LA GRAZIA (2)

LA GRAZIA (2)

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II; S. E. I. ed. Torino – 1930]

9. ABBONDANZA DI GRAZIE. — « In Gesù Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e noi ne siamo in Lui riempiti » — In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter; et estis initio repleti (Coloss. II, 9-10). Ora, se siamo riempiti della divinità, è chiaro che abbondano in noi tutte le grazie, poiché abbiamo in noi l’autore di tutte, il quale, come ci dice S. Giacomo, le dispensa largamente a tutti, senza muoverne rimprovero: — Dat omnibus affluenter, et non improperat (I, 5). Quindi gli Atti Apostolici notano che la grazia si manifestava abbondante nei Cristiani: — Et gratia magna erat cum omnibus illis (Act. IV, 33), e S. Bernardo confessa che Gesù Cristo gli si era comunicato tutto intero, e si era messo tutto quanto ai suoi servizi (Totus mihi datus, et totus in meos usus expensusSerm., in Cantic.).S. Tommaso insegna, che Dio dà con liberalità e generosità, non a prezzo; dà universalmente, non a uno solo ma a tutti … ; dà a profusione…, con bontà, senza rinfacciare il dono (3 p. q. art. 9). S. Ambrogio ci assicura che Dio ricompensa le nostre buone opere molto più abbondantemente di quello che esse non si meritino. Iddio, dicono d’accordo i teologi, punisce meno di quel che l’uomo meriti, ma premia oltre ogni merito. Questa dottrina concorda con quelle parole dell’apostolo Pietro: « Studiatevi sempre meglio, o fratelli, di assicurare per mezzo delle buone opere la vostra elezione e vocazione; perché facendo questo, voi non cadrete. E così vi sarà aperta una larga entrata nel regno eterno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo (II PETR. I, 10-11) ». Ah sì! ogni uomo può dire col Salmista, che Dio lo ha prevenuto con le benedizioni della sua clemenza: — Prævenisti eum in benedictionibus dulcedinis (Psalm. XX, 3), e che l’anima sua si è impinguata dei divini favori: — Sicut adipe et pinguedine repleatur anima mea (Psalm. LXII, 5). Chi non è ingrato ai benefizi di Dio, deve invitare quanti conosce e incontra a udire il racconto delle ammirabili grazie di cui lo ha colmato il Signore: — Venite, audite, et narrabo quanta fecit animæ meæ (Psalm. LXV, 15), ed esclamare: « Che renderò io mai al Signore, in ricambio di tanti beni di cui mi ha arricchito?— Quid retribuam Domino, prò omnibus quae retribuit mihi? (Psalm.CXV, 3). Dio può dire veramente che « ha inebriato le anime languide e saziato le affamate » — Inebriavi animam lassam, et omnem animam esurientem saturavi (JER. XXXI, 25); e in tutti coloro che vogliono, si avvera quel detto d’Isaia: «Non sentiranno più né la fame né la sete, perché Iddio misericordioso li disseterà ai fonti delle acque » — Non esurient, neque sitient, quia miserator ad fontes aquarum potabit eos (XLIX, 10); di quelle acque di cui diceva la Sposa dei Cantici: « La fontana dei vostri giardini è una polla di acqua viva che si precipita (su di me) dal Libano (dell’eternità) »— Fons hortorum, puteus aquarum viventium quæ fluunt impetu de Libano – (Cant. IV, 15). Dio nutrisce i Cristiani col suo Vangelo, con la sua dottrina, con i suoi favori, con la santa Eucaristia; li protegge nelle tentazioni; se si affidano a Lui e lo seguono, se vogliono cooperare alla sua grazia; escono vincitori di tutte le tentazioni, non patiscono più né fame, né sete… Chi può contare le grazie che Dio concede all’uomo? Grazie temporali…, grazie spirituali …; grazie interiori …, grazie esteriori…; grazie di creazione…, di redenzione.., di provvidenza…, di Sacramenti…; grazie per il corpo, per l’anima, per la mente, per il cuore, per la memoria, per la volontà; grazie nel tempo…, grazie nell’eternità…, grazie universali …, grazie particolari …, grazie ad ogni istante, tanto che Dio può dire a ciascuno di noi quello che disse al popolo ebreo: « Che altro c’era da fare alla mia vigna, che io non l’abbia fatto? » — Quid est quod debui ultra tacere vineæ meæ, et non feci? (Is. V, 4).

10. LA GRAZIA È  UN INNESTO DIVINO. — La comunicazione della grazia ha molta rassomiglianza con l’innesto delle piante; perché 1° come si fa l’innesto di un albero di buona specie in un ramo di albero selvatico e sterile, affinché produca frutti saporiti e deliziosi, così la grazia comunicata dal cielo a noi, polloni selvatici e sterili, ci fa produrre abbondanti ed eccellenti frutti di buone opere. 2° Si prende il ramo da un albero di buona specie per innestarlo in uno di cattiva; così la grazia viene da Dio, virtù e santità per essenza, nel cuore dell’uomo di corrotta natura … 3° Alla pianta selvatica si recide un ramo che è surrogato da un altro produttivo; così la grazia taglia via da noi la parte del vecchio Adamo e vi pone invece il nuovo, cioè Gesù Cristo… La gemma che s’inserisce sull’albero, prende il medesimo succo e gli si riunisce perfettamente; così con la grazia noi veniamo incorporati a Gesù Cristo, uniti, trasformati in Lui, divinizzati … Il ramo s’innesta su l’albero affinché ne partecipi il succo; la grazia ci è data perché assorbisca in noi tutto quello che è della natura … L’innesto si deve fare nella primavera, mentre gli alberi sono in succhio; nessun tempo della vita è più propizio per l’innesto della grazia nel cuore dell’uomo, che quello della giovinezza … La pianta si deve fendere fino al midollo, se si vuole che l’albero profitti dell’innesto; così l’anima deve aprirsi fino al cuore, per mezzo dell’amore di Gesù Cristo, affinché possa unirsi a Lui e formare un solo cuore. Come il midollo si confonde col midollo, così il nostro cuore si unisce al cuore di Gesù Cristo per mezzo della grazia… Come s’incide l’albero per l’innesto, così bisogna tagliare, recidere, schiantare le passioni dal nostro cuore, se vogliamo che vi alligni l’innesto di Gesù Cristo… 9°. L’innesto è diligentemente avviluppato e difeso dal freddo, dal caldo, dai venti, dagli insetti nocivi e si copre perfino di fango; così l’anima deve abbracciarsi a Gesù Cristo ed essere difesa contro tutte le tentazioni di accidia, di gola, di orgoglio, di lussuria, ecc., per mezzo della meditazione del proprio niente, del fango di cui siamo composti, delle miserie umane, della morte, dei peccati commessi… 10° L’innesto si fa nell’alto della pianta; la grazia deve dominare tutti i pensieri e i fatti nostri … 11° L’albero selvatico e sterile che poco o nulla produceva, e quel poco di sapore amaro e di nessun valore, produce in forza del legittimo innesto frutti belli a vedersi e dolci al gusto; così la grazia deve produrre in noi frutti di buoni esempi… 12° La pianta adotta l’innesto; per mezzo della grazia, Dio ci adotta in figli… 13° L’innesto si unisce indissolubilmente all’albero, il cuore deve vincolarsi inseparabilmente alla grazia…

11. LA GRAZIA È PARAGONATA ALLA PUPILLA DELL’OCCHIO. — «Avrà cura della grazia come della pupilla degli occhi suoi », leggiamo nell’EcclesiasticoGratiam quasi pupillam conservabit (XVII, 18). Bello e vero è questo paragone della grazia alla pupilla dell’occhio! Difatti, in primo luogo, nella pupilla si riflette al vivo l’immagine della bellezza e della bontà dell’occhio; e la grazia è il più splendido riverbero della bellezza e della bontà di Dio, poiché essa è la più pura partecipazione della divinità… In secondo luogo la pupilla forma l’ornamento e il brio del volto; la grazia è l’ornamento e la dignità dell’anima; se si toglie o si offende la pupilla, si acceca l’uomo; se si toglie la grazia si acceca, anzi si uccide l’anima. Spegnete il sole nel firmamento lungo il giorno, spegnete la luna e le stelle lungo la notte, e il cielo diventa oscurità e tenebre; togliete la grazia da un’anima, e voi distruggete il sole e le stelle dello spirito, non vi restano che folte tenebre nell’intelligenza e nella ragione, una tetra ed eterna notte pesa su l’anima priva della grazia, perché questa è per lei quello che è il sole per la terra e per il mondo…

12. ECCELLENZA DELLA GRAZIA. — La grazia è la sorgente della gloria dalla quale esce e alla quale conduce… «L’acqua che io vi darò, dice Gesù Cristo, è fonte di acqua che sale alla vita eterna » — Aqua, quam ego dabo eis fiet in eos fons aquae salientis in vitam aeternamIOANN. IV, 14). Il Redentore chiama acqua viva  la sua grazia, perché viene dal cielo che è la vita e conduce al cielo. La grazia è un fiume che mette foce nell’oceano della beatitudine eterna: « Chi beverà di quest’acqua, è parola di Gesù, non patirà più sete in eterno » — Qui biberit ex hac aqua, non siti et in æternum (IOANN. IV, 13). – Benché le nostre opere non abbiano nessuna proporzione con la gloria celeste, in quanto sono opere dell’uomo, l’hanno tuttavia in certo qual modo, in quanto sono le opere della grazia di Gesù Cristo; poiché la grazia è, sia di natura sua, sia per la promessa di Dio, la semenza della gloria. « Per mezzo della grazia, dice S. Gerolamo, l’uomo cessa di essere debole e vano e diventa, diremo quasi, un Dio (Per gratiam homo fit quasi Deus, et desinet esse homo et mendax (Lib. sup. Ioann.) ». Perciò S. Paolo afferma: « Quello che era per me guadagno, l’ho giudicato perdita, per Cristo. Del resto, pieno della scienza sovreminente di Gesù Cristo nostro Signore, per suo amore mi sono spogliato di ogni cosa; io reputo sterco e stimo perdita tutte le cose, per guadagnare il Cristo » — Quæ mihi fuerunt lucra, hæc arbitratus sum, propter Christum detrimenta. Verumtamen existimo omnia detrimentum esse, propter eminentem scientiam Iesu Christi Domini mei, propter quem omnia detrimentum feci, et arbitror ut stercora ut Christum lucrifaciam Philipp. III, 7-8). S. Pietro augurava ai fedeli, che si aumentasse in loro la grazia e la pace nella conoscenza di Dio e del Signore nostro Gesù Cristo, affinché sapessero come tutto ciò che spetta alla potenza divina per riguardo alla vita e alla pietà, tutto ci è stato dato per mezzo della conoscenza di colui che ci ha chiamati per la propria sua virtù e gloria e che ha adempito con le sue grazie le magnifiche e preziose promesse a noi fatte, acciocché divenissimo partecipi della natura divina … : — Per quem maxima et pretiosa nobis promissa donavit; ut per hæc erficiamini divinæ consortes naturæ (IIPIETR. I, 4). Dio ci si comunica per mezzo della sua grazia e dà se stesso al giusto, e per questa comunicazione innalza l’anima fino a sé, la trasforma, la divinizza. Dio solo ha essenzialmente la natura divina. I fedeli e i giusti ne partecipano, per mezzo della grazia, non essenzialmente, né personalmente, ma in parte accidentalmente ed in parte sostanzialmente.

1° Accidentalmente, col dono della grazia santificante che è accidentale nel giusto, cioè che vi è, ma che potrebbe non esservi, senza che la sua natura ne rimanga annientata. In forza di questa grazia, noi partecipiamo alla natura divina in modo strettissimo e quasi infinito. Infatti la grazia è cosa tanto nobile ed eccellente, che sta infinitamente al di sopra della natura degli uomini, e non si può trovare, secondo l’unanime sentenza dei teologi, sostanza creata che sia della stessa natura della grazia, poiché la grazia partecipa della divinità al più alto grado, ad un grado così sublime, a cui non arriva cosa o natura creata. – Per mezzo della grazia, l’uomo viene dunque innalzato all’ordine, non angelico, ma divino; egli diviene alleato e partecipe della natura divina. Non si può dare per l’uomo partecipazione più grande alla divinità, che quella che avviene per mezzo della grazia, eccetto la partecipazione di Dio per mezzo della gloria; la quale però allora soltanto si avvera, quando ebbe luogo la partecipazione alla divinità per la grazia. – I peccatori meditino queste sublimi cose, affinché vedano quello che hanno perduto perdendo la grazia per un vile piacere, per un misero interesse, e si sforzino senz’indugio a procurarsela; le meditino i giusti per non trascurare nulla di ciò che è necessario per conservarla, confermarla, accrescerla e compirla in se stessi.

2° I giusti partecipano alla natura divina non solo accidentalmente in virtù della grazia santificante, ma anche sostanzialmente, in virtù della natura divina in se stessa che loro è comunicata e con la quale vengono adottati da Dio come suoi figli, come eredi e come deificati. Per intendere questa cosa, notate in primo luogo, che la nostra giustificazione formale e la nostra adozione consistono interamente nella virtù e nella grazia che ci è data e che con noi s’identifica, la quale in sé contiene e con sé apporta lo Spirito Santo che è l’Autore della carità e della grazia. Infatti la grazia che adotta, non può andare separata dallo Spirito Santo, né l’adozione dello Spirito Santo può essere separata dalla grazia; a quel modo che non si possono separare né il sole da’ suoi raggi, né i raggi dal sole. Infatti, lo Spirito Santo, per la carità e la grazia, ci giustifica formalmente e abita in noi, ci vivifica e ci adotta. Infatti, la giustizia inerente, o la grazia santificante, non è una semplice qualità, ma comprende parecchie cose inestimabili, come per es. la remissione dei peccati, la fede, la speranza, la carità e, in una parola, lo Spirito Santo, autore di tutti i doni. Nella giustificazione infusa l’uomo riceve tutte queste grandi cose, dice il Concilio di Trento, sess. VI, cap. VIII. – Notate, in secondo luogo, che nella giustificazione e nell’adozione, non solamente la carità, la grazia e i doni dello Spirito Santo sono dati all’uomo, ma egli riceve inoltre la propria Persona dello Spirito Santo e per conseguenza tutta la divinità, ossia tutta intera la Santissima Trinità; di modo che la divinità si trova realmente e personalmente presente nell’anima del giusto con i suoi doni e per i suoi doni, ed abita in quell’anima sostanzialmente come in suo proprio tempio, e se la unisce, la indìa, e questo è un favore, una dignità ed una sorgente di felicità in certo qual modo infinita … Da questa comunicazione della propria Persona dello Spirito Santo e della Trinità intera, ne segue la suprema elevazione, o diremo la deificazione dell’anima, e quindi un’adozione perfettissima e divina, non solamente per la grazia, ma ancora per la sostanza divina. Perciò S. Basilio disse che i Santi sono dèi a cagione della dimora che tiene in loro lo Spirito Santo (Homil.). – La grazia è un’immensa partecipazione della santità e della bellezza di Dio… « Arido tronco tu eri divenuto in Adamo, dice S. Ambrogio all’uomo; ma ora, per la grazia di Cristo, sei cambiato in un albero fecondo di eccellenti frutti (Lignum aridum factus eras in Adam; sed nunc per gratiam Christi, pomifera arbor pullulasti (Serm.) ». – Udite gli elogi che fa della grazia il Savio: « Io l’ho anteposta ai regni e ai troni e le ricchezze ho stimate meno che polvere al suo paragone; non l’ho fatta uguale alla pietra preziosa, perché l’oro al suo confronto vale un granello di arena e l’argento al suo paragone è fango » — Et præposui illam regnis et sedibus, et divitias nihil esse duxi in comparatione illius. Nec comparavi illi lapidem pretiosum; quoniam omne aurum, in comparatione illius, arena est exigua, et tamquam lutum æstimabitur argentum in conspectu illiusSap. VII, 8 – 9). « Essa è più preziosa di tutti i diamanti; tutti i tesori e le ricchezze del mondo non ne uguagliano il valore » — Pretiosior est cunctis opibus, et omnia quæ desideratur, huic non valent comparari (Prov. III, 15). La grazia è dunque il tesoro dei tesori; è la partecipazione della natura divina al più alto grado, cioè per quanto può parteciparne la creatura, non solo naturalmente, ma soprannaturalmente…

13. POTENZA E MERAVIGLIE DELLA GRAZIA. — Gesù Cristo cammina su le acque e vi sostiene anche Pietro; calma la burrasca e porta in un batter d’occhio la barca a terra. Per mezzo della sua grazia, i medesimi prodigi opera in noi Gesù Cristo: ci fa calpestare il secolo, calma le tempeste delle tentazioni, della concupiscenza, delle passioni e ci accoglie nel porto dell’eterna salute. Ah! se la grazia di Gesù Cristo abita nel nostro cuore, noi ci troveremo ben presto là dove vogliamo andare, cioè al cielo… Di che potenza, di che efficacia non dev’essere la grazia di quel Gesù Cristo, che su la croce fece d’un malfattore un santo, e cambiò in un istante Saulo di persecutore fierissimo in un Apostolo zelante ed operosissimo? L’acqua risale fino al livello della sua sorgente; e così pure l’acqua della grazia, che discende dal cielo nell’anima giusta, spinge con tale impeto ed efficacia l’anima, che l’innalza fino al suo divino Creatore; poiché la grazia è la sorgente della gloria, prende l’uomo e lo trasporta con sé nella gloria. La grazia è un fiume di acqua viva e chi naviga in esso deve arrivare al porto della vita eterna. « Affinché lo splendore delle rivelazioni non mi levi in orgoglio, dice il grande Apostolo, fu dato alla mia carne un pungolo, l’angelo di satana che mi schiaffeggi. Perciò supplicai il Signore che mi fosse tolto; ed Egli mi rispose: Ti basta la mia grazia — Sufficit tibi gratia mea — perché nella debolezza si manifesta la forza. Dunque volentieri mi glorierò nella mia infermità, affinché in me si spieghi la forza del Cristo … Soffriamo angustie in ogni cosa, ma non cadiamo d’animo; siamo battuti, ma non prostrati; perseguitati, ma non abbondonati; feriti, ma non morti » (II Cor. XII, 7 – 9; IV, 8 – 9); e a Timoteo: « Il Signore mi accompagnò passo passo e mi sostenne con la sua forza, affinché si compia per mezzo mio la predicazione fra le genti: Egli mi ha strappato alle fauci del leone » (Tim. IX, 17). Le anime pie, sostenute dalla grazia, portano le afflizioni ed avversità loro con più facilità e coraggio, che non i cattivi la loro pretesa felicità… Parlando S. Giovanni Crisostomo della grazia dello Spirito Santo nel giorno della Pentecoste, dice: « La grazia spoglia della malignità e veste della mansuetudine, toglie la schiavitù e dà la libertà; perciò la terra fu cambiata in cielo, poiché quali stelle si possono paragonare agli Apostoli? » (Serm. I de Pentec). Ed in altro luogo afferma: « Ricetto sicurissimo e torre inespugnabile è la grazia di Dio (Maxima securitas et inexpugnabilis murus est gratia DeiHomil. XLVI in Gen.) » .« Al primo risplendere della grazia in un’anima, scrive S. Gregorio, subito se ne sente radicalmente mutata, cosicché lascia su l’istante di essere quella che era e diventa quello che non era (Humanum subito, ut illustrai, immutat affectum; abnegat hoc repente quod erat, exhibet repente quod non erat Moral.) ». Ed a confermare la sua osservazione, dice altrove, avrebbe gli esempi di Davide, di Amos, di Daniele, di Pietro, di Paolo, di Matteo, ma non gli basta a ciò la parola, tanto è sorprendente il vedere la grazia dello Spirito Santo investire un giovane che si trastulla sull’arpa e farne un salmista; posarsi su di un semplice pastorello e cambiarlo in un profeta; discendere in un giovanetto e crearlo giudice dei vegliardi; chiamare un pescatore e costituirlo sublime predicatore; abbattere un persecutore e rialzarlo dottore delle genti; scegliere un pubblicano e convertirlo in un evangelista (Homil. in Erang.). «Quali prodigi opera la grazia! esclama S. Agostino. Quell’uomo che ieri vedevate rotto alla gozzoviglia, oggi lo vedete sobrio e mortificato; ieri impudico, oggi modesto e continente; ieri bestemmiatore, oggi lodatore di Dio; ieri schiavo perduto della creatura, oggi servo zelante e fervoroso del Creatore. Da che cosa deriva un cambiamento così inaspettato, una diversità così prodigiosa? Dalla grazia» (In Psalm. LXXXVIII). Pietro, senza la grazia, è vinto dalla voce di una fantesca; con la grazia, esce trionfante dei re, dei principi, degli imperi… Quello che è impossibile per la natura, diventa non solo possibile ma facile, per la grazia… Essa chiama, esorta, eccita, inspira, spinge, anima, conforta, consola, rassoda… Di un uomo carnale, terreno, scandaloso, forma un angelo di purezza, un modello di santità. Eccovi la Maddalena…, S. Maria Egiziaca …, S. Agostino …, e cento altri. « Ah! è proprio vero che se il Signore innaffia della sua grazia un’anima, come dice S. Gerolamo, essa prontamente germina e fiorisce come il giglio; getta profonde radici come il cedro del Libano, il quale quanto più s’innalza, tanto più spinge nel suolo le radici, per sfidare la potenza dell’impetuoso aquilone» (Epist.). – Non appena la grazia si mostra in un’anima, ecco questa fondersi come cera al fuoco, piangere i suoi traviamenti, abbandonarsi rassegnata in Dio, diventare dolce e mansueta, ardere di amore celeste. Allora i monti dell’orgoglio si squagliano, i fiumi della vanità, dell’ambizione scompaiono, le fiamme dell’impurità diventano ghiaccio, le anguste gole della pusillanimità, del timore, dell’accidia, si chiudono e restano colme… La grazia muta un leone, una tigre in un agnello; la grazia cambia uno sparviero in una tortorella …; di un reprobo fa un eletto; di un demonio, un angelo; di un mostro d’iniquità, una splendida immagine di Dio… È la grazia che popola la terra di santi e il cielo di beati… Dolce, mirabile e confortante cosa è osservare le meraviglie operate dalla grazia nei martiri, nelle vergini, nei giusti di tutti i secoli.

14. UTILITÀ DELLA GRAZIA. — Diceva Gesù alla Samaritana: Se tu conoscessi il dono di Dio, lo cercheresti e lo domanderesti! (IOANN. IV, 10). Ah, se noi conoscessimo la grazia, i suoi vantaggi, oh! come ardentemente la brameremmo, quanto sollecitamente la cercheremmo, come studieremmo di procurarcela, di conservarla, di accrescerla! oh! come ci sembrerebbe vile e spregevole ogni altra cosa! La grazia rende indifferenti a quanto il mondo ha di più lusinghiero, attraente e seducente. Quando si bagnano le labbra nell’acqua sacra della divina grazia, non si ha più. sete del mondo, non si brama che il cielo… La grazia dà la vita e l’immortalità…; produce la pace…; la grandezza dell’anima …; la gioia nelle traversie …; la speranza della gloria… « Fare le cose eroiche, patire da forte avversità gravissime, è proprio non dei romani, ma dei Cristiani », diceva un autore alludendo al fatto di Scevola (Et facere, et pati fortia, non romanorum sed christianorum est – Anton. in Meliss.). Per la grazia noi diveniamo gli amici di Dio, siamo adottati in suoi figli e ci vantiamo di avere Dio per padre… Per la grazia, noi siamo in comunione con la SS. Trinità, con la Santa Vergine, con gli Angeli, coi beati tutti. Per la grazia, noi partecipiamo a tutti i meriti di Gesù Cristo, a tutti i favori annessi al santo Sacrifizio che si offre senza interruzione nel mondo intero; ai meriti di tutti i santi … Per la grazia, noi ci assicuriamo la ricompensa della vita eterna. Grandi, inestimabili vantaggi porta all’uomo la grazia: 1° Caccia e distrugge il peccato mortale che è la somma sua disgrazia… 2° Rende la persona accetta a Dio … 3° Fa l’uomo retto, santo, innocente, giusto, somigliante a Dio al quale tiene sottomessa l’intelligenza, la volontà e tutte le altre sue facoltà… 4° Ci fa figli di Dio, suoi eredi, coeredi di Gesù Cristo, templi dello Spirito Santo, membra di Cristo … 5° Porta con sé le virtù tutte e i doni dello Spirito Santo… 6° Rende l’anima più splendida del sole, più bella della luna, pura come gli Angeli, terribile a tutti i suoi nemici… 7° È la semenza della gloria; come dal seme nascono le piante, i fiori, i frutti, così dalla grazia nasce la felicità e la gloria eterna… 8° La grazia chiude l’inferno, apre il cielo, dispone di Dio come le piace. Si può dire della grazia quello che Salomone scrive della sapienza: « che conduce il giusto per vie diritte, gli addita il regno di Dio, gli dà la scienza dei santi, ne prospera il lavoro, ne benedice le imprese » — Iustum deduxit Dominus per vias rectas, et ostendit illi regnum Dei; dedit illi scientiam sanctorum, honestavit illum in laboribus et complevit labores illius (Sap. X, 10). « E insieme con lei vengono tutti i beni » — Venerunt mihi omnia bona pariter cum illa (Ib. VII, 11). « Dio visita la terra dei nostri cuori, dice il Salmista, la feconda e la inebria di beni. La pioggia benefica delle sue grazie fa germogliare tutte le virtù nell’anima e la colma di gioia »— Visitasti terram, et inebriasti eam… In stillicidiis eius lætabitur germinans (Psalm. LX1V, 9-11). « Il latte delle vostre grazie, o Signore, possiamo dire con la Sposa dei Cantici, è più delizioso di ogni prelibato vino » — Meliora sunt tubera tua vino (Cant. I, 1). Ah sì! le mammelle spirituali della grazia nutriscono l’anima e la riempiono di consolazioni; come i bambini trovano tutto il loro nutrimento e la loro felicità al seno delle loro mamme, di modo che non cercano né vogliono altro, così è della grazia, della quale si può dire: « Chi di me si nutre, di me avrà sempre fame; chi di me beve, sempre sarà di me assetato » — Qui edunt me, adhuc esurient; et qui bibunt me, adhuc sitient (Eccli. XXIV, 29). – Infatti, quanto più le anime fedeli assaporano le dolcezze, le soavità della grazia, tanto più sentono in loro aumentarsene la voglia. È proprio delle delizie spirituali accrescere l’avidità in chi le assaggia; le grazie accrescono il desiderio saziandolo. – La grazia lenisce i patimenti. « Quelli, dice S. Bernardo, che aborriscono e fuggono la croce, vedono la croce, ma non l’unzione della croce. Voi che amate la croce, sapete per prova che stillante dolcezza e miele è la croce, perché unita delle grazie dello Spirito Santo che vi aiuta » (Serm. in Cant.). S. Paolo diceva: « In mezzo a tutte le mie tribolazioni, io mi sento ridondare il cuore di gioia e di allegrezza » — Repletus sum consolatione, superabundo gaudio in omni tribulatione (II Cor. VII, 4). La grazia, infatti, cambia il fiele in dolcezza, mentre le dolcezze del mondo cambiano il miele in amarezza. Basta una stilla di grazia a cambiare in miele un mare di fiele; basta una goccia di voluttà carnale a fare della vita intera un calice di amarezza.

15. CONTO CHE SI DEVE RENDERE DELLE GRAZIE. — Contro coloro che non si curano delle grazie di Dio, Gesù Cristo pronunziò una terribile sentenza: « A chi fu dato molto, si domanderà molto; a chi s’è fatto più largo prestito, più larga usura sarà richiesta » — Omni… cui multum datum est, multum quæretur ab eo; et cui commendaverunt multum, plus petent ab eo (Luc. XII, 48). Ricordate la parabola del servo infingardo e quelle parole: « Rendimi ragione della tua gestione » — Redde rationem villicationis tuæ (Luc. XVI, 2), le quali c’insegnano che se nulla mette tanto conto quanto il profittare delle grazie, niente per altra parte tanto nuoce quanto l’abusarne. « A misura che s’aumentano i doni, dice S. Gregorio, cresce anche la materia di cui s’avrà da rendere conto (Dum augentur dona, rationes etiam crescunt donorum – Homil. IX in Evang.) ». Stiano scritte a caratteri indelebili nel cuore nostro quelle parole di San Paolo agli Ebrei: « È cosa difficilissima, per non dire impossibile, che coloro i quali già furono una volta illuminati e ottennero il dono perfetto e furono partecipi dello Spirito Santo e gustarono le dolcezze della parola di Dio e le virtù del secolo venturo e sono poi precipitati, ritornino un’altra volta a penitenza, crocifiggendo nuovamente in loro stessi il Figliuolo di Dio ed esponendolo all’ignominia, poiché la terra che beve la pioggia che frequentemente cade in grembo, e produce erbe utili a chi la coltiva, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e triboli, essa è riprovata e prossima a maledizione; e la sua fine è nel fuoco » (VI, 4-8).

