DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA

 DOMENICA SECONDA DOPO PASQUA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXXII:5-6. Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja.

[Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Ps XXXII: 1. Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio. [Esultate, o giusti, nel Signore: ai buoni si addice il lodarlo.]

Misericórdia Dómini plena est terra, allelúja: verbo Dómini cœli firmáti sunt, allelúja, allelúja [Della misericordia del Signore è piena la terra, allelúia: la parola del Signore creò i cieli, allelúia, allelúia.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui in Filii tui humilitate jacéntem mundum erexísti: fidelibus tuis perpétuam concéde lætítiam; ut, quos perpétuæ mortis eripuísti casibus, gaudiis fácias perfrui sempitérnis.

[O Dio, che per mezzo dell’umiltà del tuo Figlio rialzasti il mondo caduto, concedi ai tuoi fedeli perpetua letizia, e coloro che strappasti al pericolo di una morte eterna fa che fruiscano dei gàudii sempiterni].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. [1 Petri II: 21-25]

Caríssimi: Christus passus est pro nobis, vobis relínquens exémplum, ut sequámini vestígia ejus. Qui peccátum non fecit, nec invéntus est dolus in ore ejus: qui cum male dicerétur, non maledicébat: cum paterétur, non comminabátur: tradébat autem judicánti se injúste: qui peccáta nostra ipse pértulit in córpore suo super lignum: ut, peccátis mórtui, justítiæ vivámus: cujus livóre sanáti estis. Erátis enim sicut oves errántes, sed convérsi estis nunc ad pastórem et epíscopum animárum vestrárum. [Caríssimi: Cristo ha sofferto per noi, lasciandovi un esempio, affinché camminiate sulle sue tracce. Infatti Egli mai commise peccato e sulla sua bocca non fu trovata giammai frode: maledetto non malediceva, maltrattato non minacciava, ma si abbandonava nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava; egli nel suo corpo ha portato sulla croce i nostri peccati, affinché, morti al peccato, viviamo per la giustizia. Mediante le sue piaghe voi siete stati sanati. Poiché eravate come pecore disperse, ma adesso siete ritornati al Pastore, custode delle ànime vostre].

Omelia I

[Bonomelli, “Nuovo saggio di Omelie”; Vol II, Om. XVII]

Queste poche sentenze si leggono nella prima lettera di S. Pietro. Voi dovete sapere che del Principe degli Apostoli ci rimangono soltanto due lettere, la seconda brevissima, che sono, come potete bene immaginare, un vero tesoro di dottrina sacra. La prima lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, allorché si trovava colà con Marco, suo interprete e scrittore del Vangelo che porta il suo nome, dopo la fuga dal carcere di Gerusalemme, narrata nel capo XII degli Atti apostolici. La lettera fu scritta circa dodici anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, e indirizzata alle varie Chiese già stabilite nell’Asia Minore, nelle provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia e della Bitinia. – L’argomento di questa lettera, somigliantissima in ogni cosa a quella di S. Paolo ai Romani ed agli Efesini, è pratico e semplicissimo. Egli esorta i nuovi credenti, la maggior parte dei quali doveva essere di Ebrei convertiti poc’anzi, ad informare la loro vita secondo i principii del Vangelo, incoraggiandoli a tollerare l’odio, le vessazioni e le persecuzioni colla speranza del premio e a ricambiare i tristi, i nemici colla carità affine di guadagnarli. Premesse queste comuni, ma non inutili osservazioni, è da venire alla interpretazione dei cinque versetti, che sopra vi ho riportati; S. Pietro nei versetti, che precedono, con l’affetto d’un padre amorosissimo esorta quei novelli cristiani, usciti dal mosaismo e dal paganesimo, a nutrirsi, come bambini, del latte della divina parola, a star fermi sulla pietra fondamentale, che è Cristo, a raffrenare le cupidigie, e con una santa vita a guadagnare i pagani; poi ricorda loro il dovere di vivere sottomessi alle podestà della terra: eccita i servi ad ubbidire ai padroni anche cattivi e, se è necessario, a gloriarsi di soffrire ingiustamente. A questo punto pervenuto colle sue esortazioni, S. Pietro, come S. Paolo, mette innanzi ai suoi cari, il grande, l’eterno, l’incomparabile modello di tutte queste virtù, che è Gesù Cristo, e così continua: “Gesù Cristo ha patito per noi, lasciandovi esempio, affinché seguitiate le sue orme”. È egli possibile, o cari, vivere sulla terra ed esercitare la virtù senza patire nel corpo e nello spirito, dal mondo, dai nemici e da noi stessi? No: vivere ed esercitare la virtù vuol dire lottare, e per conseguenza soffrire: chi pensa altrimenti si inganna ad occhi aperti. Ora Iddio, per nostro conforto ed ammaestramento, volle che il Figliuol suo Gesù Cristo ci camminasse innanzi per l’aspra via; Egli ha patito, e più di tutti gli uomini, ed ha patito, non per sé, ma sì per noi, soddisfacendo per noi alla divina giustizia. È questo il primo scopo della Passione e morte di Gesù Cristo, pagare il prezzo dovuto pel nostro riscatto. Noi eravamo colpevoli: ai colpevoli è dovuta la pena, perché la giustizia lo vuole: al nostro luogo si mette l’amabile Gesù, e quella pena, che doveva cadere sopra di noi, cade sopra di Lui, come disse sì bene Isaia: “Disciplina pacis nostra, super eum,” onde il suo patire affranca noi. – Ma la Passione e la morte di Gesù Cristo ha un altro scopo strettamente congiunto al primo, ed è quello di darci esempio nel cammino della Croce. Esortare, incoraggiare altri colla parola a correre animosamente la gran via della croce, è bella e santa cosa, ma facile: mettersi per essa e percorrerla è opera assai più difficile, ma più efficace, e Gesù Cristo la volle compire. Vedetelo: Egli soffre nel corpo, cominciando dalla culla alla tomba: soffre il freddo, il caldo, la fame, la fatica nell’officina, nei viaggi della sua vita pubblica: soffre la povertà e tutto ciò che necessariamente va congiunto colla povertà: soffre le percosse, i flagelli, in una parola, la morte di croce. Ma i dolori del corpo sono ben poca cosa in confronto di quelli che soffre nello spirito. Egli è Dio e l’anima di Gesù, rischiarata perennemente dai fulgori della divinità, vede ogni cosa con perfetta certezza e chiarezza: occhio umano non vide, né vedrà mai più addentro le cose divine ed umane dell’occhio di Gesù. Egli vede l’ignoranza degli uomini, le loro colpe, la malignità dei suoi nemici, le iniquità tutte, che allagano la terra: vede il passato, il presente, il futuro: vede la rovina di tante anime, opera delle sue mani, e per le quali immola se stesso: vede la gloria del Padre suo conculcata: vede la propria dignità e maestà di Figlio di Dio disconosciuta, calpestata. Qual dolore! quale strazio pel suo cuore! Dolore e strazio tanto più crudele ed atroce in quanto che nessuno lo comprende e pochissimi lo raddolciscono, ed Egli è costretto a divorarlo in silenzio: Gesù è veramente l’uomo dei dolori! l’uomo dei dolori continui, intimi, ineffabili nel corpo e nello spirito, e come tale Egli raccoglie sopra di sé gli occhi di tutta questa immensa progenie di Adamo, che va incessantemente dolorando in questa via di esilio e, Lui rimirando, si conforta e apprende come ha da patire. Ah fratelli miei! Se allorché il dolore si aggrava sopra di noi e quasi ci schiaccia non avessimo dinanzi agli occhi questo Gesù l’uomo dei dolori, il re dei martiri, che sarebbe di noi? Rimirar Lui santo, innocentissimo, eppure saziato di obbrobri, agonizzante sulla croce, è sentirci confortati a correre la via dei patimenti, ch’Egli ha segnato col suo sangue! Sappiamo per fede che “Gesù non fece peccato alcuno, né sulle sue labbra fu mai trovata frode.” Con questa osservazione san Pietro rincalza la verità. Noi tutti soffriamo più o meno, ma nessuno di noi soffrirà mai come Gesù Cristo; è già un argomento efficacissimo ad imitarLo: ma vi è di più. Noi soffriamo e alcune volte soffriamo assai. Ma chi siamo noi? Povere creature, e Gesù è il Figlio di Dio! Quale confronto! Non basta: noi soffriamo e sia pure moltissimo. Chi siamo noi? Non solo povere creature, ma peccatori, e se poniamo sulla bilancia da una parte i nostri dolori, e dall’altra i nostri peccati, troviamo che questi di gran lunga superano quelli, e che se Iddio volesse proporzionare i dolori ai peccati nostri, noi ne saremmo certamente schiacciati. Eppure, Gesù che sofferse quel cumulo di dolori atrocissimi, che dicemmo, era santo, innocente, immacolato: ombra di colpa non fu mai, né poteva essere in Lui, perché l’Uomo-Dio non può peccare. Quale incoraggiamento per noi a patire, avendo innanzi agli occhi tanto modello, per noi rei di tante colpe e meritevoli d’ogni supplizio! – Né qui si ferma il Principe degli Apostoli. Dopo d’aver confortati noi peccatori a patire coll’esempio di Gesù innocentissimo, tocca del modo con cui Gesù patì, e in questo pure vuole che ci modelliamo sopra di Lui. “Gesù oltraggiato, non oltraggiava; soffrendo, non minacciava.” Con queste parole il sacro Scrittore credo abbia voluto abbracciare tutta la vita di Gesù, senza alludere a qualche fatto particolare: Gesù fu crudelmente oltraggiato allorché i Giudei più volte e pubblicamente lo dissero amico dei pubblicani e dei peccatori, bevitore, samaritano, posseduto dal demonio, eccitatore di tumulti, nemico di Cesare, malfattore, seduttore, bestemmiatore, peggiore d’un ladrone e d’un omicida; eppure Gesù a tanti insulti, a sì sanguinose ingiurie non oppose che il silenzio e risposte piene di dignità e di mansuetudine: a chi Lo straziava non fece minacce, ma come agnello si lasciò condurre alla morte. Ecco come pativa Gesù, l’innocentissimo Gesù, ed ecco come dobbiamo patire noi pure. Ma che avviene, o cari? che vediamo noi? che facciamo? Troppo spesso alla più lieve offesa, e forse non sempre immeritata, ci risentiamo, leviamo alti lamenti, mettiamo a rumore il vicinato, gridiamo, strepitiamo, vogliamo giustizia, sbuffiamo d’ira, rompiamo in insulti e, non piaccia a Dio, in bestemmie, in imprecazioni! Oh come abbiamo bisogno di meditare il divino modello, Gesù Cristo, che oltraggiato, non oltraggiava, soffrendo, non minacciava! Come è bella, nobile e degna di ammirazione la calma tranquilla e dignitosa del cristiano in faccia a chi lo offende ed insulta! La pazienza e la carità non vietano che domandiamo giustizia e riparazione delle offese ricevute, e in certi casi può essere un dovere l’esigerla, ma è sempre indegno del cristiano rispondere coll’ingiuria all’ingiuria, colle invettive alle invettive. S. Pietro, proseguendo a parlare del supremo nostro modello, Gesù Cristo, dice: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Ponete mente, o dilettissimi, a queste parole: “Gesù si rimetteva in mano di colui che Lo giudicava ingiustamente.” Esse vi dicono, che Gesù Cristo patì e morì, non forzatamente, ma liberamente: Egli stesso si diede in mano de’ suoi nemici, incatenò, se posso dirlo, la sua onnipotenza, e lasciò che facessero ogni lor volere della propria Persona. L’aveva detto in termini Gesù Cristo: “Io metto l’anima mia per ripigliarla: niuno me la toglie, ma la do da me stesso, ed ho potere di darla e di ripigliarla” (Giov. x, 15 seg.). Non poteva più chiaramente affermare la sua libertà di patire e non patire, di morire e non morire. E invero: se Gesù Cristo non fosse stato perfettamente libero e di patire e di morire, non sarebbe stato perfetto uomo, la sua Passione non avrebbe avuto merito alcuno e sarebbe stato ridicolo il proporlo a noi come esempio da seguire. Chi è colui, in balia del quale Gesù si diede e che Lo giudicò ingiustamente? Accennandosi qui un giudice ingiusto, in singolare, che pronunciò sentenza contro Gesù Cristo, sembra fuor di dubbio che questi sia Pilato. E’ vero, Lo giudicarono Anna, Caifa, i capi del popolo, Erode, e Lo giudicarono ingiustissimamente; ma di quelli, ancorché più colpevoli, S. Pietro non si cura, perché la loro sentenza non poteva essere eseguita, se quella di Pilato non si aggiungeva: onde fu la sua che trasse a morte Gesù Cristo, e perciò di lui particolarmente si parla. — Gesù si commise alla mercé di Pilato, giudice straniero e pagano: in lui riconobbe un potere, che veniva dall’alto (S. Giov. XIX, 11), ancorché ingiustamente ne usasse. – Apprendiamo, o cari, da queste parole di S. Pietro non solo a rispettare l’autorità, in chiunque essa risieda, ma eziandio a soffrire ingiustizie, se questa ce le fa soffrire. Chi mai sulla terra soffrì ingiustizia più scellerata di quella, che Gesù Cristo sofferse da Pilato? Riconosciuto innocente, flagellato, coronato di spine e condannato alla croce: eppure Egli si diede nelle sue mani, limitandosi a dirgli: “Chi mi ha dato nelle tue mani è reo di maggior peccato, perché lo faceva per odio. – Soffrire l’ingiustizia non è approvarla, e noi possiamo bene rispettare l’autorità e condannare i suoi abusi. Lo so, ciò è difficile, perché l’ingiustizia, che si soffre dalla autorità, è congiunta con essa per forma che ai nostri occhi sembra formare con essa una sola cosa: ma pure è necessario non confondere queste due cose se non vogliamo renderci colpevoli. Voi avete o aveste i vostri genitori: l’autorità paterna e materna, che dopo la divina è la prima, era ed è in essi e voi la rispettaste e la rispettate. Se, per sventura vi fosse stato o vi fosse abuso in loro, qual era e quale sarebbe il vostro dovere? Avreste voi il diritto di disconoscerla? Giammai. Voi potreste e dovreste riprovare in cuor vostro l’abuso della loro autorità, ma rispettarla sempre, perché essa è cosa divina. Ragguagliata ogni cosa, è ciò che dobbiamo fare con qualunque autorità, allorché vien meno a se stessa. Nell’antica legge il sommo sacerdote, una volta all’anno, compiva il rito solenne del capro emissario: egli poneva le mani sul suo capo, confessava i peccati suoi e del popolo, e li poneva sul capro, e questo era abbandonato nel deserto (Levit. XVI, 21). Qui S. Pietro accenna a quel rito misterioso, che adombrava Gesù Cristo, il quale tolse sopra di sé, volontariamente i peccati di tutti gli uomini, li portò sulla croce e nel suo corpo, ossia nei patimenti del suo corpo, e nel sangue che sparse li espiò e li cancellò. Egli è il vero Giacobbe, che si copre della pelle del capretto, anzi è il vero capro emissario, che carico dei delitti del mondo [Non è necessario avvertire che più volte nelle Scritture la parola peccato è presa non a significare il reato, il disordine morale, ma l ‘effetto del peccato, che è la pena. Qui si dice che Gesù Cristo portò i peccati nostri sulla croce, nel suo corpo, cioè portò sulla croce ed espiò la pena dovuta al peccato.], esce dal mondo, è sollevato sull’alto della croce, muore come reietto, anzi come maledetto, e in sé riconcilia il cielo e la terra, secondo la frase di san Paolo. Allorché Gesù morì per noi sull’albero della croce e nel suo sangue spense il peccato, noi fummo sciolti dal giogo del peccato stesso, fummo come morti ad esso, e cominciammo a vivere alla giustizia risanati dalle sue lividure. Spieghiamoci meglio. Un uomo è condannato alla morte: un altro uomo innocente, mosso a pietà di lui, si offre a morire in suo luogo: la morte dell’uno è la vita dell’altro: il colpevole, compiuta la giustizia, cessa d’essere colpevole, è riabilitato, è giusto: egli è come morto ai suoi delitti, rivive alla virtù, all’onestà, alla giustizia. Il colpevole è ciascuno di noi; Gesù Cristo si offre a pagare per noi, paga col suo sangue, ed eccoci riabilitati, giustificati, risanati colle sue lividure. – S. Pietro dopo aver messo innanzi agli occhi dei suoi figliuoli il sommo modello dell’amore e del perdono, Gesù Cristo, chiude la sua esortazione, rivolgendo loro queste bellissime parole: ” Voi eravate come pecorelle smarrite: ma ora vi siete rivolte al pastore e al vescovo delle anime vostre.” Voi, pochi anni or sono, eravate ancora Giudei e Gentili; correvate le vie dell’errore: eravate simili a quelle povere agnelle, che si allontanano dall’ovile, ai smarriscono nei fitto d’un bosco o nella immensità del deserto, e che ad ogni istante possono essere sbranate dalle belve feroci: Dio ebbe pietà di voi: vi chiamò, colla sua grazia vi trasse dolcemente a sé, e voi ubbidiste, vi rivolgeste a Lui, al pastore, al Vescovo delle anime vostre. — Gesù Cristo è il Pastore delle anime in quanto le guida ai pascoli della vita, le difende dai lupi che le insidiano: è vescovo [Vescovo “Episcopus”, significa propriamente chi sovraintende ad altri in qualunque ufficio: ora si usa esclusivamente per indicare il Vescovo, il maggiore dei gradi gerarchici], cioè veglia sopra di loro, le regge, le custodisce. Egli fu Pastore e Vescovo degli Apostoli e dei discepoli, dei credenti, finché visse mortale sulla terra, ed è Pastore e Vescovo sempre nella persona di quelli che continuano l’opera sua attraverso ai secoli. Queste parole di agnelle, di pastore e di vescovo richiamano alla nostra memoria i doveri che tutti abbiamo, io vostro pastore, voi agnelle dell’ovile di Cristo. A me i doveri di ammaestrarvi e di camminare innanzi a voi coll’esempio d’una vita irreprensibile: a voi di ascoltarmi e seguirmi: adempiamoli fedelmente e tutti dal Principe dei pastori, dal Vescovo dei vescovi, avremo la nostra mercede.

Alleluja

Allelúja, allelúja Luc XXIV:35.

Cognovérunt discípuli Dóminum Jesum in fractióne panis. Allelúja [I discepoli riconobbero il Signore Gesú alla frazione del pane. Allelúia].

Joannes X:14. Ego sum pastor bonus: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ. Allelúja. [Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

Joann X:11-16.

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis: Ego sum pastor bonus. Bonus pastor ánimam suam dat pro óvibus suis. Mercennárius autem et qui non est pastor, cujus non sunt oves própriæ, videt lupum veniéntem, et dimíttit oves et fugit: et lupus rapit et dispérgit oves: mercennárius autem fugit, quia mercennárius est et non pértinet ad eum de óvibus. Ego sum pastor bonus: et cognósco meas et cognóscunt me meæ. Sicut novit me Pater, et ego agnósco Patrem, et ánimam meam pono pro óvibus meis. Et alias oves hábeo, quæ non sunt ex hoc ovili: et illas opórtet me addúcere, et vocem meam áudient, et fiet unum ovíle et unus pastor”.

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XVIII]

“Io sono il buon Pastore: il buon pastore mette la sua vita per le sue pecorelle; ma il mercenario e chi non è pastore e al quale non appartengono le pecorelle, se vede venire il lupo, abbandonale pecorelle e fugge; e il lupo le rapisce e le disperde. Ora il mercenario fugge, perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me. Il Padre conosce me ed Io conosco il Padre, e pongo la mia vita per le mie pecorelle. Ed altre pecorelle Io ho, e quelle ancora mi conviene addurre, ed esse udranno la mia voce, e vi sarà un solo ovile e un solo Pastore „ (S. Giov. capo X, vers. 11-16).

