’ha promesso, né il vigore dell’età né la forza del temperamento possono assicurarcelo; poiché vediamo sovente persone giovani e robuste colpite dalla morte così presto, come le inferme e le vecchie. Tale che si promette di vivere ancora un gran numero d’anni morrà fra poco: ciò che è ben certo si è che si muore più presto di quel che si pensa. Bisogna dunque preveder l’avvenire ed operare come se non dovessimo averlo. È lo stesso che arrischiare la sua eterna salute, l’esporla all’incertezza di un tempo avvenire. Ah! non fate così, fratelli miei, quando si tratta di affari temporali! Quando trovate l’occasione di arricchirvi, voi la cogliete avidamente, niente vi distoglie dal profittarne; se si presenta un buon acquisto a fare, voi non aspettate all’indomani, per tema che un altro più pronto di voi non vi prevenga. Eh! Perché non fate lo stesso per la vostra salute? Potete voi in quest’oggi convertirvi, riconciliarvi con Dio. Non differite di più; forse non avvi domani per voi. La prudenza richiede che voi pensiate all’avvenire; e perciò voi fate provvisione di quanto vi sarà necessario per sussistere un numero di anni che credete ancora vivere sulla terra e per una stagione in cui non potete più lavorare. Ah! forse non sarete più in quest’anno, per cui fate tanti cumuli e non pensate a far provvisioni per l’eternità, ove sarete per sempre. Qual follìa! Qual accecamento! Al vedervi sembra che abbiate da star sempre sulla terra, e che convenuti vi siate, per così dire, con la morte, affinché ella non vi colpisca se non quando piacerà a voi. Ah! insensati! voi morrete forse prima di aver terminato un solo dei vostri affari, e la vostra gran disgrazia sarà di morire senza aver operato la vostra salute! Imitate un viaggiatore che trattenuto si è nel suo cammino in frivoli divertimenti, e, vedendo il fine del giorno, raddoppia i suoi passi per riparare il tempo perduto e giungere al termine del suo viaggio. Voi arrestati vi siete alle bagattelle del secolo; i beni, i piaceri hanno occupato tutte le vostre sollecitudini; e voi non avete ancora pensato alla soda felicità: nondimeno il sole s’abbassa. Inclinata est iam dies (Luc. XXIV). Eccovi al fine di vostra vita; forse voi toccate, il momento che deve farvi passare dal tempo all’eternità. Profittate dunque del tempo che vi resta, camminate sinché la luce vi rischiara, perché la notte s’avvicina, in cui nulla più potrete operare per la salute; precipitate il vostro corso, poiché vi resta ancora molta strada a fare.

Pratiche. Il più importante ed il più premuroso per voi è di uscire dallo stato del peccato per riconciliarvi con Dio con una buona confessione, che rinnoverà in voi la immagine dell’uomo nuovo: Renovamìni etc. Non potete voi meglio cominciar l’anno che con questa santa pratica. Correggete i vostri cattivi abiti e riformate tutto ciò che conoscete di difettoso nella vostra condotta. Tale è la circoncisione spirituale che Gesù Cristo domanda da voi in questo giorno, in cui ha Egli sofferto la circoncisione corporale per la vostra salute. Dopo aver Egli tanto sofferto per esser vostro Salvatore, non vorrete voi fare cosa alcuna per esser salvi? Giacché si è per voi sacrificato, non dovete voi altresì fargli un qualche sacrificio col troncare tutto ciò che in voi gli dispiace? – Ringraziate Iddio dei beni che vi ha fatti negli anni scorsi; fate a questo fine una visita a Gesù Cristo, offeritegli i pochi anni che vi restano per impiegarli nel suo servizio. Vivete questo anno, questo giorno stesso, come se non aveste più che quest’anno, che questo giorno a vivere; fate ogni mattina questa risoluzione. Ravvivate il vostro fervore nel servizio di Dio con quelle parole di s. Paolo: Dum tempus habemus, operemur bonum (Gal. VI); facciamo del bene mentre ne abbiamo il tempo, per raccoglierne il frutto nell’eternità. Così sia.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “Christianæ reipublicæ”

Il Santo Padre Clemente XIII prendeva atto, già ai suoi tempi, della diffusione di scritti, stampati e libri diretti a confondere la mente dei dotti e soprattutto dei semplici fedeli di Cristo, il gregge della Chiesa Cattolica, per deviarne il retto pensiero ed i princîpi della fede salvifica. La proliferazione di tali pestiferi libri era giustamente avvertita come minaccia all’integrità della fede, e quindi minaccia alla eterna salvezza dell’anima, per cui si stimolavano i Vescovi, in particolare, a vigilare onde arrestare la diffusione della mortale zizzania. Tale breve enciclica deve essere ricordata opportunamente nei nostri tempi, nei quali oramai i libri empi e malvagi vengono scritti e diffusi anche da chi si spaccia falsamente come difensore della Chiesa, in realtà sgretolandola e minandola ancor più profondamente. Bisogna rendersi conto che nei giorni attuali, nei quali non esiste alcuna garanzia su ciò che la stampa ed i mezzi di comunicazione diffondono a piene mani ed in modo virulento, gli unici scritti che possono dirigerci verso le eterne verità, sono quelli che ancora sono muniti di “imprimatur” e “nihil obstat” ecclesiastico, cioè i libri pubblicati fino alla metà del secolo scorso, antecedenti all’instaurarsi della falsa chiesa degli antipapi succedutesi dal 28 ottobre del 1958, con la soppressione del Santo Officio e dell’Index librorum annesso! Solo queste opere hanno garanzia di fede retta e salvifica da cui attingere a piene mani per l’edificazione del proprio spirito e per la crescita nelle virtù cristiane. Tutto quanto invece non ha garanzia ecclesiastica, anche nei mezzi di diffusione di massa e di comunicazione elettronica, è da evitare come la peste, anche da menti (oramai sempre di meno) educate cristianamente; infatti anche le persone che osservano norme igieniche corrette, al contatto con lebbrosi, appestati o con i loro umori, aliti ed escrementi, vengono colti dal morbo crudele dell’eresia e dell’incredulità, senza accorgersene se non quando è oramai tardi o quando poi occorre sottoporsi a dolorose e spesso inefficaci “terapie”. Da evitare, naturalmente tutti gli scritti di agnostici, atei, gnostici, massoni, acattolici, eretici e scismatici vari, soprattutto di coloro che si spacciano per cristiani, quest’ultimi ancor più insidiosi: ci riferiamo qui alla valanga di scritti di esponenti di ogni categoria del “novus ordo”, cioè della falsa chiesa dell’uomo della setta modernista-apostatica post-(s)concilio vaticana, ed agli esponenti dei falsi tradizionalisti gallicano-fallibilisti reduci da Ecône, nonché degli eretici sedevacantisti di sfumature varie, ma tutte spiritualmente tragiche. Attenzione, quindi, ascoltiamo il Santo Padre in questa enciclica e guardiamoci dal contaminarci lo spirito, perché da questo potrebbe dipendere la salvezza o la dannazione eterna dell’anima nostra.

