DOMENICA DI SETTUAGESIMA [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Ps 17:2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.

Oratio
Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX:24-27; X:1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

Deo gratias.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli; Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. Torino, 1899 – VOL I. Omelia XXI.]

“Non sapete voi, che coloro, i quali corrono nell’arringo, bensì tutti corrono, ma uno solo riporta il pallio? Correte per modo che lo riportiate. Ora chiunque combatte nella palestra, si contiene in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile, ma noi per una corona incorruttibile. Io pertanto corro per guisa, che non sia come alla ventura: combatto, non quasi battendo l’aria. Anzi reprimo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché dopo aver predicato agli altri, io stesso non diventi reprobo. Perché, o fratelli, io non voglio che ignoriate come i padri nostri furono tutti sotto la nube e tutti passarono il mare, e tutti furono per Mosè battezzati nella nube e nel mare e tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale e bevvero tutti la stessa spirituale bevanda: perché tutti bevvero della pietra spirituale, che li seguiva; la pietra poi era Cristo: ma nei più di loro non si compiacque Iddio. „ –

Fin qui l’epistola propria di questa Domenica, detta di Settuagesima. Si chiama Domenica di Settuagesima, perché è la settima Domenica, che precede la Domenica di Passione, con cui si aprono i grandi misteri della passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo. Il tratto che vi ho recitato, si trova in fine del capo nono ed in principio del capo decimo della prima lettera ai Corinti, scritta da S. Paolo la primavera dell’anno cinquantesimosesto dell’era nostra, prima della Pentecoste (capo XVI, 6-8). È una calda esortazione ad assicurare la corona eterna per non essere simili a quegli Israeliti che morirono nel deserto, senza poter entrare nella terra promessa. – Udiamola e facciamone tesoro. “Non sapete voi, che coloro, i quali corrono nell’arringo, bensì tutti corrono, ma uno solo porta il pallio? „ Corinto era la città principale dell’Acaia, fiorente di commerci e di arti e celebre eziandio per dissolutezza di costumi; tantoché era passata in proverbio in tutto l’Oriente. In quel gran centro Paolo aveva fondata una chiesa numerosa e, partitone per la sua missione apostolica e stabilitosi per qualche tempo in Efeso, di là scrisse due lettere ai Corinti. – Presso questa città si celebravano i grandi giuochi, detti istmici, ai quali accorreva pressoché tutta la Grecia. Erano giuochi di corse, comuni in Grecia, nei quali i vincitori ricevevano la corona ed il loro nome era glorioso presso i concittadini. S. Paolo, sì pronto e sì felice nell’approfittare d’ogni cosa per istruire i fedeli e chiarire la verità, coglie il destro da questi giuochi notissimi e sì cari ai Corinti, per inculcare ciò che gli sta a cuore. Voi, così egli, sapete bene che nei vostri famosi giuochi sono moltissimi quelli che discendono nell’arena e si lanciano al corso per toccare la meta: ma quanti sono coloro che colgono la corona? Uno solo: gli altri corrono indarno. Noi pure Cristiani abbiamo il nostro arringo da correre e la nostra corona da guadagnare: il nostro arringo è la vita intera, che la Provvidenza ci accorda quaggiù sulla terra, arena di combattimenti e luogo di prova: la nostra corona è la conquista del cielo, il possesso di Dio stesso. “Correte tutti, esclama S. Paolo, per guisa, che riportiate il pallio. „ Nessuno si arresti, nessuno sia pigro, nessuno venga meno al dovere: corriamo tutti affine di raggiungere la meta. “Ora chiunque combatte nella palestra, si contiene in tutto. „ Quelli che scendevano nella palestra sia per la corsa, sia per battersi col cesto, con le mani o in qualsiasi altro modo, mettevano somma cura in prepararsi alla prova, esercitando le membra, ungendosi, astenendosi da certi cibi e pigliandone altri con non lieve loro sacrificio. Insomma quei lottatori si condannavano a non poche privazioni e a dure fatiche per riportare la corona; una corona corruttibile, di nessuno o poco valore per sé, e uno solo poteva guadagnarla. E sì tanto pativano e tanto facevano per sì povera mercede, argomenta qui l’Apostolo, e noi Cristiani che non dobbiamo fare per cogliere la nostra corona? A differenza di quei lottatori, dei quali un solo poteva averla, noi tutti e ciascuno di noi può e deve averla ed incorruttibile. A somiglianza adunque di quegli antichi atleti e per una causa incomparabilmente più nobile della loro, rifiutiamo al nostro corpo tutto ciò che può impedirgli o rendergli difficile il correre e vincere in questo arringo della vita cristiana: mortifichiamo i nostri occhi, le nostre orecchie, la nostra lingua, la nostra gola, i nostri pensieri, il nostro corpo tutto: stacchiamoci dall’amore sregolato delle cose terrene, affinché leggeri e spediti possiamo correre la via del cielo e vincere i nemici che vi incontreremo: il mondo, la carne, il demonio. “Sei soldato dappoco, grida il Crisostomo, se credi di poter vincere senza battaglia, di trionfare senza combattimento. E ad ogni sforzo, gagliardamente combatti, ti getta intrepidamente nel folto della mischia. Poni mente al patto, bada alle condizioni: ricorda il patto della tua milizia, le condizioni, con le quali vi entrasti „ (Serm. dei Martiri), E qui S. Paolo, con un rapido passaggio, che in lui non è raro, mette innanzi l’esempio di se stesso: “Io corro per guisa, che non sia come alla ventura: combatto, non quasi battendo l’aria. „ È sempre l’immagine dei lottatori istmici od olimpici, che comparisce sotto la penna dell’Apostolo, il quale è lieto di non fare com’essi facevano assai volte, correndo nello stadio e battendosi fieramente tra loro per soccombere senza mercede e senza gloria. Egli, l’Apostolo delle genti, ha uno scopo sicuro, una meta nobilissima, a cui tende, uditelo: “Io reprimo il mio corpo e lo riduco in servitù, affinché dopo aver predicato agli altri, io stesso non diventi reprobo. Egli signoreggia con lo spirito il suo corpo, nel quale si annidano tutte le passioni: lo raffrena, lo punisce col digiuno, con la veglia, con la penitenza, col portare la sua croce per averlo ubbidiente e strumento docile alle opere sante; che se ciò non facesse, egli stesso, ancorché apostolo, non sarebbe senza timore della sua salute e di perdersi dopo aver predicato agli altri (Domandano i teologi, se S. Paolo era certo della sua predestinazione eterna: io lo credo, appoggiato alle sue parole della lettera ai Rom. VIII, 38, 39. Come dunque poté dire che aveva timore d’essere tra i reprobi, se non assoggettava il suo corpo? Si può dire che era certo di essere predestinato, facendo ciò che doveva fare, come condizione richiesta, come esecuzione dei disegni della Provvidenza). – Carissimi figliuoli! se l’Apostolo temeva di essere nel numero dei reprobi se non avesse mortificato il suo corpo e ridottolo a servitù, che dobbiamo noi dire e temere di noi stessi, sì indulgenti con esso e sì facili a secondarne le tendenze! Ohimè! il Vangelo e le Lettere apostoliche, ad ogni pagina, e con le più forti espressioni, ci predicano la gran legge, la suprema necessità della mortificazione del corpo, qual condizione assoluta della salvezza, e pochi sono coloro, che l’intendono, e ciò che più importa, che la praticano! Mettiamoci ben nell’animo questa verità incontrastabile: se vogliamo essere salvi, dobbiamo mortificare il corpo. Prosegue l’Apostolo, confermando la ragionevolezza del suo timore e la necessità di mantenersi fedele alla vocazione cristiana. Noi, par che dica l’Apostolo, siamo stati chiamati alla fede, io poi anche alla gloria dell’apostolato: noi siamo stati battezzati, illuminati, santificati coi Sacramenti, nutriti nel grembo della Chiesa. Sono benefici preziosissimi; ma tutto questo basta ad assicurarci della eterna nostra salvezza? Potremmo ancora dopo tutti questi insigni favori perderci miseramente? Sì, pur troppo, risponde S. Paolo. – Io non voglio che ignoriate, o fratelli, sono sue parole, come i padri nostri furono sotto la nube, e tutti passarono il mare e tutti furono per Mosè battezzati nella nube e nel mare. „ Più ancora, soggiunge S. Paolo: “Tutti mangiarono lo stesso cibo spirituale. „ Eppure non tutti, ma pochissimi, due soli poterono entrare nella terra promessa: il somigliante può avvenire a noi ancora, figliuoli del Vangelo. Non occorre illustrare quelle frasi dell’Apostolo, furono sotto la nube, furono battezzati in Mosè, nella nube e nel mare e mangiarono lo stesso cibo spirituale, perché tutti vi scorgono un cenno alla nube, che il giorno copriva Israele e la notte si mutava in colonna di fuoco: al passaggio del mar Rosso e alla manna, onde si nutrì nel deserto. La nube, che la notte si mutava in fuoco e più ancora il passaggio del mar Rosso, erano simbolo del Battesimo, che è detto il Sacramento della luce: e come Israele passò sano e salvo sulla riva opposta del mar Rosso e l’esercito egiziano con Faraone rimase sepolto sotto i flutti, così dalle acque del Battesimo esce rigenerata l’anima nostra e in essa rimangono sommersi i peccati. Il cibo poi di cui si nutrirono gli Israeliti – che è la manna, si dice spirituale, perché raffigurava il cibo delle anime per eccellenza, la santa Eucaristia. – E non solo gli Israeliti si nutrirono dello stesso cibo, ma “bevvero la  stessa spirituale bevanda, „ ossia la stessa acqua miracolosa, che Mosè fece sgorgare dalla pietra: acqua miracolosa, che figurava la grazia divina, o meglio, la bevanda celeste del sangue adorabile di Gesù Cristo. Quell’acqua, dice l’Apostolo, scaturiva dalla pietra, la qual pietra simboleggiava Cristo, che doveva venire a suo tempo e che a nostro modo di dire pellegrinava col popolo israelitico, da cui traeva la sua origine secondo la carne. Dilettissimi, non lo dimentichiamo giammai: la sola grazia di Dio, i suoi doni più eletti, i suoi favori più insigni, da sé soli, non ci salvano, come i miracoli più strepitosi non condussero il popolo d’Israele nella terra dei suoi padri: ma ci salvano se la nostra corrispondenza a quei doni e favori si unisce costantemente, perché quel Dio che ci ha creato senza l’opera nostra, senza l’opera nostra non vuole salvarci.

Graduale
Ps IX:10-11; IX:19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te. Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Gloria tibi, Domine!

Matt XX:1-16

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia II

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Omelia XXII.]

Questa parabola, d’una naturalezza ammirabile, racchiude uno dei più profondi misteri della nostra fede, qual è la distribuzione della grazia dalla parte di Dio, e la corrispondenza col merito relativo da parte degli uomini. Esporre la parabola versetto per versetto, come siamo soliti fare, richiederebbe troppo tempo: perciò, mutando metodo, oggi esporrò tutta insieme la dottrina nascosta sotto il velame della parabola, riserbando un commento speciale agli ultimi due versetti. E per spianarci la strada alla spiegazione della parabola, ricordatevi che il padre di famiglia rappresenta Iddio, la vigna rappresenta la Chiesa, i lavoratori sono gli uomini, la giornata è la vita dell’umanità sulla terra, od anche la vita di ciascun uomo; la sera è il termine dei tempi; il danaro è la mercede del lavoro, ossia il premio della vita eterna. Ora poniamo mano allo svolgimento della dottrina cattolica, che Gesù Cristo volle insegnarci con questa parabola. – Iddio crea e colloca gli uomini sulla terra e vuole che qui, nel tempo, si santifichino e meritino la vita beata nella eternità. Ma perché gli uomini possano operare la propria santificazione nel tempo e meritare la vita beata nella eternità, che cosa si domanda? Dalla parte di Dio si domanda che conceda ad ogni uomo la grazia, che lo prevenga, che lo illumini, che lo muova e lo trasformi in suo figliuolo adottivo. E dalla parte dell’uomo che cosa si domanda? Si domanda, che accolga questa grazia, la secondi e cooperi fedelmente. Allora Iddio a questo uomo, che ha fatto fruttare la grazia con le opere compiute in vita, perché fedele alle sue promesse e alla sua giustizia, dà la vita eterna con il possesso di se medesimo. Ondeché la vita eterna, il possesso del cielo è frutto della grazia divina, ed insieme delle opere e dei meriti dell’uomo. Ora vi domando, o carissimi: Dio è egli obbligato a dare la grazia all’uomo, senza della quale non può far nulla? Certamente, no. Che  dovere avrebbe egli Iddio di dare la sua grazia all’uomo? Quali meriti vi possono mai esser  in lui, quali diritti da poter dire, a Dio: “Voi mi dovete dare la vostra grazia; io ho il diritto, io, miserabile creatura, d’essere adottato da voi come figliuolo?” Nell’uomo adunque non vi è, né vi può essere diritto o merito di sorta per avere la grazia: la fede e la ragione lo proclamano. Ma se l’uomo non ha diritto di avere la grazia in forza dei suoi meriti, che devono essere effetti della grazia istessa, ha forse diritto di averla appoggiato alle esigenze della sua natura? Posto che Dio ha creato l’uomo col bisogno dell’aria per respirare, del cibo e della bevanda per sfamarsi e dissetarsi e ristorare le forze naturali, ne segue il diritto da parte dell’uomo di avere l’aria, il cibo e la bevanda; diritto non fondato nei meriti, ma nelle esigenze della natura. La cosa corre forse così anche quanto alla grazia? La natura è ella creata per modo che richieda quale elemento necessario la grazia, tantoché, posta la esigenza della natura nostra, ne venga qual conseguenza necessaria il diritto alla grazia? No, no, dilettissimi. Dio poteva creare la natura senza la grazia, perché questa è tal bene a cui la natura non ha, né potrà mai avere, diritto alcuno. Hai tu, uomo, diritto di avere le ali per volare o d’essere re? No, per fermo. Come potresti avere diritto d’avere la grazia, che ti unisce a Dio e d’essere figlio suo adottivo? Non parliamo adunque dei diritti della natura in ordine alla grazia divina, che sta al di sopra d’ogni nostra esigenza. Ma Dio, unicamente per sua bontà, vuol dare agli uomini tutti la sua grazia, e la promette nel modo più solenne. Posta questa promessa solenne di Dio, gli uomini hanno essi il diritto di averla? Sì, l’hanno, appoggiati non ai propri meriti, che non ne hanno; non alla natura, che non ha con la grazia proporzione o nesso necessario, ma alla promessa di Dio, che è fedele, e purché adempiano le condizioni che Egli ha imposte. Dio, che ha promesso a tutti la sua grazia, adempiendo le condizioni da Lui stesso stabilite, è egli forse obbligato a darla a tutti e a ciascuno nella stessa misura, nello stesso tempo e nello stesso modo? No, certo. Egli vuol salvi tutti, e perciò a tutti deve dare la sua grazia, per quanto è da Lui; ma le vie, il tempo, la qualità, l’intensità, tutto è riservato al suo sovrano volere e nessuno ha diritto di chiedergliene ragione. Questo fu e sarà sempre per noi sulla terra un mistero impenetrabile, che umilia il nostro orgoglio, che ci obbliga a maggior gratitudine, se più degli altri abbiamo ricevuto, che non ci dà ombra di ragione di lamentarci, se meno abbiamo ricevuto. Ora potete comprendere il significato della parabola: il padrone di casa o padre di famiglia chiama a lavorare nella sua vigna tutti quelli, senza eccezione, che trova per le vie e per le piazze: non uno è escluso, e a tutti è promessa la mercede. Ma li chiama tutti insieme, alla stessa ora, allo stesso modo? No. Chiama gli uni in sul far del mattino, altri a tre ore, altri a sei ore, altri a nove, a dieci, ad undici ore del giorno, cioè in sul fare della sera. Quegli uomini potevano accusare di ingiustizia il padrone? Potevano dirgli: Dovevi chiamarci tutti all’aprirsi del giorno, alla terza od all’undecima ora? Sarebbe folli a il pensarlo. Egli ha promesso di chiamar tutti, e tutti chiama; ma chiama a quell’ora che gli piace e nessuno può muoverne lamento. Chiama gli Ebrei per i primi; chiama dopo i gentili; chiama Pietro, Andrea e gli altri Apostoli nei primi giorni della sua predicazione; chiama Paolo più tardi, più tardi ancora Cornelio, Timoteo, Dionigi e andate dicendo: questi chiama ancor bambino, quegli fanciullo, quell’altro giovane e adulto e molti perfino quante volte decrepiti, sul letto del dolore, gli ultimi istanti di vita! Egli è padrone della sua grazia; a tutti dà ciò che è necessario; con alcuni largheggia, con altri profonde i suoi tesori; a chi dà cinque talenti, a chi due, a chi uno; questo vuol semplice fedele, quello sacerdote, quell’altro Pontefice; è padrone dei suoi doni e dà a ciascuno, come dice S. Paolo, come vuole: Divìdens singulis prout vult. Chi mai oserebbe chiedergliene il perché? Nessuno. – Dunque, chiamati a qualunque ora, popoli ed individui, in qualunque modo, per qualunque mezzo, rispondiamo sempre: “Eccoci pronti ad entrare nella vigna del Signore”, e, imitando la generosità degli ultimi lavoranti, quanto alla mercede, non patteggiamola e rimettiamoci alla munificenza del padrone. Lavoriamo, ciascuno, secondo i doni ricevuti e il tempo che ci è concesso, anzi, se ne abbiamo perduto, coll’intensità del lavoro riscattiamone la brevità, come insegna S. Paolo, Redìmentes tempus. – Una difficoltà presenta la parabola là dove si dice, che tutti i lavoratori ebbero la stessa mercede, un danaro, quelli che lavorarono un’ora sola, come quelli che lavorarono il giorno intero, portandone il peso e l’arsura. Come ciò? La ragione naturale non vuole che la mercede sia in ragione del lavoro? Lavoro più lungo e più grave domanda maggior mercede. E la Scrittura non insegna che Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue? (Matt. XVI, 27). Come dunque vuolsi intendere questa mercede data a tutti egualmente? Ecco la risposta che mi sembra la migliore, anzi l’unica. — La mercede, che il padre di famiglia dà a tutti eguale, rappresenta la vita eterna. In che sta riposta la vita eterna? Nella visione beatifica di Dio. E questa è data a tutti indistintamente quelli che si salvano? Senza dubbio! Il premio o mercede adunque, in quanto che tutti possiedono lo stesso bene, che è Dio stesso, è eguale per tutti. Ma il modo e la misura di godere di questo bene sarà uguale? No: esso risponderà ai meriti maggiori o minori di ciascuno. Mille persone contemplano quel magnifico edificio, che è il duomo di Milano: l’oggetto contemplato è lo stesso per tutti; ma il conoscimento e il gusto del bello sarà diverso in ciascuno secondo l’ingegno, l’attitudine e la coltura. Il somigliante avverrà a tutti i beati in cielo possessori tutti dello stesso bene, variamente ne godranno. Il Vangelo nella eguaglianza della mercede data ai lavoranti volle esprimere la eguaglianza del possesso di Dio, non la disuguaglianza del goderne. E bene a ragione il padre di famiglia rispose a quelli che si lagnavano: Non vi faccio ingiuria: vi do ciò che vi spetta: a tutti do ciò di cui siete capaci, ciò che basta per essere perfettamente felici; che volete di più? Oltre di che quelli che lavorarono meno poterono benissimo in quel breve tempo coll’intensità del lavoro compensare il tempo e pareggiare i primi e meritare egual mercede. Forse a taluno si affaccerà una difficoltà: se il godimento della felicità eterna sarà diverso in ragione della grazia e della cooperazione alla grazia, non spunterà nell’animo il desiderio di più alto loco e quindi un senso penoso di gelosia e d’invidia? Giammai, carissimi, perché ciascuno avrà tutto ciò che corrisponde alle proprie forze e non potrà nemmeno concepire il desiderio di maggior felicità. Ad una lauta mensa seggono molti convitati e diverso è il bisogno del cibo in ciascuno, in chi più, in chi meno. Quando tutti sono sazi secondo la loro natura, è impossibile il desiderio di maggior cibo o di maggior bevanda e perciò è impossibile nei beati desiderio qualsiasi di maggior godimento. Il Vangelo si chiude con due sentenze, che è prezzo dell’opera sviluppare: ” Così saranno ultimi i primi e primi gli ultimi: che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti. „ È chiaro che la prima sentenza, compendio in parte della parabola, si riferisce agli Ebrei ed ai gentili: quelli furono chiamati i primi, perché a loro fu data la legge e i profeti e perché Gesù Cristo e gli Apostoli a loro annunziarono prima la verità; ma, eccettuati pochi, la respinsero: al loro luogo sottentrarono i gentili, che ignoravano la legge ed i profeti, e così quelli che vennero dopo furono i primi: e poiché alla fine dei tempi si convertiranno anche gli Ebrei, così i primi verranno ultimi. Nulla di più chiaro. L’altra sentenza: “Molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti „ è alquanto più difficile. Pensano alcuni che questa sentenza non si leghi con la parabola, e non senza fondamento, perché dalla parabola appariscono non solo chiamati tutti nelle varie ore del giorno, ma anche tutti eletti, perché a tutti, non uno eccettuato, è data la mercede. Come dunque dobbiamo intendere quella sentenza? Molti sono chiamati, cioè tutti, perché tutti sono i molti e perché questa parola è usata anche per significar tutti (Ai Rom. v, 15): tutti sono chiamati, ma gli eletti, cioè le anime privilegiate, più perfette, che si levano alle altezze supreme della virtù e della santità, non sono molte, son poche. Carissimi! Non vogliate turbarvi, udendo queste parole: “Sono pochi gli eletti, „ quasi che siano pochi coloro che si salvano. Noi non sappiamo il numero degli eletti, né ci gioverebbe il saperlo; sappiamo solamente che Iddio vuol salvi tutti, tutti gli uomini, e che volendoli salvi, deve dare loro la grazia necessaria; che non la rifiuta mai a chi dal canto suo fa quel che può fare, e chi si perde, si perde unicamente perché ha voluto perdersi, e ciò ne basti a nostro conforto.

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta
Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Communio
Ps XXX:17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (13)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(13)

