DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI: 3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram. [Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.] Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus. Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas. [O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI : 19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

IL PECCATO

“Fratelli: Parlo in modo umano, a motivo della debolezza della vostra carne. Come deste le vostre membra al servizio dell’immondezza e dell’iniquità per commettere l’iniquità; così ora date le vostre membra al servizio della giustizia per la santificazione. Perché quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite? Giacché il loro termine è la morte. Ma adesso, affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché la paga del peccato è la morte, ma il dono grazioso di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore… “ (Rom. VI, 19-23).

L’Epistola è un brano della Lettera ai Romani. Il Cristiano, liberatosi con l’aiuto di Dio dalla servitù del peccato, è passato a servire la giustizia. Sarebbe un controsenso, se tornasse ancora al peccato. Egli deve continuare nella giustizia a servir Dio con altrettanto zelo, con quanto prima ha servito al peccato. Quand’era schiavo del peccato, commetteva azioni di cui ora deve arrossire, le quali avevano per termine la morte spirituale, che è la paga del peccato. Ora, invece, lontano dal peccato, fatto servo di Dio, deve, con la grazia di Lui, compiere buone opere, che conducano alla vita eterna. Questo brano ci porge occasione di parlare del peccato, il quale:

1. È una dura servitù,

2. Che ci riempie di confusione

3. E ci conduce alla eterna rovina.

1.

Quando eravate servi del peccato, eravate liberi rispetto alla giustizia. Eravate da essa lontani, esenti dal suo giogo. Se il vostro padrone era il peccato, non potevate attendere alle opere della giustizia. Chi vive schiavo del peccato, non è libero di far quel che vuole; ma deve fare la volontà del padrone che odia la giustizia, e impedisce che i suoi servi, attendendo alle opere della giustizia, procurino la propria santificazione. L’Apostolo parla a coloro che avevano cessato di esser servi del peccato,e che, aiutati dalla grazia di Dio. attendevano alla propria santificazione. Anche noi nel Battesimo siamo stati affrancati dal peccato; ma non saremmo per avventura ritornati sotto il suo giogo, invece di attendere alla nostra santificazione! Pensiamo un po’ quanto sia deplorevole la condizione di chi è schiavo. Il cuore ci si commuove quando leggiamo di tanti nostri fratelli, che nei paesi barbari vengono catturati, venduti, comperati come schiavi. Approviamo l’opera di coloro che si adoperano per togliere o ridurre questa piaga; lodiamo i governi energici che, con il loro intervento, troncano questo turpe mercato. Ma una schiavitù da compiangersi anche maggiormente, è la schiavitù del peccato. «Chi commette il peccato è schiavo del peccato». (Giov. VIII, 34). – Si comprende che uno schiavo preferisca a un padrone crudele un padrone che abbia sentimenti di umanità. Quando si commette il peccato, invece avviene precisamente il contrario. Si abbandona Dio, bontà infinita, che non lascia senza ricompensa il più piccolo sacrificio fatto per lui, e si va a servire un tiranno inesorabile. – Il suo primo atto è quello di spogliarci di tutti i beni spirituali. Di tante lotte sostenute, di tante privazioni, di tanti sacrifici, che cosa rimane, per la vita eterna? – Il peccatore si è incontrato in un ladrone che lo ha spogliato di tutti i meriti che s’era acquistati servendo Dio, quend’era nella sua grazia. Avutici in suo potere, non ci lascia un momento di tregua. Comanda sempre. Se, caduto una volta in peccato, l’uomo non cerca, con l’aiuto di Dio, di sottrarsene subito al grave giogo, presto cadrà di nuovo. Commetterà un altro peccato, quasi per far dimenticare il primo; se ne aggiungeranno altri; si formerà l’abitudine; e, fatta l’abitudine, la servitù è completa. Non farà neppur più il tentativo di rompere i legami che l’avvolgono: «Purtroppo resterà schiavo delle sue passioni e stretto nelle catene dei suoi peccati» (Prov. V, 22.). – Come non gli bastasse, poi, un tiranno solo, il peccatore si cerca tanti tiranni quante sono le passioni a cui cede. Egli sarà schiavo della superbia, dell’avarizia, della gola, della lussuria, dell’empietà ecc.: tutti padroni che, messe una volta le catene al piede del loro schiavo, son decisi a non levarle più. «Quanti sono i peccati, quanti sono i vizi, altrettanti sono i tiranni» (S. Ambrogio. In Ps. CXVIII Serm. 20, 50. 1). –

2

S. Paolo si domanda: Ma qual frutto aveste allora da quelle cose, delle quali adesso arrossite?Nella domanda è inclusa la risposta: Il frutto avuto fu la confusione. Si allude specialmente ai peccati impuri, ma vale per qualunque peccato. Qualunque peccatore, dopo la sua conversione, considerando qual era il suo stato durante la vita di peccato, non può sottrarsi a un certo smarrimento d’animo, vedendo a quale punto si era degradato. Dio ha dato all’uomo la ragione, con cui possa governare tutte le sue facoltà. Quando invece di governare, lascia che prendano sopravvento dalle passioni, la ragione è come sbalzata dal suo trono; l’uomo perde la sua dignità, e scende al livello degli esseri irragionevoli, «che non hanno né il giudizio con cui giudicare e governarsi, né lo strumento del giudizio, la ragione» (S. Bernardo – In Cant. Serm. 81. 6). Dio rimproverò amaramente Israele : «Il mio popolo sostituì la sua gloria con un idolo (Ger. II, 11). Chi offende Dio si prostra innanzi all’idolo mostruoso del peccato. La disillusione segue necessariamente, e sempre, il peccato. «Ogni peccato ha questo: prima che si commetta ha un certo qual piacere; commesso che sia, il piacere cessa e inaridisce: vi subentra il dolore e la tristezza » (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Thim. Hom. 2, 3). E quanto più uno si sforza di trovar soddisfazione nel peccato, tanto più si sente oppresso dal dolore e dalla tristezza. Nonostante tutta l’apparenza esterna: allegria, divertimenti, piaceri, ricchezze, onori, il peccatore è nella più stretta miseria spirituale. Nonostante i frizzi, l’ostentato disprezzo, il compatimento per coloro che servono Dio, egli gli invidia. Essi godono un bene che manca a lui: la serenità dello spirito. Il nostro cuore è fatto per Dio, e i piaceri di quaggiù non possono appagarlo. L’anima si trova a posto quando è con Dio: lontana da Lui, non c’è che lo smarrimento, l’angoscia, la confusione.

3.

Non solo le azioni peccaminose ci rendono infelici in questa vita; esse ci conducono all’eterna dannazione, giacché il loro termine è la morte. Questo è il soldo che il peccato paga ai suoi seguaci per il servizio prestato. «La via dei peccatori — dice S. Agostino — ti piace perché è larga, e molti vi camminano: tu ne vedi la larghezza, ma non ne vedi il termine. Dove essa finisce, sta il precipizio; essa conduce in fondo a un baratro: quivi finiscono quelli che spaziano allegramente in questa via» (En. in Ps. CXLV, 19). Chi comincia male, finisce peggio. Ai nostri giorni hanno preso grande sviluppo le escursioni in montagna. Sono comitive, più o meno numerose, che togliendosi dalla vita agitata e dall’afa della città, vanno a respirare l’aria libera e a godere lo spettacolo della natura. Come sono allegre, chiassose alla partenza! Come fanno pompa del loro sacco e della loro piccozza! Ma non è sempre così al ritorno. Non di rado la salita è troncata a metà. Alcuni s’affrettano a casa, con l’angoscia nel cuore, a portare alla madre, alla sorella, alla sposa d’uno dei gitanti una triste notizia: « È  precipitato in un burrone!» Altri rimangono sul posto come impietriti, o vanno in cerca, di coraggiosi alpigiani che, affidati alle corde, scendano nel precipizio a rintracciare e a riportare il cadavere dello scomparso. Quante volte la morte assale, lungo il cammino incompiuto, il peccatore nella sua spensieratezza, e lo precipita nel baratro dell’inferno! E da quel baratro nessuno lo toglierà più. «Chi vuol passare da qui a voi non lo può» (Luc. XVI, 26), dice Abramo, invocato dal ricco epulone. Laggiù in quel baratro non ci sarà la pace e la tranquillità, che regna nei burroni delle montagne. Laggiù ci sarà il rimorso, lo strazio d’ogni pena, la lontananza da Dio. Se noi quaggiù perdiamo un amico, ne possiamo trovare un altro, forse migliore del primo. Ma Dio, non si può sostituire ; né il dolore della sua perdita può venir lenito dal tempo. La stessa pena che si soffre, parla della potenza e della giustizia di Lui. Nuovi ricordi, nuove distrazioni non ce lo potranno far dimenticare. Quale pena! Essere creati per amar Dio, per goder Dio, e dover starsene lontani per sempre, sotto i colpi della sua giustizia punitrice. Il padre Giovanni Mazzucconi, primo missionario e martire della Melanesia, trovandosi, da fanciullo, in collegio, vide un compagno commettere una grave mancanza contro di un altro. Diede in un pianto dirotto. Uno gli si accostò e gli fece la domanda: «Perché piangi ?» — «Piango — rispose — perché quello ha peccato» (Cenni sul sacerdote Giovanni Mazzucconi. Milano .1857, pagina 11). Se si considerasse sul serio la bruttezza e le conseguenze del peccato, ci sarebbe veramente da piangere. Ma, purtroppo, non si considera la malizia e la bruttezza del peccato prima di commetterlo, e non la si considera, generalmente, dopo che si è commesso; e così, un peccato tira l’altro. Prendiamo un po’ per noi le parole del profeta ai Giudei: «Applicatevi col vostro cuore a riflettere sui vostri andamenti» (Agg. 1. 5), e se scorgiamo che la nostra vita è peccaminosa, mutiamo subito condotta. « È bello non peccare, ma è anche buona cosa convertirsi dopo aver peccato; come è cosa eccellente esser sempre sani, ma è bello anche guarire dalla malattia» (S. Clemente Alessandrino. Pedag. L . 1 , c. 9).

Graduale

Ps XXXIII: 12; XXXIII: 6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur. [Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI: 2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt VII: 15-21 “In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXXV

“In quel tempo disse Gesù a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro son lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai triboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa frutti cattivi. Non può un buon albero far frutti cattivi; né un albero cattivo far dei frutti buoni. Qualunque pianta che non porti buon frutto, si taglia, e si getta nel fuoco. Voi li riconoscerete adunque dai frutti loro. Non tutti quelli che a me dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de’ cieli; ma colui che fa la volontà del Padre mio che è ne’ cieli, questi entrerà nel regno de’ cieli” (Matth. VII,15-21).

In quell’ammirabile discorso, che Gesù Cristo tenne a’ suoi discepoli e ad una turba immensa, che lo aveva seguito da molte parti della Palestina, dopo di avere con le beatitudini indicate le sorgenti della vera felicità, soggiunse di poi molti precetti e molte massime, per la cui osservanza si sarebbe facilmente conseguita la eterna salvezza. Ma poiché anche gli uomini di buona volontà avrebbero potuto restar vittima della falsità e degli inganni di altri maestri, i quali insegnano astutamente l’errore affine di allontanarli dalla pratica degli insegnamenti divini, perciò il divin Redentore prima di porre fine a quel sublime discorso mise i suoi seguaci in guardia di questo grave pericolo. E le parole del Vangelo, che la Chiesa ci fa leggere nella messa di questa Domenica, sono quelle appunto proferite da Gesù Cristo a tale scopo. Ed oh! quanto sono acconce ed utili anche per noi, che viviamo in tempi, in cui i maestri d’errore tanto abbondano! Consideriamole adunque attentamente per saperne fare nostro prò.

1. Gesù, pertanto disse a’ suoi discepoli: Guardatevi dai falsi profeti, che vengono da voi vestiti da pecore, ma al di dentro sono lupi rapaci. Al tempo di Gesù Cristo questi falsi profeti, ossia falsi maestri, erano in gran numero; e facevano un male assai grande nel popolo, appunto perché fingevano di avere la stessa semplicità dei profeti e come essi comparivano dinnanzi al popolo come grandi digiunatori e predicavano con grande enfasi la penitenza. Ma come al tempo di Gesù Cristo, così anche ai tempi nostri questi falsi maestri abbondano assai e non fanno minor male di allora. Se ne incontrano talvolta nelle scuole fra gli stessi maestri, se ne incontrano nei divertimenti fra gli amici, se ne incontrano negli uffici, nei negozi, nelle officine fra i compagni di impiego e di lavoro, se ne incontrano nei viaggi, nei passeggi, nelle conversazioni, se ne incontrano da per tutto, fra gli uomini di tutte le condizioni e di tutte le età. E chi sono mai questi falsi profeti, così numerosi anche ai dì nostri! Sono tutti coloro, i quali con parole, con racconti, con massime perverse, con sarcasmi contro la Religione e la virtù, con fatti, con cenni e con azioni nefande, con libri, giornali e figure cattive si fanno lupi rapaci delle anime, massime di quelle dei giovanetti, e spargono il veleno della disonestà e dell’irreligione nei loro cuori. Sì, tutti costoro sono falsi profeti, veri ministri di satana. Difatti il demonio, invidioso del nostro bene, non cerca altro che la nostra rovina e per riuscire più facilmente ad operarla si trasforma. Con la nostra progenitrice Eva prese le sembianze del serpente, ed oh come bene riuscì ad ingannarla! Con molti altri e massimo con certi Cristiani, poco istruiti nelle verità della fede, e con i giovani, così facili a lasciarsi ingannare, prende la sembianza di un falso profeta di un cattivo maestro, di un perverso compagno, di un maligno scrittore. Epperò il Salvatore rivolgendo la parola ai falsi profeti del suo tempo diceva chiaramente: Voi siete figliuoli del diavolo: e volete compiere i desideri del padre vostro: Vos ex patre diabolo estis, et desideria patris vestri vultis facere (Joan. VIII, 44). Più ancora quando S. Pietro, senza però cattivo animo, prese a farla con Gesù Cristo da cattivo compagno, volendolo rimuovere dalla sua passione, il divino Maestro lo chiamò col nome stesso di satana, e: Fatti indietro, gli disse, o satana, che così mi sei di scandalo. E Gesù, somma verità, non si inganna. Di fatto, chi può dire il male che fanno i cattivi compagni, gli scellerati scrittori, i maestri di iniquità! Davide ne’ suoi salmi così lo descrive: « La gola de’ cattivi è un sepolcro aperto, la loro lingua uno strumento di seduzione, e le labbra stillano veleno viperino. Piena d’amarezza e di maledizione è la lor bocca; corrono veloci i lor piedi agli altrui danni. Dove passano, seminano stragi ed infelicità; non conobbero la via, che mette al riparo, non ebbero innanzi agli occhi il timor di Dio. Questi operai d’iniquità divorano i servi di Dio come un boccon di pane. » Ed è pur troppo così. È dai seminatori di perverse massime, dagli istigatori del peccato, dai cattivi compagni, che provengono i tanti mali, che vi sono nel mondo.L’uomo, anche per operare il male abbisogna talora di eccitamento, e questo viene appunto dai cattivi. Epperò, il mondo che, al dire di Gesù Cristo, è posto tutto nel maligno, avendo troppo bene intesa questa verità, si vale appunto di questi iniqui maestri, di questi scrittori diabolici, di questi scellerati compagni, per eccitare gli uomini e specialmente la gioventù a disprezzare e ad abbandonare la fede e la morale cristiana e a commettere i più gravi disordini. E così sono rovinati tanti studenti, tanti operai, tanti magistrati e tanti padri di famiglia e massimamente tanti poveri giovani, i quali inesperti della vita si abbandonano assai facilmente nelle braccia di chi li lusinga per poi tradirli. Oh sì, senza dubbio gli insegnamenti, le conversazioni, gli scritti, massimamente se cattivi, influiscono grandemente sugli affetti, sui sentimenti e sui costumi di chi ascolta, o di chi legge, quand’anche ci fosse in lui la previdenza ed il proposito di non lasciarsi influenzare. Come colui che passeggia nelle calde ore d’estate o nei freddi giorni dell’inverno sente, ancorché neppur ci badi con il pensiero, l’azione del sole e del freddo, perché l’atmosfera che ne circonda s’infiltra nelle nostre viscere per via della respirazione e comunica al corpo nostro il grado di calore che in lei si trova; così avviene a chi legge libri e giornali cattivi, a chi ascolta cattivi insegnamenti, a chi pratica cattivi compagni: si trova attorniato da un’atmosfera appestata, sotto il cui influsso il veleno dell’iniquità penetra l’anima e il cuor suo, producendovi il più orribile guasto tanto per riguardo alla fede, quanto per riguardo ai costumi. E basta perciò interrogare la dolorosa esperienza di chi ha perduto l’innocenza, o la fede, o l’una e l’altra, perché si intenda facilmente a rispondere che ciò è provenuto da cattive massime, da perversi suggerimenti avuti da un maestro di iniquità. Non deve perciò far meraviglia se dalla bocca di Gesù Cristo medesimo, che era la bontà e la dolcezza per eccellenza, uscì un giorno un terribile guai. Vedendo egli colla sua mente divina gli scandali, che sarebbero stati la rovina di molte anime, massime dei giovanetti e, profondamente afflitto di vederseli strappare dal seno amoroso, uscì in questo spaventose parole: Guai a chi darà scandalo ad un fanciullo, che crede in me. Piuttosto di dare uno scandalo siffatto, meglio sarebbe che quel disgraziato si appendesse una pietra da molino al collo, e poi si gettasse nel profondo del mare.Importa adunque sommamente di praticare l’avvertimento che ci dà oggi il divin Redentore e guardarsi bene dai falsi profeti, vale a dire da tutti coloro che in qualche modo attentano alla nostra virtù.

2. Ma poiché qualcuno potrebbe dire di non saperli conoscere, e potrebbe essere ingannato sul loro conto, perché si presentano vestiti da pecore, ecco il divin Maestro ad insegnarci ancora a che dobbiamo badare per questo fine. Egli dice: Li riconoscerete dai loro frutti. Si coglie forse uva dalle spine, o fichi dai trìboli? Così ogni buon albero porta buoni frutti; e ogni albero cattivo fa fruiti cattivi. Ecco adunque a che bisogna badare per conoscere i maestri di errore, gli scrittori maligni, i cattivi compagni: bisogna badare ai loro frutti. Costoro verranno forse a voi col manto di agnelli. Vi blandiranno, vi loderanno, vi accarezzeranno. Ma quando in vostra presenza non arrossiranno di parlar male del Papa, dei Vescovi, dei sacerdoti, della fede e della morale cristiana, di gettar fuori discorsi osceni, di proferir parole equivoche e scandalose, di fare mormorazioni, dir bugie, spergiuri, imprecazioni, oppure cercano di allontanarvi dai genitori e superiori, dal loro rispetto ed amore, dalla frequenza dei Sacramenti, dalle pratiche di pietà, allora fuggiteli prontamente come dal diavolo istesso, perché questi frutti cattivi dimostrano cattivo l’albero. – Riguardo poi ai libri ed ai giornali, nella cui conoscenza vi potrebbe essere maggiore difficoltà, ponderate bene queste indicazioni: Per cattivi si debbono avere tutti quei libri o giornali, che in qualsiasi modo o per mezzo di lunghi ragionamenti, od anche con sole espressioni o brevi motti, oppure con illustrazioni e figure offendono la fede, o la morale, o la verità, o l’onestà e modestia cristiana. Epperò sono cattivi quei volumi con cui gli eretici antichi e quei foglietti con cui gli eretici odierni, i protestanti, cercarono e cercano di falsare gli insegnamenti di Gesù Cristo, di corrompere i dogmi cattolici, di travolgere il senso delle sacre Scritture, di allontanare i Cristiani dalla retta credenza. Sono cattive quelle opere filosofiche, nelle quali scalzandosi l’edificio dell’autorità e dell’insegnamento della Chiesa riguardo alle più fondamentali verità della Religione, si mira in quella vece a surrogarvi gli empi ed assurdi sistemi del materialismo e del razionalismo, negando per tal guisa la esistenza stessa di Dio e la necessità della Rivelazione per divinizzare e la ragione e la materia. Sono cattive quelle storie dove la verità dei fatti è indegnamente travisata per coprire di fango, se fosse possibile, la memoria e le opere dei Pontefici, dei Vescovi, dei preti, dei frati, dei ministri tutti del santuario e degli stessi santi, ed a quella vece porre sugli altari e rappresentare a’ pubblici onori i più tristi uomini, che mai siano esistiti, feccia delle città e delle nazioni che li generarono e li accolsero, col nuovo titolo di martiri della libertà del pensiero e della indipendenza. Sono cattivi quei poemi, quei romanzi, quelle novelle, quelle poesie, quei racconti che riboccano di empietà e di impudicizia, che senza alcun velo o con sottilissimo ti mostrano  il vizio e la corruzione ne’ più minuti ed osceni particolari, e le colpe più nefande ti di spingono con effetto di passione irresistibile. – Sono cattivi quei giornali, quei periodici, che o apertamente dichiarati massonici, o alquanto nascostamente tali, osteggiano la Chiesa Cattolica, il suo Capo augusto, le sue leggi e le sue prescrizioni, ora con le più vituperose invettive o spudorate menzogne, ora con la beffa e col sarcasmo più velenoso, ed ora con l’ipocrisia più subdola e più perversa, con l’astuzia più raffinata e funesta. Sono cattivi infine tutti quei fogli, che alla schifosità dei racconti e dei motti aggiungendo per soprappiù la luridezza delle illustrazioni e delle figure, più indegnamente dileggiano le persone più venerande ed i più sacrosanti misteri, e più al vivo ti pongono dinanzi agli occhi le sottigliezze e nefandità del mal costume. Tali e somiglianti sono i libri e giornali cattivi. – Ma sebbene voi possiate conoscerli a questi caratteri, il meglio per voi si è, che prima di apprendervi alla lettura di un libro o giornale qualsiasi, domandiate consiglio a chi ben ve lo può dare, e che appena dal vostro confessore, dal vostro parroco, o dal vostro superiore vi è fatto conoscere la malvagità del libro o giornale, che pensereste di leggere, smettiate subito tale pensiero con un santo orrore. Così facendo non turberete mai la vostra coscienza, vi terrete lontani da ogni pericolo di peccato, e non correrete il rischio di incorrere la sorte, a cui sono destinati gli scrittori dei cattivi libri, e tutti quanti gli altri maestri di peccato.