Clemente XIII
Christianæ reipublicæ

La salvezza del popolo cristiano, della quale ricevemmo il mandato dal Principe dei Pastori e Vescovo della anime, Ci spinge a prestare attenzione perché la sfacciata e pessima licenziosità dei libri, emersa da segreti nascondigli e giunta a recare grave danno e di notevole ampiezza, non diventi tanto più dannosa quanto più si espande di giorno in giorno. L’esecrabile perversità dell’errore e l’audacia di uomini nemici, che in mezzo al frumento seminano zizzania in gran quantità con lo scritto e con la parola, soprattutto in questi giorni si sono estese a tal punto, che se non poniamo la falce alla radice e non stringiamo in fasci i cattivi germogli per gettarli nel fuoco, poco manca che le spine della malvagità, sviluppatesi, tentino di soffocare la piantagione del Signore degli eserciti celesti. Infatti, certi uomini scellerati convertitisi alle fandonie e non aderenti alla sana dottrina, da ogni parte invadono la rocca di Sion, e per mezzo del pestifero contagio dei libri, dai quali siamo quasi sommersi, vomitano dai loro petti veleno di aspidi a rovina del popolo cristiano; infangano le pure sorgenti della fede; sradicano le fondamenta della Religione. Resisi detestabili nei loro intenti, sedendo fra le insidie, di nascosto lanciano dalla faretra dardi con i quali dolosamente colpiscono i retti di cuore. Cosa vi è di talmente Divino, Santo e consacrato dall’antichissima pietà di tutti i tempi, da cui abbiano tenuto lontano le loro menti empie, e su cui non abbiano esercitato bellicosamente le loro lingue, taglienti come spade? Si lanciarono fin dall’inizio con alterigia contro Dio, e armati di doviziosa menzogna si sono irrobustiti contro l’Onnipotente. Suscitando dalle ceneri le follie degli empi tante volte demolite, non per ottusa incapacità d’ingegno, ma per sola decisione della loro volontà depravata, negano l’esistenza di Dio che parla di sé ovunque e appare ogni giorno davanti agli occhi; oppure descrivono Dio incapace ed ozioso, del quale non onorano la provvidenza e non temono la giustizia.

Con ripugnante licenza di pensiero, assolutamente pazza, sostengono mortale, o per lo meno minorata rispetto agli Angeli, l’origine e la natura dell’anima nostra, creata ad immagine del supremo Fondatore. Nell’universo delle cose create ritengono che non esista nessuna cosa all’infuori della materia, sia che la giudichino creata, sia eterna e non sottoposta a causa alcuna; oppure, costretti ad ammettere la coesistenza dello spirito con la materia, declassano tuttavia l’anima da questa celeste condizione, non volendo ammettere, in questa debolezza nella quale siamo immersi, alcunché di spirituale e d’incorrotto in forza del quale intendiamo, agiamo, vogliamo e con il quale prevediamo anche il futuro, contempliamo il presente e ricordiamo il passato.

Altri invece, benché capiscano molto bene che la debolezza dei ragionamenti umani deve essere ripudiata e che il fumo della sapienza umana deve essere respinto dall’occhio di una Fede illuminata, tuttavia osano giudicare con pesi umani i reconditi Misteri della Fede che superano ogni umana percezione: creatisi giudici della maestà, non temono di venire oppressi dalla gloria. Viene derisa la Fede dei semplici; sono sventrati gli arcani di Dio; le questioni sulle altissime verità sono discusse temerariamente; l’audace ingegno del ricercatore usurpa per sé ogni cosa; tutto indaga, nulla riservando alla fede, della quale nega il valore, mentre cerca la controprova nella ragione umana. Forse non ci si deve sdegnare anche con coloro che, con turpissima oscenità di fatti e di parole, con somma scelleratezza corrompono costumi severi e pudichi, suggeriscono detestabile leggerezza del vivere alle menti inesperte ed arrecano i massimi danni alla pietà? Che di più? Cospargono i loro scritti di una certa ricercata nitidezza e scorrevole fioritura di discorso e civetteria, in modo che quanto più facilmente saranno penetrati negli animi tanto più profondamente li potranno inquinare col veleno dell’errore. Così agli sprovveduti propinano il fiele del drago nel calice di Babilonia: questi, attratti ed accecati dalla soavità del discorso, non avvertono il veleno a causa del quale periscono. Chi infine non sarà colpito da acerbissima tristezza nel vedere che i terribili nemici, dopo aver superato qualsiasi limite di modestia e di rispettoso ossequio, stampando libri offensivi ora in modo aperto, ora in modo ambiguo, si lanciano contro la stessa Sede di Pietro, che il Redentore del forte Giacobbe pose come colonna ferrea e muraglia di bronzo contro i principi delle tenebre? I nemici forse sono spinti dal malvagio pensiero che, una volta stroncato il capo, più facilmente potranno far strage delle membra della Chiesa.

Pertanto, Venerabili Fratelli, che lo Spirito Santo pose quali Vescovi a reggere la Chiesa di Dio ed ammaestrò circa il singolare sacramento dell’umana salvezza, non possiamo, in così grande corruzione di libri, che eccitare, secondo quanto è il Nostro compito, lo zelo della vostra fedeltà, affinché – chiamati a partecipare della cura pastorale – applichiate in questa il vostro maggior sforzo possibile. Si deve lottare accanitamente, come richiede la circostanza stessa, con tutte le forze, al fine di estirpare la mortifera peste dei libri; non potrà infatti essere eliminata la materia dell’errore fino a quando gli elementi facinorosi di pravità non periscano bruciati. Fatti dispensatori dei Misteri di Dio ed armati della sua potenza per distruggere i luoghi fortificati, fate in modo che il gregge a voi affidato, redento dal sangue di Cristo, sia allontanato dai pascoli avvelenati. Se infatti è necessario tenersi lontano dalla compagnia degli uomini perversi, perché le loro parole spingono all’empietà ed il loro discorso si insinua come cancro, quale distruzione opererà la pestilenza di libri che, preparati in maniera acconcia e pieni di astuzia, durano perpetuamente, rimangono sempre con noi, con noi passeggiano, con noi restano in casa e penetrano nelle stanze, dove non è vietato l’ingresso ad alcun cattivo ed occulto autore?

Costituiti Ministri di Cristo fra le genti, per santificare il suo Vangelo, datevi da fare, lavorate e, per quanto è nelle vostre possibilità, con l’opera e con le parole tagliate le radici dell’inganno, ostruite le corrotte fonti dei vizi, suonate la tromba, perché le anime che passano non siano strappate dalla mano del custode. Lavorate in virtù del posto che avete, in virtù della dignità di cui siete insigniti, in forza della potestà che avete ricevuto dal Signore. Inoltre, poiché nessuno può e deve essere segregato dal partecipare a simile tristezza e, in così grande pericolo di fede e di religione, unica e comune è la motivazione di angustiarsi e di portare aiuto, dove sia il caso implorate l’avita pietà dei Principi cattolici; esponete la causa della Chiesa che geme, e spingete i suoi amorosi figli, per tanti motivi sempre egregiamente benemeriti verso di lei, a portare aiuto; e siccome non senza motivo portano la spada, dopo aver congiunte l’autorità del Sacerdozio e quella dell’Impero, frenino e distruggano energicamente gli uomini malvagi che combattono contro le falangi d’Israele. Conviene soprattutto, Venerabili Fratelli, che rimaniate fermi come muro, perché non sia posto fondamento diverso da quello costituito, e difendiate il santissimo deposito della Fede, a custodia della quale dedicaste con giuramento voi stessi durante la solenne iniziazione. Siano fatte conoscere al popolo fedele le volpi che demoliscono la vigna del Signore; si avvisi il popolo in modo che non si lasci trascinare dai nomi splendidi di certi autori, perché non sia abbindolato dalla cattiveria e dall’astuzia degli uomini verso l’inganno dell’errore; in una parola, detesti i libri nei quali si trovi qualcosa che offenda il lettore, o contrasti con la Fede, la Religione, i buoni costumi e non rispecchi l’onestà cristiana. In questo veramente ci congratuliamo gioiosamente con molti di voi che, aderendo alle istituzioni Apostoliche, quali valorosi vindici delle leggi ecclesiastiche, forti e vigilanti posero ogni zelo per allontanare tale peste, impedendo che gl’ingenui dormissero con i serpenti.

Certamente Noi, che abbiamo la cura di tutte le Chiese e della salvezza del popolo cristiano, non risparmiandoci fatica alcuna, Ci ripromettiamo in così grande pericolo di essere aiutati da voi. Frattanto, nell’umiltà del Nostro cuore non cesseremo d’invocare Dio perché aiuti voi dal suo santuario ad evitare l’astuzia degli uomini insidiosi, e perché possiate adempiere tutte le mansioni del vostro ministero.

