LA GRAZIA: NOTE DI TEOLOGIA ASCETICA -2-

LA GRAZIA

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (2)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

1° DELLA GRAZIA ABITUALE.

105. Dio, volendo nell’infinita sua bontà elevarci a Lui per quanto è permesso alla debole nostra natura, ci dà un principio vitale, soprannaturale, deiforme: la grazia abituale, grazia che si chiama creata, (Questa espressione non è del tutto esatta, perché la grazia non è una sostanza, ma un accidente o modificazione accidentale dell’anima nostra. Essendo però qualche cosa di finito e non potendo venire che da Dio, senza essere da noi meritata, le si dà questo nome, o talvolta si chiama anche concreata, per notare ch’essa è tratta dalla potenza obbedienziale dell’anima nostra.), per opposizione alla grazia increata che consiste nell’abitazione dello Spirito Santo in noi. Questa grazia ci rende simili a Dio e ci unisce strettissimamente a Lui: “Est autem hæc deificatio, Deo quædam, quoad fieri potest, assimilatio unioque “. – Sono questi i due aspetti della grazia che esporremo, dandone la definizione tradizionale e determinando l’unione prodotta dalla grazia tra l’anima e Dio.

A) Definizione.

106. La grazia ordinariamente si definisce una qualità soprannaturale, inerente all’anima nostra, che ci fa partecipare in modo reale, formale, ma accidentale, alla natura e alla vita divina.

a) E dunque una realtàdi ordine soprannaturale ma non una sostanza, perché nessuna sostanza creata può essere soprannaturale; è un modo d’essere, uno stato dell’anima, una qualità inerente alla sostanza dell’anima nostra, che la trasforma, la eleva sopra tutti gli esseri anche più perfetti; qualità permanente di sua natura, che sta in noi finche non la scacciamo dall’anima nostra commettendo volontariamente un peccato mortale. “La grazia, dice il Card. Mercier, appoggiandosi su Bossuet, è quella qualità spirituale che Gesù diffonde nelle anime nostre, che penetra nel più intimo della nostra sostanza, che s’imprime nel più segreto delle anime nostre, e che si spande (per mezzo delle virtù) in tutte le potenze e le facoltà dell’anima, che possiede interiormente l’anima e la rende pura e grata agli occhi di questo divin Salvatore, la fa suo Santuario, suo tempio, suo tabernacolo, insomma suo luogo di delizie.”

107. b) Questa qualità ci rende, secondo l’energica espressione di S. Pietro, partecipi della natura divina, divinæ consortes naturæ; ci fa entrare, come dice S. Paolo, in comunione con lo Spirito Santo ” communicatio Sancti Spiritus “, (II Cor., XIII, 13), in società col Padre e col Figlio, come aggiunge S. Giovanni. (1 Joan., I , 3). – Non ci fa certamente uguali a Dio, ma esseri deiformi simili a Lui; e ci dà, non la vita stessa di Dio che è essenzialmente incomunicabile, ma una vita simile alla sua. Il che ora spiegheremo, per quanto l’umana intelligenza vi può arrivare.

108. 1) La vita propria di Dio è di contemplare direttamente Se stesso e di infinitamente amarsi. Nessuna creatura, per quanto sia perfetta, può contemplareda se stessa l’essenza divina ” che abitauna luce inaccessibile, lucem inhabitat inaccessibilem(1 Tim. VI, 16). Ma Dio, per un privilegio interamentegratuito, chiama l’uomo a contemplare questa essenza divina nel cielo; ed essendone l’uomo incapace, ne eleva, ne dilata, ne fortifica l’intelligenza col lume della gloria. Allora, dice S. Giovanni, saremo simili a Dio, perché lo vedremo come Egli vede se stesso, o, che è lo stesso, come Egli è in sé: ” Similes ei erimus, quoniam videbimus eum sicuti est ” (I Joan, III, 2). Lo vedremo, aggiunge S. Paolo,non più attraverso lo specchio delle creature, ma faccia a faccia, senza intermedio, senza nubi, con una fulgida chiarezza: “Nunc per speculimi et in ænigmate, lune autem facie ad faciem” (1 Cor. XIII, 12-13). Così parteciperemo, benché in modo finito, alla vita stessa di Dio, poiché lo conosceremo come Egli conosce se stesso e lo ameremo come Egli ama se stesso. Il che spiegano i teologi dicendo che l’essenza divina verrà ad unirsi alla parte più intima dell’anima nostra e ci servirà di specie impressa, per renderci capaci di vederla senza alcuno intermedio creato, senza immagine alcuna.

109. 2) Ora la grazia abituale è già una preparazione alla visione beatifica e quasi un saggio di questo favore, prælibatio visionis beatifica; è la gemma che già contiene il fiore, benché questo non debba sbocciare che più tardi; è quindi dello stesso genere della visione beatifica e partecipa della sua natura. – Cerchiamo di spiegarci con un paragone, per quanto possa riuscire imperfetto. Io posso conoscere un artista in tre modi: dallo studio delle sue opere, — dal ritratto che me ne fa un suo intimo amico — o finalmente dalle relazioni dirette che io ho con lui. La prima di queste conoscenze di Dio, è quella che abbiamo dalla vista delle sue opere, conoscenza induttiva molto imperfetta, perché le sue opere, pur manifestandoci la sua sapienza e la sua potenza, nulla ci dicono della sua vita interiore. La seconda risponde assai bene alla conoscenza che ce ne dà la fede: sulla testimonianza degli scrittori sacri e principalmente del Figlio di Dio, io credo tutto ciò che Dio si degnò di rivelarmi non solamente sulle sue opere e sui suoi attributi, ma anche sulla sua vita intima; io credo che da tutta l’eternità Egli genera un Verbo che è suo Figlio, che ama e dal quale è riamato, e che da questo mutuo amore procede lo Spirito Santo. Certo io non capisco, e soprattutto io non vedo, ma io credo con incrollabile certezza, e questa fede mi fa partecipare in modo velato, oscuro, ma reale, alla conoscenza che Dio ha di se stesso. Solo più tardi, per mezzo della visione beatifica, si avvererà il terzo modo di conoscenza; ma, com’è chiaro, il secondo è in sostanza della stessa natura di quest’ultimo, e certamente molto superiore alla conoscenza razionale.

110. C) Questa partecipazione della vita divina non è semplicemente virtuale ma formale. La partecipazione virtuale non ci fa possedere una data qualità che in un modo diverso da quello in cui si trova nella causa principale; cosi la ragione è una partecipazione solo virtuale dell’intelletto divino, perché ci fa conoscere la verità, ma in un modo assai diverso dalla conoscenza che ne ha Dio. Non è così della visione beatifica, e, salve le proporzioni, della fede; queste ci fanno conoscere Dio come Egli conosce se stesso, non certo nello stesso grado ma nello stesso modo.

111. d) Questa partecipazione non è sostanziale ma accidentale. Così essa si distingue dalla generazione del Verbo, che riceve tutta la sostanza del Padre; e dalla unione ipostatica, che è un’unione sostanziale della natura umana con la natura divina nell’unica Persona del Verbo; noi conserviamo infatti la nostra personalità e la nostra unione con Dio non è sostanziale. Tale è la dottrina di S. Tommaso: (S. th. Ia, IIæ, q. 110, a. 2). “Essendo la grazia molto superiore alla natura umana, non può essere né una sostanza, né la forma sostanziale dell’anima; non può esserne che la forma accidentale”. E, per spiegare il suo pensiero, aggiunge che tutto ciò che è sostanzialmente in Dio ci vien dato accidentalmente e ci fapartecipare alla divina bontà: “Idenim quod substantialiter est in Deo, accidentaliter fit in anima participante divinam bonitatem, ut de scientia patet “.Con queste restrizioni si evita di cadere nel panteismo,e si ha nondimeno un’idea altissima dellagrazia, che ci apparisce come una divina somiglianza impressa da Dio nell’anima nostra: “faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram(Gen. I, 26).

112. Per farci intendere questa divina somiglianzà, i Padri usano diversi paragoni. 1) L’anima nostra, essi dicono, è una immagine vivente della Trinità, una specie di ritratto in miniatura, poiché lo Spirito Santo stesso viene ad imprimersi in noi come il sigillo sulla molle cera e vi lascia così la sua divina somiglianza. Ne concludono che l’anima in stato di grazia è d’una meravigliosa bellezza, poiché l’artista che vi dipinge questa immagine è infinitamente perfetto, non essendo altri che Dio stesso: “Pictus es ergo, o homo, etpictus es a Domino Deo tuo. Bonum habes artificem atque pictorem” (S. Ambr. in Exæm, l. VI c. 8).E ne conchiudono pure con ragione che noi nonsolo non dobbiamo distruggere od offuscare questaimmagine, ma anzi renderla ogni giorno più rassomigliante.— Paragonano anche l’anima nostra a quei corpi trasparenti che, ricevendo la luce del sole, ne sono come penetrati e acquistano un incomparabile fulgore che diffondono poi tutto intorno a loro (S. Bas. De Sp. S., IX, 23); così l’anima nostra, simile a un globo di cristallo illuminato dal sole, riceve la luce divina, risplende di vivo fulgore e lo riflette sugli oggetti circostanti.

113. 2) Per dimostrare che questa rassomiglianza non è cosa superficiale ma penetra nel più intimo dell’anima nostra, ricorrono al paragone del ferro e del fuoco. Come, dicono essi, una verga di ferro, immersa in un ardente braciere, acquista subito lo splendore, il calore e la pieghevolezza del fuoco, così l’anima nostra, immersa nella fornace del divino amore, si libera dalle scorie e diviene brillante, ardente e docile alle ispirazioni divine.

114. 3) Un autore contemporaneo, volendo esprimere l’idea che la grazia è una vita nuova, la paragona a un innesto divino fatto sul ramo selvatico della nostra natura e che si fonde coll’anima nostra per costituire un nuovo principio vitale e quindi una vita assai superiore. Però, come l’innesto non conferisce al ramo selvatico tutta la vita di quella natura onde è stato tolto ma soltanto questa o quella delle sue proprietà vitali, così la grazia santificante non ci dà tutta la natura di Dio ma qualche cosa della sua vita che costituisce per noi una nuova vita; noi quindi partecipiamo alla vita divina ma non la possediamo nella sua pienezza (Eymieu). È chiaro che questa divina somiglianza prepara l’anima nostra ad una ultimissima unione con l’adorabile Trinità che abita in lei.

B) Unione tra l’anima nostra e Dio.

115. Da ciò che abbiamo detto sull’abitazione della SS. Trinità nell’anima nostra (n. 92), risulta che tra noi e l’ospite divino corre un’unione morale ultimissima e santificantissima. Ma non c’è forse qualche cosa di più, qualche cosa di fisico in quest’unione?

116. a) I paragoni usati dai Padri sembrerebbero indicarlo.

1) Un gran numero di essi ci dicono che l’unione di Dio coll’anima è simile a quella dell’anima col corpo: “In noi vi sono, dice S. Agostino, due vite, la vita del corpo e la vita dell’anima; la vita del corpo è l’anima, la vita dell’anima è Dio “sicut vita corporis anima, sic vita anima; Deus. “È chiaro che si tratta solo di analogie; ma studiamoci di cavarne la verità che contengono. L’unione tra il corpo e l’anima è sostanziale, così che non formano più che una sola e medesima natura, una sola e medesima persona. Non è così dell’unione dell’anima con Dio: noi conserviamo sempre la nostra natura e la nostra personalità e restiamo quindi essenzialmente distinti dalla divinità. Ma, come l’anima dà al corpo la vita di cui gode, così Dio, senza essere forma dell’ anima, le dà la vita soprannaturale, vita non uguale ma veramente e formalmente simile alla sua; e questa vita costituisce un’unione realissima tra l’anima e Dio. – Suppone una realtà concreta che Dio ci comunica e che serve di vincolo unitivo tra Lui e noi; questa nuova relazione non aggiunge certamente nulla a Dio, ma perfeziona l’anima nostra e la rende deiforme; lo Spirito Santo quindi diviene non causa formale, ma causa efficiente ed esemplare della nostra santificazione.

117. 2) Questa stessa verità si deduce dal paragone che alcuni autori fanno tra l’unione ipostatica e l’unione dell’anima nostra con Dio. Vi è certamente tra le due una differenza essenziale: l’unione ipostatica è sostanziale e personale, perché la natura divina e la natura umana, sebbene perfettamente distinte, non formano più in Gesù Cristo che una sola e medesima Persona, mentre che l’unione dell’anima con Dio per mezzo della grazia, ci lascia la nostra personalità, essenzialmente distinta dalla personalità divina, e non ci unisce a Dio se non in modo accidentale: “Si compie infatti per mezzo della grazia santificante, che è un accidente aggiunto alla sostanza dell’anima; ora, in linguaggio scolastico, l’unione d’un accidente ed una sostanza si chiama unione accidentale”. Ma rimane pur sempre vero che l’unione dell’ anima con Dio è un’unione di sostanza a sostanza,  e che l’uomo e Dio vengono in contatto così intimo come il ferro e il fuoco che l’avvolge e lo penetra, come il cristallo e la luce. Per dir tutto in una parola, l’unione ipostatica fa un uomo-Dio, l’unione della grazia fa degli uomini divinizzati; e come le azioni di Cristo sono divino-umane o teandriche, così le azioni del giusto sono deiformi, fatte in comune da Dio e da noi, e per questo titolo meritorie della vita eterna, la quale non è altro che la unione immediata con la Divinità. Possiamo quindi dire col P. de Smedt: che l’unione ipostatica è il tipo della nostra unione con Dio per mezzo della grazia, e che questa ne è l’immagine più perfetta che una pura creatura possa riprodurre in sé”. – Concludiamo con lo stesso autore che l’unione della grazia non è puramente morale, ma contiene un elemento fisico che ci permette di chiamarla fisico-morale: “La natura divina è veramente nel suo essere stesso unita alla sostanza dell’anima per mezzo di un vincolo speciale, per modo che l’anima giusta possiede in sé la natura divina come cosa che le appartiene, e quindi possiede un carattere divino, una perfezione d’ordine divino, una bellezza divina, infinitamente superiore a tutto ciò che può esservi di perfezione naturale in una creatura qualsiasi reale o possibile.

118. b) Se, lasciando da parte i paragoni, studiamo il lato dottrinale della questione, arriviamo alla stessa conclusione, 1) In cielo, gli eletti vedono Dio faccia a faccia, senza alcun intermedio; la stessa essenza divina fa l’ufficio di specie impressa: ” in visione qua Deus per essentiam videbitur, ipsa divina essentia erit quasi forma intellectus qua intelliget ” [S. TOMMASO, Sum. theol., Suppl., q. 92, a. 3, ad 8]. Vi è dunque tra essi e la Divinità un’unione vera, reale, che si può chiamare fisica, perché Dio non può essere visto e posseduto che a patto d’essere presente al loro intelletto colla sua essenza, e non può essere amato se non è effettivamente unito alla loro volontà come oggetto d’amore : “amor est magis unitivus quam cognitio“. [Sum. theol.. Ila q. 28 a. 1 ad 3]. Ora la grazia altro non è che un principio e un germe della gloria: “gratia nihil est quam inchoatio gloriæ in nobis“.[S. Th. IIa IIæ, q. 24, a 3 ad 2. – V. Illud munus di Leone XIII] – L’unione dunque cominciata sulla terra tra l’anima nostra e Dio per mezzo della grazia è in sostanza dello stesso genere di quella della gloria, reale e in un certo senso fisica come questa. Tal è la conclusione del P. Froget nel suo bel libro L abitazione dello Spirito Santo (p. 159), appoggiandosi su numerosi testi di S. Tommaso: « Dio è dunque realmente, fisicamente, sostanzialmente presente nel cristiano che ha la grazia; e non è già una semplice presenza materiale ma un vero possesso accompagnato da un principio di godimento ».

2) La medesima conclusione discende pure dall’analisi della grazia stessa. Stando all’insegnamento dell’Angelico Dottore, che si fonda sugli stessi testi scritturali che abbiamo citati, la grazia abituale ci è data per godere non solo dei doni di Dio, ma delle stesse Persone divine; Per donum gratia gratiam facicntis perficitur creatura rationalis ad hoc quod libere non solum ipso dono creato utatur, sed ut ipsà divina persona fruatur” [S. Th. I, q.43, a. 3 ad 1]. Ora, aggiunge un discepolo di S. Bonaventura, per godere d’una cosa è necessaria la sua presenza, e quindi per godere dello Spirito Santo la sua presenza è necessaria come necessario è il dono creato che unisce a Lui [ps. Bonaventura, Comp. Theol. Veritatis, 1. I, c. 9]. E poiché la presenza del dono creato è reale e fisica, quella dello Spirito Santo non dovrà forse essere dello stesso genere? Ecco dunque che le deduzioni della fede come i paragoni dei Patri ci autorizzano a dire che l’unione dell’anima nostra con Dio per mezzo della grazia non è soltanto morale, che non è neppur sostanziale in senso proprio, ma che è talmente reale da potersi chiamare fisico-morale. Restando per essa velati ed oscura ed essendo progressiva, nel senso che noi ne percepiamo tanto meglio gli effetti quanto più coltiviamo la fede e i doni dello Spirito Santo, le anime ferventi che sospirano l’unione divina, si sentono vivamente sollecitate ad avanzar ogni giorno più nella pratica delle virtù e dei doni.

2° DELLE VIRTÙ E DEI DONI, O DELLE FACOLTÀ DELL’ORDINE   SOPRANNATURALE.

Richiamatane prima l’esistenza e la natura, parleremo per ordine delle virtù e dei doni.

A) Esistenza e natura.

119. La vita soprannaturale inserita nell’anima nostra per mezzo della grazia abituale richiede, per operare e svilupparsi, delle facoltà di ordine soprannaturale, che la liberalità divina generosamente concede sotto nome di virtù infusee di doni dello Spirito Santo:  L’uomo giusto, dice Leone XIII, che vive della vita della grazia e che opera per mezzo delle virtù, che tengono in lui il posto delle facoltà, ha pure bisogno dei doni dello Spirito Santo: Homini iusto, vitam scilicet viventi divinæ gratiæ et per congruas virtutes tamquam facultates  agenti, opus piane est septenis illis qua; proprie

dicuntur Spiritus Sancti donis” [Divinum illud munus, 9 maggio 1897). Conviene infatti che le nostre facoltà naturali, le quali da se stesse non possono produrre che atti del medesimo ordine, siano perfezionate e divinizzate da abiti infusi, che le elevino e le aiutino ad operare soprannaturalmente. E Dio, infinitamente liberale qual è, ce ne da di due specie: le virtù, che, sotto la direzione della prudenza, ci abilitano a operare soprannaturalmente col concorso della grazia attuale; e i doni che ci rendono così docili all’azione dello Spirito Santo che, guidati da una specie di divino istinto, siamo, per così dire, mossi e diretti da questo divino Spirito. – Bisogna però notare che questi doni, i quali ci sono conferiti colle virtù e colla grazia abituale, non vengono esercitati con frequenza ed intensità se non dalle anime mortificate che, con una lunga pratica delle virtù morali e teologali, acquistarono quella soprannaturale pieghevolezza, onde rendonsi interamente docili alle ispirazioni dello Spirito Santo.

120. La differenza essenziale tra le virtù e i doni deriva dunque dal loro diverso modo di operare in noi: nella pratica delle virtù, la grazia ci lascia attivi, sotto l’influsso della prudenza; nell’uso dei doni, raggiunto che abbiano il loro pieno sviluppo, richiede da noi più docilità che attività, come esporremo meglio trattando della via unitiva. Intanto un paragone ci aiuterà a capire: quando una madre insegna a camminare al figlio, ora si contenta di guidarne i passi impedendogli di cadere, ora lo prende tra le braccia per fargli superare un ostacolo o per farlo riposare; nel primo caso si ha la grazia cooperante delle virtù, nel secondo si ha la grazia operante dei doni. Ma da ciò risulta che, normalmente, gli atti compiuti sotto l’influsso dei doni sono più perfetti di quelli che si compiono solamente sotto l’influsso delle virtù, appunto perché l’azione dello Spirito Santo nel primo caso è più attiva e più feconda.

B) Delle virtù infuse.

121. È certo, secondo la dottrina del Concilio di Trento, che nel momento stesso della giustificazionericeviamo le virtù infuse della fede, della speranzae della carità. Ed è dottrina comune, confermata dal Catechismo del Concilio di Trento [Sess. VI, C. 7] , cheanche le virtù morali della prudenza, della giustizia, della fortezza e della temperanza ci sono comunicatenello stesso momento. Non dimentichiamo peròche queste virtù ci danno, non la facilità, ma il potere soprannaturale prossimo di fare atti soprannaturali; saranno necessari ripetuti atti per aggiungerviquella facilità che viene dall’abitudineacquisita.Vediamo come queste virtù rendono soprannaturalile nostre facoltà.

a) Le une sono teologali, perché hanno Dio per oggetto materiale e qualche attributo divino per oggetto formale. La fedeci unisce a Dio, suprema verità, e ci aiuta a veder tutto e a tutto giudicare alla divina sua luce. La speranza ci unisce a Colui che è la sorgente della nostra felicità, sempre pronto a versare su noi le sue grazie per compiere la nostra trasformazione ed aiutarci col suo potente soccorso a fare atti di confidenza assoluta e di filiale abbandono. La caritàci eleva a Dio sommamente buono in se stesso; e, sotto il suo influsso, noi ci compiacciamo delle infinite perfezioni di Dio più che se fossero nostre, desideriamo che siano conosciute e glorificate, stringiamo con Lui una santa amicizia, una dolce familiarità e così diventiamo ognor più a Lui somiglianti. Queste tre virtù teologali ci uniscono dunque direttamente a Dio.

122. b) Le virtù morali, che hanno per oggetto un bene onesto distinto da Dio e per motivo l’onestà stessa di quest’oggetto, favoriscono e perpetuano questa unione con Dio, regolando le nostre azioni in modo che, non ostante gli ostacoli che si trovano dentro e fuori di noi, tendano continuamente verso Dio. Così la prudenzaci fa scegliere i mezzi migliori per tendere al nostro fine soprannaturale. La giustizia, facendoci rendere al prossimo ciò che gli è dovuto, santifica le nostre relazioni coi nostri fratelli in modo da avvicinarci a Dio. La fortezzaarma l’anima nostra contro la prova e la lotta, ci fa sopportare con pazienza i patimenti e intraprendere con santa audacia le più rudi fatiche per procurare la gloria di Dio. E, poiché il piacere colpevole ce ne distoglierebbe, la temperanzamodera il nostro ardore pel piacere e lo subordina alla legge del dovere. – Tutte queste virtù hanno dunque per ufficio di allontanare gli ostacoli e anche di somministrarci mezzi positivi per andare a Dio.

C) Dei doni dello Spirito Santo.

123. Senza descriverli in particolare (cosa che faremo più tardi) ci basti qui dimostrarne la corrispondenza colle virtù. I doni, senza essere più perfetti delle virtù teologali e specialmente della carità, ne perfezionano l’esercizio. Così il dono dell’ intelletto ci fa penetrare più addentro nelle verità della fede per scoprirne i reconditi tesori e le arcane armonie; quello della scienzaci fa considerare le cose create nelle loro relazioni con Dio. Il dono del timorefortifica la speranza, staccandoci dai falsi beni di quaggiù che potrebbero trascinarci al peccato e ci accresce quindi il desiderio dei beni celesti. Il dono della sapienza, facendoci gustare le cose divine aumenta il nostro amore per Dio. La prudenzaè grandemente perfezionata dal dono del consiglio che ci fa conoscere, nei casi particolari e difficili ciò che è o non è espediente di fare. Il dono della pietàperfeziona la virtù della religione, che si connette colla giustizia, facendoci vedere in Dio un padre che siamo lieti di glorificare per amore. Il dono della fortezzacompie la virtù dello stesso nome, eccitandoci a praticare ciò che vi è di più eroico nella paziente costanza e nell’operare il bene. Infine il dono del timore, oltre che facilita la speranza, perfeziona pure in noi la temperanza, facendoci temere i castighi e i mali che risultano dall’amore illecito dei piaceri. Tal è il modo con cui armoniosamente si sviluppano nell’anima le virtù e i doni, sotto l’influsso della grazia attuale, di cui ci resta ora a dir una parola.

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/10/la-grazia-note-di-teologia-ascetica-3/

SALMI BIBLICI: “DEUS, AURIBUS NOSTRIS AUDIVIMUS” (XLIII)

SALMO 43: “DEUS, AURIBUS NOSTRIS audivimus …”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 43

In finem. Filiis Core ad intellectum.

[1] Deus, auribus nostris audivimus,

patres nostri annuntiaverunt nobis, opus quod operatus es in diebus eorum, et in diebus antiquis.

[2] Manus tua gentes disperdidit, et plantasti eos; afflixisti populos et expulisti eos.

[3] Nec enim in gladio suo possederunt terram, et brachium eorum non salvavit eos; sed dextera tua et brachium tuum, et illuminatio vultus tui, quoniam complacuisti in eis.

[4] Tu es ipse rex meus et Deus meus, qui mandas salutes Jacob.

[5] In te inimicos nostros ventilabimus cornu, et in nomine tuo spernemus insurgentes in nobis.

[6] Non enim in arcu meo sperabo, et gladius meus non salvabit me;

[7] salvasti enim nos de affligentibus nos, et odientes nos confudisti.

[8] In Deo laudabimur tota die; et in nomine tuo confitebimur in sæculum.

[9] Nunc autem repulisti et confudisti nos; et non egredieris, Deus, in virtutibus nostris.

[10] Avertisti nos retrorsum post inimicos nostros; et qui oderunt nos diripiebant sibi.

[11] Dedisti nos tamquam oves escarum; et in gentibus dispersisti nos.

[12] Vendidisti populum tuum sine pretio; et non fuit multitudo in commutazioni-bus eorum.

[13] Posuisti nos opprobrium vicinis nostris, subsannationem et derisum his qui sunt in circuitu nostro.

[14] Posuisti nos in similitudinem gentibus, commotionem capitis in populis.

[15] Tota die verecundia mea contra me est, et confusio faciei meae cooperuit me:

[16] a voce exprobrantis et obloquentis, a facie inimici et persequentis.

[17] Haec omnia venerunt super nos; nec obliti sumus te, et inique non egimus in testamento tuo.

[18] Et non recessit retro cor nostrum; et declinasti semitas nostras a via tua;

[19] quoniam humiliasti nos in loco afflictionis, et cooperuit nos umbra mortis.

[20] Si obliti sumus nomen Dei nostri, et si expandimus manus nostras ad deum alienum,

[21] nonne Deus requiret ista? ipse enim novit abscondita cordis. Quoniam propter te mortificamur tota die; aestimati sumus sicut oves occisionis.

[22] Exsurge; quare obdormis, Domine? exsurge, et ne repellas in finem.

[23] Quare faciem tuam avertis? oblivisceris inopiae nostrae et tribulationis nostræ?

[24] Quoniam humiliata est in pulvere anima nostra; conglutinatus est in terra venter noster.

[25] Exsurge, Domine, adjuva nos, et redime nos propter nomen tuum.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLIII

Predizione delle calamità che, dopo i tempi di Davide, avvennero sul popolo ebreo per mano di Antioco Epifane, al tempo de’ Maccabei; e sul popolo cristiano per opera di Nerone e degli imperatori romani, nei primi tre secoli della Chiesa.

Per la fine; ai figliuoli di Core; salmo d’intelligenza.

1. Noi, o Dio, colle nostre orecchie udimmo, i padri nostri a noi annunziarono, quello che tu facesti ne’ giorni loro, e nei giorni antichi.

2. La mano tua estirpò le nazioni, e desti loro ferma sede; castigasti quei popoli, e li discacciasti;

3. Imperocché, non in virtù della loro spada divenner padroni della terra, né il loro valore diede ad essi salute; ma sì la tua destra e la tua potenza e il benigno tuo volto; perché avesti buon volere per essi.

4. Tu se’ tu stesso il mio Re e il mio Dio, tu che ordini la salute di Giacobbe.

5. Per te avrem forza per gettare a terra i nostri nemici, e nel nome tuo non farem caso di quelli che insorgono contro di noi.

6. Imperocché non nel mio arco porrò io la mia speranza, e la mia spada non sarà quella che mi salverà:

7. Imperocché tu ci salvasti da coloro che ci affliggevano, e svergognasti color che ci odiavano.

8. In Dio ci glorieremo ogni dì, e il nome tuo celebreremo pei secoli.

9. Ma adesso tu ci hai rigettati e svergognati; e non vai innanzi a’ nostri eserciti1.

10. Ci facesti voltar le spalle a’ nostri nemici, e quei che ci odiano ci saccheggiarono.

11. Ci rendesti come pecore da macello, e ci hai dispersi tra le nazioni.

12. Hai venduto il tuo popolo per nessun prezzo, e non a gran pregio lo alienasti.

13. Ci hai renduti oggetto di obbrobrio pe’ nostri nemici, favola e scherno de’ nostri vicini.

14. Hai fatto sì che siamo proverbiati dalle nazioni, e siamo il ludibrio de’ popoli.

15. Ho dinanzi a me tutto il giorno la mia ignominia, e la mia faccia di confusione è coperta,

16. In udendo il parlare di chi mi svitupera, e mi dice improperii, in veggendo il nimico e il persecutore.

17. Tutte queste cose sono cadute sopra di noi e non ci siamo dimenticati di te, e non abbiamo operato iniquamente contro la tua alleanza.

18. E il nostro cuore non si è ribellato, e non hai permesso che declinassero dalla via i nostri passi;

19. Mentre tu ci hai umiliati nel luogo dell’afflizione, e ci ha ricoperti l’ombra di morte.

20. Se noi abbiam dimenticato il nome del nostro Dio, e se abbiamo stese le mani a un Dio straniero,

21. Non farà egli Iddio ricerca di tali cose? Imperocché egli conosce i segreti del cuore. Ma per tua cagione siam tutto dì messi a morte, siamo stimati come pecore da macello.