Chiunque percorre le catacombe romane, qua e là su quelle pareti, all’incerto lume della sua lampana, vede molte figure rozzamente tracciate: qua è la colomba che esce dall’arca noetica, là Mosè che batte con la verga la pietra e ne fa scaturire l’acqua; altrove è una donna atteggiata di dolore, che prega: poi il mistico pesce posto sopra una mensa: ma fra quelle povere figure, eppure sì belle e sì espressive, delineate dai martiri e dai figli dei martiri, più frequente apparisce l’immagine d’un pastorello scalzo, che or porta sulle spalle una pecorella, ed ora appoggiato sul suo vincastro, circondato da parecchi uomini che lo mirano, contempla con occhio pieno d’amore le pecorelle che brucano l’erba. Quel pastorello raffigura Gesù Cristo e, non vi è dubbio, quelle mani inesperte, eppure sì pie, che scolpirono quelle care immagini, erano mosse e guidate dalla fede, seguivano fedelmente il sublime ideale che Gesù aveva lasciato di sé nella parabola dell’agnella smarrita (S. Luca, xv), e nel mirabile discorso del pastore, che sopra ho riportato e che è il soggetto della presente omelia. Gesù, il buon Pastore, dipinge se stesso con sì vivi ed amabili colori, ci fa sentire la sua bontà, la sua tenerezza con tali accenti, che nulla di più eloquente e di soave. — Ascoltiamolo. S. Giovanni, nei versetti che stanno innanzi a quelli per me riferiti, riporta il discorso di Cristo, nel quale Egli dice d’essere la porta dell’ovile, e che il ladro e il mercenario non entrano per essa. Poi Gesù rappresenta se stesso come pastore, e dice: “Io sono il buon Pastore.” Avvertite, che secondo il testo originale greco dovremmo leggere: “Io sono quel buon pastore. „ Quale? Non dubito che alluda al luogo del profeta Ezechiele, che sette secoli innanzi l’aveva annunziato, dicendo: “Io susciterò un pastore che pasca le mie agnelle „ (C. XXXIV, 23). Io sono quel pastore, che fu predetto, quel Pastore buono! Ma perché disse buono? Perché non disse: Io sono quel Pastore sapiente, potente, coraggioso, giusto? Certo tutto questo Gesù Cristo avrebbe potuto dire; ma a tutte queste qualità volle preferire quella di “buono”, perché è quella che più d’ogni altra si addice al pastore e dalla quale derivano tutte le altre. La bontà è la suprema bellezza morale, e la corona di tutte le più preziose qualità. Dio creò il cuore dell’uomo, dice Bossuet, e vi pose là bontà come quella dote che meglio d’ogni altra rappresenta Lui stesso. Noi stimiamo la scienza, la forza, la prudenza, la giustizia, tutte le virtù; ma è la sola bontà che noi amiamo. Non è egli così? Vi sia un uomo colmo di ricchezze, tenga lo scettro di re, sia un prodigio di sapienza; tutto quello che volete di grande, di ammirabile, ma sia senza cuore, cioè privo di bontà: lo stimeremo, lo ammireremo, ci chineremo dinanzi a lui, ma non ci sentiremo mossi ad amarlo. Sia privo di quelle doti, ma tutto cuore, tutta bontà, noi lo ameremo: è sempre la bontà che si ama. – Gesù è il Pastore buono! Quali sono i doveri del buon pastore? Molti; eccovi i principali, toccati in questo tratto evangelico; il pastore deve conoscere le sue pecorelle: deve guidarle al pascolo; camminare loro innanzi, se occorre, difenderle dai lupi e dai ladri, nutrirle, se inferme, curarle: così il parroco, più ancora il Vescovo e sopra tutto il Pontefice, Pastore dei pastori, devono conoscere come meglio possono le anime loro commesse; devono guidarle ai pascoli della vita, nutrendole con la parola e con i sacramenti; devono camminare loro innanzi coll’esempio, difenderle contro i seminatori di errori e di scandali, curarle, guarirle dalle infermità del peccato, salvarle. – Ecco, o cari, ciò che dobbiamo fare noi, pastori di anime, ciascuno nel suo ufficio. Noi dovremmo sempre tenere fissi gli occhi in quelle sapientissime parole del Principe dei pastori, S. Pietro. Uditele: “Pascete il gregge di Dio, che vi è dato, avendone cura, non sforzatamente, ma volontariamente: non per brutta cupidigia del guadagno, ma con animo franco: e non a guisa di chi signoreggia nella eredità del Signore, ma facendoci modelli del gregge. „ O benedette e sante parole! Oh felici quei pastori, che le mettono in pratica! – Felici quelle parrocchie, che hanno tali pastori! E come ottenere che i pastori abbiano in sé tutte queste qualità? Con la carità. S’essi ameranno Iddio e per Iddio le anime, saranno veri pastori, modellati su Lui, che è il Pastor buono [“Amor in eo qui pascit oves in terra magnum debet spiritualem crescere ardorem, ut vincat etiam mortis naturalem timorem” -S. August., Tract. 123]. Ma se i pastori debbono adempire i loro uffici (e li avete uditi), voi pure avete i vostri da osservare. Se il pastore deve conoscere le agnelle, guidarle al pascolo, andare loro innanzi coll’esempio, difenderle, curarle e inferme guarirle, voi pure dovete, come docili agnelle, conoscere il vostro pastore, lasciarvi guidare, seguirne gli esempi, stringervi a lui, mostrargli le vostre infermità e ricevere ed usare i rimedi che vi suggerisce. Se i genitori devono nutrire i figli, istruirli o farli istruire, difenderli, guidarli, anche i figli hanno il dovere imposto da Dio stesso di rispettarli, ubbidirli, amarli e fare con essi tutto ciò che l’amore figliale comanda: è cosa più che manifesta. Quel Gesù che impone a noi pastori di istruirvi, guidarvi e curarvi, impone anche a voi di lasciarvi istruire, guidare e curare. E mentre domando alla mia coscienza, dinanzi a Dio, se ho adempiuto i miei sì grandi e sì terribili doveri, ancor voi domandate alla vostra se avete osservati sempre e fedelmente i vostri. – Se il pastore è buono, che farà? Qual sarà il segno infallibile dal quale noi lo riconosceremo? Gesù Cristo ce lo insegna con la parola e con l’esempio: “Il buon pastore mette la sua vita per le sue pecorelle. “Gesù Cristo per salvare le anime non esitò di correre alla obbrobriosa morte della croce, Egli, Dio! Che non dobbiamo fare noi per salvare le anime alle nostre cure affidate? Non dobbiamo risparmiare fatiche, patimenti, umiliazioni, sacrifici e, se fosse necessario, dobbiamo sfidare la stessa morte, come in ogni tempo fecero i pastori, che si formavano sull’esempio di Gesù Cristo, da S. Pietro e S. Paolo a S. Carlo Borromeo, a S. Francesco di Sales. – Era l’anno 1849, e il cannone tuonava spaventosamente per le vie di Parigi: di qui l’esercito, difensore dell’ordine; di là gli uomini della rivolta, col grido di libertà sulle labbra: il sangue scorreva a rivi da una parte e dall’altra, il sangue dei fratelli, e la vista di quel sangue infiammava le ire, raddoppiava il furore. Un uomo, venerando all’aspetto, curvo sotto il peso degli anni, atteggiato ad ineffabile dolore, con gli occhi gonfi di lacrime, comparisce nella via, dove più feroce ferveva la mischia: a stento monta sopra una barricata, in mezzo ai feriti ed ai cadaveri, e stendendo le mani ai combattenti, con accento di inesprimibile carità, esclama: “Figli miei, cessate, pace, pace!” — A quelle parole, a quella vista, cessa il fuoco, cessano le grida di rabbia e di vendetta, gli occhi di quei furibondi sono fìssi su quella figura, che sembra una apparizione eterea; con le mani annerite dalla polvere asciugano i sudori della fronte e stupefatti si domandano: “Chi è quell’uomo?” In quell’istante si ode una fucilata: la palla colpisce quell’uomo in mezzo al petto: esso cade, dicendo: “Che il mio sangue sia l’ultimo che si versi, „ e fu veramente l’ultimo: la lotta fratricida cessava. Quell’uomo era l’arcivescovo di Parigi, Mons. Affre; era il pastore che dava eroicamente la sua vita per le sue pecorelle. Ecco un pastore formato alla scuola del sommo Pastore, Gesù Cristo. Vedete il pastore che passa i mesi d’estate nelle gole delle nostre alpi, presso alle nevi eterne, vegliando sulle sue pecorelle. Allorché la notte copre col suo bruno velo ogni cosa e le stelle scintillano nel firmamento e tutto tace intorno, più volte accade che il lupo chetamente s’avvicini all’ovile: il fido cane, odorando la belva, si leva, arruffa il pelo e latra fieramente: il pastore si sveglia, si alza e tosto dà di piglio al robusto vincastro, chiama i compagni, con la voce incoraggia il cane, che animoso muove contro il lupo e raddoppia i suoi latrati, mentre le agnelle, avvertite del pericolo, tremanti si stringono, addossandosi le une alle altre. Il pastore non teme il pericolo, si lancia fuori del chiuso, affronta il lupo, e con la voce e col vincastro lo mette in fuga e salva le sue agnelle. Ecco ciò che deve fare il buon pastore, il parroco, il vescovo, allorché il lupo, l’uomo dello scandalo, il corruttore della fede, insidia le anime. Egli non deve temere le ingiurie, gli insulti, le calunnie, le minacce, i pericoli; deve levare la voce, mettere in guardia i fedeli e sventare le arti e le insidie dei nemici della fede e dei costumi. Così fa il buon pastore! – Gesù-Cristo, dopo avere descritto sì bene il buon pastore descrive il mercenario. Chi è il mercenario? E colui che non è padrone delle pecore, che aiuta il padrone per la mercede che ne riceve, che non ha alcun amore per le pecore. Che fa egli all’avvicinarsi del lupo? Teme, non vuol mettere a pericolo la sua vita, si chiude in luogo sicuro, o fugge e abbandona le pecorelle, delle quali il lupo fa scempio: il mercenario fugge, dice Cristo, perché è mercenario, perché non ha amore per le agnelle, non pensa che alla sua mercede. In questo mercenario Gesù Cristo ci rappresenta al vivo quei pastori di anime che per interesse, per timore, per prudenza mondana tradiscono il loro dovere. S. Gregorio M., quel modello di pastore supremo, nei suoi scritti ce ne lasciò una pittura vivissima. Il mercenario, grida il santo Pontefice, è colui che non pasce le anime per amore, ma tiene l’occhio ai vantaggi materiali, che è ghiotto degli agi e delle ricchezze, che ambisce onori, che esige omaggi, che pensa ad accumulare per sé o per i parenti, che opprime i deboli, che adula i ricchi, che vive oziando, che tace quando deve parlare, che non ha scintilla di zelo, che lascia correre gli scandali che potrebbe impedire, che non resiste all’ingiustizia, che non istruisce i pargoli, che non si adopera a guadagnare i peccatori, in una parola, che cerca le cose sue, non quelle di Gesù Cristo (Homil. 14, e in molti altri luoghi presso A Lapide). O grande e misericordioso Iddio! non permettete mai, ch’io, chiamato ad essere pastore di questo popolo, possa diventare un mercenario, e lasciar perire queste pecorelle, che mi avete affidate. Guai a me! Voi mi riprovereste e mi chiedereste conto delle agnelle per colpa mia perdute! – Seguitiamo il Vangelo. “Io sono il buon Pastore. „ Si direbbe che questa espressione esercita sul cuore di Gesù un tale fascino, ond’Egli ama ripeterla: essa rivela il suo cuore, mostra l’amor suo per le anime e il carattere della sua missione, del suo potere. Non dice mai: Io sono il padrone, il signore, il re, il dominatore delle anime, e lo poteva dire, perché veramente Egli lo è: ama invece ripetere questa parola sì dolce, sì amabile: Io sono il Pastore; non basta: Io sono il buon Pastore. Eppure, duole il dirlo, assai volte certi pastori sogliono ripetere queste parole sì aliene dallo spirito di Gesù Cristo: Io sono padrone! In chiesa comando io! Voglio così e non permetto che altri mi consigli! — Buon Dio! Quanta differenza tra il linguaggio di Gesù Cristo e il linguaggio di costoro! Egli Dio ed essi poveri peccatori! — Questa immagine del buon Pastore sì soave ci dice che Gesù ha potere sopra di noi, ma potere ch’Egli esercita con l’amore, con la tenerezza: essa allontana ogni idea di durezza, di pompa, di fasto, di violenza e insinua l’idea di semplicità, di vita comune, di confidenza, di mansuetudine, di scambievole affetto. Questa espressione sì bella “Io sono il buon Pastore”, uscita ripetutamente dalla bocca di Gesù scolpisce a meraviglia l’indole e il carattere del ministero sacerdotale, che è vero potere, ma paterno, temperato dalla carità. Quale esempio per noi Pastori! – “Io conosco le mie (pecorelle) e le mie (pecorelle) conoscono me, „ soggiunge Cristo. Voleva dire: Io conosco ed amo le anime che mi ascoltano, Io le seguo dovunque colla mia provvidenza, le accompagno con la mia grazia, “come un pastore non perde mai di vista le sue agnelle, ed esse con la fede, con la speranza, con la carità stanno unite a me: tra me e loro esiste una corrente misteriosa di affetto, che ci rende inseparabili, ond’Io vivo per esse ed esse vivono per me: “Cognosco meas et cognoscunt me meæ!” Quale linguaggio, o cari! Sembra un padre, che non pensa che ai figli e che sa d’essere dai figli riamato, che riposa nei figli come i figli riposano nel padre! “Il Padre conosce me ed io conosco il Padre.„ Queste parole, secondo ché spiega san Cirillo d’Alessandria, si devono collegare con le antecedenti, e vogliono dire: Come il Padre eterno conosce ed ama me da tutta la eternità e mi conosce ed ama come suo Figlio vero e proprio, ed Io conosco ed amo Lui come vero e proprio Padre mio, così Io conosco ed amo le mie pecorelle, ed esse a loro volta conoscono ed amano me, come loro pastore. È un confronto che Gesù fa tra i suoi rapporti eterni ed essenziali col Padre divino e i suoi rapporti temporali e contingenti colle anime, confronto che sotto altra forma comparisce più e più volte in quell’inarrivabile preghiera che fece nell’ultima Cena, e che ci fu conservata da S. Giovanni, e che leggiamo più innanzi nel capo XVII. Il vincolo d’amore che stringe Gesù alle sue pecorelle è una copia di quello che lo stringe al Padre suo. Si può concepire vincolo d’amore di questo più alto, più nobile, più sublime, più santo? – È una sola catena quella che lega Gesù al Padre e quella che lo lega a noi, sue povere creature; catena sì forte, che lo porta al massimo dei sacrifici, il sacrificio della sua vita per noi, e questa prova suprema dell’amor suo per noi, che ben presto avrebbe data, la ripete qui per la terza volta, dicendo: “Io pongo la mia vita per le mie pecorelle. „ Il suo cuore sente il bisogno quasi irresistibile e prova una divina compiacenza, una santa voluttà, pensando che un dì darà la sua vita per le sue pecorelle, che conosce ed ama con amore tenerissimo. – Ma qui ad un tratto lo sguardo di Gesù si spinge nel futuro; il libro del futuro sta aperto ai suoi occhi come il presente, e vi legge. E che cosa vi legge? Che cosa contempla nei secoli, che gli stanno innanzi riverenti? Egli ha intorno a sè un piccolo ovile, gli Apostoli, i discepoli, alcuni pochi credenti sparsi qua e là nelle tribù d’Israele; ma vede da lungi, in oriente e in occidente, a tramontana e mezzogiorno innumerevoli schiere di pecorelle, che entreranno nel suo ovile, e nell’impeto della gioia esclama: “Altre pecorelle io ho, che non sono di questo ovile, e quelle pure devo addurre, ed esse udiranno la mia voce. „ Gesù distingue chiaramente le pecorelle, che aveva intorno a sé, il piccolo gregge, che aveva raccolto, e le altre pecorelle, il gran gregge. che sarebbesi aggiunto, e, non occorre il dirlo, queste altre pecorelle, il gran gregge, che sarebbesi aggiunto, adombravano la gentilità, che in sì gran numero e con sì gran cuore sarebbe entrata nell’ovile, di due popoli, l’ebreo ed il gentile, formandone un solo all’ombra della croce. “Anche i Gentili udranno la mia voce!„ dice Cristo. L’udranno, non da me, sebbene per bocca de’ miei Apostoli, ma la verità è sempre la stessa. Osservate ancor qui, come Gesù Cristo di sé e degli Apostoli, cioè della Chiesa, della propria dottrina e della dottrina della sua Chiesa faccia una cosa sola, tantoché udire la voce della Chiesa egli è udire la voce di Gesù Cristo. “Et vocem meam audient”. Queste parole racchiudono una profezia, e quale profezia! Allorché Gesù annunziava la conversione dei Gentili e la futura loro fusione con quella parte d’Israele, che erasi convertita e lo seguiva, non v’era pur l’ombra d’indizio di quel gran fatto; anzi, umanamente parlando, era più che evidente la improbabilità, anzi l’impossibilità, che il gentilesimo, sì glorioso per ricchezza, per cultura di lettere, di scienze e di arti, per potenza e ampiezza sformata d’impero, seguisse Cristo, un povero Galileo, senza nome, senza splendore di potenza e di scienza, predicante l’umiltà, la pazienza, la croce, la mortificazione: eppure ciò che Cristo sì chiaramente disse: “Anch’essi, i Gentili, udranno la mia voce”, è un fatto e ci sta sotto gli occhi, e noi stessi ne siamo una prova. Noi abbiamo già un solo ovile e un solo pastore, una sola Chiesa e un solo Capo supremo della Chiesa, il Vicario di Cristo e successore di S. Pietro. Ben è vero, che fuori di questo ovile vanno qua e là errando ancora milioni e milioni di pecorelle smarrite, Ebrei, Mussulmani, Buddisti, Pagani: ma è pur vero che ogni anno, ogni giorno molte di queste pecorelle sbrancate entrano nel nostro ovile: è pur vero che la nostra Chiesa ogni giorno allarga le sue tende e stringe al suo seno materno nuovi figli: è pur vero, che i suoi apostoli, oggi sparsi su tutti i punti del globo, proseguono la grande conquista cominciata da Cristo e dilatano i confini del suo regno, e il progresso stesso delle arti e delle scienze e le vie di terra e di mare agevolate ci lasciano vedere non lontano quel giorno felice, in cui il mondo vedrà compiuto il vaticinio di Cristo: “Vi sarà un solo ovile e un solo pastore”. Che questo voto di Cristo e di tutti i suoi figli, voto che risponde ai bisogni di tutta l’umanità, la quale, spinta da forza irresistibile, tende inconsciamente a formare una sola famiglia, che questo voto presto si compia!

Credo

Offertorium

Orémus

Ps LXII:2; LXII:5  Deus, Deus meus, ad te de luce vígilo: et in nómine tuo levábo manus meas, allelúja.

Secreta

Benedictiónem nobis, Dómine, cónferat salutárem sacra semper oblátio: ut, quod agit mystério, virtúte perfíciat. [O Signore, questa sacra offerta ci ottenga sempre una salutare benedizione, affinché quanto essa misticamente compie, effettivamente lo produca]. Communio

Joannes X:14. Ego sum pastor bonus, allelúja: et cognósco oves meas, et cognóscunt me meæ, allelúja, allelúja [Io sono il buon pastore, allelúia: conosco le mie pecore ed esse conoscono me, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Præsta nobis, quaesumus, omnípotens Deus: ut, vivificatiónis tuæ grátiam consequéntes, in tuo semper múnere gloriémur. [Concédici, o Dio onnipotente, che avendo noi conseguito la grazia del tuo alimento vivificante, ci gloriamo sempre del tuo dono.]

GREGORIO XVII: DEGNO SUCCESSORE DI PIO XII

Il Degno Successore di Pio XII: Gregorio XVII “Siri”

(Immagine del ragazzo-prodigio Giuseppe Siri con la sua famiglia)

Giuseppe Siri è nato a Genova il 20 maggio 1906. Sua madre era originaria di un villaggio vicino a Forlì, suo padre era ligure. A quattro anni, i suoi genitori decisero di iscriverlo alla scuola elementare, un segno del suo precoce sviluppo intellettuale. Giuseppe crebbe rapidamente ed i suoi eccellenti risultati accademici suscitarono l’attenzione di un amico di suo padre, un agente di cambio, che promise di insegnargli il suo lavoro nonostante la sua giovane età. Dopo pochi giorni Giuseppe Siri mostrò però un forte disinteresse per questa attività, in questo condiviso  da sua madre.

Trascorreva una grande quantità di tempo in fervente preghiera all’oratorio della chiesa in cui era stato battezzato, Santa Maria Immacolata a Genova. All’età di nove anni, espresse la sua intenzione di entrare nel seminario per diventare sacerdote. Nel 1916, all’età di 10 anni, i suoi genitori permisero il suo ingresso nel seminario minore di Genova, noto per la sua rigida disciplina. Giuseppe si distinse subito per la sua rapidità di pensiero e per gli ottimi risultati raggiunti. Sulla base dei suoi successi, il cardinale Minoretti, arcivescovo di Genova, informò Giuseppe e i suoi genitori della sua intenzione di mandare a Roma il bambino prodigio, per farlo studiare alla Pontificia Università Gregoriana.

Il cardinale Minoretti, arcivescovo di Genova, fu molto colpito dal giovane Giuseppe Siri e lo mandò a Roma per studiare alla Pontificia Università Gregoriana.