3. Perciocché nostro Signore termina nel Vangelo di oggi dicendo: Qualunque pianta, che non porti buon frutto si taglia e si getta nel fuoco…. E non tutti quelli che dicono: Signore, Signore, entreranno nel regno de1 cieli; ma entrerà solamente colai che fa la volontà del Padre mio. Or bene questa sorte di dannazione eterna riservata a coloro che si fanno maestri e propagatori del male, è pure la sorte destinata a coloro che stoltamente danno loro ascolto. Se pertanto non volete, o miei cari, che incolga a voi una tale sventura, imprimete ben bene nella mente vostra quanto conchiudendo sono per dirvi. Anzi tutto fuggite, per quanto è possibile, la compagnia di coloro che parlano di cose oscene, o cercano di deridere il Papa, i Vescovi e gli altri Ministri della nostra Santa Religione, o vi tengono discorsi sovversivi contro le autorità, il buon ordine, i principii della fede e della morale cristiana. Se rimarrete anche per poco in loro compagnia è impossibile che non he riportiate nocumento; e se poi prendeste a frequentarli, andreste senza dubbio anche voi alla rovina. Non tardereste a riguardare al par di loro come una stoltezza la vita veramente cristiana, ed a beffare quelli che la conducono. Se per motivo di studio, di professione o di parentela dovrete trattare con costoro, non entrate mai in dispute di Religione; e se cercano di farvi difficoltà, rispondete semplicemente: Quando sia infermo andrò dal medico, se ho delle liti mi recherò dall’avvocato o dal procuratore, se ho bisogno di rimedii, dal farmacista. In fatto poi di Religione vado dai Preti, come quelli che di proposito l’hanno studiata. Guardatevi poi col massimo impegno dal leggere libri o giornali cattivi. Se per avventura taluno vi offrisse libri o giornali irreligiosi, abborriteli e rigettateli da voi con quell’orrore e disprezzo, che ributtereste una tazza di veleno. Se a caso ne aveste qualcuno presso di voi, consegnatelo al fuoco. È meglio che il libro od il giornale bruci nel fuoco di questo mondo, piuttosto che mettere l’anima vostra in pericolo di andare a bruciare per sempre nelle fiamme dell’inferno. E qui taluno forse per iscusarsi delle cattive letture andrà dicendo che egli è ben istruito, assai forte e sicuro di sé da evitare i pericoli, che tali letture possono presentare. Ma d’ordinario ben altrimenti è la cosa; e quand’anche fosse così, sarebbe non di meno una grave imprudenza, una temerità inescusabile lo esporsi volontariamente e senza motivo al pericolo della seduzione. Voi non dovete ignorare, o cari giovani e cari Cristiani, che allorquando leggiamo un libro, ci è sempre dentro di noi stessi un avvocato difensore di esso libro, un complice, per così dire, che dapprima eccita e poi sostiene la nostra funesta curiosità. L’avvocato che piglia la difesa delle cattive dottrine, che ci sono predicate, sono lo nostre passioni, le quali trovano sempre in simili scritti l’alimento loro confacente, e le opinioni a cui volentieri si adagiano. Quanti naufragi nella fede e nei costumi furono occasionati dalla lettura di un sol libro o immorale o anticristiano! Quante anime, sebbene forti, sebbene illuminate, sono perite battendo a questo scoglio! Quanti esempi potremmo qui ricordare. Eutiche, che era stato prima l’intrepido difensor della fede cattolica, per la lettura d’una sola opera manichea si cambiò in eresiarca e, ridotto al silenzio in un monastero, continuò a pervertire co’ suoi scritti una parte notevole dell’Oriente. Bardasane di Siria, che fu dapprima l’ammirazione dei fedeli per la sua pietà e pel suo zelo nella fede cristiana, in seguito fu trascinato dalla lettura di alcuni volumi nella setta dei Valentiniani e si segnalò poi pel suo ardore a propagare l’eresia. Avito, un altro ministro del Signore, che S. Girolamo aveva in modo speciale premunito contro le opere d’Origene, non ostante la precauzione di non leggerle che con la confutazione alla mano, ne trangugiò miseramente il veleno. Più tardi Bullingero, uomo dotto e pio che stava per entrare alla Certosa, leggendo qualche libro di Melantone divenne un eretico ed un apostata. S. Gerolamo dice che i libri dei Priscillianisti portarono nella Spagna e nel Portogallo la corruzione della fede, a cui quei due paesi erano fino allora sfuggiti. Il famoso Wiclefo, impotente a propagare con la predicazione i suoi errori in Inghilterra, riuscì a pervertire tutta la Boemia col mezzo de’ suoi libri. Tutti poi conoscono questo fatto generale, che gli eretici, i novatori, gli increduli, tutti i corruttori della sacra dottrina si sono trasmessa la trista eredità dell’errore per mezzo dei loro libri perversi. Ecco i funesti effetti delle cattive letture anche sulle persone illuminate. Nessun pretesto adunque ci induca a farci lettori di libri, di giornali, di romanzi cattivi od anche solo pericolosi. – Finalmente, o miei cari, se i maestri di iniquità, i cattivi compagni, i falsi profeti vedendo la vostra volontà di fare il bene si facessero a burlarvi, voi disprezzate ogni burla e mettete sotto ai piedi ogni diceria mondana, richiamando alla memoria la sentenza del Salvatore contro coloro, che per umano rispetto si lasciano trascinare al male: « Chiunque si lascia far paura, e a tempo debito per rossore non si manifesta per Cristiano, sarà svergognato da me, quando si presenterà al mio Divin Tribunale ». Quando poi dicono che siamo in tempo di libertà, e che perciò ognuno può vivere come vuole, voi rispondete, che la libertà, di cui parlano, non è libertà, ma sfrenata e indegna licenza; oppure che se siamo in tempo di libertà, vi lascino anche liberi in fatto di Religione e liberi di praticarla come a voi piace. Così facendo in tali circostanze potete essere sicuri, che vi manterrete fermi nella fede e nella pratica di vostra santa Religione e salverete eternamente l’anima vostra.

Credo …

Offertorium

Orémus

Dan III: 40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”. [Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem. [O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

Communio

Ps XXX: 3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me. [Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio

Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat. [O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

LO SCUDO DELLA FEDE (70)

LO SCUDO DELLA FEDE (70)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE SECONDA.

FRODI PER CUI S’INTRODUCE IL PROTESTANTISMO

CAPITOLO V.

QUINTA FRODE: DIRE CHE LA S. CHIESA PROIBISCE LA LETTURA DELLA BIBBIA

Intorno alla Santa Scrittura fingono anche i Protestanti un’altra calunnia e la appongono alla Chiesa Cattolica. Vi dicono che i Sacerdoti Cattolici vi vogliono tenere nell’ignoranza, perché non scopriate le loro frodi e menzogne; che per questo non vogliono che leggiate la santa Bibbia, che leggiate il santo Vangelo, perché se leggeste questi libri verreste a conoscere le loro imposture. Questo lo dicono sfacciatamente. – Ebbene questa è una pura menzogna, una pura calunnia. La S. Chiesa nulla tanto desidera quanto che tutti i Fedeli siano profondamente istruiti nelle verità della S. Religione. Non è forse vero che i Parrochi, i Sacerdoti sono sempre sul raccomandarvi che veniate alla istruzione, alla spiegazione del santo Vangelo, che mandiate i vostri figliuoli alla Dottrina Cristiana? Non è forse vero che si premette una speciale e diligente istruzione dinanzi alla prima Comunione ed al Sacramento della Confermazione? Non è forse vero che la S. Chiesa ha ordinato che i Parrochi, prima di ammettere al sacramento del Matrimonio gli sposi, li interroghino intorno alla Dottrina Cristiana, per assicurarsi se sono istruiti? Non è forse vero che in ogni tempo i Confessori i quali si avvedono che i Penitenti non sanno le cose necessarie alla salute, differiscono loro l’assoluzione finché non le hanno imparate? – Quale menzogna adunque più grave di questa, che affermare che la Chiesa promuove l’ignoranza nel popolo? Vedete: prima di questi ultimi tempi tutte le scuole che si apersero in tutto il mondo, tutte le Università più celebri, tutte furono aperte dai Vescovi e dai Sommi Pontefici. Vedete se sono essi che amano la ignoranza! E voi dite ai vostri maestri che abbiano la bontà di provare che non sia cosi. Ma direte voi, non lasciano leggere la Santa Scrittura al popolo. E questa è un’aperta calunnia. La S. Chiesa Cattolica non ha proibita la Santa Scrittura ai Fedeli: solo vuole che nel leggerla si prendano due precauzioni.

Primo. Non vuole che si legga la Santa Scrittura guasta, corrotta e falsificata dagli Eretici, come è quella che vi mettono in mano, del Diodati. Ed ha ragione di fare così. perché allora invece di aver cibo per la vostr’anima, avreste il veleno degli errori, di che l’hanno seminata. Del resto, quando leggiate quella che è pura di ogni errore, come è quella di Monsignor Martini, allora non la proibisce. Ora dite a me: voi proibite ai vostri figliuoli di mangiare frutta guaste, acerbe ed altri cibi nocevoli alla sanità; se alcuno prendesse questo pretesto per dire che voi non volete che i vostri figliuoli mangino, che volete farli morire di fame, che cosa direste? che sono calunniatori, mentre voi vi contentate sì che mangino in buon’ora, purché mangino dei cibi sani. Ora lo stesso fa la S. Chiesa Leggano pure i fedeli la Santa Scrittura, la leggano con divozione, con riverenza, con pietà, con umiltà, che ne caveranno profitto, ma leggano la vera Santa Scrittura, non quella che è stata falsificata. Qual cosa può trovarsi più ragionevole? –

L’altra avvertenza che la buona Madre la S. Chiesa vuole che abbiamo, è che nel leggerla procuriamo di non prendere abbaglio e frantenderne il senso. Imperocché avete da sapere che nelle Sante Scritture vi sono molte cose profonde, sottili, difficili a capirsi, che se si prendono a traverso, invece di ammaestrarci nella verità ci conducono all’errore, come lo insegna lo stesso Apostolo S. Pietro. Ora perché non ci avvenga questa disgrazia, la S. Chiesa vuole che la leggiamo con le opportune spiegazioni vicine. Così se nasce qualche dubbio o se si incontra qualche difficoltà, subito se ne trova lo scioglimento e la spiegazione. Perciò vuole che la Santa Scrittura abbia delle note fatte bene, da lei approvate per sicure e che corredata di queste spiegazioni si dia ai Fedeli. Non vi sembra questa una grand’attenzione ed amorevolezza che la Santa Chiesa ci usa? Ci dà il pane e ce lo dà così bell’e tagliato, perché non ci facciamo male. Voi lasciate scherzare, saltare, divertirsi i vostri figliuoli, ma lasciate far tutto ciò vicino ad un fosso od un precipizio? Eh no, volete che siano sicuri. Così fa con voi la S. Chiesa. Tacciano dunque tutti i calunniatori di S. Chiesa e si confondano, e voi ammirate sempre più la sua sapienza e ringraziatela della sua amorevolezza. –

Ma che pericolo si può incontrare nel leggere la S. Scrittura, poiché lo Spirito Santo ci rivela tutto quello che in essa si contiene? Eh io lo so che i Protestanti hanno sempre in bocca questa bella ragione: ma il male si è che è falsissimo che lo Spirito Santo abbia preso quest’impegno di farci da interprete della S. Scrittura. Lo Spirito Santo c’insegna ogni cosa in questo senso, che quando pervengono alle nostre orecchie gli ammaestramenti esterni della S. Chiesa, dei Pastori legittimi, oppure della S. Scrittura letta con umiltà e spiegata dai S. Padri, esso ci fa provare diletto in essi e ce li rende soavi allo spirito, come vediamo accadere tutto giorno alle persone sinceramente devote: ma non c’ammaestra in questo modo, che Egli ci riveli sensibilmente quello che abbiamo da credere e da praticare. Il presumere questo è una pazzia, ed è una fonte d’infinite altre pazzie, quali noi vediamo in quelli che credono a siffatta immediata ispirazione. Lo Spirito Santo, in una parola, non ci fa da interprete della Divina Scrittura, ma quando ci è sanamente interpretata la S. Scrittura, esso ce la fa gustare e ce ne fa trarre profitto. E questo è quello che c’insegna la stessaS. Scrittura, la quale ci fa sapere che la Fede ci viene per mezzo dell’udito, cioè dalla spiegazione che ce ne fa il Magistero di S. Chiesa, che la S. Scrittura non si deve intendere per propria interpretazione, ma bensì per quella di S. Chiesa: che nella Scrittura vi sono cose molto difficili ad intendersi, e che alcuni per loro rovina le depravano e così si perdono. Del resto gli è poi tanto chiaro che lo Spirito Santo non ha mai preso cotesto impegno di ammaestrare ognuno in particolare, che per vederlo basta aver occhi. Che cosa è lo Spirito Santo? É spirito di verità. Non può dunque non rivelare la Verità. Ora se fossero tutti ispirati dallo Spirito Santo, quei che interpretano la S. Scrittura privatamente non potrebbero contraddirsi scambievolmente: ma tutti dovrebbero convenire nelle verità che ritraggono dalle S. Scritture: il fatto però ci convince fino all’ultima evidenza che è tutto l’opposto, mentre ciascuno l’intende a suo modo. – A Lutero lo Spirito Santo dice, a cagion di esempio, che Gesù Cristo si trova nell’Ostia, a Calvino lo mette in dubbio, ai Sacramentari dice assolutamente che non vi è. Lo Spirito Santo dice ad alcuni che sono necessarie le buone opere, ad altri che sono inutili, ad altri che sono impossibili e così andate voi discorrendo. Tutti fondano la loro dottrina sulla S. Scrittura, tutti dicono che hanno lo Spirito Santo che li ammaestra; è possibile che lo Spirito Santo dica sì e no, si contradica ad ogni momento e con tante contradizioni quante sono le teste? – Lo Spirito Santo è Dio come il Padre e come il Figliuolo, ed è la stessa sapienza, giustizia e verità. È dunque un bestemmiatore sacrilego chi lo tratta da falsatore, da bugiardo, da contradicente a sé medesimo. Deponga ognuno pertanto, se non vuole bestemmiare, tutte le sue storture della privata ispirazione. Lo Spirito Santo è congiunto alla Chiesa di Gesù e la regge, e la illumina e la conforta e l’assiste coi suoi doni e con le sue grazie, e noi fintantoché siamo uniti con la Chiesa partecipiamo a tutti i doni dello Spirito Santo ed alla sua luce divina; ma appena ci dipartiamo da Lei, Egli si diparte da noi, ed allora noi andiamo soggetti a prendere per ispirazioni divine tutte le stranezze del nostro cervello.

SALMI BIBLICI: “USQUEQUO DOMINE” (XII)

Salmo 12: “Usquequo Domine”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE,1878

IMPRIM.: Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 12: Usquequo, Domine …

[1] In finem. Psalmus David.

  Usquequo, Domine, oblivisceris me in finem? usquequo avertis faciem tuam a me?

[2] Quamdiu ponam consilia in anima mea, dolorem in corde meo per diem?

[3] Usquequo exaltabitur inimicus meus super me?

[4] Respice, et exaudi me, Domine Deus meus. Illumina oculos meos, ne umquam obdormiam in morte;

[5] nequando dicat inimicus meus: Praevalui adversus eum. Qui tribulant me exsultabunt si motus fuero;

[6] ego autem in misericordia tua speravi. Exsultabit cor meum in salutari tuo. Cantabo Domino qui bona tribuit mihi; et psallam nomini Domini altissimi.

Salmo XII

 [Vecchio Testamento secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

Preghiera a Dio in tempo di tentazione.

Per la fine, salmo di David.

1. Fino a quando, o Signore? ti scorderai forse di me per sempre? fino a quando volgi da me la tua faccia?

2. Fino a quando accumulerò perplessità nell’anima mia, e nel cuor mio dolori ogni giorno?

3. Fino a quando avrà possanza sopra di me il mio nemico?

4. Volgiti a me, ed esaudiscimi, Signore, Dio mio. Illumina gli occhi miei, affinché io non dorma giammai sonno di morte;

5. Affinché non dica una volta il mio nemico: Io lo ho vinto. Coloro che mi affliggono, trionferanno se io sarò smosso:

6. lo però mia speranza ho posta nella tua misericordia. Il mio cuore esulterà nella salute che vien da te; canterò il Signore mio benefattore; e al nome del Signore altissimo farò risonare inni di laude.

Sommario analitico

Questo salmo è stato composto nelle stesse circostanze del precedente, quando Davide cioè era prigioniero nella città di Ceila, essendo stato avvertito che Saul si avvicinava con la sua armata, e deliberava se prendere la fuga davanti a lui. Egli dice a Dio: « fino a quando mi dimenticherete? » perché da lungo tempo condannato a condurre una vita errante, e fa allusione al consiglio che chiede per mezzo dell’intermediazione di Abiathar, rivestito dell’efod « Fino a quando io sarò abbandonato all’incertezza dei miei consigli? » Egli parla egualmente della necessità nella quale si trovava di sottrarsi con la fuga all’inseguimento dei suoi nemici, cosa che doveva esporlo alle loro beffe e ai loro oltraggi. – In senso tropologico, Davide rappresenta qui l’uomo giusto assalito da violente tentazioni. Egli implora il soccorso di Dio per tre motivi:

motivo, preso da se stesso, vale a dire perché Dio viene infine a liberarlo dalle sue afflizioni, ove sembra averlo dimenticato da tanto tempo, senza che avesse tratto nessuna utilità dai consigli che chiedeva, senza che il suo dolore sembrasse toccare il cuore di Dio (1-2).

motivo, tratto dai suoi nemici che a) si glorificavano della propria potenza (3); b) si vantavano di sopraffarlo con la forza (4); c) si preparavano a trionfare insolentemente con la loro vittoria (5).

3° motivo, desunto dalla gloria di Dio, che egli celebra: – interiormente con sentimenti di riconoscenza, – esteriormente con le sue lodi e le sue opere (6).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-6

ff. 1. – Non è che una grazia mediocre l’essere sensibile all’oblio di Dio. Questo oblio non è in Dio un sentimento dell’anima, ma un semplice abbandono. Un grande numero di coloro che sono oggetto di questo abbandono, infatti lo ignorano e non si curano di deplorarlo. Essi non conoscono, come il Re-Profeta, i segni dai quali si può riconoscere il ricordo di Dio, essi non sanno discernere inoltre i segni caratteristici dell’oblio di Dio. È naturale che coloro che non conoscono questi segni della sua amicizia, non conoscano nemmeno quelli della sua collera (S. Chrys.). – C’è una differenza marcata tra le disposizioni dei veri Cristiani e quelle dei peccatori, dei mondani, degli empi del secolo. Questi ultimi non si affliggono dall’essere lontani da Dio, si glorificano piuttosto dello spirito di irreligione, oppure si irritano del fatto di non potersi sottrarre alla sua potenza o al suo dominio, e giungono talvolta finanche a fabbricare dei sistemi nei quali a Dio non resta né potere, né giustizia, né provvidenza. I veri Cristiani, al contrario, mettono tutta la loro felicità in un rapporto intimo con Dio e, quando sembra che a loro si nasconda, se ne lamentano nelle lacrime (Berthier). – Qui c’è il pianto doloroso di un’anima oppressa da una lunga e violenta tentazione. Due mali ci affliggono nella tentazione: i cattivi desideri della volontà e le tenebre dell’intelligenza; quando questi cattivi desideri ci opprimono, Dio sembra dimenticarci ed abbandonare la nostra anima; quando le tenebre oscurano la nostra intelligenza, allora Dio volge da noi la faccia (Bellarm.). – Questo oblio di Dio, questo voltare il capo, sono sovente un effetto della sua bontà.

ff. 2. Colui che è uscito dal porto va errando qua e la verso l’avventura; colui che è privato della luce va urtando tutti gli ostacoli; così colui che è caduto nell’oblio di Dio, è continuamente in preda alle preoccupazioni, all’inquietudine, al dolore. Uno dei mezzi più propri per ricondurre gli sguardi di Dio su di noi, è l’essere abbandonati agli affanni cocenti, consumati dalla tristezza, e riflettere nelle lacrime sulle cause di quest’allontanamento di Dio (S. Chrys.). – Questo è il quadro di un’anima agitata e turbata: una folla di pensieri l’assalgono, come Giobbe (XX, 2), e lo trasportano da ogni lato, come i flutti di un mare agitato dalla tempesta. « Perché siete turbati – diceva Gesù ai suoi discepoli – e perché tutti questi pensieri si levano dai vostri cuori? » (S. Luca XXIV, 38).

ff. 3. – Il demonio e la tirannia della cattiva abitudine sembrano talvolta stravolgerci. Non bisogna in questo stato però perdere la fiducia, ma ricorrere a Dio con nuovo fervore. Cosa significano queste parole: « io non l’ho avuta vinta » se non che il mio nemico, che non ha nessuna forza per se stesso, nonostante ciò sia stato più forte di me. Sono i nostri difetti che costituiscono la sua forza, che aumentano la sua potenza e lo rendono invincibile (S. Chrys.). – Se voi vi ripromettete che alfine arriverà il tempo di pensare alla salvezza, senza pensarci fin da ora, ah! … ricordate che è per questo che tanti peccatori sono fin qui periti, e che è essa la grande via che porta alla morte essendo in peccato; ricordatevi che il peccatore, anche se lo desidera spesso ma invano, non si converte mai. Più sentirete anzi in voi questi sterili movimenti di salvezza, più farete sì che la vostra misura si colmi di più, ed ogni grazia disprezzata vi avvicinerà ad un grado maggiore di indurimento. Dite spesso al Signore con il Profeta: Fino a quando, o mio Dio, illuderò le inquietudini segrete della mia anima con vani progetti di penitenza? « Quandiu ponam consilia in anima mea »? Fino a quando vedrò trascorrere rapidamente i giorni della mia vita, promettendo al mio cuore, per calmarne i disordini, un dolore ed un pentimento che si allontana sempre più da me? « Dolorem in corde meo per diem »? Fino a quando il nemico prevarrà sulla mia debolezza? … si servirà di un errore così grossolano per sedurmi? « Usquequo exaltabitur inimicus meus super me? » Esaudite oggi, o mio Dio, questi desideri di salvezza, oggi in cui mi sembra che la vostra grazia li renda più vivi e sinceri: « Respice et exaudi me, Domine, Deus meus » (Bourdal).

ff. 4. –  Il Profeta parla qui degli occhi del cuore, e chiede che essi non siano mai chiusi a causa dei funesti diletti del peccato (S. Agost.). – Il peccato è nello stesso tempo un sonno ed un sonno di morte. Qual analogia tra il sonno ed il peccato, la morte dell’anima, e la morte del corpo! (Leblanc). – La morte di cui il Re-Profeta chiede qui di essere preservato, è la riprovazione, la perdita eterna di Dio, della quale è causa il peccato. Ciò che preserva da questa morte, è la luce della grazia; e ciò che è incompatibile con questa morte è questa stessa luce (Berthier). – Quanto è necessario fare a Dio questa preghiera: « rischiarate i miei occhi, etc. ». Non c’è forse alcun uomo al mondo che non abbia un recesso in cui tema che si faccia luce. Ci sono forse per questo tante ragioni individuali, ma malgrado questa varietà, il fatto non è meno universale. Quasi tutti noi ne ignoriamo le ragioni, perché forse piuttosto è uno di quegli istinti che vivono nel fondo della nostra natura corrotta. L’oracolo segreto ci dice che se noi penetriamo in questa piega del nostro essere, noi avremo modo di far fremere la pigrizia o la mancanza di mortificazione; il fascino della devozione a buon mercato o dell’amore dei nostri comodi, sarà infranto, e noi ci troveremo faccia a faccia con qualche necessità incresciosa, forse con il dovere e gli obblighi di una rivoluzione interiore completa, sotto pena di restare scontenti di noi stessi. Così noi lasciamo questa parte del nostro interno scrupolosamente chiusa, con la porta sbarrata e in solitudine di questi appartamenti dei quali si evitano i ricordi, o questi cassetti nei quali si sono depositati tanti rifiuti ed anticaglie che non si ha la forza di rimettere in ordine e di ripulire (S. Faber, Confér. Spirit. Simpl.).

ff. 5, 6. – Il demone, sapendo che la maestà di Dio è inaccessibile alla sua collera, smuove il cielo e la terra per suscitare dei nemici tra gli uomini che siano suoi figli. Egli crede così di vendicarsi di Dio; e siccome non ignora che non ci sono risorse per sé, egli non è capace se non di questa gioia maligna che perviene ad un malvagio nell’aver dei complici, e ad uno spirito malefico di vedere dei miseri e degli afflitti (Bossuet, S. sur les Dem.). – Vi è più gioia in cielo per un solo peccatore che fa penitenza, che per novantanove giusti che non ne hanno bisogno. Ugualmente c’è più grande gioia nell’inferno per aver perso qualcuno dalla pietà eminente, che per aver portato dei peccatori a commettere nuovi crimini. È quello che un profeta chiama « carne scelta e deliziosa » (Habac. I, 16). – Il mondo stesso è incantato nel poter essere autorizzato nei suoi disordini con gli esempi e le cadute di persone di pietà, dei Pastori dei popoli (Duguet). – Quale buona opera porta il Re-Profeta a sostegno della sua preghiera? Quali sono i suoi titoli? Che gli altri – egli dice – portino altri motivi; per me io non so che una sola cosa e non voglio dire che una cosa: è in Voi che ripongo ogni mia speranza; non c’è che questa speranza che possa liberarmi da sì grande pericolo (S. Chrys.).

ff. 7. – La gioia dei giusti è ben diversa dalla gioia dei malvagi. La gioia dei malvagi è la rovina di quelli che si lasciano andare alle sue suggestioni ed insieme la causa stessa della loro gioia; l’altra è un principio di salvezza e di vita per colui che essa riempie dei suoi trasporti (S. Chrys.). – Unico e solido soggetto di gioia, è la salvezza che Dio ci procura, la giusta riconoscenza che è dovuta a Dio quando ci ha soccorso: riconoscenza interiore, riconoscenza del cuore, esaltato dal trasporto della gioia; riconoscenza della bocca, espressa dai cantici di lode. (Duguet).