In auspicio di tale desiderato evento, molto volentieri impartiamo a voi ed al vostro gregge l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 25 novembre 1766, nell’anno nono del Nostro Pontificato.

DOMENICA INFRA OTTAVA DI NATALE

DOMENICA INFRA OTTAVA di NATALE

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 
Sap XVIII:14-15.
Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit [Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale.]

Ps XCII:1
Dóminus regnávit, decórem indútus est: indútus est Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se.
[Il Signore regna, rivestito di maestà: Egli si ammanta e si cinge di potenza.]
Dum médium siléntium tenérent ómnia, et nox in suo cursu médium iter háberet, omnípotens Sermo tuus, Dómine, de coelis a regálibus sédibus venit [Mentre tutto era immerso in profondo silenzio, e la notte era a metà del suo corso, l’onnipotente tuo Verbo, o Signore, discese dal celeste trono regale.]

Oratio 
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, dírige actus nostros in beneplácito tuo: ut in nómine dilécti Fílii tui mereámur bonis opéribus abundáre.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, indirizza i nostri atti secondo il tuo beneplacito, affinché possiamo abbondare in opere buone, in nome del tuo diletto Figlio]

Lectio 
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Gálatas.
Gal IV:1-7
Patres: Quanto témpore heres párvulus est, nihil differt a servo, cum sit dóminus ómnium: sed sub tutóribus et actóribus est usque ad præfinítum tempus a patre: ita et nos, cum essémus párvuli, sub eleméntis mundi erámus serviéntes. At ubi venit plenitúdo témporis, misit Deus Fílium suum, factum ex mulíere, factum sub lege, ut eos, qui sub lege erant, redímeret, ut adoptiónem filiórum reciperémus. Quóniam autem estis fílii, misit Deus Spíritum Fílii sui in corda vestra, clamántem: Abba, Pater.
Itaque jam non est servus, sed fílius: quod si fílius, et heres per Deum.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, Torino 1899, vol. I, Omelia IX]

“Fratelli, fintantoché l’erede è fanciullo, non differisce punto dal servo, benché sia padrone di tutto: ma sta sotto, tutori ed amministratori fino al tempo stabilito prima dal padre. Così noi pure: mentre eravamo fanciulli, eravamo tenuti in servitù sotto gli elementi del mondo. Ma quando venne il compimento dei tempi, Iddio mandò il Figliuol suo, fatto di Donna, soggetto alla legge, affine di riscattare quelli che erano sotto la legge, sicché fossimo adottati in figliuoli. E poiché siete figliuoli, Iddio ha mandato lo Spirito del Figliuol suo nei vostri cuori, che grida: Abba, Padre „ (Ai Galati, IV, 1-6).