All’età di 22 anni ricevette l’ordinazione sacerdotale dalle mani del cardinal Minoretti. Il 23 settembre 1928, il giorno successivo all’accoglienza del sacerdozio, celebrò la sua prima Santa Messa. L’anno successivo si laureò in Teologia all’Università Gregoriana. Dal 1929 al 1946 ha insegnato a Genova. Nel marzo del 1944, in seguito ad un dettagliato rapporto del cardinale Boetto, Pio XII lo elevò a un vescovo titolare di Liviade e ausiliare di Genova. All’età di 47 anni fu nominato cardinale da Pio XII il 12 gennaio 1953.

Durante il pontificato di Pio XII, Giuseppe Siri rimase molto vicino al Papa, tanto che sua santità lo considerava un consulente di fiducia. Pio XII stimò a tal punto l’intelletto e la condotta di Siri, che decise di  designarlo come successore della sua morte. (*)

(*) Nota: un Papa,  Supremo Legislatore della Chiesa, può indicare il nome del suo successore prima di morire. Questo è già accaduto nella storia della Chiesa (v. nota 2). È stato riferito che il Cardinale Siri, con grande umiltà e rispetto, declinò l’offerta di Pio XII, affermando che preferiva che un Conclave eleggesse il prossimo Papa, per manifestare il desiderio di Pio XII.

Nel 1958 Pio XII morì. Molti cardinali liberali criticarono la gestione centralizzata di Pio XII e temevano che Siri accentuasse questo comportamento. Il cardinale Siri dichiarò che nei giorni precedenti il ​​conclave aveva avvertito una sensazione di fastidio da parte di alcuni cardinali. Passarono i giorni tra le trattative febbrili alla ricerca del successore di Pio XII. Secondo diversi cardinali, Giuseppe Siri era la persona più adatta. Altri “cardinali” [massoni infiltrati … Tisserant … Bea … Lienart Roncalli … l’elemco è lungo] disprezzavano il cardinale ultramontano di Genova e ordirono un complotto per rubare il trono papale al legittimo successore di San Pietro, a qualsiasi costo.

Nota 2 : un Papa, Supremo Legislatore della Chiesa, può fare il nome del suo successore. prima che muoia. Questo è già accaduto nella storia della Chiesa in passato... sul suo letto di morte, nel 530 d . C., Papa San Felice IV, avvalendosi del diritto stabilito da Papa Simmaco designò come suo successore  un consigliere fidato suo amico,  (poi Bonifacio II). È stato riferito che il Cardinale Siri, con grande umiltà e rispetto, declinò l’offerta di Pio XII, affermando che preferiva che un Conclave eleggesse il prossimo Papa, onde manifestare il desiderio di Pio XII.

“La persona così eletta [Papa] acquisisce piena giurisdizione sulla  Chiesa universale immediatamente al suo consenso, e diventa il Vicario di Cristo sulla terra”. ( C. J. C. : “Elezioni canoniche ” a pagina 107, 1917, Imp.).

L’elezione di Bonifacio II fu contrastata da un certo Dioscoro antipapa, che solo 14 gioni dopo … morì …, non sapeva infatti che:

“Qui mange le Pape, meurt !”

Profezia papale di St. Giovanni di Roccia spaccata  (XIV secolo): “Verso la fine del mondo, i tiranni e le folle ostili deruberanno la Chiesa e il clero di tutti i loro beni e li affliggeranno e li martirizzeranno, e l’abuso su di loro sarà tenuto in grande considerazione.  In quel tempo, il Papa con i suoi cardinali dovrà fuggire Roma in circostanze tragiche, in un luogo dove saranno sconosciuti. Il Papa morirà con una morte crudele nel suo esilio. Le sofferenze della Chiesa saranno molto più grandi di qualsiasi altra nella sua storia, ma Dio risolleverà un santo Papa e gli Angeli si rallegreranno. Illuminato da Dio, quest’uomo ricostruirà quasi tutto il mondo mediante la sua santità, la vera fede: dappertutto prevarrà il timore di Dio, della virtù e della buona morale, che ricondurrà tutte le pecore erranti all’ovile, e ci sarà un’unica fede, una sola legge, una sola regola di vita e un solo Battesimo: sulla terra tutti gli uomini si ameranno e faranno il bene, e tutti i litigi e le guerre cesseranno”.

Dogma della Chiesa: secondo le parole di Cristo, Pietro deve avere
successori nel suo primato su tutta la Chiesa ed in tutti i tempi. (de fide.-dogma ribadito con vigore al Concilio Vaticano – Cost. Ap. “Pastor Aeternus” 1871)

 

 

LA MODESTIA

MODESTIA

1928: Lettera alla Congregazione per i religiosi

Agli Ordinari d’Italia: per quanto riguarda la crociata contro le mode immodeste, specialmente nelle scuole dirette da religiose.

 

Circolare.  Illustrissimi e e reverendi Signori, sono a voi ben note le gravi parole di condanna che il Santo Padre ha pronunciato, in più occasioni, con la sua Autorità apostolica, contro la moda immodesta dell’abito femminile che prevale oggi a discapito del buon portamento. – Basti ricordare le parole molto gravi, colme di dolore e di ammonimento, con le quali nel discorso del 15 agosto scorso, nella camera concistoriale, promulgando il decreto sulle virtù eroiche della venerabile Paola Frassinetti, Sua Santità ha denunciato ancora una volta il pericolo che, con il proprio fascino seduttore, si minacciano così tante anime incaute che si professano appartenere al gregge di Gesù Cristo e alla Sua Santa Chiesa.

È doloroso sottolineare a questo proposito che l’abitudine deplorevole tende ad insinuarsi tra le giovani ragazze che frequentano, come allieve, alcune delle scuole dirette da suore e delle classi della scuola domenicale che si tengono presso istituzioni religiose femminili.

Per affrontare il pericolo che, diffondendosi, diventa sempre più grave, questa Sacra Congregazione, per ordine del Santo Padre, richiama gli Ordinari d’Italia affinché possano comunicare ai superiori delle case di religiose, nelle loro rispettivi diocesi, le seguenti ingiunzioni di questa Sacra Congregazione, confermate da Sua Santità nell’udienza odierna:

a) In tutte le scuole, accademie, centri ricreativi, scuole domenicali e laboratori diretti da religiose, non siano da ammettere d’ora in poi quelle ragazze che non osservino nel loro abbigliamento le regole della modestia e della decenza cristiana.

b) A tal fine, le superiori stesse saranno obbligate ad esercitare una stretta supervisione e ad escludere perentoriamente dalle scuole e dai progetti delle loro istituzioni, quelle alunne che non si conformino a queste prescrizioni.

c) Non devono essere influenzate in questo da alcun rispetto umano, né da considerazioni materiali o da ragioni di prestigio sociale e familiare dei loro alunni, anche se il corpo studentesco dovesse diminuire di numero.

d) Inoltre, le sorelle, nel compimento delle loro attività educative, devono sforzarsi di inculcare dolcemente e fortemente, nelle loro allieve, l’amore ed il gusto per la santa modestia, segno e custodia della purezza e del delicato ornamento della donna.

La vostra supervisione sarà vigile affinché queste ingiunzioni siano osservate esattamente e ci sia una perfetta conformità di condotta tra tutti gli istituti di religiose della diocesi. – Richiamerete severamente all’ordine chiunque sia disobbediente in questo, e qualora venga perpetrato qualsiasi abuso, si notifichi a questa Sacra Congregazione. ”

Con la più profonda stima, …

Cardinale Laurenti,

Prefetto della Sacra Congregazione per i religiosi

Vincent La Puma, segretario

Roma, 23 agosto 1928

Nota: Inoltre, il 12 gennaio 1930, Papa Pio XI ordinò alla Sacra Congregazione del Concilio di produrre una lettera fortemente incentrata sulla modestia cristiana in tutto il mondo, che richiedeva l’adesione delle monache alla Lettera dalla Sacra Congregazione dei Religiosi datata 23 agosto 1928, “. [vedi n. 6 sotto]. Questa lettera del 1930 fu ancora più enfatica; dava infatti direttive più dettagliate; e imponeva l’obbligo di combattere le mode immodeste e di promuovere la modestia da parte di tutte le persone con autorità: Vescovi e altri ordinari, parroci, genitori, Superiori e insegnanti nelle scuole. Questa lettera recita come segue:

1930 Lettera della Congregazione del Concilio

In virtù dell’apostolato supremo che esercita sulla Chiesa universale per volontà divina, il nostro Santissimo Padre Papa Pio XI non ha mai cessato di inculcare, sia verbalmente che con i suoi scritti, le parole di San Paolo (1 Tim. II, 9 -10), vale a dire, “Le donne … si adornino con modestia e sobrietà … e professino la pietà con buone opere”.

Molto spesso, quando se ne presentò l’occasione, lo stesso Sommo Pontefice condannò enfaticamente la moda immodesta nell’abbigliamento adottata dalle donne e dalle ragazze cattoliche, moda che non solo offende la dignità delle donne contro il suo ornamento, ma conduce alla rovina temporale delle donne e delle ragazze e, cosa ancora peggiore, alla loro rovina eterna, trascinando miserabilmente gli altri nella loro caduta. Non sorprende, quindi, che tutti i Vescovi e gli altri ordinari nelle loro diocesi, come è dovere dei ministri di Cristo, si siano opposti all’unanimità alla loro depravata licenziosità e promiscuità dei costumi, spesso sostenendo con forza la derisione e la beffa che si sono levati contro di loro per questa causa.

Perciò questo Sacro Concilio, che vigila sulla disciplina del clero e del popolo, mentre raccomanda caldamente l’azione dei Venerabili Vescovi, li esorta enfaticamente a perseverare nel loro atteggiamento e ad aumentare le loro attività nella misura consentita dalle loro possibilità, affinché questa malattia insulsa sia definitivamente sradicata dalla società umana.

Per facilitare l’effetto desiderato, questa Sacra Congregazione, con il mandato del Santissimo Padre, ha decretato quanto segue:

Esortazione a coloro che hanno autorità

1. Il parroco, e in particolare il predicatore, quando sorge l’occasione, dovrebbe, secondo le parole dell’apostolo Paolo (2 Tim. I, 2), insistere, argomentare esortare e comandare che l’abbigliamento femminile sia basato sulla modestia e l’ornamento femminile sia una difesa della virtù. Lasciamo anche loro il compito di ammonire i genitori affinché le loro figlie cessino di indossare abiti indecorosi.

2. I genitori, consapevoli dei loro gravi obblighi verso l’educazione, specialmente religiosa e morale, della loro prole, dovrebbero fare in modo che le loro figlie siano istruite solidamente, fin dalla più tenera infanzia, nella dottrina cristiana; e loro stessi dovrebbero inculcare assiduamente nelle loro anime, con la parola e con l’esempio, l’amore per le virtù della modestia e della castità; e poiché la loro famiglia dovrebbe seguire l’esempio della Sacra Famiglia, la devono governare in modo tale che tutti i suoi membri, cresciuti all’interno delle mura della casa, debbano trovare ragione e incentivo ad amare e preservare nella modestia.

3. Provvedete a che i genitori tengano le proprie figlie lontane dai giochi e dai concorsi di ginnastica pubblica; ma se esse sono costrette a parteciparvi, provvedano a che siano completamente e modestamente vestite; e non permettano mai alle loro figlie di indossare abiti immodesti.

4. Le superiori e gli insegnanti nelle scuole per ragazze devono fare del loro meglio per instillare l’amore per la modestia nel cuore delle fanciulle affidate alle loro cure e spronarle a vestirsi con modestia.

5. Le superiori e gli insegnanti non devono ricevere nei loro collegi e scuole ragazze vestite in modo immodesto e non dovrebbero neppure fare eccezione nel caso di madri di alunni. Se, dopo essere state ammesse, le ragazze persistono nel vestirsi in modo immodesto, tali allieve dovrebbero essere espulse.

6. Le monache, in conformità con la Lettera del 23 agosto 1928 della Sacra Congregazione dei Religiosi, non devono ricevere nei loro collegi, scuole, oratori o campi di ricreazione, o, se ammesse, tollerare ragazze che non siano vestite con cristiana modestia; Le monache, inoltre, dovrebbero fare del loro meglio affinché l’amore per la santa castità e la modestia cristiana possano radicarsi profondamente nel cuore delle loro allieve.

7. È auspicabile che siano fondate organizzazioni di pie donne, che con il loro consiglio, esempio e propaganda, combattano l’uso di indumenti inadatti alla modestia cristiana e promuovere la purezza delle costumi e la modestia nel vestito.

8. Nelle pie associazioni di donne coloro che vestono immodestamente non dovrebbero esservi ammesse all’appartenenza; ma se, per fortuna, sono ricevute, e dopo essere state ammesse, ricadono nel loro errore, dovrebbero essere immediatamente respinte.

9. Le fanciulle e le donne vestite in modo immodesto devono essere escluse dalla Santa Comunione e dall’essere garanti dei Sacramenti del Battesimo e della Cresima; inoltre, se il reato è estremo potrebbe persino essere proibito entrare in chiesa.

Donato Cardinal Sbaretti,

Prefetto della Congregazione del Concilio, Rome,

12 Gennaio, 1930

LO SCUDO DELLA FEDE (VI): I MIRACOLI

VI.

I MIRACOLI.

La forza dimostrativa «lei miracoli. — Che cosa siano e loro possibilità. Loro natura. — Loro conoscimento. —

 

Dunque altra prova della Divina rivelazioni sono i miracoli.

Precisamente.

— E di qual maniera lo sono?

Il miracolo è cosa, che solo Iddio la può fare, ed è cosa altresì che colpisce gli uomini e li conduce a riconoscere l’intervento di Dio. Se perciò Iddio compie dei miracoli a prò di una dottrina, d’una legge, d’una religione, bisogna riconoscere che quella dottrina, quella legge, quella religione è vera, è santa, è divina, giacché è impossibile che Iddio voglia operare dei miracoli a prò di una dottrina, d’una legge, d’una religione falsa, malvagia, perversa, che così si farebbe ad ingannare gli uomini. Ma siccome Iddio ha realmente operato un’infinità di miracoli a prò della religione, della legge, della fede cristiana, di quelle verità, che la Chiesa Cattolica ci insegna, perciò dobbiamo riconoscere che la dottrina cristiana è vera, ci viene propriamente da Lui, da Lui stesso ci fu rivelata.

Che cosa è adunque propriamente il miracolo

Il miracolo è un fatto sensibile, certo, che sorpassa evidentemente le forze della natura e che non può essere prodotto che da Dio.

Per esempio?

Quando Mosè coN la verga toccò le acque del Mar rosso e queste si divisero in un attimo e si alzarono come due muri a destra ed a sinistra; quando Elia invocato il nome del Signore richiamò in vita il figliuolo della vedova di Sarepta, che era morto; quando S. Pietro ordinò ad uno zoppo dalla nascita di levarsi su e camminare, ed egli si sentì subito guarito e prese a camminar davvero, furono compiuti dei miracoli, perché in tutti questi casi avvennero dei fatti sensibilissimi e più che certi, i quali evidentissimamente erano fuori dell’ordine stabilito e comunemente osservato nelle cose, evidentissimamente sorpassavano le forze della natura.

Dunque dagli esempi, che m’ha addotti, anche gli uomini possono fare dei miracoli?

No, gli uomini per sé, con la loro virtù e forza, non possono assolutamente fare dei miracoli; ma Dio può servirsi benissimo di loro come di mezzo per operarli: quindi quando si dice di un santo che fu un taumaturgo, ossia un operatore di miracoli, s’intende sempre di dire, che lo fu in quanto che Dio si servi di lui per compierli.

Ma a dir il vero io credo poco ai miracoli.

E che vorresti dire con ciò?

Voglio dire che io penso che i miracoli siano impossibili.

Potrei risponderti come rispose un cotale ad un sofista antico, che negava la possibilità del moto e che difendeva questa sua balordaggine con infiniti arzigogoli. Lo prese sotto il braccio, gli fece fare un giro per tutta la sala, ove disputava, e poi l’interrogò: « È egli possibile il moto? » Così io potrei dirti: I miracoli ci sono, e provati a tutto rigore, dunque sono possibili. Ma ti risponda per me il famoso filosofo ginevrino Giangiacomo Rousseau: « Chi sostenesse seriamente che i miracoli non siano possibili, resterebbe troppo onorato se lo si punisse: bisognerebbe senz’altro mandarlo al manicomio ». – Come? impossibile il miracolo? Ma Iddio non è egli forse il padrone dell’universo? Epperò sempre che gli piaccia non potrà egli mutare l’ordine naturale, che egli ha stabilito? Non è Egli, che ha creato il mondo, che cioè l’ha cavato dal nulla? E se Egli ha potuto fare il più, vuoi che non possa fare il meno com’è il miracolo, che non è altro che un movimento di ciò che già esiste?

Eppure tante volte si grida: Miracolo; miracolo! e poi si tratta della cosa più naturale del mondo, oppure di ciarlataneria, di giuochi di magnetismo.

Certamente può accadere talvolta, e realmente qualche volta accade che taluni sbaglino nel credere miracolo ciò che non lo è; ma non per questo si potrà negare la possibilità e la esistenza dei veri miracoli. Coloro che negano la possibilità del miracolo, credilo, non è senza una cattiva ragione. Pascal diceva: « Se la matematica offendesse le nostre passioni, ci sforzeremmo di negare anche la matematica ». Ma fortunatamente la matematica non prova nulla fuori della sua cerchia, e perciò i suoi assiomi son lasciati in pace. Non è così del miracolo. Esso ha il gran fine di mostrare la verità della fede, la Divinità del Vangelo e di soggiogare perciò la mente dinanzi ai misteri e imporre alla volontà di lottare contro i nostri sensuali appetiti, le nostre cattive inclinazioni, le nostre perverse passioni, ed è perciò che da taluni non lo si vuole o si nega la sua possibilità. Del resto tutti gli uomini in generale non hanno essi creduto ai miracoli? Leggi la storia religiosa dei Romani, dei Greci dei Galli, dei Persiani, degli Assiri, degli Egiziani e troverai da per tutto l’idea del miracolo. – È vero che moltissime volte, sopra tutto presso questi popoli pagani, l’immaginazione falsata fece loro credere per miracolo ciò che non era tale, oppure ai veri miracoli, di cui ebbero conoscimento, fece loro congiungere e frammischiare delle stranezze chimeriche e ridicole, ma con tutto ciò resta sempre provato, che la natura umana in generale non rigetta il miracolo, e ne proclama la possibilità e l’esistenza.

Comprendo: la cosa non può essere diversa. Ma intanto nell’operare dei miracoli Iddio muta le leggi di natura, che da principio ha stabilito, e così muterà anche la sua volontà. Il che non sarebbe una stoltezza?

Obbiezione vecchia, caro mio, ma che vale un bel nulla. Certamente se Dio operando dei miracoli mutasse la sua volontà, apparirebbe uno stolto che ora vuole una cosa, ora ne vuole un’altra, uno stolto che non ha saputo disporre le cose con sapienza fin dall’eternità, le quali perciò han da essere mutate. Ma è così? Tutto il contrario. Come Iddio da tutta l’eternità ha voluto le leggi di natura, così da tutta l’eternità ha voluto i miracoli, che sorpassano tali leggi: come ha voluto la regola così ha voluto le eccezioni. « In Dio, dice bellamente S. Agostino, tutto è disposto e fisso, né fa mai alcuna cosa, che Egli non abbia dall’eternità preveduto di fare, ancorché a noi sembri ordinata con una sua nuova disposizione » (Spiegazione dei Salmi, capo V, numero 35).

Insomma, se non erro, sarebbe lo stesso che dire che Iddio, al quale tutto è presente, anche il futuro, vede e vuole sempre al presente e le leggi di natura e i miracoli, loro eccezioni.

Precisamente. E siccome vede e vuole sempre al presente, cioè di volontà eterna, le leggi di natura e i miracoli, loro eccezioni, perciò mai non muta.

Questo l’ho inteso. Tuttavia non si potrà negare che nel miracolo vi sia una violenza alla natura.

No, caro mio, nel miracolo non c’è nessuna violenza alla natura. Quello che c’è, è questo: che Iddio ad ottenere certi effetti non si serve della natura, ma li vuole ed ottiene direttamente Egli stesso.

Questo non lo capisco bene.