16. BISOGNA PROFITTARE DELLE GRAZIE. — « Colui che ci ha creati senza di noi, non ci salva senza noi (Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te -Confess.) », dice S. Agostino e con ragione; perché nessuno si salva se non per mezzo della grazia, ma la grazia non salva se non in quanto le si corrisponde e se ne trae profitto. Perciò S. Paolo scriveva a Timoteo: « Bada di non trascurare la grazia che è in te e questo avvertimento non ti cada mai dalla memoria, ma metti in esso tutto l’animo ed ogni tua cura, affinché il tuo profitto sia manifesto a tutti » — Noli negligere gratiam quæ in te est. Hæc meditare, in his esto, ut profectus tuus manifestus sit omnibus (l Tim. IV, 14-15). E agli Ebrei raccomandava che nessuno non venisse meno alla grazia: — Ne quis desit giatiæ Dei (Hebr. XII, 15). Questo era il saluto di S. Giovanni, l’augurio di S. Pietro ai primi fedeli: « Sia con voi, scriveva quegli alla casa di Eletta, la grazia e la misericordia e la pace » — Sit vobiscum gratia, misericordia et pax (77, 3); e questi chiudeva la sua seconda epistola dicendo: « Crescete nella grazia e nella cognizionedel Signor nostro e Salvatore Gesù Cristo » — Crescite in gratiæ cognitione Domini nostri et Salvatoris Iesu Christi (II PETR. III, 18). Infatti chi non profitta, scapita; diceva S. Leone (Serm. de Pass.), e chi non acquista niente, perde qualche cosa. Non imitiamo la cieca Gerusalemme nel fare poco profitto delle grazie, perché non avvenga che Gesù Cristo abbia anche da piangere su la nostra perdita e rivolgerci quelle parole, rimprovero e sentenza a un tempo: « Ah, se tu conoscessi almeno in questo giorno che ancora ti è concesso, quello che formerebbe la tua pace! ma ora tutto è celato agli occhi tuoi» (Luc. XIX, 41- 42).« Beato chi mi ascolta, dice la grazia, e chi sta origliando alle mie porte per udire le mie parole! Chi trova me, trova la vita e avrà la salvezza dal Signore. Ma chi mi offende, nuoce all’anima sua; e chi non mi ama, va incontro alla morte » — Beatus homo qui audit me, et qui vigilat ad fores meas quotidie. Qui me invenerit, inveniet vitam, et hauri  et salutem a Domino. Qui aut emin me peccaverit, lædet animam suam. Omnes qui me oderunt, diligunt mortem (Prov. VIII, 34-36). E chi non approfitterà della grazia, se dà retta ai caldi inviti che gliene fa Dio per mezzo dei suoi profeti? Udite, per esempio, quello che dice Isaia:« Chi ha sete venga al fonte; chi è nell’indigenza si affretti, compri e si sazi; venite e comprate, senza sborsare prezzo, vino e latte. Ascoltate me, nutritevi del bene, della grazia, e l’anima vostra sarà inebriata di dolcezze. Ascoltatemi e venite a me, ascoltatemi e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto sempiterno » (ISAI. LV, 1-3).

17. MEZZI PER OTTENERE E CONSERVARE LA GRAZIA. — 1° Bisogna averne grande desiderio: « La grazia, come ci assicura il Savio, previene coloro che la desiderano, per mostrarsi ad essi la prima. Chi sorgerà di buon mattino a cercarla, non avrà da stancarsi per trovarla, perché la incontrerà già seduta su la soglia della sua casa » — Præoccupat qui se concupiscimi, ut illis se prius ostendat. Qui de luce vigilaverit ad illam, non laborabit: assidentem enim illam foribus suis inveniet (Sap. VI, 14 – 15). S. Paolo l’augurava larga ed abbondante su tutti i Cristiani, dicendo: « La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con tutti voi » — Gratia Domini nostri Iesu Christi cum omnibus vobis. Amen (II Tkess. III, 18); e con ciò ha dato a noi esempio di desiderarla per noi medesimi; perché, al dire della Sapienza, quanti ebbero sete ed invocarono il Signore, trovarono sempre l’acqua che li ha dissetati: — Sitierunt et invocaverunt te, et data est illis aqua (Sap. XI, 4 ).

Bisogna pregare per ottenerla, conservarla, aumentarla. « La chieda a Dio, suggerisce S. Giacomo, il quale gliela dà in abbondanza » — Postulet a Deo, qui dat omnibus affluenter (IACOB. I, 5 ). Così fece la Samaritana, la quale prontamente soggiunse a Cristo: « Dammi, o Signore, di quest’acqua, affinché non patisca mai più sete » — Domine, da mihi hanc aquam, ut non sitiam (IOANN. IV, 15). Così fecero coloro dei quali racconta il Salmista che « domandarono ed ebbero dal cielo di che nutrirsi; avendo sete pregarono, ed il Signore fece zampillare per loro una fonte nel deserto » — Petierunt, et pane cœli saturavit eos. Dirupit petram, et fluxerunt aquæ (Psalm. CIV, 9-40).

3° Bisogna vegliare; perché la grazia, dice il Crisostomo, è data solo ai vigilanti (Non datur gratia, nisi vigilanti – Homil. ad pop.). Perciò S. Paolo dice agli Efesini: « Scuotetevi, voi che dormite, levatevi di mezzo ai morti e Cristo v’illuminerà con la sua grazia. Badate adunque, o fratelli, di camminare cautamente, non da stolti, ma da savi » — Surge qui dormis, et exsurge a mortuis, et illuminabit te Christus. Videte, fratres, quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes, sed quasi sapientes (Eph. V, 14-16).

4° Bisogna schivare il peccato od uscirne perché il peccato è il solo ostacolo alla grazia. La grazia non può stare col peccato, come la notte col giorno, la vita con la morte.

5° Bisogna cercare la grazia alla propria sorgente della grazia, cioè nei Sacramenti.

SALMI BIBLICI: “EXALTABO TE, DOMINE, QUONIAM SUSCEPISTI ME” (XXIX)

SALMO 29: “Exaltabo te, Domine, quoniam suscepisti me…”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR – RUE DELAMMIE, 13

1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

SALMO XXIX

Psalmus canti, in dedicatione domus David.

[1] Exaltabo te, Domine, quoniam suscepisti me,

nec delectasti inimicos meos super me.

[2] Domine Deus meus, clamavi ad te, et sanasti me.

[3] Domine, eduxisti ab inferno animam meam; salvasti me a descendentibus in lacum.

[4] Psallite Domino, sancti ejus; et confitemini memoriæ sanctitatis ejus.

[5] Quoniam ira in indignatione ejus, et vita in voluntate ejus.

[6] Ad vesperum demorabitur fletus, et ad matutinum laetitia.

[7] Ego autem dixi in abundantia mea: Non movebor in æternum.

[8] Domine, in voluntate tua præstitisti decori meo virtutem.

[9] Avertisti faciem tuam a me, et factus sum conturbatus.

[10] Ad te, Domine, clamabo, et ad Deum meum deprecabor.

[11] Quæ utilitas in sanguine meo, dum descendo in corruptionem?

[12] Numquid confitebitur tibi pulvis, aut annuntiabit veritatem tuam?

[13] Audivit Dominus, et misertus est mei; Dominus factus est adjutor meus.

[14] Convertisti planctum meum in gaudium mihi; conscidisti saccum meum, et circumdedisti me lætitia;

[15] ut cantet tibi gloria mea, et non compungar. Domine Deus meus, in æternum confitebor tibi.

[Vecchio Testamento secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXIX

Salmo, cantato a suon di musici istrumenti, nel giorno che Davide, terminata la casa reale, edificata in Sion, la dedicò. Conobbe allora Davide che il suo regno era stabilito, e con l’inno ne dà a Dio ringraziamento.

Salmo del cantico di Davidde nella consacrazione della casa.

1. Io ti glorificherò, o Signore, perché tu mi hai protetto, e non hai rallegrati del mio danno i miei nemici!

2. Signore Dio mio, io alzai a te le mie grida, e tu mi sanasti.

3. Signore, tu traesti fuor dall’inferno l’anima mia; mi salvasti dal consorzio di quelli che scendono nella fossa.

4. Santi del Signore, cantate inni a Lui, e celebrate la memoria di Lui, che è santo.

5. Perché egli nella sua adeguazione flagella, e col suo favore dà vita.

6. La sera saravvi il pianto, e al mattino allegrezza.

7. Ma io, nella mia abbondanza, avea detto: Non sarò soggetto a mutazione giammai.

8. Signore, col tuo favore tu avevi dato stabilità alle prosperevoli cose mie;

9. Rivolgesti da me la tua faccia, ed io fui nella costernazione.

10. A te, o Signore, alzerò io le mie grida e al mio Dio presenterò la mia orazione.

11. Qual vantaggio del sangue mio, quando cadrò nella corruzione?

12. Forse la polvere canterà le tue Iodi, od annunzierà la tua verità?

13. Il Signore mi udì, ed ebbe pietà di il Signore si fece mio aiuto.

14. Cangiasti per me in gaudio i miei tormenti; facesti in pezzi il mio sacco, e mi inondasti di allegrezza;

15. Affinché tua laude sia la mia gloria, io non sia più trafitto: Signore Dio mio, a te canterò in eterno.

Sommario analitico

Dopo il censimento ordinato da Davide, Dio, per punirlo, fece perire in tre giorni di peste 70.000 uomini, per mano dell’Angelo sterminatore, che si vide in seguito sul territorio di Oman, situato sul monte Moria, rimettere la sua spada nel fodero. Davide vi eresse un altare e dedicò quest’area che fu destinata a diventare sostituta del tempio (II Re, XXIV, I Par. XXIV). È a questo fatto storico che fa allusione il titolo. Davide rende grazie a Dio della cessazione di questa grande sventura. In senso figurato è la voce di Gesù Cristo che, riposando in pace nella tomba, visitando poi il limbo ne esce vincitore per riprendere una vita che non aveva lasciato se non perché lo aveva voluto; è la voce pure di ogni anima giusta che si rinnova e si consacra a Dio con la fede, la speranza, la carità e le altre virtù cristiane.

I – Davide rende grazie a Dio:

1°per il fatto di avergli teso la mano in mezzo ai suoi pericoli;

2° per averlo vendicato presso i suoi nemici (1);

3° per averlo come richiamato dalla tomba: a) guarendo il suo corpo da una malattia potenzialmente essere mortale; b) richiamando la sua anima prossima a separarsi dal corpo (3).

II. – Egli invita tutti gli uomini a lodare Dio in mezzo a questa alternanza di tristezza e di gioia, di dolori e di consolazioni, di cui si compone la vita umana e in mezzo alla quale è passato egli stesso: (4).

1) Egli da la ragione di questo invito, che è cioè la sovrana saggezza di Dio in questa distribuzione di tristezze e di gioie che si rincorrono nella vita a brevi intervalli (5, 6); 2) E dichiara di averne fatto egli stesso l’esperienza, facendoci conoscere quali siano stati i suoi pensieri, i suoi sentimenti, e ciò che abbia fatto nella desolazione:

a) nella consolazione, egli immaginava che sarebbe durata sempre, ma ha visto che è stato ingannato ed ha riconosciuto che questo dipendeva interamente dalla volontà di Dio, e che allontanandosi Dio dal suo volto, aveva perso la sua felicità, la sua pace interiore (7-9);

b) nella desolazione, – 1) egli ha fatto ricorso a Dio, sia con la bocca che con il cuore (10); – 2) ha fatto presente che se fosse stato colpito dalla morte, né la sua vita, né la sua morte si sarebbero volte a sua gloria (11); – 3) Dio l’ha esaudito nella sua misericordia (13); – 4) l’effetto della sua guarigione è stato quello di sostituire nel suo cuore la gioia al dolore, di far sparire tutti i segni della tristezza (14); – 5) la fine della sua guarigione è stata la gloria di Dio, la sua perfetta felicità e la sua perseveranza nell’amore di Dio (15).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1 – 3.

ff. 1. –  « Io vi esalterò Signore, perché mi avete risollevato ». Ci sono diverse maniere di esaltare Dio: si può esaltare con la conoscenza e con l’intelligenza, si esalta ancora proclamando la magnificenza delle sue opere, come dice Davide (Ps. CXLIX, 6)parlando dei giusti: « Le lodi di Dio sono sulla loro bocca » (S. Basilio in Ps. CV.). – Ma come è possibile che Colui che abita nelle altitudini dei cieli possa essere esaltato da coloro che sono così in basso sulla terra? Nel pensiero del Re-Profeta, Dio è esaltato da coloro che hanno di Lui degli alti e degni pensieri, e che compiono tutte le loro azioni per la sua gloria. Colui dunque che si propone di camminare nelle vie della beatitudine esalta Dio; ma colui che segue una via contraria, cosa orribile a dirsi, deprime tanto ciò che è in lui, e abbassa Dio stesso. – Da dove viene questa facoltà di esaltare Dio? Il Salmista risponde: « Perché mi avete risollevato », e mi avete reso superiore a coloro che si levano contro di me. Mi avete risollevato in tutto come colui che sostiene al di sopra delle acque un bambino che non sappia ancora nuotare, o come colui che, vedendo un uomo debole sul punto di soccombere sotto gli sforzi dell’avversario, gli presta man forte e gli assicura la vittoria (S. Basilio). – La morte ha avuto tanto potere sul corpo divino del Salvatore da lasciarlo sulla terra steso senza movimento e senza vita; ma non ha potuto corromperlo, non ha avuto la gioia di tenerlo tra i suoi lacci, e nella tomba di Gesù Cristo, come in un baluardo invincibile, si sono infranti tutti i suoi sforzi. (Bossuet, I Serm. Paq.). – Sono questi i sentimenti di un’anima riconciliata con il suo Dio, dopo aver per lungo tempo rantolato sotto la servitù del peccato. – Il demonio, il vero nemico della nostra anima, non essendo capace che di questa gioia malefica che prova un malvagio nell’avere dei complici, ed avendo uno spirito malvagio verso i compagni della sua miseria, cospira con i suoi angeli di perdere tutto con essi, di coinvolgere, potendolo, tutto il mondo nei loro crimini (Bossuet, Serm. sur les Dem.). – Tutto il suo oggetto, la gioia per lui più grande, è incatenarci e gettarci in una prigione attraverso l’inclinazione che abbiamo al male, di chiuderci la dentro con l’abitudine, e di murarne la porta su di noi per non lasciarci più alcuna via d’uscita (S. Agost.). – « Signore, mio Dio », Dio non è il Dio di tutti, ma il Dio di coloro che Gli sono uniti per mezzo della carità. Egli è il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. Se Egli fosse il Dio di tutti, allo stesso titolo, Egli non presenterebbe come un privilegio particolare a questi Patriarchi l’essere propriamente il loro Dio … « Io ho gridato verso di Voi e Voi mi avete guarito ». Alcun intervallo è trascorso tra la mia preghiera e la vostra grazia; nel momento in cui ho gridato, sono stato guarito! (S. Basilio). – Felice l’anima che conoscendo e sentendo la profondità delle sue piaghe, può accostarsi al Medico sovrano e dirgli: Salvatore Gesù, vero medico caritatevole, che senza essere chiamato da nessuno, avete voluto scendere solo Voi potete darmi una guarigione eterna, avete voluto discendere dal cielo in terra, ed avete intrapreso un sì gran viaggio per venire a visitare i vostri malati, io grido a Voi, e mi metto nelle vostre mani: guaritemi! Tutti gli altri ai quali io potrei rivolgermi, non farebbero altro che coprire il male per un certo tempo; Voi solo, ne tagliate la radice, solo Voi potete darmi una guarigione eterna (Bossuet, S. sur la Concep.). – « Voi avete ritratto la mia anima dall’inferno », è una parola che deve essere nella bocca ed ancor più nel cuore di tutti gli uomini, perché non c’è quasi nessuno i cui peccati non l’abbiano reso degno di esservi precipitato. Ove saremmo, se la morte ci avesse colpito nel tempo della nostra vita in cui avremmo avuto tanti oggetti di pentimento? Quanti hanno offeso Dio meno di noi ed ora sono precipitati nell’abisso, eternamente separati da Dio, eternamente odiati da Lui, eternamente tra le anime dei demoni e sotto la stretta di questi orribili spiriti! – Felici coloro che Dio « toglie dall’iniquità » (Sapien. IV, 14), da questo torrente di corruzione che inonda tutta la terra, che salva dalla schiera di coloro che discendono nella fossa. Questa fossa è l’abisso del secolo … sono coloro che piombano nell’abbondanza della lussuria e della malizia, nei piaceri criminali e nelle cupidigie terrestri, discendendo nella fossa, o piuttosto precipitandovisi a testa bassa. (S. Agost.).

II. — 4 – 15.

ff. 4. –  Un’animaveramente cristiana non si contenta di rendere solo delle azioni di grazie a Dio; essa invita tutti i suoi santi, cioè i suoi servitori fedeli che vivono una vita santa, a cantare in suo onore un cantico di riconoscenza. – « La lode di Dio non è bella nella bocca del peccatore (Eccl. XV, 9). Fosse anche convertito, i suoi pensieri, ancora coperti dalle nubi delle sue passate sregolatezze, non sono così puri da lodare Dio. È sufficiente che riconosca la sua miseria ed il bisogno che ha della sua grazia, e gema davanti a lui. « Celebrare con le sue lodi la memoria della sua santità », è l’esercizio continuo degli Angeli e dei Santi in cielo, che non cessano di ripetere: « Santo, santo, santo è il Signore Dio degli eserciti » (Isaia, VI, 3). – Questo deve essere egualmente l’esercizio più dolce dei giusti sulla terra (Dug.).

ff. 5. –  « Egli punisce nella sua indignazione ». Il castigo viene da un giusto giudizio di Dio; la vita è un puro effetto della sua volontà. Cosa vuol dire? Che la volontà di Dio è che tutti siano partecipi della sua vita. Quanto ai castighi, essi non arrivano se non per colpa di coloro che li hanno meritati per i loro peccati (S. Basilio). – Dio colpisce i peccatori ed i giusti: i peccatori per ricondurli alla penitenza; i giusti per provarli. Questi colpi non sono, in qualche modo, nella sua volontà; « Egli compie come un’opera estranea » quando è obbligato a punire (Isaia XXVIII, 21). Essi sono l’effetto di una collera paterna, destinata ad ispirare timore; ma la vita è nella sua volontà; Dio ci ha salvato, perché Egli lo ha voluto, e non perché noi fossimo degni di salvezza! In effetti di cosa il peccatore è degno se non del supplizio? La vita è un dono di Dio; e se Egli ha dato la vita ad uomini che erano empi, cosa riserva ai suoi fedeli? (S. Agost.). – Noi piangiamo durante la notte di questa vita; ma al mattino, cioè al primo raggio dell’eternità felice, la gioia sostituisce il dolore. Una gioia eterna, per qualche momento di tristezza, una gioia ineffabile, per pene leggere; gioia pura per lacrime temperate dalla speranza, perché anche quaggiù, dice S. Agostino, per un’anima veramente cristiana, i pentimenti hanno i loro piaceri e le lacrime portano con sé la loro consolazione (in Ps. CXLV). – Tutto il mondo fugge le lacrime e cerca la gioia, e tuttavia la vera gioia non può essere che il frutto delle lacrime.

ff. 6. – Così come quel che fa l’abbondanza di una città, è la moltitudine di cose che si vendono sui suoi mercati, così allo stesso modo noi diciamo: questa regione è nell’abbondanza quando è piena di buone opere (S. Basilio).

ff. 7-9. – I primi giorni che seguono una conversione recente, in cui l’anima è inondata dalle grazie celesti, questi giorni di abbondanza spirituale sono sovente l’occasione di una fiducia temeraria, di una sicurezza presuntuosa che ci persuade che noi non saremo mai più scossi, che ormai ci siamo confermati nel bene, e ci fa dire come il principe degli Apostoli: « Quando anche tutti vi rinnegassero, io non vi rinnegherò mai! » – Non bisogna mai perdere di vista questa importante verità: che questi tempi di abbondanza, di pace, di consolazione, sono un effetto della volontà di Dio, e che solo a Lui appartiene il concederci la forza necessaria per perseverare, stabilizzare una risoluzione e consolidarci nel bene. – L’alternanza di pace e di scompiglio sono così frequenti nella vita cristiana! Perché bisogna che il Signore nasconda il suo volto per insegnare all’uomo che egli non ha altro aiuto se non in Dio solo. – Non c’è nulla di più raro di cuori tranquilli e niente di più comune che di coscienze allarmate, penanti, desolate negli esercizi della vita interiore, perché l’umiltà, la fiducia in Dio, la spoliazione dell’anima e l’abbandono in Dio, sono delle virtù pressoché sconosciute (Berthier). – Noi crediamo di essere stabili sui nostri piedi, e che il nemico non ci possa abbattere: « … Io ho detto a me stesso, nell’abbondanza del mio cuore, io non sarò scosso, io non vacillerò mai ». È proprio allora che il nemico mi sorprende e mi abbatte; è allora che bisogna che si dica con Davide, « … che il piede dell’orgoglio non giunga fino a me » (Ps. XXXV, 12); che non mi appoggi mai su una mia presuntuosa fiducia, la quale mi faccia credere che io abbia il piede fermo e che non scivolerò mai (Bossuet, Elév. VIII j. I° Elév.).

ff. 10-13. – Questo grido che spesso risuona nei salmi, è il desiderio ardente di un’anima che non ha gusto se non per Dio e per le cose del cielo. – Se la mia carne, dice qui Davide in persona di Gesù Cristo, è soggetta alla corruzione come quella degli altri uomini, e se Io non resusciti che alla fine del mondo, quale utilità ci sarebbe nell’avere sparso il mio sangue? Se Io non resuscito nei tempi presenti, non annuncerò a nessuno le vostre meraviglie e le vostre lodi, non procurerò a nessuno l’ineffabile beneficio della salvezza (S. Agost.). – Dio non ricava nessuna utilità né dalla nostra vita, né dalla nostra morte, perché Egli è sufficiente a se stesso e non ha alcun bisogno di noi; ma gli uomini possono trarre grandi vantaggi dalla vita di un giusto, le cui azioni sante sono come uno specchio brillante ove scoprono le difformità della loro anima, e se anche non facessero altro, hanno almeno vergogna di se stessi e della loro vita sregolata. – Riconoscersi incapaci di annunziare le verità di Dio, è un’eccellente disposizione per fare del bene. Persone umili e piccole ai loro occhi, sono molto più capaci di annunziare la verità di Dio che gli orgogliosi pieni di scienza e di eloquenza (Duguet).

ff. 13, 14. – « Essere ascoltati dal Signore, divenire l’oggetto della sua compassione, » quale gran soggetto di consolazione per tutti coloro che – come Davide – riconoscono la loro miseria, gemono nello sconcerto di una santa compunzione, e sono pervasi dal dolore di un vero pentimento! (Dug.). – Gesù Cristo, nella sua Resurrezione, ha lacerate il sacco di cui era rivestito, riprendendo un corpo immortale e glorioso, di modo che la mortalità della sua carne fosse distrutta per sempre. – Dio stesso, nella conversione e riconciliazione del peccatore, cambia in gioia le lacrime della compunzione, lacera il sacco e i cenci che lo sfigurano, per rivestirlo della veste dell’innocenza e coprirlo di onori e di gloria, e fa seguire i cantici di gioia ai gemiti di un cuore distrutto dal dolore.

ff. 15. –  Davide non gioisce della sua miglior fortuna perché questa lo metterà nello stato di gustare i piaceri di questo mondo, ma solo perché Dio che ne è l’Autore, sarà glorificato da coloro che ne saranno testimoni. Questo santo Re riconduce tutto a Dio, ed è questo il frutto che si deve cogliere in questi santi cantici. – La fine di questa gioia e di questa gloria, della quale Dio colma le anime umili e penitenti, è il rinviare continuamente a Dio questa stessa gloria, con cantici di azioni di grazie che non saranno più nel cielo interrotti né dal dolore, né dalla compunzione. Ammirabile è la conclusione del Salmo che deve essere la conclusione o piuttosto l’esercizio di tutta la vita, poiché esso sarà quello della nostra eternità (Duguet).

LA GRAZIA (1)

LA GRAZIA (1)

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II; S. E. I. ed. Torino – 1930]

– 1. La grazia e le sue specie. — 2. Gesù Cristo autore della grazia, — 3. Necessità della grazia. — 4. La grazia non distrugge il libero arbitrio. — 5. Perché Dio dà la grazia? — 6. Perché Dio concede più grazie agli uni che agli altri? — 7. In quali modi Dio ci comunica le grazie? — 8. Desiderio che ha Gesù Cristo di comunicare le sue grazie. — 9. Abbondanza di grazie. — 10. La grazia è un innesto divino. — 11. La grazia è paragonata alla pupilla dell’occhio. — 12. Eccellenza della grazia. — 13. Potenza e meraviglie della grazia. — 14. Utilità della grazia. — 15. Conto che si deve rendere delle grazie. — 16. Bisogna profittare delle grazie. — 17. Mezzi per ottenere e conservare la grazia.

1. LA GRAZIA E LE SUE SPECIE. — La parola grazia viene dal latino gratis datum, dato gratuitamente e la Chiesa la definisce un aiuto soprannaturale che Dio ci dà perché facciamo il bene ed evitiamo il male. Molti generi di grazie distinguono i teologi, alle quali danno nomi e definizioni speciali; accenneremo le principali.

La grazia si divide in abituale o santificante, ed attuale. La grazia abituale è quella che rimane in noi, e ci mantiene nell’amicizia di Dio. Essa non si trova mai in un cuore macchiato di colpa grave. La grazia attuale è un soccorso che Dio concede più o meno sovente. La grazia attuale si divide poi: in grazia dello spirito, o grazia di luce, e in grazia della volontà, o grazia di azione. Si divide in grazia operante e cooperante, la quale eccita, aiuta, previene, accompagna, in grazia sufficiente e grazia efficace. La grazia operante è un soccorso che Dio mette in noi senza di noi. La grazia cooperante è quella che opera col concorso della nostra volontà. La grazia eccitante è simile a quella che opera; essa ci anima, ci sollecita a fare quel dato bene, e schivare quel dato male. La grazia che aiuta è simile a quella che coopera. La grazia preveniente è quella che precede o un’altra grazia, o il libero consenso della volontà. La grazia che segue o accompagna è quella che si unisce ad un’altra grazia, o al libero consenso della volontà. La grazia sufficiente è quella che, sebbene possa ottenere l’effetto per il quale è data, ne è tuttavia privata a cagione della malizia e della debolezza della creatura. La grazia efficace è quella che arriva il suo scopo, produce il suo effetto…

2. GESÙ CRISTO AUTORE DELLA GRAZIA. — « Ah! se tu conoscessi il dono di Dio, diceva Gesù alla Samaritana, e chi è colui che ti chiede da bere, forse gliene domanderesti tu a lui; ed Egli ti darebbe dell’acqua viva … Chiunque beve dell’acqua di questo pozzo, sente di nuovo la sete; ma chi beverà dell’acqua che Io sono per dargli, non patirà mai più sete… Anzi l’acqua che gli darò Io, si farà in lui fonte di acqua zampillante per la vita eterna (IOANN. IV, 10, 13, 14) » . Un’altra volta gridava nel tempio: «Chi ha sete, venga a me e beva » — Si quis sitit, veniat ad me et bibat (Id. VII, 37). Egli medesimo, il divin Salvatore, si paragonava poi alla vite, all’albero, i cui tralci e rami in tanto hanno succo in quanto lo traggono dal tronco. Esortava  quindi i suoi credenti a tenersi bene uniti; perché siccome il tralcio non dà più nessun frutto, se è reciso dalla vite, così essi non possono fare nulla di buono per la vita eterna, se si separano da lui. Anzi, minaccia loro che saranno gettati al fuoco, come un secco ramo o sarmento (IOANN. XV, 1-6). Dice S. Agostino: « Quando Iddio rimunera i nostri meriti, che altro fa se non rimunerare i suoi doni? (Deus cum coronat nostra merita, quid aliud coronat quam sua dona? (Confess.1, IX, e XIII)»; questo appunto canta la Chiesa inuna delle sue orazioni: « Coronando, o Signore, i nostri meriti, coronate i vostri doni (Coronando merita, coronas dona tua – In Præfat. missae iuxta rit. Gallic.) ».« Tutto quello che riceviamo di buono, ogni dono perfetto viene dall’alto,insegna S. Giacomo, e discende dal Padre dei lumi, presso il quale non avviene cambiamento né ombra di alternativa » — Omne datum optimum, et omne donum perfectum, desursum est; descendens a Patre luminum, apud quem non est transmutatio, nec vicissitudinis obumbratio (IAC. I, 17). S. Paolo annunziando che comparve nel mondo e si manifestò a tutti gli uomini la grazia del Salvatore: — Apparuit grafia Dei Salvatoris nostri omnibus nominibus (Tit. II, 11), ci avverte, che la salvezza in virtù della fede ci viene dalla grazia e non da noi, perché è un dono di Dio: — Gratia estis salvati per fidem; et hoc non ex vobis; Dei enim donum. — Quindi S. Agostino esclamava: « Datemi, o Signore, quello che comandate; poi comandatemi pure tutto quello che volete (Da quod iubes, et iube quod vis (Lib. X Confess. C. XIX)». La stessa cosa indicava Isaia dicendo che « si sarebbero attinte con gioia le acque alle sorgenti del Salvatore » — Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris (ISAI. XII, 3); ad essa preludiava Davide con quelle parole:« Tu hai, o Signore, preparato nella tua bontà quel che è necessario al povero» — Parasti in dulcedine tua pauperi, Deus (Psalm. LXVIl, 11).La gloria delle più grandi opere del Cristiano si deve tutta riferire a Gesù-Cristo che è la causa intera di tali opere le quali, benché fatte liberamente dall’uomo, in virtù della sua natura e del suo libero”arbitrio, traggono tuttavia ogni loro dignità dalla grazia di Gesù Cristo. Quindi un’opera di carità per esempio, tiene dall’uomo il suo carattere di libertà; è un’opera libera, non necessaria, non forzata, ma ottiene da Gesù Cristo di essere soprannaturale, d’incontrare il gradimento di Dio, e di meritare la gloria eterna. A Gesù Cristo solo dunque è dovuta la lode, la gloria, la riconoscenza: Egli cede liberalmente all’uomo che opera, tutto l’utile, il merito, il prezzo della buona azione, ma ne riserva a sé tutta la gloria, secondo quello che disse per mezzo d’Isaia: « Non darò ad altri la mia gloria » — Gloriam meam alteri non dabo (ISAI. XLVIII, 11). Perciò leggiamo nell’Apocalisse, che i ventiquattro vegliardi mettevano le loro corone ai piedi del trono, cantando: Degno sei, o nostro Signore Iddio, di ricevere la gloria, l’onore, la potenza, perché hai creato ogni cosa: — Dignus es, Domine Deus noster, accipere gloriam, et honorem, et virtutem, quia tu creasti omnia (V, 12).Tutti i patimenti, le lotte, le vittorie dei Santi devono tornare ad onore del Re del cielo, perché innanzi a Lui deve piegarsi ogni ginocchio in cielo, sulla terra, nell’inferno, secondo l’espressione del grande Apostolo (Philipp. II, 10).La grazia in generale e le grazie tutte in particolare sono di appartenenza così propria e necessaria di Gesù Cristo, che Egli è per antonomasia l’Angelo della nuova Alleanza, perché 1° ha spento la collera e tolta l’inimicizia di Dio contro l’uomo. Egli è dunque l’angelo dell’alleanza, ossia della riconciliazione, chiamato perciò da Isaia: « Principe della pace » — Princeps pacis (IX, 6), e da S. Paolo: « Nostra pace » — Pax nostra (Eph. I I , 14). Difatti quando noi eravamo morti nel peccato, Egli ci ha chiamati a nuova vita in se stesso, rimettendoci le nostre colpe e cancellando la sentenza di condanna contro di noi; Egli l’ha rivocata e abolita coll’affiggerla alla croce: — Donans vobis omnia delieta, delens quod adversus nos erat chirographum decreti, quod erat contrarium nobis; et ipsum tulit de medio, affigens illud cruci (Coloss. I I , 13-14).