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-4B-)

LE BEATITUDINI 4B

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO QUARTO (4B)

Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia

III

COME VENGONO SAZIATE QUESTA FAME E QUESTA SETE

OMBRA E LUCE

Non è a dire, che nella esistenza presente noi dobbiamo rimanere del tutto ansiosi e torturati dalla fame e dalla sete di bene. Ciò che può esaurirci nella privazione può essere soltanto la indolenza della volontà; ma se questa è sveglia, possiamo, con l’aiuto di Dio, ritenerci in grado di appagare quanta fame o quanta sete per avventura ci arda. Vi sono certo i disgraziati, che non avvertono tale nostro bisogno. Costoro, distratti da altre inferiori avidità, sono destinati, come i malati d’inappetenza fisica, alla morte per inanizione, per esaurimento delle loro forze naturali. Si consumano senz’avvedersene. Vanno verso un disfacimento fatale, e non ne hanno la sensazione. Spiriti sviati dalle vanità, dalle passioni della superbia, dell’avarizia, della lussuria in tutte le varie forme, credono, o si illudono, di saziarsi e il loro organismo ha bisogno urgente di ben altro nutrimento. Che cosa li scuoterà da codesta apatia, dalla insensibilità e dalla disfatta? Solo un intervento misericordioso del divino Amore. – Il quale sa trovare nelle stesse esperienze del disordine o nelle sventure o nelle angosce intime, la forza del risveglio provvido da cui altre numerose anime sono uscite in una rinascita insperata. – Scrisse il P. De Grandmaison ad un’anima, che avvertiva appena l’intima urgenza di Dio, questa pagina delicata e luminosa. « Uno dei punti più importanti è quello di rassicurare la vostra giovine amica sul valore reale dei sentimenti e degli istinti d’ordine religioso, che essa prova. È veramente assai delicato discernere con sicurezza, nel complesso d’uno stato d’animo, ciò che viene da noi, ciò che viene da Dio, ciò che potrebbe venire dal demonio. Ma è assai più agevole vedere, che questa tendenza, possente e sentita, che aspira al bene, al riposo dello spirito, all’ordine, alla pace, è l’espressione chiara della nostra esigenza fondamentale, della nostra naturale e necessaria destinazione. Essa prende sovente anche per noi la forma d’un sentimento (poiché noi la avvertiamo soprattutto nei momenti in cui la nostra sensibilità è commossa o affamata), una cosa certamente grande, assolutamente ragionevole e di sovrana importanza. È l’appello di un essere intelligente alla Saggezza capace di illuminarlo, l’appello d’un essere morale alla Regola d’ogni retta azione e alla Potenza buona, che sia in grado di renderci possibile questa azione, l’appello di un essere di desiderio al Bene supremo: è il « motus naturalis crearæ ad Creatorem, » di cui parla san Tommaso. Il sentimento propriamente detto non è qui che lo stimolo svegliatore del nostro spirito e la guida sulla strada che mena a Dio ». (Lebreton – Le Pére L. De Gr., p. 360).

GUSTO DI DIO

Il Signore, per verità, arriva alle anime sovente per via di questo senso irresistibile di bisogno di Lui, velato dietro l’indecifrabile carenza di qualcosa, il brivido di una vicinanza misteriosa, il vuoto e il pericolo che esso rappresenta per lo spirito che necessita di un appoggio, di una protezione, di un punto fermo nell’agitazione di mille stimoli disorientanti nella visione della vita. – Il bisogno di Dio, il desiderio di Dio è una gran forza spirituale. È la provvida fame e sete, che guida, come l’istinto d’un cieco ai margini della strada, alla agognata e ineffabile pace. Non si tratta di sentimentalismo, ma di puro e casto sentimento, solido energetico da cui la vita dello spirito può sovente svegliarsi in forme concrete e saldissime. È la forza stessa di Dio, che agisce attraverso la nostra natura fragile, ma capace di secondare gli inviti d’un amore senza misura. Dalla ricerca spontanea di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo, si arriva al gusto di Lui nel suo servizio. Qui occorre qualche dilucidazione. – Il citato Padre De Grandmaison, uno degli spiriti più fini e robusti, che la Compagnia di Gesù abbia donato all’attività della Chiesa in forme stupende di apostolato, dice ancora come debbasi intendere questo piacere di Dio. Questo gusto non è sempre inebriante e delizioso, ma è sempre puro e sostanziale. – Non bisogna considerare quello stato che si dice di « fede pura » come uno stato normale. Esso è piuttosto una prova eccezionale d’una vita spirituale fervente. Né si devono ambire soltanto le consolazioni sensibili, come fanno certe anime sempre ai primi passi, sempre bambine, instabili e un poco sensuali pur nell’ambito spirituale, né si deve considerare il soprannaturale come qualcosa di arido, di freddo per essenza. Il fatto è che anche questo contatto sovrannaturale presenta il suo piacere, il suo gusto purissimo di Dio e del suo servizio. E in ciò sta un poco la ricompensa accordata all’apostolo quaggiù (ivi, 322). « Così voi non siete più « vostri » come dice san Paolo, ed è la condizione necessaria, ma sufficiente, se la nostra intenzione è retta, per essere di Dio. Io vorrei, che voi gustiate questo, che voi ne sentiate la sicurezza, la solidità, la fecondità di ogni bene; questo è davvero praticare la lezione del vostro Signore, e imitare il suo esempio. Questo è collaborare alla sua opera e rendersi veramente graditi al suo cuore » (ivi, 323).

ALFIERI DELL’AMORE

L’apostolo, vale a dire il Cristiano integrale, sa trovare la via giusta per svegliare questo senso di Dio, dietro il mistero della vita, e coltivarlo secondo le norme suggerite dalle circostanze personali del soggetto; ma più conforme alle norme dell’amore di Dio e del prossimo. E quali soddisfazioni riserba il Signore ai suoi operai. – Un laico, di molto valore anche come Cristiano, Luigi Veuillot, il quale fu un prode delle» battaglie per Dio e per la verità religiosa, benché non senza accentuazioni e scontrosità, esamina il problema della conversione dei miscredenti. Egli riconosce, che noi siamo troppo facile vittima dello spirito di adattamento. « Noi dobbiamo aver cura di difenderci soprattutto contro questa tiepidezza, che ci fa, fuori di Chiesa, essere della gente onesta, ma non dei Cristiani. Volete voi predicare con frutto? Evitate tre cose: l’oscurità, l’enfasi e il rigorismo. In ogni tempo gli uomini furono presi dal cuore, più che dall’ingegno vivace ». – Il tono modesto e penetrante è già un argomento efficace, poiché dà la misura della intima tranquillità e della convinzione profonda. E le cose dette in quel tono sono necessariamente chiare e diffusive. Hanno con sé la presunzione della verità. Il cuore fa da lubrificante e con esso in azione, le idee camminano e conquistano le intelligenze. Il cuore fa i Santi più capiti dal pubblico e più seguiti. E le anime conquistate così sono poi riconoscenti per sempre. Il tesoro posseduto è tanto prezioso. Ma soprattutto siamo riconoscenti noi al Signore d’avere allargato il campo delle sue prede e assicurato al suo Regno qualche altro operaio di quelli consapevoli e decisi di mettersi essi pure all’utile fatica. – Quando l’apostolo si raccoglie in se medesimo per esaminare i risultati della sua offerta al Signore, sovente si sente mesto e umiliato. Tanto poco per un sacrificio così intero e generoso. Eppure egli ha prodotto e ha seminato. Le gocce del suo sudore sono cadute nel solco e hanno fecondato dei semi. « Semen ejus qui diligit Deum, non corrumpet » (Eccli, XLVII, 24). E il seme gettato nelle anime dei prossimi è pure una sorta di generazione, che Dio rispetta, non solo, ma moltiplica.

IV

L’ESPIAZIONE PLACA

Chissà perché noi abbiamo una così irresistibile ripugnanza per il dolore, mentre l’esperienza ce ne mostra ogni dì la potenza di vita. Dovremmo, dopo tanti secoli, esserne talmente convinti, da non lagnarcene più, come d’una cosa almeno inevitabile. Ci lagniamo seriamente del freddo o del caldo? Procuriamo di difendercene; ecco tutto.

REALTA’ DELL’ESPIAZIONE

Nondimeno il dolore, che ci accompagna e che tanto ci pesa, ha una sua funzione capitale nella vita dello spirito. Nella sofferenza si tempra il metallo del. la nostra giovinezza; nel dolore maturano i successi della nostra virilità; attraverso il male, sopportato con animo robusto, si raggiungono i beni consolanti e sereni della età matura, quando fa piacere l’osservare la durezza della strada percorsa e il segno della vittoria ci sorride intorno. Chi ambisce un risultato o un fine da raggiungere e chi ha posto una ragione a capo della propria esistenza, e per essa intende vivere, costui deve affrontare il dolore e superarlo da bravo. La giustizia è appunto la volontà di Dio su noi. – Il pianto è un dono divino, « che lava e discende alle radici dolenti e malate della vita ».  Ecco una bella definizione. Ma bisogna integrarla con il sale del soprannaturale, per cui le radici dolenti e malate, servono ad espiare il male commesso e che ha fatto ammalare e dolere la nostra vita. Se no, che cosa varrebbe mai essa? Infatti, perché il dolore umano avesse un pregio vero, occorse che il Signore Gesù si vestisse della carne di peccato e, attraverso le sofferenza, espiasse e lavasse la colpa. – Quante anime nei secoli cristiani hanno capito questa sovrana dottrina! Ce ne furono che lo vollero e lo gustarono sino alla feccia, per assomigliare al divino Redentore dell’umanità. – È facile blaterare di gioia. Bisognerebbe sopprimere i dolori morali, quelli fisici di tutte le misure e di tutti i tipi e poi sopprimere la morte che ne è il risultato o, a dir meglio, la cagione. Ma le ideologie più ottimiste, che han tentato di portare l’uomo ad uno stato di natura, conforme ai sogni dell’età dell’oro, non han potuto sopprimere le lagrime dal ciglio delle madri, non disseccare i cuori dei genitori e neppure indurire la sensibilità verso i prossimi sofferenti. Gli uomini si sono ribellati, a questa costruzione barbarica ed hanno voluto soffrire. Si è che dal Cristianesimo ebbero il succo vitale dell’amore divino, per santificare e mettere in valore le loro lagrime. Appresero a soffrire con Cristo e per Cristo. Sicché seppero persino godere del dolore più acre e lacerante, non certo per averlo soffocato, ma per averlo elevato al livello del dolore dell’Uomo dei dolori.

COME IL DOLORE SERVE

Santa Chantal perciò scrisse alle sue figliole espressioni di un altissimo tono morale, degne veramente della donna ch’essa fu. « Soffrire per Dio è il nutro nutrimento dell’amore in terra, come godere Iddio è l’alimento dell’amore in cielo ». « Soffrire è quasi il solo bene, che noi possiamo fare in questo mondo… un’oncia di pazienza val di più che una libbra d’azione ». « Infatti è più difficile soffrir bene, che operar bene; noi mescoliamo meno amor proprio, meno sollecitudine, meno umano nelle nostre sofferenze, che nei nostri lavori ». Questa ultima frase è di Augusto Saudreau, un autore spirituale, che ha ben studiato il pregio del sacrificio per la elevazione dell’anime. – E questo i nostri Santi sanno fare con l’anima in letizia. Ancora la Chantal scrisse, che « i figli d’Israele non poterono cantare a Babilonia, perché pensavano alla patria (lontana); ed io vorrei che noi cantassimo dappertutto ». – Noi abbiamo tanti doveri da sopportare e compiere. Dobbiamo espiare i nostri falli. Sono molti sempre e contano sulla bilancia della giustizia di Dio. Se vogliamo saziarci di giustizia, paghiamo per primo il debito personale con quella divina. – Soddisfatto il conto personale possiamo sentire il dovere di espiare per altri, che tengono un conto tale da soffocarli, per il suo peso. Antonietta de Geuser, la « consumata », sotto il torchio della sofferenza fisica e spirituale, scriveva: « Sono sempre più persuasa, essere volere di Dio, che io sia identificata a Gesù-Redentore e Crocifisso… Ma non mi arresto alla Croce… Il mio ringraziamento mi spinge fino al seno del Padre Celeste e in Lui riposo abitualmente… Non vedo che Lui… Lui solo è il mio Tutto… Egli è pienamente Dio perché in Lui trovo pure il Verbo e loSpirito Santo.

INCANTO DI OBLAZIONE

« È veramente la « vita nascosta in Dio con Cristo » di cui parla l’epistola del giorno in cui sono nata… « Nascosta in Dio »… Perché ogni cosa avviene nel seno del Padre e in piena unione con Lui… « Con Cristo »… perché se il Padre mi ha unita a sé così pienamente, l’ha fatto per poter poi continuare in me l’Opera della Redenzione e per trasformarmi in Cristo Crocifisso… Egli vuole che la mia vita sia come la Messa; una continuazione del Sacrificio della Croce… Per ciò Egli sospende per me, come ha fatto per Gesù, l’effetto di questa unione, che sarebbe di riempirmi l’anima di delizie; affinché io possa ancora patire in me per la gloria del « Padre Nostro ». Questa è una Croce ben pesante, ma è soprattutto la piena felicità, la piena pace, perché è l’unione piena e in conseguenza la pienezza di gloria per Lui… – Per me è il Cielo anticipato, Cielo doloroso, è vero, quanto più soffro, tanto più sono felice, perché mi sembra che ogni nuovo patimento gli procura un accrescimento di gloria e di contentezza ». Né è lecito porre in dubbio la sincerità di queste affermazioni di letizia. Non è questa una isolata nel cielo stellante della mistica cristiana. È una fra le più recenti manifestazioni di uno stato d’animo, che ci rivela per quale via le anime si vanno, anche quaggiù, saziando la fame e la sete di giustizia. Viene pertanto in noi, una acuta melanconia mentre dobbiamo essere testimoni di nuovi tentativi di misconoscere la potenza consolatrice, quindi profondamente umana, della Religione di Cristo. Una esperienza ben triste viene oggi imposta a parte dell’umanità. Ma la prova ridarà la vittoria a Colui, il quale, anziché una umiliazione, impose un altissimo colpo d’ala alla nostra coscienza, portandola così alto, che i più pesanti e terreni degli uomini, non sapendovi mantenere quota, vogliono tornare nelle paludi d’un tempo e, peggio, trascinarvi moltissimi con la violenza e contro la volontà. Però gli esperimenti umani passano e Cristo resta. – E intanto beati, se avete sempre più fame e sete di giustizia. Sarete saziati. Ve lo assicura il Signore. Le vostre anime ne saranno pasciute e rinvigorite. La pinguedine dello Spirito Santo vi arricchirà di attitudini al sacrificio per il Regno di Dio. Ne avrete tale abbondanza da esigere lo sbocco dell’apostolato verso quanti vi accostano nella vita di ogni giorno. Terrete, secondo un’espressione di santa Caterina da Siena, il vostro cuore in alto e splenderà come una lampada. Ed è certamente una bella promessa una vita spesa così.

V.

VOLGERE LO SGUARDO DEI GIOVANI VERSO LA GIUSTIZIA

SENSO SPONTANEO

Nei giovani è vivo il senso della giustizia. L’assorbono prima dal sentimento di Dio, dalla sua presenza, dalla conoscenza della sua legge, dal senso del premio e del castigo implicito in ogni parola, che si riferisca a Lui; poi dalla ragione, allorché agisce su gli avvenimenti della vita iniziale. Istintivamente anche il bimbo si lagna di una supposta ingiustizia della mamma. « A me no, a quello sì ». E bisogna secondare questo sentimento così conforme alla volontà di Dio in ogni cosa. Guai se dimostri minor desiderio di tenere in considerazione un simile senso! Sarebbe come spogliare di ogni giustificazione la legge del bene; vuotare di contenuto la stessa volontà del dovere, che guida l’educazione. Se il fanciullo s’avvede di certe astuzie, intese ad eludere il giusto, a sottrarre l’altrui, ad approfittare della roba non nostra, a mancare di onesto riconoscimento dell’altrui merito, ad acquistare benevolenza per vie traverse, è finita per l’educatore. Tutte le sue industrie saranno squalificate da certe risposte od osservazioni della coscienza immatura, ma sufficientemente perspicua, e quegli non avrà modo di sostenersi. – Pensi la mamma educatrice, che accendere bene questa fiamma ideale per le cose fatte a dovere, secondo il precetto e la legge, è garantirsi una continuità di condotta delicata nella disciplina e robusta nella solida convinzione delle alte finalità della vita d’ogni uomo. È la dignità umana che ne trae sostegno, autorità e vigore. Un appoggio insuperabile per la stessa parola della madre; un riferimento efficacissimo per le necessarie inibizioni o per i comandi, che in ogni età si impongono sovente. Un senso ben fermo della giustizia, rispettato e fecondato dall’esempio d’ogni momento, costituisce la roccia infrangibile d’appoggio per tutti i giorni della vita. A incoraggiamento del bene e a costrizione e arresto del male.

LA ISPIRATRICE  DELLE STUPENDE COSTRUZIONI

Che cosa ha alimentato le grandi anime dei filantropi Cristiani, degli amici dell’uomo colpito dalle miserie e dal bisogno? Quale fu l’intimo e segreto stimolo alle loro inaudite fatiche, ai loro fecondi lavori, alle intraprese audaci per cui divennero oggetto di meraviglia e furono celebrati e lo sono ogni giorno ancora? Uno spiccato senso della giustizia dovuta a Dio e agli uomini. La carità dello spirito ai deboli e agli ignari, la preparazione alla esistenza secondo le leggi divine. Leggo una pagina della vita della Ven. Madre Cabrini. « Francesca era donna di idee chiare e ferme, che poi metteva in atto con la tenacia paziente dei costruttori; tutto il suo immenso lavoro si può riportare, per l’ispirazione ai semplici pensieri della bambina provinciale e della maestrina di campagna. Anche per lei si avverò quella bella espressione di uno scrittore psicologo, secondo cui una grande vita non è che un pensiero della giovinezza messo in atto dalla maturità. La semplicità essenziale delle idee si univa, nella sua pratica indole, a una volontà diritta e virile, che non si smorzava per alcuna difficoltà. Ritraeva in questo del solido carattere della gente lombarda, popolo di dissodatori di terre e di fondatori d’industrie ». (Nello Viari). – Vedi, che il primo ideale di bene accesosi nella puerizia, attraverso la conoscenza di Dio buono e giusto con devoti e peccatori, si venne maturando in opere da stupire il mondo. Un governo con i suoi infiniti mezzi non sa organizzare tante iniziative di bene su quasi tutti i continenti e così saldamente compaginati, come seppe fare questa valida donna. Ma un grandissimo ideale di giustizia le scaldò il cuore, mentre gli uomini comuni ben altro hanno per il capo. – Quando Ignazio di Loyola ebbe fra le mani la Leggenda Aurea di Giacomo da Varazze, sentì il suo spirito svegliarsi, come allorché attaccava il nemico in battaglia. Esso « Non era orientato alla teologia; ma era aperto alla grandezza e sprezzante del mediocre » scrive Igino Giordani, l’ultimo suo biografo. Aveva dentro urgente il gusto delle cose giuste verso gli uomini, nasceva allora quello verso Dio. E sulla strada non si arrestava per difficoltà sopravvenute. Da questo gusto elevato e stimolato dalla grazia venne il fondatore della Compagnia, che da Gesù si chiamò per distinguersi dalle altre delle quali Ignazio aveva fatto sino allora parte valorosamente. Bisogna pensare al vantaggio d’un’anima giovanile, avvivata da un grande ideale. La vita non le si presenta innanzitutto come una occasione di godimento, ma come il tempo prezioso di attuazioni nobili, di sogni di virtù, di visioni di bene per i propri fratelli.

TUO FIGLIO SARA’ « QUALCUNO »

Le seduzioni mondane gli si attenuano davanti appena apparse; le illusioni del piacere gli si offuscano a contatto dello splendore del suo pensiero prediletto. Diventare buono, rinvigorire la volontà, attuare il bene dentro di sé per farsi tutto di un pezzo a servizio della giustizia, della virtù, del dolore umano. Fiamma di fuoco divino, vampa di amore del prossimo. La vita si presenta all’adolescente come cosa degna di essere virilmente vissuta. – È chiaro, che un giovane così formato saprà anche soffrire per una causa sì alta. Saprà tollerare i disagi, che importa la sua intima battaglia per la giustizia, la quale coincide con la bontà e il dovere morale; ma saprà altresì sopportare le difficoltà e le opposizioni, che egli stesso provocasse con la sua volontà decisa e attiva nell’attuazione del bene. Sarà « qualcuno » una forza, una volontà retta e proiettata verso le mete più alte della vita. Sarà un esempio, una bandiera, un simbolo. Nella misura della sua fedeltà all’ideale, da cui fu illuminata la sua giovinezza, risplenderà egli stesso e verrà ammirato da quanti alla giustizia tendono sinceramente. – È da ricordare in fine, che la vera giustizia deve essere animata dalla carità. Non mai usare d’una bilancia troppo rigida, trattandosi del prossimo non segnare ogni oscillazione. Chi agisse così non si rammenterebbe d’essere fallibile e fragile e bisognoso di molto compatimento sempre. Falli ne possiamo tutti commettere senza numero. Importa saper usare indulgenza. E ogni qualvolta interviene il pentimento e la volontà di riparazione del male commesso, usarne molta. – Una giustizia letterale e misurata senza una viva vena di pietà non è quella ispirata da Cristo. « Mendaces fìlii hominus in stateris — i figli degli uomini sono bugiardi con le loro bilance » Sal., XLI, 10). Si noti, che con la lampada ardente dell’ideale di giustizia, che vogliamo accendere e far divampare nelle anime giovanili, non si intende farne dei sognatori. V’è differenza tra il sognatore e lo spirito caldo di questi sogni corrispondenti al comandamento divino. Noi vogliamo, che la base naturale di questo sia amplificata e bruci di tale fiamma, da divenire energia di virtù. L’elemento istintivo della buona natura, quella che contaminata dal primo peccato, venga sviluppato nel suo senso migliore; poiché questo coincide con la divina volontà. È non tanto una forza lanciata verso l’irreale, ma una facoltà dello spirito aperto verso le cose sane e nobili. Questa apertura ci interessa affinché sia stimolo e alimento di virtù. L’età giovanile ne ha bisogno, ne è avida, e perciò è facilmente deviata da falsi miraggi. Per questo cerchiamo di nutrirla di saggezza evangelica e di avviarla verso le realtà che Dio fa brillare alla nostra mente e di cui ci fa avvampare tutto il cuore. Giovinezza cresciuta nel solco segnato da Colui il cui Cuore sognò il migliore sogno della storia: fare gli uomini capaci di perfezione.

SALMI BIBLICI: “SALVUM ME FAC, DOMINE” (XI)

SALMO 11: “Salvum me fac Domine”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.


Salmo 11: Salvum me fac, Domine

In finem, pro octava. Psalmus David.

[1] Salvum me fac, Domine,

quoniam defecit sanctus, quoniam diminutæ sunt veritates a filiis hominum.

[2] Vana locuti sunt unusquisque ad proximum suum; labia dolosa, in corde et corde locuti sunt.

[3] Disperdat Dominus universa labia dolosa, et linguam magniloquam.

[4] Qui dixerunt: Linguam nostram magnificabimus; labia nostra a nobis sunt. Quis noster dominus est?

[5] Propter miseriam inopum, et gemitum pauperum, nunc exsurgam, dicit Dominus.

[6] Ponam in salutari; fiducialiter agam in eo.