22. Levati su, perché se’ tu addormentato o Signore? levati su, e non rigettarci per sempre.

23. Per qual ragione ascondi tu la tua faccia, ti scordi della nostra miseria e della nostra tribolazione?

24. Imperocché è umiliata fino alla polvere l’anima nostra, stiamo prostrati col ventre sopra la terra.

25. Levati su, o Signore, soccorrici; e liberaci per amor del tuo nome.

Sommario analitico

Il salmista ricorda al Signore le sue antiche bontà ed i prodigi che Egli ha operato per stabilire Israele nelle terra di Canaan, ed espone le calamità dalle quali il popolo di Dio è stato provato. I martiri dell’antica e della nuova Legge, di cui gli Israeliti perseguitati erano la figura, fanno qui quattro cose.

1° Egli afferma:

I. – Prima di descrivere le terribili prove alle quali Dio aveva permesso che i suoi fedeli servitori venissero esposti, il Profeta ricorda le prove eclatanti della protezione che aveva loro dato nei tempi antichi.

1° Affermano la certezza della cosa ed indicano i tempi in cui queste meraviglie sono state operate (2); 2° Celebrano la grandezza della vittoria, la rovina completa dei loro nemici, al posto dei quali Dio li ha stabiliti (3); 3° Proclamano che Dio solo, e non l’uomo, è l’autore di questa vittoria (3).

II. – Enuncia le virtù eroiche dei martiri, dei quali racconta le persecuzioni e le sofferenze:

1° La fede che, disprezzando tutti i falsi dei, si è rivolta al solo vero Dio, loro Re e loro Salvatore (4); 2° la speranza, che è fidata unicamente del soccorso che attendevano da Dio che, dando loro la salvezza, li colmerà di gioia (5-7); 3° la carità, che fa riporre solo in Dio il loro amore, la loro gloria, e l’oggetto delle loro lodi per l’eternità (8).

III. – Enumera le prove, le sofferenze dei martiri.

Nei beni dell’anima, a) la sottrazione dei soccorsi sensibili che Dio ha loro accordato (9); b) il timore del supplizio che li ha forzati a fuggire davanti ai loro nemici (10).

Nei beni della fortuna, a) la perdita delle loro ricchezze (11); b) la perdita della patria con l’esilio (11); c) la perdita della libertà (12); d) la perdita della loro reputazione presso i vicini, come tra le nazioni più lontane (13, 14); e) e di conseguenza, l’onta, la confusione, gli oltraggi, le beffe (15, 16), senza che queste prove abbiano giammai loro fatto dimenticare Dio (17).

Nei beni del corpo, essi sono induriti dai tormenti così violenti ai quali sono stati esposti: – a) in questa vita, con il pericolo di fuoriuscire dalla via, essendo le loro sofferenze così grandi e la morte presente (18, 19); – b) nell’altra con pericolo della dannazione eterna, perché Dio punisce ogni pensiero interiore criminoso, così come gli atti esteriori (20, 21), doppio danno di cui egli indica la causa, i supplizi che induriscono per Dio, e la morte cruenta alla quale essi sono destinati.

IV. – I martiri implorano il soccorso di Dio:

1° essi chiedono a Dio di venire in loro soccorso: – a) levandosi dal suo trono e uscendo dal suo sonno apparente nei loro riguardi (22); – b) mettendo un termine alle loro calamità; – c) mostrando loro un volto favorevole (23); – d) ricordandosi delle loro afflizioni.

2° Essi danno a Dio una doppia ragione in appoggio della loro preghiera: – a) la loro estrema miseria (24); – b) la gloria di Dio e del suo nome che è interessato al soccorso che essi implorano (25).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3.

ff.1. – Se non era tanto il dire: « noi abbiamo ascoltato », è sufficiente dire pienamente: « Noi abbiamo sentito con le nostre orecchie »? Perché dunque aggiungere: « Noi abbiamo sentito con le nostre orecchie »? È per farvi comprendere che ciò che ci giunge, arriva alla nostra anima, e che le sue facoltà sono ben superiori ai sensi del corpo. Ecco perché nostro Signore diceva: « … chi ha orecchie intenda »; perché c’è chi ha orecchie che non possono comprendere i misteri (S. Ambr. su questo Psalm.). – Prestate qui l’orecchio, voi che non avete cura dei vostri figli, e che lasciate loro cantare dei canti ispirati dal demonio e che non avete se non disprezzo per le sacre recite. Tali non erano i Maccabei: essi trascorrevano la loro vita ad ascoltare la recita dei grandi avvenimenti dei quali Dio era l’autore, ed essi ne ricevevano un doppio vantaggio: coloro che erano stati l’oggetto di questi benefici trovavano nel loro ricordo un motivo per diventare ancor migliori, mentre i loro figli in queste recite acquisivano una conoscenza più profonda di Dio e si sentivano eccitati ad imitare le virtù dei loro padri. I libri santi erano per essi come la bocca degli autori dei loro giorni, e in tutte le loro scuole, in tutte le istituzioni si insegnavano queste recite, che nulla sorpassava in gradevolezza ed utilità. (S. Chrys.). – Apprendere dai nostri padri ciò che essi stessi hanno appreso dai loro, è la perpetua trasmissione della verità. « Ritenete, dice San Paolo a Timoteo, ciò che avete appreso da me; datelo come deposito a degli uomini fedeli, che siano essi stessi capaci di istruirne altri » (I Tim. II, 2). È ciò che forma la sacra catena della Tradizione. – Tutte le opere di Dio sono ammirabili, ma l’opera per eccellenza che il Salmista, alla maniera dei profeti, considerava già compiuta, è il grande mistero dell’Incarnazione del Figlio dell’uomo, opera mirabile di cui il profeta Abacuc diceva: « Signore, ho udito la vostra parola e sono stato preso dal timore; Signore compite nei tempi la vostra opera. Voi la farete conoscere in mezzo ai tempi » (Abac. III, 2). – Questa opera è, come conseguenza necessaria dell’Incarnazione del Figlio di Dio, l’edificazione della sua Chiesa. Dio ha fatto un’opera in mezzo a noi, dice Bossuet, che staccata da ogni altra causa e non considerandosi che essa sola, riempie tutti i tempi e tutti luoghi e porta su tutta la terra, con l’impronta della sua mano, il carattere della sua autorità: è Gesù-Cristo e la sua Chiesa (Or. fun. d’Anne de Gonz.).

ff. 2, 3. – Forse i nostri padri hanno potuto compiere queste cose, perché erano forti, perché erano guerrieri, perché erano invincibili, perché erano addestrati e bellicosi? No, non è questo che i nostri padri ci hanno raccontato, non è questo ciò che dice la Scrittura. È la vostra destra, vale a dire, la vostra potenza, è il vostro braccio, cioè lo stesso vostro Figlio. E cosa vuol dire: « La luce, il riflesso del vostro volto »? Che voi li avete salvato, soccorsi con tali prodigi, che essi hanno compreso la vostra presenza. È quando Dio ci assiste con qualche miracolo, che noi vediamo il suo volto con i nostri occhi? No, senza dubbio, ma con il compiere il miracolo, Dio rivela la sua presenza agli uomini. Cosa dicono in effetti tutti coloro che ammirano con stupore questa serie di fatti? Io ho visto la presenza di Dio, e chiunque esaminava ciò che Dio faceva per essi, era concorde nel dire: Dio è veramente con essi, ed è Dio che li guida. (S. Agost.). – Come è bello vedere la Religione dei nostri padri mantenersi dall’inizio, sopravvivere a tutte le sette e, malgrado le diverse fortune di coloro che ne hanno fatto professione, trasmettersi sempre da padre in figlio senza poter mai essere cancellata dal cuore degli uomini! Non è un braccio di carne che l’ha conservata. Ah! Il popolo fedele è quasi sempre stato debole, oppresso, perseguitato. No, non è con la spada – come dice il Profeta – che i nostri padri presero possesso della terra. Benché schiavi, benché fuggitivi, benché tributari delle nazioni … questo popolo così debole, oppresso in Egitto, errante in un deserto, trasportato in cattività in terre straniere, non ha mai potuto essere sterminato, mentre altri più potenti hanno seguito il destino delle cose umane; ed il suo culto è sempre sussistito con esso, malgrado tutti gli sforzi che ogni secolo ha fatto per distruggerli (Massili., Vérité de la rel.). – Due sono le verità di cui essere egualmente convinti per vincere nel combattimento che dobbiamo sostenere durante tutta la nostra vita: 1° fare tutto ciò che noi possiamo; 2° non riporre la nostra fiducia nelle cose che avremmo fatto, e riconoscere, con umiltà e verità, che Dio ci ha salvato, perché a Lui è piaciuto amarci (Duguet).

II. — 4-8.

ff. 4, 5. – È eccessivamente raro il non riconoscere altro re che Dio, vale a dire, altro protettore, e che si metta in dubbio tutta la propria fiducia, o la maggior parte di essa e delle proprie speranze (Dug.). – Dio ha dato delle corna ad un gran numero di animali, affinché essi possano difendersi dagli attacchi di altri animali feroci, ma l’uomo non è armato da queste difese. Come può dunque respingere e disperdere i propri nemici? Signore Gesù, Voi siete il nostro potente corno, perché la fede ha le sue corna che essa riceve da Gesù-Cristo; cosa che fa dire a Mosè, parlando di Giuseppe, figura di Gesù-Cristo (Deuter. XXXIII, 16, 17): « Che la benedizione di Colui che appare nel roveto venga sulla testa di Giuseppe e sulla testa del primo dei suoi fratelli. La sua bellezza è la bellezza del toro primogenito, le sue corna come le corna di bufalo; con esse abbatterà i popoli e li scaccerà fino alle estremità della terra » (S. Ambr.). –

ff. 6-8. – Se non è né l’arco, né la spada che vi salvano, perché servirvi di queste armi? Perché rivestirvene? Perché io ho ricevuto l’ordine da Dio di farne uso; del resto, io rimetto tutto nelle sue mani. È così che Dio insegnava loro a combattere i nemici visibili, sotto la protezione del soccorso dall’alto. È nello stesso modo che occorre combattere i nemici spirituali ed invisibili. Quando siete in guerra con il demonio, dite anche allora: « … io non metto la mia fiducia nelle mie armi, cioè nella mia virtù, nella mia giustizia, ma nella misericordia di Dio » (S. Chrys.). – Se nella guerra contro i nemici della patria non si può sperare il successo senza il soccorso della Provvidenza, cosa sarà della guerra contro i nemici della salvezza? C’è ancora più proporzione tra le forze di un principe e quelle della potenza che l’attacca, che tra le forze della nostra anima e quelle degli avversari che vogliono perderla. « Noi non dobbiamo combattere – dice l’Apostolo – con la carne ed il sangue, ma con le potenze delle tenebre e gli spiriti malvagi » (Efes. VI, 12). Così le armi che ci ordina di prendere, sono tali come aggiunge in un altro punto: « le armi di Dio stesso, la verità, la giustizia, lo scudo della fede, la spada della salvezza, etc. ». Egli non mette in questa armatura i nostri sforzi, i nostri studi, le nostre risoluzioni, le nostre precazioni. Queste cose ci sono necessarie; ma esse saranno senza effetti se ci manca l’armatura di Dio, e se abbiamo questa armatura, tutto ciò che è in noi diventerà invincibile. Tutti i pezzi di questa armatura, se posso esprimermi così, hanno la loro utilità; tutti sono necessari nella guerra spirituale; ma la più essenziale di tutti è la fede con cui ci sarà possibile estinguere tutti i dardi infiammati dei più irriducibili e malefici dei nostri nemici; la nostra vittoria dipende dalla fede, dal vigore della fede; e cos’è questo vigore? – È la persuasione intima che Dio sia con noi, per noi, in noi. Vigore della fede che dovrebbe essere nei Cristiani, ben superiore a quella di tutti i grandi uomini dell’Antico Testamento, poiché Dio ci ha detto tutto per mezzo del suo Figlio, poiché questo Figlio unico ha vinto il mondo e tutte le potenze delle tenebre (Berthier).

III. 9 — 21.

ff. 7, 8. – Vi sono due tipi di confusione: l’una salutare, per i giusti, quando Dio permette che essi abbiano a provarne qualcuna; l’altra funesta, per i peccatori, e che è d’ordinario l’inizio della confusione eterna nella quale saranno gettati.

ff. 9. – « È in Dio che riporremo la nostra gloria ». Che l’uomo opulento metta la sua gloria nelle sue ricchezze, l’uomo sensuale nei suoi splendidi festini, i voluttuosi nelle opere delle tenebre, l’uomo potente in questa via ove si contano le notti; ma l’anima santa, si glorifica, non in questa vita, ma in Dio, perché essa desidera soprattutto essere gradita a Dio e poter dire: « … il Signore è la mia forza e la mia gloria » (Ps. CXVII, 14) (S. Ambr.).

ff. 10-16. – Questa descrizione viva e patetica dei mali ai quali dovranno essere esposti i Cristiani nelle diverse persecuzioni, conviene ugualmente alle tribolazioni delle anime afflitte dai loro peccati o perseguitati dai loro nemici (Duguet). – « Voi avete venduto il vostro popolo per un niente ». Il contratto sembra rivestire una certa uguaglianza tra colui che compra e colui che vende; pure se voi considerate le disposizioni di spirito del compratore e del venditore, troverete che ordinariamente ognuno vende gli oggetti che hanno meno valore ai propri occhi, per comprare quelli più graditi. Così Dio ha venduto il suo popolo che stimava meno, per comprarne uno che per Lui possedeva maggior valore. Egli ha venduto questo popolo giudeo, non per un sentimento di rigore e di durezza, ma in seguito ai crimini di questo popolo, al quale il Profeta ha fatto questo giusto rimprovero (Isaia, 41): « Voi siete stati venduti a causa del vostro peccato ». È così che il popolo giudeo è stato venduto e che il popolo Cristiano è stato acquistato; l’uno è stato venduto per i suoi crimini, l’altro comprato con il sangue. «… Non è con oggetti corruttibili, come l’oro, l’argento, che siete stati comprati, ma con il sangue prezioso di Gesù-Cristo, sangue dell’Agnello puro e senza macchia. » (I Piet. I, 18, 19). Il popolo giudeo è quindi privo di prezzo, mentre il popolo Cristiano è prezioso nella stima di Dio (S. Ambr.). – Dio prova i suoi con l’avversità, dopo averli ricolmati di beni; questa alternativa di consolazioni e di prove non denota alcuna incostanza di Dio, ma solo le attenzioni della sua Provvidenza, con cui vuole esercitare e perfezionare la virtù dei suoi amici (Berthier). – Gli obbrobri, gli insulti, le beffe, sono spesso per la pietà, una tentazione molto pericolosa e dalla quale occorre difendersi. – Il « … cosa diranno », il rispetto umano, il timore di diventare la favola del mondo, è un’altra tentazione che viene dallo stesso principio, ed alla quale occorre applicare lo stesso rimedio (Dug.). – La grazia cambia l’orgoglio del peccatore in confusione salutare, gli ispira un sincero pentimento dei suoi peccati, e gli copre il volto di onta, di modo tale che egli non osa più comparire davanti agli uomini né davanti a se stesso. Ciò che vuole essere davanti a Dio, vuole esserlo davanti agli uomini: l’ultimo di tutti! – Il rimprovero più sensibile per un vero penitente è il rimprovero della sua coscienza. Se la fiducia nella bontà di Dio da un lato lo sostiene, questa stessa bontà lo deprime, rimproverandogli più vivamente la sua ingratitudine. Il suo peccato è il suo nemico ed il suo persecutore, con il quale non deve mai sperare di avere alcuna pace, finché non sia interamente distrutto.

ff. 17-19. – Felice l’uomo che in mezzo a tutte queste afflizioni, può dare testimonianza di non avere dimenticato il Signore, né violato la sua alleanza, né allontanato i passi dalla vera via, cioè dalla legge di Dio. – Sant’Agostino spiega così questo passaggio, sopprimendo la negazione: « … voi avete allontanato i nostri sentieri dalla vostra via ». In effetti, i nostri sentieri erano ancora quelli delle voluttà del mondo, i nostri sentieri portavano ancora alle prosperità temporali; voi li avete allontanati dalla vostra via che conduce alla vita. « … Voi avete allontanato i nostri sentieri dalla vostra via ». Cosa vuol dire: voi avete allontanato i nostri sentire dalla vostra via? È come se il Signore ci dicesse: voi siete messi in mezzo alle tribolazioni, soffrite numerosi mali, avete perso molte cose che amavate in questo mondo; ma Io non vi ho abbandonato in questa via, di cui vi indico gli stretti limiti. Voi cercate le strade larghe, ed Io cosa vi ho detto? Questo sentiero conduce alla vita eterna; per la strada nella quale invece voi volete camminare, andate verso la morte. « Quanto è larga e spaziosa la via che conduce alla morte, e quanti procedono in essa? Quanto è stretta e scomoda la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono coloro che la percorrono! » (Matth. VII, 13). Qual è questo piccolo numero? Quello degli uomini che sopportano le afflizioni, che sopportano le tentazioni, che in mezzo a tutti i dolori, non hanno ripensamenti né cadute; che non ricevono con gioia, se non per una sola ora, la parola di salvezza e si disseccano poi nel tempo dell’afflizione come al levar del sole, impiantati come sono sulle radici della carità. Siate dunque portati – vi dico – sulle radici della carità, affinché il sole, levandosi, non vi bruci ma vi nutra. « Tutti questi mali si son abbattuti su di noi, ma noi non Vi abbiamo dimenticato, non abbiamo violato la vostra alleanza, e questo nostro cuore non si è tirato indietro ». Ma siccome noi non abbiamo fatto tutte queste cose se non in mezzo alle tribolazioni, camminando già nella via stretta, è certo che « voi abbiate allontanato i nostri sentieri dalla vostra via » (S. Agost.).

ff. 20, 21. – Nell’esaminarci con cura, noi scopriamo che abbiamo dimenticato un’infinità di volte il nome del Signore, che abbiamo alzato le mani verso gli dei stranieri – che sono il mondo ed i suoi falsi beni – … che non abbiamo pensato alla scienza infinita di Dio, che tiene conto di tutto, ed al Quale nulla può essere nascosto (Berthier). Dio conosce il segreto dei cuori. Quanto a noi, se vogliamo conoscere il nostro cuore e renderne conto a noi stessi, vediamo le nostre opere: il nostro cuore è buono, la nostra vita è buona; esso è cattivo se la nostra vita è conforme alle massime del mondo (Duguet). – « … È a causa vostra che noi siamo immolati ogni giorno ». Di fronte a sì gravi e numerosi pericoli, è per noi una consolazione sufficiente sapere il motivo per il quale noi soffriamo. Cosa dico? Una consolazione sufficiente? È una consolazione infinitamente superiore; perché, se noi soffriamo, non è per gli uomini, non per qualcosa di temporale, ma soffriamo per il sovrano Maestro dell’universo. In più, a questa ricompensa, si sommano altre varie numerose ricompense. Come la condizione imposta dalla natura agli Apostoli non permetteva loro di soffrire più di una morte, questo stesso limite non è assegnato ai beni che possiamo meritare. Anche se noi siamo ridotti a non morire che una volta, Dio ci ha dato la facoltà di morire ogni giorno con la volontà, se ci piace farlo. Così raccoglieremo tante corone dopo la nostra morte che noi abbiamo vissuto in tutti i giorni; noi ne raccoglieremo infinitamente di più, perché noi possiamo morire ogni giorno, due, tre, e tutte le volte che vogliamo. L’uomo che è sempre pronto a sacrificare la sua vita può contare su di una ricompensa che non lascerà più nulla da desiderare (S. Crhys. Omel. sull’Ep. ai Rom. 4).- Voi fate professione, come Cristiani, di mortificarvi ed umiliarvi, ma lo si fa incessantemente e malgrado tutto, nel mondo? E mentre vi mortificate potete dire a Dio, come Davide, « … è per Voi, Signore, è per Voi solo che siamo mortificati »; è per Voi, Signore, per Voi solo che noi soffriamo, il mondano non si riduce a tenere in senso opposto lo stesso linguaggio, dicendo al mondo: è per te, mondo riprovato, che io sono schiavo; è per te che io mi faccio violenza; è per te che io soffro e gemo, ed è ancora per te che ho ancora la sciagura, oltre tutto questo, di dannarmi (Bourd.). – « … perché Egli conosce i segreti dei cuori » . Che vuol dire: conosce i segreti? Quali sono questi segreti? « A causa vostra, noi siamo ostacolati ogni giorno, ci si guarda come pecore destinate al macello ». Voi potete veder mettere un uomo a morte, ma perché sia messo a morte, voi lo ignorate. Dio solo lo sa, la cosa è nascosta. Ma qualcuno mi dirà: quest’uomo è in prigione per il nome di Cristo, egli confessa il nome di Cristo. Ma gli eretici non confessano il nome di Cristo? Epperò essi non muoiono per Lui. Ed anche – io dico – in seno alla Chiesa Cattolica credete che non ci sia mai stato, o non possa esservi persona che soffra in vista della gloria umana? Se questo non fosse possibile, l’Apostolo non avrebbe detto: « Se anche dessi il mio corpo al rogo, e non avessi la carità, questo non servirebbe a nulla » (I Cor. XIII, 3). Sappiamo molto bene che ci sono uomini capaci di farlo per orgoglio, e non per amore. C’è dunque qualcosa di nascosto: Dio solo lo vede, noi non possiamo vederlo (S. Agost.).

IV. — 22-25.

ff. 22. – A chi ci si indirizza e chi si parla così? Non si creda piuttosto che a colui che dice: « Sorgete, perché dormite? », il profeta risponda: « Io so cosa dico, io so che Colui che custodisce Israele non dorme » (Ps. CXX, 4); ma ciò nonostante i martiri gridano: « Sorgete, Signore, perché dormite? » O Signore Gesù, Voi siete stato messo a morte, avete dormito durante la vostra Passione, ma già siete resuscitato per noi. A che serve la vostra resurrezione? Coloro che ci perseguitano credono che voi siate morto, e non credono che siate resuscitato. Sorgete dunque per essi. Perché dormite, non per noi, ma per essi? Se in effetti essi credessero che Voi siate resuscitato, potrebbero perseguitare coloro che credono in Voi? (S. Agost.). – Considerate che Gesù-Cristo non dorme allo sguardo dei peccatori, perché Egli sembra dormire per coloro per i quali non è resuscitato e che Egli rigetta per sempre … il Profeta aggiunge: « … perché voltate il vostro sguardo? » noi pensiamo che Dio volga da noi la sua faccia, quando cadiamo in una così grande afflizione per cui le tenebre avvolgono il nostro spirito e formano una nube impenetrabile ai raggi dell’eterna verità (S. Ambr.). – Troppo spesso vi siete lamentati, troppo spesso nel pieno dell’orazione, avete domandato a Dio perché dormisse e vi lasciasse senza assistenza. Ma non avrebbe potuto rispondere, come altre volte ai suoi discepoli: « Uomini di poca fede, da dove tanta diffidenza? » (Matt. VIII, 26). Ma volete che non sappia cosa debba fare, di cosa abbiate bisogno? Ciechi, lasciate agire la mia Provvidenza: posso a volte trattarvi come un padre rigido, ma mai un padre indifferente; credete che se la mia mano sa colpirvi, non sappia poi guarirvi? E che qualsiasi colpo il mio braccio vi infligga, non sia la mia saggezza che li regoli ed il mio braccio che li conduca? (De Boulogne: Sur la Prov.).

ff. 23. – Nessuno è povero, né miserabile, quando il Signore lo guarda e si ricorda di lui; perché infine la sofferenza, che è un male in se stesso, è un bene allo sguardo del giusto. Essa è come una semenza, è la messe di grazia che si raccoglie all’ultima ora eternamente. Anche Dio non gira il suo sguardo e non dimentica la povertà e l’afflizione dei suoi, quando dà loro la pazienza per sopportarli (Duguet). – Perché dimenticate la nostra povertà? Egli non dice: perché dimenticate le nostre buone azioni, la nostra inviolabile fedeltà, la nostra anima irriducibile in mezzo alle prove? Tale è il linguaggio di coloro che vogliono giustificarsi. Ma quando coloro che chiedono soccorso, portano in appoggio delle loro preghiere le ragioni di cui si servono i colpevoli, essi hanno, dice il salmista, sufficientemente espiato i loro crimini, per l’estremo a cui sono ridotti (S. Giov. Crys.).

ff. 24-25. – È questo stato di umiliazione, al di sopra del quale non c’è nulla di così potente ed infallibile onde ottenere tutto ciò che si domanda a Dio. In effetti, colui che prega in piedi può umiliarsi piegando le ginocchia; colui che prega in questa posizione può prostrarsi a terra; ma colui che prega così prosternato non può scendere ad un grado più basso di umiliazione. Ora l’uomo può essere umiliato fino a terra, con il cuore ed il corpo, se pensa, comprende e confessa che è solo polvere, come Abramo quando diceva. « Io parlerò al mio Signore, benché sia polvere e cenere » (Gen. XVIII). Egli è umiliato nel corpo, e prega prosternato come Nostro Signore Gesù-Cristo, che nell’orto degli ulivi si mise in ginocchio e cominciò a pregare, e cadde poi col viso a terra (Bellarm.). – Occorre chiedere il soccorso di Dio non riguardo a se stessi, né per i propri interessi, ma unicamente a gloria del Nome di Dio.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: FESTA DEL SANTO ROSARIO

FESTA DEL SANTO ROSARIO.

[Da: I Sermoni del Curato d’Ars, trad. it. di Giuseppe D’Isengard, vol. IV, Torino, libreria del Sacro Cuore – 1907]

Dicit discipulo: Ecce mater tua.

Gesù dice al discepolo: Figlio, ecco tua Madre.

(S. GIOVANNI XIX, 27).

Son pur dolci e consolanti queste parole, fratelli miei, per un Cristiano, che può intender tutta l’estensione d’amore che vi è racchiusa? Sì, Gesù Cristo, dopo averci dato tutto ciò che poteva darci, cioè i meriti di tutte le sue fatiche, de’ suoi patimenti, della sua morte dolorosa, ah! (debbo ricordarlo?) il suo Corpo adorabile e il suo Sangue prezioso a nutrimento delle anime nostre, vuole ancora farci eredi di ciò che gli resta di più prezioso, cioè della sua SS. Madre. Non par che le dica: « Madre mia, io debbo tornarmene al Padre e lasciare i miei figli; il demonio farà quanto gli sarà possibile per perderli; ma mi consola il pensiero chi; voi ne avrete cura, li difenderete, li conforterete nelle loro pene ? » E la SS. Vergine dal canto suo non gli dice: « No, Figliuol mio, non cesserò mai d’averne cura, finché sian giunti nel vostro regno, in quel regno che avete loro acquistato coi vostri patimenti » Ah! qual bella sorte per noi, miei fratelli! Quale aiuto e quale speranza abbiamo in Maria per vincere il demonio, le nostre passioni ed il mondo! « Con tal guida, «lice S. Bernardo, non è possibile fuorviare; con tal protezione è impossibile perire ». Oh! miei fratelli, come vive sicuro chi ha vera confidenza nella SS. Vergine! Tutte le feste della Santissima Vergine ci annunziano qualche nuovo benefizio del cielo. La sua Concezione, la sua Natività, la sua Presentazione al Tempio, la sua Visitazione a S. Elisabetta, la festa de’ suoi Dolori e finalmente la sua Assunzione; ma possiam dire che la festa del S. Rosario è come un compendio di tutte le grazie che Dio le ha accordate nel corso della vita, e ci ricorda che il suo divino Figliuolo ha messo tra le sue mani tutti i suoi tesori. Vogliam noi dunque, fratelli miei, divenir ricchi dei beni celesti? Andiamo a Maria, e in Lei troveremo tutte le grazie che possiamo desiderare: grazia d’umiltà, di purezza, di castità, d’amor di Dio e del prossimo, di dispregio della terra e di desiderio del cielo. Ma per meglio convincervene, vi dimostrerò: 1° Che tutte le grazie ci vengono per mezzo di Lei; 2° che tutte le Confraternite istituite in suo onore, e quella del santo Rosario in particolare, ci attirano le grazie più copiose.

I. — In tre diversi stati abbiano bisogno d’un aiuto potente. Il primo è lo stato in cui siamo nel tempo della nostra vita sulla terra, ove il demonio citende senza posa mille insidie per ingannarci e perderci. Il secondo è quello in cuisaremo quando compariremo dinanzi al giudice, e renderemo conto d’una vita, che sarà forse una catena di peccati. Finalmente il terzo stato sarà quello in cui ci troveremo, quando, dopo essere stati giudicati, dovremo forse passare, una lunghissima serie d’anni tra le fiamme del purgatorio. Ab! guai a noi se in questi vari stati non avessimo la SS. Vergine che venisse in nostro aiuto per sollecitare a favor nostro la misericordia del suo Figliuolo? Ma saremo certi d’averla con noi, se, nel corso della nostra vita, avemmo in Lei grande confidenza, e abbiam cercato d’imitarne le virtù colla maggior possibile fedeltà.