Qualche esempio ti gioverà a capirlo benissimo. Iddio ha stabilito come legge di natura che le acque rattenute entro un riparo più non si espandano; ha stabilito come legge di natura che le piante mercé la vita vegetativa che c’è in loro, fioriscano e facciano frutti, ha stabilito come legge di natura che le medicine e le cure mediche guariscano a poco a poco da infermità ed impediscano la morte. Per tal guisa Dio ha voluto ottenere gli effetti di trattenere le acque in un determinato confine, di far fiorire e fruttificare le piante, di guarire da molte infermità ed impedire la morte con le cause seconde del riparo, della vita vegetativa, dei medici e delle medicine. Or non ti pare che Egli, il quale ha comunicato tale efficacia alle cause seconde, non possa produrla Egli direttamente senza servirsi di esse?

Senza dubbio, essendo Egli onnipotente e padrone di fare quel che gli piace.

Dunque Egli può con la sua onnipotenza tener su le acque, e senza alcun riparo non lasciarle espandersi; può in un bastone secco, in cui non ci sia più la vita vegetativa, far venir fuori fiori e frutti; può, senza medici e medicine, guarire repentinamente da una gravissima infermità, e può anche far ritornare la vita in un freddo cadavere. E se Egli fa questo, Lui direttamente, ti pare che faccia qualche violenza alla natura? Niente affatto. Ecco pertanto che cosa fa Iddio, allora che opera il miracolo.

Ora ho inteso benissimo, e la spiegazione datami mi piace assai. Ma come si fa ad essere certi di un miracolo? Son tante le cose meravigliose che anche naturalmente accadono, che mi sembra essere assai facile ingannarsi e prendere per miracolo ciò che non è.

Ascolta. Il  miracolo, come ti dissi, è un fatto esterno, sensibile, che perciò si può prendere ad esame e verificare. Ecco un uomo che da tre o quattro giorni è morto. Esso è già stato chiuso nel sepolcro, ed in preda alla corruzione com’è, dev’essere già fetente. Difatti si apre il suo sepolcro e lo si vede spento, immobile, e se ne sente il fetore. Si tratta, sì o no, di uno che è morto davvero? Questo fatto lo posso constatare con i miei occhi, con le mie mani, co’ miei sensi?

Altro che!

Ma ecco che presso a quest’uomo, che io vedo morto, viene un Personaggio e intima a quel cadavere di risorgere. Ed ecco che quel cadavere ripiglia la vita, si alza, cammina, si avvicina a me, mi piglia per mano, mi parla, insomma egli rivive davvero. E questo altro fatto, che quest’uomo, ch’era morto, adesso vive di bel nuovo, non lo posso parimenti constatare? non lo vado constatando con i miei sensi? E quello che faccio io, non lo possono fare tanti altri, che sono al par di me testimoni dell’accaduto?

Certamente.

Dunque dinanzi a questi due fatti da me constatati, il fatto che quell’uomo era morto, e quest’altro che adesso è risuscitato, non devo forse io riconoscere un miracolo? Non devo dire a me stesso: Un uomo quando è morto, è morto, né per alcuna forza umana può ripigliare la vita. Ma quest’uomo alla voce di quel personaggio l’ha ripigliata. Dunque o quel personaggio era Iddio stesso, oppure un mezzo di cui Dio con la sua onnipotenza si servì per fare ciò che Egli solo può fare, e ad ogni modo la risurrezione di quest’uomo non viene da altri se non da Dio, non è altro che un miracolo?

Sì, ed anche questo è chiaro, più chiaro assai di ciò che mi credeva. Ma ho inteso a dire che vi sono delle forze naturali occulte, dalle quali può succedere benissimo il fatto, che appare come miracolo. Dunque per distinguere il vero miracolo da un fatto naturale non bisognerebbe conoscere altresì queste forze naturali occulte?

Anzi tutto l’esistenza di queste forze naturali occulte precedenti il miracolo, chi mai l’ha dimostrata? In secondo luogo, supponiamo pure per un istante che queste forze naturali occulte esistano. Che bisogno hai tu di conoscerle, quando vedessi un miracolo per accertarti che sia tale? È sufficiente più che mai che tu conosca, come nel compiersi quel miracolo non fu applicata nessuna forza naturale occulta, e che però da nessuna di queste cose è provenuto, ma è provenuto invece da una causa superiore, che non può essere che Iddio.

E come farei io a conoscere ciò?

Vedi: senza punto concederti che vi siano delle forze naturali occulte atte a produrre ciò che noi chiamiamo miracoli, ti concedo tuttavia essere verissimo che noi ignoriamo molte leggi di natura e l’applicazione che se ne può fare. Se si svegliassero dalla tomba i nostri avi di cent’anni fa soltanto, e vedessero i telegrafi, i telefoni, i fonografi, la illuminazione e la trazione elettrica, resterebbero fuori di sé per lo stupore. Eppure quelle leggi, quelle forze, la cui applicazione dà oggi tutti questi ammirabili risultati, forse che allora non esistevano in natura? Esistevano benissimo, ma non si conoscevano; ora invece si conoscono e se ne fa l’applicazione. Ma per farne l’applicazione, come tu sai, ci vogliono degli strumenti, dei fili, delle rotaie e tu puoi vedere tutto ciò, e vedendo tutto ciò capisci ancora che gli effetti che si ottengono per quanto meravigliosi, non sono miracoli, ma effetti naturali, che si ottengono con cause naturali. Invece nel miracolo vedi tu qualche cosa di simile? Vedi tu dei preparati, degli strumenti atti a sviluppare delle forze naturali, magari a te ignote? Niente affatto. Nel miracolo non vedi, non riconosci con gli stessi tuoi sensi che la volontà, il comandò di Chi lo opera; e se talvolta vedi che Chi opera il miracolo si serve di mezzi, devi riconoscere ancora che questi di per sé non sono punto atti ad ottenere ciò che si ottiene, come si può riconoscere in quel miracolo, che Gesù Cristo operò guarendo il cieco nato con della terra bagnata di saliva.

E non potrebb’essere che chi fa il miracolo conosca gli effetti meravigliosi, che certe forze naturali, agli altri ignote, possono produrre e che ordini di compiersi il fatto, che noi chiamiamo miracolo, in quel momento istesso, in cui tali forze si sviluppano?

Caro mio, in questo caso vi sarebbe nel taumaturgo una scienza più miracolosa dei miracolo. Ed allora come spiegheresti il gran miracolo di questa scienza? I miracoli operati sono senza numero e furono compiuti da moltissimi personaggi, e vorresti che tutti quanti questi personaggi sempre abbiano colto il momento preciso in cui si sviluppano le forze naturali da loro soltanto conosciute? E se fosse così non si dovrebbe richiedere in ciò una scienza naturalmente impossibile, una scienza soprannaturale, una scienza divina? non si dovrebbe richiedere insomma un’altra volta l’intervento di Dio?

Sì, è verissimo, comprendo proprio che il miracolo non è altro che l’opera di Dio.

E devi perciò riconoscere che se Iddio compie dei miracoli a prò di una dottrina, ne dimostra in tal guisa infallibilmente la verità.

Lo riconosco.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (II)

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Catechismo dogmatico Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAPITOLO I.

DEI LUOGHI TEOLOGICI.

 I luoghi teologici sono quei fonti dai quali si prendono gli argomenti opportuni tanto per provare e dilucidare le verità della fede e i principii e le regole dei costumi, quanto per difendere questa verità, e queste regole dai sofismi degli eretici, o dei cattivi cattolici.

Questi luoghi ossia fonti sono dieci: 1. La divina Scrittura. 2. le Tradizioni. 3. Il consenso della Chiesa cattolica, 4. i Concili, 5. Il Giudizio del romano Pontefice, 6. l’autorità dei ss. Padri, 7. l’autorità dei Dottori e degli Scolastici, 8. l’autorità della Storia, 9. quella dell’umana Ragione, 10. quella della Filosofia. Così i teologi comunemente.

I

Della Sacra Scrittura.

— Che cosa s’intende sotto il nome di Sacra Scrittura?

S’intende la Sacra Bibbia, che contiene tutti quei libri divini, i quali dal sacrosanto Concilio di Trento (sess. IV) in numero di 72 sono riconosciuti per ispirati da Dio ai loro autori, e scritti con tale assistenza dello Spirito Santo, sicché non vi si potesse inserire dai medesimi il minimo errore né per malizia né per umana debolezza.

— Come si divide la Sacra Scrittura?

Si divide in Vecchio e in Nuovo Testamento. Il Vecchio contiene tutti i santi libri scritti prima dell’Incarnazione del Figlio di Dio cominciando dalla Genesi, e terminando al II dei Maccabei, il Nuovo Testamento contiene quelli che furono scritti dopo, cominciando dal Vangelo di S. Matteo, e terminando all’Apocalisse di S. Giovanni.

In questi libri scritti dagli autori inspirati da Dio non vi potevano essere errori, ma per altro vi potranno essere degli errori nella Bibbia latina di cui ci serviamo, perché questa non ha nulla, o quasi nulla di originale, ma è in tutto, o quasi in tutto, traduzione dei testi Ebraici e Greci.

La Chiesa da più di dodici secoli si serve di questa Bibbia, se fosse guasta, ed alterata in cose d’importanza, Gesù Cristo non avrebbe potuto permettere ch’essa se ne servisse, senza mancarle di quella assistenza che le ha promesso perché sia infallibile. Sarebbe anzi scomunicato dal sacro Concilio di Trento (sess. IV) chi non volesse prestar fede a qualcuno dei santi libri, e a qualche parte dei medesimi quali si contengono nella nostra Bibbia latina, la quale si chiama pure la Volgata di S. Gerolamo, perché questo dottissimo santo Padre é l’autore della massima parte di questa versione. — Non sarà per altro cosa di maggiore sicurezza fidarsi più degli antichi testi originali che della nostra volgata? Qualunque possa essere lo stato odierno dei testi originali, è però certo che non furono fin ora rivisti ed emendati dalla Chiesa come fu la nostra Volgata; e perciò nelle cose riguardanti la fede ed i costumi, attualmente si deve preferire la nostra volgata ai testi originali (Can. de loc. theol., 2, c. 13).

— Le parole della S. Scrittura hanno un solo o più sensi?

Moltissime parole, e sentenze della Sacra Scrittura hanno due sensi letterale e mistico. Il letterale è quello che presentano le parole per se stesse; il mistico quello che presentano le cose significate dalle parole. Per esempio, si narra nella divina Scrittura che Abramo ebbe due figli, uno da Agar schiava di condizione, e l’altro da Sara di condizione libera: il senso letterale è che Abramo ebbe Ismaele da Agar sua serva da lui presa in moglie, e che poi ebbe Isacco da Sara similmente sua moglie, e nata dalla medesima distinta famiglia da cui era nato egli stesso: il senso mistico è che Dio raffigurato in Abramo ebbe due popoli suoi cultori, uno servo sotto la legge Mosaica, che è il popolo Ebreo, l’altro libero nella legge evangelica che siamo noi, cioè il popolo cristiano. Così i ss. Padri dietro S. Paolo (epist. ad Gal. IV).

— Vi é anche un altro senso che si chiama accomodatizio, quale sarebbe?

Si chiama senso accomodatizio l’uso che si fa di una sentenza della divina Scrittura la quale esprime una qualche determinata verità, per esprimerne un’altra a cui si può applicare; così la Chiesa usa in lode di Maria Ss. vari encomi che fa la Scrittura alla divina Sapienza; siano per esempio quelle parole « io sono la madre del bell’amore, del timor di Dio, della scienza e della santa speranza (Ecclesiast. XXIV, v. 34).

— Nell’intelligenza e nell’interpretazione delle divine Scritture ci potremo fidare del solo nostro intendimento?

La depositaria delle divine Scritture è la Chiesa Cattolica Apostolica Romana; essa solo può giudicare definitivamente dei veri sensi dei santi libri, vuole poi che nella loro intelligenza ed interpretazione seguiamo il senso unanime dei SS. Padri (Conc. Trid. Sess. IV) come quelli che sono i depositari della tradizione e che furono specialmente assistiti da Dio nella loro interpretazione ed intelligenza. Si noti che tutte le eresie nacquero dal volere interpretare la divina Scrittura secondo il proprio privato sentimento: «Non enim natæ sunt hæreses nisì dum scripturæ bonæ intelliguntur non bene (S. Agost. cap. 18 in Joannem).

— Non sarebbe bene che si facessero traduzioni volgari della Bibbia da potersi mettere nelle mani di tutti, anche dei secolari?

La Chiesa vieta che la Bibbia tradotta in volgare letteralmente si dia a leggere in differentemente a qualunque persona (vide 4 regulam Indicis lib. prohib.); anzi vieta che si dia l’assoluzione dei peccati a coloro che la volessero leggere, o ritenere appresso di sé senza averne il permesso. Che non possa esser buona cosa il metterla nelle mani di tutti si prova da questo, che essendo piena di misteri, potrebbe riuscire agli idioti più di danno che di profitto, e si conosce pure dallo zelo che hanno i protestanti di spargere ovunque, anche con tanto loro dispendio, un’infinita quantità di Bibbie volgari. Di più la Sacra Congregazione dell’Indice con decreto del 13 giugno 1757 proibì « versiones omnes Bibliorum quamvis vulgari lingua, nisi fuerint ab Apostolica Sede approbatæ, aut editæ cum adnotationibus desumptis ex S. Ecclesiæ Patribus, vel ex doctis catholicisque viris. » Vedi l’indice dei libri proibiti stampato in Roma nel 1819 alla lettera “i”, al titolo Istoria succinta delle operazioni etc. facc. 159.  Vedi pure facc. XIV Observ. Ad Reg. IV Additio. Di più questo decreto fu rinnovato nel Monitum del decreto della Congregazione dell’Indice fer. V die 7 ianuarii 1836. Ciò s’intende delle traduzioni volgari della Bibbia anche fatte da autori cattolici, e fedelmente eseguite sulla Vulgata quale sarebbe quella di monsignor Martini stampata senza note: quindi facilmente si comprende quanto debbano considerarsi più rigorosamente proibite le traduzioni fatte dai protestanti alterate, mutilate, mancanti d’interi libri quale é quella del Diodati che si diffonde tra noi per cura delle società Bibliche, che aspirano, speriamo inutilmente, a protestantizzare l’Italia. Specialmente queste da nessuno si possono comprare, né ricevere in regalo, né leggere, né ritenere presso di sé.

II

Delle Tradizioni.

— Che cosa sono le Tradizioni propriamente prese in quanto formano un luogo teologico?

Secondo il senso dei ss. Padri, e del Santo Concilio di Trento (sess. IV) sono quelle dottrine che non furono scritte da principio dagli autori inspirati, siano, o non siano poi state scritte in appresso.

— Come si distinguono le Tradizioni?

Le Tradizioni della Legge Evangelica, delle quali noi parliamo altre si chiamano:

Divino-Apostoliche, altre Apostoliche soltanto.

Le Divino-Apostoliche si dividono in:

Tradizioni spettanti al Dogma, e in

Tradizioni spettanti al costume.

– Le prime contengono le verità insegnate da Gesù Cristo agli Apostoli, o pure rivelate ai medesimi dopo la di Lui Ascensione al Cielo: si può mettere tra questo numero il dogma che i Sacramenti della nuova legge sono sette, né più, né meno.

– Le spettanti al costume, ossia alla pratica, contengono i precetti e i comandi fatti da Cristo agli Apostoli; e tra queste si possono annoverare i riti essenziali all’amministrazione dei Sacramenti, cangiati i quali nella loro sostanza, i Sacramenti resterebbero invalidi; per esempio, se uno dicesse nella forma del Sacramento della Penitenza: io ti lavo dai tuoi peccati, invece di dire: io ti assolvo.

Queste tradizioni Divino-Apostoliche, tanto riguardanti il dogma, come riguardanti la pratica, sono immutabili, e costituiscono un’irrefragabile luogo teologico. Le tradizioni apostoliche soltanto contengono le costituzioni formate dagli Apostoli come pastori della Chiesa per il suo buon regime disciplinare; si mette tra queste il digiuno quaresimale, e queste sono immutabili; sicché il Sommo Pontefice come Pastore universale può farvi quelle mutazioni che giudica espedienti.

— Le Tradizioni nella Chiesa si devono ammettere necessariamente?

È un dogma definito nel S. Concilio di Trento che esistono le Tradizioni ei (sess. IV et alibi). Si devono poi ammettere necessariamente, perché non si trova nei libri della Bibbia tutto ciò che si deve credere e praticare. Non si trova nella Bibbia che i Sacramenti della nuova legge sono sette; perciò senza le tradizioni non si potrebbe credere questo dogma. – Similmente le forme di vari Sacramenti non si trovano nei libri divini; e perciò senza Tradizioni non si potrebbero amministrare; per questo diceva S. Paolo: «Conserservate le tradizioni » (II ad Tessal. 2). Gli eretici inoltre, come dimostra il Cano (de Tradit. Apost. 1. 3, c. 3), rigettano le tradizioni perché riconoscono esser questa un’arma atta a sconfiggerli più ancora delle Divine Scritture; giacché le scritture interpretandole a loro modo le tirano al loro sentimento, ma le tradizioni non vanno soggette ad interpretazioni.

III

Della Chiesa.

— Come si definisce la Chiesa di Cristo?

La vera Chiesa di Cristo in questa terra, non parlando qui della trionfante, che è l’unione dei Beati in Cielo, nemmeno della purgante (che è l’Unione delle anime giuste detenute nel Purgatorio). La vera Chiesa di Cristo in questa terra; cioè la Chiesa militante, è:

l’Unione di tutti i fedeli i quali communicano insieme per la professione della stessa fede, per la partecipazione degli stessi Sacramenti, stanno soggetti ai propri Vescovi, e particolarmente al Romano Pontefice centro di tutta la Cattolica Unione. Così i teologi comunemente (Antoine, de fide Div. c. 3. art. 2).

— Quali persone non appartengono alla Chiesa di Cristo?

Non vi appartengono quelli, che non hanno ancora ricevuto il Battesimo, e perciò non solo gl’infedeli, ma nemmeno i catecumeni, quantunque credano già le verità rivelate dalla S. Fede. Non vi appartengono gli eretici, quelli cioè che appartengono a qualche setta, la quale non creda tutti i dogmi della Fede (tutti i protestanti sono eretici). Non vi appartengono gli scismatici, quelli cioè che ricusano di sottomettersi ai propri legittimi pastori, e tanti più all’autorità del Romano Pontefice. Non vi appartengono gli scomunicati, quelli però che sono notoriamente e pubblicamente dichiarati (Antoine, de fide div. e. 3, art. 1, § 1 et seq.).

— Vi sono dunque degli scomunicati che appartengono alla Chiesa?

Di diritto nessuno scomunicato appartiene alla Chiesa; ma per indulgenza, ossia permissione della stessa Chiesa, vi appartengono gli scomunicati detti tollerati, quelli cioè che non sono dichiarati tali notoriamente. Similmente vi appartengono gli eretici occulti, cioè quelli che senza dichiararsi per qualche setta particolare, contraddicono occultamente a qualche dogma cattolico, affettando frattanto dì essere uniti alla Chiesa, e sottomessi ai legittimi Pastori (Antoine, de fide Div. c. 3 de Eccl.). Questi però appartengono non all’anima ma al corpo della Chiesa, come un membro arido resta talvolta unito al suo corpo da cui non riceve né vigore, né vita.

— Alcuni dubitarono che non appartenessero alla Chiesa i cristiani imperfetti?

Vi furono alcuni eretici i quali pretesero che i soli cristiani perfetti formassero la Chiesa; ma questo era un distrurre la Chiesa, e annichilarla, giacché in questa terra non vi furono mai perfetti propriamente tali, tolta la Beatissima Vergine, che preservata dal peccato originale andò immune da ogni difetto; gli altri Santi si chiamano perfetti, non perché siano veramente tali, ma perché aspirano continuamente alla perfezione, e con tutto l’impegno procurano di spogliarsi dai loro difetti (Canuti, de Eccles. Cath. auct. lib. 4, C. 3).

— Si devono considerare come appartenenti alla Chiesa quelli che si trovano in istato di peccato mortale?

Senza dubbio, anche questo è un articolo di Fede, e l’errore contrario fu condannato in varie proposizioni di Quesnel dalla Bolla Unigenitus [Clemente XI – 1713] (Antoine, de fide Div. c. 3, art. 2, § 3).

— I reprobi cattolici, quelli cioè che Iddio prevede che per le loro iniquità si danneranno, appartengono alla Chiesa?

È articolo di Fede che vi appartengono; e l’errore contrario fu pure condannato dalla Stessa Bolla Unigenitus (Antoine, ut supra § 1).

— Quali sono i caratteri della vera Chiesa di Cristo?

Sono quattro annoverati dal Simbolo Niceno-Costantinopolitano: è Una, è Santa, è Cattolica ed Apostolica.

– Mi spieghi il primo.

La vera Chiesa è Una particolarmente per l’unità del suo capo che è Cristo, per per l’unità degli stessi mezzi che la conducono al suo fine dell’eterna salvezza, per l’unità di uno stesso suo cibo spirituale che è il corpo ed il sangue di Gesù Cristo, per l’unità di una stessa fede, di una stessa speranza, di uno stesso Spirito che la dirige e la governa.