2° Gesù Cristo ha stabilito una nuova alleanza (essendo sciolta quella mosaica) tra Dio e gli uomini, in virtù della quale Dio si obbliga verso i Cristiani a dare loro la grazia e la vita eterna; e questi a loro volta si legano verso Dio, a credere in Gesù Cristo suo Figlio, ad obbedirlo, a praticare la sua legge, ad imitare la sua vita …

3° Egli è disceso dal cielo su la terra come un angelo, ed ha vestito la carne umana, per unire in sé il fango al Verbo, la terra al cielo, l’uomo a Dio, col legame dell’unione ipostatica, con la natura umana da lui presa nel casto seno dell’immacolata Vergine Maria sua madre, formando così la più stretta ed intima alleanza…

4° Nell’ultima cena, la vigilia della sua morte, egli ha fatto il suo testamento, espressione dei suoi ultimi voleri, e l’ha sanzionato con l’istituzione dell’Eucaristia, dicendo: « Questo è il sangue della nuova alleanza » — Hic est sanguis novi Testamenti (MATTH. XXVI, 28).

5° Gesù Cristo, nella sua qualità di Angelo del Testamento, ha portato dal cielo quest’alleanza agli uomini; l’ha rassodata su la terra per trentatrè anni, con le sue fatiche, con i suoi sudori, con i discorsi, con i viaggi, con i lavori suoi, con la fame, con la sete, col freddo, col caldo; e in ultimo non solamente l’ha confermata e suggellata col suo sangue, ma se l’è comprata e l’ha fatta cosa sua, sborsando il prezzo necessario a una tanta riconciliazione, e ad una sì intima alleanza; prezzo equivalente ed accettabile in tutta giustizia, e questo prezzo vale per tutte le nazioni, per tutti i secoli, quando pure durasse il mondo milioni di anni, ed anche in eterno. Infatti i santi nel cielo parteciperanno a quest’alleanza per la gloria nell’eternità; Gesù Cristo l’ha recata in paradiso ed è stata da Lui confermata, avendo in mira la gloria celeste. Perciò, avendo compiuto quest’alleanza, ascese per il primo glorioso al cielo, chiamandovi i suoi fedeli e dicendo loro che lo seguissero…

3. NECESSITÀ DELLA GRAZIA. — È sentenza perentoria di Gesù Cristo, che senza di Lui nessuno non può fare nulla: — Sine me nihil potestis facere (IOANN. XV, 5). A tal punto, dice l’Apostolo, che non bastiamo di per noi medesimi a produrre pensiero che valga, ma la possibilità ce ne viene da Dio: — Non sumus sufficientes cogitare aliquid a nobis quasi ex nobis; sed sufficientia nostra ex Deo est (II Cor. III, 5). « Sapete che cosa abbiamo del nostro, dice S. Agostino; nient’altro se non il peccato e la menzogna. E se qualche barlume in noi si trova di verità e di giustizia, lo attingiamo a quel fonte al quale dobbiamo anelare nel deserto di questo secolo, affinché ristorati da qualche sua goccia, non ve veniamo meno per la strada (Nemo habet de suo, nisi peccatum et mendacium. Si quid autem habet homo veritatis atque iustitiæ, ab ilio fonte est quem debemus sitire in hoc eremo; ut ex eo quasi quibusdam guttis irrigati, non deficiamus in via – De cognit. veræ vitæ) ». «Perché la volontà dell’uomo, soggiunge il Crisostomo, non basta a nulla se non è aiutata dal soccorso soprannaturale (Nullo modo hominis voluntas sufficit, nisi auxilio superiore roboretur – Homil. in Epis. ad Ephes.)». Il peccatore resta schiacciato sotto il peccato come sotto il peso di una montagna; egli è imprigionato; e non può uscire dal carcere, né scuotersi di dosso il peso, né sciogliersi le catene, senza la grazia di Dio. « È necessario, dice S. Bernardo, che l’unzione spirituale della grazia rafforzi la nostra debolezza, che Gesù alleggerisca con la grazia, che è nella Religione, le molte e varie croci che vanno congiunte con l’osservanza della legge divina e della penitenza cristiana; poiché né si può seguire Gesù Cristo senza croci, né sopportare la durezza delle croci, senza il lenimento della grazia (Necesse est ut unctio spiritalis gratiae adiuvet infirmitatem nostram, observantiarum et multimodæ pœnitentiæ cruces dcvotionis suae gratia liniens; quia nec est sine cruce sequi Christum; et sine unctione, crucis asperitatem ferre quis posset? – De Consid.)». – « A quel modo, dice S. Agostino, che non si vide mai cavallo o leone domarsi da se stessi, ma si richiede per domarli l’opera dell’uomo; così l’uomo non si doma da se medesimo, ma ci vuole l’opera di Dio (Equus non se domat, leo non se domat, et sic homo non se domat. Sed ut dometur equus, leo, quæritur homo; ergo Deus quaeratur, ut dometur homo – Serm. IV, De Verb. Dom. in Matth.) ». Non la natura, ma la grazia lavora l’uomo… «L’anima, scrive il medesimo dottore, è la vita del corpo; Dio è la vita dell’anima (Vita corporis anima est; vita animæ Deus est (De Cognit. veræ vitæ); e la grazia è l’anima dell’anima (Gratia est anima animæ – De grat. el lib. arbitr.); quindi, siccome il corpo muore quando è separato dall’anima, così muore l’anima quando è separata da Dio (Quomodo moritur caro, amissa anima; sic moritur anima, amisso Deo – De Cognit. veræ vitæ) ». La grazia può dirsi il respiro dell’anima, ed è così indispensabile il respiro dell’anima, come la respirazione dell’aria al benessere del corpo; e quello che la respirazione opera nel corpo, la grazia l’opera nell’anima; poiché essa non trova nessun merito nell’uomo, ma li produce tutti (Hæc (gratia) non invenit, sed effìcit merita – De grat. et lib. arbitr). L’uomo cade senza Dio, ma più non si rialza se non soccorso da Dio. L’uomo non abbisogna di Dio né del suo soccorso per peccare mortalmente e precipitare nell’inferno, ma non sorgerà mai dal peccato mortale, non uscirà dall’inferno senza la grazia divina. Che più? Non solamente l’uomo non può rialzarsi senza Dio, ma neppure camminare o muovere il passo… « Se il Signore, diceva Davide, non edifica Egli medesimo la casa, invano vi lavorano attorno i muratori; se il Signore non custodisce egli la città, inutilmente vi fa scolta chi la custodisce » — Nisi Dominus ædificaverit domum, invanum laboraverunt qui ædificant eam. Nisi Dominus custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam. (Psalm. CXXVI, 1-2). Così appunto accadde agli Apostoli sul mare di Tiberiade dove, dopo aver faticato tutta la notte nel gettare le reti, non erano riusciti a prendere nulla; ma non appena si rimisero all’opera confortati dalla parola di Gesù Cristo, fecero sì abbondante pesca, che le reti si rompevano per il troppo peso — Præceptor, per totam noctem laborantes nihil cepimus; in verbo autem tuo laxabo reteConcluserunt piscium multitudinem copiosam, rumpebatur autem rete eorum (Luc.. V, 5-6). Anche la Sposa dei Cantici confessa che ha bisogno di essere attirata a seguire il suo diletto,per mezzo dell’odore de’ suoi profumi, e di ciò lo prega: — Trahe me; post te curremus in odorem unguentorum tuorum – Cant. I, 3). Neppure noi non possiamo camminare, correre, volare, per la strada della virtù, per la via del cielo, se non siamo attirati dal profumo della grazia divina.

4. LA GRAZIA NON DISTRUGGE IL LIBERO ARBITRIO. — La grazia attrae liberamente e non necessariamente. Essa infatti ci attrae e conduce, come osserva S. Cirillo, per mezzo degli ammonimenti, della dottrina, della inspirazione che continuamente ci fa sentire (Trahimur monitione, dottrina, revelatione incessa biliter facta – Catech.). E S. Agostino così spiega la cosa: « Non credete che siate tratti vostro malgrado; lo spirito è condotto dall’amore; non la forza, ma la dilezione porta ad operare. A più buon diritto dobbiamo dire che l’uomo è tratto a Gesù Cristo perché l’uomo tende alla verità, alla felicità, alla giustizia, alla vita eterna, e Gesù Cristo è tutto questo. Tale violenza è fatta al cuore, non alla carne. Perché dunque smarrirvi? Credete e voi verrete, amate e sarete tratti. Non immaginatevi che questa violenza sia dura, penosa; essa è dolce e soave; è la dolcezza per essenza che vi attira. Forseché la pecora non è attirata quando, avendo fame,si vede porgere innanzi dell’erba? Per me io credo che non è punto trascinata suo malgrado, ma è il desiderio, la voglia che la conduce. Similmente è di voi: venite a Gesù Cristo; e se non vi sentite attirare, domandate di essere attirati » (Serm. II de Verb. Domini). A quelli che opponevano: ma se ogni azione è da Dio, se la sua grazia fa tutto, invano voi mi esortate, invano m’intimidite e mi atterrite, invano mi ordinate di obbedire; S. Giovanni Crisostomo rispondeva con la Scrittura, che Dio in sul principio creò l’uomo e lo lasciò in potere dei suoi consigli; gli pose dinanzi l’acqua e il fuoco, dandogli facoltà di stendere la mano a quello che più gli talentasse: gli propose la vita e la morte, il bene e il male, con promessa di dargli quello che avesse scelto di suo arbitrio: — Deus ab initio constituit hominem, et reliquit illum in manu consilii sui. . . Apposuit ibi aquam et ignem; ad quod volueris, porrige manum tuam. Ante hominem vita et mors, bonum et malum; quod placuerit ei, dabitur ibi (Eccli. XV, XIV, 17-18). E ricordava anche loro quel testo del Deuteronomio (XXX,13-16): « Considera che ti ho posto sott’occhi quest’oggi la vita e i beni, la morte e i mali, affinché tu ami il Signore tuo Dio, e viva » (Homil. ad pop.). L’uomo deve dunque corrispondere alla grazia, se vuole che essa operi in lui … La grazia tocca, sollecita la volontà dell’uomo, affinché liberamente consenta a seguire la grazia e vi cooperi, ma non la costringe punto… Quel detto dell’Apostolo: « Dio è che opera in noi il volere e il fare, secondo che a lui piace » — Deus enim est qui operatur in vobis velle et perfìcere, prò bona voluntate (Philipp. II, 13), è spiegato dal Crisostomo e dagli altri Dottori cattolici in questo senso, che Dio aiuta, aumenta, mette in azione la prontezza, la disposizione della volontà per fare il bene… « Dio, scrive Sant’Agostino, muove e dà impulso, purché l’uomo voglia liberamente pentirsi, amare e fare qualsiasi altro bene (Deus movet et invitat, ut homo libere velit pœnitere, amare et quodvis bonum onerari – De grat. et lib. arbitr.) ». Dio eccita e dà la grazia per far sì che vogliamo; tocca a noi corrispondere per parte nostra alla grazia… Dio opera in noi, con la sua grazia, il volere, ma in modo diverso da quello che tenne nel creare il cielo e la terra, ecc. Creando il cielo e la terra, ha fatto loro una necessità di esistere; mentre alla volontà umana fa produrre un’azione libera per mezzo della persuasione, degli allettamenti, delle dolci sollecitudini, delle carezze, della bontà, del terrore, della forza interna, delle soavi consolazioni. Egli opera non già fisicamente, ma moralmente…La Chiesa insegna con S. Agostino, che ogni inizio di buona volontà,di fede, di salute, viene dalla grazia preveniente e perseverante. Dio fa che noi vogliamo e che adempiamo quello che vogliamo – De grat. et lib. arbit.). Dio opera in noi il fare, continuandoci la medesima grazia con cui ha operato il volere. Quando un atto esteriore è difficile, come il martirio, Egli allora comunica la forza di operare, confermando ed animando l’uomo con una nuova grazia.S. Bernardo, parlando della grazia e del libero arbitrio, spiega in modo ammirabile, come Dio operi in noi queste tre cose: il pensare, il volere, il fare. Opera in noi, senza di noi, la prima cosa che è il pensare; opera in noi, con noi, la seconda, cioè il volere; opera in noi, per mezzo di noi, la terza, che è il fare. Quando però sentiamo avvenire in noi invisibilmente queste cose, guardiamoci dall’attribuirle o alla volontà nostra che è inferma o alla necessità divina che non esiste, ma solo alla grazia di cui siamo ripieni. È la grazia che eccita il libero arbitrio, quando c’infonde il desiderio; guarisce, quando cambia l’affetto; fortifica per condurre all’opera; conserva per preservare dalla caduta. Opera in un col libero arbitrio ch’essa previene e precede, per eccitare il pensiero; segue ed accompagna nel resto, che è il volere ed il fare. Previene nel pensiero per far cooperare nel volere e nel fare. Quindi il cominciamento appartiene tutto e solo alla grazia; il volere e il fare avvengono per la grazia ed il libero arbitrio non separati, ma insieme congiunti; operano tutti e due ad un tratto, non a vicenda, per il volere ed il fare. La grazia non lavora da sé, ed il libero arbitrio da sé; ma agiscono tutti e due sul tutto, con un lavoro individuale (Primum, scilicet cogitare, sine nobis. Secundum, scilicet velie, nobiscum. Tertium, scilicet perfìcere, per nos facit… Cavendum adhuc ne cum haec invisibiliter intra nos, ac nobiscum actitari sentimus, aut nostrae voluntati attribuamus, quae infirma est, aut Dei necessitati, quae nulla est; sed soli gratiae, qua plenus estDe grat. et lib. arbitr.).« Per la grazia di Dio, confessa di sé l’Apostolo a’ Corinzi, io sono quel che sono e la sua grazia non è rimasta sterile in me; ma ho lavorato più di tutti loro, non già io da me, ma la grazia di Dio con me » — Gratia Dei sum id quod sum, et gratia eius in me vacua non fuit; sed abundantius illis omnibus laboravi: non ego autem, sed gratia Dei mecum (I Cor., XV, 10). Non dicono chiaro queste parole di S. Paolo, che la grazia e la volontà operano insieme e d’accordo? «Attirami, esclama la Sposa dei Cantici, ed io correrò dietro le tue orme, tratta all’odore de’ tuoi profumi » (Cant. I , 3). Ah sì! conducetemi, o Signore, con la vostra grazia, dai vizi alla virtù, dall’ignoranza alla fede ed alla conoscenza di voi, dalla carne allo spirito, dalla tiepidezza al fervore, dal principio al compimento dell’opera, dalle cose facili e piccole alle grandi ed eroiche, dagli affetti terreni ai celesti, dal timore all’amore, dalla voluttà alla mortificazione della carne, alla croce… Noi siamo tratti e condotti dalla grazia non per mezzo di catene o di sferze, ma per la forza dell’amore, secondo le parole del profeta Osea: « Io li trarrò a me coi legami coi quali si traggono gli uomini, coi vincoli dell’amore » — In funiculis Adam, in vinculis charitatis (OSE. XI, 4). Perciò S. Agostino sentenzia: « Amate e sarete tratti (Ama et traheris – De grat. et lib. arbitr.) ». Dio ci ha dato il libero arbitrio e ad esso concede di cooperare alla grazia la quale lo eccita al ben fare e Dio coopera con noi per mezzo della grazia … Il libero arbitrio da solo non può nulla; la grazia non costringe nessuno; la grazia poi e il libero arbitrio, accordandosi insieme, fanno il bene; questo bene è meritorio per la grazia e la cooperazione volontaria alla grazia…

5. PERCHÈ DIO DÀ LA GRAZIA? — Dio dà la sua grazia per puro amore verso di noi… Dio opera in noi il volere e il fare, per mezzo della sua grazia, affinché la sua buona volontà si adempia in noi e da noi e per noi; acciocché noi viviamo santamente e felici quaggiù, ed Egli possa premiarci nell’eternità, tale essendo la misericordiosa volontà di Dio nel concederci le sue grazie… o cielo! che vergogna per la pigrizia umana! Dio è più disposto a darci la grazia, che noi a riceverla; più s’adopera Egli a chiamarci all’eterna salvezza, di quello che c’impieghiamo noi per andare al cielo. Quando dà, dà del suo e con piacere; quando ricusa di dare e punisce, ricusa e punisce con dispiacere; e solo in noi trova i motivi di agire così… Vi è in Dio un’inclinazione infinita, un desiderio immenso di comunicarsi, che proviene dall’infinita perfezione e dalla pienezza del suo essere; pienezza sì grande, che Egli s’impiega a riversarla nelle creature e specialmente negli uomini; sebbene la conservi sempre tutta intera, per quanta ne comunichi. « Dio è nelle creature intelligenti quello che è il sole nelle cose sensibili », dice il Nazianzeno (Sicut in rebus sensibilibus est sol, ita in intelligibilibus est – In Distici:). Quindi, siccome il sole spande da tutte le parti i suoi raggi per illuminare, scaldare, vivificare e fecondare, senza che per questo perda nulla de’ suoi raggi, così Dio spande i raggi della sua beneficenza su tutte le creature, su tutti gli uomini, per rischiararli con i lumi della sua sapienza, infiamma del suo amore gli Angeli e gli uomini, li vivifica per la vita della grazia e della gloria, senza nulla scemare della sua pienezza infinita. L’incarnazione, le prove, la predicazione, i miracoli, la passione, la morte, i sacramenti, la missione dello Spirito Santo, la cura speciale di tutta la Chiesa e di ciascun fedele, sono gli effetti della sollecitudine di Dio a nostro riguardo. « Per le viscere della misericordia di Dio, ci ha visitati colui che si leva nelle altezze dell’Oriente », cantava Zaccaria, il padre del Battista — Per viscera misericordiæ Dei nostri, in quibus visitavit nos Oriens ex alto (Luc. I, 78). «La grazia di Dio, scrive S. Prospero, regna per mezzo della persuasione, delle esortazioni, dei buoni esempi, del timor dei pericoli, dei miracoli, delleinspirazioni, dei consigli, della fede, dell’intelligenza che dà, degli ardoricon cui accende il cuore » (De Vocat. gent. lib. II, c. X). Sì, la grazia ci è data affinché illumini lo spirito, ecciti la volontà, purifichi l’anima, infiammi il cuore di amore, semini la vita di buone opere e conduca alla vista ed all’eterno godimento di Dio nel regno della gloria…« La grazia, dice S. Agostino, ci è data affinché noi vogliamo, ed è essa stessa che comincia in noi il bene; quando noi vogliamo, essa compie in noi quello che ha cominciato. Ci previene per guarirci, ci accompagna per conservare in noi la sanità spirituale; ci previene per chiamarci, ci segue per glorificarci; ci previene per far che viviamo piamente, ci accompagna per farci vivere eternamente con Dio (Ipse ut velimus operatur incipiens, qui volentibus cooperatur perficiens. Praevenit ut sanemur, et subsequitur ut sanitate vegetemur; et subsequitur ut glorificemur; prævenit ut pie vivamus, et subsequitur ut cum ilio semper vivamus – De grat. et lib. arbitr., c. XVII). Insomma, la grazia ci si dà perché conosciamo, amiamo, serviamo Dio fedelmente in questa vita e lo possediamo per sempre nell’eternità. Ci si dà per nostro bene temporale e spirituale, nel tempo e nell’eternità.

6. PERCHÈ DIO CONCEDE PIÙ GRAZIE AGLI UNI CHE AGLI ALTRI? — « Perché uno è tratto dalla grazia e non un altro? domanda S. Agostino, e risponde: non sentenziarne, se non vuoi sbagliare (Cur hic trabatur, ille non trahsatur? Noli iudicare, si non vis errare – De gratia et lib. Arbit.) ». E da quando in qua Dio è tenuto verso l’uomo?… Egli è padrone de’ suoi doni e libero di darli a chi vuole… Egli non deve nulla all’uomo; del resto dà con usura a chi corrisponde fedelmente alle sue grazie… Vi sono molti ingrati, increduli, empi, indurati; a costoro Dio non deve niente altro che castighi… Essi abbandonano Dio per i primi; e Dio si ritira e li lascia; non hanno se non quello che si meritano… Forse che vorreste obbligare Dio a dare qualche cosa a colui che non prega, che ricusa anzi di pregarlo?… a colui che vorrebbe sempre vivere per peccare sempre?… Deve Iddio qualche cosa a chi si abusa di tutto? « La grazia non si concede se non a chi veglia sopra se stesso », dice il Crisostomo (Non datur gratia nisi vigilanti – Homil. in Epl. ad Rom.). « E chi sei tu, o uomo, domanda S. Paolo, che osi chiedere ragione a Dio? Si è mai veduta una stoviglia dire allo stovigliaio: Perché mi hai tu foggiata così e non così? È nell’arbitrio dello stovigliaio di fare d’una medesima creta un vaso per uso onorevole, ed un vaso per uso vile. (Rom.IX, 20-21). « Dio, come osserva S. Agostino, rende male per male perché è giusto, bene per male perché è buono; bene per bene perché è buono e giusto; la sola cosa che non fa è di rendere male per bene, non essendo egli ingiusto (Deus reddit mala prò malis, quia iustus est; bona prò malis, quia bonus est; bona prò bonis, quia bonus et iustus est; soluni non reddit mala prò bonis, quia iniustus non est – De grat. et lib. Arbitr.)»… È certo che per tutta l’eternità nessun reprobo potrà mai dire: Io sono irreparabilmente perduto, non per colpa mia, ma per colpa di Dio. Sarà anzi costretto a confessare che si è dannato per propria colpa: che sarebbe in cielo, se l’avesse voluto. Dio non condanna se non quelli che meritano di essere dannati, come non nega mai il paradiso a quelli che se lo guadagnano. Perché lagnarci? La nostra perdizione viene da noi:— Perditio tua ex te, Israel (OSE. XIII, 9)… Adoperiamoci a conoscere, amare, servire Dio con tutto l’animo e con tutte le forze e stiamo certi chesaremo tra gli eletti …

7. IN QUALI MODI DIO CI COMUNICA LE GRAZIE? — In quattro modi Iddio si avvicina all’uomo e gli comunica le grazie:

1° Illuminando la mente, acciocché veda quello che bisogna conoscere…

2° Per mezzo dell’istruzione, affinché sappia quello che deve praticare . ..

3° Col ricupero o con l’aumento dell’amicizia di Dio . ..

4° Col diletto interno delle cose spirituali … Questi sono i principali mezzi con cui Iddio attrae a sé l’uomo e gli partecipa le sue grazie.

8. DESIDERIO CHE HA GESÙ CRISTO DI COMUNICARE LE SUE GRAZIE. —

A persuaderci del vivo, immenso desiderio di cui arde Gesù Cristo, di darci le sue grazie, basta ricordare l’incarnazione, la vita, i patimenti, la morte… Questo suo vivo desiderio è espresso in quelle sue parole agli Apostoli: « Io languivo della brama di mangiare con voi questa Pasqua » — Desiderio desideravi hoc Pascha manducare vobiscum (Luc.. XXII, 15) e in quelle altre che rivolse ai Giudei: « Se alcuno ha sete, venga a me e beva » — Si quis sitit, veniat ad me et bibat (IOANN. VII, 37). « Io sono venuto a portare il fuoco della carità nel mondo; ed è mio sommo ed unico voto che si accenda » — Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Luc., XII, 49). E che altro voleva dire quella sua parola detta dalla croce — Sitio (IOANN. XIX, 28), se non questo: ho sete della fedeltà e della corrispondenza degli uomini alle mie grazie?… Non è Dio che ci dice per bocca del Savio: «Dammi, o figliuol mio, il tuo cuore » — Præbe, fili mi, cor tuum mihi (Prov. XXIII, 26); e nell‘Apocalisse: « Ecco che io me ne sto alla porta e busso: chi ascolterà la mia voce e mi aprirà, io entrerò in casa sua e mangerò con lui, ed egli meco » — Ecce sto ad ostium et pulso; si quis audierit vocem meam, et aperueril mihi ianuam, intrabo ad illum et cœnabo cum illo, et ipse mecum (III, 20)?

[1 – Continua …]

LA GRAZIA (2)

SALMI BIBLICI: “AFFERTE DOMINE, FILII DEI” (XXVIII)

SALMO 28: “AFFETE, DIMINE, filii Dei…”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR – RUE DELAMMIE, 13

1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

SALMO XXVIII

[1] Psalmus David, in consummatione tabernaculi.

    Afferte Domino, filii Dei,

afferte Domino, filios arietum.

[2] Afferte Domino gloriam et honorem; afferte Domino gloriam nomini ejus; adorate Dominum in atrio sancto ejus.

[3] Vox Domini super aquas; Deus majestatis intonuit; Dominus super aquas multas.

[4] Vox Domini in virtute; vox Domini in magnificentia.

[5] Vox Domini confringentis cedros, et confringet Dominus cedros Libani;

[6] et comminuet eas tamquam vitulum Libani: et dilectus quemadmodum filius unicornium.

[7] Vox Domini intercidentis flammam ignis.

[8] Vox Domini concutientis desertum et commovebit Dominus desertum Cades.

[9] Vox Domini praeparantis cervos, et revelabit condensa; et in templo ejus omnes dicent gloriam.

[10] Dominus diluvium inhabitare facit, et sedebit Dominus rex in æternum. Dominus virtutem populo suo dabit; Dominus benedicet populo suo in pace.

[Vecchio Testamento secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXVIII

Salmo di David nel terminarsi il tabernacolo.

1. Presentate al Signore, o figliuoli di Dio, presentate al Signore gli agnelli.

2. Presentate al Signore, la gloria e l’onore, presentate al Signore la gloria dovuta al suo nome; adorate il Signore nell’atrio del suo santuario.

3. La voce del Signore sopra le acque; il Signore della maestà tuonò, il Signore sopra le molte acque.

4. La voce del Signore è possente, la voce del Signore è piena di magnificenza.

5. La voce del Signore che spezza i cedri, e il Signore spezzerà i cedri del Libano.

6. E gli farà in pezzi come un vitello del Libano, e il diletto (è) come il figlio dell’unicorno.

7. La voce del Signore, che divide la fiamma del fuoco;

8. La voce del Signore, che scuote il deserto, e il Signore scuoterà il deserto di Cades.

9 . La voce del Signore, che prepara i cervi e le folte macchie rischiara; e nel tempio di lui tutti gli daran gloria.

10. Il Signore vi manderà un diluvio, e sarà assiso il Signore qual Re in eterno. Il Signore darà fortezza al suo popolo; il Signore darà al popol suo benedizione di pace.

Sommario analitico

L’oggetto di questo salmo, che è uno di quelli che furono composti durante la traslazione dell’arca sulla montagna di Sion, essendo duplice, secondo il parere che tutti gli interpreti ne danno, per maggior chiarezza, merita una doppia analisi; una secondo il senso letterale, l’altro secondo il senso allegorico.

PRIMO SOMMARIO ANALITICO.

Davide pieno di ammirazione alla vista delle opere di Dio: 1° invita gli uomini a riconoscere ed a celebrare la sua grandezza, offrendogli le vittime perfette che Gli sono dovute come al sovrano Signore (1). – 2° Indica loro come debbano essere queste offerte, a) con riti e canti esteriori, b) con le disposizioni interiori di adorazione (2). – 3° Egli dà la ragione di questo invito, cioè la grande potenza di Dio, di cui enumera i meravigliosi effetti:

a) Nelle acque superiori, quando fa tuonare nelle nubi e ne fa discendere sulla terra una pioggia abbondante! (4).

b) Nell’aria, – 1) quando eccita i venti e le tempeste che abbattono i cedri senza resistenza alcuna (5, 6); – 2) quando solca le nubi con fulmini e saette, per imprimere il terrore nel cuore degli uomini (7);

c) Sulla terra, quando – 1) la colpisce nelle parti più recondite; – 2) riempie gli animali di spavento; – 3) spoglia le foreste degli alberi e del fogliame (9); – 4) eccita con questo gli uomini a lodarlo perché: a) li ricolmi di grazia come loro Dio, b) li governi come loro re (10), c) venga in loro soccorso, nella guerra, come loro capo, d) li renda sempre felici, in pace, come loro padre (11).

SECONDO SOMMARIO ANALITICO.

Davide, contemplando interiormente la promulgazione della legge evangelica:

I. – Esorta il Cristiano ad offrire a Dio il culto esteriore ed interiore che Gli è dovuto (1, 2).

II. – Da le ragioni di questa esortazione e celebra il Dio che si degna di dare la sua legge agli uomini:

1°A causa della sua maestà e della sua potenza che si manifesta a) nella voce che fa intendere dall’alto dei cieli, per chiamare a Sé tutti i popoli della terra (3); b) nei miracoli stupefacenti che opera (4); c) nella forza con la quale distrugge gli sforzi degli orgogliosi e tutte le loro resistenze (5, 6).