1° Dico che la nostra vita è una catena di miserie, di malattie, di affanni e di mille altre pene, il che ci dipinge sì bene lo Spirito santo per bocca del santo Giobbe: « L’uomo… soffre assai » (Giob. XIV, 1). Ma senza rifarci sì addietro, entriamo nel nostro cuore, e vedremo famiglie di peccati, che senza posa vi nascono. Infatti nel corso della nostra vita quanti cattivi pensieri ci molestano, e quanti cattivi desideri che spesso non vorremmo avere; quanti pensieri d’odio, di vendetta, di superbia, di vanità; quante mormorazioni nelle piccole afflizioni che Dio ci manda; quanta svogliatezza nel servizio di Dio, anche nel tempo della Messa, tempo così prezioso nel quale Gesù Cristo si immola per noi alla giustizia del Padre suo! E quante volte ci sentiamo quasi trascinati dai cattivi esempi di coloro che ci stanno intorno, e soprattutto dalla loro condotta assolutamente empia e mondana? Ma, senza uscir di noi stessi, i nostri sensi non sono come tante corde, che, quasi contro il nostro volere, ci trascinano al male? Quindi concludo che, se siam soli a combattere, ci riesce difficilissimo sfuggire al pericolo. Ecco un esempio che ce lo dimostrerà chiaramente. – S. Filippo Neri meditava un giorno sul pericolo continuo in cui siamo di perderci; e si meravigliava, che, inclinati come siamo da noi medesimi al male, fossimo di più circondati da tanti e sì cattivi esempi. Uscì una volta in un luogo appartato per meglio piangere liberamente. Credendosi solo cominciò a gridare: « Ohimè! mio Dio, son perduto! Son dannato! ». Qualcuno, avendolo udito, corse a lui, e gli disse: « Padre mio, vi lasciate andare alla disperazione? Sapete pure che la misericordia di Dio è infinita! » — « Oh! no, non dispero, amico mio, anzi spero assai; ma il pensiero che son solo a combattere, mi spaventa, poiché vedo tanti pericoli che mi circondano ». Ditemi, fratelli miei, come potremo sfuggire a tanti agguati che il demonio, il mondo e le passioni ci tendono? Ohimè! Se siam soli a combattere, se non abbiamo qualche potente, che venga a darci aiuto, abbiamo ragione di temere che non ne verremo mai a capo! E a tal fine che cosa potrem trovare più efficace a vincere i nostri nemici che la santissima Vergine? Disgraziati come siamo, abbiam pure molteplici aiuti. Udite S. Bernardo (Homil. 2 super Missus est, 17): « Figliuoli miei, siete tentati? Invocate Maria in vostro aiuto, e il tentatore scomparirà. Essa è la Vergine impareggiabile che ha dato al mondo Colui da cui il demonio fu posto in catene. Siete tra le afflizioni? Riguardate Maria: è la consolatrice degli afflitti, ed è pur la Madre dei dolori, poiché la sua vita fu tutta un mare d’amarezze. Siete assaliti dal demonio dell’impurità? Gettatevi ai piedi di Maria. Troppo a cuore le sta conservarvi questa bella virtù sì gradita al suo Figliuolo ». Diciamo più ancora che, con l’aiuto di Maria, basta che vogliam vincere per essere sicuri di riuscir di fatto vittoriosi. Oh! miei fratelli, siam pure avventurati d’aver tanti mezzi per procurar la nostra salute, purché sappiamo profittarne! Ohimè! quante anime, senza la protezione di Maria, sarebbero adesso a bruciare nell’inferno!

2° Abbiam veduto, fratelli miei, che nel corso della nostra vita siam circondati da mille pericoli, che minacciano di trarci a perdizione; ma in ricambio abbiamo grandi aiuti per vincere. Quando usciremo da questo mondo, andremo a rendere conto a Dio di tutte le opere nostre. E terribile quel momento, che deve decider della nostra sorte, del paradiso o dell’inferno, senza appello, senza speranza di mutar mai la nostra sentenza. Il demonio, che ne conosce i rischi meglio che noi, raddoppia i suoi sforzi per trarci in inganno; perché, se riesce a guadagnarci, ci strascina tosto all’inferno. Il pensiero di questo terribile momento ha mosso tanti grandi del mondo ad abbandonar tutto e andare a passare il resto della loro vita nelle lacrime e nei rigori della penitenza, per aver così qualche speranza in quel momento così formidabile al peccatore. Vedete S. Ilarione, S. Arsenio. Ah! miei fratelli, che sarà di noi che sarem tutti carichi di peccati, e non avremo fatto nulla di bene ?… Potrà tuttavia rassicurarci il pensiero, che, mentre saremo dinanzi al tribunale di Gesù Cristo, gran numero d’anime pregherà chiedendo grazia per noi: aggiungo anzi che la SS. Vergine presenterà le nostre anime al suo Figliuolo, nostro giudice. Oh! miei fratelli, quale speranza per noi in quel momento terribile!

3° Quando quel momento formidabile sarà passato, sebbene giudicati degni del cielo, quanti anni dovremo soffrire nel purgatorio, ove la giustizia di Dio si fa sentire con tanto rigore! Ma, ditemi, qual maggior consolazione per un Cristiano tra quelle fiamme, che sapere e sentire offerirsi per lui sì potenti preghiere, e vedere scorrer rapidamente il tempo della sua pena?

II. Possiam dire, fratelli miei che tutte le Confraternite, istituite dalla Chiesa, sono mezzi che Dio ci dà per aiutarci a procurar la nostra salute, e mezzi tanto più efficaci, in quanto i membri, che le compongono, siano sulla terra, siano in cielo, uniscono insieme le loro preghiere. Ciascuna Confraternita ha un fine particolare. Quelli che sono ascritti alla Confraternita del SS. Sacramento si propongono di risarcire Gesù degli oltraggi che gli si fauno nel ricevere i Sacramenti, e soprattutto nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia. Si uniscono per far ammenda onorevole a Gesù Cristo per tante comunioni e confessioni sacrileghe; devono pure far penitenze, elemosine… Gli ascritti alla Confraternita del Sacro Cuor di Gesù, vogliono compensare il divino Maestro del disprezzo che si fa del suo amore per gli uomini. Devono far di spesso atti d’amor di Dio. e condolersi con Lui, perché gli uomini amano sì poco Colui che ci ha tanto amato. Gli aggregati alla Confraternita della S. Schiavitù mettono tra le mani della SS. Vergine tutte le loro azioni, perché le offra al suo divino figliuolo: si considerano come non più appartenenti a se stessi, ma assolutamente alla SS. Vergine. Nella Confraternita del S. Scapolare, ci rechiamo ad onore di portar su noi un segno, per cui riconosciamo che Maria è nostra Sovrana, e noi le apparteniamo in modo particolarissimo. Dal canto suo Maria s’impegna a non negarci mai la sua protezione, nel corso della vita e all’ora della morte. La Confraternita poi del S. Rosario èuna delle più estese. È stabilita, per dir così, in tutto il mondo cattolico, e la compongono i Cristiani più ferventi. Possiam dire che chi ha la sorte d’essere ascritto a questa santa Confraternita, ha in tutti i punti del mondo anime che pregano per la sua conversione, se sgraziatamente è in peccato, per la sua perseveranza se ha la bella sorte d’essere in grazia di Dio, e per la sua liberazione se è tra le fiamme del purgatorio. Dovrebbe bastar questo solo a farci sentire quanto aiuto ne abbiamo per operare la nostra salute. Il Rosario ècomposto di tre parti, consacrate ad onorare i tre diversi stati della vita di Nostro Signor Gesù Cristo. La prima parte e indirizzata a d onorare la sua Incarnazione, la sua Natività, la sua Circoncisione, la sua fuga in Egitto, la sua Presentazione, il suo smarrimento nel tempio. In questa parte del Rosario, bisogna domandare a Dio la conversione dei peccatori e la perseveranza dei giusti. La seconda parte si propone di onorare la sua vita sofferente e la sua morte dolorosa sulla croce, chiedendo le grazie necessarie per gli afflitti, per gli agonizzanti e per quelli che sono sul punto di comparire al tribunale di Dio e rendervi conto della propria vita. La terza è consacrata ad onorare la sua vita gloriosa, pregando per la liberazione delle anime del purgatorio. Sì, miei fratelli, tutti questi misteri ben meditati sarebbero capaci di muovere anche i cuori più induriti, e strapparne le più inveterate abitudini. Dico primieramente che nella prima parte chiediamo a Dio la conversione dei peccatori e la perseveranza de’ giusti. Infatti dacché siamo in peccato, non possiamo aspettarci che l’inferno: la fede in noi a poco a poco si spegne, diminuisce l’orrore alla colpa e si affievolisce il pensiero del cielo; talché cadiamo in peccato quasi senza accorgercene; e (ciò ch’è sciagura anche maggiore) moltissimi provano piacere nel perdurarvi. Vedetene un esempio in David, che durò nel suo peccato finché venne il profeta a farlo rientrare in sé stesso (II Re, XII). Ebbene, fratelli miei, chi ci aiuterà ad uscire da quest’abisso? Noi stessi, no certamente, perché non conosciamo neppure il nostro stato; ora che accade? Mentre siamo in istato così miserando in tutti i luoghi della terra gran numero d’anime pregano per chiedere a Dio che abbia pietà di noi; ed è impossibile ch’Egli non si lasci piegare da quest’unione di preghiere. Quanti rimorsi di coscienza, quanti buoni pensieri, quanti buoni desideri, quanti mezzi ci si offrono per farci uscir dal peccato! Non ci fa stupore il vedere d’aver potuto rimanere in istato così infelice, e che ci metteva a rischio di perderci ad ogni momento? Se ci danniamo essendo ascritti a questa Confraternita, bisognerà che per questo ci facciamo tanta violenza quanta dovremmo farcene per salvarci: così grandi e copiose vi son le grazie e gli aiuti! E ciò che deve anche consolarci è il sapere che, di giorno e di notte, non v’è momento in cui non si preghi per noi: come sarà dunque possibile rimanere in peccato e dannarci? Diciamo altresì che questa parte si offre a Dio per chiedergli la perseveranza di quelli che hanno la bella sorte di essere in grazia sua. Ma, miei fratelli, quando noi avessimo questa buona ventura, non per questo dobbiamo crederci assolutamente salvi: il demonio non lascia di tornare per indurci al male, se può. Quante volte non ci siam trovati in mezzo a così grandi pericoli che siamo altamente stupiti di non aver dovuto soccombere! Ah! la causa vera della nostra resistenza è che, mentre eravamo tentati, v’era un numero d’anime, per così dire, infinito, che con le loro preghiere, con le loro penitenze, con le loro sante Comunioni agli sforzi del demonio opposero un’impenetrabile baluardo! – Un’altra ragione che ci prova quanto gradita a Dio e alla sua SS. Madre, e terribile al demonio sia questa Confraternita, è il disprezzo in cui la tengono i cattivi. Vedete quegli scherzi, quelle beffe sopra una pratica pia, che ci mette dinanzi agli occhi i misteri della nostra santa religione più commoventi e più capaci di allontanarci dal male e muoverci verso Dio. Ne volete la prova? Udite il demonio in persona. Un giorno, per bocca d’un ossesso disse che la SS. Vergine è la sua più crudele nemica, che senz’Ella già da lunga pezza avrebbe rovesciato la Chiesa, e che gran numero d’anime che sperava aver in suo potere, gli erano strappate, appena ricorrevano a Lei. Riconoscete con me, fratelli miei, che è grande felicità l’essere ascritti a sì santa Confraternita, poiché Dio ha promesso alla SS. Vergine di non negarle mai nulla. Se Mosè ottenne il perdono a trecento mila persone (Es. XXXII), che non potrà la SS. Vergine, ch’è ben più gradita a Dio di Mosè? E non soltanto prega per noi la SS. Vergine, ma innumerevoli anime gradite quanto Mosè. Se vediamo tanti peccatori, che vissero soltanto per offendere Iddio, pure andar salvi, non ne cerchiamo altra cagione che la devozione alla SS. Vergine. Ah! miei fratelli, trova pur agevole la sua salute chi ricorre a Maria!… Ma per farvi intender meglio quanto siano consolanti pel Cristiano questi misteri, attentamente meditati, ve li spiegherò, e dovrete necessariamente ringraziare Iddio, che vi ha messo in cuore il pensiero d’entrare in codesta santa Confraternita. Il santo Rosario è composto di quanto v’ha di più commovente. È una pratica pia che ha relazione non meno con Gesù Cristo che con la sua SS. Madre. Inoltre è impossibile che, chi medita sinceramente questi misteri, rimanga nel peccato; da qualunque lato si consideri questa pratica, tutto ne dimostra l’eccellenza e l’utilità. Quando si prega la santa Vergine, non si fa altro che incaricarla di offrire al suo divin Figliuolo le nostre preghiere, perché siano meglio accolte, eci ottengano maggiori grazie. Maria è il canale per cui facciamo salire al cielo il merito delle nostre opere buone, e che poi ci trasmette le grazie celesti. Il sapere ch’Ella è sempre attenta ad ascoltare le nostre suppliche, deve impegnarci a rivolgerci a Lei con grande fiducia. Eccone una prova. Un giorno S. Domenico gemeva sul progredire dell’empietà nel mondo, e sulla fede che si perdeva ogni giorno più. Prostrato dinanzi a un’immagine della SS. Vergine, le chiese, nella sua semplicità, qual rimedio dovesse usare per impedir la perdita di tante anime. L a SS. Vergine gli apparve, dicendogli che se voleva ricondur anime al suo Figliuolo, unico mezzo era ispirare gran divozione al santo Rosario: vedrebbe tosto i frutti di tal devozione. S. Domenico si mise dunque a predicar la devozione del santo Rosario, e innanzi tutto la praticò egli stesso, in breve tal pia pratica si diffuse, e così bene, che si ebbe gran numero di conversioni; la qual cosa fece dire al santo che aveva convertito maggior numero d’anime con una sola Ave Maria che con tutte le sue prediche (RIBADENEIRA al 4 d’Agosto). Certo la recita del Rosario è semplice, ma pure commovente più che altra mai. Si comincia col mettersi alla presenza di Dio per mezzo d’un atto di fede; si recita il Credo, che ci mette dinanzi agli occhi ciò che Gesù Cristo ha patito per noi…. È possibile recitar queste parole e non sentirsi tutti pieni di rispetto e di riconoscenza verso Dio, che ci dà tanti mezzi di tornare a Lui, se avemmo la mala sorte d’allontanarcene col peccato? – Nel Rosario i primi misteri, a cui si dà il nome di gaudiosi, e che meditiamo per la conversione de’ peccatori, ci rappresentano le umiliazioni e l’annientamento di Gesù Cristo, il suo Natale, la sua Circoncisione, la sua Presentazione al tempio, la sua fuga in Egitto, lo smarrimento di Lui nel tempio. Può forse, fratelli miei, trovarsi cosa piùcapace di commuoverci, di distaccarci da noi medesimi e dal mondo, di farci sopportare i nostri dolori con spirito di penitenza, che contemplare il divino modello nella meditazione di questi misteri? 1 santi non avevano altra occupazione. Due giovani studenti, riferisce la storia, erano sempre insieme intenti a meditare sulla vita nascosta di Gesù Cristo. Un d’essi, dopo la sua morte apparve all’altro, conforme alla promessa che gli aveva fatto, e gli disse ch’era in Paradiso per essersi comunicato con molto fervore e grande purità di coscienza: per avere avuto gran divozione alla SS. Vergine, cosa graditissima a Dio; e per avere meditato spesso la vita nascosta di Gesù Cristo e averla imitata quanto gli era stato possibile. Nella vita di S. Bernardo si narra che la SS. Vergine lo protesse sempre in modo così singolare che il demonio perdette su lui tutto il suo impero. Perduta la madre, mentr’era in giovanissima età, pregò Maria ad adottarlo qual figlio: appresso, crescendo sempre la sua divozione. Bernardo pregò la SS. Vergine a fargli conoscere che cosa doveva fare peresserle più gradito, e udì una voce che gli disse: « Bernardo, fìgliuol mio, fuggi il mondo, e cerca rifugio in qualche solitudine: là ti santificherai ». Ed ei vi passò tutta la vita nella penitenza e nelle lacrime; e dalla solitudine salì al cielo. Vedete che gli valse la fiducia nella SS. Vergine? Si legge nella vita di S. Margherita da Cortona, che tutta la sua divozione riponeva nell’imitare la vita povera e sconosciuta della santa Famiglia: non volle posseder mai cosa alcuna, neppure pel domani; fu abbandonata da tutti i suoi parenti ed amici, ma Dio n’ebbe cura. Faceva tutti i suoi esercizi devoti per onorare la santa Famiglia nella stalla di Betlemme, e bagnava il pavimento delle sue lacrime, quando pensava a quei misteri di povertà e d’abbandono. Morta che fu si aperse il suo cuore e vi si trovarono tre pietruzze, su cui erano scritti i nomi di Gesù, di Maria e di Giuseppe. Vedete quant’è gradita a Dio la meditazione di questi misteri? … Si narra pure cheun gran peccatore aveva passato la vita in ogni maniera di dissolutezze. All’ora della morte, poiché allora le cose si vedono ben diversamente che quando si è sani, riconoscendo d’aver fatto tanto male, si lasciò andare alla disperazione. S’ebbe bel fare per ispirargli fiducia nella misericordia di Dio; nulla poté vincerlo. Gli si parlò di S. Agostino. « Ma, rispondeva, S. Agostino non era ancora stato… (battezzato?) ». Gli si disse di ricorrere alla SS. Vergine, ma rispose che l’aveva disprezzata per tutta la vita; gli si ricordò che Gesù Cristo ha patito tanto per salvarci. — « È vero, rispose, ma io l’ho perseguitato e fatto morire ogni giorno ». Gli si disse ancora: « Amico mio, credete voi che un fanciullo in tenera età ricordi, divenuto adulto, i piccoli disgusti che gli si diedero nella sua infanzia? » — « No », rispose. « Ebbene, amico mio, andiamo al presepio, vi troveremo quel Bambino, che avete offeso, sì; ma vi dirà che ora non ricorda più nulla ». Il poveretto entrò in si grande fiducia e concepì dolore sì vivo de’ suoi peccati, che morì con segni manifesti del perdono di Dio. Vedete, miei fratelli, quanto sono gradite a Dio queste meditazioni, e come sono capaci d’attirar su noi le sue misericordie! – Non v’ha preghiera che ci avvicini alla vita di Gesù Cristo meglio che questa pia pratica. È tuttavia necessario che la nostra divozione sia illuminata e sincera, non divozione di mera abitudine o d’usanza. S. Cesario riferisce un esempio che deve farci intendere come la SS. Vergine non gradisca gran fatto queste divozioni non punto sincere. « Nell’ordine de’ Cistercensi v’era un religioso, che, facendo il medico, usciva contro il volere del suo superiore e del suo confessore. Ma, per una certa devozione che aveva a Maria, rientrava nel monastero in tutte le feste della SS. Vergine. Il giorno della Presentazione, mentr’era in coro cogli altri religiosi per cantare l’ufficio, vide la SS. Vergine passeggiar pel coro, e dare a tutti i religiosi un certo liquore, il quale li accendeva di tanto amore che non credevano d’esser più sulla terra: tali dolcezze gustavano! Giunta la santa Vergine vicino a lui, passò oltre senza dargliene, dicendo « che chi voleva andar in cerca delle dolcezze terrene, non meritava di gustare quelle del cielo; e che, sebbene tornasse al monastero i giorni delle sue feste, questo non le riusciva gradito ». Sentì così vivamente quel rimprovero, che si mise a piangere e promise di non uscir più. E perché aveva mantenuto la sua promessa, la SS. Vergine, quando riapparve un’altra volta, gli concesse l’istessa grazia che agli altri (Nella Patrologia latina, T. CLXXXV, 1077, può leggersi un fatto simile, forse quel medesimo avvenuto fra i Cistercensi – Nota degli editori francesi). Passò la vita in grande divozione alla SS. Vergine, e ne ricevette grazie segnalate; e non si saziava di ripetere che chi ama la Madre di Dio, riceve grandissimi aiuti per operare la sua salute e vincere il demonio. S. Stanislao aveva sì grande devozione verso la SS. Vergine, che la consultava in ogni sua cosa. Questo santo giovane immaginava spesso la felicità del santo vecchio Simeone nel ricevere tra le sue braccia il bambino Gesù. Un giorno, mentre stava pregando, gli apparve la SS. Vergine, che teneva in braccio il Bambino Gesù, e glielo diede per procurargli la stessa sorte beata. S. Stanislao lo prese, come il vecchio Simeone, e n’ebbe sì grande consolazione, che non poteva parlarne senza spargere abbondanti lacrime: tanto era pieno di gioia il suo cuore! Vedete, fratelli miei, com’è sollecita la SS. Vergine di ottenerci le grazie, che le domandiamo? Ah! miei fratelli, come assicureremmo bene la nostra salute, se avessimo grande fiducia nella SS. Vergine! Quanti peccati si eviterebbero, se si ricorresse ad essa in tutte le nostre azioni, se ogni mattina ci unissimo a Lei pregandola a presentarci al suo divino Figliuolo! – Se pensiamo al secondo gruppo di misteri, che chiamiamo dolorosi, quanti motivi efficaci e atti a commuoverci e a farci intendere l’amore infinito d’un Dio per noi! Infatti, fratelli miei, chi non si commuoverà vedendo un Dio che agonizza e bagna la terra del suo sangue adorabile? Un Dio legato, incatenato, gettato a terra da’ suoi nemici per liberarci dalla schiavitù del demonio? Chi non s’intenerirà nel vedere un Dio coronato di spine, che gli trafiggon la fronte, con una canna in mano, in mezzo ad un popolo che l’insulta e lo disprezza? Oh! chi potrà intendere tutti gli orribili trattamenti, che tollerò nel corso di quella notte spaventosa, che passò in mezzo agli scellerati? Fu legato ad una colonna, ove fu flagellato così crudelmente che il suo corpo era come un pezzo di carne tagliato a brandelli! O mio Dio, quante crudeltà avete sofferto per meritarci il perdono dei nostri peccati! O miei fratelli, chi di noi non temerà il peccato più della morte?… Oh! abbiam pur motivo di consolarci nei nostri patimenti, e ben giusta ragione di piangere i nostri peccati!… Un missionario, che predicava in una grande città, venne a sapere che in una segreta vi era un poveretto che si disperava; le sue lacrime e i suoi gemiti facevano fremere quei che l’udivano. Gli venne in pensiero d’andare a fargli una visita per consolarlo e offrirgli gli aiuti del suo ministero. Entrato nel carcere, anch’egli rimase sbigottito udendo i lamenti di quel povero sventurato, e riconobbe che, a confronto di ciò che vedeva, era nulla la pittura che gliene era stata fatta. Gli disse con bontà: « Caro amico, qual è la cagione del vostro dolore? » E poiché il prigioniero non rispondeva, il missionario gli disse: « Vi affligge forse la vostra condizione ? » — « No: merito ben di più ». — « Avete lasciato nel mondo qualcuno che soffre per cagion vostra? » — « No: nulla di tutto questo mi turba ». — « Vi affligge dunque il pensiero della morte? » — « No certamente: so bene che non dovrò viver sempre: o prima o poi la morte verrà purtroppo; purché io possa espiar le mie colpe, sarò felice. Ma giacché volete sapere la cagione delle mie lacrime, eccola ». E singhiozzando trasse di sotto le vesti un gran crocifisso e lo mostrò al missionario: « Ecco il perché delle mie lacrime. Oh! un Dio che ha patito tanto ed è morto per me, non ostante i miei peccati, può ancora perdonarmi? La grandezza dei suoi patimenti e del suo amore per me son cagione ch’io non posso frenar le lacrime. Dacché son qui tutti m’abbandonano: Dio solo pensa a me, e vuole ancora farmi sperare il paradiso. Ah! quant’è buono! E come mai ho potuto esser così sciagurato da offenderlo?… » Fratelli miei, riconoscete con me che se la meditazione di questi misteri ci commuove sì poco, è perché non vi facciamo attenzione. Mio Dio! Quale sciagura per noi!… Andando innanzi vediamo un Dio carico d’una pesantissima croce; vien condotto in mezzo a due ladri da una schiera di scellerati, che lo caricano degli oltraggi più atroci. Il peso della croce lo fa cadere a terra: lo rialzano a fiere pedate e a pugni, e anziché darsi pensiero dei suoi dolori, par che non pensi se non a consolare chi partecipa a’ suoi patimenti. Oh! potremo non sentirci commossi e trovar troppo pesanti le nostre croci, nel vedere che cosa soffre un Dio per noi? Occorre di più, per eccitarci a dolore de’ nostri peccati? Udite: l’inchiodano alla croce, senza che esca dalle sue labbra una parola con cui si lamenti di soffrir troppo. Udite le sue ultime parole: « Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno ». Non avevo ragione di dirvi che il S. Rosario ci mette dinanzi quanto v’ha di più efficace per muoverci a pentimento, ad amore, e a riconoscenza? Ohimè! Fratelli miei, chi potrà intender mai l’accecamento di codesti poveri empi, che spregiano una pratica pia così atta a convertirli, e così capace a darci forza di perseverare, se abbiamo la lieta sorte d’essere in grazia di Dio? – Parliamo adesso del terzo gruppo di misteri, a cui si dà il nome di gloriosi. Che cosa possiamo trovare di più stringente per distaccarci dalla vita e farci sospirare pel cielo? In questi misteri Gesù Cristo ci appare non più soggetto a patimenti, ma in atto d’entrare a possesso d’una infinita felicità, che ha meritato per tutti noi. Per farci concepire gran desiderio del cielo, vi ascende in piena luce, alla presenza d’oltre cinquecento persone (II Cor. XV, 6). Se continuate a meditar questi misteri, vedete la SS. Vergine, che il suo Figliuolo viene in persona a cercare seguito da tutta la corte celeste: gli Angeli appaiono visibilmente e intonano cantici di giubilo uditi da tutti gli astanti; la Vergine abbandona la terra, ove ha tanto patito, e va a raggiungere il suo Figliuolo per esser felice della felicità di Colui che tutti ci chiama e ci aspetta. Nella nostra santa Religione possiam forse trovar cosa, che meglio giovi a muoverci verso Dio e staccarci dalla vita? Ebbene, fratelli miei, ecco che cos’è il santo Rosario; ecco quella devozione che tanto si biasima e di cui si fa sì poco conto. Ah! bella Religione, se ti si disprezza, è davvero perché non sei conosciuta! Tuttavia non ci fermiamo qui; è pur necessario, imitar, quanto possiamo, le virtù della SS. Vergine per meritarne la protezione; specialmente la sua umiltà, la sua purità, la sua grande carità. Ah! padri e madri, se, per loro buona ventura, raccomandaste spesso ai vostri figliuoli questa divozione alla SS. Vergine, quante grazie otterrebbe loro questa Madre! Quante virtù praticherebbero! Vedreste nascere in essi quanto è più capace di renderli cari a Dio! No, miei fratelli, non potremo intender mai quanto desideri la Vergine santa d’aiutarci a conseguir la salute, e quanto grandi cure si prenda di noi! Un po’ di confidenza che s’abbia in Lei non resta mai senza ricompensa. Beato chi vive e muore sotto la sua protezione! Può ben dirsi che la sua salute è sicura, e che il Paradiso un giorno sarà suo! Questa felicità vi desidero!

7 OTTOBRE, vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2018/10/04/battaglia-di-lepanto/

https://www.exsurgatdeus.org/2017/10/07/la-battaglia-di-lepanto/

CONSACRAZIONE DI SE STESSO A GESÙ-CRISTO SAPIENZA INCARNATA, PER LE MANI DI MARIA.

CONSACRAZIONE DI SE STESSO A GESÙ-CRISTO SAPIENZA INCARNATA, PER LE MANI DI MARIA

ACTUS CONSECRATIONIS

96

Consécration de soi-méme à Jésus-Christ,

la Sagesse incarnée, par les mains de Marie

O Sagesse éternelle et incarnée! O très amiable et adorable Jesus, vrai Dieu et vrai Homme, Fils unique du Pére éternel et de Marie, toujours Vierge, je vous adore profondément dans le sein et les splendeurs de votre Pére, pendant l’éternité, et dans le sein virginal de Marie, votre très digne Mère, dans le temps de votre incarnation. Je vous rends gràces de ce que Vous vous étes anéanti vous mème, en prenant la forme d’un esclave, pour me tirer du cruel esclavage dù démon. Je vous loue et glorifie de ce que Vous avez bien voulu vous soumettre à Marie, votre sainte Mère, en toutes choses, afin de me rendre par elle votre fidèle esclave. Mais, hélas! ingrat et infidèle que je suis, je ne vous ai pas gardé les promesses que je vous ai si solennellement faites à mon baptème. Je n’ai point rempli mes obligations; je ne mérite pas d’ètre appelé votre enfant ni votre esclave, et comme il n’y a rien en moi qui ne mérite vos rebuts et votre colere, je n’ose plus par moi-mème approcher de votre très sainte et auguste Majesté. C’est pourquoi j’ai recours à l’intercession de votre très sainte Mère, que Vous m’avez donnée pour médiatrice auprès de vous; et c’est par ce moyen que j’espère obtenir de vous la contrition et le pardon de mes péchés, l’acquisition et la conservation de la sagesse. Je vous salue donc, ò Marie immaculée, tabernacle vivant de la Divinité, où la Sagesse éternelle cachée veut étre adorée des Anges et des hommes. Je vous salue, ó Reine du ciel et de la terre, à l’empire de qui est soumis tout ce qui est au-dessous de Dieu. Je vous salue, ò refuge assuré des pécheurs, dont la miséricorde ne manque à personne; exaucez les désirs que j’ai de la divine sagesse et recevez pour cela les voeux et les offres que ma bassesse vous présente. Moi N…, pécheur infidèle, je renouvelle et ratifie aujourd’hui entre vos mains les voeux de mon baptème. Je renonce pour jamais à Satan, à ses pompes et à ses oeuvres, et je me donne tout entier à Jésus-Christ. la Sagesse incarnée, pour porter ma croix à sa suite, tous les jours de ma vie. Et, afin que je lui sois plus fidèle que je n’ai été jusqu’ici, je vous choisis aujourd’hui, ò Marie, en présence de toute la Cour celeste, pour ma Mère et Maitresse. Je vous livre et consacre, en qualité d’esclave, mon corps et mon àme, mes biens intérieurs et extérieurs et la valeur mème de mes bonnes actions passées, présentes et futures, vous laissant un entier et plein droit de disposer de moi et de tout ce qui m’appartient, sans exception, selon votre bon plaisir, à la plus grande gioire de Dieu, dans le temps et l’éternité. Recevez, ó Vierge benigne, cette petite offrande de mon esclavage, en l’honneur et union de la soumission que la Sagesse éternelle a bien voulu avoir à votre maternité, en hommage de la puissance que Vous avez tous deux sur ce petit vermisseau et ce misérable pécheur, en action de gràces des privilèges dont la sainte Trinité vous a favorisée. Je proteste que je veux désormais, comme votre véritable esclave, chercher votre honneur et vous obéir en toutes choses. O Mère admirable, présentez-moi à votre cher Fils, en qualité d’esclave éternel, afin que, m’ayant racheté par vous, il me reçoive par vous. O Mère de miséricorde, faites-moi la gràce d’obtenir la vraie sagesse de Dieu et de me mettre pour cela au nombre de ceux que Vous aimez, que Vous enseignez, que Vous conduisez, que Vous nourrissez et protégez comme vos enfants et vos esclaves. O Vierge fidèle, rendez-moi en toutes choses un si parfait disciple, imitateur et esclave de la Sagesse incarnée, Jésus-Christ votre Fils, que j’arrive, par votre intercession et votre exemple, à la plénitude de son àge sur la terre et de sa gloire dans les cieux. Ainsi soit-il (S. L. M. Grignion de Montfort).