— Chi è l’origine e il centro di questa unità che la Chiesa ha in terra?

Dietro l’autorità di tutti i ss. Padri convengono tutti i cattolici, che l’origine e il centro di tale unità è il Romano Pontefice, il quale ha il primato di onore, di giurisdizione e di autorità sopra tutte le varie chiese della terra, le quali tutte unite sotto questo capo costituito da Gesù Cristo formano una sola Chiesa. Tolto questo centro di unità sarebbero tante chiese disciolte, e non più una.

— Mi spieghi il secondo.

La vera Chiesa è Santa, particolarmente  per la santità del suo capo che è Cristo, per la santità dei suoi Sacramenti, della sua Fede, della sua morale, per la santità delle sue più nobili membra che sono i giusti, e per la santità dei suoi riti.

— Mi spieghi il terzo.

L a vera Chiesa è Cattolica, cioè universale perché si estende a tutti i tempi, dovendo durare fino alla fine del mondo; perché si estende a tutti i luoghi, essendo diffusa in tutta la terra, e perché accoglie ogni sorta di genti.

— Mi spieghi il quarto.

La vera Chiesa è Apostolica, perché fu fondata dagli Apostoli, perché conserva la loro dottrina, e perché ha per Pastori legittimi i loro successori.

— Quali sono poi le proprietà di questa Chiesa?

Sono queste tre: che sia visibile, indefettibile e infallibile.

— Le sono necessarie queste proprietà?

La loro necessità è manifesta. La Chiesa di Cristo è l’unica vera Religione del mondo, e soltanto quelli che a lei appartengono possono ottenere la vita eterna; perciò è necessario che sia visibile, affinché quelli che non sono in questa Chiesa la possano conoscere, e possano procurare d’entrarvi. È necessario che sia indefettibile, perché se la Chiesa potesse mancare anche solo per qualche tempo, per quel tratto resterebbero gli uomini impossibilitati a salvarsi. È necessario che sia infallibile, perché se essa potesse errare non potrebbe condurre sicuramente i propri figli al conseguimento del fine dell’eterna salvezza (Antoine, de fide Div. c. 3, art. 4 et seq.).

— In quali cose è infallibile la Chiesa?

È infallibile in materia di Fede, e di costumi. Cosicché quando dichiara che una verità appartiene alla Fede e quando approva o disapprova una pratica appartenente al costume, è impossibile ch’Ella erri.

— Chi la rende infalibile?

L’assistenza della Spirito Santo, che con specialissima provvidenza la governa, anzi parla agli uomini per mezzo di lei.

A quale Chiesa appartengono i sopradetti caratteri e proprietà?

Alla Chiesa Romana, non in quanto puramente Romana, cioè ristretta nei limiti del territorio della diocesi di Roma, ma in quanto è la Chiesa universale che ha per suo Capo e Pastore supremo il Romano Pontefice; per questo non solo adesso, ma anche nei secoli del Cristianesimo, dire Cristiani romani, e dire Cattolici era l’istessa cosa

(Baron. ad ann. 45).

— Che diremo dunque delle Chiese dei protestanti che vogliono essere chiamate Sante, Cattoliche, Apostoliche?

Si chiamerebbero tali con quel diritto col quale noi italiani ci potremmo chiamare francesi. Quando erano unite alla Chiesa Romana facevano realmente parte della Chiesa Santa Cattolica Apostolica, ma adesso non sono né Sante, né Cattoliche, né Apostoliche. Non Sono Sante perché non hanno più per capo la fonte d’ogni santità Gesù Cristo, e i dogmi e la morale che alle volte autorizzano non è santa. Non sono Cattoliche perché non estese a tutti i tempi, e ristrette a qualche provincia, a qualche regno. Non sono Apostoliche perché i loro fondatori non furono i successori degli Apostoli, ma i desertori della Chiesa fondata dagli Apostoli, i nemici della loro dottrina; e in quel modo che noi italiani se volessimo chiamarci francesi non troveremmo nessuno né amico, né nemico che ci volesse dare tal nome; egualmente i protestanti non trovarono mai chi volesse dare alle loro chiese i nomi di Sante, Cattoliche, Apostoliche; ma bisognò che si contentassero dei loro propri nomi, cioè di chiese Luterane, Calvinistiche, Zuingliane, Anglicane ecc.

— Che dovremo dire delle Chiese Greche scismatiche?

Per questo che sono scismatiche, cioè separate e divise dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica, a Lei non appartengono; sono per altro anche eretiche, perché negano vari dogmi della Fede, fra gli altri che lo Spirito Santo proceda non solo dal Padre, ma anche dal Figliuolo. Si osservi che quantunque tali chiese separate dall’unione cattolica, da alcuni si chiamino soltanto col nome di Chiese Greche, od orientali, si devono chiamare esse pure Protestanti, perché contraddicendo ai dogmi definiti dalla Chiesa protestano contro la Chiesa, come dimostra evidentemente il conte De Maistre (Del Papa, lib. 4, c. 4).

– Ho veduto che la, Chiesa è infallibile nelle sue decisioni riguardanti la Fede, e costumi,  or nascendo qualche controversia a chi ne spetterà la definizione?

Bisogna riflettere che nella Chiesa si devono distinguere due parti. La Chiesa insegnante, e la Chiesa ascoltante. Il Sommo Pontefice con gli altri Vescovi forma la Chiesa insegnante, tutto il rimanente del popolo cristiano, compreso i Sacerdoti, forma la Chiesa ascoltante. Perciò al Sommo Pontefice ed ai Vescovi spetta definire le questioni che potessero insorgere circa la Fede o la morale (Canus, de Eccl. Cath., lib. 4, c. 4).

— Può definire le questioni suddette ogni vescovo anche in particolare?

Non già; ma il corpo dei Vescovi uniti al Romano Pontefice può definitamente giudicare di tali questioni, e questa unione si fa mediante un Concilio generale, o mediante una Bolla Pontificia accettata dalla universalità dei Vescovi. Non sarebbe perciò necessario che l’accettassero tutti i Vescovi; basta che sia accolta, o non contrariata dalla maggior parte, e in tale caso i Vescovi che fossero dissenzienti non sottomettendosi diverrebbero scismatici ed eretici. Si noti bene, che tutto questo è di Fede, come convengono tutti i teologi Cattolici.

— Come si risponderebbe agli Eretici, i quali sostengono che il giudice di tutte le controversie circa la Fede e i costumi è la S. Scrittura?

Si risponderebbe che la divina Scrittura serve di regola per condannare gli errori, e definire le verità; ma che essa non condanna, né definisce. Tutti gli stati hanno un corpo di leggi, non sarebbe cosa ridicola il sopprimere i Tribunali, e aspettare che le leggi condannassero i rei, ed assolvessero gli innocenti? La divina Scrittura è il codice della Chiesa; ma la Chiesa è il tribunale cui spetta definire del senso del suo codice. Piace agli eretici lo stabilire che la S. Scrittura sia il giudice di ogni controversia, perché essi spiegandola a loro capriccio dicono che il giudice è in loro favore, e non temono che la divina Scrittura faccia mai più un Concilio, o una Bolla che li condanni.

— Dicono però che ciascuno può giudicare di tutte le controversie col proprio spirito privato, illuminato nell’intelligenza delle divine Scritture dallo Spirito Santo?

Se fosse vero che lo Spirito Santo illuminasse tutti gli spiriti dei cristiani, sicché nessuno potesse errare nell’intelligenza delle divine Scritture, non vi sarebbero mai state controversie in tale materia: perciò si deve dire che tutti non li illumina, e tutti non li rende infallibili; frattanto quali saranno quegli spiriti privati illuminati dallo Spirito Santo? Come li discerneremo da quelli che non sono illuminati? E poi se gli eretici sono illuminati dallo Spirito Santo per decidere col loro spirito privato le controversie, bisognerà che autore dello Spirito Santo di quelle innumerabili contraddizioni che li dividono in mille sette, e della loro Religione e Fede formano un caos.

— Che diremo di quelli i quali danno l’autorità definire le controversie suddette alla moltitudine del popolo cristiano?

Questo è un delirio in Fede. Lo ammetteremo quando le pecore dovranno condurre i loro pastori: Gesù Cristo disse agli Apostoli: Insegnate a tutte le genti, non lo disse a tutte le turbe (Canus, de auctor. conc. lib. 5, c. 2).

— Non si potrebbe assegnare per giudice di controversie di Religione il Sovrano temporale?

Per questo che l’autorità dei Sovrani è temporale, non si estende alle controversie di Religione che sono spirituali. Gesù Cristo diede le chiavi a S. Pietro, e non al Re, o all’Imperatore. In fine si noti bene che il dare l’autorità di definire le controversie di Religione al altri fuorché alla Chiesa, e a chi la rappresenta, è un errore contro la Fede di cui nessun cattolico si fece mai patrocinatore.

IV.

Dei Concilii.

— Come si definisce il Concilio Ecclesiastico?

Una congregazione dei Prelati della Chiesa convocata da un legittimo Capo per definire le questioni, che possono nascere circa le verità della Religione, per riformare i costumi del popolo cristiano, e la disciplina Ecclesiastica. Non sempre si raduna il Concilio per tutti questi motivi insieme, potendosi radunare, o per 1’uno o per 1’altro dei medesimi.

— Quante sorta di Concili si hanno?

Quattro sorte, cioè Concilio Generale, a cui si chiamano dal Sommo Pontefice tutti i Vescovi del mondo Cattolico; non è però necessario che tutti v’intervengano. Concilio Nazionale, a cui dal Primate si chiamano tutti i Vescovi della nazione, o del regno. Concilio Provinciale, a cui dal metropolitano si chiamano tutti i Vescovi della provincia suoi suffraganei, ed anche gli esenti a termini del Trid. Conc. sess. XXIV, c. 2. Concilio Diocesano, a cui dal Vescovo si chiamano i Preti della diocesi che hanno cura d’anime, od altro benefizio ecclesiastico.

— Appartiene soltanto al Romano Pontefice il diritto di convocare il Concilio Generale?

Tutti i cattolici convengono che questo diritto appartiene soltanto al Romano Pontefice. – Gli eretici pretendono che questo diritto spetti all’Imperatore; stoltamente però, poiché bisognerebbe che l’Imperatore avesse sotto di sé tutti i regni del mondo, onde esercitarvi l’atto di giurisdizione della convocazione dei Véscovi, e bisognerebbe pure che avesse il Primato nella Chiesa perché i Vescovi fossero obbligati a radunarsi dietro il suo ordine. Il Romano Pontefice soltanto la suprema podestà e giurisdizione sopra tutti i cristiani del mondo, e perciò sopra tutti i Vescovi. Si noti se qualche Imperatore romano ha già convocato qualche Concilio, questo avvenne dietro il consenso, e 1’ordine del Romano Pontefice. Cosi tutti i teologi e storici sani.

— A chi spetta di presiedere al Concilio Generale?

Spetta al Romano Pontefice, come spetta al capo di presiedere ai membri. Vi può presiedere però o per se stesso, o per mezzo dei suoi legati. Così tutti i teologi cattolici.

— Quali Prelati possono intervenire al Concilio generale?

Come giudici delle controversie religiose di diritto ordinario vi possono intervenire i soli Vescovi, e dare suffragio decisivo. I Cardinali non Vescovi v’intervengono come consultori del Sommo Pontefice, e danno suffragio eglino pure, come anche per privilegio gli Abati, e Generali degli Ordini Religiosi. Come protettori poi v’intervengono anche i Sovrani temporali, o i loro legati (Antoine, tract. De fide div. sect. 4, C. 4, art. 2. — Devoti, ìnsitit. can. Prolegom. c. III, XL).

— Il Concilio generale è di autorità infallibile?

Nessuno tra i Cattolici ha mai dubitato che esso sia d’infallibile autorità; però egli non ha una tale autorità se non dopo l’approvazione, o confermazione del Romano Pontefice.

— Gli altri Concili non generali sono infallibili?

Sono soltanto autorevoli per sé stessi, ma non infallibili, perché l’infallibilità è solo promessa alla Chiesa universale, e a chi la rappresenta. Si dice per se stessi, perché qualora le loro decisioni fossero approvate dalla Chiesa Romana sarebbero infallibili. Di più si osservi che nelle cose riguardanti la disciplina obbligano solo per i luoghi nei quali sono fatti; se sono Nazionali per la nazione, se Provinciali per la provincia, se Diocesani per la diocesi.

V .

Del Romano Pontefice.

— Chi è il Romano Pontefice?

Il Romano Pontefice è il Vescovo successore di S. Pietro nella Sede Romana.

— Il Romano Pontefice ha tutti i privilegi di S. Pietro, e tutta l’autorità che egli ebbe sopra la Chiesa?

Ha tutti i privilegi, e tutta l’autorità che ebbe S. Pietro da Cristo in quanto lo costituì Capo del Collegio Apostolico, e della sua Chiesa, cioè ha la stessa giurisdizione, e autorità sopra tutti i Vescovi, e sopra tutti i fedeli, e questo è di fede (Antoine, tract. ut supra de Rom. pontif.).

— È dunque un articolo di Fede che il Romano Pontefice abbia il primato sopra tutte le Chiese?

È articolo di Fede principalmente definito nel Concilio Fiorentino con pieno consenso dei Greci e dei Latini (in Defin. fidei).

— È necessario questo primato del Romano Pontefice nella Chiesa?

Una società che ha molti capi indipendenti, quali sarebbero i Vescovi senza il Romano Pontefice non può essere che un’anarchia, ed una confusione. Questa verità la confessano gli stessi eretici quando danno giurisdizione all’Imperatore, o ai Re sopra i Vescovi.

— Qualora pel suo sregolato, o reo procedere si dovesse chiamare in giudizio il Romano Pontefice, a chi spetterebbe il diritto di giudicare la sua causa?

Questo diritto se lo ha riserbato Iddio, nessuno in terra può giudicare il Romano Pontefice. Oltre le autorità che si potrebbero addurre, questa ragione è palpabile. Non si è mai potuto chiamare in giudizio il capo di un Governo se non da una rivolta; ma la Chiesa non ammette rivolta nel suo seno. Se succede una rivolta nella Chiesa, per questo solo che è rivolta, chi la promuove e chi ne fa parte, resta separato e diviso dalla Chiesa, almeno come scismatico; e perciò come diviso da lei non ha più in lei alcuna autorità. Potrà dunque essere fraternamente ammonito ma non giudicato.

— Il Romano Pontefice quando definisce una controversia in materia di Fede e di costumi, come capo e maestro di tutta la Chiesa, cioè per parlare con termine teologico, quando la definisce ex cathedra, è infallibile nel suo giudizio?

È infallibile, come si potrebbe provare con ogni sorta di autorità, e di ragioni, e il fatto sta che i Romani Pontefici quando definirono qualche questione in qualità di capi e maestri della Chiesa non hanno mai errato. Si trovarono sempre dei contumaci che reclamarono contro la verità delle pontificie decisioni; ma sempre finì il negozio con l’accettazione di tutta la Chiesa della decisione pontificia, e con la dichiarazione di eresia a carico dei reclamanti [I Nestoriani, gli Eutichiani si opposero alle decisioni di S. Leone Magno. I Monoteliti a quelle di S. Martino I. I Luterani a quelle di Leone X. I Giansenisti a quelle d’Innocenzo X, di Alessandro VII, ecc. Ma questi, e tutti gli altri antichi e moderni che l’imitarono nell’opposizione alle decisioni dei Romani Pontefici appresso i Cattolici, son tutti eretici. Le condanne dei Romani Pontefici si appellano, e sono fulmini che partono dal trono di Dio, e non v’ha scudo che non spezzino; non v’ha scampo per chi li provoca, se pure non si sottomette, e umilmente da lui stesso non si condanna. È impossibile che si respingano indietro; sono come la freccia di Gionata, di cui dice la Scrittura: — Sagitta Jonathæ nunquam rediit retrorsum. 2 Reg. c. 1, v. 22]. –

— L’autorità del Romano Pontefice è inferiore all’autorità del Concilio Generale?

Il Romano Pontefice con la sua autorità dà forza al Concilio Generale, e perciò è superiore allo stesso, e non inferiore. Il sommo Pontefice non cessa di essere capo della Chiesa quando è radunata in Concilio. Si rifletta che nessun Concilio generale è mai stato riconosciuto per infallibile nella Chiesa senza la conferma, o approvazione del Papa. Si rifletta di più che non si può concepire l’idea di Concilio generale senza Papa. Bisogna che il Papa lo raduni, che vi assista o per se stesso, o per mezzo dei suoi legati, che infine lo confermi come finiamo di dire. Ora per concepire un Concilio generale senza Papa, bisognerebbe concepire un Concilio generale in contraddizione col Papa, e in tal caso sarebbe una illegittima materiale radunanza di Vescovi tutti realmente disciolti, perché senza un centro di unione.

— Questo sarebbe nel caso che si trovasse in questione il Papa vivente con un Concilio generale che si andasse facendo, tuttavia il Papa sarà soggetto ai Concili generali già fatti debitamente, e confermati dall’autorità dei Papi suoi predecessori?

Nelle decisioni dogmatiche non ve ne ha dubbio, perché ciò che era vero, e infallibilmente vero una volta, sarà sempre vero per tutta l’eternità: per altro il dire che il Papa deve essere soggetto in tal modo ai Concili, è lo stesso che dire, che il Papa deve essere cattolico: nelle determinazioni poi che riguardano la disciplina, la quale nella Chiesa è mutabile, il Papa è superiore ai Concili potendo derogare alle loro leggi quando ne conosce il bisogno, e questa autorità gli è necessaria perché altrimenti sarebbe mal provveduto al ben essere della Chiesa.

— Per qual ragione sarebbe mal provveduto al ben essere della Chiesa?

Per la ragione che il Papa non potrebbe dispensare, o derogare in nessun caso ai canoni dei concili, come l’inferiore in nessun caso può derogare alla legge del superiore; e perciò per ogni deroga, per ogni dispensa cui il Concilio non avesse già autorizzato a farla il Sommo Pontefice od altri, sarebbe necessario convocare Concilio generale, e da tutti si conosce quanto sia cosa difficile il radunarlo, molte volte sarebbe anzi impossibile, e perciò in più occasioni mancherebbe alla Chiesa il mezzo di provvedere ai propri bisogni.

— Per altro non è verità definita di Fede che il Papa sia infallibile nelle sue decisioni dogmatiche, e che abbia autorità sopra i Concili generali?

È vero, che questa non è tra il numero di quelle verità che si devono credere fermamente sotto colpa di eresia non credendole. Per altro è una verità tra le più certe che si abbiano in teologia dopo i dogmi di Fede. Si noti che fu condannata da Alessandro VIII nel 1690, il 7 dicembre questa proposizione: « Futilis et toties convulsa est assertio de Pontificis Romani super Concilium Oecumenicum auctoritate, atque in Fidei quæstionibus decernendis infallibilitate »; ed incorrerebbe scomunica riservata al Papa chi volesse difendere tale proposizione.

— Il Papa ha l’autorità di dichiarare eretici o scandalosi i libri, e di proibirli quando siano tali?

Senza dubbio, perché come Pastore universale deve discernere i cattivi pascoli, e impedire che vi si accosti il suo gregge.

— Dichiarando il Papa che un libro contiene qualche eresia, bisogna sottomettere ciecamente il proprio giudizio alla sua dichiarazione?

Non vi ha luogo a dubitarne, perché nelle cose di fede non basta l’omaggio della lingua che si sottometta a stare in silenzio; ma si richiede l’omaggio del cuore, cioè della volontà prodotto dalla sottomissione dell’intelletto. – Questa verità sempre riconosciuta nella Chiesa fu maggiormente illustrata negli ultimi tempi dal fatto della condanna dell’eretiche proposizioni di Giansenio (Antoine: de fide divina c. 3 de Eccl., art. 8.)

VI.

Dei ss. Padri, dei Dottori e degli Scolastici.

— Quali sono i Santi Padri?

I Santi Padri sono quei grandi uomini, i quali per gran dottrina, gran santità e antichità furono dichiarati tali dalla Chiesa, o espressamente, o tacitamente. L’ultimo dei Santi Padri è S. Bernardo.

— Quali sono i Dottori?

Gli uomini insigni per dottrina e santità dichiarati tali dalla Chiesa, come S. Tommaso, S. Bonaventura ecc.

— Quando i Santi Padri, e i Dottori della Chiesa sono concordi in asserire qualche cosa spettante alla Fede o ai costumi si può dubitare della verità della stessa?

Non se ne può dubitare, perché essi sono i depositari della tradizione della Chiesa, e quando sono concordi nell’asserire qualche verità in tali materie, vuol dire che ella viene direttamente dagli Apostoli.