2° A causa della sua bontà e della sua misericordia per la quale

a) si mostra amabile a tutti, benché forte (6);

b) effonde su tutti gli uomini la fiamme e i doni dello Spirito Santo (7);

c) allontana dal culto degli idoli i gentili condannati alla sterilità ed i Giudei dalla legge infeconda di Mosè (7);

d) nella via purgativa, Egli prepara, con il timore, gli inizianti, a diventare fecondi di buone opere (8);

e) nella via illuminativa, illumina coloro che sono più avanzati;

f) nella via unitiva: – 1) li eccita a rendere gloria a Dio (9); – 2) ne arricchisce l’anima di abbondanza di grazie; – 3) Egli stabilisce il suo regno nell’anima (10); – 4) comunica loro una forza tutta divina contro i suoi nemici; – 5) colma tutte le facoltà dell’anima, tutti i sensi del corpo, dei doni e delle grazie che accompagnano la pace (11).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1, 2.

ff. 1. –  Dio non gradisce ogni sorta di doni, ma solo quelli che Gli vengono offerti con cuore puro: ecco perché il Salmista vuole che noi siamo innanzitutto figli di Dio prima di avvinarci a Lui per offrirgli i nostri doni, non i doni come tali, ma quelli stessi che Egli ci prescrive. Dite dunque innanzitutto a Dio: Padre mio, ed indirizzate poi le vostre domande. Esaminatevi coscienziosamente, vedete qual sia la vostra vita, siate degni di chiamare vostro Padre, il tre volte Dio. Gli si facciano ricche offerte, e si scelgano dunque uomini d’élite perché a Lui si offrano. È gran cosa l’essere figlio di Dio, ed è opportuno che l’offerente sia all’altezza della grandezza di questo titolo. « Offrite i piccoli degli arieti ». L’ariete è come il capo del gregge, e precede la pecore per condurle nei grassi pascoli, ai ruscelli ove si disseteranno, e poi ricondurle al riparo. Tali sono i capi del gregge di Gesù Cristo che lo conducono nei pascoli fioriti ed odorosi della dottrina spirituale, lo dissetano con le acque vive delle quali lo Spirito Santo è la fonte, lo nutrono perché produca frutti, lo difendono da ogni pericolo e lo riportano al luogo di riposo. Sono i figli di questi capi coloro ai quali il Salmista comanda ai figli di Dio di offrire al Signore. Se gli arieti sono i capi del gregge, Egli vuole che abbiano dei figli che con la loro applicazione alle buone opere, diventino essi stessi modelli di virtù (S. Basilio). – « Portate al Signore i piccoli degli arieti ». Portategli coloro che devono essere battezzati, coloro che devono essere concepiti, non dalla carne, ma dalla fede; portate coloro che devono diventare agnelli con l’innocenza; portate coloro che non possono venire da se stessi, o perché è necessità difenderli, o perché l’età glielo impedisce, o l’ignoranza li ritarda, o i vizi li incatenano, o i peccati li trattengono, lo spettacolo delle cose esteriori li seduce, o la povertà li copre di vergogna; portate coloro che lo consentono, fate entrare coloro che resistono, fatevi necessità ove essi sono soggetto di ricompensa (S. Piet. Chris. Serm. X). – Ad esempio del santo Re Davide, non bisogna contentarsi di lodare il Signore in particolare, ma si devono invitare gli altri fedeli, eccitarli con i nostri discorsi ed i nostri esempi, a rendere omaggio all’Altissimo. – I sacrifici dei Giudei sono figura del Sacrificio dei Cristiani. Dio faceva loro conoscere, per mezzo del suo Profeta, che il sacrificio che Gli era veramente gradito non consisteva nell’immolare dei capri o degli agnelli, ma in cuore contrito ed umiliato. « Cosa offrirò a Dio che sia degno di Lui, dice il Profeta? » Piegherò il ginocchio davanti a Dio l’Altissimo? Gli presenterò degli olocausti e dei nati di un anno? Il Signore si placherà con l’offerta di mille capri, con libazioni di barili di olio? O uomo, Io vi mostrerò ciò che è buono e che il Signore vi comanda: praticate la giustizia, amate la misericordia, camminate con timore alla presenza del Signore (Mich. VI, 7,8).

ff. 2. –  « Adorate il Signore nel suo tabernacolo ». L’adorazione che è qui comandata deve farsi non fuori dalla Chiesa, ma nella “vera” Chiesa, nella Chiesa santa, che è una … Vediamo molti che sono in attitudine di preghiera, e ciò nonostante non sono nella Chiesa di Dio, a causa delle divagazioni del loro spirito e delle distrazioni in cui cadono a causa delle vane preoccupazioni (S. Basilio). – Si possono distinguere tre gradi nella gloria che è dovuta a Dio: – 1) riconoscere le sue grandezze; – 2)intendere la gloria del suo nome; – 3) adorarlo nel suo tempio santo con il culto pubblico ed esterno.

II. — 3-6.

ff. 3, 4. – Chi di noi ascoltando il rumore del tuono, non ha immaginato questa voce del Signore di cui parla il Re-Profeta? Sembra effettivamente che l’ascolto del tuono non sia per le nostre orecchie che un’eco lontano di questa parola divina della quale un soffio scuote la natura ed è sufficiente a ridurla in polvere. È dal rombo del tuono che Dio parla al suo popolo, con la bocca di Mosè, e come in un concerto, l’armonia degli strumenti si mescola alla voce umana, così sul monte Sinai si direbbe che il tuono e la voce di Mosè si confondono per formare una sola parola, quella di Dio, per dettare i Comandamenti al suo popolo. Il tuono esce dalla nube nello stesso momento in cui il fulmine lo annuncia. Nel linguaggio della santa Scrittura, le nubi significano i predicatori della parola evangelica. Queste nubi, dice S. Agostino, ci mostrano di sfuggita il fulmine e il tuono: il fulmine è il miracolo che si aggiunge alla predicazione della parola; il tuono è il precetto ritenuto nell’orecchio del peccatore intimorito (Mgr. De La Bouillerie, Symbol. de la nat., I, 177). – Le sette voci di cui parla qui il profeta possono ben applicarsi alla predicazione del Vangelo. La prima voce si è fatta ascoltare sulle acque, quando dal cielo semiaperto discese questa voce magnifica che fu intesa al momento del Battesimo di Gesù Cristo: « è nel mio Figlio diletto che ho posto tutte la mia affezione ». – « Il Dio di maestà tuonò e si fece intendere su una grande abbondanza di acque », perché il Battesimo fu da allora istituito e tutte le acque del mondo ricevettero la virtù di rigenerare i Figli di Dio. Le altre voci hanno per oggetto le tante meraviglie della predicazione evangelica. – La voce del Signore è potente: nella Creazione, da una sola parola essa fa uscire dal nulla il cielo e la terra e tutto ciò che esse racchiudono; con la predicazione del Vangelo, essa non è stata un brusio vano e senza effetto, un bronzo tinnante ed un cembalo altisonante, come i discorsi della maggior parte degli oratori e dei filosofi, ma una voce potente che ha operato la conversione del mondo, una voce piena di magnificenza per il bagliore dei miracoli che l’hanno accompagnata (Dug.).

ff. 5, 6. –  Il Re-Profeta continua a dipingere in stile orientale le grandi conquiste del Cristianesimo mediante la predicazione evangelica. I cedri del Libano sono alberi molto duri, molto elevati e dall’odore molto gradevole. La loro durezza, è figura dei peccatori incalliti e di coloro che si ostinano nei loro errori. – La loro elevazione, è figura degli uomini superbi che si inorgogliscono, sia dell’ampiezza della loro potenza, sia dell’eminenza della loro saggezza, sia dello splendore della loro eloquenza; il loro gradevole odore, è la figura degli uomini amici dei piaceri e delle voluttà. La predicazione del Vangelo ha distrutto tutti i cedri, ha persuaso all’umiltà tutti coloro che si erano elevati al di sopra degli altri, alla mansuetudine e alla docilità gli incalliti ed i protervi, allo spirito di penitenza e di mortificazione i sensuali ed i voluttuosi (Duguet). Non soltanto essa ha abbattuto gli alti cedri del Libano, abbattendo cioè l’orgoglio e la durata di questi uomini superbi, ma ha sradicato gli stessi cedri, li ha trasportati in un altro luogo, facendoli rinunziare alle loro affezioni carnali e legate alla terra per passare ad una vita simile a quella degli Apostoli (Dug.). – Dio ha le tempeste nella sua mano, e non compete che a lui il far scoppiare il rombo del tuono nelle coscienze e fondere i cuori induriti con i bagliori dei fulmini; e se pur Egli avesse un predicatore temerario per produrre questi grandi effetti con la sua eloquenza, mi sembra che Dio gli dica, come a Giobbe: se tu credi di avere un braccio come Dio, e tuonare con una voce simile, agisci e fa’ Dio al mio posto: « Elevati nelle nubi, mostrati nella tua gloria, abbatti i superbi nel tuo furore, e disponi a tuo piacimento delle cose umane » (Bossuet, Serm. Parol. de Dieu).

III. — 7-11.

ff. 7, 8. –  La voce di Dio, voce di verità, comparata alla folgore; ora cosa che cose c’è di più potente e terribile del tuono? Al suo scoppio fa seguito lo sgomento, lo spavento, la paura mortale; esso fa impallidire il più altero, scuote i palazzi superbi e l’umile capanna, cade sulle alture delle montagne e sulle onde dell’oceano. È l’immagine naturale della potenza della verità, che è sempre inflessibile, sempre tuonante in fondo a tutti i cuori, non è sopraffatta né dalla forza dei pregiudizi, né dai torrenti degli abusi, né dal vizio possente e dominante, né dal numero dei reprobi. Essa fa da sfondo ai tiranni che non vogliono vedere nulla sopra le loro teste, o ai potenti che si adagiano nella loro gloria. Essa turba la solitudine dell’empio, che fugge sempre fuori di sé, ha paura di sé, si evita, non osa ritrovarsi da solo con la ragione e la fede. Essa spande sul peccato un’amarezza dolorosa, porta l’angoscia e la tribolazione nell’anima del colpevole, perché l’iniquità non è che un lungo e difficile travaglio. Il crimine vuole ben sprofondare nella notte, ma essa andrà a cercarlo fino al fondo dell’abisso (De Buologne, sur la verité). – Questi bagliori di fiamma, che si sprigionano quando cade il fulmine, sono la figura dei doni dello Spirito Santo, i cui effetti sono così variati, sono così appropriati ai disegni della Provvidenza ed ai bisogni degli uomini. – La predicazione evangelica diviene soprattutto simile al tuono quando risuona nei deserti, ispirando alle anime una santo terrore dei giudizi di Dio. In mezzo ad una vita dissipata e mondana, nella quale facilmente dimentichiamo i nostri doveri, ove unicamente preoccupati dei nostri interessi e dei nostri piaceri, ci lasciamo andare ad una colpevole indifferenza, è bene per noi che il tuono della santa parola si faccia intendere dalle nostre orecchie, scuota il nostro torpore, e ci richiami incessantemente il ricordo dei nostri fini ultimi. Il terrore che il fulmine ispira alle cerve, terrore che le dispone a partorire più facilmente i loro piccoli, è figura della bontà di Dio che, per la paura salutare dei suoi giudizi, facilita il parto spirituale dal peccato alla grazia, che è così penoso in natura. – Questa voce scopre in questo parto quel che c’è di più denso, di più nascosto in queste anime, partorite nuovamente, e che si congiungono con i veri figli di Dio per rendere tutti insieme gloria a Dio nel suo tempio (Duguet). – La voce del Signore fa penetrare ancora il giorno nelle dense foreste, quando illumina con i suoi bagliori i luoghi oscuri, dei libri divini ed i tratti ombreggiati dei misteri in cui fa ritrovare libere pasture.

ff. 9, 10. – Si chiama diluvio una inondazione straordinaria che copra tutta la superficie della terra, e ne asporti tutte le immondizie. Il Re-Profeta compara dunque ad un diluvio la grazia del Battesimo, perché esso purifica l’anima dai propri peccati, e distrugge in essa l’uomo vecchio rendendolo atto a divenire abitazione di Dio (S. Basilio, Ps. XXVIII). – Il timore dei giudizi di Dio è un tuono che scuote il deserto, distrugge i cedri, abbatte l’orgoglio, e, con scosse violente, comincia a sradicare le cattive abitudini. Ma per rendere la terra feconda, occorre che questo tuono rompa le nubi, e faccia colare la pioggia che rende feconda la terra (Bossuet, Serm. Sur la Trist. des enf. de Dieu). – È il Diluvio delle acque della grazia su di un’anima che ha partorito la salvezza. – È il Diluvio delle acque della penitenza nel cuore di quest’anima penetrata dal dolore per i suoi peccati passati. – È il Diluvio di grazie e di favori sui buoni, che Dio colmerà di ogni sorta di beni. – È il Diluvio di mali sui peccatori che distruggerà ogni tipo di male. – Essendo tutto sottomesso a Dio, o per amore o per forza, il Signore sarà seduto come un Re sovrano per tutta l’eternità (Duguet). – È solo il Signore che dà la forza al suo popolo, per avvertirci che noi non possiamo nulla senza di Lui, sia nell’ordine della natura, sia nell’ordine della grazia: forza per resistere ai nostri nemici, e benedizione per crescere in virtù ed arrivare tranquillamente al porto della salvezza e della eterna pace.

UN’ENCLICA AL GIORNO, TOGLI GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. PIO XII – SEMPITERNUS REX CHRISTUS

« Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli Apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone ». Questo è il cuore della Enciclica in oggetto, una dotta e magistrale esposizione della teologia cristologica come definita nel corso del Concilio di Calcedonia che il Santo Padre vuole celebrare in occasione del suo XV centenario. Ardente è il desiderio- qui espresso per l’ennesima volta – del Sommo Pontefice, che vi sia un solo gregge ed un sol Pastore nella Chiesa di Cristo, richiamando all’unità in particolare gli scismatici d’Oriente, ai quali la Santa Sede ha concesso già per il passato tanti privilegi. Oltre alle definizioni cristologiche dogmaticamente ineccepibili e storicamente documentate, Pio XII, ribadisce il ruolo centrale e fondamentale nella costruzione ecclesiale, Corpo mistico del Cristo, del Vicario di Cristo, pietra visibile angolare del tempio di Dio, tempio che accoglie coloro che sono destinati alla salvezza eterna, a differenza di coloro che, pur sembrando pietre – ma pietre morte ed inattive come tralci da bruciare – restano fuori dalla costruzione stessa a loro eterna perdizione e dannazione. Pietre morte, sono oggi, oltre ai dissidenti storici, protestanti di miriadi di sette, ortodossi, eretici nestoriani, monofisiti, monoteliti, veterocattolici di Utrecht, eretici feeneysti, pure i modernisti ed ultra modernisti del Novus ordo con i loro fiancheggiatori ipocriti della galassia sedevacantista e dei gallicani fallibilisti disobbedienti, i non-preti-kadosh di Sion-Ecôn. Povero Gesù-Cristo, tradito e sbeffeggiato da nemici (i soliti che odiano Dio e tutti gli uomini) e soprattutto da apparenti amici, dai ladri e dai briganti che non entrano dalle porte ma si arrampicano per camini e tralicci onde penetrare nel gregge a divorare anime. Non resta, al sempre più sparuto pusillus grex, che abbeverarsi alla fonte di acqua cristallina del Magistero infallibile del Vicario di Cristo, in attesa, dopo la persecuzione profetizzata, del soffio della bocca di Cristo che brucerà l’anticristo ed i suoi corifei di ogni risma, in particolare quelli in talare, nera, rossa, porpora o … bianca. Che Dio ci liberi e la Vergine Maria ci scansi!

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

SEMPITERNUS REX CHRISTUS(1)

XV CENTENARIO
DEL CONCILIO ECUMENICO DI CALCEDONIA

L’eterno re Cristo, prima di promettere a Pietro, figlio di Giovanni, il governo della Chiesa, avendo domandato ai discepoli che cosa pensassero di lui gli uomini e gli stessi Apostoli, lodò con singolare encomio quella fede che doveva vincere gli assalti e le tempeste infernali, e che Pietro, illuminato dalla luce del Padre celeste, aveva espresso con queste parole: «Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente» (Mt XVI, 16). Questa fede, che produce i serti degli Apostoli, le palme dei Martiri, i gigli delle Vergini, e che è virtù di Dio per la salvezza d’ogni credente (cf. Rm I, 16), è stata efficacemente difesa e splendidamente illustrata in modo particolare da tre concili ecumenici, quello di Nicea, quello di Efeso e quello di Calcedonia, di cui ricorre alla fine di quest’anno il XV centenario. È conveniente che questo lietissimo avvenimento sia celebrato così a Roma come in tutto il mondo cattolico con quelle solennità che, con soave commozione dell’animo, ordiniamo, dopo aver reso grazie a Dio, ispiratore d’ogni consiglio salutare. Come infatti Pio XI, Nostro predecessore di f. m., nell’anno 1925 in quest’alma città volle solennemente commemorare sacro Concilio di Nicea, e parimenti nell’anno 1931 rievocò  nell’enciclica Lux veritatis il sacro Concilio di Efeso, così Noi in questa lettera, con uguale apprezzamento e premura, ricordiamo il concilio di Calcedonia; poiché i sinodi di Efeso e di Calcedonia, riguardando l’unione ipostatica del Verbo incarnato, sono tra loro indissolubilmente legati; l’uno e l’altro fin dall’antichità furono tenuti in sommo onore sia presso gli orientali, che ne fanno memoria anche nelle loro liturgie, sia presso gli occidentali, come attesta lo stesso san Gregorio Magno, il quale esaltandoli non meno dei due Concili ecumenici celebrati nel secolo precedente, cioè il Niceno e il Costantinopolitano, scrisse queste memorande parole: «Su questi, come su di una pietra quadrata, si eleva l’edificio della santa Fede, e chi non si appoggia alla loro solidità, qualunque sia la sua vita e la sua azione, anche se può sembrare una pietra, tuttavia giace fuori dell’edificio».(2)  – Ma se si considerano attentamente questo avvenimento e le sue circostanze, due punti chiaramente emergono, che Noi vogliamo, quant’è possibile, mettere in luce: cioè il Primato del Romano Pontefice, che rifulse manifestamente dalla gravissima controversia di fede cristologica, e la grandissima importanza della definizione dogmatica del concilio di Calcedonia. Al Primato del Pontefice Romano rendano senza esitazione il debito omaggio riverente, seguendo l’esempio e le orme dei loro padri, coloro che, per la malvagità dei tempi, specialmente nei paesi orientali, sono separati dal seno e dall’unità della Chiesa; questa dottrina, guardando all’interno del mistero di Cristo con più puro intuito della mente, accolgano finalmente intera quelli che sono irretiti negli errori di Nestorio e di Eutiche; e la stessa dottrina considerino con più profonda aderenza al vero coloro che, animati da esagerato desiderio di novità, osano scardinare in qualche modo i termini legittimi e inviolabili, quando scrutano il mistero con cui siamo stati redenti. Finalmente tutti coloro che portano il nome di Cattolici prendano di qui un forte incitamento a coltivare col pensiero e con la parola la preziosissima perla evangelica, professando e conservando intemerata la Fede, con l’aggiunta però di quel che vale di più: la testimonianza cioè della propria vita, in cui, allontanato con l’aiuto della divina misericordia tutto ciò che sa di dissonante, di indegno e di riprovevole, risplenda la purezza delle virtù; e in tal modo avverrà che essi partecipino alla Divinità di Colui che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità.

I

Ma, per procedere con ordine, bisogna rifarsi all’origine dei fatti da commemorare. L’autore di tutta la controversia, che si agitò nel concilio di Calcedonia, fu Eutiche, sacerdote e archimandrita di un celebre monastero di Costantinopoli. Datosi a combattere a fondo l’eresia di Nestorio, che affermava due Persone in Cristo, cadde nell’errore opposto. «Molto imprudente e assai ignorante»,(3) con incredibile pertinacia faceva queste asserzioni: bisogna distinguere due momenti: prima dell’Incarnazione le nature di Cristo erano due, cioè l’umana e la divina; ma dopo l’unione non vi fu che una sola natura, avendo il Verbo assorbito l’uomo; da Maria Vergine ha avuto origine il corpo del Signore, che però non è della stessa sostanza e materia nostre, giacché esso è umano, ma non consostanziale a noi né a Colei che ha partorito Cristo secondo la carne;(4) perciò Cristo non è nato né ha patito né è stato crocifisso né è risorto in una vera natura umana. – Ciò dicendo Eutiche non si accorgeva che prima dell’unione, la natura umana di Cristo non esisteva affatto, perché cominciò a esistere dal momento della sua concezione; che dopo l’unione è assurdo pensare che di due nature se ne faccia una sola, perché in nessun modo le due nature vere e reali si possono ridurre ad una, tanto più che la natura divina è infinita e immutabile.  – Chi considera con sano giudizio tali opinioni, vede facilmente che tutto il mistero della divina economia svanisce in ombre vane e impalpabili. – Alle persone assennate l’opinione di Eutiche apparve evidentemente del tutto nuova, assurda, in assoluta contraddizione con gli oracoli dei profeti e i testi del Vangelo, come pure col Simbolo apostolico e col dogma di fede sancito a Nicea: un’opinione attinta alle fonti impure di Valentino e di Apollinare. – In un sinodo particolare, riunito a Costantinopoli e presieduto da san Flaviano vescovo della medesima città, Eutiche, che andava disseminando ostinatamente e largamente i suoi errori per i monasteri, su formale accusa di eresia del Vescovo Eusebio di Dorileo, fu condannato. Ma Eutiche, come se la condanna fosse ingiusta per lui, che reprimeva la rinascente empietà di Nestorio, si appellò al giudizio di alcuni Vescovi di grande autorità. Una siffatta lettera di protesta ricevette lo stesso san Leone Magno, Pontefice della Sede Apostolica, le cui splendide e solide virtù, la vigile sollecitudine per la Religione e per la pace, la strenua difesa della verità e della dignità della Cattedra Romana, l’abilità nel trattare gli affari, pari all’armoniosa eloquenza, riscuotono l’inesauribile ammirazione di tutti i secoli. Nessuno più di lui sembrava capace e idoneo a rintuzzare l’errore di Eutiche, perché nelle sue allocuzioni e nelle sue lettere con magnificenza pari alla pietà, egli soleva esaltare e celebrare il mistero, mai abbastanza predicato, dell’unica Persona e delle due nature in Cristo: «La Chiesa Cattolica vive e prospera di questa Fede, per cui in Gesù Cristo non si crede né l’umanità senza la divinità né la divinità senza l’umanità».(5) – Ma l’archimandrita Eutiche, avendo poca fiducia nel patrocinio del Romano Pontefice, appigliandosi alle astuzie e agli inganni, per mezzo di Crisafio, al quale era legato da stretta amicizia e che era molto accetto all’imperatore Teodosio II, ottenne dallo stesso imperatore che la sua causa fosse riveduta e si riunisse ad Efeso un altro Concilio, cui presiedesse Dioscoro, Vescovo di Alessandria. Questi, intimo amico di Eutiche, ma avverso a Flaviano, Vescovo di Costantinopoli, ingannato da falsa analogia di dogmi, andava dicendo che come Cirillo, suo predecessore, aveva difeso una sola Persona in Cristo, così egli voleva difendere con tutte le forze una sola natura in Cristo dopo l’«unione». San Leone Magno, per motivo di pace, non ricusò di mandarvi i suoi legati, che portassero, insieme con altre due lettere – una al sinodo, l’altra a Flaviano, in cui gli errori eutichiani erano confutati con la chiarezza di una dottrina perfetta e copiosa. – Ma in questo sinodo Efesino, che Leone denominò giustamente latrocinio, arbitri Dioscoro ed Eutiche, tutto fu manipolato con violenza; fu negato ai legati apostolici il primo posto nel consesso; fu proibito di leggere le lettere del Sommo Pontefice, i voti dei Vescovi furono estorti per via d’inganni e di minacce; insieme con altri Flaviano fu accusato di eresia, privato dell’ufficio pastorale e gettato in carcere, dove morì. E la temerità del furibondo Dioscoro arrivò a tal punto che (nefando delitto!) osò lanciare la scomunica alla suprema Autorità Apostolica. Appena Leone venne a sapere per mezzo del diacono Ilaro le malefatte del conciliabolo brigantesco, disapprovò tutto ciò che là si era fatto e decretato, ordinandone un nuovo esame, e ne soffrì acerbo dolore, alimentato dai frequenti appelli al suo giudizio da parte di molti Vescovi deposti. – Degno di menzione è ciò che scrissero in quella circostanza Flaviano e Teodoreto di Ciro al supremo Pastore della Chiesa. Così si esprime Flaviano: «Volgendo, come per un partito preso, tutte le cose iniquamente a mio danno, dopo quell’ingiusta sentenza pronunziata contro di me [da Dioscoro], come a lui piacque, mentre io mi appellavo al trono dell’Apostolica Sede di Pietro, Principe degli Apostoli, e a tutto il beato sinodo soggetto a vostra Santità, subito mi vidi circondato da molti soldati, che non mi permettevano di rifugiarmi presso il santo altare, ma cercavano di tirarmi fuori della chiesa».(6) E questo scrive Teodoreto: «Se Paolo, araldo della verità, si recò dal grande Pietro, molto più noi umili e piccoli ricorriamo alla vostra Apostolica Sede, per ottenere da voi rimedio alle piaghe delle chiese. Perché a voi spetta esercitare il Primato su tutte. … Io aspetto il giudizio della vostra Apostolica Sede. … Anzitutto io prego di essere istruito da voi, se debba rassegnarmi a questa ingiusta deposizione oppure no; attendo la vostra sentenza». (7) – Per cancellare tanta macchia, Leone spinse con insistenti lettere Teodosio e Pulcheria a porre rimedio a così tristi condizioni di cose e perciò a radunare nei confini dell’Italia un nuovo Concilio che riparasse le malefatte di quello Efesino. Un giorno ricevendo nella Basilica Vaticana Valentiniano III, la madre di lui Galla Placidia e la moglie Eudossia, circondato da una fitta corona di Vescovi, con gemiti e pianto li indusse a provvedere immediatamente secondo le loro forze al crescente disagio della Chiesa. Allora scrisse un imperatore all’altro; scrissero le stesse regine. Ma invano: Teodosio, circondato da astuzie e da inganni, non una riparò delle ingiustizie commesse. Ma quando l’imperatore inopinatamente morì, sua sorella Pulcheria assunse il governo e prese come marito, associandolo nell’impero, Marciano, ambedue stimati per pietà e saggezza. Allora Anatolio, che Dioscoro aveva messo arbitrariamente sulla cattedra di Flaviano, sottoscrisse la lettera di Leone a Flaviano intorno all’Incarnazione del Verbo; la salma di Flaviano fu trasportata con grande pompa a Costantinopoli; i Vescovi deposti furono restituiti alle loro sedi; unanime divenne la riprovazione dell’eresia eutichiana, sicché non si vedeva più la necessità di un nuovo Concilio, tanto più che le condizioni dell’impero romano erano malsicure a causa delle invasioni barbariche. – Tuttavia il Concilio si radunò e si celebrò per desiderio dell’imperatore e col consenso del Sommo Pontefice. – Calcedonia era una città della Bitinia, presso il Bosforo di  Tracia, di fronte a Costantinopoli, situata sull’opposta sponda. Quivi nell’ampia basilica suburbana di S. Eufemia vergine e martire, l’8 ottobre, partiti da Nicea, dov’erano già a tale scopo raccolti, si riunirono i Padri, in numero di circa seicento, tutti dei paesi orientali, eccetto due africani profughi dalla patria. – Collocato in mezzo il libro dei Vangeli, davanti ai cancelli del santo altare prendevano posto diciannove rappresentanti dell’imperatore e del senato. Il compito di legati pontifici fu affidato ai piissimi personaggi Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, Lucenzio, vescovo di Ascoli, Bonifacio e Basilio sacerdoti, ai quali si aggiunse Giuliano, vescovo di Cos, per aiutarli con la sua diligente opera. I legati del Romano Pontefice occupavano il primo posto tra i Vescovi; per primi sono nominati, per primi prendono la parola, per primi firmano gli atti e, in forza della loro autorità delegata, confermano o rigettano i voti degli altri, come avvenne apertamente nella condanna di Dioscoro che essi ratificarono con queste parole: «Il santissimo e beatissimo Arcivescovo della grande e antica Roma, Leone, per mezzo di noi e di questo santo sinodo, insieme col beatissimo e degnissimo di lode Pietro Apostolo, che è la pietra e la base della Chiesa Cattolica, e il fondamento della fede ortodossa, ha spogliato lui [Dioscoro] della dignità episcopale come anche lo ha rimosso da ogni ministero sacerdotale».(8) – Del resto, che non solo i legati pontifici abbiano esercitato l’autorità di presiedere, ma che il diritto e l’onore di presiedere sia stato anche riconosciuto loro da tutti i padri del Concilio, senza alcuna opposizione, risulta chiaro dalla lettera sinodica inviata a Leone: «Tu in verità – essi scrivono – presiedevi come il capo alle membra dimostrando benevolenza in coloro che tenevano il tuo posto».(9) – Non vogliamo qui passare in rassegna i singoli atti del Concilio, ma soltanto toccarne brevemente i principali, in quanti sono utili a porre in luce la verità e a giovare alla Religione. Pertanto non possiamo, dal momento che si agita la questione della dignità della Sede Apostolica, passare sotto silenzio il canone 28 di quel Concilio, nel quale si attribuiva il secondo posto di onore dopo la Sede Romana alla Sede Episcopale di Costantinopoli, come città imperiale. Sebbene nulla vi sia stato fatto contro il divino Primato di giurisdizione, che da tutti era riconosciuto, tuttavia quel canone, compilato in assenza e contro la volontà dei legati pontifici, e perciò clandestino e surrettizio, è destituito di ogni valore giuridico e da san Leone fu riprovato e condannato in molte lettere. E del resto a tale sentenza di annullamento aderirono Marciano e Pulcheria, anzi lo stesso Anatolio, il quale, scusando la riprovevole audacia di quell’atto; così scrisse a Leone: «Di quelle cose che nei giorni scorsi sono state decretate nel Concilio universale di Calcedonìa a favore della Sede costantinopolitana, sia certa vostra beatitudine che io non ho alcuna colpa …, ma è il reverendissimo clero della chiesa costantinopolitana, che ha avuto questo desiderio …; essendo state riservate all’autorità di vostra Beatitudine tutta la validità e l’approvazione di tale atto».(10)