ATTO DI CONSACRAZIONE

Consacrazione di se stesso a Gesù-Cristo,

Sapienza incarnata, per le mani di Maria.

O Sapienza eterna ed incarnata! O amabilissimo ed adorabilissimo Gesù, vero Dio e vero Uomo, Figlio unico del Padre eterno e di Maria sempre Vergine, io vi adoro profondamente nel seno e negli splendori del Padre vostro, durante l’eternità, e nel seno verginale di Maria, vostra degna Madre, nel tempo della vostra Incarnazione. Io vi rendo grazie perché vi siete annientato prendendo la forma di uno schiavo, per trarmi dalla crudele schiavitù del demonio. Io vi lodo, vi glorifico perché avete voluto volentieri sottomettervi a Maria, vostra santa Madre in ogni cosa, alfine di rendermi per Ella vostro schiavo fedele. Ma ahimè! ingrato ed infedele qual sono, non ho mantenuto le promesse che vi ho così solennemente fatto al mio Battesimo. Io non ho adempiuto ai miei obblighi; io non merito di esser chiamato vostro figlio, né vostro schiavo, e siccome in me non c’è nulla che non meriti il vostro rigetto e la vostra collera, io non oso più da me stesso avvicinarmi alla vostra santissima ed augusta Maestà. È per questo che io ho ricorso all’intercessione della vostra Santissima Madre che mi avete dato per Mediatrice dopo di Voi; ed è per questo mezzo che io spero di ottenere da Voi la contrizione ed il perdono dei miei peccati, l’acquisto e la conservazione della Sapienza. Io dunque vi saluto, o Maria immacolata, tabernacolo vivente della Divinità, in cui l’eterna Sapienza nascosta vuol essere adorata dagli Angeli e dagli uomini. Io vi saluto, o Regina del cielo e della terra, al cui impero è sottomesso tutto ciò che è al di sotto di Dio. Io vi saluto, o rifugio sicuro dei peccatori, la cui misericordia non fa difetto per nessuno; esaudite i desideri che ho della divina Sapienza e ricevete per questo i voti e le offerte che la mia nullità vi presenta. Io, N…, peccatore infedele, rinnovo e ratifico oggi tra le mani vostre le promesse del mio Battesimo. Io rinunzio per sempre a satana, alle sue pompe e alle sue opere, e mi offro interamente a Gesù-Cristo, la Sapienza eterna, per portare la mia croce al suo seguito per tutti i giorni della mia vita. Ed perché alfine gli sia più fedele di quanto finora non lo sia stato, io vi scelgo oggi, o Maria, per Madre e Padrona mia. Io vi offro e consacro, in qualità di schiavo, il mio corpo e la mia anima, i miei beni interiori ed esteriori ed il valore stesso delle mie buone azioni passate, presenti e future, lasciandovi interamente il pieno diritto di disporre di me e di tutto ciò che mi appartiene, senza eccezione, secondo il vostro beneplacito, a maggior gloria di Dio, nel tempo e nell’eternità. Ricevete, o Vergine benigna, questa piccola offerta della mia schiavitù, in onore ed unione con la sottomissione che la Sapienza eterna ha voluto avere alla vostra maternità, in omaggio alla potenza che avete entrambi su questo vermiciattolo e miserabile peccatore, come azione di grazie per i privilegi di cui la Santissima Trinità vi ha favorito. Io protesto che voglio oramai, come vostro vero schiavo, cercare il vostro onore ed obbedirvi in tutte le cose. O Madre ammirabile, presentatemi al vostro caro Figlio, in qualità di schiavo eterno, affinché, essendomi riscattato per mezzo vostro, Egli mi riceva per Voi. O Madre di misericordia, fatemi la grazia di ottenere la vera sapienza di Dio e di mettermi per questo, nel numero di coloro che Voi amate, ammaestrate, conducete, nutrite e proteggete come vostri figli e vostri schiavi. O Vergine fedele, rendetemi in ogni cosa un sì perfetto discepolo, imitatore e schiavo della Sapienza incarnata, Gesù-Cristo vostro Figlio, che io arrivi, per vostra intercessione, alla pienezza della sua età sulla terra e della sua gloria nei cieli. Così sia.

(S. Luigi M. Grignion de Montfort)

Indulgentia plenaria suetis conditionibus die festo Immaculatæ Conceptionis B. M. V. ac die 28 apr. (Pius X, Rescr. Manu Propr., 24 dec. 1907, exhib. 22 ian. 1908; S. C. S. Officii, 7 dec. 1927).

[Ind. Plen. Nel giorno dell’Immacolata Concezione e il 28 Aprile (festa di S. Luigi M. Grignion De Montfort]

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. S. PIO X – “ACERBO NIMIS”

« Vi preghiamo e scongiuriamo, riflettete quanta rovina di anime si abbia per la sola ignoranza delle cose divine … » Ecco il grido accorato che il Pontefice Santo, Papa Pio X, emetteva alla fine della sua sapientissima lettera Enciclica Acerbo nimis, documento disatteso, per infingardia o per calcolata malizia, da molti di coloro ai quali esso era diretto. Oggi purtroppo ne constatiamo le tragiche e funeste conseguenze, perché è proprio sull’ignoranza, più o meno colpevole, del popolo cristiano, che la sinagoga di satana – il novus ordo – si è infiltrata nella Chiesa Cattolica devastandola con perniciose e false dottrine che dagli ignoranti, veri e finti prelati o pigri fedeli, non sono state combattute né eliminate col pretesto di una supposta obbedienza, non alla Legge divina, ma alle imposture diaboliche inoculate con le aberranti dottrine del conciliabolo c. d. Vaticano II. Non solo quindi si è disattesa la volontà del santo Pontefice, ma si sono agevolmente introdotte false dottrine e aberranti culti pseudo-liturgici (… la messa del baphomet-lucifero signore dell’universo …) senza che la maggior parte dei Cristiani “di faccia” abbia compreso né reagito di conseguenza, mettendo la propria anima in attesa di una dannazione sicura e meritata. La lettera Enciclica parla da sola nella sua veemente esposizione dei mali congiunti all’ignoranza religiosa, un tempo forse incolpevole, ma oggi assolutamente colpevole e condannata alla eterna riprovazione. Guai ai veri o finti pastori, ed ai loro fiancheggiatori laici, che hanno alterato, manipolato, falsamente presentato ed interpretato la dottrina cristiana, per aver derubato a Dio la gloria a Lui solo dovuta, dell’essere conosciuto, adorato e servito da tutti i Cristiani e da eventuali pagani o acattolici, tenuti lontani dal vero culto divino. È questo l’affronto più grave che si potesse e si possa fare al Creatore dell’universo e delle anime che dovevano dare gloria al Padre celeste sull’esempio del Figlio unigenito, … per Lui, con Lui ed in Lui … “Io non dividerò la mia gloria con nessuno” – dice tramite Isaia – il Dio delle schiere. Ed allora impavido pusillus grex, rimasuglio dei veri fedeli ed adoratori in spirito di Dio, studiamoci bene il Catechismo Cattolico (… quello vero naturalmente, quello del sacrosanto Concilio di Trento, o dello stresso S. Pio X, magari approfondendolo con opere di più ampio spessore – per chi ne abbia il tempo e la possibilità – di autori Cattolici comprovati ed autorizzati da imprimatur veraci e legittimi), mettiamolo in pratica nella nostra vita ordinaria e, fondando sulla grazia divina, annunziamolo possibilmente nelle varie realtà in cui si opera, ed i benefici saranno immensi, per i singoli e per l’intera società umana, di modo che non si possa più dire, come all’inizio della sottostante Enciclica « … la radice precipua dell’odierno rilassamento e quasi insensibilità degli animi e dei gravissimi mali che quindi si derivano, ripongono nell’ignoranza delle cose divine … ».

san Pio X
Acerbo nimis

Lettera Enciclica

I.

L’ignoranza della Religione causa precipua dell’odierno rilassamento.

In troppo ingrati e difficili tempi le disposizioni arcane della Provvidenza divina hanno sollevato la Nostra pochezza all’officio di Pastore supremo dell’universal gregge di Gesù Cristo. L’uomo inimico già da lunga stagione si aggira intorno a questo gregge, e lo va così insidiando con sottilissima astuzia, che or più che mai sembra verificato ciò che l’Apostolo prediceva ai maggiorenti della Chiesa di Efeso: “Io so che entreranno fra voi lupi rapaci che non perdoneranno all’ovile” (Act. XX, 29). — Del quale religioso decadimento, coloro che nutrono tuttora zelo della gloria di Dio, vanno indagando le ragioni e le cause; e mentre altri altre ne assegnano, conforme all’opinar di ciascuno, diverse son le vie che seguono per tutelare e ristabilire il regno di Dio sulla terra. A Noi, Venerabili fratelli, checché sia di altre cagioni, sembra di preferenza dover convenire con coloro che la radice precipua dell’odierno rilassamento e quasi insensibilità degli animi e dei gravissimi mali che quindi si derivano, ripongono nell’ignoranza delle cose divine. Il che risponde pienamente a quello che Dio stesso affermò pel profeta Osea: “… E non è scienza di Dio sulla terra. La maledizione, la menzogna, e l’omicidio, e il furto, e l’adulterio dilagarono, e il sangue toccò il sangue. Perciò piangerà la terra e verrà meno chiunque abita in essa” (Os. IV, 1 ss.).

II.

L’ignoranza della religione quanto comune ai nostri tempi.

E che infatti fra i Cristiani dei nostri giorni siano moltissimi quelli i quali vivono in una estrema ignoranza delle cose necessarie a sapersi per la eterna salute, è lamento oggimai comune, e purtroppo! lamento giustissimo. E quando diciamo fra i Cristiani, non intendiamo solamente della plebe o di persone di ceto inferiore, scusabili talvolta, perché, soggetti al comando d’inumani padroni, appena è che abbian agio di pensare a sé ed ai propri vantaggi: ma altresì e soprattutto di coloro, che pur non mancando d’ingegno e di coltura, mentre delle profane cose sono conoscentissimi, vivono spensierati e come a caso in ordine alla Religione. Può dirsi appena di quali profonde tenebre questi tali sien circondati; e ciò che più accuora, tranquillamente vi si mantengono! Niun pensiero quasi sorge loro di Dio Autore e moderatore dell’universo e di quanto insegna la Fede cristiana. E conseguentemente, sono cose affatto ignote per essi e l’Incarnazione del Verbo di Dio, e l’opera di Redenzione dell’uman genere da lui compiuta; e la Grazia che è pur il mezzo precipuo pel conseguimento dei beni eterni, e il santo Sacrificio e i Sacramenti, pei quali la detta grazia si acquista e conserva. Nulla poi apprezzano la malizia e turpitudine del peccato, e quindi non hanno affatto pensiero di evitarlo o di liberarsene; e così si giunge al giorno supremo, talché il ministro di Dio, acciò non manchi una qualche speranza di salute, è costretto ad usare dei momenti estremi, che dovrebbero tutti impiegarsi nel fomentare la carità verso Dio, nel dare una sommaria istruzione delle cose indispensabili a salute; se pure, ciò che sovente interviene, l’infermo non sia talmente schiavo di colpevole ignoranza, da credere superflua l’opera del sacerdote, e senza riconciliarsi con Dio, affronti tranquillo il viaggio tremendo dell’eternità. Onde è che il Nostro predecessore Benedetto XIV giustamente scrisse: “Questo asseveriamo, che la maggior parte di coloro, che san dannati agli eterni supplizi, incontrano quella perpetua sventura per ignoranza dei misteri della fede, che necessariamente si debbono sapere e credere per essere ascritti fra gli eletti” (Instit. XXVI, 18).

III.

Dall’ignoranza della religione è da ripetersi l’odierna corruttela dei costumi.

Ciò posto, Venerabili Fratelli, qual meraviglia che si veda oggi nel mondo, e non già diciamo fra i barbari, ma in mezzo alle nazioni cristiane, e cresca ogni giorno più la corruttela dei costumi e la depravazione delle abitudini? Intimava l’Apostolo scrivendo agli Efesini: “La fornicazione poi ed ogni immondezza, o l’avarizia, neppur si nomini fra voi, come si addice ai santi: o la turpitudine, o lo stoltiloquio” (Ephes. V, 3 s.).  – Ma egli a fondamento di questa santità e del pudore, che infrena le passioni, poneva la sapienza soprannaturale: “Guardate dunque, o fratelli, come dobbiate camminar cautamente non quasi stolti, ma come sapienti. Perciò non vogliate essere spensierati, ma intendete bene quale sia la volontà di Dio” (Ibid. 15 ss.).  E ciò con ragione. Infatti la volontà umana conserva appena alcun che di quell’amore dell’onesto e del retto, che Dio Creatore le infuse e che quasi la trascinava al bene non apparente ma verace. Depravata per la corruzione della colpa primiera, e pressoché dimentica di Dio, suo Autore, gli affetti suoi rivolge quasi tutti all’amore della vanità e alla ricerca del mendacio. – Fa quindi mestieri a questa volontà fuorviata ed accecata dalle perverse passioni, assegnare una guida, che la scorga perché torni sui male abbandonati sentieri della giustizia. E la guida, non liberamente scelta, ma destinata dalla natura è l’intelletto appunto. Il quale, pertanto, se manchi di vera luce, cioè della cognizione delle cose divine, sarà come un cieco che presti il braccio ad altro cieco, e cadranno entrambi nella fossa. Il santo Davide, lodando Iddio della luce di verità da Lui riverberata sulle nostre menti, diceva: (Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine: dedisti lætitiam in corde meo. (Signore, il lume del volto tuo è segnato sopra di noi – Ps. IV, 7). E la conseguenza di questa luce indicò qual fosse, aggiungendo: “Hai infuso allegrezza nel mio cuore“;quell’allegrezza cioè che dilatandoci il cuore, fa che corra la via dei divini comandamenti.

IV.

La conoscenza delle cose religiose non è soltanto lume all’intelletto, ma guida e stimolo della volontà.

E che sia difatto così, apparisce manifesto a chi per poco rifletta. Imperocché la dottrina di Gesù Cristo ci disvela Iddio e le infinite perfezioni di Lui con assai maggior chiarezza che non lo manifesti il lume naturale dell’umano intelletto. Ma poi? quella stessa dottrina ci impone di onorare Dio con la fede, che è ossequio della mente; colla speranzache è ossequio della volontà; colla caritàche è ossequio del cuore; e per tal guisa lega tutto l’uomo e lo soggetta al suo supremo Fattore e Moderatore. Parimente la dottrina di Cristo è la sola che ci manifesti la vera ed altissima dignità dell’uomo, additandocelo come figlio del Padre celeste che è nei cieli, fatto ad immagine di Lui e destinato a vivere con Lui eternamente beato. Ma da questa stessa dignità e dalla cognizione della medesima Cristo deduce l’obbligo per gli uomini di amor vicendevole come fratelli ch’ei sono, prescrive loro di vivere quaggiù come si avviene a figliuoli della luce “… non in bagordi ed ubbriachezze, non in mollezze ed impudicizie, non in risse ed invidie(Rom. XIII, 13);li obbliga inoltre a riporre in Dio ogni sollecitudine giacché Egli ha cura di noi; comanda di stendere la mano soccorritrice al povero, di far bene a quei che ci fan male, di anteporre i vantaggi eterni dell’anima ai beni fugaci del tempo. E per non discendere in tutto al particolare, non è la dottrina di Gesù Cristo che all’uomo, il quale vive di orgoglio, ispira ed impone l’umiltà, origine di gloria verace? “Chiunque si umilierà… questi è il più grande nel regno dei cieli” (Matth., XVIII, 4). Dalla stessa dottrina apprendiamo la prudenza dello spirito, per cui fuggiamo la prudenza della carne: la giustizia, per cui rendiamo il suo diritto ad ognuno; la fortezza che ci fa pronti a patir tutto, e colla quale, con animo generoso, patiamo di fatto ogni cosa per Iddio e per l’eterna felicità; e finalmente la temperanza, con cui giungiamo ad amare financo la povertà, ci gloriamo anzi della croce, non curando il disprezzo. Sta insomma che la scienza del Cristianesimo non è solo fonte di luce all’intelletto per la consecuzione del vero, ma fonte eziandio di calore alla volontà, con cui ci solleviamo a Dio e con lui ci uniamo per la pratica delle virtù. – Con ciò siamo ben lungi dal dire che, anche colla scienza della Religione, non possa unirsi volontà perversa e sregolatezza di costume. Piacesse a Dio che nol provassero anche troppo i fatti! Sosteniamo però che non potrà mai esser retta la volontà né buono il costume, qualora l’intelletto sia schiavo di crassa ignoranza. Chi ad occhi aperti procede, può certamente uscire dal retto sentiero: ma chi è colto da cecità, è sicuro di andare incontro al pericolo. – Aggiungasi di più che la perversità del costume, ove non sia del tutto estinto il lume della fede, lascia sempre a sperare un ravvedimento; laddove, se alla corruzione del costume si congiunge per effetto dell’ignoranza, la mancanza della fede, il male appena ammette rimedio, ed è aperta la via all’eterna rovina.

V.

A chi spetti l’obbligo dell’insegnamento religioso.

Tanti adunque e sì gravi essendo i danni provenienti dalla ignoranza delle cose di religione; e tanta, da altra parte, essendo la necessità e l’utilità dell’istruzione religiosa, giacché non potrà mai adempiere i doveri del Cristiano chi non li conosca; resta a cercare, a chi poi si spetti di eliminare dagli animi siffatta ignoranza, e chi abbia il dovere di comunicare alle anime una scienza così necessaria. — E qui, Venerabili Fratelli, non vi ha punto luogo a dubitazioni; giacché questo gravissimo dovere incombe a quanti sono Pastori di anime. Ad essi, per comandamento di Cristo, è imposto di conoscere e di pascere le pecorelle affidate; ora il pascere importa in primo luogo l’insegnare: “Io vi darò“,così Dio prometteva per Geremia, “pastori secondo il cuor mio, e vi pasceranno colla scienza e colla dottrina” (Ier. III, 15). Per la qual cosa l’Apostolo San Paolo diceva: “Non mi ha Cristo mandato per battezzare, ma per evangelizzare“(I Cor. I, 17); volendo cioè indicare, che il primo officio di quanti, in qualche misura, sono posti a reggere la Chiesa, è di istruire nella sacra dottrina i fedeli.

VI.

Encomio delle insegnamento del catechismo.

Della quale istruzione ci sembra non necessario dir qui le lodi, e mostrare di quanto merito sia al cospetto di Dio. – Certo l’elemosina, con cui solleviamo le angustie dei poverelli, è dal Signore altamente encomiata. Ma chi vorrà negare che encomio di gran lunga maggiore si debba allo zelo ed alla fatica, onde si procacciano, non già passeggeri vantaggi ai corpi, ma, coll’insegnare ed ammonire, eterni beni alle anime? Nulla per verità è più desiderato e caro a Gesù Cristo salvatore delle anime; il quale, per bocca di Isaia, volle di sé affermare: “Io sono stato mandato per evangelizzare i poveri“(Luc. IV, 18).

VII.

Ogni sacerdote ha il dovere di ammaestrare i fedeli.

Ma, pel presente scopo, meglio è soffermarci ad un punto, e su di esso insistere, non esservi cioè per chiunque sia sacerdote né dovere più grave, né più stretto obbligo di questo. E per fermo chi è il quale nieghi nel sacerdote alla santità della vita debba andare congiunta la scienza? “Le labbra del sacerdote custodiranno la scienza” (Malach. II, 7). – E la Chiesa infatti severissimamente la richiede in coloro, che devono essere assunti al ministero sacerdotale. E perché mai? perché da loro aspetta il popolo cristiano di conoscere la Legge divina, e sono essi perciò mandati da Dio: “E ricercheranno la legge dalla bocca di lui, perché egli è l’angelo del Signore degli eserciti” (Ibid.). Per la qual cosa il Vescovo, nella sacra ordinazione, parlando agli ordinandi, dice loro: “Sia la vostra dottrina spirituale medicina al popolo di Dio: sieno provvidi cooperatori dell’ordine nostro; affinché meditando giorno e notte nella sua legge, credano quello che avranno letto, ed insegnino ciò che avranno creduto(Pontif. Rom.).

VIII.

Obbligo specialissimo e quasi particolare che ne hanno i parrochi.

Che se ciò vale di qualsiasi Sacerdote, che dovrà poi pensarsi di coloro, che insigniti del titolo e dell’autorità di parrochi, in forza del loro grado e quasi per contratto, hanno officio di reggitori delle anime? Essi, in certa misura, sono da annoverarsi fra i pastori e dottori che Cristo assegnò, affinché i fedeli non sieno a guisa di pargoli fluttuanti e non sieno, per nequizia degli uomini, aggirati da ogni vento di dottrina; “ma operando la verità nella carità, crescano per ogni cosa in colui, che è il capo, Cristo” (Ephes. IV, 14, 15). Per la qual cosa il sacrosanto Concilio di Trento (Sess. V, cap. 2 de ref.; Sess. XXII, cap. 8; Sess. XXIV, cap. 4 et 7 de ref.), trattando dei pastori delle anime, pone per loro primo e massimo dovere l’istruzione dei fedeli. Quindi ordina ai medesimi che almeno nelle domeniche e nelle feste più solenni parlino al popolo delle verità religiose, e quotidianamente, o almeno tre volte per settimana, facciano altrettanto nei sacri tempi dell’Avvento e della Quaresima. Non basta: aggiunge inoltre essere tenuti i parrochi, almeno nelle domeniche e nei giorni festivi, ad istruire, o per sé, o per mezzo di altri, nei principi della fede e nell’obbedienza a Dio ed ai genitori i fanciulli (Ibid. cap. 7). E quando poi debbono amministrarsi i Sacramenti, prescrive che si spieghi, secondo l’intelligenza di quelli che stanno per riceverli, ed in lingua volgare, la virtù dei medesimi.

IX.

La spiegazione del Vangelo ed il catechismo sono due obblighi distinti del parroco.

Le quali prescrizioni del sacrosanto Concilio il Nostro predecessore Benedetto XIV, nella sua Costituzione Etsi minime, riassume e meglio determinò colle seguenti parole: “Due specialmente sono gli obblighi che dal Sinodo Tridentino furono imposti a chi ha cura delle anime: l’uno che nei giorni festivi parlino al popolo delle cose divine; l’ altro che istruiscano nei rudimenti della legge di Dio e della fede i fanciulli ed i rozzi“.E giustamente quel sapientissimo Pontefice distingue questo doppio dovere, del sermone cioè, che volgarmente chiamano spiegazione del Vangelo, e del catechismo. Imperocché forse non mancano di coloro, che a diminuir fatica, si persuadano che la spiegazione del Vangelo possa tener luogo dell’istruzione catechistica. Il qual giudizio ognun vede quanto sia errato. Imperocché il discorso, che si fa sul Vangelo, si rivolge a coloro che si suppongono istruiti nei rudimenti della fede. È il pane, per dir così, che si spezza a chi è già adulto. E’ istruzione catechistica invece è quel latte, cui l’Apostolo S. Pietro voleva che desiderassero con semplicità i fedeli quasi fanciulli testé generati. – Questo infatti e non altro è il compito del catechista, tôrre a trattare una verità o di fede o di morale cristiana e spiegarla in ogni sua parte; e poiché il fine dell’insegnare è sempre la riforma della vita, è d’uopo ch’ei faccia un confronto fra quello che da noi esige il Signore, e quello che difatto si opera; quindi per mezzo di esempî opportuni, tratti sapientemente dalle Sante Scritture o dalla Storia ecclesiastica o dagli atti dei Santi, persuadere e quasi mostrare a dito come debbansi conformare i costumi; e conchiudere in fine con esortazione efficace, affinché gli uditori si muovano a detestazione e fuga del vizio e all’esercizio della virtù.

X.

Nobiltà dell’officio di catechista.

Sappiamo che l’officio di catechista da molti non è ben visto, perché comunemente non è stimato gran fatto ed è poco acconcio ad accattarsi plauso. Ma questo, a Nostro avviso, è un giudizio nato da leggerezza e non da verità. Noi senza dubbio ammettiamo che siano degni di lode quei sacri oratori, che si dedicano con sincero zelo della gloria di Dio sia alla difesa ed al mantenimento della fede, sia all’encomio degli eroi del Cristianesimo. Ma la fatica di costoro ne suppone un’altra, quella cioè dei catechisti; la quale ove manchi, mancano i fondamenti, e faticano indarno coloro che edificano la casa. Troppo spesso i fioriti sermoni che riscuotono il plauso degli affollati uditori, riescono semplicemente ad accarezzar gli orecchi; non commuovono affatto gli animi. Per lo contrario l’istruzione catechistica benché piana e semplice, è quella parola, di cui Dio stesso dice in Isaia: “Come scende la pioggia e la neve dal cielo, e là più non torna, ma innebria la terra, e la penetra, e la fa germinare, e dà semenza al seminatore, e pane al famelico, così sarà la mia parola che uscirà dalla mia bocca: non tornerà a me vuota, ma opererà quanto io volli, e sarà prosperata nelle cose per le quali io l’ho mandata” (Is. LV, 10, 11). — Similmente pensiamo doversi dire di tutti quei Sacerdoti, i quali ad illustrare le verità religiose, compongono libri di gran fatica; degni perciò di essere assai commendati. Ma quanti sono poi coloro che leggono siffatti volumi e ne traggono frutto rispondente ai sudori ed alla brama di chi li scrisse? Laddove l’insegnamento del catechismo, se si faccia a dovere, non è mai che non rechi vantaggio a chi ascolti.

XI.

Si deplora di nuovo la universale ignoranza delle cose religiose.

Giacché, giova ripeterlo per eccitare lo zelo dei ministri del santuario, troppi sono adesso coloro, ed ogni dì ne cresce il numero, i quali ignorano affatto le verità religiose o di Dio e della Fede cristiana hanno soltanto quella scienza la quale permette loro di vivere a mo’ d’idolatri in mezzo alla luce stessa del Cristianesimo. Quanti sono, né già soli giovanetti, ma adulti ancora e vecchi cadenti, i quali ignorano affatto i principali misteri della fede; i quali udito il nome di Cristo rispondano: “Chi éperché debba credere in Lui?“(Ioan. IX, 36). In conseguenza di ciò non si recano punto a coscienza eccitare e nutrire odî contro del prossimo, fare ingiustissimi contratti, darsi a disoneste speculazioni, imposessarsi dell’altrui con ingenti usure, e simili malvagità. Di più, ignorano come la legge di Cristo, non solo proscrive le turpi azioni ma condanni altresì il pensarle avvertentemente e desiderarle; e rattenuti forse da un motivo qualsiasi dall’abbandonarsi ai sensuali diletti, si pascono, senza scrupolo di sorta, di pessime cogitazioni; moltiplicando i peccati più che i capelli del capo. Né di questo genere, torniamo anche a dirlo, si trovano solamente fra i poveri figli del popolo o nelle campagne, ma altresì e forse in numero maggiore fra le persone di ceti più elevati e pur fra coloro cui gonfia la scienza, e che poggiati su d’una vana erudizione, credono di poter prendere in ridicolo la religione e “bestemmiano quello che ignorano” (Iud. 10).

XII.

La fede infusa nel Battesimo ha bisogno di coltura.

Or se è vano aspettare raccolta da una terra, in cui non sia stata deposta la semenza, in qual modo potranno sperarsi più costumate generazioni, se non siano istruite per tempo nella dottrina di Gesù Cristo? Dal che segue, che, languendo ai dì nostri ed essendo in molti quasi svanita la fede, convien conchiudere adempiersi assai superficialmente, se non anche del tutto trascurarsi, il dovere dell’insegnamento del catechismo. — Né vale, per iscusarsi, il dire che la fede è un dono gratuito comunicato a ciascuno nel santo Battesimo. Sì, tutti i battezzati in Cristo hanno infuso l’abito della fede: ma questo germe divinissimo, non “si sviluppa né mette ampî rami“(Marc. IV, 32) abbandonato a se stesso e quasi per virtù nativa. Anche l’uomo, nascendo, porta in sé la facoltà d’intendere; pure ha bisogno della parola della madre, che quasi la risvegli e la faccia, come dicesi, uscire in atto. Non altrimenti il Cristiano, rinascendo per l’acqua e lo Spirito Santo, porta in sé la fede; ma gli è mestieri della parola della Chiesa che la fecondi, la sviluppi e la faccia fruttificare. Perciò scriveva l’Apostolo: “La Fede è dall’udito, l’udito poi per la parola di Dio: (Rom. X, 17) e per mostrare la necessità dell’insegnamento, aggiunge: “Come udiranno, se non vi sia chi predichi?” (Ibid. 14).