[7] Eloquia Domini, eloquia casta; argentum igne examinatum, probatum terræ, purgatum septuplum.

[8] Tu, Domine, servabis nos, et custodies nos a generatione hac in æternum.

[9] In circuitu impii ambulant: secundum altitudinem tuam multiplicasti filios hominum.

SALMO XI

[Vecchio Testamento secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI, Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

Le parole degli uomini, per lo più, son fallaci; quelle di Dio vere e fedeli. È dunque da confidar in Dio non negli uomini.

Per la fine, per la ottava, salmo di David.

1. Salvami, o Signore, dappoiché non riman più un santo; dappoiché la verità è venuta meno tra’ figliuoli degli uomini.

2. Hanno parlato ciascun di loro con bugia al suo prossimo;

3. labbra ingannatrici hanno parlato con doppio cuore.

4. Stermini il Signore tutte le labbra Ingannatrici e la lingua altitonante.

5. Eglino han detto: Noi colla nostra lingua farem cose grandi; delle nostre labbra siamo padroni; chi è che ci comandi?

6. A motivo della desolazione de’ miserabili, e pe’ gemiti de’ poveri, adesso io mi leverò su, dice il Signore. Lo stabilirò nella salute; agirò liberamente per lui.

7. Le parole del Signore, parole caste, argento passato pel fuoco, provato nel crogiuolo di terrà, raffinate sette volte.

8. Tu, o Signore, ci salverai; e ci difenderai da questa generazione di uomini in eterno.

9. Gli empi van girando all’intorno; secondo l’altissima tua sapienza tu hai moltiplicati i figliuoli degli uomini.

Sommario analitico

Preghiera di Davide rinchiuso nella città di Ceila. Quando Saul dice: il Signore lo ha liberato dalle mie mani; egli è rinchiuso perché è entrato in una città dove ci sono porte e serrature (I Re, XXIII, 7).

Davide dichiara:

I. – Che egli non poggia le sue speranze sugli uomini:

1) Perché sono tutti oppositori della volontà di Dio:– a) nella loro volontà, per cui rigettano la santità; b) nella loro intelligenza, dove tutte le virtù vengono alterate (2); c) nei loro discorsi, che non sono altro che vanità e menzogna; d) nei loro cuori, ove tramano ogni sorta di frode (3).

2) Perché essi saranno puniti da Dio: a) a causa delle loro menzogne e delle loro falsità; b) a causa del loro orgoglio e dell’arroganza nei loro discorsi; c) a causa delle loro bestemmie e dell’indipendenza che ostentano davanti a Dio (4).

II. –  Egli ripone la sua fiducia interamente in Dio solo, che viene in soccorso agli oppressi, perché vi è determinato:

1. dallo spettacolo della loro miseria e della loro afflizione; 2) dai loro gemiti e dalle loro preghiere (5); 3) dalle sue promesse, di cui David esalta la sincerità e la fedeltà, di cui mostra gli effetti. – a) per la protezione che accorda ai giusti (6-8); b) per la repressione degli empi, condannati a girare in cerchio, senza mai avanzare; c) per il moltiplicarsi dei suoi veri servitori, o se si vuole, per il moltiplicarsi dei malvagi, che permette nella profondità dei suoi segreti (9).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-4.

ff. 1. –  Mai i Santi, mai i veri Cristiani, gli uomini di fede e di carità, furono meno numerosi. All’incontrario di ciò che diceva Tertulliano nella sua Apologetica, questi sono i veri fedeli che oggi dovrebbero spaventarsi della solitudine nella pratica dei doveri del Cristianesimo, la frequentazione dei nostri templi, la partecipazione ai Sacramenti, etc. – I Santi sono mancanti o spariti, vale a dire che i Santi stessi che esistevano sono stati affetti dal progresso dei vizi e sono caduti nel male che li ha coinvolti. « Non sapete, diceva San Paolo (I Cor. V, 6), che un po’ di lievito è sufficiente a corrompere tutta la massa? » (S. Chrys.). – Saremo arrivati a questi tempi maledetti di cui il Signore ha detto: « Pensate che il Figlio dell’uomo, quando verrà sulla terra, vi troverà ancora la fede? » (Luca XVIII, 8). – La virtù è cosa difficile e che presenta delle serie difficoltà, soprattutto quando chi la pratica è solo e senza compagni di viaggio. La società è l’unione dei fratelli tra loro vi è un potente incoraggiamento. Ciò che rende gli antichi Patriarchi degni di ogni elogio, non è il fatto che essi abbiano sempre seguito il cammino della virtù, ma che essi abbiano proceduto da soli, quando sulla terra non si vedeva alcun germe di virtù, alcun uomo che ne seguisse le prescrizioni (S. Chrys.). Condurre una vita innocente lontano dalla comune corruzione, non è una prova tanto difficile affinché Dio conosca la fedeltà dei suoi servitori; ma il lasciarli con i malvagi e far loro osservare la giustizia; far respirare loro la stessa aria e preservarli dal contagio; lasciarli in mezzo agli esterni rompendo il rapporto interiore: allora l’opera è degna della sua potenza, e la prova è degna dei suoi eletti (Bossuet). – Il piccolo numero di Santi, di veri Cristiani, è la vera tentazione per quegli stessi che sono di questo numero. La ferma risoluzione di far ciò che quasi nessuno pratica, è una virtù tanto più meritoria quanto meno comune (Duguet). – Salvatemi, Signore, perché l’iniquità si è moltiplicata tra i figli degli uomini, e « non si vedono dei Santi ». Tutto è pieno di questi chiamati che non vogliono non solo pensare che alla loro vocazione, né ricordarsi di essere Cristiani (Bossuet). – In quale secolo, più del nostro, può dirsi che la Santità sia spenta, che le verità siano sminuite? Verità dogmatiche, verità morali, verità naturali, verità sociali, etc., sono l’oggetto di contraddizioni senza numero e di negazioni audaci. – Non bisogna persuadersi che il Profeta si lamenti qui degli infedeli e degli idolatri, questi non sminuiscono solo le verità, ma le disconoscono; egli si lamenta qui dei Figli di Dio, che non le possono intendere a causa della loro evidenza, le ritrattano e le adattano al grado delle loro passioni. Perché il mondo non ha cominciato ad operare una distinzione tra i vizi? Noi volentieri ci lanciamo nell’esecrare e nell’odiare l’avarizia, la crudeltà, la perfidia. Mettiamo in onore però, come delle passioni delicate, i vizi delle persone dabbene. Ma cosa sciaguratamente intraprendiamo? Gesù Cristo è forse diviso? Da dove viene un sì grande disordine se non dal fatto che le verità sono sminuite? Sminuite nella loro purezza, perché le si falsifica o le si mescola; sminuite nella loro integrità, perché vengono troncate o tagliate; sminuite nella loro maestà, perché mancando di penetrarle, si perde il rispetto che è loro dovuto, si sviliscono, si toglie tutta la loro grandezza che appena vediamo; questi grandi astri non sembrano che un piccolo punto luminoso, tanto li allontaniamo da noi, e così tanto la nostra vista è lontana è turbata dalle nebbie fitte della nostra ignoranza e dei nostri preconcetti (Bossuet, Serm., sur la Pred, Ev.). – Deplorevole è frivolezza dei Cristiani odierni. I nostri dogmi più venerabili, i nostri misteri più profondi, le verità più incrollabili, essi le trovano leggere, indifferenti, quasi irrisorie, e ne fanno un Cristianesimo menomato, « … delle verità sminuite », dei precetti raddolciti, una morale attenuata; nulla di ciò che è grande e forte è alla loro pari, e non conviene al loro affievolimento. – Il salmista ha detto: « … perché è mancato un guadagno, le verità sono state dimezzate, sminuite tra i figli dell’uomo ». Ed io dirò volentieri « Poiché un Santo è apparso, è sorto, le verità sono rifiorite, hanno ripreso la loro forza ed il loro vigore. Si, un Santo riporta la verità ai suoi giorni, la rimette in credito, la vendica, la resuscita, la rende popolare … Un Santo tutto da solo fa indietreggiare tutta la generazione contemporanea, egli ha ragione contro tutti, resta maestro del campo (Mgr. Pie, Pan. De B. Labiée).

ff. 2. – Vi sono due tipi di intrattenimenti che gli uomini tengono gli uni con gli altri, I primi sono per divagarsi, gli altri per ingannarsi. Intrattenersi con notizie più o meno vane e frivole, è l’occupazione più ordinaria di una parte degli uomini. Cercare di ingannarsi, usando per questo degli artifizi e dei mascheramenti, avere un cuore doppio, l’uno secondo ciò che si pensa, l’altro secondo ciò che si dice, è un esercizio non meno in auge dei primi. (Duguet). – Anche Bossuet, nell’elogio ad una pia principessa, faceva questa considerazione: che la vanità e le maldicenze che sottendono a tutte le attività del mondo, gli facevano temere tutti i Cristiani, e che nulla gli pareva più gradevole e sicuro della solitudine (Or. Fun. d’Ann. de G.). –

ff. 3. –  Il profeta non chiede a Dio di perdere questi uomini ingannatori, ma di mettere fine ai loro discorsi iniqui. Non è la loro natura che spera sia annientata, ma il loro linguaggio, la loro arroganza, la loro astuzia artificiosa, il loro orgoglio (S. Chrys.). – Due sono i tipi di peccatori che il Profeta ha qui in vista: gli uni sono i furbi, doppiamente ipocriti, che si contraffanno esteriormente; gli altri, gli orgogliosi, gli insolenti, dichiarati contro le verità della Religione e che cercano di distruggerla con i loro discorsi o con i loro scritti. Il Signore distruggerà un giorno questi discorsi perniciosi, se essi non si correggono. Egli non perde mai i diritti della sua giustizia, e la sua lunga pazienza è come il preludio di un giudizio più terribile.

ff. 4. –  Bisogna aver perso il senso e la ragione per tenere tale linguaggio … le vostre labbra non sono vostre ma del Signore. È Lui che le ha fatte, le ha disposte ed ha dato loro vita. Malgrado ciò queste labbra sono le vostre. Sì, senza dubbio, ma tutte le cose che abbiamo non ci appartengono. Non abbiamo noi tra le mani il denaro il cui deposito ci è stato affidato? Non abbiamo in affitto i campi che ci sono stati dati? Dio ci ha dunque consegnato questi doni per farli fruttare, non ci ha dato l’orgoglio o la frode, ma l’umiltà, la carità (S. Chrys.). – « Le nostre labbra sapranno difenderci da sole, chi sarà il nostro maestro? » O parole diaboliche! Ma come, voi vedete tutta la creazione proclamare l’impero del vostro Signore, la sua saggezza, la sua provvidenza; il vostro corpo, la vostra anima, la vostra vita, tutte le creature visibili ed invisibili sembrano prendere voce per celebrare la potenza del Creatore, e voi dite: « chi è il nostro maestro? » (S. Chrys.) – Pensare, parlare in tal modo significa volersi rendere pari a Dio, come il Profeta rimprovera al re di Tyr (Ezech. XXVIII, 2). – In effetti, dice Bossuet, siccome Dio è la fonte del bene ed il centro di tutte le cose, siccome Egli è il solo saggio ed il solo potente, a Lui compete occuparsi di Se stesso, di rapportare tutto a Se stesso … Quando dunque una creatura si rimira nella sua virtù, si acceca nella sua potenza, si compiace nelle sue attività, si occupa infine interamente delle proprie perfezioni, ella agisce alla maniera di Dio, e malgrado la sua miseria e la sua indigenza, imita la pienezza di questo primo Essere. Così quest’uomo abile che domina in un consesso e raduna tutti gli spiriti con la forza dei suoi discorsi, preso dalla pretesa superiorità del suo genio a gestire gli uomini e gli affari, quando crede che il suo ragionare e la sua eloquenza, e non la mano di Dio, abbia rivoltato i cuori, non dice forse tacitamente: « le nostre labbra difendono noi stessi » e siamo noi che abbiamo trovato queste belle parole che hanno colpito tutto il mondo? (Bossuet, Serm. Sur l’honneur, Elév. XXIII, S. IV, 2). – La profanazione delle più criminali della parola di Dio, è il servirsene per acquisire successo, considerazione, onore con il dono della parola, l’elevazione dei pensieri, la perfezione dello stile; è temerarietà imperdonabile per un predicatore raggiungere la conversione delle anime con i grandi sforzi della sua eloquenza. – L’orgoglio è il carattere saliente della nostra civiltà contemporanea. Da ogni parte della società, librata senza freni all’idea rivoluzionaria, si leva un clamore orgoglioso: « Noi apparteniamo a noi stessi, chi abbiamo come maestro? » È il grido della scienza; essa ha abbattuto il giogo della fede; nel suo nome “indipendenza”, si lancia in tutte le stravaganze, piuttosto che ricevere qualche barlume e qualche direttiva di verità da Dio. – È il grido della morale che rifiuta il punto d’appoggio, il solo possibile, che gli darebbe la legge e la sanzione divina; essa si chiama « morale indipendente », e non è indipendente che da una cosa sola: la virtù. – È il grido della politica: Dio non è più nulla nei consigli della politica umana; l’uomo conduce gli affari e governerà tutto oramai al di fuori da Lui. È stato da sempre questo il grido dei ricchi e dei potenti di questo mondo, allorché Voltaire li ha ricondotti a tutti i soffi della sua audace empietà. È ora anche il grido degli ultimi figli del popolo, che in fondo al loro muoversi, e nel mezzo delle loro orge, non hanno più altra conclusione ai loro inetti ragionamenti, né altri ritornelli delle loro brutali canzoni se non: « … Le nostre labbra ci appartengono, e chi è il nostro maestro? » (Doublet, Ps. Étud. En vue de la Pred. I. 54).

ff. 5. –  I poveri hanno una potenza vantaggiosa, e non è che ai poveri ed ai poveri contriti ed umiliati che Dio accorda il suo soccorso nel mezzo delle loro prove. Le loro sofferenze, le loro afflizioni sono esse sole un appoggio più grande dell’eloquenza, i loro gemiti hanno una forza incomparabile, poiché esse sono sufficienti per attirare il soccorso di Dio (S. Chrys.). – I loro sospiri, i loro gemiti, sono più potenti di qualsiasi credito, di tutte le ricchezze di coloro che li opprimono: li si vede perire, e tutto è muto per essi. Se qualcuno li compatisce, nessuno però li difende. Ma se le loro lacrime cadono dagli occhi a terra, risalgono poi dalla terra al cielo, e arriverà il tempo in cui Colui che sembrava dormire, si sveglierà e si alzerà a prendere la loro difesa (Duguet). – È soprattutto nel gran giorno del giudizio che Dio compirà questa promessa in tutta la sua ampiezza. A causa della miseria di coloro che sono senza soccorso e dei gemiti dei poveri, « … ora, Io mi leverò, dice il Signore ». A sentire Dio parlare così, non si direbbe che il giudizio finale, benché universale, non debba essere che per i poveri e che esso non abbia come termine e fine quello di far loro giustizia? A vedere come il Figlio di Dio, che lo deve presiedere, si comporterà e procederà, non si direbbe che ogni giudizio del mondo debba vertere sulla cura dei poveri, e che da questo debba dipendere assolutamente ed essenzialmente la sorte degli uomini? (Bourdal, Jug. Dern.).

ff. 6. – Qual è il senso di queste parole? Io prenderò la loro difesa apertamente, pubblicamente e in tutta libertà, di modo che tutti ne siano visibilmente testimoni. Talvolta Dio ci salva con il minimo clamore e attraverso vie nascoste, perché Egli nulla ha a che fare con la gloria che viene dagli uomini. Qui invece, come fanno gli oppressori dei poveri, si utilizzano l’insulto e l’oltraggio, ma Egli dichiara che li salverà in modo eclatante, che agirà come Dio e che farà conoscere a tutto il mondo che Egli può e sa punire quando vuole (S. Chrys.). A causa della vostra afflizione, arrivata al limite estremo, a causa della vostra impotenza che confessate con i vostri gemiti, « ora Io mi leverò, dice il Signore »; Io ricostruirò l’edificio secondo i piani che voi non avete concepito; Io metterò la vostra salvezza nelle condizioni che voi non avete voluto. Il Salvatore verrà dalla mia mano e non dalla vostra. In Lui e per Lui Io opererò con fiducia; in Lui e per Lui Io agirò con braccio fermo e non trattenuto.  (Mgr. Pie, tom. VIII, p. 13).

ff. 7. – La parola degli uomini è soggetta a tante eccezioni, a vicissitudini, ad avvenimenti che la cambiano o la alterano, per cui non ci si può fidare assolutamente. Chi, per poco che abbia vissuto, non ha conosciuto per esperienza le volontà cangianti, come dice Bossuet, le parole ingannevoli, le diverse facce dei tempi, le delusioni delle promesse, l’illusione delle amicizie terrene che vanno con gli anni e gli interessi, e la profonda oscurità dei cuori dell’uomo, che non sa mai ciò che vorrà, che spesso non sa bene ciò che vuole, e che non è meno occulto né meno ingannevole per se stesso che per gli altri? (Or. fun. d’Ann. De G.). Non c’è che Dio sempre fedele alla sua parola, perché Lui solo è essenzialmente vero, Lui solo è maestro dei tempi e degli avvenimenti, ed è sempre disposto a dare più di quanto abbia mai promesso. Molti predicano la verità, ma non in maniera pura, perché la vendono a prezzo dei vantaggi del mondo (Fil. I, 17). Questa parola deve essere annunziata invece con purezza, vale a dire senza altro fine se non la gloria di Dio (S. Agost.).

ff. 8. – Occorre avere incessantemente questo sentimento nello spirito e nel cuore: Dio mi conserverà, mi proteggerà sia nel tempo presente, sia nell’eternità. – È da evitare, nello stesso tempo in questa vita, la società dei malvagi, cosa che rappresenta il mezzo più sicuro per essere eternamente al riparo dalla loro corruzione.

ff. 9. – Gli empi marciano in un cerchio di empietà ed errori, nella cupidigia delle cose temporali, cerchio che gira su se stesso come una ruota, senza che possano mai arrivare alla via della verità, nella quale non si gira più (S. Agost.). « Gli empi girano incessantemente in un cerchio »: i bagliori della fede si spegnono e l’autorità di Dio è disprezzata, essi ignorano necessariamente il punto dal quale sono partiti, la ruota con cui girano, e lo scopo al quale aspirano; non tendendo più a nulla, essi non sanno più chi sono, cosa debbano, né cosa vogliano (M. de Buol.. sur l’incréd.). – La loro vita è un cerchio; essi corrono da un errore all’altro, da una voluttà all’altra, e tornano sempre al loro punto di partenza, che è l’oblio di Dio; essi sono oggi ciò che erano ieri, domani saranno come oggi, l’anno venturo come l’attuale. – Convertirsi a Dio e allontanarsi dal proprio peccato, è il maledetto cerchio intorno al quale girano un gran numero di peccatori, che arrivano così alla morte senza mai giungere all’eternità beata. – « Gli empi girano nello stesso cerchio », essi rifanno davanti a noi ciò con cui hanno atterrito altri secoli; l’inferno ricomincia uno di questi drammi che sembrava inizialmente sanguinoso e terribile, ma il cui denudamento lo mostra ridicolo. La guerra che si fa alla Chiesa e alla società, rivela – lo confessiamo – una potenza ed un’audacia non comune; i pericoli che corriamo sono estremi; ma rassicuriamoci:, il male – come sempre – sarà vinto in mezzo ai suoi più grandi trionfi, nei tempi precisi del suo dominio più generale. Né questa dominazione né questa caduta, sono cose nuove: già da tempo il Salmista scriveva: « Signore, Voi lo avete abbattuto nei tempi della più grande elevazione » (Doublet, Psaumes, t. III, p. 284).

LE BEATITUDINI EVANGELICHE (-4A-)

LE BEATITUDINI 4 A

[A. Portaluppi: Commento alle beatitudini; S.A.L.E.S. –ROMA, 1942, imprim. A. Traglia, VIII, Sept. MCMXLII]

CAPO QUARTO

Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati quelli che hanno fame e setedi giustizia

         I

GIUSTIZIA È OBBEDIENZA ALLA LEGGE ETERNA

Il poeta Charles Péguy ha definito la santità con una genialità desta di lui in un poema dedicato « alla seconda virtù », che è la speranza. Egli dice, che ci sono due sorta di santi. « Ci sono quelli che vengono e che escono dai giusti; ci sono quelli che vengono generati dai peccatori. Ci sono due formazioni. I santi di Dio escono da due scuole, dalla scuola del giusto e dalla scuola del peccatore… Fortunatamente è sempre il Signore il maestro di scuola ». – C’è nei riguardi della santità anche un’altra fortuna. Ed è che tutti vi possono arrivare. I santi sono i soli eroi la cui opera sia durevole e insieme proporzionata alla capacità di ognuno. Non tutti sono in grado di essere Dante, Michelangelo, Verdi; ma ciascuno può essere… il curato d’Ars, se sa amare sino alla fine. E ciò costituisce una grande ragione di speranza. Dio ci aspetta per tutte le strade che conducono a Lui ed esige soltanto un po’ di bontà benevola e generosa. Una sorta di merito proporzionato a tutte le attitudini. Basta averne il sincero desiderio. E non occorre compiere prodigi per questa strada, basta fare le opere che il dovere ci impone giorno per giorno. Poiché è appunto il dovere indicato dalla condizione e dalla vocazione di ciascuno, l’indicazione divina della volontà superiore, e della santità. La giustizia è pertanto la santità commisurata al dovere di ognuno. Il santo, chiamato ad essere guida di molte anime, dovrà camminare per sentieri ripidi e faticosi; l’uomo comune andrà per la sua strada, or pianeggiante ed ora salente, ora liscia ed ora scabrosa, e giungerà alla sua meta senza grandi scosse e senza grandi meriti, ma giungerà a salvezza.

PROVVIDENZA DELLA LEGGE

Dio ha fissato nella sua legge eterna, che sta scritta nei nostri cuori e che trova una esplicazione nelle leggi della Chiesa dal lato spirituale e in quelle dello Stato come guida della vita civile, l’orientamento di ciascuno. Per tal modo rende agevole ai suoi la conformità alla sua volontà di salute. Nelle proporzioni più minute ognuno trova nei superiori prossimi le indicazioni particolari e gli stimoli opportuni, affinché la mèta venga raggiunta senza disperdimenti d’energia e di tempo. Le legge è provvidenza. Così che sarà bene per il Cristiano di amare la volontà di Dio e di compierla con quella attenzione, che rende gradito il sacrificio. Non sia essa considerata uno strumento di schiavitù, un mezzo di asservimento, la dura necessità del vivere associato; sebbene la saggia guida, l’ordinamento paterno, il sussidio di chi sa a chi ignora. Lo stimolo misurato e prudente eppure efficace, che fa la giornata serena, riducendo notevolmente le preoccupazioni di ciascuno ed eliminando il pericolo di innumerevoli attriti delle volontà singole. I santi sono i modelli espressi in realtà dalle voci della legge. Sono la legge fatta persona. Sono gli emblemi di Dio, le bandiere delle sue schiere. La santità è nella linea della virtù comune, ma accompagnata, con gli occhi rivolti al cielo, dalla fede e dalla carità. E noi tutti abbiamo un immenso interesse, che almeno alcuno dei nostri fratelli si elevi sopra di noi e venga proposto come a guardia dei nostri rapporti con l’Infinito. Ci sentiamo, non umiliati, ma appoggiati alla loro solidità granitica. Sono stimolo per il nostro intelletto e calore per la nostra fragile e tepida volontà. « Non est inventus similis illi — non è possibile trovare uno simile a lui » dice la Liturgia dei Santi tutti, giacché ogni Santo interpreta a modo suo qualcuno degli infiniti e stupendi aspetti del Cristo. E lo rende accostabile e imitabile. È questo infatti il primo passo da fare per convincere la nostra indolenza a seguire le vie del bene e salire per il sentiero arduo della bontà. La considerazione dei Santi, la conoscenza della vita loro splendente di luci affascinanti, sveglia il desiderio e stimola la volontà. A tutti piace la santità. Il racconto dei loro prodigi e delle loro opere ha sempre una visibile potenza d’attraimento. Rimane l’argomento più gradito alle folle dei semplici e alla curiosità intelligente dei colti. Chiunque si decida a leggere una vita di santo, scritta passabilmente, non sa più sospendere la gustosa fatica. Non si leggono così sovente come dovrebbe essere soprattutto per il pregiudizio iniziale. Tutti noi, piccoli uomini, amiamo la grandezza e lo splendore della vita e delle opere. E si corre ai loro sepolcri, per la sicurezza della loro protezione anche nell’altra sede del loro fervore.