15. L’obbedienza

L’amore di Dio, quello d’acciaio, cioè serio, domanda l’obbedienza. Parliamone, partendo dall’esempio di Nostro Signore Gesù Cristo. Perché è stato l’esempio di Lui più marcato, quello della obbedienza. S. Paolo, riassumendo tutta la figura di Nostro Signore, gli pone sulle labbra queste parole: « In capite libri scriptum est de me ut faciam, Deus, voluntatem tuam»; in testa al libro (Salmo XL, 8-9) sta scritto che io faccia, Signore, la tua volontà (Ebrei X, 7). In realtà Nostro Signore si è sempre difeso contro gli attacchi dei suoi nemici dicendo due cose, cioè che Egli non cercava la propria gloria, che Egli faceva la volontà del Padre. Quando stava al pozzo di Samaria discorrendo con la samaritana, sopraggiunsero i discepoli che erano andati a cercare qualche cosa da mangiare, e gli parlavano del cibo; ma egli rispose: « Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato ». E anche nel momento supremo della passione lasciò che la natura che aveva assunta agisse nel senso che le era proprio, cioè paventasse il male: « Padre, se è possibile, passi da me questo calice. Tuttavia faccio non la mia ma la tua volontà ». – Nostro Signore ha dato prova di obbedienza. Come Dio, Egli non poteva obbedire; come uomo, sì, Egli poteva obbedire; era nella sua natura umana di poter obbedire, e per questo ha potuto obbedire. Se non ci fosse stata l’umana natura, a Lui non sarebbe stato possibile obbedire; ma è la divina Persona responsabile giuridicamente della sua obbedienza. È qui dove si vede che l’Incarnazione e l’obbedienza sono essenzialmente legate. Vi ho voluto ricordare questo perché l’esempio di quello su cui ora dobbiamo accuratamente meditare viene dall’alto; c’è stata l’Incarnazione del Verbo per poter dare tale esempio. – Il fatto che viene così dall’alto e che vi sia stata l’Incarnazione del Verbo per potere far sì che noi avessimo questo esempio vi dice l’importanza dell’argomento. – Questa obbedienza l’ha chiesta Nostro Signore. Egli l’ha chiesta ai discepoli, agli Apostoli, a tutti. Egli ha chiesto semplicemente di seguirlo; non ha chiesto soltanto l’obbedienza esecutiva, ossia che noi piegassimo la volontà nostra alla sua, ha comandato anche l’obbedienza intellettuale, che noi piegassimo la nostra mente alla sua parola. Quando si parla di obbedienza, bisogna sempre ricordare questo particolare, perché la forma più sottile della disobbedienza obbediente è quella di mancare nel campo dell’intelletto; si eseguisce, ma si giudica al contrario di quello che si eseguisce e si compie pertanto una continua distorsione, una innaturale divisione; e questo mina essenzialmente l’ordine che l’obbedienza, come tale, dovrebbe conservare, costituire, ricomporre. Nostro Signore ha chiesto l’obbedienza intellettuale e l’obbedienza intellettuale consiste nell’accettare la verità, quella che è sulla parola, sulla testimonianza, sulla autorità. L’obbedienza intellettuale è quella che raddrizza, se c’è bisogno, che costituisce, valorizza l’obbedienza puramente esecutiva. Generalmente Nostro Signore Gesù Cristo, quando doveva operare un miracolo, prima chiedeva un atto di obbedienza: « Credi nel Figlio di Dio? », cioè accetti, pieghi la tua intelligenza alla verità che io ti propongo e che è questa: che Io, che tu vedi uomo, sono il Figlio di Dio? Egli ha chiesto sempre questa obbedienza intellettuale. È qui dove voi potete vedere che l’atto di fede di cui abbiamo parlato non è altro che una forma di obbedienza intellettuale. – Si direbbe che della sua obbedienza al Padre Gesù abbia voluto lasciare un’impronta in tutta quanta la vita della Chiesa, perché a rinfrescarne l’esempio tutti i giorni Egli, in un certo senso, obbedisce alla voce dei sacerdoti. Perché quando noi sacerdoti consacriamo, Egli ritorna presente sotto le apparenze del pane e del vino, e siamo noi liberamente a decidere di pronunciare quelle parole divine, siamo noi a decidere liberamente di mettere quella intenzione senza la quale a niente varrebbe pronunciare le parole della Consacrazione. Quando noi pronunciamo quelle parole Egli diventa presente. Ed è così che la stessa SS. Eucaristia, nella quale è continua, reale, vera, personale, sostanziale la presenza del nostro divin Salvatore, in fondo è sempre come una potente eco di quel primo atto di obbedienza col quale Gesù si piegò per primo al Padre facendosi uomo e col quale, nella veste e nella sostanza di uomo, Egli non ha fatto altro che eseguire la volontà del Padre suo che è nei Cieli. Questo è l’esempio, questa è la volontà di Nostro Signore Gesù Cristo. – Ora però noi dobbiamo leggere più a fondo nel mistero dell’obbedienza. E la ragione è questa. Se vi insisto è perché nel mistero dell’obbedienza c’è tutto il mistero della perfezione. Questi Santi Esercizi sono stati condotti sotto questa insegna: noi dobbiamo aspirare alla perfezione. Ora guardate che l’obbedienza è il grande segreto della perfezione appunto perché è l’elemento condizionante l’amore di Dio che è il culmine della perfezione. Noi dobbiamo ragionare sulla intima essenza della obbedienza. Vi prego di osservare. Noi siamo piccoli, siamo solo parzialissimamente potenti. Nel più di quanto ci si presenta come oggetto di considerazione, noi siamo incapaci e impotenti. Noi siamo dei piccoli che vivono in un grandissimo ordine: non dimentichiamolo mai. L’ordine non è fatto soltanto dal cosmo, con la luna, col sole, con le lontane galassie, quell’ordine spaziale, spazialmente immenso, ma pure infinitamente piccolo. Viviamo in un altro ordine fatto di cose spirituali, che supera tutti i confini dello spazio. Noi siamo piccoli chiamati a vivere in un ordine immenso, ma noi riceviamo tutto da quest’ordine, tutto da Dio, anche l’ordine cosmico che viene così a condizionare la nostra vita. Noi non solo siamo dei piccoli, ma siamo dei condizionati. Dobbiamo accettare quello che siamo; non accettare ciò che siamo sarebbe non solo rivolta sciocca, ma insipienza tragica, contraddizione dolorosa e dannosa; non ci farebbe nessun onore, non darebbe corpo a nessuna fierezza, ci renderebbe semplicemente ridicoli. Noi siamo i piccoli, siamo i condizionati del grande ordine. È evidente l’ontologica necessità d’inserirci in questo ordine che è prima di noi e del quale abbiamo bisogno per continuare a vivere. È ovvio che noi ci inseriamo nell’ordine. Come si chiama l’atto così logico, così ovvio, così naturale, d’inserimento? Si chiama obbedienza. Se volete potete anche cambiare nome; questo non ha importanza; ma noi dobbiamo accettare qualche cosa, perché siamo condizionati nell’essere, restii a sopravvivere a quest’ordine. È della nostra natura che vi sia un’obbedienza. Perché è della nostra natura, che vi sia un’obbedienza? Perché è della nostra natura l’essere piccola e il dover ricevere. Pertanto l’atto del ricevere completo, dignitoso, si chiama obbedire. È il cosmo stesso che ci attesta questo, è la struttura stessa dell’essere, dell’esistere, della vita che ci dà contezza piena di tutto questo. Noi non possiamo fare diversamente. Perché il fare diversamente diventerebbe atto violento contro di noi, sarebbe un assassinio fatto contro noi stessi. Tutto io devo dire, perché non crediate che l’obbedire sia qualche cosa di aggiunto alla nostra natura e che persino la contrasti obbligandola a deporre la sua naturale fierezza. No, è una parte della nostra natura l’obbedire, come la bocca, il naso, le orecchie; come i nostri capelli, come le ossa delle quali è strutturata la nostra forza, la nostra situazione nella statica, come qualunque altra parte della nostra natura. Noi siamo fatti di obbedienza. E’ vero che possiamo disobbedire; Dio ci ha lasciati liberi; ma allora non siamo più completi, non siamo più nell’ordine, non siamo più quello che dobbiamo essere e non prepariamo più quello che dobbiamo essere. È così. Questa è la prima ovvia ragione, ontologica, che fa capire l’obbedienza. Io non ho detto ora a chi dobbiamo obbedire, parlo dell’obbedire e basta, senza affatto riferirmi, in questo momento, a chiunque. Non accettare l’obbedienza vuol dire non accettare quello che si ama. Traducete: vuol dire rinnegare noi stessi. Questa è la prima ragione.

– Ce n’è poi un’altra, una ragione ontologica per cui dobbiamo obbedire e per cui si vede la ragione intima della obbedienza intellettuale, quella con la quale si piega la nostra facoltà emotiva, la volontà, la nostra facoltà esecutiva, ma si piega anche il colmo dell’essere nostro, l’intelletto. Si avrà l’obbedienza più vera, la più meritoria, quella che innerva l’altra e senza la quale l’altra obbedienza diventa facilmente ipocrita. Osservate, siamo forse noi gli autori della verità? Noi non siamo gli autori della verità; la verità è obbiettiva e pertanto viene dal di fuori. Noi non abbiamo fatto la realtà dell’uomo: che l’uomo sia così fatto di anima e di corpo, con quelle potenze, con quelle caratteristiche, con quelle qualificazioni, non l’abbiamo fatto noi. Pertanto non possiamo creare noi la definizione dell’uomo. Non vi pare che sarebbe ridicolo se tentassimo di farlo? Noi possiamo semplicemente accettare la definizione dell’uomo, cioè obbedire a una regola di verità che è fuori di noi. Noi non dobbiamo creare il mondo; il mondo è quello che è. Noi non possiamo forgiare la realtà e dire: il mondo è un triangolo. No, nel mondo ci sono dei triangoli e cose riducibili a triangoli, dato che il triangolo è una figura geometrica perfetta; ma il mondo non è un triangolo, anche se io lo dico. Io debbo obbedire, lo vedete. Io ho gli anni che ho; è inutile che dica che ne ho trenta di meno. Il mio stato anagrafico è quello che è, io non lo posso alterare; dirvi una bugia, farei una commedia. Io debbo dipendere dalla realtà, debbo obbedire alla realtà: la realtà che s’identifica con la verità perché « ens et verum convertuntur » come « ens et bonum convertuntur » come « verum et bonum convertuntur ». La realtà è quella che è. Io devo dipendere dalla realtà, la debbo accettare intellettualmente. Io non posso dire che l’essenza è distinta dalla esistenza, se è vero invece che l’essenza è identica all’esistenza. Perché la realtà è quella che è. Io posso blaterare quanto voglio, ma la realtà resisterà sempre al mio blaterare. Io devo obbedire alla realtà. Guardate come l’obbedire è nella nostra costituzione di essere creati: perché noi non siamo il principio di noi stessi né il principio di nessuna cosa. La verità per noi è una derivazione. La ragione per cui dobbiamo dipendere è perché siamo stati creati, perché se fossimo il principio delle cose, saremmo anche il principio della verità; e questo non è. Pertanto noi dobbiamo dipendere. – Agli uomini, in quel margine in cui gli uomini sono lasciati liberi da Dio, Dio ha detto: arrangiatevela a fare come volete. Ed è in questo piccolo margine che noi possiamo fare della democrazia, ma solo in questo piccolo margine. Il cosmo è gerarchico, non è democratico. L’ordine religioso ha la dipendenza della via gerarchica. Proviamoci a imporre una costituzione a Dio! – Ci si è provato l’illuminismo, ci si è provato l’enciclopedismo. L’illuminismo, l’enciclopedismo, il voltairianesimo, che cosa sono? Non sono altro che una costituzione ridicolmente imposta a Dio. Naturalmente è una costituzione rimasta lettera morta, perché a Dio non se ne impongono di costituzioni. L’ordine tra creatura e Creatore, cioè l’ordine religioso, è essenzialmente gerarchico. Stiamo attenti a non fare delle sciocchezze, a non lasciarci entrare nell’anima l’idea che bisogna fare anche qui un po’ di democrazia. Mettiamo ai voti il primo, il secondo e soprattutto il sesto comandamento e cerchiamo di aggiustarli come ci piace. Non diciamo sciocchezze! Perché noi potremmo provarci a far passare in Parlamento la legge che non si muore più. Beh, facciamola, vediamo che cosa succede. Ricordate il famoso decreto del Sindaco di Peretola? C’erano troppi gobbi a Peretola, e un bel giorno il Sindaco ha fatto il decreto che non dovessero nascere più gobbi. I gobbi sono continuati a nascere e forse nascono ancora a Peretola. Io non lo so. Comunque il decreto del Sindaco di Peretola è rimasto l’elemento proverbiale per parlare della commedia dell’impossibile e dell’incredibile. Ricordiamo bene che la democrazia sta in quel piccolo campo che Dio ha lasciato agli uomini perché agiscano a loro modo. Ma, al di là e al di sopra di quel piccolo campo, non esiste più. Questa è la ragione per cui la Chiesa, che è la realizzazione sociale dell’ordine religioso nel mondo, per divina volontà e positiva costituzione divina è essenzialmente gerarchica; e il portare qualunque elemento che volesse toccare la disposizione gerarchica della Chiesa sarebbe rovinare perfettamente il disegno di Gesù Cristo, contaminare essenzialmente la Chiesa e rendersi ridicoli nel voler portare là dove Dio ha segnato un ordine un altro ordine fatto sulla misura delle nostre grettezze. – La Chiesa, la quale imita Dio, in taluni punti della sua vita lascia degli ordinamenti democratici, ma li lascia entro determinati limiti. Voi vedete che negli Ordini religiosi in genere la costituzione è sempre democratica, perché in tutti gli Ordini religiosi sono gli inferiori che eleggono i loro superiori. In modo diverso avviene per qualche Ordine, come ad es. per i Gesuiti, per le Congregazioni monastiche, per i Benedettini dove l’Abate una volta eletto è sempre Abate. Così è della Chiesa. La Chiesa non può far niente, non può mutare niente. Il Papa non può diventare un sovrano costituzionale, il Vescovo, che è definito nella sua caratteristica dalla divina istituzione, non può diventare un principe di carattere costituzionale, perché questo altererebbe la costituzione della Chiesa. E non sarà mai che i fedeli possano discutere gli ordini del loro Vescovo; non sarà mai che i fedeli e i Vescovi possano discutere gli ordini del Romano Pontefice. Ricordiamoci bene quanto ho richiamato spiegando questa seconda ragione ontologica dell’obbedienza, perché dobbiamo essere convinti, in questa universale visione, che noi non siamo il principio dell’ordine. Ecco perché l’ordine è gerarchico. Noi non siamo il principio dell’essere, della verità e del bene. Ecco perché l’ordine religioso è gerarchico, ecco perché la Chiesa che, per costituzione divina, è la traduzione sociale dell’ordine religioso del mondo, è gerarchica. – Vedete le grandi ragioni dell’obbedienza? Ma vi prego di osservarne una terza, una ragione ontologica. L’obbedienza diventa il più grande sussidio che abbiano gli uomini nella vita morale. Cioè, in quell’ordine in cui gli uomini sono liberi, — perché nell’ordine in cui sono liberi e possono fare in un modo o in un altro, incide talmente la loro piccolezza che li espone a non avere saggezza — l’obbedienza è il più grande ausilio che abbiano. Con l’obbedienza io acquisto quello che non ho. Se sono disobbediente, sono incompleto; con la obbedienza acquisto tutto quello che non ho. Si devono osservare le leggi, almeno quelle che sono passate al vaglio della esperienza e sono veramente la saggezza dei popoli; quelle fondamentali, quelle tradizionali, quelle istituzionali, quelle ben fatte, uguali in tutti i codici: nel codice Napoleonico come nel codice di Giustiniano. Sono sempre le stesse, e se si cambiano quelle, Dio ce ne guardi e liberi, allora sì che la politica salta; ma quelle per fortuna non cambiano; fino adesso in genere nessuno ha avuto il coraggio di toccarle, per grazia di Dio. – Ora, che cosa acquisto io, osservando le leggi? Quando io obbedisco alle leggi, mi completo. Supponiamo che io non abbia mai avuto tempo di studiare diritto. Il diritto supremo è lo strumento umano regolatore fra gli uomini; è molto più importante sapere il diritto che non la fisica, perché è il diritto che regola gli uomini. Se ne sanno anche un po’ meno di certe cose, state tranquilli che campano lo stesso; ma se il diritto lo sanno un po’ meno e lo applicano meno, non campano. Se io obbedisco alle leggi, mi completo come se avessi studiato il diritto. Io obbedisco al medico: è come se io mi fossi laureato in medicina. Io obbedisco all’architetto: è come se avessi studiato architettura. Vorrei che vedeste questo: io obbedisco; bene, è come se conoscessi tutto l’ordine nel quale vivo. Io obbedisco a una legge: mi completo; è come se io sapessi tutto il passato, tutte le prospettive, tutto l’avvenire, tutta la situazione presente di questa legge. E’ necessario che noi vediamo questo aspetto ontologico della obbedienza. Noi ci completiamo. Noi diciamo: i bambini debbono obbedire, anche i giovani debbono dar retta ai vecchi. Perché? Ma perché così si completano, non possono sapere tutto. Si completano nella volontà, perché alle volte la volontà è debole, non ce la fa; è soltanto con l’obbedienza che riescono a ingranarsi e a prendere la buona strada. – Potrei continuare fino a domani, ma debbo finire. Badate che la obbedienza è la nostra ricchezza. Ecco, forse bisogna trovarsi al punto in cui non si ha più da obbedire a nessuno per capire che cosa voglia dire l’obbedienza. Credetelo pure. Quando si ha solo da comandare e quasi sempre solo da comandare, allora si capisce che cosa sia il « bonum obœdientiæ », come sia tranquilla l’anima quando si ha soltanto da obbedire e come difficilmente riesce ad esserlo quando ha solo da comandare. Vi ho detto tutto questo perché capiate che obbedire non è una vergogna, è semplicemente una grande furbizia, oltre a essere una grande tranquillità, condizione della santità e dell’amore di Dio. È veramente il fondamento della pace la obbedienza. Il nostro orgoglio dice di no; ma non crediamo al nostro orgoglio. Il nostro orgoglio è la causa del 99% degli inutili dolori della nostra vita. Non diamo retta al nostro assassino che è il nostro orgoglio. – Ma a chi si obbedisce? A tutti, ma a uno solo, a Dio. Perché io obbedisco alle leggi? Perché è Dio che dà la forza alle leggi, a qualunque legge civile e morale. Perché obbedisco ai superiori? Perché è Dio che ha voluto che al mondo ci fossero dei superiori costituendo la Chiesa, la società civile, volendo la società; e società non esiste senza autorità e senza legge. Pertanto Dio ha voluto l’autorità e la legge. Obbedire ai genitori in quello che a loro compete, perché è Dio che li ha costituiti tali. Obbedendo alle tradizioni e ai regolamenti, io obbedisco a Dio. Perché a un uomo, a qualunque uomo, da solo, non ci sarebbe mai ragione di obbedire; non dobbiamo fare gli uomini più grandi di quel che sono, attribuendo alla loro persona, in quanto tale, ciò che non ha. E anche quando si accetta una preminenza magisteriale, si accetta quello che dice il maestro perché è maestro, si sa che sa. Questa non è la vera obbedienza, è l’accettazione libera, di cui liberamente ci si convince. Là c’è la saggezza, là c’è un tesoro, e allora si attinge a quel tesoro; e là si obbedisce a Dio. – Ma si deve obbedire in tutte le circostanze, perché le circostanze sono quelle che mi vengono dalla volontà di Dio. Se oggi mi dovessi trovare a fare 5 o 6 ore insieme con una persona fastidiosissima, potrei anche tentare di fare qualche sforzo per cercare di esimermi; questo è onesto; ma supposto che non ci si riesca, che cosa vuol dire? Vuol dire che Dio vuole che io mi subisca quella persona fastidiosa. Ed ecco che i fatti mi parlano della volontà di Dio. Se oggi piove, io devo accettare che piova; è inutile che stia a fare il muso perché piove. È la volontà di Dio che piova e basta, tutto finisce lì. I fatti. Voi credete che si obbedisca solo ai superiori? Si obbedisce a tutto, anche ai fatti. Io vado per la strada, sento uno che fa un gran rumore. Beh, cosa posso fare? Posso toccarlo con una bacchetta magica quel rumore, farlo scomparire? No. Il mio dovere è di stare lì; non posso toglierlo, è dunque la volontà di Dio che non vuole che lo tolga. C’è poco da fare. Io obbedisco a Dio accettando i fatti. Questa non è la stupida passività indiana. Io posso reagire contro i fatti fino a cercare di rimuovere l’ostacolo; ma quando non posso reagire o reagendo è lo stesso, vuol dire che Dio vuole che non lo smuova. Non ho niente da fare. – O si obbedisce a tutti o non si obbedisce a nessuno. Perché si obbedisce a uno solo che è Dio. Ai fatti, ai regolamenti, alle persone si obbedisce perché tutti, nella loro quota, sono rappresentanti della divina volontà, portatori della divina volontà. Ma siccome a Dio, Autore della divina volontà, si obbedisce con l’intelletto, perché principio della verità, voi capite perché occorre sempre che ci sia l’obbedienza intellettuale. Dio vuole che noi obbediamo perché così gli diamo una prova di amore. Nell’obbedienza Dio non ci ha dato l’incarico di misurare la ragionevolezza degli ordini, no, perché non è quello l’oggetto; l’oggetto sta nell’accettare con amore la sua volontà e non la ragionevolezza degli ordini. Pertanto non è giusto misurare la ragionevolezza degli ordini, salvo il caso in cui è ammesso discutere, come è ammesso in democrazia. La democrazia rivela sé stessa in questo, poiché lascia discutere intellettualmente, mentre esecutivamente deve essere obbedita, perché la legge accettata dal Parlamento io in coscienza la devo osservare anche se la posso criticare. La democrazia mi consente di dire : questa legge non va bene; però devo obbedire. Badate che, salvo l’ambito della democrazia, non si distingue la obbedienza esecutiva dalla obbedienza intellettuale. Naturalmente anche in democrazia la critica non deve essere sciocca. Criticherà chi può: una certa abituale e ristrettissima distinzione tra l’obbedienza intellettuale e quella esecutiva può essere soltanto in un limitato settore, per limitate persone della democrazia politica. Dunque non è umiliante obbedire, perché l’essenza dell’obbedire è che Dio vuole che facciamo la sua volontà. Non si può obbedire con riserva, perché l’essenziale è che io accetto Dio. Quando c’è di mezzo Dio, vogliamo stare a badare al resto? La via della santità passa di qui; non sperate che vi sia santità senza obbedienza.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (12)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(12)

14. L’amore di Dio

Poiché non è possibile realizzare la perfezione cristiana senza l’amore di Dio, la carità verso Dio, è necessario che noi ne parliamo. E così, accanto allo spirito di fede, accanto allo slancio della speranza, bisogna mettere l’ordine della carità. Naturalmente io parlo dell’amore di Dio sotto il profilo di questi Santi Esercizi. Ne parlo cioè in quanto per realizzare pienamente la perfezione bisogna realizzare pienamente l’amore di Dio nella nostra vita: questo è il punto di arrivo. Ma guardate un po’, non è soltanto un punto di arrivo, è uno strumento per arrivarci. Pertanto l’amore di Dio va considerato, non solo come quello che realizziamo ora; ma quando avremo fatto tutto, lo avremo realizzato perfettamente. Bisogna realizzarlo giorno per giorno; esso è termine ed è via nello stesso tempo; lo si raggiunge avendolo; lo si aumenta usandone. Allora vi prego di tener presente le seguenti considerazioni.