XIII.

Si determina e si impone quel che ogni parroco deve fare per l’ammaestramento dei fedeli nelle cose religiose.

Che se dalle cose premesse apparisce manifesta la somma importanza dell’insegnamento religioso; somma altresì deve essere la Nostra sollecitudine perché l’insegnamento del Catechismo, che Benedetto XIV disse: “la più utile istituzione per la gloria di Dio e la salute delle anime” (Constit. Etsi minime, 13), si mantenga sempre in vigore, e dove per caso si trascuri, torni a fiorire. — Volendo pertanto, o Venerabili Fratelli, adempiere questo gravissimo dovere impostoci dal supremo apostolato, ed introdurre da per tutto uniformità in questa rilevantissima materia, con la Nostra suprema autorità stabiliamo e strettamente ordiniamo che in tutte le diocesi si osservi ed adempia a quanto segue:

I. Tutti i parrochi, ed in generale tutti coloro che hanno cura d’anime, in tutte le domeniche e feste dell’anno, senza eccezione alcuna, col testo del Catechismo ammaestrino, per lo spazio di un’ora, i fanciulli e le fanciulle in ciò che ognuno deve credere ed operare per salvarsi.

II. I medesimi, in determinati tempi dell’anno, con una istruzione continuata di più giorni, preparino i fanciulli e le fanciulle a ricevere i Sacramenti della Penitenza e della Confermazione.

III. Similmente e con cura speciale, in tutti i giorni feriali della Quaresima e, se fosse necessario, in altri giorni dopo le feste Pasquali, preparino, con opportune istruzioni e riflessioni, i giovanetti e le giovanette a fare santamente la prima Comunione.

IV. In tutte e singole le parrocchie si eriga canonicamente la Congregazione della Dottrina Cristiana. Con la quale i parrochi, specialmente nei luoghi ove sia scarsezza di Sacerdoti, avranno per l’insegnamento del Catechismo validi coadiutori nelle pie persone secolari, che contribuiranno a questa opera salutare e santa si per zelo della gloria di Dio e sì per lucrare le moltissime indulgenze concesse dai Sommi Pontifici.

V. Nelle città maggiori, specialmente in quelle ove sono Università, Licei, Ginnasi, si istituiscano Scuole di Religione, destinate ad istruire nelle verità della fede e nella pratica della vita cristiana la gioventù che frequenta le pubbliche scuole, dalle quali è bandito ogni insegnamento religioso.

VI. Considerando poi, che, segnatamente in questi tempi, anche gli adulti non meno dei fanciulli hanno bisogno della istruzione religiosa; tutti i Parrochi ed ogni altro avente cura di anime, oltre la consueta omilia sul Vangelo, che deve esser fatta nella messa parrocchiale in tutti i giorni festivi, spiegheranno il catechismo ai fedeli in modo facile e acconcio alla intelligenza degli uditori, in quell’ora che ciascun stimerà più opportuna per la frequenza del popolo, fuori però del tempo in cui si ammaestrano i fanciulli. Nel che dovranno fare uso del Catechismo Tridentino; e procederanno con tale ordine, che, nello spazio di un quadriennio o quinquennio, trattino tutta la materia del Simbolo, dei Sacramenti, del Decalogo, dell’orazione domenicale e dei Precetti della Chiesa.

XIV.

Tocca ai Vescovi invigilare accuratamente l’esecuzione delle cose prescritte.

Questo, Venerabili Fratelli, Noi prescriviamo e comandiamo con Apostolica Autorità. Tocca ora a voi, ordinarne l’esecuzione pronta ed intera nelle vostre diocesi; e con la forza della vostra potestà vigilare ed impedire che tali Nostre prescrizioni sieno dimenticate o, ciò che equivale, eseguite superficialmente. Il che perché si eviti, fa d’uopo che Voi non cessiate di raccomandare e pretendere che i parrochi non facciano senza apparecchio queste loro istruzioni, ma vi premettano diligente preparazione; non parlino parole di umana sapienza, ma “con semplicità di cuore e nella sincerità di Dio” (II, Cor. I, 12), imitando l’esempio di Gesù Cristo il quale, benché rivelasse “misteri nascosti fin dalla costituzione del mondo” (Matt. XIII, 35), parlava nondimeno “alle turbe sempre con parabole, né senza parabole discorreva alle medesime“(Ibid. 34). E lo stesso fecero altresì gli Apostoli ammaestrati dal Signore; dei quali disse il Pontefice S. Gregorio Magno: “Ebbero somma cura di predicare ai popoli ignoranti cose piane ed intelligibili, non sublimi ed ardue” (Moral., I. XVII, cap. 26). – E perciò che spetta alla Religione, la più parte degli uomini, ai dì nostri, sono da considerarsi ignoranti.

XV.

L’insegnamento del catechismo richiede grande preparazione.

Non vorremmo però che da questo studio di semplicità da taluno si inferisse che questo genere di predicazione non richiede fatica e meditazione, che anzi ne esige maggiore che qualunque altro genere. Più agevole assai è trovare un predicatore capace di tenere un eloquente e pomposo discorso, anzi che un catechista che faccia una istruzione lodevole sotto ogni riguardo. Qualunque pertanto sia la facilità che altri abbia da natura di concepire e di parlare, si rammenti bene che non potrà mai fare un fruttuoso catechismo ai fanciulli ed al popolo senza prepararvisi con molta riflessione. S’ingannano coloro che, facendo a fidanza con la rozzezza ed ignoranza del popolo, credono di poter procedere in questo fatto con trascuratezza. Per contrario, quanto più l’uditorio è grossolano, cresce l’obbligo di studio maggiore e di maggior diligenza, per mettere alla portata di ognuno verità sublimissime e sì remote dalla intelligenza del volgo, che pur fa d’uopo che tutti, non meno dotti che ignoranti, conoscano per conseguir l’eterna salute.

XVI.

Esortazione ai Vescovi.

Orsù pertanto, Venerabili Fratelli, Ci sia lecito, sul termine di questa Nostra Lettera, rivolgere a Voi le parole che disse Mosè: “Se alcuno appartiene al Signore si unisca a me” (Exod. XXXII, 26).Vi preghiamo e scongiuriamo, riflettete quanta rovina di anime si abbia per la sola ignoranza delle cose divine. Forse molte cose utili e certamente lodevoli avete voi istituite nelle vostre diocesi a vantaggio del gregge affidatovi: a preferenza di tutte però vogliate, con quanto impegno, con quanto zelo, con quanta assiduità vi è possibile, procurare ed ottenere che la scienza della cristiana dottrina penetri ed intimamente pervada gli animi di tutti. “Ciascuno“,sono parole dell’Apostolo S. Pietro, “come ha ricevuto la grazia, l’amministri a vantaggio altrui, come buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio” (I, Petr. IV, 10). – Ed intercedente la Vergine Beatissima Immacolata, fecondi la vostra diligenza e le vostre industrie, l’apostolica benedizione, che, pegno del Nostro affetto ed auspice dei divini favori, impartiamo dall’intimo del cuore a Voi ed al clero e al popolo a ciascuno di voi affidato.

Dato a Roma, presso S. Pietro il giorno 15 aprile 1905, nel secondo anno del Nostro Pontificato.

https://www.exsurgatdeus.org/2018/05/27/unenciclica-al-giorno-toglie-il-modernista-apostata-di-torno-etsi-minime/

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Oratio

Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.
[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in saecula sæculórum. Amen.”

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia,

LA FAMIGLIA CRISTIANA

“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”

L’epistola di quest’oggi è una continuazione di quella della domenica scorsa. L’Apostolo, ricordato agli Efesini che devono vivere in modo consono alla grande dignità di Cristiani, alla quale furono chiamati, scende al particolare, e viene a parlare dell’unione degli animi che deve regnare tra di loro. Essi devono conservare l’unione, perché uno solo è il corpo mistico a cui appartengono, la Chiesa; uno solo è lo spirito che anima questo corpo, lo Spirito Santo; uno solo è il fine per il quale sono stati chiamati, la speranza di trovarsi uniti con Dio in cielo; uno solo è il Signore al quale credono con una stessa fede; uno solo è il Battesimo che li ha fatti entrare nella Chiesa. Vi è un solo Dio. che è il Padre comune. Se, per tutti i motivi addotti, deve regnare una perfetta armonia nella famiglia cristiana, quest’armonia non dev’essere minore nelle singole famiglie, che formano la società. E questa armonia non manca:

1. Se ciascuno adempie i suoi obblighi con spirito di fede,

2. Se c’è pazienza e mansuetudine,

3. Se c’è carità.

1.

Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati. Gli Efesini, come tutti i Cristiani,sono stati chiamati a far parte della grande famiglia diDio. La grande dignità di questa condizione esige che essivivano, non più secondo le norme del mondo pagano, mache vivano santamente, corrispondendo alle grazie ricevute.La grande famiglia cristiana è formata da tantepiccole famiglie che richiedono, da coloro che la compongono,l’adempimento di particolari doveri, che dovrebberoessere come il santuario dell’armonia e della pace,e sarebbero tali, se si imitassero le mirabili virtù con lequali Gesù ha consacrato la vita domestica.La condizione di chi è senza famiglia non è rosea. Facompassione l’orfanello senza la guida e il sostegno deigenitori; muove a pietà il vecchio abbandonato; ci fa pena l’infermo che non ha un congiunto che vegli al suo letto, e lenisca i suoi dolori. Ma non è neppur rosea la condizione di tante famiglie nelle quali invece dell’armonia e della pace, si trova l’inferno. Chi è a capo della famiglia non pensa: sono in questa condizione per volontà di Dio; devo, dunque, diportarmi in maniera degna della mia vocazione, e vedere, quindi, ciò che Dio stabilisce in proposito. — Dio stabilisce, per bocca dell’Apostolo – «Le donne siano soggette ai mariti come al Signore, poiché l’uomo è il capo della donna, come Cristo è il capo della Chiesa, essendo il Salvatore del suo corpo» (Ef. V, 22-23.). Qui è stabilita l’autorità del marito nella famiglia, e gli è posto davanti il modello da imitare nell’esercizio di questa autorità: Gesù Cristo. Egli ha salvato la Chiesa, sacrificandosi per essa, la conserva, l’assiste, la governa. Così il marito è capo della moglie, non per tiranneggiarla o maltrattarla, ma per guidarla, proteggerla, e prestarle quegli aiuti e quell’assistenza di cui potrebbe abbisognare. Il marito non deve considerare la casa come un luogo di gioie, di vantaggi, senza voler portarne i pesi, le amarezze, le disillusioni. – Da Dio son stabiliti anche i privilegi e i doveri della moglie. «Come la Chiesa è soggetta a Cristo, così ancora le donne ai loro mariti in ogni cosa» (Ef. V, 24.). Essa non deve pretendere di dominare, usurpando l’autorità del marito, e molto meno deve pretendere di comandare a lui. La sua libertà è limitata. «Egli ti comanderà», aveva già detto Dio a Eva (Gen. III,16). Questo però non vuol dire che la moglie debba vivere da serva o da schiava. La sua soggezione al marito è basata sull’amore, sull’esempio della soggezione della Chiesa a Gesù Cristo. Perciò l’Apostolo soggiunge: «I mariti devono amar le mogli come i propri corpi» (Ef. V, 28). – Anche le relazioni tra i figli e i genitori sono stabilite da Dio: «Figliuoli, siate ubbidienti ai vostri genitori nel Signore; perché ciò è giusto. Onora il padre tuo e la madre tua: ecco il primo comandamento della promessa, affinché tu sii felice, e abbia lunga vita sulla terra» (Ef. VI, 1-3). Purtroppo l’ubbidienza ai genitori è generalmente trascurata, e l’onore si confonde, il più delle volte, con una confidenza illimitata, poco dignitosa, che presto diventa padronanza, e cambia le parti nella famiglia. Si preferiscono gli insegnamenti della moda a quelli dello Spirito Santo. – I genitori hanno anch’essi tracciata la norma rispetto ai figli. «E voi, padri, non irritate i vostri figliuoli, ma allevateli nella disciplina e negli ammonimenti del Signore » (Efes. VI, 4). I genitori amino sinceramente i loro figli, non passino la misura nel corregerli, lasciandosi guidare dalla passione, invece che dalla ragione; l’affetto paterno, però, non impedisca di osservare i loro difetti e di correggerli, di avvezzarli all’obbedienza e alla mortificazione, e di allevarli nel timor di Dio. – Prima condizione, dunque, per vivere in pace e armonia nella vita domestica è il regolarsi secondo le norme che Dio ha stabilito per i vari membri della famiglia.

2.

Nella grande famiglia cristiana non ci può essere unione, se domina lo spirito della superbia e dell’ira; perciò l’Apostolo vuole che i Cristiani si diportino con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza. Questo contegno è necessario soprattutto nella vita domestica. I motivi di contrasto si hanno maggiormente con chi ci sta vicino. C’è la diversità di carattere. Per quanto due caratteri si assomiglino, non si accordano mai in tutto; e poi c’è sempre qualche circostanza che può metterli in urto tra di loro. Purtroppo la diversità di carattere è il pretesto più frequente della disunione e della rovina delle famiglie. – Dopo un po’ di tempo cominciano gli screzi, poi vengono i contrasti aperti, poi uno diventa uggioso all’altro. La famiglia non è più un dolce nido, è diventata una casa di punizione. Le conseguenze ciascuno può immaginarle. Quasi sempre però si potrebbero evitare se almeno uno dei coniugi fosse stato educato di buon’ora a vincer se stesso con l’esercizio della pazienza. La Beata Anna Maria Taigi visse col suo sposo, sotto i medesimo tetto, per quarant’anni continui, senza che da una parte o dall’altra ci fossero risentimenti o rimpianti, tanta era l’unione degli spiriti. Eppure si trattava di due caratteri disparatissimi. Lei dolce, soave, composta; lui aspro, rozzo, inquieto, e talvolta anche violento. Ma la Beata non si offese mai di questi modi, né mai la si vide contendere con lui. Egli, come dicevano i vicini, aveva un carattere da cagionare continui incendi, ma la dolcezza e il tatto della santa consorte sapeva evitare l’incendio e mantenere l’armonia nella casa (Mons. Carlo Salotti. La Beata Anna Maria Taigi madre di famiglia. Roma 1924, p. 89-90). Sopportiamo il carattere dei compagni di lavoro, sopportiamo il carattere delle persone con cui si tratta per affari o per ufficio, perché non dobbiamo sopportare il carattere di quei che compongono la nostra famiglia? « Quel dovere che ti obbliga verso gli estranei — dice S. Ambrogio al marito — t’incombe maggiormente verso la moglie, col tollerarne e correggerne la condotta » (Exp. S. Evang. sec. Lucam, L. 8, n. 4). Lo stesso si dica della moglie rispetto al marito. Pazienza vince in tutte le guerre. – Nella vita domestica o un momento o l’altro vengono le ore grigie. Con le lamentele, con le imprecazioni, con lo scoraggiamento non si rimedia. Il rimedio più efficace, l’unico rimedio che il capo famiglia deve adottare è quello di una grande pazienza. Deve in quei momenti ricordarsi in modo speciale delle parole del Salvatore: «imparate da me », e sull’esempio di Lui, che governa la gran famiglia cristiana dalla croce, guidare, rassegnato e da forte, la propria famiglia con grande spirito di sacrificio. – Nel cielo della famiglia può sorgere qualche leggera nuvola. Ma questa nuvola bisogna procurare di fugarla subito. « Il sole — dice S. Paolo — non tramonti sul vostro sdegno» (Ef. IV, 26). E ‘ una scena abbastanza brutta, vedere in una casa, al medesimo desco, gente che non parla, facce che si voltano per non incontrarsi negli sguardi, visi corrucciati e fronti tristi. Non è abbastanza pesante la vita che si conduce fuori di casa, per volerla triste anche tra le pareti domestiche? Non dovrebbe mai tramontare il sole prima che la pace familiare sia riacquistata, primi che i malintesi siano dissipati, prima che le piccole tempeste siano sedate.

3.

Tutti i membri della società cristiana, e, più ancora tutti i membri di una famiglia devono sforzarsi di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Questo si ottiene con la carità. «La pace e la carità sono sorelle senza bisogni e senza cure». Quando nella famiglia domina la carità, tutto si appiana. Il marito cerca di provvedere a tutto. Non solo trova ragionevoli i sacrifici che gli si domandano, ma sa indovinare e comprendere anche quelli che non gli si domandano; e, per quanto sta in lui, accontenta e previene. Egli sa apprezzare la parte importante e delicata che in seno alla famiglia compie la moglie, e cerca di alleggerirne i pesi con le sue premure. Quando nella famiglia domina la carità, la moglie non si acciglia se il marito è di malumore, soprappensiero. Il lavoro giornaliero, l’andamento degli affari, le preoccupazioni per la famiglia possono spiegare benissimo questi momenti tristi. Essa conosce la propria missione: addolcire, mitigare, rasserenare. Quando nella famiglia domina la carità, i figli non vengono considerati come un peso; non ci si disinteressa di loro. Si ringrazia Dio che li dona e si trattano come li trattava Gesù quando le madri glieli conducevano perché li benedicesse. Egli li trattava come tesori preziosi. Minacciava chi avesse tentato di scandalizzar questi innocenti i cui Angeli vedono continuamente la faccia del Padre celeste, e che hanno diritto al regno del cielo. E quando i genitori considerano i loro figli come tesori preziosi, loro affidati da Dio,usano tutte le precauzioni per tenerli lontani da tutto quello che potrebbe renderne l’anima meno bella agli occhi dei loro Angeli custodi; li correggono quando prendono cattiva piega. Sarebbe un grave errore credere che il castigo escluda l’amore. È questione di lasciarsi guidare dall’amore e non dall’ira. «Non credere di amar tuo figlio, quando non lo castighi… ; — dice San Agostino — questa non è carità, ma languore» (In Epist. Ioannis Tract. 7, 11). – E quando i figli sono trattati con amore illuminato, non rimangono insensibili. Il ripicco, il puntiglio, la cocciutaggine sono rari: è più facile che traggano profitto dalla correzione, rientrando in se stessi. Se vogliamo che nella famiglia regni veramente, come dovrebbe regnare, l’armonia e la pace, non prendiamo per guida gli insegnamenti della moda, ma il santo timor di Dio: nei contrasti, nelle difficoltà non perdiamo mai la calma, in tutto e sempre siamo animati dalla carità. La nave, quando il mare è in tempesta, procede male anche lontana dagli scogli: nella calma, fila sicura anche tra gli scogli, se chi la guida ha occhio attento e cuor generoso.

Graduale

Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.
[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]

Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja [Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46

“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre”.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XLV.

“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.

Il divin Redentore si trovava in Gerusalemme dopo il suo ingresso trionfale in quella città, epperciò qualche giorno appena prima della sua passione e morte. E i suoi nemici, gli uni dopo gli altri, gli si appressavano facendogli con maligna insistenza varie domande affine di confonderlo se fosse stato possibile. Ma in quella vece alle domande, che gli erano fatte, Gesù Cristo rispondeva in modo, che restavano confusi i suoi nemici. Egli aveva allora allora chiusa la bocca ai Sadducei, specie di materialisti di quel tempo, che negavano la resurrezione, quando, come ci narra il Vangelo d’oggi, i Farisei avendo ciò saputo si unirono insieme; quindi uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il più grande comandamento della legge? E Gesù rispose: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge e i profeti. Così rispose il Divino Maestro a quel Dottore, e così insegnò anche a noi. Oggi perciò prendiamo questo importantissimo ammaestramento.

1. Gesù Cristo stesso adunque nella risposta data a quel dottore, che lo interrogava solo per tentarlo, fece chiaramente intendere che il primo, il più grande dei nostri doveri, quello in cui sono compresi tutti quanti gli altri prescritti dalla legge divina ed insegnatici dai profeti, si è quello di amare Iddio con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima, e con tutto il nostro spirito. Dal che è facile comprendere come la carità è la massima tra le virtù, e che di quanto l’oro sopravanza gli altri metalli, il sole vince le stelle, i Serafini superano gli Angeli, di tanto la carità è superiore alle altre virtù. Perciò non bisogna meravigliarsi che S. Paolo abbia scritto: Quando io parlassi le lingue degli uomini e degli Angeli e non avessi la carità, sarei come un bronzo sonante o come un cembalo che squilla. E quando avessi il dono della profezia, quello dell’intelligenza di tutti i misteri e tanta fede da trasportare le montagne, mancando di carità sarei niente. E se pur distribuissi in nutrimento ai poveri tutte le mie facoltà e sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità nulla mi giova. No, che S. Paolo abbia scritte queste cose non bisogna meravigliarsi, perché dove non è la carità, non giova neppure alcun’altra virtù, ma dove la carità si trova, si trovano pure tutte le altre virtù, essendo essa una regina, a cui tutte le virtù fanno corteo. Essa è l’oro prezioso e purgato, col quale si compra il cielo, è un fuoco celeste, che infiamma i cuori, è una virtù angelica, che cangia gli uomini in Serafini. Tanto è grande la carità, che ci unisce così intimamente a Dio da formare in certo modo una sola cosa con Lui: poiché l’amore cangia in certa guisa colui che ama in quello che è amato. Da tutto ciò apparisce chiaramente quanto importi amare il nostro Dio. E come non amarlo, o cari Cristiani e cari giovani? Non è Egli degno di tutto quanto il nostro amore? Egli è la santità, la potenza, la sapienza, la bontà, la misericordia, la scienza infinita. Dio sorpassa all’infinito non pure tutto ciò che esiste con tutte le sue perfezioni e qualità, ma ancora tutte le cose possibili ed immaginarie; e le sorpassa non di cento, non di mille, non di milioni di gradi, ma infinitamente al di sopra di ogni calcolo. E ben a ragione esclamava Davide nei suoi salmi: Grande è il Signore e al di sopra di ogni lode. Dunque non è Egli infinitamente amabile? Ma bisogna in secondo luogo amare Iddio, perché Egli ci ha sovranamente amati, secondochè già aveva detto per Geremia: Io vi ho amati di un amor eterno, perciò vi ho attirati a me nella mia misericordia. E che necessità aveva Egli di amarci fin dall’eternità? Nessuna. Quale utilità ne ritrae a suo riguardo? Quali meriti vi erano in noi, perché ci rivolgesse il suo amore? Ah! che nient’altro che la bontà infinita di Dio è la base e la ragione dell’averci Egli amato e dell’amarci tanto ancora. E come Egli immensamente ci ama, così immensamente ci benefica. A quella guisa che il sole saetta i suoi benefici raggi per ogni parte affine di illuminare, di scaldare, di vivificare e di fecondar la natura, così Iddio spande su tutte le creature, ma specialmente sugli Angeli e sugli uomini i divini raggi della sua beneficenza, affine di illuminarli col lume della sua sapienza, di scaldarli del fuoco del suo amore e vivificarli della vita della grazia e della gloria. Ed in vero non è Dio, che ci ha creati, che ci ha redenti col Sangue preziosissimo del suo Divin Figlio? Non è Egli che ci conserva la vita, che ci dà ogni giorno il pane, che più ancora con la sua grazia e co’ suoi Sacramenti mira a santificarci per darci infine la prova suprema del suo amore nel Paradiso? Amiamo adunque, miei cari, amiamo un Dio, che tanto ci ama. Ma amiamolo a fatti e non a parole soltanto. Quegli pertanto, che ama davvero Iddio, non consentirà giammai ad offenderlo, ad oltraggiarlo, a violar la sua legge. E se pure gli accade di essere tentato ad offendere Iddio, la carità lo ha da rendere come invincibile. Sì l’amor di Dio deve essere come un fuoco, che consumi ed annienti il peccato stesso e renda come impeccabili. Ed è in questo senso che s. Agostino sentenziava: Ama e poi fa quel che ti piace. I martiri animati da questo santo fuoco, resistettero ai più acerbi tormenti inventati dai loro persecutori e carnefici. I santi tutti abbonavano per tal modo dal peccato da essere pronti a morire mille volte anziché commetterlo una volta sola. E quanti fra di loro sul fior della vita, mentre il mondo colle sue lusinghe, co’ suoi piaceri e coi suoi inganni cercava di attirarli a sé e guadagnarli al demonio, gli diedero risolutamente l’addio e spinti dalla divina carità si consacrarono tosto al Signore servendolo con ogni diligenza! Quanti non paghi di provvedere alla salvezza della loro anima si diedero ancora, benché assai giovani, alla salvezza delle anime altrui e per amor di Dio lasciarono la patria, i parenti, gli amici e varcando i mari si portarono tra i selvaggi e gli infedeli a far conoscere Gesù Cristo! O miei cari, diciamo con S. Agostino: Se questi e quelli hanno fatto tanto per amor di Dio, perché non faremo qualche cosa anche noi? E perché non faremo qualche cosa di grande? E voi, o giovani, mentre siete nel più bello della vostra vita, accendete in voi questa santa fiamma, accrescetela ogni giorno con la preghiera e con la frequenza dei Sacramenti, e proverete con la vostra stessa esperienza quanto sia soave il Signore e quanta gioia si provi nell’amarlo. E così se il Signore stesso vi conserverà lungo tempo sopra di questa terra, non vi accadrà nella vostra vecchiaia di dover con rincrescimento ripetere le parole di S. Agostino: « Troppo tardi ti ho conosciuto, o Signore, troppo tardi ti ho amato ».

2. Se il primo comandamento è quello d’amar Iddio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze, immediatamente dopo questo e simile a questo è, per attestazione di Gesù Cristo medesimo, quello di amare il nostro prossimo come noi medesimi. E ciò a tal punto, che il Divin Redentore lo chiama in altra circostanza il suo precetto, cioè il precetto, che più gli sta a cuore e del quale più raccomanda l’adempimento. Vicino ad immolarsi sul Calvario per la salute degli uomini, Egli riunisce solennemente i suoi discepoli per dettare loro le sue ultime volontà e, « Miei figli, dice loro con l’accento della più viva carità, Io non ho più che poco tempo a rimanere tra voi; prima di lasciarvi, Io vi do un precetto nuovo, ed è che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati; e per la vicendevole carità che vi unirà, si riconoscerà che voi siete miei discepoli. » Pertanto la carità verso del prossimo, per attestazione stessa di Gesù Cristo è il distintivo dei suoi veri discepoli. Gesù Cristo ha fatto con noi ciò che suole praticarsi dai nobili signori nelle loro case, che pongono indosso ai loro staffieri la livrea, acciocché tutti li conoscano per gente di loro servizio; ed ha voluto che la divisa per cui ci distinguiamo dagli idolatri, dagli infedeli e dai barbari e siamo da tutti ravvisati per suoi fedeli, sia la carità reciproca.Quindi ebbe a dire S. Giovanni Grisostomo: Molti sono i caratteri del Cristiano, ma quello che lo esprime al più vivo è lo scambievole affetto di una vera carità. Ecco perché gli Apostoli nelle loro lettere tanto raccomandarono l’amore reciproco e tra gli altri S. Giovanni, essendo già molto vecchio non faceva altro che dire: Figliuoli miei, amatevi gli uni gli altri. Vi furono di coloro, che al sentirlo a ripetere sempre la stessa cosa se ne lagnarono con lui; ma egli rispose: Se voi fate questo, fate tutto quello che dovete fare, perché questo è il precetto del Signore. Ma quale è la natura e l’estensione della carità, che deve unire insieme i cuori degli uomini? I maestri della vita spirituale paragonano questa carità, nella sua natura e nei suoi effetti, all’unione ed alla corrispondenza che, secondo l’osservazione di S.Paolo, esiste tra le diverse membra del corpo umano. S. Agostino spiega questa verità in una maniera ammirabile: Supponiamo, egli dice, che il piede cammini sopra una spina; che vi ha di più lontano dagli occhi che il piede? Esso è, per verità, molto lontano per la sua situazione; ma è molto vicino per la corrispondenza vicendevole di tutte le membra; appena dunque che il piede è stato punto dalla spina, gli occhi si mettono a cercarla, il corpo si curva per trovarla, la lingua domanda dov’è, e la mano si mette in dovere di cavarla. Frattanto gli occhi, la mano, il corpo, la testa e la lingua non provano alcun dolore, e lo stesso piede non ha male che in una sola parte; ma egli è perché tutte le membra si interessano le une per le altre. Ecco in qual modo noi dobbiamo regolarci verso i nostri fratelli; fa d’uopo che abbiamo tanta cura di essi quanta di noi medesimi; che ci rallegriamo dei loro vantaggi come dei nostri, e soprattutto che i  loro mali e i loro dispiaceri, non ci tocchino meno che le nostre proprie afflizioni, perciocché Gesù Cristo nel Vangelo di quest’oggi ci dice chiaro che dobbiamo amare il nostro prossimo come noi stessi. Epperciò tutto quello che noi non faremmo a noi stessi, non dobbiamo assolutamente farlo agli altri, e tutto quello che giustamente desidereremmo che gli altri facessero a noi, è quello che, potendo, noi dobbiamo fare agli altri, compresi gli stessi nostri nemici, poiché anche ad essi Iddio vuole che si estenda il nostro amore. Dare adunque dei buoni consigli, correggere in bel modo chi manca ai suoi doveri, consolare quelli che si trovano nell’afflizione, fare elemosina ai poveri secondo le proprie facoltà, perdonare facilmente i nostri offensori, soffocare qualsiasi sentimento di odio e di invidia, sono tutti doveri impostici dalla carità. Ma per praticare convenientemente questo gran precetto dobbiamo badare soprattutto ad evitare la discordia. Vi ha una cosa, scrive Salomone, che Iddio abbomina sovra tutte, ed è colui che mette risse tra i fratelli, che semina discordie. Questo passo della Sacra Scrittura dice aperto quanto grave delitto sia la discordia e quanto contraria alla carità fraterna. Ed in vero la discordia genera le imprudenze, le derisioni, le satire, i sarcasmi, le maledizioni. Essa irrita colui del quale si scoprono i vizi, che alla sua volta cerca di svelar quelli del suo avversario, ed allora da una parte e dall’altra si fa a gara a chi più propali, ingrossi ed inventi dei brutti fatti, a chi insomma parli più male e con maggiore malignità.Quanto importa adunque per la pratica della carità fraterna tener lontana da noi la discordia. Ma in qual modo vi si riuscirà facilmente? Ecco. Sorse contesa tra i mandriani d’Abramo e quei di Lot, dice la Genesi; allora Abramo così parlò a Lot: Io ti prego che non si levino risse tra me e te, tra i miei pastori e i tuoi; perché siam fratelli. Pertanto coloro che sono facili alla discordia, rammentino questo mirabile esempio, e si riducano a mente che siamo tutti fratelli in Gesù Cristo, e che Egli del reciproco amore e perdono ci ha fatto un assoluto comando. Perciò quando taluno ci facesse qualche ingiuria, sappiamo farci violenza e sopportare quell’ingiuria in pace. L’ingiuria, dice Sant’Agostino, l’ingiuria ricevuta e ripercossa con lo scudo della pazienza, ritorna a colui che l’ha lanciata, lasciando voi sani e salvi. Osservare il silenzio è anche un altro potente mezzo per soffocar le discordie. Il volto dell’uomo litigioso, che monta in furia divien fuoco, dice S. Basilio, e allora voi mantenetevi calmi; i suoi occhi girano scintillanti, voi guardatelo con ciglio sereno; alza la voce, e voi rispondetegli con dolcezza, o meglio non rispondetegli punto. Animo, adunque. Il venerabile Beda ci esorta ancora a sopportar mansuetamente le persone irascibili e litigiose, osservando che non c’è Abele, là dove non c’è un Caino che ne metta a prova la virtù e la pazienza; e nei Proverbi si legge, che quegli il quale si tien lungi dalle contese e dalle risse s’acquista onore.