LA VOCAZIONE ALLA SANTITÀ’

Gesù ci impose di essere perfetti, cioè santi, come il Padre che è nei Cieli. Egli sapeva di averci infuso, come Creatore, il bisogno della bontà e della santità nelle forme più integre e compiute. Per questo anche gli infelici che non sanno camminare per codeste strade alte e folgorate dal Sole della bellezza immortale, non sanno resistere a lungo, senza rodenti rimorsi nel fango della colpa. Ognuno viene a concludere in Dio la sua trista esperienza. Non hai mai ascoltato un furfante lodarsi di aver servito, da ragazzo, la santa Messa? E non è raro d’incontrare di codeste anime, smarrite per i meandri del vizio o della dissipazione peccaminosa, le quali ti snodano davanti agli occhi cento ricordi di contatti con la santità. E tutto ciò non senza una chiara e pungente nostalgia. Non son forse anche costoro creature di Dio e redenti dal Sangue di Cristo? Tutti dunque sentiamo la stima per la giustizia, tutti amiamo la santità. – Ma non tutti ne abbiamo fame e sete. Ammiriamo le gesta dei giusti, sognando d’essere da loro protetti, ma la nostra giornata striscia per i bassi sentieri della mediocrità, paurosa di sacrifici e di prove. Infatti sono molte le contraddizioni a cui il Santo viene sottoposto. Può bene affermarsi, che il grado di santità corrisponde a quello della sofferenza. Ogni gran Santo è un uomo del dolore. La loro offerta a Dio è così profumata di sacrificio. Sappiamo di santa Coletta, della beata Liduina, di santa Aldegonda, di altri molti, che passarono pressoché tutta la vita in un letto. Ma nessuno andò esente da dolori almeno spirituali, da sospetti, da persecuzioni. L’amore della santità porta a contrastare col mondo sotto le vesti più composte. Oh, i beati non hanno rubato la gloria celeste, sicuramente. Tutta la loro vita fu un calvario, verso il quale hanno portato la croce umiliante delle nostre miserie dei nostri peccati e delle loro stesse materiali fragilità. Queste gravano soprattutto sulla esistenza terrena dei Santi, poiché esse tradiscono la loro debolezza e il pericolo costante di cadere. Siccome poi amano tanto il Signore, la sola possibilità di abbandonarlo e di disertare per passare sotto gli stendardi del nemico li umilia. – Ma la riflessione ben presto volta questo sentimento in proposito della volontà di tener di continuo le armi spirituali in pugno, affinché la sorpresa non li colga. Lottare generosamente è la loro sorte. Se non che questo stato di guerra permanente non li stanca. Stancano forse le vittorie? Ed essi ben sanno che Cristo vittorioso combatte, con loro in loro. Sicché della loro fame e sete di giustizia essi fanno un rogo di gloria, una corona di bellezza, un serto di conforto. Beati dunque anche tra la fame e nella sete. Il Signore La Lacordaire in fin di vita esclamò: « O Signore se la mia spada s’è consumata, s’è consumata al vostro servizio! ».

II

LA PERFETTA GIUSTIZIA NON È DI QUESTO MONDO

SANTITÀ E MONDO

Gesù nell’ultimo discorso agli Apostoli dopo la Cena, disse che essi non erano del mondo « De mundo non sunt, sicut et ego non sum de mundo » (Joan., XVII, 16). Infatti la santità è cosa del Cielo. È un raggio di Dio posato in terra su alcune creature predilette. La santità eminente, che serve da documento a prova della divinità della Chiesa, è tanto rara, che desta stupore e agisce come molla di slancio per noi che apparteniamo alla folla grigia. È in aperto contrasto con i principi del mondo, si oppone alle sue massime, turba le sue agiatezze, le sue indulgenze, il suo programma di godimento di questa vita, poiché di là non ha occhio per vedere. – Infatti l’atmosfera del mondo è del tutto infetta, morbosa, appestata per il Santo. Sui suoi inizi egli fugge nella solitudine e si rafforza alla resistenza risoluta contro le seduzioni; si addestra a indagare le origini, le vie di diffusione, le arti segrete, le magie di sorpresa. Poi, se il Signore lo chiama, scende in lizza e affronta il mondo fieramente. Prima lo ha vinto dentro di sé, poi lo va sconfiggendo nei simili. I motivi della sua azione sono tutti in sintesi nell’amore di Dio e in quello del prossimo. Vince sempre, il Santo, la sua prova? In sé, non v’ha dubbio. Per duro che sia l’urto col male, egli vincerà. Almeno sino a non essere abbattuto. Molti Santi hanno dovuto lottare decenni prima di qualche successo. Sant’Alfonso De’ Liguori vide la sua prima fondazione missionaria sgretolarsi sotto i colpi dei suoi stessi amici e compagni. San Giovanni Bosco tollerò l’abbandono di alcuni giovani, che gli avevano fatto nascere in cuore molte lusinghiere speranze. San Francesco di Sales dovette mutare radicalmente l’Istituto delle sue religiose, per l’opposizione di chi aveva su codeste iniziative autorità. – Che cosa ci dicono le schiere dei martiri di tutte le età? La intolleranza del mondo per tutte le forme di santità. Quaggiù l’aria è dominata dalla violenza di satana. Pacifico non può essere lo spirito di chi ha fatto la sua volontà spada spezzata a servizio di Dio. Il mondo talvolta è indotto a denti stretti a lasciare una certa libertà al bene; ma, appena l’occasione gli si offra propizia, spezza i freni e si scaglia contro le manifestazioni di Dio per abbatterle e frantumarle. Se trovi una zona di pace, quella sarà tale per poco. Non si dice la Chiesa di quaggiù « militante »? Ora lo stato di guerra non è normale per nessuno. Il mondo perciò non è normale per la « fame e la sete della giustizia ». Se mai lo è per il demonio, il quale qui ha il suo gioco libero contro tale ambizione morale.

MALVAGIA MONDANITÀ’

Come abbia potuto scrivere l’Autore dell’Imitazione, che « ogni volta che andai fra gli uomini, tornai meno uomo » allora si capisce. E si ammette anche ciò che altri disse, che cioè, gli uomini nel frequentarsi si abbassano e che ogni associazione tra di essi non è che un compromesso. Sovente dobbiamo riconoscere, che il fiore e l’aroma di certe belle nature, che ammiriamo, svaniscono all’accostarsi le une le altre. Tommaseo, che d’esperienze n’ebbe, parlando della educazione, disse che « gli uomini sociabilissimi sono i più disamorati ». Ma questo non dice tutto. Vi sono troppe nefandità che non hanno nome e non si possono riferire senza destare la protesta della coscienza morale. San Giovanni ha ragione di dire: « mundus totus in maligno positus est » (I, V, 19). È tutto immerso nella cattiveria. È tutto opera del demonio. È la quintessenza della volontà del maligno. – Ma non deve essere così sempre. Chiaro è, che sino al termine della vita umana la zizzania allignerà nel suo campo quaggiù, ma bei covoni di sanissimo grano si potranno sempre maggiormente ammassare. La lotta persistente dovrà giungere a circoscrivere via via la potenza del male. Il bene troverà più aperta accoglienza e i figli della luce avranno modo di cantare, non dirò vittoria, ma qualche più risonante successo. I Santi sono sempre con noi. Devono anzi crescere di numero. La Redenzione di Gesù nostro Signore ha un compito ancora vasto da assolvere; anime ed anime ne avvertono la soave fragranza e l’efficacia intima, sovente senza averne una chiara idea. La grazia agisce con una sua penetrazione inosservabile, ma reale e noi, a volta a volta, ne riconosciamo il risultato. È una benedizione continua sul mondo delle anime, che assorbono e assimilano.

LA SANTITÀ’ SCIAMA LONTANO

Ma e noi, che cosa facciamo per un più largo influsso di Dio sull’umanità? Dobbiamo soltanto ammetter l’opera dei Santi e tenerci affatto in disparte? Nessun contributo siamo disposti a dare ad un’opera che appartiene a Dio nei risultati, ma che deve partire dagli uomini nella predisposizione di certi elementi e nella preparazione degli animi? – Santa Teresa del Bambin Gesù, pur chiusa nel suo chiostro di carmelitana, agognava di poter riuscire utile all’apostolato attivo di qualche sacerdote, mentre ella si dedicava a quello contemplativo. E le avvenne di essere scelta dalla superiora a rispondere alla lettera di un seminarista, il quale chiedeva di concedergli d’essere come fratello a qualcuna delle suore, per averne aiuto di preghiere e di sacrifici, quando sarebbe andato in missione. Essa esprime le sue impressioni. « Anch’io, nell’intimo del mio cuore, pensavo così, e poiché lo zelo d’una carmelitana deve abbracciare il mondo, spero ancora con la grazia di Dio, di essere utile a più di due missionari. Io prego per tutti, senza lasciare da parte i semplici sacerdoti, il cui ministero è talora difficile quanto quello degli apostoli che evangelizzano gli infedeli. Io voglio, insomma essere « figlia della Chiesa » come la nostra Madre Teresa, e pregare secondo tutte le intenzioni del Vicario di Gesù Cristo. Questo è il fine generale della mia vita ». – E poi continua a commentare la sua nuova missione in termini tanto generosi e con una viva intuizione dell’efficacia dell’aiuto da lei prestato alla fatica dei suoi nuovi fratelli. Non intendo trascurare nessuno « dei grandi interessi della Chiesa, che abbracciano l’universo, io così resto adesso particolarmente unita ai nuovi fratelli, che Gesù mi ha concesso. – Tutto ciò che mi appartiene, appartiene a ciascuno di loro, perché sento che Dio è troppo buono e troppo generoso per far delle divisioni; è tanto ricco, che dà senza misura ciò che gli chiedo, per quanto io non mi perda punto in lunghe enumerazioni ». – Questa pagina serena e cristallina pari a un mattino di primavera, ci dice come sia possibile servire la causa del bene anche rimanendo assente dalla battaglia esteriore. Sicché ognuno deve sentire il dovere, l’impegno di dare alla vittoria contro il demonio la propria collaborazione. – Innanzi tutto portiamo ad essa il peso diretto della personale virtù. Contendere per la conquista di quel grado di bontà, che il Signore ci chiama a conquistare, è già la vittoria d’un settore della vita del mondo. Questa non potrà rimanere circoscritta in noi. Si esprimerà nelle forme sociali e influirà beneficamente intorno. Un’anima, che sia appena in grazia, è come una stella in cielo; non tollera foschia intorno a sé. È un raggio di sole. E l’apostolato è già in atto. Apostolato per il quale ognuno possiede attitudini sufficienti. Ciascuno di noi ha il posto ben segnato. Pensate, che il demonio fallirebbe presto, se alcune migliaia di spiriti ferventi prendessero fra loro contatto per dargli aperta battaglia.

SACRAMENTUM ORDINIS DI S. S. PIO XII

SACRAMENTUM ORDINIS

PIUS EPISCOPUS
SERVUS SERVORUM DEI
AD PERPETUAM REI MEMORIAM

CONSTITUTIO APOSTOLICA

DE SACRIS ORDINIBUS DIACONATUS, PRESBYTERATUS ET EPISCOPATUS

1. Sacramentum Ordinis a Christo Domino institutum, quo traditur spiritualis potestas et confertur gratia ad rite obeunda munia ecclesiastica, unum esse idemque pro universa Ecclesia catholica fides profitetur; nam sicut Dominus Noster Iesus Christus Ecclesiae non dedit nisi unum idemque sub Principe Apostolorum regimen, unam eandemque fidem, unum idemque sacrificium, ita non dedit nisi unum eundemque thesaurum signorum efficacium gratiæ, id est Sacramentorum. Neque his a Christo Domino institutis Sacramentis Ecclesia sæculorum cursu alia Sacramenta substituit vel substituere potuit, cum, ut Concilium Tridentinum docet, (Conc. Trid., Sess. VII, can. 1, De Sacram. in genere) septem Novae Legis Sacramenta sint omnia a Iesu Christo Domino Nostro instituta et Ecclesiae nulla competat potestas in substantiam Sacramentorum », id est in ea quae, testibus divinæ revelationis fontibus, ipse Christus Dominus in signo sacramentali servanda statuit.

2. Quod autem ad Sacramentum Ordinis de quo agimus spectat, factum est ut, non obstante eius unitate et identitate, quam nemo unquam e catholicis in dubium revocare potuit, tamen, aetatis progressu, pro temporum et locorum diversitate, illi conficiendo ritus varii adiicerentur; quod profecto ratio fuit cur theologi inquirere coeperint, quinam ex illis in ipsius Sacramenti Ordinis collatione pertineant ad essentiam, quinam non pertineant : itemque causam praebuit dubiis et anxietatebus in casibus particularibus, ac propterea iterum iterumque ab Apostolica Sede humiliter expostulatur fuit, ut tandem quid in Sacrorum Ordinum collatione ad validitatem requiratur, suprema Ecclesiae auctoritate decerneretur.

3. Constat autem inter omnes Sacramenta Novae Legis, utpote signa sensibilia atque gratiae invisibilis efficientia, debere gratiam et significare quam efficiunt et efficere quam significant. Iamvero effectus, qui Sacra Diaconatus, Presbyteratus et Episcopatus Ordinatione produci ideoque significari debent, potestas scilicet et gratia, in omnibus Ecclesiae universalis diversorum temporum et regionum ritibus sufficienter significati inveniuntur manuum impositione et verbis eam determinantibus. Insuper nemo est qui ignoret Ecclesiam Romanam semper validas habuisse Ordinationes graeco ritu collatas absque instrumentorum traditione, ita ut in ipso Concilio Florentino, in quo Græcorum cum Ecclesia Romana unio peracta est, minime Graecis impositum sit, ut ritum Ordinationis mutarent vel illi instrumentorum traditionem insererent : immo voluit Ecclesia ut in ipsa Urbe Graeci secundum proprium ritum ordinarentur. Quibus colligitur, etiam secundum mentem ipsius Concilii Florentini, traditionem instrumentorum non ex ipsius Domini Nostri Iesu Christi voluntate ad substantiam et ad validitatem huius Sacramenti requiri. Quod si ex Ecclesiae voluntate et praescripto eadem aliquando fuerit necessaria ad valorem quoque, omnes norunt Ecclesiam quod statuit etiam mutare et abrogare valere.

4. Quae cum ita sint, divino lumine invocato, suprema Nostra Apostolica Auctoritate et certa scientia declaramus et, quatenus opus sit, decernimus et disponimus : Sacrorum Ordinum Diaconatus, Presbyteratus et Episcopatus materiam eamque unam esse manuum impositionem; formam vero itemque unam esse verba applicationem huius materiae determinantia, quibus univoce significantur effectus sacramentales, — scilicet potestas Ordinis et gratia Spiritus Sancti, — quaeque ab Ecclesia qua talia accipiuntur et usurpantur. Hinc consequitur ut declaremus, sicut revera ad omnem controversiam auferendam et ad conscientiarum anxietatibus viam praecludendam, Apostolica Nostra Auctoritate declaramus, et, si unquam aliter legitime dispositum fuerit, statuimus instrumentorum traditionem saltem in posterum non esse necessariam ad Sacrorum Diaconatus, Presbyteratus et Episcopatus Ordinum validitatem.

PIUS PP. XII


*A.A.S., vol. XL (1948), n. 1-2, pp. 5-7

Acta Apostolicæ Sedis, vol. XL, n°s 1-2 (28, 1.-27. 2. 48). pp. 5-7

1. La Fede cattolica professa che il Sacramento dell’Ordine istituito da Cristo, per mezzo del quale è conferito il potere e la grazia spirituale di svolgere le funzioni propriamente ecclesiastiche, è uno e lo stesso per la Chiesa universale; poiché, come Nostro Signore Gesù Cristo ha dato alla Chiesa, un solo e medesimo governo sotto il Principe degli Apostoli, una sola e stessa fede, un solo stesso Sacrificio, così anche Lui le diede solo uno e medesimo tesoro di efficacia con i segni di grazia, cioè i Sacramenti. Oltre questi Sacramenti istituiti da Cristo Nostro Signore, la Chiesa nel corso dei secoli non ha mai costituito altri Sacramenti, né avrebbe potuto farlo, poiché, come insegna il Concilio di Trento (Conc. Tr., Sess. VII, can. De Sacram, in genere), i sette Sacramenti della nuova legge furono tutti istituiti da Gesù Cristo nostro Signore, e la Chiesa non ha potere sulla “sostanza dei Sacramenti”, cioè su quelle cose che, come è provato dalle fonti della rivelazione divina, Cristo, il Signore stesso ha stabilito fossero mantenuto come segni sacramentali.

2. Ma, in ciò che concerne il Sacramento dell’ordine, di cui qui si tratta, malgrado la sua unità  e la sua identità, che nessun cattolico ha mai potuto mettere in dubbio, è accaduto nel corso degli anni, secondo la diversità dei tempi e dei luoghi, che si sono aggiunti diversi riti alla sua amministrazione. È questo che spiega certamente che a partire da un certo momento i teologi abbiano cominciato a ricercare tra questi riti dell’ordinazione appartengano all’essenza del Sacramento e quali non vi appartengano affatto. Questo stato di cose ha ancora occasionato, in casi particolari, dei dubbi e delle inquietudini; così, a più riprese si è domandato alla Santa Sede che l’Autorità suprema della Chiesa, voglia be pronunciarsi su ciò che, nei confronti degli Ordini sacri, sia richiesto per la validità,

3. Si riconosce unanimemente che i Sacramenti della nuova Legge, segni sensibili e producenti la grazia invisibile, debbano significare la grazia che producono e produrre la grazia che significano. Ora, gli effetti che le ordinazioni diaconale, sacerdotale ed episcopale debbano produrre e pertanto significare, cioè il potere e la grazia, si trovano in tutti i riti in uso nella Chiesa Universale, nelle diverse epoche e nei differenti paesi, sufficientemente indicati con l’imposizione delle mani e le parole che la determinano. Inoltre, nessuno ignora che la Chiesa Romana ha sempre ritenuto valide le ordinazioni fatte nel rito greco senza la tradizione degli strumenti. Così il Concilio di Firenze, ove è stata conclusa l’unione dei Greci con la Chiesa Romana, non ha loro imposto di cambiare il rito di Ordinazione né inserirvi la tradizione degli strumenti. Ben più, la Chiesa ha voluto che anche a Roma i Greci fossero ordinati secondo il loro rito proprio. Da questo ne risulta che anche nel pensiero del Concilio di Firenze, la tradizione degli strumenti non sia richiesta al pari della volontà del Signore Nostro Gesù-Cristo per la sostanza e per la validità di questo Sacramento. Se nel tempo essa è stata necessaria, anche per la validità, al pari della volontà e del precetto della Chiesa, si sa che ciò che Essa ha stabilito, la Chiesa può anche cambiare ed abrogare.

4. Ecco perché, dopo avere invocato la luce divina, in virtù della nostra suprema Autorità apostolica ed in piena conoscenza della cosa, Noi dichiariamo e, per quanto ce ne sia bisogno, Noi decidiamo e dichiariamo ciò che segue: la materia e la sola materia degli Ordini sacri del Diaconato, del Sacerdozio e dell’Episcopato è l’imposizione delle mani; similmente, la sola forma sono le parola che determinano l’applicazione di questa materia, parole che significano in modo univoco gli effetti sacramentali, cioè il potere di ordine e la grazia dello Spirito Santo, parole che la Chiesa accetta ed impiega come tali. Ne consegue che Noi dobbiamo dichiarare, come Noi dichiariamo effettivamente, in virtù della nostra Autorità apostolica, per sopprimere ogni controversia e prevenire le angosce delle coscienze, e decidiamo, anche nel caso in cui nel passato l’autorità competente avesse preso una diversa decisione, che la tradizione degli strumenti, al meno in avvenire, non sia necessaria per la validità degli Ordini sacri del diaconato, del sacerdozio, dell’episcopato.

5. In ciò che concerne la materia e la forma nei confronti di ugnino di questi ordini, Noi decidiamo e decretiamo, in virtù della nostra Autorità apostolica, ciò che segue. Per l’ordinazione al diaconato, la materia è l’imposizione delle mani del Vescovo, la sola prevista nel rito di questa ordinazione. La forma è costituita dalle parole del Prefatio, di cui le seguenti sono essenziali e pertanto richieste per la validità: « Emitte in eum, quaesumus, Domine, Spiritum Sanctum, quo in opus ministerii tut fideliter exsequendi septiformis gratiae tuae munere roboretur

Nell’Ordinazione sacerdotale, la materia è la prima imposizione delle mani del Vescovo, quella che si fa in silenzio, e non la continuazione di questa stessa imposizione che si fa estendendo la mano destra, né l’ultima imposizione accompagnata da queste parole: « Accipe Spiritum Sanctum: quorum remiseris peccata, etc. » La forma è costituita dalle parole del Prefatio, delle quali le seguenti sono essenziali e pertanto necessarie per la validità; « Da, quaesumus, omnipotens Pater, in hunc famulum tuum Presbyterii dignitatem; innova in visceribus eius spiritum sanctitatis, ut acceptum a Te, Deus, secundi meriti munus obtineat censuramque morum exemplo suæ conversationis insinuet ». Infine per l’ordinazione o consacrazione episcopale, la materia è l’imposizione delle mani fatta dal Vescovo consacratore. La forma è costituita dalle parole del Prefatio, delle quali le seguenti sono essenziali. La scrittura e l’antichità greca e latina non menzionano che l’imposizione delle mani e la preghiera. È soltanto verso la fine del Medio Evo e senza un atto ufficiale della Chiesa che la tradizione degli strumenti si è diffusa in Occidente ed è penetrata poco a poco nell’uso romano. È il decreto per gli Armeni, promulgato nel 1439 alla conclusione del Concilio di Firenze, che fissò come materia dei diversi ordini la tradizione degli strumenti. Ma d’altra parte, Roma continuava a considerare come valide le ordinazioni orientali fatte senza la tradizione degli strumenti. Nelle sua  Istruzione « Presbyterii græci » (31/08/1595), Clemente VIII esigeva che un Vescovo di rito greco fosse presente a Roma per conferire agli studenti della sua nazione, l’ordinazione secondo il rito Greco. Nela Bolla « Etsi pastoralis » (26/05)1742) per gli Italo-Greci, Benedetto XIV dichiara: « Episcopi græci in ordinibus conferendis ritum proprium græcum in Euchologio descriptum servent ». A più riprese, i Sovrani Pontefici si sono pronunciati nel medesimo senso. La complessità di questi fatti spiega la diversità delle opinioni, che si sono fatte luce sull’essenza del sacramento dell’Ordine e che è superfluo qui enumerare. Poco a poco l’opinione che, ispirandosi all’antichità cristiana e alla liturgia, non ammette che un solo rito essenziale, l’imposizione delle mani con l’invocazione dello Spirito Santo, aveva finito per allineare la grande maggioranza dei teologi. È evidente che dopo la presente Costituzione Apostolica, questa è l’unica tesi autorizzata. Resta da sapere quale fosse il valore del decreto per gli Armeni, menzionato più in alto. Secondo alcuni, il decreto sarebbe semplicemente una istruzione pratica di ordine disciplinare e pastorale. Secondo il cardinale Van Rossum, la cui opera « De essentia sacramenti Ordinis » (Fribourg-en-Brisgau 1914),è fondamentale in materia, il decreto sarebbe dottrinale, ma non definitivo, ex cathedra, infallibile. Egli ne vede la prova nel fatto che la Chiesa non sia mai intervenuta contro le opinioni diverse. (V. Dict. De Théol. cath., art. « ordine », soprattutto col. 1315 e segg.). « Diffondete su di lui, vi supplichiamo, Signore, lo Spirito Santo; che lo fortifichi con i sette doni delle vostra grazia perché compia con fedeltà il vostro ministero ». – « Date, ve ne supplichiamo, Padre onnipotente, al vostro servo qui presente la dignità del Sacerdozio; rinnovate nel suo cuore lo spirito di santità, affinché egli eserciti questa unzione del secondo ordine [della gerarchia] che Voi gli affidate e che l’esempio della sua vita corregga i costumi ». Per la validità è pertanto richiesta: « Comple in Sacerdote tuo ministerii tui summam, et ornamentis totius glorificationis instructum cœlestis unguenti rore sanctifica ». Tutti questi riti saranno compiuti conformemente alle prescrizioni della Nostra Costituzione apostolica « Episcopalis consecrationis » del 30 novembre 1946.6. Onde prevenire eventuali dubbi, noi ordiniamo, Noi ordiniamo che nei confronti di ogni Ordine, l’imposizione delle mani si faccia toccando fisicamente la testa dell’ordinando, benché sia sufficiente il contatto morale per conferire validamente il Sacramento. Infine, non è affatto permesso interpretare ciò che stiamo dichiarando e decretando sulla materia e la forma, in modo da credersi autorizzato sia a trascurare, sia ad  omettere le altre cerimonie previste nel Pontificale Romano; inoltre Noi ordiniamo che tutte le prescrizioni del Pontificale Romano siano religiosamente mantenute ed osservate. Le disposizione della presente Costituzione, non hanno effetto retroattivo; qualora si presenti un dubbio, lo si sottometterà alla Sede Apostolica. Ecco pertanto ciò che Noi ordiniamo, dichiariamo e decretiamo, nonostante qualsiasi disposizione contraria, anche degna di speciale menzione. Di conseguenza, Noi vogliamo ed ordiniamo che le disposizioni sopramenzionate siano incorporate, in un modo o nell’altro nel Pontificale Romano.