Prima considerazione. Che cos’è l’amore di Dio? Cerchiamo di avere qualche idea semplice e chiara. L’amore è essenzialmente un atto di volontà, né più né meno. Quindi è un atto che si compie nella sfera dell’anima, il suo livello è l’anima. Esiste anche un amore sensitivo, ma è un’altra cosa, appartiene al numero delle passioni filosofiche; l’amore sensitivo, che è vibrazione del sentimento, vibrazione che porta ad avvicinare, ad appetire, può essere utile, come è utile il sego sullo scalo per far scivolare la nave quando deve essere varata. Ma questo non è l’amore. L’amore è un atto di volontà. E quale atto di volontà? È un atto appetitivo della volontà, ossia l’atto col quale la volontà vuole qualcosa e il bene di qualcosa. Amare una persona nel senso dignitoso e netto, senza complicanze di carattere diverso, volere bene a quella persona, volere il bene di quella persona. Amore di Dio che cosa vuol dire? Vuol dire volere Dio, tendere a Dio, volere Lui e volere il bene suo. Intendiamoci, non è che noi glielo possiamo dare, ma Lui, che è sommo Bene, diventa termine del movimento dell’anima nostra. Questo è amare Dio, ridotto così, schematicamente, semplicemente, con termini inequivocabili. Vi prego di averli presenti. Quello che io chiamo amore, cioè amore sul serio, amore non ridicolo, amore non contaminato da sentimenti e da attività che sono perfettamente impropri, accezioni assolutamente contaminanti. L’amore di Dio è questo. Il discorso non è finito. Per quale motivo si deve amare Dio? Come per l’atto di fede, ci vuole un motivo. Quale è il motivo dell’amore di Dio? È il bene stesso che è in Dio. Dio lo si ama perché è Lui il Sommo Bene. E pertanto il sommo appetibile. È la caratteristica delle virtù teologiche, che hanno per motivo Dio stesso. Nella virtù della fede è Dio rivelante il motivo dell’atto di fede; nell’atto di speranza è Dio promettente e fedele il motivo dell’atto di speranza; nell’atto d’amore è Dio Sommo Bene. Naturalmente nella dizione: Dio Sommo Bene, ci possono entrare tutte le manifestazioni con le quali Dio ha mostrato il suo amore per noi, la sua paternità e tutto quello che rientra nell’amore di Dio. – E’ per questo che l’amore di Dio è una virtù teologica. Perché non ha soltanto per oggetto Dio, ma ancora Dio per motivo unico e adeguato. Notate bene che l’amore perfetto di Dio non esclude un motivo di ordine secondario, esclude solo che quest’ultimo motivo sia primario e determinante; non esclude cioè che Dio, che si ama primamente e per sé, perché è bene in sé stesso, in secondo luogo lo si ami anche perché è bene per noi. Ma capite che se si amasse Dio soltanto perché è bene per noi, l’amore non sarebbe più puro. Sapete la distinzione che c’è tra l’amore di benevolenza e l’amore di concupiscenza. Parlo di concupiscenza in senso filosofico, non morale, evidentemente. L’amore di benevolenza si ha quando si ama una cosa per sé stessa. Ed è per questo che l’amicizia deve sempre essere di un amore di benevolenza; se non è fatta d’amore di benevolenza, è finita. – Invece l’amore di concupiscenza si ha quando una cosa si ama perché ne viene bene a noi. Quando si ama di un amore di concupiscenza, chi è che si ama? L’amante ama sé stesso. Uno vuol bene ai cuscini perché gli salvano le ginocchia, cioè vuol bene a sé stesso. Vi prego di osservare che i tre quarti dell’amore, a questo mondo, sono amori di concupiscenza; in questo senso che sono società di mutuo sfruttamento. Di amori di benevolenza ce ne sono piuttosto pochi, questo senza affatto voler diminuire i nostri simili. Molti matrimoni sono fatti d’amore di concupiscenza, è vero? Infatti durano poco. Perché l’uno ama l’altra? Perché gli viene bene. L’altra ama l’uno perché le viene bene. È fatto così questo amore di concupiscenza; è soggetto ai quarti lunari, c’è e non c’è, viene e non viene, non ha una consistenza solida. Ecco, il motivo di concupiscenza non può essere mai il primo motivo dell’amore di Dio; non può esserlo mai perché l’amore di Dio sarebbe degradato, perderebbe di essenza teologica. Noi in realtà non ameremmo Dio ma noi stessi. Non si fermerebbe a Dio il nostro amore; ritornerebbe sopra di noi e, in fondo, finiremmo con l’avere la religione di noi stessi, non la religione di Dio. Riflettete quanto sia importante decifrare, definire il motivo vero, primo, per cui si deve amare Dio. Però Dio è il più umano di tutti, non esclude che più giù, come piccola e umile appendice al primo motivo, ci possa essere anche il secondo: noi lo amiamo perché viene bene anche a noi. E lo possiamo dire questo, perché ce lo ha insegnato Lui: ci ha insegnato Lui a desiderare la vita eterna, e pertanto ci ha autorizzato a metterci anche un po’ di questo, ma sotto, in secondo piano, anche in terzo, in quarto. – C’è stata nel ‘600 una donnetta, una vedovella, una certa Guyon, che si era messa a spifferare certe sentenze sul perfetto amor di Dio che escludeva i motivi secondari; e c’è cascato anche il suo confessore, che era, nientemeno, l’Arcivescovo di Cambrai, Fénelon, il grande Fénelon. Ma le faccende sono andate male per il Vescovo e per la vedovella. Perché c’è stata la condanna di Roma. Questa storia dell’amore puro di Dio è una concezione errata; Dio stesso ha voluto che noi volessimo il nostro bene. E allora un posticino, recondito, più in giù, lo si può lasciare. Vedete la discrezione, l’equilibrio umanissimo della Chiesa! Le teorie dell’amore puro furono condannate; e là si vide la grande virtù di Fénelon, e fu il più grande gesto che egli ha fatto. Quando arrivò la condanna, fu lui che montò sul pulpito della Cattedrale di Cambrai e lesse al popolo la sua condanna dicendo: « Non potrei essere il vostro Vescovo se non incominciassi a inginocchiarmi davanti a chi è il mio superiore ». E fece fare poi un ostensorio, nel cui piede si vedeva un angelo che calpestava un suo libro nel quale era contenuto qualche riflesso delle teorie della Guyon. Questo ho voluto dirvi perché a nessuno di voi venga in mente che questo amore di Dio abbia una maschera spaventosa; no. È un atto di virtù teologica, ma è umano. Non esclude che al secondo posto si ami Dio anche per il nostro bene, perché il nostro fine, la nostra felicità e la nostra corona sarà Dio stesso. – Ma come si fa a prendere questa volontà e mandarla verso Dio? Come si fa praticamente a tenere questo arco teso verso l’infinito? Perché dire che costituzionalmente l’amore di Dio è questo, si fa presto, ma a realizzarlo! Perché quando si passa dal dire teorico al fare pratico, potrebbe sembrare che niente ci sia di più difficile che prendere la volontà e spingerla avanti, come se fosse un missile. Come si fa? Veniamo al concreto. Ce l’ha detto Nostro Signore Gesù Cristo come si fa. Per amare Dio e volere Dio, si fa quello che vuole Dio. Ecco il modo col quale questa volontà tende concretamente, praticamente, obbiettivamente verso Dio. Gesù ha detto: « Non chi dice: Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre ». E pertanto Gesù ci ha insegnato come si fa ad amare Dio e ha confermato che il primo dei precetti è questo: « Ama Dio con tutta la tua mente, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze ». Ossia saranno gli atti buoni della tua mente, della tua anima conformi alla divina volontà; sarà il pieno uso di tutte le tue forze secondo quella divina volontà che realizzerà l’attenzione, la gettata della volontà verso Dio. E questo mi pare che sia abbastanza semplice, e sicuro, perché ce l’ha detto Nostro Signore Gesù Cristo. Ma, arrivati a questo punto, noi dobbiamo preoccuparci di scendere a qualche dettaglio più pratico, perché la cosa diventi afferrabile nei dettagli dei fatti e non lasci in ombra qualche cosa che è di somma importanza. L’amore di Dio per realizzarsi deve passare attraverso gli atti concreti e conformi alla divina volontà. Ma questo impone al nostro amore di Dio di andare a passare da certe parti, e se da quelle parti non ci si passa, non si arriva lassù. E qui viene qualche cosa di duro, come ho già detto: « Chi non prende la croce e non mi segue non è degno di me ». E Gesù ha detto di sé stesso: « Io amo il Padre perché faccio la volontà del Padre » e l’ha detto a proposito della passione. Nell’orto degli Olivi ha detto: « Passi da me, se è possibile, Padre, questo calice; però non la mia, ma la tua volontà ». « È un battesimo, aveva detto un’altra volta, del quale ardo di essere battezzato », e questo battesimo era la sua croce. Ossia l’amore di Dio deve passare per il cammino della croce. Gesù continua, e il secondo comandamento è simile al primo: « Ama il prossimo tuo come te stesso ». Se l’amore di Dio non passa attraverso il prossimo, perde la strada, e a Dio non ci si arriva. Ecco, questo è il punto. Noi non amiamo Dio se non amiamo quello che vuole Dio, e Dio vuole che amiamo il nostro prossimo. Il nostro amore verso Dio è autentico quando è passato attraverso l’amore del nostro prossimo. È necessario vedere il carattere completivo dei due oggetti nei quali si ripartisce l’atto teologico della carità e dell’amore: Dio e il prossimo. Notate bene, sono tutt’e due atti di carità perché hanno lo stesso motivo. Il prossimo lo si deve amare per amore di Dio, cioè per lo stesso motivo per cui si ama Dio; e pertanto anche l’amore del prossimo è virtù teologica perché ha lo stesso motivo per cui si ama Dio. Ma se non si vede il carattere completivo dell’uno rispetto all’altro, ci si sfasciano nelle mani tutt’e due, ci si sfascia l’amore di Dio. Perché non si illuda di amare Dio chi non ama il prossimo, e non si illuda di amare il prossimo chi non ama Dio. La proposizione è reversibile, e capite perché. Se il prossimo si ama per amore di Dio, allora ce la si fa ad amare; ma se non lo si ama per amore di Dio, io vi sfido tutti a dire quanto dura. Perché, che volete mai? una parte del nostro prossimo si presenta qualche volta, a cominciare dall’esteriore, scostante: come si fa ad amarlo? Ci vuole altro! Se si ama Dio, ci si riesce, e ci vuole tutta; ma se non si ama Dio, è garantito che non ci si riesce. Sono tutte storie quelle che vanno predicando qua e là sull’umanitarismo; sono tutte sciocchezze alle quali non credono neanche loro. – Quelli che non vogliono sentir parlare nemmeno di Dio, tanto meno di amor di Dio, ridacchiano tranquilli, ma perché non amano sul serio, amano perché fa loro comodo, finché una persona abbastanza presentabile, abbastanza simpatica, abbastanza vicina. Nossignori; si deve amare anche chi è antipatico, anche chi ci ha fatto del male, i nostri avversari, i nostri nemici, i nostri assassini, anche quelli si devono amare. – Un giorno quei farisei sofisti che Gesù aveva sempre tra i piedi, gli hanno chiesto: « Ma chi è il nostro prossimo? ». Speravano che Egli, dopo aver parlato tanto del prossimo, facesse una certa cernita, e naturalmente ci mettesse loro, e poi tutti quelli che essi non amavano li escludesse. Guardate che cosa ha combinato Gesù. Ha raccontato una parabola in cui, a far la parte dell’amante del prossimo, ci ha messo un loro nemico, uno dei loro pessimi nemici, un samaritano, e a fare la parte di amato come prossimo ci ha messo un giudeo. Quelli si devono essere tagliati la lingua fra i denti. Ma Gesù ha dato loro questa risposta: Signori giudei, vostro prossimo sono i peggiori uomini che esistano al mondo, cioè i samaritani, e per farveli andar giù anche meglio, la parte bella la faccio fare a un samaritano, non a voi. Anche il peggiore degli uomini bisogna amare. – Costa, sapete, costa. Andate un po’ nel mondo, impicciatevi di tante e tante cose, vedrete come costa. Fintanto che il prossimo si vede in una comunità ordinata, anche lì ci vuole un po’ d’amore di Dio sul serio per resistere. Ma quando vi saltano fuori dei campioni, delle facce così false, dei filibustieri, dei mentitori, dei rivenditori di menzogne, delle vere canaglie negli affari, degli avversari politici, è garantito che bisogna tirar fuori l’amore di Dio e attaccarcisi con tutte e due le mani, altrimenti non ci si riesce. – Allora, che cosa è interessante qui, per arrivarci e perseverare? Fare la volontà di Dio e accettarla. Voi vedete come l’atto d’amor di Dio ha bisogno della obbedienza. Senza l’obbedienza, si sfascia l’amor di Dio nella nostra vita. Perché se non c’è questa accettazione, questo continuo piegarsi al Nostro Creatore, al nostro Padre che sta nei cieli, non si ama Dio. L’amore ha bisogno dell’obbedienza, ed è per questo che si deve fare un discorso speciale sulla virtù dell’obbedienza. Perché bisogna che nell’anima di nessuno rimanga l’equivoco che uno possa credere di amare Dio distruggendo in sé il principio della subordinazione a tutto quello che, in un modo o nell’altro, nelle persone, nei fatti, nelle leggi, nelle tradizioni, nei costumi, ci porta l’eco della divina volontà. Però se l’amore di Dio per realizzarsi ha bisogno dell’obbedienza, ha bisogno anche di un’altra cosa, ha bisogno del distacco dai beni terreni, perché è più che evidente, nella sua logica intuitiva, che un atto col quale si va verso Dio comporti l’allontanarci dalla terra. Se è atto di congiunzione tra due punti che sono distanti, avvicinarsi all’uno equivale allontanarsi dall’altro. Com’è possibile amare Dio, se non si distacca il cuore dai beni terreni? E allora l’esercizio del distacco del cuore dai beni terreni — che è certo la più grandiosa realizzazione della nostra esistenza, in quanto ci dà la vera libertà, la vera fierezza, la vera intoccabilità e la vera extraterritorialità dal mondo — diventa condizione necessaria per la sincerità dell’amore di Dio. Perché se il mio cuore se ne rimane terra terra, se io amo disordinatamente le creature, non arrivo a Dio, vado in direzione opposta. Il polo mio non è quello, io sono bell’e extrapolato, se non mi sono distaccato sufficientemente dalle creature. Voi sapete che questo distacco dalle creature non significa che si debbano disprezzare, non usare, non amare, vuol dire che devono essere ricercate non più di quello che possono essere ricercate, per amore di Dio, come ponti per arrivare a Dio, non come strade diversive da Dio. Il distacco del cuore dalle creature non vuol dire che si debbano odiare o che si debba loro negare l’amore che meritano; ma questo deve essere un mezzo per arrivare a Dio, non un tiranno sopra di noi che venga a escludere l’amore di Dio; ma queste cose terrene devono rimanere strumenti, non padroni. E pertanto il distacco del cuore dai beni terreni non è disumano, ma è soltanto un mettere ordine. Quello che è strumento deve rimanere strumento. Il mio vestito non è il padrone, è il mio vestito. Non sono io il servo del mio vestito, è il vestito che deve servire a me. È uno strumento. Se io metto tutta la gioia nel mio vestito, sono uno scemo, perché sono io che faccio da servo al mio vestito e non viceversa. È uno strumento il danaro; sta sotto, io devo star sopra. Questo deve essere il mio strumento, non il mio padrone; se comanda, se è il mio valore e la mia gioia, se apre e chiude la porta del mio cuore, se fa a me i giorni belli e brutti, se mi fa la faccia bella e brutta, se mi spinge più in là che di qua, se mi dà ordini, se mi fa diventare iracondo, violento, interessato, e io come un cagnolino eseguo tutti questi suoi ordini, sono il ridicolo, ridicolissimo servitore del mio servo. Capite che cosa vuol dire avere il cuore distaccato dai beni terreni? Non vuol dire né il disprezzo né il non uso; vuol dire tenerli al loro posto di strumenti, non di padroni. E se sono cose più nobili, come le persone, anche allora devono stare al loro posto di archi del ponte per arrivare a Dio, non di sponda alla quale io devo arrivare. Se invece di fare da archi per portarmi a Dio, fanno da sponda, allora debbo ricordarmi che il Signore ha detto: « Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me ». Tutte le cose possono essere amate per quel che sono, per quel che valgono obbiettivamente, per quella che è la loro funzione. Il distacco del cuore dai beni terreni, la povertà di spirito non è una grande rivoluzione, un atto di violenza, un gran saccheggio, una strage degli innocenti, una calata di barbari, un sacco di Roma. Niente di tutte queste cose; è semplicemente che le cose facciano quello che hanno da fare; il tappeto faccia da tappeto, io ci cammino sopra. Ricordatevi che come l’amore di Dio deve passare attraverso l’amore del prossimo, altrimenti non è degno; come deve passare attraverso la obbedienza, perché la obbedienza è quella che ci permette di fare la volontà di Dio, così deve avere come base di lancio il distacco del cuore dai beni terreni. Altrimenti noi diciamo di amare Dio, ma non è vero; ameremo noi stessi, ci illuderemo, ci metteremo davanti qualche idolo scrivendovi sopra: Dio Padre; ma è un idolo, non Dio. Questo è in concreto amare Dio. Io non vi ho parlato di sospiri: amore, amore! Sospiri languidi, infinito di qui, infinito di là, tesoro di qui, tesoro di là. Beh, se vi vengono bene, ditele pure quelle parole; ma c’è molto pericolo che queste parole facciano perdere la strada. Ecco quello che noi dobbiamo dire, con assoluta fermezza, prima di concludere la nostra meditazione: attenti! l’amore di Dio va difeso da tutte quelle modanature dolciastre di cui facilmente cerchiamo di circondarci per avere l’illusione di trovare in quelle Dio, mentre in quelle troviamo semplicemente la soddisfazione dei nostri istinti. Attenti, l’amore di Dio è una cosa di acciaio, è una cosa forte, è una cosa rude. Di natura sua, non è volto alla dilettazione. Qualche volta la porta anche; e se la porta, ringraziamone il Signore; ma non è affatto vero che dobbiamo averle le dolcezze, le esperienze superne che fanno parte della nostra patria futura. – Ricordatevi che Lutero si è rotto il collo per avere sbagliato qui; da tipo pazzoide e squilibrato com’era, s’è gettato alla mistica, lui, un frate agostiniano. E della mistica si è messo a ricercare la dilettazione divina, i gaudi del paradiso. E’ per questo che vi dico: l’amore di Dio, nel suo concetto e nella sua pratica va difeso dal sentimentalismo. L’amore di Dio è tanto più meritorio quanto più viene a essere, così permettendolo il Signore, nei momenti della nostra prova, spoglio di ogni consolazione interiore. La famosa notte oscura è uno di quei momenti a cui mi permetto di richiamare quelli che hanno letto i mistici: ma la notte oscura non occorre essere mistici per averla provata. La notte oscura sta anche al di qua del livello della mistica. Quando proprio le papille sono tutte cauterizzate e non si sente più nulla, quando pare di essere diventati sordi e non si avverte più, quando è notte fonda, senza luna e senza stelle, quando non c’è più niente che vibri, morti con una sopravvivenza puramente cerebrale, allora è la notte oscura. Oh, non occorre essere mistici per aver provato la notte oscura. Però v’avverto che sono i momenti di notte oscura quelli in cui si ama Dio sul serio. Quando non c’è proprio nessun diletto, quando tutto è volontà nuda e cruda. Allora veramente si ama Dio. S. Teresa, dopo essere entrata nel suo tirocinio, è stata per 18 anni nella notte oscura. In quegli anni ha provato persino a non credere all’esistenza di Dio. I 18 anni, come piacque a Dio, finirono, e quando finirono, essa era S. Teresa. Da allora il cammino dell’anima sua è stato trionfale, perché si è aperto, fino alla fine della vita, in una forma che è accaduta poche volte nella storia della Chiesa. Ma badate 18 anni! Viene freddo, sapete! Che cosa avremmo fatto noi? Per 18 anni, niente! Che queste mura non dicano niente, che questo altare non dica niente, che Dio non dica niente, che quel tabernacolo non dica niente, che il Crocifisso non dica più niente, niente per 18 anni. È proprio una gran santa quella! Sapete, gli spagnoli dicono che Santa Teresa si è preso un quarto del cervello di ogni donna; metà se l’è preso la Madonna, l’ultimo quarto è da dividersi fra tutte le altre. Io non accetto questo proverbio spagnolo, ma è una forma paradossale per fare l’elogio di una delle donne più grandi che abbia conosciuto il genere umano. Dico il genere umano. Anche come letterata, essa fa testo nella letteratura spagnola. Ma quei 18 anni! – Arrivare così a questo amore, difenderlo, spogliarlo da ogni cosa eterogenea e distante, liberarlo da ogni contaminazione, proteggerlo da ogni ombra, purificarlo da ogni sospetto, poterselo portare in mano per l’ultimo giorno e poter dire: Dio, Signore, Padre, io ti amo! Perché agli altri possiamo anche raccontare qualche storia, in fatto di amore, ma a Dio non possiamo raccontare storie; e allora la vita deve essere tesa a una serenità austera, ma che la innerva, che le dà fierezza, grandezza, decoro e dignità, purché si arrivi a questo atto ultimo che riassume la vita, l’amore di Dio. Il resto passerà; si spegnerà la nostra fede quando vedremo Dio; si spegnerà la nostra speranza, quando l’avremo raggiunto; ma non si spegnerà mai l’eterna carità. E pensare che questa ce la stiamo facendo ora. E allora facciamocela!

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (11)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(11)

13. L’orazione

Per quanto già abbia sommariamente parlato di uno degli strumenti fondamentali della perfezione cristiana, che sono il Sacrificio e i santi sacramenti, io debbo parlare di uno strumento che a quelli è connesso e che è dirimente, perché in un certo senso, non per la dignità e per il valore, ma per la logica, direi che li precede. É la orazione. La orazione non è il primo strumento della santificazione, della nostra perfezione, perché il primo strumento sono i santi sacramenti e il santo Sacrificio; però deve ritenersi che molto meno si attinge dal Sacrificio e dai sacramenti se non c’è l’orazione nella vita; vorrei dire che, secondo l’ordine di natura, non di dignità, in un certo senso l’orazione è il primo strumento della nostra perfezione. Dobbiamo parlare della orazione sotto un determinato profilo, cioè in quanto e come essa serve alla perfezione più completa della nostra vita. Credo che bisogna formulare questo principio: noi progrediamo nella perfezione, risolviamo le nostre questioni spirituali, questioni esterne e questioni interne, nella stessa proporzione con cui siamo impregnati di orazione. Ricordo che quando ero piccolo credevo che i Santi fossero tali perché stavano inginocchiati tutto il giorno con le mani alzate. Avevo visto qualche immagine in cui erano rappresentati così ed ero convinto che per essere santi bisognava stare tutto il giorno inginocchiati con le braccia alzate, ragion per cui disperavo di poterlo diventare. Vedete che idea della santità! Però dopo tanti anni ritorno a dire che la prima intuizione che ho avuta da bambino era più giusta di tutte. A parte le ginocchia che non ce la farebbero, a parte le braccia che non ce la farebbero, a parte sto fratel-corpo che non ce la farebbe a stare così, la verità è che i santi si fanno con la grande orazione. – Noi oggi studiamo la orazione non in sé stessa, per sé stessa, ma in quanto serve alla perfezione. Voi l’avrete studiato tante volte; ma io debbo dirvi con assoluta certezza che quando si tratta di via della perfezione, con l’orazione risolviamo tutto, è certo: sormontiamo tutti gli ostacoli, è certo; realizziamo tutte le nostre soprannaturali mire, compatibilmente con la sottomissione ai disegni della divina volontà. E Gesù Cristo l’ha detto, questo, e l’ha detto chiaro quando ha parlato della infallibilità della preghiera. – La preghiera è sempre efficace. Non sempre ottiene l’oggetto per cui preghiamo; noi siamo così corti che possiamo domandare a Dio il nostro danno o il danno di tutti. Perché ci sono delle orazioni che, se Dio le accogliesse, sarebbero a danno nostro, a danno dei nostri fratelli, a danno di tutta la comunità; noi guasteremmo tutto con le nostre preghiere; se Dio sempre le accogliesse, squinterneremmo tutto; ma Dio questa brutta figura non ce la fa fare, e allora cambia l’oggetto. Domandi questo che ti fa male, prendi quest’altro che ti fa bene! – Ma quando si tratta della perfezione, siccome la perfezione è un oggetto giusto, saremo sempre ascoltati, anche se, trattandosi di mezzi di perfezione, Dio può benissimo cambiarli facendoci passare per una strada un po’ più diretta o un po’ più nascosta o per una strada meno evidente alla nostra intelligenza ma di cui Lui sa e conosce con infinita certezza la maggiore efficacia. Quando si tratta di perfezione, siccome non sempre giudichiamo bene dei passaggi e degli elementi intermedi, Dio li può sostituire; ma sull’oggetto generale della perfezione Dio ci ascolta sempre, se abbiamo la persistenza della preghiera. Questo è l’annuncio più bello che io vi devo fare in questi Esercizi. Siamo partiti dicendo: studiamo la perfezione cristiana, perché la perfezione cristiana non è una chimera, è una proposta che Gesù Cristo ha fatto agli uomini. Questa sera sono in grado di dirvi che la questione può essere risolta con certezza. Tutti possiamo arrivare alla perfezione, purché la orazione entri dentro da impregnarla tutta, da farla tutta quanta vibrare, da costituirla tutta in una luce nuova senza violentarla. Vedete, come si facevano i cornicioni? Come facevano a far sostenere anche sbalzi di due o tre metri? Mettevano un mattone che sporgesse qualche centimetro, e su quello comprimevano; e poi un altro mattone che sporgesse qualche centimetro, e su quello comprimevano: a questo modo i cornicioni sporgevano di qualche metro; erano fatti di mattoni che sporgevano ciascuno per qualche centimetro. Anche nella vita spirituale Dio ci ha dato questa risorsa. Noi non dobbiamo affrontare le questioni in blocco, non affrontarle per il loro peso, per il loro volume. Basta che ne risolviamo una piccola parte iniziale; con quella si rimette a posto tutto. Ci saranno passioni: orazione, e vanno a posto tutte; istinti indiavolati: orazione e anche quelli sono domati; sentimenti mezzo matti: orazione e li mette a posto; passato subcosciente e incosciente, temperamenti fatti a rovescio, sensibilità che sono clamorose: non temete, orazione, e va tutto a posto bene. Ma orazione, ricordiamo, a un certo modo. Come vedete, io uso la parola orazione piuttosto che la parola preghiera, perché la prima: orazione è quella meditativa, quella mentale, quella della quale io ho avuto modo di dirvi che, a nutrirla e a sussidiarla bene, può diventare, senza varcare il limite dell’ordinario, contemplativa; quando cioè la intuizione intellettuale vede senza bisogno di troppo raziocinio e, vedendo, penetra senza variarne la proporzione, come se la luce la imbevesse, la pace la componesse e l’illuminazione suprema tutta la impregnasse. È la meditazione la grande orazione. Quand’è che le ruote della orazione mentale si muovono? Quand’è che la orazione mentale può arrivare a quella posizione di quiete contemplativa? Quando è preparata. Come la si prepara? Badate che è nella preparazione il segreto della sua risposta. Io conosco molta gente che dice: Mi metto a fare la meditazione e la testa è sempre fuori, oppure è come un arancio secco; spremo, spremo, spremo, non viene fuori niente. Beh, questo potrà essere anche spiegabile per tante circostanze contingenti e non abituali. Però, perché generalmente accade questo? Perché non c’è preparazione alla orazione. E come si fa questa preparazione? Ve ne dico gli elementi: quanto più essi entreranno nella nostra vita, tanto più diventeremo dei contemplativi senza per niente diventare dei distratti. Io conosco delle persone che fanno la meditazione tutto il giorno, e sono persone che vivono con gli occhi aperti; l’abitudine è diventata tale che tutto il giorno, dalla mattina alla sera, sono in contemplazione. Nessuno se ne accorge né se ne può accorgere, ma praticamente essi ci sono dalla mattina alla sera. Questo spiega tutto. – Badate, è la preparazione che tiene il segreto della meditazione, perché chi crede che il lavoro della meditazione, dell’orazione mentale comincia nel momento in cui si fa il segno della santa Croce, si dicono quelle due preghiere, si apre un libro e si comincia a leggere, sbaglia. Può essere che gli vada bene, sì, ma può essere che non gli vada bene. – La preparazione è fatta di un avvistamento dell’argomento prima, ed è per questo che è assolutamente necessario che per la meditazione che si fa il mattino l’avvistamento del tema sia fatto la sera prima. Non pare, ma è questo il primo elemento germinativo della meditazione. Deponete un germe, un fermento nell’animo, lasciate che lo afferri il subcosciente, che lavora sempre anche quando noi dormiamo, e vedrete che cosa potrà essere domani. Io credo che molti non facciano alcun caso a questo, mentre è tanto importante. Avvistare prima e permettere poi che quella officina sotterranea che in noi si chiama subcosciente, che Dio ha mirabilmente costruito e di cui noi non conosciamo le leggi, ma di cui conosciamo soltanto la esistenza e di cui talvolta comprendiamo gli effetti, agisca per noi. Siamo furbi, mettiamo a profitto anche il dormire. Perché in questo caso viene a profitto anche il dormire. Ora guardate di quali altri elementi si può avvantaggiare la preparazione. Si avvantaggia del silenzio; per questo c’è da raccomandare di osservare il massimo silenzio il mattino prima di fare la meditazione, salvo quelle parole che sono necessarie per la cortesia, per l’urbanità, per l’ufficio. È questo silenzio, anche non meditativo ma silenzio, che lascia filtrare qualche cosa, che prepara alla meditazione del mattino. Ma non basta; c’è anche una preparazione più “a longe”, ed è ogni argomento spirituale che si tratta nella giornata. Non parrebbe, vedete, che il parlare di argomenti spirituali, il far volgere il discorso a qualche cosa di spirituale, il fare la lettura spirituale debba servire alla orazione; ma non è così. È come lasciar acceso in sordina un motore che non si spegne mai; è l’abitudine, durante la giornata, di spingere le constatazioni e le cose che si vedono, anche le più umane, le più modeste, le più materiali, le più ordinarie a considerazioni di fede: cosa che non costa ed è facilissima. Questo è veramente lasciare il motore in sordina sempre acceso. Se ne prende l’abitudine anche senza parlare, perché tante volte si è in mezzo a gente con la quale non si possono fare discorsi spirituali, perché se si facessero si annoierebbe o si otterrebbe l’effetto contrario; bisogna essere discreti con gli altri. Ma con sé stessi, questa abitudine di fare considerazioni spirituali su tutto e di portare tutto, a un certo momento, a una considerazione di fede, sfruttando tutte le cose che si vedono, è sempre possibile. Si vedono immagini della Vergine, immagini dei Santi, un luogo sacro, si ode un suono di campana, si vede una persona buona il cui solo apparire è un buon esempio che dà. Tante cose: sempre considerazioni di fede. Tutto questo crea l’ambiente a longe di cui si beneficia quando ci si mette a fare la orazione mentale. Non solo è una preparazione, ma in questo modo, perfezionandosi senza per niente trasformare la propria vita, facendo quel che si deve, giocando, studiando, facendo il proprio dovere con serenità e con letizia, si può riuscire a cambiare tutta la giornata in un atteggiamento di continua presenza a Dio. – Voi riconoscete facilmente gli uomini che vivono sempre alla presenza di Dio. Non ne parleranno mai, per discrezione, ma sono diversi dagli altri. Ci sono degli uomini dei quali non si sa dire il perché, ma sono diversi dagli altri. Perché sono diversi dagli altri? Perché c’è sempre in loro una lampada accesa; eppure li vedete praticissimi, attentissimi ai loro doveri, socievoli, pronti allo scherzo, alla letizia, all’allegria; proprio quelli sono i motori dell’allegria, perché possono darla agli altri sino a contagiarli tutti. Non si saprebbe dire che cosa c’è in loro. C’è una vita profonda che esternamente non si vede, ma che dal fondo riecheggia; è la preparazione all’orazione mentale. – Ora parliamo di quella non mentale, della preghiera propriamente detta. In realtà la distinzione tra orazione mentale e orazione vocale non è una distinzione adeguata, è una distinzione equivoca, perché qualunque orazione detta vocale deve essere un pochino mentale, altrimenti non è orazione. La distinzione è fatta così, come per sgranare l’argomento in diversi bocconi, non perché esista una sostanziale diversità. Invece è da affermarsi la almeno analoga identità e forse la univoca identità. A ogni modo è certo che la orazione detta vocale è meno impegnativa, è più immediata, costringe meno la nostra capacità raziocinante, disturba meno la nostra inventiva, mette meno in moto tutte le nostre riserve, e pertanto è più facile. Difatti c’è molta gente che arriva a quella vocale; quanto a quella mentale, ne ha paura e quando deve fare la meditazione, dorme e amen, ha risolto il problema così. Ma quella vocale è necessaria. Nella alimentazione materiale ci sono dei cibi che danno 600 oppure 650 calorie ogni 100 grammi. Ma se vivrete continuamente di cibi che danno 600, 650 calorie ogni cento grammi, vedrete che cosa vi succede. Ci vogliono anche gli altri cibi, dei cibi che diano solo 30, 40, 50 calorie ogni 100 grammi. Così nella alimentazione spirituale è necessaria anche la preghiera vocale, senza tener conto di quanto essa è necessaria nella vita di comunità. Quand’è che la comunità cristiana si ritrova? Si ritrova per la preghiera vocale. La preghiera mentale non è un fatto comunitario; comunitario potrà essere l’enunciato, la predica, come la sentite voi; ma se sentiste solo e non faceste altro, sarebbe inutile aver predicato; il bello viene dopo, ciò che succederà nella vostra testa. – Ma la preghiera vocale è essenziale alla vita della comunità cristiana, ed è non meno essenziale alla vita individuale. La preghiera vocale è come quella pioggerella fine, non violenta, che non fa le ampolle per terra; quella pioggia che penetra e che ci vuole per attivare le semenze senza distruggere i virgulti e senza portar via i fiori. Ci vuole la preghiera vocale; è necessaria, è più facile della preghiera mentale; si può insinuare in tutti gli angoli, è un po’ come i motoscooter che si infilano tra le macchine e per questo, quando le strade sono tortuose, passano sempre avanti alle automobili. Ora questa preghiera vocale di che cosa è fatta? Ecco, siccome deve impregnare la vita anche questa, perché resta, come l’altra, condizione per la perfezione da raggiungersi, bisogna studiarla dal punto di vista il più raggiungibile da tutti. Tenete presente che la preghiera vocale non è soltanto quella fatta a formule; quella precede, perché ha le formule divine della orazione tolte dalla Sacra Scrittura, le formule santissime tolte dalla veneranda antica tradizione della Chiesa, e quelle precedono tutte le altre; ma con Dio si può fare un dialogo anche senza formule. Con Dio si può parlare mediante i silenzi, perché Dio capisce anche i silenzi illuminati da una intenzione, i silenzi che non dicono nulla, ma uniscono l’anima a Dio. Anche i silenzi fanno parte del dialogo col Padre che sta nei cieli. E quante volte i silenzi servono mirabilmente, i silenzi aperti e illuminati da una precisa intenzione. Poi il dialogo fatto col Signore verte su tutto. Con gli uomini noi non potremmo parlare di tutto, perché riderebbero. Dio che ci ha creato è l’unico che non ride; con Lui possiamo parlare di tutto quello che abbiamo nell’anima, con una semplicità da bambini. Non abbiamo niente da nascondere a chi ci conosce da tutta l’eternità, e possiamo parlare con quelle modanature che non terremmo con gli altri. Con gli altri dovremmo cercare modanature a seconda dell’altezza della nostra cultura, delle nostre abitudini, intonate al nostro abituale contegno. Con Dio non occorre questo, siamo dispensati. Il dialogo col Signore può essere su qualunque cosa, la più immediata, sto per dire la più senza senso, perché con Dio si può parlare senza mettere troppo in moto il potere raziocinante. L’immediatezza: è questa preghiera che può riempire tutti gli angoli della nostra giornata, questa preghiera che riduce ogni questione a un consiglio di bambini; e questa preghiera fa sì che la orazione si possa attuare sempre, senza sforzo; e allora, fatta così, realizza veramente la presenza di Dio nella nostra vita. E quando piove a questo modo, le sementi germinano. – A questo modo si impone all’evidenza che il primo sblocco delle nostre difficoltà è quello di parlarne con Dio; il primo epilogo di qualsiasi questione si fa col parlarne con Dio. E state tranquilli che quando questo accade, si è con certezza sulla via della perfezione. Come le anime semplici arrivano alla perfezione? Perché c’è tanta gente alla quale nessuno ha insegnato l’ascetica, eppure è sulla via della perfezione? E ce n’è di perfezione, ce n’è di grazia di Dio! Perché hanno avuto la orazione, e con questa hanno trovato tutto. Se occorresse fare delle rivelazioni, Dio le farebbe; ma non c’è bisogno che Dio faccia delle rivelazioni con nubi, con Angeli e altre cose; non occorre affatto, perché Dio ha modo di parlare alle anime; e le anime non se ne accorgono, ed è bene che non se ne accorgano, ma è Lui che detta. E questo accade molto più di quanto non si creda. Perché? Perché hanno l’orazione. Quale orazione? Talvolta non sanno dire altro che l’Ave Maria: Ave Maria! Ave Maria! Rosari su Rosari! Non state a osservare che non hanno cominciato dalle forme cerebrali; non importa; hanno messo il cuore nel dire l’Ave Maria, e nella seconda Ave Maria ce ne hanno messo un po’ di più. E il resto com’è stato? Mah, non si sa come è stato, però alla perfezione ci sono arrivati, il che vuol dire che la amministrazione del loro intelletto è stata, agli effetti della perfezione, maggiore di quella che forse può avere un grande teologo. Hanno avuto l’orazione e con quella hanno trovato tutto.