3. Ma se a praticare la carità verso il nostro prossimo dobbiamo mettere tanto impegno a fuggire la discordia, non dobbiamo poi metterne meno per fuggire un altro male, che alla carità è essenzialmente contrario, vale a dire il male delle scandalo. Si, lo scandalo è essenzialmente contrario alla carità cristiana, siccome quello che danneggia il prossimo in ciò che riguarda l’affare suo più importante, cioè la sua eterna salute. Ed ecco perché Iddio nel quinto comandamento, in cui ci ordina l’amore al nostro prossimo e ci proibisce tutto ciò che a un tale amore è contrario, non fu pago di proibire che si togliesse la vita del corpo. Egli vietava anche tutto ciò che può nuocere all’anima, specialmente lo scandalo, col quale si toglie al prossimo la vita spirituale. Perciocché lo scandalo consiste nel trarre altri a peccare, o nel distorglierli dalla virtù; e forma una seconda specie di omicidio, col quale non sono colpiti i sensi, ma che agli occhi della fede non è meno reale, né meno grave innanzi a Dio. Dal che è facile comprendere perché Gesù Cristo faccia le più terribili minacce a chi porge scandalo ed occasione di peccato ai propri fratelli. Guai – dice Egli – a coloro dai quali proviene lo scandalo! Per chi scandalizza uno di questi pargoli che in me credono, tornerebbe meglio l’essere precipitato in fondo al mare. Ed invero chi può dire l’enormità del peccato di scandalo! Che cosa fa lo scandaloso? Si oppone alla volontà che ha Dio di salvare gli uomini. È volere del Padre mio Celeste, dice Gesù Cristo, che nessuno di questi pargoli perisca. Tutti se li ha addottati come figli, e tutti vuole salvarli; ma con lo scandalo, s’impedisce questa sua volontà, perché si fanno perire quelli che Dio voleva felici. Gesù Cristo discese sulla terra per salvar le anime; per esse spargeva tutto il suo sangue; ma queste anime con lo scandalo gli sono tolte; gli viene rapita quella conquista che gli costò sì cara; si rende inutile il prezzo del suo sangue; si espone ad un’eterna miseria chi Gesù Cristo aveva preparato per la felicità dei Santi. – Ecco, ad esempio, un giovane di virtuose inclinazioni, docile ai genitori, ai superiori ed ai maestri, raccolto nella preghiera, intento sempre ai propri doveri, che forma l’oggetto della compiacenza del Signore. Gli capita la sventura di incontrarsi con un giovane libertino, che si gloria di non aver pietà, che alla religione dà titoli odiosi e ridicoli, che motteggia chi è religioso. Il giovine buono, sedotto da tali discorsi, soccombe facilmente sotto il timore delle derisioni e censure di costui, vergognandosi delle sue virtù. Allora il libertino passa più innanzi; vomita alla sua presenza parole licenziose, dà pessimi consigli, che corrobora con pessimi esempi, sicché il giovane buono apprende il male che ignorava, ha le più funeste impressioni e finisce col darsi in braccio ai medesimi disordini. Eccolo così fatto schiavo delle stesse passioni, soggetto agli stessi vizi del giovane malvagio. Dio voleva salvar quest’anima comprata dal sangue di Cristo, ma lo scandaloso la fece perdere: quest’anima era destinata all’eterna gloria, ma lo scandaloso la trasse in una eterna sventura. Quali castighi non deve dunque aspettarsi chi scandalizza? Vi ha forse per lui pena troppo rigorosa? Sciagurato! Avresti orrore di bagnare le tue mani nel sangue del tuo fratello, e intanto gli fai un male assai peggiore. Saresti verso di lui meno crudele, se immergessi un pugnale nel suo seno e gli togliessi la vita. Quest’anima da te sedotta griderà eternamente vendetta contro di te, e le sue grida giungeranno certo a Dio. Oh misero chi insegna alla gioventù il male che ignora! Misero chi con l’esempio e con le parole seduce l’innocenza dei fanciulli! Chi rimuove altri dalla virtù e dalla pietà con insensati scherni! chi sparge libri perniciosi alla Religione ed ai costumi! Chi in qualche modo dà scandalo! È reo di tutti i peccati, a cui ha dato causa, e sarà punito anche del male che avrà fatto con lo scandalo volontariamente dato. Cari Cristiani e cari giovani, guardatevi bene da tanta enormità. Rispettate soprattutto i più piccoli di età, perciocché i loro Angeli li guardano con amore e sarebbero pronti a vendicarli.

Credo …

Offertorium

Orémus
Dan IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.
[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta


Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris. [Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Communio

Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.
[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio

Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.
[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

Per l’Ordinario vedi:

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (80)

LO SCUDO DELLA FEDE (80)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

PARTE TERZA.

CONSEGUENZE DEL PERDERE LA S. FEDE E MODI DI PREVENIRLE

CAPITOLO III.

CI TOLGONO I PROTESTARTI ANCHE I BENI TEMPORALI

Io vi ho rappresentato alcuni dei beni spirituali che vorrebbero i Protestanti rapire alle vostre anime, ma non crediate che siano solamente spirituali i danni che vi fanno. No: anche in questo mondo, vi privano di molti beni temporali; perché per giusta permissione di Dio sono castigati nei beni di questa terra quelli che non si curano dei beni del cielo. Qual è il maggior bene che si possa trovare in una famiglia? É la santa pace, la tranquillità, l’amore che si portano scambievolmente quei che la compongono. Qual è il maggior bene di tutto un paese, di tutta una città? É la concordia, è la quiete e il buon ordine che regna fra tutti i cittadini. E così voi stessi siete soliti dire che fa più buon pro un boccone di pane mangiato in pace e santa carità, che qualunque delizia assaporata tra le discordie ed il mal umore. Ebbene osservate che dove entra il Protestantismo ivi entra il demonio della discordia con tutti i suoi disordini. Guai a quella famiglia, dove qualcuno si lascia incautamente sorprendere! Sta sempre in lite con tutti, perde ogni confidenza ed amore anche con i parenti più intimi, e siccome è agitato internamente dai rimorsi della coscienza e non è in pace con se stesso, così non lascia pace neppure agli altri. Voi non conoscete la storia del Protestantismo; ma se la conosceste vi metterebbe spavento. Dovunque esso si è affacciato ed introdotto ha lasciata una striscia nera nera di sangue. In Germania suscitò una guerra spaventosissima che durò moltissimi anni, ed i soli contadini che in essa lasciarono la vita si contano più di centomila. La strage fu tanta che quella guerra si chiamò dagli storici la guerra dei Contadini. Dite ai Protestanti che lo neghino se possono. Nella Francia e soprattutto nelle Province del mezzogiorno suscitò tante turbolenze e tante guerre che solo del povero popolo ne perirono molte migliaia senza contare i signori di tutte le classi che vi lasciarono la vita. Dite ai Protestanti che lo neghino se possono. Nell’Inghilterra poi il Protestantismo entrò col sangue, visse in mezzo al sangue, e sempre si mantiene nel sangue. Lo sanno i poveri Irlandesi nelle loro campagne quello che hanno dovuto soffrire dai loro padroni perché Protestanti, maltrattati, vessati, percossi, spogliati di tutto, condannati a morire di fame e di stenti. Dite ai Protestanti che lo neghino, se basta loro il coraggio. E con tutti questi delitti che ha commesso al mondo il Protestantismo, ha coraggio ora di affacciarsi alle belle nostre contrade per cambiarle in un deserto di orrore e riempirle tutte di confusione e stragi ed ammazzamenti? Ah il buon Gesù disperda tutti questi tentativi d’iniquità! Un altro gran danno che il Protestantesimo apporta dovunque entra è la miseria temporale. Qui da noi non mancano delle disgrazie anche grandi talvolta che riducono delle famiglie alla mendicità. Ma quanto è raro il caso che una famiglia intera muoia di pura fame! Passano anni ed anni che non si sente a contare, perché o un vicino caritatevole, o il Parroco, o qualche signore pietoso appena sentono certe miserie, si danno attorno a provvedervi. Ma domandate un poco ai Protestanti inglesi, se presso di loro mai nessuno muoia di fame? Molte migliaia di poveri hanno lasciato morire di puro stento, perché non avendo più cuore Cattolico, non hanno più viscere di compassione. Chiedete un poco a loro, come trattano i loro contadini in Irlanda. Li lasciano ammontati come le bestie in certi tuguri mal riparati, mal difesi, anche in tempo d’inverno sulla nuda terra, e quando concedono loro tante patate quante bastano non a saziarsi, ma a non morire, credono di aver fatto un miracolo di carità. Ogni anno molte migliaia piuttosto che morire di fame, sono costretti a lasciare la patria ed i parenti, ed, attraversato il mare, andarsene in America, per trovare quel tozzo di pane che non trovano più nei loro paesi. Eppure prima del Protestantismo, se non avevano sempre da trionfare, non sapevano neppure quel che fossero le miserie che ora provano. Ah è pur troppo vero, che il Protestantismo ha rubato loro anche i beni temporali! Gli artieri poi, i lavoranti, i manifattori in quello sventurato paese lavorano tutta la giornata senza un momento di riposo, e per ogni loro sostentamento guadagnano poche patate, e bevono acqua e tanto loro basta. Sfidate pure tutti i Protestanti a negarvi tutti questi funestissimi effetti del Protestantismo, se possono. – Ma lasciamo andare questi beni meschini di quaggiù. A voi popoli della campagna Iddio ha negato certi vantaggi che ha concesso ad altri, non avete la ricchezza dei signori, non avete i loro piaceri, i loro divertimenti: ma Iddio, da quel buon Padre che è, vi aveva dato un largo compenso in questo che avevate molto maggior facilità a guadagnarvi il cielo. Nelle campagne non avete tanti pericoli per la vostr’anima, vi è più semplicità e più innocenza. Epperò se avevate un poco da patire per qualche anno, vi era poi molto più facile giubilare per tutta l’eternità. Oh che buon cambio era questo per voi! Avere i patimenti che passano presto, avere i godimenti che non finiscono mai! Mancava adesso appunto che venissero questi traditori a rubarvi il cielo e tutta la facilità che il buon Gesù vi aveva dato per acquistarlo; senza darvi poi neppure quei beni meschini che si possono godere quaggiù. Eppure voi avete potuto comprendere che è veramente così: mentre vi tolgono colla Fede tutti i mezzi della salute, quali sono la Chiesa, i suoi aiuti, i suoi Sacramenti, le opere buone, e finalmente il santo Paradiso, senza darvi neppure quella misera consolazione che si può godere in questa vita. Ah per pietà, pensatevi prima di rinunziarvi, e dite a quelli che v’insidiano, che voi non volete in eterno perdere quel bel regno che vi è stato promesso da Gesù.

SALMI BIBLICI: “JUDICA ME, DEUS, ET DISCERNE CAUSAM” (XLII)

SALMO 42: “JUDICA ME, DEUS, et discerne causam”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

TOME PREMIER.

PARIS LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 42

 [1] Psalmus David.

   Judica me, Deus, et discerne causam meam

de gente non sancta, ab homine iniquo et doloso erue me.

[2] Quia tu es, Deus, fortitudo mea, quare me repulisti? et quare tristis incedo, dum affligit me inimicus?

[3] Emitte lucem tuam et veritatem tuam; ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua.

[4] Et introibo ad altare Dei, ad Deum qui lætificat juventutem meam. Confitebor tibi in cithara, Deus, Deus meus.

[5] Quare tristis es, anima mea? et quare conturbas me? Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei, et Deus meus.

[Vecchio Testamento Secondo la VolgataTradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO XLII

Davide prega Dio che lo liberi dai nemici, e insieme si consola nella speranza della futura beatitudine. È un epitome del Salmo precedente.

Salmo di David.

1. Fammi ragione, o Signore, e prendi in mano la causa mia; liberami da una nazione non santa, dall’uomo iniquo e ingannatore.

2. Perocché tu sei, o Dio, la mia fortezza; perché mi hai tu rigettato, e perché sono io contristato, mentre mi affligge il nimico?

3. Fa spuntare la tua luce e la tua verità; elleno mi istradino, e mi conducano al tuo monte santo e a’ tuoi tabernacoli.

4. E mi accosterò all’altare di Dio; a Dio, il quale dà letizia alla mia giovinezza.

5. Te io loderò sulla cetra, Dio, Dio mio; e perché, o anima mia, sei tu nella tristezza, e perché  mi conturbi?

Spera in Dio; imperocché ancora canterò le lodi di lui, salute della mia faccia e Dio mio.

Sommario analitico

Il salmista sia a nome suo, che a nome di ogni uomo giusto e di tutti i Sacerdoti della nuova legge, espone quali siano le virtù dalle quali essi devono essere ornati per essere degni di ascendere al santo altare ed offrire il Sacrificio della legge evangelica.

I.- Egli indica i tre gradi che devono condurli all’altare:

1° l’innocenza dei costumi e la santità di vita (1);

2° la speranza in Dio: “perché Voi siete la mia forza”;

3° un’attività tutta spirituale che esclude la tristezza (2).

II. Egli indica le due guide che devono aiutare il Sacerdote a guadagnare questi gradi:

1° la luce i cui raggi dissipano le tenebre dello spirito;

2° la verità che, per la certezza delle sue promesse, fortifica i suoi passi.

III. – Bisogna conoscere le virtù necessarie al Sacerdote che si appresta all’altare:

1° la contemplazione dei misteri divini e la tranquillità dell’anima nel tabernacolo di Dio (3);

2° l’oblazione ed il sacrificio di se stesso: “et introibo, etc.” ;

3° il fervore per il rinnovamento interiore dello spirito (4);

4° la lode di Dio e l’azione di grazie per un sì gran beneficio (5);

5° l’unione perfetta ed imperturbabile dell’anima con il supremo Bene (5).

Spiegazioni e Considerazioni

ff. 1, 2. – È possibile dire a Dio: « Dio, giudicatemi », senza provare un sentimento di timore e di sgomento? Occorre dunque vedere nel prosieguo del salmo di quale giudizio il salmista ha voluto parlare: non è del giudizio di condanna, ma del giudizio di discernimento. Cosa dice in effetti? « O Dio giudicatemi ». Come dire: “giudicatemi”, e separate la mia causa da quella di un popolo empio? Se si trattasse di questo giudizio di separazione, noi dovremmo comparire tutti davanti al tribunale di Gesù-Cristo; se è in questione al contrario del giudizio di condanna: « colui che ascolta le mie parole, egli dice, e che crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non verrà in giudizio, ma è passato dalla morte alla vita ». Cosa vuol dire allora che non verrà in giudizio? Non incorrerà nella condanna! (S. Agost. Trat. XXII s. S. Giov. 5). – Voi non ignorate che tutti coloro che progrediscono in virtù e che gemono nel loro desiderio della città celeste, che si ritengono viaggiatori sulla terra, che camminano sulla buona strada, che hanno fissato la loro speranza come un’ancora nel desiderio di questa terra che è stabile per sempre, Voi non ignorate – io dico – che questa sorta di uomini, questa buona semenza che si forma in Cristo, geme in mezzo alla zizzania fino al tempo in cui giunge la mietitura, come l’ha definito l’infallibile Verità (Matt. XIII, 18). Questi uomini gemono in mezzo alla zizzania, cioè in mezzo ai malvagi, agli uomini fraudolenti e sediziosi, con uno spirito di collera e di velenosi inganni; essi guardano tutt’intorno a loro e vedono che essi sono come in uno stesso campo nel mondo intero, che tutti ricevono la stessa pioggia, tutti sono esposti allo stesso soffio dei venti, che tutti sono nutriti dagli stessi dolori, e che gioiscono tutti insieme di questi doni comuni di Dio accordati senza distinzione ai buoni e ai malvagi, da Colui che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, e cadere la pioggia sui giusti e gli ingiusti (Matth. V, 15). Essi vedono dunque questa razza di Abramo, questa santa semenza, vedono quante cose abbiano in comune con i malvagi, dai quali un giorno saranno separati: uguaglianza di nascita, condizione simile di natura umana, uguale peso di un corpo mortale, stesso uso della luce, dell’acqua, dei frutti della terra, sorte comune nei confronti delle prosperità e delle avversità del mondo, sia dell’indigenza, sia dell’abbondanza, sia della pace, sia della guerra, sia della salute, sia della peste; essi dunque vedono quante cose in comune essi hanno con i malvagi, con i quali però non fanno causa comune, ed allora essi gridano in tal modo: « Giudicatemi mio Dio e discernete la mia causa da quella della razza non santa ». Giudicatemi, mio Dio, essi dicono, io non temo il vostro giudizio, perché conosco la vostra misericordia. « Giudicatemi, mio Dio, e distinguete la mia causa da quella della razza che non è santa ». – Ora, nel viaggio di questa vita, voi non mi date ancora né un posto distinto, né una luce distinta; distinguete almeno la mia causa, che ci sia una diversità tra chi crede e chi non crede in Voi! La loro infermità è la stessa, ma la loro coscienza non è la stessa; la loro stanchezza è la stessa, ma il desiderio non è lo stesso (S. Agost.). – Il compendio di tutta la religione è, per noi, di essere persuasi che Dio possa tutto e noi nulla possiamo, per cui dobbiamo riporre la nostra fiducia non sul nulla, ma su Colui che è il tutto. Dio sembra respingerci quando non ci assiste in maniera sensibile nelle nostre tribolazioni; ma se abbiamo fede, comprenderemo che è il tempo in cui è più vicino a noi. Non siamo mai più forti di quando sentiamo la nostra debolezza: « la forza, dice l’Apostolo si perfezione nella malattia » (Berthier).

ff. 3. – Mandate la vostra luce e le vostra verità, esse mi hanno diretto e condotto sulla vostra santa montagna, etc., perché la vostra luce è la vostra verità medesima; sotto due differenti nomi, vi è un’unica cosa. Che cos’è in effetti la luce di Dio se non la verità di Dio? E lo stesso Cristo è insieme la luce e questa verità. « Io sono la luce del mondo; colui che crede in me non camminerà più nelle tenebre » (Giov. VIII, 12). « Io sono la via, la verità e la vita » (Giov. XIV, 6) – Egli stesso è la luce. Egli stesso è la verità (S. Agost.). – È la luce della grazia, la sorgente di gioia e di consolazione che dissipa con la sua presenza tutte le tristezze dell’anima. – È Verità di Dio, è fedeltà nel mantenere le sue promesse, altro motivo di gioia, fiducia e speranza. – Tale è la luce di Dio per essere illuminati sulla nostra condotta. È Verità di Dio per farci discernere l’errore e la menzogna, la Verità di Dio dalla verità puramente umana che i pretesti e le maschere alterano. – È questa Verità di Dio che conduce e porta ai tabernacoli divini, mentre le verità puramente umane gettano nell’errore e nel precipizio (Duguet).

ff. 4. – Esiste una lotta incessante nella nostra natura, e mentre il tempo ci porta inevitabilmente verso la senescenza, condizione che precede la morte, il desiderio del cuore è sempre per la giovinezza e la vita. Nella giovinezza vi è un non so che di fascinoso e che rapisce il cuore, e la giovinezza che il cuore ama sopra ogni altra giovinezza, è la giovinezza stessa del cuore, la sua freschezza, la sua bellezza, la sua vivacità, la sua feconda fantasia non ancora disincantata dalla triste esperienza di una vita di sofferenza. Da qui questi sospiri così puri e trasognati del cantore di Israele. « Mi avvicinerò all’altare di Dio, del Dio che letifica la mia gioventù ». Ma da cosa dipende che la giovinezza, e soprattutto la giovinezza del cuore, abbia per noi tanto fascino? La gioventù, nella sua novità, ci rivela la vita sotto una delle sue forme più dolci e più pure. È questa una unicità ed una integrità che non è stata ancora violata, è una perfezione ed una felicità che si fissano naturalmente a tutto ciò che è più vicino al suo principio, perché il possesso del principio, che è anche il fine, è precisamente ciò che continua la giovinezza. Così pure nei nostri santi Libri, il cui linguaggio così semplice copre misteri così profondi, ringiovanire e legarsi al capo, rinnoverà e ricondurrà ai suoi inizi, ricapitolare e restaurare, che sono espressioni sinonime “Instaurare omnia in Christo”. (Mgr BAUDRY, le Coeur de Jésus, p. 169). – Nel giorno della felicità come nel giorno dell’avversità, nel giorno della gioia, come nel giorno delle lacrime, in tutte le vicissitudini della vita, andiamo, come il santo re Davide, a circondare, stringere, abbracciare l’altare di Dio. Ciò che è un buco per il passero, un nido per la tortora, sia l’altare per il nostro cuore (Mgr. Pie, Disc.).

ff. 5. – Il cuore è l’arpa spirituale che risuona quando viene sfiorata dal tocco dello Spirito Santo. – E di nuovo il salmista dice alla sua anima, affinché estragga dei suoni da questo strumento: « perché anima mia siete triste, e perché mi turbate? » Io sono nelle tribolazioni, nei languori, in un’amara tristezza, perché anima mia, perché mi turbate? Ma chi è qui la persona che parla? È la nostra intelligenza che parla alla nostra anima. Essa langue nelle afflizioni, stanca nelle angosce, pressata dalle tentazioni, malata nelle sofferenze, ma lo spirito che dall’alto riceve l’intelligenza della verità, la risolleva e le dice: « … perché siete triste, e perché mi turbate? ». Spesso lo spirito apre le orecchie per ascoltare la voce di Dio che gli parla interiormente, ed ascolta in se stesso il canto che si fa intendere alla ragione. Così nel silenzio, qualcosa risuona, non alle nostre orecchie, ma al nostro spirito: chiunque ascolta questa melodia, è preso dal disgusto per tutto il brusio corporale, e tutta questa vita umana diviene per lui come un rumore tumultuoso che impedisce di intendere questo canto dall’alto, di un incanto infinito, incomparabile, ineffabile. E quando l’uomo viene distolto dal suo raccoglimento da qualche turbamento, ne soffre la violenza e dice alla sua anima: o anima mia, perché siete triste? E perché mi turbate? Forse volete riporre la vostra speranza in voi stessa? Sperate in Dio, e guardatevi dallo sperare in voi stessa (S. Agost.).

IL CUORE DI GESÙ (23): Il Sacro Cuore di Gesù e la penitenza.

(A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ, S. E. I. Torino, 1920)

DISCORSO XXIII.

Il Sacro Cuore di Gesù e la Penitenza.

Uno fra i più belli, fra i più grandi, fra i più salutari costumi della Chiesa, nostra Madre e maestra, è quello di farci leggere ogni giorno nella Santa Messa un tratto del Vangelo e nella Officiatura il relativo commento che ne fecero i Santi Padri. E ciò ella fa non a caso, ma scegliendo sapientemente quei tratti di Vangelo e quei commenti che più sono conformi ai Santi che secondo la varietà del tempo essa onora od ai misteri che essa ricorda. Quale sarà pertanto il tratto di Vangelo che ella ci fa leggere, siccome il più adatto, nella festa del Sacro Cuore di Gesù? Quello ove si racconta il ferimento del costato di Gesù Cristo e la conseguente apertura del suo Cuore istesso. Eccolo: « In quel tempo, i Giudei, poiché era giorno di venerdì, perché i corpi dei giustiziati, vale a dire di Gesù Cristo e dei due ladroni con lui crocifissi, non rimanessero sulla croce al sabbato (perciocché quel sabbato era il giorno della Pasqua), pregarono Pilato che ai medesimi si rompessero le gambe (secondo il costume) e fossero tolti via. Andarono pertanto i soldati, e ruppero le gambe all’uno e all’altro di quei due che erano stati con Gesù crocifissi. Arrivati poi a Gesù, vedendolo che era già morto, non gli ruppero le gambe, ma uno dei soldati aprì il fianco di lui con una lancia, e subito ne uscì sangue ed acqua. E chi vide (cioè S. Giovanni il discepolo prediletto) lo ha attestato, ed è vera la sua testimonianza. » (Io. XIX, 31-35) Questo è adunque il Vangelo scelto dalla Chiesa per la festa del Sacro Cuore di Gesù. E quale è il commento che ne fa leggere nella sua Officiatura? II commento che ne fanno tre grandi dottori della Chiesa: S. Agostino, S. Giovanni Grisostomo e S. Bonaventura. Ed anzi tutto quello di S. Agostino, che così spiega il ferimento del costato di Gesù Cristo e l’apertura del suo Sacratissimo Cuore: « Di una parola assai espressiva ha fatto uso l’Evangelista; giacché non disse già che il soldato percosse o ferì, o fece altro, ma sebbene che il soldato aperse con la lancia il fianco del Signore, affinché si intendesse che ivi si è aperta in tal modo la porta della vita, poiché dall’apertura del Cuore di Gesù Cristo ne sono usciti i Sacramenti, senza dei quali non si può entrare a quella vita che è sola vera vita, la vita eterna. » Così il grande Vescovo d’Ippona. Ora che cosa vi ha di più chiaro, pur tacendo di altri commenti fatti nello stesso senso da S. Cipriano, da S. Ambrogio, da S. Giovanni Crisostomo, e da altri ancora, per farci riconoscere che i Sacramenti della Chiesa sono il più vero, il più grande, il più vantaggioso effetto dell’amore del Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo per noi? Ma notiamo però che se nel Sangue e nell’acqua che uscirono dalla ferita del Divin Cuore sono raffigurati in genere tutti i Sacramenti, e cioè nell’acqua i Sacramenti così detti dei morti, che ci lavano e mondano dai peccati, e nel Sangue i Sacramenti dei vivi, che accrescono in noi la grazia e i meriti per salvarci, secondo le spiegazioni istesse dei Sacri Dottori sono raffigurati in modo specialissimo i Sacramenti che ci rimettono i peccati, il Battesimo cioè e la Penitenza, e il Sacramento che nutre e disseta l’anima nostra, la SS. Eucaristia. Di questi adunque è particolarmente simbolo la ferita del Sacratissimo Cuore; e di questi a preferenza dobbiamo occupare la nostra mente nel riandare le prove d’amore di Gesù Cristo per noi. E lasciando di trattare del Battesimo perché grazie a Dio già l’abbiamo tutti noi ricevuto, né più ci occorre di riceverlo altra volta, passiamo tosto a trattare della Penitenza ed a riconoscerne il grande benefizio.