NESSUNO AVRÁ DUNQUE IL DIRITTO DI ALTERARE LA PRESENTE COSTITUZIONE DA NOI DATA NÉ DI OPPORVISI CON TEMERARIO ARDIMENTO


Dato a San Pietro, il 30 novembre, festa di Sant’Andrea Apostolo nell’anno 1947, nono anno del Nostro pontificato.

PIO XII, PAPA.



Questa costituzione apostolica di S. S. Pio XII, è la pietra di inciampo [sarebbe meglio forse dire: pietra tombale! … fate voi …] per quanti, nelle finte chiese di ogni parte del mondo, si dicono ordinati Sacerdoti, o peggio Vescovi. Questo documento infatti, stabilisce in modo infallibile ed immutabile, come ogni altro documento del Magistero Universale, le formule, cioè la “forma sacramentale”, del Sacramento dell’Ordine. (… per il Santo Padre era naturalmente superfluo ricordare che prima di accedere a queste Consacrazioni, bisognava aver ricevuto obbligatoriamente la tonsura ecclesiastica dall’Ordinario della propria Diocesi di appartenenza, nonché gli ordini clericali minori, come indicato tassativamente dal Sacrosanto Concilio di Trento – Sess. XXIII).

Solo chi sia stato ordinato con queste formule – dopo la tonsura e il conferimento degli ordini minori – da un Vero Vescovo, cioè non scomunicato ipso facto (come ad esempio un Cavaliere Kadosh, grado XXX della Massoneria, in cui si è compiuto un giuramento solenne di obbedienza a Lucifero con tanto di brindisi e pugnale di sfida a Dio; né da pseudo-vescovi senza Mandato Papale e senza Giurisdizione), può considerarsi validamente consacrato ed usare della giurisdizione o della missione canonica per le funzioni proprie dei relativi Ordini. Ogni altra formula non ha alcuna validità, né si può pretendere di utilizzare, solo per fare un esempio, formule blasfeme e sacrileghe inventate da antipapi usurpanti, con documenti che possono essere usati al massimo come carta igienica (salvo diverso parere medico!). Le formule dell’antipapa marrano Montini del 18 giugno del 1968, studiate dal massone Bugnini – BUAN 1365/75 su imbeccate del “fratello” benedettino dom Botte e dei 6 (si noti il numero! … chi ha intelletto comprenda!) compagni di merenda di retrologgia, sono utili per formare pseudo-vescovi “perfetti manichei”, quindi come tali appartenenti ad organismi di confessione gnostica, come l’attuale “Novus ordo”, che usurpanti cariche e prebende, pretendono di essere addirittura cattolici, ingannando pseudo ignari fedeli, ed altrettanti pretesi e falsi sacerdoti (che hanno quanto meno una falsa coscienza, secondo i dettami della teologia morale … che essi giustamente non hanno mai studiato …), che spacciano sacramenti ed officiano riti satanici offerti, in buona o in cattiva fede, al signore dell’universo, il baphomet-lucifero adorato nelle logge ad eterna condanna loro e di quanti li seguono. Possiamo solo pregare per essi, perché il Signore apra loro gli occhi, anche se San Paolo impietosamente ci ricorda che … a coloro che non hanno amato la verità, Iddio manderà una « operationem erroris ut credant mendacio » (2 Tess. II, 11). SI SALVI CHI VUOLE!

SALMI BIBLICI: “IN DOMINO CONFIDO” (X)

Salmo 10: In Domino Confido

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.: Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

SALMO X

  In finem. Psalmus David.

[1] In Domino confido;

quomodo dicitis animæ meae: Transmigra in montem sicut passer?

[2] Quoniam ecce peccatores intenderunt arcum; paraverunt sagittas suas in pharetra, ut sagittent in obscuro rectos corde;

[3] quoniam quae perfecisti destruxerunt; justus autem quid fecit?

[4] Dominus in templo sancto suo; Dominus in caelo sedes ejus.

[5]Oculi ejus in pauperem respiciunt, palpebræ ejus interrogant filios hominum.

[6] Dominus interrogat justum et impium; qui autem diligit iniquitatem, odit animam suam.

[7] Pluet super peccatores laqueos; ignis et sulphur, et spiritus procellarum, pars calicis eorum.

[8] Quoniam justus Dominus, et justitias dilexit: aequitatem vidit vultus ejus.

SALMO X

[Vecchio Testamento secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

Esortazione alla confidenza nel tempo delle calunnie ed altre tribolazioni.

Per la fine, salmo di David.

1. Nel Signore pongo la mia speranza; perché dite voi all’anima mia: Trafugati al monte come una passera? (1)

2. Imperocché ecco che i peccatori han leso l’arco, tengono preparate le loro saette nel

turcasso per saettare all’oscuro quelli che sono di cuore retto.

3. Perché quello che tu facesti di buono, lo hanno ridotto a niente; or il giusto che ha egli fatto?

4. Il Signore nel tempio suo santo, il Signore nel cielo ha sua sede;

5. gli occhi di lui al povero son rivolti: le pupille di lui disaminano i figliuoli degli uomini.

6. Il Signore disamina il giusto e l’empio; echi ama l’iniquità, odia l’anima propria.

7. E i pioverà lacci sopra de’ peccatori; il fuoco eil zolfo e il vento procelloso è la porzione del loro calice. (2)

8. Imperocché il Signore è giusto, ed ha amato la giustizia; la faccia di lui è rivolta alla equità.

(1) I paesi montagnosi nel sud della Giudea, ove Saul inseguiva Davide. Fuggite sulla montagna, come gli uccelli quando sono inseguiti nella pianura fuggono con volo rapido verso le montagne coperte dagli alberi.

(2). Il vento di tempesta è il simoun degli arabi, vento del deserto. Quando esso soffia, in luglio, ci si getta a terra e si evita di essere soffocati, perché soffia con violenza tranne che a due passi da terra.

Sommario analitico

Questo salmo che Davide ha composto probabilmente quando il profeta Gad gli venne a dire « Non dimorate in questo forte, partite ed andate nella terra di Giuda » (I Re XXII, 6), e che, nel senso tropologico si applica all’uomo giusto, rigettante tutte le suggestioni con le quali il demonio cerca di allontanarlo da Dio, può dividersi in due parti: nella prima, Davide fa vedere tutti gli sforzi dei suoi nemici per prenderlo, cosa che determina i suoi amici nel consigliargli di fuggire. Nella seconda, egli dichiara che è senza paura, sicuro com’è della giustizia e della potenza di Dio.

I° PARTE.

I. –  Egli riporta i timidi consigli che gli danno i suoi amici (1);

2) i disegni crudeli dei suoi nemici contro di lui (2); .

3) le loro audaci imprese contro Dio stesso (3).

II PARTE.

II. – Egli espone i quattro motivi della sua fiducia in Dio:

1) coloro che lo attaccano sono peccatori, – essi hanno distrutto ciò che Dio aveva stabilito; – Davide, dal canto suo non aveva mai dato loro, in nessun luogo, alcuna occasione di perseguitarlo;

2) Dio è il Re ed il Signore di tutte le cose, ed Egli può, in un sol colpo, capovolgere e distruggere tutti i loro sforzi (4);

3) Dio è un guardiano vigilante che ha sempre gli occhi sulle sue pecore; Egli esamina con cura tutte le azioni degli uomini (5);

4) Dio è un giudice severo che punisce gli empi secondo la grandezza dei loro crimini e le regole della sua giustizia (6-8).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1 – 3.

ff. 1, 2. – Le anime lasse e timide trovano mille difficoltà quando si tratta di intraprendere qualcosa per le gloria di Dio ed abbandonano tutto alla minima resistenza. – Sono questi consigli di bassa lega ed interessati di falsi amici che cercano di intimidire un Pastore zelante per la gloria di Dio, per la disciplina della Chiesa e la salvezza delle anime. Bisogna cedere per un tempo alla persecuzione; l’arco già è stato teso, le accuse sono tutte pronte, voi non potrete difendervi, perché si tirerà contro di voi nell’oscurità. Si cerca di distruggere tutto ciò che avete fatto di meglio, e chiederete inutile quel che avete fatto, ma non sarete nemmeno ascoltati. Perché dunque non prendere una condotta più accomodante, e non cedere qualcosa alla consuetudine ed al tempo in cui si vive? Ci sarà una sola e solida risposta a tutto questo: « Io ripongo la mia fiducia nel Signore » (Duguet). – « Perché parlate così alla mia anima? Cosa mi consigliate? Io ho come aiuto il Maestro dell’universo, ho per capo ed appoggio Colui che fa tutto senza fatica e con la più grande facilità, e voi mi spingete a fuggire nei luoghi disabitati, di cercare la mia salvezza del deserto? Può il deserto offrirmi un soccorso più sicuro di Colui che fa tutto senza il minimo sforzo? (S. Chrys.). – A questa prima ragione, io ne aggiungo un’altra che mi impedisce di prendere la fuga. Quando abbiamo Dio come difensore ed i peccatori come nemici, , si può forse consigliare, senza renderci colpevoli di follia, di imitare il timore di timidi uccelli? (Idem).

ff. 3. – Essi hanno distrutto tutto ciò che avete fatto con tanta perfezione, altra causa che completa la distruzione delle loro forze; essi si rivolgono alle opere di Dio, fanno a Dio ed alla sua Chiesa una guerra accanita, distruggono la sua legge e mettono sotto i piedi i suoi precetti. Qual più grande prova di debolezza osar dichiarare la guerra a Dio? (S. Chrys.). – Ordinariamente la vita dei peccatori fa più rumore di quella dei giusti, perché l’interesse e le passioni scuotono tutto nel mondo. I peccatori hanno teso il loro arco, lo hanno rilasciato contro i giusti, li hanno distrutti, li hanno rovesciati, non si parla che di essi nel mondo. Ma il giusto cosa fa? Sembra che non agisca, ed in effetti non agisce secondo l’opinione dei mondani che non conoscono l’azione senza agitazione, né affari senza imprese. Non avendo il giusto azione, almeno secondo il sentimento degli uomini di mondo, non bisogna meravigliarsi che i grandi successi non siano per lui (Bossuet, s. III Dim., ap. Paq.).

II — 4 – 8.

ff. 4. – Come si è preparato il giusto a rigettare gli sforzi dei suoi nemici? Cosa ha fatto? Egli ha cercato il suo rifugio in Dio che è nei cieli, e che tutto riempie con la sua immensità. Egli non ha impiegato le armi per difendersi; le sole sue armi sono state il confidare in Dio, egli non ha opposto ai suoi nemici se non Colui che non ha bisogno di alcun mezzo di difesa, né di luogo, né di tempi favorevoli, né di armi, né denaro, ma che fa tutto con un cenno della sua volontà (S. Chrys.). – Quale fondamento più sicuro della fiducia di un cuore retto? Dio è in cielo e l’uomo sulla terra.

ff. 5. –  Ecco ciò che consola l’uomo giusto; egli sa di non poter dubitare che il Signore, dall’alto del cielo, vede tutto, esamina tutto, giudica tutto ciò che accade sulla terra; discerne e giudica i buoni ed i cattivi; dalla estremità in cui si trova, Dio vede tutto e non dimentica. – Le pupille di Dio da sole sono sufficienti, perché Egli vede tutto, Egli conosce tutto; Egli non ha bisogno della prugnola degli occhi (Teodoreto). – « L’uomo che esce dal suo letto disprezzando la sua anima, dicendo: « … chi mi vede? Le tenebre mi circondano e le muraglie mi coprono e nessuno se ne accorge: perché aver paura? L’Altissimo non si ricorderà dei miei peccati! » quest’uomo non ha compreso che l’occhio del Signore vede ogni cosa … non ha capito che gli occhi del Signore, più luminosi del sole, penetrano tutte le vie dei mortali e la profondità degli abissi, l’intimo dei cuori ed i luoghi più reconditi. » (Eccles. XXIII, 25-28).

ff. 6. – Terribile è l’interrogatorio che lo sguardo di Dio, presente dappertutto, fa subire ai peccatori. – L’iniquità è per l’anima che la commette, un nemico acerrimo, il più pericoloso, e che la minaccia di una certa rovina. Il peccatore ne è la vittima anche prima di essere consegnato al supplizio (S. Chrys.). – Ogni peccatore è nemico della sua anima, corruttore nella sua coscienza, del suo bene più grande che è l’innocenza. Nessuno pecca senza oltraggiare se stesso; nessuno mina l’integrità altrui senza perdere la propria; nessuno si vendica dei suoi nemici e non porti il primo colpo, il più mortale, al proprio seno; e l’odio, questo veleno mortale della vita umana, comincia la sua funesta operazione nel cuore ove esso è concepito, perché vi spegne la carità e la grazia (Bossuet, Circons. De N.-S.).

ff. 7. – Durante questa vita, questo spirito di tempesta sono il tumulto e le agitazioni di una coscienza agitata e che cerca di ingannare se stessa. – La pioggia delle insidie, è incomparabilmente più terribile della pioggia di fuoco e zolfo. Il mondo è inondato da questa pioggia. Un cattivo pastore, un confessore ignorante, debole o compassio-nevole, un predicatore che attenua, che altera, che rende bonarie le severe massime del Vangelo, sono altrettante insidie nelle quali le anime possono cadere (Duguet). Quanto più spaventosi sono questi castighi, comparati alla catastrofe delle cinque città abominevoli, castighi che saranno applicati irrevocabilmente ai peccatori dopo questa vita! Questa sarà la parte del loro calice: vale a dire che questi flagelli saranno la loro parte, il loro possesso; essi non potranno sottrarvisi e ne saranno le tristi vittime.

ff. 8. – La ragione di queste vendette così temibili è che il Signore è giusto, e che Egli essenzialmente ama la giustizia. Egli l’ama in Dio, cioè infinitamente, Egli la vendica in Dio, e cioè mediante pene eterne (Berthier). – Il Signore è giusto ed ama “le giustizie”. Non è senza ragione che questa parola è messa al plurale; non è perché parla degli uomini che il Profeta impiega la parola “giustizie” invece che “giusti”? Sembra in effetti che vi siano tante giustizie per tanti giusti, mentre la giustizia di Dio, alla quale tutti gli altri partecipano, è unica (S. Agost.). – Ad esempio di Dio non si perda mai di vista la giustizia in tutto ciò che si fa: essa è la luce e la regola che si deve seguire.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “SACRAMENTUM ORDINIS”

Questa costituzione apostolica di S. S. Pio XII, è la pietra di inciampo [sarebbe meglio forse dire: pietra tombale! … fate voi …] per quanti, nelle finte chiese di ogni parte del mondo, si dicono ordinati Sacerdoti, o peggio Vescovi. Questo documento infatti, stabilisce in modo infallibile ed immutabile, come ogni altro documento del Magistero Universale, le formule, cioè la “forma sacramentale”, del Sacramento dell’Ordine. (… per il Santo Padre era naturalmente superfluo ricordare che prima di accedere a queste Consacrazioni, bisognava aver ricevuto obbligatoriamente la tonsura ecclesiastica dall’Ordinario della propria Diocesi di appartenenza, nonché gli ordini clericali minori, come indicato tassativamente dal Sacrosanto Concilio di Trento – Sess. XXIII).

Solo chi sia stato ordinato con queste formule – dopo la tonsura e il conferimento degli ordini minori – da un Vero Vescovo, cioè non scomunicato ipso facto (come ad esempio un Cavaliere Kadosh, grado XXX della Massoneria, in cui si è compiuto un giuramento solenne di obbedienza a Lucifero con tanto di brindisi e pugnale di sfida a Dio; né da pseudo-vescovi senza Mandato Papale e senza Giurisdizione), può considerarsi validamente consacrato ed usare della giurisdizione o della missione canonica per le funzioni proprie dei relativi Ordini. Ogni altra formula non ha alcuna validità, né si può pretendere di utilizzare, solo per fare un esempio, formule blasfeme e sacrileghe inventate da antipapi usurpanti, con documenti che possono essere usati al massimo come carta igienica (salvo diverso parere medico!). Le formule dell’antipapa marrano Montini del 18 giugno del 1968, studiate dal massone Bugnini – BUAN 1365/75 su imbeccate del “fratello” benedettino dom Botte e dei 6 (si noti il numero! … chi ha intelletto comprenda!) compagni di merenda di retrologgia, sono utili per formare pseudo-vescovi “perfetti manichei”, quindi come tali appartenenti ad organismi di confessione gnostica, come l’attuale “Novus ordo”, che usurpanti cariche e prebende, pretendono di essere addirittura cattolici, ingannando pseudo ignari fedeli, ed altrettanti pretesi e falsi sacerdoti (che hanno quanto meno una falsa coscienza, secondo i dettami della teologia morale … che essi giustamente non hanno mai studiato …), che spacciano sacramenti ed officiano riti satanici offerti, in buona o in cattiva fede, al signore dell’universo, il baphomet-lucifero adorato nelle logge ad eterna condanna loro e di quanti li seguono. Possiamo solo pregare per essi, perché il Signore apra loro gli occhi, anche se San Paolo impietosamente ci ricorda che … a coloro che non hanno amato la verità, Iddio manderà una « operationem erroris ut credant mendacio » (2 Tess. II, 11). SI SALVI CHI VUOLE!

N. B. : Ne diamo il testo originale in latino con la successiva traduzione italiana per gli a-cattolici.

PIUS EPISCOPUS
SERVUS SERVORUM DEI
AD PERPETUAM REI MEMORIAM

CONSTITUTIO APOSTOLICA

SACRAMENTUM ORDINIS

DE SACRIS ORDINIBUS DIACONATUS, PRESBYTERATUS ET EPISCOPATUS

1. Sacramentum Ordinis a Christo Domino institutum, quo traditur spiritualis potestas et confertur gratia ad rite obeunda munia ecclesiastica, unum esse idemque pro universa Ecclesia catholica fides profitetur; nam sicut Dominus Noster Iesus Christus Ecclesiae non dedit nisi unum idemque sub Principe Apostolorum regimen, unam eandemque fidem, unum idemque sacrificium, ita non dedit nisi unum eundemque thesaurum signorum efficacium gratiæ, id est Sacramentorum. Neque his a Christo Domino institutis Sacramentis Ecclesia sæculorum cursu alia Sacramenta substituit vel substituere potuit, cum, ut Concilium Tridentinum docet, (Conc. Trid., Sess. VII, can. 1, De Sacram. in genere) septem Novae Legis Sacramenta sint omnia a Iesu Christo Domino Nostro instituta et Ecclesiae nulla competat potestas in substantiam Sacramentorum », id est in ea quae, testibus divinæ revelationis fontibus, ipse Christus Dominus in signo sacramentali servanda statuit.

2. Quod autem ad Sacramentum Ordinis de quo agimus spectat, factum est ut, non obstante eius unitate et identitate, quam nemo unquam e catholicis in dubium revocare potuit, tamen, aetatis progressu, pro temporum et locorum diversitate, illi conficiendo ritus varii adiicerentur; quod profecto ratio fuit cur theologi inquirere coeperint, quinam ex illis in ipsius Sacramenti Ordinis collatione pertineant ad essentiam, quinam non pertineant : itemque causam praebuit dubiis et anxietatebus in casibus particularibus, ac propterea iterum iterumque ab Apostolica Sede humiliter expostulatur fuit, ut tandem quid in Sacrorum Ordinum collatione ad validitatem requiratur, suprema Ecclesiae auctoritate decerneretur.

3. Constat autem inter omnes Sacramenta Novae Legis, utpote signa sensibilia atque gratiae invisibilis efficientia, debere gratiam et significare quam efficiunt et efficere quam significant. Iamvero effectus, qui Sacra Diaconatus, Presbyteratus et Episcopatus Ordinatione produci ideoque significari debent, potestas scilicet et gratia, in omnibus Ecclesiae universalis diversorum temporum et regionum ritibus sufficienter significati inveniuntur manuum impositione et verbis eam determinantibus. Insuper nemo est qui ignoret Ecclesiam Romanam semper validas habuisse Ordinationes graeco ritu collatas absque instrumentorum traditione, ita ut in ipso Concilio Florentino, in quo Græcorum cum Ecclesia Romana unio peracta est, minime Graecis impositum sit, ut ritum Ordinationis mutarent vel illi instrumentorum traditionem insererent: immo voluit Ecclesia ut in ipsa Urbe Graeci secundum proprium ritum ordinarentur. Quibus colligitur, etiam secundum mentem ipsius Concilii Florentini, traditionem instrumentorum non ex ipsius Domini Nostri Iesu Christi voluntate ad substantiam et ad validitatem huius Sacramenti requiri. Quod si ex Ecclesiae voluntate et praescripto eadem aliquando fuerit necessaria ad valorem quoque, omnes norunt Ecclesiam quod statuit etiam mutare et abrogare valere.

4. Quae cum ita sint, divino lumine invocato, suprema Nostra Apostolica Auctoritate et certa scientia declaramus et, quatenus opus sit, decernimus et disponimus : Sacrorum Ordinum Diaconatus, Presbyteratus et Episcopatus materiam eamque unam esse manuum impositionem; formam vero itemque unam esse verba applicationem huius materiae determinantia, quibus univoce significantur effectus sacramentales, — scilicet potestas Ordinis et gratia Spiritus Sancti, — quaeque ab Ecclesia qua talia accipiuntur et usurpantur. Hinc consequitur ut declaremus, sicut revera ad omnem controversiam auferendam et ad conscientiarum anxietatibus viam praecludendam, Apostolica Nostra Auctoritate declaramus, et, si unquam aliter legitime dispositum fuerit, statuimus instrumentorum traditionem saltem in posterum non esse necessariam ad Sacrorum Diaconatus, Presbyteratus et Episcopatus Ordinum validitatem.

5. De materia autem et forma in uniuscuiusque Ordinis collatione, eadem suprema Nostra Apostolica Auctoritate, quae sequuntur decernimus et constituimus : In Ordinatione Diaconali materia est Episcopi manus impositio quae in ritu istius Ordinationis una occurrit. Forma autem constat verbis « Præfationis » quorum haec sunt essentialia ideoque ad valorem requisita:

« Emitte in eum, quæ sumus, Domine, Spiritum Sanctum, quo in opus ministerii tui fideliter exsequendi septiformis gratiæ tuæ munere roboretur ».