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (10)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(10)

12. La legge dell’amore

Inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale è condizione essenziale per raggiungere la perfezione. Ho detto le diverse condizioni per inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale. Alcune le ho dipanate, un’altra l’ho lasciata da dipanare, vi ho accennato soltanto per compiutezza d’elenco, ed è questa: il nostro comportamento morale coerente a quell’ordine. – Si tratta di questo. A Dio, il quale oltre l’ordine della creazione ci ha dato l’ordine soprannaturale e la Redenzione, noi dobbiamo dare qualche cosa. Questo è estremamente logico. A Dio che ci ha dato più della vita e del cosmo in nostro uso, ma che ci ha aperto un mondo infinitamente più grande di noi, che ci ha prospettato un più vasto orizzonte, dobbiamo dare, col nostro contegno morale, qualche cosa di più. È qui dove si vede la valutazione degli uomini onesti che sanno. Molti non sanno. Ma quelli che sanno debbono trarre una conclusione, semplice, spontanea, la cui logica è evidente. A Dio bisogna dare qualche cosa di più di quello che la semplice morale umana forse sarebbe disposta a concedere. È questo di più che importa mettersi bene in testa. La formula stessa: qualche cosa di più, è una formula che indica generosità. E allora ci rimanga nella mente che noi diamo questo di più in quanto entriamo in una formula di generosità, dove non si fanno i piccoli conti, dove non si aguzza l’ingegno per poter definire fino a quale punto si riesca a fare il proprio comodo senza offendere Dio. Questi discorsi non hanno più posto e ragione. A Dio si deve dare di più. Si deve di più per una ragione ontologica che è quella della proporzione. Inseriti nella grazia col Battesimo, noi non siamo più per Iddio semplici creature, noi siamo figli, e allora il livello morale deve alzarsi, dal piano dei servi deve arrivare al piano dei figli. C’è stato un cambiamento ontologico nella nostra situazione; ci deve essere un pari cambiamento ontologico nel nostro comportamento morale. Dal piano dei servi al piano dei figli. Tutti capiscono che non è lo stesso piano, e del resto anche fra gli uomini la differenza fra i due piani è evidentissima e generalmente si presenta come alquanto odiosa. Ma qui siamo con Dio. A Dio bisogna dare quello che corrisponde alla dignità di figli che Lui ci ha data. – Dove possiamo prendere per dare a Dio nel margine che egli ha lasciato a nostra discrezione? Il margine che ha lasciato a nostra discrezione è quello in cui siamo liberi di scegliere tra il più e il meno; perché veramente ci muoviamo con l’intera responsabilità, e pertanto con la nostra imputabilità e col nostro intero merito. Dobbiamo restituire. Che cosa restituiremo? Nel momento in cui moriremo restituiremo la vita che Dio ci ha dato; tanto se la prenderebbe ugualmente. Ma è nella nostra libera elezione che noi abbiamo la capacità di poter fare una restituzione dignitosa, una di quelle restituzioni che avvengono non per naturale svolgimento delle cose. Accade che talvolta gli uomini superbi accettino, cioè si pieghino a Dio nel momento in cui muoiono, perché allora si curvano, piegano la schiena davanti a Dio. Che merito c’è? C’è un’altra ragione perché noi dobbiamo dare di più. E ‘ per la nostra assimilazione a Gesù Cristo. Dite un po’: dobbiamo lasciarlo solo sul Calvario? Solo sulla croce a offrirsi per tutti gli altri e a perdonare a quelli che lo insultano? Dobbiamo lasciarlo solo? Ma che faccia avremmo noi? Che dignità ci rimarrebbe, non dico di cristiani ma di uomini, se sul Calvario lo lasciassimo solo? E ‘ ovvia la ragione. Noi dobbiamo dare a Gesù Cristo, a Dio nostro Padre e nostro Salvatore, più di quello che esige la semplice morale umana. Mi pare tanto evidente! – Ora veniamo al pratico. Il di più dove ci viene descritto? Nell’Evangelo. E tutto l’Evangelo forza i limiti della morale umana, perché esso odia la morale consuetudinaria, che è stata insegnata dai saggi, dagli uomini onesti fuori del Cristianesimo. – Prendiamo la morale mosaica e vediamo che arriva a certi limiti e a quei limiti si ferma. Il Vangelo questi limiti li forza tutti. Non sarebbe pedagogico richiamare del Vangelo tutto quello che induce il di più; pertanto io mi soffermo su alcuni punti che sono estremamente caratteristici, sono tali che, assolti quelli, è assolto tutto il resto. – Il punto certamente più caratteristico è quello dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Nostro Signore ha detto: « Chi vuole essere con me, chi vuole venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua ». Quando egli diceva queste parole, aveva dinanzi l’ombra della propria croce; gli altri forse non hanno capito niente perché, per quanto già ci fosse stato un annuncio della Passione del Signore, essi erano assolutamente riottosi su questo punto e non ne volevano sentir parlare. Basta ricordare la reazione di Pietro: « Dove vai tu, vengo anch’io ». Erano riottosi, non avevano le orecchie aperte a sentir parlare di croce. Io penso che quando Gesù ha detto quella frase, gli apostoli non abbiano capito niente; a ogni modo l’ha detta sapendo che l’avrebbero capita poi, dopo il commento che Egli ne avrebbe fatto con la sua vita. Comunque rimane che Gesù ha detto che chi vuole andare dietro di Lui deve prendere la croce. La croce è una caratteristica del più che noi dobbiamo restituire al nostro Salvatore. Leviamoci dalla testa che la via della perfezione sia una via asfaltata, senza ostacoli, senza salite e senza discese, in piano, in mezzo ai boschi d’estate per avere fresco, senza ombre d’inverno per goderci il sole. No, la via della perfezione non è questa. Bisogna scuotere l’anima nostra da un certo preconcetto che disegni l’avvenire un po’ con la liturgia del Natale, un po’ con la liturgia della Pasqua, un po’ col canto dei fringuelli e così via. Una composizione di colori, tutti ben dosati, in rapporti tonali armonici, se non perfetti, e poi molta luce, e per di più il gaudio delle cose eterne, e poi tante belle consolazioni spirituali, e poi tanti sorrisi e tante belle cose col sorriso di ritorno. No, questa non è la via della perfezione. La via della perfezione è quella della croce. Gesù ha detto che la via che conduce alla vita è stretta e che la porta è angusta: metafora di commento alla via della croce. – Noi non possiamo prescindere da questo concetto, che la via della perfezione deve essere necessariamente una via della croce. Questa non è un’affermazione spaventosa, perché io non ho detto che sulla croce ci si rimanga attaccati tutta quanta la vita. Nostro Signore sulla croce c’è stato tre ore e poi è morto. Ma la croce ci deve essere nella vita e non la si deve respingere; la si deve accettare, e bisogna anche un po’ cercarla: e non vi sembri violento questo, non vi sembri sadismo, perché il cercarla fa un po’ da contrappeso alla voglia di scappare quando c’è, e così si tiene l’equilibrio; ma anche perché il cercarla anche quando non c’è, dà la misura della nostra generosità e del nostro amor di Dio. Voi sapete che i sacrifici si distinguono in diverse categorie. C’è un sacrificio che è legato all’adempimento di qualche dovere, perché tutti i doveri costano in qualche momento. Ci sono dei doveri che sono piacevoli, ma non resistono ad essere sempre piacevoli, e talvolta debbono diventare spiacevoli anche per il fatto che, se non si rovesciano loro, ci rovesciamo noi; ma possono diventare anche pesanti e talvolta dolorosi, di dolore anche lancinante. E allora il sacrificio bisogna farlo. Ma c’è un altro ordine di sacrifici: vi sono dei sacrifici che non sono direttamente collegati coi nostri doveri, e tra questi possiamo scegliere. Qualcuno è leggero, ma non dobbiamo eleggerne il numero maggiore possibile, dobbiamo orientare la nostra simpatia verso le cose che ci piacciono meno, che ci soddisfano meno e costano di più. Noi possiamo dire d’aver raggiunto una buona quota nel cammino della perfezione quando saremo così snodati da essere quasi nella santa indifferenza per quello che ci piace di più e quello che ci piace di meno, per quello che ci costa di più e quello che ci costa di meno, tali da fare con la stessa facilità le cose che ci costano di più e quelle che ci costano di meno, tali da fare con lo stesso sorriso le cose che ci sono antipatiche e quelle che ci sono simpatiche. – Allora si arriva a quello che gli asceti chiamano lo stato di indifferenza, che non è lo stato d’inedia, d’ignavia, d’assenza del sentimento, tutt’altro; è lo stato della positiva e volitiva perfetta padronanza di sé stessi. Ma a questo stato non si arriva se non in molti anni, e bisogna cercare di far pendere la scelta dalla parte delle cose che non piacciono e che costano piuttosto che dalla parte delle cose che sono di nostro gusto e di nostra simpatia e che sono fatte per riempirci di gloria, di diletto, che costituiscono un perenne diversivo. Non dico che, almeno in partenza, debbano essere eliminati tutti i diversivi della nostra vita; non sarebbe certo una buona norma per chi è ai primi passi e per chi di passi ne ha fatti pochi: bisogna essere umani. Però man mano che si va avanti, diminuisce il bisogno di mettere il diversivo nella vita, salva si capisce la ragione della sanità. Perché, specialmente quando si debbono fare i conti con questi poveri mezzi di cui disponiamo noi esseri umani, possiamo benissimo volere, ma talvolta abbiamo un frate asino che strepita e che a un certo momento, in certe situazioni non tratteniamo più, non controlliamo più. E talvolta, bisogna dirlo, il lavoro consuma non la vita ma il sistema nervoso, e si arriverà a un certo punto in cui ci sarà qualche cosa in noi che è diventato la nostra penitenza costante, che noi non teniamo più in mano. – Ma quando si arriva a questo stato, che è di malattia, stato patologico, allora avverrà la nostra ascesi, la grande ascesi. Allora bisogna pure mettere tra i casi possibili situazioni che non dipendono più da noi, ma che si debbono semplicemente subire; e può essere che soltanto nel fatto di subirle vi sia un immenso merito. Perché qualche volta ci sono delle paralisi che non sono affatto colpa, ma sono semplicemente croci che si aggiungono, costituiscono una umiliazione che Dio permette perché sia maggiore il merito della nostra vita. – Ma qui entriamo in una casistica marginale. Io dovevo accennarvi almeno, perché devo anche supporre che qualcuno dei miei ascoltatori potrebbe trovarcisi un giorno. E allora prenda coraggio; ci sarà sempre una soluzione, perché una soluzione c’è sempre per tutto. Ci possono essere delle soluzioni più su, delle soluzioni più giù, vi sono delle soluzioni che possono sembrare anche così, da meschinelli. – Ma le soluzioni possono sempre salvare la ragione della perfezione anche nella peggiore delle situazioni, perché anche quando non si vince trionfando, si vince perdendo; anche quando non si vince conquistando, si vince cedendo a Dio tutto quello che si ha, buono o cattivo che sia. – Comunque è certo che la via della croce bisogna abbracciarla e che accanto ai sacrifici che si devono accogliere, perché sono insiti, connaturati, immanenti nell’esercizio del proprio e semplice stretto dovere, ce ne sono altri che si possono scegliere. Il limite della sufficienza non è un limite degno dell’amore. Quando Gesù ha voluto fare un dono al suo Vicario e dargli un onore, gli ha profetizzato il martirio: « Quando sarai vecchio, stenderai le mani, e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti ». Pietro se ne sarebbe ricordato, e quando è venuto il momento, non ha voluto che la croce fosse rizzata nel modo normale, ha chiesto e ottenuto che la croce fosse capovolta. Così è andato in croce, e così l’annuncio del Salvatore si è adempiuto: nella sua libera elezione egli ha voluto morire rovesciato, con la testa in giù. Non si sentiva dì fare da controfigura al suo Salvatore. Il dono che ha fatto Gesù Cristo al suo primo Vicario, badate, è stata una croce, e glielo ha detto per tempo affinché la vedesse per tutta la vita. Non che gli apparisse l’ultimo “giorno e che per tutta la vita se ne stesse giubilando di primavera, ma che la vedesse tutta la vita, perché fosse in grado di accettarla tutta la vita, di volerla tutta la vita. – Io non so molto dell’intimo di Pietro, ma forse non vado lontano dal vero dicendo che la sua conclusione, la preghiera fatta: rovesciate questa mia croce e mettetemi con la testa in giù, non era altro che il frutto di una meditazione durata tutta la vita. Ci è arrivato preparato dignitosamente e con la ferma volontà di volerla e accettarla, ma di toglierle la somiglianza con Gesù Cristo; non se ne sentiva degno. E forse la sua ultima preghiera è proprio la rivelazione di una contemplazione e di una accettazione che è stata costante per tutta quanta la sua vita. Il dono di Cristo al suo Vicario è stata la croce. Non esattamente una croce d’oro, ma una croce autentica; non una croce sul petto, una croce dietro le spalle. – Ora voi capite che non è possibile che noi allontaniamo la croce dalla nostra vita cercando di imbottire tutte le pareti. Non dobbiamo allontanarla, certi che quando essa compare, quando già si delinea, è quello il momento di Dio. È quello il momento del massimo amore nostro per Lui. Il Vangelo è questo: Vangelo concreto, Vangelo austero, Vangelo duro. – Tra le cose che Gesù ci ha detto nel Vangelo ne prendo una che pare l’ultima, ma che è riassuntiva, perché se si riesce a fare quella, si fa tutto il resto. E questa non me la invento affatto. C’è un apostolo, cugino di Gesù Cristo, che ha scritto una lettera, è la Lettera Cattolica di S. Giacomo. Vi pregherei di leggerla. Perché questa lettera non indugia, come avrebbe fatto S. Giovanni, sulla carità, che è certamente il centro della elevazione morale cristiana; questa indugia invece su un’altra parte, indugia sulla lingua. E come dice che la lingua è l’università di tutte le iniquità, dice anche che è il concentrato di tutte le verità e virtù. Un apostolo che la sapeva lunga, e non soltanto perché era cugino di Gesù Cristo ma per molti altri motivi, ed era divinamente ispirato, ha richiamato i cristiani su quel punto. – Del resto quel che si vede di più negli uomini è che la lingua non la sanno tenere a posto. L’argomento è interessante, è un rigoroso, un forte argomento che va trattato con grande acutezza, ed è per tutti questi motivi che io l’ho messo qui davanti. Nel di più che dobbiamo dare a Dio c’è anche questo: che dobbiamo tenere la lingua a posto. Voi sapete bene che se si riesce a tenere la lingua a posto vuol dire che abbiamo tutte le virtù, perché questa arriva per ultima, non per prima. Quando si arriva a non giudicare più il proprio prossimo, a non prendersi più la soddisfazione di starsi a sentire, quando si arriva al punto di non rivelare quello che si sa di meno onorevole del nostro prossimo, di non pronunciare più nessuna parola forte, di contenere sempre la parola nei limiti dell’onesto e dell’utile al prossimo, togliendone tutto quello che può per il prossimo diventare incitamento non solo al male, ma a situazioni meno nobili e meno sicure, è garantito che noi abbiamo raggiunto la stabilità della virtù. – Quando dieci anni fa io stavo pensando a una norma riassuntiva da dare ai miei cappellani di fabbrica, dopo aver pensato e ripensato, ho concluso col dire così: « Io vi chiedo due sole cose, il resto sono sicuro che vien da sé; datemele, vi chiedo poco. Vi chiedo di non fumare mai e vi chiedo di non dire mai male del vostro prossimo, chiunque esso sia. Se mi date solo questo, io sono contento, ne ho abbastanza ». Sono passati dieci anni e debbo dire che in sostanza mi hanno dato tutte e due le cose, forse perché sono stato discreto nel chiedere. Ho pensato che bisogna levarsela questa sigaretta dalla bocca, perché non credo che i nostri fratelli, e parlo a voi sacerdoti, abbiano di noi stima quando ci vedono sul loro piano, con le loro stesse debolezze; bisogna che ci vedano su un piano più alto, dove ci ha messo Nostro Signore Gesù Cristo. Ci devono vedere più in su, bisogna che vedano in una forma tangibile che noi non abbiamo le loro stesse abitudini e che di qualche abitudine, che per loro può essere onesta se contenuta entro certi limiti, noi sappiamo essere al di sopra. È un errore credere che per essere vicini ai nostri fratelli dobbiamo assumere i loro difetti o, se non i loro difetti, i loro usi umanissimi e i loro divertimenti. – Poi ho chiesto loro di non dir mai male del prossimo, salvo ben inteso quando c’è un dovere da compiere, quando devono dare rapporti doverosi; e allora devono dire le cose come sono, allora è dovere d’ufficio, non è la propria voglia, il proprio orgoglio, la propria soddisfazione; allora non si parla in funzione della persona propria ma in funzione di un incarico. Quando si parla per dovere, viene quella naturale castigatezza, quella connaturale prudenza, sovente quella discrezione che tutela noi nella virtù. – Non dire mai male di nessuno. Quando arriveremo a non lasciar mai uscire dalle nostre labbra una parola oziosa, quella parola oziosa della quale parla l’Evangelo; quando arriveremo a non giudicare più nessuno, riservandoci di giudicare soltanto se gualche volta avremo l’ufficio di giudici; quando saremo arrivati a non prendere più nessuna soddisfazione a danno del nostro prossimo, allora potremo dire d’aver salito alcune rampe della scala che porta a Dio e di aver fatto un cammino lungo nella via della perfezione. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto che saremo giudicati anche di una parola oziosa. S. Giacomo vi ha fatto il commento. E allora, dovendo parlare del di più che dobbiamo dare a Gesù Cristo perché ci ha portato in un ordine soprannaturale, come vedete ho preso un po’ di là e un po’ di qua. Ho preso la legge dell’amore che è la croce. E poi ho preso quest’altra, tante volte trascurata massima evangelica, che sembra un epilogo, ed è effettivamente un epilogo. Però è una di quelle porte strette che, se si vogliono passare, bisogna diventare piccoli per forare, e diventando piccoli, ci si entra; si prendono le nostre giuste proporzioni, quelle che Dio ci vuol vedere addosso per guardarci con sguardi di compiacenza. Non sarà in sé stesso la pienezza della carità e della grazia il dominio sulla lingua, però è certo che per poterlo possedere bisogna avere e la pienezza della carità e la pienezza della grazia. E ‘ uno di quegli elementi di controllo, di quei traguardi che sembrano più materiali degli altri; però, materiali come sono, a volerli toccare si deve fare tutto e avere tutto. Si deve avere la pazienza, la discrezione, l’umiltà, il dominio di sé, la chiarezza intellettuale, la verità nell’anima, la semplicità, tutto. Se questo non c’è, si parla, si parla strabocchevolmente, si rompono i timpani del nostro prossimo, come i fiumi che fanno delle vere alluvioni. Ma se la lingua la tenete a posto, non c’è alcun dubbio, domani vi si canonizzerà.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (9)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(9)