I. Sebbene misticamente, cioè in modo occulto, ma pur vero, il Sacramento della Penitenza, come tutti gli altri Sacramenti sia uscito dalla ferita del Cuore di Gesù, tuttavia questo Sacramento in modo manifesto non fu istituito da Gesù Cristo che dopo la sua Risurrezione. Allora apparendo Egli agli Apostoli, che stavano nel cenacolo disse loro in tono solenne di autorità: Come il Padre mandò me, così Io mando voi, vale a dire con quello stesso potere sopra il peccato con cui mandò me il mio Padre celeste, così Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo; ricevetelo cioè per ben esercitare il grande potere che io vi affido. I peccati saranno rimessi a coloro ai quali li rimetterete e saranno ritenuti a coloro ai «quali li riterrete. E cioè coloro che dopo aver manifestati a voi i loro peccati riconoscerete degni di perdono li perdonerete, coloro che riconoscerete indegni, non li perdonerete: quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis retenta sunt. (Io. xx, 22, 25) Con queste parole pertanto Gesù Cristo istituiva il Sacramento della Penitenza, ne designava il ministro, indicava implicitamente il modo con cui questo Sacramento dovevasi amministrare e ne denotava l’ammirabile effetto. Ed oh quale bontà, quale misericordia dimostrava per tal guisa verso di noi Gesù Cristo. Ed in vero G. Cristo avrebbe potuto lasciare del tutto di istituire questo Sacramento, istituendo solo per la remissione del peccato originale, col quale nasciamo, il Sacramento del Battesimo, stabilendo poi che qualora dopo di aver ricevuto questo Sacramento da bambini, giunti all’uso di ragione noi l’avessimo personalmente offesi, andassimo irreparabilmente perduti! E stabilendo le cose per tal guisa Egli non sarebbe ancor venuto meno alla sua bontà e misericordia, perché in tal guisa ci avrebbe pur sempre dato il gran mezzo di diventare Cristiani, figliuoli di Dio ed eredi del paradiso. Ma se Gesù Cristo avesse così stabilito, quanti e quanti Cristiani sarebbero tuttavia andati perduti! Forse, chi sa? nessuno tra di noi stessi che ora stiamo qui a considerar la misericordia infinita del Divin Cuore, nessuno tra di noi potrebbe più sperare di salvarsi, imperocché non sono veramente rare, rarissime, quelle anime che conservano per tutta la vita l’innocenza battesimale? .Ma Gesù ha veduto questo grande, questo immenso rischio, a cui la più parte degli stessi Cristiani sarebbe andata incontro, epperò con una bontà, con una misericordia infinita non solo ha istituito il Battesimo per toglier dall’anima nostra il peccato originale, ma ancora la Penitenza per togliere dall’anima nostra tutti o sempre i nostri peccati attuali. E qui avvertite che ho detto nient’altro che la verità nell’asserire clic il Sacramento della Penitenza è per togliere tutti e sempre i nostri peccati attuali. Perciocché per quanto siano numerosi i nostri peccati, fossero pure numerosi come le stelle del cielo e le arene del mare; per quanto fossero gravi, fossero pur gravi tutti come il delitto di Caino, il tradimento di Giuda, le nefandità di Nerone, i peccati nostri per virtù di questo Sacramento, sempre che noi vi portiamo le disposizioni richieste, possono sempre essere tolti del tutto dall’anima nostra e perdonati da Dio. E non una volta sola in tutta la vita, non due, non tre, non dieci, non cento, ma quante e quante volte noi con cuore veramente pentito ci presentiamo al ministro di Dio a confessarli. Ah questa bontà, questa misericordia di Gesù Cristo si può chiamare davvero bontà eccessiva, perciocché pur troppo ci saranno peccatori e peccatrici, che ne abuseranno indegnamente; ma Egli ebbe più caro di permettere che vi sia qualche sciagurato che ne abusi, anziché non dare tutto l’agio, tutta la possibilità alle anime pentite dei loro peccati e delle loro ricadute di sollevarsi dalle loro pene, di liberarsi dalle loro angustie. Ed ecco un’altra ragione per cui nel Sacramento della Penitenza risplende vivissima la bontà e la misericordia del Cuore di Gesù. È un fatto innegabile che l’uomo commettendo il peccato perde sullo stesso punto la pace interiore dell’anima, e per conseguenza la vera felicità, che come dice giustamente S. Agostino, consiste nella calma di tutti i suoi desideri e movimenti. Chi resiste a Dio e può aver pace? si domanda il santo Giobbe. Quis resistit ei, et pacem habuit? (Iob. IX) Non appena la legge di Dio è stata violata e la colpa fu commessa, sorge in fondo all’anima dell’uomo uno straziante rimorso che prende dì e notte ad accusarlo ad agitarlo e a tormentarlo co’ suoi terribili rimproveri. Indarno per tentare di non sentirlo ei fa di tutto per soffocare l’istinto che lo porta a riconoscere il male; indarno ci si appiglia ai rumori del mondo, alle agitazioni della vita, all’ebbrezza di altri peccaminosi piaceri, per dimenticare che è colpevole; indarno sospira, ricerca, invoca di bel nuovo la pace: essa più non si dà a lui fino a che è nello stato di peccatore; l’amarezza e l’infelicità soltanto egli incontrerà ovunque sul suo cammino, ad ogni tratto a ripetergli: « Sciagurato! potevi operare il bene, ed invece hai commesso il male! potevi vivere sicuro del tuo eterno destino, ed ora invece hai da tremare che Dio ti punisca e ti mandi eternamente perduto! » Ora in questo stato così orribile, a riacquistare la pace perduta, non vi ha nulla per l’uomo di più naturale quanto il sentire il bisogno di manifestare ad altri il segreto che lo strazia, in quella guisa che l’ammalato oppresso dalla copia dei cattivi umori sente la necessità di rigettarli per esserne alleviato. E questo bisogno è così imperioso che l’uomo colpevole, non potendo altrimenti manifestarsi, e pur sentendosi costretto da una forza arcana a farlo, si inoltra talora nell’oscurità di una caverna, o si addentra nel folto di un bosco, o si spinge nell’alto del mare e con i flutti, o con le piante, o con i sassi sfoga l’ambascia dell’anima sua. Spesse volte anzi, rifiutando l’impunità che gli promette il silenzio si presenta da se stesso ai giudici, preferendo la punizione della colpa allo strazio morale che questa gli reca al cuore. Or ecco perché lo stesso Socrate presso Platone, benché filosofo pagano diceva: « che avendo commessa un’ingiustizia, che è il maggiore dei mali, il mezzo sovrano per esserne sciolti e riacquistare la pace, si è l’andare prontamente a farne la manifestazione al proprio giudice e subirne la punizione. » (PLAT. Giorgias, XXXVI) Ecco perché la manifestazione delle proprie colpe, fin dalla prima di esse che si commise, si trova presso tutti i popoli, anche i più selvaggi, sanzionata dalle pubbliche leggi e dai riti di Religione. Ecco perché massime tra il popolo giudaico questa manifestazione era prescritta e regolata per tal guisa, da sembrare una vera confessione; tanto è vero che gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, anche prima della venuta di Gesù Cristo, hanno creduto, come disse lo stesso Cicerone, essere la manifestazione delle proprie colpe il miglior rimedio alla malattia del colpevole. – Se tale adunque è la tendenza dell’umana natura, che cosa ha fatto Gesù Cristo istituendo la confessione? Scrutando a fondo l’umana natura, affine di appagarla nelle sue esigenze, Egli ha fatto quanto era per lei confacente, giacché la confessione non è altro che la manifestazione delle malattie nascoste in fondo all’anima al medico che le può guarire, non è altro che la rivelazione delle colpe che agitano il cuore umano a quel Giudice che assolvendolo dalle medesime, gli può ridonare la pace e la felicità. Ma notate bene, o miei cari, quale medico e quale giudice, ci ha dato qui Gesù Cristo; il più omogeneo, il più illuminato, il più discreto, il più indulgente, il più rassicurante, il più conforme insomma alle condizioni della nostra stessa natura. Ed anzi tutto il più adatto, perciocché nella confessione non è Iddio colui che viene a ricevere visibilmente la manifestazione delle nostre colpe. Gesù Cristo conosceva troppo bene come al cospetto della maestà influita di Dio non solo non avremmo osato articolare una sola parola, ma saremmo agghiacciati di spavento. Non è neppure un Angelo, perché troppo eccellente per la sua natura, troppo splendido per la sua purezza, non avrebbe ancora ispirato in noi la necessaria confidenza, né ci sarebbe ancora bastato il coraggio di rivelargli le nostre iniquità. Ma egli è un uomo, bensì ministro di Dio, ma pure della nostra identica natura, fragile come noi, come noi nella condizione di peccatore, epperciò non solo il più atto ad ingenerare in noi la confidenza, ma ancora il più facile ad usare verso di noi quella misericordia che abbisogna per se stesso; un uomo che ad ogni modo deve prendere in sé le viscere della misericordia di Dio e trattarci con la carità più affettuosa e più ardente, e addolorandosi pure in cuor suo dei nostri peccati perché offesa di Dio, non sdegnarsi punto contro di noi, anzi compatirci e compassionarci. Ah! se certi peccati li manifestassimo al nostro padre, noi dovremmo temere che egli avesse da pronunciare contro di noi una maledizione; se alla nostra madre, che ella avesse a morire di angoscia, e se al nostro amico che, tutto pieno di sdegno, ci avesse ad abbandonare all’istante. Ma invece manifestandoli al ministro di Dio con umiltà e sincerità, non dobbiamo aspettarci altro che di essere trattati colla massima benignità e compassione. E intanto con qual sicurezza egli, conosciuto le cause dei nostri mali appresta il rimedio ed indica i mezzi per espiarli! Con quale sincerità lacera il velo, dietro al quale il nostro amor proprio nasconde le sue passioni favorite e ne mostra tutta l’enormità! Con quale precisione ci illumina sulla natura e sull’estensione di certi obblighi tanto indispensabili, quanto difficili e complicati! Con quale esperienza ci guida per la via del dovere, della virtù della perfezione e della santità! Perciocché Gesù Cristo ha voluto che le labbra di questo suo ministro custodissero la scienza. Che dire poi della sua prudenza, della sua discrezione, della sua segretezza? E qual è il medico, qual è il giudice, da cui non abbiamo a temere la pubblica rivelazione delle nostre malattie e delle nostre colpo? Qual è anzi il tribunale in cui non si facciano per regola di pubblica ragione i delitti dei condannati ? E non è questo il tormento maggiore di un colpevole l’essere pubblicamente infamato? E Gesù Cristo lo sapeva benissimo, epperò questo non accade nel Sacramento della Confessione. Noi andiamo a gettarci ai piedi del ministro di Dio, gli apriamo il nostro cuore colpevole, lo abbandoniamo anzi nelle sue mani sacerdotali. Ed egli se ve n’ha bisogno, lo scruta minutamente, non già per inasprirne crudelmente le piaghe, ma solo per medicarle con l’unzione della sua carità e della grazia di Dio. E dopo che egli tutto ha conosciuto anche i più reconditi pensieri e desideri del cuor nostro, le sue labbra si chiudono ad un silenzio, che non sarà violato mai, neppure in vista del martirio, sia in forza della legge formidabile che lo impone, sia più ancora per la grazia di Gesù Cristo, che da diciannove secoli custodisce la bocca dei suoi Sacerdoti. Che anzi non solo il ministro di Dio non rivelerà mai con alcun pregiudizio della nostra fama le colpe che gli abbiamo manifestate, ma terminata la confessione, avendo pur anche a trattare con noi, egli si diporterà con noi come se nulla mai avesse inteso dalla nostra confessione, quando pure in essa gli avessimo manifestati i più enormi delitti. E da ultimo questo ministro così omogeneo, così illuminato, così discreto, sarà ancora per noi il più indulgente e il più rassicurante. È bensì vero che egli potrebbe non perdonare, perché egli ha pure questa, facoltà. Ma questa facoltà egli non può esercitarla a suo capriccio; e sol che egli veda in noi le necessarie disposizioni, Gesù Cristo gli ha imposto di perdonarci senz’altro. Quando tu hai confessato al mondo la tua colpa, te ne sei pentito al suo cospetto, l’hai ben anche espiata, il mondo forse ti dirà allora d’averti perdonato. Ma lo credi tu davvero? Ah! ben puoi temere del contrario. Quel marchio di disonore con cui ha bollato un giorno la tua fronte, ben di rado te lo cancella, anzi per regola più ordinaria lo imprime ancora sulla tua tomba e sulla tua memoria. Ed ecco perché non ostante che, dominato dall’istinto, tu ti sia forse anche spontaneamente manifestato, tu sei costretto a pentirti di quella manifestazione e ad adirarti teco stesso perché non hai celato con ogni mezzo possibile la tua colpa. Ma nel Sacramento della penitenza invece tu dovresti adirarti quando non ti fossi manifestato del tutto, perché è allora appunto che non saresti stato perdonato; ma quando tu hai rivelato con pentimento tutto che di grave pesava sull’anima tua ed hai inteso a dirti: « Va in pace, i tuoi peccati ti sono stati rimessi; » allora tu sei stato perdonato davvero, il peccato è stato tolto e per sempre dall’anima tua. E tu lo puoi ritenere con certezza, ne puoi essere sicuro: perciocché Gesù Cristo ben riconoscendo come la nostra natura sensibile avrebbe anche in questo caso, come in molti altri, avuto bisogno di una prova esterna e sensibile della certezza del perdono, non ha voluto che la confessione consista soltanto nella manifestazione delle nostre colpe fatta a Dio direttamente nell’interno del nostro cuore, perché Iddio che non si vede e che non si manifesta, come ci avrebbe assicurati del perdono! come ci avrebbe accertati che i gemiti e le lacrime delle nostre contrizioni sono state da lui bene accolte! ed in questa formidabile incertezza, quale angoscia non avrebbe continuato a tormentare l’anima nostra? Ma Gesù Cristo volle invece che la confessione si facesse esternamente al sacerdote, perché egli pronunziando sopra di noi in modo esteriore ed efficace la sentenza del perdono; per l’immenso potere conferitogli, noi ci intendessimo come a dire da Dio in modo sensibile: « Ora non aver più alcun timore; come il mio Sacerdote ti ha perdonato, così ti ho perdonato Io; la mia giustizia non richiede più nulla al di là delle condizioni e delle soddisfazioni che egli giustamente ha creduto di importi; le mie braccia sono aperte, vieni pure che io ti stringa al mio cuore e ti stampi in fronte il bacio del perdono. » Ah! ricevere il perdono da Dio delle nostre colpe ed esserne moralmente sicuri, ecco ciò che nella confessione ci ridona la pace e la felicità. Ed è allora che sebbene ci rimanga in fondo al cuore un dispiacere tranquillo d’aver offeso Iddio, ci alziamo tuttavia dal tribunale di penitenza liberi e leggeri come se avessimo deposto il più pesante fardello, e raggianti della contentezza e della gioia viva. O anime penitenti, che qui siete ad ascoltarmi, ditemi in verità, quando un dì, tocche dalla grazia di Dio, conosciuta la deformità orribile della vostra vita disordinata e piena di afflizioni, pentite sinceramente delle vostre colpe, andaste a deporlo in un seno sacerdotale e sentiste, mercé l’assoluzione, grondare su di voi il Sangue di Gesù Cristo a lavarvi e perdonarvi, avete voi mai trovato dei momenti più deliziosi, avete voi mai gustata una felicità così grande? È bensì vero adunque che come nel prendere la medicina non si può non sentire qualche po’ di disgusto, e nel manifestare altrui anche spontaneamente la propria reità non si può non provare una qualche ripugnanza, così nel valersi della confessione sacramentale non è possibile non sottostare a una certa qual pena. Ma come le nausee che prova il inalato sotto l’azione del farmaco si mutano presto in calma ed in gioia, e come la manifestazione della propria colpevolezza non lascia di recare qualche sollievo, così non appena nella Confessione l’uomo peccatore si sbarazza dei peccati che terribilmente lo travagliano, la pace, quel dono così prezioso e così stimabile, che supera tutti i godimenti materiali e senza della quale i godimenti materiali valgono nulla, entra come fiume impetuoso e benefico a rallegrare il cuor dell’uomo e a ridonargli quella felicità che nella sicurezza del perdono e del possesso della grazia di Dio produce una beatitudine, che è saggio ed anticipazione della beatitudine celeste. Or bene, o miei cari, da tutto ciò non è manifesto quanto fu grande la bontà di Gesù Cristo nel metter fuori dalla ferita del suo Cuor Divino il Sacramento della penitenza, Sacramento sì conformo all’umana natura?II. — Ma questa bontà risplende ancora per ben altri lati. Tutti gli uomini che vengono al mondo, senza eccezione di sorta, sono tutti destinati al cielo, e a raggiungere questa sublime destinazione non si frappone che un ostacolo, il peccato. Quaggiù la povertà, l’infermità, la deformità della persona, la bassezza dei natali, la miseria ed altre cause ancora possono proibirci l’entrata in molti luoghi ed in molti convegni, ma tutto ciò non c’impedirà di entrare in cielo, ci potrà anzi servire di raccomandazione per entrarvi; solo la colpa, nient’altro che la colpa ci può escludere e per sempre da quel beato regno. Che gran ventura adunque è per noi, quando avendo sgraziatamente commesso la colpa potremo convenientemente espiarla, ed espiandola cancellarla dall’anima nostra, e cancellandola renderci degni di bel nuovo della nostra eterna destinazione! Or ecco qui, dove per un altro lato risplende la bontà e l’amore del Cuore di Gesù Cristo per noi nell’avere dato la Confessione, poiché per essa ci diede il mezzo più acconcio ad espiare degnamente le colpe nostre. – Ed in vero, il principio di ogni peccato, come dice la Sacra Scrittura, è la superbia: initium onmis peccati superbia. (Eccl, x, 14) Non vi ha peccato alcuno nel quale l’uomo, che lo commette, non si levi orgoglioso contro di Dio, suo Creatore, suo sovrano e suo padre per dirgli: Non serviam; non ti voglio servire. Inoltre ogni peccato che comincia dalla superbia va a finire nel godimento materiale di qualche miserabile e fuggevole soddisfazione dei sensi. Questo è lo spaventevole mistero del peccato. Se adunque il peccato è orgoglio e soddisfazione dei sensi, con quali mezzi potrà e dovrà essere espiato? Non altrimenti che dai suoi contrari, vale a dire dall’umiliazione dello spirito e dal castigo dei sensi. Non altrimenti, no, perché la divina giustizia, che non può venir meno neppure per la divina misericordia, a perdonare il peccatore non può non esigere che egli si umilii e si castighi. Vi ha bisogno adunque che l’azione orgogliosa e piacevole ai sensi, quale fu il peccato, sia degnamente riparata da un’azione umiliante ed affliggente. E quale sarà quest’azione? Un rande filosofo cristiano ha scritto che « la coscienza universale riconosce nella confessione spontanea una forza espiatrice ed un merito di grazia, e che su questo punto non v’è che un sentimento, dalla madre, che interroga il suo fanciullo sopra un vaso rotto o sopra qualche ghiottoneria mangiata contro il divieto, al giudice, che interroga il ladro e l’assassino. » (DE MAISTRE. Del Papa, lib. III, c. 4) Sì, tutti riconoscono che il perdono non si ha da concedere se non a chi essendo pentito del male commesso, incomincia dal confessarlo e dal credersi degno di essere punito. La confessione adunque, la manifestazione spontanea delle nostre colpe, la disposizione ad espiarla con la debita penitenza, ecco l‘azione umiliante ed affliggente cui dobbiamo sottostare per essere perdonati da Dio. Ma perché questa manifestazione sia umiliante davvero a chi dovremo farla noi? Sì, io lo so, non mancano certi spiriti ignoranti e superbi che vanno dicendo: « Non potrebbe forse Iddio contentarsi che noi manifestassimo a Lui le nostre colpe, e che con Lui solo, senza bisogno di ricorrere ad altri, regolassimo le nostre partite? » Ma ciò, o miei cari, non sarebbe abbastanza conforme alla divina maestà oltraggiata, perché non vi sarebbe in noi un’umiliazione adeguata alla superbia del peccato. Ed in vero che cosa ci costerebbe pentirci in segreto ed in segreto confessarci a Dio solo? Nulla, menoche nulla. E Dio, che odia il peccato di un odio essenziale, Dio che rifulge per la sua santità e per la sua giustizia, avrebbe a contentarsi di questa umiliazione da nulla perdarci il suo perdono? Ed in questa umiliazione che è già nulla per il nostro spirito, quale castigo subirebbero i nostri sensi che devono pur essere castigati? Sapremmo noi ingiungere loro la dovuta penitenza? Il nostro amor proprio ci lascerebbe agire con giustizia? Il confessarsi adunque a Dio soltanto potrebbe ben parere maggior misericordia, ma non sarebbe in realtà, anche solo perché non umiliandoci e castigandoci abbastanza, non ci farebbe abbastanza comprendere la malizia infinita della colpa, né ce la farebbe abbastanza intestare e fuggire per l’avvenire. Occorre adunque che questa manifestazione, benché non in pubblico, per non violentare soverchiamente la nostra natura, sia fatta tuttavia apertamente ad un uomo, rappresentante di Dio e suo ministro, affinché noi che in nessun’altra guisa maggiormente ci umiliamo che facendo palese ad un altro uomo la nostra miseria, quella miseria che più d’ogni altra ci degrada e ci avvilisce, in questa umiliazione così profonda veniamo meglio a conoscere e riparare l’orgoglio che vi fu nel peccato e l’oltraggio che per esso facemmo al nostro Dio, e maggiormente lo detestiamo; ed in questa umiliazione che ci fa piegar le ginocchia e chinare la fronte dinnanzi ad un altro uomo e sottostare alle penitenze che egli crede di imporci, veniamo meglio a punire ed espiare la soddisfazione colpevole che si presero i nostri sensi peccando. La confessione adunque, la manifestazione delle nostre colpe al sacerdote sia pur umiliante, come si deve concedere, è pur tuttavia il mezzo più semplice, più proprio, più naturale di togliere da noi il peccato, di riconciliarci con Dio e di riguadagnare i diritti alla nostra eterna destinazione; e lo è appunto perché tanto ci umilia. Sì, perché tanto costa all’uomo scoprire tutta la malizia e la bruttura del suo cuore ad un altro uomo che la ignora, tanto più che satana, come dice S. Giovanni Crisostomo, ingrandisce fuor di misura la ripugnanza per la confessione, rendendoci tanto timidi e vergognosi a manifestare le colpe quanto ci aveva fatti arditi e sfacciati a commetterle, e persino a vantarcene all’altrui presenza, perché noi sacrifichiamo in tal guisa il nostro orgoglio, perciò noi siamo da Dio perdonati. Questa confusione che noi subiamo, questa vergogna, alla quale noi volontariamente ci sottomettiamo, è una vergogna ed una confusione salutare, che ci apporta la grazia di Dio e ci rende atti alla gloria del cielo: Est confusio adducens gloriavi et gratiam. (Eccl. IV) Certamente, o miei cari, non è questa nostra umiliazione per sé sola che adegui la malizia della colpa e ce ne ottenga il perdono. Quando tutti gli uomini si riducessero in polvere, non si umilierebbero abbastanza dinanzi a Dio, né gli darebbero il compenso degna di una sola colpa grave. Ciò che propriamente adegua gravezza infinita dei nostri peccati è l’umiliazione infinita cui volle assoggettarsi per noi Gesù Cristo coi misteri ineffabili della sua Incarnazione, Passione e Morte. Ed è propriamente solo per i meriti infiniti acquistati da Gesù Cristo che noi dobbiamo confidare di essere perdonati da Dio delle nostre colpe. Ma è pur sempre vero che alle umiliazioni ed ai patimenti di Gesù Cristo bisogna aggiungere le umiliazioni ed i patimenti nostri, essendo questo l’unico mezzo di renderci partecipi de’ suoi meriti infiniti. Ed è vero perciò ci la confusione e la vergogna nostra nella confessione, impregnata della umiliazione infinita di Gesù Cristo, è quella che ci placa la collera divina, appaga la divina giustizia, ci riamica con Dio e ci riapre le porte del cielo. Ecco adunque come 1° confessione, che per questo lato non sembra altro che la conseguenza della divina giustizia, è ad un tempo l’espressione più viva della divina misericordia, perciocché mentre per essa paghiamo alla divina giustizia in modo acconcio il nostro debito, conseguiamo altresì più prestamente, più sicuramente, più efficacemente la divina misericordia. Ecco come  Gesù Cristo, cavando fuori dalla ferita del Cuor suo Sacratissimo la Confessione, dandoci in essa il miglior mezzo per riparare il peccato, ci ha dato altresì una delle prove più belle, più grandi e più vere della sua bontà e del suo amore per noi. Egli ha fatto qui come il padre che, amando sinceramente il figlio, lo umilia e lo percuote per i suoi mancamenti, non già per la gioia crudele di vederlo umiliato e percosso, ma perché, subendo il figlio il meritato castigo, ei possa avere di nuovo la consolazione di stringerlo al suo cuore paterno e reintegrarlo in tutti i diritti della sua eredita.

III. — Finalmente, o miei cari, la bontà infinita del Cuore di Gesù nell’averci dato la Confessione si rivela ancora perciò che in essa ci ha dato il gran mezzo per rinnovare e perfezionare l’individuo e con l’individuo la società. La legge cristiana è per eccellenza legge di perfezione: essa si ritrova e si compendia in quella gran parola di Gesù: Siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste: Estote per/ecti, sicut perfectus est Pater vester, qui in cœlis est. Ma questa legge, che Gesù Cristo ha emanato con tanta chiarezza non è altro in fondo in fondo che la legge di natura che Egli ha stampato sopra di ogni essere. Noi adunque siamo tenuti alla perfezione, e non solo alla perfezione materiale ed intellettuale, ma molto più alla perfezione spirituale, in quanto che signore e sovrano di tutto il nostro essere è lo spirito. E questo spirito non altrimenti si perfeziona che adornandolo di quelle virtù le quali consistono nell’abitudine di evitare il male e di fare il bene, anzi il maggior bene possibile. Ma a compiere quest’opera di morale perfezionamento, basterà egli l’uomo da sé? No, senza dubbio: Egli abbisogna dell’aiuto della grazia di Dio, aiuto però che Iddio all’uomo non lascia mancar mai. E questo aiuto, di cui tuttavia per regola ordinaria Iddio vuol essere richiesto, o che non concede se non in premio di qualche merito, è quello pure che dà all’uomo in modo sovrabbondante nella confessione, essendo la confessione ancor essa una di quelle fonti salutari, di cui parlava il Profeta quando ci assicurava che con gaudio avremmo attinto le acque della grazia alle fonti del Salvatore: Haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris. Ed in vero non è propriamente la confessione quella che anzi tutto rinnova l’uomo colpevole? Ecco lì un povero peccatore gravato di ogni iniquità: la sua anima dinnanzi agli occhi di Dio, a cagione della sua bruttezza è divenuta oggetto di nausea e di schifo; essa ha perduto il bell’ornamento della grazia e con esso tutti i meriti delle opere buone già compiute; è scaduta dal diritto del cielo ed è precipitata nel potere di satana. Ma questo povero peccatore, tocco della grazia di Dio, va a gettarsi ai piedi del suo ministro, col pentimento sincero delle sue colpe gliene fa l’umile confessione, il sacerdote, fremendo in spirito di sua indegnità, alza la mano grondante il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo e pronuncia le parole dell’assoluzione. Ed ecco l’anima di quel Cristiano tutto ad un tratto ripigliare la sua bellezza ed il suo splendore, essere riadorna della grazia di Dio e riacquistare tutti i meriti perduti, rompere le catene della schiavitù infernale per rientrare nella libertà dei figliuoli di Dio, diventare di nuovo amica di Dio, degli Angeli e dei Santi, e riavere tutti i diritti alla beatitudine del cielo. Ah dite, si può immaginare una rinnovazione più bella, più grande, più ammirabile di questa? – Tuttavia non è questa rinnovazione soltanto che avviene nel Sacramento della penitenza, perciocché in questo Sacramento non vi è soltanto il pentimento e la manifestazione delle colpe per parte del penitente, e l’assoluzione per parte del Confessore, ma vi ha ancora l’ammaestramento individuale del legge cristiana, delle virtù e dei doveri propri ad ogni stato particolare. Sì, è vero, noi possiamo bene essere ammaestrati intorno agli obblighi della nostra fede da queste cattedre pubbliche di verità, dove i Sacerdoti parlano pur sempre a noi di Dio, ma per regola ordinaria da queste cattedre pubbliche non siamo ammaestrati che in modo generale e sopra i doveri comuni a tutti i fedeli. Lì invece nel Sacramento della penitenza, il Sacerdote, dopo che il impenitente gli ha manifesta le sue colpe e dopo che egli stesso, se l’ha creduto necessario si è fatto a scrutarne le cause e le occasioni, che fa egli ancora? Si fa ad illuminarlo con la luce delle sue acconce riflessioni, delle sue giuste ammonizioni, dei suoi santi consigli. E così a ciascuno in particolare addita la via da tenere, i pericoli da fuggire, le speciali virtù da praticare e i mezzi da adoperare. E così ancora il sacerdote, questo amico che ama sinceramente il bene di ogni anima, questo amico che non tollera ma compisce, che non adula ma incoraggia, che non scusa ma corregge, che non nasconde insomma la verità, ma la dice con un amore divino, intende non solo a rinnovare, ma ad abbellire e perfezionare le anime di coloro che si confessano. E difatti dopo gli ammaestramenti di questo amico così affezionato così sincero, quali meraviglie non si vedono? Senza dubbio, non tutti quelli che si confessano, sia perché non tutti si confessano come dovrebbero, e sia anche perché la confessione non rende impeccabili, vanno realmente operando in se stessi la loro perfezione, ma egli è certo tuttavia che se vi hanno dei giorni che si mantengono casti in mezzo ai più sfrenati eccitamenti di corruzione, delle fanciulle che resistono innocenti alle seduzioni del mondo, delle donne che compiono con nobiltà i loro doveri di spose e di madri cristiane, degli uomini che sono onesti nel vero senso della parola, che sono umili, pazienti, caritatevoli, generosi; se vi hanno anzi di coloro che nell’uno e nell’altro sesso avendo rinunciato alla propria volontà, ai propri averi, alle proprie famiglie, se ne vivono appartati dal mondo attendendo unicamente a rendersi veramente perfetti secondo il consiglio di Gesù Cristo, no, non li troverete altrimenti se non tra coloro che si confessano. Quelli che non usano della confessione o per essere acattolici o per essere Cristiani indifferenti e cattivi potranno bene farvisi innanzi ammantati della virtù, ma voi non penerete a riconoscere che la loro virtù vana ed apparente, è una virtù superba e sterile, o tutt’al più una virtù puramente umana, che non varrà mai a sollevarli una linea al di sopra di loro stessi e meno ancora ad inspirare in essi l’energia per rinnegare se stessi ed immolarsi a prò degli altri. – Ma nel mentre la confessione rinnova e perfeziona l’individuo che ne usa, tende altresì a rinnovare e perfezionare la società istessa. Perciocché la società non è essa forse l’aggregato di individui? Se per ragione adunque della confessione la società ha nel suo seno degli individui che operano il bene e vivono virtuosamente, non ne risentirà ancor essa il benefico influsso? Se» anzi vi fosse una società, i cui individui tutti si confessassero frequentemente e bene, non si potrebbe credere di vedere in essa una società perfetta? Sì, senza alcun dubbio; e in tale società per il rispetto all’autorità ed alla proprietà, per la carità vicendevole, che vi regnerebbe, tornerebbero inutili i gendarmi e si potrebbero diroccare le prigioni. Certamente i poteri umani con le leggi che emanano e con le punizioni che infliggono ai loro trasgressori, riescono fino a un certo punto a impedire e menomare i delitti. Bla niuno è che non vegga quanto numerosi e quanto gravi altresì siano i delitti che o per una o per altra ragione riescono a sfuggire all’azione delle leggi e delle punizioni. E così quella società che, pure arma ed impiega una metà di se stessa a governare l’altra metà, non riesce ancora a tener lontane da sé le invasioni della colpa e del disordine. Ma a ciò, cui non varrebbe neppure la società intera armata e spiegata contro di un solo individuo, perché questo solo individuo potrebbe se non altro covare in cuore mille iniqui pensieri contro la società, senza che essa li conoscesse, a ciò basterebbe la confessione, quella confessione in cui si raccomanda all’individuo di essere buono e virtuoso non solo per sé, ma ancora per la famiglia e per la società, quella confessione in cui si ingiungono non solo le virtù private, ma anche le virtù sociali e pubbliche, vale ai dire il rispetto ad ogni autorità costituita, il riguardo all’altrui proprietà, la restituzione del mal tolto, il perdono delle offese, il soffocamento dell’odio, la distruzione dell’egoismo, l’esercizio della carità, l’orrore per il vizio e la conseguente abolizione del libertinaggio. Tale sarebbe il benefizio che alla società renderebbe la confessione se fosse universalmente usata; tale è il benefizio che essa rende secondo la misura con cui è praticata; tale e mille volte più grande, perciocché quei sacerdoti, quei frati e quelle suore, che il mondo ingrato disprezza e tollera in pace perché non riesce a distruggerli, ma che pure lavorano indefessamente a bene della società, curandone tutte le piaghe, confortandola ne’ suoi bisogni e nelle sue infermità, accorrendo a soccorrerla nelle sue calamità e sempre istruendone i figli ignoranti, assistendo negli ospedali i suoi infermi, accogliendo negli ospizi i suoi orfani e i suoi vecchi, usando verso di essi le cure più affettuose e materne, questi uomini religiosi, dico, sono uomini tutti sostenuti, incoraggiati, rafforzati nella loro vita di sacrifizio per una società, benanco sconoscente, dalla voce di Dio che per il tramite del sacerdote ascoltano nella confessione. O vantaggi! o benefizi di questa divina istituzione! E chi mai riflettendovi alquanto non vede risplendere in essa tutta la bontà, tutto l’amore del Cuore di Gesù Cristo per gli uomini, e non vorrà corrispondere ad amore così grande col valersi sempre e bene di un tanto Sacramento? E come mai si potranno ancora comprendere coloro (e il loro numero è grande), che credendo all’esistenza di un Sacramento istituito da Gesù Cristo per risuscitarci, quando siamo morti alla vita eterna, amano meglio rimanere e sprofondarsi nelle tenebre, anziché ricorrere a questo rimedio infallibile, che hanno tra mano? Che dire di coloro che pur accostandosi a questo rimedio, lo convertono in fatale veleno col non portarvi la umiliazione dovuta, il dolor vero dell’animo, il proposito fermo di non cader più in peccato, col tacere volontariamente dei gravi peccati, la cui manifestazione è assolutamente indispensabile? Che dire soprattutto di quegl’insensati, i quali, invece di cadere in ginocchio davanti a questo capolavoro della divina clemenza, innanzi a questo frutto sempre duraturo della Passione di Gesù Cristo, si sollevano per esso a deridere, a bestemmiare, a calunniare la Chiesa, ad insultare, a vilipendere, ad odiare il sacerdozio? Ah! certamente non sarà così almeno di alcuno di noi, devoti del Sacro Cuore di Gesù! Sì, o Gesù clementissimo, noi apprezzeremo, esalteremo, benediremo mai sempre una prova sì grande del vostro amore. Sì, noi verremo ogni qual volta ne saremo in bisogno a questa fonte di misericordia e di salute che avete fatto zampillare dal vostro Cuore ferito. Noi ci verremo con la dovuta umiltà, con la dovuta sincerità, col dovuto pentimento delle nostre colpe. E voi, o pietosissimo Samaritano, degnatevi per mezzo di questo Sacramento di versare sempre copioso il balsamo della vostra grazia sopra le piaghe dell’anima nostra, di medicarle, di guarirle perché sani di mente e di cuore possiamo darci interamente al vostro servizio ed al vostro amore.