In Ordinatione Presbyterali materia est Episcopi prima manuum impositio quae silentio fit, non autem eiusdem impositionis per manus dexteræ extensionem continuatio, nec ultima cui coniunguntur verba: « Accipe Spiritum Sanctum: quorum remiseris peccata, etc. ». Forma autem constat verbis « Præfationis » quorum hæc sunt essentialia ideoque ad valorem requisita:

« Da, quæsumus, omnipotens Pater, in hunc famulum tuum Presbyterii dignitatem; innova in visceribus eius spiritum sanctitatis, ut acceptum a Te, Deus, secundi meriti munus obtineat censuramqne morum exemplo suae conversationis insinuet ».

Denique in Ordinatione seu Consecratione Episcopali materia est manuum impositio quae ab Episcopo consecratore fit. Forma autem constat verbis « Praefationis », quorum haec sunt essentialia ideoque ad valorem requisita :

« Comple in Sacerdote tuo ministerii tui summam, et ornamentis totius glorificationis instructum coelestis unguenti rore sanctifica».

Omnia autem hæc fiant sicut per Apostolicam Nostram Constitutionem « Episcopalis Consecrationis » diei trigesimi novembris anni MCMXLIV statutum est.

6. Ne vero dubitandi præbeatur occasio, præcipimus ut impositio manuum in quolibet Ordine conferendo caput Ordinandi physice tangendo fiat, quamvis etiam tactus moralis ad Sacramentum valide conficiendum sufficiat. Tandem quae supra de materia et forma declaravimus ac statuimus, nequaquam ita intelligere fas sit ut vel paulum negligere vel prætermittere liceat ceteros « Pontificalis Romani » ritus constitutos; quin immo iubemus ut omnia data præscripta ipsius « Pontificalis Romani » sancte serventur et perficiantur.

Huius Nostrae Constitutionis dispositiones vim retroactivam non habent; quod si dubium aliquod contingat, illud huic Apostolicæ Sedi erit subiiciendum.

Haec edicimus, declaramus et decernimus, quibuslibet non obstantibus, etiam speciali mentione dignis, proindeque volumus et iubemus Tit eadem in « Pontificali Romano » quadam ratione evidentia fiant.

Nulli igitur homini liceat hanc Constitutionem a Nobis latam infringere vel eidem temerario ausu contraire.

Datum Romæ , apud Sanctum Petrum, die trigesimo novembris, in festo S. Andreæ Apostoli, anno millesimo nongentesimo quadragesimo septimo, Pontificatus Nostri nono.

PIUS PP. XII


*A.A.S., vol. XL (1948), n. 1-2, pp. 5-7

Acta Apostolicæ Sedis, vol. XL, n°s 1-2 (28, 1.-27. 2. 48). pp. 5-7

1. La Fede cattolica professa che il Sacramento dell’Ordine istituito da Cristo, per mezzo del quale è conferito il potere e la grazia spirituale di svolgere le funzioni propriamente ecclesiastiche, è uno e lo stesso per la Chiesa universale; poiché, come Nostro Signore Gesù Cristo ha dato alla Chiesa, un solo e medesimo governo sotto il Principe degli Apostoli, una sola e stessa fede, un solo stesso Sacrificio, così anche Lui le diede solo uno e medesimo tesoro di efficacia con i segni di grazia, cioè i Sacramenti. Oltre a questi Sacramenti istituiti da Cristo Nostro Signore, la Chiesa nel corso dei secoli non ha mai costituito altri Sacramenti, né avrebbe potuto farlo, poiché, come insegna il Concilio di Trento (Conc. Tr., Sess. VII, can. De Sacram, in genere), i sette Sacramenti della nuova legge furono tutti istituiti da Gesù Cristo nostro Signore, e la Chiesa non ha potere sulla “sostanza dei Sacramenti”, cioè su quelle cose che, come è provato dalle fonti della rivelazione divina, Cristo, il Signore stesso ha stabilito fossero ritenute come segni sacramentali.

2. Ma, in ciò che concerne il Sacramento dell’Ordine, di cui qui si tratta, malgrado la sua unità  e la sua identità, che nessun Cattolico ha mai potuto mettere in dubbio, è accaduto nel corso degli anni, secondo la diversità dei tempi e dei luoghi, che si siano aggiunti diversi riti alla sua amministrazione. È questo che spiega certamente che a partire da un certo momento i teologi abbiano cominciato a ricercare quali tra questi riti dell’ordinazione appartengano all’essenza del Sacramento e quali non vi appartengano affatto. Questo stato di cose ha ancora occasionato, in casi particolari, dei dubbi e delle inquietudini; così, a più riprese si è domandato alla Santa Sede che l’Autorità suprema della Chiesa, voglia ben pronunciarsi su ciò che, nei confronti degli Ordini sacri, sia richiesto per la validità,

3. Si riconosce unanimemente che i Sacramenti della nuova Legge, segni sensibili e producenti la grazia invisibile, debbano significare la grazia che producono e produrre la grazia che significano. Ora, gli effetti che le ordinazioni diaconale, sacerdotale ed episcopale debbano produrre e pertanto significare, cioè il potere e la grazia, si trovano in tutti i riti in uso nella Chiesa Universale, nelle diverse epoche e nei differenti paesi, sufficientemente indicati con l’imposizione delle mani e le parole che la determinano. Inoltre, nessuno ignora che la Chiesa Romana ha sempre ritenuto valide le ordinazioni fatte nel rito greco senza la tradizione degli strumenti. Così il Concilio di Firenze, ove è stata conclusa l’unione dei Greci con la Chiesa Romana, [la Chiesa] non ha loro imposto di cambiare il rito di Ordinazione né inserirvi la tradizione degli strumenti. Ben più, la Chiesa ha voluto che anche a Roma i Greci fossero ordinati secondo il loro rito proprio. Da questo ne risulta che anche nel pensiero del Concilio di Firenze, la tradizione degli strumenti non sia richiesta al pari della volontà del Signore Nostro Gesù-Cristo per la sostanza e per la validità di questo Sacramento. Se nel tempo essa è stata necessaria, anche per la validità, al pari della volontà e del precetto della Chiesa, si sa che ciò che Essa ha stabilito, la Chiesa può anche cambiare ed abrogare.

4. Ecco perché, dopo avere invocato la luce divina, in virtù della nostra suprema Autorità apostolica ed in piena conoscenza della cosa, Noi dichiariamo e, per quanto ce ne sia bisogno, Noi decidiamo e dichiariamo ciò che segue: la materia e la sola materia degli Ordini sacri del Diaconato, del Sacerdozio e dell’Episcopato è l’imposizione delle mani; similmente, la sola forma sono le parola che determinano l’applicazione di questa materia, parole che significano in modo univoco gli effetti sacramentali, cioè il potere di ordine e la grazia dello Spirito Santo, parole che la Chiesa accetta ed impiega come tali. Ne consegue che Noi dobbiamo dichiarare, come Noi dichiariamo effettivamente, in virtù della nostra Autorità apostolica, per sopprimere ogni controversia e prevenire le angosce delle coscienze, e decidiamo, anche nel caso in cui nel passato l’autorità competente avesse preso una diversa decisione, che la tradizione degli strumenti, almeno in avvenire, non sia necessaria per la validità degli Ordini sacri del Diaconato, del Sacerdozio, dell’Episcopato.

5. In ciò che concerne la materia e la forma nei confronti di ugnuno di questi ordini, Noi decidiamo e decretiamo, in virtù della nostra Autorità apostolica, ciò che segue. Per l’ordinazione al diaconato, la materia è l’imposizione delle mani del Vescovo, la sola prevista nel rito di questa ordinazione. La forma è costituita dalle parole del Prefatio, di cui le seguenti sono essenziali e pertanto richieste per la validità: « Emitte in eum, quæsumus, Domine, Spiritum Sanctum, quo in opus ministerii tut fideliter exsequendi septiformis gratiæ tuæ munere roboretur

Nell’Ordinazione sacerdotale, la materia è la prima imposizione delle mani del Vescovo, quella che si fa in silenzio, e non la continuazione di questa stessa imposizione che si fa estendendo la mano destra, né l’ultima imposizione accompagnata da queste parole: « Accipe Spiritum Sanctum: quorum remiseris peccata, etc. » La forma è costituita dalle parole del Prefatio, delle quali le seguenti sono essenziali e pertanto necessarie per la validità; « Da, quæsumus, omnipotens Pater, in hunc famulum tuum Presbyterii dignitatem; innova in visceribus eius spiritum sanctitatis, ut acceptum a Te, Deus, secundi meriti munus obtineat censuramque morum exemplo suæ conversationis insinuet ». Infine per l’Ordinazione o consacrazione episcopale, la materia è l’imposizione delle mani fatta dal Vescovo consacratore. La forma è costituita dalle parole del Prefatio, delle quali le seguenti sono essenziali. La scrittura e l’antichità greca e latina non menzionano che l’imposizione delle mani e la preghiera. È soltanto verso la fine del Medio Evo e senza un atto ufficiale della Chiesa che la tradizione degli strumenti si è diffusa in Occidente ed è penetrata poco a poco nell’uso romano. È il decreto per gli Armeni, promulgato nel 1439 alla conclusione del Concilio di Firenze, che fissò come materia dei diversi ordini la tradizione degli strumenti. Ma d’altra parte, Roma continuava a considerare come valide le ordinazioni orientali fatte senza la tradizione degli strumenti. Nelle sua  Istruzione « Presbyterii græci » (31/08/1595), Clemente VIII esigeva che un Vescovo di rito greco fosse presente a Roma per conferire agli studenti della sua nazione, l’ordinazione secondo il rito Greco. Nela Bolla « Etsi pastoralis » (26/05)1742) per gli Italo-Greci, Benedetto XIV dichiara: « Episcopi græci in ordinibus conferendis ritum proprium græcum in Euchologio descriptum servent ». A più riprese, i Sovrani Pontefici si sono pronunciati nel medesimo senso. La complessità di questi fatti spiega la diversità delle opinioni che si sono fatte luce sull’essenza del Sacramento dell’Ordine e che è superfluo qui enumerare. Poco a poco l’opinione che, ispirandosi all’antichità cristiana e alla liturgia, non ammette che un solo rito essenziale, l’imposizione delle mani con l’invocazione dello Spirito Santo, aveva finito per allineare la grande maggioranza dei teologi. È evidente che dopo la presente Costituzione Apostolica, questa è l’unica tesi autorizzata. Resta da sapere quale fosse il valore del decreto per gli Armeni, menzionato più in alto. Secondo alcuni, il decreto sarebbe semplicemente una istruzione pratica di ordine disciplinare e pastorale. Secondo il cardinale Van Rossum, la cui opera « De essentia sacramenti Ordinis » (Fribourg-en-Brisgau 1914), è fondamentale in materia, il decreto sarebbe dottrinale, ma non definitivo, ex cathedra, infallibile. Egli ne vede la prova nel fatto che la Chiesa non sia mai intervenuta contro le opinioni diverse. (V. Dict. De Théol. cath., art. « ordine », soprattutto col. 1315 e segg.). « Diffondete su di lui, vi supplichiamo, Signore, lo Spirito Santo; che lo fortifichi con i sette doni delle vostra grazia perché compia con fedeltà il vostro ministero ». – « Date, ve ne supplichiamo, Padre onnipotente, al vostro servo qui presente la dignità del Sacerdozio; rinnovate nel suo cuore lo spirito di santità, affinché egli eserciti questa unzione del secondo ordine che Voi gli affidate e che l’esempio della sua vita corregga i costumi ». Per la validità è pertanto richiesta: « Comple in Sacerdote tuo ministerii tui summam, et ornamentis totius glorificationis instructum cœlestis unguenti rore sanctifica ». Tutti questi riti saranno compiuti conformemente alle prescrizioni della Nostra Costituzione apostolica « Episcopalis consecrationis » del 30 novembre 1946.

6. Onde prevenire eventuali dubbi, Noi ordiniamo che nei confronti di ogni Ordine, l’imposizione delle mani si faccia toccando fisicamente la testa dell’ordinando, benché sia sufficiente il contatto morale per conferire validamente il Sacramento. Infine, non è affatto permesso interpretare ciò che stiamo dichiarando e decretando sulla materia e la forma, in modo da credersi autorizzato, sia a trascurare, sia ad omettere le altre cerimonie previste nel Pontificale Romano; inoltre Noi ordiniamo che tutte le prescrizioni del Pontificale Romano siano religiosamente mantenute ed osservate. Le disposizione della presente Costituzione, non hanno effetto retroattivo; qualora si presenti un dubbio, lo si sottometterà alla Sede Apostolica. Ecco pertanto ciò che Noi ordiniamo, dichiariamo e decretiamo, nonostante qualsiasi disposizione contraria, anche degna di speciale menzione. Di conseguenza, Noi vogliamo ed ordiniamo che le disposizioni sopramenzionate siano incorporate, in un modo o nell’altro nel Pontificale Romano.

NESSUNO AVRÁ DUNQUE IL DIRITTO DI ALTERARE LA PRESENTE COSTITUZIONE DA NOI DATA NÉ DI OPPORVISI CON TEMERARIO ARDIMENTO.

Dato a San Pietro, il 30 novembre, festa di Sant’Andrea Apostolo nell’anno 1947, nono anno del Nostro pontificato.

PIO XII, PAPA.

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA VI DOPO PENTECOSTE

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVII: 8-9 Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Ps XXVII: 1 Ad te, Dómine, clamábo, Deus meus, ne síleas a me: ne quando táceas a me, et assimilábor descendéntibus in lacum. [O Signore, Te invoco, o mio Dio: non startene muto con me, perché col tuo silenzio io non assomigli a coloro che discendono nella tomba.]

Dóminus fortitudo plebis suæ, et protéctor salutárium Christi sui est: salvum fac pópulum tuum, Dómine, et benedic hereditáti tuæ, et rege eos usque in sæculum. [Il Signore è la forza del suo popolo, e presidio salutare per il suo Unto: salva, o Signore, il tuo popolo, e benedici i tuoi figli, e govérnali fino alla fine dei secoli.]

Oratio

Orémus.

Deus virtútum, cujus est totum quod est óptimum: ínsere pectóribus nostris amórem tui nóminis, et præsta in nobis religiónis augméntum; ut, quæ sunt bona, nútrias, ac pietátis stúdio, quæ sunt nutríta, custódias. [O Dio onnipotente, cui appartiene tutto quanto è ottimo: infondi nei nostri cuori l’amore del tuo nome, e accresci in noi la virtú della religione; affinché quanto di buono è in noi Tu lo nutra e, con la pratica della pietà, conservi quanto hai nutrito.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom. VI: 3-11

“Fratres: Quicúmque baptizáti sumus in Christo Jesu, in morte ipsíus baptizáti sumus. Consepúlti enim sumus cum illo per baptísmum in mortem: ut, quómodo Christus surréxit a mórtuis per glóriam Patris, ita et nos in novitáte vitæ ambulémus. Si enim complantáti facti sumus similitúdini mortis ejus: simul et resurrectiónis érimus. Hoc sciéntes, quia vetus homo noster simul crucifíxus est: ut destruátur corpus peccáti, et ultra non serviámus peccáto. Qui enim mórtuus est, justificátus est a peccáto. Si autem mórtui sumus cum Christo: crédimus, quia simul étiam vivémus cum Christo: sciéntes, quod Christus resurgens ex mórtuis, jam non móritur, mors illi ultra non dominábitur. Quod enim mórtuus est peccáto, mórtuus est semel: quod autem vivit, vivit Deo. Ita et vos existimáte, vos mórtuos quidem esse peccáto, vivéntes autem Deo, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

IL BATTESIMO

“Fratelli,  quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Per il battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò dalla morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Infatti, se siamo stati innestati a Lui per la somiglianza della sua morte, lo saremo anche per quella della resurrezione; ben sapendo che il nostro vecchio uomo è stato crocifisso in Lui, affinché il corpo del peccato fosse distrutto, sicché non serviamo più al peccato. Ora, se siamo morti con Cristo crediamo che vivremo pure con Cristo; perché sappiamo che Cristo risuscitato da morte non muore più: la morte non ha più dominio su di Lui. La sua morte fu una morte al peccato una volta per sempre; e la sua vita la vive a Dio. Alla stessa guisa, anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro.

(Rom. VI, 3-11).

Nell’Epistola di quest’oggi, che è tolta dalla lettera ai Romani, sono messe in relazione col Battesimo la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo. Il Battesimo, mediante il quale l’uomo diventa membro del mistico corpo del Redentore, significa tanto la morte, la sepoltura e la risurrezione di Gesù Cristo, quanto la morte dell’uomo al peccato e la sua risurrezione alla vita della grazia. L’uomo, morto al peccato, non deve più farsene schiavo. Gesù Cristo dalla tomba, risorse alla vita nuova per la, gloria del Padre. Il Cristiano, dal fonte battesimale, risorge con Gesù Cristo a una vita nuova, tutta consacrata a Dio. Il cristiano deve pensare frequentemente al Battesimo, che ci ricorda:

1. Che siamo morti al peccato e liberati dalla schiavitù di satana,

2. Che siamo risorti alla vita della grazia,

3. Nella quale dobbiamo perseverare.

1.

Quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo, siamo stati battezzati nella morte di Lui. Queste parole alludonoalla maniera con cui veniva amministrato il Battesimo nei primi tempi della Chiesa. Il battezzando veniva immerso nell’acqua, e subito ne usciva. L’immersione nell’acqua rappresentava la morte e la sepoltura del Redentore;e vi era pure significata la morte mistica del neofito; la sepoltura del vecchio uomo con i suoi peccati. Infatti, nel Battesimo, per virtù dello Spirito Santo, vengono pienamente cancellati tutti i peccati. Cancellati i peccati, anche il dominio di satana cessa. L’anima che era schiava diventa libera; «Poiché il demonio non può dominare che per mezzo dei peccati» (S. Agostino. En. In Ps. LXXII, 5).Coloro che nel Battesimo sono liberati dal peccato «lasciano oppresso nell’acqua il demonio, antico dominatore» (Tertulliano. De Baptismo. 9. 2). – Dell’importanza di questa liberazione dal giogo di satana è tutta piena la liturgia del Battesimo. Subito, in principio della cerimonia, il sacerdote, dopo che ha ammonito il battezzando sull’osservanza dei comandamenti e sull’amor di Dio, si rivolge allo spirito delle tenebre, e gli intima: «Esci da lui, o spirito immondo, e cedi il luogo allo Spirito Santo Consolatore». Segnato con un duplice segno di croce, il battezzando si rivolge ancora allo spirito delle tenebre e gli fa sentire l’ingiunzione da parte di Dio. «Ti esorcizzo, spirito immondo, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, perché t’allontani da questo servo di Dio. Te lo comanda, dannato maledetto, colui che camminò sul mare, e porse la destra a Pietro che stava per sommergersi». Introdotto il battezzando in chiesa, dopo altre cerimonie, prima che venga battezzato, il sacerdote gli domanda: «Rinunci a satana… e a tutte le sue opere… e a tutte le sue pompe?». Dopo la triplice dichiarazione di rinuncia al demonio, alle sue opere, alle sue pompe si procede ad altri riti, e finalmente al Battesimo. – I primi Cristiani, innanzi di ricevere il Battesimo venivano a lungo istruiti sull’importanza di queste cerimonie. Così si fa ancora di regola generale, anche oggi nei paesi infedeli. Da noi, specialmente per assicurare la salvezza dell’anima contro le sorprese della morte, il Battesimo si amministra, in via ordinaria, ai bambini. Ma questa circostanza non ci sottrae all’obbligo di stare alle rinunce fatte per noi dai padrini. Ogni promessa è debito, sia essa fatta da noi, sia fatta da altri per noi. Neppure ci sottrae all’obbligo di istruirci sugli effetti del Battesimo. II Cristiano non ringrazierà mai abbastanza Dio, che nel Battesimo gli ha tolto la macchia del peccato che deturpava l’anima sua, che ha spezzato i vincoli che lo tenevano legato a satana, liberandolo dal suo dominio. Il Cristiano non farà mai troppo per restar fedele alle promesse e alle rinunce fatte nel Battesimo, se non vuol essere un Cristiano solamente di nome.

2.

Per il Battesimo siamo stati, dunque, sepolti con Lui nella morte; affinché a quel modo che Gesù Cristo risuscitò da morte, mediante la gloria del Padre, così, anche noi viviamo una nuova vita. Il Battesimo che ci unisce a Gesù nella morte e nella sepoltura, ci unisce pure con Lui nella risurrezione. Per la gloriosa potenza del Padre, Gesù Cristo è risuscitato da morte a vita immortale: e noi partecipiamo alla sua risurrezione, risorgendo dalle acque del Battesimo a una vita nuova. Se nel Battesimo non risorgiamo a una vita nuova, tutta diversa dalla vita passata a che ci gioverebbe esser stati sepolti in esso con Gesù Cristo?Il Battesimo trasforma l’uomo. Se ci fosse concesso di vedere un’anima qual era prima del Battesimo e qual è dopo, non la riconosceremmo più. Prima del Battesimo indossava la veste di Adamo, la veste del peccato. Dopo il Battesimo indossa la veste candida della grazia, la veste di Gesù Cristo, al quale il battezzato è stato incorporato. «Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo», ricorda S. Paolo ai Galati (III, 27). Salomone, parlando della sapienza che egli aveva chiesto a Dio, dice: «E insieme con essa vennero a me tutti i beni, e per le mani di lei un’infinita ricchezza» (Sap. VII, 11). Lo stesso può ripetere ciascuno che ha ricevuto la veste della grazia nel Battesimo. L’uomo con il peccato aveva offeso Dio; e l’offesa fattagli non avrebbe mai potuto riparare. Aveva contratto un debito che nessuno, al mondo, avrebbe potuto estinguere. Con il Battesimo l’offesa è riparata, il debito è estinto. L’uomo da nemico di Dio diventa sua amico, anzi figlio adottivo. «Siete stati mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signor nostro Gesù Cristo, e mediante lo Spirito del nostro Dio» (I Cor. VI, 11), dichiara l’Apostolo ai Corinti. Esule dal Paradiso l’uomo non poteva aspirare a mettervi il piede, se fosse dipeso dalle sue forze. Era una condanna, che non si sarebbe potuta scontare col tempo, e che nessun uomo poteva togliere. Nel Battesimo la condanna è tolta. «Nessuna condanna, dunque, ora per coloro che sono incorporati in Cristo» (Rom. VIII, 1). Divenuto nel Battesimo membro della Chiesa, l’uomo può usare dei mezzi della grazia, che essa somministra per la santificazione dei suoi figli; e progredire, così, sempre più nella santità cui è chiamato. S. Gerolamo, parlando del Battesimo, dichiara: «Mi mancherebbe il tempo, se volessi esporre quanto si contiene nella Sacra Scrittura su l’efficacia del Battesimo». (Epist. 69 7, ad Ocean.) A noi basti considerare che, prima del Battesimo, l’uomo è tempio del demonio, e, dopo, è tempio di Dio; che nel Battesimo egli è generato a una vita nuova, la vita della grazia.

3.