II

Ma veniamo ormai al cardine di tutta la questione, e cioè alla solenne definizione della Fede cattolica, con cui fu rigettato e condannato il pernicioso errore di Eutiche. Nella quarta sessione dello stesso sacro Sinodo, fu richiesto dai rappresentanti imperiali che si componesse una nuova formula di Fede; ma il legato pontificio Pascasino, interpretando il voto di tutti, rispose che ciò non era affatto necessario, essendo sufficienti i Simboli di fede e i canoni già in uso nella Chiesa, prima tra essi, nel caso presente, la lettera di Leone a Flaviano: «In terzo luogo poi (cioè dopo i Simboli Niceno e Costantinopolitano e la loro esposizione fatta da san Cirillo nel Concilio Efesino) gli scritti inviati dal beatissimo e apostolico Leone, Papa della Chiesa universale, contro l’eresia di Nestorio e di Eutiche, hanno già indicato quale sia la vera fede. Similmente anche il santo sinodo questa stessa fede tiene e segue».(11)  – Giova qui ricordare che questa importantissima lettera di san Leone a Flaviano intorno all’Incarnazione del Verbo fu letta nella terza sessione del Concilio; e appena tacque la voce del lettore, tutti i presenti gridarono insieme unanimi: «Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli Apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone».(12) – Dopo questo, in pieno consenso tutti dissero che il documento del Romano Pontefice concordava perfettamente con i Simboli Niceno e Costantinopolitano. Nondimeno nella quinta sessione sinodale, su rinnovata richiesta dei rappresentanti di Marciano e del senato, fu preparata una nuova formula di Fede da un consiglio scelto di Vescovi di varie regioni, che si erano riuniti nell’oratorio della Basilica di Santa Eufemia; essa è composta di un prologo, del Simbolo Niceno e del Simbolo Costantinopolitano, allora promulgato per la prima volta, e della solenne condanna dell’errore eutichiano. Tale formula fu approvata dai Padri del Concilio con unanime consenso. – Crediamo ora di fare cosa degna, venerabili fratelli, se Ci fermiamo un poco a spiegare il documento del Romano Pontefice, che rivendica splendidamente la Fede cattolica. Anzitutto contro Eutiche che andava dicendo: «Confesso che il Signore nostro era di due nature prima dell’unione; dopo l’unione invece confesso una sola natura»,(13) non senza sdegno così il Santissimo Pontefice contrappone la luce della folgorante verità: «Mi meraviglio che una sua formula così assurda e così perversa non sia stata riprovata da alcuna protesta dei giudici…; mentre è egualmente empio asserire nel Figlio unigenito di Dio due nature prima dell’incarnazione come ammettere in Lui una sola natura dopo che il Verbo si è fatto carne».(14) Né con minore energia il Papa colpisce Nestorio, che nell’errore va all’eccesso contrario: «In forza di quest’unità di persona da ammettersi nelle due nature, si legge che il Figlio dell’uomo è disceso dal cielo, quando il Figlio di Dio assume la carne dalla Vergine, dalla quale è nato. E ancora si dice che il Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto, mentre Egli ha sofferto queste cose non nella divinità stessa, per la quale l’Unigenito è coeterno e consostanziale al Padre, ma nella sua debole natura umana. Sicché tutti professiamo anche nel Simbolo che l’unigenito Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto».(15) – Oltre la distinzione delle due nature in Cristo, vien qui rivendicata con molta chiarezza anche la distinzione delle proprietà e delle operazioni dell’una e dell’altra natura: «Salva dunque – egli dice – la proprietà dell’una e dell’altra natura, confluenti nell’unica Persona, è stata assunta l’umiltà dalla maestà, la debolezza dalla forza, la mortalità dall’eternità».(16) E ancora: «L’una e l’altra natura conservano senza minorazione la loro proprietà».(17) – Ma la duplice serie di quelle proprietà e operazioni si attribuisce all’unica Persona del Verbo, perché «Uno … e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente Figlio dell’uomo».(18) per cui: «Operano dunque l’una e l’altra natura con mutua comunione ciò che loro è proprio, cioè il Verbo opera ciò che è proprio del Verbo e la carne esegue ciò che è proprio della carne».(19) Qui appare la ben nota comunicazione degli idiomi, come si suol dire, che Cirillo giustamente difese contro Nestorio, appoggiandosi al solito principio che le due nature di Cristo sussistono nell’unica Persona del Verbo, del Verbo cioè generato dal Padre prima di tutti i secoli, secondo la divinità, è nato da Maria nel tempo, secondo l’umanità.  – Questa profonda dottrina, attinta dal Vangelo, senza sconfessare ciò che era stato definito nel concilio Efesino, condanna Eutiche, mentre non risparmia Nestorio; e con essa concorda perfettamente la definizione dogmatica del concilio Calcedonese, la quale parimenti afferma con chiarezza ed energia due distinte nature e una Persona in Cristo con queste parole: «Il santo, grande e universale sinodo condanna (quelli) che fantasticano di due nature del Signore prima dell’unione, e ne immaginano una dopo l’unione. Noi dunque, sulle orme dei santi Padri, insegniamo in pieno accordo a confessare un solo e medesimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo; il medesimo perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità, Dio vero e uomo vero, fatto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l’umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, da Maria Vergine genitrice di Dio, secondo l’umanità, negli ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza; un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore, Unigenito da riconoscersi in due nature senza confusione, senza separazione, in nessun modo tolta la differenza delle nature per ragione dell’unione, e anzi salva la proprietà dell’una e dell’altra natura concorrenti in una sola Persona e sussistenza: non in due persone scisso o diviso, ma un solo e medesimo Figlio e Unigenito Dio Verbo, Signore Gesù Cristo».(20) – Se si domanda per qual motivo il linguaggio del Concilio di Calcedonia si distingua per chiarezza ed efficacia nell’impugnare l’errore, crediamo dipenda dal fatto che, messa da parte  ogni ambiguità, si adoperano termini molto appropriati. Difatti, nella definizione calcedonese, alle voci persona e ipostasi (prósôpon e ypóstasis) si attribuisce uguale significato; invece al termine natura (fýsis) si dà un senso diverso, né mai il significato di esso è attribuito ai due primi.  – Pertanto a torto pensavano una volta nestoriani ed eutichiani e oggi vanno dicendo alcuni storici, che il concilio di Calcedonia ha corretto ciò che si era definito nel concilio di Efeso. L’uno completa l’altro; la sintesi poi armonica della dottrina cristologica fondamentale appare definitiva nel secondo e nel terzo concilio di Costantinopoli. – È veramente doloroso che alcuni antichi avversari del Concilio Calcedonese, detti anch’essi monofisiti, abbiano respinto una fede così pura, così sincera e integra, a causa di alcune espressioni di antichi mal comprese. Difatti, sebbene essi fossero avversi ad Eutiche, che parlava assurdamente di mescolanza delle nature di Cristo, pure si attaccarono tenacemente alla nota formula: «Una è la natura del Verbo incarnata», di cui si era servito san Cirillo Alessandrino, come se fosse di sant’Atanasio, ma in senso ortodosso, perché egli intendeva la natura nel significato di persona. I padri di Calcedonia però avevano eliminato ogni equivoco e ogni incertezza da quei termini: giacché essi, equiparando la terminologia trinitaria a quella cristologica, identificarono la natura e l’essenza (ousía) da una parte e la Persona e l’ipostasi dall’altra, distinguendo bene tra loro le due coppie di termini, mentre i suddetti dissidenti identificarono con la Persona la natura, ma non l’essenza. Si deve perciò dire, secondo il linguaggio comune e chiaro, che in Dio c’è una natura e tre persone, ma in Cristo c’è una Persona e due nature. – Per il motivo qui addotto accade che ancora oggi alcuni gruppi di dissidenti sparsi in Egitto, in Etiopia, in Siria, in Armenia e altrove, nel formulare la dottrina dell’Incarnazione del Signore sembrano deviare dal retto sentiero piuttosto con le parole; il che si può arguire dai loro documenti liturgici e teologici. – Del resto già nel secolo XII, un uomo, che presso gli armeni godeva di grande autorità, confessava candidamente il suo  pensiero intorno a questa materia: «Noi diciamo che Cristo è una natura non per via di confusione, alla maniera di Eutiche, né di mutilazione, come voleva Apollinare, ma secondo la mente di Cirillo Alessandrino, il quale nel libro Scholia adversus Nestorium dice: Una è la natura del Verbo incarnato, come hanno insegnato i padri. … E noi pure l’abbiamo appreso dalla tradizione dei santi, non introducendo nell’unione di Cristo confusione o mutazione o alterazione secondo il pensiero degli eterodossi, asserendo una natura, ma nel senso d’ipostasi, che voi stessi ponete in Cristo; il che è giusto e noi lo riconosciamo, ed equivale perfettamente alla nostra formula “Una natura…”. Né ricusiamo di dire “due nature” purché non s’intenda per via di divisione come vuole Nestorio, ma si mantenga chiara l’inconfusione contro Eutiche e Apollinare».(21) – Se il gaudio e la santa letizia toccano l’apice quando si realizza la parola del salmo: «Ecco come è bello e giocondo che i fratelli si trovino insieme uniti» (Sal CXXXII,1); se la gloria di Dio allora specialmente risplende congiunta all’utilità di tutti quando la piena verità e la piena carità legano insieme le pecorelle di Cristo, vedano coloro che con amore e dolore abbiamo qui sopra ricordato, se sia lecito e utile tenersi ancora lontano, specialmente per un iniziale equivoco di parole, dalla chiesa una e santa, fondata sugli zaffiri (cf. Is LIV,11) cioè sui profeti e gli apostoli, sulla stessa pietra angolare somma, Gesù Cristo (cf. Ef. II,20). – È del tutto contraria anche alla definizione di fede del concilio di Calcedonia l’opinione, assai diffusa fuori del Cattolicesimo, poggiata su un passo dell’epistola di Paolo apostolo ai Filippesi (Fil II,7), malamente e arbitrariamente interpretato: la dottrina chiamata kenotica, secondo la quale in Cristo si ammette una limitazione della divinità del Verbo; un’invenzione veramente strana che, degna di riprovazione come l’opposto errore del docetismo, riduce tutto il mistero dell’incarnazione e redenzione a ombre evanescenti. «Nell’integra e perfetta natura di vero uomo così insegna eloquentemente Leone Magno, è nato il vero Dio, intero nelle sue proprietà, intero nelle nostre».(22)

Sebbene nulla vieti di scrutare più a fondo l’umanità di Cristo, anche sotto l’aspetto psicologico, tuttavia nell’arduo campo di tali studi non mancano coloro che abbandonano più del giusto le posizioni antiche per costruirne delle nuove, e si servono a torto dell’autorità e della definizione del concilio Calcedonese per sorreggere le proprie elucubrazioni. – Costoro spingono tanto innanzi lo stato e la condizione della natura umana di Cristo da sembrare che essa sia ritenuta un soggetto autonomo, come se non sussistesse nella Persona dello stesso Verbo. Ma il Concilio Calcedonese, in tutto concorde con quello Efesino, afferma chiaramente che le due nature del nostro Redentore convergono «in una sola persona e sussistenza» e proibisce di ammettere in Cristo due individui, di maniera che accanto al Verbo sia posto un certo «uomo assunto», dotato di piena autonomia. – San Leone, poi, non solo tiene la stessa dottrina, ma indica e dimostra anche la fonte da cui attinge questi puri principi: «Tutto ciò – egli dice – che da noi è stato scritto si prova che è stato preso dalla dottrina apostolica ed evangelica».(23). – Difatti la Chiesa fin dai primi tempi, sia nei documenti scritti, sia nella predicazione, sia nelle preci liturgiche, professa in modo chiaro e preciso che l’unigenito Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nostro Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato è nato sulla terra, ha patito, è stato confitto in croce e, dopo essere risorto dal sepolcro, è asceso al cielo. Inoltre la sacra Scrittura attribuisce all’unico Cristo, Figlio di Dio, proprietà umane, e al medesimo, Figlio dell’Uomo, proprietà divine. – Difatti l’evangelista Giovanni dichiara: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14); Paolo poi scrive di lui: «Il quale, già sussistente nella natura di Dio … si è umiliato, fatto obbediente fino alla morte» (Fil. II, 6-8); oppure: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo fatto da donna» (Gal IV, 4); e lo stesso divino Redentore afferma in modo perentorio: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv. X, 30); e ancora: «Sono uscito dal Padre e son venuto nel mondo» (Gv. XVI, 28). L’origine celeste del nostro Redentore risplende anche in questo testo del Vangelo: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv. VI, 38). E  da quest’altro: «Colui che discende, è quello stesso che ascende sopra tutti i cieli» (Ef. IV, 10). Affermazione che san Tommaso d’Aquino così commenta e illustra: «Chi discende è quegli stesso che ascende. Nel che è designata l’unità della Persona del Dio uomo. Discende infatti … il Figlio di Dio assumendo la natura umana, ma ascende il Figlio dell’uomo secondo l’umana natura alla sublimità della vita immortale. E così lo stesso è il Figlio di Dio, che discende, e il Figlio dell’uomo che ascende». (24)  – Questo stesso concetto già l’aveva felicemente espresso il Nostro predecessore Leone Magno con queste parole: «Poiché alla giustificazione degli uomini questo principalmente contribuisce, che l’Unigenito di Dio si è degnato di essere anche il Figlio dell’uomo in maniera che quello stesso che è Dio, homooúsios al Padre, ossia della stessa sostanza del Padre, fosse anche vero uomo e consostanziale alla Madre secondo la carne; noi godiamo dell’uno e dell’altro giacché non ci salviamo che in virtù di ambedue, non dividendo affatto il visibile dall’invisibile, il corporeo dall’incorporeo, il passibile dall’impassibile, il palpabile dall’impalpabile, la forma del servo dalla forma di Dio; perché, sebbene uno sussista fin dall’eternità e l’altro sia cominciato nel tempo, tuttavia, essendo convenuti nell’unione, non possono più avere né separazione né fine». (25) – Solo dunque se con santa e pura fede si crede che in Cristo non c’è altra Persona che quella del Verbo, in cui confluiscono le due nature, l’umana e la divina, del tutto distinte fra di loro, diverse per proprietà e operazioni, appaiono la magnificenza e la pietà della nostra redenzione, mai abbastanza esaltata. – O sublimità della misericordia e della giustizia divina, che portò soccorso ai colpevoli e si procurò dei figli! O cieli curvati in basso affinché, allontanate le brume invernali, apparissero i fiori sulla nostra terra (cf. Ct. II, 11s) e noi diventassimo uomini nuovi, nuova creatura, nuova fattura, gente santa e prole celeste! Il Verbo ha veramente patito nella sua carne, ha sparso il suo sangue sulla croce e all’eterno Padre ha pagato un sovrabbondante prezzo di soddisfazione per le nostre colpe; onde avviene che risplende sicura la speranza di salvezza a coloro che con fede sincera e con carità operosa aderiscono a Cristo e, con l’aiuto della grazia da lui procurata, producono frutti di giustizia.

III

L’evocazione di fasti così gloriosi e così insigni della Chiesa, di natura sua fa sì che Noi con amore più vivo rivolgiamo il pensiero agli orientali. Infatti il sacrosanto Concilio ecumenico di Calcedonia è soprattutto un loro monumento glorioso, che certamente durerà per tutti i secoli: giacché là, sotto la guida della Sede Apostolica, da un’assemblea di circa seicento Vescovi orientali la dottrina dell’unità di Cristo, per cui le due nature, divina e umana, concorrono distintamente e senza confusione in una sola Persona, essendo stata adulterata con empia audacia, fu tempestivamente difesa e mirabilmente dichiarata. Ma purtroppo molti nei paesi orientali si sono miseramente allontanati per una lunga serie di secoli dall’unità del Corpo mistico di Cristo, di cui l’unione ipostatica è fulgido esemplare. Non è forse cosa santa, salutare e conforme alla volontà di Dio che tutti finalmente ritornino all’unico ovile di Cristo?Per quanto spetta a Noi, vogliamo che essi sappiano bene che i nostri pensieri sono di pace e non di afflizione (cf. Ger. XXIX, 11). Peraltro è ben noto che questa disposizione d’animo Noi l’abbiamo dimostrata anche coi fatti e se, per necessità di cose, Ci gloriamo in questo, Ci gloriamo nel Signore, il quale è il datore d’ogni buona volontà. Seguendo dunque le orme dei Nostri predecessori, Ci siamo adoperati assiduamente perché sia facilitato agli orientali il ritorno alla Chiesa Cattolica: abbiamo difeso i loro legittimi riti, promosso gli studi che li riguardano, promulgato per loro provvide leggi, circondato di cura particolare la Congregazione per la Chiesa Orientale istituita nella Curia romana; abbiamo insignito dello splendore della porpora romana il Patriarca degli armeni. – Mentre infieriva la recente guerra con la sequela di miseria, di fame e di malattie, Noi, senza distinzione tra dissidenti e coloro che sogliono chiamarci Padre, Ci siamo adoperati ad alleviare dappertutto il peso delle sciagure: Ci siamo sforzati di aiutare le vedove, i fanciulli, i vecchi, i malati e saremmo stati più felici se avessimo potuto adeguare i mezzi ai desideri. A questa Sede Apostolica dunque, per cui il presiedere è giovare, a quest’incrollabile rupe di verità piantata da Dio, quelli che per calamità di tempi si sono da essa separati – guardando e imitando Flaviano, nuovo Giovanni Crisostomo nel sopportare le prove più dure per la giustizia, i padri calcedonesi, eletti membri del Corpo mistico di Cristo, il forte Marciano, mite e saggio principe, Pulcheria, giglio fulgido di regale e intemerata bellezza – non tardino a rendere il dovuto omaggio: Noi prevediamo quale ricca fonte di beni a comune vantaggio dell’orbe cristiano scaturirà da questo ritorno all’unità della Chiesa. Certo non ignoriamo quale cumulo inveterato di pregiudizi impedisca tenacemente che si realizzi la preghiera innalzata da Cristo all’eterno Padre per i seguaci dell’evangelo, nell’ultima cena: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv XVII, 21). Ma conosciamo anche che la forza della preghiera è così grande, se gli oranti, in compatta schiera, ardono di sicura fede in una coscienza pura, che si può spostare perfino una montagna e precipitarla nel mare (cf. Mc XI, 23). Desideriamo dunque ardentemente che tutti coloro cui sta a cuore il caldo richiamo ad abbracciare l’unità cristiana (e nessuno che appartenga a Cristo può far poco conto di una cosa così grave), innalzino preci e suppliche a Dio, Autore e fonte di ordine, unità e bellezza, affinché i voti lodevoli degli uomini migliori si realizzino quanto prima. A spianare certamente il cammino per cui si deve raggiungere tale meta, vale l’indagine senza ira e passione con cui, oggi più che nel passato, sogliono ricostruirsi e vagliarsi i fatti antichi. – Ma c’è un altro motivo che con grande urgenza esige che le schiere denominate cristiane quanto prima si uniscano e combattano sotto un solo vessillo contro i tempestosi assalti del nemico infernale. Chi non ha orrore dell’odio e della ferocia con cui i nemici di Dio, in molti paesi del mondo, minacciano di distruggere o cercano di sradicare tutto ciò che c’è di divino e di cristiano? Contro le associate schiere di costoro, non possono continuare, divisi e dispersi, a perder tempo tutti quelli che, segnati dal carattere battesimale, sono destinati per dovere alla buona battaglia di Cristo. – I ceppi, le sofferenze, i tormenti, i gemiti, il sangue di coloro che, noti o ignoti, moltitudine senza numero, in questi ultimi tempi e ancora oggi, per la costanza della virtù e la professione della fede cristiana hanno sofferto e soffrono, con voce sempre più alta eccitano tutti ad abbracciare questa santa unità della Chiesa. – La speranza del ritorno dei fratelli e dei figli già da lungo tempo separati da questa Sede Apostolica è rafforzata dalla croce inasprita e insanguinata dalle sofferenze di tanti altri fratelli e figli: nessuno impedisca o trascuri l’opera salutare di Dio! Ai benefici e al gaudio di questa unità, con paterna esortazione, invitiamo e richiamiamo anche coloro che seguono gli errori nestoriani e monofisitici. Si persuadano essi che Noi reputiamo come una fulgidissima gemma della corona del Nostro apostolato, se Ci sia dato di poter abbracciare con amore e onore coloro che sono tanto più cari a Noi, quanto più il loro lungo distacco Ce ne ha acuito il desiderio. – Finalmente è Nostro voto che, quando per la vostra sollecita opera, venerabili fratelli, sarà celebrata la commemorazione del sacrosanto concilio Calcedonese, tutti ne traggano impulso ad aderire con solidissima fede a Cristo nostro Redentore e Re. Nessuno, allettato dalle aberrazioni dell’umana filosofia e ingannato dalle tortuosità del linguaggio umano, osi scuotere col dubbio o pervertire con nocive innovazioni il dogma definito a Calcedonia, che cioè in Cristo ci sono due vere e perfette nature, una divina e l’altra umana, congiunte insieme ma non confuse, e sussistenti nell’unica Persona del Verbo. Anzi, uniti strettamente con l’Autore della nostra salvezza, che è «Via di santi costumi, Verità di divina dottrina e Vita di eterna beatitudine», (26) tutti riamino in Lui la propria natura restaurata, onorino la libertà redenta e, rigettata la stoltezza del mondo vecchio, passino con piena letizia alla sapienza dell’infanzia spirituale, che non conosce vecchiezza. – Accolga questi ardentissimi voti Dio uno e trino, la cui natura è bontà e la volontà è potenza, per intercessione della vergine Maria Madre di Dio, dei santi apostoli Pietro e Paolo, di Eufemia vergine calcedonese e martire trionfatrice. E voi, venerabili fratelli, unite per questo le vostre alle Nostre preghiere e fate che quanto vi abbiamo scritto venga a conoscenza di quanti più è possibile. Grati fin d’ora di questo aiuto, a voi e a tutti i sacerdoti e i fedeli affidati alla vostra cura pastorale, impartiamo di gran cuore l’apostolica benedizione, nel cui auspicio possiate sottomettervi più volentieri al giogo leggero e soave di Cristo Re ed essere sempre più simili nell’umiltà a Colui del quale volete partecipare la gloria.

Roma, presso San Pietro, l’8 settembre, festa della natività di Maria vergine, nell’anno 1951, XIII del Nostro pontificato.

PIO PP. XII


(1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Sempiternus Rex de œcumenica Chalcedonensi Synodo quindecim abhinc sæculis celebrata, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 8 septembris 1951: AAS 43 (1951), pp. 625-644.

Celebrazioni del XV centenario del concilio di Calcedonia. Premesse dottrinali e storiche di quel concilio (8 ottobre -1 ° nov. 451). Le prime vicende dell’eresia di Nestorio e di Eutiche. Il «latrocinio» di Efeso. Ricorso di Flaviano e di altri vescovi alla sede apostolica di Roma e intervento di papa Leone. Il concilio: definizione delle due nature nell’unica persona del Verbo e primato della sede apostolica di Roma. «Pietro ha parlato per bocca di Leone». Chiarezza e precisione di termini nella definizione di Calcedonia. Alcune moderne deviazioni. Dottrina evangelica e apostolica. Appello ai fratelli separati perché tornino all’unico gregge; unità contro i nemici di Dio e di Cristo; comunanza di martirio e di sangue.

(2) Registrum Epistularum, I, 25 (al. 24): PL 77, 478; ed. EWALD, I, 36.

(3) S. LEO M., Ep. 28 (Ad Flavianum), 1: PL 54, 755s. 

(4) Cf. FLAVIANUS, Ep. 26 (Ad Leonem M.): PL 54, 745.

(5) S. LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 777.

(6) SCHWARTZ, Acta Conciliorum Oecumenicorum, II, vol. II, pars 1. p 78.

(7) THEODORETUS, Ep. 52 (Ad Leonem M.), 1.5.6: PL 54, 847 et 851; cf. PG 83, 1311s et 1315s.

(8) MANSI, Conciliorum amplissima collectio, VI, 1047 (Act. III); SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 29 [225] (Act. II).

(9) SYNODUS CHALCEDONENSIS, Ep. 98 (Ad Leonem M.), 1: PL 54, 951; MANSI, VI, 147.

(10) ANATOLIUS, Ep. 132 (Ad Leonem M.), 4: PL 54, 1084 MANSI, VI, 278s.

(11) MANSI, VII, 10.

(12) SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 81 [277] (Act; III); MANSI, VI, 971 (Act. II).

(13) S. LEO M., Ep. 28, 6: PL 54, 777. 

(14) Ibid.

(15) S. LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 771; cf. S. AUGUSTINUS, Contra sermonem Arianorum, c. 8: PL 42, 688.

(16) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. S. LEO M., Serm. 21, 2: PL 54,192. 

(17) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 765; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201:

(18) S. LEO M., Ep. 28, 4: PL 54, 767.

(19) Ibid.

(20) MANSI, VII, 114 et 115.

(21) Ita NERSES IV ( 1173) in Libello confessionis fidei, ad Manuelem Com nenum imperatorem byzantinum: I. CAPPELLETTI, S. Narsetis Claiensis, Armeno rum Catholici, opera, I, Venetiis 1833, pp. 182-183.

(22) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201.

(23) S. LEO M., Ep. 152: PL 54, 1123.

(24) S. THOMAS AQ., Comm. in Ep. ad Ephesios, c. IV, lect. III, circa finem. 

(25) S. LEO M., Serm. 30, 6: PL 54, 233s.

(26) S. LEO M., Serm. 72, 1: PL 54, 390.

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

LXIX: 2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Ps LXIX: 4

Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala. [Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia 1920)D

Il SACERDOZIO

“Fratelli: Tanta fiducia in Dio noi l’abbiamo per Cristo. Non che siamo capaci da noi a pensar qualche cosa, come se venisse da noi; ma la nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a essere ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito; perché la lettera uccide ma lo spirito dà vita. Ora, se il ministero della morte, scolpito in lettere su pietre, è stato circonfuso di gloria in modo che i figli d’Israele non potevano fissare lo sguardo in faccia a Mosè, tanto era lo splendore passeggero del suo volto; quanto più non sarà circonfuso di gloria il ministero dello Spirito? Invero, se è glorioso il ministero di condanna, molto più è superiore in gloria il ministero di giustizia” (2 Cor. III, 4-9).

La severa lettera di San Paolo a quei di Corinto aveva prodotto un salutare effetto. Quella comunità aveva preso ora un andamento più consolante; e, sebbene gli sconvenienti non fossero tutti scomparsi, c’era fondata speranza che l’ulteriore azione di S. Paolo riuscisse al compimento dell’opera incominciata. Non dormivano, è naturale i suoi nemici; anzi lo combattevano più aspramente di prima. Cercavano soprattutto di metterlo in discredito negandogli la dignità e l’autorità di Apostolo e criticando il suo modo di operare. Era in gioco la missione di Apostolo, affidata da Dio a Paolo, e questi crede suo dovere di difendersi dai falsi apostoli, perché non riuscissero a trar dalla loro parte i fedeli, specialmente i neofiti. Ed ecco che dalla Macedonia, pochi mesi dopo la prima, invia a Corinto una seconda lettera, in cui rivendica la sua autorità di Apostolo, e ribatte le calunnie dei suoi avversari. L’epistola di quest’oggi è un passo della lettera dove San Paolo difende il suo ministero. Se egli si presenta come predicatore della fede non lo fa per vana gloria, ben riconoscendo la sua insufficienza. Tutto il suo vanto lo ripone in Dio, per la cui grazia, datagli per mezzo di Gesù Cristo, egli compie il suo ministero tra loro. Dio ha scelto lui e i suoi compagni a essere ministri idonei del nuovo Testamento, in cui non regna più la lettera che uccide come nell’antico, ma lo spirito che dà la vita della grazia. È un ministero superiore all’antico per la gloria di cui è circonfuso. Il ministero della legge che uccide — non dando la forza di praticare ciò che prescrive — fu circondato di gloria, come si vide sul volto di Mosè, che portava questa legge scolpita in tavole di pietra. Questa gloria dev’esser sorpassata da quella che circonda il ministero dello spirito che vivifica. La gloria del ministero che vivifica è, senza confronto, superiore alla gloria del ministero di condanna. Il contenuto dell’Epistola di quest’oggi ci porta a parlare del Sacerdote Cattolico, il quale:

1. È banditore d’una dottrina sublime,

2. È dispensatore dei divini misteri,

3. Merita il nostro rispetto e le nostre premure.

1.

La nostra capacità viene da Dio, il quale ci ha anche resi idonei a esser ministri della nuova alleanza, non della lettera, ma dello spirito. L’Apostolo compie il suo ministero per la grazia di Dio. Egli, che lo ha scelto a suo ministro, lo ha reso idoneo a predicare la dottrina del Vangelo, nel quale regna lo spirito, e non più la lettera come nell’antico testamento. Come San Paolo, ogni Sacerdote è scelto da Dio, che lo rende idoneo a predicare la dottrina del Vangelo. Con la dottrina del Vangelo il sacerdote si fa guida agli uomini in questo terreno pellegrinaggio. Satana, il padre della menzogna, fa deviare dal retto sentiero i nostri progenitori nel paradiso terrestre. Fa deviare, dopo di essi, continuamente, i loro discendenti. Ha, in questo, ai suoi ordini una schiera di alleati. Insegnanti, conferenziere, settari, gaudenti, beffardi, libri, riviste, giornali, direttamente o indirettamente, tolgono di vista all’uomo la meta, cui deve arrivare. E l’uomo comincia ad essere indeciso; smarrisce il sentiero e, smarritolo, non ha più la volontà di rifare la via da capo. Il Sacerdote è posto da Dio a illuminare la via che l’uomo deve percorrere. Egli addita i pericoli da schivare, indica la via sicura, e la rischiara con gli insegnamenti di Colui che proclamò:« Io sono la via » (Giov. XIV, 6.). Ismaele va errando nel deserto di Betsabea, tormentato dalla sete. Questa è ormai divenuta insostenibile, e la madre per non vedere il figlio morire, lo abbandona sotto un arbusto. Dio ascolta il grido di Agar e di Ismaele, e manda il suo Angelo a mostrare il pozzo d’acqua ristoratrice (Gen. XXI, 14 segg.). Il Sacerdote è l’Angelo che al viandante diretto alla patria celeste, ormai privo del primo fervore, annoiato dalla lunghezza del cammino, stanco per la sua asprezza, indeciso a continuarlo, solleva lo spirito e infonde nuova forza e coraggio, facendogli porre la fiducia in Colui che dice: «Non si turbi il vostro cuore. Abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me» (Giov. XIV, 1). – La parola del Sacerdote è l’unica che sappia veramente appagare il cuore e l’intelligenza dell’uomo. La sua dottrina «non è cosa umana» (Gal. I, 4) Perciò avvince tutte le intelligenze, fa superar tutte le difficoltà. Le scoperte, il progresso, le migliorate condizioni sociali non possono togliere nulla alla efficacia e alla bellezza della dottrina del Vangelo. La parola di Dio non può scolorire davanti alla parola degli uomini. È una dottrina che non invecchierà Mai, che non avrà mai bisogno d’essere sfrondata o corretta.