Queste poche sentenze, che avete udite e che l’apostolo Paolo scriveva ai fedeli di Galazia, rispondono a meraviglia al mistero sì sublime e sì dolce, che abbiamo celebrato in questi giorni. Il Figlio di Dio fatto uomo! ecco il mistero del S. Natale, di cui festeggiamo l’ottava. Ora qual è il fine, il frutto principalissimo di questo mistero? Perché il Figlio di Dio si è fatto uomo? Affinché gli uomini diventassero Dei, vi risponde S. Agostino e con lui ad una voce tutti i Padri: affinché gli uomini diventassero figli di Dio, risponde S. Paolo nel testo sopra riportato. Bene a ragione pertanto la Chiesa in questa Domenica ci invita a meditare le parole dell’Apostolo, che vi ho recitate: in esse si chiude il frutto pratico della Incarnazione e del santo Natale; a me lo spiegarvele, a voi l’udirle. – Scopo di tutta la lettera di S. Paolo ai Galati è quello di mostrare che la legge mosaica con tutte le sue cerimonie e tutti i suoi sacrifici doveva cessare per dar luogo alla legge di Gesù Cristo; la legge di Mosè, dice S. Paolo, era il pedagogo, che doveva condurre a Gesù; venuto questo, l’ufficio del pedagogo non aveva più ragione di essere e naturalmente cessava. Per illustrar meglio questa idea fondamentale, Paolo ricorre ad una idea affine e tolta dalla legge stessa civile, evoluzione della legge naturale. Udite l’Apostolo. “Fintantoché l’erede è fanciullo, non differisce punto dal servo, benché sia padrone di tutto; ma sta sotto tutori ed amministratori fino al tempo stabilito prima dal padre. „ Vedete un fanciullo: egli è l’erede del padre suo e perciò veramente padrone di tutta la sua sostanza; ma finché è fanciullo, finché è nella minorità, non differisce dal servo: deve ubbidire all’aio: deve lasciar amministrare la sua sostanza al tutore, ai procuratori e restare in questo stato di dipendenza, lui padrone, finché sia spirato il tempo fissato dalla legge e dal padre ed egli acquisti il pieno e libero esercizio dei suoi diritti di figlio. Fino a quel tempo non vi è differenza tra il servo ed il figlio; tutta la differenza è questa: la condizione del servo è stabile, quella del figlio è temporaria. Noi, così ragiona S. Paolo, noi Ebrei, sotto la legge mosaica, noi Gentili, prima del Vangelo, eravamo come fanciulli, impotenti ad ogni cosa; eravamo tenuti in servitù, sotto gli elementi del mondo; eravamo cioè legati alle prescrizioni sì gravi e sì minute della legge di Mose; eravamo schiavi delle superstizioni gentilesche; eravamo come quei fanciulli, che prima di studiare ed apprendere le scienze, devono imparare le lettere dell’alfabeto. Insomma tutto il tempo, che corse da Adamo a Cristo, è un tempo di preparazione: l’umanità tutta è come un pupillo, un minore, che aspetta il tempo, in cui sarà emancipata: acquisterà la piena libertà di se stessa per opera di Gesù Cristo, sciogliendosi dalle fascio della sinagoga e dalle superstizioni e dagli errori del paganesimo. – E questa emancipazione dell’umanità quando avvenne? “Quando venne il compimento dei tempi, Iddio mandò il Figliuol suo, fatto di Donna, soggetto alla legge. „ Che cosa è questo compimento o pienezza del tempo, come dice il testo latino? Una cosa è piena quand’è compita e perfetta, e allora viene la pienezza dei tempi, quando i tempi sono maturi e compiute le cose: quando son giunti i tempi e i fatti annunziati dai profeti, quando tutto è disposto, Dio manda il Figliuol suo, cioè il Figliuol di Dio si fa uomo. Si dice che Dio, cioè Dio-Padre, che di sé, ab eterno, genera il Figliuol suo, lo manda sulla terra. Non dovete immaginare che il Padre mandi il Figlio, come un padre terreno manda i suoi figli, no; Dio-Padre non si può mai separare dal Figlio, con cui ha comune la natura, come non possiamo separare il pensiero dalla nostra mente; non lo manda con movimento materiale, che in Dio è impossibile: non lo manda a guisa di chi fa un comando: Dio-Padre manda il Figliuol suo, cioè fa sì che il Figliuolo, che ha una sola volontà con Lui, assuma la natura umana, ed essendo Dio eterno ed immutabile, cominci ad essere anche uomo. Il Figliuolo del Padre eterno si fa uomo, pigliando dalla donna la natura umana. E qui badate che S. Paolo dice che Gesù Cristo prese dalla Donna la natura umana per indicare, che non vi ebbe parte l’opera dell’uomo e che perciò Gesù Cristo nacque da una Vergine. — Il Figlio di Dio nacque da una Vergine e fu posto sotto la legge, s’intende, la mosaica. Certamente Gesù Cristo, anche in quanto uomo non era obbligato alla legge mosaica, essendo Egli sopra ogni legge; ma, benché non tenuto alla legge mosaica, volontariamente ad essa si sottopose e ne osservò scrupolosamente tutte le prescrizioni, dalla circoncisione alla celebrazione della pasqua. E per qual motivo Gesù Cristo volle sottoporsi alla legge mosaica, Egli che non ne aveva obbligo alcuno? Risponde S. Paolo: “Affine di riscattare quelli che erano sotto la legge, sicché fossimo adottati in figliuoli. „ Gesù Cristo pigliò sopra di sé tutto il peso della legge mosaica per due motivi secondo san Paolo: perché fossimo liberati noi da quella legge di servi ed acquistassimo tutti i diritti di figliuoli adottivi. — La legge mosaica era una legge di timore; a moltissime delle sue trasgressioni era inflitta la pena di morte: essa riguardava più il corpo che lo spirito, aveva ricompense terrene; era tal giogo che, diceva S. Pietro, non abbiam potuto portare noi, né i padri nostri (Atti, xv, 10). Ebbene Gesù Cristo la tolse sopra di sé, come tolse sopra di sé il peccato, e la chiuse per sempre, a quella sostituendo la sua legge. Quale? “La legge di figliuoli di adozione, „ che è il Vangelo. – Noi per natura siamo creature di Dio e perciò suoi servi, e come servi erano trattati i figli d’Israele, percossi terribilmente ogni qualvolta traviavano. Nella nuova legge, portata da Gesù Cristo, noi siamo elevati alla dignità di figli di Dio, e perciò da noi si esige più l’amore che il timore. – Siamo figli di Dio per adozione! Voi sapete che cosa sia l’adozione e i diritti ch’essa porta seco. Un uomo sceglie un giovane qualunque, lo dichiara suo figlio, lo tiene presso di sé, lo tratta, lo ama come se fosse suo figlio naturale e morendo gli lascia in eredità la sua sostanza e porta il nome del padre, che lo ha adottato. Ecco il figliuolo adottivo ed ecco la nostra dignità, di cui siamo debitori a Gesù Cristo. Egli senza merito nostro di sorta ci scelse di mezzo agli uomini, col santo Battesimo ci fece suoi figliuoli, ci accolse nella Chiesa, che è la sua famiglia ed il suo regno: ci ama come figli, ci fa partecipi di tutti i beni spirituali della sua Chiesa e ci darà l’eredità eterna del cielo. Ecco che cosa vuol dire essere figli adottivi di Dio! Ma non ho detto tutto, o cari. La nostra dignità di figli di Dio per adozione importa tra noi e Dio rapporti senza confronto maggiori di quelli che corrono tra il padre che adotta, ed il figlio che è adottato, e qui vi prego di porre ben mente alla cosa. Un uomo adotta un figlio, e questo si considera come se fosse veramente figlio dell’adottante e ne ha tutti i diritti. Ma ditemi: il padre adottante che cosa mette di proprio nella persona del figlio adottato? Perfettamente nulla. Il padre adottante ami pure il figlio adottato coll’amore più intenso; lo dica pure suo figlio, lo colmi di favori, di ricchezze finché vuole: quel figlio non sarà mai veramente figlio dell’adottante se non per virtù della legge e nell’apprezzamento comune; nelle vene di quel giovane adottato non scorrerà mai una stilla sola di sangue del padre adottante; sarà sempre vero che quel giovane ha avuto la vita da un altro uomo e che il vero padre dell’adottato non è, ne sarà mai colui che l’ha adottato, e forse la fisionomia, l’indole morale, le tendenze, il carattere e le abitudini lo mostreranno a chiare note. – Ben altra è l’adozione che noi abbiamo ricevuto da Dio. Egli nell’adottarci ha posto in noi ciò che ha di più intimo, la partecipazione del suo spirito, della sua vita stessa. Ce lo dice in termini S. Paolo: “E poiché siete figliuoli, Iddio ha mandato lo Spirito del Figliuol suo nei nostri cuori. „ Lo spirito di Gesù Cristo è lo stesso Spirito Santo, l’amore sostanziale del Padre e del Figlio, e Gesù Cristo lo spande nelle nostre anime con la grazia che ci santifica nel Battesimo, che si accresce nella Confermazione e particolarmente nella santa Eucaristia e in tutti i Sacramenti. E che è questa grazia, questo dono dello Spirito Santo? È una forza che emana da Dio stesso, che investe e penetra tutta l’anima, l’abbellisce, la trasforma e la rende simile a Dio. Vedete il ferro messo nel fuoco: esso è tutto penetrato dal fuoco, quasi trasformato nel fuoco, rimanendo pur sempre ferro. È una immagine dell’anima adorna della grazia di Dio. Essa è unita intimamente a Dio; è fatta bella della bellezza di Dio, come il fiore è bello della luce del sole; essa riceve in sé l’influsso della vita stessa di Dio, come il tralcio riceve la sua vita dalla radice e dal tronco della vite; per la grazia l’anima, restando pur sempre anima creata, partecipe della divina natura e porta in se stessa i lineamenti, la somiglianza di Dio e sente di avere tutto il diritto di dire a Dio: Padre nostro! Oh! sì: grida S. Giovanni, non solo possiamo dirci figliuoli di Dio, ma lo siamo realmente: “Ut filii Dei nominemur et simus.,, Quale dignità! quale grandezza, o carissimi! Figli di Dio! Dunque, come figli, dobbiamo rispettarlo, ubbidirlo, onorarlo con la nostra condotta, porre in Lui ogni fiducia, amarlo teneramente e sopra ogni cosa.

 Graduale Ps XLIV:3; 44:2
Speciósus forma præ filiis hóminum: diffúsa est gratia in lábiis tuis.
[Tu sei bello fra i figli degli uomini: la grazia è diffusa sulle tue labbra.]
V. Eructávit cor meum verbum bonum, dico ego ópera mea Regi: lingua mea cálamus scribæ, velóciter scribéntis. [V. Mi erompe dal cuore una buona parola, al re canto i miei versi: la mia lingua è come la penna di un veloce scrivano.]

Alleluja Allelúja, allelúja
Ps 92:1.
Dóminus regnávit, decórem índuit: índuit Dóminus fortitúdinem, et præcínxit se virtúte. Allelúja.
[Il Signore regna, si ammanta di maestà: il Signore si ammanta di fortezza e di potenza. Allelúja]

Evangelium 
Sequéntia  sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc II:33-40
In illo témpore: Erat Joseph et Maria Mater Jesu, mirántes super his quæ dicebántur de illo. Et benedíxit illis Símeon, et dixit ad Maríam Matrem ejus: Ecce, pósitus est hic in ruínam et in resurrectiónem multórum in Israël: et in signum, cui contradicétur: et tuam ipsíus ánimam pertransíbit gládius, ut reveléntur ex multis córdibus cogitatiónes. Et erat Anna prophetíssa, fília Phánuel, de tribu Aser: hæc procésserat in diébus multis, et víxerat cum viro suo annis septem a virginitáte sua. Et hæc vídua usque ad annos octogínta quátuor: quæ non discedébat de templo, jejúniis et obsecratiónibus sérviens nocte ac die. Et hæc, ipsa hora supervéniens, confitebátur Dómino, et loquebátur de illo ómnibus, qui exspectábant redemptiónem Israël. Et ut perfecérunt ómnia secúndum legem Dómini, revérsi sunt in Galilaeam in civitátem suam Názareth. Puer autem crescébat, et confortabátur, plenus sapiéntia: et grátia Dei erat in illo. [In quel tempo: Giuseppe e Maria, madre di Gesù, restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, sua madre: Ecco egli è posto per la rovina e per la resurrezione di molti in Israele, e sarà bersaglio di contraddizioni, e una spada trapasserà la tua stessa anima, affinché restino svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, molto avanti negli anni, vissuta per sette anni con suo marito. Rimasta vedova fino a ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. E nello stesso tempo ella sopraggiunse, e dava gloria al Signore, parlando di lui a quanti aspettavano la redenzione di Israele. E quando ebbero compiuto tutto secondo la legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret. E il fanciullo cresceva e si irrobustiva, pieno di sapienza: e la grazia di Dio era con lui.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Gesù posto in rovina e risurrezione di molti.