LA GRAZIA (Note di Teologia Ascetica) -1-

LA GRAZIA

(Note di teologia ascetica)

NATURA DELLA VITA CRISTIANA (1)

[A. Tanquerey: Compendio di Teologia ascetica a mistica – Desclée e Ci. Roma-Tournai – Parigi; 1948]

CAPITOLO II.

Natura della vita cristiana.

88. Essendo la vita soprannaturale una partecipazione della vita di Dio per i meriti di Gesù Cristo, viene talora definita la vita di Dio in noi o la vita di Gesù in noi. Queste espressioni sono giuste, se si bada a spiegarle bene in modo da evitare ogni cenno di panteismo. Noi infatti non abbiamo una vita identica a quella di Dio o di Nostro Signore, ma una somiglianza di questa vita, una partecipazione finita, benché reale, di questa vita. – Possiamo dunque definirla: una partecipazione della vita divina, conferita dallo Spirito Santo che abita in noi, in virili dei meriti di Gesù Cristo, e che noi dobbiamo coltivare contro le tendenze che le si oppongono.

89. E chiaro quindi che la vita soprannaturale è una vita in cui Dio ha la parte principale e noi la parte secondaria. Dio, la terza Persona della SS. Trinità (che si chiama anche Spirito Santo), viene personalmente a conferirci questa vita, perché Egli solo può farci partecipare alla sua stessa vita. Ce la comunica per i meriti di Gesù Cristo (n. 78), che è causa meritoria,, esemplare e vitale della nostra santificazione. È quindi vero che Dio vive in noi, che Gesù vive in noi; ma la nostra vita spirituale non è identicaa quella di Dio o a quella di Nostro Signore; ne è distinta ed è solo simile all’una e all’altra. La vita nostra consiste nell’utilizzare i doni divini per vivere in Dio e per Dio, per vivere in unione con Gesù e imitarlo; e poiché resta in noi la triplice concupiscenza, noi non possiamo vivere che a patto di accanitamente combatterla; e avendoci inoltre Dio dotati d’un organismo soprannaturale, noi dobbiamo farlo crescere con gli atti meritorii e con la fervorosa frequenza dei Sacramenti. È questo il senso della definizione che abbiamo data; l’intero capitolo non ne sarà che la spiegazione e lo svolgimento e ci darà modo di trarre delle conclusioni pratiche sulla devozione alla SS. Trinità, sulla devozione e sull’unione al Verbo Incarnato, ed anche sulla devozione alla S. Vergine ed ai Santi che discende dalle loro relazioni col Verbo Incarnato. Benché l’azione di Dio e l’azione dell’anima si svolgano parallelamente nella vita cristiana, noi, per maggior chiarezza, tratteremo in due distinti articoli della parte di Dio e della parte dell’uomo.

ART. I

DELLA PARTE DI DIO NELLA VITA CRISTIANA.

Dio opera in noi sia per Se stesso, sia per mezzo della SS. Vergine, degli Angeli e dei Santi.

§ I . Della parte della SS. Trinità.

90. Il primo principio, la causa efficiente principale e la causa esemplare della vita soprannaturale in noi è la SS. Trinità, o, per appropriazione, lo Spirito Santo. Perché la vita della grazia, benché sia opera comune delle tre divine Persone, essendo opera ad extra, si attribuisce specialmente allo Spirito Santo, come opera d’amore.Ora questa adorabile Trinità contribuisce alla nostra santificazione in due modi: col venire ad abitare nell’anima nostra e col produrre un organismo soprannaturale che, soprannaturalizzando l’anima, la abilita a fare atti deiformi.

I . L’abitazione dello Spirito Santo nell’anima.

91. Essendo la vita cristiana una partecipazione della vita stessa di Dio, è evidente che Egli solo la può conferire. E la conferisce venendo ad abitare nelle anime nostre e dandosi interamente a noi, affinché possiamo rendergli i nostri ossequi, godere della sua presenza e lasciarci da Lui docilmente guidare a praticare le disposizioni e le virtù di Gesù Cristo: è ciò che i teologi chiamano grazia increata.

Vedremo : 1° in che modo le tre divine Persone vivono in noi; 2° come dobbiamo diportarci verso di loro.

[Su questa verità fonda l’Olier la sua spiritualità: Catéchisme chrétien pour la vie intérieure, pp. 35, 37, 43 ed. 1906-1922. : “Chi è colui che merita di essere chiamato cristiano? Colui che ha in sé lo Spirito di Gesù Cristo… che ci fa vivere interiormente ed esteriormente come Gesù Cristo” — “Egli (lo Spirito S.) vi è col Padre e col Figlio, e vi diffonde, come abbiamo detto, gli stessi sentimenti, gli stessi costumi e le stesse virtù di Gesù Cristo.”]

1° IN CHE MODO LE DIVINE PERSONE ABITANO IN NOI.

92. Dio, come dice S. Tommaso (S. Theol., I , q. 8, a. 3), abita naturalmente nelle creature in tre modi diversi: con la sua potenza, nel senso che tutte le creature stanno soggette al suo dominio; con la sua presenza, in quanto che vede tutto, anche i più segreti pensieri del nostro cuore “omnia nuda et aperta sunt oculis eius“; con la sua essenza, perché opera dappertutto ed è dovunque la pienezza dell’essere e la causa prima di tutto ciò che è di reale nelle creature, comunicando loro continuamente non solo il moto e la vita ma lo stesso essere: “in ipso vivimus, movemur et sumus[Act. XVII, 28.].Ma la sua presenza in noi per mezzo della grazia è di ordine molto superiore e più intimo. Non è soltanto la presenza del Creatore e del Conservatore che regge gli esseri da Lui creati ma è la presenza della Santissima e Adorabilissima Trinità quale ci è rivelata dalla fede: il Padre viene in noi e vi continua a generare il Verbo; con lui riceviamo il Figlio, perfettamente uguale al Padre, sua immagine vivente e sostanziale, che non cessa di infinitamente amare il Padre come infinitamente ne è riamato; dal qual mutuo amore procede lo Spirito Santo, persona uguale al Padre e al Figlio, vincolo reciproco fra i due eppur distinto dall’uno e dall’altro.Quante meraviglie in un’anima in stato di grazia!La particolarità di questa presenza è che Dio non solo è in noi, ma si dà a noi, perché noi possiamo godere di Lui. Secondo il linguaggio dei nostri Libri Sacri, possiamo dire che, per mezzo della grazia, Dio si dà a noi come padre, come amico, come collaboratore, come santificatore, e che così Eglidiviene veramente il principio stesso della nostra vita interiore, la sua causa efficiente ed esemplare.

93. A) Nell’ordine della natura Dio è in noi come Creatore e sovrano padrone e noi non siamo che suoi servi, sua proprietà, cosa sua. Ma nell’ ordine della grazia Egli si dà a noi come nostro Padre, e noi siamo i suoi figli adottivi; mirabile privilegio che è il fondamento della nostra vita soprannaturale. – Questo continuamente ripetono S. Paolo e S. Giovanni: ” Non enim accepistis spiritum servitutis iterim in timore, sed accepistis spiritum adoptionis filiorum, in quo clamamus Abba (Pater). Ipse enim Spiritus testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filli Dei[Rom. VIII, 15-16]”. Dio dunque ci adotta per figli, ma in modo assai più perfetto che non facciano gli uomini con l’adozione legale. Questi possono bene trasmettere ai figli adottivi il nome e le sostanze, ma non il sangue e la vita. ” L’adozione legale, dice con ragione il Cardinal Mercier, [la Vita interiore] è una finzione. Il figlio adottato viene considerato dai genitori adottivi come se fosse loro figlio e riceve da essi quell’eredità a cui avrebbe avuto diritto il frutto della loro unione; la società riconosce questa finzione e ne sancisce gli effetti; tuttavia l’oggetto della finzione non si trasforma in realtà… Ma la grazia dell’adozione divina non è una finzione… è una realtà. Dio largisce a coloro che credono nel suo Verbo la divina filiazione, dice S. Giovanni: “Dedit eis potestatem filios Dei fieri, his qui credunt in nomine eius[Giov. I, 12]. E questa filiazione non è nominale ma effettiva: “Ut filli Dei nominemur et simus“. Noi entriamo in possesso della natura divina, divinæ consortes naturæ“.

94. Questa vita divina è certamente in noi soltanto una partecipazione, ”consortes”, una somiglianza, un’assimilazione che fa di noi, non già degli dèi, ma degli esseri deiformi. Non è però men vero che essa non è una finzione ma una realtà, una vita nuova, non uguale ma simile a quella di Dio, e che, a detta della Sacra Scrittura, suppone una nuova generazione o rigenerazione: Nisi quis renatus fuerit ex aqua et Spiritu Sancto… per lavacrum regenerationis et renovationis Spiritus Sancti… regeneravit nos in spem vivant… voluntarie enim genuit nos verbo veritatis».[Joan. III, 5; Tit., III , 5; 1 Petr., I, 3 ; Jac, I, 18]. Tutte queste espressioni ci mostrano che la nostra adozione non è puramente nominale ma vera e reale, benché molto bene distinta dalla filiazione del Verbo Incarnato. Ed è per questo che noi diventiamo di pieno diritto eredi del regno celeste, coere di di Colui che è nostro fratello maggiore: ” hæredes quidem Dei, cohæredes autem Christi… ut sit ipse primogenitus in multis fratribus ». O non è dunque il caso di ripetere le così soavi parole di S. Giovanni: ” Videte qualem caritatem dedit nobis Pater, ut filii Dei nominemur et simus? (I Jann. III, 1). Dio quindi avrà per noi la premura, la tenerezza d’un padre. Egli stesso si paragona a una madre che non potrà mai dimenticare il figlio: “Numquid oblivisci potest mulier infantem suum, ut non misereatur filo uteri sui? Et si Illa oblita fuerit, ego tamen non obliviscar tui ” (Is. XLIX, 15). E l’ha ben dimostrato davvero, poiché, per salvare i figli decaduti, non esitò a dare e a sacrificare l’unico suo Figlio: Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenituni daret, ut omnis qui credit in eum non pereat, sed habeat vitam æternam” (Jann. III, 16). Ed è questo stesso amore che lo spinge a darsi interamente, fin d’ora e in modo abituale, ai figli adottivi, abitando nei loro cuori: “Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus” (Joan., XIV, 23). Egli abita dunque in noi come Padre amantissimo epremurosissimo.

95. B) Dio si dà pure a noi come amico. L’amicizia aggiunge alle relazioni di padre e di figlio una certa uguaglianza, “amicitia æquales accipit aut facit“, una certa intimità, una scambievolezza d’affetto che porta seco le più dolci comunicazioni. – Relazioni appunto di questo genere la grazia pone tra Dio e noi; è vero che quando si tratta di Dio e dell’uomo non si può parlare d’uguaglianza vera, ma solo d’una certa somiglianza che però basta a stabilire una vera intimità. Dio infatti ci apre i suoi segreti; ci parla non solo per mezzo della Chiesa, ma anche interiormente per mezzo del suo Spirito: ” IIle vos docebit omnia et suggeret vobis omnia quæcumque dixero vobis ” (Jaon. XIV, 26). Quindi è che nell’ultima cena Gesù dichiara agli Apostoli che ormai non saranno più servi ma amici, perché Egli non avrà più segreti per loro: Iam non dicam vos servos, quia servus nescit quid faciat dominus eius; vos autem dixi amicos, quia omnia quæcumque audivi a Patre meo, nota feci vobis” (Jaon. XV, 15). Sarà quindi una dolce familiarità quella che governerà ormai le loro relazioni, la familiarità che corre tra amici che siedono alla stessa mensa: Ecco che io sto alla porta e picchio; se alcuno udirà la mia voce e mi aprirà la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui ed egli con me: Ecce sto ad ostium et pulso; si quis audierit vocem meam et aperuerit mihi januam, intrabo ad illum et cœnabo eum illo, et ipse mecum” (Apoc. III, 20). Mirabile intimità a cui noi non avremmo mai osato aspirare se l’Amico divino non si fosse fatto avanti Lui per il primo. Eppure una tale intimità si è avverata e si avvera ogni giorno, non soltanto presso i santi, ma anche in quelle anime interiori che acconsentono ad aprire le porte dell’anima all’ospite divino. E ciò che ci attesta l’autore dell’Imitazione, quando descrive le frequenti visite dello Spirito Santo alle anime interiori, le sue dolci conversazioni con loro, le consolazioni e le carezze di cui le colma, la pace che fa regnare in loro, la stupenda familiarità con cui le tratta: “Frequens illi visìtatio eum nomine interno, dulcis sermocinatio, grata consolatio, multa pax, familiaritas stupenda nimis” (Imit. l. II, c.1, v. 1). Del resto la vita dei mistici contemporanei, di Santa Teresa del Bambin Gesù, di Suor Elisabetta della Trinità, della Beata Gemma Galgani e di tanti altri, ci prova che le parole dell’Imitazione si avverano tutti i giorni. È dunque vero che Dio vive in noi come un intimo amico.

96. C) Né vi resta ozioso ma vi opera come il più potente dei collaboratori. Sapendo bene che non possiamo coltivare da noi quella vita soprannaturale che pone in noi, Egli supplisce alla nostra impotenza, collaborando con noi per mezzo della grazia attuale. Abbiamo bisogno di luce per afferrare le verità della fede che dovranno ormai guidare i nostri passi? Verrà Lui, che è il Padre dei lumi, a illuminare il nostro intelletto sul nostro ultimo fine e sui mezzi per conseguirlo, e ci suggerirà buoni pensieri ispiratori di buone opere. Abbiamo bisogno di forza onde voler sinceramente dirigere la nostra vita verso il nostro fine, volerlo energicamente e costantemente? Ed Egli ci darà quel concorso soprannaturale che ci abilita a volere e ad eseguire le nostre risoluzioni, “operatur in vobis et velle et perficere” (Fil. II, 13). Se si tratta di combattere le nostre passioni o di disciplinarle, di vincere le tentazioni che talora ci assediano, Egli pure ci darà la forza di resistervi e di trarne profitto per rassodarci nella virtù: “Fidelis est Deus qui non patietur vos tentari supra id quod potestis, sed faciet etiam eum tentatione proventum (1 Cor., X, 13).Quando, stanchi di fare il bene, ci sentiremo tratti allo scoraggiamento e alla fiacchezza, Egli ci si avvicinerà per sorreggerci e assicurare la nostra perseveranza; Colui che in voi cominciò l’opera della vostra santificazione, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù; qui cœpit in vobis opus bonum, ipse perficiet usque in diem Christi Jesu” (Philip., I, 6). Insomma, noi non saremo mai soli, anche quando, privi di consolazione, ci crederemo abbandonati; la grazia di Dio sarà sempre con noi a patto che noi acconsentiamo a lavorar con lei: ” Gratia eius in me vacua non fuit, sed abundantius illis omnibus laboravi: non ego autem, se gratia Dei mecum…” (1 Cor., XV, 10). Appoggiati su questo onnipotente collaboratore, saremo invincibili, perché tutto noi possiamo in Colui che ci conforta: “Omnia possum in eo qui me confortat” (Philip., IV, 13).

97. D) Questo collaboratore è nello stesso tempo un santificatore: venendo ad abitare nell’anima nostra, la trasforma in un tempio santo ornato di tutte le virtù: “Templum Dei sanctum est: quod estis vos”. (1 Cor., III, 17).Il Dio infatti che viene in noi con la grazia, non è il Dio della natura, ma il Dio vivente, la SS. Trinità, sorgente infinita di vita divina, e che altro non chiede che farci partecipare alla sua santità; è vero che talora questa abitazione è attribuita, per appropriazione, allo Spirito Santo, perché è opera d’amore; ma, essendo operazione ad extra, è comune alle tre Persone divine. Ecco perché S. Paolo ci chiama indifferentemente tempii di Dio e tempii dello Spirito Santo: ” Nescitis quia templum Dei estis et Spiritus Dei habitat in vobis? ” (1 Cor. III, 10). – L’anima nostra diviene dunque tempio del Dio vivente, un sacro recinto riservato a Dio, un trono di misericordia donde si compiace di distribuire i suoi favori celesti e che Egli adorna di tutte le virtù. Descriveremo presto l’organismo soprannaturale di cui ci dota. Ma è evidente che la presenza in noi del Dio tre volte Santo, quale abbiamo descritta, non può essere che santificante, e che l’Adorabile Trinità che vive e opera in noi diviene veramente il principio della nostra santificazione, la sorgente della nostra vita interiore. E ne è pure la causa esemplare, poiché, essendo figli di Dio per adozione, dobbiamo imitare il Padre. Il che del resto intenderemo meglio spiegando come dobbiamo diportarci verso le tre divine Persone che abitano in noi.

2° I NOSTRI DOVERI VERSO LA SS. TRINITÀ CHE VIVE IN NOI.

98. Possedendo un tesoro cosi prezioso come la SS. Trinità, bisogna pensarvi spesso, “ambulare cum Deo intus“. Or questo pensiero fa nascere tre principali sentimenti: l’adorazione, l’amore, l’imitazione.

99. A) Il primo sentimento che scaturisce come spontaneamente dal cuore è quello dell’adorazione: ” Glorificate et portate Deum in corpore vestro ” (1 Cor. VI, 20). Come, infatti, non benedire, glorificare, ringraziare quest’ospite divino che trasforma l’anima nostra in un vero santuario? Dopoché Maria ebbe ricevuto nel casto suo seno il Verbo Incarnato, la sua vita non fu più che un perpetuo atto d’adorazione e di riconoscenza: Magnificat anima mea Domininum …fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus“; e tali pure sono i sentimenti, benché in grado minore, di un’anima che prende coscienza dell’abitazione dello Spirito Santo in lei: capisce che essendo tempio di Dio, deve incessantemente offrirsi come ostia di lode alla gloria delle tre divine Persone, a) Al principio delle proprie azioni facendo il segno di croce “ … in nomine Patris, Filii et Spiritus Sancti”, consacra loro ogni sua opera; terminandole, riconosce che tutto il bene da lei fatto si deve ad esse attribuire: Gloria Patri et Filio et Spiritili Sancto. b) Ama ripetere quelle preghiere liturgiche che ne celebrano le lodi: il Gloria in excelsis Deo, che esprime così bene tutti i sentimenti di Religione verso le divine Persone e specialmente verso il Verbo Incarnato; il Sanctus che proclama la santità divina; il Te Deum, che è l’inno della riconoscenza, c) Alla presenza di quest’ospite divino, molto amorevole senza dubbio ma che non cessa d’essere Dio, riconosce umilmente l’intera sua dipendenza da Colui che è il suo primo principio e il suo ultimo fine; la sua incapacità a lodarlo come Egli si merita, e questo sentimento si unisce allo Spirito di Gesù che solo può rendere a Dio quella gloria a cui ha diritto : “Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perché noi non sappiamo che dobbiamo chiedere nelle nostre preghiere secondo i nostri bisogni; ma lo Spirito prega Egli stesso per noi con gemiti inenarrabili; ” Spiritus adiuvat infirmitatem nostram; nam quid oremus sicut oportet, nescimus; sed ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus(Rom. VIII, 26).

100. B) Dopo avere adorato Dio e proclamato il proprio nulla, l’anima si abbandona al sentimenti del più confidente amore. Per quanto sia infinito, pure Dio si abbassa a noi, come il padre più amoroso verso il proprio figlio, e c’invita ad amarlo e a dargli il cuore: Præbe, fili, cor tuum mihi(Prov., XXIII, 26). questo amore Egli potrebbe esigerlo imperiosamente ma preferisce chiederlo dolcemente, affettuosamente, perché vi sia, a così dire, più spontaneità nella nostra risposta, più abbandono filiale nel nostro ricorso a Lui. E come non rispondere con confidente amore a tanti e sì delicati riguardi, a tante così materne sollecitudini? Sarà un amore penitente, per espiare le nostre troppo numerose infedeltà passate e presenti; un amore riconoscente, per ringraziare quest’insigne benefattore, questo collaboratore premuroso che lavora l’anima nostra con tanta assiduità; ma principalmente un amore d’amicizia, che ci farà conversare dolcemente col più fedele e più generoso degli amici, ci farà caldeggiare tutti i suoi interessi, procurarne la gloria e farne benedire il santo Nome. Non sarà quindi un semplice sentimento affettuoso, ma un amore generoso, che va fino al sacrifizio, all’oblio di sé, alla rinunzia della propria volontà, per sottomettersi ai precetti e ai consigli divini.

101. C) Quest’amore ci condurrà dunque all’imitazione dell’adorabile Trinità in quel grado che è compatibile con l’umana debolezza. Figli adottivi d’un Padre tre volte Santo, tempii viventi dello Spirito Santo, intendiamo meglio la necessità di rispettare il nostro corpo e la nostra anima. Tale era la conclusione che l’Apostolo inculcava ai discepoli: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno violerà il tempio di Dio, Dio lo sperderà; poiché santo è il tempio di Dio che siete voi; Nescitis quia templum Dei estis, et Spiritus Dei habitat in vobis? Si quis autem templum Dei violaverit, disperdet illum Deus. Templum enim Dei sanctum est quod estis vos(1 Cor. III, 16). L’esperienza prova che per le anime generose non v’è motivo più potente di questo per allontanarle dal peccato ed eccitarle alla pratica delle virtù; infatti, non si deve forse purificare e ornare continuamente un tempio ove risiede il Dio tre volte Santo? Del resto quando Nostro Signore volle proporci un ideale di perfezione, non andò a cercarlo fuori della SS. Trinità: “Siate perfetti, Egli dice, come è perfetto il vostro Padre celeste: “Estote ergo perfecti, sicut et Pater vester celestis perfectus est(Matth., V, 48). A prima vista, quest’ideale sembra troppo elevato; ma quando ci ricordiamo che siamo figlia dottivi del Padre, e che Egli vive in noi per imprimervi la sua immagine e collaborare alla nostra santificazione, capiamo bene che nobiltà obbliga e che abbiamo il dovere d’avvicinarci sempre più alle perfezioni divine. Specialmente per praticar la carità fraterna Gesù ci chiede di avere dinanzi agli occhi quel perfetto modello che è l’indivisibile unità delle tre divine Persone: “Che siano tutti una cosa sola, come Tu sei in me, o Padre, e Io in te, che siano anch’essi una cosa sola in noi; Ut omnes unum sint, sicut tu, Pater, in me et ego in te, ut et ipsi in nobis unum sint(Joan. XVII, 21). Tenera preghiera, di cui san Paolo si faceva eco quando supplicava i cari discepoli di non dimenticare che, essendo un solo corpo e un solo spirito, non avendo che un solo ed unico Padre che abita in tutti i giusti, dovevano conservare l’unità dello spirito col vincolo della pace. (Ephes. IV, 3-6). Riepilogando possiamo conchiudere che la vita cristiana consiste prima di tutto in una unione intima, affettuosa e santificante colle tre divine Persone, che ci conserva nello spirito di Religione, d’ amore e di sacrifizio.

II. Dell’ organismo della vita cristiana.

102. Le tre divine Persone che abitano nel santuario dell’anima nostra si dilettano di arricchirla di doni soprannaturali e ci comunicano una vita simile alla loro, che si chiama la vita della grazia o vita deiforme. Ora in ogni vita vi è un triplice elemento: un principio vitale che è, per cosi dire, la sorgente della vita; delle facoltà che fanno produrre operazioni vitali; e in fine degli atti, che ne sono l’espansione e contribuiscono al suo accrescimento. Nell’ordine soprannaturale, Dio, che vive in noi, produce nelle anime nostre questi tre elementi, a) Ci comunica dapprima la grazia abituale, che fa in noi l’ufficio di principio vitale soprannaturale e divinizza, a così dire, la sostanza stessa dell’anima nostra, rendendola atta, benché remotamente, alla visione beatifica e agli atti che la preparano.

103. b) Da questa grazia sgorgano le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo, che perfezionanole nostre facoltà e ci danno il potere immediato difare atti deiformi, soprannaturali e meritori.

C) Per mettere in moto queste facoltà, Dio concede le grazie attuali, che illuminano la nostra intelligenza, fortificano la nostra volontà, ci aiutano ad operare soprannaturalmente e ad aumentano così il capitale di grazia abituale che ci ha compartito.

104. Questa vita della grazia, benché distinta dalla vita naturale, non è semplicemente a lei sovrapposta ma la compenetra tutta quanta, la trasforma e la divinizza. Si assimila tutto ciò che vi è di buono nella natura, nell’educazione nelle abitudini acquisite; perfeziona e soprannaturalizza tutti questi elementi volgendoli verso l’ultimo fine, che è il possesso di Dio per mezzo della visione beatifica e dell’amore che l’accompagna. – Spetta a questa vita soprannaturale il dirigere la vita naturale, in virtù del principio generale già esposto al n. 54, che gli esseri inferiori sono subordinati agli esseri superiori. Non può durare né svilupparsi se non a patto di dominare e serbar sotto la sua influenza gli atti dell’intelligenza, della volontà e delle altre facoltà; con ciò non distrugge né diminuisce la natura, ma anzi la esalta e la perfeziona. Il che dimostreremo, studiandone per ordine i tre elementi.

[1. Continua …]

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