11. La Grazia

Non è possibile pensare a una perfezione cristiana senza un inserimento completo nell’ordine della grazia. L’inserimento nell’ordine della grazia è essenziale per la perfezione, perché è la vita stessa della perfezione. Non ve ne ho parlato prima per evitare un equivoco. L’equivoco che l’inserimento nell’ordine della grazia sia una cosa talmente automatica e talmente passiva da essere paragonata a quando si chiama un’ambulanza sulla quale ci si fa caricare e che poi va per conto proprio. E’ necessario ricordare che se nell’ordine della grazia, sotto un certo aspetto, noi siamo del tutto passivi perché riceviamo sempre, siamo anche completamente attivi perché dobbiamo sempre dare. La grazia coopera con l’uomo e l’uomo coopera con la grazia; e allora era meglio mettere avanti alcuni punti di quello che dobbiamo fare noi per non essere presi dalla facile illusione nella quale cadono certi cristiani per i quali entrare nell’ordine della grazia è entrare in una sorta di vitalizio dove, in fondo, non c’è più da lavorare se non qualche volta, ma beatamente cullarsi in alcuni sentimenti generici, come quelli dell’ inserimento nel Cristo vivente, nel Corpo Mistico ecc. e non fare più nulla. E soprattutto cessare da quel continuo pungolo, da quella continua spinta verso l’attenzione, la diligenza, la rettitudine d’intenzione, l’amor di Dio, l’amor di Dio attivo, il sacrificio, la croce, il distacco; cessare da quelle cose che rimangono ugualmente valevoli anche se noi siamo pienamente assorbiti ed elevati nell’ordine della grazia. Era meglio mettere innanzi quello che noi dobbiamo fare, almeno alcuni punti fondamentali, perché credessimo che, se tutto dobbiamo aspettarci dalla grazia, però alla grazia dobbiamo dare tutta la nostra cooperazione; e se nella grazia noi siamo, sotto un certo punto di vista, passivi, noi con la grazia dobbiamo essere perfettamente attivi. – La grazia è l’essenza del Cristianesimo, perché è l’essenza della ragione per cui Gesù Cristo si è incarnato, ed è questa essenza, questo tesoro, del quale parla lungamente nelle sue parabole, che Egli ha portato alla sua Chiesa, al genere umano e a tutti i singoli uomini purché vogliano a quella arrivare. – Che cosa è quest’ordine della grazia? L’ordine della grazia è composto di due elementi, uno si chiama grazia abituale, l’altro si chiama grazia attuale. L’una e l’altra rappresentano lo scopo principale per cui è venuto Gesù Cristo. Il prologo di S. Giovanni ce ne dà una chiara indicazione: in esso si dice perché il Verbo si è fatto Uomo : « ex Deo nati sunt », perché anche noi diventassimo figliuoli di Dio, avessimo in noi qualche cosa della vita divina. Il prologo di S. Giovanni non parla  affatto della Redenzione; è impressionante questo! – È una grave dimenticanza? No; S. Giovanni ha voluto portare la ragione assoluta e non quella relativa. Della relativa avrebbe parlato dopo, di quella assoluta ha parlato nel suo prologo perché sta in testa a tutto. La ragione assoluta è quella: « ex Deo nati sunt », e sarebbe stata valevole anche se l’uomo non avesse peccato; essa era, in altri termini, indipendente in modo assoluto, per divina iniziativa, dalla iniziativa anche pessima dell’uomo, quella del peccato. Pertanto la ragione assoluta diventa la prima, perché l’assoluto comprende sempre il relativo: Gesù Cristo è venuto perché noi fossimo figli di Dio, cioè per dare a noi quel tanto di vita per cui noi potessimo essere figli di Dio. – Noi non dobbiamo dimenticare, allora, che questa ragione è la prima a giustificare l’Incarnazione del Verbo e anche la prima e la sola, in sede assoluta, a giustificare l’ottimismo cristiano. Se il Verbo si fosse fatto carne per riparare il peccato, e fosse quella la ragione assoluta, l’iniziativa sarebbe del peccato; la prima parte sarebbe stata quella, e in fondo l’ordine divino sarebbe stato determinato dall’aspetto più deteriore dell’ordine umano. Non è questo. L’ordine divino non è stato determinato né dall’ordine umano, né dal suo aspetto deteriore che è la colpa. L’ordine divino è stato determinato dall’amore di Dio che ha voluto espandersi agli uomini dando agli uomini qualche cosa della vita divina. E così è nato l’ordine della grazia, così noi vediamo nella grazia la finalità dell’Incarnazione, la finalità di tutto quello che Gesù Cristo ha fatto. – Sono due gli elementi: la grazia abituale e la grazia attuale. La principale evidentemente è la prima, l’essenza sta nella prima. La seconda è una conseguenza. – La prima, la grazia abituale, che cosa è? È quella dignità che è elargita da Dio agli uomini, per Gesù Cristo. Dignità non morale o giuridica, ma ontologica, che cambia completamente il valore della persona umana; lo cambia elevandola all’ordine divino, all’ordine soprannaturale, cioè a un ordine che supera la capacità e perfino i desideri e le possibilità stesse di desiderio di ogni creatura creata e creabile; dignità ontologica che porta all’uomo una misteriosa partecipazione della vita divina, si capisce per quanto è possibile in una creatura e senza alcuna contaminazione di concetti indegni della divinità e di concetti panteistici. Di tale partecipazione attiva divina noi portiamo il mistero, perché noi possiamo girarle intorno, ma sapere intrinsecamente che cosa essa sia, noi non possiamo ancora quaggiù. Un giorno lo vedremo, quando saremo lassù. Per ora dobbiamo fare un atto di fede in questa partecipazione alla vita divina quale è possibile alla creatura. Tuttavia ne conosciamo alcune conseguenze. Le conseguenze sono queste. Proprio per quella partecipazione si stabilisce una comunione con Dio, e questa è la ragione per la quale noi diventiamo figliuoli adottivi di Dio, tempio vivente dello Spirito Santo, principio di operazioni soprannaturali; gli atti che procedono da noi, atti umani, sono soprannaturali hanno un valore soprannaturale e ad essi è corrisposto un merito soprannaturale: fatti nella grazia, altrettanto essi fondano nella gloria. Questa è la grazia santificante. Ad essa s’allinea la grazia attuale, la quale non è altro che la erogazione soprannaturalizzante di energia, di forza perché noi possiamo vivere in modo adeguato alla dignità che abbiamo, e possiamo sopportare i carichi morali che quella dignità comporta. Possiamo insomma supplire alle nostre debolezze e lacune; possiamo rimediare alle nostre carenze e immettere nelle nostre misere azioni quell’ordine soprannaturale che le rende conformi alla vocazione eterna alla quale noi siamo stati indirizzati. Perché poi potessimo essere preparati a ricevere questa grazia attuale, ci sono i sette doni dello Spirito Santo. Dono di sapienza, di intelletto, di consiglio, di fortezza, di scienza, di pietà e di timor di Dio. Sono tutti doni preparatori all’azione piena della grazia oppure affinché l’ordine fosse completo, affinché non ci fossero scalini insormontabili, affinché non ci fossero abissi aperti che potessero dividere, ma tutto fosse in una perfetta, assoluta gradualità di divina armonia, affinché ci esponesse, ci preparasse, ci completasse nell’ordine della grazia. – Ho richiamato tutto questo perché il quadro doveva essere completo nel suo principio logico, che è la Incarnazione, nella sua finalità assoluta, che è quella indipendente dalla colpa e dal peccato degli uomini, nel suo dipanarsi intrinseco, attraverso la grazia santificante, la grazia attuale e i doni dello Spirito Santo. Questo quadro avvolge la vita, perché la dignità è ontologica, tocca la nostra persona. – Questa dignità quando ci è data nel Battesimo e aumentata nella Cresima, ci imprime anche un carattere che non si cancellerà mai più. Poi la grazia aumenta continuamente, e per sé stessa quando viene data nei Sacramenti, e per le opere buone che con essa compiamo. La si perde completamente con la colpa grave, ma la si riacquista completamente con la penitenza. Questa grazia è data sufficiente a tutti gli uomini attraverso l’orazione e i sacramenti, sorgenti contingenti nel tempo, dispensatrici dell’eterna grazia di Cristo Signore. Questa grazia attuale può avere, proprio attraverso quelle sorgenti, dei meravigliosi, straordinari, munifici ampliamenti, e con essa è possibile superare tutto e arrivare a quei capolavori della santità, con o senza azione esterna, che hanno sempre ingemmato la vita della Chiesa. – Eccovi l’ordine della grazia. In quello noi dobbiamo inserirci. Di quello dobbiamo vivere. La santità essenziale è essere in grazia di Dio ed è alimentare continuamente, con l’orazione, i sacramenti e le opere buone, la grazia di Dio santificante. Quella è la perfezione essenziale; il rimanente si richiede per quella e in ragione di quella; il rimanente si richiede perché diversamente noi avremmo degli elementi contrastanti o addirittura contraddittori con essa. Il rimanente della morale e dell’azione si richiede perché la collaborazione ci vuole, dato che Dio ha disposto nella sua perfetta munificenza verso di noi che la nostra dignità doveva essere intatta, e che tutta la nostra libertà doveva entrare anche in quella, affinché noi non fossimo semplicemente dei ricchi mendicanti, mendicanti di tutto, ma fossimo i collaboratori dell’azione divina, perché la nostra umana dignità, l’autonomia dignitosa dell’umana persona rimanesse salva, glorificata, come si conviene non a mortificati figli adottivi, ma a liberi figli di Dio. – Dobbiamo inserirci in questo ordine. E come si fa a inserirci in questo ordine? Questo è il punto essenziale; non è più il punto teorico, ma il punto essenzialmente pratico. Noi ci inseriamo in questo ordine mediante la fede. Ma la fede, che è atto di adesione, ha una sua applicazione, ha una sua estensione che la corrobora, la rende attuale, la rende attiva e fruttuosa, ed è la meditazione, la contemplazione. – La contemplazione è l’attività raziocinante nostra sulle verità di Dio. Escludo di parlare della contemplazione infusa, quella è un miracolo che avviene per opera dello Spirito Santo. Parlo di questa contemplazione terra terra. Allora la contemplazione terra terra, quella che è applicazione della vita di fede, è proprio la considerazione della verità, di questa verità. – La considerazione fatta nella quiete che sosta e arriva a quella profondità dove non è più tanto il raziocinio che deduce, quanto l’affermazione della verità che rimane, l’entrare in essa guardando, vedendo, lasciandocene penetrare totalmente, lasciandocene impregnare, lasciando che essa si sistemi al fondo della nostra anima e via via aumenti la sua luce, e questa sua luce ci porti a tutti quegli svariati e altissimi effetti che, anche senza essere trasbordati sulle rive della contemplazione infusa, carismatica, miracolosa, possono dare una incredibile serenità, una profonda gioia, una meravigliosa pace, una indistruttibile quiete all’anima. A questo bisogna mirare per entrare veramente e con perfezione nell’ordine della grazia; perché se noi non miriamo a questo, se non arriviamo a questo, non rimaniamo inseriti nell’ordine della grazia. – Ma in quest’ordine della grazia entriamo con la nostra intelligenza e con tutte le facoltà che roteano intorno alla nostra intelligenza. C’entriamo con la spinta motiva della nostra volontà, con la capacità penetrativa del nostro intelletto, con la capacità vorrei dire, passiva del nostro intelletto, che è quella di essere impregnata di una luce, dominata dall’alto, che è la forza della divina grazia elargita a noi dalla suprema munificenza. – Voi vedete che parte abbia la meditazione, la quale deve tendere sempre a diventare contemplazione, e vedete quale parte abbia l’orazione, la preghiera: la meditazione che è la forma più alta della preghiera, l’orazione mentale; ma anche quell’altra orazione che noi impropriamente diciamo vocale, perché non adeguatamente possiamo distinguerla dalla orazione mentale. Tutto il mondo della orazione è strada, via, collegamento necessario, sicuro, grandioso alla grazia, ed è tale da poter riempire tutta la vita degli uomini. Non ci si meravigli quando si sente dire di gente che nella storia, e ancora oggi nella vita, è capace di resistere intere giornate nella orazione. Che cosa è questa, in fin dei conti, se non un cammino nello spazio più reale e più grande, che è quello della verità divina, della luce divina, della quale noi ci lasciamo impregnare? Se si potesse descrivere cosa vuol dire questo lasciarci impregnare dal conoscere anche in profondità di teologia la verità divina, che cosa significa esserne impregnati! E quanti teologi non ne sono affatto impregnati! Perché che s’accenda la luce è una cosa; ma che s’accenda tanto da far accadere in noi quello che accade con certi raggi straordinari che si usano in alcune indagini mediche, così da perdere la opacità e diventare trasparenti, ed essere non più materia, ma essere diventati completamente luce, e tutto questo senza aver varcato i confini della ascesi ordinaria, questa è un’altra cosa. Poterlo descrivere! Ma forse è meglio provarlo. E siccome in questo tutti ci si possono provare, non mi rimane che dirvi: la strada è la meditazione, che tende però a quel punto. Prendetela questa strada, andate avanti, non voltatevi indietro, guardate sempre avanti, e poi state tranquilli, il resto verrà dopo. Così si entra nell’ordine soprannaturale della grazia, e così veramente si cammina per realizzare la perfezione. – Ora c’è un altro elemento per entrare nell’ordine soprannaturale della grazia. Ci vuole la coerenza morale a quell’ordine che la grazia attuale ci aiuta a realizzare; non basta stare al piano terreno, bisogna cercare di arrivare con la coerenza morale al piano sul quale Dio ci ha messo. L’inserimento nell’ordine della grazia avviene col santo Sacrificio della Messa e coi santi sacramenti. Noi potremmo trovarci in questa situazione di spirito: di credere la S. Messa una cosa che è là e noi siamo qui, una specie di spruzzo che parte di là e arriva fin qui. No, non è così. La S. Messa è la prima essenza della nostra vita soprannaturale. È il primo, il più grande strumento della vita soprannaturale del mondo. Perché in essa si rinnova sempre il sacrificio di Cristo che è la sorgente della grazia. Noi possiamo riguardare la S. Messa come una cosa alla quale ci uniamo pregando, cantando, suonando, facendo tutto quello che esternamente si vede, perché è la parte del popolo cristiano. Ma alla S. Messa si assiste come assistono le sedie e i banchi della Chiesa e le lampade che pendono dal soffitto quando noi non facciamo quello che dovremmo fare per unirci alla S. Messa. Badate che la S. Messa è una cosa che deve essere riguardata come essenziale per la vera perfezione cristiana, perché è qui che noi incontriamo tutto Gesù’ Cristo, dato che nella Messa entriamo completamente quando facciamo la S. Comunione, e pertanto c’è proprio una nostra identificazione con Gesù Cristo. – La S. Messa naturalmente termina nella Comunione; la S. Messa lascia sempre qualche cosa di scoperto quando non termina nella Comunione. Il Sacrificio non è nella Comunione, il Sacrificio è essenzialmente nella Consacrazione; ma la Comunione è il termine del Sacrificio, è la integrazione del Sacrificio. Gesù Cristo si è immolato per gli uomini, per arrivare agli uomini, per darsi agli uomini; ed è nella Messa, quando si dà agli uomini, che integra il Sacrificio. La S. Messa e gli altri sacramenti non vanno considerati come locomotori « ab extrinseco », che si mettono davanti al treno e lo tirano; sono locomotori dentro il treno. I sacramenti sono parte essenziale della nostra vita soprannaturale. Senza sacramenti non si resiste, senza sacramenti non abbiamo l’aumento della grazia santificante, in quanto senza di essi siamo dei tronchi senza gambe, non possiamo camminare. Non bisogna vederli come elementi accidentali, rispetto ai quali in fondo la santità ce la costruiamo da soli, con le nostre mani. Noi non costruiamo un bel niente della santità senza i santi sacramenti, e non c’è un uomo che resista a vivere in grazia senza i santi sacramenti. E se lui non ha colpa se non li prende, allora Dio aggiusta le cose coi mezzi suoi, come aggiusta lo stesso sacramento del Battesimo, supplendolo col Battesimo di sangue e col Battesimo di desiderio. Ma bisogna che non ci sia colpa, che l’uomo non sia lui a determinare l’incapacità a ricevere i santi sacramenti. Quando questa capacità c’è, quando questa capacità non è preclusa all’uomo, ricordiamoci che senza sacramenti non regge niente. E allora, vedete, deve essere riattivata, come si riattiva il fuoco in un camino, la fede nel sacramento. – Vi sono delle persone che pensano di non poter risolvere certe questioni. Devono ricordarsi che si risolvono coi santi sacramenti, con la fede nei santi sacramenti. Noi comprendiamo la saggezza della educazione cristiana anche dove non si può fare molta teologia, dove non si possono fare superiori elucubrazioni suggerite dalla teologia. Noi comprendiamo un Don Bosco, il cui metodo educativo è tutto qui: portare a fare la Confessione e la Comunione. Poi hanno dato tanti titoli al suo metodo, hanno fatto tante impostazioni scientifiche: non so se Don Bosco le abbia mai pensate. Questa è stata la tattica, niente affatto nuova, del più grande educatore cristiano del secolo scorso: Confessione e Comunione, fatte bene, non fatte per forza, per abitudine, all’improvviso, senza una preparazione; non fatte senza fede e senza orazione, ma impregnate di fede, di orazione, di pazienza, d’attesa, di atti che graduassero per arrivarci bene. Tutto portava lì: egli faceva giocare per arrivare alla Confessione, faceva divertire e stare allegri per dipanare la serenità dell’anima verso la comprensione della Comunione. Portava in giro i ragazzi, anche con la banda in testa, per i colli del Monferrato per condurli a fare la Confessione e la Comunione, non comunque, ma a un certo modo. Stava qui il suo segreto: a un certo modo. Quando si parla di educazione cristiana riassunta in poche cose, l’educazione cristiana si chiama Confessione e Comunione, con tutto quello che logicamente esse prendono. Purtroppo oggi noi abbiamo insegnato a fare la Comunione come qualche cosa di staccato, fuori della vita, qualche cosa che come atto in sé è bell’e finito, e allora si assiste a una specie di devozione, creata così, attaccata alle cose di Dio non so con quale colla: gente che va a fare la Comunione tutti i giorni e arriva in chiesa affannata, corre fino alla balaustra a fare la Comunione, abbraccia Nostro Signore e se ne dimentica subito, scappa e va a fare altre cose. Fanno pietà. – Capisco che qualche volta si potrà anche scorrazzare così, e capisco anche che a volte si dovrà stare dieci ore fuori e un minuto in chiesa. Dieci ore fuori però saranno fatte, da chi capisce, in preparazione a quel minuto, e le dieci ore che seguono saranno un ringraziamento a quel minuto, saranno vissute in quella dignità, in quell’afflato, con quella inclinazione continua che ha il girasole verso l’astro del giorno, perché le cose siano fatte bene. Ricordatevi, se non c’è un inserimento nella vita dei sacramenti, la perfezione non esiste.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (8)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(8)

10. La Redenzione

La verità che propongo a voi è quella della Redenzione. S’è parlato della Incarnazione; completiamo l’argomento con la Redenzione. Vediamo che cosa questa grande verità dice a noi e come debba entrare nella nostra vita per realizzarvi la fede concreta, illuminante e tale da innervare ogni nostro atto e tutta la nostra vita. Consideriamo un punto: i termini dell’impossibilità degli uomini di salvarsi senza la Redenzione. Voi li conoscete questi termini: il peccato dell’uomo è più grande dell’uomo, e non vi sembri una contraddizione. Perché il peccato dell’uomo, essendo contro Dio, non in ragione della causa che lo pone, l’uomo, ma in ragione della Persona a cui è diretto, Dio, è più grande dell’uomo. Ed è per questo che l’uomo è stato, è e sarà sempre incapace di cancellare il proprio peccato. Di questa incapacità profonda è sostanziata tutta la tristezza del genere umano, il quale, prima di Gesù Cristo ha cercato dei diversivi, e non ne ha mai trovati di concludenti; e talvolta anche dopo Gesù Cristo cerca dei diversivi, non volendo infilare la strada giusta, ma non ne trova mai di concludenti. Sicché esso più apparentemente diventa ricco di possessi terreni, di scoperte, di capacità di assorbirsi le creature, e più diventa annoiato e triste. – Il genere umano ha sempre avuto la sensazione, varia ma profonda, ma lancinante, di questa sua impossibilità a riemergere. In quelle civiltà che hanno avuto maggiore cultura e in cui l’uomo ha affinato lo spirito per affermarne e trattarne i problemi, le espressioni di questo dramma hanno preso tutto l’accento della disperazione. Questo è il primo termine che ci fa riflettere. Noi siamo talmente abituati alla Redenzione e ai frutti suoi che forse non la stimiamo più. Siamo talmente abituati, se il peccato avesse mai qualche volta battuto alla nostra porta, a cancellare la colpa con un Sacramento che è alla portata di tutti, che spesso e volentieri ci dimentichiamo che cosa sia la colpa, che cosa sia costato il toglierla a Colui che ha pagato andando in croce per noi. – Guardate che fa parte del cammino di perfezione scuotere l’indifferenza. Che vale vivere la fede, se non si scuote la indifferenza e se non ci si mette in sintonia con la fede? Noi non sappiamo che cosa voglia dire toglierci il peccato di dosso. Perché appena avvertito il peccato, un altro ce lo ha tolto il peccato di dosso, e noi abbiamo sempre beneficiato del sangue di un altro, del patimento di un altro, e la nostra vita si è arricchita della morte di un altro. – Come possiamo credere di essere su un cammino vero di perfezione, se non ritorniamo all’evidenza di quelle verità che possono essersi attutite nel nostro spirito e più non lo colpiscono? Verità grandi, solenni e che forse abbiamo sostituito coi nostri piccoli problemi e con l’angolosità della nostra testa. Se queste verità non le stimiamo per quello che sono e per quello che valgono e non le lasciamo entrare in noi trionfalmente; se non le lasciamo diventare le dominatrici della nostra vita, come saremmo sulla via della perfezione? Come potrà avvicinarsi a Dio perfettissimo chi nel suo cammino non ha tenuto conto della cosa più grande che Dio ha fatto per noi, completando la Incarnazione del Verbo con la Redenzione, cioè con la passione e la morte di N.S. Gesù Cristo? Ci vorrebbero considerazioni e commozioni che ci sfuggono; perché in fondo non è difficile scrollarsi il peccato di dosso; ma nessuno di noi è dovuto andare nel Getsemani a sudare sangue; nessuno di noi ha avuto un Giuda, in quei termini, in quelle proporzioni, in quell’ambiente e con quella oscura cattiveria; nessuno di noi è dovuto andare in croce e farsi trapassare le mani e i piedi; nessuno di noi ha avuto tenebre tali, le tenebre del Getsemani, che quelle che si addensarono sul Calvario non furono che un piccolo simbolo. Ed è per questo che soltanto molta meditazione, una accurata attenzione e somma diligenza ci possono permettere di rievocare passabilmente i termini della Redenzione operata da Gesù Cristo. – Guai a noi se queste cose non le stimeremo e se non prenderemo di punta le fantastiche costruzioni della nostra anima, i suoi egoistici isolamenti, gli stravaganti indurimenti delle sue preoccupazioni sciocche, per lasciare spazio alle divine considerazioni di quello che Dio ha fatto per salvarci. È così che si vive la propria fede: nella meditazione sulla Redenzione di N. S. Gesù Cristo. E questo per la impossibilità nostra a toglierci il peccato, perché il peccato, che è fatto da noi, è più grande di noi, terribilmente più grande. – La Redenzione. Com’è avvenuta? Ci voleva un prezzo, una riparazione. Il peccato è un piacere illecito, sempre, e il caso contrario è una sottrazione di piacere, è un dolore. E così c’è stato il dolore. La rispondenza del diritto di giustizia è perfetta tra peccato e dolore. Però questo dolore per essere valevole, per poter vincere la colpa, e non quella di un uomo solo ma di tutti gli uomini, doveva essere di una dignità infinita. E come è venuta la dignità infinita a questo dolore? È venuta così: ciò che dà la dignità e il valore all’atto è la persona, il soggetto. Difatti se la mia mano uccide un uomo, non mettono in prigione la mano, mettono in prigione me, perché il valore dell’atto compiuto attraverso la natura dipende dal soggetto che porta la natura e ne è responsabile. È la persona quella che valorizza l’atto, sia da un punto di vista negativo se è colpa, sia da un punto positivo, se è merito. Però se la Persona divina non può soffrire, la natura umana può soffrire. E allora in Gesù Cristo ecco il mistero dell’Incarnazione: la natura umana assunta, ma assunta dalla Persona divina, poteva soffrire. – La valutazione dell’atto di sofferenza in questa umana natura dipendeva dalla dignità della Persona assumente, ed era dignità infinita. Il dolore si arrestava alla natura umana, ma la qualificazione dipendeva da chi sosteneva quella natura, dal soggetto che la portava, ossia dalla divina Persona. – Così il dolore dell’umana natura ha avuto l’infinito valore dalla Persona. Veramente il dolore acquistava quello che era necessario per coprire il gran debito, per superare la colpa e vincerla, per far trionfare un’altra volta la vita. E così Gesù Cristo ha portato il dolore. Ma perché è andato in croce? Bastava meno, oh, infinitamente meno; perché ha fatto tanto? È difficile a noi dire il perché. Ma è evidente, da tutto il comportamento della parola di Dio, che in quella croce Gesù ci ha voluto dare un documento, un documento di compagnia, si è messo accanto a quelli che nel mondo hanno sofferto e avrebbero sofferto di più. Così gli uomini sono in compagnia di Gesù. E ha dato un documento di esempio, perché la grettezza umana doveva essere sfondata in tutte le direzioni. Aboliti i se, aboliti i ma, e perché la grettezza umana, aboliti i se, aboliti i ma, fosse sfondata in tutte le direzioni, l’esempio è stato incredibile. Perché i termini dell’umana nequizia, dell’umano tradimento, dell’umano dolore si sono come concentrati in Gesù Cristo? Tenete presente che si soffre in proporzione dell’intelligenza, gli scemi soffrono molto meno, e nessuna natura, nessuna ha avuto naturalmente l’acutezza d’intelligenza e di sensibilità propria della natura assunta dal Figlio di Dio. I termini storici sono i più tragici, i più gravi, i più complicati, a leggere bene tutta la Passione; ma i termini interiori che danno la valutazione di quel dolore presentano un addendo che copre il mondo. Nessuno al mondo ebbe la sensibilità raffinata, l’intelligenza altissima dell’umana natura assunta dal Verbo Incarnato. E questo è stato documento di esempio perché entrasse negli uomini il superamento della loro grettezza e in questa ampiezza di stile fossero aiutati a imitare il Signore. – E finalmente dalla divina parola questo, che parrebbe a noi un eccesso, si rivela ed è il massimo documento dell’amore: così Dio ha amato gli uomini, da dare, da mettere nelle mani dei traditori il suo Unigenito Figlio. Così Dio ha amato gli uomini. È la documentazione dell’amore. Quando si parla dell’amore di Dio, bisogna sempre parlarne davanti al Crocifisso, perché nessun linguaggio sull’amore che noi dobbiamo a Dio, Padre nostro e Salvatore nostro, ha mai un termine di paragone esatto per poterlo valutare come il divino Crocifisso. » – Un’esagerazione, per noi che siamo piccoli. Ma vi ho detto che cosa la divina parola lascia intravvedere per giustificare pienamente questa esagerazione: Dio è stato il Signore. Quando si pensa che cosa è la redenzione e in che modo è avvenuta, si sente, si deve sentire il bisogno della penitenza, si deve essere in ritmo con quella grande condanna, ma s’impara lo stile di Dio che è stile da Signore, non da gretti. E noi cristiani, se l’abbiamo questo stile, siamo dei signori. E se siamo così, dei signori, siamo dei cristiani. Perché lo stile divino non è quello della miseria, delle piccole linee, dei piccoli lamenti, delle piccole ombre, delle piccole economie fatte sulla nostra generosità, no; davanti al modo con cui Dio ci ha redento si capisce che il cristiano è tanto cristiano quanto è signore anche lui, non un pidocchioso, gretto, miserabile, a lesinare continuamente la quantità del proprio valore e del proprio dono, e lesinarlo a Dio che l’ha salvato a questo modo. Stile da Signore! Guardate che senza di questo non si è in ritmo col nostro Maestro esemplare, che è andato in croce. Noi probabilmente non dovremo andare in croce materialmente; ma se dovremo andarci, non facciamoci pregare troppo, andiamoci e basta. Noi cristiani, se siamo tali, siamo dei signori; altrimenti non siamo cristiani. – La Redenzione dice questo. Però la Redenzione ha vinto: la colpa è stata cancellata virtualmente per tutti gli uomini. A quelli che tra di loro hanno peccato volontariamente, il rispetto che Dio ha per la loro libertà richiede che essi l’accettino, perché a chi ha peccato volontariamente Dio non perdona se non c ‘è il loro benestare: il perdono soggiace a questo benestare. Il benestare si chiama atto di penitenza, che è il rinnegamento della colpa in tutta l’estensione, compresa quella temporale, del passato e del futuro. La Redenzione ha vinto, e allora apre una visione nuova. È possibile vincere su quello che è ineluttabile? Due cose erano ineluttabili, la colpa e la morte. La colpa è stata già vinta del tutto; la morte anche, con la risurrezione di N.S. Gesù Cristo. La nostra morte verrà a suo tempo assimilata a quella e allora sarà compiuta la Redenzione totale; perché anche per i singoli uomini è stata definitivamente vinta la morte, e allora Cristo, tornato giudice, per usare la frase della Sacra Scrittura, « consegnerà il regno al Padre »: solo allora, perché solo allora sarà completata tutta la Redenzione. E questo ordine si chiuderà, questo ciclo sarà salvato, e su di esso nell’eterna gloria di Dio si rifletterà il cantico perenne dei beati, perché la Redenzione darà valore eterno a tutto quello che è servito all’uomo e che è entrato in qualunque modo a essere patrimonio inscindibile dell’uomo. Così la Redenzione si attuerà totalmente nella gloria eterna. Ed è la vittoria di Gesù Cristo. – Guardate ora che cosa riflette la Redenzione sulla nostra vita. E questo è il terzo punto. Per noi che siamo ancora nel tempo, nel cammino, riflette la speranza. Credete voi che sia possibile il cammino della perfezione senza il rispetto assoluto di tutte e tre le virtù teologali, della fede, della speranza e della carità? Il cammino di Dio deve passare per questi tre punti. Se noi credessimo di passare per un altro punto, in sostituzione a uno di questi, noi saremmo nell’errore, saremmo nella morte. La via della perfezione come deve passa attraverso la fede, deve passare attraverso la via della speranza. E perché è possibile la speranza agli uomini? Perché la Redenzione ha vinto. Che cos’è la speranza? E’ il desiderio fiduciale. La speranza è fatta di due pezzi: del desiderio e della fiducia. Se manca il desiderio, non abbiamo più la speranza; se manca la fiducia, non abbiamo più la speranza. La speranza è il desiderio fiduciale. Il desiderio che cos’è? È un movimento dell’anima che si sposta in avanti verso un bene ancora assente; non si desidera quello che si ha, quello che si ha lo si gode ma non lo si desidera più. Il desiderio è il movimento dell’anima che si protende verso un bene assente. Il bene può essere impossibile, e allora il desiderio è sballato; il bene può essere possibile, e il desiderio comincia a diventare ragionevole. – Ma non per questo siamo nella speranza, perché per avere la speranza, al movimento dell’anima e della volontà che tende a qualche cosa si deve unire la fiducia. Che cos’è la fiducia? La fiducia è quell’atteggiamento dell’anima conseguente a un giudizio dell’intelletto. Il giudizio dell’intelletto, documentando, dimostra possibile il bene desiderato e,  documentando, dimostra esserci una fedeltà che si è impegnata, sotto talune condizioni, a darcelo. Sicché quello che è desiderato non è semplicemente un possibile; ma, senza essere una certezza assoluta e infallibile, poggia sul giudizio di una fedeltà che è in causa e, nel caso, è la fedeltà divina che ha promesso, verificandosi le condizioni. Questa è la fiducia. È il giudizio insomma sulla possibilità di un bene desiderato e sulla presenza di una fedeltà capace, e nel caso è quella di Dio, impegnata, di farci conseguire il bene desiderato. E’ chiaro che quando il desiderio si sposa alla fiducia e la fiducia è di questo genere, parliamo della fiducia in Dio, ne viene il sollevarsi dell’anima, l’innervamento dell’anima, ne viene allora l’attesa, il coraggio e, già riflessa, anticipata, la gioia. Queste sono conseguenze della fiducia, cioè conseguenze della speranza che è il desiderio fiduciale. Ora voi capite che la vittoria della Redenzione, con quello che ho anche succintamente rievocato, documenta la fedeltà divina, la promessa di Dio, che è fedele a quello che ha promesso. E allora entra trionfale nella vita, negli uomini, il desiderio fiduciale, la speranza, il cui oggetto è la vita eterna e le grazie necessarie per meritarla, come si dice nel comune atto di fede. Allora la Redenzione fa entrare nella vita la speranza. Ma è possibile che non entri? Perché se non entrasse, sarebbe un rinnegamento della Redenzione. La mancanza della speranza a proposito della Redenzione si ritorcerebbe in una mancanza di fede. La vita di fede non può esistere, se manca la virtù della speranza. Potrà sussistere l’atto di fede, forse, ma se non c’è la speranza, non si vive di fede. Allora come è necessario per camminare verso la perfezione vivere di fede, vedere queste verità, apprezzare queste verità, farne ogni momento stimolo e ragione e sfondo a quello che si fa, così è necessario che nella vita entri la speranza. – Vi prego di misurare brevemente quello che ciò significa. Che entri la speranza nella vita significa che entra il giusto e cristiano ottimismo; perché quando si ha dalla propria parte la fedeltà divina, impegnata con una promessa, non c’è più la ineluttabilità del male. Il pessimismo è il senso della ineluttabilità del male; non si concilia con la speranza. – Il pessimismo è una mancanza di speranza oppure è una malattia. Nel secondo caso bisogna curarlo come si curano tutte quante le malattie. Ma è certo che la speranza non solo dà l’ottimismo ma dà il coraggio. La speranza dà al momento opportuno la necessaria serenità all’anima che si può abbandonare e distendere in Dio per le infinite ragioni che Dio le manifesta nella sua divina parola e che possono essere pronte a sovvenire in tutte le sue circostanze, purché allora la semplicità e l’umiltà aprano la porta alla parola di Dio. Semplicità e umiltà, e la speranza è inscindibile, almeno per qualche momento, dalla gioia. È la speranza che dipinge chiari gli orizzonti, che non chiude gli orizzonti in limiti angusti e invalicabili. È la speranza che risolve i problemi della nostra debolezza e della nostra incontentabilità. Se non c’è questo abbandono in Dio, se non si fa a Dio, che per darcene un documento è andato in croce, l’onore di aver fiducia in Lui, non si è degni di avvicinarsi a Lui. – Il contrario della speranza è il peccato di disperazione; l’unico peccato che non si può perdonare è quello contrario alla speranza, perché il peccato di disperazione rifiuta di aver fiducia nella bontà di Dio. Tutti gli altri peccati sono remissibili da Dio; questo, fintanto che c’è, è irremissibile. Dio ci chiede l’onore di credere al suo amore, alla sua misericordia, alla sua bontà. La Croce è una esagerazione che rientra nell’equilibrio quando si pensa che a certi uomini, che dalle loro stesse ombre, dalla loro stessa talvolta amara esperienza cadono in pericolo di disperazione, era opportuno che la documentazione dell’amore fosse data senza limiti. E tale documentazione Dio ha dato a noi; e noi non possiamo rifiutare d’avere tale fiducia con pieno, filiale, assoluto abbandono, in ogni momento, in vita e in morte. La Redenzione, così inquadrata in questa esagerazione, è necessaria, perché in certi momenti della vita, se non ci fosse quella esagerazione, noi piccoli uomini quasi incapaci di concepire cose più grandi di noi non troveremmo motivi sufficienti per continuare a sperare. E invece anche il peggiore degli uomini, nella peggiore delle situazioni, nel peggiore dei momenti, di fronte alla morte, può credere nella Misericordia di Dio, credendo alla Croce. Guai se non ci fosse quella esagerazione! Noi siamo abituati a vedere il Crocifisso tutti i giorni, non ci facciamo più caso. Ma perché quelle braccia non si staccano dalla croce? Sono lì, e la Chiesa le vuole lì, non esige per legge nessun’altra immagine sull’altare; quella sì, e se non c’è, non si può dire la Messa. Le braccia aperte, inchiodate, il costato aperto, il capo reclino, sempre così, la divina esagerazione! Se l’abitudine ci ha fatto perdere il senso di che cosa significhi per noi quella divina esagerazione, la meditazione ristabilisca l’equilibrio e ci faccia capire che cosa vuol dire il Crocifisso e guardare il Crocifisso, perché ci sono dei momenti, nella vita di tutti gli uomini, che senza quella divina esagerazione la speranza non reggerebbe.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (7)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(7)