Ecce positus est hic in ruinam, et resurrectionem Multorum”. Ella è questa una parte della celebre profezia che fece il santo vecchio Simeone alla Vergine Madre allorché, in adempimento della legge di Mose, presentò il suo divin Figliuolo al Tempio, come ci narra San Luca dell’odierno sacrosanto Vangelo. “Questo pargoletto tuo figlio, le disse, sarà per molti causa di risurrezione e di salute, e per altri molti occasione di rovina e di morte” – “positus est hic in ruinam, et resurrectionem multorum”. Ma come, dirà forse alcun di voi, non è Egli Gesù, il nostro Salvatore, la nostra luce, la nostra vita? Come dunque può essere insieme cagion di nostra perdita, e di nostra rovina? A questa interrogazione, a questa difficoltà darò risposta e scioglimento del corso della presente spiegazione, se per poco d’ora mi favorite della gentile vostra attenzione. Gesù adunque è per molti causa di salute, e per molti altri occasione di rovina? Così è! Non sorprenda, uditori miei, che una stessa causa produca effetti diversi. La luce si fa candida nel giglio, pallida nella viola e nella rosa vermiglia, e pur è sempre la stessa luce. L’ape e la serpe da un medesimo fiore suggono l’umore stesso, e pur nel seno dell’ape quel sugo si cambia in miele, nel sen della serpe si cangia in veleno. La manna nel deserto per molti era cibo leggero e nauseante, e per altri era cibo avente in sé ogni squisito sapore. Così Gesù luce del mondo, fior nazzareno, manna dal ciel disceso, sempre buono, sempre uguale in se stesso, per la malizia degli uomini riesce diverso nei suoi effetti, e ciò in speciale maniera, o si riguardi la sua fede, o la sua legge, o i suoi sacramenti. Vediamolo a parte a parte. – La fede in Gesù Cristo è la sola che salva. Questa fede, che ha origine dal principio del mondo, allor che dopo la caduta dei nostri progenitori venne loro promesso un liberatore, fu quella che li salvò con la penitenza di tutta lor vita. Abele innocente, Seth temente Iddio, il giusto Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giobbe, Tobia, Davide, in una parola tutti i patriarchi e profeti e tutti quei personaggi santissimi, i nomi dei quali stanno nel libro della vita, e nell’antico Testamento, si sono salvati per la fede in Gesù Cristo, poiché non vi è altro Nome in cui si possa essere salvezza, e siccome noi ci salviamo per la fede in Cristo già venuto, così si salvarono essi per la fede in Cristo venturo, unendo alla loro fede le più eccellenti virtù. Tale essere deve la nostra fede, fede viva, operante, fede osservatrice della divina legge, seguace degli esempi del Redentore, ed Egli allora si potrà e si dovrà dire esser causa benefica di nostra resurrezione e salvezza, “positus est hic in resurrectionem multorum”. Udite com’Egli medesimo si esprime nel suo santo Vangelo. Io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me (e in Cristo non può dirsi che veramente creda chi con la fede non unisce l’opere buone da Lui prescritte) ancorché fosse morto per il peccato, risorga a nuova vita di grazia, e vivrà in eterno. Ego sum resurrectio et vita; “qui credit in me, etiamsi mortuus fuerit, vivet, et omnis qui credit et credit in me, non morietur in æternum” (Io. XI, 25, 26). – Che diremo ora di quelli sconsigliati, che spargono dubbi circa la cristiana credenza, bestemmiano quel che ignorano, e col carattere della fede in Gesù Cristo impresso nell’anime loro nel santo Battesimo, accoppiano vita e costumi da epicurei e da maomettani? Diremo non per insultarli, quel che di ciascun d’essi pronunzia l’Evangelista Giovanni: è già giudicato chiunque non crede, “qui non credit, iam judicatus est” (Io. III, 17): diremo che convien pregare il Padre dei lumi acciò rischiari la mente di quei che giacciono nelle tenebre e nelle ombre di morte. Diremo che un cuor retto, un animo non vizioso, un costumato cattolico, mai si rivolta contro la fede. Solo della fede è nemico un cuor guasto, uno spirito corrotto da ree passioni. E perché? Perché fede e peccato, fede e viziose abitudini, fede e sregolate passioni, sono tra loro in necessaria guerra; onde ne segue che chi non vuol abbandonare il peccato, e del peccato non vuol soffrire i rimorsi, si arma, si scaglia contro la fede, come sua nemica, per tentare se per questa via gli riesca di far tacere i latrati, e mitigare i rimorsi della rea coscienza. Ed ecco in ciò come Gesù Cristo, che per costoro esser doveva, per mezzo della sua fede, pietra fondamentale e causa di salute vien dalla loro incredulità trasformato in pietra d’inciampo ed occasione di rovina: “positus est hic in ruinam”, – va del pari con la fede di Gesù Cristo la santa sua legge. Anch’essa ha il suo principio dall’origine del mondo, anzi da Dio medesimo, che è la legge eterna. Tre leggi, direte voi, son note a tutti, una che chiamasi di natura, l’altra scritta, la terza Evangelica. No, miei carissimi, sono tre nomi diversi, ma una sola è la legge. In quella guisa ch’è sempre lo stesso uomo quel che bambino vagisce in cuna, quel che cresce in giovane adulto, quel che poi nella virilità arriva ad essere uomo perfetto; così la legge di natura scritta da Dio nel nostro cuore fu una legge bambina; passò ad essere una legge adulta quando dal dito di Dio fu scritta sulle tavole a Mosè; e finalmente fu legge perfetta, quando uscì dalla bocca dell’incarnata Sapienza Cristo Gesù, e si promulgò col suo santo Vangelo; ma è sempre una stessa legge nel suo principio, nel suo progresso e nella sua perfezione; ond’è che Gesù Cristo si protestò altamente che non era venuto al mondo per togliere la legge, ma per adempirla e perfezionarla “Non veni volvere legem, sed adimplere” (Io. V, 17). – In questa legge divina, e nell’osservanza della medesima sta la salute e la vita, e perciò a quel giovane, che domandò al redentore per qual mezzo poteva conseguire la vita eterna, rispose: “serva mandata” [osserva i comandamenti] (Matth. XIX, 17). Questi comandamenti li sapete dalla vostra infanzia. Adora ed ama il tuo Dio, non profanare il suo santo Nome, santifica le feste a Lui consacrate, rispetta, ubbidisci, soccorri i tuoi genitori, non togliere ai tuoi simili né roba, né vita, né arma, astieniti dal vizio impuro, dallo spergiuro, e dal desiderio perfino di tutto ciò che non è tuo, ma del tuo prossimo. Ecco la legge, ecco la via per andar salvi. Nella fedele osservanza di questa lege è riposta la nostra giustificazione e salute. “Factores legis iustificabuntur” (Ad Rom. II, 13). Sarà Gesù allora causa propizia del nostro risorgimento e della nostra salvezza, “positus est hic in resurrectionem”. – Or questa legge così cauta e salutare come da noi viene adempiuta? Ohimè