2.

L’Apostolo, facendo il confronto tra l’antica alleanza, che si fondava sulla lettera, cioè sulla legge scritta, e la nuova alleanza, che è opera dello Spirito Santo, osserva: la lettera uccide, ma lo spinto dà vita. La lettera, ossia la legge scritta uccide, perché non dando la grazia necessaria a compiere ciò che è comandato e ad evitare ciò che è proibito, era, indirettamente, occasione di peccato, e quindi di morte eterna. Lo spirito dà vita, perché nella nuova legge, lo Spirito Santo dà la grazia, con cui l’uomo può osservare ciò che esternamente viene comandato o proibito. E il Sacerdote, in questa nuova legge, è fatto da Dio l’idoneo dispensatore della grazia. – L’uomo nasce figlio di questa valle di lagrime, spoglio d’ogni bene soprannaturale. Il Sacerdote versa sul suo capo l’acqua battesimale, ed egli rinasce figlio del cielo, adorno dei beni della grazia. Per il ministero del Sacerdote gli è aperta la porta al regno di Gesù Cristo, la Chiesa, e acquista il diritto a ricevere gli altri Sacramenti con l’abbondanza delle grazie, che li accompagnano. – Ogni uomo è destinato preda alla morte. Chi nasce muore. Quando arriva questo giorno, l’uomo si trova ancora di fianco il Sacerdote. «E’ infermo alcuno tra voi? — è scritto nel Nuovo Testamento — chiami i Sacerdoti della Chiesa e facciano orazione su lui, ungendolo con l’olio nel nome del Signore» (Giac. V, 19). Così si pratica nella Chiesa Cattolica. Presso il morente accorre il Sacerdote, che gli amministra il Sacramento dell’olio Santo, il quale con la sua grazia porta sollievo spirituale e corporale ai Cristiani gravemente infermi. L’uomo ha pur sempre bisogno dei soccorsi della grazia durante la sua vita. La grazia santificante, che ci viene infusa nel Battesimo, generalmente non rimane a lungo. Al primo svegliarsi delle passioni si perde facilmente. E con la perdita della grazia santificante è perduto anche il diritto alla eredità celeste. L’uomo che ha perduto la grazia santificante è un povero figlio diseredato, che ha bisogno di essere riconciliato con il Padre. Anche questa volta è il Sacerdote che avvicina il figlio al Padre. Egli, pronunciando nel tribunale di penitenza le parole dell’assoluzione, apre al figlio pentito la casa del Padre, lo rimette nelle sue grazie, e gli riacquista i diritti perduti. Ma chi aveva strappato il figlio dalla casa del padre, non si dà pace ora che ve lo vede riammesso. È questa per lui una sconfitta insopportabile, che lo spinge alla rivincita. Occorrono forze raddoppiate per resistere ai suoi assalti. Il Sacerdote procurerà queste forze, somministrandogli un pane che è la fonte delle grazie. Nelle vicinanze di Betsaida Gesù Cristo, mosso a compassione delle turbe che da tre giorni l’avevano seguito, pensa a ristorarle, perché nel ritorno alle loro case, sfinite di forze, non abbiano a venir meno per via. Moltiplicati dei pani che gli furono presentati, « li diede ai suoi discepoli, perché li ponessero davanti alle turbe ». (Marc. VIII, 6). Nell’ultima cena dà incarico ai discepoli di distribuire con le loro mani ai fedeli il Pane eucaristico, perché possano fortificarsi nel combattimento spirituale, e non venir meno sotto gli assalti del demonio, del mondo, della carne. Difatti, « mentre mangiavano Gesù prese del pane, lo benedisse, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: — Prendete e mangiate, questo è il mio corpo, (Matt. XXVI, 26) il quale è dato per voi: fate questo in memoria di me » – E i Sacerdoti, seguendo il comando di Gesù Cristo, continuano a rinnovare nella santa Messa la consacrazione eucaristica e a distribuire ai fedeli questo Pane di vita. – Il Beato Giovanni de Brébeuf, martire canadese, si trovava in un villaggio di Uroni, quando all’improvviso giungono gli Irochesi, loro terribili nemici. I capitani presenti fanno uscire dal villaggio le donne e i fanciulli, e pregano il Beato e il suo compagno, padre Gabriele Lalemant a seguire i fuggiaschi. «La vostra presenza — dicono essi — non ci può esser di servizio alcuno. Voi non sapete maneggiare né l’accetta né il fucile». — «C’è qualcosa ch’è più necessaria delle armi, — risponde il de Brébeuf — e sono i Sacramenti che noi soli possiamo amministrare. Il nostro posto è in mezzo a voi». E rimasero infatti ad amministrare i Sacramenti, ricevendo in premio la corona del martirio (Nicola Risi, Gli otto Martiri Canadesi della Compagnia di Gesù. Torino, 1926. p. 63-64). Nessuno può dispensare ai fedeli i tesori spirituali che dispensa il sacerdote. S. Paolo esalta tutta l’importanza del ministero sacerdotale con una semplice frase, chiamandolo ministero circonfuso di gloria. È, dunque, un ministero che merita tutto il nostro rispetto e il nostro interessamento. Ma questo contegno non è, pur troppo, il contegno della maggior parte. Per alcuni il Sacerdote non esiste che per esser bersaglio alle critiche, alle calunnie, alle persecuzioni. I preti, secondo essi, sono la cagione di tutti i malanni che succedono, o che potrebbero succedere. Ci sono i settari, i nemici della Religione, che combattono il Sacerdote per i loro fini. In battaglia si cerca di colpire specialmente gli ufficiali. Tolti di mezzo questi, i battaglioni si disgregano. I nemici della Religione Cattolica cercano di colpire specialmente i Sacerdoti per scristianizzare il popolo. – Altri si interessano del Sacerdote e lo stimano finché fa comodo. Diventa loro insopportabile quando, costretto dal proprio dovere, dà qualche ammonimento o fa qualche osservazione. «Chi vien biasimato o ripreso — nota in proposito il Grisostomo — chiunque egli sia, tralasciando affatto di essere riconoscente, diventa nemico » (In 1 Epist. ad Thess. Hom. 10, 1). E il Cristiano che viene avvisato, ammonito, ripreso dal Sacerdote gli diventa nemico. – Per altri il Sacerdote non esiste. Non gli si fanno critiche, ma neppure si pensa a lui. Lo si lascia stare. È considerato come uno che compie una funzione sociale qualsiasi, e niente di più. Questo non è un tributare l’onore, il rispetto, che s’addicono alla dignità dei ministri del nuovo Testamento. I Sacerdoti siano uomini; avranno anch’essi i loro difetti. Noi dobbiamo, però, considerare la loro dignità e non voler scrutare le loro azioni. «Non mi accada mai — scrive S. Gerolamo — che io dica qualcosa di sfavorevole rispetto a coloro, che, succeduti alla dignità apostolica, con la bocca consacrata ci danno il Corpo di Cristo, e per mezzo dei quali noi siamo Cristiani; e i quali, avendo le chiavi del regno celeste, in certo qual modo giudicano prima del giudizio» (Epist. 14, 8 ad Heliod.). – La nostra deferenza verso i Sacerdoti dobbiamo dimostrala, pure, nell’ascoltar volentieri la parola del Vangelo, da essi predicata, nel mostrarci docili alle loro cure. « Poiché — nota S. Cipriano — le eresie e gli scismi non trassero origine da altro, che dalla disubbidienza al Sacerdote di Dio» (Epist. 13, 5). – Se per mezzo del Sacerdote riceviamo i Sacramenti, partecipiamo ai divini misteri, usufruiamo delle celesti benedizioni, non possiamo disinteressarci di lui. Non basta il rispetto, la docilità alla sua parola. La riconoscenza deve spingerci a pregare per lui. La Chiesa ha stabilito giorni particolari di preghiere e di penitenza pei sacerdoti: le quattro tempora. Il Cristiano, però, non deve limitarsi a pregare pei Sacerdoti che salgono l’altare la prima volta. Deve pregare per i novelli Sacerdoti, deve pregare per quelli che sono incanutiti nel ministero, e deve pregare pei Sacerdoti futuri. Lo comanda Gesù: « La messe è veramente copiosa, ma gli operai sono pochi. Pregate il padrone della messe che mandi gli operai a lavorare nel suo campo (Matt. IX, 37-38). E che gli operai oggi siano pochi lo constatiamo tutti. Concorriamo adunque con la preghiera, e anche con quel contributo materiale che ci è possibile, a mandar nuovi operai nella vigna del Signore. Favorendo le vocazioni al Sacerdozio, faremo opera graditissima a Gesù perché concorreremo a procurargli dei collaboratori; faremo opera di carità squisita al prossimo, concorrendo a procurargli una guida spirituale; faremo il nostro migliore vantaggio perché ci faremo partecipi, in qualche modo, dei meriti che si acquista il Sacerdote nel salvar le anime.

Graduale

Ps XXXIII: 2-3.

Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo. [Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]
V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.
[La mia ànima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps LXXXVII: 2

Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja. [O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.

Luc. X: 23-37

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo? At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XL

“In quel tempo Gesù disse a’ suoi discepoli: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e regi bramarono di vedere quello che voi vedete, e no videro; e udire quello che voi udite, e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottor di legge per tentarlo, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Egli disse a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli rispose, e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze, o con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è mio prossimo? E Gesù prese la parola, e disse: Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi: ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Chi di questi tre ti pare egli essere stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: Colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo.” (Luc. X. 23-37)

Nostro Signor Gesù Cristo disse nel Santo Vangelo che Egli era venuto sulla terra a portare il fuoco della carità, e che nient’altro Egli voleva così ardentemente quanto che si accendesse un tal fuoco. Quindi non deve far meraviglia che tante e tante volte nella sua predicazione tornasse sopra l’importante argomento della carità, ed ora la raccomandasse direttamente o indirettamente colle sue magnifiche parabole. La Chiesa poi, fedelissima interprete della volontà di Gesù Cristo, suo sposo, fa ancor essa come Gesù, epperò più volte nel corso dell’anno nei Santi Vangeli della Domenica, che sono quelli che propone al nostro studio più attento, ci rinnova i precetti e le raccomandazioni di Gesù Cristo riguardo alla carità. Così fa pure questa Domenica, mettendoci sotto gli occhi uno dei più bei passi del Santo Vangelo, una di quelle più ammirabili parabole, che sono una tra le più espressive rivelazioni del Cuore di Gesù Cristo e de’ suoi santi voleri. Ascoltate.

1. I Farisei, sempre pieni di livore contro di Gesù, così mansueto e dolce, non facevano altro che cercare occasioni per sfogare la loro malignità. Ora trovandosi Gesù sulle frontiere della Samaria, stando per ritornare nella Galilea, occorse contro di Lui, da parte di quei perversi un attacco più violento di ostilità. Il divino Maestro volendo più profondamente scolpire nella mente de’ suoi discepoli ciò che doveva formar la loro felicità e la loro gioia, rivolto ad essi aveva loro detto: Beati gli occhi che veggono quello che voi vedete. Imperocché vi dico, che molti profeti e re bramarono di vedere quello che voi vedete e nol videro, e di udire quello che voi udite e non l’udirono. Allora alzatosi un certo dottore della legge (fingendosi ignorante) per tentare Gesù, gli disse: Maestro, che debbo io fare per possedere la vita eterna? Ma Gesù rispose a lui: Che è quello che sta scritto nella legge? come leggi tu? Quegli allora rispose e disse: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuor tuo, e con tutta l’anima tua, e con tutte le tue forze e con tutto il tuo spirito; e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: Bene hai risposto: fa questo e vivrai. Ma quegli volendo giustificare se stesso, disse a Gesù: E chi è il mio prossimo? Nella quale domanda era nascosta la più fina perfidia. Perciocché in quel tempo anche presso gli Ebrei la parola prossimo non presentava che l’idea di parente, di congiunto, di connazionale, mentre uno straniero, uno sconosciuto era quasi riguardato come nemico. Quindi questo dottor della legge credendo che neppur Gesù volesse spingere l’obbligo dell’amore fraterno oltre i confini della stessa nazione, avrebbe avuto la soddisfazione di farsi conoscere come esatto osservatore della legge, o in caso che Gesù Cristo avesse esteso il nome di prossimo anche agli stranieri, ai gentili, questo ipocrita avrebbe avuto il maligno piacere di udire Gesù a contraddire alla comune dottrina dei maestri della Sinagoga. Ora, non è veramente detestabile la condotta di questo Fariseo? Ma pure, miei cari, alla condotta di costui è molto somigliante la condotta di certi giovani, di certi Cristiani ai tempi nostri, i quali avendo cattivi sentimenti ed operando male e pur volendo giustificare se stessi, o adducono la ignoranza dei loro doveri, o cercano nella legge di Dio, nei precetti della Chiesa, negli insegnamenti e negli ordini del Vicario di Gesù Cristo, in quelli dei genitori e superiori, di trovare delle contraddizioni. Quanto è comune, in quelli che hanno commesso un qualche grave mancamento, il dire: Io non credevo che fosse male; mentre invece anche ignorando la legge, il precetto o la proibizione, si sentiva benissimo nel fondo della coscienza la legge stessa di natura, che o prescriveva o proibiva la tal cosa! Quanto è facile il sentire certi Cristiani domandare malignamente: E perché si deve pregare? Perché non si deve lavorare alla festa? Perché bisogna perdonare? Perché bisogna astenersi da certi piaceri? perché non si può almeno pensare e desiderare certe cose? Perché in certi giorni si deve far magro? Perché certi libri sono proibiti? Perché il Papa non vuol smettere le sue pretese? Perché questo? Perché quello? Eh, miei cari, se veramente non sapete darvi una risposta conveniente ai vostri perché, bisogna anzitutto che confessiate di essere molto ignoranti e riconosciate come l’ignoranza vostra sia inescusabile, avendo voi tanta facilità per mezzo delle istruzioni religiose, delle buone letture e dello studio della dottrina cristiana, di togliere dalla mente vostra tale ignoranza. Ma se invece, come può accadere in taluni, questi perché non son messi fuori che per far dello spirito, quasi per mettere in imbarazzo i Sacerdoti o i buoni Cristiani a cui li rivolgete, dovete pur dire a voi stessi in fondo al cuore, che siete maligni e perfidi come il Fariseo, di cui parla oggi il Vangelo. – Miei cari giovani e cari Cristiani, amate adunque di istruirvi nella verità di nostra santa Religione, nei doveri che essa impone a tutti in generale ed a ciascuno in particolare: questo amore di conoscere la fede di Gesù Cristo non sarà mai soverchio, perché quanto più si conoscerà tanto più si amerà e si praticherà. E se nello studio della fede cristiana vi accadrà molte volte di incontrare delle verità o dei precetti di cui non intendiate il significato e la forza, quando ne avete la comodità, domandate pure a chi può darvele, le necessarie spiegazioni. Ma procurate sempre di far questo con un cuor umile e docile; e non sia mai che, fingendo ignoranza che in voi non c’è, moviate delle domande per cattivo fine, o per mostrarvi in faccia agli altri diffidenti dell’insegnamento della Chiesa o per fare stoltamente mostra di ingegno nel discoprire contraddizioni, le quali non esisterebbero che nella vostra testa piccola e superba.

2. Ma tornando al Vangelo, la perfidia di quel dottore della legge diede occasione a Gesù di far scaturire dal suo cuore una delle sue più divine parabole: Un uomo, disse Egli, andava da Gerusalemme a Gerico, e diede negli assassini, i quali ancor lo spogliarono; e avendogli date delle ferite, se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Or avvenne che passò per la stessa strada un sacerdote, il quale vedutolo, passò oltre. Similmente anche un levita, arrivato vicino a quel luogo, e veduto colui, tirò innanzi; ma un Samaritano, che faceva suo viaggio, giunse presso a lui; e vedutolo, si mosse a compassione. E se gli accostò, e fasciò le ferite di lui, spargendovi sopra olio e vino; e messolo sul suo giumento, lo condusse all’albergo, ed ebbe cura di esso. E il dì seguente tirò fuori due danari, e li diede all’ostiere, e dissegli: Abbi cura di lui: e tutto quello che spenderai di più te lo restituirò al mio ritorno. Terminata questa stupenda parabola, Gesù rivoltosi al dottore, che lo aveva interrogato, gli chiese: Chi di questi tre ti pare egli esser stato prossimo per colui che diede negli assassini? E quegli rispose: colui che usò ad esso misericordia. E Gesù gli disse: Va’, fa’ anche tu allo stesso modo. Gesù adunque con questa parabola fece conoscere al Fariseo che nostro prossimo sono indistintamente tutti gli uomini del mondo, anche quelli che non solo non ci sono amici o parenti, ma che o per nazionalità o per qualsiasi altra ragione possono parere od anche essere nostri avversari e nemici. Imperciocché tra i Samaritani e gli Ebrei eravi una grande divisione. I Samaritani avendo fabbricato un tempio sul monte Garizim e non andando più a sacrificare nel tempio di Gerusalemme, venivano riguardati come scismatici, scomunicati e nemici. E poiché Gesù aveva narrato essere stato uno di questi, che si fece a soccorrere l’ebreo ferito sulla strada, implicitamente diceva al dottore della legge: Se un Samaritano soccorse un Ebreo, quantunque nemico, deve far lo stesso un Ebreo verso un Samaritano, ossia un uomo qualsiasi verso chiunque si trovi nel bisogno di essere soccorso; perché tutti gli uomini del mondo per mezzo della mia legge, che è legge di amore, sono approssimati gli uni agli altri, e gli uni agli altri resi fratelli, perché figli tutti di un solo e medesimo Padre Celeste. – Ma l’ammaestramento che Gesù Cristo diede al Fariseo è quello che dà anche a noi. Epperò anche noi dobbiamo badare a non cadere nell’errore dei Farisei e non vedere il nostro prossimo soltanto negli amici e nei parenti. Se fosse così non avremmo maggior merito dei pagani. Tutti adunque riguardiamo come nostro prossimo e a tutti, senza eccezione di sorta, potendo, facciamo del bene. – Se non che qualcuno potrebbe qui domandare: Ma dunque si dovrà far del bene anche ai malvagi, ai peccatori? A questa domanda rispondo col dire che senza dubbio ci vuole una savia discrezione nell’esercitare la carità e specialmente nel far elemosina al prossimo. Lo stesso Spirito Santo nell’Ecclesiastico (XII) ci avverte di badare a chi facciamo del bene e di non farlo all’empio: Si bene feceris, scito cui feceris. Da bono et ne suscipias peccatorem. Benefac humili et non dederis impio. Ma bisogna tuttavia notare che così ordinando, Iddio non vuole altro se non questo: che non facciamo la carità al peccatore, perché è peccatore, ma affinché non manteniamo in lui i peccati ed i vizi. Del resto sebbene questa discrezione sia lodevole, non è tuttavia necessaria, perché il bene fatto ad un malvagio per amor di Dio è sempre a Lui gradito e per noi meritorio. Così Gesù Cristo nel deserto moltiplicando il pane lo fece distribuire a tutti, senza badare chi era buono e chi era cattivo. Anche il B. Giordano, generale dell’Ordine dei Domenicani, ebbe l’incontro di un miserabile tutto nudo e tremante di freddo, che metteva compassione. Il buon religioso gli diede la sua cappa per ricoprirsi, e quel furfante andò a venderla e si mangiò i danari con alcuni altri ladroncelli nell’osteria. Il B. Giordano, saputo il successo disse: se colui ha gettato i danari, io non ho già perduta la cappa. L’ho veduta partire pel Paradiso, e diventar un manto da re per mia maggior gloria. Non è dunque necessario, perché l’elemosina sia semplicemente meritoria, fiscaleggiare ogni uomo e fargli un processo sopra la vita ed i miracoli, per dargli un pezzo di pane. Aprite la mano e date per amor di Dio, ed il merito è sempre in sicuro. D’altronde, o miei cari, quanto sarebbe facile alle volte ingannarsi e pensare malamente di chi non si dovrebbe, e negare perciò del bene a cui tanto importerebbe di farlo. Ed a convincerci di questo, valga ciò che si legge essere avvenuto al Santo Pontefice Gregorio Magno. S. Gregorio Magno prima di essere Papa, era abate nel monastero di S. Andrea in Roma. Un giorno fu introdotto a lui un pover’uomo, il quale con molta istanza faceva premura di dire una parola al padre abate. La parola che voleva dirgli, fu buttarglisi in ginocchio, ed esporgli come in un punto gli si era affondata una nave con sopra quanto aveva al mondo, e non essergli restato altro che i debiti, per cui correva pericolo di andar in prigione con sterminio della sua povera famiglia. L’abate, mosso a compassione, gli  fece dare sei scudi d’oro. Di lì a poche ore torna lo stesso con pianti e grida più compassionevoli che mai, e si protesta che sei scudi al suo bisogno, sono come una goccia d’acqua al mare: e che per pietà gli dia qualche altro soccorso. L’abate tutto viscere di carità, gli fa dare altri sei scudi d’oro. Colui, vedendo che gli scudi venivano a sei a sei, tornò la sera del medesimo dì, a dare un’altra stretta alla borsa del monastero. L’abate, a quella terza venuta in così breve tempo, senza scomporsi, senza ricordargli la discrezione, gli dice: mio povero uomo, non so se vi sia più denaro in cassa; se ve ne sarà, ve lo farò dare. Chiamato il dispensiere, il quale gli disse non esservi più un soldo, egli rispose: Vedete se vi è qualche cosa da vendere. V’era un piatto d’argento, di una ricca dama romana, che in quel piattello aveva mandato un piccolo regalo. Dategli quel piatto d’argento. — E la padrona che dirà? — E questo povero uomo, che ha da fare? Quando la padrona lo ricerchi glielo farò pagare. Salito poi Gregorio al Pontificato ordinò al suo maggiordomo, che ogni mattina facesse l’invito di dodici poveri alla tavola papale. Una mattina ne vide tredici, e tutti li accolse. Ma finita la tavola interrogò quel decimoterzo povero, come era entrato a desinare col Papa, senz’essere invitato. Rispose « Io sono quello stesso, a cui, essendo tu abate, facevi sborsare dodici scudi d’oro, e quel piatto d’argento di soprappiù. Sono il tuo Angelo custode, che ho voluto far queste prove della tua carità. E ti faccio sapere che per le tue elemosine, Dio Ti ha promosso al sommo di tutti gli onori in terra, qual è il Pontificato, e che per le stesse elemosine Dio ti tiene preparati maggiori onori in Cielo ». E ciò detto disparve.

3. Ma ora, passando ad altre riflessioni, è da notare come i Santi Padri sotto il velo della parabola di quest’oggi, hanno trovato la storia dell’umanità all’ora della sua caduta. Adamo usciva innocente e puro dalle mani del suo Creatore e suo Dio; ma cadde tra le mani del demonio, e fu spogliato della grazia santificante, coperto delle vergognose piaghe del peccato. Una profonda ignoranza, ecco la piaga del suo intelletto; una terribile concupiscenza, ecco la piaga della sua volontà; non può rialzarsi dalla sua caduta, e tutta intera la sua posterità, coperta delle stesse piaghe, ridotta alla stessa nudità, è fatalmente condannata a morire. Avvenne poi che un sacerdote scendendo per la medesima via, vedutolo passò avanti. Similmente anche un levita, andando presso al luogo, vedutolo, trapassò oltre. Il sacerdote ed il levita, che passandogli vicino, si accontentano di vederlo senza soccorrerlo nella sua miserabile condizione, ci mostrano l’impotenza della legge e dei profeti per la salute dell’umanità decaduta. La legge, dice l’Apostolo, ha bensì potuto farci conoscere il peccato, ma non aveva rimedio efficace per la sua guarigione. – La povera umanità caduta da sì alto in quell’orrendo abisso del male, doveva dunque essere perduta senza riparo…? e dopo essere stata spogliata dall’infernale ladrone, avrebbe dovuto dividerne i supplizi per tutta l’eternità? No, miei cari. Gesù Cristo, quel buono e tenero Salvatore, che gl’ingiusti suoi nemici trattarono appunto da Samaritano, dall’alto del trono di sua gloria, Egli ha veduta la povera nostra umanità colpevole, decaduta, ferita a morte, condannata agli abissi; e a tal vista che provò Egli? la più profonda compassione: Misericordia motus est. E questa divina compassione doveva per noi produrre i frutti più felici. Il Salvatore ha intrapreso il viaggio dal cielo alla terra e, disceso fino a noi, prese tra le divine sue braccia questa umanità debole, languente, abbattuta; ne ha perscrutate tutte le piaghe, ha versato sulle sue ferite l’olio della sua grazia ed il prezioso vino dell’adorabile suo sangue per mezzo dei Sacramenti. E questa povera umana natura fortificata e rigenerata, venne da Lui condotta ad un mirabile albergo, la Chiesa, ch’Egli ha quaggiù fondata affine di perpetuare sino alla fine dei secoli la sua missione di misericordia e d’amore. Ed ai pastori di questa Chiesa Ei dice incessantemente: Abbiate cura di queste anime; non risparmiate i vostri sudori, né le vostre fatiche; più tardi Io vi rivedrò, e ricompenserò generosamente i vostri sforzi e i vostri lavori. Oh carità immensa del buon Samaritano, Gesù Cristo! Questo ammirabile esempio è quello che deve servir di regola anche a noi. Fin qui noi avremo forse creduto che per praticare la carità bastasse il non voler male ai nostri fratelli, non serbarne alcun rancore, non odiarli. Ah! questo non basta: la nostra carità, come quella del Samaritano, deve esser pietosa ed effettiva. Apriamo perciò il nostro cuore ad una tenera e dolce compassione, andiamo incontro alle umane miserie, cerchiamo mezzi di scoprirle e con l’olio della dolcezza nelle nostre parole, col vino della generosità nei nostri consigli, nelle nostre elemosine, portiamo rimedio alle tante piaghe, che trafiggono il nostro prossimo. Oh allora si, che potremo meritare ancor noi gli elogi che implicitamente fece Gesù Cristo al buon Samaritano; e non solo gli elogi, ma il premio ancora, perché tutto ciò che noi avremo fatto di bene al prossimo lo avremo fatto a Gesù Cristo stesso, che ne ha promessa e ne darà l’eterna ricompensa.

CREDO…

Offertorium

Orémus
Exod XXXII: 11;13;14

Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel. Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Communio

Ps CIII: 13; 14-15

De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet. [Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.
[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

Per l’Ordinario della Messa vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA SATTOLICA – SETTEMBRE 2019

CALENDARIO LITURGICO DEL MESE DI SETTEMBRE (2019)

SETTEMBRE è il mese che la Chiesa dedica ai sette dolori della Madonna  ed alla nascita della B. V. Maria

-381-

Fidelibus, qui mense septembri preces vel alia pietatis obsequia B. M. V. Perdolenti devote præstiterint, conceditur [A chi durante il mese di settembre, devotamente pregherà o compirà un esercizio di ossequio e pietà alla B. M. V. si concede]:

Indulgentia quinque annorum semel, quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo eidem pio exercitio quotidie per integrum mensem vacaverint

(Breve Ap., 3 apr. 1857; S. C . Indulg., 26 nov. 1876 et 27 ian. 1888; S. Pæn. Ap., 12 nov. 1936).

-382-

Fidelibus, qualibet ex septem feriis sextis utrumque festum B. M. V. Perdolentis immediate antecedentibus, si ad honorem eiusdem Virginis Perdolentis septies Pater, Ave et Gloria recitaverint, conceditur [Ai fedeli che per sette venerdì antecedenti la festa della BMV Addolorata, in onore della Vergine Addolorata reciteranno sette Pater, Maria, Gloria]:

Indulgentia septem annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (Breve Ap., 22 mart. 1918; S. Pæn. Ap., 18 mart. 1932).

Stabat Mater dolorosa

Juxta crucem lacrimosa,

Dum pendebat Filius;

Cujus animam gementem,

Contristatam et dolentem

Pertransivit gladius.

O quam tristis et afflicta

Fuit illa benedicta

Mater Unigeniti

Quæ mœrebat et dolebat

Pia Mater dum videbat

Nati pœnas inclyti.

Quis est homo qui non fleret

Matrem Christi si videret

In tanto supplicio?

Quis non posset contristari

Christi Matrem contemplari

Dolentem cum Filio?

Pro peccatis sum gentis

Vidit Jesum in tormentis

Et flagellis subditum,

Vidit suum dulcem Natum

Moriendo desolatum,

Dum emisit spiritum.

Eia Mater, fons amoris,

Me sentire vim doloris,

Fac ut tecum lugeam.

Fac ut ardeat cor meum

In amando Christum Deum,

Ut sibi complaceam.

Sancta Mater, istud agas,

Crucìfixi fige plagas

Cordi meo valide.

Tui Nati vulnerati

Tam dignati prò me pati,

Pœnas mecum divide.

Fac me tecum pie flere:

Crucifixo condolere,

Donec ego vixero.

Juxta crucem tecum stare,

Et me Tibi sociare

In planctu desidero.

Virgo virginum præclara

Mihi jam non sis amara;

Fac me tecum plangere.

Fac ut portem Christi mortem;

Passionis fac consortem,

Et plagas recolere

Fac me plagis vulnerari,

Fac me Cruce inebriari

Et cruore Filii

Flammis ne urar succensus,

Per te, Virgo, sim defensus

In die Judicii.

Christi, cum sit hinc exire

Da per Matrem me venire

Ad palmam victoriæ.

Quando corpus morietur,

Fac ut anima donetur

Paradisi gloria. Amen.

Indulgentia septem annorum.

~Indulgentia plenaria suetis conditionibus, sequentia quotidie per integrum mensem devote reperita (S. C . Indulg., 18 iun. 1876; S. Paen. Ap., 1 aug. 1934).

Festa della Natività della Beata Vergine Maria: 8 settembre 2016

Novena a Maria Bambina

Santa Maria Bambina della casa reale di David, Regina degli Angeli, Madre di grazia e di amore, vi saluto con tutto il mio cuore. Ottenete per me la grazia di amare il Signore fedelmente durante tutti i giorni della mia vita. Ottenete per me una grandissima devozione a Voi, che siete la prima creatura dell’amore di Dio.

Ave Maria,…

O celeste Maria Bambina, che come una colomba pura nasce immacolata e bella, vero prodigio della saggezza di Dio, la mia anima gioisce in Voi. Oh! Aiutatemi a preservare nell’Angelica virtù di purezza a costo di qualsiasi sacrificio.