9. La rettifica dell’intenzione

Per mettere delle solide basi alla nostra personale perfezione occorre studiare il metodo di qualunque atto della nostra vita. Perché le nostre azioni siano veramente valevoli e realizzino a poco a poco uno stato perfetto, bisogna che impariamo a farle tutte, senza distinzione, per quanto ci è possibile, con determinate condizioni. L’attenzione nostra, la volontà, la generosità si misureranno qui attraverso una disciplina, un’insistenza, perché noi dobbiamo acquistare l’abitudine di compiere ogni cosa con talune condizioni. – Quali sono dunque le condizioni che dobbiamo porre perché le nostre azioni siano veramente valevoli? Voi sapete che perché le nostre azioni siano veramente valevoli davanti a Dio e meritino, devono essere fatte in stato di grazia di Dio; se manca questo presupposto, essenziale per l’acquisto di qualunque merito, si potrà ottenere dal Signore grazie per la vita presente e grazie anche per la conversione, ma niente si guadagna per la vita eterna. E perciò è molto importante che questa condizione ci sia. E allora vengo alle altre condizioni. La prima di esse già è stata studiata, ma richiamarla mi dà modo di completarla dal punto di vista pratico. – La prima condizione perché le nostre azioni siano valevoli e raggiungano il massimo della perfezione è la rettitudine dell’intenzione: ne ho già parlato. Ma è opportuno il richiamo per venire a parlare dell’aspetto pratico della rettitudine d’intenzione. Vi ho detto che ci vuole la massima cura per renderla quanto ci è possibile attuale; non accontentarci di quella abituale, e nemmeno restare in quella virtuale, ma arrivare a quella attuale. Tuttavia io non vi ho dato alcun consiglio pratico in merito. Il consiglio pratico è questo: bisogna acquistare l’abitudine di formulare esplicitamente l’offerta a Dio di tutte le azioni della giornata, nessuna esclusa. Quando iniziamo la giornata e diciamo con la mente in stato di coscienza le orazioni del catechismo, questo viene fatto perché nelle orazioni del catechismo c’è l’offerta delle azioni della giornata, c’è la formulazione della intenzione rettissima la quale, se poi non avrà altri soccorsi lungo la giornata, potrà da attuale diventare virtuale o soltanto abituale. Ma almeno una intenzione abituale c’è ed è già qualche cosa. Tuttavia questo non è tutto quello che noi dobbiamo desiderare di fare; è un po’ troppo poco per chi vuol vivere veramente una vita spirituale. – E allora è necessario che vi siano nella giornata dei momenti scaglionati, e più se ne metterà e meglio sarà, nei quali si rinnovi la formulazione dell’intenzione che, notate, ha due aspetti: l’aspetto di offrire a Dio e l’aspetto di dare una direzione superiore alle nostre azioni. – Anche il secondo aspetto è importantissimo agli effetti della sincerità, della umiltà e del valore degli atti nostri, quello di rettificare l’intenzione. Qui è il momento di parlare non della rettitudine, ma della rettifica dell’intenzione. Per la vita spirituale e per il cammino di perfezione, la rettifica di intenzione è una delle cose fondamentali. È facilissimo che con tutta la buona volontà nostra, con tutta l’attenzione e con tutta la meditazione, inoltrandoci nel nostro dovere quotidiano, a un certo momento, per un certo incanto o per una certa attrazione o per una certa fantasia o per una certa distrazione, si finisca col compiere quell’azione buona che si sta facendo con uno scopo diverso da quello che era concepito inizialmente, cioè è possibile che lo si cominci a fare perché agli altri piace o perché si riscuote un omaggio di soddisfazione da parte degli altri. Lì comincia il pericolo. La cosa può avere un tale carattere sornione che non ci se ne avvede e a un certo momento ci si trova come inondati dalla dolcezza di fare un’azione buona come se si fosse spalancato il cielo e tutta la luce fosse piovuta giù e ci portasse una grande dolcezza, e se si osserva bene, a un certo momento ci si trova pieni di vana compiacenza. – Credete, chi vuol avere una vita spirituale sul serio, chi vuol camminare speditamente verso Dio, con generosità assoluta, con distacco completo, con dedizione seria all’amore del Signore, deve praticare, se già non lo fa, l’uso della rettifica di intenzione durante la giornata. Al mattino si comincia con la rettitudine d’intenzione, con l’offerta a Dio, ma nel prosieguo la rettitudine, per rimanere tale, ha bisogno di un’altra cosa, ha bisogno della rettifica. Ogni tanto bisogna dire: Signore, qui il mio povero asino sta per andare fuori strada; Signore, io agisco per te; non per me, ma soltanto per te. È una pratica questa che quando fosse consacrata in qualche pia giaculatoria, in qualche cosa che, direi, deve avvenire quasi per regolamento, sarebbe una pratica santissima e del massimo interesse. Per quale motivo tante anime cominciano il mattino benissimo: si levano, pregano, salutano il Signore con la freschezza dei raggi dell’aurora, poi la Comunione, poi tutto bene, l’ardore, la quiete spirituale, la pace, la sicurezza, ma a un certo punto della giornata comincia un dondolio, si comincia a pencolare di qua e di là, per cui alle volte la sera le oche sono lì tutte spennacchiate e hanno bisogno di rifarsi qualche pezzo d’ali perché hanno perduto per la strada metà di sé stesse? Perché è mancata la rettifica d’intenzione. Alle volte si comincia a fare un discorso, e il discorso è giusto, si parla di qualcosa anche di spirituale; ma a un certo momento si deve nominare qualcuno; per la nostra superbia occorre che nel discorso passi qualcuno, siamo come il cacciatore che sta lì da dieci ore ad aspettare che passi un uccello e gli spara subito. Siamo fatti così. La nostra superbia è sempre in agguato; basta che nel discorso passi un nome che, se non si sta proprio attenti, ecco una mossa, una tirata, un giudizio, una schioppettata. – Voi capite, vero, quante volte bisogna fare la rettifica d’intenzione! Ma la rettifica d’intenzione deve essere continua. Concludiamo. La prima caratteristica che rende perfette le nostre azioni è la rettitudine. Ma aggiungo che questa rettitudine d’intenzione, che è da farsi a ogni inizio di giornata, è da rinnovarsi più che si può, legandola a tutte le pratiche di pietà. Bisognerebbe che ogni pratica di pietà cominciasse con la rettifica d’intenzione perché, siccome in una giornata se ne fanno parecchie di pratiche, se si segue la serie di quelle, effettivamente in una giornata si ha la riabilitazione di noi stessi almeno attraverso la rettifica d’intenzione. Se ce la fate fino alla sera, la sera potete cominciare a cantare veramente, perché quando uno è arrivato a mettere insieme in una giornata una perfetta rettitudine d’intenzione in tutto quello che ha fatto, e ciò che ha fatto l’ha fatto perché era il suo dovere, perché lo voleva Dio, perché lo portava a Dio e non per un altro motivo, ed è sempre stato pronto a scacciare anche qualsiasi incosciente sbandamento, arriva alla fine della giornata e può dire: adesso ho diritto di dormire. – Anche quello con rettitudine d’intenzione, e senza essere tenuto a rettificarlo, perché dormendo non si pecca. – La seconda condizione è l’attenzione. Che cosa vuol dire l’attenzione? Vuol dire fare in modo che nell’atto libero umano, umano in quanto c’entra la intelligenza e la volontà, la intelligenza non si offuschi, non si stanchi, cioè inizi con chiarezza; veda quello che fa e poi non s’offuschi, resista tanto quanto occorre per potere in piena chiarezza portare l’atto fino in fondo. L’attenzione è questa. Accendervi la luce sopra, in modo che non se ne vada in crepuscolo, in incoscienza, ma sia chiaro. Siccome il valore dell’atto, a parte la grazia di Dio che è sempre la radice soprannaturale prima delle nostre azioni, inizia da quando c’entra la nostra intelligenza e la nostra volontà, è molto importante che l’intelligenza non si oscuri. E questo si chiama attenzione, fare caso a quel che si fa. Badate che quando si accende l’intelligenza, quella muove la volontà. Ma è la intelligenza che deve essere tenuta accesa contro la forza dell’abitudine che, ripetendo gli atti, può far sì che noi ci dispensiamo dal metterci l’attenzione. Sono le abitudini le tentazioni contro questa seconda caratteristica che rende gli atti perfetti. Come vedete, non occorrono molte disquisizioni per parlare della seconda caratteristica, l’attenzione. Ma è evidentissimo che questa caratteristica decide proprio del valore dell’atto perché tiene accesa la sorgente di luce che, per quanto riguarda noi, dà valore all’atto. E se quella si estingue, a un certo momento si estingue anche il valore dell’atto. – Io non parlo degli effetti buoni che ne vengono in campo umano, perché voi sapete che il lavoro rende in quanto si fa con attenzione. Ma io non sono qui per difendere la dottrina della produttività, a me interessa una dottrina più grande che è quella della santità. Ed è certo che è proprio da questa attenzione che deriva tutta l’efficacia del nostro lavoro. L’abitudine e la fantasia sono due grandi nemici dell’attenzione. – Lasciamo stare la fantasia e parliamo dell’ abitudine. Vi sono degli atti e, manco a farlo apposta, sono i più grandi, i più santi, che vengono ripetuti continuamente nella nostra vita, da farci cascare, nolenti o volenti, in una certa abitudine. E allora la forza dell’attenzione va portata là. Sono gli atti più grandi. Noi sacerdoti diciamo la S. Messa tutti i giorni; e proprio perché la diciamo tutti i giorni, siamo nel pericolo, tutt’altro che lieve, di finire col fare forse bene tutto meno che dire la S. Messa. Perché l’abitudine dispensa dalla attuale attenzione. E se non c’è una ripresa di volontà quanto mai energica, impegnata e assoluta, si finisce col fare tutto sul tapis roulant, senza nemmeno muovere un passo. – Voi avete delle adorazioni, degli atti comuni, delle preghiere da dire, e io osservo che le dite bene, non ve le mangiate, non precipitate; osservo che cantate bene i Salmi, fate bene le genuflessioni. Per carità, difendete quanto potete questo modo di pregare. Lo so che si può fare anche esternamente tutto bene e poi con la testa essere a caccia; però, se anche l’atto esterno è fatto bene, non c’è dubbio è sollecitato anche l’ordine interno. Attenti perché le cose che si fanno tutti i giorni sono quelle che vengono massacrate quando l’attenzione se ne va, perché l’attenzione, andandosene estingue la sorgente del merito. Non che manchi totalmente il merito, perché per quel poco che l’attenzione sarà rimasta accesa, qualche cosa avrà fatto; ma come quella si estingue, dove va a finire il merito? Rimarrà semmai il merito dell’intenzione virtuale, in quanto essa ha spinto all’azione, e la sequenza è ancora sotto la prima spinta; ma è finita con la perfezione. La perfezione domanda l’attenzione. Age quod agis. – La terza è la diligenza. È una cosa diversa dall’attenzione, anche se la può comprendere. Perché, mentre l’attenzione consiste in un fenomeno intellettuale, che tiene accesa la lampadina elettrica e non permette che s’entri in ombra crepuscolare, la diligenza è piuttosto una funzione della volontà. La diligenza sovvenziona continuamente con la forza di volontà, e sovvenziona in modo da arrivare al dettaglio dell’azione, alla sfumatura dell’ azione e, attraverso il dettaglio e la sfumatura, alla perfezione e perfino all’imponderabile dell’azione. – È chiaro che se non c’è un intervento della volontà, le azioni vengono raffazzonate, con grandissima facilità s’accorciano, si rabberciano, si tirano. Ci vuole una erogazione di forza di volontà perché s’arrivi al dettaglio, alla sfumatura, perché si realizzi la precisione, si raggiunga perfino l’imponderabile; allora l’azione è a posto. – Non sto a dire che cosa sia la diligenza nella produttività, di questo si occuperanno gli economisti, non noi. Dico che per la santità ci vuole la diligenza e che la diligenza è l’elemento condizionante la perfezione dell’atto. Sì, perché, a parte la grazia del Signore, le sorgenti del valore dell’azione nostra, sono due: l’intelletto e la volontà. Se si estingue l’attenzione, è dimostrato che se ne va il valore, almeno in parte; se si estingue la volontà, cioè se viene meno la diligenza, parte l’altra sorgente; se poi partono tutte e due, immaginatevi il risultato! – Ora veniamo al quarto punto. Il quarto è l’amor di Dio e con questo va a posto tutto, perché se ogni atto concepito perfetto vale 90, l’amor di Dio lo prende a 90 e lo porta a 100, a 200, a 1000. E qui ci si ferma. Qui la scala non può enumerare gli scalini; chi più ne ha, più ne metta. Il motivo dell’atto lo condiziona l’amor di Dio. È vero che il motivo può ricadere nel fine, cioè nella prima condizione, però è opportuno tenerle distinte allorché si è in sede di trattazione perché, è evidente, non è necessario che motivo e fine coincidano; anche se il fine diventa generalmente il motivo, possono essere distinti. Per questo è opportuno trattarli distintamente. – Fare quel che si fa per amore, ecco. Quanta gente che fatica da mattina a sera è contenta di faticare. Non che fatichi per la santità, no, no; è contenta perché lavora per amore. Ha una famiglia, ha dei piccoli in casa, e guardate come lavora volentieri. Quando il lavoratore non lavora più volentieri, c’è da temere che non ami più del tutto la sua famiglia. L’amore trasforma tutto. Quando le cose si fanno per amore, entrano in una possibilità nuova, in una risurrezione degli atti se fossero morti, in una vivificazione degli atti già vivi, in un potenziamento, in una elevazione ad alta potenza degli atti. – Parliamo dell’amore di Dio. Sentite, ci vuole un certo calore per tenere in piedi tutta sta macchina: rettitudine, rettifica d’intenzione, attenzione, diligenza; ci vuole del calore. La preghiera porterà questo calore e poi porterà la grazia di Dio e sarà erogazione di energia continua. Ma anche noi dobbiamo metterci la nostra parte, perché se questo calore ci viene a mancare, si cadrà in quella rigidità nella quale si cammina a vuoto; viene la tiepidezza, la mancanza del gusto spirituale, la tenebra. E allora non c’è che una cosa che salvi, è l’amor di Dio. L’amore salva anche senza gusto, nella notte oscura. Se non c’è questo, non ci si salva. Quando si passa nella notte oscura, direbbe S. Giovanni della Croce, cade tutto, perché allora arriva quel tale fenomeno che si chiama la spoetizzazione. È un fenomeno che nella vita spirituale va tutt’altro che trascurato. C’è della gente che vibra di santità, ha l’apertura dell’aquila nelle ali, ma fintanto che i termosifoni sono accesi; spegnete quelli e voi vedete che viene la tiepidezza, viene lo choc nervoso, l’interruzione della corrente, del sentimento, cioè viene la spoetizzazione. Fintanto che c’è la poesia, la devozione cola come il miele giù nell’esofago; ma quando non c’è più il miele, si chiude il capitolo. Ci sono dei temperamenti nervosi che quando il tempo si mette sullo scirocco sono a terra, non fan più niente, non han più voglia di fare niente, nemmeno di andare in Paradiso. Come cappe di piombo. E talvolta noi uomini siamo così deboli che siamo proprio, come costituzione fisica, alla mercé dello scirocco o della tramontana. Siamo così, con tutte le arie che ci diamo. Talvolta basta un piccolo choc perché s’interrompa la corrente, non si sente più nulla; una piccola contrarietà, una piccola umiliazione, un piccolo fallimento basta perché lo choc sia tale da inchiodare anche per una giornata, per due, per tre la vibrazione del sentimento, che è quella che aiuta ad amare Dio. Succede che una persona che stravolge gli occhi e va a vedere un bel quadro perché sente l’arte intimamente, se si trova davanti a un quadro di Raffaello, lo guarda come se guardasse il carro della spazzatura, non sente più niente. Si può trovare la persona che si esalta con le magnificenze, mai abbastanza decantate, della divina Liturgia e che dinanzi alla più grande coreografia religiosa seria, vera, profonda, si trova allo stesso livello del banco sul quale si siede. Sono fenomeni che succedono, e quando si parla di vita di perfezione, bisogna tenerli in considerazione, perché se noi trattiamo delle vicende della santità come se di casi avversi non ce ne fossero mai, poveri noi, non arriveremo mai alla santità. – Guardate che i fenomeni della spoetizzazione, chiamateli choc, aridità, tutto quello che volete, vengono con una facilità tale che possono compromettere quello che noi andiamo componendo. Dunque bisogna prendere dei provvedimenti che siano validi. Il più valido è questo: tutti gli atti debbono avere sempre per movente l’amore di Dio. L’amore vero, non l’amore sentimento, non abbracci, baci, dolcezze, quella sarebbe una società di mutuo sfruttamento, non l’amore. L’amore è un’altra cosa, è volontà in atto, è forza. E voi capite quanta necessità ci sia perché l’amore sia veramente forte. Ecco, queste sono le quattro condizioni perché le nostre azioni costruiscano l a perfezione della nostra vita. Non spaventatevi; se farete l’orazione come va fatta, tutte queste cose diventeranno facili, e allora sì che l’abitudine, invece di essere un imbroglio, diventerà un sussidio. E Dio lo voglia!