un’altra legge regna nel cuore dell’uomo: le legge del peccato e della carnale concupiscenza, … oh quanti conta osservatori questa legge tiranna! Un’altra legge si fa ubbidire con minore efficacia: la legge del mondo perverso e perversore, che consiglia, che comanda odio ai nemici, vendetta degli affronti, oppressione degli umili, disprezzo dei maggiori. Legge del mondo che approva le usure e i monopoli, che autorizza la frode e la bugia nei contratti, che fa prevalere l’impegno alla giustizia, il danaro all’onestà, l’interesse all’anima e a Dio. E non è questo il secolo della pressoché universale depravazione della legge dell’Altissimo? Non sarà iperbole , se noi ripeteremo nell’amarezza dell’animo ciò a Dio rivolto diceva piangendo il Re Profeta: “Tempus faciendi, Domine”. Questo è il tempo, o Signore, in cui per le umane azioni non vi è più né regola né freno, e la vostra legge francamente si disprezza e si calpesta … “tempu faciendi, Domine, dissipaverunt legem tuam” (Ps. CXVIII). Qual meraviglia poi, se per questi prevaricatori della divina legge sia posto Gesù in loro spirituale ed eterna rovina? “Positus est hic in ruinam multorum”. – Finalmente Gesù nei suoi Sacramenti è causa di vita, e occasione di morte. Tra questi per esser breve, mi restringo ai due più frequentati, la Penitenza cioè, e l’Eucaristia. Rapporto al primo vi accostate al tribunale di penitenza in spirito di umiltà, e col cuore contrito (appressatevi pure con fiducia a questa salubre Probatica, e ne uscirete risanati. Sarà Cristo, per mezzo del suo ministro, il pietoso Samaritano, che col vino della sapienza e con l’olio della misericordia medicherà le vostre ferite, se foste morti alla grazia, Egli sarà il vostro risorgimento, “positus est in resurrectionem”. – Ma se invece senza esame, senza dolore, senza sincerità nelle accuse, senza proposito e volontà di lasciare il peccato e l’occasione dello stesso, vi presentaste ai piedi del Sacerdote, voi avrete il mal incontro. Il sangue adorabile di Gesù-Cristo, che con la sacramentale assoluzione s’applica all’anima vostra, si cangerà in materia di dannazione; discenderà sopra di voi questo sangue tremendo come disceso su gl’imperversati Giudei di rovina e di sterminio. – carissimi miei, tenetevi a mente questa figura, che parmi assai spiegante ed istruttiva. Ecco là nella prigione Giuseppe in mezzo a due carcerati: uno è il coppiere, l’altro il panettiere del faraone. Tutti e due han fatto un sogno, e ne domandano a Giuseppe l’interpretazione. Io, dice il primo, sognando premeva a mano un grappolo d’uva nella coppa del mio sovrano. Buon presagio, rispose il divino interprete, tu sarai rimesso in grazia del tuo signore, e ristabilito nel tuo impiego. E a me, soggiunge l’altro, pareva di portare un canestro pieno di pani e di ciambelle per la regia mensa, e mentre mi stava sul capo, una torva di corvi e di altri uccelli rapaci nol lasciarono vuota la cesta. Cattivo pronostico, rispose Giuseppe: tu sarai sospeso ad un legno, ed i corvi e gli avvoltoi si divoreranno le tue carni. Tanto disse e tanto avvenne! Applicate la figura, uditori miei. Siede sul sacro tribunale il sacerdote, interprete della divina volontà, e giudice da Dio costituito, portate ai piedi suoi un cuore come un grappolo del coppiere, premuto dal dolore e mutato in un altro cuore, cioè da cuor peccatore in cuore penitente, come l’uva di grappolo cangiata in vino. Consolatevi, voi avrete buone risposte, sarete ammessi al perdono, ritornerete in grazia del vostro Dio, risorti a nuova vita. – Se per l’opposto accostandovi al sacro ministro porterete solo in mente e nella memoria le vostre colpe, come il canestro sul capo del panettiere tanto da farne al confessore una fredda narrazione, ma senza dolore d’averle commesse, senza proposito di emendarvi, senza volontà di restituire la roba altrui, di abbandonare le occasioni pericolose, di adempiere le obbligazioni del proprio stato, guai per voi! O vi saran date giuste come da giuste ma funeste risposte, o se riceverete la sacramentale assoluzione, vi aggraverete di un nuovo e maggiore peccato e morendo in questo misero stato, i demoni faranno di voi orrido strazio; perché la sacramentale confessione, da Gesù Cristo istituita per salvarvi, l’avete praticata per perdervi, e l’abuso sacrilego che fatto ne avete, ha trasformato Gesù Salvatore in vostro nemico e in vostra rovina. Positus est in ruinam. – Lo stesso avviene nel Sacramento della santissima Eucaristia. Ogni fedele che con cuore e con l’anima monda, almeno da grave peccato, si pasce delle carni dell’Immacolato Agnello di Dio, riceve conforto, ristoro ed aumento di grazia santificante, e Gesù, che è pane di vita, vita gli dà spirituale ed eterna. – Se poi taluno ardisse mangiar questo divin pane con la coscienza rea di colpa mortale, si mangerebbe quest’indegno, dice l’Apostolo, il suo giudizio e la sua condanna. Osservate soggiunge l’Angelico, come lo stesso pane celeste per l’anime buone è cibo di vita, per le malvagie è cibo di morte. “Mors est malis, vita bonis: vide par is sumptionis quam sit dispar exitus”. – Si legge nel libro quinto dei Numeri, che se un marito per ragionevole sospetto temuto avesse della fedeltà della proprii consorte, era autorizzato dalla legge di Mosè a condurla innanzi al sacerdote. Questi, a depurare il dubbio, raccolta dal pavimento del Tabernacolo poca polvere e mescolatala con acqua, la dava a bere alla donna sospetta. Se questa era rea, quella bevanda, come fosse potentissimo veleno, la faceva sull’istante cadere morta ai piedi dei circostanti, se innocente, senza soffrire alcun nocumento ritornava a casa sua fra gli applausi dei congiunti e dei cittadini. Lo stesso, vedete, miei cari, lo stesso avviene, sebbene in modo invisibile, nella santa Eucaristica Comunione. Guai a quell’anima che conscia di peccato mortale dalla man del sacerdote riceve la sacra particola! Sarà questa per lei micidiale veleno. Buon per quell’altra che se ne pasce con cuore innocente e con un cuor purgato da vera penitenza; fra gli applausi degli Angeli avrà vita e salute e pegno di vita eterna: ed ecco come Gesù Cristo positus est in ruinam et resurrectionem multorum”. Ah dunque, miei cari, teniamoci ben stretti alla fede di Gesù Cristo, ch’è la sola che salva: osserviamo la sua legge, che è la necessaria condizione per salvarci: siam peccatori? Andiamo ai suoi piedi al tribunale di penitenza col cuore umiliato e contrito, e saremo giustificati: accostiamoci alla sacra mensa con le debite disposizioni, e Gesù sarà per noi cibo, vita, salute, seme d’immortalità, pegno della futura gloria, che per sua grazia ci conceda.