Ave Maria,…

Beata, incantevole e Santa Bambina, giardino spirituale di delizia, dove il giorno dell’incarnazione è stato piantato l’albero della vita, aiutatemi ad evitare il frutto velenoso della vanità ed i piaceri del mondo. Aiutatemi a far attecchire nella mia anima i pensieri, i sentimenti e le virtù del vostro Figlio divino.

Ave Maria,…

Vi saluto, Maria Bambina ammirevole, rosa mistica, giardino chiuso, aperto solo allo Sposo celeste. O Giglio di paradiso,  fatemi amare la vita umile e nascosta; lasciate che lo Sposo celeste trovi la porta del mio cuore sempre aperta alle chiamate amorevoli delle sue grazie ed ispirazioni.

Ave Maria,…

Santa Maria bambina, mistica Aurora, porta del cielo, Voi siete la mia fiducia e speranza. O potente avvocata, dalla vostra culla stendete la mano per sostenermi nel cammino della vita. Fate che io serva Dio con ardore e costanza fino alla morte e così possa giungere all’eternità con Voi.

Ave Maria,…

Preghiera:

Beata Maria bambina, destinata ad essere la Madre di Dio e la nostra tenera Madre, provvedetemi di grazie celesti, ascoltate misericordiosamente le mie suppliche. Nei bisogni che mi opprimono e soprattutto nelle mie presenti tribolazioni, ho riposto tutta la mia fiducia in Voi.

O Santa bambina, i privilegi che a Voi sola sono stati concessi dall’Altissimo, i meriti che avete acquistato, mostrano che la fonte dei favori spirituali ed i benefici continui che dispensate sono inesauribili, poiché il vostro potere presso il cuore di Dio è illimitato. – Degnatevi attraverso l’immensa profusione di grazie con cui l’Altissimo Vi ha arricchito fin dal primo momento della vostra Immacolata Concezione, di esaudire, o celeste Bambina, le nostre richieste e staremo eternamente a lodare la bontà del vostro Cuore Immacolato.

[IMPRIMATUR: In Curia Archiep. Mediolani – 31 agosto 1931

Canon. CAVEZZALI, Pro Vic. Gen.]

.

Ecco le feste del mese di SETTEMBRE

1 Settembre Dominica XII Post Pentecosten I. Septembris    Semiduplex Dominica minor *I* – S. Ægidii Abbatis   

2 Settembre S. Stephani Hungariæ Regis Confessoris    Semiduplex

3 Settembre S. Pii X Papæ Confessoris    Duplex

4 Settembre S. Laurentii Justiniani Episcopi et Confessoris    Semiduplex

6 Settembre I Venerdì del mese

7 Settembre Sanctæ Mariæ Sabbato    Simplex

                           I sabato del mese

8 Settembre Dominica XIII Post Pentecosten II. Septembris    Semiduplex   – Dominica minor –

                In Nativitate Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis

9 Settembre S. Gorgonii Martyris    Feria

10 Settembre S. Nicolai de Tolentino Confessoris    Duplex

11 Settembre Ss. Proti et Hyacinthi Martyrum    Feria

12 Settembre S. Nominis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex

13 Settembre

14 Settembre In Exaltatione Sanctæ Crucis    Duplex II. classis *L1*

15 Settembre Dominica XIV Post Pentecosten III.   Septembris  –  Semiduplex Dominica minor *I*

                           Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis

16 Settembre Ss. Cornelii Papæ et Cypriani Episcopi, Martyrum    Semiduplex

17 Settembre Impressionis Stigmatum S. Francisci    Feria

18 Settembre S. Josephi de Cupertino Confessoris   

Feria Quarta Quattuor Temporum Septembris

19 Settembre S. Januarii Episcopi et Sociorum Martyrum    Duplex

20 Settembre S. Eustachii et Sociorum Martyrum

Feria Sexta Quattuor Temporum Septembris

21 Settembre S. Matthæi Apostoli et Evangelistæ    Duplex II. classis

SABBATO Quattuor Temporum Septembris

22 Settembre Dominica XV Post Pentecosten IV. Septembris    Semiduplex – Dominica minor *I* –  S. Thomæ de Villanova Episcopi et Confessoris    Duplex

23 Settembre S. Lini Papæ et Martyris    Semiduplex

24 Settembre Beatæ Mariæ Virginis de Mercede    Feria

26 Settembre Ss. Cypriani et Justinæ

27 Settembre S. Cosmæ et Damiani Martyrum    Semiduplex

28 Settembre S. Wenceslai Ducis et Martyris    Feria

29 Settembre Dominica XVI Post Pentecosten I. Octobris    Semiduplex Dominica minor *I* –

                        In Dedicatione S. Michaëlis Archangelis    Duplex I. classis *L1

30 Settembre S. Hierónymi Presbýteris Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex *L1*

LO SCUDO DELLA FEDE (75)

LO SCUDO DELLA FEDE (75)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE SECONDA.

FRODI PER CUI S’INTRODUCE IL PROTESTANTISMO

CAPITOLO X

DECIMA PRODE: TRAFFICO DELLE INDULGENZE

Il lusso sformato qual è ne’ Prelati della Corte di Roma non può mantenersi senza un proporzionato dispendio, ed eccovi perciò la necessità di fare un mercimonio delle cose spirituali. Così la discorrono quegli infelici che vogliono strapparvi dal seno della S. Chiesa: e passano poi a raccontarvi, come per raccogliere denaro in Roma si vendono le Indulgenze, le dispense pei matrimoni, le facoltà di ergere Oratorii privati, le investiture dei benefizii ecclesiastici, le Reliquie dei Santi, ed andate dicendo. Chi li credesse, colà tutto è compera e vendita e permuta, senza un riguardo al mondo, né a Dio, né alle cose sante: e per esprimere tutto ciò hanno già inventato un termine tutto lor proprio, chiamando Roma la gran bottega dei Sacerdoti. Ora, miei cari, sentite una parola di tutte queste accuse; e prima d’ogni altra cosa delle Indulgenze, sopra le quali fan più rumore, che verrete da esse a conoscere sempre meglio qual sorta di Religione sia il Protestantismo, che per reggersi in piedi, ha bisogno di ricorrere a tali calunnie. – La prima occasione di accusa la tolgono dalle Indulgenze, le quali a detta loro, sono la merce che frutta a Roma le più larghe entrate. Ebbene per rispondere subito con dei fatti alle costoro parole, domandate loro, che abbiano mai speso per tutti quei giubilei ed indulgenze, che dopoché sono in vita, hanno udito annunciare al mondo? Che abbiano speso almeno in quest’ultimi pubblicati dal Sommo Pontefice Pio IX, inchiudendovi fino questo del cinquantotto? Chi ha mai loro chiesto un soldo per l’acquisto di tali beni spirituali? Vi potranno forse rispondere che non se ne sono mai curati. Tal sia di loro; ma se avessero voluto curarsene, avrebbero forse dovuto spendere qualche cosa? Inoltre nel corso dell’anno per varie solennità sono concesse le Sante Indulgenze, e vengono dichiarate ai fedeli dai sacri pergami, e ne sono avvisati fin con tabelle appese sulle porte delle Chiese, ora chi ha mai dovuto spendere un soldo per entrare a parteciparne? Questi favori spirituali sono accordati ad innumerevoli Congregazioni e Fraternità stabilite in tutto l’orbe, sono annesse ad una immensità di opere pie, e chi ha mai sognato che per acquistarli si richiedesse altro che l’adempimento delle pratiche ingiunte all’uopo? Dove vanno dunque a parare tutti i guadagni di Roma, e tutte le vendite delle S. Indulgenze? Ma se non è così al presente, fu però cosi in passato, ripigliano essi, e le storie ci ricordano che fu appunto per occasione di quelle vendite che Martin Lutero tolse a protestare contro la Chiesa. Ed io vi risponderò che hanno letto molto male le storie quelli che hanno trovato in esse tutte queste falsità, mentre la Chiesa né in passato né al presente ha venduto mai Indulgenze. Nella Chiesa Cattolica, il vendere beni spirituali è stimato non solo un peccato gravissimo, ma poco meno che un errore in fede, mentre in più d’un caso furono trattati come eretici i Simoniaci che sono appunto quelli che si contaminano di questa iniquità: ed in ogni tempo la S. Chiesa li ha perseguitati. Quanto alle Indulgenze poi si sa con quanti decreti la S. Chiesa abbia divietato qualunque abuso che alcuno dei suoi ufficiali avesse potuto commettere. Quello che ha dato ad alcuni ignoranti l’occasione di errare ed a molti tristi quella di malignare, ecco qual è. La S. Chiesa quando accorda questi favori così eccelsi, quali sono le S. Indulgenze suole imporre qualche opera di pietà e di penitenza ai fedeli sia perché se ne rendano più degni, sia perché questa sia come un qualche compenso per quello che loro vien perdonato. Le opere di penitenza poi, secondo la dottrina delle Sante Scritture si riducono a tre principali, preghiera, digiuno. e limosina, e lo sanno tutti quelli che sanno i primi elementi della fede cristiana. Ora siccome la S. Chiesa non ha ancora creduto per le dicerie dei suoi nemici ed anche per le mormorazioni di alcuni suoi figliuoli disamorati di levar dal Catalogo delle buone opere la limosina, né di rinunziare al diritto che ha di prescriverla ai fedeli, quando lo giudica conveniente ingiunge questa per l’acquisto delle Indulgenze nello stesso modo con cui ingiunge la preghiera od il digiuno. Che se alcune anime vili ed interessate ne tolgono poi occasione di calunnia contro la Chiesa, è tutta loro malizia: mentre il modo onde vien prescritta in questi casi la limosina è così savio, e così disinteressato che per quanto altri aguzzi l’occhio non potrà mai trovare nulla a riprendere. – In due maniere per lo più essa la ingiunge, o lascia in piena nostra libertà il farla a chi ne pare, oppure determina qualche fine speciale. Nell’un caso e nell’altro essa non si occupa punto de’ nostri denari. Così abbiamo veduto più di una volta tra l’opere ingiunte per l’acquisto del Giubileo, essere imposta in genere qualche limosina ed allora i fedeli scelgono quei poverelli che vogliono, quelle vedove, quei derelitti verso i quali si senton mossi, e qui certo non v’ha neppur l’ombra di traffico. – In altre occasioni sono state stabilite limosine o pel mantenimento de’ luoghi di Terra Santa, sì cari alla pietà cristiana, o per la propagazione della S. Fede o per i Cristiani che gemevano sotto la schiavitù dei Turchi, o per l’erezione di Ospedali, o per altra opera somigliante, ed in queste occasioni il denaro era versato nelle mani di quelli cui si apparteneva, e neppure qui si può rinvenire ombra di traffico. La grande pietra dello scandalo fu la limosina imposta da Leone X per l’erezione del tempio di S. Pietro in Roma. Questa somministrò primamente a Martin Lutero l’occasione d’insorgere contro la Chiesa, e fino ai dì nostri è l’argomento perpetuo delle calunnie dei Protestanti contro di lei. Del resto eccovi in poche parole il fatto genuino. Il gran Pontefice Leone X per recare ad effetto il disegno di Giulio II di formare in Roma un tempio dedicato al Principe degli Apostoli, che fosse meno indegno della Maestà della Cattolica Chiesa, e per riuscir nell’opera invitò tutti i fedeli dell’orbe cattolico a concorrervi colle loro limosine. Però per renderli più efficacemente promulgò alcune Indulgenze da lucrarsi da coloro i quali avessero colle loro limosine cooperato ad un’opera sì bella di divin culto, e di cristiana pietà. Or che cosa può esservi qui a riprendere? O negare che la S. Chiesa abbia facoltà di concedere le Indulgenze: ma questo in sulle prime non osò farlo neppur Martin Lutero, mentre non insorse, se non contro certi abusi introdotti dai banditori di esse indulgenze, abusi condannati subito e repressi dalla medesima S. Chiesa; oppure affermare che non sia opera di divin culto l’erezione di un tempio alla maestà del Signore. Ma i Protestanti che fanno tanto strepito colle Scritture, dovrebbero pur sapere che Dio fin dall’antica Legge ebbe tanto a cuore la magnificenza del tempio che ne rivelò egli stesso tutto il disegno, che ne prescrisse da sé tutti gli ornamenti, che infuse perfino la scienza a due artefici affinché ne conducessero perfettamente alcuni dei lavori più delicati. Dov’è dunque il traffico, la vendita dei beni spirituali? Finché i Protestanti non dimostreranno che le cose siano passate altrimenti, noi potremo dir sempre, che quando vilipendono in proposito la S. Chiesa, essi sono o ignoranti di quel che dicono, o calunniatori che vogliono trarre in errore i semplici. E poiché siamo a parlare delle indulgenze aggiungerò qui un’altra calunnia che per occasione di esse i Protestanti scagliano contro la Chiesa. Dicono che la facilità di questi perdoni e giubilei agevola in gran maniera il peccato, poiché, qual ritegno avranno più i fedeli a commettere la colpa, quando sanno essere tanto facile l’impetrarne il perdono? Inoltre come non saranno più rimessi nelle buone opere i Cristiani, mentre per loro diventa, mercé le Indulgenze, sì piana la via del Cielo? Ora, miei cari, son proprio curiose queste difficoltà sul labbro dei Protestanti! Essi insegnano che non sono necessarie al tutto le buone opere, che per giungere al Cielo basta la fede, che un’anima più nera della pece, purché creda di essere giustificata davanti a Dio, con ciò solo è monda più della neve; dopo d’avere insegnate queste belle dottrine, vengono col collo torto a deplorare lo scemamento delle buone opere e la facilità del peccare. È proprio l’ipocrisia dei Giudei, i quali non avevano scrupolo di uccidere Gesù, ma avevano scrupolo d’entrar nel pretorio nel dì festivo. – Ma perché vediate anche più chiaramente come v’ingannano con queste lustre di pietà, richiamate al pensiero quel che insegna la Cattolica Chiesa al nostro proposito. Nel peccato vi sono due cose da attendere, vi è la colpa la quale offende il Signore, vi è la pena di cui si rende meritevole chi commette la colpa. Ora la colpa secondo la dottrina Cattolica non si perdona se non se per mezzo del Sacramento di Penitenza o ricevuto da chi ne ha la possibilità, o almeno desiderato da chi non ha il mezzo di accostarvisi se pure con questo desiderio congiunga la contrizione. La pena poi o in tutto o in parte si condona nello stesso Sacramento secondo il più od il meno di contrizione che altri vi apporta, oppure resta a scontarsi in questa o nell’altra vita con penalità temporali. Ora notate bene, l’Indulgenza non è poi altro che una remissione o parziale o totale della pena dovuta al peccato, ma non mai della colpa: e però l’Indulgenza non può aver luogo se non dopo già pianto, già detestato, già scancellato il peccato dall’anima. In qual modo dunque può l’Indulgenza dar coraggio a peccare? Immaginatevi che alcuno vedendo un nuotatore che dal lido si avanza in alto mare prendesse a dir seriamente che per ciò è quegli sì ardito a gettarsi in alto, perché  tiene poi in pronto una carrozza che lo condurrà alla riva, che cosa rispondereste voi? Fareste una risata solenne e gli direste che i cocchi non viaggiano sulle acque, che bisogna già essere a riva per potersene valere. Ma quando sentite un Protestante che vi dice sul serio che i Cattolici si fidano a peccare perché hanno pronta la remissione nelle Indulgenze voi dovete dire lo stesso. Con le Indulgenze non si rimettono i peccati, bisogna che questi siano già perdonati, perché possiamo con le Indulgenze ricevere la condonazione anche della pena ad essi dovuto. Epperò come quel nuotatore se non ha altri mezzi per tornare a riva che la carrozza può risolversi a far naufragio quando vuole, così quel peccatore che per salvarsi non volesse impiegare altro mezzo che le Indulgenze potrebbe risolversi ad andar dannato. Ora essendo tale la dottrina di S. Chiesa, che senso ha quella difficoltà che certi barbassori muovono con tanta sicumèra e presunzione? Nè è punto più vero quello che soggiungono che per occasione dell’Indulgenze si diminuiscono le opere buone: poiché per l’acquisto medesimo delle Indulgenze si prescrivono varie opere buone, come la preghiera, il digiuno, la limosina senza contare che è una opera molto buona l’acquisto stesso delle Indulgenze: poiché in esso vi è un esercizio di fede alla divina parola, vi è un atto sincero di umiltà nel riconoscersi meritevole di castigo dinanzi a Dio, vi è un desiderio di soddisfare la divina giustizia, vi è una glorificazione del sangue preziosissimo di Gesù in virtù del quale ci vengono condonate le pene da noi meritate. E ciò senza dir nulla dell’inculcare che fa perpetuamente la S. Chiesa che non ci contentiamo delle S. Indulgenze, ma che le congiungiamo con ogni sorta di buone opere. Convinti sopra di ciò non sanno tuttavia ancora ammutolire. Le Indulgenze dei Cattolici, ripigliano, fanno torto alla Redenzione di Nostro Signore Gesù Cristo. Ed in qual modo? Doppiamente, rispondono, e perché i Cattolici richiedono in esse che si facciano certe opere ingiunte quasi esse fossero ancor necessarie per la piena remissione delle colpe dopo la Redenzione, e poi perché i Cattolici alle soddisfazioni di Gesù aggiungono anche quelle della Madonna e dei Santi, quasi le prime non bastassero da sé sole. Ebbene, miei cari, io mi contento di rispondere a tutte le costoro difficoltà perché mi danno campo di spiegarvi meglio la dottrina di S. Chiesa. – In primo luogo avete da sapere che in ogni opera buona che noi facciamo, vi è un doppio valore: vi è il merito con cui acquistiamo la vita eterna, vi è la soddisfazione per cui purghiamo le nostre colpe. Il merito nasce da ciò che sono fatte per movimento e principio di carità; la soddisfazione da ciò che sono a noi laboriose e penali. Così lo insegna chiaramente la S. Scrittura, la quale ci fa sapere a cagion di esempio, che la limosina ci libera dal peccato, che lo estingue (Tob. IV; Eccli. III), che è quanto dire che soddisfa per esso, e nello stesso tempo che come opera buona e grata a Dio ci merita la vita eterna, come insegna Nostro Signore dicendo: Abbiatevi il Regno che vi fu preparato: poiché ebbi fame, e mi deste a mangiare, ebbi sete e mi deste a bere (Matth. XXV). – In secondo luogo è da sapere che il merito è personale e proprio ad ognuno sì fattamente che non può cedersi a chicchessia, ed a questo risponderà il grado di gloria che ognuno avrà in Cielo: laddove la soddisfazione che non è poi altro che il pagamento di un debito può impiegarsi anche in favore di un altro. In quel modo che può un uomo ricco pagare per un suo amico i debiti che gl’impediscono il conseguimento di un pubblico impiego senza che possa tuttavia conferirgli il merito per quell’impiego. – In terzo luogo è da sapere che nella Chiesa il tesoro di queste soddisfazioni è infinito: perocché la passione di Gesù che principalmente Io forma è di valore infinito. Il valor della soddisfazione si toglie dalla dignità di chi soffre allo stesso modo che la gravità dell’offesa si toglie dalla dignità di chi è offeso. Ora essendo Dio quello che sofferse nella sua carne mortale, è d’infinita virtù la sua passione: tantoché essa varrebbe non solo per la salvezza di un mondo, ma per mondi innumerevoli se tanti ne esistessero e ne abbisognassero. – A formare tuttavia questo tesoro vi concorrono eziandio le soddisfazioni della Vergine e dei Santi che patirono più di quanto che fosse necessario allo sconto dei propri peccati. I Protestanti non possono soffrire che ciò si dica: ma  si turino pur gli orecchi che ciò non conta, perché è evidente che è cosi. La B. Vergine certamente non commise mai peccato di alcuna sorta né mortale né veniale, eppure sofferse smisurati dolori ai pie della Croce. S. Giovanni Battista fu santificato sino dal sen materno, eppure praticò durissime austerità in vita, e poi diede il sangue per la giustizia. Gli Apostoli similmente e tanti Santi Martiri di vita illibatissima soffersero pene atroci prima della morte, e pure la sola morte sarebbe stata bastevole secondo la fede a soddisfare per tutte le loro colpe. Similmente tanti santissimi penitenti, e Vergini, e Confessori congiungendo una penitenza asprissima con una vita molto innocente più soddisfecero di quello che fosse richiesto ai loro falli. Certamente il S. Giobbe diceva, volesse il Cielo che le mie colpe fossero bilanciate colle pene che io soffro, come queste apparirebbero ben più gravi di quelle(Job. VI, 1). Tutto ciò èinnegabile. Ora di tutte queste soddisfazioniviene a formarsene come un tesoro d’immensovalore, che è poi quello che la S.Chiesa ci applica colle indulgenze.Domando io pertanto in primo luogoche torto fa a Gesù che ci si applichino lesoddisfazioni di Gesù per isconto dei nostripeccati? Anzi quale onore più grande puòfarsi alla Redenzione che quello di credereche il Sangue prezioso di Gesù ci ottengail perdono non solo della colpa, ma ancordella pena dovuta ai nostri peccati? Ma, dicono, i Cattolici vogliono che per ottenere questo perdono, noi ci mettiamo anche le nostre opere. O ascoltate dunque una volta per sempre, ed intendete bene la verità. In tutto quello che noi facciamo per vantaggio delle nostre anime in tutto trovano i Protestanti che noi facciamo un affronto a Gesù. Se ascoltiamo la S. Messa dicono che facciamo torto al Sacrifizio della Croce, se facciamo opere buone dicono che rendiamo inutili quelle di Gesù, se invochiamo la Madonna ed i Santi dicono che li anteponiamo a Gesù, se facciamo le opere ingiunte per l’acquisto delle S. Indulgente trovano che rendiamo inutile la Passione di Gesù. Ma il vero volete sapere qual è?La verità è che essi disonorano ed insultano altamente Gesù con tutte queste ragioni inique perché con esse disconoscono al tutto quel che sia la Redenzione. Imperocché la Redenzione che Gesù ha fatto di noi non consiste già in questo che abbia dispensato noi dal fare la parte nostra. Nulla meno. Il benefizio infinito della Redenzione consiste in ciò, che mentre noi non potevamo senza di essa far nulla che ci valesse a vita eterna, non credere, non sperare, non pentirci dei nostri peccati, non amare il Signore come si conveniva, Gesù ci ottenne col suo Sangue prezioso la grazia immensa di poter far tutto ciò in modo che ci valesse a salute. Ma dopo fattaci questa grazia, non solo non esclude la nostra cooperazione, ma la vuole, la comanda, la esige a qualunque costo. I santi Vangeli ci intimano che dobbiamo far penitenza, che dobbiamo digiunare, che dobbiamo pregare, che dobbiamo partecipare ai Sacramenti, che dobbiamo esercitare coi prossimi le opere di misericordia ed andate dicendo. E Gesù Cristo nel dì del giudizio allegherà contro i reprobi per condannarli la mancanza delle buone opere. come per rimunerare gli eletti addurrà qual titolo l’esercizio delle medesime. Bisogna aver perduto il senno per non intendere e peggio per impugnare questa verità. Che cosa direste voi di un contadino il quale sul pretesto di non fare torto alla divina Providenza che l’ha da sostentare non volesse più arare la terra, non seminare, non incalzare, non mietere, non riporre le sue provigioni? Direste che è un pazzo. La Providenza divina consiste in ciò che ci mantiene le forze per lavorare, che ci manda le piogge opportune, che ci fa sorgere il sole, i venti, e quanto è necessario al raccolto, ma non esclude, anzi suppone, anzi richiede anche il nostro lavoro, la nostra opera. Ora dite lo stesso nel nostro caso. La Redenzione di Gesù ci ha procurati tutti i mezzi necessari per fare il bene che senza di essa mai non avremmo avuti, ma non ci viene poi applicata se noi non facciamo anche la porte nostra. Volete saper chiaro una volta dove vada a parare quel sì iniquo magnificare che fanno i Protestanti la Redenzione? Ah non è amore verso Gesù, non è stima, non è riverenza verso il Sangue divino, è un pretesto che essi tolgono per esimersi da ogni obbligo di far penitenza, e di esercitarsi in opere buone. Ma il congiungere colle soddisfazioni di Gesù anche quelle della Madonna e dei Santi, non è poi il fargli qualche torto? Niente affatto, miei cari. Imperocché se noi le aggiungessimo quasi non fossero sufficienti quelle di Gesù, certo sarebbe un affronto; ma la Cattolica Chiesa mai non ha fatto questo, e ne avrebbe orrore. Le aggiunge perché riescono d’immensa gloria e di splendido trionfo allo stesso Gesù: mentre da esse si vede quel che Gesù ha potuto fare con la sua grazia nei suoi servi che li ha di tanto aiutati, di tanto fatti degni che potessero accumulare sì gran capitale di soddisfazioni che bastasse non solo a loro ma ancora ai loro fratelli. Se vedeste un Imperatore che ha dintorno tanti scudieri e sì ricchi che possano fare anche ad altri splendide largizioni, direste mai che questi con la loro grandezza fan torto all’Imperatore? Tutto all’opposto: perocché questi mostrano anzi più grande quel Monarca che ha potuto far essi sì grandi. Di che vi parrà anche chiaro come i Cattolici riconoscano quella gran verità che Gesù Cristo è l’unico nostro Redentore, l’unico Mediatore, il Salvatore unico di tutti gli uomini. Imperocché noi confessiamo con gran giubilo del nostro cuore che solo Gesù ci ha riconciliati col Padre celeste, solo Gesù ci ha meritate tutte le grazie, solo Gesù ci aiuta a far le opere buone, solo Gesù dà valore alle nostre soddisfazioni. E se in qualche cosa concorrono anche i Santi o intercedendo per noi, o facendoci parte delle loro soddisfazioni, tutto è vanto, onore, gloria, opera di Gesù il quale dopo di averli colle sue grazie fatti degni e di pregare e di offrire qualche soddisfazione per noi, si compiace nella sua misericordia di accettar quell’offerte e quelle preghiere. Ma finalmente, ripigliano, sia pure anche solo una pena temporale quella che si rimette con le Indulgenze, con quale autorità però la Chiesa esercita un tal diritto? Io vi potrei rispondere che se la Chiesa l’esercita, è questa una prova indubitata che ne ha l’autorità, perocché essendo essa infallibile non può eccedere nei suoi diritti né  usurparsi un’autorità che non possieda. Tuttavia eccovi un’altra risposta. Vi ho detto sopra che nel peccato vi è da considerare la colpa e la pena. Ora dovete sapere che la S. Scrittura c’insegna che dopo rimessa la colpa non è sempre rimessa anche la pena. Cosi a cagion di esempio fu perdonato a David il suo peccato, ma tuttavia gli rimase a portar la pena della morte del suo figliuolo. Così furono perdonate ai Giudei le Idolatrie ed infedeltà che avevano commesse nel deserto per le preghiere di Mosè, ma tuttavia fu data loro per pena la morte temporanea nel deserto, di che si vede manifesto che nel peccato oltre il reato della colpa v’è eziandio quel della pena che non sempre si rimette col rimettersi della colpa. Appunto come avviene talvolta tra noi che alcuno il quale ha ricevuto dal suo prossimo danni ed ingiurie accorda il perdono al suo offensore, ma vuole però che gli rifaccia i danni che gli ha recati. Ora qua! è la potestà conferita da Gesù Cristo alla sua Chiesa? Forse soltanto quella di rimettere i peccati? No. Gesù Cristo dice ripetutamente che qualunque cosa essa legherà, qualunque scioglierà sarà sciolta o legata in Cielo. Non mette limiti, non appone condizioni: e siccome per l’applicazione dei meriti di Gesù rimette la colpa, così per l’applicazione delle soddisfazioni di Gesù rimette la pena, la quale è ancor essa un legame verissimo dei fedeli. E così di fatto l’ha poi sempre inteso e praticato la S. Chiesa. L’Apostolo S. Paolo rimette all’incestuoso sì noto di Corinto una tal pena in nome di Gesù Cristo come egli parla (2. Cor. II).I santi Martiri nei primi tempi, come il testificano S. Cipriano e Tertulliano, chiedevano, ed impetravano spesse volte dai Pastori legittimi della Chiesa che rimettessero una tal pena a quegli infelici che per timore dei tormenti avevano rinnegata la S. Fede nel tempo della persecuzione, e che poi erano tornati a penitenza: nei tempi susseguenti il Concilio di Nicea, quello di Ancira, quello di Laodicea suggeriscono il modo più prudente di accordare codeste indulgenze. Dai tempi di S. Gregorio in poi è sì noto l’uso delle Indulgenze che senza un’audacia estrema non può mettersi in dubbio da verun protestante. Ma v’è ancora più di tutto ciò. I Concili generali che sono la voce infallibile di tutta la Chiesa le autenticano in molti modi, il Concilio Claromontano riceve le S. Indulgenzedal Papa Urbano II. Il Concilio Lateranese da Pasquale II. Nell’altro Concilio Lateranese ed in quel di Lione mentre si riprendono quelli che abusavano a fini mondani delle Indulgenze se ne conferma il loro valore. In quel di Costanza si condanna l’errore dell’eretico Wicleffo che le impugnava. In una parola la S. Chiesa fino ai dì nostri ha sempre posseduta una tale autorità, e l’ha sempre esercitata. Ecco dunque dove sta fondato il diritto di S. Chiesa. Sta fondato sulle Scritture, sta fondato sulla Tradizione, sta fondato sull’infallibilità che Gesù ha concesso alla sua Chiesa, mercé la sua assistenza divina. E tutto ciò basti in risposta a quelli che disconoscono i diritti di S. Chiesa. Voi però non vi contentate di mantenerli con tutta la fermezza di vostra fede, passate anche ad accrescere sempre più in voi la stima di sì gran beni, ed abbiate sollecitudine quando la S. Chiesa ve li offre di acquistarli. I veri fedeli in ogni tempo guardarono sempre carissime le Indulgenze. Molti gran Santi della Chiesa fecero più volte il viaggio di Roma e della Palestina per guadagnare questi spirituali tesori. Quando i Sommi Pontefici incominciarono a pubblicare periodicamente ogni cento, e poi ogni cinquanta,e finalmente ogni venticinque anni i Giubilei, tutto il popolo Cristiano se ne commosse, e v’ha memoria che in certi tempi fino a centomila fedeli entravano ed uscivano ogni giorno dalle porte di Roma venuti da tutta la terra per acquistarli. Questa fu la Fede dei nostri Padri, questa sia la nostra ed a suo tempo si vedrà quanto si sia fidato sicuramente chi riposò sugli insegnamenti di S. Chiesa.