 

DOMENICA III dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps XCVI:7-8
Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]
Ps XCVI:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, infirmitatem nostram propítius réspice: atque, ad protegéndum nos, déxteram tuæ majestátis exténde.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, volgi pietoso lo sguardo alla nostra debolezza, e a nostra protezione stendi il braccio della tua potenza].

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:16-21
Fratres: Nolíte esse prudéntes apud vosmetípsos: nulli malum pro malo reddéntes: providéntes bona non tantum coram Deo, sed étiam coram ómnibus homínibus. Si fíeri potest, quod ex vobis est, cum ómnibus homínibus pacem habéntes: Non vosmetípsos defendéntes, caríssimi, sed date locum iræ. Scriptum est enim: Mihi vindícta: ego retríbuam, dicit Dóminus. Sed si esuríerit inimícus tuus, ciba illum: si sitit, potum da illi: hoc enim fáciens, carbónes ignis cóngeres super caput ejus. Noli vinci a malo, sed vince in bono malum.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Saggio di omelie, vol. I, Om. XV, Torino, 1899]

“Non riputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia: procurate il bene non solo innanzi a Dio, ma anche innanzi a tutti gli uomini. Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. Non vi vendicate da voi, o carissimi, ma date luogo all’ira, perché sta scritto: “A me la vendetta; renderò io la retribuzione, dice il Signore. Se dunque il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare: se ha sete, dagli da bere; facendo così, radunerai carboni accesi sul suo capo. Non ti lasciar vincere dal male, ma col bene vinci il male „

Queste stupende sentenze dell’apostolo Paolo sono la continuazione di quelle che udiste nella penultima Omelia, come quelle erano la continuazione dell’altra penultima. La Chiesa nella epistola di queste tre Domeniche dopo la Epifania ci ha messo sotto gli occhi da meditare l’intero capo XII della lettera ai Romani, vero e sublime compendio della dottrina morale del Vangelo. – Io penso che raccogliendo e ordinando insieme tutto ciò che di bello e perfetto dissero sparsamente nei loro volumi tutti i filosofi di Grecia e di Roma intorno ai doveri morali degli uomini, non avremmo la decima parte delle verità morali che S. Paolo ha condensate in questo solo capo. Quanta differenza tra l’insegnamento incerto, diffuso, manchevole, misto ad errori e senza autorità di quelli, e l’insegnamento preciso, breve, compiuto, scevro d’ogni ombra ed autorevole di S. Paolo! È questa dell’Apostolo una pagina che, anche sola, meditata a dovere, ci fa sentire e conoscere quale abisso corra tra la dottrina morale dei sommi sapienti del paganesimo e quella di Gesù Cristo. Ma veniamo al commento. – “Non reputate voi stessi sapienti: non rendete male per male a chicchessia. „ Una delle cause più frequenti e più gravi delle nostre colpe e, dirò anche, dei nostri malanni domestici e pubblici, è la soverchia fiducia che riponiamo nella nostra abilità e nelle nostre forze: essa ingenera la presunzione, l’avventatezza nel parlare e nell’operare e l’imprudenza con tutti i suoi effetti. Perciò S. Paolo grida ai suoi figli spirituali: “Non reputate voi stessi sapienti; „ non appoggiatevi soverchiamente a voi stessi, ma rivolgetevi per lumi ad altri più savi di voi e soprattutto appoggiatevi a Dio, da cui viene ogni lume. “Non rendete male per male a chicchessia: „ è una sentenza, che l’Apostolo, nella foga del dire, ha cacciata qui, ma, che tosto ritorna sotto la sua penna e che svolge più ampiamente, onde è bene rimetterla ai versetti seguenti. – “Curate il bene non solo innanzi a Dio. ma anche innanzi a tutti gli uomini. „ Queste parole l’Apostolo le piglia dal libro dei Proverbi capo III, vers. 4, e qui si vogliono spiegare alquanto diffusamente. Noi dobbiamo sempre fare il bene: ma talvolta può avvenire che quello che è bene in sé e dinanzi a Dio, non lo sia egualmente dinanzi agli uomini che giudicano dalle apparenze, od anche secondo le loro passioni od inclinazioni; e noi allora adoperiamoci a raddrizzare i loro giudizi e mostriamo che ciò che facciamo è veramente bene e avremo tolto lo scandalo. Queste parole possono anche intendersi in altro modo e forse migliore: Dio vede la nostra mente, il nostro cuore e la nostra intenzione, e gli uomini vedono e conoscono soltanto le nostre opere e le nostre parole. Ebbene: vediamo di fare ogni cosa, internamente ed esternamente, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, in modo da piacere a Dio ed agli uomini stessi. Anzi tutto dobbiamo fare il bene dinanzi a Dio. Come? avendo sempre un fine retto, quello di adempire il nostro dovere, di ubbidire a Dio, di procurare la sua gloria, il bene dei prossimi, e scacciando qualsiasi altro fine men degno del cristiano, come sarebbe la vanità, il capriccio, l’interesse e andate dicendo. Nel fine specialmente sta la bontà delle opere nostre e questo Dio solo lo vede. Dobbiamo fare il bene anche dinanzi agli uomini, cioè in guisa che non sia offesa la carità, che non sia male interpretato, che giovi, se è possibile, a tutti e tutti ne ricevano edificazione. – “Se è possibile, quanto è da voi, siate in pace con tutti. „ Vuole l’Apostolo che abbiamo pace con tutti, quella pace che Gesù Cristo portò sulla terra e tante volte raccomandò ai suoi Apostoli; ma vi mette due condizioni, che sono naturali. La pace è desiderabile e dobbiamo procurarla con ogni studio, ma salvi sempre i diritti della verità e della giustizia. Se gli uomini per accordarci la pace ci domandano il sacrificio della verità e della giustizia, noi dobbiamo rinunciare alla pace e rassegnarci alla lotta, sia quanto si vuole lunga e crudele. Era in questo senso che Gesù Cristo diceva d’essere venuto a portare, non la pace, ma la spada, ossia la guerra, e questa verità accenna l’Apostolo allorché dice: “Se è possibile, siate in pace con tutti. „ Vi è un’altra condizione ed anche questa non infrequente. Noi possiamo volere, desiderare e procurare, la pace, ma gli altri per animo malvagio, possono ricusarla: in tal caso la pace non è possibile. Allora che dobbiamo fare? Che si richiede da noi? Si richiede e basta, che noi dal canto nostro siamo sempre disposti a fare e mantenere la pace, il che S. Paolo ha espresso chiaramente in quelle parole: ” Quanto è da voi. „ Che altri non voglia la pace o la turbi, è male, ma tal sia di loro; ne risponderanno a Dio; ma voi vogliatela sempre e dal lato vostro non la turbate mai. Seguiamo l’Apostolo nelle magnifiche sue lezioni morali. ” Non vi vendicate da voi, o carissimi. „ Gli altri, cosi in sentenza S. Paolo, potranno turbare la pace, offendervi, manomettere i vostri diritti, farvi ingiustamente ogni male. Che farete voi? Potrete voi da voi stessi rendervi giustizia e vendicarvi dei vostri nemici ed oppressori? No, no, grida il grande Apostolo: ciò non è lecito, non è da cristiano, e nemmeno da uomo. “Date luogo all’ira, „ insegna S. Paolo. E che vuol dire dar luogo all’ira ? Se altri vi odia e rompe in ira con voi e vi copre d’ingiurie, voi tacete pazientemente; lasciate che l’ira sua, a guisa di torrente o di nembo impetuoso passi e si dilegui: l’opporvi potrebbe accrescerne il danno, e bisogna ricordarci che una parola benigna e mansueta ammorza l’ira e che un vento procelloso atterra l’albero che sta ritto e resiste, ma non la molle erbetta che si piega e cede. Oh! quante discordie, quante querele, quante risse sarebbero impedite in casa, per le vie, dovunque, se noi dessimo luogo all’ira, frenassimo la lingua ed al fratello che sbuffa d’ira e getta fuoco dagli occhi opponessimo il silenzio tranquillo e senza fiele! Ricordate sempre le parole di S. Paolo: “Date luogo all’ira. „ “Non vi vendicate da voi. „ Se ciascuno volesse vendicarsi da sé per le offese ricevute, che ne avverrebbe? Manifestamente la società intera andrebbe sossopra, anzi sarebbe distrutta. – Se tu vuoi farti giustizia da te stesso, qualunque altro uomo avrebbe egual diritto, e perciò ogni uomo sarebbe giudice e vindice delle offese che ha ricevute, o crede di aver ricevute, e troppe volte il diritto soccomberebbe alla forza e si scambierebbe con la violenza. Dunque non spetta mai all’individuo fare la vendetta per le offese ricevute. A chi spetta? A Dio, solo a Dio, che rende giustizia quaggiù per mezzo della autorità costituita, che mantiene l’ordine e turbato lo ristora, che può e deve rendere a ciascuno secondo le opere sue. – Non occorre il dirlo: in queste parole di S. Paolo: “Non vi vendicate da voi, „ son vietate non solo tutte le vendette private, ma il duello, del quale sì spesso udite parlare e che in sostanza è una vendetta, che uno si prende da se stesso. Uno è offeso in un modo qualunque e sfida a duello l’offensore e scendono sul terreno per decidere con le armi alla mano le loro ragioni, accompagnati dai medici e da quelli che si dicono padrini o testimoni. Nulla di più irragionevole, o cari, di questi duelli, che si osa chiamare partite d’onore, necessità sociali. Tu sei stato offeso ingiustamente? Eccoti il tribunale, eccoti i giudici, e se meglio ti piace, gli arbitri. A loro esponi i tuoi diritti offesi ed essi ti faranno ragione. Ma tu esigi la riparazione con le armi in pugno. Ma così facendo tu rimetti alla forza il giudizio del diritto. Si può fare ingiuria maggiore al buon senso, alla ragione naturale quanto con l’appellare, non alla ragione stessa, alla legge, ma alla forza e talvolta al caso? Quante volte chi aveva ragione nel duello ebbe la peggio ed alla offesa ricevuta aggiunse il danno delle ferite ed anche della morte e la vergogna di soccombere! Qual differenza tra due villani o facchini,, che offesi a vicenda nell’impeto dell’ira si scagliano addosso, si pestano a pugni o danno di piglio ai coltelli, si feriscono od uccidono? Nessuna, anzi, se v’è differenza, essa sta tutta a danno dei duellanti, perché generalmente più istruiti; e perché si battono a sangue freddo ed in modi determinati e con armi scelte e perciò il loro delitto è più inescusabile. E mettono innanzi l’onore offeso! L’onore si ripara col giudizio di uomini competenti, con la sentenza dei giudici, non mai con l’uso delle armi e con l’offesa fatta alle leggi ed all’onore. Il duello, tenetelo ben fermo, o cari, è cosa indegna di uomini ragionevoli, di buoni cittadini, è un avanzo di barbarie, è il diritto della forza, è il giudizio del caso e tutti i sofismi del mondo non varranno mai a giustificarlo. È un delitto nel senso più volgare della parola. – Alla autorità, che è posta da Dio e lo rappresenta sulla terra, sottomettiamoci, come a Dio stesso. Che se ella non può o non vuole renderci giustizia, leviamo gli occhi in alto, a lui che è il Giudice infallibile, al quale nessuno può sfuggire e che ha detto: “A me la vendetta; io renderò la retribuzione. „ Rimettiamo la nostra causa a Dio; Egli, a suo tempo, punirà i nostri offensori e darà loro la mercede secondo le opere loro. Se noi volessimo fare la vendetta per conto nostro, usurperemmo il diritto, che spetta a Dio solo. Ponete che un padre abbia molti figliuoli e che questi vengano a litigio tra di loro e che l’uno se la pigli con l’altro, lo offenda e lo percuota malamente sotto gli occhi del padre suo. Voi che direste? Certamente voi lo condannereste anche nel caso che avesse ragione contro del fratello, e gli direste: “Tu hai il padre tuo, tuo giudice naturale: a lui devi rimettere ogni giudizio: la vendetta che ti prendi da te stesso è una offesa gravissima al diritto paterno, è una brutta usurpazione d’una autorità che non hai. ,, Noi tutti siamo figli del Padre nostro, che è nei cieli: siamo dunque fratelli: che l’uno dunque non si levi mai contro dell’altro, e ne lasci il giudizio a quelli che Iddio ha posto sulla terra a reggere gli uomini e, se questi vengono meno, ne lasci il giudizio a Dio stesso, a cui tutti dovranno rendere ragione delle opere loro. E tu che devi fare intanto col tuo offensore, col tuo nemico? Guardarlo di mal occhio? Serbargli odio in cuore? Fuggirlo come un nemico? Udite, udite, o cari, l’insegnamento di S. Paolo: ” Se il tuo nemico ha fame, dagli a mangiare: se ha sete, dagli a bere. „ È l’insegnamento stesso di Cristo, in altre parole: ” Amate i vostri nemici, diceva Gesù Cristo nel Vangelo (Matt. V, 44), benedite coloro che vi maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, pregate per quelli che vi fanno torto e vi perseguitano. „ La carità non può poggiare a maggiore altezza. “Così facendo, prosegue l’Apostolo, tu radunerai carboni accesi sul suo capo. „ Come ciò? Amando chi ti odia, beneficando chi ti perseguita e fa danno, tu lo costringerai a smettere il suo odio, lo forzerai ad amarti, vincendolo a forza di benefici. ” Radunerai, così commenta S. Girolamo, radunerai carboni accesi sul capo di lui, non già a sua maledizione e condanna, come pensano alcuni, ma a sua correzione ed a suo ravvedimento, sinché vinto dai beneficii e conquistato dalla carità, cessi dall’esserti nemico. „ ” Non ti lasciar vincere dal male, è la conclusione di S. Paolo, ma col bene vinci il male. „ Che vuol dire, fa bene a chi ti fa male, e sarà questa la più bella e la più gloriosa delle tue vittorie. – Sono piene le storie ecclesiastiche e le biografie dei Santi di esempi luminosi di tanta carità e non sono rari nemmeno al giorno d’oggi in quelle anime, nelle quali la dottrina di Gesù Cristo non è una semplice professione di fede, ma operosa realtà. Ho conosciuto un negoziante, sorto dal nulla, ottimo marito e padre eccellente di numerosa famiglia: era un cristiano modello. I suoi negozi prosperavano a meraviglia. Se ne rodeva d’invidia un suo vicino, pur esso negoziante: ne parlava male, gettava sospetti sulla sua onestà e spargeva voci sinistre sul suo conto in modo da cagionargli non solo grave dispiacere, ma non lieve danno, scemandogli il credito. Il pio cristiano soffriva e taceva, né mai rifiutava il saluto al suo vicino invidioso e maledico. Gli affari di questo precipitarono: impotente a pagare certe grosse cambiali, il disastro era imminente ed inevitabile. Lo seppe la vittima innocente della sua invidia e della sua maldicenza: senza farne motto a persona corse dai creditori, pagò i debiti dell’emulo suo e suo nemico e lo salvò dalla catastrofe, limitandosi a fargli tenere in bel modo le cambiali soddisfatte. – L’infelice salvato stupì a tanta generosità, pianse, corse dal suo benefattore, gli gettò le braccia al collo, gli chiese perdono e narrò a tutti l’eroica virtù di lui. Ecco, o dilettissimi, un uomo che raduna sul capo del suo nemico carboni accesi e col bene vince il male.

Graduale
Ps CI:16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
[Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua [V. Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia.]
Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps 96:1
Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.
Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia].

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt VIII:1-13
In illo témpore: Cum descendísset Jesus de monte, secútæ sunt eum turbæ multæ: et ecce, leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis, potes me mundáre.
Et exténdens Jesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra ejus. Et ait illi Jesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod præcépit Móyses, in testimónium illis. Cum autem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum et dicens: Dómine, puer meus jacet in domo paralýticus, et male torquetur. Et ait illi Jesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites, et dico huic: Vade, et vadit; et alii: Veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Audiens autem Jesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen, dico vobis, non inveni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham et Isaac et Jacob in regno coelórum: fílii autem regni ejiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Et dixit Jesus centurióni: Vade et, sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

[In quel tempo: Essendo Gesù disceso dal monte, lo seguirono molte turbe: ed ecco un lebbroso che, accostatosi, lo adorava, dicendo: “Signore, se vuoi, puoi mondarmi”. Gesù, stesa la mano, lo toccò, dicendo: “Lo voglio. Sii Mondato”. E tosto la sua lebbra fu guarita. E Gesù gli disse: “Guarda di non dirlo ad alcuno: ma va, mòstrati ai sacerdoti, e offri quanto prescritto da Mosè, onde serva a loro di testimonianza”. Entrato poi in Cafàrnao, andò a trovarlo un centurione, raccomandandosi e dicendo: “Signore, il mio servo giace in casa, paralitico, ed è malamente tormentato”. E Gesù gli rispose: “Verrò, e lo guarirò”. E il centurione disse: “Signore, non son degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di’ solo una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch’io, sebbene soggetto ad altri, ho sotto di me dei soldati, e dico a uno: va, ed egli va; e all’altro: vieni, ed egli viene; e al mio servo: fa’ questo, ed egli lo fa”. Gesù, udite queste parole, ne restò ammirato, e a coloro che lo seguivano, disse: “Non ho trovato fede così grande in Israele. Vi dico perciò che molti verranno da Oriente e da Occidente e siederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, ma i figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori: ove sarà pianto e stridore di denti”. Allora Gesù disse al centurione: “Va, e ti sia fatto come hai creduto”. E in quel momento il servo fu guarito.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Volontà di salvarsi

Un povero lebbroso andava in cerca di Gesù Nazzareno, spinto dal desiderio di ricuperare la perduta sanità. Quando opportunamente lo vede discendere dal declive d’un monte, seguitato da numerosa turba, e fattosi a Lui incontro, proteso a terra profondamente L’adora. Indi alzato il capo, le mani e la voce, “Signore, Gli dice, se Voi volete, io son guarito, il potere non manca: basta un atto di vostra volontà; “Domine, si vis, potus me mundare”. In vista di tanta umiliazione, di tanta fede, stende la mano il pietoso Signore, e “tu, gli risponde, mi chiedi se voglio mondarti, e ciò è appunto che voglio. Orsù resta mondo”, “volo mundare”. E così avvenne sull’istante. “Vattene, soggiunse poi, presentati al sacerdote, ed offerisci al Tempio quel che da Dio vien prescritto nella legge di Mose”. Fin qui un tratto dell’odierno Vangelo, in cui due cose naturalmente si presentano alla nostra riflessione; cioè la volontà del lebbroso in cercar la sua guarigione, e in procurarsela con i modi più moventi ed efficaci, e la volontà dei divin Redentore, manifestata con quell’imperioso “volo”, e compiuta coll’istantaneo prodigioso risanamento di quell’infelice. Da ciò dobbiamo apprendere, uditori miei, che per conseguire la nostra eterna salvezza, sono necessarie due volontà: quella di Dio, e la nostra. Quella di Dio è sempre pronta, la nostra sovente manca. Sono questi i due riflessi, che meritano tutta la nostra applicazione. La volontà di Dio è sempre disposta e pronta a salvarci. Dio vuole che tutti si salvino, “vult omnes homines salvos fieri” (ad Tim. II, 4). Di questa sua volontà ci ha Egli dato prove? Infinite! Noi eravamo per l’originale peccato, figli d’ira, vasi di riprovazione, e secondo la frase di S. Agostino, una “massa dannata”. Dio Padre, mosso a pietà di noi, diede il proprio Figlio riparatore dei nostri mali, e vittima dei nostri falli; ed Egli discese dal cielo per liberarci dalle catene del peccato, e dalla schiavitù del demonio. “Propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de cœlis” (Symb. Nic.). Osservate pertanto quel Dio fatto uomo nella capanna di Bettelemme, quelle lacrime che sparge sono sparse per lavarci dalla lebbra immonda delle nostre colpe; quel sangue che versa fin dai primi giorni nella sua circoncisione, è il balsamo per le nostre ferite. – OsservateLo in Gerusalemme nella Galilea, nella Palestina, ove ammaestra i discepoli, istruisce i popoli, catechizza le turbe, e ovunque sparge con la sua predicazione i semi dell’Evangelica sua dottrina, e con gli stupendi prodigi i lampi della divinità, che in Lui si asconde. E tutto ciò a fine di farsi conoscere per nostro liberatore, maestro e guida; onde seguendo le sue pedate, arriviamo per istrada sicura all’esenta salute. OsservateLo finalmente nell’orto dei suoi languori sudante sangue, nel pretorio da ogni parte grondante sangue, sul Calvario dalle piaghe e dal cuor trafitto versante sangue fino all’ultima stilla, e poi dite, di questo suo sangue Gesù Cristo ha formato un bagno salutare per lavarci dalla macchia dell’originale peccato; ed a riparo dell’innocenza perduta ha aperto un altro bagno dello stesso suo sangue nel Sacramento della penitenza, Battesimo secondo, seconda tavola dopo il naufragio. Che vi pare di queste prove? doveva forse far di più per dimostrarci la volontà che ha della nostra salvezza? – Poco forse vi muovono le indicate prove, perché universali, estese a tutto il genere umano? Seguite ad ascoltarmi. Siete voi nel numero degl’innocenti, o de’ penitenti, o dei peccatori? Se siete innocente, ditemi: “chi vi conservò illibata la candida stola della battesimale innocenza?” Chi vi ha liberato dai tanti pericoli del mondo e della carne? È Dio, che vi fece sortire un’anima buona, un’indole inclinata al bene, un’ottima educazione cristiana; è desso che con le sante ispirazioni, con i lumi della sua fede, con gli aiuti della sua grazia regolò i vostri passi, i vostri affetti, le vostre azioni. Desso è che vi ha tenuto lontano da tante occasioni nelle quali avrebbe fatto naufragio la vostra innocenza. Desso è finalmente che, in mezzo ai lacci e agli scandali d’un secolo così pervertito, vi ha difeso come un giglio fra le spine, come Lot fra le abominazioni di Sodoma: dunque Dio vi vuol salvo! Siete penitente? Or bene chi fu il primo a richiamarvi dalla via di perdizione? chi v’ispirò di tornare ai suoi piedi? chi vi diede forza a risolvervi? Chi vi diede grazia di vomitare il veleno dei vostri peccati ai piedi del confessore? Chi medicò le vostre ferite? Gesù, Samaritano pietoso, col vino della sua sapienza, con l’olio della sua misericordia! Egli vi accolse al suo seno come un altro fìgliuol prodigo, vi diede un bacio di pace, e vi rivestì della stola prima, cioè della grazia santificante. Dunque Dio vi vuol salvo! Se poi siete peccatore non ancor ravveduto, ditemi da chi vengono quelle interne voci che vi chiamano a penitenza? Da chi sono eccitati i rimorsi, che v’inquietano nelle vegliate notti, che vi amareggiano nei tediosi giorni, che vi avvelenano gli stessi vostri piaceri, che vi fan toccar con mano che il peccato non può farvi contento? Dalla divina misericordia partono questi colpi, la quale vi vola d’intorno, come provò S. Agostino, e vi assedia, e amaramente vi affligge con tetre apprensioni, con nere malinconie massime in quel tempo che una sventura vi attrista, che una febbre vi crucia, un dolor vi tormenta, una grave infermità vi minaccia di morte vicina. Son questi finissimi tratti della bontà di un Dio che non vi perde di vista, che tutta adopera i mezzi per farvi uscire dal vostro misero stato e vi molesta per consolarvi, e vi ferisce per risanarvi, perché in fine, sazio e mal contento del mondo, del peccato e di voi stesso, cerchiate in Lui la pace che non avete, la felicità che aver non potete, se non in Lui. Dunque Dio vi vuol salvo! A finirla, siete una pecorella innocente? È Gesù buon pastore, che vi custodì nel suo gregge. Siete pecorella ritornata dai vostri traviamenti? È Gesù buon pastore che sugli omeri suoi vi riportò all’ovile. Siete pecora ancora errante? È Gesù buon pastore, che vi tien dietro, e vi chiama a sé, perché non andiate in bocca al lupo infernale. Dunque, ripetiamolo ancor una volta: Dio vi vuol salvo!