— Bisognerà che tutti siano concordi niuno eccettuato?

Questo poi no; perché nessuno tra i Santi Padri da sé solo è infallibile; perciò qualcuno poteva sbagliare, e non trovarsi concorde a tutti gli altri: in tal caso l’errore di uno non dovrebbe togliere la forza alla verità insegnata da tutti, o quasi da tutti.

— Dunque il sentimento di un Santo Padre si deve calcolare come di nessun peso?

Non già, si deve anzi calcolare moltissimo quando non sia contrario alla comune sentenza degli altri Padri; quando però vi fosse contrario, non si dovrebbe calcolare certamente.

— Quali sono gli Scolastici?

Quelli che scrissero dopo i Dottori della Chiesa in difesa delle verità contrariate dagli eretici: questi crebbero in gran numero dopo gli eretici del secolo XVI, che dovettero combattere; perciò gli Scolastici sono molto odiati e malmenati dai protestanti anche di questi tempi, e anche dalle persone di fede o dubbia o poco sincera, quantunque affettino cattolicesimo ed unione con la S. Chiesa.

— Quale autorità hanno gli Scolastici?

Se comunemente tutti concordano in asserire una cosa spettante alla fede, o ai costumi, hanno un’autorità irrefragabile, anche prima che sia definita espressamente dalla Chiesa, perché non si può supporre che tutti sbaglino, gli uomini dotti che nella Chiesa fioriscono, almeno la Chiesa dovrebbe condannare il loro errore non potendo permettere che fosse così autorizzato, e insegnato da tutti. Se poi comunemente non concordano, ma sono divisi nel loro parere, ciascuno non ha altra autorità, che il peso della ragione che apporta; questo s’intende però in generale parlando; poiché gli Scolastici i quali più si segnalarono per retto giudizio, e profonda cognizione dei Santi Padri hanno un’autorità personale di peso ben calcolabile. Chi direbbe per esempio che il sentimento del Bellarmino non sia considerabile anche soltanto per essere di uomo così giudizioso, ed erudito nelle scienze ecclesiastiche?(S. S. Clemente VIII eleggendolo a Cardinale diceva di lui al sacro Collegio: Hunc elegimus quia non habet parem Ecclesia Dei quoad doctrinam). La loro autorità però non si può mai mettere al pari di quella dei Santi Padri, o dei Dottori.

VII.

Della storia dell’ umana ragione e della Filosofia.

— Quale autorità ha la Storia?

La Storia ha molta autorità nelle controversie di Religione, perché ella somministra molti lumi e molti fatti in rischiaramento, e prova della verità, e in confutazione dell’errore. Per altro chi vuole adoprare sicuramente l’autorità della Storia in materia di Religione, non basta che ne abbia una qualche tintura soltanto; che sappia dei fatti sconnessi e isolati, tutte le scienze è meglio ignorarle, che saperle male, ma forse particolarmente la Storia; parlo dell’Ecclesiastica più necessaria alle teologiche controversie; la profana generalmente non può essere che utile.

— Quale autorità ha l’Umana Ragione, e la Filosofia?

Hanno molta autorità, qualora si tengano sottomesse alla Fede, e si adoprino in quelle controversie teologiche che ammettano gli argomenti che esse somministrano. È facile intendere che se la Fede si sottomette alla Ragione e alla Filosofia, la Fede è distrutta, e che non possono decidere in quelle materie che in nessun modo appartengono alla loro sfera; per esempio come si proverebbe in Filosofia l’esistenza del mistero della Ss. Trinità?

 

SAN LEONE PAPA

11 APRILE

SAN LEONE, PAPA E DOTTORE DELLA CHIESA

Il difensore del dogma dell’Incarnazione.

Oggi, nel Calendario liturgico, troviamo uno dei nomi più gloriosi della Chiesa: san Leone Magno. Meritò questo titolo, avendo nobilmente lavorato per illuminare la fede dei popoli sul mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. La Santa Chiesa aveva trionfato delle eresie che attaccavano il dogma della Trinità; allora ogni sforzo infernale fu portato contro quello del Dio fatto uomo. Un vescovo di Costantinopoli, Nestorio, osò negare l’unità di persona in Gesù Cristo, separando in lui il Dio dall’uomo. Il concilio di Efeso condannò quest’errore, che annullava la Redenzione. Ma non tardò a sollevarsi una nuova eresia, opposta alla prima, ma non meno nociva per il cristianesimo. Il monaco Eutiche sosteneva che, nell’Incarnazione, la natura umana era stata assorbita da quella divina, e quest’errore dilagava con una rapidità paurosa. La Chiesa sentì il bisogno dell’opera di un dottore che riassumesse con precisione e autorità il dogma, che è la base delle nostre speranze. – Apparve allora Leone, che dall’alto della cattedra apostolica, ove lo Spirito Santo l’aveva fatto assidere, proclamò con una eloquenza ed una chiarezza senza uguali, la formula della fede primitiva, sempre la stessa, ma risplendente di una luce nuova. Un grido di ammirazione partì dal seno stesso del Concilio ecumenico di Calcedonia, riunitosi per condannare l’empia tesi di Eutiche. I Padri esclamarono: « Pietro ha parlato per mezzo della bocca di Leone »! e quattordici secoli non hanno ancora cancellato, nella Chiesa d’Oriente, l’entusiasmo suscitato dall’insegnamento che san Leone dette a tutta la Chiesa.

Il difensore di Roma.

L’occidente, in preda a tutte le calamità dell’invasione dei barbari, vedeva crollare gli ultimi avanzi dell’impero, e Attila, Flagello di Dio, era già alle porte di Roma. I barbari indietreggiarono di fronte alla maestà del contegno di Leone, come l’eresia si dissipava davanti all’autorità della sua parola. Il capo degli Unni, al quale avevano ceduto i più formidabili bastioni, conferì col Pontefice presso le sponde del Mincio, e s’impegnò di non entrare a Roma. La calma e la dignità di Leone, che affrontava, senza difesa, il più temibile dei vincitori dell’Impero, esponendo la vita per il suo gregge, aveva scosso quel barbaro. I suoi occhi avevano scorto nell’aere l’Apostolo Pietro, sotto l’aspetto d’un augusto personaggio che proteggeva l’intercessore di Roma. Nel cuore di Attila, il terrore si unì all’ammirazione. Momento sublime, in cui si rivela tutto un mondo nuovo! Il Pontefice disarmato, che affronta la violenza del barbaro; questi, commosso alla presenza di una dedizione che non comprende ancora; il cielo che interviene per aiutare l’uomo dalla natura feroce ad inchinarsi dinanzi alla forza morale. – L’atto generoso compiuto da Leone esprime, in un solo tratto, ciò che diversi secoli videro operarsi nell’Europa intera; ma l’aureola del Pontefice ne risulta più risplendente.

L’oratore.

Affinché Leone non mancasse di nessun genere di gloria, lo Spirito Santo l’aveva dotato di una eloquenza che si poteva chiamare « papale », tanto completa e imponente era la sua impronta. La lingua latina, che declinava, vi ritrovò quegli accenti, e una forma che, a volte, ricordavano l’epoca del suo vigore; e il dogma cristiano, formulato in uno stile nobile e nutrito dal più puro succo apostolico, vi risplendette di meravigliosa luce. Leone, nei suoi memorabili discorsi, celebrò Cristo, uscente dalla tomba, invitando i suoi fedeli a risuscitare con lui. Egli caratterizzò, tra gli altri, il periodo dell’Anno liturgico che stiamo percorrendo in questo momento, quando disse: « I giorni che trascorsero tra la Risurrezione del Signore e la sua Ascensione, non furono oziosi: poiché fu allora che vennero confermati i Sacramenti e rivelatii grandi misteri » (Discorso LXXIII).

Vita. – San Leone nacque a Roma tra il 390 e il 400. Fu prima diacono sotto il Pontefice Celestino; divenne poi arcidiacono di Roma e, alla morte di Sisto III, fu eletto Papa. La sua consacrazione ebbe luogo il 29 settembre 440. Durante tutto il Pontificato, rivolse le sue cure all’istruzione del popolo, con i suoi sermoni così dogmatici e semplici, con zelo nel preservarlo dagli errori dei manichei e dei pelagiani, e facendo condannare, nel Concilio Ecumenico di Calcedonia, nel 451, Eutiche ed il Monofisismo. Nel 452, andò incontro ad Attila che minacciava Roma, e lo indusse a la sciare l’Italia. Nel 455 non poté però impedire a Genserico ed ai suoi Vandali di prendere e saccheggiare la capitale: nondimeno, accogliendo le sue preghiere, i barbari risparmiarono la vita degli abitanti, rispettando anche i principali monumenti della città. San Leone morì nel 461 e fu inumato a San Pietro in Vaticano. Nel 1751 Benedetto XIV lo proclamò dottore della Chiesa.

Preghiera a Cristo.

Gloria a te, o Cristo, Leone della tribù di Giuda, che hai suscitato nella tua Chiesa un altro Leone per difenderla nei giorni in cui la fede correva grandi rischi. Tu avevi incaricato Pietro di confermare i suoi fratelli; e noi vedemmo Leone, nel quale Pietro era vivente, compiere questa missione con autorità sovrana. Abbiamo inteso risuonare le acclamazioni del Concilio, che inchinandosi di fronte alla sua dottrina, proclamava il beneficio insigne che, in questi giorni, hai conferito al tuo gregge, quando donasti a Pietro la cura di pascere, tanto le pecore come gli agnelli.

Preghiera a san Leone.

O Leone, tu hai degnamente rappresentato Pietro sulla sua cattedra! La tua parola apostolica non cessò di discenderne sempre veritiera, eloquente e maestosa. La Chiesa del tuo tempo ti onorò come maestro di dottrina; e la Chiesa di tutti i secoli ti riconosce per uno dei dottori più sapienti che abbiano insegnato la divina Parola. Dall’alto del cielo, ove ora siedi, riversa su di noi la grazia dell’intelligenza del mistero che fosti incaricato di esporre. Sotto la tua penna ispirata, esso diventa evidente; la sua armonia si rivela; e la fede si rallegra di percepire, così distintamente, l’oggetto al quale aderisce. Fortifica in noi questa fede, o Leone! Anche nei nostri giorni si bestemmia il Verbo incarnato; rivendica la sua gloria, mandandoci nuovi dottori. Tu hai trionfato della barbarie, o nobile Pontefice! Attila depose le armi di fronte a te. Ai nostri giorni, altri barbari si sono levati: barbari civilizzati, che vantano, quale ideale della società, quella che non è più cristiana, quella che nelle sue leggi e nelle sue istituzioni non confessa più re dell’umanità Gesù Cristo, al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Vieni in nostro soccorso, poiché il male è arrivato al suo culmine. Molti sono i sedotti che vanno verso l’apostasia, senza rendersene conto. Ottieni che la luce da noi non si spenga totalmente, che lo scandalo finalmente si arresti. Attila non era che un pagano; gli utopisti moderni sono cristiani, o almeno, qualcuno vorrebbe esserlo [per non parlare dei modernisti – ndr.-]; abbi pietà di loro, e non permettere che restino più a lungo vittime delle loro illusioni. – In questi giorni di Pasqua, che ti ricordano l’opera del tuo ministero pastorale, quando, circondato dai neofiti, ne alimentavi la fede con discorsi immortali, prega per i fedeli che, in questa medesima solennità, sono risuscitati con Gesù Cristo. Essi hanno bisogno di conoscere sempre più il Salvatore delle anime, affinché possano seguirlo, per non più separarsene. Rivela loro tutto ciò che egli è, nella sua natura divina e nell’umana: come Dio, loro ultimo fine e giudice dopo questa vita; come uomo, loro fratello. Redentore e modello. O Leone! benedici, sostieni il tuo successore sulla cattedra di Pietro, e, in questi giorni, mostrati protettore della nostra Roma, di cui hai sostenuto, con tanta eloquenza, i santi eterni destini.

Preghiere per il Santo Padre [Gregorio XVIII]

-652-

Oremus prò Pontifice nostro (Gregorio).

R.. Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius  [Ps. XL] (ex Brev. Rom.).

Pater, Ave…

Indulgentia trium annorum [tre anni]. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, precibus quotidie per integrum mensem devote recitatis (S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Pæn. Ap., 12 oct. 1931).

-653-

Oratio

O Signore, noi siamo milioni di credenti, che ci prostriamo ai tuoi piedi e ti preghiamo che Tu salvi, protegga e conservi lungamente il Sommo Pontefice, padre della grande società delle anime e pure padre nostro. In questo giorno, come in tutti gli altri, anche per noi egli prega, offrendo a te con fervore santo l’Ostia d’amore e di pace. Ebbene, volgiti, o Signore, con occhio pietoso anche a noi, che quasi dimentichi di noi stessi preghiamo ora soprattutto per lui. Unisci le nostre orazioni con le sue e ricevile nel seno della tua infinita misericordia, come profumo soavissimo della carità viva ed efficace, onde i figliuoli sono nella Chiesa uniti al padre. Tutto ciò ch’egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con lui. – Se egli piange o si rallegra o spera o si offre vittima di carità per il suo popolo, noi vogliamo essere con lui; desideriamo anzi che la voce delle anime nostre si confonda con la sua. Deh! per pietà fa’ Tu, o Signore, che neppure uno solo di noi sia lontano dalla sua mente e dal suo cuore nell’ora in cui egli prega e offre a te il Sacrificio del tuo benedetto Figliuolo. E nel momento in cui il nostro veneratissimo Pontefice, tenendo tra le sue mani il Corpo stesso di Gesù Cristo, dirà al popolo sul Calice di benedizioni queste parole: « La pace del Signore sia sempre con voi», Tu fa’, o Signore, che la pace tua dolcissima discenda con una efficacia nuova e visibile nel cuore nostro ed in tutte le nazioni. Amen.

Indulgentia quingentorum dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 8 maii 1896; S. Pæn. Ap., 18 ian. 1934).

654

Oratio

Deus omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum (Gregorium)., quem pastorem Ecclesiæ tuæ praeesse voluisti, propitius respice; da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Mìssali Rom.):

Indulgentia trìum annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

655

Oratio

Omnipotens sempiterne Deus, miserere famulo tuo Pontifici nostro (Gregorio)., et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis aeternæ: ut, te donante, tibi placita cupiat et tota virtute perficiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (ex Rit. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pia mente recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 10 mart. 1935).

Tu sei Pietro e su questa roccia costruirò la mia Chiesa

(San Matteo XVI 18).

La Chiesa di Gesù Cristo, nella misura in cui è una società, un regno divinamente stabilito, deve avere un capo. Il suo Capo invisibile è Gesù Cristo stesso; il capo visibile è il nostro Santo Padre, il Papa.

Chi è il Papa? Il Papa è il successore di S. Pietro, il vicario di Gesù Cristo e il suo rappresentante sulla terra, il pilota della “barca” di San Pietro, il Capo visibile della Chiesa e padre comune di tutto i fedeli.

Diciamo che il Papa è il successore di San Pietro. Facendo dell’Apostolo San Pietro la roccia fondante, la pietra angolare della sua Chiesa, Gesù Cristo gli ha promesso successori fino alla fine dei tempi. Questa roccia inamovibile implica che Pietro sarà il capo perpetuo della Chiesa, che sarà sempre necessario sostenere e governare. Ma come potrà governare sempre la Chiesa, essendo mortale come il resto degli uomini? Come farà a governare ancora la dopo la sua morte? Mediante i suoi successori, chi saranno gli eredi del suo potere, dei suoi privilegi e anche del suo spirito apostolico. Pietro, come dicono i Padri, è sempre vivente, e vivrà sempre nella persona dei successori che Cristo gli ha promesso con queste parole: “Tu sei Pietro, e su questa roccia costruirò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. La promessa del Salvatore è stata soddisfatta: Pietro, dopo aver riparato la sua sede pontificia a Roma, ha avuto Come successori tutti i vescovi o i Pontefici Romani che hanno occupato la sua sede nel corso dei secoli fino ai nostri giorni. – La storia ci svela questa successione incomparabile. È una catena d’oro tenuta per mano di Gesù Cristo. Il suo primo collegamento è Pietro, e ne vediamo gloriosamente regnante oggi il duecentocinquantanovesimo nella persona dell’augusto Leone XIII. Dopo di lui la catena continuerà ad allungarsi fino al raggiungimento del collegamento finale: vale a dire fino all’ultimo Papa, che concluderà il suo regno con la fine dei secoli. – Questa serie ininterrotta di successori di San Pietro ci presenta uomini che differivano nel nome, nel tempo, nel carattere; ma tutti hanno occupato la medesima Sede ed hanno tenuto nelle loro mani le stesse chiavi che sono state consegnate da Gesù Cristo all’Apostolo San Pietro. In altre parole, insegnando essi la stessa dottrina, ne hanno posseduto lo stesso potere e gli stessi privilegi; tanto che se il Principe degli Apostoli dovesse tornare di persona ad esercitare l’autorità pontificia, i suoi poteri e privilegi non differirebbero da quelli dell’augusto Leone XIII., il vero detentore della sua immortale eredità [oggi il Santo Padre Gregorio XVIII –ndr.-].

I Papi possono morire; il Papato non muore mai. né subisce cambiamenti.

 Ringraziamo Dio, fratelli miei, per aver fondato la sua Chiesa sulla roccia indistruttibile del Papato, e abbiamo sempre la più grande riverenza ed amore per il nostro Santo Padre, il Papa, il successore di San Pietro.

Fonte: “SHORT SERMONS FOR THE  Low Masses of Sunday.
COMPRISING IN FOUR SERIES.  “A Methodical Exposition of Christian Doctrine”, BY THE Rev. F. X. SCHOUPPE, S. J. Imprimatur 1884

SANTA GEMMA GALGANI

Santa GEMMA GALGANI

Triduo in onore di Santa Gemma per ottenere un favore speciale

Giorno 1

O Vergine compassionevole, Santa Gemma, durante la tua breve vita sulla terra, hai dato un bellissimo esempio di innocenza angelica e di amore serafico e sei stata ritenuta degna di portare nella tua carne i segni della Passione di Nostro Signore, abbi pietà di noi che siamo così tanto bisognosi della misericordia di Dio e ottienici per i tuoi meriti e la tua intercessione, il favore speciale che imploriamo con fervore.
Pater, Ave, Gloria …

V. Prega per noi, Santa Gemma.

R. Affinché siamo resi degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio, che hai modellato la santa vergine Gemma, a somiglianza del tuo Figlio Crocifisso, concedici per sua intercessione, che come partecipi delle sofferenze di Cristo, possiamo meritare di diventare pure partecipi della Sua Gloria, Che con te vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, senza fine. Amen.

Giorno 2

O degna Sposa dell’Agnello di Dio, che si ciba tra i gigli, tu hai conservato l’innocenza e lo splendore della verginità, dando al mondo un luminoso esempio delle più esaltate virtù, abbi pietà dal tuo alto luogo nel cielo di noi chi confidiamo in te, ed implora per noi il favore che desideriamo tanto ardentemente.