SALMI BIBLICI: “AD TE, DOMINE, CLAMABO; Deus meus…” (XXVII)

SALMO 27: AD TE, DOMINE, CLAMABO; Deus meus …

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER

PARIS

LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR RUE DELAMMIE, 13

1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.T

SALMO XXVII

[1] Psalmus ipsi David.

   Ad te, Domine, clamabo; Deus meus,

ne sileas a me: nequando taceas a me, et assimilabor descendentibus in lacum.

[2] Exaudi, Domine, vocem deprecationis meæ, dum oro ad te, dum extollo manus meas ad templum sanctum tuum.

[3] Ne simul trahas me cum peccatoribus, et cum operantibus iniquitatem ne perdas me;

[4] qui loquuntur pacem cum proximo suo, mala autem in cordibus eorum.

[5] Da illis secundum opera eorum, et secundum nequitiam adinventionum ipsorum.

[6] Secundum opera manuum eorum tribue illis, redde retributionem eorum ipsis.

[7] Quoniam non intellexerunt opera Domini et in opera manuum ejus; destrues illos, et non aedificabis eos.

[8] Benedictus Dominus, quoniam exaudivit vocem deprecationis meæ.

[9] Dominus adjutor meus et protector meus; in ipso speravit cor meum, et adjutus sum:

[10] et refloruit caro mea, et ex voluntate mea confitebor ei.

[11] Dominus fortitudo plebis suæ, et protector salvationum christi sui est.

[12] Salvum fac populum tuum, Domine, et benedic hæreditati tuæ; et rege eos, et extolle illos usque in æternum.

[Vecchio Testamento secondo la Volgata

Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XXVII.

Davide, in persona di Cristo, congiunge la passione sua e la glorificazione, come nel salmo 21, del quale è questo un compendio.

Salmo dello stesso David.

1. A te, o Signore, alzerò le mie grida: Dio Mio, non istare in silenzio con me, affinché, tacendo tu, non sia io come quelli che scendono nella fossa.

2. Esaudisci, o Signore, la voce delle suppliche mentre io ti prego, mentre alzo le mie mani al tuo tempio santo.

3. Non mi prendere insieme coi peccatori non mi sperdere con quelli che commettono

l’iniquità;

4. i quali parlano di pace col prossimo loro, ma nei loro cuori covano il male.

5. Rendi a questi secondo le opere, delle mani loro e secondo la malvagità delle loro macchinazioni.

6. Dà ad essi secondo le opere delle mani loro; rendi ad essi la lor ricompensa.

7. Perché non hanno intese le opere del Signore, né quello che ha fatto la mano di lui; tu gli distruggerai, e non gli ristorerai.

8. Benedetto il Signore, perché ha esaudito la voce della mia orazione.

9. Il Signore mio aiuto e mio protettore; in Lui sperò il cuor mio, e fui sovvenuto.

10. E rifiorì la mia carne, ed io col mio affetto a Lui darò laude.

11. Il Signore è fortezza del suo popolo, ed è protettore della salvazione del suo Cristo.

12. Salva, o Signore, il popol tuo, e benedici la tua eredità, e sii loro pastore e ingrandiscili fino all’eternità.

Sommario analitico

Il sentimento più probabile e più fondato è che questo salmo sia stato composto da Davide durante la rivolta di Assalonne, allorché fu obbligato a fuggire da Gerusalemme, a risalire piangendo il versante del monte degli ulivi, e Sadoc ed Abiathar portarono l’arca del Signore nell’accompagnare Davide (II Re, XV), per cui Davide la fece riposare nella città, giudicando indegno il possederla presso di lui. Esaminando attentamente questo salmo, si vede che tutto si riporta a questa circostanza dolorosa della vita del Re-Profeta. – 1° Davide grida verso il Signore (1), e noi vediamo (II Re, XV, 23) che tutto il popolo piange ad alta voce nell’accompagnarlo. – 2° Egli domanda a Dio di non restare in silenzio, cioè di non rifiutare di rendergli oracoli a suo favore attraverso il sommo sacerdote. – 3° Davide, camminando con la testa coperta da un velo, somiglia più ad un morto che ad un vivo. – 4° Dal monte degli ulivi, egli poteva facilmente levare le mani verso il tabernacolo (2). – 5° Egli allora era ancora punito per il suo doppio crimine di omicidio ed adulterio, cosa che gli faceva credere di essere coinvolto nel castigo riservato ai peccatori (3). – 6° Achitophel, che gli aveva tenuto un linguaggio pacifico, si dichiarava contro di lui. – 7° Egli prevede che Dio punirà Assalonne ed Achitophel come meritano. – 8° Rende grazie a Dio per la sua liberazione futura ed esprime la speranza certa di essere come richiamato alla vita e ristabilito sul suo trono. – 9° Raccomanda a Dio il suo popolo che vedeva esposto ai pericoli più gravi, in mezzo alle guerre civili. – Questo salmo che, nel senso spirituale, ha per oggetto nostro Signore in croce che profeta la distruzione di Gerusalemme e, nella seconda parte, celebra il trionfo della sua resurrezione, e pregando per tutta la sua Chiesa, ottiene a tutti i Cristiani imploranti, tra le tribolazioni, il soccorso e la misericordia di Dio.

I – Davide chiede a Dio di venire in suo soccorso:

1° A causa della sua pietà che manifesta: a) con le sue grida, b) con la disposizione in cui si trova di ascoltare il responso del Signore, c) con la sua umiltà che gli fa riconoscere che solo Dio può salvare dalla morte (1), d) con la fiducia che gli fa sperare che Dio solo, verso il quale tende la mani, può liberarlo dai suoi mali (2).

2° A causa dell’empietà dei suoi nemici, con i quali egli chiede a Dio di non essere confuso (3): – a) sotto un linguaggio in apparenza pacifico, essi nascondono i loro perfidi disegni (4); – b) essi riceveranno il giusto castigo per le loro opere e per i loro pensieri criminali; – c) il principio dei loro crimini, così come dei loro castighi, e del loro odio, è che essi non sono entrati nell’intelligenza delle opere di Dio (7).

II. – Davide rende grazie a Dio per ciò che si è degnato di esaudire: – a) dichiarandosi suo aiuto e suo protettore, dandogli una nuova forza dopo le crudeli prove (9, 10), – b) diventando la forza del suo popolo, e la protezione che salva il suo Cristo (11).

III. – Egli prega Dio di compiere al più presto ciò che ha dichiarato di fare per il suo popolo, – a) liberandolo dai pericoli in mezzo ai quali si trova, – b) colmandolo delle sue benedizioni e dei suoi doni, – c) dirigendolo nel preservarlo dal peccato, – d) ed elevandolo, con le virtù e le sue grazie, fino all’eternità (12).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-7.

ff. 1, 2. – Niente di più negativo è l’attirarsi, con le proprie infedeltà, il silenzio di Dio che minaccia di non ascoltare coloro che rifiutano da se stessi di ascoltare quando Egli parla loro (Dug.). – Un uomo privato del soccorso di Dio è simile ad un morto, non ha in sé i principi della vita spirituale; le sue azioni più oneste non sono che sforzi filosofici, e non delle opere cristiane e perciò meritorie del cielo. – La preghiera è potente ed efficace quando le mani pregano insieme alla lingua, e le opere insieme alle parole (Dug.).

ff. 3. – La pratica di alzare le mani pregando è antica come la preghiera stessa. Essa indica ed esprime: – 1° che l’anima vuole spiegare le ali per elevarsi verso il cielo pregando; – 2° che essa si rifugia con viva fiducia nel seno di Dio come porto sicuro; – 3° che offre a Dio tutto ciò che è, e tutto ciò che possiede; – 4° che essa ha il più ardente desiderio di ottenere il soccorso che implora; – 5° che è preparata e disposta ai combattimenti spirituali che Egli gli fa affrontare; – 6° che così esprime ancora, come nota Tertulliano, l’innocenza delle opere; – 7° che infine rappresenta, agli occhi del Padre eterno, l’immagine di Gesù Cristo crocifisso. – Il torrente della malizia dei peccatori coinvolge sovente coloro che non resistono nel principio; non si ha il coraggio di opporsi alla sua violenza. All’inizio ci si contenta di dissimulare il male che si vuol credere di non poter impedire; in seguito si familiarizza con esso; poi, anche se non lo si approva interamente, però non lo si condanna. All’inizio ci si lascia andare; la seconda volta, questa prima impressione si attenua, se ne forma l’abitudine, si smorza il rimorso della coscienza, ed infine ci si invischia con i peccatori, e ci si perde con coloro che commettono l’iniquità. – « Non permettete che io faccia causa comune con quelli che parlano di pace nell’assemblea dei loro fratelli, e che meditano il male nei loro cuori ». Per questi uomini, l’ideale della pace è la tranquillità del disordine, è la piacevole soddisfazione delle passioni, la gioiosità ininterrotta di tutto ciò che alletta l’orgoglio ed i sensi.

ff. 4. –  Il carattere dipinto qui dal Re-Profeta, uno dei più comuni nel mondo, e dei più odiosi al Signore, è la maniera di agire di coloro che, nel mondo, si definscono “gente onesta”. Mille sono le offerte di servizio, mille le proteste di devozione la più sincera, mentre nel fondo del cuore ci si nutre di pensieri di gelosia, di odio, di perfide intenzioni. Si tratta dei processi di prudenza, di finezza, di politica, dell’uso del mondo; e la Scrittura che è parola di Dio, le mette al rango dei crimini: dappertutto il Signore minaccia delle sue vendette i furbi, i cuori doppi, i simulatori, e dappertutto Egli fa i suoi elogi al candore, alla probità, alla semplicità (Berthier). – Il tuo nemico, dice l’autore dell’Ecclesiastico, ha il dolce sulle labbra, ma in cuore medita di gettarti in una fossa. Il nemico avrà lacrime agli occhi, ma se troverà l’occasione, non si sazierà del tuo sangue. Se ti capiterà del male, egli sarà là per primo e, con il pretesto di aiutarti, ti prenderà per il tallone (Eccli. XII, 15-18).

ff. 5, 6. –  Dio rende a ciascuno non secondo la sua qualità, secondo la sua scienza, le sue ricchezze, gli onori, le dignità di cui è rivestito, ma secondo le sue opere. Quando il male che il peccatore si preparava a far soffrire agli altri ricade sulla sua testa, egli non fa che ricevere la ricompensa delle opere delle sue mani. È dunque egli stesso che prepara con la proprie mani il suo supplizio, e la giustizia di Dio non fa che rendergli ciò che gli è dovuto (Duguet).

ff. 7. –  In questo versetto, noi vediamo nello stesso tempo la causa della disgrazia dei riprovati, l’estensione di questi malanni, la durata di questa sventura, e sono pochi i testi dei Libri santi dai quali si possa trarre una maggiore istruzione. La causa d questo sventura è quella di non aver compreso le opere del Signore, le cose mirabili che ha fatto per la creazione ed nel governo del mondo, e soprattutto il miracolo del suo amore nella redenzione del genere umano. « Le perfezioni invisibili di Dio, come la sua eterna potenza e la sua divinità, sono divenute visibili, dopo la creazione del mondo, per tutto ciò che è stato fatto; così la sua eterna potenza e la sua divinità, in modo tale da essere inescusabili ». (Rom. I, 20). Gesù Cristo piangerà su Gerusalemme, perché essa non aveva conosciuto che lui doveva dare la pace. Il risultato di questo disconoscimento, è la distruzione; la durata di questa sventura è l’eternità (Berthier).

II. — 8-12.

ff. 8-10. –  Felici coloro che, come Davide, dopo aver pregato Dio, possono dirgli: « Siate benedetto per aver esaudito la mia preghiera. » Solo una viva fede può dare questa certezza. Ma ancor più felice colui che, dopo non aver ottenuto ciò che domandava, dice a Dio con sincera riconoscenza: « siate benedetto per non aver esaudito la mia preghiera, perché verso i vostri amici, voi considerate più i loro veri interessi che le loro inclinazioni ed i loro desideri » (Duguet). – Quando sia possibile rendere testimonianza al fatto che si considera Dio nostro aiuto e nostro protettore, che si spera in Lui e non negli uomini, né nelle ricchezze, si può aggiungere con certezza, come Davide, che nel presente si è stati soccorsi da Lui, anche se la tribolazione dura ancora (Dug.). « … la mia carne è come rifiorita ». La giovinezza dell’uomo, dice San Tommaso su questo salmo, è spesso comparata nella santa Scrittura, ad un fiore, e con ragione: perché come il fiore è presagio del frutto, così la giovinezza è il presagio della vita che deve seguire. La carne sembra dunque rifiorire quando, nella sua vecchiaia, essa sembra raggiante, perché l’uomo sembra in effetti raggiante quando la sua anima è nella gioia, anche se sembra invecchiare nella tristezza, « Voi lo vedrete, dice Dio in Isaia, e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saran rigogliose come erba fresca » (Isaia LXVI, 14). Non sarà che nella resurrezione che la nostra carne riprenderà tutto il fiore dell’età, della salute, della gioia e della bellezza. Qui in basso, questa forza, questo vigore sarebbe pericoloso.

ff. 11, 12. – Coloro che Gesù Cristo ha riscattato con la sua morte e che si è acquistato con il suo sangue come sua eredità, sono veramente la razza scelta, il sacerdozio reale, la nazione santa, il popolo di Dio (I Piet. II, 9). – Questo popolo, ben diversamente dal popolo giudaico che ha voluto imporre la sua giustizia alla giustizia di Dio, crede e proclama che la sua forza viene da Dio solo, e che Dio solo può salvarlo, benedirlo, condurlo, proteggerlo nel cammino della vita ed elevarlo fin nella gloria dell’eternità.

IL RISPETTO UMANO

Rispetto umano.

[Ab. E. Barbier:

I TESORI DI CORNELIO ALAPIDE

Vol III, S. E. I. Torino, 1930 – imprim.]

1. Il rispetto umano è una schiavitù. — 2. Il rispetto umano è una vigliacca debolezza. — 3. Il rispetto umano è uno scandalo. — 4. Che cosa vi è di disordinato nel rispetto umano. — 5. Donde viene il rispetto umano e necessità di disprezzarlo. — 6. Fa un atto di coraggio chi vince il rispetto umano.

1. IL RISPETTO UMANO È UNA SCHIAVITÙ.

— Quale atto più servile che quello di ridurre e di costringere se medesimo alla necessità di conformare la propria religione al capriccio altrui? di praticarla, non più secondo le norme del Vangelo, ma secondo le esigenze degli altri? di non adempiere i propri doveri, se non nella misura voluta dal mondo? di non essere Cristiano, se non a talento di chi ci vede? S. Agostino condanna i savi del paganesimo, i quali mentre con la ragione vedevano un Dio unico, per rispetto umano si piegavano ad adorarne molti. E in forza di un altro rispetto umano, il Cristiano vigliacco non serve al Dio che conosce e nel quale crede: quelli erano superstiziosi e idolatri; questo diviene oggidì, per rispetto umano, infedele ed empio. Quelli, per non esporsi all’odio dei popoli, praticavano all’esteriore quello che internamente ripudiavano, adoravano quello che disprezzavano, professavano quello che detestavano: — Colebant quod reprehendebant, agebant quod arguebant, quod culpabant adorabant (De Civit. Dei). E noi, per evitare le censure degli uomini, per una vile dipendenza dalle vane usanze e dalle massime corrotte del secolo, noi disonoriamo quello che professiamo, profaniamo quello che riveriamo, bestemmiano, se se non con la bocca, con le opere, non già, come diceva l’Apostolo, quello che ignoriamo, ma quello che sappiamo e riconosciamo. I pagani contraffacevano i devoti, scrive Bourdaloue. e noi Cristiani ci facciamo scimmie degli atei. La finzione di quelli non riguardava che false divinità, e quindi non era più che una finzione; presso di noi al contrario, la finzione riferendosi al culto del vero Dio, diventa un’abbominevole impostura (Sermon sur le respect hum.). Ora. il fare così non è un rendersi schiavi, e proprio in quello in cui siamo meno scusabili, perché si tratta dell’anima e dell’eternità?… Nati liberi, tali dobbiamo inviolabilmente mantenerci per Iddio, cui si deve culto, fede, rispetto, adorazione, riconoscenza, amore…

2. IL RISPETTO UMANO È UNA VIGLIACCA DEBOLEZZA.

— La notte della Passione del Salvatore, la portinaia della casa di Caifa, disse a Pietro: « Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo? ed egli rispose: No » — Dicit Petro ancilla ostiaria: Numquid et tu ex discipulis es hominis istius? Dicit ille: Non sum (IOANN. XVIII, 17). Ecco la debolezza vigliacca del rispetto umano. Qui si è avverato, come si avvera sempre in simili casi, quel detto dei Proverbi: « Chi teme l’uomo, non tarda a cadere » — Qui timet hominem, cito corruet (Prov. XXIX , 25); e quell’altro del Salmista: « Non invocarono il Signore; quindi tremarono di spavento dove non c’era punto nulla da temere » — Deum non invocaverunt; illic trepidaverunt, ubi non erat timor (Psalm. LII, 6). La persona che si lascia vincere dal rispetto umano, teme quello che non è da temere, e non teme quello che bisogna temere… Che viltà, per esempio, non osare dimostrarsi Cristiano per un semplice segno di croce! Il segno del Cristiano non è forse la croce? Non è forse la croce, dice S. Agostino, che benedice e l’acqua che ci rigenera, e il sacrifizio che ci nutrisce, e la santa unzione che ci fortifica? (Tract. CXVIII, in Ioann.). Avete voi dimenticato che della croce furono segnate le vostre fronti, quando foste confermati dallo Spirito Santo? Perché segnarvela in fronte? Non forse perché su la fronte è la sede del pudore? Sì certo; Gesù Cristo volle armare con la croce, la nostra fronte contro quella falsa e misera vergogna del rispetto umano, che ci fa arrossire di cose che gli uomini chiamano piccole, ma che sono grandi innanzi a Dio. » Cosa indegna e vile è il rispetto umano, e non ve n’è altra che tanto degradi, abbassi e disonori l’uomo… Colui che ne è schiavo, non merita più il nome di uomo, ma il suo luogo è tra le banderuole che segnano la direzione dei venti; poiché non sa fare altro che questo… Una tale persona è sommamente spregevole… Che cosa è la che trattiene? un motto, un sarcasmo, una beffa, un segno… Oh! che piccolezza di spirito, che viltà di cuore! Ne arrossiamo noi medesimi in segreto, e non ci sentiamo l’animo di superare simili bagattelle!… Cerchiamo pure di nascondere e di orpellare con altri nomi questa fiacchezza, questa viltà, ma invano… Noi temiamo le censure del mondo, degli increduli, degli empi, degli ignoranti, degli accidiosi, dei dissoluti… Noi temiamo di acquistarci nome di spiriti deboli e pregiudicati, se pratichiamo la Religione; e non vediamo che somma debolezza è non praticarla. Qual cosa più vergognosa e più degradante, che la vergogna di comparire quello che si deve essere? Siamo canzonati; ma cosa vi è di più frivolo che le beffe? Chi è che si burla di noi? quale ne è il merito, il credito, la scienza, la virtù?… E noi osiamo vantarci coraggiosi, di animo grande, di carattere generoso? Codardia odiosa è il rispetto umano. Noi apparteniamo a Dio per tutti i titoli, per la creazione, la redenzione, la santificazione, la conservazione, e arrossiamo di servire Dio!… Il soldato si vergogna di servire il suo re! Di difendere la patria!… Noi ci adontiamo della Religione, della virtù! cioè, ci vergogniamo di essere creati ad immagine di Dio, di essere stati redenti col suo sangue; noi arrossiamo di ciò che forma la gloria degli Apostoli, dei martiri, dei dottori, dei pontefici, dei confessori, delle vergini. Noi abbiamo vergogna di chiamare Dio nostro padre, di essere suoi figli, di lavorare alla nostra salute, di andare al cielo! Quale stupidaggine e follia! o codarda debolezza, che non merita né indulgenza, né perdono!

3. IL RISPETTO UMANO È UNO SCANDALO.

— Il rispetto umano è uno scandalo ingiurioso a Dio, perché ne abbatte il culto… Scandalo che facilmente si comunica, essendo gli uomini molto proclivi a dire ciò che odono…; a fare quello che vedono farsi dagli altri… Ma è soprattutto uno scandalo affliggente, dannosissimo nei ricchi, nei potenti, nei dotti.

4. CHE COSA VI È DI DISORDINATO NEL RISPETTO UMANO.

— Primo disordine del rispetto umano: distrugge l’amore di preferenza che dobbiamo a Dio, il che è un annientare tutta la religione. Sacro dovere di ogni persona è preferire Dio alla creatura; ora, il rispetto umano fa anteporre la creatura al Creatore; e da ciò appunto questo vizio prende il suo nome che è disonorante come lo stesso vizio. Perché, infatti, lo chiamiamo rispetto umano? certamente non per altro motivo, se non perché ci fa preferire la creatura in vece del Creatore. Da un lato mi comanda Iddio, dall’altro mi comanda il mondo; ed io per non dispiacere alla creatura, a lei obbedisco a scorno di Dio e a detrimento della mia salute; con disprezzo di Dio e dei miei più sacri doveri… Per piacere all’uomo, divengo ribelle a Dio. E allora, addio Religione… – Secondo disordine del rispetto umano: getta l’uomo in una specie di apostasia. Quante irriverenze nel luogo santo, per paura di comparire ipocrita o bigotto!… L’altare non diventa forse, per lo schiavo del rispetto umano, l’ara del Dio sconosciuto?… non è anzi da lui disprezzato, disonorato, rinnegato? Gli Ateniesi onoravano il vero Dio senza conoscerlo; costui conosce il vero Dio, e lo dimentica, lo vilipende… Terzo disordine del rispetto umano: rende inutili le più preziose grazie di Dio. Un tale, per esempio, sente in se desideri e disposizioni ad una vita più ordinata, ma il rispetto umano li soffoca e riduce all’impotenza… Vorrebbe un altro convertirsi, confessarsi, accostarsi alla santa Eucaristia: pregare, santificale le feste, essere in una parola, veramente e apertamente e sinceramente virtuoso e fedele Cristiano; ma il rispetto umano lo trattiene, lo arresta, l’inceppa, lo impietrisce… Si vorrebbe fare il bene e adempiere tutti i doveri di buon Cristiano, ma si vorrebbe che il mondo non se ne accorgesse… Si esce di chiesa, si parte dalla predica ben persuasi, ben convinti, e risolutamente determinati a fare quello che si è udito, ma ecco il rispetto umano che fa barriera insormontabile alle buone risoluzioni, manda a monte ogni anche ottimo provvedimento già preso… E così tutte le più elette grazie cadono vane sotto il peso di questa vigliacca debolezza prodotta dal rispetto umano…

5. DONDE VIENE IL RISPETTO UMANO E NECESSITÀ DI DISPREZZARLO.

— Il Vangelo, parlando dei progressi che faceva la dottrina di Gesù negli animi, dice che anche parecchi fra i primari e i maggiorenti dei Giudei credettero in Gesù Cristo, ma nota che non ne facevano professione esteriore, temendo che i farisei li scacciassero dalle sinagoghe; poiché stava loro più a cuore la lode degli uomini, che la gloria di Dio: — Ex principibus multi crediderunt in eum; sed propter pharisæos, non confìtebantur, ut e synagoga non eiicerentur. Dilexerunt enim gloriam nominimi magis quam gloriam Dei (IOANN. XII, 42-43). Ora tutti quelli che si lasciano guidare dal rispetto umano, non sono essi guidati da simili motivi?… O sì, questi sono la vera sorgente del rispetto umano!… Si temono le osservazioni, gli appunti, le critiche degli uomini!… Ora perché non abbiamo noi i sentimenti di S. Agostino e non diciamo con lui: « Fate pure di me quel giudizio che più vi garba; per me tutto il mio desiderio è che la mia coscienza non mi accusi innanzi a Dio (Senti de Augustino quidquid libet, sola me conscientia in oculis Dei non accuset – Contro, Secundin. 1. I, c. I ) » . – E necessità indeclinabile per il fedele, il calpestare il rispetto umano. « Bisogna credere col cuore per ottenere la giustificazione, scrive il grande Apostolo, ma per arrivare alla salvezza ci vuole la confessione della bocca » — Corde ereditar ad iustitiam, ore autem confessio fit ad salutem (Rom. X, 10); e al suo discepolo Timoteo inculcava che non si vergognasse di rendere testimonianza al Signore Gesù Cristo e non arrossisse di lui. Paolo, schiavo del medesimo Gesù; ma soffrisse con lui per l’Evangelo, secondo la forza che gliene veniva da Dio: — Noli erubescere testimonium Domini nostri, neque me vinctum eius; sed collabora Evangelio secundum virtutem Dei (II Tim., II, 8). Poi, parlando di se medesimo ai Galati poteva dire con la fronte alta: « Di chi cerco io l’approvazione? degli uomini o di Dio? Forse che mi studio di piacere agli uomini? Se piacessi ancora al mondo, non sarei servo di Dio? » — Modo hominibus suadeo; an Deo? An quæro hominibus piacere? Si adhuc hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. I , 10). – « No, dice altrove questo grande Apostolo, io non arrossisco del Vangelo » — Non erubesco Evangelium (Rom. I, 16); « e poco m’importa del giudizio che voi od altri facciate di me » — Mihi prò minimo est ut a vobis iudicer aut ab humano die (I Cor. IV, 3). Non meno chiaramente del discepolo, già aveva parlato il maestro, perché parole formali di Gesù Cristo sono le seguenti: « Se alcuno si vergognerà di me e della mia dottrina, il Figliuolo dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà circondato della sua maestà e di quella del Padre, e degli Angeli santi » — Qui me erubuerit, et meos sermones, huno Filius liominis erubescet, cura venerit in maiestate sua, et Patris, et sanctorum angelorum (Luc. IX, 26). E poi di nuovo: « Chi mi avrà rinnegato dinanzi agli uomini, sarà pure rinnegato da me in faccia al Padre mio che è nei cieli » — Qui negaverit me coram hominibus, negabo et ego eum coram Patre meo, qui in cælis est (MATTH. X, 33). Ascoltiamo dunque l’avviso d’Isaia e non spaventiamoci dell’obbrobrio e delle bestemmie degli uomini: — Nolite timere opprobrium hominum, et blasphemias eorum ne metuatis (ISAI. L I , 7).

6. FA UN ATTO DI CORAGGIO CHI VINCE IL RISPETTO UMANO. — « È gloria grande seguire il Signore, dice il Savio; da lui si avrà lunghezza di giorni » — Gloria magna est sequi Dominum: longitudo dierum assumetur ab eo (Eccli. XXIII, 38). « Perché non rinnegarono il Cristo, scrive S. Agostino, passarono da questo mondo al Padre celeste: confessandolo, meritarono la corona di vita, e la tengono per sempre (Quia Christum non negaverunt, transierunt de hoc mundo ad Patrem; confitendo, coronam promerentes, et vitam sine fine tenentes – In Eccli.) ». Che cosa fece mai di così grande, il buon ladrone, domanda S. Giovanni Crisostomo, di andare così presto in cielo? Volete voi che vi dica in due parole la sua virtù? Udite: mentre Pietro rinnegava Gesù Cristo ai piedi della croce, allora egli lo confessava pubblicamente su la croce. Il discepolo non ebbe coraggio di sopportare le minacce di una vile fantesca; ma il ladrone vedendo intorno a sé tutto il popolo che urlava, schiamazzava, bestemmiava contro il Cristo, non tenne in nessun conto tutto quel baccano; non si fermò alle umiliazioni presenti del crocifisso, ma veduto tutto cogli occhi della fede, non badando alle illusioni esteriori, calpestando ogni rispetto umano, riconosceva nel paziente il Signore dei cieli, e a Lui sottomettendo le facoltà dell’anima sua, ad alta voce e senza paura di essere burlato, esclamava: Signore, ricordatevi di me, giunto che sarete al vostro regno (Homil. de Cruce et latrone). E in ricompensa della sua viva fede, del suo coraggio nel confessarlo in faccia a tutta la folla, senza badare a rispetto umano, ebbe la dolce ventura di udirsi rivolgere dalla bocca medesima di Gesù Cristo quelle consolanti parole: « Oggi sarai con me in paradiso — Hodie mecum eris in paradiso (Luc. XXIII, 43). La forza, la grazia, la salute, la gloria, stanno nel disprezzo del rispetto umano… Chi si mette sotto i piedi il rispetto umano, è padrone di sé, del mondo, di tutte le creature, del cielo, di Dio medesimo… Il Cristiano coraggioso non arrossisce mai di Dio, né della sua religione… In questo coraggio sta la vera gloria… Esso salvò la Maddalena, il pubblicano, il prodigo, il buon ladrone. Se essi avessero dato ascolto al rispetto umano, sarebbero tutti perduti; lo disprezzarono, sono lodati da Gesù e resi gloriosi… I Santi, i più eccellenti personaggi di tutti i secoli, tali divennero perché, disprezzando il rispetto umano, camminarono diritti alla loro via… Imitiamoli… « Se noi soffriamo con Gesù, dice S. Paolo, regneremo con lui; se lo rinneghiamo, anch’Egli ci rinnegherà » — Si sustiuebiinus et conregnabimus; si negaverimus et ille negabit nos (II Tim. I I , 12).« Essi ebbero timore di ciò che non dovevano temere, dice il Profeta,e il Signore spezzerà le ossa di quelli che cercano di piacere agli uomini;furono coperti di confusione, perchè Iddio li ha disprezzati » — lllic trepidaverunt ubi non erat timor, Deus dissipavit ossa eorum qui hominibus placent; confusi sunt, quoniam Deus sprevit eos (Psalm. LII, 6-7). Eccoun triplice castigo per quelli che si lasciano guidare dal rispetto umano perincontrare il genio del mondo: 1° il rompimento delle ossa, cioè la perditadella vita, della felicità, della pace, della salute; 2° la confusione, l’ignominia,la perdita della gloria; 3° il disprezzo di Dio e la riprovazione.