II. “S’è così, ripigliate voi, noi abbiamo in pugno la nostra salvezza. Dio ci vuol salvi, noi vogliamo salvarci, e chi è quello stolto che non voglia salvarsi? … dunque la nostra salvezza sarà sicura”. Sicura sarà se avrete una volontà decisa, efficace, operante. Una volontà astratta, superificiale, oziosa non vi salverà. Siccome vi sono delle monete legittime, e delle false, così v’è una volontà vera, ed una fallace. Come faremo a distinguerle facilmente? L’oro si conosce alla prova del fuoco, la volontà si distingue alla prova del fatto. Perché Iddio ha una vera volontà di salvarci, abbiamo veduto poc’anzi quanto abbia fatto, e quanto fa continuamente per noi. Veniamo dunque all’opere, se ci preme la nostra salute. Voi pertanto, anime innocenti, allontanatevi dai pericoli del tristo mondo, adempite i doveri del vostro stato, frequentate le Chiese e i Sacramenti, regolatevi con le massime della fede, fortificatevi colle incessanti preghiere, perseverate nel bene e vi salverete! Voi penitenti cristiani, piangete i vostri trascorsi, ed il vostro pianto vi accompagni fino all’ultimo dei vostri respiri, fuggite le occasioni pericolose, soddisfate la divina giustizia con le opere di penitenza, mortificate i vostri sensi, raffrenate le vostre passioni, la mutazione del vostro cuore si manifesti col cambiamento dei vostri costumi, perseverate nell’intrapresa via di penitenza, e vi salverete. Voi peccatori, fratelli miei cari, ancor macchiati da colpa, ancor coperti di lebbra, imitate il lebbroso del presente Vangelo, gettatevi ai piedi di Gesù, portatevi ai pie del sacerdote, tuffatevi nel bagno formato dal sangue dell’immacolato Agnello di Dio nella sacramental confessione, e sarete guariti, e Dio vi salverà. Non vi sentite acconci di farlo? Dunque non volete salvarvi! Costantino imperatore, carico di schifosa lebbra, consultò per liberarsene i più valenti medici del suo impero, ed essi gli consigliarono un bagno di sangue di fanciulli lattanti, in cui dovesse immèrgersi, e ricuperare la pristina salute. Questo crudel consiglio, questo crudelissimo bagno, non ebbe effetto; poiché gli apparì S. Pietro, gli propose un bagno migliore nel santo Battesimo, ove acquistò la salute dell’anima e del corpo. Fingete però che si fosse eseguito, immaginatelo presente. Che orrore! Chi può soffrir la vista di quel sangue innocente, caldo, fumante? “Spogliati barbaro imperatore”. Che mi spogli? l’aria fredda, la stagione cruda, non mi sento per ora, più tosto … ah disumano, ah mostro di crudeltà! dunque per così poco tu rendi inutile il dolor di tante madri, il sangue di tanti bambini? Deh cessiamo dalle invettive in un supposto accidente, rivolgiamole contro di noi in un fatto vero. Gesù Cristo ha dato tutto il suo sangue, ne ha formato un mistico bagno nel Sacramento di penitenza per darci vita e salute, e noi per non spogliarci di un abito cattivo, per risparmiare un incomodo, rifiutiamo un tanto e così necessario rimedio? Dunque non vogliamo salvarci! – Se il Signore ci comandasse aspre, difficili cose pure per la salute eterna converrebbe eseguirle. Quanto si soffre per la salute del corpo? Rigorose diete, amare bevande, tagli di membra, dolori di spasimo; e per l’anima si ricusa un rimedio così consolante, qual è chiedere a Dio perdono col cuor contrito, e scoprire le proprie piaghe a chi tiene il suo luogo? “Se il Profeta Eliseo (dissero i cortigiani al loro principe Naaman Siro), se Eliseo per guarirvi dalla lebbra v’avesse ordinato una cura lunga, ardua, penosa, dovreste intraprenderla; ma una cosa sì agevole, qual è il lavarsi nel fiume Giordano, perché non praticarla?” Si arrese il principe al saggio consiglio, e doppiamente fu risanato, nel corpo cioè e nello spirito. Un esito egualmente felice dobbiamo sperare dal Sacramento della penitenza. Più dell’acque del Giordano è salubre il sangue dei Redentore. – Lavati così nei fonti del Salvatore, ecco quel che far ci resta, fedeli amatissimi, apprendetelo dalla bocca di Gesù Cristo. Un certo giovane Gli domandò che far doveva per conseguire la vita eterna, “si vis, gli rispose, ad vitam ingredi, serva mandata” (Matth. XIX, 17). Ponderate bene queste divine parole : “si vis”, se tu vuoi entrare nell’eterna vita, osserva i comandamenti; se tu vuoi, e veramente vuoi, tu mi darai prove del tuo volere con l’osservanza dei divini precetti. – Altrettanto ripete a ciascun di noi. Volete salvarvi? ecco la necessaria condizione, osservate la legge di Dio! Ma se invece bestemmiate il suo santo Nome, se non santificate le feste, se per santificarle vi contentate d’una Messa sentita in piedi, con gli occhi in giro, con la mente altrove, se usurpate la roba d’altri, se non restituite, se odiate il prossimo, se gli togliete la fama, se non lasciate il giuoco, il ridotto, la scandalosa amicizia, non state a dire che volete salvarvi, perché direste bugia, perché smentite col fatto quel che pronunziate con la lingua. La strada non passa. Quel Dio, dice S, Agostino, che ha creato voi senza di voi, non vuol salvare voi senza di voi. “Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”. Iddio per crearvi non ha avuto bisogno di voi, vi ha tratto dal nulla, con un sol atto di sua volontà; ma per salvarvi, e assolutaménte vuole, che alla sua volontà sia unita la vostra, con eseguire in tutto la sua santissima volontà. Non vi sentite, non volete farlo? Dunque non volete salvarvi, non vi salverete! – Concludiamo, e mi sia permesso servirmi d’un detto tratto dalla storia non sacra. Nei passati secoli, e nella nostra Europa eravi forte guerra tra due possenti monarchi; e com’è costume di tutti i tempi, tra i novellisti e geniali si teneva diverso partito, e la futura vittoria chi la voleva per l’uno, chi per l’altro sovrano. Interrogato su di ciò un principe neutrale, qual di quei due credeva sarebbe il vincitore, rispose: “vincerà quegli a cui presterò la mia spada”. Cristiani amatissimi, tra Dio e il demonio, a nostro modo d’intendere, passa una forte guerra contro dell’anima nostra. Iddio la vuole per sé, e come abbiam veduto, ne ha dato i più evidenti contrassegni, il demonio la vuol sua, e fa tutti i suoi sforzi. Chi la vincerà? senza alcun dubbio colui la vincerà, al quale presteremo la nostra spada, a cui uniremo la nostra volontà. – Se unita la volontà nostra è con quella del demonio, volendo persistere nel peccato, noi siam perduti. Sarà unita a quella di Dio con la fedele osservanza della sua santa legge? Noi sarem salvi!

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXVII:16;17
Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini.
[La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta
Hæc hóstia, Dómine, quǽsumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Quest’ostia, o Signore, Te ne preghiamo, ci mondi dai nostri delitti e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio
Luc 4:22
Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei.
[Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

 Postcommunio
Orémus.
Quos tantis, Dómine, largíris uti mystériis: quǽsumus; ut efféctibus nos eórum veráciter aptáre dignéris.
[O Signore, che ci concedi di partecipare a tanto mistero, dégnati, Te ne preghiamo, di renderci atti a riceverne realmente gli effetti.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (6)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(6)

  1. La rettitudine d’intenzione

Per costruire l’edificio della perfezione le considerazioni grandi debbono adattarsi anche a quelle piccole. E vi porto sul terreno assolutamente pratico per continuare l’argomento di come si faccia a vivere di fede. Perché il vivere di fede è certamente il fondamento della nostra perfezione. –  Vorrei insieme, obbiettivando, cominciare a dare delle indicazioni precise e completamente definite, di concretezza pratica; e per raggiungere l’uno e l’altro scopo vi parlo oggi della rettitudine di intenzione. Perché è impossibile che si cammini nella perfezione se la nostra intenzione non è retta. Se noi trascurassimo questo punto, come fanno molti, noi metteremmo l’una sull’altra delle pietre anche preziose, ma a tutte queste pietre mancherebbe un fondamento. Chi veramente e decisamente vuole volgersi verso il suo Signore e Padre deve stare attento a sistemare la propria intenzione. Innanzi tutto parliamo della intenzione e poi della rettitudine intenzionale, perché se non abbiamo l’idea chiara di che cosa sia l’intenzione e di quale funzione essa sia rivestita e del beneficio che essa dà, noi batteremmo l’aria. – Che cosa è l’intenzione? L’intenzione è un atto composito dell’anima per cui l’anima vede con la sua intelligenza uno scopo e vuole, ecco la facoltà motiva, vuole che sia raggiunto quello scopo. L’intenzione è l’atto col quale ordina, infila verso una direzione il proprio atto. Questo infilare verso una direzione è atto composito, perché risulta e della visione dello scopo e dell’atto motivo verso quello scopo. C’entra insieme l’intelligenza e la volontà. Questa è l’intenzione, e credo di non dover spiegare oltre perché la cosa è chiara, e talvolta per spiegarle, le cose chiare si fanno diventare oscure. Ma il bello viene ora, perché quello che soprattutto si deve guardare è che l’intenzione ci sia. Che vuol dire? Avere una finalità in ciò che si fa. Se noi osserviamo bene i vuoti maggiori che si creano nella vita spirituale, il che è dannosissimo alla perfezione, dipendono dal fatto che manca assolutamente l’intenzione. Si fa, ma sfugge all’intelletto il perché si fa; si fa, ma non si vuole nulla. Si fa, perché? Se uno mi misura un pugno, io, prima di volere qualunque cosa, alzo la mano e paro. Molto prima: si fa e basta. Vedete come si delinea quel caratteristico tipo di vivere che è di moltissimi, cristiani e non cristiani: non pensare affatto che un’azione possa avere un ordine, che possa servire a uno scopo e debba essere indirizzata a uno scopo. Se io chiedo a uno: perché stai seduto? Mah, sto seduto perché mi sono seduto. Chiedo a un altro: perché canti? Perché canto? Mah! Andiamo un po’ a vedere: forse perché sono un po’ allegro, ma di preciso non lo so; canto perché canto. È proprio questo l’impoverimento dell’azione, manca della sua luce che la eleva, la illumina, la mette su una strada, non la lascia come rifiuto al margine della strada. Il discorso serio a proposito di intenzione è questo. Ci sono troppe rarefazioni di intenzione nella nostra vita. Perché? Cerchiamo di dare una risposta pratica, concreta a questa domanda. Probabilmente la prima ragione per cui c’è una rarefazione di intenzioni nella nostra vita è una disistima, nel subcosciente, delle proprie azioni o di parte delle proprie azioni. Disistima. Che io stia in piedi o stia seduto, è niente. No, non è niente, è qualche cosa. Che io mangi, che io beva, è niente: mangiare è un’azione banale. No, non è niente, è qualche cosa. Che cos’è mangiare, bere, dormire? Sono tutte cose della vita vegetativa, animalesca. Sì, ma non sono del tutto animalesche, perché l’anima c’entra un pochino anche quella, tanto più che, se non entra per niente, scappa. Ma non sono niente, sono qualche cosa di più che niente, tante azioni che sono il legamento tra uno stato e l’altro, tra un’azione e l’altra; ma se sfuggono, piombano nel pozzo di questa disistima. Che io mi sia mosso per arrivare fin qui, è niente. No, non è niente; è qualche cosa, perché io non sono niente, poco sì, ma niente no. La disistima. Questa disistima ha bisogno di essere corretta con una dottrina precisa sulla inesistenza degli atti indifferenti. Quando si compie un atto umano, e atto umano è quello in cui la mente vede e capisce e la volontà vuole, cioè quando non si è in stato d’ebrietà, d’anestesia o di forte sofferenza o di sonno, l’atto umano non è mai indifferente; è buono o cattivo, cioè quando non è cattivo è positivamente buono. Perché qualunque atto nell’uomo ha sempre un ordinamento, e comunque basta il fatto che c’entri l’avvertenza dell’intelletto, che si muova questa luce suprema che viene accesa da Dio e ci sia l’intervento della volontà, e questo lo rende ricchissimo di qualche cosa, anche se esternamente può sembrare perfettamente indifferente e perfettamente inutile. Non esistono atti umani che siano indifferenti. I moralisti in qualche momento si sono accapigliati fortemente su questa questione, perché qualcuno aveva voluto sostenere che l’atto può essere indifferente, ma la sentenza comune è stata che l’atto non è mai indifferente. È questo che bisogna mettere in chiaro; e voi siete in grado di misurare che importanza abbia tale dottrina per la nostra vita. – Non parlo della attenzione perché di questa ne parlerò dopo. Bisogna pure stimare la perfezione dei singoli atti, ma la base dei singoli atti sta sempre nella intenzione. Questo è il primo motivo per cui c’è la dissuetudine, dissuetudine contro la quale bisogna lottare vigorosissimamente se si vuole andare verso la perfezione. Perché effettivamente se noi lasciamo cadere l’intenzione, possiamo lasciar cadere nel nulla la maggior parte delle azioni della nostra vita. E queste azioni che cadono nella dissuetudine rappresentano il più della nostra giornata. Poiché la nostra giornata non è fatta di una firma di Versailles o di un trattato di Cambrai. La vita è fatta di tante cose piccine, miserelle, comuni, domestiche, persino ridicole. Siamo dei poveretti; di cose illustri ne facciamo poche; quando ci pare di fare delle cose illustri, se dicessimo di fare delle cose illustri faremmo ridere. Ma quello che forse non vale niente per il mondo, e nemmeno per noi, spesso vale per Iddio. Ora l’effetto della dissuetudine dell’intenzione è questo: lasciar cadere nel nulla una parte della nostra vita. E questo è esattamente il contrario della perfezione, che è l’impiego massimo di tutto nella volontà di Dio. È vero che non sarà sempre così, perché qualche volta, e molte volte, l’intenzione si può salvare, anche se non è attuale, attraverso l’intenzione abituale, cioè quella tale intenzione implicita e virtuale; e molte volte queste intenzioni qualche cosa muovono e qualche cosa comunicano alle azioni che vengono in un modo o nell’altro vivificate. Però è troppo poco, se uno al mattino fa l’atto di indirizzo giusto nelle proprie azioni e dice: tutto quello che oggi farò, di qualunque natura sia, di qualunque ordine e grado, intendo farlo per la gloria di Dio, direttamente o indirettamente. Certo, questa intenzione riflette già una luce su tutti gli atti della giornata. Ma io mi chiedo: quanti fanno questo? E mi chiedo alle volte: che razza di colpa abbiamo noi, e molti nostri confratelli, se queste cose non le insegniamo al popolo? E così, per quel che può dipendere da noi, molte cose cadono nell’inutilità. È consolante pensare che a molti fedeli, ai quali noi non facciamo da parroco, fa da parroco Dio. Se non ci fosse questo, ci sarebbe veramente d’aver freddo a riflettere su queste carenze di cui noi siamo, molte volte, i responsabili. – L’altra ragione per cui manca la intenzione è simile alla prima, ed è probabilmente l’influsso della poca stima che gli altri, e tra gli altri ci siamo anche noi, hanno e abbiamo delle cose che non sono illustri. E allora questa poca stima si riverbera su di noi e ci aiuta a mettere da parte tutto ciò che non è illustre. Io osservo che quando chiedo a certa gente: Ne fate di opere buone?, stanno un po’ a guardare, fanno un po’ d’esame e poi dicono: Beh, qualche elemosina l’ho fatta. Oh, poverini, se voi credete che le opere buone siano soltanto fare l’elemosina, siete nel falso! Opera buona è anche nel bicchiere di acqua che bevete. La gente non ci fa caso: chi fa caso alla cosiddetta povera gente che con gli stracci luridi cammina per le strade? Chi fa caso a tutte quelle povere donne che in fondo a una casa, e non sempre in una casa molto agiata, lavorano tutto il giorno, da mane a sera, non escono quasi più, sono lì, fanno da mangiare, lavano, stirano, rammendano, fanno i conti, pensano e ripensano come far quadrare i bilanci? Gli altri se ne vanno, poi tornano a casa; i sorrisi li hanno esauriti e portano soltanto i musi. E ci sono tante altre cose — forse il primo pensiero, nei nostri ricordi, cammina a quel che faceva nostra madre — ci sono tante altre cose che sono sullo stesso piano e che il mondo ignora perfettamente. Adesso fra i tanti premi che si danno, meno male che si sono messi a dare un po’ di premi della bontà! Non dico che indovinino sempre, ma almeno quella è una cosa che non farà ridere, perché forse si ha da ammettere che degna di stima, per il riverito pubblico, è un’azione alla quale prima non pensava nessuno. Ma non hanno mai fatto il monumento alla povera donna che lava i panni, non l’hanno mai fatto il monumento al povero spazzino! Eppure l’ordine degli spazzini non è forse benemerito in una città? Il mondo non tiene conto di quasi niente. Ed è appunto perché non tiene conto di quasi niente che noi finiamo, per riverbero di quella disistima, col non tener conto quasi niente di quello che ci riguarda e gettiamo via tutto. Non c’è nulla da gettar via, quasi nulla. Nell’ordine spirituale bisogna avere un criterio economico molto di più che non in quello materiale. Non che nell’ordine materiale non ci stia bene l’economia, perché quando c’è, l’economia mette a posto cinque o sei virtù di quelle abbastanza importanti che sono piantate lì con dei chiodi che non li scardina nessuno. – Ma io parlo dell’economia nell’ordine spirituale; e perché dobbiamo essere prodighi proprio in questo e lasciare che molte cose se ne vadano così, senza sugo, senza gusto e senza risultato né per noi né per gli altri? Mi pare che il discorso sull’ intenzione sia finito e sia abbastanza importante per il nostro progresso spirituale e per la nostra perfezione cominciare a riqualificare tutto quello che lasciavamo cadere nella spazzatura. È tutto buono, tutto oro colato. Ora nel nostro studio diciamo così: La intenzione è quella che dà la rivalutazione di gran parte della nostra vita. Noi dobbiamo fare in modo di spingerci a mettere l’intenzione, e poi a camminare, da quella abituale emessa una volta e poi non ritrattata ma che non influisce più sull’azione a quella virtuale non ritrattata ma che influisce ancora sull’azione anche a una certa distanza; e poi, per certa colleganza di successione, alla intenzione attuale, che è la migliore di tutte, ed è proprio quella che dà il lancio all’azione, che la mette in moto: è quella che vale di più. E vediamo subito venir fuori questo grande proposito; anzi vi dico una cosa: se anche da tutti gli Esercizi non doveste cavar fuori altro che questo proposito, sarei contento. Se questi Esercizi vi portassero alla riqualificazione di gran parte della vostra vita, ci sarebbe da essere contenti. Non fate molti propositi, vi prego di farne uno solo, e potrebbe essere questo. Ricordatevi di tutto, perché volta a volta vi verrà bene. Ma fra i propositi a cui potreste legarvi a catena, limitatevi a uno o due. Perché se ne fate tre, c’è pericolo che nessuno tenga. A ogni modo questo che ho detto ora potrebbe essere il vero, profondo, rivoluzionario proposito degli Esercizi: mettere in moto la macchina dell’intezione e farla camminare, farla diventare a poco a poco da abituale a virtuale il più possibile, e da virtuale farla diventare il più possibile attuale. Perché voi capite che mettere l’intenzione nella propria vita significa stabilire la presenza spirituale nostra nella nostra vita. Quando uno mette in moto l’intenzione è sempre presente alla propria vita, ossia non vivrà con la testa nel sacco; non solo, ma oltre a stabilire la nostra presenza, con tutte le indovinabili conseguenze, s’introduce nella propria esistenza il principio dell’ordine, del metodo, ossia la vita diventa metodica, e siccome il modo migliore per poter far funzionare la macchina dell’intenzione sono i programmi, si finisce col fare una vita programmata, il che porta da solo a tre quarti della santità. Il più grande ausilio meccanico, quindi concreto, non etereo, assolutamente pratico per poter mettere continuamente in moto la macchina della intenzione è la programmazione. Vivere di programmi. Se io prendo l’abitudine di fare la sera il programma dettagliatissimo del giorno dopo, voi capite che questo programma sì che me la fa tirar fuori l’intenzione, perché per starci dietro bisogna che io per forza abbia l’intenzione continuamente presente a me stesso, altrimenti il programma mi rimane nella testa e non faccio niente. Se ho un’ora libera e dico: io in quest’ora voglio fare questo, questo io delibero, e deliberando faccio un atto di volontà, con l’intelletto pongo la intenzione. Verrà facile allora, quasi connaturato, diverrà abitudine mettere un fine alle mie azioni. Io tocco il vertice della mia possibilità se tengo lo sguardo al fine. Vedete, a questo mondo si può uscire, andare a passeggio. Dove vai? Non lo so. Cosa fai? Sto su due gambe, un po’ sull’una e un po’ sull’altra. Oppure posso avere un’intenzione, che è quella di scacciare ogni altra intenzione, fare una passeggiata che mi servirà a scacciar via dei pesi; è un’intenzione, ci vuole anche quella, talvolta una passeggiata è sacrosanta. – Il programma. Io posso andare a passeggio. Vado a passeggio e voglio arrivare fino a S. Francesco. Osserverò tutti i portali della Basilica. Cosa serve guardare i portali? Beh, diventerò un po’ meno ignorante. Lo scopo è questo; e quando sarò meno ignorante, avrò uno strumento di più per sentire Dio. Tutto serve, tutto è legna che può alimentare il calore del nostro braciere. Vedete come è importante programmare le opere e la vita dei singoli uomini. Perché ci sono dei programmi perenni, ce ne sono di cinque anni, così ce ne sono di un anno, di un mese, di una settimana, di una giornata, di un’ora. Avere il bernoccolo del programma: ne salta fuori una vita ordinata, una vita che non solo riqualifica quello che ricadrebbe nella pattumiera, ma sforza ad agire enormemente più di quello che si agisce. E a questo modo si fanno tante cose. – Alle volte certa gente dice ad altri: come fate voi a fare tante cose? Come si fa? Si fa una cosa dopo l’altra, si è programmatici. Quando si è programmatici, non si sta su una gamba o sull’altra, perché anche se ci si concede dieci minuti di ricreazione, quando scoccano i dieci minuti si pianta lì e si va. Quando si programma, allora gli orologi servono a qualche cosa, e sono terribili padroni gli orologi; ma è molto meglio avere per padroni degli orologi che degli altri. Questo è il discorso sull’intenzione. – Ora bisogna cominciare a parlare di quale intenzione. Quale sarà il fine dell’acqua nel nostro corpo? Sarà di idratarci, ossia di completare quell’equilibrio idrico che è necessario per il nostro equilibrio fisiologico. Nei libri di Morale si fa una distinzione tra il finis operis e il finis operantis. Il finis operis consiste nella finalità immanente per natura sua nell’azione che si compie. Questo è il finis operis, è il fine immanente. Ma ora direte: il fine immanente, se c’è, è nell’opera stessa. D’accordo. Ma il fine che è immanente ha valore in quanto lo percepiamo noi. Perché se io perdo la nozione del finis operis, agisco macchinalmente, il che non è affatto un agire da uomo, è un agire da macchina, è un agire da bestie. È logico che non si potrà evitare del tutto l’agire macchinalmente; ma noi dobbiamo cercare di spostare l’agire macchinalmente al margine più stretto e più piccolo, vivendo invece coscientemente. Il finis operis c’è, ma ha valore in quanto noi ne prendiamo coscienza. – E allora dove sta il valore morale del finis operis? Sta in due cose. Primo, che il finis operis deve essere valevole dal punto di vista morale; secondo, che obbliga noi a vivere riflessivamente, e ritorniamo al primo punto della intenzione generica. Voi capite che è difficile pensare a una perfezione della nostra vita se noi non viviamo riflessivamente, badando a quello che facciamo; è l’adagio che i latini avevano condensato nel celebre motto « age quod agis »; fa’ quello che fai, ossia fa’ con presenza cosciente quello che fai. Non agire macchinalmente, agisci coscientemente, rendendoti conto di quello che stai compiendo. Io vorrei che non perdeste di vista che il finis operis ha questa importanza, d’essere il primo cardine della nostra sincerità. Perché siccome il finis operis è immanente, potrebbe essere trattato così: gli si sovrappone un altro fine che è completamente divergente dal primo, uno scopo in contrasto cioè con lo scopo scelto. E allora la linearità, il rispetto del finis operis diventa sempre un grande esercizio per la sincerità del nostro atto e per la rettitudine delle nostre intenzioni. Non deve mai essere avariato a danno dell’altrui perfezione, perché il finis operis deve rispettare le cose come sono. Adesso viene l’altro, il finis operantis. Il finis operantis è quello scopo che noi, senza diventare innaturali e falsi, aggiungiamo e sovrapponiamo al finis operis in modo che quel finis operis può essere immediato e piccolo, mentre il finis operantis può essere di molto più lunga e grande gettata. Io posso dare a un poveretto che passa un bicchiere d’acqua perché si idrati, se non proprio per levarsi la sete, ma glielo posso dare per amor di Dio. E voi capite bene che tra l’idratarsi e l’amor di Dio c’è di mezzo un mare, e con una simile intenzione, cioè col finis operantis, varco questo mare che separa l’azione umana da una azione soprannaturale, e il bicchiere d’acqua mi diventa quel qualche cosa di cui ha parlato anche N. S. – Gesù Cristo nel Vangelo, facendo la casistica del bicchiere d’acqua e dicendo come verrà premiato un solo bicchiere d’acqua dato sulla terra per amor suo. Ecco il finis operantis: non me ne devia la naturalezza; non comporta un elemento di doppiezza, e pertanto non sovrappone una falsità, ma sovrappone una più lunga gettata. Allora sarà questione di vedere quale debba essere abitualmente il finis operantis. Il finis operantis può essere il fine ultimo e il fine mediato. – Il finis operantis, che è bene mantenere sempre, sia con l’intenzione abituale, sia con quella virtuale più progredita, sia con quella attuale più progredita di tutte, è sempre quello di fare per l’ultimo fine, per amore di Dio. Ed è per questo che quando si formano le intenzioni di carattere generale è sempre bene enunciarle così: faccio tutto per l’amore di Dio. Almeno si saltano le intermedie, si arriva all’ultimo e la gettata è massima, il frutto è al massimo; s’impiegano col massimo interesse i nostri piccoli capitali con questa intenzione, con questo finis operantis. – Ma ci possono essere delle finalità mediate che hanno la loro moralità nel fatto di essere allineate al fine ultimo; cioè se non sono contrarie al fine ultimo, possono essere allineate al fine ultimo. Io posso dare un bicchiere d’acqua al povero non solo perché si idrati, non solo per amor di Dio, posso darlo anche perché gli altri vedano e siano mossi ad aiutarlo. Certo, se io lo faccio perché gli altri me ne diano gloria, allora è bell’e finita! Guasto il finis operis e il finis operantis; guasto tutto, se ci infilo un pensiero di questo genere. Ma se io do un bicchiere d’acqua anche perché dando io forse qualche altro imparerà a dare un bicchiere d’acqua alla gente che ha sete, il fine è mediato, non ultimo, ma è allineato al fine ultimo e pertanto ci può stare. La tecnica dei fini mediati non è da rimproverarsi, anzi è da consigliarsi, perché i fini mediati hanno il vantaggio d’attaccarsi, di prendere degli appigli che ci sono offerti, degli appigli che si trovano nella vita, cioè mettono a frutto elementi che potrebbero sfuggire, cose che si trovano fuori di noi. La rettitudine non è una cosa impostata per aria. Esiste quando ci sono tutte le condizioni che io vi ho enumerate. Ma se le condizioni che io ho enumerate non esistessero, sono obbligato d’avvertirvi: badate che la rettitudine non resiste. La rettitudine avete visto che cosa fa? In sostanza è quella che valorizza tutte le nostre azioni, perché nelle azioni rende presente il fine. Il fine ultimo « in executione » è primo « in intentione ». Il fine è quella bontà intrinseca della fede, la sorgente del suo valore morale, e pertanto, con la grazia di Dio, sorgente del suo merito eterno. Il fine è sempre la cosa più splendida di ogni esperienza. Il fine sovrasta tutto. – Mettiamoci a meditare, e nessuno pensi di arrivare alla perfezione cristiana se non ha la rettitudine sempre, dovunque, in tutte le circostanze della sua terrena esistenza.