Pater, Ave, Gloria …

V. Prega per noi, Santa Gemma.

R. Affinché Che possiamo essere resi degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio, che hai modellato … (come sopra)

3 ° giorno

O amabile vergine, Santa Gemma, degna di ogni ammirazione, che durante la tua vita in questo mondo sei diventata agli occhi di Dio un gioiello prezioso, risplendente di ogni virtù, abbassati pietosamente su di noi chi ti invochiamo nella confidente speranza di ricevere questo favore attraverso la tua amorevole intercessione.
Pater, Ave, Gloria …

V. Prega per noi, Santa Gemma.

R. Affinché siamo resi degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio, che hai modellato … (come sopra)

Canonizzazione di S. Gemma  dal S. P.  PIO XII

Triduo in onore di Santa Gemma: per i malati e gli infermi

Giorno 1

O vergine-vittima, Santa Gemma, la tua vita fu consumata nella dolce fiamma dell’amore per Dio e per il tuo prossimo, hai sofferto nel tuo fragile corpo e nel tuo cuore sensibile, pene e amari dolori. Abbi pietà di tutti coloro che si trovano nella croce della sofferenza corporale, di tutti quelli che si soffrono per i loro cari, nella malattia. Ottieni la grazia della guarigione per i nostri malati e trasforma il nostro dolore in gratitudine gioiosa verso te in cui riponiamo la nostra fiducia.
Pater, Ave, Gloria …

Giorno 2

O Santa Gemma tenera e generosa, il tuo cuore fu così profondamente commosso dalle miserie di questa vita mortale che il povero, l’ammalato ed il peccatore trovarono in te simpatia e generosità e confidarono nell’efficacia delle tue preghiere. Eleviamo gli occhi fiduciosi anche in mezzo alle prove, alle malattie, alle tentazioni della vita. Pregate per noi davanti al trono di Dio per tutti i nostri bisogni spirituali e temporali, specialmente per il ritorno alla salute di coloro che ci sono vicini e cari.
Pater, Ave, Gloria …

3 ° giorno

O eroica amante di Gesù Crocifisso, la tua vita è stata una prolungata penitenza, una preghiera perpetua e ardente, trascorsa ai piedi della Croce con la nostra Madre Addolorata. Ora in cielo, godendo del frutto della tua santa vita, ottieni misericordia e consolazione per l’umanità peccatrice e sofferente. Offri le tue penitenze e preghiere a Gesù e Maria affinché mandi conforto nel dolore, speranza nella disperazione, salute agli ammalati. Ricorda i nostri cari sui letti del dolore; intercedi per loro perché, riguadagnando la salute, possano servire il nostro amorevole Salvatore con rinnovato fervore e fedeltà.
Pater, Ave, Gloria …

Preghiera in ringraziamento per il favore ricevuto

O umile vergine, Santa Gemma, a quale potenza Dio ti ha esaltato! Tu sei invocata da coloro che soffrono dolori e pene in questa valle di lacrime. Miracoli e grazie si ottengono ogni giorno implorando il tuo nome, come abbiamo sperimentato. Sia benedetto il nostro Dio misericordioso per averti concesso un tale potere in nostro favore! Grati per la tua amorevole benignità, ci decidiamo ad imitare le tue virtù affinché, un giorno, ci uniamo a te in Paradiso e nell’inno eterno di ringraziamento.
Pater, Ave, Gloria …

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (I)

Catechismo dogmatico

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova; Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

Avendo avuto benigna accoglienza questa mio piccolo lavoro non solo tra noi dove già da molti anni ne fu esaurita la prima edizione, ma anche in Napoli ed in Firenze dove fu ristampato, credo bene riprodurlo con alcune correzioni ed aggiunte; altre necessarie quale é quella che riguarda il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria Ss. ed altre più utili ai tempi. Io pubblicavo questo compendio specialmente in servizio dei chierici che istruiscono i fanciulli nella dottrina cristiana senza avere ancora percorso tutti i trattati della Teologia Dogmatica; aveva tuttavia anche in mira il vantaggio delle persone secolari cui mancano alle volte certe cognizioni perché non si trovano così facilmente nei libri che hanno alle mani; per es. quelle riguardanti la S. Bibbia, le tradizioni, la Chiesa, i Concili, il Papa, la Grazia, la Giustificazione ecc., cognizioni singolarmente importanti oggigiorno per gli errori che si vanno spargendo nel popolo con tanta temerità. Ed è appunto per questo che anche più volenteroso ne intraprendo la ristampa, sperando che possa riuscire sempre più opportuna. – Si dirà che avevamo già all’uopo molti compendi della Dottrina cristiana, certo più pregevoli che questo mio, di che non si può dubitare; ciò non ostante non saprei se essi uniscano le due qualità che mi parevano specialmente al mio scopo desiderabili: cioè somma brevità, e universalità di tutte le materie teologiche dogmatiche più necessarie e più utili. Io d’altra parte era fin dal principio, e lo sono tuttavia, molto lontano dal credere in qualche modo necessario il mio esiguo lavoro; mi basterebbe che fosse qualche poco vantaggioso. – Non tocco quelle controversie le quali richiedono nel lettore fondo d’istruzione o lunghi trattati; ma le sole verità dogmatiche, e quelle che quantunque non siano definite di fede, sono però maggiormente conformi al comune insegnamento dei teologi. – Mi protesto di sottomettere ogni mia proposizione e parola al giudizio della S. Romana Chiesa di cui mi glorio di essere ubbidientissimo figlio, e i di cui interessi nella mia tenuità vorrei promuovere finché io viva.

PROLOGO:

DELLA RELIGIONE

 I

Necessità della Religione.

È necessario che gli uomini abbiano una Religione?

Presupposta la certezza dell’ esistenza di Dio, della quale non può dubitare nessun uomo che ragioni, è necessario che gli uomini abbiano una Religione, che cioè prestino il loro culto all’Essere Supremo, per cui hanno l’esistenza e tutti i beni, che è Dio.

Perché si dice che dell’esistenza di Dio non può dubitare uomo che ragioni, mentre dubitarono, anzi negarono l’esistenza di Dio vari filosofi che oltre all’essere molto dotti avevano finissimo criterio, e profondamente ragionavano?

Nessuno dei veri filosofi, cioè dei buoni ragionatori, anche pagani, ha mai dubitato dell’esistenza di Dio. Solo alcuni i quali non ostante la finezza del loro ingegno si abbandonarono ad ogni infamia e delitto, temendo il castigo di Dio, e non volendo migliorare la loro vita, cercarono di persuadersi che Dio non vi fosse, onde arrivare, se fosse stato possibile, ad essere empii senza timore e rimorso; e perciò bestemmiarono che Dio non v’è: ma nemmeno essi n’erano persuasi. Infatti dopo di avere bestemmiato in vita che Dio non vi era, o pentiti, o disperati confessavano in morte che vi era Dio. Come un malato cui molto rincresce il morire cerca di persuadersi che risanerà dalla sua malattia, quantunque abbia ragioni evidenti che lo convincano in contrario; così questi filosofi scellerati, cui l’esistenza di un Dio rincresceva sommamente, cercavano di persuadersi che Dio non vi fosse, quantunque della sua esistenza avessero ragioni evidentissime.

Per qual ragione presupposta l’esistenza di Dio è necessario che gli uomini prestino il loro culto a questo Essere Supremo?

Per quella ragione che un figlio deve amare il suo padre, un suddito deve stare soggetto al suo re, il beneficato deve essere grato al benefattore ecc. Questo Essere Supremo è nostro Padre, nostro Re, e nostro Benefattore Sovrano.

II

Necessità della Religione rivelata.

È sufficiente una religione naturale, cioè un culto dato a Dio secondo i dettami della sola umana ragione, o pure si richiede un culto determinato positivamente da Dio manifestatoci per mezzo di una rivelazione soprannaturale?

L’umana ragione da sé sola non basta a farci conoscere tutte le verità che ci sono necessarie alla giusta cognizione di Dio; per sé sola, non può determinare con quali sacrifici, e con quali riti debba l’uomo riconoscere il suo supremo dominio, e debba onorarlo inoltre da per sé sola non è valevole a determinare tutte le leggi della retta morale. Omettendo tutti gli altri argomenti che si potrebbero addurre, basta osservare, che questa proposizione non è che un fatto innegabile. Nessuno dei filosofi che parlarono di Dio e dei suoi attributi, col solo lume della ragione naturale arrivò a dare una giusta idea di questo Essere Supremo; e mentre tutti convennero che si dovesse onorare ed adorare, non seppero mai convenire nella qualità dei sacrifici, e dei riti che si dovessero adoprare (Vien qui in proposito ciò che dei filosofi Deisti scriveva lo stesso Rousseau (Emil., t. 3, p. 21): « Se consideri le loro ragioni non ne troverai quasi nessuna che non sia in distruzione…. in null’altro sono d’accordo che nel contraddirsi vicendevolmente.). Le leggi della morale quando furono lasciate in mano dei soli filosofi, piegarono sempre o per un verso o per l’altro all’ingiustizia, e alla turpitudine. I filosofi greci pagani riconobbero la necessità di una rivelazione, e stavano aspettandola e desiderandola (Ecco i sentimenti di Platone nell’Alcib., dial. 2: Socrate: — La cosa più sicura è che noi aspettiamo pazientemente, e certo bisogna aspettare, finché venga chi ci ammaestri circa i nostri doveri verso Dio, e verso gli uomini. D — Alcib. — Quando sarà quell’ora, e chi ci ammaestrerà in queste cose? fortemente desidero di veder questo maestro! — Socrate: — Quegli, di cui parliamo ha cura delle cose tue; ma deve fare, secondo io la penso, come narra Omero aver fatto Minerva con Diomede. Minerva dissipò le nebbie che offuscavano gli occhi di Diomede, ed egli vide gli oggetti che gli stavano avanti. Così è necessario che una densa caligine sia tolta dagli occhi del tuo intelletto, affinché meglio tu discerna il ben dal male, il che per ora non puoi. — Alcib. — Oh venisse! Oh dissipasse queste tenebre! Io per quanto è in me, purché migliore addivenga di quel che sono, sarei dispostissimo ad ogni cosa ch’ei comandasse. — Socrate: — Così deve farsi finché nella nostra ignoranza non conosciamo quali sacrifici piacciano a Dio, e quali lo disgustino. — Alcib. — Quando quel dì sarà venuto, con buon successo placheranno Dio i nostri sacrifici, e confido nella sua bontà che questo di non sia per essere molto lontano. – Ecco come anche i filosofi gentili desiderassero una Religione rivelata, e come ne riconoscessero la necessità).

Perfezionandosi l’umana ragione pare che potrà essa arrivare a quel punto cui finora non è pervenuta, di conoscere bene gli attributi di Dio, i modi di onorarla a Lui accetti, e tutte le regole della retta morale; e or pare che stante il gran progresso dei lumi siam già presso alla meta, sicché da qui avanti non sarà necessaria una rivelazione soprannaturale?

Da tanti secoli nei quali stanno i filosofi studiando come perfezionare le facoltà dello spirito umano, se la nostra ragione fosse capace di una perfezione assoluta, sarebbe ormai perfettissima, e conosceremmo le cose tutte, a così dire, meglio degli Angeli; ma invece la repubblica dei filosofi (parlando di quegli che sdegnano i lumi della rivelazione) si trova sempre in maggior confusione, e in maggiori tenebre; cosicché senza dubbio venti secoli innanzi, Platone, Aristotile ed altri pagani dettavano una filosofia molto più ragionevole, retta e costumata, che i nostri filosofi irreligiosi. L’uomo ha un fondo d’ignoranza e malizia in natura che non si potrà scandagliare giammai e, se vuole perfezionare veramente le facoltà del suo spirito, bisogna che al lume della ragione unisca i lumi della rivelazione. Del progresso poi dei lumi del nostro secolo non spetta a noi giudicare, ne giudicheranno i secoli futuri senza passione, e senza amor proprio. Si deve credere che non vorranno negargli lode di buon progresso nelle scienze industriali; se uguale vorranno dargliela nelle scienze metafisiche e morali si può  finor dubitare. Noi frattanto sfidiamo i nostri filosofi irreligiosi a mettersi tra loro d’accordo, mentre finché non fanno che intronarci le orecchie con un confuso battagliar di sistemi tutti fra loro irreconciliabili, non possiamo nemmeno intendere quel che ci dicano. – Si mettano d’accordo, e potremo cominciare a supporre che vogliano perfezionare l’umana ragione. Finché sempre più si sprofonda il vorticoso caos delle loro opinioni, che possiam credere o dire? Perciò la ridicola speranza del pieno perfezionamento dell’umana ragione, non può esentarci dal riconoscere la necessità di una Religione rivelata, la quale ci ammaestri nella cognizione di Dio, nei modi di adorarlo, e nelle regole dei retti costumi.

III

Caratteri della Religione rivelata.

Varie sono le religioni al mondo le quali si dicono rivelate da Dio; ma essendo queste tra loro contrarie non possono essere rivelate tutte, una sola sarà quella che Dio avrà rivelato; frattanto come noi la discerneremo. dalle altre?

Certamente Dio che è verità, non può rivelare, come vere, cose tra loro contrarie, ciascuna delle quali suppone la falsità delle altre; perciò fra tutte le religioni che si dicono rivelate, una sola deve essere figlia della vera rivelazione. Per discernere questa da tutte le altre non fa bisogno di astruse ricerche e prolisse dimostrazioni. Come si distingue un diamante prezioso tra i frantumi del fragile vetro, così si distingue la vera Religione rivelata da quelle che sono false. Le Religioni che si dicono rivelate sono il Paganesimo, il Maomettismo, il Giudaismo, e il Cristianesimo.

1° – Il Paganesimo che è un grande aggregato, o per meglio dire, un gran caos d’innumerevoli culti, ripugna alla ragione, mentre si può dire che di ogni cosa fa un Dio. E anzi, secondo i suoi dettami, ciò che in un luogo è Dio cui si devono immolare le vittime, è vittima in un altro che si deve immolare ad un Dio. In Egitto si sacrificava al Bue, in Grecia il Bue era sacrificato. E, come riporta un antico, gli stessi sacerdoti di un luogo disputavano tra loro quale tra due animali fosse la vittima da sacrificarsi, e quale il Dio a cui si dovesse fare il sacrificio. Questa religione ha tutti i caratteri della follìa, e niuno della divinità.

2° –  Il Maomettismo parimente nulla ha di Divino. Non profezie avverate, non miracoli operati; nato nell’ignoranza, nell’ignoranza nutrito, fu stabilito e propagato con la sola forza delle armi. La barbarie è il suo sostegno, il mal costume è il suo pascolo, e tutt’insieme la sua speranza per la vita avvenire; non vi fu Saggio giammai che non lo abbia abborrito e deriso.

3° – Diversamente bisogna parlare del Giudaismo. Esso ha profezie avverate, miracoli operati; i suoi libri sono santi, e portano impresso il carattere della Divinità; perciò la Religione Giudaica fu Religione rivelata da Dio. Ma non doveva essere questa religione perpetua, doveva dar luogo a quella di cui non era che la figura. I suoi libri lo dicono chiaro che si sarebbe formato un nuovo popolo, che questo avrebbe avuto una nuova legge e un nuovo sacrificio; perciò la religione Giudaica fu già quel culto col quale voleva Iddio essere onorato dagli uomini; adesso non più. E mirabilmente apparisce l’abbandono in cui Dio la lasciò: senza tempio, senza sacerdozio e senza sacrifici, per giunta senza terra, sicché gli Ebrei sparsi per tutto il mondo, dappertutto sono stranieri. Pertanto la religione Giudaica dice da sé, che essa non è più quella che piaccia a Dio, che in suo luogo è sottentrato il Cristianesimo. Questa adesso è l’unica Religione che abbia i caratteri della Divinità, e unicamente gli avrà fino alla fine del mondo.Tutte le profezie dei libri santi confermano la sua veracità. Infiniti miracoli attestano ch’essa è opera di Dio. La religione Cristiana è quella che dà agli uomini la più grande e perfetta idea dell’Essere Supremo che possa aversi, insegna il modo il più sublime in cui si deve adorare, e prescrive regole di costumi tutte appoggiate sulla giustizia e sulla santità; sicché il più rozzo Cristiano purché sia istruito nei primi rudimenti della sua fede, è più dotto in divinità, in culto e in moralità di qualunque filosofo non cristiano. Basta conoscere la Religione Cristiana per sentirsi come sforzati a proclamarla la vera, quella che gode di tutti i caratteri della Divina Rivelazione.

Come può avvenire che mentre Essa ha tutti i caratteri della Rivelazione, sia frattanto la più combattuta?

Bisogna osservare da chi venga la guerra, perché dal genere del nemico si conosce la qualità della cosa combattuta. La Religione Cristiana fu sempre combattuta più di tutte le altre religioni che sono al mondo; ma fu sempre combattuta dagli empii e dagli scostumati. I persecutori della Religione Cristiana, come ci mostra la storia, furono sempre i più famosi nei vizi, e i più fieri tra questi furono sempre mostri di delitto e d’infamia. Qual meraviglia, che i cattivi odiino il bene, e tanto più lo odiino quanto è più grande? Frattanto questo continuo combattimento, mentre forma il suo onore, ci fa conoscere un altro carattere della sua Divinità. Fu sempre la più combattuta, e sempre la più grande e inalterabile; dopo venti secoli di combattimenti, è sempre la stessa, piena di forza e vigore, e si stende trionfalmente per tutta la terra, mutando i suoi oppositori in suoi figli allorquando la conoscono. Il fatto ci assicura della sua indefettibilità oltre la promessa che n’ebbe da Dio.

Nella Religione Cristiana però vi sono tante sètte tra loro nemiche: quale sarà la vera?

Nessuna delle sètte; queste sono tutte false. È vera quella che non è setta, quella ch’è fondata dagli Apostoli, che ha la loro fede, e le loro costumanze; quella che tutte le sètte combattono, come tutti gli errori combattono la verità. Quella che per tutto il mondo si estende, abbraccia tutti i tempi, e perciò si appella, ed è veramente la Religione Cattolica. Tutte le sètte hanno per capi uomini disertori dalla Religione di Cristo e degli Apostoli: perciò non si possono chiamare cristiane se non in quanto riconoscono Cristo, e pretendono onorarlo al loro modo. Non si possono poi chiamar cristiane in quanto facciano parte di quella Religione che veramente Cristo formò. Il fatto dimostra che sono separate da questa, perché combattono contro di lei. Di questo parleremo al Cap. I, § 3  (1).

(1) Considerando tali cose qui brevissimamente accennate si vede chiara e manifesta l’irrazionalità dell’indifferenza in materia di Religione. Se Dio si deve onorare con un culto, se Egli ha rivelato quale sia quello che da noi vuole, se nel manifestarcelo ci avverte che ogni altro culto d’innanzi a Lui è abbominazione (essendo questa una delle fondamentali verità della Religione Cattolica) com’è possibile che noi vogliamo credere essere Iddio indifferente per qualunque sorta di culto che si trovi in questa terra? E poi sarà cosa ragionevole il supporre che Dio si stimi onorato ugualmente dal casto e puro culto cristiano, come dall’impuro ed infame del paganesimo? Gli sarà grata la strage delle ventimila vittime umane che annualmente si sacrificavano nel Messico idolatra quando si squarciava il petto a quelle infelici per strapparne il cuore ancor vivo e palpitante, parimente che l’innocente e pio sacrificio dei nostri altari? Potevano piacergli le strida e gli urli della più orribile disperazione che intronavano quelle sale di spavento e di morte, come gli inni pacifici pieni di riconoscenza e di amore, che rallegrano i nostri templi? Mi parrebbe meno mali il supporre che Dio non esista, che il supporre l’esistenza di un Dio così stupido ed insensato quale sarebbe quello che si reputasse onorato ugualmente da tutte le sorta di culto che furono e sono al mondo.

 

DIFESA DELLA FEDE

DIFESA DELLA FEDE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Paoline ed. – 1957, impr.]

… abile a trasformarsi in angelo di luce (II Cor. 11, 14), l’eterno nemico rivestì il suo apostolo [Nestorio] d’una duplice bugiarda aureola di santità e di scienza; l’uomo che più d’ogni altro doveva manifestare l’odio del serpente contro la donna ed il suo seme, si assise sulla cattedra episcopale di Costantinopoli col plauso di tutto l’Oriente, che si riprometteva di veder rivivere in lui l’eloquenza e le virtù d’un nuovo Crisostomo. Ma l’esultanza dei buoni fu di breve durata perché nello stesso anno dell’esaltazione dell’ipocrita pastore, il giorno di Natale del 428, Nestorio, approfittando dell’immenso concorso di fedeli venuti a festeggiare il parto della Vergine-Madre, dall’alto del soglio episcopale lanciò quella blasfema parola: «Maria non ha generato Dio: il Figlio suo non è che un uomo, strumento della divinità ». – A queste parole la moltitudine fremette inorridita; interprete della generale indignazione. Eusebio di Doriles, un semplice laico, si levò in mezzo alla folla a protestare contro l’empietà. In seguito, a nome dei membri di questa desolata Chiesa fu redatta una più esplicita protesta, diffusa in numerosi esemplari, anatemizzando chiunque avesse osato dire: « Altro è il Figlio unico del Padre, altro quello nato dalla Vergine Maria ». Generoso atteggiamento che fu allora la salvaguardia di Bisanzio e gli valse l’elogio dei Concili e dei Papi!

Quando il pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersi.

Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai Vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede, i capi. Ma nel tesoro della rivelazione vi sono dei punti essenziali, dei quali ogni cristiano, perciò stesso ch’è cristiano, deve avere la necessaria CONOSCENZA e la dovuta CUSTODIA. Il principio non muta, sia che si tratti di verità da credere che di norme morali da seguire, sia di morale che di dogma. I tradimenti simili a quelli di Nestorio non sono frequenti nella Chiesa; tuttavia può darsi che alcuni pastori tacciano, per un motivo o per l’altro, in talune circostanze in cui la stessa religione verrebbe ad essere coinvolta.

In tali congiunture, i VERI FEDELI sono quelli che attingono solo nel loro Battesimo l’ispirazione della loro linea di condotta; non i pusillanimi …

… che, sotto lo specioso pretesto della sottomissione ai poteri costituiti, attendono, per aderire al nemico o per opporsi alle sue imprese un programma che non è affatto necessario e che non si deve dare loro …

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE [2018]

L’ ANNUNCIATA

[G. Dalla Vecchia: “Albe primaverili”; G. Galla ed. Vicenza, 1911]

(PANEGIRICO)

“Et virtus Altissimi obumbrabit tibi. „

E la virtù (potenza) dell’Altissimo ti adombrerà.