  Credo …

 Offertorium 
Orémus
Ps XCII:1-2
Deus firmávit orbem terræ, qui non commovébitur: paráta sedes tua, Deus, ex tunc, a sæculo tu es.
[Iddio ha consolidato la terra, che non vacillerà: il tuo trono, o Dio, è stabile fin da principio, tu sei da tutta l’eternità.]

Secreta 
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut óculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis piæ devotiónis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che questa offerta, presentata alla tua maestà, ci ottenga la grazia di una fervida pietà e ci assicuri il possesso della eternità beata.]

Communio 
Matt II:20
Tolle Púerum et Matrem ejus, et vade in terram Israël: defúncti sunt enim, qui quærébant ánimam Púeri. [Prendi il bambino e sua madre, e va nella terra di Israele: quelli che volevano farlo morire sono morti.]

Postcommunio 
Orémus.
Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii, et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [Per l’efficacia di questo mistero, o Signore, siano distrutti i nostri vizii e compiuti i nostri giusti desiderii.]

CALENDARIO LITURGICO della CHIESA CATTOLICA: GENNAIO

GENNAIO è il mese che la CHIESA dedica al Nome di Gesù, all’Epifania e al Battesimo di GESU’

… Balaam andò, e, il giorno dopo il suo arrivo, Balac lo condusse sopra un’alta montagna, d’ove si scuopriva l’armata di Israello. A quella vista Balaam, preso dallo spirito del Signore, si fa a benedire quel popolo che era venuto a maledire, e in cominciando a profetare esclama:

« Parola di Balaam figliuolo di Beor, parola di quell’uomo che ha chiuso l’occhio; parola di lui, che ha udito i parlari di Dio, che fa la dottrina dell’Altissimo, e vede le visioni dell’Onnipotente…. Io lo vedrò ma non ora: fisserò in lui lo sguardo ma non da vicino. Di Giacobbe nascerà una stella, e spunterà da Israele una verga e percuoterà i capi di Moab… da Giacobbe verrà il dominatore e sterminerà gli avanzi della città».

Una tradizione inalterabile comune ai Giudei e ai Cristiani, mantenutasi più di 3500 anni, ha sempre attestato che Balaam designava il Messia con quelle parole: Una stella nascerà da Giacobbe, una verga sorgerà da Israello. Le parole del profeta avevano risuonato per tutto l’Oriente; la memoria se n’era perpetuata d’età in età; e quando la stella apparve, i Magi, istruiti e dalla tradizione e dalla grazia, si misero in cammino per andare ad adorare Il glorioso germe d’Israello, che trovarono in Betlemme con la sua Madre divina, ed al quale offersero in dono oro, incenso e mirra. Seguendo l’orientale costume, tutt’oggi in vigore, di non psentarsi ai Re senza qualche tributo, i Magi deposero ai piedi del bambino Gesù misteriosi donativi. Coll’oro, confessarono la sua origine regale, il suo dominio sull’universo, il suo diritto alla sudditanza delle nazioni tutte: coll’incenso, emblemi dell’adorazione, del sacrificio, dell’annientamento della creatura innanzi a Dio venerarono la sua divinità: colla mirra, adoperata nelle imbalsamazioni, riconobbero la sua santa umanità. Ed ecco in questi regali un ammaestramento per noi pure giacché al Bambino di Betlemme noi tutti dobbiamo offrire l’oro della carità e dell’obbedienza assoluta, l’incenso delle nostre orazioni e della nostra fede, la mirra della mortificazione e dell’estinzione dei nocevoli appetiti. Ecco quali sono i tributi ch’Egli da noi richiede. – Furono i Magi le primizie del Gentilesimo, sicché fin dal loro arrivo a Betlemme comincia quell’epoca nuova di grazie e di benedizioni, in cui il Sole di verità e di giustizia illumina l’intero universo: epoca per sempre memorabile, di cui la Chiesa ha consacrata la ricordanza per mezzo della solennità dell’Epifania.

Le feste del mese di Gennaio 2018

1 Gennaio Die Octavæ Nativitatis Domini  Feria privilegiata *L1*

2 Gennaio Sanctissimi Nominis Jesu   Duplex II. classis *L1*

5 Gennaio 1° Venerdì

6 Gennaio In Epiphania Domini  Duplex I. clasis *L1* – 1° Sabato

7 Gennaio Dom. I post Epiphaniam Sanctæ Familiæ Jesu Mariæ Joseph    Duplex

13 Gennaio Commemoratio Baptismatis D. N. Jesu Christi    Duplex II. classis

14 Gennaio Dominica II post Epiphaniam  Semiduplex Dominica minor *I*

                        S. Hilarii Epíscopi Confessoris Ecclesiæ Doctoris

15 Gennaio S. Pauli Primi Eremitæ et Confessoris – Duplex

16 Gennaio S. Marcelli Papæ et Martyris – Semiduplex

17 Gennaio S. Antonii Abbatis    Duplex

18 Gennaio Cathedræ S. Petri    Duplex majus *L1*

19 Gennaio Ss. Marii, Marthæ, Audifacis, et Abachum martyrum    Simplex

20 Gennaio Ss. Fabiani et Sebastiani Martyrum    Duplex

21 Gennaio Dominica III Post Epiphaniam   Semiduplex Dominica minor *I*

                         S. Agnetis Virginis et Martyris

22 Gennaio Ss. Vincentii et Anastasii Martyrum    Semiduplex

23 Gennaio S. Raymundi de Peñafort Confessoris    Semiduplex

24 Gennaio S. Timothei Epíscopi et Martyris    Duplex

25 Gennaio In Conversione S. Pauli Apostoli    Duplex majus *L1*

26 Gennaio S. Polycarpi Epíscopi et Martyris    Duplex

27 Gennaio S. Joannis Chrysostomi Epíscopi Conf. et Eccl. Doc.   Duplex

28 Gennaio  Dominica in Septuagesima    Semiduplex 2nd class *I*

                            S. Petri Nolasci Confessoris

29 Gennaio S. Francisci Salesii Epíscopi Confessoris Ecclesiæ Doct. Duplex

30 Gennaio S. Martinæ Virginis et Martyris – Semiduplex

31 Gennaio S. Joannis Bosco Confessoris  – Duplex

MEDITAZIONI SULLA NATIVITA’ di N.S. GESU’ CRISTO

MEDITAZIONI …

[A. Carmagnola: Meditazioni, vol. I; S.E.I. ed. Torino, 1942]

… Sopra alcune parole di S. Paolo.

Mediteremo sopra queste parole di S. Paolo: Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei: è apparsa la benignità e l’umanità del Salvator nostro Iddio (Tit., III, 4). C’immagineremo di vedere dinanzi a noi il Bambino Gesù, che nella grotta di Betlemme, adagiato sopra la paglia del presepio, in vita alla fiducia, al pentimento e all’amor suo, dicendo a ciascuno di noi: Præbe, fili mi, cor tuum mihi: Dammi, o figlio, dammi il tuo cuore. E adorandolo con i santi pastori, nell’atto che essi gli offrono i loro doni, noi gli daremo risoluti tutto ciò che egli ci chiede.

PUNTO 1°.

Da benignità del Bambino Gesù ispira fiducia.

Il Salvatore, venendo nel mondo, vi entrò non nella natura angelica, m a nella natura umana: Nusquam angelos apprehendit, sed semen Abrahæ (Hebr., II, 16). E pur prendendo la carne, la forma e la vita degli uomini, non volle venire nel mondo con statura perfetta e piena di maestà, ma come tenero bambino, pieno di benignità e piacevolezza, sicché per la sua nascita è apparsa al mondo, dice S. Paolo, la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Iddio. Questo Bambino che viene a salvare il mondo è Dio: come angelo non ci avrebbe ispirata sufficiente fiducia, come Dio ci avrebbe atterriti. Perciò, oltre al non prendere la natura angelica, si spoglia ancora di ogni divina ed umana maestà e rivestendo la nostra misera carne si presenta a noi come la benignità e l’umanità per eccellenza. Sì, dice San Bernardo, perché tutto il mondo sa, avendolo la natura stessa insegnato a tutto il mondo, quanto sia grande la forza, quanto dolce l’attrattiva, che esercita sul cuore umano la vista di un delicato e caro bambino. Se Gesù Cristo non fosse nato così, alla semplice notizia dell’apparizione di Dio sulla terra gli uomini sarebbero fuggiti come Adamo colpevole, quando sentì la voce di Dio e presentì la sua presenza, e avrebbero tremato e disperato pensando alle offese fattegli e all’ingratitudine usatagli. Ma come fuggire, come tremare, come disperare dinanzi ad un debole e amabilissimo bambinello?

PUNTO 2°.

La benignità del Bambino Gesù adduce a penitenza.