Gesù Cristo aveva preso sopra di sé i peccati di tutti gli uomini, e morì come rappresentante dei peccatori. Morì, però, una volta per sempre. Ed espiati i peccati una volta per sempre, mediante la sua morte, non ha più che fare con il peccato. La vita che vive dopo la sua risurrezione, la vive a onore e gloria di Dio. Alla stessa guisa — dice S. Paolo — anche voi consideratevi morti al peccato e viventi a Dio in Cristo Gesù Signor nostro ». Cioè, ad esempio di Gesù Cristo, dobbiamo considerarci morti per sempre al peccato, e condurre a onore e gloria di Dio la vita, che Egli ci serba dopo il Battesimo. – Il popolo d’Israele s’era sottratto alla schiavitù dell’Egitto, attraverso il Mar Rosso. Da questo mare Israele esce salvo; ma i suoi nemici vi trovano la morte, sepolti nelle onde. Sentiamo una bella osservazione di S. Agostino. «Muoiono nel Mar Rosso tutti i nemici di quel popolo, muoiono nel Battesimo tutti i nostri peccati. Osservate fratelli: dopo quel Mar Rosso non vien data subito la patria, né il trionfo è completamente sicuro, come se non esistessero più nemici; poiché rimane ancora la solitudine del deserto; rimangono ancora i nemici che insidiano il cammino. Così, anche dopo il Battesimo, la vita cristiana è soggetta alla tentazione», (En. In Ps. LXXII, 5) Dal Battesimo il Cristiano è risorto a nuova vita con Gesù Cristo, ma la concupiscenza, ch’è rimasta anche dopo la morte al peccato, non gliela lascia godere con completa sicurezza. Di qui la necessità, per il Cristiano, di lottare continuamente contro la concupiscenza per non lasciarsi trascinare da essa, alla vita di peccato di prima. Sarebbe un inganno dormir tranquilli, perché nel Battesimo e più tardi nella Confessione, i nostri peccati furono seppelliti. Un giardiniere apparecchia con tutta cura l’aiuola. Con la vanga volta, sminuzza il terreno e lo monda dalle erbe inutili e nocive. Ma quanti germi vi son rimasti, sfuggiti al suo sguardo, o vi sono continuamente portati. Senza ulteriori, continue cure, quell’aiuola si ricoprirà ben presto dell’erbacce di prima. Senza continua vigilanza e premura, i peccati che furono sepolti nel Battesimo, e più tardi nella Penitenza, torneranno ben presto a dominare. Quando il missionario versa sul capo dei neofiti, da lui preparati, l’acqua del Battesimo, si sente l’animo ripieno di giubilo al pensiero che la Chiesa acquista un nuovo figlio, e il Cielo un nuovo erede. Ma questo giubilo è ben spesso turbato da un dubbio: Si manterrà costante nella fede? Continuerà nella buona via? Date le circostanze, i pericoli in cui vengono a trovarsi quei novelli convertiti, l’esperienza dimostra che questo dubbio non è fuor di posto. Questa domanda facciamocela schiettamente noi: Abbiam continuato nella buona via? Non siamo più ritornati al peccato al quale eravamo morti nel Battesimo? Domanda molto opportuna, anzi, necessaria, poiché «per il solo Battesimo non si consegue la vita eterna, se dopo averlo ricevuto si vive malamente » (S. Fulgenzio De Reg. verae Fidei. 44). Dopo il Battesimo abbiamo un altro Sacramento, nel quale vengono seppelliti i nostri peccati; ma anche questo Sacramento, come il Battesimo, va ricevuto con il fermo proposito di risorgere a vita nuova e di non ritornare più al peccato. C’è sempre questa disposizione nel continuo alternarsi di grazia e di peccato, di morte e di vita dell’anima? A confermare il nostro proposito di esser morti per sempre al peccato e di progredire nella vita della grazia, giova grandemente la considerazione della dignità, da noi conseguita nel Battesimo, e degli obblighi che ne derivano. Tanti usano notare su apposito memoriale le date più importanti della vita. I cristiani fervorosi non trascurano di porre, tra queste date, quello del Battesimo, della Cresima, della 1. Comunione. Un santo e zelante missionario, il gesuita P. Vittorio Delpech, per tenersele in mente più facilmente e in modo più vivo, le scrisse sopra un cranio, che volle aver sempre con sé. La data della nascita era scritta sulla fronte, accompagnata da questi due. versetti: «Ricorda il tuo Battesimo ed esulterai in eterno. — Ricorda i novissimi e non peccherai in eterno». Se vogliamo pervenire all’esultanza a cui il Battesimo ci dà diritto, ricordiamolo spesso, e non smentiamolo mai.

Graduale

Ps LXXXIX: 13; LXXXIX: 1 Convértere, Dómine, aliquántulum, et deprecáre super servos tuos. V. Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie. Allelúja, allelúja. [Vòlgiti un po’ a noi, o Signore, e plàcati con i tuoi servi. V. Signore, Tu sei il nostro rifugio, di generazione in generazione. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XXX: 2-3 In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me: inclína ad me aurem tuam, accélera, ut erípias me. Allelúja. [Te, o Signore, ho sperato, ch’io non sia confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e allontanami dal male: porgi a me il tuo orecchio, affrettati a liberarmi Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Marcum.

Marc. VIII: 1-9 In illo témpore: Cum turba multa esset cum Jesu, nec haberent, quod manducárent, convocatis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce jam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos jejúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et jussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quatuor mília: et dimísit eos.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXXIV

“Di quei giorni essendo di nuovo grande la folla con Gesù, né avendo quelli da mangiare, chiamati a sé i discepoli, disse loro: Mi fa compassione questo popolo, perché sono già tre giorni che si trattiene con me, e non ha da mangiare, e se li rimanderò alle case loro digiuni, verranno meno per istrada: imperocché taluni di essi son venuti di lontano. E i discepoli gli risposero: E come potrà alcuno qui in una solitudine satollarli di pane? Ed egli domandò loro: Quanti pani avete? Risposero: Sette. E ordinò alle turbe che sedessero per terra. E presi i sette pani, rese le grazie, li spezzò, e li diede a’ suoi discepoli, perché li ponessero davanti alle turbe, come li posero. E avevano ancora pochi pesciolini: e questi pur benedisse, e ordinò che fossero distribuiti. E mangiarono, e si satollarono; e raccolsero degli avanzi che rimasero, sette sporte”. (Marc. VIII, 1-8).

Nostro Signor Gesù Cristo per due volte nel tempo della sua vita pubblica operò il miracolo della moltiplicazione dei pani. La prima volta con cinque pani e con due pesci il Redentore diede nutrimento a cinquemila uomini, senza contare le donne ed i fanciulli, avanzando ancora dodici ceste di pane. La seconda volta Gesù moltiplicò sette pani e alcuni pochi pesciolini, dando cibo a quattromila uomini, anche qui senza tener conto delle donne e dei fanciulli, ed avanzando sette sporte. Il primo di questi miracoli, che è anche il più strepitoso, ci viene ricordato nel Vangelo della quarta domenica di quaresima; ed il secondo viene proposto alla nostra considerazione oggi.

1 . Racconta adunque il Vangelo di questa Domenica come essendo grande la folla che teneva dietro a Gesù, attirata dalle sue parole e da’ suoi prodigi, né avendo da mangiare, chiamati a sé i discepoli, disse loro: Mi fa compassione questo popolo, perché sono già tre giorni che si trattiene con me, e non ha da mangiare; e se li rimanderò alle case loro digiuni verran meno per istrada: imperocché taluni di essi sono venuti da lontano. E qui, o miei cari, come non restare ammirati di queste turbe devote, le quali, abbandonate le loro case, i loro lavori e le loro industrie, a cielo aperto, a stomaco digiuno, se ne stavano da tre giorni e tre notti presso di Gesù per godere della sua compagnia e ascoltare la sua predicazione! Quale contrasto tra queste turbe così sollecite di apprendere e di fare ciò che gioverà alla loro eterna salute, e tanti Cristiani, i quali alle cose di Dio e dell’anima pensano così poco! Eppure esige forse il Signore che per attendere alle cose di Dio e dell’anima lasciamo ancor noi le nostre faccende e per più giorni di seguito? No, o miei cari. È bensì vero che tutti i giorni sono del Signore, e che tutti li dobbiamo dedicare alla sua gloria; ma siccome i bisogni della vita c’impediscono di sempre attendere agli esercizi di religione, Iddio riservavasi in modo speciale un giorno solo della settimana, ordinando però che fosse da noi occupato nel conoscerlo, nell’adorarlo e nel servirlo. E questo comandamento lo fece fin dal principio del mondo, perciocché il Signore, creato l’universo, santificò subito un tal giorno, onde gli uomini celebrassero la memoria della creazione e del misterioso riposo, ch’Egli prese dopo aver compiuta l’opera sua. Questo giorno nella Legge antica era il settimo, e si chiamava Sabbato, parola che significa riposo: ma nella Legge nuova è il primo giorno della settimana, che si chiama Domenica, ossia giorno del Signore, sostituito al Sabbato dagli Apostoli, per divina ispirazione, in memoria della Risurrezione di Gesù Cristo, e delia discesa dello Spirito Santo. Il Signore dice adunque: « Lavorate per sei giorni, ma il settimo è il riposo del vostro Iddio, e in esso non lavorate, né voi. né il figlio vostro, né il vostro servo. Con tutto ciò andando con noi con la massima larghezza, ci permette i lavori voluti dalla necessità e dalla carità, come anche le opere dette liberali, quali sono leggere, scrivere, disegnare, e simili, vietando solo le opere servili, cioè ogni lavoro che può distogliere dall’attendere al divino servizio. Poteva adunque il Signore essere meno esigente con noi! Epperò questa poca esigenza di Dio a nostro riguardo non accresce anche di più la gravezza della nostra colpa nel non obbedirlo? Che gran male adunque è quello di occuparsi in tal giorno in opere mercenarie, senza grave necessità imposta o dal divino servizio, o dal servizio pubblico, o dalla mancanza del necessario alla vita! Che male anche peggiore l’abbandonarsi nel giorno di festa a profani dissipamenti, a divertimenti mondani, ad atti peccaminosi! Questi sono vietati sempre, ma non debbono esserlo anche maggiormente nei giorni sacri al Signore? Certamente il peccato è sempre un gran male, anche commesso nei dì feriali; ma in giorno di festa apparisce come una maggiore enormità, essendo che indica una dimenticanza più grande del Signore, ed un disprezzo più marcato della sua santa legge. Ma a non offendere Iddio e a soddisfarlo invece nei giorni festivi non basta astenerci dalle opere servili e peccaminose, bisogna anche occupare la festa nel suo santo servizio, applicandoci ad opere di pietà e di religione. In ciò consiste l’essenza ed il fine del precetto. Se Dio comanda d’interrompere i lavori ordinari, si è affinché niente ci distolga dall’attendere al divino suo servizio. Potrebbe essere onorato Iddio con un riposo di ozio? Si santificherebbe forse questo giorno, passandolo unicamente nel divertirsi? No, certo: ciò che santifica il giorno consacrato a Dio è l’assistenza alla Messa, ai divini uffici, alle istruzioni religiose, ad ogni buona opera, che ha per oggetto il culto di Dio, la santificazione dell’anima nostra o il bene del prossimo. Iddio però non vieta un sollievo onesto o moderato: no, esso ci è necessario, e possiamo prenderlo; non mai tuttavia a danno della pietà e in tempo destinato all’orazione, alle funzioni ecclesiastiche e all’istruzione religiosa. – Nella legge di Mosè vi era la pena di morte contro i profanatori del Sabbato; dappoiché Iddio non solo comandò che fosse lapidato chi trovarono in tal giorno a raccogliere sarmenti nel deserto, ma disse ancora a Mosè: « Parla ai figliuoli d’Israele e di’ loro: Osservate il Sabato, perché per voi è santo: chi lo violerà, sarà punito con la morte ». Se ora Iddio sembra mostrarsi più clemente, non dobbiamo però abusarcene. E poiché Iddio, così buono e così largo con noi si accontenta, che al suo divino servigio e alle cose dell’anima impieghiamo in modo speciale un giorno solo della settimana, ossequenti al suo comando, impieghiamolo con impegno.

2. Gesù, pieno di compassione per quel popolo, che gli dava prova di tanto amore, rivolse a lui il suo pensiero, non potendo patire che se ne tornasse a casa digiuno, e temendo che alcuno ne avesse a soffrire. Ma alle parole di Gesù i discepoli, che sembravano aver già dimenticato il miracolo della prima moltiplicazione dei pani, risposero: E come potrà alcuno qui in una solitudine satollarlo di pane? E il Signore domandò loro: Quanti pani avete? Risposero: Sette. E fatta (ancor questa volta) sedere a terra quella moltitudine, benedice, spezza, moltiplica, fa distribuire quei sette pani avuti ed alcuni pesciolini che pur si trovarono, ed (anche questa volta) quelle turbe mangiarono, e furono satollate, anzi, raccolto ciò che era rimasto, si empirono ancora sette sporte. Che strepitoso miracolo è questo! Eppure un miracolo assai più grande è quello a cui si assiste e di cui si gode qui nelle nostre chiese specialmente alla Domenica dai buoni Cristiani, che vengono ad assistere al santo Sacrifizio della Messa. Ed in vero, si può dire che sia piccola meraviglia ciò che nel Sacrifizio della santa Messa operano poche parole, non già profferite da Dio, ma da un semplice sacerdote! E chi mai poteva immaginarsi che la voce di un uomo, la quale non ha forza dalla natura neppure di alzare una paglia da terra, dovesse poi avere dalla grazia una forza così straordinaria da far scendere dal cielo in terra il Figlio di Dio? Questo pertanto è un prodigio analogo a quello della moltiplicazione dei pani, ma di gran lunga superiore, giacché per esso avviene in certa guisa la moltiplicazione del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo. E ciò con quale immenso vantaggio, non solo specialissimo per coloro che vi assistono, ma ancor generale per tutto il mondo. Se al mondo non vi fosse il sole, che sarebbe mai di esso? Ogni cosa sarebbe tenebre, orrore, sterilità e somma miseria. Ma se al mondo non vi fosse la S. Messa, noi saremmo privi di ogni bene, e ricolmi di ogni male; saremmo il bersaglio di tutti i fulmini dell’ira di Dio. – Alcuni si meravigliano, parendo loro che Iddio abbia cambiato il modo di governare, essendo che anticamente si faceva chiamare il Dio degli eserciti, e parlava ai popoli framezzo alle nuvole, e con i fulmini alla mano, e castigava le colpe con tutto il rigor della sua giustizia, mentre ora tollera con pazienza non solo le vanità e le leggerezze; ma i peccati più sordidi, gli scandali più iniqui, e le bestemmie più orrende, che molti de’ Cristiani vomitano ad ogni tratto contro il suo santissimo nome. Come va dunque! Perché sì gran diversità di governo? Forse le nostre ingratitudini sono più scusabili, che non erano prima? Tutto all’opposto. Sono assai più colpevoli, stante l’aggiunta di benefici sì immensi. La ragione vera di sì stupenda clemenza è la S. Messa, in cui si offre all’eterno Padre questa gran vittima di Gesù. Ecco il sole di Santa Chiesa, che dissipa le nuvole, e rasserena il cielo. Ecco l’arco celeste, che placa la tempesta della divina giustizia. Io per me credo, dice S. Leonardo da Porto Maurizio, che se non fosse la Santa Messa, a quest’ora il mondo sarebbe già sprofondato, per non poter più reggere al grande peso di tante iniquità; la Messa è quel poderoso sostegno, che lo tiene in piedi. Arguite adunque da tutto questo, quanto vantaggioso per il mondo intero sia il divin Sacrifizio dei nostri altari. Ora, o miei cari, non rattrista il vedere taluni a farne poco e nessun conto! Alcuni giungono a tal segno d’infedeltà verso la bontà di Dio, che ommettono di assistere all’augusto sacrifizio della santa Messa nei medesimi giorni festivi. Altri la vanno ad ascoltare di rado, o vi stanne di mala voglia: altri l’ascoltano distratti, senza modestia, senza venerazione, senza rispetto, rimanendo seduti o in piedi, talvolta ridendo, talvolta parlando o guardando qua e là. Deh! Non sia così di noi. Quando andiamo ad ascoltare la santa Messa, procuriamo di assistervi col massimo raccoglimento. Il nostro spirito, il nostro cuore, i sentimenti nostri non siano ad altro intenti che ad onorare Iddio. Oh! una Messa ben ascoltata quali grazie e benedizioni ci può apportare! La grazia che ricevettero le turbe nel deserto coll’essere state satollate di cibo materiale non è che un’ombra di quella grazia spirituale ed abbondante, con cui Iddio riempie l’anima nostra durante il sacrifizio della Messa. Epperò aveva ancor ben ragione lo stesso S. Leonardo di predicare così: ” Lasciate che io salga sulle cime dei più alti monti, e quivi a gran voce esclami: Popoli ingannati, che fate voi? Perché non correte alla chiesa ad ascoltare santamente quante Messe potete?” Ma se Iddio vuole dispensare con tanta abbondanza le sue grazie specialmente nei giorni a lui sacri e durante il Sacrifizio della Messa, non lascia tuttavia di dispensarle negli altri tempi, massime a coloro che vanno a visitarlo, a passare qualche istante con Lui, che si trova nel SS. Sacramento. Sì, o miei cari, nostro Signor Gesù Cristo trovasi realmente presente nei nostri tabernacoli, e vi sta notte e giorno per spargere sopra di noi una pioggia non mai interrotta di benedizioni celesti. Ma Egli desidera ardentemente, che noi imitiamo le turbe del deserto, che ci avviciniamo a Lui, che ci rechiamo a fargli visita, che ci intratteniamo qualche volta presso i suoi altari. Un giorno dandosi a vedere a San Giovanni Berchmans e mostrandogli una corona di rose, “ecco – gli disse – le mie grazie: ma io le comparto a coloro, che vengono dinnanzi ai miei altari per domandarmele”. Ecco pertanto le parole che rivolge a noi dal santo tabernacolo: “Venite, o voi che siete travagliati dalle sventure, dalle traversie, dalle infermità della vita, ed Io vi ristorerò; venite, voi già vicini al tramonto della vita, ed Io vi sosterrò nei vostri stanchi anni. Venite voi massimamente, o giovani, che nell’aprile della vita siete dal mondo, dal demonio, dalla carne sollecitati a correre perdutamente a cogliere i fiori di ogni vietato piacere, a porre il labbro incauto al calice di Babilonia, sì, venite a me, e Io sarò il fiore soavissimo dell’anima vostra, e Io vi darò a gustare le dolcezze inebrianti del mio purissimo amore, e vi farò cittadini onorati della terrena e della celeste Sion. Sì, perché Io conosco i vostri bisogni, ed ho compassione di voi: misereor super turbam!” E noi non asseconderemo questo tenero invito? Ah! I Santi trovavano le loro delizie in visitare sì spesso Gesù, e nello sfogarsi con Lui in dolci affetti! S. Vincenzo de’ Paoli lo visitava più spesso che gli era possibile, e il principale sollievo che prendeva tra le gravi sue occupazioni, era quello di passare un po’ di tempo dinnanzi al sacro Tabernacolo. S. Luigi Gonzaga era tutto in festa quanto poteva fare compagnia al suo caro Gesù, e non sapeva partirsene che con pena. S. Francesco Saverio, in mezzo alle immense sue fatiche, trovava un grandissimo ristoro nel passare gran parte della notte avanti a Gesù Sacramentato. Lo stesso soleva fare San Francesco Regis, il quale, trovando chiusa talvolta la chiesa, si tratteneva di fuori genuflesso avanti alla porta, esposto all’acqua e al freddo per far corteggio, almeno così da lontano, al suo Sacramentato Signore. Oh, che vastissimo campo allo sfogo della divozione presenta mai un altare dove abita Gesù Sacramentato! Prendiamo adunque, o miei cari, la bella pratica di fare ogni giorno una visita a Gesù Sacramentato. Non occorre che ci fermiamo molto tempo in chiesa: basteranno pochi minuti, purché questi siano da noi ben impiegati nel fare qualche atto di adorazione e di amore, nel domandare umilmente qualche grazia. Come ne sarà contento Gesù e quanto ne avvantaggerà l’anima nostra!

3. Finalmente dobbiamo considerare che non è solamente nel SS. Sacramento dell’Eucarestia che noi possiamo essere rifocillati della grazia di Dio, ma in tutti quanti i sette Sacramenti. I quali appunto, come osserva il Venerabile Beda, sono raffigurati nel miracolo di oggi, prima nei sette pani, che Gesù moltiplicò e poi, come nota San Giovanni Grisostomo anche nelle sette sporte che avanzano. Imperciocché i sette Sacramenti di nostra Santa Chiesa sono sempre superstiti, sempre duraturi sino alla consumazione dei secoli, benché continuamente ne siano nutriti i fedeli Cristiani. Quanto grande adunque è la bontà di Gesù Cristo, il quale con l’istituzione dei sette Sacramenti, che dureranno sine alla fine del mondo, va perpetuando nella sua chiesa il gran miracolo della moltiplicazione incessante della sua grazia per cibarne e riempierne le anime dei Cristiani, secondo i bisogni diversi della loro vita. Difatti per mezzo del Battesimo noi nasciamo spiritualmente in Gesù Cristo, siamo accolti nel seno di santa Madre Chiesa, cessiamo di essere schiavi del demonio, diventiamo figliuoli di Dio e perciò eredi del paradiso. Nella Cresima, ovvero Confermazione, noi siamo rafforzati e rinvigoriti ricevendo la pienezza dei doni dello Spirito Santo, e diventando perfetti Cristiani. Nell’Eucarestia Gesù Cristo ci dà in nutrimento e ristoro il suo sangue, la sua anima e la sua divinità sotto le specie del pane e del vino consacrati. Nella penitenza siamo guariti dalle infermità del peccato contratte dopo il Battesimo. Nella Estrema Unzione, ovvero Olio Santo, Dio viene in soccorso degl’infermi, e per mezzo della sacra unzione ci comunica le grazie necessarie per cancellare dall’anima nostra i peccati con le loro reliquie, per darci forza a sopportare pazientemente il male, fare una buona morte, qualora Iddio abbia decretato di chiamarci all’eternità, ed anche per dare la sanità corporale, se è utile alla salute dell’anima. Nel Sacramento dell’Ordine ovvero nella sacra Ordinazione, Dio comunica ai sacri Ministri le grazie convenienti per acquistare quell’alto grado di santità, che loro è necessario, ed anche per poter guidare ed istruire i fedeli nella fede, nella fuga del vizio, e nella pratica delle virtù. Finalmente il Matrimonio è quel Sacramento, che dà la grazia ai coniugati di vivere tra loro in pace e carità, ed allevare cristianamente la propria figliolanza, qualora Iddio nell’infinita sua sapienza giudichi di concederne. Vedete adunque, o cari giovani e cari Cristiani, con quale bontà, con quale sapienza, con quale armonia Gesù Cristo ha stabilite nei suoi Sacramenti quelle grazie, che ci sono necessarie nelle diverse condizioni della vita. Poteva Egli essere più generoso con noi? Oh sì, riconosciamo e confessiamo che in confronto di tutto questo è ben poca cosa il miracolo della moltiplicazione dei pani a prò di quelle turbe del deserto. Ma intanto fermiamoci alcuni istanti a considerare come abbiamo corrisposto a questi grandi segni dall’amor Divino; che se ci accorgessimo, che la nostra coscienza ci rimorda di qualche ingratitudine, procuriamo di porvi rimedio al più presto possibile, specialmente col prepararci a fare una buona Confessione e una buona Comunione. E intanto non dimentichiamo, che se noi non ci diamo sollecitudine di approfittare di questi grandi mezzi di salvezza secondo lo stato in cui ci troviamo, noi non potremo partecipare al gran benefizio della Redenzione, e perciò non potremo salvare l’anima nostra.

Credo …

Offertorium

Orémus

Ps XVI: 5; XVI: 6-7 Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi sui tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino: porgi l’orecchio ed esaudisci la mia preghiera: fa rispleyndere le tue misericordie, o Signore, Tu che salvi quelli che sperano in Te.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, et has pópuli tui oblatiónes benígnus assúme: et, ut nullíus sit írritum votum, nullíus vácua postulátio, præsta; ut, quod fidéliter pétimus, efficáciter consequámur. []

Communio

Ps XXVI: 6 Circuíbo et immolábo in tabernáculo ejus hóstiam jubilatiónis: cantábo et psalmum dicam Dómino. [Circonderò, e immolerò sul suo tabernacolo un sacrificio di giubilo: canterò e inneggerò al Signore].

Postcommunio

Orémus.

Repléti sumus, Dómine, munéribus tuis: tríbue, quæsumus; ut eórum et mundémur efféctu et muniámur auxílio. [Colmàti, o Signore, dei tuoi doni, concédici, Te ne preghiamo, che siamo mondati per opera loro e siamo difesi per il loro aiuto.]

Per l’ordinario vedi:

ORDINARIO DELLA MESSA – ExsurgatDeus.org