(Luc. I, 35)

ESORDIO. — Rutilante celesti fulgori, l’arcangelo Gabriele scende dalle celesti sfere; drizza il volo alla piccola Nazaret; penetra nella stanza solitaria della vergine Sposa di S. Giuseppe … ; e il nome della vergine avventurata, Maria … — La saluta riverente, la conforta turbata agli angelici accenti, le propone la sublime dignità di Madre di Dio.

— Sono vergine, proclama la pia, e come avverrà questo? E l’Angelo: Lo Spirito Santo scenderà su te; e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà di nube divina, come un dì la vetta del Sinai. — Tutto santo sarà il tuo figlio, vero Figliuolo di Dio… Et virtus Altissimi obumbrabit tibi… — E l’umile verginella: Ecco l’ancella del Signore, si faccia in me secondo il tuo accento. — Et Verbum caro factum est. Maria è Madre di Dio! — Chi può scandagliare questo abisso di dignità, di grandezza, a cui viene, innalzata Maria? — Ella stessa non poteva spiegare così arcano Mistero. Nec ipsa explicare potest quod capere potuit (S. Agost.).

— Vediamo dunque: 1. come si preparò Maria a tanta grandezza … 2. la sublime elevazione di Maria, perché Madre di Dio.

PARTE PRIMA

I . – Come si preparò Maria alla divina Maternità. —

Dal momento, che neh’ amoroso decreto dell’Incarnazione era prefisso, che il Verbo incarnato avesse una madre, Ella certo doveva possedere una eccezionale ricchezza di doni ricevuti, di meriti acquistati … E così avvenne appunto in Maria. Meritorum verticem usque ad solium divinitatis erexit (S. Agost.).

(a) Concepita senza ombra di peccato originale, si conserva libera da ogni colpa attuale … Fino dal primo istante gode il libero uso della ragione; e tosto si dona, e consacra al Signore; lo contempla, lo ama …

— I suoi meriti già, si elevano sopra le vette più sublimi dai monti di Sion; è già superiore agli Angeli ed ai santi. Quolibet tempore meruit. (B. Alb. Magno).

— Scrive S. Pietro Damiani: La prima grazia, che il Signore conferì a Maria, sormontò la grazia ultima del più eccelso Serafino; viene superata solo da quel Dio che l’ha creata. Solumque Opificem opus istud supergredi.

— Maria, poi, moltiplica ininterrottamente gli atti di amore, di unione, di conformità; quindi moltiplica del continuo i meriti ed anche l’effusione di nuove grazie su lei … Per singulos actus huiusmodi ita crescebat Ma gratia, ut fleret duplo maior, quam in principio erat (Suarez.)

— Meritava di giorno e di notte; ego dormio, sed cor meum vigilat; (Cantico) mentre l’anima sua liberamente tendeva senza interruzione al suo Dio. (S. Bernardino da Siena).

(b) Il profeta Isaia vaticinava: Ecce virgo concipiet et pariet filium (VII, 14); ecco che una Vergine concepirà e partorirà un figliuolo. — Dunque vergine, nel più stretto senso della parola, doveva essere la Madre del Salvatore del mondo. — E Maria?

— A soli tre anni si presenta al tempio del Signore, dove passerà la fanciullezza accanto all’Arca santa. La santa Bambina pronta risponde alle intime voci dello Sposo divino e, perfettamente conscia del suo sacrificio, consacra al Signore la sua anima, il suo corpo, col voto di verginità (S. Anselmo). Così questa vezzosa bambina innalza, la prima, il prezioso stendardo della sacra verginità (S. Ambrogio); e coi vincoli più ardenti, più intimi e santi, si stringe a Dio, purità per essenza.

(e) E la sua vita nel tempio, in mezzo alle nobili fanciulle, che venivano educate in quel luogo santo? — Mente umana non può certo scoprirne gl’ignoti orizzonti. Secondo S. Anselmo, la purità di Maria (e colla purità procede parallela la santità) deve dedursi, in qualche modo, dalla stessa purità e santità di Dio, dall’amore reciproco delle persone della SS. Trinità, dalla divina potenza che vuole rendere Maria degna di diventare Madre del Figlio di Dio. Chi può narrare il fervore della sua prece, la pronta sommessione della sua obbedienza, la profondità della sua adorazione, l’attività assidua del suo lavoro, la soavità del suo silenzio, la dolcezza della sua parola, l’attrattiva del suo esempio, le fiamme del suo amore, la generosità dei suoi sacrifici? — Nulla in lei di leggero, o puerile. — Assidua allo studio dei sacri Libri, si cibava della parola di Dio, vero pane angelico, ed a stento prendeva il cibo necessario alla vita. Contemplava ogni dì il gaudio degli Angeli, e sprezzava le vane cose del mondo. Vergine colomba, fissava l’innamorata pupilla nello Sposo divino, e con inni di grazie, con tutta 1’effusione dell’anima, supplicava l’eterno Creatore della terra e dei cieli (S. Tarasio). – Era in lei tale sublimità di virtù e di meriti, da essere pronta ad accogliere nel suo seno il Figlio di Dio. Talis eligitur Virgo, quæ tantum haberet meritum, ut Dei Filium in se susciperet (S. Agost.).

— L’Angelo stesso, a nome di Dio, proclama la santità di Maria; ave, gratia piena; ave, la piena di grazia; così conveniva alla dignità di Madre di Dio. In Matre Dei fuit gratia tali dignitati proportionata (S. Tom.).

— E poi quel: Come avverrà questo, se sono vergine; quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco ? Questi accenti non sono forse 1’ultimo rito, con cui Maria consacra tutta se stessa, quale tempio vivente, a quel Dio, che doveva fra poco prendervi possesso; proprio come si dedicano le nostre chiese prima che vi entri Gesù sacramentato? Deo dicata et consacrata caro! (S. Greg. Nisseno).

— Oh ! sì, Vergine immacolata e santa, acconsenti all’angelica parola; accetta di essere la Madre del promesso Salvatore e nostra Madre ancora, Madre di amore. Acconsenti! lo attende la terra … , il cielo…, Dio… Momento unico al mondo! L’umile Verginella china la fronte, giunge le mani, pronuncia: Ecco 1’ancella del Signore, fiat mihi secundum verbum tuum… Maria è già Madre di Dio.

Maria Madre di Dio. — Accettando la divina maternità, scrive S. Tomaso, Maria meritò più di tutti gli Angeli ed i santi, in tutti i loro atti, affetti, e pensieri . ..

(a) Maria infatti è perfettamente libera; non le viene imposto di accettare un ministero così sublime; che 1’Angelo glielo propone, le chiede, se acconsenta di prendere una parte così intima all’Incarnazione, e quindi alla Redenzione… Maria crede, accetta… Ecce ancilla…, fiat mihi.

— Non basta. Maria con umiltà, ma fermezza, dichiara all’Angelo, che vuole salva la propria verginità; e l’Angelo l’assicura: Spiritus Sanctus superveniet in te, anzi le aggiunge, che diverrà Madre per 1’opera onnipotente dell’Altissimo, al quale niente è impossibile. Quia non erit impossibile apud Deum omne verbum (‘Luca I, 37).

— Vi è di più. — Per dare liberamente e consciamente il consenso, Maria doveva conoscere e la grave responsabilità che si assumeva e, almeno nelle linee generali, le pene, le angosce, il martirio riservato alla Madre del Redentore del mondo. — E dinfatti ( Faber) dietro i raggi fulgenti della futura grandezza, a cui era prescelta, Maria vede designarsi l’ombra sanguinante del Golgota, che pareva giungere fino a Lei … Eppure: Fiat mihi! Quanto sei grande, o Maria! — Al Fiat dell’ Onnipotente, il mondo usciva dal nulla; al Fiat umile e generoso di Maria, il Verbo si fa carne nel suo seno verginale. – Colui, che non possono contenere la terra ed i cieli, si asconde in questa vergine sposa, ed ora, per privilegio unico al mondo, Madre e Vergine… Dio è figlio della sua creatura!…

(b) Lo Spirito Santo col vergine sangue di Maria forma un corpo bellissimo, vi crea un’anima perfettissima; a questo corpo ed a quest’anima si aggiunge la Persona del Verbo… Eccovi Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, vero Figlio di Dio, e vero figlio di Maria. – Dunque Maria è il tempio vivente, dove il Pontefice divino offre il grande sacrificio delle sue umiliazioni, sacrificio, che si compirà più tardi con la morte di croce.

— Maria è il talamo nuziale, dove il Verbo celebra le sue mistiche nozze coll’umana natura, che egli associa e disposa alla sua natura divina, in una sola persona … . Dum esset rex in accubitu suo, nardus mea dedit odorem suavitatis (Cantic.). Ed intanto i gigli della purezza, della verginità, delle virtù, dei meriti di Maria profumano olezzanti questo arcano Banchetto di amore; nardus mea dedit odorem suavitatis.

— Maria è Madre di Dio! dunque la Regina degli Angeli i quali, nel dì della prova, avendo adorato riverenti il Mistero dell’incarnazione del Verbo, implicitamente ne hanno ancora venerata la Madre, loro futura regina.

— Madre di Dio! Dunque Maria entra nelle più intime relazioni colla SS. Trinità. — È la mistica sposa dello Spirito Santo, che in lei operò tale stupendo prodigio, quod soli datum est nosci, cui soli datura est experiri (S. Bernardo). — E’ la Madre del Figlio di Dio, che si lascerà portare dalle sue braccia, nutrire del suo latte, e la chiamerà col nome ineffabile di! Madre. —. E con l’eterno Padre? — O abisso di grandezza, di elevazione! Maria, sulla terra, per effetto di grazia genera quel medesimo Figlio, che il Padre genera in cielo per perfezione di natura. — Il Padre lo genera con un atto del suo intelletto, Maria col fìat, cioè con un atto della sua volontà. Il Padre senza concorso di madre, Maria senza concorso di padre. — L’eterno Genitore trova le sue compiacenze nel suo Figlio unigenito; e Maria? — Chi può dirmi l’ebbrezza di gaudio nel dire a Gesù: Tu sei mio figlio; nel tempo io ti ho dato là vita? —. Ah! che i riverberi (Ugo di S. Vittore) della divinità fatti balenare sullo spirito di Maria, i lumi, le tenerezze, i doni dal divin Verbo a lei comunicati, poteva bene goderli, ma neppure Ella poté spiegarli.Più ancora. Maria ha non solo le grandezze ed i gaudi, ma ancora tutti i diritti di Madre. — Gesù, che ha dato e conserva la vita a Maria, Gesù il re dei secoli, che tutto ha creato e per cui furono fatte tutte le cose; Gesù, a cui obbediscono tremebondi gli alati serafini, sì Gesù, obbedisce alla sua creatura, alla Vergine sposa di Giuseppe; obbedisce a Maria, povera, ignorata, dimenticata; et erat subditus illis (Luca). Obbedisce a Maria, perché Maria è sua Madre. Maria Madre di Dio! È una dignità, che tocca l’infinito; così il beato Alberto Magno. — Dio può fare dei mondi più belli, ma non può fare una Madre più bella e grande di Maria; così S. Bonaventura.

— Maria stessa nell’estasi dell’amore, che ammira ed esulta, esclama rapita: Cose meravigliose ha operato in me 1’Onnipotente. Fecit mihi magna qui potens est. Maria Madre di Dio è un prodigio unico dell’amore onnipotente di Dio. Et virtus Altissimi obumbrabit tibi.

PARTE SECONDA

III. La divina maternità della Vergine è il fondamento inconcusso della nostra confidenza in Maria. —

Il Padre, come l’ha associata alla sua paternità di natura riguardo al Verbo incarnato, così 1’ha associata alla sua paternità di adozione verso di noi suoi figli adottivi.

— Quindi ne viene, che Maria è potente…, ed ancora che Maria ci ama, ed ha pietà di noi.

(a) È la figlia primogenita dell’Altissimo, e non può certo avere un rifiuto dal Padre, che la vide così generosa ed intrepida nel sacrificare tutta se stessa per entrare nelle sue amorose e divine intenzioni. — Gesù Cristo nulla negava sulla terra alla Madre sua; per lei, alle nozze di Cana, anticipava 1’ora dei miracoli; la coronava regina degli angeli e dei santi, del cielo e della terra; oh! Gesù Cristo nulla può negare ai desideri, alle suppliche della sua Genitrice. – In cielo Maria è l’arbitra, la regina, la tesoriera del Cuore di Gesù, che sulla croce affidava all’amore della Madre sua la causa della Chiesa, di tutti i credenti. Quindi (il Damiani) la preghiera di Maria, i n cielo, non è una supplica, ma un comando; e, se Dio è onnipotente per natura, Maria è onnipotente per grazia. Omnapotentia supplex. Infatti la potenza di Maria deve corrispondere ai privilegi ricevuti, alla santità da lei acquistata, al ministero sublimissimo esercitato lungo la vita, alla sua cooperazione nell’Incarnazione e nella Redenzione. — Ora, tutto questo, solo Iddio lo può comprendere nella sua totalità; e così pure Dio solo conosce i limiti della potenza di Maria.

(b) Madre di Gesù: ma lo divenne solo per noi, che siamo i fratelli minori di Gesù, nostro fratello primogenito: quindi siamo suoi figli adottivi, figli di amore. — Come, per farla Madre del suo Figlio divino, il Padre la ricoprì della sua ombra onnipotente, così per far la nostra madre di adozione le trasfuse nel cuore le tenerezze della sua misericordia e bontà. — Ella, dice S. Agostino, è veramente nostra madre secondo lo spirito, perché colla sua carità ha cooperato alla nascita dei fedeli nella Chiesa. – Di più, Maria è entrata nelle intenzioni, nei desideri, negli affetti del Cuore amoroso di Gesù, che per noi patì e morì sulla croce; e, dopo Gesù, non vi è chi ci ami, quanto la Vergine Madre di Dio. Per noi accettò di diventare Madre del nostro Redentore; per noi l’offerse sull’altare del tempio; per noi lo nutrì, lo vegliò, lo riservò ai flagelli, alla croce, alla morte; per noi volle essere presente agli estremi aneliti del suo Diletto crocefisso; per noi, se fossero mancati i carnefici, lo avrebbe confitto sul legno ferale. — E per questo suo amore meritò, che 1’agonizzante Signore la proclamasse ufficialmente Madre nostra; Donna, ecco il tuo figlio. In Ioanne intelligimus omnes, quorum beata Virgo per charitatem effecta est mater (S. Bernardino da Siena).

E Maria ci ama. — Lo dicono i templi, gli altari a lei dedicati, le lampade votive, i cuori d’argento sospesi alle pareti dei suoi santuari; i ceri scintillanti, i fiori olezzanti innanzi alle sue immagini. — Lo dice la storia della Chiesa e del mondo; gl’immensi pellegrinaggi alle cappelle a lei sacre: soprattutto lo dice il nostro cuore sussultante di amore per la nostra tenerissima Madre celeste. Col cuore gonfio di gioia, di confidenza e di amore, andiamo a questo mistico Trono di misericordia, andiamo a Maria. A lei ergiamo suppliche ardenti per noi, per la Chiesa, per la società, per i derelitti, per i peccatori. – Alle sue mani materne affidiamo 1’anima nostra, il nostro corpo, la nostra famiglia, i nostri interessi, e con tutta confidenza la preghiamo di farci sentire gli effetti del suo amore.

— Monstra te esse matrem. Sì, o Maria, tu sei la Madre nostra. Con la tua potenza abbatti le infernali squadre, congiurate alla nostra eterna rovina. — In gemito e pianto a te innalziamo la prece, la pupilla, il cuore. — Tergi le nostre lagrime, ci sostieni se deboli, ci illumina se dubbiosi; ne allontana i perigli, ci afforza nella lotta, ci dona la vittoria, ne ottieni il trionfo. — Ci accogli peccatori, ne scuoti se tiepidi, ed ai giusti dona la perseveranza nel bene. – O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria, la tua parola tutto può, tutto ottiene, tutto strappa al Cuore di Dio … Dilla dunque anche per noi peccatori, questa parola di amore… E nel cielo canteremo in eterno le lodi della tua materna potenza e bontà. Et virtus Altissimi obumbrabit tibi.

L’Angelus.

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Ed. Paoline, Alba 1957- impr.]

Non chiuderemo questa giornata senza ricordare e raccomandare la pia e salutare istituzione che la cristianità solennizza giornalmente in ogni paese cattolico, in onore del mistero dell’Incarnazione e della divina maternità di Maria. Tre volte al giorno, al mattino, a mezzogiorno e alla sera, si ode la campana e i fedeli, all’invito di quel suono si uniscono all’Angelo Gabriele per salutare la Vergine Maria e glorificare il momento in cui lo stesso Figlio di Dio si compiacque assumere umana carne in Lei. – Dall’Incarnazione del Verbo il nome suo è echeggiato nel mondo intero. Dall’Oriente all’Occidente è grande il nome del Signore; ma è pur grande il nome di Maria sua Madre. Da qui il bisogno del ringraziamento quotidiano per il mistero dell’Annunciazione, in cui agli uomini fu dato il Figlio di Dio. Troviamo traccia di questa pratica nel xiv secolo, quando Giovanni XXII apre il tesoro delle indulgenze a favore dei fedeli che reciteranno l’Ave Maria, la sera, al suono della campana che ricorda loro la Madre di Dio. – Nel XV secolo S. Antonino c’informa nella sua Somma che il suono delle campane si faceva, allora, mattina e sera nella Toscana. Solo nel XVI secolo troviamo in un documento francese citato da Mabillon il suono delle campane a mezzogiorno, che si aggiunge a quello dell’aurora e del tramonto. Fu così che Leone X approvò tale devozione, nel 1513, per l’abbazia di Saint-Germain des Près, a Parigi. D’allora in poi l’intera cristianità la tenne in onore con tutte le sue modifiche; i Papi moltiplicarono le indulgenze; dopo quelle di Giovanni XXII e di Leone X, nel XVIII secolo furono emanate quelle di Benedetto XIII; ed ebbe tale importanza la pratica, che a Roma, durante l’anno giubilare, in cui tutte le indulgenze eccetto quelle del pellegrinaggio a Roma, rimangono sospese, stabilì che le tre salutazioni che si suonano in onore di Maria, avrebbero dovuto continuare ad invitare i fedeli a glorificare insieme il Verbo fatto carne. Quanto a Maria, lo Spirito Santo aveva già preannunciati i tre termini della pia pratica, esortandoci a celebrarla soave « come l’aurora » al suo sorgere, splendente « come il sole » nel suo meriggio e bella « come la luna » nel suo riflesso argenteo.

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a)

– Angelus Domini nuntiavit Mariæ,

Et concepit de Spiritu Sancto.

Ave Maria.

– Ecce ancilla Domini,

Fiat mihi secundum verbum tuum.

Ave Maria.

– Et Verbum caro factum est,

Et habitavit in nobis.

Ave Maria.

Ora prò nobis, sancta Dei Genitrix,

Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus.

Gratiam tuam, quæsumus Domine, mentibus nostris infunde: ut qui, Angelo nuntiante, Christi Filii tui incarnationem cognovimus, per passionem eius et crucem ad resurrectionis gloriam perducamur. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen.

b)

Regina cœli lætare, alleluia:

Quia quem meruisti portare, alleluia,

Resurrexit, sicut dixit, alleluia.

Ora prò nobis Deum, alleluia,

Gaude et lætare, Virgo Maria, alleluia,

Quia surrexit Dominus vere, alleluia.

Oremus.

Deus, qui per resurrectionem Filii tui Domini nostri Iesu Christi mundum lætificare dignatus es: præsta quœsumus, ut per eius Genitricem Virginem Mariam perpetuæ capiamus gaudia vitae. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Brev. Rom.). [Nel periodo pasquale]

[Fidelibus, qui cum primo diluculo, tum meridiano tempore, tum sub vesperam vel cum primum postea potuerint,  precationem Angelus Domini cum statutis versiculis et oratione, aut tempore paschali antiphonam Regina cœli item cum usìtata oratione, aut demum quinquies salutationem angelicam Ave Maria devote recitaverint, conceditur [ai fedeli che avranno recitato al mattino, mezzogiorno e sera le preghiere suddette con versicolo e orazione, si concede …]:

Indulgentia decem annorum [dieci anni] quoties id egerint [ogni volta]; Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem eamdem recitationem persolverint (S. Pæn. Ap., 20 febr. 1933). [ENCHIRIDION INDULGENTIARUM, Tip. Pol. Vatic. – 1952]