L o stesso S. Paolo, il quale ci dice che per la nascita di Gesù è apparsa la benignità e l’umanità del Salvatore nostro Dio, ci insegna che la benignità di Dio ci alletta, ci spinge e ci vuol condurre alla penitenza dei nostri peccati: Ignoras quoniam benigniias Dei ad pœnitentiam te adducivi (Rom., II, 4). Gesù è nato bambino, perché noi, presentandoci a chiedergli perdono delle nostre colpe, non temiamo severi rimbrotti e una penitenza troppo grave; giacché, dice S. Bernardo, un tenero pargoletto senza più si placa e ci concede la sua grazia: Parvulus est, leviter placari potest; quis enim nesciat quia puer facile donat? (I Epiph.). D’altronde, anche cresciuto negli anni ed entrato nella sua vita pubblica, ha sempre fatto spiccare la sua benignità nell’accogliere i poveri peccatori e nel non esigere da essi altra penitenza che una vita scevra di peccato e feconda di buone opere. E nell’invitarci a seguirlo col prendere sulle nostre spalle il suo giogo ci ha assicurato che esso è lieve e soave. L’amore per Lui rende leggiere e dolcissime anche le penitenze più dure. Gesù Bambino dalla sua culla ci mostra la sua penitenza, perché uniamo la nostra alla sua. Non facciamogli più oltre ripetere quel vagito: ah! ah! hoc est: anima, anima, te quæro (S. Bern.): anima, anima peccatrice, te io cerco.

PUNTO 3°.

La benignità del Bambino Gesù domanda amore.

Gesù si è abbassato fino a nascere tenero Bambino sopra tutto per dimostrarci il suo amore immenso per ciascuno di noi, benché peccatore, benché iniquo, benché disertore, benché superbo. Filius Dei, dice S. Agostino, caro factus est propter te peccatorem, propter te iniustum, propter te desertorem, propter te superbum. No, non vi è altra cagione maggiore della sua venuta fra di noi sotto le sembianze di maschino bambinello all’infuori della manifestazione del suo amore: quæ maior est causa adventus Domini, nisi ut ostenderet dilectionem in nobis? La Chiesa, volgendosi a Gesù stesso, così canta: O autore beato del mondo, o Cristo di tutti Redentore, fu il tuo amore che ti indusse a prendere un corpo mortale: Amor coëgit te tuus — Mortale corpus sumere. Per questo ancora Egli volle nascere bambino, per essere più sicuro di acquistare l’amor nostro. Cosi, dice S. Bernardo, ha voluto nascere Colui che volle essere amato e non temuto: Sic nasci voluit, qui amari voluit, non timerì. Ah! Se sgraziatamente non l’abbiamo amato sin qui. diamoci ora ad amarlo come merita di essere amato. Amiamolo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la volontà, con tutte le forze; amiamolo di un amore generoso e costante. Chi non ama il Bambino Gesù sia da noi segregato, dice S. Paolo: si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum, anatema sit (I Cor., XVI, 22).

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… Sopra alcune parole di Isaia.

Prostrati in ispirito dinanzi al Santo Bambino Gesù nella grotta di Betlemme e adorandolo insieme con Maria, con Giuseppe e coi pastori ci diremo, per ben meditarle, quelle parole così consolanti del profeta Isaia: Questo Bambino è nato per noi; questo Figlio di Dio e di Maria è stato dato a noi; e porta sulle spalle il suo principato: Parvulus natus est nobis, filius datus est nobis, et factus est principatus eius super humerum eius (Is., IX, 1). C’immagineremo che Gesù Bambino dal suo presepio ci volga i suoi occhi misericordiosi, come per confermarci questa verità, che Egli è tutto per noi e vuol essere il re dei nostri cuori; e noi risponderemo dicendogli con tutto l’affetto: Diligam te, Domine, foriitudo mea: ti amerò, o Signore, mia forza (Ps., XVII, 1).

PUNTO 1°.

Il Santo Bambino è nato per noi.

Il Figlio di Dio è nato pargoletto per noi, per nostro spirituale vantaggio, per nostro salutare ammaestramento. Egli volle dirci nel modo più efficace: Se non vi farete anche voi bambini come me, non entrerete nel regno dei cieli. Nei bambini vi sono due doti: innocenza e semplicità. Così in Gesù Bambino. Si è dato dunque a noi Piccolino per apprenderci queste due condizioni necessarie alla nostra salute: innocenza e semplicità, virtù sommamente importanti per trattare come si deve con Dio e col prossimo. L’innocenza attira sopra di noi la compiacenza di Dio e la sua benedizione. Se sgraziatamente l’abbiamo perduta, dobbiamo riacquistarla con le lagrime della penitenza, ossia coll’essere sinceramente pentiti delle nostre passate colpe e col fare volontaria penitenza, o con l’accettare almeno per penitenza le tribolazioni che il Signore ci manda. – La semplicità poi, nelle nostre parole, nelle nostre azioni, in tutta la nostra condotta ci faccia procedere candidamente, con schiettezza e col cuore alla mano. Dinanzi a Gesù Bambino, bando alla prudenza umana e secolaresca, ingannatrice del prossimo e detestabile agli occhi di Dio.

PUNTO 2°.

Il Figlio di Dio e di Maria è stato dato a noi.

Il Bambino Gesù giacente nel santo presepio è il Figlio di Dio, che lo genera da tutta l’eternità nello splendore dei santi, ed è il Figlio di Maria, che lo ha generato nel tempo, nella povera capanna di Betlemme. L’Eterno Padre e Maria SS. Ci hanno dato questo Bambino, perché sia veramente nostro e lo abbiamo a possedere sempre, in questa vita e nell’eternità. – Bambino di valore infinito, perché Dio Egli stesso e donatoci dall’Eterno Padre e da Maria unicamente per amore. Oh immensa liberalità del nostro Padre celeste e della nostra SS. Madre! Eppure vi sono uomini, che non vogliono ricevere questo gran dono; sono coloro che chiudono il cuore all’amore di Dio per aprirlo all’amore delle creature. Che è di me, o caro Gesù? Vi costringerò ancora per tanto tempo a stare alla porta del mio cuore e a battervi per entrare ? Vi obbligherò ancora a ripetere: Aprimi, aprimi: aperi mihi? No, o caro Bambinello: libererò una buona volta il mio cuore dall’affetto alle creature, che non mi appaga, che anzi mi è di affanno e di tormento: Ho trovato in voi chi l’anima mia vuol amare con tutte le sue forze, vi terrò a me unito e non vi lascerò mai più allontanar da me: Inveni quem diligit anima mea, tenui eum, nec dimittam (Con., III, 4).

PUNTO 3°.

Il Santo Bambino ha sulle spalle il suo principato.

Il principato, che il Bambino Gesù ha sulle sue spalle, è primieramente l’anima di ciascuno di noi. Egli è venuto dal cielo in terra come un re a riacquistare il suo regno perduto, il regno delle anime, che a cagione del peccato di Adamo e dei peccati nostri era sfuggito dalle sue mani per cadere in quelle di satana. Che gran conto adunque ha fatto Gesù dell’anima nostra! Qua! conto ne facciamo noi? Deh! riflettendo che l’anima nostra è portata amorosamente in sulle sue spalle da Gesù e la riguarda come il suo principato, preghiamolo che in essa regni veramente da sovrano. Altro principato che sta sulle spalle del Santo Bambino è il fascio enorme dei peccati di tutti gli uomini. – E in questo peso così grave e ripugnante per Gesù ci sono anche i peccati miei! E sarò io così crudele da accrescerglielo ancora con nuovi peccati? Non cercherò anzi di alleggerirglielo col portare volentieri il giogo della sua santa legge e dei santi voti? Infine altro principato che sta sulle spalle a Gesù è la croce, che appena nato abbraccia con affetto per mezzo de’ suoi patimenti, affinché, nel vederlo noi ancora sì piccolo soffrire già cotanto per amor nostro, non ci rincresca di portare anche noi la croce delle tribolazioni per amor suo.